GIOACCHINO DA FIORE, LA SORPRENDENTE “CARITÀ”, E IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO.
DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?! L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO...
Se si tiene presente che nel 1183, con grande chiarezza e consapevolezza, Gioacchino da Fiore nel suo "Liber de Concordia Novi ac Veteris Testamenti" così scriveva:
si può ben pensare che le preoccupazioni di una tradizione e di una trasmissione corretta del messaggio evangelico e, con esso, del "luminoso esempio" dello stesso Gioacchino da Fiore, non siano state affatto al primo posto del magistero della Chiesa cattolico-romana, né ieri né oggi.
Di Gioacchino se si è conservato memoria del suo lavoro come del suo messaggio, lo si deve sicuramente alla sua "posterità spirituale" - è da dire con H. De Lubac, ma contro lo stesso De Lubac, che ha finito per portare acqua al mulino del sonnambulismo ateo-devoto dell’intera cultura ’cattolica’.
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.
GRECIA - Una sede della "Caritas greca". |
Federico La Sala (05.04.2018)
Henri de Lubac, Corpus mysticum - L’Eucharistie et l’Église au Moyen Âge.
Henri de Lubac, Corpus Mysticum: The Eucharist and the Church in the Middle Ages.
Henri de Lubac,Corpus Mysticum. L’Eucarestia e la Chiesa nel Medioevo: "Sezione V Scrittura ed Eucarestia Volume 15/Opera omnia. La presente Opera è pubblicata in coedizione con l’Istituto di Storia della Teologia della Facoltà di Teologia di Lugano" (Henri de Lubac - Opera Omnia)
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NOTA DELL’AUTORE
E SUA PRESENTAZIONE DEL PIANO DELL’OPERA: "Sezione quinta
Scrittura ed Eucaristia
15. CORPUS MYSTICUM*
16. STORIA E SPIRITO*
17. ESEGESI MEDIEVALE I*".
De Lubac Henri / Opera omnia. Vol. 16: Storia e spirito. La comprensione della scrittura secondo Origene. Scrittura ed eucarestia
Henri de Lubac, Esegesi medievale. Scrittura ed Eucarestia. I quattro sensi della scrittura:
Henri de Lubac,
La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore. Volume 1 - Dagli Spirituali a Schelling. Sez.VIII Monografie:
Federico La Sala
Recensione
Finiamola con il sistema clericale
di Andrea Lebra *
È un libro che in Francia sta riscuotendo notevole successo. Esso affronta di petto e in modo meticoloso e documentato una delle questioni che stanno particolarmente a cuore a papa Francesco: come prevenire, contrastare e superare nella Chiesa quel «brutto male che ha radici antiche» (meditazione mattutina del 13 dicembre 2016) costituito dal clericalismo, «modo anomalo di intendere l’autorità nella Chiesa» e «atteggiamento che non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale» posta dallo Spirito Santo nel loro cuore (Lettera al popolo di Dio del 20 agosto 2018).
Il saggio (Edizioni du Seuil, aprile 2020) è intitolato En finir avec le cléricalisme. Lo ha scritto Loïc de Kerimel, padre di quattro figli e nonno di sei nipoti, fratello del vescovo di Grenoble-Vienne, Guy de Kerimel, apprezzato docente di filosofia per quasi trent’anni in un liceo di Le Mans, acuto teologo, assiduo lettore delle opere di uno dei più autorevoli teologi francesi, il gesuita Joseph Moingt deceduto ultracentenario il 28 luglio 2020.
Cofondatore dell’associazione Chrétiens en marche per una presenza attiva e responsabile del laicato nella Chiesa, particolarmente impegnato nell’ambito della Conférence Catholique des Baptisé-e-s Francophones per una riforma profonda della Chiesa, Loïc de Kerimel ha anche un ruolo particolarmente attivo nell’Amitié judéo-chrétienne de France, associazione che ha come obiettivo quello di favorire il dialogo tra cristiani ed ebrei.
Radici culturali del clericalismo
Preceduto da una bella prefazione di Jean-Louis Schlegel, redattore di Esprit, la rivista fondata nel 1932 da Emmanuel Mounier, En finir avec le cléricalisme ha il merito di andare alle radici teoriche e culturali del clericalismo, una malattia cronica di cui soffre il cristianesimo dalla fine del secondo secolo dell’era cristiana. Pubblicato nell’aprile 2020, poco dopo la morte prematura dell’autore, può essere considerato come un suo testamento spirituale.
Intento di Loïc de Kerimel non è tanto quello di stigmatizzare le forme devianti del clericalismo nella Chiesa sfociate - come ha affermato papa Francesco nella Lettera al popolo di Dio del 20 agosto 2018 - negli abusi sessuali, di potere e di coscienza, quanto piuttosto quello di evidenziarne il carattere sistemico.
Quest’ultimo è individuato dall’autore nel fatto che si siano introdotte e reiterate in seno al “popolo di Dio” le categorie della separazione (clero/laici, uomini/donne, puro/impuro), della gerarchizzazione (vescovi/presbiteri/diaconi/religiosi/fedeli), dell’emarginazione della donna e della sacralizzazione di una persona mediante l’imposizione delle mani che crea le condizioni per sentirsi parte di una casta (quella “sacerdotale”) detentrice di competenze e di attribuzioni esclusive ed escludenti.
Il carattere sistemico di quello che papa Francesco denuncia come «un modo non evangelico» di concepire il ruolo ecclesiale del presbitero (discorso del 6 ottobre 2018 ai pellegrini della Chiesa greco-cattolica slovacca) o come «una caricatura e una perversione del ministero» del vescovo (discorso del 24 gennaio 2019 ai vescovi centroamericani), ovvero ancora come «un pericolo dal quale devono guardarsi anche i diaconi» (discorso del 25 marzo 2017 ai preti e ai consacrati in occasione della visita apostolica a Milano), viene sviscerato percorrendo dapprima la storia dei primi secoli della Chiesa.
Configurazione gerarchico-sacrificale del sistema clericale
Secondo Loïc de Kerimel, all’origine del clericalismo vi è un processo di sacralizzazione della funzione del presbiterato che, a partire dalla fine del terzo secolo, la Chiesa nascente ha mutuato dalle strutture centralizzatrici della tribù giudaica dei Leviti. Il ceto sacerdotale costituirebbe una casta depositaria di poteri divini implicante una differenza non solo di grado, ma di natura tra il clero e i laici. Rispetto alla generalità delle persone battezzate, il clero sarebbe depositario di una superiorità religiosa derivante dal sacramento dell’ordine.
Paradossalmente, mentre la religione ebraica, con la sostituzione del tempio con la sinagoga, del rabbinato con il sacerdozio e del sistema sacrificale con lo studio della Torà, si trova di fatto, dopo la distruzione del Tempio nell’anno 70 d.C., desacralizzata e desacerdotalizzata, la Chiesa si struttura secondo categorie levitiche, come l’istituzione del sommo sacerdote (cioè del vescovo), la distinzione sacerdoti/laici, l’esclusione delle donne, la concezione sacrificale del culto e la reintroduzione dello “spazio sacro” interamente ad esso dedicato e accessibile solo al clero.
L’autore, al riguardo, cita la formula lapidaria usata da Joseph Moingt nella sua opera Esprit, Église et monde - De la foi critique à la foi qui agit, Éditions Gallimard, Paris 2016, p. 216: l’Antico Testamento fondato sulla legge ha sopraffatto il Nuovo fondato sull’amore vicendevole (p. 29).
All’inizio non era così
Quindici i capitoli del libro distribuiti in tre parti. La prima (capitoli da 1 a 6) prende in esame la nascita del «sistema clericale», in contrasto con l’insegnamento di Gesù e con la vita delle prime comunità cristiane. L’elemento più problematico del processo che lungo la storia ha subìto il ministero ordinato - vissuto oggi concretamente nei distinti ruoli del vescovo, del presbitero e del diacono - è l’assunzione di un forte carattere sacrale e sacerdotale, che all’inizio gli era completamente estraneo.
Significativo che gli scritti neotestamentari, compresi gli apocrifi, concordino nell’attribuire a Gesù una discendenza genealogica che non ha nulla a che fare con la tribù di Levi, escludendolo così in radice dall’appartenenza al ceto sacerdotale.
A proposito di Gesù - e dei suoi apostoli - i Vangeli non parlano mai di sacerdozio. Tanti i titoli a lui attribuiti (Maestro, Profeta, Figlio di Davide, Figlio dell’uomo, Messia, Signore, Figlio di Dio), ma mai quello di Sacerdote o di Sommo sacerdote (p. 45).
«Leggendo i testi delle origini cristiane, ci si può rendere conto che nessun apostolo e nessun’altra persona si separa dalla comunità in virtù di un carattere sacro, o si comporta in quanto ministro di un culto nuovo o compie atti specificamente rituali. Si può osservare che non c’è alcuna distinzione tra persone consacrate e non consacrate... Non ci sono spazi occupati da un’istituzione sacerdotale». Lo scrive Joseph Moingt (in: Dieu qui vient à l’homme, t. 2/2, Les Éditions du Cerf, Paris 2008, p. 842), il teologo spesso richiamato da Loïc de Kerimel.
Ad essere indelebile nell’ambito del «santo popolo fedele di Dio» - scrive l’autore - è la condizione comune dei battezzati e delle battezzate alla quale tutto, compreso l’esercizio dell’autorità, è subordinato (p. 41).
È quanto emerge dalle Scritture ed è ciò che il concilio Vaticano II ha affermato in modo autorevole: prima del ministero ordinato, prima cioè del «sacerdozio ministeriale» del vescovo, del presbitero e del diacono, vi è la condizione comune di tutti i credenti in virtù del battesimo, significativamente definita «sacerdozio comune». Ed è ciò che, purtroppo, a livello pratico e diffuso, per il momento non pare essere stato recepito dalla Chiesa, anche se fa ben sperare l’insistenza di papa Francesco nel rimettere al centro il battesimo come base ineludibile della vita cristiana.
Detto in altri termini con riferimento al presbiterato, è dal battesimo che si origina non il “potere” su una comunità di credenti, ma il “servizio” ad essa. Il sacramento dell’ordine non sacralizza la persona sulla quale vengono imposte le mani, ma ne radicalizza piuttosto la vocazione battesimale.
Il clericalismo: un problema la cui soluzione non è dietro l’angolo
Nella seconda parte del suo saggio (capitoli da 7 a 11), l’autore si sofferma sull’evoluzione e sul rafforzamento del sistema clericale nel corso della storia della Chiesa.
Stigmatizzando i legami tra la violenza e il sacro a partire dagli studi di René Girard (p. 143), egli rilegge la Riforma di Lutero e il Concilio di Trento che ha accentuato la dimensione sacrificale dell’eucaristia e della sacralità della figura del prete, mettendo decisamente in ombra la centralità del fondamento battesimale che accomuna tutti i credenti.
Per quanto riguarda i nostri tempi, non nasconde la sua delusione in presenza del fenomeno della riclericalizzazione galoppante presente in alcuni ambiti ecclesiali e che sembra interessare soprattutto i «preti della generazione Giovanni Paolo II» che nutrono la nostalgia «di un sacro inglobante che esonera il singolo individuo dalla responsabilità di vivere e di pensare» (p. 197).
Il che lo induce a prendere atto che il sistema clericale sembra avere ancora un futuro decisamente roseo, anche perché a volere preti clericali sono numerose e potenti famiglie di affiliati appartenenti per lo più a categorie socioprofessionali elevate (p. 198). Presbiteri, non sacerdoti!
Nella terza parte (capitoli da 12 a 15) Loïc de Kerimel cerca di rispondere alla domanda se oggi sia possibile, da parte della Chiesa, uscire dal clericalismo concretizzando l’ideale cristico (p. 64) dell’uguaglianza di tutte le persone battezzate in ragione della medesima dignità cristiana proclamata certamente dal concilio Vaticano II, ma in modo non del tutto privo di equivoci.
L’autore cita al riguardo Gilles Routhier, uno dei più autorevoli storici del concilio Vaticano II, il quale ritiene che, a cinquant’anni dal Vaticano II, la prospettiva decisamente rivoluzionaria di considerare il tema del «popolo di Dio» prioritario rispetto alla costituzione gerarchica della Chiesa è rimasta a livello di pio desiderio.
In particolare, quanto all’immagine del ministro ordinato, il docente canadese di ecclesiologia ritiene che il Concilio si sia trovato davanti due prospettive: l’una, tradizionale, che parte dallo nozione di sacerdote - sul modello del “sacrificatore” delle religioni tradizionali, del greco hiéreus e dell’ebraico cohen -; l’altra, attestata nel Nuovo Testamento, basata sull’idea di presbiterato - lo statuto dell’anziano, dell’uomo (o della donna?) che, per esperienza maturata, è in grado di esercitare l’arte del discernimento e di contribuire a risolvere conflitti, dimostrando così di avere titolo per prendersi cura della comunità affidatagli, per dare il proprio contributo alla vita dei credenti in un servizio generoso e appassionato, per presiedere il culto.
Secondo Gilles Routhier, il Concilio ha scelto la seconda prospettiva e, conseguentemente, utilizza il termine presbitero là dove il concilio di Trento usa quello di sacerdote.
Citando, poi, Yves Congar, Routhier aggiunge che non solo il termine sacerdote non è biblico, ma che esso privilegia indebitamente, tra le tre funzioni attribuite a Cristo (sacerdotale, profetica, regale), quella sacerdotale a detrimento delle altre due.
Trattandosi di presbiteri, il loro ministero sacerdotale, cioè la celebrazione dell’eucaristia e dei sacramenti, non è che una delle dimensioni del loro ministero presbiterale. Quest’ultimo è in primo luogo ministero dell’evangelizzazione e del governo. La celebrazione dell’eucaristia non monopolizza la definizione di chi è e cosa fa il prete (p. 204).
Nessuna ineguaglianza in Cristo e nella Chiesa
Il riconoscimento - quanto a nazionalità, condizione sociale o sesso - della «eguale dignità in Cristo e nella Chiesa» (Lumen gentium 32 a commento di Gal 3,28) delle persone battezzate e la conseguente fine del «dominio maschile» costituiscono la condizione sine qua non sia della possibilità di uscita dalla crisi che attanaglia la Chiesa dopo gli scandali in tema di abusi sessuali, di potere e di coscienza, sia più semplicemente della fedeltà all’Evangelo (p. 229).
La radicale uguaglianza di tutti i membri del «popolo di Dio» senza discriminazioni di nazione, di condizione sociale o di sesso non annulla le differenze di funzioni, ma fa sì che l’esercizio di queste ultime non generi scissioni nel corpo ecclesiale, allontani ogni forma deviante di autoritarismo e, nello stesso tempo, valorizzi diversità e complementarietà dei carismi (cf. 1Cor 12) a servizio del bene comune (p. 257).
Soprattutto, «si potrà parlare - afferma l’autore - di uscita dal sistema clericale solo il giorno in cui a nessuna donna sarà impedito di esercitare le funzioni di governo, di insegnamento e di culto» riservate oggi ai maschi. Ma aggiunge anche che, prima di pensare di aprire alle donne la possibilità di accedere al ministero presbiterale, è necessario desacralizzarlo e desacerdotalizzarlo, evitando di strutturarlo secondo un rigido e discriminante ordine gerarchico (p. 241).
Mettere fine all’esclusione delle donne dovuta al sistema clericale dimostrerebbe davvero che, con Gesù di Nazaret, si è passati dal sacro al santo, da una concezione elitaria di salvezza alla convinzione che Dio si dona immediatamente a tutti e a tutte senza escludere nessuno (p. 244).
* Fonte: Settimana News, 23 novembre 2020 (ripresa parziale).
#FILOLOGIA #Storiografia #critica.
Un #lapsus e un #refuso di #lungadurata: "Le Fonti. Le lettere di #PaolodiTarso [...] 1 Cor 11, 23-26 (sull’#eucarestia: Mc 14, 22-25/Mt 26, 26-29/Lc 22, 14-20) [...]" (Fernando Bermejo-Rubio, L’invenzione di Gesù di Nazareth, Torino 2021, p. 21)! #Eucaristia, eu-#carestia, e #latinorum. Uscire dal #letargo. O no?!
#CHARIDAD, #EUCARISTIA (EU-#CHARIS-TIA), #PoncioPilato (#PonzioPilato).La #invencion de #JesusdeNazaret. #Historia #ficción #historiografia (#FernandoBermejoRubio): https://www.amazon.it/invenci%C3%B3n-jes%C3%BAs-Nazaret-Fernando-Bermejo/dp/8432319201?asin=B07KSXYNPR&revisionId=e46a8f88&format=1&depth=1
Federico La Sala
Dibattito online
Gioacchino da Fiore, diretta Facebook sul pensiero dell’abate martedì 30 marzo
Il noto filosofo Gianni Vattimo e la sindaca Succurro interverranno sull’attualità degli studi gioachimiti a 819 anni dalla morte del teologo *
«Alle ore 19 di martedì 30 marzo, con il filosofo Gianni Vattimo parleremo dell’attualità del pensiero di Gioacchino da Fiore in questo tempo segnato dalla pandemia, dalla paura, dall’incertezza e dal diffuso bisogno di speranza, profondità e cooperazione». È quanto afferma, in una nota, la sindaca di San Giovanni in Fiore, Rosaria Succurro, che spiega: «L’evento verrà trasmesso in diretta sulla pagina Facebook Rosaria Succurro Sindaco.
Si tratta di un’iniziativa a carattere divulgativo, in occasione degli 819 anni dalla morte di Gioacchino, che ha molto influenzato Dante Alighieri, l’architettura, la pittura, la filosofia, l’esperienza monastica, l’arte e la cultura in generale. Così il Comune di San Giovanni in Fiore intende contribuire alla diffusione dell’opera e dell’importanza di Gioacchino da Fiore, attraverso la voce di Vattimo, uno dei più grandi maestri del pensiero contemporaneo, che peraltro con la nostra città ha un rapporto di vivo affetto».
«Al di là dei colori e delle bandiere di parte, soprattutto adesso la politica - prosegue Succurro - deve puntare sulla valorizzazione della storia e della vocazione dei territori. Nei mesi successivi, appena possibile terremo a San Giovanni in Fiore un festival dedicato al rapporto tra Gioacchino e Dante, perché dobbiamo guardare avanti e confermare che esiste una Calabria di idee e saperi, capace di veicolare la propria ricchezza di natura e cultura. In questo senso tanto è stato fatto - conclude la sindaca Succurro - da amministrazioni pubbliche, da imprenditori, da rappresentanti della società civile, dalla stampa e, per quanto riguarda Gioacchino, dal Centro internazionale di studi gioachimiti e dalla Chiesa. Dobbiamo quindi proseguire e scommettere su questa strada».
* Corriere della Calabria, 29/03/2021 (ripresa parziale).
MARX, IL "LAVORO - IN GENERALE", E IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE - IN GENERALE".... *
"CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA" , "CRITICA DELLA RAGION PRATICA" (E MEMORIA DI DANTE ALIGHIERI - ANNO 2021) . Alla luce del fatto che si è persa ogni cognizione dello "stato di cose presente", forse, è opportuno - come voleva Marx - riprendere il filo dalla indicazione delle note "Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione"): "La teoria è capace di impadronirsi delle masse non appena dimostra ad hominem, ed essa dimostra ad hominem non appena diviene radicale. Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso".
Si dice:
CONCORDO. Ma per ripartire bisogna riprendere il filo dalla "Logica" di Kant (non di Hegel, come si recita ancora oggi: http://www.leparoleelecose.it/?p=41116#comment-439785), dalla sua "quarta" (e prima!) domanda: "che cosa è l’uomo?", dalla sua "Critica della ragion pratica", e dal suo "imperativo categorico" (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5635)! La questione è antropologica (non andrologica né ginecologica)! O no?!
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. la "Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni (in memoriam)": "CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4198); su COME NASCONO I BAMBINI? E COME ‘NASCONO’ I GENITORI?!, rileggere la lettera di Sigmund Freud (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2923).
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Controparola/
Donne al futuro
di Francesca Rigotti (Doppiozero, 20 marzo 2021)
Da quando ho scoperto che nella grammatica esistono termini marcati e termini non marcati - me li ha spiegati un illustre linguista amico di tastiera - non dico che non dormo di notte ma quasi. I termini non marcatI, se ho capito bene, sono dominanti e includenti: per esempio il termine «giorno», che comprende il giorno e la notte; notte invece è un termine marcato, giacché designa soltanto il tempo dell’oscurità. Non marcato è uomo (ci avviciniamo al tema) in quanto comprende se stesso e anche la donna, la quale invece, guardacaso, è marcata quale «soltanto» donna.
Dovevo ripensare a questa disparità grammaticale nel leggere Donne al futuro, raccolta di saggi di donne che parlano «soltanto» di altre donne, uscito per il Mulino a cura delle amiche di Controparola. Si tratta di un gruppo di scrittrici e giornaliste, nato nel 1992 per iniziativa di Dacia Maraini, che ha pubblicato diversi libri sulle donne tra i quali Donne del Risorgimento, Donne nella Grande Guerra, nella Repubblica, nel Sessantotto e ora al futuro. Sono Paola Cioni, Eliana Di Caro, Paola Gaglianone, Dina Lauricella, Lia Levi, Dacia Maraini, Cristiana Palazzoni, Maria Serena Palieri, Valeria Papitto, Linda Laura Sabbadini, Francesca Sancin, Cristiana di San Marzano, Mirella Serri, cui si deve Donne al futuro (il Mulino, Bologna 2021). Sempre e soltanto donne. O donne sole, si potrebbe anche dire, che è un’espressione un po’ deprimente ma anche molto divertente, a leggerla con ironia, e con la quale si intendono donne in compagnia di altre donne ma non di uomini. Mentre la dicitura per soli uomini sta per luoghi e/o attività in cui le donne non possono entrare e a cui non devono partecipare (e così è intitolata l’eccellente analisi statistica Per soli uomini. Il maschilismo dei dati, dalla ricerca scientifica al design, appena pubblicata da Codice Edizioni e condotta dalla giornalista Emanuela Griglié e del collega Guido Romeo).
Le donne al futuro di questo libro, soltanto donne marcate nella loro donnità, sono di fatto figure straordinarie, proiettate, come dice il titolo, al futuro o declinate al futuro, visto che siamo partiti dalla grammatica (che innocentemente mi costringe qui a scrivere al maschile benché io sia donna che scrive di donne che scrivono di donne. La lingua sarà anche colpevole ma non nel modo semplificato e a tratti oltraggioso che le attribuiscono le interpretazioni corrive, come spiega puntualmente l’amico linguista il cui nome adesso svelo, Nunzio La Fauci, ma la dice lunga). Donne giovani che lavorano per fabbricare il futuro con l’arte e la musica, l’architettura e l’astrofisica; con l’impegno civile e umanitario (donnitario?), con la ricerca medica, l’economia, la pratica sportiva e l’insegnamento.
Le elenco qui tutte in fila in ordine alfabetico: Alice Pasquini (AliCè), Paola Antonelli, Marica Branchesi, Francesca Bria, Ilaria Capua, Silvia Colasanti, Ilaria Cucchi, Emma Dante, Sara Gama, Rita Giaretta, Giuseppina Multari, Eliana La Ferrara, Laila Abi Ahmed e Isabella Mancini, Barbara Riccardi, Fulvia Signani e le altre, Beatrice Vio. Un ricordo è dedicato alla cittadina del mondo Agitu Ideo Gudeta, uccisa nel dicembre scorso in Trentino, dove si era trasferita e portava avanti la sua attività di imprenditrice.
Non potendo parlare di tutte ho scelto di citarne una sola, l’unica tra l’altro che mi era del tutto ignota, lo confesso e chiedo venia: Sara Gama. Sara Gama, classe 1989, madre triestina e padre congolese, capitana della Nazionale azzurra femminile di calcio nonché vicepresidente dell’Assocalciatori (termine non marcato che comprende anche le calciatrici mentre le calciatrici, marcate dall’essere soltanto donne, non comprendono i calciatori).
Sara Gama, ho scoperto, non soltanto gioca al calcio femminile da quando era una bambinetta ma rivendica anche, per quel calcio di donne, assicurazione sanitaria, previdenze, stipendio e soprattutto dignità. Studentessa liceale, studentessa universitaria - sulla storia del calcio femminile in Europa ha anche scritto la tesi - Sara Gama, che nell’immagine di copertina sembra, coi suoi bei capelli ricci, l’Italia turrita, nel discorso del 4 luglio 2019 al Quirinale, di fronte al presidente Mattarella, ha ricordato l’articolo 3 della Costituzione che sancisce la dignità di tutti i cittadini «senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
E questo grazie alle donne della Costituzione, le madri costituient, che contro l’opinione di alcuni padri della costituzione insistettero affinché nell’art. 3 venisse inserita la specificazione «di sesso», perché senza quella la conquista della parità sarebbe stata ancor più difficile di quanto già lo sia.
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Teologia.
La Chiesa superstite, profezia sul domani
Il biblista Walter Vogels indaga la questione del “resto” come unità residuale che sembra indicare il declino, ma in realtà può annunciare una rinascita
di Roberto Righetto (Avvenire, venerdì 19 febbraio 2021)
L’esilio babilonese: James Tissot, “ La deportazione dei prigionieri” - WikiCommons
Resto. Oggi viene da pensare al popolo dell’Artsakh, violentemente aggredito da turchi e azeri e costretto a rifugiarsi in Armenia, abbandonando case e campi, oltre che chiese e monasteri testimonianze di una civiltà millenaria.
Nelle culture precristiane, il concetto di ’resto’ fu applicato a quel che rimaneva di una popolazione dopo una guerra o un disastro naturale e, come noto, la Bibbia abbonda di citazioni relative al popolo di Israele. In particolare, dopo la serie di crudeli invasioni e deportazioni da parte di Assiri e Babilonesi. Nell’Antichità infatti, al termine di un conflitto, i vincitori si abbandonavano alla distruzione quasi totale degli avversari, a cominciare dai loro leader, ma anche delle fonti di vita, dei villaggi e delle vigne.
Un’esperienza verificatasi più volte, dai Sumeri agli Ittiti, dagli Assiri agli Egizi. Eppure, nonostante questa sistematica opera di annientamento dei vinti, qualche sopravvissuto rimaneva sempre. E in alcune circostanze, dopo anni o decenni la vita poteva riprendere. È il caso appunto di Israele, che riuscì a risorgere dopo periodi di cattività a Babilonia. «Racimolate, racimolate come una vigna il resto d’Israele», scrive Geremia dopo l’invasione babilonese che portò, nel 586 a.C., alla distruzione di Gerusalemme.
In realtà, il primo a parlare di ’resto’ era stato Amos, considerato anche il primo profeta-scrittore. Molto severo verso gli israeliti che avevano abbandonato il Signore, egli preannuncia la distruzione del regno del Nord da parte degli Assiri, che si verificherà nel 721 a.C., ma esprime pure la speranza che «forse il Signore, Dio degli eserciti, avrà pietà del resto di Giuseppe ».
La nozione di ’resto’ si affaccia la prima volta dunque, come accennato, in un contesto di guerra. È noto che gli Assiri erano particolarmente feroci, puntavano ad schiacciare completamente i popoli conquistati e, nei loro rapporti ufficiali, i re rimarcavano come ’il resto’ fosse stato catturato, ucciso o deportato, in modo che i vinti non potessero ribellarsi in futuro. Però, v’era sempre un ’resto’ che era riuscito a fuggire nel deserto.
Gli Assiri dovettero accontentarsi di prendere la Samaria ma non giunsero sino a Gerusalemme, cosa che si verificò invece anni dopo con Nabucodonor, prima nel 597 e poi nel 586, quando il tempio venne distrutto dalla foga dei Babilonesi, e infine in un’ultima deportazione voluta da Nabuzaradan, nel 582. In queste circostanze, vari profeti, da Isaia a Sofonia e Geremia, lamentarono la sorte del resto d’Israele. Dice Isaia: «Da Gerusalemme uscirà un resto, dal monte di Sion un residuo». E Geremia auspica che il suo popolo si lasci sottomettere dai Babilonesi per sopravvivere.
Così Ezechiele, che vede una speranza e un futuro possibile per il popolo di Dio anche nell’esilio. Sarà Ciro, re di Persia, nel 538 a.C., a ridare la possibilità al resto d’Israele di tornare nella sua patria. Così finì il periodo di castigo e purificazione. Nella Bibbia il riferimento al resto è legato anche a circostanze diverse, come il diluvio di Noè o l’incendio di Sodoma (probabilmente conseguenza di un terremoto), ma tutti questi disastri sono dovuti al peccato d’Israele, cui Dio dà però sempre la possibilità di risollevarsi.
È a partire dall’esame accurato di questo tema biblico che attraversa tutte le Scritture che il biblista e teologo Walter Vogels, docente emerito di Antico Testamento all’Università Saint-Paul di Ottawa, nel suo libro Il piccolo resto nella Bibbia (Queriniana, pagine 144, euro 16,00) finisce per applicarlo al declino attuale della Chiesa: «E se la manciata di fedeli pronti a mantenere viva la fede in Cristo svolgesse oggi la stessa missione dei superstiti dell’Antico Testamento».
È sotto gli occhi di tutti il calo enorme non solo nella frequenza alle cerimonie religiose, ancor più evidente in questo periodo di pandemia, tanto che risulta ben difficile parlare ancora di ’Europa cristiana’. Anche secondo le indagini recenti, meno della metà delle persone che vivono nel Vecchio Continente si dice credente o religiosa e i cristiani si collocano ormai fra il 20 e il 30 per cento.
Diversa la situazione nel resto del mondo, in particolare in America, Asia e Africa, dove semmai il cristianesimo è messo in pericolo non dall’abbandono dovuto dalla secolarizzazione ma dalla persecuzione. Vogels enumera il Medio Oriente, che ha visto i seguaci dell’Isis assassinare centinaia di cristiani, o la Nigeria, il Pakistan e l’India, ove molti subiscono angherie, se non conversioni forzate all’islam o uccisioni, solo perché cristiani.«Non è sorprendente - commenta l’autore - che papa Francesco parli della nostra epoca come quella dei martiri. In Occidente, una cultura umana e cristiana è del pari in via di estinzione, e chi si preoccupa?».
Le persone che si collocano dentro la Chiesa hanno tre diverse reazioni. Ci sono i profeti di sventura, che rimpiangono i bei tempi andati e mettono sotto accusa tutta la cultura moderna. Poi ci sono quelli che guardano alla differente e più positiva situazione della Chiesa nel resto del mondo e perciò non si preoccupano più di tanto.
Infine vi sono coloro che vedono in questa situazione di crisi un’opportunità, quella di tornare alle origini, «un’umile, piccola Chiesa, lievito nell’impasto, granello di senape, luce per il mondo». Si apre insomma la possibilità di ritrovare la natura vera ed essenziale della Chiesa, che si deve purificare abbandonando ogni compromissione col potere.
Qui il tema del ’resto’ non appare affatto ingiustificato. Come ha detto Gesù: «il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?», una domanda che non ha una risposta scontata e che deve far riflettere, perché la perdita di fede in Europa potrebbe non aver raggiunto il culmine.
Anche il popolo d’Israele subì una terza deportazione e «rimase il resto di un resto di un resto»: accadrà così anche ai cristiani d’Occidente? Per Vogels non si tratta di consolarsi sostenendo che ora va a Messa solo chi ci crede davvero e che la Chiesa è più pura. Se in questo c’è del vero, non ci si può illudere che il futuro delle comunità cristiane sia costituito solo da pochi eletti, che magari si ritengono perfetti. Anche coloro che in passato frequentavano in massa la parrocchia e che magari non erano acculturati, vivevano però una fede sincera e profonda. E trasmettevano la fede ai loro figli.
Il volume esamina anche le possibili cause del declino, fra cui le stesse colpe della Chiesa dovute per esempio agli scandali e agli abusi, ma pone pure alcuni segni di speranza. «Quanto durerà questo esodo?», si chiede Vogels, e aggiunge: «Dopo tutte le apologie degli ultimi papi per le colpe della Chiesa, la chiamata costante e fervida di papa Francesco alla misericordia di Dio sarebbe una profezia che questo tempo della misericordia, che darà il cambio a quello dell’ira, è vicino?».
Si tratta di ripartire proprio dal ’resto’, da coloro che rimangono legati alla Chiesa e continuano ad impegnarsi e a trasmettere la fede alle nuove generazioni. Sarà capace questo ’resto’, grazie a un processo di riforma autentica e una nuova evangelizzazione, di recuperare almeno una parte di coloro che se ne sono andati? «La rimpatriata non sarà facile. Ma non abbiano il diritto di lasciare i feriti della vita da soli, in esilio, lontani o esclusi dalla comunità». E ancora: «Spalanchiamo le porte della misericordia, della comprensione e della tolleranza. Ci deve essere posto per molti nella casa del Padre, per coloro che sono chiamati liberali o conservatori, tradizionalisti o rivoluzionari, di sinistra o di destra. Ci sarà del vecchio e del nuovo. Nessuna comunità è perfetta ».
Ma si può ricostruire rispettando due condizioni: che sia salvaguardato il patto fra la Chiesa e i diritti dell’uomo, nel rifiuto di ogni violenza, e che si testimoni il primato dell’agape, segno vero della presenza dei cristiani nel mondo.
"ECCE HOMO" (PONZIO PILATO - NIETZSCHE). Chi ha perduto il filo del messaggio evangelico? ... *
Chi ha perduto il filo del cristianesimo?
Gli orrori del Novecento hanno favorito un nuovo “ateismo”. Occorre ritrovare la forza insostituibile del messaggio di Cristo. Due saggi di Ryrie e De Angelis
di Roberto Righetto (Avvenire, mercoledì 10 febbraio 2021)
«La filosofia hegeliana era stata la forma più compiuta di quella laicizzazione del cristianesimo in cui consiste il pensiero moderno, sì che la sua dissoluzione ha posto un’alternativa, ch’è ancora l’alternativa d’oggi: o condurre sino in fondo la secolarizzazione del cristianesimo verso le forme più radicali di ateismo e di nichilismo, o recuperare il cristianesimo nella sua genuinità religiosa. Insomma, fine o ritrovamento del cristianesimo, questa è l’alternativa d’oggi, e si tratta d’un’alternativa filosofica». Così il filosofo Luigi Pareyson in uno dei suoi ultimi scritti. Una linea radicale che suonava come un verdetto impietoso verso le filosofie contemporanee ridotte all’analisi dei giochi linguistici o alla sudditanza verso la scienza. In questa direzione muovono anche due saggi recenti: Il senso di non credere. Una storia emotiva del dubbio di Alec Ryrie (Utet, pagine 306, euro 23) e Serve ancora Dio? La via di Nietzsche oltre il nichilismo di Massimo De Angelis (Castelvecchi, pagine 288, euro 25).
Partiamo da quest’ultimo, dato che Nietzsche è visto da molti come il sostenitore della "morte di Dio" e l’iniziatore del nichilismo in Occidente. Ma è davvero così? Già il grande antropologo francese René Girard, nel volume Il caso Nietzsche, aveva definito il pensatore tedesco «il preteso distruttore del cristianesimo », anzi «la migliore conferma». Soprattutto negli ultimi tempi, quando firma i suoi aforismi a volte Dioniso a volte Cristo, e a volte entrambi, Nietzsche vuole parteggiare per l’antica divinità pagana e lo oppone a Gesù ma questo suo tremendo sforzo di autoconvincimento lo porterà alla pazzia.
Il saggista De Angelis, già direttore della rivista "Nuova civiltà delle macchine" rileva come la critica del filosofo di Sils Maria al cristianesimo fosse rivolta al suo impianto metafisico e morale, e ricorda l’analisi che fece della malattia il professor Kaftan, secondo cui Nietzsche «non riuscì mai a dimenticare e a superare completamente il cristianesimo, giacché a Dio era destinato e soltanto Dio avrebbe potuto dare una forma grande e armoniosa alla ricca vita spirituale che sgorgava in lui». Tesi contraddette dagli amici più prossimi come Overbeck e Koselitz, ma in un certo senso confermate da Lou Salomé, per la quale l’incontro- scontro con Cristo è rimasto in lui una questione irrisolta e causa di dolore estremo.
La lezione che ci lascia Nietzsche, dopo la demolizione della metafisica e la proclamazione della morte di Dio, è una sfida aperta per un pensiero cristiano che torni alle origini e riscopra la dimensione mistica. Come ha scritto Karl Jaspers: «Nietzsche, continuamente scosso dalla trascendenza che egli nega, prepara la trascendenza che egli non mostra». In questo senso ha ragione ancora Girard a definirlo un «pensatore religioso». Si ritorna al passo di Pareyson citato all’inizio, all’alternativa fra un ateismo nichilista e un cristianesimo genuino, non sentimentale né consolatorio.
E qui ci aiuta l’analisi di Ryrie, pastore anglicano e storico delle religioni. La sua è una difesa di un cristianesimo che non dimentica la sfida del dubbio. Ricostruendo la «storia dell’assassinio filosofico di Dio», a suo parere assai più lontana nel tempo rispetto al cliché consolidato del libertinismo e dell’illuminismo come padri della non credenza, Ryrie prende spunto dal dato di fatto inoppugnabile della crisi della fede oggi in America ed Europa a tutto vantaggio dell’agnosticismo e dell’ateismo. Ma contrasta quanto affermato da Charles Taylor nel suo famoso saggio L’età secolare: «Perché era virtualmente impossibile nella nostra società occidentale non credere in Dio, ad esempio, nel 1500, mentre nel 2000 a molti di noi questa appare come una scelta non solo facile, ma quasi inevitabile?». Secondo Ryrie anche durante i cosiddetti secoli cristiani coloro che avevano una fede vera non erano certo la maggioranza ed esisteva comunque chi si dichiarava ateo. E cita vari casi di rivolta verso la Chiesa già in età medievale, anche se all’epoca non si usava certo la parola "ateismo". Da Federico II a Jacopo Fiammenghi e Thomas Tailour, è lungo l’elenco di quanti espressero risentimento verso Dio e scetticismo sulla vita eterna, oltre che rancore verso vescovi e preti. E’ nel ’500 e ’600 poi soprattutto che la ribellione si fa ideologia, dagli umanisti Sozzini e Harvey ai più noti filosofi Hobbes e Spinoza e ai drammaturghi inglesi Marlowe e Jonson. È un ateismo fatto di rabbia e ansia insieme: rabbia per i tradimenti del cristianesimo commessi dai suoi leader e ansia per non essere all’altezza della fede. Così il poeta John Donne poteva distinguere fra «l’ateo presuntuoso, che non crede in alcun Dio», e «l’ateo pensoso, che crede che Gesù non sia sceso in terra per lui». E oggi?
Secondo il pastore anglicano il cristianesimo è inciampato negli orrori del nazismo. Non solo perché questa efferata ideologia è cresciuta in una terra cristiana, ma perché i suoi orrori hanno stabilito nel corso del ’900 un nuovo ordine morale da non oltrepassare, mettendo da parte la visione cristiana delle cose. ’Umanesimo’ è la nuova dottrina cui anche il cristianesimo si deve piegare. Una nuova struttura etica sempre più diffusa (Chesterton l’avrebbe definita ’umanitarismo’) e il cui sostegno è la sola ragione umana. La fede viene messa in disparte. Secondo Callum Brown, autore di una storia orale della miscredenza moderna (Becoming Atheist), col genocidio nazista il cristianesimo ha subito uno smacco. «Ha fallito - commenta Ryrie - non solo nel senso che molte chiese e moti cristiani erano più o meno collusi con nazismo e fascismo, ma in un senso più ampio: la crisi globale rivelò che le priorità morali del cristianesimo erano sbagliate. Era ormai evidente che crudeltà, discriminazione e omicidio erano espressioni del male in un modo ben diverso da fornicazione, blasfemia ed empietà».
Di fronte a questa sfida quale risposta è possibile? Essendo anglicano, Ryrie non cita la svolta del Concilio Vaticano II e gli ultimi pontificati: è convinto che il passato non può tornare e che bisogna riannodare i fili del dialogo fra un’etica cristiana e un’etica laica umanista. Rinunciando a ogni cedimento ai richiami nazionalistici che oggi subiscono molti cristiani europei ed essendo certi della forza insopprimibile della proposta: «Neanche l’ascesa umanista è una nuova realtà solida. Le strutture morali delle nostre culture sono state sempre mutevoli, e sempre lo saranno. Le nostre credenze, inevitabilmente, seguiranno le loro mutazioni. Il finale di questa storia riguarderà tutti, credenti e miscredenti».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Sul tema, le pagine dell’uno e dell’altro (con alcune note)
FLS
L’analisi.
La buona mercatura è sempre arte delle mani e degli occhi
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 30 gennaio 2021)
Tra il Medioevo e il Rinascimento lo spirito dell’economia di mercato era diverso, a tratti molto diverso da quello del capitalismo moderno. Sta in questa differenza il senso di tornare alle domande di quella stagione dell’economia, perché il capitalismo nei secoli successivi non ha risposto diversamente alle stesse domande, ha semplicemente cambiato le domande. Quella prima etica mercantile si sviluppò dentro un mondo che mentre vedeva crescere la ricchezza dei grandi mercanti e cercava una via per tenerli dentro il recinto delle pecorelle di Cristo, vedeva anche il movimento francescano che lottava con Papi e teologi per poter ottenere il privilegio dell’altissima povertà, di poter attraversare il mondo senza diventare domini (padroni) dei beni che usavano. -Tra il Libro della ragione commerciale e il Libro della ragione religiosa scorreva una tensione tragica. L’uno sfidava e limitava l’altro, e così la mercatura non diventava un idolo e la religione non si trasformava in una gabbia.
Non capiamo l’etica economica europea se non la leggiamo a partire da queste tensioni e ambivalenze, se non leggiamo la ricchezza dentro la povertà e la povertà dentro la ricchezza. Quei mercanti divennero molto ricchi, ma quella ricchezza restava una ricchezza ferita, perché, diversamente da quanto avverrà nella modernità, non era né immediato né evidente che la ricchezza fosse di per sé benedizione, mentre era immediato ed evidente che la benedizione era povertà evangelica. Ma, anche in questo caso, i paradossi e le ambivalenze si rivelarono altamente generativi.
Lo leggiamo anche nel volume "Mercanti scrittori" (a cura di Vittore Branca). Tra questi racconti spiccano "I ricordi" di Giovanni di Pagolo Morelli (Firenze, 1371-1444), dove la ragione di mercatura si integra perfettamente con la ragione di famiglia e con la ragion di stato della città di Firenze. Morelli dà anche consigli e raccomandazioni ai suoi "pupilli", figli e nipoti, che è il distillato di generazioni di saggezza mercantile: «Non fare mercantia o alcuno traffico che tu non te ne intenda: fa cosa che tu sappi fare e dall’altre ti guardi, ché saresti ingannato. Istà con altrui a’ fondaci, a’ banchi, e va di fuori, pratica i mercatanti e le mercantie; vedi con l’occhio i paesi, le terre dove hai pensiero di trafficare» ("Ricordi", III, p. 177). Il primo senso del mercante, quello davvero essenziale, è il tatto.
I suoi prodotti li deve toccare, perché i segreti decisivi della conoscenza mercantile si imparano toccando i beni che si comprano e si vendono. I panni, le pezze, le stoffe si conoscono prendendoli in mano, maneggiandoli. Il primo significato del manager rimanda alla mano, al maneggio, dove il cavallo si addomestica tramite l’uso delle mani. Un imprenditore che perde il contatto con le cose che traffica, che non esercita il tatto (con-tatto), che non le saggia sfiorandole con le dita, perde competenza e si mette nelle mani di altri, da cui finisce per dipendere interamente. In questo non vale la divisione del lavoro né la delega: l’imprenditore deve distribuire le funzioni, può e deve delegare molto, ma non il tatto dei suoi beni, questo deve tenerlo per sé.
L’imprenditore italiano è cresciuto toccando i beni. Era competente delle sue cose come e di più dei suoi operai e tecnici. Era questa competenza tattile la sua prima forza. Si capisce quindi che questo "capitalismo" ha iniziato il declino quando ha messo le imprese nelle mani di manager che non toccavano più le cose che compravano e vendevano, perché esperti di strumenti, ma quasi mai di mani e di tatto dei prodotti di quella specifica impresa.
Inoltre messer Giovanni ci dice che il buon mercante deve girare il mondo, deve recarsi di persona nei mercati di molte città. Avrà bisogno di agenti e di procuratori, certo, ma non sarà un bravo mercante se non acquisterà una conoscenza diretta dei luoghi e delle persone, se non frequenterà «fondaci e banchi». Finché l’imprenditore ha la passione, l’energia, l’entusiasmo e l’eros per recarsi di persona nelle fiere, per vedere "col suo occhio" clienti, fornitori, banchieri, ha ancora il controllo della sua impresa, ne detiene le briglia, la maneggia: «Se traffichi di fuori, va in persona ispesso, almeno una volta l’anno, a vedere e a saldar ragione [i conti]. Vedi che vita tiene chi è per te di fuori, s’egli spende di soperchio, che faccia buoni crediti» (p. 178). Quando invece inizia a spendere le sue giornate solo in riunioni in ufficio e in ristoranti stellati, anche se non lo sa è già iniziata la fine, perché ha perso le mani e gli occhi dell’arte della mercatura.
C’è poi un secondo comandamento di etica mercantile: «Va sodamente nel fidarti e non t’abbottacciare [non essere credulone]: e chi più ti dimostra nelle parole essere leale e saputo, meno te ne fida; e chi ti si proffera [offre], non te ne fidare punto in niuno atto. I gran parlatori, millantatori e pieni di moine, goditeli nell’udire e dà parole per parole, ma non te ne fidare punto. D’uno che abbi mutati più traffichi e più compagni o maestri, non avere niente con esso» (p. 178). Quando un imprenditore inizia a circondarsi di "saputi", chiacchieroni, vanitosi, gran parlatori, ha già imboccato il viale del tramonto. Ma per riconoscerli occorre frequentarli fuori dai campi da golf e dagli hotel di lusso, perché è antica legge della mercatura che una persona non la conosci finché non la vedi lavorare. Grave ingenuità pensare di conoscere clienti e agenti nei congressi. È il lavoro il gran setaccio che discerne la pula delle chiacchiere dalla farina del buon mestiere.
Il terzo: «Non fare mai dimostrazione di ricchezza: tiella nascosta e dà sempre a intendere nelle parole e nei fatti che hai la metà di quello che hai. Tenendo questo istile non potrai essere di troppo ingannato» (p. 178). Qui non siamo tanto di fronte a una tecnica di evasione fiscale (forse anche, per qualcuno); c’è di più, c’è uno istile, uno stile di vita. Quei primi mercanti sapevano bene che l’invidia sociale è degenerativa per tutti. La ricchezza civile non deve produrre invidia, ma emulazione, cioè il desiderio di imitazione. Ma in un mondo a bassa mobilità sociale, come era tutto sommato quello medioevale, la ricchezza ostentata crea solo invidia e conflitto. Mostrarla oltre il limite (torna il grande tema dell’intensità lecita delle ricchezze) non giova a nessuno: «Non ti millantare di gran guadagni. Fa il contrario: se guadagni mille fiorini, dì di cinquecento; se ne traffichi mille, dì il simile, e se pur si vede dì "son d’altri". Non ti iscroprir nelle ispese. Se sei ricco di diecimila fiorini, tieni vita come su fussi di cinque» (p. 189).
La sobrietà è rimasta per secoli una grande virtù dell’imprenditore e dell’industriale. I suoi figli andavano spesso a scuola insieme ai figli dei suoi operai, frequentava le stesse chiese, matrimoni, funerali. Erano "signori" ma erano anche com-pagni, almeno i loro figli erano compagni dei nostri. Quando, qualche decennio fa, la competizione si è invece spostata dalla produzione al consumo, il centro del capitalismo è passato dall’imprenditore al manager, e il capitalismo è diventato un enorme meccanismo ostentativo produttore di molta invidia sociale e frustrazione, soprattutto nei tempi di crisi.
Paolo da Castaldo (1320-1370), nel suo "Libro dei buoni costumi" istruisce poi su un quarto pilastro di quella etica degli affari: «Fa’ sempre d’avere i migliori fattori e più sufficienti. E non guardare a costo perché "pigione buona né salario di buoni fattori non furono mai cari"; i cattivi sono cari» (p. 34). Saggezza infinita, che abbiamo dimenticato in un capitalismo dove l’alto salario del manager è il primo e spesso unico indicatore della sua qualità. Paolo qui ci ricorda che il "fattore cattivo" è caro perché in genere è più interessato ai denari che alla mercatura, e che un salario troppo alto diventa un meccanismo di selezione avversa delle persone.
Il quinto: «Fa pure che nei tuoi libri sia iscritto ciò che tu ha fatto distesamente, e non perdonare alla penna e datti bene a intendere nel libro. E viverai libero, sentendoti fermo e sodo nel valsente [capitale] tuo» (p. 178-9). Lo "scriver bello" è il pregio del mercante, nelle parole del mercante e poeta Dino Compagni ("Canzone del pregio"). Non avremmo avuto l’umanesimo civile italiano ed europeo senza lo scriver bello dei mercanti, e non avremmo avuto il loro straordinario successo commerciale senza la cura e la stima per la scrittura e le lettere: «Il pupillo s’ingegni d’essere vertudioso [virtuoso], imprendere iscienzia e di grammatica e ch’egli imprenda un poco d’abaco» (p. 192). Ciò non significa dire che i mercanti fossero (o che dovrebbero essere) dei professori. Lo scriver bello dei mercanti è diverso da quello dei professori, ma è buono e necessario per il bene comune. Firenze fu capace di secoli di straordinaria economia perché i mercanti nutrivano con la loro ricchezza poeti e artisti, ma Dante e Boccaccio alimentavano i mercanti con la loro bellezza, che così entrava nei libri della ragione e nel parlar fascinoso che incantava il mondo intero: i mercanti lo incantavano con bellissime stoffe, ma anche con parole poetiche, col loro parlare e scrivere bello.
Infine: «Ora, conchiudendo, queste sopra dette cose sono utile a diventare isperto e ’ntendente il mondo, a farsi bene volere e essere onorato e riguardato» (p. 196). La benevolenza, la buona fama, l’onore e la stima, erano beni invisibili ma essenziali, più del profitto. La ricchezza ottenuta con cattiva fama non valeva nulla. Il secondo paradiso che quegli antichi mercanti cercavano era una eredità di buona fama e di onore da lasciare ai figli. Morire ricchi e disonorati era il loro vero inferno. Senza prenderne in considerazione la buona fama non capiamo neanche il fenomeno della vendita delle indulgenze. Quando prossimi alla morte quei mercanti e banchieri donavano buona parte dei loro patrimoni alla Chiesa o al Comune, non lo facevano solo per scontare anni di purgatorio, volevano anche evitare l’inferno della fama sulla terra - per loro e per la loro famiglia. Noi ai figli stiamo lasciando debito pubblico, l’eredità degli antichi mercanti era anche fama e onore.
Dietro il nostro "capitalismo" sorretto ancora dalle famiglie, disprezzato perché qualche volta diventa "familista", c’è tutta l’ambivalenza di quei primi mercanti; ma c’è anche la loro "virtude" e il loro onore. La congiunzione "e" ha avuto un ruolo decisivo nel nostro primo umanesimo economico e sociale: denaro e Dio, spirito e mercanzia, bellezza e ricchezza, lusso e povertà. Parole che si urtavano e scontravano, e lì nasceva la vita. Abbiamo ancora bisogno di una congiunzione, certamente molto diversa da quella medioevale. Ma la nostra economia diventa civile e civilizzata solo se è relazione, se unisce i diversi, se sa abitare generativamente le sue contraddizioni e le sue ambivalenze.
Chiave concettuale *
É l’amore in senso cristiano (agape-caritas) che costituisce l’essenza stessa del Dio rivelato da Gesù Cristo (cf. 1 Gv 4, 8). Essa consiste nel donare la propria vita (Gv 15,13). La forma perfetta della carità è il dono di sé di Cristo sulla Croce (Gal 2, 20). La Croce è la "cifra" e il simbolo dell’amore: in essa Gesù compie il duplice comandamento dell’amore di Dio e del → prossimo, ripreso dalla Legge antica (Torah) (cf. Mc 12, 28ss; Dt 6, 5; Lv 19,17). Sulla Croce infatti Gesù ama totalmente Dio Padre, affidandosi nelle sue mani (Lc 23,44) e il prossimo, → perdonando i suoi nemici (Lc 23, 36). L’amore vero o carità consiste nell’amare con → gratuità, anche chi non lo merita, il peccatore, il malvagio, il traditore, il nemico (cf. Lc 6, 32; Rm 5,11). Questo amore divino, unico e trascendente non è "utopico" per gli esseri umani. Esso diventa realtà quando è riversato nel cuore degli uomini mediante la potenza dello Spirito Santo, il Dono del Signore risorto (cf. At 2; Rm 5, 5), che rende capaci di conformarsi all’amore di Cristo. Tale è l’esperienza dei santi e dei martiri (cf. At 7, 59-60). La carità è pertanto una virtù teologale, cioè soprannaturale e pneumatologica. San Paolo la considera il più grande dei doni dello Spirito Santo e la descrive così: "La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine" (cf. 1 Cor 13, 4-8). Essa può essere ritenuta opera della → fede (cf. Gal 5, 6). Avere l’amore è segno di una vita nuova che vince la morte: "Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte" (1 Gv 3, 14).
Tutta la tradizione cristiana l’ha venerata come "regina delle virtù". Essa consiste per S. Agostino nell’amore delle cose che devono essere amate (dilectio rerum amandarum) e dona di anteporre le cose comuni a quelle proprie (caritas communia propriis non propria communibus anteponit). La carità è "ordinata": essa fa amare Dio per se stesso; ispira un retto amore di sé (ricordando la propria dignità filiale); stimola ad amare il prossimo in Dio e il nemico a causa di Dio (caritas est amicum diligere in Deo et inimicum diligere propter Deum, S. Gregorio Magno). La carità ama secondo la misura smisurata di Dio (modo sine modo, S. Bernardo). Per san Tommaso soltanto la carità merita veramente il nome di grazia perché è l’unica che renda "graditi a Dio" (nomen gratiae meretur ex hoc quod gratum Deo facit). Essa ha la facoltà di trasformare l’amante nell’amato perché suscita una sorta di "estasi", un uscire da sé per aderire all’amato (caritatis proprium est transformare amantem in amatum, quia ipsa est quae extasim facit).
La carità è il vincolo di comunione della → Chiesa, e trova nell’Eucaristia il suo sacramento. Mediante la carità lo Spirito riunisce i fedeli in un solo corpo: lo Spirito unifica il corpo con la sua presenza, con la sua forza e con la connessione interna delle membra; produce la carità tra i fedeli e li sprona a viverla. Cosicché se un membro soffre, tutti soffrono insieme con lui; e se un membro viene onorato, ne gioiscono insieme anche gli altri (cf. 1 Cor 12, 26; LG 7, 3). La carità non può essere né confusa né tanto meno sostituita con la nozione non peculiarmente cristiana di → solidarietà. Questa consta dell’ordine umano e sociale della fraternità universale. La carità invece è la relazione di comunione propria della → fraternità cristiana. Essa ha una propulsione universale (fino ad abbracciare i nemici), ma è specialmente arricchita dalla reciprocità nella comunità ecclesiale: "questo è il messaggio che avete udito fin da principio: che ci amiamo gli uni gli altri" (1 Gv 3, 11-12); "Poiché dunque ne abbiamo l’occasione, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede", (Gal 6,10). Insieme alla → evangelizzazione e all’intercessione (Liturgia), la testimonianza della carità rappresenta la precipua forma cristiana di svolgere la missione che Cristo le ha affidato.
* Fonte: Chiave concettuale - Vatican.va
La riflessione.
La comunicazione politica dentro la crisi: rispettateci anche a parole
di Mauro Magatti (Avvenire, domenica 17 gennaio 2021)
Nel passato, la parola data era sacra e, col suggello di una stretta di mano, stabiliva impegni vincolanti. Un retaggio che filtra fin nelle democrazie moderne che fanno del "parlamento" il palazzo dove i diversi interessi e i differenti punti di vista "si parlano", si confrontano, si accordano. Anche i sistemi politici più avanzati poggiano su quella fragile e delicata facoltà della vita umana che è la parola.
Sappiamo tutti quanto è difficile intendersi. Equivoci, fraintendimenti, ipocrisie, menzogne. Non certo solo in Parlamento. Ma al lavoro, in famiglia. Non sempre si dice quello che si pensa. Né si fa quello che si dice. Più spesso le parole vengono usate strategicamente per i propri obiettivi. Ingannando gli altri, violentando la realtà. Da qui si scatenano tensioni, litigi, lotte, sfiducia. Tutti ingredienti tristi della nostra vita.
Nulla di cui sorprendersi o scandalizzarsi dunque. La comunicazione umana, quando ha successo, ha qualcosa di miracoloso. E proprio poiché ne conosciamo la fragilità, col tempo si è affermata la tendenza a sostituirla con contratti scritti, procedure rigide, algoritmi. Col rischio di diventare una società di autistici. Ci sono situazioni, però, in cui la verità delle cose si impone con forza. In cui il bene che condividiamo è così necessario e forte da non ammettere furbizie o manipolazioni.
Così dopo quasi 11 mesi di pandemia, con ormai più di 80mila morti, con le scuole chiuse da quasi un anno, con interi settori economici distrutti, con ansia e preoccupazione in aumento nella popolazione, l’uso palesemente strumentale delle parole che abbiano ancora una volta visto nel ’teatrino della politica’ suona particolarmente stucchevole. L’Italia non meritava e non merita un tale spettacolo.
Un gruppo di governanti che pensa al bene comune, di fronte a delle legittime divergenze, si chiude in una stanza discute tutto il tempo necessario per arrivare a un accordo o a un disaccordo. E poi parla chiaro, e agisce alla luce del sole. E invece sono settimane (se non mesi) che il Paese è inchiodato in una pantomima dove tutti hanno un pezzo di ragione ma nessuno riconosce i propri torti. Renzi che critica (giustamente) certo immobilismo e verticismo di Conte, facendo però capire che il suo scopo non è semplicemente quello di dare buoni consigli al premier ma di rimandarlo a casa.
Conte che interviene con toni sempre rassicuranti su tutte le questioni facendo però finta di non sapere che il nostro (anziano) Paese è uno dei peggiori al mondo per numero assoluto di morti e di riduzione del Pil. I 5stelle che si dichiarano contrari al Mes (quando la nostra sanità avrebbe bisogno di ogni ulteriore risorsa) senza mai proporre una qualche ragione comprensibile, ma per pura affermazione identitaria e ideologica.
Il Pd che cerca di barcamenarsi in una coalizione traballante, ma non riconosce che, al di là delle speranza del primo momento, la coalizione di governo di fatto non riesce a prendere forma e consistenza. E intanto i leader dell’opposizione non perdono occasione per dire tutto quello che si sarebbe dovuto fare e che il governo non ha fatto elencando, senza vincolo di realtà, un numero più o meno infinito di decisioni che meravigliosamente ci avrebbero potuto portare fuori dalla crisi. Ma non fanno mai cenno dei fallimenti clamorosi registrati nelle Regioni in cui governano.
Con tutta la buona volontà, si tratta di uno spettacolo deprimente per il cittadino che cerca di farcela in mezzo a mille difficoltà. L’abuso della parola provoca un grave danno alla democrazia. Quando nessuno crede più a nessuno e si perde la fiducia nella possibilità di intendersi, il Parlamento diventa una ’torre di babele’ di cui qualcuno comincia a pensare di fare a meno. E questo è pericoloso. La parola comunicazione viene dal latino com-munis che rimanda all’idea di dono ’obbligatorio’.
Un’espressione che noi non riusciamo più nemmeno a cogliere. Come è possibile un dono obbligatorio? In realtà questa idea nasce dal presupposto che le relazioni (e quindi la comunicazione) siano rette su una obbligazione e che, proprio per questo, il comportamento individuale, pur libero, non possa prescindere da una serie di condizioni.
Che nel caso della comunicazione hanno a che fare con la ricerca della verità, la franchezza, l’onestà, la parresia. Senza obbligazione, la democrazia si riduce a puro scontro di potere, delegittimandosi di fronte al popolo. Soprattutto quando la verità dei fatti si impone per la sua gravità, non si possono usare le parole in modo solo strategico.
Serve un’ecologia della parola. Adesso.
Luoghi dell’Infinito.
Adamo dove sei? Tra la discarica e il Giardino
La bellezza ci abbraccia, nei cieli, sulla terra e sotto terra. Una bellezza donata senza misura, quasi a sfiorare l’infinito. Maestosa, selvaggia, immensa. Una bellezza che anche noi abbiamo...
di Giovanni Gazzaneo (Avvenire, giovedì 14 gennaio 2021)
La bellezza ci abbraccia, nei cieli, sulla terra e sotto terra. Una bellezza donata senza misura, quasi a sfiorare l’infinito. Maestosa, selvaggia, immensa. Una bellezza che anche noi abbiamo saputo generare nei millenni creando opere d’arte e meraviglie tecnologiche, modellando colline, facendo dei campi un tripudio di colori e di geometrie, progettando giardini e parchi che, consapevolmente o meno, sono la tangibile nostalgia del Paradiso perduto.
Scrive papa Francesco nella Laudato si’: «Prestare attenzione alla bellezza e amarla ci aiuta ad uscire dal pragmatismo utilitaristico. Quando non si impara a fermarsi ad apprezzare il bello, non è strano che ogni cosa si trasformi in oggetto di uso e abuso senza scrupoli» (215). Abuso che non conosce frontiere, dentro e fuori di noi: smog nei cieli e nei nostri polmoni, microplastiche nei ghiacciai e nelle profondità degli abissi marini, ma anche nel nostro sangue.
Abbiamo reso il mondo una discarica. Ma prima vittima della “cultura dello scarto”, come insegna papa Francesco, è proprio l’uomo: «L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme, e non potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale, se non prestiamo attenzione alle cause che hanno attinenza con il degrado umano e sociale» (Laudato si’ 48).
La cultura meccanicistica e positivista - che si è accompagnata ai primi grandi successi tecnologici dell’epoca moderna e alla promessa dei paradisi in terra (comunisti o capitalisti in questo si equivalgono) - ha proposto una visione riduzionista dell’uomo e della natura. L’uomo è solo corpo, tassello intercambiabile nel mondo della produzione e contenitore di desideri (sempre indotti e mai appaganti) nel magico universo del mercato. La natura è solo materia da sfruttare per la produzione e, a partire dal dopoguerra, per le vacanze di massa.
Questo modo di vedere le cose e gli uomini si è evoluto, più nei linguaggi che nella sostanza. Come sostiene papa Benedetto nel 2012: «Lo spreco della creazione inizia dove non riconosciamo più alcuna istanza sopra di noi, ma vediamo soltanto noi stessi». Continuiamo a preferire l’ideologia - oggi destrutturata ma onnipresente con i suoi falsi idoli - alla realtà.
È cresciuta la sensibilità ambientale, ma l’ecologia integrale, proposta da Benedetto XVI e da papa Francesco, non può prescindere da un umanesimo integrale, che riconosca la dignità di ogni persona e di tutti i popoli. Sono tante le persone di buona volontà e le associazioni che lottano perché la natura non sia violata, per le trentamila specie a rischio, perché la foresta amazzonica sia preservata, e anche i cani non siano abbandonati... Ma cala il silenzio, anzi scatta la censura, se lottiamo perché a non essere violata e manipolata sia la natura umana, perché gli embrioni non siano “prodotti” di fabbrica, perché l’utero non si trasformi in un parcheggio a pagamento, perché cinquantasei milioni di bambini non vengano ogni anno democraticamente uccisi nel seno delle loro madri. «I deserti esteriori - afferma papa Benedetto nel 2005 - si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi» e continuano a crescere.
La natura è bellezza, ma bellezza sfigurata, fin dalla Genesi, fin dal peccato di Adamo. Ricomporre l’armonia perduta è possibile, come testimonia Francesco d’Assisi. Lui non si è convertito all’ecologismo. L’amore di Francesco per il Creato nasce dalla sua conversione a Cristo, da questa sua sequela che l’ha portato a vedere il mondo e i suoi abitanti con lo stesso sguardo del Figlio dell’uomo, a percepire la giusta e feconda relazione con gli elementi e le creature, ad amare la potenza e la bellezza della vita come riflesso di un atto creativo che non si ferma alla Genesi, ma che continua nello scorrere del tempo. Un sentimento, uno sguardo, un’invocazione che trasformano la vita nella poesia del Cantico delle creature, e poi, con Giotto, nei colori e nelle immagini della più straordinaria rivoluzione artistica. Francesco sapeva che il vertice della Creazione non è l’uomo, ma il Figlio dell’uomo, l’Increato che si fa creatura, l’Eterno che si fa storia, l’Infinito che abbraccia il limite.
La strada indicata da san Francesco è semplice e ardua: non può esserci autentica cura del Creato se dimentichiamo che il nostro abitare, nel segno della custodia e non del possesso e dello sfruttamento, nasce dal nostro essere voluti come figli da un Dio che ci è Padre. Siamo creature e non creatori (al massimo inventori e, con le arti, imitatori dell’atto creativo originario), ma siamo figli: siamo la Sua immagine, magari ferita, rugosa, infangata, perfino negata, combattuta. Eppure quell’immagine resta. È la parte di noi più vera, più gioiosa, più viva, più profonda. Da qui, da questa Presenza in noi, nasce l’amore per la terra, che è madre e sorella e figlia, per le sue creature, per gli uomini tutti. Francesco è stato il giullare del Gran Re, perché ha saputo vivere da figlio del Gran Re.
Papa. «Le donne accedano ai ministeri del lettorato e dell’accolitato»
Con un motu proprio Francesco abroga la limitazione dell’accesso ai due ministeri istituiti ai laici maschi. Nessuna relazione con il sacerdozio. Riconoscimento del contributo femminile all’annuncio
di Mimmo Muolo (Avvenire, lunedì 11 gennaio 2021)
Le donne potranno accedere da ora in poi ai ministeri del lettorato e dell’accolitato nella Chiesa Cattolica. Senza che però questo debba essere confuso con una sia pur parziale apertura verso l’ordinazione sacerdotale. -Con il motu proprio “Spiritus Domini”, infatti, il Papa ha modificato il primo paragrafo del canone 230 del Codice di Diritto canonico, stabilendo che le donne possano accedere a questi ministeri (la lettura della Parola di Dio durante le celebrazioni liturgiche o lo svolgimento di un servizio all’altare, come ministranti - chierichette o come dispensatrici dell’eucaristia), che essi vengano attribuiti anche attraverso un atto liturgico che li istituzionalizza. Nella nuova formulazione del canone si legge ora: “I laici che abbiano l’età e le doti determinate con decreto dalla Conferenza episcopale, possono essere assunti stabilmente, mediante il rito liturgico stabilito, ai ministeri di lettori e di accoliti”. Viene così abrogata la specificazione “di sesso maschile” riferita ai laici e presente nel testo Codice fino alla modifica odierna.
Francesco tuttavia specifica che si tratta di ministeri laicali “essenzialmente distinti dal ministero ordinato che si riceve con il sacramento dell’ordine”. E in una lettera indirizzata al Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il cardinale Luis Ladaria, cita le parole di san Giovanni Paolo II secondo cui “rispetto ai ministeri ordinati la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale”.
Per i ministeri non ordinati come il letterato e l’accolitato, però, "è possibile, e oggi appare opportuno - sottolinea il Pontefice -, superare tale riserva”. Il Papa spiega che “offrire ai laici di entrambi i sessi la possibilità di accedere al ministero dell’Accolitato e del Lettorato, in virtù della loro partecipazione al sacerdozio battesimale incrementerà il riconoscimento, anche attraverso un atto liturgico (istituzione), del contributo prezioso che da tempo moltissimi laici, anche donne, offrono alla vita e alla missione della Chiesa”.
Già da tempo, infatti, in moltissime chiese le donne leggono durante le celebrazioni e le bambine (soprattutto) svolgono il servizio di ministranti. Tuttavia questi ruoli venivano svolti, come ricorda anche Vatican News, senza un mandato istituzionale vero e proprio, in deroga a quanto stabilito da san Paolo VI, che nel 1972, pur abolendo i cosiddetti “ordini minori”, aveva deciso di mantenere riservato l’accesso a questi ministeri alle sole persone di sesso maschile perché li considerava propedeutici a un eventuale accesso all’ordine sacro.
Francesco, invece, recepisce quanto richiesto anche da diversi Sinodi dei vescovi e menzionando il documento finale del Sinodo per l’Amazzonia osserva come “per tutta la Chiesa, nella varietà delle situazioni, è urgente che si promuovano e si conferiscano ministeri a uomini e donne... È la Chiesa degli uomini e delle donne battezzati che dobbiamo consolidare promuovendo la ministerialità e, soprattutto, la consapevolezza della dignità battesimale”.
Ministero istituito, non ordinato
Come sottolinea il Papa nella Lettera che accompagna il motu proprio, al cardinale Ladaria Ferrer prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il lettorato e l’accolitato sono ministeri “istituiti”, cioè affidati con atto liturgico del vescovo, dopo un adeguato cammino, «a una persona che ha ricevuto il Battesimo e la Confermazione e in cui siano riconosciuti specifici carismi». Sono altro rispetto ai ministeri “ordinati”, che hanno invece origine in uno specifico Sacramento: l’Ordine sacro. Si tratta dei ministeri ordinati del vescovo, del presbitero, del diacono.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’"UOMO SUPREMO" DELLA CHIESA CATTOLICA:"Dominus Iesus": RATZINGER, LO "STERMINATORE DI ECUMENISMO". Un ’vecchio’ commento del teologo francescano Leonard Boff.
LO SPIRITO DI ASSISI. LA LEZIONE DI GIOVANNI PAOLO II SULLA DONNA E SULL’UOMO E SU DIO: Karol J. Wojtyla ha compreso il "segreto" delle due persone che gli hanno dato la vita (il padre di religione cattolica e la madre di religione ebraica) e, al di là della loro identità e differenza, ha ritrovato l’Arca dell’Alleanza d’Amore ("Charitas") dei "due cherubini". Per questo ha potuto ri-illuminare il mondo e ri-unificare l’intera umanità intorno a sé, non per altro e non - confondendo Dio-Mammona ("caritas") con Dio-Amore ("charitas") - per negare e uccidere addirittura l’Altro!!! (Federico La Sala, 08.02.2008).
FLS
Motu Proprio. Così il Papa riconosce ruolo essenziale e servizio reso dalle donne
di Rosanna Virgili ( Avvenire, martedì 12 gennaio 2021)
«Vi sono diversi carismi ma uno è lo Spirito; vi sono diversi ministeri ma uno solo è il Signore», scrive Paolo nella Prima Lettera ai Corinti (12,4-5) e proprio nel nome dello Spirito, papa Francesco inizia il Motu Proprio pubblicato ieri «circa l’accesso delle donne ai ministeri del Lettorato e dell’Accolitato» (che modifica il primo paragrafo del canone 230 del Codice).
Seguendo la tradizione della Chiesa, che ha chiamato sin dalle origini «ministeri le diverse forme che i carismi assumono quando sono pubblicamente riconosciuti e sono messi a disposizione della comunità e della sua missione in forma stabile», Francesco ha ritenuto di occuparsi del tema ecclesiale dei carismi, specialmente di quelli più numerosi e vari di cui godono i laici, visto che questi costituiscono «l’immensa maggioranza del popolo di Dio» (EG 102).
Ha ritenuto di dover riconoscere ai carismi dei laici e delle donne la dignità di un nome e, quindi, di un mandato, di una stabilità e di un’autorità che permetta loro di poter spendere il Dono ricevuto da Dio, e riservato a tutti i battezzati, in un servizio concreto, costruttivo, di responsabilità nella comunità cristiana. Quanto consiste, appunto, nel ’ministero’.
Negare, del resto, a un battezzato di fare questo, significa pretendere di soffocare la Grazia e rendere quella persona un membro inerte del Corpo mistico di Cristo. È la preoccupazione di Francesco che ribadisce «l’urgenza di riscoprire la corresponsabilità di tutti i battezzati nella Chiesa e in particolare la missione del laicato» che è stata, poi, reclamata anche nel Sinodo per la regione pan-amazzonica (2019).
Ora si viene al punto, mettendo il focus sui diversi ministeri, per dare «una loro migliore configurazione e un più preciso riferimento alla responsabilità che nasce, per ogni cristiano, dal Battesimo e dalla Confermazione». Distinguendo con precisione tra ministeri ordinati e non ordinati e concentrando l’interesse su questi ultimi. Si tratta, insomma, degli antichi «ordini minori» i quali, sinora erano, però, consentiti solo agli uomini in quanto tappe di un percorso che portava - e porterà ancora per gli uomini - a quelli «maggiori ».
Ed ecco la novità: se per i ministeri ordinati la Chiesa «non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale» (cfr. san Giovanni Paolo II, Ordinatio sacerdotalis, 1994), per i ministeri non ordinati «è possibile, e oggi appare opportuno superare tale riserva ». Le donne possono, dunque, essere stabilite come Lettori e Accoliti, accompagnando, almeno quel percorso che compiono gli uomini verso i ministeri ordinati del diaconato e del sacerdozio.
Anche a esse è garantita un’adeguata preparazione e il discernimento dei pastori. È un accesso, pertanto, dovuto allo Spirito Santo, secondo le Scritture e nell’alveo della teologia cattolica. Importante per le donne le quali da una parte si vedono riconosciuto un ’servizio’ che molte già svolgevano, dall’altra acquistano «un’incidenza reale ed effettiva nell’organizzazione, nelle decisioni più importanti e nella guida delle Comunità». Urgente per la Chiesa che non può più fare a meno del concorso qualificato delle donne nella sua ’uscita’ di evangelizzazione e non può neppure permettersi di ignorare o perdere le donne stesse.
I grandi temi che la Chiesa ha pensato di non vedere
Si parla poco della condizione di declino e di crisi gravissima che il Cristianesimo sembra conoscere attualmente
di Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera, 30 dicembre 2020)
È opinione diffusa che l’attuale pontificato si caratterizzerebbe per un indirizzo audacemente innovativo, si dice addirittura rivoluzionario. A causa vuoi di una pastorale tutta rivolta alle grandi questioni mondiali dell’ecologia e della giustizia economica tra le nazioni, vuoi di una straordinaria e quasi indiscriminata apertura alle diversità culturali, al dialogo tra le fedi, alla «carità». È però singolare che a questa proiezione del pontificato verso il mondo, e all’attivismo indefesso con cui essa viene alimentata, corrispondano tuttavia un silenzio e una mancanza pressoché assoluta di riflessioni e di iniziative sulla condizione generale che il mondo stesso riserva oggi alla fede cristiana e alla Chiesa stessa.
Una condizione di crisi gravissima. Nell’intero emisfero settentrionale del pianeta il Cristianesimo sembra conoscere, infatti, un tale declino da far pensare che esso stia addirittura sul punto di spegnersi. Lo mostra al semplice sguardo la quantità di edifici religiosi che in tutti Paesi europei hanno chiuso i battenti. Specialmente le chiese, trasformate in gran numero in supermercati, sale bingo o centri commerciali. Ma lo indicano in modo ancor più pregnante due fatti decisivi. Innanzi tutto la sparizione di ogni residuo di quella che un tempo era la Cristianità intesa come fatto pubblico, cioè come connessione tra istituzioni religiose e istituzioni politiche che per secoli ha caratterizzato tutti i regimi europei, ancora in sostanza sul modello dell’Impero romano. In secondo luogo, il fatto che ormai non rimane quasi più traccia di quel «compromesso cristiano-borghese» instauratosi dopo la Rivoluzione francese che fino a qualche decennio fa era tipico di tutte le classi dirigenti euro-occidentali. Un compromesso in forza del quale, pur laicizzandosi e modernizzandosi, esse erano però rimaste legate in qualche modo all’antica fede. Da tempo, invece, nei loro modelli di vita, nell’educazione dei figli, nell’autocoscienza di sé, nei loro valori pubblici, le élite delle società sviluppate appaiono virtualmente scristianizzate. E inevitabilmente il resto della società segue il loro esempio.
Ora, di fronte a questa gigantesca frattura storica - che oggi si manifesta in tutta la sua straordinaria ampiezza ma che nell’ultimo mezzo secolo non ha mancato di sollecitare le alte e tormentate riflessioni del magistero, da papa Montini a papa Ratzinger - appare davvero singolare il silenzio non solo dell’attuale Pontefice ma dell’insieme della gerarchia. L’attenzione e l’iniziativa dell’uno e dell’altra non sembrano attratte neppure da altre due questioni di enorme portata ormai arrivate drammaticamente al pettine. Tali, a me pare, da obbligare la Chiesa a mettere in discussione di fatto la propria intera vicenda identitaria, a riformularne gli esiti in misura radicale.
La prima di tali questioni è quella della democrazia. È vero naturalmente che la Chiesa non può essere una democrazia perché Dio non può essere messo ai voti. La democrazia però non è solo questione di voti. È anche - anzi soprattutto - una questione di diritti. Innanzi tutto di quei diritti della persona alla cui origine c’è il Cristianesimo e sui quali da decenni non a caso insiste in ogni occasione il magistero della Chiesa stessa. Ma allora la domanda ovvia che si pone è la seguente: come può essere compatibile con la tutela di tali diritti della persona il tipo di potere che esercita il Papa sul suo Stato e sull’istituzione ecclesiastica - un potere assoluto e incontrollato, arbitrario nel più vero senso della parola? Com’è compatibile ad esempio il diritto di ogni persona a conoscere le accuse che gli vengono mosse, a conoscerne i motivi, ad avere un giusto processo da parte di giudici indipendenti, con la sorte riservata al cardinale Becciu, il quale, spogliato dal Papa di alcune importanti prerogative legate alla sua carica senza nulla sapere dei motivi, in teoria aspetta giustizia - si noti il paradosso - da giudici nominati e revocabili ad nutum dal Papa stesso? Come si può chiedere al mondo di essere giusto, mi chiedo, se in casa propria le regole della giustizia sono queste? E d’altra parte, che in quella casa ci sia un problema vero di democrazia non è forse testimoniato anche dal fatto che ancora oggi in seguito a un episodio come quello appena detto (ma anche a mille altri) nessuno osi dire pubblicamente nulla? Sollevare qualche dubbio? Chiedere, Dio non voglia, qualche spiegazione? O l’obbligo democratico alla trasparenza tante volte invocato vale solo per gli altri?
Né si tratta solo di questo. Finora, infatti, a far da contrappeso alla natura autocratica del potere papale è stato il carattere elettivo della carica. Incontrollatamente elettivo, bisogna aggiungere: grazie al quale, quindi, a un Papa di un certo orientamento era possibilissimo (come infatti è accaduto quasi sempre) che succedesse un Papa di un orientamento affatto diverso. Ora invece, con la nomina da parte dell’attuale Pontefice di un sempre maggior numero di cardinali in tutto e per tutto a lui omogenei, minaccia di nascere di fatto al vertice dell’istituzione un vero e proprio «partito del Papa», detentore della maggioranza nel conclave. Grazie al quale al Papa regnante stesso diviene perciò possibile scegliere il proprio successore o perlomeno influenzarne in modo decisivo l’elezione. Determinando così il passaggio da un’autocrazia dalla titolarità incontrollata a una autocrazia dalla titolarità designata.
Infine, al problema della democrazia si ricollega direttamente pure la seconda delle grandi questioni arrivate al pettine che oggi interrogano la Chiesa e la sua storia: la questione del ruolo delle donne all’interno dell’istituzione ecclesiastica. O per dire meglio la questione della loro assoluta, continua, esclusione da qualsiasi ruolo significativo. Non mi riferisco al sacerdozio femminile. Mi riferisco al potere, alle cariche, che so, di presidente dello Ior, di governatore dello Stato, di nunzio o di segretario di Stato: che a mia conoscenza nessun passo dei Vangeli prescrive debbano essere affidate a uomini anziché a donne. Ma che la Chiesa invece continua imperterrita a credere un esclusivo monopolio maschile. Mi chiedo come possa immaginare di avere un qualsiasi futuro un’istituzione che nel mondo di oggi si muove in questo modo. Mostrando cioè una mancanza di senso storico che ricorda tristemente la vana battaglia che la stessa Chiesa cattolica ingaggiò per oltre un secolo contro i principi liberali. Oltre tutto - ancora una volta, come allora - smentendo in tal modo l’ispirazione più luminosa della propria storia e la testimonianza più straordinaria del proprio fondatore.
Ma se le cose stanno così, mi risulta allora abbastanza incomprensibile come possa essere definito innovativo, progressista o addirittura rivoluzionario, papa Francesco. Il quale esercita il suo potere al modo che ho detto e circa tutte le questioni e i problemi fin qui enumerati è convinto evidentemente che essi non esistano, o comunque che non meritino la sua attenzione. Per quel che conta la mia opinione, ho il sospetto che la sua via non porti lontano.
La grazia della crisi della Chiesa
di Marcello Neri (Il Mulino, 23 dicembre 2020)
Il discorso di papa Francesco alla Curia romana per la presentazione degli auguri di Natale ha avuto quest’anno un clamore relativamente più basso sulla stampa e sui mezzi di informazione rispetto a quelli di anni precedenti. Niente di appetibile per confezionare notizie ad effetto - come nel 2014 quando Francesco elencò una per una le malattie curiali; o nel 2018 dove affrontò di petto la questione dell’abuso del potere; oppure l’anno scorso sulle linee portanti di una riforma della Curia stessa. Lo scarso potenziale polemico del discorso non ne sminuisce però l’importanza per la vita della Chiesa cattolica e la sua solidale presenza in un mondo che nel giro di pochi mesi sembra aver perso la sua tracotante sicurezza, per ritrovarsi vulnerabile e ferito.
Si procede a tentoni e in ordine sparso davanti alla crisi del nostro tempo, forse proprio perché ci ostiniamo a non voler cogliere nella crisi “una grande occasione per convertirci e recuperare autenticità”. Pensare di uscire da una crisi tornando alle condizioni quo ante vuol dire abdicare a ogni possibilità di futuro, indice questo di una condizione umana che non sa più declinare un lessico, anche solo minimale, della speranza.
Invece, la crisi è “una tappa obbligata della storia personale e della storia sociale (...) che causa sempre un senso di trepidazione, angoscia, squilibrio e incertezza nelle scelte da fare (...). La crisi è quel setacciamento che pulisce il chicco di grano dopo la mietitura”. Setacciamento che mette al vaglio la stessa Chiesa, che non è esente da questa doverosa fedeltà alla storia in cui vive.
Proprio per la Chiesa, davanti alla Curia, Francesco rilancia il senso evangelico della crisi. E lo fa senza tacere una disfunzionalità oramai conclamata dell’apparato, giunta al punto tale da mortificare impietosamente anche i tanti slanci di sincera generosità e di buon servizio professionale che pur sempre vi sono al suo interno. Perché oramai l’apparato ecclesiastico sembra essersi asservito a quella che Francesco chiama la logica del conflitto: “vorrei esortarvi a non confondere la crisi con il conflitto: sono due cose diverse. La crisi generalmente ha un esito positivo, mentre il conflitto crea sempre un contrasto, una competizione, un antagonismo apparentemente senza soluzione fra soggetti divisi in amici da amare e nemici da combattere, con la conseguente vittoria di una delle due parti (...). La Chiesa, letta con le categorie del conflitto - destra e sinistra, progressisti e tradizionalisti - frammenta, polarizza, perverte, tradisce la sua vera natura: essa è un corpo perennemente in crisi proprio perché è vivo (...)”.
L’apparato che gioca col conflitto, schierandosi sul fronte delle tante scomposizioni del nostro tempo, impedisce alla Chiesa di fare il suo lavoro - che è quello di immettere un orizzonte di speranza nel tempo della crisi e dei suoi drammi. Tra tutte le istituzioni, proprio la Chiesa dovrebbe avere una famigliarità connaturale con la crisi, perché da sempre essa è “messa in crisi dal Vangelo” che la origina. La logica del conflitto impedisce oggi alla Chiesa di attingere alla sapienza di questo attraversamento millenario della crisi, mettendo invece in campo tutto un armamentario difensivo mediante il quale viene stoltamente ostacolata “l’opera della Grazia”.
Dopo otto anni di pontificato, giunto oramai al suo 84º compleanno, Francesco continua imperterrito a cercare di allineare la Chiesa cattolica sull’asse portante del Vangelo, scontentando a destra e manca - che è poi il prezzo che la liberalità evangelica paga da sempre nel cristianesimo.
Smarcandosi così da quella conflittualità che scuote il corpo della comunità ecclesiale fin dai suoi primi giorni: ogni volta che si dice “io sono di Paolo; io invece sono di Apollo; e io di Cefa; e io di Cristo” (1Cor 1,12) si è sicuramente fuori dal Vangelo di Gesù, e la Chiesa si trasforma in un apparato insopportabilmente scandaloso al cospetto di Dio e degli uomini.
Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. Come Gesù divenne il "Christus monetarius" ...*
L’analisi
Quando il debito pubblico era una faccenda di dono
di Luigino Bruni *
Se vogliamo capire come si è sviluppata l’etica economica nella cristianità medioevale e poi nel capitalismo, dovremmo cercare di abitare la sua radicale ambivalenza. La prima teologia cristiana ha fatto ampio uso del lessico e delle metafore economico-commerciali per cercare di spiegare l’evento cristiano, l’incarnazione e la salvezza. A partire dalla stessa parola oikonomia, che divenne fondamentale nella prima mediazione teologico-filosofica del cristianesimo: l’economia della salvezza, la Trinità economica.
Gesù definisce il denaro (mammona) un dio suo rivale, ma lo stesso Gesù è presentato come "divin mercante", il cui sangue era stato il "prezzo" della salvezza, una redenzione "pagata" dal sacrificio della croce. -Tutto il Medioevo, poi, è stato un proliferare di parole economico-teologiche: dalle anime "lucrate" al "guadagnarsi" il paradiso o il purgatorio; fino alla tradizione, molto cara ad Agostino (Sermone 9) dell’uomo come la "moneta di Dio", perché porta impressa la sua effigie/immagine.
Una delle frasi riportate dalla tradizione ma non dai Vangeli né canonici né apocrifi, i cosiddetti agrapha di Gesù, citata da Clemente d’Alessandria contiene un concetto importante: «Giustamente la Scrittura ci esorta a essere un competente cambiavalute, disapprovando alcune cose, ma tenendo fermo ciò che è buono» (Stromateis 1, 28,177, fine II secolo). Da qui la tradizione del Christus monetarius, il "buon cambiavalute", perché capace di discernere tra "monete" buone e cattive.
Con tutta questa ricca complessità in tema di monete e di economia non ci stupisce trovare nel Medioevo un’ambivalenza e una incertezza morale nei confronti dell’uso proprio delle monete e dell’economia. Una premessa. Per capire la nascita dell’etica economica europea non dobbiamo mai dimenticare che mentre i teologi disquisivano sulle monete e sui prestiti, i mercanti esistevano e dovevano lavorare. I mercanti erano e sono uomini pragmatici, talmente pragmatici da sfiorare il cinismo: la moneta serve, servono i cambiavalute (erano molte le monete in circolazione), servono i banchieri. Tutti sapevano che questi operatori non lavoravano gratis, ricorrere ai loro servizi costava, e quel prezzo da pagare si chiamava "interesse", che era accettato se non era eccessivo. I mercanti veri non avrebbero mai chiamato "usuraio" un mutuo (o una lettera di cambio, o un contratto di commenda) al tasso annuo del 5%, ma neanche del 10%. Erano ben coscienti che esistevano banchieri buoni e cattivi, come esistevano monete buone e altre cattive, e che monete e banchieri cattivi scacciavano i buoni. Operavano e vivevano tra queste cose buone e cattive, abitavano nell’economia l’ambivalenza della vita.
Allora la presenza di professionisti conoscitori delle monete era molto importante per la stabilità dei commerci e quindi per il bene comune. Questo lo sapevano tutti, come tutti sapevano che quando nelle città mancavano cambiavalute/banchieri ufficiali e quindi controllati periodicamente dal Comune nei loro pesi, bilance, libri e misure, la città si riempiva di banchetti clandestini di cattivi prestatori e "bagarini", che spesso finivano in bancarotta l’espressione deriva dal banco su cui il cambiavalute metteva le sue monete, la mensa argentaria: quando non riusciva più a pagare i suoi debiti, i suoi creditori gli spezzavano il banco.
Tra il XIV e il XV secolo Venezia contava più di cento banchi, cristiani ed ebrei, Firenze settanta, Napoli quaranta, Palermo quattordici (Vito Cusumano, "Storia dei banchi della Sicilia"). Il banchiere era anche un cambiavalute, e non di rado il suo ufficio era lo stesso di quello del notaio. I banchieri erano per molti versi equiparati a funzionari pubblici, ne condividevano alcune dimensioni dello status, dei privilegi, degli oneri. A nessuna persona perbene veniva in mente di chiamare questi banchieri pubblici "usurai", anche se prestavano a interesse. Tutti sapevano che i banchieri lucravano sul denaro, vescovi e papi per primi, che da una parte erano i primi clienti delle banche e dall’altra facevano omelie e scrivevano testi di condanna del prestito a interesse sulla base della Bibbia e dei Vangeli.
La Chiesa sapeva molto bene tutto questo, era esperta di ambivalenze, anche di quelle economiche. Conosceva bene i grandi banchieri, perché erano quasi sempre legati alle grandi famiglie borghesi e aristocratiche, sedevano nei consigli di governo delle città. Ma non dobbiamo pensare che la Chiesa, nelle sue varie componenti, fosse unanime in materie di monete, commerci, interessi e usura. La Chiesa era realtà plurale e antagonista, in teologia e in materia di prassi civile, più di quanto non lo sia in epoca moderna. Non deve quindi stupirci il grande numero di libri e omelie dedicati, soprattutto tra il XII e il XVII secolo, a temi finanziari e commerciali.
L’economia, dopo la teologia, fu la materia più trattata dai teologi tra Medioevo e Modernità. In questi dibattiti un grande peso lo aveva ancora il mondo monacale, antico, ricco e potente.
L’ora et labora dei monasteri e delle abbazie aveva creato una sua etica economica, molto attenta ai valori del lavoro e delle cose terrene. In particolare i monaci erano i grandi nemici del vizio capitale dell’accidia, cioè dell’inattività e della pigrizia; di conseguenza la prima lode per la sollecitudine del mercante, visto come l’anti-accidioso per eccellenza, nacque nei monasteri, dove si sviluppò anche l’esegesi della "parabola dei talenti" come lode dell’intrapresa dei primi due servitori e condanna della pigrizia del terzo. Il mercante piace perché mette in circolo la ricchezza, mentre l’avaro la blocca nei suoi forzieri.
Ma la riflessione specifica sulla moneta si sviluppò soprattutto tra i nuovi ordini mendicanti, attenti osservatori, per i loro carismi, della civiltà cittadina. In questo contesto, un ruolo importante nella riflessione teologica sul prestito a interesse lo svolse la nascita dei debiti pubblici delle città commerciali, in particolare Venezia e Firenze.
Interessante a questo riguardo fu un dibattito che coinvolse a Venezia nella metà del Trecento alcuni grandi teologi, centrato sulla liceità di pagare l’interesse sul debito pubblico e di vendere quei titoli di credito (al prezzo di circa il 60-70% del loro valore nominale).
Dalla fine del XII secolo le città commerciali italiane si trovarono di fronte a un forte aumento della spesa pubblica, anche a causa delle spese militari. Quelle città erano di fatto dei consorzi di famiglie, una specie di società cooperativa, dove i cittadini erano anche soci e proprietari di un bene comune: la città. Nelle prime fasi le spese pubbliche erano coperte con varie forme di contributi e tasse da parte dei cittadini. Di fronte però all’esplosione della spesa pubblica, i cittadini pensarono che invece di continuare ad aumentare le loro tasse poteva essere più conveniente emettere titoli di debito pubblico. Questi titoli dovevano pagare interessi periodici (il versamento degli interessi si chiamava paga) ai creditori, nella misura del 5% annuo (stessa percentuale del coevo Monte di Firenze). Quel debito pubblico venne visto dai cittadini come un mutuo vantaggio rispetto alle tasse: a differenza delle tasse il debito pubblico pagava interessi periodici e la città copriva le sue spese pubbliche.
Interessante notare che mentre i teologi discutevano e in genere condannavano l’interesse sui prestiti privati, tanto che fu necessaria una Bolla papale (nel 1515) per rendere lecito l’interesse, sempre del 5%, chiesto dai Monti di Pietà francescani, tutti erano invece molto sereni sul pagamento dell’interesse sul debito pubblico. Il dibattito teologico a Venezia, infatti, non verteva sulla liceità dell’interesse accettato come un dato di realtà, ma sulla ragione che portava a considerare lecito quell’interesse. Protagonisti della disputa erano il francescano Francesco da Empoli, i domenicani Pietro Strozzi e Domenico Pantaleoni, e l’agostiniano Gregorio da Rimini.
Il francescano accettava l’interesse sulla base della teoria francescana del "danno emergente" e del "lucro cessante": se un cittadino doveva prestare del denaro alla città (a volte i prestiti erano forzosi), la città doveva ricompensare quel danno subìto con il pagamento dell’interesse (termine usato da Francesco). Non c’era bisogno d’altro, l’interesse era un prezzo. Il francescano, poi, coerentemente non mette in discussione neanche la liceità di vendere i titoli del debito.
Più articolato era invece il discorso dei teologi domenicani, che in genere erano più critici dei francescani sugli interessi. Sulla scia di Tommaso d’Aquino, i due teologi domenicani cambiano radicalmente argomentazione e costruiscono la loro tesi sulla liceità dell’interesse su una base totalmente diversa: quell’interesse non deve essere inteso comeprezzo del denaro prestato, ma come dono per chi ha agito per amore civico: «Il domenicano non contesta la liceità dell’attribuzione di un 5% annuo ai creditori del Monte, ma ne propone una interpretazione come dono spontaneo, da parte della comunità, che manifesta così la sua gratitudine al cittadino» (Roberto Lambertini, "Il dibattito medievale sul consolidamento del debito pubblico dei Comuni", 2009). L’interesse che, coerentemente con la sua etimologia (inter-esse>), era inteso come il legame in un rapporto di reciprocità tra doni. Ma se quel 5% è dono, allora, diversamente da Francesco da Empoli, per i domenicani il possessore del titolo non può rivenderlo, perché i doni non si vendono.
Ed è qui che entra in gioco un elemento decisivo, ripreso e potenziato dall’agostiniano Gregorio da Rimini: la retta intenzione. Ciò che rende quel 5% lecito è l’intenzione con la quale la città lo paga e il cittadino lo riceve. Se l’intenzione, di uno o di entrambe le parti, è il lucro privato, quell’interesse è illecito; se è il bene comune, è lecito. Da qui la non ammissibilità del commercio dei titoli, proprio perché in chi vende e acquista non c’è più l’originario bene comune, ma solo il lucro privato.
Interessante, infine, la spiegazione che dà Gregorio per affermare che la città di Venezia non aveva la retta intenzione nell’emettere quei titoli di debito. Per il teologo agostiniano, è il pagamento della stessa percentuale del 5% a tutti, senza dunque tener conto delle diverse condizioni soggettive dei prestatori, delle loro ricchezza e necessità, che rende illecito quel debito pubblico; come a dire che quella mancata differenziazione evidenzia l’intenzione di lucro e non di bene comune. È l’antica idea che l’uguaglianza sostanziale, quindi la giustizia, non coincide con quella formale.
Oggi siamo nuovamente in una fase fondativa, a livello europeo, sul senso di debiti, di prestiti, di tasse, di interessi. Quei primi dibattiti etici hanno molte cose da dirci. Ci dicono che le intenzioni contano, contano ancora in economia. I Paesi europei hanno accettato l’emissione di molto debito pubblico in questo tempo pandemico perché hanno interpretato le intenzioni di chi chiedeva e di chi concedeva prestiti. Un male comune - la pandemia di Covidc-19 - ha fatto riscoprire il bene comune, e quindi un altro interesse, il legame necessario tra debito e bene comune. In questo terribile 2020 abbiamo riscoperto anche il dono, i doni fatti e quelli ricevuti, dal dono della vita di medici e infermieri fino al dono del vaccino gratuito e universale. E se fosse anche l’inizio di una nuova economia?
* Avvenire, sabato 19 dicembre 2020 (ripresa parziale).
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio ... Francesco D’Agostino (dall’Avvenire) vuole dare lezioni a Rosy Bindi e mostra solo tutto il livore di un cattolicesimo che ha sempre confuso "Erode" con Cesare e Dio con "Mammona"!!!
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi". Il lavoro di Emilio Gentile, recensito da Riccardo Chiaberge
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
Federico La Sala
PROFETI, SIBILLE, E MESSAGGIO EVANGELICO:
ANTONIO ROSMINI E LA "CHARITAS". Un invito a ...
Rileggere il testo della "BREVE DISSERTAZIONE DI ANTONIO ROSMINI SULLE SIBILLE" (Patricia Salomoni, "Rosmini Studies", 6, 2019). Che Rosmini abbia iniziato il suo percorso riflettendo sulle figure delle Sibille, è da considerarsi un fatto degno della massima attenzione - e, ovviamente, di ulteriore approfondimento!
La riflessione su tale tema, probabilmente, lo ha reso più vigile nel suo cammino e nella sua fedeltà alla lettera e allo spirito della "Charitas". Il "Kant italiano", infatti, iniziando il suo percorso con la tesi di laurea sulle Sibille (1822), non solo non ha perso il suo legame con la Grazia (Charis) e con le Grazie (Charites), ma - coerentemente - ha saputo custodire anche l’«h» della Charitas! E ha cercato di tenere ferma la sua distanza dalla logica economica - sempre più dilagante - della "carità" del "mercato" ("caritas") e, al contempo, dalla politica di sostegno alla diffusione della "eu-carestia" - a tutti i livelli. Ma, alla fine, non è riuscito a coniugare - come voleva, in spirito di verità e carità - - il rapporto tra filosofia (sapienza pagana) e rivelazione (sapienza ebraica).
Già all’inizio del suo percorso, benché partito con buona volontà e - kantianamente ("Sapere aude!") - con gran coraggio, infatti, egli s’inchina all’autorità di sant’Agostino ("De Civitate Dei", XVIII, 47) e - pur rendendosi conto con lo stesso Agostino che "qualsiasi predizione su Cristo poteva essere dichiarata falsa dagli empi e soggiacere al medesimo discredito, sia che si trattasse degli oracoli delle Sibille o delle profezie degli Ebrei" - conclude con un "non è gradito a Lui stesso che, nelle dispute, noi dedichiamo troppe energie più a quelli che a queste" e attribuisce la palma della credibilità solo a "queste .. certissime, luminosissime, custodite dal popolo ebraico a noi assai ostile, e protette da ogni corruzione con incomparabile ed encomiabile cura nel corso di molti secoli" (P. Salomoni, cit, p. 227).
A partire da "queste" premesse (promesse già non mantenute!), ovviamente, accolta solo la parola dei "profeti" non si può che rinarrare e riscrivere la vecchia "storia dell’Amore" di Adamo ed Eva:
E così, contravvenendo frettolosamente alle regole morali del suo stesso "metodo filosofico", il suo desiderio di lasciarsi guidare "in tutti i suoi passi dall’amore della verità", come dalla carità ("charitas") piena di grazia (charis), resta confinato nell’orizzonte della caduta e della minorità - e la presenza delle Sibille insieme ai Profeti nella Volta della Cappella Sistina è ancora un grosso problema!
Federico La Sala
UNA "GALLERIA DI PAPI", LA "DONAZIONE DI COSTANTINO", E "IL GRANDE ROMANZO DEI PAPI" ... *
“Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro” di Riccardo Ferrigato. Intervista ...
di Letture*
Dott. Riccardo Ferrigato, Lei è autore del libro Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro edito da Newton Compton: in che modo la storia dell’umanità si è intrecciata con quella millenaria di una delle più influenti istituzioni che l’umanità abbia creato, il papato?
Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro, Riccardo FerrigatoFare riferimento alla “storia dell’umanità” è forse eccessivo, ma di certo il papato è stato elemento di notevole influenza per la storia europea e, in maniera più limitata e differenziata, per quella di alcune aree extraeuropee in cui il cattolicesimo ha avuto una significativa diffusione. In che modo lo ha fatto? Secondo registri completamente differenti, cioè mutando, modificandosi, adeguandosi ai tempi: non credo sia possibile che un’istituzione sopravviva altrimenti per un così lungo periodo.
Il vescovo di Roma ha maturato nei secoli, per gradi, un ruolo preminente all’interno della Chiesa - ruolo che, almeno nel primo millennio della sua storia, era tutt’altro che incontestato - e contemporaneamente ha giocato un ruolo politico in continuo divenire, con fasi di crescita e altre di declino, guadagnando il proprio spazio di manovra tra imperi, regni e repubbliche. Difficile sintetizzare in poche righe la parabola di questo percorso, ma direi così: finché il potere politico di un re o un imperatore ha avuto bisogno di giustificare la propria autorità attraverso il trascendente, il papa è stato un riferimento indispensabile. Questo, in realtà, ha determinato spesso la sottomissione della cattedra di Pietro ai bisogni di questa o quella corona, ma anche la crescita, lasciando persino spazio al sogno, mai realizzato, di mettere il vicario di Cristo al vertice dell’intero occidente.
In che modo da un modesto pescatore di Galilea si è giunti a fare del vescovo di Roma un monarca?
Il pescatore di Galilea, Pietro, primo tra gli apostoli di Gesù di Nazaret, non immaginava una chiesa strutturata in maniera verticista, probabilmente non pensava a figure assimilabili a quelle dei vescovi e lontanissima da lui era l’idea di una singola persona a capo di tutti i cristiani. Da ebreo qual era, immaginava piuttosto i fedeli riuniti secondo le modalità con cui la religione del suo popolo si organizzava da sempre, in piccole comunità collegate ma indipendenti, pronte all’imminente parusia, la venuta di Gesù alla fine dei tempi. Figuriamoci se può mai aver immaginato un vescovo che diviene monarca, cioè che assume su di sé anche un potere temporale!
In estrema sintesi, questo è stato possibile grazie a tre passaggi. Il primo è stato frutto dell’azione di Costantino, che ha dato alla chiesa una struttura affine a quella del potere imperiale, affiancando alle strutture di governo civile quelle ecclesiastiche. In secondo luogo, con la caduta dell’impero romano d’Occidente, la chiesa ha rafforzato la propria funzione politica, con i vescovi, a Roma e altrove, che divennero custodi - si pensi a Leone e Gregorio Magno - dei propri territori di influenza. Infine, l’alleanza con i Franchi di Pipino il Breve: nell’VIII secolo questo sovrano in cerca di una sacra investitura (Pipino non era re per diritto di nascita) conquistò al papa i territori di quello che divenne lo Stato della Chiesa. Di fatto Pipino e Stefano II, il papa dell’epoca, si legittimarono sul trono a vicenda.
Come è stato possibile che santi e martiri abbiano condiviso il medesimo scranno dei dissoluti papi del Rinascimento?
I papi sono stati 266 e questa gran massa di uomini rappresenta un completo campionario dell’animo umano: ogni passione - ma anche ogni vizio, ogni virtù - è stata incarnata. D’altra parte la cattedra di Pietro è un luogo di potere e il potere ha un effetto determinante sugli esseri umani, ne porta alla luce e ne inasprisce i tratti dell’animo.
La maggior parte degli uomini e delle donne possono permettersi di trascorrere una vita all’insegna di una tranquilla mediocritas: né troppo buoni né troppo malvagi, non ci è richiesto di dimostrare grande coraggio o eccezionali doti. Per un sovrano è diverso: nessuna via di mezzo per chi porta la corona, egli sarà vile o temperante, magnanimo o malvagio, perché il potere nelle sue mani è determinante per la vita o la morte di comunità intere.
Nel caso specifico del pontefice, poi, la tensione tra il potere politico e quello spirituale ha determinato spesso una vera iattura. Di norma ci riferiamo ai papi dissoluti del Rinascimento come a coloro che hanno umiliato la cattedra di Pietro - concubinari, nepotisti, festaioli, rivestiti di pietre e tessuti preziosi - ma alcuni di loro, con trame e strategie raffinate, hanno salvato la Chiesa del loro tempo. Al contrario, sant’uomini e personaggi di specchiata moralità, poiché sprovvisti di astuzia politica, hanno talvolta determinato la rovina dell’istituzione di cui erano a capo. Essere insieme re e sommi sacerdoti è come essere servi di due padroni e raccapezzarcisi non è semplice. Per questo Paolo VI poté dichiarare che era stata la Divina provvidenza, nel 1870, a togliere al papa l’incombenza di una corona da sovrano.
Quali sono state le figure di pontefici che maggiormente hanno inciso sulla storia del papato? La lista sarebbe lunghissima e, alla fine, non potrebbe risultare esaustiva. Tante e tali sono le rivoluzioni in questa storia di venti secoli, e tanti i frangenti sui quali un pontefice risulta determinante, che classifiche del genere sono davvero impossibili. In tempi recenti, però, non c’è alcun dubbio: la vera rivoluzione è stata quella di Giovanni XXIII e Paolo VI, grazie al coraggio del primo - quello di inaugurare un concilio, un vero concilio, aperto alla discussione e senza esiti predeterminati - e alla tenacia del secondo, che quell’assemblea ha condotto felicemente in porto. Un esito tutt’altro che scontato. Si tratta di una vicenda esemplare di come due pastori profondamente diversi per temperamento, per estrazione sociale, per esperienze pregresse, uniti quasi solo dalle comuni radici lombarde, abbiano governato la Chiesa con stili diversi, ma siano stati capaci di guardare nella medesima direzione. Purtroppo, però, il modello di una Chiesa maggiormente assembleare si è dovuto poi scontrare con un pontificato, quello di Giovanni Paolo II, fortemente accentratore. La Chiesa è così: si muove lentamente e, anche se talvolta subisce accelerazioni improvvise, la resistenza al cambiamento - la resilienza delle sue strutture secolari - rimane uno dei suoi caratteri distintivi.
Come è destinata a cambiare nel futuro, a Suo avviso, questa istituzione?
Previsioni di questo genere sono destinate a rivelarsi sempre inaccurate e, nel caso della Chiesa cattolica, è particolarmente difficile districarsi tra le tante correnti che spingono la barca di Pietro in diverse direzioni. Inoltre, la Chiesa è una struttura gerarchica, verticista, dove ogni cambio di pontefice può generare rivolgimenti prima impensati, tanto quanto le reazioni conseguenti. Bergoglio ha dato un’impronta, in questi anni, ma nessuno garantisce che il successore vorrà seguire il suo stesso percorso.
Su almeno un punto, però, la direzione è chiara poiché si tratta di un cambiamento ormai duraturo e inarrestabile: la Chiesa sta divenendo sempre più “cattolica”, vale a dire universale. Paesi un tempo marginali oggi guadagnano di importanza; cattedre vescovili prima considerate irrilevanti oggi si fanno centrali, mentre da decenni si parla di un’Europa scristianizzata. La Chiesa, da questo punto di vista, sta mutando lentamente ma inesorabilmente e anche il papato ne risentirà. Se si vuole un metro di giudizio, basti pensare a coloro che oggi entrerebbero in un immaginario conclave. Gli arcivescovi di città come Milano o Parigi rimarrebbero nei loro palazzi, dato che non sono cardinali; lo sono invece quelli di Kigali, in Ruanda, o di Bangui nella Repubblica centrafricana. E questi sono solo alcuni dei tanti che potrei riportare.
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Fonte: Letture.org
NOTE:
A) - [LA "GALLERIA DEI PAPI"]: CELEBRANDOSI #OGGI [10.11.2020] LA FIGURA DI PAPA #LEONEMAGNO (https://it.wikipedia.org/wiki/Incontro_di_Leone_Magno_con_Attila ), SUL FILO DELLA #MEMORIA DI #RAFFAELLO E #GIULIOII, è BENE RICORDARE DI FARE QUANTO PRIMA UNA VISITA ALLA #GALLERIADEIPAPI DI #PALAZZOALTIERI AD #ORIOLOROMANO...
B) - #Rinascimento e #filologia:"#Erasmo non ha ancora scritto il suo #Elogiodellafollia [pubblicato nel 1511], #Lutero non ha ancora affisso le sue #tesi" [rese pubbliche nel 1517], #AntonioFerrariis, il #Galateo, dona nel 1510 a #GiulioII un esemplare greco della #DonazionediCostantino.
C) - #DANTE2021 #RINASCIMENTO #OGGI. Svegliarsi dal #sonnodogmatico, accogliere l’analisi di #LorenzoValla (https://it.wikipedia.org/wiki/Donazione_di_Costantino) e l’indicazione antropologico-politica dei #DueSoli
Federico La Sala
LO SPIRITO DEL CATTOLICESIMO: LA CATTEDRA DI SAN PIETRO UNA CATTEDRA DI ECONOMIA POLITICA....*
L’analisi.
Il tempo è bene comune, ma lo abbiamo dimenticato
di Luigino Bruni (Avvenire, domenica 29 novembre 2020)
Il tempo è di Dio. Quindi l’usuraio, che vende il tempo, lucra su un bene non suo. Era questa una delle argomentazioni più antiche contro il prestito a interesse. In questa natura divina del tempo si nasconde però qualcos’altro di molto importante per capire la nascita del capitalismo: «L’usuraio agisce contro la legge naturale universale, perché egli vende il tempo, che è comune a tutte le creature. Poiché dunque l’usuraio vende ciò che appartiene necessariamente a tutte le creature, egli lede tutte le creature in generale; anche le pietre, donde risulta che anche se gli uomini tacessero davanti agli usurai le pietre griderebbero». Nella sua "Summa aurea", Guglielmo d’Auxerre (1160-1229) aggiunge qui una dimensione importante, espressione dell’umanesimo biblico. Il tempo è di Dio quindi è «comune a tutte le creature». È un bene comune, e in quanto tale non può essere oggetto di commercio a scopo di lucro. Sarebbe appropriazione privata di un bene comune. Il tempo, dunque, non sarebbe solo un bene divino, ma anche un bene comune globale e cosmico («le pietre»).
L’umanità biblica aveva imparato la natura del tempo soprattutto durante l’esilio babilonese. Lì maturò lo shabbat, un giorno con un tempo di qualità diversa che con la sua sola presenza rende tutto il tempo non appropriabile. Perché se c’è un giorno della settimana non a disposizione dell’uomo in quanto fuori dal suo dominio e dal suo imperio, allora su tutto il tempo c’è un crisma di gratuità che lo pone al di fuori del registro acquisitivo e commerciale. Ecco perché in quello stesso esilio maturò in Israele il divieto di prestito a interesse. Il tempo biblico è dono e tutta la terra è terra promessa mai raggiunta.
Forse l’eredità biblica più importante è un rapporto non-predatorio con il tempo e con la terra. Inoltre, il tempo biblico porta iscritto in sé il segno del peccato. L’uscita dal tempo ciclico dell’Eden e l’ingresso nel tempo storico è figlio di un disordine nel rapporto tra gli umani, tra gli umani e la creazione (il serpente) e tra la creazione e Dio. Il tempo degli uomini nasce ferito, anche se quella ferita ha generato la benedizione dell’Alleanza e un’altra salvezza. L’umanesimo biblico ha anche inventato il tempo storico e lineare, perché la storia tende verso un fine, ha un inizio e guarda in avanti. La Bibbia ha, insomma, inventato il futuro, e quindi il passato. Il suo tempo non è ciclico, mitico, circolare. L’Alleanza e l’attesa del Messia hanno dato al tempo una direzione, hanno posto sulla punta della linea del tempo una freccia, un senso. Il cristianesimo, poi, con l’incarnazione e la resurrezione ha rafforzato e radicalizzato questa natura lineare del tempo.
Ma esiste una tensione necessaria tra il tempo lineare e il tempo bene comune. Finché il mondo è restato statico e molto lento, la Chiesa è riuscita a tenerli insieme. Lo ha fatto con diversi strumenti. Innanzitutto nei monasteri, con l’organizzazione della liturgia. Il tempo liturgico è un meccanismo che intrappola lo scorrere lineare del tempo dentro un ritmo circolare, dove il tempo rituale vince il tempo storico. Il tempo-quantità scorre e passa, ma il tempo-qualità, scandito dalla liturgia, dona al tempo umano un timbro divino e quindi eterno. I monasteri incantavano le persone perché promettevano una vita eterna, di sconfiggere la morte. -Nella vita dei laici, poi, i calendari, le feste, le campane, il ritmo della vita e delle stagioni, i tempi ciclici dell’anno liturgico, cercavano di curvare il tempo lineare per contenerlo dentro il ciclo costante e perenne della religione. Lo spazio era segnato e marcato dalle immagini e dai segni sacri, edicole, tabernacoli, e le distanze misurate ad "avemarie". Così il tempo passava, ma a un livello profondo restava lo stesso. Era come se il tempo avesse due livelli: uno più superficiale che scorreva linearmente, e uno più profondo che restava immutato perché divino. In questo umanesimo non c’erano quindi le pre-condizioni culturali e concrete per rendere legittimo il prestito a interesse. E chi chiedeva il compenso per un tempo che in profondità non cambiava, faceva un atto contro natura - contro la natura del tempo.
Quando tutto ciò entrò in crisi? Quando cominciò a cambiare il mondo. Pensiamo all’arte, e ai primi tentativi di introdurre, già con Giotto, la profondità e lo spazio reale dentro gli affreschi, che produssero la prospettiva, dove il tempo e il movimento entrano nella pittura. L’epoca di Guglielmo di Auxerre era poi anche quella di Gioacchino da Fiore e della sua teologia dell’avvento prossimo dell’«età dello Spirito», che avrebbe fatto seguito a quella del Padre (Antico Testamento) e a quella del Figlio (Nuovo testamento). La sua era una visione qualitativa del tempo, guidata da un meccanismo dinamico. La fine della vita di Gioacchino (1202) si interseca con l’inizio di quella di Francesco. I francescani escono dalle mura dei monasteri per tornare nomadi e mendicanti lungo le strade. In questi stessi anni, ripartono anche i pellegrinaggi. E con il movimento inizia a cambiare il senso del tempo.
Altri grandi camminatori e attraversatori di spazi erano i mercanti: «Tutti gli humani devono aspirare all’acquisto delle Virtù, dalle quali vien partorita la Gloria; e fra le molte vie, che a quella conducono, tre specialmente sono le più comuni. L’una delle armi, l’altra delle lettere, e quella dei Negozi. La prima è pericolosa, la seconda quieta, la terza faticosa» (Giovanni Domenico Peri, "Il negoziante", 1672). Fu l’avvento dei mercanti quello decisivo per la rivoluzione nella concezione del tempo. Il mercante attraversa città e regioni, organizza operazioni complesse, crea un rapporto nuovo con il tempo. Vive di tempo: deve prevedere le oscillazioni dei mercati, le inflazioni, le guerre, le carestie. Deve speculare (parola che viene da specula, specere: guardare lontano) sui differenziali delle quotazioni delle monete, che in quel tempo erano moltissime, compresa la "moneta immaginaria" presente sui mercati europei tra Carlo Magno e la rivoluzione francese. Il mercante inventa contratti nuovi (lettere di cambio, commenda), crea le prime forme di assicurazione, impara a convivere col rischio. Anche il contadino dipendeva dal tempo e dal rischio, ma il tempo della campagna e delle stagioni era un tempo "subìto", ingestibile, libero e padrone. Il mercante no: lui anticipa il tempo, lo controlla, lo asservisce, ne fa il primo elemento del suo business. Diventa un esperto del tempo. Nel suo mestiere il presente diventa futuro (cambiali) e il futuro presente (sconto). Per il contadino il tempo è un vincolo, per il mercante la sua prima opportunità. Il contadino continuerà a misurare le distanze in "avemarie", il mercante con mappe e astrolabio. Il contadino vive in un luogo, il mercante abita lo spazio.
Il mercante allora commercia con il tempo, e così il tempo economico inizia a non essere più il tempo della Chiesa. Ma fu la stessa Chiesa a rendere lecito, o almeno possibile, il commercio del tempo. Lo fece con la creazione del Purgatorio. In questo stesso periodo esplode, infatti, in Europa la realtà del Purgatorio (già presente nei primi secoli cristiani), che svolse un ruolo centrale nel cambiamento della nozione di tempo (Jacques Le Goff). Con il Purgatorio la struttura binaria che aveva dominato il primo millennio - inferno/paradiso, città di Dio/città dell’uomo, virtù/vizio... - evolve in ternaria. Prima che il tempo iniziasse a essere venduto dai mercanti e dai banchieri con la legittimazione del tasso d’interesse, il tempo era stato venduto con il Purgatorio. Perché, visto da questa prospettiva, il Purgatorio non è altro che la possibilità di comprare tempo sulla terra a vantaggio dei morti. Pregare e pagare indulgenze per i defunti significa fare del tempo un oggetto di scambio. In una visione binaria e polare paradiso/inferno il tempo non può essere in vendita, perché non c’è modo sulla terra di influenzare il cielo. Coll’introduzione della "terza via" del Purgatorio le azioni sulla terra modificano il tempo dei defunti. E se si può mercanteggiare il tempo dei morti, possiamo farlo anche con quello dei vivi.
Il passaggio da un mondo "a due" ad un mondo "a tre" sviluppò, poi, dentro lo stesso cristianesimo lo spazio dell’imperfezione, delle realtà intermedie, della terra di mezzo, dei compromessi, dei condoni, dell’arancione nei semafori; delle mediazioni tra divieto e liceità, tra tempo divino e tempo mercantile. Iniziano o si amplificano le casistiche, le distinzioni, le differenze: quelle tra danno emergente e lucro cessante, tra interesse-profitto e interesse-rendita. Il tempo uscì dal dominio esclusivo di Dio e della religione. Dapprima divenne un dominio condiviso e conteso tra Dio e l’uomo. L’antica natura divina e di bene comune del tempo non scomparve, divenne parziale ma restò viva e operante, e consentì per molti secoli di distinguere tra uso lecito e illecito del tempo, tra interessi buoni e interessi usurai, tra mercanti virtuosi e disonesti, tra imprenditori e speculatori. Il mercante aveva impugnato qualche filo della corda del tempo ma all’altro capo restava salda la mano di Dio e quindi della comunità. Il tempo a proprietà mista ha consentito lo sviluppo dell’economia europea, e, al tempo stesso, l’ha tenuta ancorata alle comunità.
Con questo "tempo misto" siamo arrivati alle soglie della modernità, quando il tempo è divenuto solo una faccenda umana, e quindi totalmente e soltanto merce. Perdendo il suo legame con il divino, il tempo ha anche smarrito la natura di bene comune. E cancellando il tempo come bene comune abbiamo perso anche il senso del Bene comune. Ma anche se noi lo trattiamo come merce privata, il tempo resta un bene comune. E quindi è soggetto alla "tragedia dei beni comuni": usandolo con una logica privatistica lo stiamo distruggendo, senza accorgercene. La distruzione del tempo la vediamo con l’ambiente, dove la distruzione del tempo sta diventando distruzione del futuro in un’economia tutta giocata al presente. Un tempo non interamente merce e ancora bene comune legava le generazioni tra di loro, donava ai figli tempo per diventare migliori dei padri e delle madri. Dobbiamo reinventarci subito e insieme un rapporto non predatorio col tempo e con lo spazio. I giovani ci devono aiutare, senza di loro non ce la faremo, perché la nostra generazione ha disimparato un buon rapporto con il tempo e con la terra. Possiamo chiederlo ai giovani, dobbiamo chiederlo ai bambini.
(4 - continua)
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CATTOLICESIMO (E CRISTIANESIMO) OGGI, 2012: LA CATTEDRA DI SAN PIETRO UNA CATTEDRA DI ECONOMIA POLITICA. Tutti a scuola in Vaticano, per aggiornamenti. Materiali per approfondire
FLS
Tutte le voci cantano la Fede e la Speranza
Virtù teologali. Sul tema Eugenio Borgna ripercorre le strade cliniche delle terapie psichiatriche e ricorda le riflessioni di scrittori e pensatori, da Leopardi a Sant’Agostino, da Kierkegaard a Bloch.
di Gianfranco Ravasi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 08.11.2020, p. X)
«È sperare la cosa difficile - a voce bassa e vergognosamente. E la cosa facile è disperare, ed è la grande tentazione». Così Charles Péguy nel suo poema Il portico del mistero della seconda virtù (1911), dedicato a questa che è appunto la seconda delle virtù teologali, la «sorella più piccola» rispetto alle altre due, la fede e la carità. Ma, come spesso accade ai bambini che strattonano i loro genitori fermi per strada davanti alle vetrine o a chiacchierare con una persona incontrata, è la speranza a far avanzare le due sorelle maggiori nella via della vita.
A questa virtù e al suo rovescio oscuro, la disperazione, lo psichiatra Eugenio Borgna ha riservato un fascicolo essenziale di pagine, ma che mettono a dura prova il recensore perché sarebbero quasi semplicemente da trascrivere, tanto sono trasparenti e intense, frutto anche di una ricerca come la sua, condotta non solo sui picchi innevati e soleggiati della speranza ma anche negli abissi oscuri e nelle caverne tenebrose della disperazione. Strettamente parlando la sua riflessione è impostata su un dittico.
La prima tavola evoca l’orizzonte immenso che sboccia dalla speranza, vista come «infinita ricerca di senso». Curiosamente la parola spes è ancorata alla radice indoeuropea spat- che genera anche spatium. In realtà questa virtù è più annodata alla categoria «tempo», è infatti soprattutto proiezione sul futuro, sia pur tenendo i piedi piantati nel presente e con le spalle e il volto pronti a girarsi anche verso il passato. Non per nulla il secondo quadro del dittico s’intitola la «speranza come memoria del futuro», intrecciando così in pienezza la tridimensionalità del tempo alla maniera agostiniana. Davanti alle due tavole il lettore è invitato a scoprire i registri molteplici che le compongono.
Da un lato, attesa e paura, etica ed escatologia, ma anche il piombare nel gorgo del suicidio. Emozionante è l’esegesi del diario di Pavese con le sue righe roventi, con le trame inquietanti e sospese fino all’approdo in quell’ultima pagina fremente che vira persino verso un’invocazione orante («Tu, abbi pietà») ma che sarà suggellata da un freddo dato di cronaca: «nella notte tra il 26 e il 27 agosto 1950 moriva ingerendo alte dosi di barbiturici». Borgna convoca, infatti, nella sua ricerca almeno due tipologie testimoniali. Ci sono le voci delle persone che hanno percorso le strade cliniche delle terapie psichiatriche.
L’autore, però, non le fa risuonare mai secondo un freddo referto medico (come è noto, egli ha praticato anche questa via nel manicomio femminile di Novara), bensì si rivela un compagno di viaggio, persino tenero e delicato, con la ricchezza della sua umanità che ben conoscono tutti coloro che l’hanno incontrato (tra l’altro, uno dei suoi testi precedente s’intitolava L’ascolto gentile).
D’altro lato, c’è una voce ulteriore dalle mille iridescenze, ed è quella molteplice degli scrittori, a partire dall’amato Leopardi, ma anche dei pensatori come Agostino, Kierkegaard o Bloch e persino del cinema col folgorante balenare del Posto delle fragole di Bergman, parabola ideale della «memoria del futuro», e dell’apostolo Paolo con la sua lezione sullo «sperare contro ogni speranza».
Come dicevamo, tante altre sono le suggestioni che fioriscono nel lettore di questo volumetto che è posto all’insegna di un incisivo detto leopardiano: «Insomma la disperazione medesima non sussisterebbe senza la speranza, e l’uomo non dispererebbe se non isperasse». Per il teologo, poi, è aperto un campo molto vasto di ricerca e non solo per la meta escatologica che regge il concetto di storia della salvezza (l’Apocalisse insegna), ma per il profilo stesso del Dio cristiano e per la sua parola che invita l’umanità ad alzare sempre lo sguardo, come è dimostrato dall’importante Teologia della speranza di Jürgen Moltmann (1964), tradotta dalla Queriniana di Brescia.
Si è già detto che la speranza ha una sorella maggiore nella carità, e a questa virtù dedica un suo studio un docente universitario, Stefano Biancu, ma lo fa da un’angolatura molto originale. Certo, il dettato ora è quello accademico e le pagine hanno rimandi sistematici e grondano di note, ma l’approccio potrà interessare molti. Se volessimo sintetizzarlo in modo semplificatorio, potremmo ricorrere proprio al titolo, Il massimo necessario. L’amore, infatti, è di sua natura eccedente, non calcola, anzi sciala, tant’è vero che quando due innamorati cominciano a soppesare il valore dei regali che si sono fatti, è segno che stanno per lasciarsi.
Non per nulla, il Nuovo Testamento ha coniato come suprema definizione divina quella giovannea che suona ho Thèos agápe estín, «Dio è amore». La carità s’incrocia con l’infinito e l’eterno e san Paolo ci ha lasciato uno strepitoso inno dell’agápe nel c. 13 della Prima Lettera ai Corinzi, ove dichiara che «la carità non avrà mai fine» (letteralmente «non cadrà mai»).
Per illustrare questa qualità «eccessiva» dell’amore, che diventa anche la cartina di tornasole dell’autentica etica, Biancu ricorre a un curioso vocabolo adottato dalla tradizione teologico-morale, «supererogatorio». Il termine ha la sua sorgente genetica nella versione latina di un celebre passo del Vangelo di Luca, quello dalla parabola del Buon samaritano (10,29‑37): dopo aver raccolto, curato e condotto in un albergo la vittima di un assalto di brigantaggio, il samaritano rassicura l’albergatore - al quale ha già consegnato due denari - di non esitare a «spendere di più» qualora fosse necessario, pronto a rifondere la spesa successivamente (v. 35).
Quello «spendere di più» nel greco neotestamentario è un hapax, prosdapanáô, che si basa sui termini correlati dapánê, «spesa», e dapanáô, «spendere», e che san Paolo userà in un’altra forma composita, ekdapanáô, proprio per indicare il suo «spendersi senza riserve, il consumarsi, il sacrificare se stesso» per l’evangelo (2Corinzi 12,15).
Eccoci, dunque, nel cuore dell’amore che anela al massimo della donazione e che, nel suo scritto, Biancu incarna in una categoria radicale, la fraternità. Essa si sostiene su una duplice base: da un lato, la libertà e l’uguaglianza, che appartengono alla modernità politica e secolare; d’altro lato sull’ospitalità e sul perdono, virtù pertinenti soprattutto alla morale religiosa e che, alla fine, sfociano nella «misericordia impensabile». Non per nulla, a quest’ultimo proposito, Antico e Nuovo Testamento, pur nella loro diversità linguistica, per esprimerla non ricorrono come nel nostro caso al «cuore» (misericordia), bensì al grembo materno (rahamîm in ebraico, splánchna in greco) che simboleggia un amore totale, assoluto, istintivo e radicale.
È quello che Cristo aveva rappresentato nell’asserto pronunciato nell’ultima sera della sua vita terrena nel Cenacolo: «Non c’è amore più grande di chi dà la vita per la persona che ama» (Giovanni 15,13). Naturalmente molto ramificato e sostenuto da un ampio apparato di riflessioni, di applicazioni, di rimandi alla ricerca filosofica è lo studio proposto dall’autore. Certo è che il paradigma del «supererogatorio » è un po’ la pietra di paragone del «dovere» veramente umano e dell’etica genuina, nonostante la deriva attuale che, tendendo sempre al minimo, impedisce e rende incapaci di tentare l’ascesa verso l’alto, fino al «massimo necessario».
Una delle domande conclusive che affiora nel testo è, allora, questa: «come pensare l’antropologia, l’etica, la politica a partire da ciò che è stato fino ad ora impensabile?».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM".
L’ULTIMO PAPA CEDE IL PASSO A ZARATHUSTRA: "CHI AMA, AMA AL DI LA’ DEL PREMIO E DELLA RIVALSA". Una pagina di Nietzsche
Federico La Sala
I diritti delle donne
Quel corpo è nostro
di Ilaria Romeo (Collettiva, 08.11.2020)
L’8 novembre 1975 la Cassazione dichiara valido il numero di firme raccolte per il referendum abrogativo delle norme che vietano l’aborto. Il voto si terrà l’anno successivo tra polemiche e dibattiti spesso animati da una chiara misoginia come lo scontro tra Italo Calvino che difendeva la libertà femminile e Claudio Magris e Pier Paolo Pasolini, antiabortisti
Per stimolare ed affrettare il Parlamento all’approvazione di una legge sulla interruzione volontaria della gravidanza, nel 1975 il Partito Radicale e il Mld prendono l’iniziativa di raccogliere le firme per un Referendum abrogativo delle norme del Codice penale che vietano l’aborto.
L’8 novembre 1975 la Cassazione dichiara valido il numero di firme per il referendum (se non subentrerà una nuova legge le votazioni dovranno tenersi tra il 15 aprile e il 15 giugno 1976). Scriveva Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera il 19 gennaio di quell’anno:
Un mese dopo anche lo scrittore Claudio Magris interverrà sulle pagine del Corriere esprimendo una posizione fortemente antiabortista e a tratti misogina che arrivava a irridere le misure igieniche in un articolo intitolato Gli sbagliati (nel 1981, imperterrito, Magris, in occasione del referendum sull’aborto, scriverà un altro articolo per il Corriere, schierandosi con gli avversari dell’aborto, come aveva già fatto. In questo caso però la testata aspetterà a pubblicare il pezzo all’indomani del referendum).
A Pasolini - e a Claudio Magris - risponde, a caldo, Italo Calvino:
Non dimentichiamo che fino a non tantissimi anni fa in Italia le donne non potevano votare, non potevano abortire né divorziare, potevano essere licenziate in caso di matrimonio, non potevano - da sposate - usare il proprio cognome, e se venivano uccise non era poi così grave, almeno non se si erano macchiate della colpa di aver leso l’onore maschile. Non dimentichiamo “che sarà sufficiente una crisi politica, economica o religiosa perché i diritti delle donne siano rimessi in discussione”. Non dimentichiamo e soprattutto rEsistiamo, ieri, oggi, sempre.
Vaticano.
Il Papa a Moneyval: impedire ai mercanti di speculare nel tempio dell’umanità
L’incontro con gli esperti del Comitato del Consiglio d’Europa, giunti in Vaticano per la valutazione periodica delle misure contro il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo
di Redazione Internet (Avvenire, giovedì 8 ottobre 2020)
Il Papa ha incontrato il Comitato Moneyval e li ha ringraziati per il loro servizio "a tutela di una finanza pulita, nell’ambito della quale ai ’mercanti’ è impedito di speculare in quel sacro tempio che è l’umanità, secondo il disegno d’amore del Creatore".
"Il lavoro che voi svolgete in relazione a questo duplice obiettivo mi sta particolarmente a cuore", ha detto il Papa sottolineando la necessità di "una finanza che non opprima i più deboli e i bisognosi". "Ritengo necessario ripensare al nostro rapporto col denaro", ha ribadito il Papa.
“Gesù ha scacciato dal tempio i mercanti e ha insegnato che non si può servire Dio e la ricchezza”, ha ricordato Francesco, secondo il quale “quando l’economia perde il suo volto umano, non ci si serve del denaro, ma si serve il denaro. È questa una forma di idolatria contro cui siamo chiamati a reagire, riproponendo l’ordine razionale delle cose che riconduce al bene comune,il denaro deve servire e non governare!”. E proprio per attuare tali principi, ha sottolineato il Papa, “l’Ordinamento vaticano ha intrapreso, anche recentemente, alcune misure sulla trasparenza nella gestione del denaro e per contrastare il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo”. Il 1° giugno scorso, infatti, è stato promulgato un Motu Proprio per una più efficace gestione delle risorse e per favorire la trasparenza, il controllo e la concorrenza nelle procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici, mentre i 19 agosto scorso, una ordinanza del presidente del Governatorato ha sottoposto le organizzazioni di volontariato e le persone giuridiche dello Stato della Città del Vaticano all’obbligo di segnalazione di attività sospette all’Autorità di Informazione Finanziaria.
Le politiche di antiriciclaggio e di contrasto al terrorismo costituiscono "uno strumento per monitorare i flussi finanziari, consentendo di intervenire laddove emergano tali attività irregolari o, addirittura, criminali. Gesù ha scacciato dal tempio i mercanti - ha detto Papa Francesco nell’udienza a Moneyval - e ha insegnato che non si può servire Dio e la ricchezza. Quando, infatti, l’economia perde il suo volto umano, non ci si serve del denaro, ma si serve il denaro. È questa una forma di idolatria contro cui siamo chiamati a reagire, riproponendo l’ordine razionale delle cose che riconduce al bene comune, secondo il quale il denaro deve servire e non governare".
Operare per una “finanza pulita”, nell’ambito della quale “ai mercanti è impedito di speculare in quel sacro tempio che è l’umanità, secondo il disegno d’amore del Creatore”, l’appello finale.
DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?!
Abitare le parole
Impronta.
SEGNAVIA DELLA NOSTRA STORIA
di Nunzio Galantino *
Per coprire il campo semantico della parola “impronta”, oltre al contributo che viene dalla derivazione etimologica, è opportuno porre attenzione al significato del termine χαρακτήρ che rende, in greco, la parola impronta e identificare gli attributi che, di volta in volta, l’accompagnano.
Sul piano etimologico, la parola impronta deriva dal latino imprĭmere (premere sopra, calcare). Χαρακτήρ - dal verbo χαράσσω (incidere, scolpire) - nella cultura greca è un nomen agentis: è cioè più di una traccia lasciata. È invece una persona che ritrae qualcuno o qualcosa. Come nella Bibbia (Ebr 1,3), dove Gesù è χαρακτὴρ τῆς ὑποστάσεως αὐτοῦ, è impronta - nel senso di piena ed esatta rappresentazione - della sostanza di Dio.
A proposito, poi, dell’impronta e degli attributi che l’accompagnano, si parla di impronta fisica lasciata da una parte del corpo o da uno strumento fisico, di impronta digitale cellulare e di impronta genetica. Sempre più spesso sentiamo, inoltre, rivolto a tutti l’invito a ridurre l’impronta ecologica; una sorta di indicatore che misura la quantità e la qualità del consumo delle risorse naturali prodotte dal pianeta Terra.
In senso generico, l’impronta è un segno tracciato con una pressione su una superficie. In senso figurato, la parola impronta indica una caratteristica che permette di identificare una persona o una sua produzione artistica, letteraria ecc. È vero che, almeno dal punto di vista fisico, non si può non lasciare un’impronta. Ma è anche vero che l’impronta non è solo il frutto inconsapevole di un gesto, di una presenza o di un passaggio.
Il più delle volte, proprio perché espressione di una identità, l’impronta è frutto di una scelta consapevole, attraverso la quale io, di fatto, racconto la mia vita, le priorità che mi guidano e la qualità che scelgo di far ricadere in modo incisivo sulle mie relazioni.
E, proprio perché contengono pezzi di noi e della nostra interiorità, le impronte possono trasmettere un’immagine positiva di noi o comunicarne una negativa. Sono lì, come segnavia della nostra storia personale.
Bisogna avere, di tanto in tanto, il coraggio di prenderle in mano e di fermarci per verificare cosa le impronte di cui disseminiamo la nostra presenza e le nostre relazioni stanno raccontando di noi.
Uno sguardo attento e onesto sulle impronte ci permetterebbe di verificare se, quelle lasciate nel cuore e nella storia delle persone incontrate sul nostro cammino, sono impronte che generano e tramettono vita o piuttosto dolorose cicatrici.
La storia personale e quella relazionale in genere vive di impronte lasciate e di impronte subìte, attraverso uno sguardo, una parola, una carezza o un’emozione provocata. Ma essa è esposta anche a impronte che assomigliano molto di più a ferite. Quelle provocate da rifiuti, sguardi indifferenti o evidenti strumentalizzazioni. Se le prime hanno la capacità di ricomporre pezzi di vita andati in frantumi, le altre, più che impronte, sono cicatrici che rendono sempre più insopportabile la vita.
*Rubrica de Il Sole 24ore, 28/09/2020.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MONSIGNOR RAVASI, MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA ? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA !!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas") ?!
Federico La Sala
L’anima e la cetra /21.
I fragili movimenti della fede
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 22 agosto 2020)
La fiducia è una relazione radicalmente vulnerabile. Quando una persona si fida di un’altra mette nelle sue mani qualcosa di proprio di cui l’altro può disporre e persino abusare. Sta in questa esposizione di colui che dà fiducia la radice di quella gioia speciale che proviamo quando qualcuno ripone in noi la sua fiducia, perché sentiamo che ci ha chiesto di custodire qualcosa di prezioso che riguarda la sua persona, la sua intimità, il suo mistero, anche quando passa attraverso semplici cose materiali. Questa condizione di vulnerabilità cresce con il valore di quel "qualcosa" che si deposita nelle mani dell’altro, nel "palmo della sua mano". Una vulnerabilità che ha anche un suo valore, ha delle proprietà tipiche che cambiano e in genere migliorano la natura di un rapporto. Mostrare all’altro la mia vulnerabilità, rendergliela intenzionalmente evidente, mentre ci rende più deboli ci rende anche più forti, grazie alla dimensione trasformativa della fiducia vulnerabile. La prima e più importante garanzia che chi ha ricevuto fiducia la onori sta nel suo sentirsi onorato dallo stesso atto di fiducia - troppi debiti non vengono onorati perché la nostra finanza invece di onorare il debitore lo umilia.
Se allora chi compie un atto di affidamento fa di tutto per ridurre e possibilmente annullare il rischio di abuso e tradimento intrinseco alla fiducia, finisce per ridurre e azzerare il valore di quel bene relazionale. Se, ad esempio, nello scrivere un contratto ne definisco i dettagli fino a includere tutte le possibili situazioni future al fine di prevenirmi da ogni possibile uso scorretto di quella relazione fiduciaria, sto dando alla controparte un messaggio di sfiducia che cambia la natura del rapporto che stiamo costruendo. Molti rapporti si bloccano sul nascere perché la volontà di escludere futuri abusi crea un clima di diffidenza che impedisce al rapporto di incominciare. La fiducia invulnerabile non è un bene. Lo vediamo nei confronti di mogli e mariti, dei figli e delle figlie, dei colleghi, degli amici, che amiamo e dai quali siamo amati finché siamo capaci di fidarci di loro (e loro di noi) senza avere garanzie perfette sulla loro reciprocità, sebbene da essa dipendiamo per la nostra felicità. In molti rapporti la fiducia è reciproca, è un incontro di beni relazionali, non necessariamente simmetrici. Quando poi la fiducia riguarda alcuni rapporti decisivi della nostra vita, la relazione di fiducia assume una forma ternaria: ci sono io che ho fiducia in te, ci sei tu di cui mi fido, e c’è un terzo che si pone tra noi due come garante o testimone.
È soprattutto la dimensione ternaria o trinitaria della fede e della fiducia che colpisce nel celebre Salmo 91, una preghiera cara a molte tradizioni religiose: «Tu che abiti negli atri dell’Altissimo, che passi la notte all’ombra dell’Onnipotente. Dì al Signore: "Mio rifugio e mia fortezza, mio Dio in cui confido"» (Salmo 91,1-2). È molto bello questo "trialogo" tra il protagonista del Salmo (che forse stava passando la notte in un tempio in attesa di un oracolo in sogno), il suo Dio e un terzo che gli insegna la fiducia-fede.
La fede biblica ha essenzialmente una natura ternaria. Tra il fedele e il suo Dio c’è qualcuno che gli dice che si può fidare. Questo qualcuno è un profeta, è Abramo o Mosè, è la Torah, ma è anche il fratello o la sorella nella fede. Il Salmo 91 non ci dice chi sia questo terzo personaggio che insegna la fede all’orante, e questo anonimato è molto bello perché quel "qualcuno" può essere qualsiasi persona, posso essere io, puoi essere tu. Non tutti abbiamo un profeta accanto a insegnarci la fede, ma tutti abbiamo una persona che ci può insegnare a credere e a fidarci. Una persona che ci dice: «Egli ti libererà dal laccio del cacciatore, dalla peste che distrugge. Ti coprirà con le sue penne, sotto le sue ali troverai rifugio; la sua fedeltà ti sarà scudo e corazza. Non temerai il terrore della notte né la freccia che vola di giorno, la peste che vaga nelle tenebre, l’epidemia che devasta a mezzogiorno» (91,3-6). E noi rispondiamo: «Sì, mio rifugio sei tu, o Signore!» (91,9): è il secondo movimento della fede, quando dopo aver creduto a chi gli ha insegnato la fede-fiducia, il credente fa la sua dichiarazione di fede. Questo movimento è secondo, perché prima c’è qualcuno che mi dona la fede - la fede finirà sulla terra quando l’ultimo credente smetterà di donarla a qualcuno.
Sta anche qui il senso e il valore della Tradizione: è la catena di persone che si sono insegnate la fede a vicenda, quella corda solidale spiegata nei secoli fatta di persone e di comunità che hanno imparato a credere in Dio credendo alle parole di persone, un dialogo continuo tra chi ci dice di fidarci, noi che rispondiamo con il nostro sì e poi diciamo ad altri di fidarsi delle parole nostre perché non-nostre. La fede biblica è credere in Dio credendo alle persone che ci parlano in suo nome mettendoci la faccia. È sempre esperienza comunitaria, un evento che accade in mezzo al popolo, è un rapporto di fiducia. A volte non siamo capaci di credere perché non siamo capaci di fidarci, e l’allenamento alla fiducia inter-umana è un’ottima preparazione alla fede. Chi non si fida di nessuno non crede neanche in Dio, chi si fida poco degli uomini si fida poco anche di Dio, e la fede diventa un atto cognitivo che non cambia la vita.
Infine il terzo movimento. Entra in scena Dio: «Lo libererò, perché a me si è legato, lo porrò al sicuro, perché ha conosciuto il mio nome. Mi invocherà e io gli darò risposta; nell’angoscia io sarò con lui, lo libererò e lo renderò glorioso. Lo sazierò di lunghi giorni e gli farò vedere la mia salvezza» (91,13-16). Nel formulare la sua promessa, Dio si espone alla possibilità del non avveramento di queste parole, perché la storia è un continuo spettacolo di persone fedeli e giuste che invocano e non hanno risposta, che non sono resi gloriosi, che conoscono il fallimento. E questo perché la fede biblica condivide la stessa vulnerabilità inscritta in ogni rapporto di fiducia vera, che è vera perché vulnerabile. Perché non abbiamo conoscenza diretta di colui di cui ci fidiamo, lo conosciamo solo "per sentito dire" (Giobbe), lo conosciamo perché lo abbiamo "sentito dire" da chi ci siamo fidati. Perché sia noi sia Dio cambiamo in continuazione, ogni mattina dobbiamo ricredere a quello che avevamo creduto fino a ieri notte - la fede è un atto di fiducia coniugato al presente. Una tappa decisiva della fede matura consiste nel prendere un giorno coscienza che quando pronunciamo la parola "Dio", la parola più bella, famigliare e intima, non sappiamo cosa stiamo dicendo - ma continuiamo a dirla, perché queste parole possono solo essere amate. Ecco perché all’inizio di alcune grandi vocazioni bibliche c’è un affidamento complicato: Mosè non vuole tornare in Egitto, Geremia recalcitra, Giona fugge, Samuele ha bisogno di quattro chiamate per dire "eccomi", Elia per rialzarsi e continuare il cammino dovette imparare a udire il silenzio e YHWH dovette imparare a sussurrare.
Se l’affidamento della fede non fosse rischioso e vulnerabile la fede non sarebbe un’esperienza autenticamente umana, e diventando credenti diventeremmo meno umani. E chi nella vita ha incontrato una voce che lo/la chiamava e ha risposto, sa che quel rischio è reale ed effettivo, perché sa che qualche volta anche le vocazioni autentiche vanno a male, si smarriscono, si perdono nell’immenso dolore (loro e di Dio). Non sappiamo perché anche le vocazione vere finiscono male. Il fallimento fa parte della condizione umana, e una vocazione infallibile sarebbe semplicemente disumana. Ed è questa possibilità che la fede-fiducia riposta in un mistero possa andar male che la rende esperienza umanissima, simile in dignità alla maternità, al nascere e al morire. La nostra fede è esperienza interamente umana per la sua dimensione tragica. Si può essere pienamente umani senza stimare la fede e chi crede, ma non si può credere senza stimare l’umanità, tutta, senza lasciare fuori nulla nel tragitto che porta dall’inferno al paradiso, e ritorno.
Questo Salmo fu citato da Satana, nell’episodio delle tentazioni di Cristo: «Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: "Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra"» (Mt 4,5-6). Satana qui cita il versetto 12 del Salmo 91. E Gesù risponde a Satana ribadendo la natura di affidamento della fede biblica: «Sta scritto anche: "Non metterai alla prova il Signore Dio tuo"» (Mt 4,7).
Un messaggio importante di questo splendido versetto che finisce sulla bocca di Satana è l’eccedenza della Bibbia rispetto ai suoi soli usi buoni. Anche il diavolo conosce bene e usa la stessa scrittura conosciuta e usata dagli evangelisti, a dirci che conoscere e citare la Bibbia non offre nessuna garanzia di vita, né di autenticità di dottrina. C’è un uso diabolico della scrittura, persino dei Salmi e della preghiera, al punto che Satana prende una delle preghiere più sublimi e alte del Salterio per tentare Gesù. L’uso della Bibbia di Gesù e quello di Satana coesistono dentro di noi - ne fossimo almeno coscienti!
Sta anche qui la vulnerabilità della Bibbia: le sue parole sono lì, esposte nella pubblica piazza del mondo, e chiunque le può usare per pregare, per amare meglio, per imparare a vivere; ma tutti le possiamo usare anche per maledire, per condannare, per tentare, per manipolare gli uomini e Dio, per bestemmiare. Anche Dio si fida di noi, ripone nel nostro cuore le sue parole, e noi possiamo tradirle.
Nell’inferno non c’è soltanto "pape satàn pape satàn aleppe", ci saranno forse anche parole bibliche abusate e violentate. Dio, scegliendo di farsi parola, di parlarci in parole umane, ha scelto di condividere la nostra fragilità. Anche in questo ci somiglia. È il quarto movimento della fede.
Papa Francesco: non valido battesimo con formula ’noi battezziamo’
La Congregazione per la Dottrina della Fede interviene per fermare la ’creatività’ di alcuni sacerdoti
di Redazione ANSA *
CITTA DEL VATICANO.
La Congregazione per la Dottrina della Fede interviene dunque per fermare la ’creatività’ di alcuni sacerdoti che cambiano le formule dei riti dei sacramenti pensando di migliorarle.
"Recentemente vi sono state celebrazioni del Sacramento del Battesimo amministrato con le parole: ’A nome del papà e della mamma, del padrino e della madrina, dei nonni, dei familiari, degli amici, a nome della comunità noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo’. A quanto sembra, la deliberata modifica della formula sacramentale - riferisce la Congregazione per la Dottrina della Fede - è stata introdotta per sottolineare il valore comunitario del Battesimo, per esprimere la partecipazione della famiglia e dei presenti e per evitare l’idea della concentrazione di un potere sacrale nel sacerdote a discapito dei genitori e della comunità".
Ma l’"io", che il sacerdote deve pronunciare ha un valore dottrinale ben preciso: "segno-presenza dell’azione stessa di Cristo". "Nel caso specifico del Sacramento del Battesimo, il ministro non solo non ha l’autorità di disporre a suo piacimento della formula sacramentale, per i motivi di natura cristologica ed ecclesiologica sopra esposti, ma non può nemmeno dichiarare di agire a nome dei genitori, dei padrini, dei familiari o degli amici, e nemmeno a nome della stessa assemblea radunata per la celebrazione", spiega la Congregazione per la Dottrina della Fede.
Ora si apre la questione dei battesimi celebrati con questo rito errato. Al quesito "Coloro per i quali è stato celebrato il Battesimo con la suddetta formula devono essere battezzati in forma assoluta?", la risposta del Vaticano è: "affermativamente". "Negativamente" è la risposta che si dà al quesito principale: "È valido il Battesimo conferito con la formula: ’Noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo’?".
In pratica i battesimi con la formula ’noi’ è come se non fossero mai stati fatti. Anche se comunque nel Catechismo della Chiesa Cattolica - secondo quanto spiegato da esperti in Vaticano - potrebbe trovarsi una via d’uscita per evitare il ’ripetersi’ del sacramento. Anche perché senza il Battesimo, a cascata non sono validi neanche gli altri sacramenti, dalla Cresima alla Comunione, dal Matrimonio alla Confessione. Nel Catechismo si stabilisce infatti che "Dio ha legato la salvezza al sacramento del Battesimo, tuttavia egli non è legato ai suoi sacramenti". Sempre nel Catechismo ci sono aperture per i non battezzati: "Ogni uomo che, pur ignorando il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, cerca la verità e compie la volontà di Dio come la conosce, può essere salvato". (ANSA).
L’anima e la cetra /19.
Il grembo del seme diverso
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 1 agosto 2020)
La reciprocità è la benedizione e la maledizione dei nostri patti e delle nostre promesse. Siamo impastati di reciprocità, la desideriamo e la speriamo dopo i nostri doni, l’attendiamo sotto forma di stima dopo aver consegnato l’opera del nostro lavoro, e nessun amore riesce a fiorire in pienezza se ad un certo punto non diventa amore reciproco.
Quando il cristianesimo volle sintetizzare il messaggio di Gesù in un’unica legge non trovò nulla di meglio di un comando di reciprocità - "amatevi gli uni gli altri". Nell’umanesimo cristiano l’amore è ancora imperfetto finché non produce altro amore in ritorno.
L’agape, nel suo dover-essere, è amare ed essere amati. Questo sigillo di mutualità iscritto, indelebile, nel cuore della persona e delle comunità, genera un’indigenza radicale di riconoscenza e di riconoscimento, e quindi di attese e aspettative di reciprocità che non di rado sfiorano la pretesa. Non controlliamo la stima degli altri né la loro gratitudine, ma senza ci sentiamo parziali, insoddisfatti e incompiuti.
Ecco allora che molta infelicità, frustrazione e persino violenza si gioca sul confine tra desiderio e attesa, sperare e pretendere, libertà ed obbligo. Impara bene il mestiere del vivere chi, dopo aver appreso per tutta la vita la grammatica delle molte reciprocità, dopo averla infinitamente amata e compresa come il pane e l’acqua dei rapporti importanti, riesce un giorno ad imparare ad andare oltre la reciprocità, a vivere anche senza quel pane e quell’acqua. E lì inizia l’età di una nuova povertà e di una mitezza adulta, comincia il tempo della mansuetudine lieta. Perché capiamo che la nostra dignità è più grande della reciprocità, e che nessuna reciprocità può saziare la nostra sete e fame d’infinito, che ci accompagneranno, in crescendo, per tutta la vita. Ed ad accogliere le poche reciprocità come puro dono e stupore.
«Canterò in eterno la lealtà del Signore, di generazione in generazione farò conoscere con la mia bocca la tua fedeltà, perché ho detto: "È un amore edificato per sempre; nel cielo rendi stabile la tua fedeltà". "Ho stretto un’alleanza con il mio eletto, ho giurato a Davide, mio servo. Stabilirò per sempre la tua discendenza"» (Salmo 89,2-5).
L’inizio del Salmo ricorda un rito nuziale, o un’alleanza tra due popoli, dove ciascuno dice la sua promessa e edifica il patto come incontro di due "per sempre". Poi, in nome del popolo, si eleva l’inno d’amore: «I cieli cantano le tue meraviglie, oh YHWH, la tua fedeltà nell’assemblea dei santi... Beato il popolo che ti sa acclamare» (89,6-17). Quindi il salmo ricorda a Dio la sua promessa: «Un tempo parlasti in visione ai tuoi leali, dicendo: "Ho portato aiuto a un prode, ho esaltato un eletto tra il mio popolo. Ho trovato Davide, mio servo, con il mio santo olio l’ho consacrato... Stabilirò per sempre la sua discendenza, il suo trono come i giorni del cielo... Non annullerò il mio amore e alla mia fedeltà non verrò mai meno. Non profanerò la mia alleanza, non muterò la mia promessa"» (89,20-36). Parole simili a quelle che ritroviamo sulla bocca del profeta Natan nel Secondo Libro di Samuele (cap. 7), alle quali forse il salmista si è ispirato, insieme ai poemi babilonesi (tra questi l’Enuma Elis).
Ed è qui, precisamente al versetto 39, dove si trova il centro drammatico del salmo. Quando, dopo aver ridetto il proprio amore e ricordato a Dio il suo, la preposizione avversativa "ma tu" imprime una svolta al canto e ne svela il senso: «Ma tu lo hai respinto e disonorato, ti sei adirato contro il tuo consacrato; hai spezzato l’alleanza con il tuo servo, hai profanato nel fango la sua corona... Hai posto fine al suo splendore, hai rovesciato a terra il suo trono. Hai abbreviato i giorni della sua giovinezza» (89,39-46).
Ecco l’esilio, la roccia dove si è infranta la storia della salvezza, il fumo-vanitas che ha avvolto la promessa, la spada che ha reciso quel patto di reciprocità. Un Salmo composto in Babilonia, quando la grande prova d’Israele fu la (quasi) certezza che il suo Dio si fosse dimenticato dell’alleanza. I profeti lessero l’esilio come conseguenza necessaria dell’infedeltà del
popolo - a ricordarci che è sempre molto difficile attraversare i nostri esili ed uscirne innocenti nell’anima. Ma tra quelle rovine religiose nacque anche la preghiera più sublime della Bibbia, Israele imparò a pregare diversamente.
Le parole che formano l’ossatura del canto sono hesed e emét. Hesed è una dimensione dell’amore che ricorda soprattutto la lealtà dentro rapporti durevoli. È l’amore leale, che quindi confina con fedeltà e affidabilità, cioè con emét. Emét rimanda a verità e fedeltà, e ha la stessa radice di ’aman (credere), emunah (fede) e amen (è vero, ci credo) la parola con cui si chiude questo salmo. Alla base di emét c’è un’idea di solidità, di verità in quanto evidenza, di "puntellare" (che è il primo significato del verbo ’aman).
Un senso nascosto anche nell’alfabeto ebraico: emét è composto da tre lettere che poggiano saldamente ciascuna su due "gambe", mentre la parola "falso", seqer poggia su un solo punto, barcolla, è instabile. È questa la fede biblica, che a differenza di quella greca e poi illuminista non è un atto cognitivo della ragione teso a credere in principi o enti, ma un prendere atto di una realtà che ha la sua evidenza-verità intrinseca e concreta. Sono le mani e i piedi i primi strumenti di questa fede.
La sovrapposizione tra queste due parole, che si muovono dentro il perimetro semantico di verità-fede-fedeltà-lealtà, è la chiave per entrare nel segreto di questo salmo. Il salmista chiede al suo Dio, che è il Dio dell’alleanza e quindi il Dio del patto reciproco, di essere più grande della reciprocità. E la possibilità di questa operazione paradossale sta soprattutto nella semantica della bellissima parola emét, che significa ad un tempo: verità e fedeltà. Torna di nuovo quel "ricordati di te" così comune nei salmi. Quando seduti sulle macerie del passato, nel tempo del fallimento e della sventura, la prima preghiera non è più quella dei tempi ordinari: «Dio ricordati di me». Nei tempi tremendi l’esercizio della memoria diventa radicale e stupendo. L’uomo fa ricorso alla risorsa di ultima istanza e osa dire a Dio: "ricordati di te", ricordati di chi sei. E nasce la preghiera più bella, quella che diciamo a Dio ma anche quella che ci diciamo tra di noi quando, seduti sul mucchio di spazzatura di ciò che resta dei nostri patti, troviamo ancora le forze per un’ultima richiesta: "ricordati chi eri, ricordati chi sei".
La fedeltà ad un patto ha quindi la sua radice e ragione nella verità. Un’espressione simile che si legge in altri salmi è: "per amore del tuo nome". Come a dire: "Tu YHWH non sei come noi, che siamo legati e imprigionati dentro la legge di reciprocità e di condizionalità dei nostri patti. Tu sei più grande perché sei capace di continuare ad essere fedele ad un patto anche quando noi lo tradiamo, tu sei Dio vero perché sei libero anche dalla reciprocità. Per questo devi essere fedele al tuo nome, devi essere leale al tuo ’per sempre’ proprio e perché noi non lo siamo più. Sii più grande della libertà che ci hai donato". Ed è stato così, ripetendo queste preghiere, che anche noi abbiamo imparato a pronunciare i nostri "per sempre". Ricordando a Dio i suoi "per sempre" siamo diventati capaci di dirli anche noi. E quindi abbiamo imparato il perdono, anche noi abbiamo appreso una fedeltà più grande per amore del "nostro nome", per una misteriosa fedeltà vera a noi stessi che ci ha fatto diventare, qualche volta, migliori delle nostre reciprocità.
Nei secoli, questo salmo è stato pregato da molti uomini e donne che davanti alle macerie della vita adulta hanno ricordato a Dio la verità della prima alleanza e della prima vocazione; e mentre la ricordavano a Dio l’hanno ricordata a se stessi, in una nuova esperienza di reciprocità - da adulti la verità-fedeltà al nostro "nome" può risorgere solo se qualcun altro ce la ricorda. Sappiamo che all’inizio c’era stata una voce vera, una chiamata e un’alleanza. Abbiamo risposto con generosità, abbiamo creduto a quella verità più vera. E abbiamo iniziato il cammino, ci siamo impolverati lungo la strada, e un giorno ci siamo ritrovati in esilio in una terra straniera, anche quando non eravamo mai usciti da una casa o da un convento. Si diventa adulti dentro una vocazione quando si riesce a capire che la vita che stiamo facendo non è quella che volevamo fare, e nasce una profonda sensazione di infedeltà, una infedeltà che non è tradimento ma svelamento della verità della prima voce. Qualche volta, lungo questi fiumi, riusciamo anche noi a gridare a Dio "ricordati di te", per dirgli: "io non ce l’ho fatta a custodire la fedeltà del primo patto, ma tu devi essere fedele. E se tu sei fedele al patto con me non mi manca nulla, è un bel modo di invecchiare e di morire". Se la fede è anche corda (fides) allora si continua la scalata e non si precipita finché uno dei due non molla la presa.
Molto bella e misteriosa è la conclusione del salmo, il suo ultimo "ricordati": «Ricorda mio Signore: nel mio ventre io porto dei popoli il disonore» (89,51). Come non leggere qui una eco del canto del servo di Isaia?! («Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori»: 53,4). Il poeta diventa nelle sue viscere (in sinu) immagine del popolo sofferente, esiliato, umiliato. Molto bello il commento di Guido Ceronetti a questo verso: «Se c’è un principio unificatore non d’invenzione teologica è questo disonore che ci accomuna. Ma in questo testo è anche la Scrittura stessa che parla, e dice di sé, con implacabile spudoratezza sacra, quel che ha portato del mondo e nel mondo» (Il libro dei salmi, p. 274).
Tutti i grembi dei servi e delle serve sofferenti della storia sono stati il luogo dove è maturato un seme diverso, che un giorno si raccolse nel seno di una vergine. Il "rallegrati o Maria" è la risposta ai tanti "ricordati o Dio".
Una voce
Che cos’è la paura?
di Giorgio Agamben (Quodlibet, 13 luglio 2020)
Che cos’è la paura, nella quale oggi gli uomini sembrano a tal punto caduti, da dimenticare le proprie convinzioni etiche, politiche e religiose? Qualcosa di familiare, certo - eppure, se cerchiamo di definirla, sembra ostinatamente sottrarsi alla comprensione.
Della paura come tonalità emotiva, Heidegger ha dato una trattazione esemplare nel par. 30 di Essere e tempo. Essa può esser compresa solo se non si dimentica che l’Esserci (questo è il termine che designa la struttura esistenziale dell’uomo) è sempre già disposto in una tonalità emotiva, che costituisce la sua originaria apertura al mondo. Proprio perché nella situazione emotiva è in questione la scoperta originaria del mondo, la coscienza è sempre già anticipata da essa e non può pertanto disporne né credere di poterla padroneggiare a suo piacimento.
La tonalità emotiva non va infatti in alcun modo confusa con uno stato psicologico, ma ha il significato ontologico di un’apertura che ha sempre già dischiuso l’uomo nel suo essere al mondo e a partire dalla quale soltanto sono possibili esperienze, affezioni e conoscenze. «La riflessione può incontrare esperienze solo perché la tonalità emotiva ha già aperto l’Esserci». Essa ci assale, ma «non viene né dal di fuori né dal di dentro: sorge nell’essere-al-mondo stesso come una sua modalità».
D’altra parte questa apertura non implica che ciò a cui essa apre sia riconosciuto come tale. Al contrario, essa manifesta soltanto una nuda fatticità: «il puro “che c’è” si manifesta; il da dove e il dove restano nascosti». Per questo Heidegger può dire che la situazione emotiva apre l’Esserci nel «essere-gettato» e «consegnato» al suo stesso «ci». L’apertura che ha luogo nella tonalità emotiva ha, cioè, la forma di un essere rimesso a qualcosa che non può essere assunto e da cui si
cerca - senza riuscirci - di evadere.
Ciò è evidente nel malumore, nella noia o nella depressione, che, come ogni tonalità emotiva, aprono l’Esserci «più originariamente di ogni percezione di sé», ma anche lo chiudono «più recisamente di qualsiasi non-percezione». Così nella depressione «L’Esserci diventa cieco nei confronti di se stesso; il mondo ambiente di cui si prende cura si vela, la previsione ambientale si oscura»; e, tuttavia, anche qui l’Esserci è consegnato a un’apertura da cui non può in alcun modo liberarsi.
È sullo sfondo di questa ontologia delle tonalità emotive che occorre situare la trattazione della paura. Heidegger comincia con l’esaminare tre aspetti del fenomeno: il «davanti a che» (wovor) della paura, l’«aver paura» (Furchten) e il «per-che» (Worum) della paura. Il «davanti a che», l’oggetto della paura è sempre un ente intramondano. Ciò che spaventa è sempre - quale che sia la sua natura - qualcosa che si dà nel mondo e che, come tale, ha il carattere della minacciosità e della dannosità. Esso è più o meno noto, «ma non per questo rassicurante» e, quale che sia la distanza da cui proviene, si situa in una determinata prossimità. «L’ente dannoso e minaccioso non è ancora a distanza controllabile, ma si avvicina. Man mano che esso si avvicina, la dannosità si intensifica e produce così la minaccia... In quanto si avvicina, il dannoso diventa minaccioso, possiamo esserne colpiti o no. Nel farsi più vicino si accresce questo «è possibile ma forse anche no”... l’avvicinarsi di ciò che è nocivo ci fa scoprire la possibilità di essere risparmiati, del suo passar oltre, ma questo non sopprime né diminuisce la paura, anzi l’accresce» (pp. 140-41). (Questo carattere per così dire «certa incertezza» che caratterizza la paura è evidente anche nella definizione che ne dà Spinoza: una «tristezza incostante», in cui «si dubita dell’evento di qualcosa che si odia»).
Quanto al secondo carattere della paura, il temere (lo stesso «aver paura»), Heidegger precisa che non viene prima previsto razionalmente un male futuro, che poi, in un secondo tempo, viene temuto: fin dall’inizio, piuttosto, la cosa che si avvicina è scoperta come temibile. «Solo avendo paura, la paura può, osservando espressamente, rendersi conto di ciò che fa paura. Ci si accorge di ciò che fa paura, perché ci si trova già nella situazione emotiva della paura. Il temere, in quanto possibilità latente dell’essere-al-mondo emotivamente disposto, la paurosità, ha già scoperto il mondo in modo tale, che da esso possa avvicinarsi qualcosa che fa paura» (p. 141). La paurosità, in quanto apertura originaria dell’Esserci, precede sempre ogni determinabile paura.
Quanto, infine, al «per-che», al «per chi e per che cosa» la paura ha paura, in questione è sempre l’ente stesso che ha paura, l’Esserci, quest’uomo determinato. «Solo un essere per il quale nel suo esistere, ne va del suo stesso esistere, può spaventarsi. La paura apre questo ente nel suo essere in pericolo, nel suo essere abbandonato a se stesso» (ibid.). Il fatto che a volte si prova paura per la propria casa, per i propri beni o per gli altri non è un’obiezione contro questa diagnosi: si può dire di «aver paura» per un altro, senza per questo veramente spaventarsi e, se si prova effettivamente paura, è per noi stessi, in quanto temiamo che l’altro ci venga strappato.
La paura è, in questo senso, un modo fondamentale della disposizione emotiva, che apre l’essere umano nel suo essere già sempre esposto e minacciato. Di questa minaccia si danno naturalmente diversi gradi e misure: se qualcosa di minaccioso, che ci sta davanti col suo «per ora non ancora, ma tuttavia in qualsiasi momento», piomba improvvisamente su questo essere, la paura diventa spavento (Erschrecken); se il minaccioso non è già noto, ma ha il carattere dell’estraneità più profonda, la paura diventa orrore (Grauen). Se esso unisce in sé entrambi questi aspetti, allora la paura diventa terrore (Entsetzen). In ogni caso, tutte le diverse forme di questa tonalità emotiva, mostrano che l’uomo, nella sua stessa apertura al mondo, è costitutivamente «impaurito».
La sola altra tonalità emotiva che Heidegger esamina in Essere e tempo è l’angoscia ed è all’angoscia - e non alla paura - che viene attribuito il rango di tonalità emotiva fondamentale. E, tuttavia, è proprio in relazione alla paura che Heidegger può definirne la natura, distinguendo innanzitutto «ciò davanti a cui l’angoscia è angoscia da ciò davanti a cui la paura è paura» (p. 186). Mentre la paura ha sempre a che fare con qualcosa, il «“davanti a che” dell’angoscia non è mai un ente intramondano». Non solo la minaccia che qui si produce non ha il carattere di un possibile danno ad opera di una cosa minacciosa, ma «il “davanti a che” dell’angoscia è completamente indeterminato. Questa indeterminatezza non solo lascia del tutto indeciso da quale ente intramondano venga la minaccia, ma sta a significare che, in generale, l’ente intramondano è “irrilevante”» (ibid.). Il «davanti a che» dell’angoscia non è un ente, ma il mondo come tale. L’angoscia è, cioè, l’apertura originaria del mondo in quanto mondo (p. 187) e «solo perché l’angoscia determina già sempre latentemente l’essere-al-mondo dell’uomo, questi... può provare paura. La paura è un’angoscia caduta nel mondo, inautentica e nascosta a se stessa» (p. 189).
È stato non senza ragione osservato che il primato dell’angoscia rispetto alla paura che Heidegger afferma può essere facilmente rovesciato: invece di definire la paura come un’angoscia diminuita e decaduta in un oggetto, si può altrettanto legittimamente definire l’angoscia come una paura privata del suo oggetto. Se si toglie alla paura il suo oggetto, essa si trasforma in angoscia. In questo senso, la paura sarebbe la tonalità emotiva fondamentale, in cui l’uomo è già sempre a rischio di cadere. Di qui il suo essenziale significato politico, che la costituisce come ciò in cui il potere, almeno a partire da Hobbes, ha cercato il suo fondamento e la sua giustificazione.
Proviamo a svolgere e proseguire l’analisi di Heidegger. Significativo, nella prospettiva che qui ci interessa, è che la paura si riferisca sempre a una «cosa», a un ente intramondano (nel caso presente, al più piccolo degli enti, un virus). Intramondano significa che esso ha smarrito ogni relazione con l’apertura del mondo ed esiste fattiziamente e inesorabilmente, senza alcuna possibile trascendenza. Se la struttura dell’essere-al-mondo implica per Heidegger una trascendenza e un’apertura, è proprio questa stessa trascendenza a consegnare l’Esserci alla sfera della cosalità. Essere-al-mondo significa infatti essere cooriginariamente rimesso alle cose che l’apertura del mondo rivela e fa apparire. Mentre l’animale, privo di mondo, non può percepire un oggetto come oggetto, l’uomo, in quanto si apre a un mondo, può essere assegnato senza scampo a una cosa in quanto cosa.
Di qui la possibilità originaria della paura: essa è la tonalità emotiva che si dischiude quando l’uomo, perdendo il nesso fra il mondo e le cose, si trova irremissibilmente consegnato agli enti intramondani e non può venire a capo del suo rapporto con una «cosa», che diventa ora minacciosa. Una volta smarrita la sua relazione al mondo, la «cosa» è in se stessa terrorizzante. La paura è la dimensione in cui cade l’umanità quando si trova consegnata, come avviene nella modernità, a una cosalità senza scampo. L’essere spaventoso, la «cosa» che nei film del terrore assale e minaccia gli uomini, non è in questo senso che una incarnazione di questa inaggirabile cosalità.
Di qui anche la sensazione di impotenza che definisce la paura. Chi prova paura cerca di proteggersi in ogni modo e con ogni possibile accorgimento dalla cosa che lo minaccia - ad esempio indossando una mascherina o chiudendosi in casa -, ma questo non lo rassicura in alcun modo, anzi rende ancora più evidente e costante la sua impotenza a far fronte alla «cosa». Si può definire, in questo senso, la paura come l’inverso della volontà di potenza: il carattere essenziale della paura è una volontà di impotenza, il voler-essere-impotente di fronte alla cosa che fa paura. Analogamente, per rassicurarsi ci si può affidare a qualcuno cui si riconosce una qualche autorità in materia - ad esempio a un medico o ai funzionari della protezione civile - ma questo non abolisce in alcun modo la sensazione di insicurezza che accompagna la paura, che è costitutivamente una volontà di insicurezza, un voler-essere-insicuro. E questo è tanto vero che gli stessi soggetti che dovrebbero rassicurare intrattengono invece l’insicurezza e non si stancano di ricordare, nell’interesse degli impauriti, che ciò che fa paura non può essere vinto e eliminato una volta per tutte.
Come venire a capo di questa tonalità emotiva fondamentale, nella quale l’uomo sembra costitutivamente sempre in atto di precipitare? Dal momento che la paura precede ed anticipa la conoscenza e la riflessione, è inutile cercare di convincere l’impaurito con prove e argomenti razionali: la paura è innanzitutto l’impossibilità di accedere a un ragionamento che non sia suggerito dalla stessa paura. Come scrive Heidegger, la paura «paralizza e fa perdere la testa» (p. 141). Così di fronte all’epidemia si è visto che la pubblicazione di dati e opinioni certi provenienti da fonti autorevoli era sistematicamente ignorata e lasciata cadere in nome di altri dati e opinioni che non provavano nemmeno a essere scientificamente attendibili.
Dato il carattere originario della paura, si potrebbe venirne a capo solo se fosse possibile accedere a una dimensione altrettanto originaria. Una tale dimensione esiste ed è la stessa apertura al mondo, nella quale soltanto le cose possono apparire e minacciarci. Le cose diventano spaventose perché dimentichiamo la loro coappartenenza al mondo che le trascende e, insieme, le rende presenti.
L’unica possibilità di recidere la «cosa» dalla paura da cui sembra inseparabile è ricordarsi dell’apertura in cui essa è già sempre esposta e rivelata. Non il ragionamento, ma la memoria - il ricordarsi di sé e del nostro essere al mondo - può restituirci l’accesso a una cosalità libera dalla paura. La «cosa» che mi atterrisce, per quanto invisibile allo sguardo, è, come tutti gli altri enti intramondani - come quest’albero, questo torrente, quest’uomo - aperta nella sua pura esistenza. Solo perché io sono al mondo, le cose possono apparirmi e, eventualmente, farmi paura. Esse fanno parte del mio essere al mondo, e questo - e non una cosalità astrattamente separata e eretta indebitamente a sovrano - detta le regole etiche e politiche del mio comportamento. Certo, l’albero può spezzarsi e cadermi addosso, il torrente straripare e allagare il paese e quest’uomo improvvisamente colpirmi: se questa possibilità diventa improvvisamente reale, un giusto timore suggerisce le opportune cautele senza cadere nel panico e senza perdere la testa, lasciando che altri fondi il suo potere sulla mia paura e, trasformando l’emergenza in una stabile norma, decida a suo arbitrio quello che io posso o non posso fare e cancelli le regole che garantivano la mia libertà.
Primato e infallibilità
A 150 anni dalla proclamazione dei dogmi
di Sergio Centofanti (L’Osservatore Romano, 17 luglio 2020)
Centocinquant’anni fa, il 18 luglio 1870, veniva promulgata la costituzione Pastor Aeternus che definiva i due dogmi del primato del Papa e dell’infallibilità pontificia.
Lunghe e agitate discussioni
La costituzione dogmatica venne approvata all’unanimità dai 535 padri conciliari presenti «dopo lunghe, fiere e agitate discussioni», come ebbe a dire Paolo VI durante un’udienza generale, descrivendo quella giornata come «una pagina drammatica della vita della Chiesa, ma non per questo meno chiara e definitiva» (Udienza generale 10 dicembre 1969). Ottantatré i padri conciliari che non parteciparono al voto. L’approvazione del testo arrivò nell’ultimo giorno del concilio Vaticano i, sospeso in seguito alla guerra franco-prussiana iniziata il 19 luglio 1870 e prorogato “sine die” in seguito alla presa di Roma da parte delle truppe italiane, il 20 settembre di quello stesso anno, che sancì di fatto la fine dello Stato pontificio. La costituzione rispecchia una posizione intermedia tra le varie riflessioni dei partecipanti, escludendo per esempio che la definizione di infallibilità fosse estesa integralmente anche alle encicliche o ad altri documenti dottrinali. Ai contrasti emersi nel concilio, seguì lo scisma dei vetero-cattolici che non vollero accettare il dogma sul magistero infallibile del Papa.
Il dogma sulla razionalità e soprannaturalità della fede
I due dogmi vennero proclamati dopo quello sulla razionalità e la soprannaturalità della fede, contenuto nell’altra costituzione dogmatica del concilio Vaticano i Dei Filius del 24 aprile 1870. Il testo afferma che «Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza al lume naturale della ragione umana attraverso le cose create; infatti, le cose invisibili di Lui vengono conosciute dall’intelligenza della creatura umana attraverso le cose che furono fatte (Romani, 1, 20)». Questo dogma - spiegava Paolo VI nell’udienza del 1969 - riconosce che «la ragione, con le sue sole forze, può raggiungere la conoscenza certa del Creatore attraverso le creature. La Chiesa difende così, nel secolo del razionalismo, il valore della ragione», sostenendo da una parte «la superiorità della rivelazione e della fede sulla ragione e sulle sue capacità», ma dichiarando, d’altra parte, che «nessun contrasto può esserci tra verità di fede e verità di ragione, essendo Dio la fonte dell’una e dell’altra».
Il dogma sul primato
Nella Pastor Aeternus, Pio IX, prima della proclamazione del dogma sul primato, ricorda la preghiera di Gesù al Padre perché i suoi discepoli siano «una cosa sola»: Pietro e i suoi successori sono «l’intramontabile principio e il visibile fondamento» dell’unità della Chiesa. Quindi, afferma solennemente: «Proclamiamo dunque ed affermiamo, sulla scorta delle testimonianze del Vangelo, che il primato di giurisdizione sull’intera Chiesa di Dio è stato promesso e conferito al beato Apostolo Pietro da Cristo Signore in modo immediato e diretto (...) Ciò che dunque il Principe dei pastori, e grande pastore di tutte le pecore, il Signore Gesù Cristo, ha istituito nel beato Apostolo Pietro per rendere continua la salvezza e perenne il bene della Chiesa, è necessario, per volere di chi l’ha istituita, che duri per sempre nella Chiesa la quale, fondata sulla pietra, si manterrà salda fino alla fine dei secoli (...) Ne consegue che chiunque succede a Pietro in questa Cattedra, in forza dell’istituzione dello stesso Cristo, ottiene il Primato di Pietro su tutta la Chiesa (...) tutti, pastori e fedeli, di qualsivoglia rito e dignità, sono vincolati, nei suoi confronti, dall’obbligo della subordinazione gerarchica e della vera obbedienza, non solo nelle cose che appartengono alla fede e ai costumi, ma anche in quelle relative alla disciplina e al governo della Chiesa, in tutto il mondo. In questo modo, avendo salvaguardato l’unità della comunione e della professione della stessa fede con il Romano Pontefice, la Chiesa di Cristo sarà un solo gregge sotto un solo sommo pastore. Questa è la dottrina della verità cattolica, dalla quale nessuno può allontanarsi senza perdita della fede e pericolo della salvezza».
Il Magistero infallibile del Papa
Nel primato del Papa - scrive Pio IX - «è contenuto anche il supremo potere di magistero», conferito a Pietro e ai suoi successori «per la salvezza di tutti», come «conferma la costante tradizione della Chiesa (...) Ma poiché proprio in questo tempo, nel quale si sente particolarmente il bisogno della salutare presenza del ministero Apostolico, si trovano parecchie persone che si oppongono al suo potere, riteniamo veramente necessario proclamare, in modo solenne, la prerogativa che l’unigenito Figlio di Dio si è degnato di legare al supremo ufficio pastorale. Perciò Noi, mantenendoci fedeli alla tradizione ricevuta dai primordi della fede cristiana, per la gloria di Dio nostro Salvatore, per l’esaltazione della religione Cattolica e per la salvezza dei popoli cristiani, con l’approvazione del sacro Concilio proclamiamo e definiamo dogma rivelato da Dio che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando esercita il suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani, e in forza del suo supremo potere Apostolico definisce una dottrina circa la fede e i costumi, vincola tutta la Chiesa, per la divina assistenza a lui promessa nella persona del beato Pietro, gode di quell’infallibilità con cui il divino Redentore volle fosse corredata la sua Chiesa nel definire la dottrina intorno alla fede e ai costumi: pertanto tali definizioni del Romano Pontefice sono immutabili per se stesse, e non per il consenso della Chiesa».
Quando ricorre l’infallibilità
Giovanni Paolo II ha spiegato il senso e i limiti dell’infallibilità nell’udienza generale del 24 marzo 1993: «L’infallibilità - ha affermato - non è data al Romano Pontefice come a persona privata, ma in quanto adempie l’ufficio di pastore e di maestro di tutti i cristiani. Egli inoltre non la esercita come avente l’autorità in se stesso e da se stesso, ma “per la sua suprema autorità apostolica” e “per l’assistenza divina a lui promessa nel Beato Pietro”. Infine, egli non la possiede come se potesse disporne o contarvi in ogni circostanza, ma solo “quando parla dalla cattedra”, e solo in un campo dottrinale limitato alle verità di fede e di morale e a quelle che vi sono strettamente connesse (...) il Papa deve agire come “pastore e dottore di tutti i cristiani”, pronunciandosi su verità riguardanti “fede e costumi”, con termini che manifestino chiaramente la sua intenzione di definire una certa verità e di richiedere la definitiva adesione ad essa di tutti i cristiani. È quanto avvenne - per esempio - nella definizione dell’Immacolata Concezione di Maria, circa la quale Pio IX affermò: “È una dottrina rivelata da Dio e dev’essere, per questa ragione, fermamente e costantemente creduta da tutti i fedeli”; o anche nella definizione della Assunzione di Maria Santissima, quando Pio XII disse: “Con l’autorità di Nostro Signore Gesù Cristo, dei Beati Apostoli Pietro e Paolo, e con la nostra autorità, dichiariamo e definiamo come dogma divinamente rivelato... ecc.”. A queste condizioni si può parlare di magistero papale straordinario, le cui definizioni sono irreformabili “di per sé, non per il consenso della Chiesa” (...) I Sommi Pontefici possono esercitare questa forma di magistero. E ciò è di fatto avvenuto. Molti Papi però non lo hanno esercitato».
Cos’è un dogma
I dogmi sono verità di fede che la Chiesa insegna come rivelate da Dio (cfr. Catechismo della Chiesa cattolica, 74-95). Sono punti fermi del nostro credere. I principali sono questi: Dio è Uno e Trino; il Padre è creatore di tutte le cose; Gesù, il Figlio, è vero Dio e vero uomo, incarnato, morto e risorto per la nostra salvezza; lo Spirito Santo è Dio; la Chiesa è una, così come uno è il Battesimo. E poi ancora: il perdono dei peccati, la risurrezione dei morti, l’esistenza di Paradiso, Inferno e Purgatorio, la transustanziazione, la maternità divina di Maria, la sua verginità, la sua Immacolata concezione e la sua Assunzione. Tutte queste verità non sono astratte e fredde, ma vanno comprese nella grande verità di Dio che è amore e vuole partecipare la vita divina alle sue creature. Gesù rivela quali sono i comandamenti più grandi: l’amore di Dio e del prossimo (Matteo, 22, 36-40). Alla fine della vita saremo giudicati sull’amore.
Dogmi e sviluppo della dottrina
Un dogma, dunque, è un punto saldo per la vita di fede. Viene definito dal Magistero della Chiesa che lo riconosce nella Sacra Scrittura come rivelato da Dio e in stretto legame con la Tradizione. La Tradizione, tuttavia, non è qualcosa di immobile e statico, ma - come dice Giovanni Paolo II (Lettera apostolica Ecclesia Dei) sulla scia dell’ultimo concilio - è viva e dinamica in quanto cresce l’intelligenza della fede. Non cambiano i dogmi, ma grazie allo Spirito Santo comprendiamo sempre di più l’ampiezza e la profondità delle verità di fede. Così, Papa Wojtyła può affermare «che l’esercizio del magistero concretizza e manifesta il contributo del Romano Pontefice allo sviluppo della dottrina della Chiesa» (Udienza generale, 24 marzo 1993).
Primato, collegialità, ecumenismo
Paolo VI, nell’udienza del 1969, rivendicava l’attualità del concilio Vaticano i e la connessione con il concilio successivo: «I due Concili Vaticani, primo e secondo, sono complementari» anche se differiscono non poco «per tanti motivi». Così, l’attenzione alle prerogative del Pontefice nel Vaticano i viene estesa nel Vaticano II a tutto il popolo di Dio con i concetti di «collegialità» e «comunione», mentre la focalizzazione sull’unità della Chiesa che ha in Pietro il punto di riferimento visibile si sviluppa in un forte impegno al dialogo ecumenico.
Tanto che Giovanni Paolo II nella Ut unum sint può lanciare un appello alle Comunità cristiane affinché si trovi una forma di esercizio del primato che, «pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova», come «servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli altri» (Ut unum sint, 95). E Papa Francesco nella Evangelii gaudium parla di una «conversione del papato». «Il Concilio Vaticano II - osserva - ha affermato che, in modo analogo alle antiche Chiese patriarcali, le Conferenze episcopali possono “portare un molteplice e fecondo contributo, acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente” (Lumen gentium, 23). Ma questo auspicio non si è pienamente realizzato, perché ancora non si è esplicitato sufficientemente uno statuto delle Conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale. Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria» (Evangelii gaudium, 32). E occorre ricordare che, secondo quanto affermato dal concilio Vaticano II, «l’infallibilità promessa alla Chiesa risiede pure nel corpo episcopale quando esercita il supremo magistero col successore di Pietro» (Lumen gentium, 25).
Amare il Papa e la Chiesa è costruire su Cristo
Al di là dei dogmi, Pio X ricordava, in una udienza del 1912, la necessità di amare il Papa e di obbedirgli e si diceva addolorato quando questo non accadeva. Don Bosco esortava i suoi collaboratori e i suoi ragazzi a custodire nel cuore i “tre amori bianchi”: l’Eucaristia, la Madonna e il Papa.
E Benedetto XVI il 27 maggio 2006, parlando a Cracovia con i ragazzi cresciuti con Giovanni Paolo II, spiega in parole semplici quanto affermano quelle verità di fede proclamate nel lontano 1870: -«Non abbiate paura a costruire la vostra vita nella Chiesa e con la Chiesa! Siate fieri dell’amore per Pietro e per la Chiesa a lui affidata. Non vi lasciate illudere da coloro che vogliono contrapporre Cristo alla Chiesa! C’è un’unica roccia sulla quale vale la pena di costruire la casa. Questa roccia è Cristo. C’è solo una pietra su cui vale la pena di poggiare tutto. Questa pietra è colui a cui Cristo ha detto: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Matteo, 16, 18). Voi giovani avete conosciuto bene il Pietro dei nostri tempi. Perciò non dimenticate che né quel Pietro che sta osservando il nostro incontro dalla finestra di Dio Padre, né questo Pietro che ora sta dinanzi a voi, né nessun Pietro successivo sarà mai contro di voi, né contro la costruzione di una casa durevole sulla roccia. Anzi, impegnerà il suo cuore ed entrambe le mani nell’aiutarvi a costruire la vita su Cristo e con Cristo».
Anteprima.
L’antidoto di Corbin contro il laicismo
Si chiude col quarto volume la pubblicazione della monumentale opera del filosofo e iranista francese dedicata all’islam iranico di Simone Paliaga (Avvenire, domenica 12 luglio 2020)
Può sembrare un viaggio in terre lontane, l’esplorazione di universi spirituali e culturali esotici o magari lo studio eruditissimo, e inavvicinabile a molti, di sottilissime questioni teoretiche ed escatologiche. Potrebbe sembrarlo, in effetti. Ma non lo è. Il cuore palpitante di quell’immenso lavoro dal titolo all’apparenza specialistico, ma dal respiro universale, che è Nell’Islam iranico. Aspetti spirituali e filosofici di Henry Corbin siamo noi, l’Europa, l’Occidente che ha scelto di «convertire la ierostoria (potremmo dire la storia nel Malakut) in storia profana scrive lo studioso -, sostituire alla storia interiore una storia oggettiva, che è esattamente ciò in cui consiste il processo di secolarizzazione, o laicizzazione metafisica (per mezzo dell’eliminazione della metafisica)» che oggi avvelena il mondo postmoderno occidentalizzato e per cui occorre trovare un «antidoto». Proprio questo è il termine impiegato da Corbin.
Di Nell’islam iranico ora esce per l’editore Mimesis il quarto e ultimo volume (pagine 654, euro 30) dedicato alla ricognizione della Scuola di Isfahan, della Scuola shaykhi e alla disamina della figura del Dodicesimo imam e della cavalleria spirituale. Si conclude così l’importante impresa editoriale iniziata nel 2012 con la pubblicazione del primo volume dedicato allo shi’ismo duodecimano e poi proseguita col secondo, volto all’indagine del pensiero di Sohrawardi e dei platonici di Persia, e il terzo centrato sui Fedeli d’amore e sui rapporti tra shi’ismo e sufismo. L’immane lavoro di traduzione e curatela (con un indispensabile indice generale di oltre cento pagine in coda all’ultimo volume, che permette di compiere cammini irregolari tra le infinite stanze della tetralogia) si deve all’audafe Roberto Revello, autore anche per Orthotes del bel Ciò che appare nello specchio dedicato sempre al pensiero di Corbin. Orientalista e filosofo, Henry Corbin (1903-1978) è uno dei più eminenti pensatori del Ventesimo secolo.
Egli era l’allievo di due pionieri degli studi storici, il medievista Étienne Gilson e lo studioso dell’islam Louis Massignon, a cui succede alla cattedra di islamologia presso l’École pratique des hautes études nel 1954. Non è certo l’inizio della sua carriera accademica. Dal 1946 dirigerà il Dipartimento di Iranologia del-l’Istituto franco-iraniano di Teheran e per oltre trent’anni insegna all’Università di Teheran intessendo duraturi rapporti col mondo shi’ita. La sfera istituzionale non sarà la sola a vedere impegnato Corbin che verrà coinvolto, diventandone anche uno dei più vivaci animatori, con Carl Gustav Jung e Mircea Eliade, negli incontri di Eranos.
A partire dal 1949, ad Ascona sul Lago Maggiore, con cadenza annuale, si ritrovano i maggiori studiosi di storia delle religioni e ’scienze divine’. I consessi elvetici coltivano il disegno di promuovere, dinanzi alla secolarizzazione dilagante, l’indagine dell’homo religiosus. E alla pari di Eliade, Scholem, Suzuki quello di Corbin non è mai stato un impegno esclusivamente intellettuale. Per lo studioso d’Oltralpe occorreva attrezzarsi per fronteggiare la crescente laicizzazione e questo già a partire dalla scoperta di Martin Heidegger, avvenuta durante il suo soggiorno a Friburgo nel corso degli anni Trenta. Del solitario di Todnauberg Corbin sarà il primo traduttore francese e, con la frequentazione dei testi di Søren Kierkegaard, di Franz Brentano e della teologia dialettica di Karl Barth, affinerà le armi teoretiche per condurre la battaglia contro il razionalismo illuminista e la moderna filosofia della storia. Tra Heidegger e Avicenna o Sohrawardi non c’è soluzione di continuità ma solo cambio di registro.
Che riflessione e studio avvengano a Friburgo, Teheran o Isfahan il problema dell’iranologo francese è lo stesso, cercare l’antidoto per contrastare la laicizzazione imperversante in Occidente. Solo percorrendo i cammini di pensiero di mondi estranei alla laicizzazione è possibile evitare che «la sociologia, d’autorità, prenda il posto della teologia, con l’aiuto della psicanalisi, e non si parli più di peccato, ma di complesso di colpa, di frustrazione...».
Abbracciando questi sentieri dello spirito, a cui non comunque è estranea l’Europa, diventa possibile dotarsi di nuovo di strumenti per vedere che «il luogo della ierostoria, della storia della salvezza, - scrive Corbin - non è il luogo della filosofia della storia; l’azione creatrice dello Spirito Santo infrange la storia e la filosofia della storia, perché libera gli uomini da esse e si compie nel mondo spirituale invisibile, nel Malakut».
Immergersi nell’orizzonte spirituale dello shi’ismo per cercare una possibile salvezza per l’uomo dinanzi al deserto che avanza implica l’essere accolti. «Ma non c’è ospitalità spirituale - ricorda Corbin - senza reciprocità, senza che l’ospite accolto non sia a sua volta interiormente un ospite che accoglie. Senza questa reciprocità, infatti, non c’è speranza di comprendere che l’umanità non si preserva ancora nell’essere, se non in racconti visionari e in epopee dell’anima, non in teorie generali e in ideologie astratte».
Uscire dal letargo "teologico" e "filologico" e dalla notte «in cui tutte le vacche sono nere»! La mistica dell’Amore (Deus charitas est), o quella di "Mammasantissima" e di "Mammona" ("Deus caritas est")?! *
Spiritualità.
Mistica cristiana: le nozze di eros e caritas
I Meridiani pubblicano il primo di tre volumi dedicati alla mistica cristiana. L’incontro con Dio supera ogni limite, fisico e linguistico, e si configura come esperienza sensibile di un amore totale
di Rosita Copioli (Avvenire, mercoledì 1 luglio 2020)
La Mistica Cristiana (Mondadori, I Meridiani, pagine. LXXXVIII+1624, euro 70,00), è il primo dei tre volumi di una vastissima opera - estesa dalle origini ai nostri giorni - ideata dieci anni fa e curata da Francesco Zambon, su ’impulso’ di Pietro Citati. Questo libro, curato da Zambon con Marco Rizzi, Sabino Chialà, Boghos Levon Zekiyan, comprende la mistica tardogreca e bizantina, siriaca, armena, latina e italiana medievale; il secondo volume presenterà la mistica tedesca e fiamminga, francese, italiana moderna; il terzo la mistica iberica (spagnola, portoghese e catalana), inglese e americana, russa, svedese. Nessun progetto ha avuto la medesima ampiezza, né pari cura filologica e critica: nemmeno i Mistici occidentali curati da Elémire Zolla; e altre pregevoli sillogi sono parziali.
Le radici sono ebraiche - nel Cantico dei Cantici, il testo più ardente e complesso dell’amore umano e divino - e greche: nel Fedro e nel Simposio di Platone, dove la ricerca della conoscenza diviene quella del bene e del bello, l’intelletto sale verso il divino: la mente si unisce allo slancio erotico, la mania che porta all’estasi: invasa da una luce alla quale tenderà tutta la tradizione occidentale fino al Rinascimento, e oltre: da Plotino, per il quale la contemplazione è superiore all’azione poiché permette la visione del vero, a Proclo; da Apuleio a Tasso, i poeti barocchi, i romantici, Yeats, Ungaretti, Luzi, Milosz.
La potenza della vista interiore è previsione e profezia. Lo afferma già Esiodo, e poi Saffo e Platone, seguiti da sant’Agostino e Dante: il poeta sprofonda nella memoria bevendo l’acqua di vita di Oceano, e lascia che il soffio del dio spiri dentro di lui, investendolo del suo nume sconvolgente. «Entra nel petto mio, e spira tue / sì come quando Marsia traesti / de la vagina de le membra sue». È il solo modo per riceverne il barlume, per glorificarlo: «O divina virtù, se mi ti presti / tanto che l’ombra del beato regno / segnata nel mio capo io manifesti».
Il mistico ricapitola ogni passaggio del Verbo incarnato e dello Spirito Santo che permette - osano i più temerari - di diventare Dio, trascinando con sé l’intera creazione. La trasfigurazione, la passione, la morte sulla croce di Gesù, il suo corpo martoriato sono lo strumento-specchio per rivivere Gesù in anima-spirito-corpo, oltrepassando i ’sensi spirituali’. Francesco nutre nelle viscere il sole - Cristo. Dalle mani e dai piedi spuntano chiodi di carne, sul costato si apre la ferita di Cristo.
Angela da Foligno aderisce al Crocifisso con i sensi dell’eros totale: «Tu sei me e io sono te». La mente di Iacopone da Todi, «En Cristo trasformata, è quasi Cristo, /cun Deo conionta tutta sta devina». Chi osa tanto, non teme la sintassi, scardina ogni figura e senso. Se fa miracoli, sfida la gravità e si innalza dal suolo, come Doucelina di Digne, altri aboliscono gli intermediari con Dio nel linguaggio, come Caterina Fieschi: «Il mio Mi è Dio, io non conosco altro Mi che esso Dio mio».
I mistici non hanno paura di niente, né del pudore, né di “ardiri” che il volgo deride: come i patriarchi della Bibbia, variano la metafora del latte della sapienza, con una passione tenerissima. Nel II secolo in Siria, un’Ode di Salomone, e Clemente Alessandrino suggono i seni del Padre e le dolci mammelle di sposa di Gesù; nel X secolo Gregorio di Narek, autore di inni inarrivabili al Cristo glorioso, invoca «comunione che distilla latte»: siamo in Armenia, dove la teologia del sacerdozio di tutti i fedeli - i corpi sono templi e altari - renderà possibile il sacrificio dell’intero popolo: il “Martirio armeno”. Misakh Metzarents (1886-1908) ne è l’ultimo fiore: «Nella notte discende ancora il ruscello di luce, / una goccia di latte della tua santità divenuta un mare; / e vedi, o Madre di Dio, ecco sto diventando bambino».
Come diceva san Tommaso d’Aquino, la mistica è la Cognitio Dei experimentalis, che Jean Gerson esplica: «Theologia mistica est cognitio experimentalis habita de Deo per amoris unitivi complexum». Ma è la più abissale delle imprese gnoseologiche e amorose. Per la “teognosia” dell’ombra, che deriva da Plotino e si distanzia da seguaci di Gesù come Giovanni e Paolo, e Agostino, mai giungeremo a conoscere Dio. La sua trascendenza rispetto a ciò che è, e all’essere stesso, è superessentialis: Dio non può essere conosciuto, descritto, visto, nemmeno dagli angeli e dai santi. Di Dio non si può parlare né in forma positiva, né in forma negativa. Ma la forma negativa si avvicina di più al suo mistero. Lo si contempla tra luce e tenebra.
Scrive Zambon: «Anche nella vita beata, al termine del reditus di tutta la creazione nel seno del Verbo, Dio sarà conoscibile solo attraverso delle mediazioni, delle teofanie (in greco, “manifestazioni, immagini di Dio”)». La teofania segue i gradi della contemplazione, della deificazione (theosis), e coincide con l’unione mistica. Ricorre alle immagini, al loro fantasma, alla fantasia: l’“alta fantasia” di Dante. La docta ignorantia fa apparire Chi è superiore alla Luce come tenebra, caligine, nube: nella “notte oscura” di Giovanni della Croce.
Una rivoluzione accade in pieno XII secolo: Guglielmo di Saint-Thierry, Bernardo di Clairvaux, Aelredo di Rievaulx, Ivo, e Riccardo di San Vittore (di cui Zambon ha curato sapientemente i Trattati d’amore cristiani del XII secolo per Valla Mondadori) mostrano a quale fuoco di trasformazione può accendersi l’intelletto d’amore che guida fino a Dio, intrecciando eros platonico e caritas paolina. Come in Ildegarda di Bingen, il grande impeto d’amore dà le ali. Culminano la poesia della fin’amor dei trovatori, le storie di Tristano e Isotta, il romanzo cortese.
Con Beatrice davanti alla candida rosa dei beati, Bernardo invita Dante a fissare Dio, nel movimento rapidissimo che imprime al creato e a noi: la metamorfosi dell’anima in Dio, l’excessus mentis, avviene per opera divina in un solo istante: «ma già volgeva il mio disio e ’l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa, / l’amor che move il sole e l’altre stelle». Riccardo di San Vittore è il più ardito. Amore terreno e carità hanno la stessa fonte, ma la carità non è mite. Ha la stessa struttura, manifestazioni e gradi della passione violenta. I Quattro gradi della violenta carità gridano in Iacopone da Todi: «Amor de caritate, perché m’ài ssì feruto? / Lo cor tutt’ho partuto, et arde per amore».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus !!! O, meglio, che progetto!!!
Federico La Sala
L’anima e la cetra /13.
Divina grammatica è la cura
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 20 giugno 2020)
«Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare ad acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome» (Salmo 23, 1-4). Siamo arrivati alla più bella metafora-preghiera della Bibbia. Tutta la Bibbia è metafora, ogni preghiera è metafora.
Le metafore non sono solo strumento retorico e narrativo, sono anche mezzo di scoperta, per poter capire e dire cose che non potremmo capire e dire senza la rivelazione di quella metafora - anche questa è rivelazione: Dio ci si rivela anche suggerendo ai poeti metafore, che poi il popolo vaglia con il sesto senso della sua fede e della tradizione.
Milioni di persone, attraverso i millenni, hanno pregato e cantato questo salmo, che è tra i più amati di tutta la Bibbia, che continua a essere cantato in tutti i monasteri e conventi del mondo, con l’anima e con la cetra. È stato ed è l’ultimo saluto ai nostri cari, la preghiera di chi sta per attraversare una "valle oscura" e vuole farlo con la stessa fede-speranza-amore del salmista.
Il popolo d’Israele ha imparato a conoscere Dio guardando l’umile, faticoso e difficile lavoro del pastore. Osservando questo antico protagonista delle economie nomadi ha capito meglio la grammatica dell’Alleanza, ha imparato qualcosa di più della natura di quel loro Dio diverso senza immagini e dal nome impronunciabile. Non hanno guardato i re, i faraoni, gli uomini potenti del popolo; hanno invece conosciuto Dio guardando un lavoro umano, osservando fin nei più minuti dettagli l’azione di un lavoratore, con l’odore delle pecore addosso, impolverato, analfabeta, povero di lingua.
Dalle non-parole di un lavoratore nomade la Bibbia ha appreso parole per parlarci di Dio, lasciandoci immagini tra le più ricche e amate dell’intera letteratura religiosa. Che ci ricordano che noi impariamo chi è Dio guardando gli uomini e le donne, perché insieme al "cielo stellato e la legge morale" è la vita concreta degli esseri umani che ci svela la grammatica divina, che nell’antropologia si nasconde la teologia biblica. E che quindi ogni volta che ci ritroviamo vuoti di parole per pregare, possiamo guardare anche la gente che lavora, e lì rimparare a pregare. Pastori, operai, artigiani, insegnanti, imprenditori - chissà come quell’antico poeta scriverebbe il suo salmo in una società post-industriale?
Un giorno un poeta comprese che esisteva un’analogia tra il mestiere del pastore e il loro Dio. E così la metafora del pastore divenne quell’immagine di Dio mancante per suo esplicito comando. Quel popolo capì che dovevano guardare i pastori per capire la logica del loro Dio, e che quindi li avrebbe sempre guidati "per il giusto cammino", e che lo avrebbe fatto "per amore del suo nome", in virtù cioè della sua natura, perché se lo fanno i pastori deve farlo anche Dio. Il Salmo 23 è soprattutto una dichiarazione di fede, un canto d’amore a quel Dio che quel salmista sentiva come provvidenza e Padre buono, anche nella notte più buia: «Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza» (23,4). Camminare in una valle durante la notte non era un’ipotetica possibilità, era la condizione da cui si elevava la preghiera. I salmi sono anche una cura delle nostre paure più profonde, la paura della morte. Li preghiamo tutta la vita anche per avere parole diverse e più buone quando le grandi paure busseranno alla porta, la preghiera andrà ad aprire e forse non troverà nessuno (o troverà un amico, che saluterà con il bacio della pace). Grande dono poter cantare nell’anima mentre siamo toccati dalle mani sagge dell’anestesista: se dovessi camminare in una valle oscura... Poterlo fare perché lo si è fatto per tutta la vita. La preghiera è anche una sorta di assicurazione: paghiamo ogni anno un prezzo per avere il premio nel giorno dell’"incidente". Si prega tutta la vita anche per guadagnarsi l’ultimo amen.
Non sappiamo se quel salmo fu scritto a Babilonia, ma certamente l’immagine di YHWH-pastore si rafforza e si sviluppa durante l’esilio. Un popolo esiliato, umiliato e senza tempio, riuscì a vedere l’oasi verdeggiante lungo i fiumi di Babilonia, fu capace di vivere quel deserto come pascolo ristoratore, riuscì a leggere una salvezza in quella sventura, a vedere un Dio-pastore in un Dio sconfitto. La trasformazione degli accampamenti di Babilonia in prati verdi dalle fresche acque fu possibile grazie al talento di quell’antico poeta, ma l’alchimia fu possibile anche perché tra quegli esuli c’erano i profeti. È la profezia il principio attivo che trasforma deserti in oasi, prigionie in liberazioni, il bastone dell’aguzzino nel vincastro del buon pastore. Due profeti che erano in esilio in Babilonia, il Secondo Isaia ed Ezechiele, ci hanno donato le immagini profetiche più nitide del buon pastore, che giungeranno fin dentro i Vangeli, li attraverseranno e feconderanno: «Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia» (Ez 34,11-16).
È dell’anonimo profeta esiliato, noto come Secondo (Deutero) Isaia, l’icona più suggestiva del "buon pastore", che tanto ha influenzato l’arte e la pietà popolare: «Porta gli agnellini sul seno e conduce pian piano le pecore madri» (Is 40,11). Senza profeti esiliati quel popolo avrebbe smesso di cantare: «Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo ricordandoci di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre» (Salmo 137,1-2).
La cetra non fu appesa per sempre, l’anima dei poeti non smise di cantare, perché, grazie a quei grandi profeti il popolo esiliato rifece l’esperienza del Dio pastore; sentì che quella notte era un attraversamento in un cammino di salvezza, che era un altro guado notturno da cui sarebbero usciti feriti e benedetti. Nessuna notte uccide l’anima se un profeta ce ne rivela il senso (direzione). Nelle nostre notti la voce dei profeti può giungerci tramite un amico, un verso di un poeta, una parola buona di una madre - tutti i venti soffiano liberamente sulla terra e nell’anima.
La seconda parte del Salmo ci sorprende con un’altra immagine: «Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici; cospargi di olio il mio capo. Il mio calice trabocca» (23,5). Generazioni di studiosi si sono chiesti quale sia il legame tra la prima parte del Salmo (1-4), costruita sull’immagine del pastore, e la seconda che descrive una scena di ospitalità nomade, tanto che alcuni hanno ipotizzato due salmi originariamente autonomi e poi fusi insieme. Una lettura unitaria è possibile.
Un uomo arriva nomade e pellegrino nei pressi di un accampamento straniero, assetato e stanco, forse braccato da qualche nemico. E qui fa l’esperienza stupefacente dell’ospitalità: non viene respinto da quella gente diversa, è onorato. Gli viene apparecchiata una mensa, gli viene versato da bere, la sua testa e il suo corpo vengono cosparsi con olii, si spandono profumi che riempiono la tenda. I nemici non osano entrare, vedono che quell’uomo ha trovato protezione. Al termine della festa quell’ospite offre al fuggitivo una scorta per accompagnarlo sicuro nel resto del cammino. Scene non così rare ieri, più rare oggi.
Nel mondo antico l’ospitalità era qualcosa di così vitale da essere considerata in molte culture un atto sacro. Nella Bibbia Dio è il liberatore dalla schiavitù dell’Egitto, ma è anche l’ospite del suo popolo liberato. Come quel popolo nomade e spesso fuggiasco capì qualcosa d’importante di Dio guardando il mestiere del buon pastore, quello stesso salmista, o forse un altro, imparò qualcos’altro dello stesso YHWH facendo l’esperienza dell’accoglienza o osservandola in altri. Avrà intuito che quel loro Dio era pastore ed era ospite. Conosciamo e riconosciamo Dio quando vediamo come il pastore tratta le sue pecore, e scopriamo lo stesso Dio quando vediamo uomini accogliere e onorare altri uomini e donne. Le due metafore si incontrano, arricchiscono e completano l’un l’altra. E arricchiscono anche Dio, perché ogni volta che dall’alto dei suoi cieli osserva un pastore prendersi cura del suo gregge, un ospite onorare un altro essere umano, impara qualcosa di nuovo. Dio, onnipotente e onnisciente, sa cosa è la mitezza e cosa è l’accoglienza, ma per conoscere la mansuetudine ha bisogno della mano del pastore che passa sul dorso dell’agnello (mansueto), e per conoscere l’ospitalità ha bisogno della gioia infinita provata da un pellegrino per un calice offertogli da un ospite sotto la sua tenda. Per queste cose ha avuto bisogno che l’Adam uscisse dall’Eden e diventasse pastore e ospite. La storia è vera per noi, ed è vera per Dio.
Quell’antico salmista capì allora che l’azione del pastore e quella dell’ospite erano molti simili, che qualcosa di importante di Dio si manifestava nel mestiere del pastore e nell’ospite. YHWH è buon pastore ed è buon ospite, e allora per capire la grammatica della cura, nostra e di Dio, non basta guardare il rapporto tra un uomo e i suoi animali (né ieri né oggi), c’è bisogno anche dell’arte dell’ospitalità, guardare a come gli umani si trattano tra di loro.
Quando ci ridoneremo, oggi, nuove metafore umane per dire cose nuove e buone su Dio? E se lo stessimo già facendo? Nuovi salmisti, con linguaggi diversi, stanno forse già capendo meglio e di più Dio guardando il lavoro di medici e infermieri, nel vederli arrivare da Paesi lontani per curare i nostri malati, e ospitarli sotto nuove tende. Forse altri staranno capendo qualcosa di nuovo sugli uomini e su Dio mentre fanno l’esperienza dell’ospitalità. Non lo sappiamo, non ci interessa saperlo, non le capiamo perché scritte in lingue nuove; ma se fossimo capaci di intercettarle, ascolteremo anche oggi, tutti i giorni e su tutta la terra, le stesse parole del Salmo: «La tua bontà e lealtà mi scortano tutti i giorni della mia vita, e abiterò nella casa del Signore per lunghissimi anni» (23,6).
L’anima e la cetra /11.
È nostra la libertà più grande
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 6 giugno 2020)
«I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il firmamento. Il giorno al giorno ne affida il racconto e la notte alla notte ne trasmette notizia. Senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce, per tutta la terra si diffonde il loro annuncio e ai confini del mondo il loro messaggio» (Salmo 19,2-5). I cieli narrano. La Bibbia è tutta parola, è tutta narrazione; è custode della parola di Dio detta in parole umane. È gelosa sentinella di racconti straordinari e diversi, dove le parole sono state capaci di dire l’indicibile, farci sognare Dio fino a quasi vederlo.
La Bibbia ha amato e venerato la parola, al punto di rischiare di farla diventare un idolo, violando il divieto d’immagine e di idolatria contenuto tra le sue pagine. Uno dei dispositivi teologici e poetici che le ha consentito di non diventare l’idolo più grande e perfetto è la presenza in essa di linguaggi di Dio non verbali. Della gloria di Elohim parlano, infatti, anche i cieli, il firmamento, il sole, la notte. Non siamo solo noi umani a parlare di Dio, non siamo i soli affidatari e trasmettitori di messaggi divini. La Bibbia ci dice che ci sono meravigliosi racconti di Dio scritti senza parole umane. Dio ci parla con la bocca e con le parole dei profeti, ci ha scritto lettere d’amore con lo stilo dello scrittore sacro, ha composto canti stupendi con la poesia e la cetra di Davide. La Bibbia però sa che il linguaggio umano non è l’unica lingua usata nei colloqui tra Elohim e noi - -«Senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce». Narrazioni più antiche di quelle umane, che hanno risuonato attraverso l’universo prima che vi arrivasse l’uomo, e che continuano oggi a risuonare nelle galassie infinite; a dirci che quelle narrazioni sono anche per noi, ma non sono soltanto per noi: non siamo l’unico senso della creazione. I loro racconti gli astri non li scrivono soltanto per noi. Qui l’umiltà e la grandezza dell’Adam si incontrano e si armonizzano.
Ma nel momento in cui la Bibbia testimonia le narrazioni delle stelle e le riconosce come linguaggio di Dio, anche quel linguaggio non-verbale diventa parola di uomo che narra la non-parola di Dio. E il Salmo diventa un incontro di narrazioni: i cieli narrano all’uomo la gloria senza usare parole umane, e le parole umane, nel narrare queste narrazioni non-verbali, tramutano in parola ciò che parola non è. Stupendo. Allora quando leggiamo la sua parola più folle - «la parola si è fatta carne» - in quella parola dobbiamo includere anche le non-parole del sole, delle stelle, del cosmo - il verbo nella Bibbia sono tutte le parole della terra e tutte le "parole" del cielo.
Forse i primi racconti scritti dagli uomini sono stati tentativi di narrare i racconti della natura scritti senza parole. Come il bambino impara a parlare ripetendo le parole della madre, noi abbiamo imparato a parlare ripetendo le "parole" dei racconti delle stelle. Molti popoli antichi erano così affascinati da questo linguaggio cosmico da chiamare dèi il sole e le stelle. La Bibbia, invece, pone il suo Dio al di sopra degli altissimi astri. Gli astri non sono Dio, ma sue creature - i cieli narrano la gloria di Dio. Non sono portatori di un messaggio proprio, ma significanti di altri significati, anch’essi "parole" pronunciate. Sta qui la differenza tra questo Salmo e i canti cosmici che ritroviamo nella letteratura babilonese o egiziana. Il sole non è Dio, ma è ospite di Dio: «Là pose la tenda per il sole, uno sposo che esce dall’alcova, un prode contento di slanciarsi per la sua via» (19,5-6). È il suo atleta migliore, che corre ogni giorno da oriente a occidente, andando incontro alla notte per passarle il suo messaggio, per dirle, ogni mattina, parole teofore: «Parte dal lontano dei cieli, all’altro estremo termina il suo arco» (19,7). C’è tutta la Bibbia nel Cantico di Frate sole.
Non abbiamo ancora ripreso fiato per questa visione cosmica del verbo, detta con una poesia che qui cogliamo in uno dei suoi momenti sorgivi all’aurora delle civiltà, ed ecco che il Salmo ci sorprende con un secondo colpo di scena: «La legge del Signore è perfetta, rinfranca l’anima» (19,8). Come mai questo salto dalla sinfonia cosmica alla Torah, dal cielo alla Legge? Un salto talmente inatteso che non pochi esegeti hanno ipotizzato che i salmi all’origine del Salmo 19 fossero in realtà (almeno) due, fusi poi insieme da un redattore finale.
In realtà, l’unità del Salmo ce la svela la Bibbia stessa. Per l’uomo biblico il firmamento e la Torah sono entrambi capolavori di YHWH. Quando quell’antico salmista alzava gli occhi verso l’alto era incantato dall’armonia e dalla bellezza del cielo; ma poi provava lo stesso incanto quando guardava la terra e vi trovava la Torah. L’ordine cosmico è garantito da leggi intrinseche impresse dal Creatore nel creato, e l’ordine morale nasce dall’obbedire alle leggi e ai precetti della Torah. Lo scopo è lo stesso, l’identica provvidenza: «I precetti del Signore sono retti, fanno gioire il cuore;... sono più preziosi dell’oro, di molto oro fino, più dolci del miele e di un favo stillante» (19, 9-11).
Il salmista provava la stessa "gioia del cuore" quando vedeva, in ogni aurora, risorgere il sole e quando leggeva "onora il padre e la madre"; restava tramortito dal firmamento e dal "non uccidere". Perché sapeva che le stelle e la Torah erano dono per lui, erano solo e tutta gratuità. Senza questa doppia bellezza non entriamo nell’umanesimo biblico, non comprendiamo il suo più grande profitto: «Per chi li osserva è grande il profitto» (19,12).
«Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me»: solo con il Salmo 19 davanti agli occhi si coglie il senso dell’ultima pagina della Critica della ragion pratica di Kant, una pagina tra le più bibliche di tutta la filosofia.
Quell’antico poeta sapeva poi un’altra cosa: «Le inavvertenze, chi le discerne? Assolvimi dai peccati inconsapevoli. Anche dall’orgoglio salva il tuo servo perché su di me non abbia potere» (19,13-14). Sopra il sole, gli astri obbediscono, docili e mansueti, alle leggi che YHWH ha scritto per loro; trasmettono il loro messaggio, non trasgrediscono, non peccano. Sotto il sole no, perché sulla terra l’Adam è stato creato con una libertà morale unica che lo rende il grande mistero dell’universo. Solo l’uomo e la donna possono decidere di non seguire le leggi d’amore pensate per loro da Dio. E in questo sono superiori al sole e alle stelle. Sta qui il grande mistero dell’uomo biblico: l’immagine di Dio lo rende libero al punto di poter negare le leggi pensate per la sua felicità (le nostre infelicità più importanti sono quelle che scegliamo sapendo che sono infelicità). Siamo più liberi del sole, e quindi meno ubbidienti. E torna il nostro destino tremendo e stupendo custodito dal Salmo 8: «Che cosa è l’uomo? Eppure...».
Tra i peccati umani troviamo qui sottolineati quelli fatti per inavvertenza e quelli inconsapevoli. Anche se il Novecento ci ha mostrato un inconscio non innocente, la categoria dei peccati inconsci è distante dalla nostra sensibilità moderna, molto centrata sulle intenzioni.
La Bibbia non è un’etica, anche se nei suoi libri ci sono molte etiche. L’umanesimo biblico non può essere inquadrato in una o l’altra delle teorie etiche moderne (responsabilità, intenzioni, virtù...), ma è certamente più interessato di noi alle conseguenze degli atti. Perché ciò che più gli interessava era l’equilibrio del corpo sociale e la cura dell’Alleanza con Dio. Se allora qualcuno commetteva un peccato e provocava un danno, era a questo squilibrio nei rapporti sociali che la Bibbia soprattutto guardava.
Il Decalogo inizia con il ricordo della liberazione dall’Egitto: non con un principio etico astratto, ma con un fatto. La dimensione storica della fede biblica si manifesta anche nel grande valore che attribuisce ai comportamenti, alle azioni, ai fatti, alle parole. Basti pensare, per un esempio, al vecchio Isacco che dona per errore/inganno la sua benedizione a Giacobbe; quando si accorge del suo errore non può più revocare quella benedizione sbagliata, perché quelle parole avevano generato la realtà mentre la dicevano, e avevano operato indipendentemente dalle condizioni soggettive di Isacco e dei suoi parenti (Gen 27).
I peccati sono fatti che agiscono e cambiano il mondo, con una vita propria distinta dalle intenzioni che li hanno generati. Se oggi ti dico una parola brutta e domani ti chiedo scusa, quelle scuse potranno agire sul futuro, ma non potranno cancellare la realtà di dolore che quella parola ha generato nel cuore dell’altro in quelle ore trascorse tra il peccato e il pentimento. Nella Bibbia poi la parola è talmente seria che produce effetti da sé medesima, anche quando non ne siamo coscienti, anche in quelle "ore" che passano e noi non chiediamo scusa perché non siamo consapevoli dei danni che stiamo procurando - i danni inconsci possono essere maggiori proprio perché non arrivano mai il pentimento né le scuse.
Chiedere allora a Dio (e alla comunità) di essere assolti per i peccati inconsci nasceva dalla consapevolezza che i danni che procuriamo sono maggiori delle nostre cattive intenzioni. L’uomo biblico lo sapeva, e ristabiliva l’equilibrio. Noi ne abbiamo perso coscienza, non chiediamo perdono a nessuno, ci copriamo dietro la buona fede, e accresciamo gli squilibri. Il Salmo 15 aveva lodato la sincerità. Il Salmo 19 ci dice che la sincerità qualche volta non basta. Perché nella vita c’è anche il valore delle conseguenze di azioni sbagliate compiute in buona fede. La Bibbia è un continuo e prezioso esercizio di auto-sovversione, che è la cura più efficace contro ogni ideologia. Incluse le molte piccole ideologie del nostro secolo nate sulla morte delle grandi ideologie del secolo scorso.
Il Salmo 19 ci ha rapiti al settimo cielo e poi ci ha riportato sulla terra, alle nostre inavvertenze e colpe inconsce, per dirci qualcosa di importante che non dovremmo più dimenticare: un rapporto sanato ha lo stesso valore di una galassia.
CIELO PURO E LIBERO MARE.... *
L’anima e la cetra /9.
L’altro nome della fede
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 23 maggio 2020)
«Il cuore degli ottenebrati parla così: "Dio non c’è". Il Signore dal cielo si affaccia e si china sui figli dell’uomo per vedere se c’è un uomo saggio, uno che cerchi Dio» (Salmo 14, 1-2). Un inizio originale per un salmo unico nel salterio. Un inizio speciale perché speciale è la posta in gioco. È infatti la sola volta che nella Bibbia troviamo scritto: Dio non c’è. Anche il mondo religioso antico conosceva il dubbio che gli dèi fossero una invenzione dell’uomo. L’uomo biblico è più vicino a noi di quanto pensiamo e scriviamo. Anche la domanda sull’esistenza di Dio tra le domande legittime della Bibbia.
Il Salmo 14 fu scritto con ogni probabilità durante l’esilio babilonese. I babilonesi non erano atei. Ci hanno lasciato raccolte di preghiere bellissime, avevano in grande considerazione i loro dèi che onoravano con processioni, templi e statue spettacolari. Quindi i babilonesi non dicevano esplicitamente "Dio non c’è", tantomeno lo dicevano gli ebrei. Quella del salmista era allora un’accusa alla falsa religione? Era una critica idolatrica? No. La forma della negazione di Dio di cui parla questo salmo non è quella idolatrica. Quale allora?
Ce lo rivelano due elementi, uno linguistico e l’altro teologico. La parola ebraica che il salmo 14 usa per dire «Dio non c’è» è Elohim, che nella Bibbia è il nome generico della divinità (gli dèi). Se il salmista avesse voluto criticare l’idolatria, il culto di dèi «falsi e bugiardi», il nome di Dio usato doveva essere YHWH, il nome proprio del Dio biblico. Anche perché YHWH è il nome di Dio più usato nel salterio e quasi esclusivamente nel primo libro (salmi 1-41). Usare qui Elohim significa allora voler dare a quella negazione - Dio non c’è - un valore che va oltre la critica idolatrica. In quel «Elohim non c’è» si nasconde allora qualcosa di universale e di tremendamente importante per ogni religione (e per ogni ateismo). Di quale "ateismo" parla questo salmo?
Lo scopriamo guardando il secondo elemento: «Sono distorti tutti, è un reciproco guastarsi: non c’è nessuno che agisca bene, neppure uno. Si divorano il mio popolo come mangiassero un tozzo di pane... Voi deludete la speranza del miserabile» (3-4,6). Qui ritroviamo la tesi profetica che la negazione di Dio si rivela nella negazione dell’uomo, soprattutto dei poveri. «Dio non c’è» non va dunque letta come una affermazione atea del tipo di quelle che abbiamo iniziato a conoscere in Europa con la modernità, ma come una conseguenza di un’idea centrale nella Bibbia: Dio c’è se c’è l’uomo - è l’uomo l’altro nome della fede biblica. È il «divorare il popolo come un tozzo di pane» che dice questo tipo di ateismo. Non è faccenda filosofica né intellettuale, è molto di più.
Certamente la vita sociale dei babilonesi dovette esercitare un grande effetto sugli ebrei deportati. Quelle banche che prestavano a interesse e che generavano debitori schiavi, la corruzione del potere in quel grande impero, impressionarono molto gli ebrei e i loro profeti. Ezechiele, profeta in esilio, arrivò persino a formulare una versione del peccato dell’Adam nell’Eden come peccato economico: «Con la gravità dei tuoi delitti, con la disonestà del tuo commercio hai profanato i tuoi santuari» (Ez 28,18). Ma l’ateismo pratico iscritto nelle prassi socio-economiche era qualcosa di ancora più generale di quanto avveniva in Babilonia. Lo ritroviamo già in Isaia, prima dell’esilio: «Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me... Ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova» (Is 1, 13-17). Isaia accusava i suoi concittadini non i babilonesi; stigmatizzava gli assidui frequentatori del tempio e i praticanti che offrivano i sacrifici mentre calpestavano il diritto e la giustizia.
Il salmista vede allora l’assenza di Dio nell’assenza dell’uomo. Sono questi i passaggi da cui si comprende che la teologia biblica è immediatamente umanesimo: il Dio biblico si onora onorando gli uomini, le donne, i poveri. Ritorna ancora l’antropologia della Genesi: siamo immagine di Dio anche perché quando qualcuno - un impero o una cultura - non vede più l’uomo non vede più Dio, anche quando continua a pregarlo e lodarlo nei templi. È già ateo, anche se non lo sa ancora. Ci sono molti modi per dire "Elohim non c’è", "Elohim è nulla" (nella traduzione di Ceronetti). Quello che sta più a cuore alla Bibbia è chiaro: "l’uomo è nulla", "il povero è nulla". E che sia nulla lo dice l’unico linguaggio che davvero conta: quello del comportamento e dell’azione. Il mondo è stato sempre popolato di uomini religiosi che onoravano Dio e disonoravano gli uomini, che apprezzavano gli dèi e disprezzavano i propri simili. Non basta essere religiosi per non essere atei. E se il salmista ha scelto Elohim e non YHWH per parlarci di questo tipico ateismo, è anche per dirci che questa malattia di <+CORSIVO50>ateismo devoto<+TONDO50> attraversa tutte le religioni, comprese quelle bibliche. Gli uomini dicono "Dio non c’è" con il loro modo di trattarsi a vicenda e di trattare i poveri. La Bibbia non è un trattato di etica, ma dall’etica degli uomini si capisce se nel popolo c’è o non c’è la fede.
Il salmo chiama «stolto», «ottenebrato», «stupido», chi dice «Dio non c’è». Quale è la stoltezza di questo ateismo? Innanzitutto è un ateismo collettivo, una malattia che ha infettato l’intero popolo: «Non c’è nessuno che agisca bene, neppure uno». Questa stoltezza che porta a negare Dio non è dunque faccenda che riguarda qualche singolo intellettuale o filosofo scettico; quello denunciato dal salmista è un ateismo popolare: non è rimasto neppure un credente. Siamo in una situazione simile a quella di Sodoma e Gomorra, alla Gerusalemme dove Geremia non trovò neanche un giusto (Ger 5,1). Peggiore della terra osservata dal Satan in ricognizione che vi trovò almeno un uomo giusto: Giobbe (cap.1); un mondo più corrotto di quello prima del diluvio, dove almeno vi era rimasto un giusto: Noè.
È bellissima la radicalità della Bibbia - tutti, neppure uno. Tutti stolti. Lo siamo tutti quando dentro istituzioni, comunità, movimenti, imprese, chiese, si annida e si diffonde la corruzione. Precipitiamo in "un reciproco guastarsi". Il (raro) verbo ebraico usato qui, ’alàh, esprime il contagio reciproco, la mutua contaminazione. Anche se molti sono asintomatici la corruzione raggiunge tutti. Per uscire da queste situazioni ci vorrebbe un Noè, un Geremia, un Abramo, Maria. Ma non sempre ci sono. Quasi mai. Perché quell’«uno solo» per non essere stolto dovrebbe denunciare l’ingiustizia, resistere a lungo nella sua denuncia, sopportare le persecuzioni, e se non ottiene nessun risultato dimettersi, licenziarsi, uscire, dissociarsi. Ma queste azioni sono molto costose e quindi molto rare sulla terra. Anche in queste dinamiche di "guastarci a vicenda" siamo tutti figli di Adamo, siamo solidali nella corruzione, e anche quando i sintomi non sono evidenti siamo quantomeno complici e quindi stolti.
La parola che il salmo usa per dire "stolto" è nabal. Nabal era il nome del marito di Abigail. Nell’episodio del primo Libro di Samuele, Nabal non capì come doveva comportarsi con Davide. Non rispose ai suoi doni con altri doni, non "riconobbe" Davide. Stava per scatenare una guerra se non fosse intervenuta Abigail, che fece tutto quanto non aveva fatto suo marito: fu grata, riconobbe Davide, lo riempì di doni, fu generosa, e seppe onorare il suo ospite: «Non faccia caso il mio signore a quell’uomo cattivo che è Nabal, perché egli è come il suo nome: stolto si chiama e stoltezza è in lui» (25, 25). Abigail ricostruì il rapporto spezzato da suo marito, e con il suo dono ottenne il per-dono di Davide, che riconobbe in quelle relazioni curate la presenza di Dio: «Benedetto il Signore, Dio d’Israele, che ti ha mandato oggi incontro a me» (32). Abigail fu l’anti-Nabal, disse "Dio c’è" dicendo "l’uomo c’è", tramutando la guerra in pace. Non c’è modo migliore per dire-bene Dio, per bene-dire Elohim - le donne lo sanno bene, le donne lo sanno meglio.
Il Salmo definisce il "saggio" (maskil) non trovato da Dio sulla terra uno "che cerca Dio". L’opposto dello stolto è dunque il cercatore di Dio. Ma il primo cercatore che troviamo nel salmo è Dio-Elohim, che si affaccia dal suo balcone dei cieli per cercare almeno un uomo giusto. Dio cerca per trovare qualcuno che lo cerchi. La fede è un incontro di ricerche, una reciprocità di desideri, che diventa rapporto ternario: Dio cerca un uomo capace di cercarlo cercandolo nell’uomo - «...e il secondo comandamento è simile al primo». Ma allora ci può essere ancora un altro senso di questo Salmo 14: se il saggio è chi cerca Dio, allora lo stolto dice "Dio non c’è" perché, semplicemente, non lo cerca: e se l’ateismo stolto fosse quello di chi ha smesso di cercare?
Un giorno, un altro folle uomo «cercava Dio». Non lo trovò e annunciò a tutti che era morto. Forse perché lo aveva cercato nel «mercato», dove «si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio» (F. Nietzsche, La gaia scienza). Il mondo dove abbiamo trovato morto quel Dio che stavamo cercando è preferibile a quel mondo corrotto dove nessuno può dire "Dio c’è". E se lo dicesse direbbe qualcosa di più falso del "Dio non c’è" detto, in quella stessa situazione, dallo stolto. C’è un ateismo meno stolto di una fede proclamata in mezzo all’ingiustizia generale. Se il Dio cercato è morto possiamo sempre sperare e pregare che risorga.
Quando il «Figlio dell’uomo tornerà» non andrà nei templi e nelle chiese per vedere se «la fede è ancora sulla terra» (Lc 12,7-8). Guarderà ai nostri rapporti sociali: guarderà a come ci vorremo bene o male, guarderà le nostre banche, la nostra evasione fiscale, i nostri ospedali, gli stipendi ai braccianti e quelli ai manager. E se ci sarà ancora la fede la troverà soltanto dentro la giustizia e la verità dei nostri rapporti; se ci sarà ancora la potrà riconoscere da come risponderemo alla speranza del miserabile.
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Sul tema nel sito, si cfr.:
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA : VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
L’anima e la cetra /8.
L’irrinunciabile custodia
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 16 maggio 2020)
Molte povertà sono anche povertà della parola. Una indigenza che impedisce di chiamare per nome il dolore proprio e quello degli altri. Questa povertà narrativa qualche volta precede le povertà materiali e morali, altre volte le segue, sempre le accompagna. I "cafoni" e gli oppressi di ogni tempo sono stati cafoni e oppressi anche e soprattutto per le parole che non sapevano dire e per quelle che dicevano i potenti e che loro non riuscivano e non riescono a capire. Ecco perché ogni povertà che vuole risorgere deve imparare e reimparare a parlare, finché, almeno un povero inizierà a dare un nome ai demoni della propria indigenza. Sta anche qui l’invito bellissimo che ci rivolgevano i nostri nonni: "Luigino studia"; sapevano bene che conoscere le parole dei signori era il primo passo di una liberazione.
La Bibbia, maestra e custode della parola, ne conosce le sue molte nature, ne ha visto il paradiso, ne ha intravisto l’inferno. L’ha vista, in principio, mentre creava il mondo; l’ha rivista diventare bambino, e si è stupita e commossa. Inseguendola tra la genesi e l’eskaton ha imparato la grammatica ambivalente delle parole umane. L’ha vista, bugiarda, sulla bocca di Giacobbe, poi su quella di Davide, il re più amato ma capace di uccidere con una parola menzognera, e infine su quella, bellissima, di Maria. E poi l’ha accompagnata in silenzio fino al monte dove la parola divenne grido. Ha imparato, tra molte difficoltà e fallimenti, a riconoscerla buona sulla bocca dei profeti veri e cattiva su quella dei falsi profeti. Ha capito che la parola è il contatto tra Dio e l’uomo, è il luogo dove l’umano e il divino parlano bocca-a-bocca e l’uno diventa sempre più simile all’altro. Siamo "immagine" di Elohim in molte cose, ma soprattutto lo siamo quando diamo ordine al mondo dicendolo con le parole, quando risuscitiamo noi stessi e gli altri con una parola finalmente diversa, quando feriamo e uccidiamo gli altri e noi stessi con una parola sbagliata.
Eravamo già immagine di Dio nelle grotte e nelle tende mobili del neolitico, ma lo siamo diventati di più per i miliardi di parole buone e belle che abbiamo imparato a ripeterci gli uni gli altri, ogni giorno. Solo gli dèi e gli uomini sanno parlare. Esiste, poi, un rapporto intimo ed essenziale tra la parola e la verità, che forse solo la Bibbia (e qualche poeta immenso) ci può spiegare. La verità è l’anima della parola. Come l’anima non appare in superficie, non si fa vedere, per molti non esiste. Quando la parola perde contatto con la verità perde la sua anima - o la vende al diavolo.
La parola è la protagonista del Salmo 12, un salmo sulla parola e quindi sulla profezia: «Salvami, Signore! Sparita è la lealtà; è scomparsa la sincerità tra i figli dell’uomo. Altro non fanno che mentirsi l’un l’altro, labbra adulatrici parlano con cuore doppio» (12,2-3).
Lealtà, sincerità, menzogna: questioni di parole. La sensazione certa del salmista è che la lealtà sia scomparsa dalla terra - o almeno dalla sua vita. È questa una tappa che arriva puntuale nella vita dell’uomo di fede, in particolare nei profeti. Perché i profeti, vivendo dentro del rapporto con la parola ricevuta e ridonata, sono particolarmente sensibili alla verità delle parole proprie e degli altri. Sono parola fatta carne, sempre in bilico tra il nulla e l’infinito, testimoni della forza-debole di un soffio effimero eppure capace di vincere la morte. Sono sentinelle in grado di vedere, nella notte, l’anima delle parole. Chi prega assomiglia molto al profeta: entrambi vivono della verità della parola, entrambi sono mendicanti dell’eco di parole sussurrate o gridate, entrambi non sono padroni né delle parole né, tantomeno, del ritorno dell’eco. E così sono radicalmente vulnerabili dalla manipolazione della parola, dalla menzogna. Qualche volta si convincono di essere circondati solo da menzogna. E non è raro che tra le lealtà e sincerità sparite dalla terra il profeta inserisca anche le proprie. Perché non fa parte del repertorio del profeta onesto sentirsi l’unico giusto superstite al mondo: la prima non-sincerità che avverte è la propria. Non è facile uscire da queste trappole di depressione spirituale, ma non è impossibile.
Il salmista vede e canta un aspetto cruciale della menzogna: "mentirsi l’un l’altro". Quando la menzogna prende possesso di una comunità - alcuni tipi di menzogna assumono la forma del virus - diventa reciproca. L’opposto del comandamento nuovo ("amatevi gli uni gli altri") non è solo il conflitto: è anche la menzogna reciproca. Perché come l’amore "non perdona" l’amato generando reciprocità, neanche la menzogna, spesso, perdona chi ne è toccato. Si diffonde, si moltiplica, cerca i propri simili, produce una sua perversa compagnia dove ciascuno si nutre delle menzogne degli altri e delle proprie - poche cose sono capaci di nutrirci più delle nostre bugie, che a forza di raccontarle finiamo per credere vere: perdiamo peso morale giorno dopo giorno e non ce ne accorgiamo. Una tipica forma di menzogna stigmatizzata dal salmo è l’adulazione: le "labbra adulatrici". La conosce anche il libro dei Proverbi: «Chi adula un amico, tende una rete ai suoi passi» (Pr 29,5). Tra le molte forme di adulazione, quella dell’amico è infatti particolarmente pericolosa e subdola.
Questa adulazione non è quella del falso amico (c’è anche quella). Diversamente dal falso-amico ruffiano, l’amico adulatore non ci loda in cerca di propri interessi, ma per una strana forma di pietà per noi. Sa di dire una parola non vera, ma la dice ugualmente per farci piacere. L’adulazione è molto frequente nelle richieste di stima: non abbiamo ragioni vere per stimare sinceramente un’opera o un’azione di un amico, ma decidiamo di soddisfare la sua richiesta donandogli una stima falsa. Preferiamo l’assonanza emotiva alla verità della parola. E così tendiamo "una rete ai suoi passi". Perché invece di scavare dentro quel rapporto e cercare una ragione vera di stima sincera, ci accontentiamo di una moneta falsa che spacciamo per buona. I rapporti iniziano a regredire, la parola perde verità, quell’amicizia perde la sua anima. E, come dice il Salmo, il cuore si sdoppia: un cuore sincero che tace e un cuore non-sincero che loda. Si sdoppia il cuore, si ammala l’amicizia, e col tempo il cuore bugiardo contamina e guasta quello buono. Chi trova un amico trova un tesoro; chi ne trova uno non adulatore ne trova due.
Ma la grammatica della parola contenuta nel Salmo non finisce qui: «Quanti dicono: "La lingua è la nostra forza, le nostre labbra sono con noi: chi sarà il nostro padrone?"» (12,5). La lingua è la nostra forza: eccoci dentro un’altra dimensione essenziale della parola. È quella legata direttamente al potere, a chi, sentendosi padrone delle parole e della loro anima crede di non avere nessun padrone oltre se stesso. Chi sa parlare e usare le parole domina e opprime chi non sa parlare o parla male - lo vediamo ogni giorno.
Il divieto di pronunciare il nome di Dio invano, racchiuso nel decalogo (Es 20,7), è anche dispositivo di protezione contro i tentativi di conoscere tutte le parole e quindi comandare su tutto e tutti. È la tentazione della magia, ma anche di chi vuole diventare padrone di tutte le parole. La lotta idolatrica della Bibbia si traduce anche nel rendere una parola inaccessibile e impronunciabile; perché se una parola non può essere comandata con la parola allora i suoi padroni saranno sempre padroni parziali anche quando si sentono padroni assoluti. Il nome nella Bibbia dice sempre mistero.
Qui il salmo denuncia allora la tentazione, sempre forte e a tratti invincibile, di chi usa le parole per costruire un suo culto, una sua religione. Se "parola" è uno dei nomi di Dio, allora il potere sulle parole è sempre potere religioso. Sta qui anche la radice dell’antico e sempre attuale progetto di Babele, dove la costruzione di un linguaggio unico e totale diventa lo strumento per l’edificazione di un impero assoluto, senza "nessun padrone".
Ogni impero, incluso il nostro, inizia pretendendo di dare un nome a quell’unica parola impronunciabile, e così si trasforma in una nuova religione-idolatria più piccola e meno libera di quella che voleva superare occupandone tutti i nomi. Le religioni dove i padroni conoscono tutte le parole, dove non ne resta neanche una nascosta nel mistero della nube, diventano imperi che volendo pronunciare tutti i nomi non riescono a dirne bene nessuno.
È l’uomo religioso il primo ad essere tentato dal voler mangiare il frutto dell’albero della conoscenza di tutti i nomi della terra e del cielo. L’Adam può e deve dare il nome agli animali ma non può dare il nome a Dio. Questo è l’unico nome può essere solo rivelato e poi velato di nuovo dallo stesso rivelatore, perché nella custodia del nome di Dio c’è anche la custodia dei nostri singoli nomi. «Per l’oppressione dei miseri e il gemito dei poveri, ecco, mi alzerò - dice il Signore -, metterò in salvo il mio testimone"» (12,6). Il salmista prega che il Signore venga il soccorso del suo testimone. Il profeta è il testimone del povero oppresso dal potere delle parole.
Chi, per vocazione, ha una competenza sulla parola, chi ne conosce l’anima, la può - la deve - usare per testimoniare a favore di chi non conosce abbastanza parole per salvarsi.
Si comprende così il valore civile della profezia: i profeti sono coloro che prestano parole a chi deve difendersi dai padroni di tutte le parole. Scrittori, poeti, giornalisti, politici, sindacalisti, artisti, avvocati partecipano alla stessa funzione profetica di Isaia e Amos se sono testimoni degli oppressi dalla parola nei tribunali della storia. Il povero è colui che non conosce abbastanza parole per poter chiamare tutti gli spiriti della sua vita, e non conoscendo il loro nome non riesce a scacciarli. I profeti, e i loro amici, chiamano per nome i demoni che minacciano i poveri, e poi li mandano via. E così la parola, ogni giorno, ridiventa carne e ripete a Lazzaro: "Vieni fuori".
L’anima e la cetra/7.
Non è bene che Dio sia solo
di Luigino Bruni (Avvenire, domenica 10 maggio 2020)
Alcune persone ricordano per tutta la vita il giorno in cui hanno visto per la prima volta il cielo stellato. Lo avevano "visto" altre volte, ma in una benedetta notte è successo qualcosa di speciale e lo hanno visto veramente. Hanno fatto l’esperienza metafisica dell’immensità e, simultaneamente, hanno avvertito tutta la propria piccolezza e fragilità. Si sono, ci siamo, visti infinitamente piccoli. E lì, sotto il firmamento, sono fiorite domande diverse, quelle che quando arrivano segnano una tappa nuova e decisiva della vita: dove sono e cosa sono i miei affari? e i miei problemi? cosa è la mia vita? cosa i miei amori, i miei dolori? E poi è arrivata la domanda più difficile: e io, che sono? È il giorno tremendo e bellissimo; per alcuni segna l’inizio della domanda religiosa, per altri la fine della prima fede e l’inizio dell’ateismo - per poi scoprire, ma solo alla fine, che le due esperienze erano simili, che magari c’era molto mistero nella risposta atea e molta illusione in quella religiosa, ma lì non potevamo saperlo. Non tutti fanno questa esperienza, ma se la desideriamo possiamo provare a uscire di casa in queste notti fatte più calme e nitide dai mesi sabbatici, cercare le stelle, fare silenzio, attendere le domande - che, mi hanno detto, qualche volta arrivano.
Per qualcuno, poi, c’è stato un altro giorno decisivo. Quando quell’infinitamente piccolo ha fatto l’esperienza che quell’«Amor che move il sole e l’altre stelle» si interessava di lui, di lei, lo cercava, gli parlava, la incontrava. Giorno altrettanto decisivo, perché non basta l’esperienza vera del giorno delle stelle perché inizi la vita religiosa. Ci sono molte persone che sentono veramente vibrare lo spirito di Dio nella natura, odono la sua voce risuonare nelle notti stellate e in molti altri luoghi, ma non si sono mai sentite chiamare per nome da quella stessa voce. Come ci sono altri che hanno fatto un autentico incontro personale con la voce dentro, ma che poi non l’hanno mai sentita vivere nell’universo intero, che non si sono mai commossi riconoscendola nell’immensità del cosmo. È l’incontro tra questi due giorni che segna l’inizio della vita spirituale matura, quando l’immensità che ci svela la nostra infinita piccolezza diventa un tu più intimo del nostro nome.
L’autore del Salmo 8 ha fatto, credo, l’esperienza di entrambi questi giorni. Ha riconosciuto la presenza di YHWH nel firmamento infinitamente grande e si è sentito infinitamente piccolo; e poi ha intuito che la voce che gli parlava tra le galassie era la stessa voce che gli parlava nel cuore: «Come splende, YHWH, il tuo nome su tutta la terra: la bellezza tua voglio cantare, essa riempie i cieli immensi... Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, io mi chiedo davanti al creato: e l’uomo che cos’è? perché di lui ti ricordi? Che cosa è mai questo figlio d’uomo perché tu ne abbia una tale cura?» (8, 2-5). Versi meravigliosi. Dovremmo avere il cuore e le stigmate di Francesco per cantarli.
Assistiamo in presa diretta a una esperienza dell’assoluto. Quell’antico poeta ha avvertito l’immensità e la piccolezza, non si è sentito schiacciato, e ha iniziato un nuovo canto. Il canto dell’umiltà (humilitas) vera, perché l’humus ci dice chi siamo veramente solo se riusciamo per un attimo a guardarlo da distanza siderale; l’adamah (terra) svela l’Adam solo se vista dall’alto. È questa la gioia per la verità finalmente rivelatasi, per una nuova ignoranza che non umilia. L’umiltà è l’opposto dell’umiliazione. E si sperimenta una nuova infanzia, una sconfinata giovinezza: «Da fanciullo e lattante balbetto» (8,3).
Al centro del salmo una domanda: cosa è il figlio d’uomo (Ben Adam: espressione cara ai profeti e ai vangeli), di fronte a tanta immensità?! Splendida è la risposta: nonostante la sua insignificanza in rapporto alle stelle e la sua piccolezza nel tempo e nello spazio, tu ti prendi cura dell’uomo, tu ti ricordi di lui. Come a dire: se tu tenessi conto, o Dio, di quello che l’Adam è oggettivamente in rapporto all’universo sterminato, non dovresti occupartene; e invece ti prendi cura di lui, di lei. E quindi la domanda necessaria: ma questa voce che mi parla dentro è proprio la stessa che ha parlato tra le galassie? La risposta del primo giorno può essere soltanto un sì, altrimenti il cammino non incomincia! Col passare del tempo la risposta diventa: forse. Poi arrivano i lunghi anni quando la risposta è: no. Infine ritorna il sì, ma - se e quando ritorna - è un sì detto con un’altra profondità e un’altra umiltà. E qui nasce una nuova meraviglia, trabocca la gratitudine, riaffiora la preghiera degli ultimi tempi.
Sta in questa tensione tra le stelle e il cuore, abitati entrambi dalla stessa presenza, la dignità dell’Adam, dei suoi figli e delle sue figlie, la sua gloria e il suo onore. Ci si perde nelle varie ideologie quando si perde uno di questi due poli. Dobbiamo leggere il Salmo 8 in parallelo con i primi capitoli della Genesi: «E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (Gn 1,27). Il versetto della Bibbia che, forse, amo di più. L’Adam è posto da Elohim al centro del giardino della creazione perché ne fosse custode e responsabile. Il Salmo ce lo ridice: «Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi» (Salmo 8,7). L’Adam diventa il primo interlocutore di Dio, perché con la sua reciprocità potesse accompagnare anche la solitudine di Dio - «non è bene che l’uomo sia solo» (Gn 2,18) va letto insieme all’altra frase non scritta nella Bibbia ma altrettanto presente: non è bene che Dio sia solo.
Non mi stupirebbe se l’autore di quell’antico salmo mentre cantava avesse sottomano questi versi della Genesi. Forse stava meditando e contemplando "cosa è l’uomo" quando, ad un certo punto, non ha più retto l’emozione e ha composto uno dei versi più belli sull’uomo mai scritti da tutta la letteratura religiosa e laica. Dopo averlo visto sub specie aeternitatis, dopo essere andato con l’anima sulla luna e averlo perso di vista tanta era la sua piccolezza, tornato a quelle parole della Genesi ha rivisto un altro uomo. E ha pronunciato questo capolavoro, che va letto dopo qualche attimo di silenzio: -«Eppure l’hai fatto poco meno di Elohim, di gloria e di onore lo hai coronato» (8,6). Eppure: a volte la Bibbia sa racchiudere in una umile congiunzione tutta la sua profezia. Siamo effimeri, siamo come l’erba ... eppure... «Una voce dice: "Grida", e io rispondo: "Che cosa dovrò gridare?". Ogni uomo è come l’erba. Secca l’erba, il fiore appassisce ... Veramente il popolo è come l’erba» (Isaia 40,6-7).
Veramente ... eppure. Siamo stati pensati, cercati e amati tra un veramente e un eppure. Veramente effimeri come l’erba, veramente infinitamente piccoli, veramente infedeli e peccatori; eppure poco meno di Dio, eppure sua immagine e somiglianza, eppure amati, curati e attesi come figli.
Questa è l’immensa antropologia biblica. La letteratura antica conosceva la metafora dell’immagine di Dio applicata all’uomo. Ma era usata per il re, per il faraone. La Bibbia la usa per ciascuno di noi, per ogni uomo e per ogni donna, per te, per me. È l’Adam, ogni Adam, l’immagine e somiglianza di Elohim; e quindi lo siamo anche noi, tutti noi. È questa la magna carta di ogni dichiarazione dei diritti dell’uomo e della donna, dei bambini, delle bambine, della dignità del creato. Il Salmo 8 è un inno a Dio e insieme un inno all’uomo. Esalta la persona dicendoci chi è quel Dio di cui egli è immagine, ed esalta Dio dicendoci chi sono l’uomo e la donna che lo riflettono. Perché se l’uno è immagine dell’altro, più l’Adam diventa bello più dice la bellezza del suo Creatore, e più lasciamo libero Dio di diventare migliore di noi, più abbelliamo noi stessi. Non capiamo l’antropologia biblica se usciamo dalla reciprocità intrinseca al simbolo dell’immagine.
Ma la bellezza e la forza di questo canto esplodono se immaginiamo il salmista cantare quel versetto 6 mentre leggeva anche i capitoli tre e quattro della Genesi: quelli della disobbedienza, della seduzione vincente del serpente, e poi Caino e il sangue di Abele, di cui il salmista sentiva ancora l’odore. È troppo semplice cantare la gloria e l’onore dell’uomo fermandosi al capitolo due. La sfida decisiva è riuscire a continuare il canto mentre i capitoli scorrono e si entra nelle pagine buie e buissime del no, quelle della rottura dell’armonia uomo-donna-creato-Dio, nelle pagine della cacciata da quel giardino meraviglioso, quelle della notte oscura del primo fratricidio della terra. E giunti lì, non smettere il canto. E poi continuarlo con l’urlo tremendo di Lamek l’uccisore di fanciulli, con la ribellione di Babele, con i peccati dei patriarchi, con le bugie e gli inganni di Giacobbe, con l’omicidio dei beniaminiti, fino all’omicidio di Davide, alle infedeltà di Salomone e di quasi tutti i re d’Israele. E non smettere mai di cantare: «Veramente ... Eppure lo hai fatto poco meno di un Dio».
Tutta la forza dell’antropologia biblica si sprigiona quando riusciamo a vincere il dolore e la vergogna e ripetiamo "veramente ... eppure" non solo di fronte al firmamento ma anche nelle carceri, nelle meschinità, nelle violenze, nei bassifondi di Calcutta, nelle via crucis che portano al Golgota. Non c’è condizione umana che non sia racchiusa tra quel veramente e quell’eppure, nessuno resta fuori. La Bibbia non ha avuto paura di narrarci i peccati e le bassezze dei suoi uomini perché credeva veramente all’immagine di Elohim. E ogni volta che nascondiamo nelle nostre storie le pagine più buie abbiamo smesso di credere che siamo immagine.
Caino ha cancellato la sua fraternità e i suoi figli continuano a cancellarla uccidendo ogni giorno Abele. Ma non ha potuto cancellare l’immagine - e se il "segno di Caino" fosse proprio l’immagine di Elohim? «O Dio, Signore nostro, come splende il tuo nome su tutta la terra!» (8,10).
MESSAGGIO EVANGELICO, FILIAZIONE DIVINA E IMITAZIONE DI CRISTO: CRISTO-FARO O CRISTO-FORO?! *
A cento anni dalla nascita.
Giovanni Paolo II. «Totus tuus»: una vita per amore
Il suo sguardo fisso in Cristo ci ha insegnato che tutto ciò che è umano ci riguarda, come cristiani e come Chiesa Il suo amore per Maria è un faro vitale, una strada maestra ...
di Gualtiero Bassetti (Avvenire, domenica 3 maggio 2020)
Il 27 ottobre 1986, Giovanni Paolo II - Papa da otto anni, sempre più amato e popolare - animò ad Assisi la Giornata di preghiera interreligiosa per la pace, rimasta nella storia. In quella come in molte altre occasioni, le telecamere di tutto il pianeta lo immortalarono come lo ricordiamo: intimamente, quasi dolorosamente raccolto, in dialogo profondissimo con Dio, la cui volontà non può che essere il bene e la pace di tutti. Pochi furono i testimoni di un altro momento, intenso e dolcissimo, che precedette lo storico incontro.
Il giorno prima, 26 ottobre, il Papa visitò Perugia, oggi mia diocesi. Incontrò tutte le fasce di popolazione, in particolare gli amati giovani. In un saluto a braccio, seppe fondere la bellezza del genio italiano e cristiano - l’arte di una piazza tra le più belle d’Italia - col prorompente entusiasmo dei giovani che lo stavano festeggiando.
«Mi piace stare qui, mi piace molto!», non poté trattenersi dall’esclamare. A Perugia trascorse la notte, in una struttura diocesana fuori porta voluta da un mio predecessore, il vescovo mantovano Giovanni Battista Rosa. Chi salutò il Papa al mattino, alla partenza, ricorda il suo sguardo limpido affacciarsi dalla terrazza sulla valle assisana, dove stava recandosi. Avvolse in una lunga occhiata sia la bellezza quasi mistica di quel panorama, sia la pace che ne emanava, chiedendo forse a Dio, col Salmo 19, di tradurla in tutte le lingue del mondo. Ma solo una fu la testimone del suo ultimo sguardo: la Vergine Maria, raffigurata, in una semplice statua, su una colonna al centro della terrazza.
Totus tuus. La dedica a Maria nel motto apostolico di Karol Wojtyla è tratta da una frase di san Luigi Maria Grignion de Montfort: «Tuus totus ego sum, et omnia mea tua sunt».
Non è, come chiarì lo stesso pontefice, una semplice formula di devozione: si radica nel mistero della Santissima Trinità. Alla potenza teologica unisce una vigorosa efficacia. San Giovanni Paolo II era uomo di pensiero quanto di azione; era abituato così, sia dalla sua storia personale, sia da quella del suo popolo. Un’assonanza, una comune origine scritturale, si coglie nella mia cattedrale in un gonfalone votivo di scuola peruginesca, realizzato nella pestilenza del 1526 - una delle tante che sconvolsero la città e l’Europa. In un cartiglio, il popolo, ai piedi dei santi e della Vergine, grida: “Salus nostra in manu tua est, et nos et terra nostra tui sumus”.
Altri approfondiranno le concordanze storico- artistiche: ci sono, a Dio piacendo, inediti filoni di bellezza di cui trovare origini e parentele, per scoprire, una volta di più, quanti canali uniscano l’umanità. A me interessa sottolineare l’efficacia della preghiera, quando davvero affida tutto l’essere. Siamo tuoi. La preghiera è universalità, coralità, unione fraterna, come ricorda papa Francesco; e pure intimità, sponsalità, unione mistica, come il Totus tuus di Wojtyla, che comunque, sulle labbra di un papa, sigilla l’offerta dell’intera umanità. Maria è via privilegiata al Cristo, di cui fu figlia e madre, come dice Dante con poesia incomparabile.
Madre di Gesù, madre di tutti, dalle nozze di Cana all’affidamento a Giovanni, ai piedi della Croce. Cristo è veramente risorto! E ci attende come attese Maria, con le sorprese della gioia. In questi giorni difficili, ho rinnovato, sia come supplica sia come ringraziamento, l’affidamento della città e del mondo alla Vergine Maria: le parole accorate che il popolo ha reiterato nei secoli. Tutto ciò che è umano ci riguarda, come cristiani e come Chiesa. È una delle eredità di san Giovanni Paolo II, forse la più significativa. Raccogliere e offrire a Dio, nella preghiera e nell’azione, le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce del mondo; gli aneliti alla pace, alla sicurezza, alla liberazione dai mali dell’anima e del corpo. Portare briciole di umanità dove dominano ancora barbarie, sopruso e ingiustizia, egoismo e indifferenza.
Annunciare amore in nome di Cristo, come faceva san Giovanni Paolo II, significa portare Cristo stesso.
MESSAGGIO EVANGELICO, FILIAZIONE DIVINA E IMITAZIONE DI CRISTO: CRISTO-FARO O CRISTO-FORO?!
Caro don Santino Bove Balestra
Vista la tensione e la passione personali che animano la sua Lettera "a san Cristofaro al tempo del Coronavirus" e, al contempo,sollecitato dalle sue stesse associazioni collegate a questa figura di gigante buono («Ti hanno fatto - forse un po’ abusivamente - diventare il patrono degli automobilisti (dopo essere stato più propriamente il protettore dei facchini) : oggi dovresti ispirare chi dall’automobile passa alla bicicletta, al treno o all’uso dei propri piedi!»), il discorso fatto appare essere una forma implicita di autocritica "istituzionale" (cioè, da parte dell’intera Istituzione Chiesa paolina-costantiniana) della propria capacità di "portare Cristo" in giro, di qua e di là, avanti e indietro - e, della totale e più generale cecità antropologica e pedagogica, nei confronti del "Bambino" (che ognuno e ognuna di noi, tutti e tutte, è) !
SE, OGGI, AL TEMPO DEL CORONAVIRUS, VALE l’esortazione “Restiamo tutti a casa!”, altrettanto sicuramente, domani, vale la consapevolezza che “Nulla sarà più come prima!” e, ancor di più, se vogliamo veramente cambiare rotta, che la “conversione eco-logica” (la ristrutturazione della nostra stessa "casa"!) è già "oggi necessaria", ora e subito! Non c’è alcun tempo da perdere.
Portar-si il "bambino" sulle proprie spalle, «suprema fatica e suprema gioia», è impresa ancora tutta da tentare - e non ha nulla a che fare con il "sacrificio" e con la "messa in croce" di alcun "Bambino"! O no?! (Federico La Sala)
***
ARCHEOLOGIA E ARCHITETTURA. NOTE PER LA RISTRUTTURAZIONE DELLA “CASA” *
Caro don Santino Bove Balestra
SICCOME LA SUA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SULLA FIGURA di “san Cristofaro al tempo del Coronavirus” appare essere carica di molte implicazioni e degna di grande attenzione per la nostra e generale “salute”, credo che sia opportuno non lasciar cadere l’occasione e La sollecito a meditare anche sulla differenza di significato che corre tra la parola “Cristo-foro” e la parola “Cristo-faro” (una variazione “parlata”, più che un refuso) : in gioco c’è la comprensione stessa di cosa significa “portare Cristo” e come “seguire Cristo”!
Cristoforo è “Cristo-foro”, perché porta sulle spalle il Bambino, la “luce del mondo”(Gv. 8,12) e non va più in giro a spegnere “luci” o “fari”, e a “mettere in croce” bambini, uomini, donne: egli stesso (da Cristoforo) è diventato un “Cristo-faro”: «Non è forse scritto nella vostra Legge: “Io ho detto: voi siete dèi”[...]?»(Gv.10,34). Non è forse questa la “conversione eco-logica” da farsi: diventare “fari”?!
E come è possibile questa ristrutturazione della “casa” di tutti gli esseri umani, se continuiamo a negare anche al “cristoforico” Giuseppe la sua stessa “paternità” (cfr., mi sia consentito, “DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...). Di quale “casa” e di quale “chiesa” si sta parlando?! Boh?! O no?!
COSTANTINO, IL CONCILIO DI NICEA, E LA DICHIARAZIONE DELL’HOMOOUSIOS. *
BENEDETTO XVI
Il ritorno di Ratzinger: «Nozze gay e aborto segni dell’Anticristo»
L’anticipazione del nuovo libro del papa emerito
di Redazione Online (Corriere della Sera, 3 maggio 2020).
Il Papa emerito Ratzinger parla di crisi della società contemporanea paragonando al «matrimonio omosessuale» e l’«aborto» al «potere spirituale dell’Anticristo», in una nuova biografia scritta dal suo amico giornalista Peter Seewald, «Ein Leben» che esce lunedì, mentre per la versione italiana e inglese occorrerà aspettare l’autunno, con una intervista dal titolo «Le ultime domande a Benedetto XVI» e che, come nel libro di Sarah, propone ai lettori un verbo che scalda gli animi dell’ala conservatrice della Chiesa, quella parte che gli è rimasta fedele anche dopo la rinuncia dell’11 febbraio 2013. Lo anticipa il sito americano conservatore LifeSiteNews, lo stesso che in questi mesi ha diffuso le uscite anti-Francesco dell’ex nunzio a Washington Carlo Maria Viganò, attacca a testa bassa l’’ideologia dominante’ nella società e opponendosi alla quale, spiega, si è scomunicati. Si percepisce, nel suo dire, l’eco del testo di un anno fa dedicato alla pedofilia, con quella condanna delle aperture iniziate nel ‘68, l’incipit a detta sua del decadimento morale della società e di una crisi irreversibile della Chiesa.
Il nemico è sempre il medesimo: la rivoluzione degli anni Sessanta-Settanta. «Cento anni fa - afferma Benedetto - tutti avrebbero considerato assurdo parlare di un matrimonio omosessuale». Mentre oggi, dice, si è scomunicati dalla società se ci si oppone. E lo stesso vale per «l’aborto e la creazione di esseri umani in laboratorio». E ancora: «La società moderna è nel mezzo della formulazione di un credo anticristiano e se uno si oppone viene punito dalla società con la scomunica. La paura di questo potere spirituale dell’Anticristo è più che naturale e ha bisogno dell’aiuto delle preghiere da parte della Chiesa universale per resistere».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"NUOVA ALLEANZA" ?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA : VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LE ORIGINI DEL TOTALITARISMO, LA FEDELTA’ ALL’ AMORE DI HEIDEGGER ED HANNAH ARENDT, LA FINE DI UN MONOTEISMO CIECO E ZOPPO E LA COMUNITA’ CHE VIENE ... *
A) - UNA CASA DI CURA, UN OSPEDALE DA CAMPO: [...] Proprio un totalitarismo apolitico ed economico - fondato su una idea di soggetto come arbitrario e indefinito dispiegamento delle proprie potenzialità - ha impedito sinora di far fronte a tali questioni. Come la pandemia, si tratta di sfide che minano la sopravvivenza. Il virus ha scoperchiato il tetto e ci ha rigettato nella storia. Si può dunque iniziare da qui: dalla condizione storica in cui ci troviamo, che non è regredibile, e che è quella che la biopolitica analizza con acume. Se è vero che il potere sovrano si rivolge sempre più ai corpi, trovando un paradigma nell’oikos o nel campo, allora la “comunità che viene”, costituita da libertà non pure e astratte, ma malate e inchiodate a questi corpi, non potrà che iniziare a costituirsi nella forma di una casa di cura, o di un “ospedale da campo.” ( Francesco Valerio Tommasi, “Curarsi di. Una libertà inchiodata al corpo e alla storia”, Le parole e le cose, 14 aprile 2020);
B) - “UN NUOVO INIZIO”: “[...] Ma rimane altresì vero che ogni fine della storia contiene necessariamente un nuovo inizio; questo inizio è la promessa, l’unico «messaggio» che la fine possa presentare. L’inizio, prima di diventare avvenimento storico, è la suprema capacità dell’uomo; politicamente si identifica con la libertà umana. «Initium ut esset, creatus est homo», dice Agostino. Questo inizio è garantito da ogni nuova nascita; è in verità ogni uomo” (Hannah Arendt, “Le origini del totalitarismo”, Edizioni di Comunità, Milano 1996);
C) - ANTROPOLOGIA: KANT E LA RISCOPERTA DEL CORPO, LA RICERCA DI ENZO PACI SULLA NASCITA e la “fedeltà all’amore” di HEIDEGGER e ARENDT;
D) - CORONAVIRUS O SOVRANITA’ ( “CORONA VIRTUS”) ?! FILOLOGIA: ECCE HOMO! Ad evitare problemi di un cieco e zoppo monoteismo teologico-politico e biologico e uscire dal letargo e dalla caverna, ricordare che Ponzio Pilato disse: “«Ecco l’uomo» (gr. «idou ho anthropos», vulg. «ecce homo»)”;
E) - LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
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Pasqua. Aramaico, ebraico, greco, latino... in che lingua Gesù parlò con Pilato?
Oltre l’aramaico, conosceva anche l’ebraico e il greco? E in che lingua avvenne il processo davanti a Pilato? Le ipotesi degli studiosi e l’importanza degli idiomi per l’evangelizzazione
di Mimmo Muolo (Avvenire, martedì 7 aprile 2020).
In che lingua parlava Gesù? E i protagonisti dei grandi eventi che portarono alla sua morte in croce? La questione, da tempo al centro del dibattito tra gli studiosi, può essere assunta proprio nei giorni della Settimana Santa, come filo rosso per comprendere alcune dinamiche fondamentali dell’annuncio della Buona Novella dall’inizio fino a noi.
Le quattro lingue della Palestina
Va detto innanzitutto che al tempo in cui si svolsero gli eventi descritti nei Vangeli quattro erano le lingue parlate in Palestina. Quella ufficiale (ma anche la meno diffusa: usata solo da un ristretto numero di funzionari pubblico) era il latino. Quella religiosa era l’ebraico, parlata nelle sinagoghe, dove si leggevano i testi della Torah, e dai farisei che erano gli ebrei più osservanti. Quella della vita quotidiana era invece l’aramaico, che il popolo aveva adottato dopo il ritorno dall’esilio babilonese (VI sec. a.C.). E infine il greco della koiné, che era un po’ come l’inglese di oggi, parlata ovunque. Ebraico e aramaico erano lingue semitiche, imparentate tra loro come ad esempio l’italiano e il napoletano, dato che l’aramaico (nell’VIII secolo a.C. lingua delle comunicazioni internazionali nella Mesopotamia) era diventata una sorta di dialetto.
Gesù parlava solo l’aramaico?
Tra queste quattro lingue è ormai certo che quella usata da Gesù per la predicazione e per i colloqui con i discepoli fosse l’aramaico. Come ricorda Rinaldo Fabris, nel suo “Gesù il Nazareno” (Cittadella Editrice), sono almeno una ventina i passi dei Vangeli canonici (scritti in greco) in cui vengono citate parole o espressioni aramaiche. Per limitarci a quelle che riguardano la Settimana Santa: “Abba” (Padre), usato da Gesù nel Getsemani; “Eloi Eloi lemà sabachtani” (Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato) cioè le ultime parole di Cristo sulla croce secondo Marco e Matteo; il toponomastico Golgotha (“Luogo del cranio”) per indicare l’altura della crocifissione; e infine l’appellativo “rabbunì” (maestro mio) con cui Maria di Madgala chiama Gesù dopo la risurrezione. E a proposito di vittoria sulla morte, possiamo citare ancora il “talità qum”, (ragazza alzati) con cui Cristo riporta in vita la figlia di Giairo.
Del resto è naturale: cresciuto ed educato in una modesta famiglia della Galilea che abitava a Nazareth, villaggio di poche centinaia di abitanti, Egli certamente aveva come lingua materna l’aramaico occidentale che si parlava nella sua terra. Tra l’altro connotato da accento diverso da quello in uso a Gerusalemme, come attesta il “riconoscimento” di Pietro, nella notte dell’arresto di Gesù (Mt 26,73) proprio a motivo di come parlava.
L’aramaico, scelta di incarnazione
Questo fatto ci dice già una cosa importante. La concretezza dell’incarnazione vale per tutti gli aspetti della vita. Gesù si esprime in un idioma che tutti possono comprendere e poco importa se non è la lingua dei dotti. Anzi proprio questa vicinanza ai “piccoli”, al punto da parlare in “dialetto”, conferma se mai ce ne fosse bisogno la sua “rivoluzione” delle periferie, come direbbe papa Francesco. Il quale, parlando ai genitori dei bambini che stava battezzando nella Cappella Sistina il 7 gennaio 2018, raccomandò: “La trasmissione della fede soltanto può farsi in dialetto, la lingua intima delle coppie. Nel dialetto della famiglia, nel dialetto di papà e mamma, di nonno e nonna”. E non è un caso che un grande santo e teologo come Tommaso d’Aquino abbia predicato il quaresimale del 1273 in dialetto napoletano.
Le ipotesi sull’ebraico e il greco
Ciò che resta ancora incerto è se Gesù sapesse parlare nelle altre lingue. Almeno l’ebraico e il greco. Quanto all’ebraico, bisogna registrare un simpatico siparietto durante la visita di papa Francesco in Medio Oriente nel 2014. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, durante un incontro ufficiale, disse al Pontefice: «Gesù ha vissuto qui, parlava ebraico». «Aramaico», lo corresse Francesco. Al che Netanyahu, immediatamente, precisò: «Parlava aramaico ma conosceva l’ebraico, perché leggeva le Scritture». Al di là dei cordiali sorrisi che chiusero l’episodio, viene da chiedersi: è proprio così?
Secondo Fabris, “sulla base delle scarne informazioni del Vangeli non si è in grado di dare una risposta categorica alla domanda se Gesù sapesse leggere e scrivere”. E anche l’episodio riferito da san Luca, in cui nella sinagoga di Nazareth Egli prende e legge il rotolo del profeta Isaia, “non può essere addotto come prova che egli è in grado di leggere il testo ebraico della Bibbia”. Probabilmente infatti, argomenta lo studioso, quel racconto è il frutto di una rielaborazione dell’evangelista al quale interessa dire che Gesù è il Messia.
Tuttavia questo punto non è pacifico fra gli esegeti. Stefano Tarocchi, biblista e preside emerito della Facoltà Teologica dell’Italia centrale, nota infatti che “diversi altri racconti dei Vangeli favoriscono la teoria secondo cui Gesù era in grado di servirsi anche dell’ebraico quando la situazione lo richiedeva”. Soprattutto le conversazioni e discussioni con capi religiosi ebrei. “Questi dialoghi di solito avvenivano in ebraico anche tra chi aveva come prima lingua l’aramaico. Per essere credibile come interlocutore, con molta probabilità Gesù usava l’ebraico quando era impegnato in discorsi teologici con i farisei, gli scribi e gli altri capi ebrei”.
Quanto al greco, alcuni esegeti hanno ipotizzato che Gesù potesse conoscerlo, dato che vicino a Nazaret c’erano Sepphoris, capitale della tetrarchia di Erode Antipa, e Tiberiade, centro commerciale di una certa importanza, dove i mercanti greci arrivavano facilmente. Ma Fabris esclude un’ipotesi del genere, così come la possibilità che egli abbia conversato o insegnato in greco.
In che lingua parlarono Pilato e Gesù durante il processo?
Più possibilista è invece Tarocchi, citando la conversazione con il centurione romano di Matteo 8,5-13. “Anche Pilato nel processo - afferma - avrebbe usato il greco, non il latino, come ha invece immaginato Mel Gibson in The Passion. Non è nemmeno ipotizzabile che un governatore romano abbia potuto conoscere ed usare l’aramaico”. Tuttavia il dialogo potrebbe essersi svolto con l’intermediazione di un interprete (anche se nei Vangeli non se ne fa menzione), perché quello a Gesù non era certamente l’unico processo che Pilato fece nella sua carriera e la registrazione di un particolare così scontato può essere stata considerata superflua.
L’importanza del greco per l’evangelizzazione
Il greco però sicuramente entra in scena - e pesantemente - dopo la risurrezione. Soprattutto grazie alle lettere di Paolo, che sono i documenti più antichi del Nuovo Testamento, tutto scritto nell’”inglese” dell’epoca.
A questo punto il cambio di priorità, e dunque di paradigma anche linguistico, appare evidente. Alla logica dell’incarnazione si affianca quella dell’universalità del messaggio evangelico, che essendo destinato a tutti gli uomini, ha bisogno di un veicolo comunicativo il più possibile conosciuto. Il greco, appunto, che diviene così la lingua della “fase due” dell’evangelizzazione, dopo il primo annuncio del Nazareno. A quel punto l’idioma originale parlato da da Gesù diventa secondario, quasi ininfluente.
"Siamo Parti, Medi, Elamìti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, stranieri di Roma, Ebrei e prosèliti, Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio", esclameranno i presenti alla predicazione degli Apostoli, il giorno di Pentecoste. La voce di Cristo raggiunge ognuno nel suo linguaggio, secondo la doppia regola dell’incarnazione e dell’universalizzazione del messaggio della salvezza. E non è un caso che la Bibbia sia oggi il libro tradotto nel maggior numero di lingue al mondo.
Le note spirituali della Civiltà Cattolica
“L’amore delle donne accompagna la passione di Gesù”.
di p. Giancarlo Pani S.I., vicedirettore de "La Civiltà Cattolica" *
Il Vangelo di Matteo presenta il racconto della passione di Gesù incorniciato tra due episodi che hanno come protagoniste alcune donne. La prima è una donna di Betania, che unge il capo di Gesù con un prezioso olio di nardo (Mt 26,6-13), le altre sono Maria di Magdala e le donne sul Calvario quando Gesù muore (27,55s) e, dopo il sabato, si recano al sepolcro alla prima luce dell’alba (28,1). Sono figure che illuminano il mistero.
Mancavano due giorni alla Pasqua. «Mentre Gesù si trovava a Betània, in casa di Simone il lebbroso, gli si avvicinò una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo molto prezioso, e glielo versò sul capo mentre egli stava a tavola» (Mt 26,6s). È un momento di convivialità con la presenza del Signore.
Ad un certo punto compare una donna: chi sia, non si sa, non ha nome e non dice nemmeno una parola. Compie solo un gesto. Nella sala si spande la fragranza del profumo che suscita sdegno e proteste. Perché questo spreco? Si poteva venderlo per molto denaro e darlo ai poveri!
La donna tace, e Gesù afferma: «Perché infastidite questa donna? Ha compiuto un’azione buona verso di me. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me. Versando questo profumo sul mio corpo, lei lo ha fatto in vista della mia sepoltura» (vv.10-13). La donna - rivela Gesù - ha preparato il suo corpo per la morte.
Quello che gli apostoli non riescono a comprendere e che Gesù aveva detto più volte, lo ha compreso una donna: i capi dei sacerdoti e gli scribi volevano ucciderlo. In ogni caso, lei è l’unica ad aver capito che la vita di Gesù ha un esito preciso, la morte, e la morte viene perché Gesù ha donato la vita, perché si è fatto tutto a tutti. La donna lo ha veduto, lo ha ascoltato, custodisce le sue parole nel cuore, lo ha amato; e ora vuole essergli vicino con gratitudine. Risponde con amore all’amore di Gesù. Quel profumo è il suo dono, è tutto quello che ha, è tutta la sua vita. Perciò glielo versa fino in fondo, fino all’eccesso, che è la misura dell’amore che si dona senza misura.
La donna ha fatto un’azione buona, dice Gesù; in greco, alla lettera, «un’opera bella». È la bellezza di chi ama e che non bada a nulla per la persona amata. Lei ha compreso che la morte a cui Gesù va incontro è il frutto di un’intera vita donata ai fratelli. E lei, nella sua piccolezza, nella sua povertà, ha voluto esprimerlo con il suo gesto di amore. E Gesù lo accoglie, perché sa accogliere l’amore che gli diamo, che sia poco o tanto. Per lui non conta quello che si dona, ma il cuore con cui lo si dona.
Qui è una donna che dona e la donna sa bene che cosa comporta dare al mondo una vita; lei sa che dando la vita rischia di perdere la propria. Ma è il dono di un amore totale, che non teme il dolore, la sofferenza, la morte. È la profezia di quanto Gesù sta per vivere fino alla croce. La fragranza di quel profumo accompagnerà il Signore nella passione, nella morte, nella resurrezione. È un annuncio di vita e di gioia: è il profumo di Dio, il profumo del Vangelo. «Dovunque sarà annunciato questo Vangelo, nel mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche ciò che lei ha fatto» (v. 13).
***
Sul Calvario, quando Gesù muore, ci sono le donne che lo accompagnano. Sono lì, nel dolore e nel pianto per il Signore che le ha amate e che loro hanno amato. Una presenza e un amore che sono un segno anche per noi. Quando la vita spesa per gli altri ci porta al calvario e alla croce, spesso la luce della risurrezione è talmente lontana da perdere ogni forza confortatrice. La sofferenza può essere così amara e così totalizzante da spingerci in una situazione di disperata solitudine, di fallimento senza rimedio: la forza del Vangelo per il quale abbiamo tentato di vivere ci si vanifica in mano.
Ai piedi della croce - nel Vangelo di Matteo - i discepoli non ci sono. Ai loro occhi Gesù che muore è il segno della fine di tutto, di una speranza delusa, di un drammatico fallimento. Singolare è allora la figura delle donne sotto la croce. Non è pensabile che ai loro occhi potessero esserci prospettive diverse. Anche per loro Gesù muore, anche per loro il domani è nelle tenebre. Ma c’è un amore più forte che, nel buio, le tiene ai piedi della croce: ed è a questo amore semplice ma pieno, piccolo ma autentico, che per primo si rivela la resurrezione di Gesù.
L’amore delle donne è una strada anche per noi: tante volte ci troviamo nel buio, nello sradicamento totale, nell’assurdo, nel silenzio di Dio. Ma come le donne sono rimaste ai piedi di Gesù che muore, così la nostra preghiera insistente e il nostro silenzio fedele di fronte a un Dio che sembra non rispondere, ha in sé il germe di una speranza: anche a noi, come alle donne, si manifesterà la gloria del Signore che risorge.
* La Civiltà Cattolica,·Domenica 5 aprile 2020]
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UOMINI E DONNE, PROFETI E SIBILLE, OGGI : STORIA DELLE IDEE E DELLE IMMAGINI.
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI : LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
FLS
Lettera aperta a San Cristoforo al tempo del Coronavirus *
Il senso profondo della preghiera.
Con Lui davanti al Dio della vita
di Pierangelo Sequeri (Avvenire, venerdì 27 marzo 2020)
Il Capo se ne sta, dritto e umile, tra Dio e il suo popolo. Non fronteggia l’assemblea degli anziani e la folla dei fedeli, per questa volta. Fronteggia il Signore suo e nostro, il Padre di tutti, il Dio della vita che mille volte già ci ha fatto uscire dalle prigioni della storia, rimettendoci in cammino, perché potessimo celebrare le sue benedizioni e testimoniare la sua misericordia.
Il Capo supplica Dio, per la nostra vita e per le sue promesse, di non abbandonarci. Non siamo stinchi di santi, ma siamo uomini e donne che portano - spesso loro malgrado - i segni della presenza dell’amore di Dio nella storia. Non ne siamo affatto all’altezza: non siamo i migliori che Dio avrebbe potuto trovare, portiamo il tesoro della sua benedizione in vasi di creta, raggiustati più volte, che stanno insieme per miracolo. Però, siamo quelli che Lui si è preso. E abbiamo arrancato per generazioni dietro a Lui: molti hanno perso il passo, molti sono rimasti indietro, molti hanno perso le forze e persino la fiducia. Siamo quello che siamo. Eppure, siamo uomini e donne che tutto vorrebbero, eccetto che essere separati da Lui.
E non abbiamo mai pensato veramente che una creatura umana - chiunque - possa essere abbandonata da Lui. Il Capo, da solo davanti a Dio, rappresenta solennemente tutti noi. E non si sottrae a questo legame profondissimo e struggente. Un vero capo è così. La sua preghiera, in più, ha in serbo una mossa che lo espone direttamente: irresistibile anche per Dio. ’Se tu pensassi di abbandonarli, Signore, con tutto il rispetto, abbandona anche me, perché neppure io potrei seguirti’. Un vero capo arriva a questo. Guardo il papa Francesco nel mezzo di piazza san Pietro, vuota del consueto assembramento, che sta in mezzo fra Dio e il popolo per caricare su di sé il simbolo stesso dell’intercessione, in nome di tutti i credenti e in favore di tutti i viventi. Non posso fare a meno di pensare a quel commovente passaggio della preghiera di Mosè per il popolo, quando osa dire a Dio che non sarebbe un buon segno - per Lui - se abbandonasse il popolo ora, dopo averlo salvato da mali ben peggiori.
Dopo l’episodio del vitello d’oro, infatti, Dio offre a Mosè un nuovo inizio, più o meno in questi termini: ’Facciamola finita con questi, farà di te l’inizio di un nuovo popolo e di una nuova storia’ Mosè, però, respinge l’offerta, supplicando per il popolo: ’Sono quelli ai cui padri e madri hai fatto promesse irrevocabili’ (cfr. Esodo, 32, 10). Il senso profondo della preghiera e dell’atteggiamento dell’intercessione si illumina, qui, di uno splendore emozionante. Così è un vero capo. Nello stesso modo si comporta un vero sacerdote, un vero testimone, un vero credente: ’si mette in mezzo’, esponendosi in prima persona di fronte a Dio stesso, per la vita di ognuno: ’Se li abbandoni, non contare su di me’. Gesù - il Capo reale della Chiesa - ha sigillato l’atto tenero e potente di questa intercessione dalla parte stessa di Dio, iscrivendolo nell’intimità profonda e insondabile del Padre. È il nostro dogma questo, il dogma di tutti i dogmi, capisci? Il Figlio si mette in mezzo, il Figlio intercede, il Figlio non ha nessuna intenzione di abbandonarci, anche quando siamo insopportabilmente inaffidabili.
Nell’orto degli Ulivi, Gesù chiese di essere preso lui soltanto, lasciando i discepoli (Giovanni 18, 7-9). In croce, inchiodato davanti al Padre, chiese di risparmiare i suoi stessi persecutori (Luca 23, 34). Riscoprire il gesto dell’intercessione fino a questa profondità è un miracolo. E nei tempi difficili per il popolo, una grazia insostituibile. Ciascuno di noi è chiamato a riscoprire, anche nel suo forzato isolamento, la benedizione del gesto di intercessione. Ognuno, per gli altri. L’essenza del cristianesimo sta qui, la certezza della redenzione sta qui. L’intercessione comunica un messaggio potente. Non pensate neppure per un istante che i nostri peccati possano indurre Dio ad abbandonarci nella prova. E non scaricate sul vostro prossimo i mali che ci affliggono, sostituendo l’intercessione con l’intimidazione. In momenti di straordinaria angoscia, il semplice e coraggioso gesto dell’intercessione, che supplica di Dio di non abbandonare nessuno, testimoniando che noi stessi non lo faremo, non ha prezzo. È un giuramento di fedeltà che ricompone la comunità: per ciascuno e per tutti. Non ci muoveremo da qui.
Sul tema, in rete, si cfr.:
NOTE ALLA "Lettera aperta a San Cristoforo al tempo del Coronavirus:
FLS
Il concilio Vaticano II ha di fatto concluso la cosiddetta “età costantiniana”...
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Questo doloroso digiuno eucaristico che ci rende ancor più Chiesa
di Andrea Monda (Osservatore Romano, 14 marzo 2020)
Oggi per quasi tutti noi cattolici sarà una domenica senza messa, senza eucaristia. È la prima volta che ci capita nella vita, in precedenza quando è successo era stato in genere a causa delle nostre condizioni di salute ma ora è diverso, sono le messe e le chiese a trovarsi in pessime “condizioni di salute”. Domenica scorsa siamo andati a messa, giusto in tempo perché poi è arrivata la decisione di sospendere le messe pubbliche. Quindi ora, nel mezzo della Quaresima, dovremo avviare, nostro malgrado, un inedito tipo di digiuno, quello eucaristico.
La cosa provoca sconcerto, dolore e dà a riflettere. E il pensiero si muove dal qui e ora e vola nello spazio e nel tempo. È uno dei vantaggi di essere cattolici secondo Chesterton («La Chiesa Cattolica è la sola capace di salvare l’uomo dallo stato di schiavitù in cui si troverebbe se fosse soltanto il figlio del suo tempo»), quello di appartenere ad una storia più grande di me, che mi precede e mi supera, che si estende nello spazio e nel tempo e quindi mi mantiene in una comunione con tutti i miei fratelli nella fede sparsi nel mondo e in ogni epoca: nella Chiesa è tutto sempre presente e contemporaneo.
Il pensiero dunque vola, ad esempio, in Amazzonia. Negli ultimi mesi questa regione così grande, così cruciale e così fragile, grazie all’iniziativa di Papa Francesco che ha indetto un Sinodo della Chiesa su di essa, è stata come “trasportata” e messa al centro del mondo e ci siamo così trovati noi stessi come trasportati in quelle terre dove, tra le altre cose, il digiuno eucaristico è spesso la regola. E non per una settimana o due, ma per lunghi mesi. C’è un modo per capire gli altri ed è soffrire con loro. Domenica forse capiremo un po’ di più i nostri fratelli abitanti dell’Amazzonia, e si tratta, ripeto, del digiuno di una sola domenica, la prima, speriamo di una serie non molto lunga. La discussione scaturita dal Sinodo sull’Amazzonia è stata per mesi molto accesa all’interno della Chiesa cattolica, ora forse è il momento di “sentire con la Chiesa” che si trova in Amazzonia.
Il pensiero vola anche nel tempo e ci conduce ai primi secoli del cristianesimo. In questi tempi di digiuno eucaristico e di chiese chiuse, i nostri pastori stanno esortando i fedeli a riscoprire la pratica religiosa all’interno delle case, la preghiera in famiglia, soprattutto del rosario. Così, ad esempio, la Chiesa italiana sta promuovendo un momento di preghiera per il Paese, invitando a recitare in casa il Rosario, i Misteri della luce, alla stessa ora: alle 21 del 19 marzo. In quella occasione si propone di esporre alle finestre un drappo bianco o una candela accesa. Quando nasce la Chiesa e per i primi secoli del suo cammino, le comunità non si riuniscono in luoghi pubblici di culto ma tutto si svolge nelle “chiese domestiche”. È con la fine delle persecuzioni sotto l’imperatore Costantino che le cose cambiano e si prende la decisione, tanto inevitabile quanto gravida di conseguenze, di convogliare il culto in edifici dedicati esclusivamente al culto.
Oggi da un certo punto di vista siamo tornati alla condizione dei primi secoli, alla riscoperta del senso della comunità credente all’interno delle mura domestiche dove, a causa della diffusione dell’epidemia, ci troviamo costretti a vivere. Alcuni studiosi e teologi hanno riflettuto, a partire dalla metà del secolo scorso, sul fatto che la Chiesa con la fine del potere temporale e soprattutto con il concilio Vaticano II ha di fatto concluso la cosiddetta “età costantiniana” in cui il percorso della Chiesa si era strettamente intrecciato e a volte confuso con quello dei poteri civili e politici. E molti vedono in Francesco il Papa che, proseguendo nella realizzazione del concilio, sta definitivamente chiudendo quella pagina storica cominciata con la svolta dell’imperatore vincitore a Ponte Milvio nel segno della croce.
Proprio Francesco il 21 dicembre scorso, citando Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ha ricordato alla Curia romana che «non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, che non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede - specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente - non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata». Proprio per questo, dice il Papa: «Nelle grandi città abbiamo bisogno di altre “mappe”, di altri paradigmi, che ci aiutino a riposizionare i nostri modi di pensare e i nostri atteggiamenti».
Oggi chi scrive si trova nella grande città di Roma, culla del cristianesimo come spesso viene chiamata, e sente che gli è chiesto un sforzo di fede creativa per sviluppare nuove “mappe”, il che vuol dire anche tornare alle sorgenti della fede, della propria storia, perché per il cristiano anzi è sempre così: tornare all’essenziale, alle radici, al Vangelo, perché lì si trova la vita. Da questo punto di vista la Quaresima è il tempo forte, è il kairòs, il momento opportuno per purificare la nostra fede, rianimare la speranza e allora anche l’inedito e doloroso digiuno eucaristico potrà diventare un’occasione per allargare il cuore, farci sentire in comunione con tutta la Chiesa, il popolo che Dio accompagna sin dall’eternità, in ogni luogo e in ogni tempo.
LA RELIGIONE CATTOLICA NELLA TRAPPOLA DEL "PADRE NOSTRO", DEL "DEUS CARITAS"... *
Oikonomia /10.
Ambiguo è il sacrificio
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 14 marzo 2020)
Sacrificio è parola della religione, dell’economia, di ogni crisi. I sacrifici sono nati o si sono sviluppati durante le grandi crisi collettive - le guerre, le carestie, le pestilenze. Nel mondo antico, quando la vita diventava dura e un male minacciava le comunità, i nostri progenitori iniziarono a pensare che offrire qualcosa di valore alla divinità potesse essere l’essenziale strumento di management delle catastrofi e delle crisi. Il sacrificio agli dèi di animali e, in certi casi, di bambini e di vergini divenne un linguaggio per legare cielo e terra, la speranza collettiva di poter agire sui nemici invisibili. I sacrifici si nutrono di speranza e di paura, di vita e di morte. È una esperienza radicalmente comunitaria, che cura, ricrea e nutre i legami dentro la comunità e tra la comunità e i suoi dèi.
Il sacrificio è luce e buio insieme. Le luci sono chiare. Le comunità non nascono, non durano né crescono senza sacrifici - continuiamo a scoprirlo, e mai abbastanza. Abbiamo imparato a praticare il dono e la generosità in millenni di offerte sacrificali. Ogni dono vero porta intrinseco una dimensione di sacrificio (nel senso più comune della parola). Quei doni che non ci costano nulla non valgono nulla - una delle leggi sociali più antiche -, perché il dono vero è sempre dono della vita. Amiamo molto i doni, soprattutto da parte delle persone più care, perché sono sacramenti del loro amore per noi. Per i nostri ragazzi i giorni della pandemia che stiamo vivendo tra l’inverno e la primavera di questo anno 2020 possono essere anche un tempo meraviglioso per imparare il misterioso e decisivo rapporto tra sacrificio, dono, vita.
Venendo al suo lato oscuro, il sacrificio ha una intrinseca dimensione verticale e asimmetrica. Non si offre qualcosa a un pari grado, ma a una entità sentita superiore. Le comunità sacrificali sono sempre gerarchiche, perché il rapporto uomo-dio diventa immediatamente il paradigma dei rapporti politici e sociali, quindi del potere. La comunità che offre sacrifici e doni agli dèi deve anche offrire sacrifici e doni ai potenti e al re - che in certe religioni è di natura divina. Il dono fatto al re è il regalo (da rex: re), che si fa perché non lo si può non fare.
Se poi guardiamo le stesse parole che abbiamo appena usato per descrivere la luce del sacrificio (“costano”, “valgono”, “care”), ci ritroviamo subito dentro un’altra sua dimensione buia, legata ancor più direttamente all’economia. Il sacrificio non è un atto isolato, è un processo che si svolge nel tempo. All’inizio c’è in genere una aspettativa di ritorno che troppo facilmente diventa pretesa. La grazia desiderata nei sacrifici è oggetto di commercio. In genere il sacrificio si trova prima della grazia. E anche quando il sacrificio arriva dopo, quando torneremo al tempio per fare un’altra offerta sacrificale saremo già dentro un rapporto commerciale con il dio.
È possibile che molte comunità abbiano iniziato la pratica del sacrificio di oggi come riconoscenza per un dono ricevuto ieri dagli dèi, e che dal secondo sacrificio in poi sia prevalso il registro commerciale, e il sacrificio sia diventato il prezzo pagato in anticipo per lucrare una nuova grazia. Ciò che manca (o che è fortemente sfidata) nei sacrifici è proprio la gratuità.
Attraverso la mediazione del cristianesimo il sacrificio è entrato direttamente nell’economia medioevale e poi nel capitalismo, diventandone uno dei pilastri etici. Economia e sacrificio hanno entrambi a che fare con la dimensione materiale della vita. Nei sacrifici non basta offrire preghiere e salmi di lode: occorre offrire qualcosa di materiale, sacrificare cose o vite alla cose assimilate. I primi beni economici della storia umana sono stati gli animali offerti, i primi mercati quelli con gli dèi, i primi commerci quelli tra cielo e terra, i primi mercanti i sacerdoti dei templi.
Il sacrificio lo incontriamo oggi in molti luoghi del capitalismo. E non solo nei fenomeni più evidenti, quali i crescenti sacrifici chiesti dalle grandi imprese ai dipendenti, che oggi prendono spesso la forma di veri olocausti (distruzione totale dell’offerta) della vita intera, perché spesso inutili alla produttività dell’azienda, ma puri segnali di devozione totale e incondizionata.
La presenza più interessante del sacrificio nel capitalismo è però quella meno evidente. Nelle religioni il sacrificio non vuole solo cose: vuole cose vive che muoiono mentre le offriamo. Il sacrificio consiste proprio nel trasformare ciò che vive in qualcosa che muore perché vivo (solo le cose vive possono morire: gli oggetti non muoiono perché non sono vivi). Le monete, ad esempio, si trovano nei santuari di tutto il mondo, ma non sono usate come materia del sacrificio - servono per comprare animali da offrire, o si lasciano come accessori complementari al sacrificio vivo. Nei sacrifici quegli animali o quelle libagioni (vegetali), che come tutte le cose vive sarebbero destinate necessariamente e naturalmente alla morte, grazie al sacrificio riescono, paradossalmente, a sconfiggere la morte, ad acquistare una dimensione che le sottrae al ritmo naturale della vita. Perché se da una parte l’agnello muore prematuramente perché sacrificato quando è ancora vivo, mentre muore sull’altare diventa qualcosa di diverso che vince le leggi naturali. Entra in un altro ordine, acquista un altro valore. Non morendo naturalmente diventa, in un certo modo, immortale.
Anche l’economia vive e cresce trasformando cose destinate alla morte in beni che acquistano valore proprio in questa trasformazione. Ogni giorno le imprese prendono cose vive (materie prime, animali, grano, cotone, le nostre energie...), destinate in quanto vive alla morte, e creano valore aggiunto facendole “morire” trasformandole in merci. Quel valore che si aggiunge alle cose nel trasformarle somiglia molto al valore che gli animali e le piante prendevano mentre venivano offerte sull’altare.
La lettura della morte e risurrezione di Gesù è stata anche letta da questa prospettiva: il suo “sacrificio” sconfigge l’ordine naturale della morte e lo rende, con la risurrezione, immortale. Anche il martirio, o più tardi la verginità, furono lette nel cristianesimo come un’alchimia della morte in una vita diversa e superiore.
Il rapporto tra cristianesimo e sacrificio è però pieno di equivoci. Anche se la vita e le parole di Gesù si muovono dentro una logica anti-sacrificale («Misericordia voglio, non sacrifici»), il cristianesimo da subito ha interpretato la passione e morte di Gesù come un sacrificio, come l’«agnello di Dio» che con la sua morte toglie, definitivamente, il peccato dal mondo. Un nuovo e ultimo sacrificio (Ebrei 10), che sostituisce gli antichi e reiterati sacrifici nel tempio. Il sacrificio di Gesù, del Figlio, sarebbe stato il prezzo pagato a Dio Padre per estinguere l’enorme debito che l’umanità aveva contratto. Gesù il nuovo sommo sacerdote che offre in sacrificio non animali ma se stesso (Ebrei 7).
Questa teologia sacrificale ha attraversato e segnato l’intero Medioevo, ribadita dalla Controriforma, e ancora oggi molto radicata nella prassi cristiana. L’idea sacrificale informa molta liturgia cristiana, e ha trasmesso al cristianesimo anche la visione gerarchica tipica del sacrificio. Per tutto il Medioevo (e oltre) la cultura del sacrificio si è espressa infatti in pratiche sociali di sacrificio dove erano i sudditi, i figli, le donne, i servi, i poveri a doversi sacrificare per i padroni, per i capi, per i preti, per i padri e per i mariti. Il sacrificare a Dio divenne facilmente sacrificarsi per altri uomini che, come Dio, si trovano sopra e più in alto dei sacrificanti.
Il contesto teologico sacrificale ha offerto a rapporti di potere asimmetrici e feudali una giustificazione spirituale, chiamando sacrificio ciò che era, semplicemente, sfruttamento.
Il sacrificio sta finalmente uscendo dalla teologia più recente (grazie a una comprensione più biblica del mistero della Passione), ma sta entrando sempre più nella nuova religione capitalista. Infatti, il processo creativo delle cose vive che muoiono, e “morendo” aumentano il loro valore, è diventato particolarmente forte e centrale nel capitalismo del XXI secolo, dove, diversamente da quanto avveniva nel passato, le prime cose vive che acquistano valore morendo sono diventati i lavoratori.
Marx ci aveva spiegato che solo le persone sono capaci di creare valore aggiunto in economia - non bastano le macchine. Questa antica verità ha subìto recentemente una importante trasformazione. Fino a qualche decennio fa, il “sacrificio” richiesto dalle fabbriche non era eccessivo, tantomeno totale: era soltanto quello inquadrato nel contratto di lavoro e custodito dai sindacati.
Il sacrificio della vita lo si riservava solo alla fede, alla famiglia, alla patria. La mutazione in senso religioso del capitalismo e l’eclissi degli altri ambiti “sacrificali”, ha fatto sì che le grandi imprese siano diventate i nuovi luoghi del sacrificio totale. A questo capitalismo non basta più né interessa consumare la nostra forza-lavoro. Sono i lavoratori che devono offrirsi, spontaneamente, sull’altare. Il loro culto ha bisogno delle persone intere - in ogni religione l’offerta più gradita è quella intera, giovane e senza macchia -, che valgono tanto più quanto più grande è il loro sacrificio. È crescente e impressionante, ad esempio, il numero di manager single o senza figli nelle posizioni apicali delle grandi imprese, un numero che aumenta molto nelle capitali del capitalismo (da Singapore a Milano). Una nuova forma di celibato e di voto di castità, essenziali alla nuova religione. E, come nel Medioevo, la bella parola sacrificio copre la brutta parola sfruttamento. Questo capitalismo sta manipolando troppe parole.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL VANGELO DI PAPA RATZINGER E DI TUTTI I VESCOVI E IL "PANE QUOTIDIANO" DEL "PADRE NOSTRO", VENDUTO A "CARO PREZZO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA : VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
L’anima e la cetra /5.
La benedizione dell’attesa
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 25 aprile 2020)
«Porgi l’orecchio, Signore, alle mie parole: penetra nel mio bisbiglio. Sii attento alla voce del mio grido, o mio re e mio Dio, perché te, te supplico Signore» (Salmo 5, 2-3). Un uomo innocente è accusato di un delitto. Ha cercato di difendersi, invano. Ha esaurito i gradi di giudizio della giustizia umana. Gli resta ancora il Giudice di ultima istanza. Si alza di buon mattino, anticipa il sorgere del sole, si reca nel tempio per presentare a Dio la sua “causa”. Riesce solo a bisbigliare poche sillabe, a emettere un sussurro con le ultime energie morali che gli sono rimaste: «Al mattino ascolta la mia voce; al mattino ti espongo la mia causa e resto in attesa...» (4). Penetra nel mio bisbiglio. In queste ultime udienze della vita resta solo il fiato per un bisbiglio. Non ci sono preghiere più umane dei sussurri sottovoce mescolati col pianto. Il sussurro dell’uomo umiliato e straziato è la forma pura della preghiera che commuove il cielo e la terra. Ed è la più bella preghiera laica e umanissima che ci possiamo dire gli uni agli altri, quando solo chi è capace di sussurrare tra il cuscino, il ventilatore e il cuore può penetrare bisbigli preziosi come la vita.
Quest’uomo sa di essere innocente, e denuncia e condanna i malvagi che l’hanno ingiustamente infamato: «Tu non sei un Dio che gode del male... Tu hai in odio tutti i malfattori... Sanguinari e ingannatori, il Signore li detesta» (5-7). E poi loda Dio che lo ascolta: «Io, invece, per il tuo grande amore, entro nella tua casa... Guidami, Signore, nella tua giustizia a causa dei miei nemici; spiana davanti a me la tua strada» (8-9). Bella l’immagine della strada spianata. La giustizia è anche rettitudine, cioè l’arte di rendere rette le vie, di spianare gli ostacoli, di rimuovere le pietre d’inciampo, cioè gli scandali. La via del povero è costellata di pietre e di ostacoli. Leggi, decreti dei potenti, trucchi. La giustizia dovrebbe spianare la sua strada e farlo camminare libero. La buona storia umana è una progressiva trasformazione di strade accidentate in strade dritte e poi una continua manutenzione di queste strade aggiustate perché alla prima nostra distrazione si riempiono subito di pietre e di scandali.
L’uomo del Salmo 5 usa una tipica struttura retorica del salterio: “loro ... io invece”. Loro stolti e bugiardi ... io invece innocente. Quale il senso di questo: “io invece”? Una prima lettura di questi versi porterebbe a dire che il Dio biblico esaudisce le preghiere in virtù della giustizia di colui che prega. L’intervento della giustizia di Dio sarebbe una risposta alla giustizia dell’uomo. Solo il giusto è ascoltato nella sua preghiera. Molti lo pensano, molti lo hanno sempre pensato, perché tendiamo ad attribuire a Dio le stesse caratteristiche dei buoni giudici umani. Delitti e pene, meriti e premi. Amiamo talmente la giustizia da non poter immaginare un Dio che sia meno giusto di noi. E così, prima creiamo la giustizia divina “a immagine e somiglianza” della nostra, e poi, una volta creata, usiamo questa giustizia “divina” per dare un crisma sacrale alla nostra giustizia umana, per condannare gli altri con la benedizione di Dio, fino a fondare oggi la meritocrazia sulla Bibbia e sui Vangeli. Lo abbiamo sempre fatto, e continuiamo a farlo. Noi conosciamo le leggi economiche e quelle giuridiche e, senza volerlo, abbiamo costretto Dio a diventare un commerciante e un giudice.
Ma c’è anche una seconda possibile lettura. È quella che non pone la ragione dell’ascolto della preghiera nei meriti/colpe di chi prega ma nella gratuità di Dio. Siamo salvati perché siamo buoni o diventiamo buoni perché siamo salvati? L’antica domanda al cuore della fede biblica. San Paolo cita questo salmo 5 (il versetto 10 sulla cattiveria e la menzogna degli altri) per dire qualcosa che va nella direzione di questa seconda interpretazione: «Non c’è differenza, perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia» (Rm 3,13). Tutti sono giustificati gratuitamente per la sua grazia. Una rivoluzione epocale e ancora incompiuta, perché è troppo forte in noi la tentazione di leggere ciò che di buono ci accade come la ricompensa dei nostri meriti, e le cose cattive che succedono agli altri come frutto delle loro colpe. Perché ci piacciono i doni, ma di più ci piace pensarci meritevoli dei doni. Ma se Dio fosse circoscritto nello stesso perimetro della nostra idea di giustizia commerciale e giuridica non avremmo da nessuna parte qualcuno capace di far evolvere ciò che già chiamiamo giusto in quel giusto che non ha ancora questo nome.
Se e quando le comunità costringono Dio a essere giusto nelle forme e nei modi della loro giustizia umana, si auto-confinano in trappole etiche che impediscono alla giustizia loro e di Dio di diventare migliore. Sono i casi, molto frequenti nelle religioni, quando una teologia ristretta restringe l’umano. La Bibbia e il suo Dio sono invece cresciuti insieme alle interpretazioni che gli uomini e le donne hanno dato alla giustizia divina. Anche questo è reciprocità tra cielo e terra. Le stesse pagine bibliche, gli stessi salmi, hanno detto cose diverse alle diverse generazioni di lettori. E non tanto né soltanto per lo sviluppo delle tecniche esegetiche, ma perché l’evoluzione delle nostre idee di giustizia e di amore hanno cambiato e arricchito le domande che abbiamo imparato a rivolgere a Dio e a noi stessi, e così quelle antiche parole bibliche hanno imparato parole nuove e diverse dal patire degli uomini e delle donne. La Bibbia è logos e dia-logos, ci parla solo se le facciamo domande, e attende che ogni giorno le ripetiamo: “vieni fuori”.
Ogni generazione ricomprende il “sacrificio” di Isacco e la passione di Cristo sulla base della crescita delle idee di giustizia che è stata capace di generare e far risorgere dalle sue ferite. Oggi diciamo cose diverse - e le dobbiamo dire - sui padri, sui figli, sui sentimenti che provano gli uni e gli altri di fronte ai Golgota e ai Monti Moria, perché abbiamo avuto migliaia di anni per capire cosa sia il morire e il risorgere. E se noi impariamo cose nuove sulla vita, in noi le impara anche la Bibbia che riesce così a dirci cose che non poteva dirci duemila anni fa, né ieri. Il Dio biblico per crescere ha bisogno di noi e della crescita della nostra giustizia. La parabola del buon samaritano che si prende cura dell’uomo “mezzo morto” ha detto sempre cose nuove dopo ogni guerra, dopo ogni epidemia, dopo ogni volta che siamo arrivati noi “mezzi morti” in un prontosoccorso; e potrà dire cose nuove oggi quando medici e infermieri ci hanno ampliato la semantica dell’espressione “prendersi cura”. E forse avevamo bisogno di due mesi di chiese chiuse e liturgie sospese per capire diversamente, in questa ora, le parole del Vangelo di Giovanni: «Ma viene l’ora - ed è questa - in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Gv 4,23).
C’è molto del canto di Giobbe nei canti del Salterio. Il nostro canone colloca i Salmi dopo il Libro di Giobbe perché non capiamo i Salmi senza leggerli in compagnia di Giobbe, se non li cantiamo dal suo mucchio di letame, se non li intoniamo fuori dalla mura, come lui scomunicati, condannati dagli amici, in dialogo con un Dio che tarda ad arrivare. Anche Giobbe trasformò la sua discarica in una aula di tribunale, anche lui portò sul far del mattino la sua “causa” a Dio: «Con Dio desidero contendere. Ecco, espongo la mia causa, sono convinto che sarò dichiarato innocente» (Gb 13, 17-18). Allora se leggiamo la causa del salmista insieme alla causa di Giobbe possiamo imparare qualcos’altro di nuovo sul loro Dio. L’autore del Salmo 5 porta a Dio la sua causa, e... “attende”; Giobbe chiede a Dio di scendere dal suo trono per essere fideiussore della sua innocenza, e ... attende. Entrambi hanno in comune l’innocenza e hanno in comune l’attesa di una giustizia diversa. Non sappiamo se questa giustizia più giusta arrivò per il protagonista del Salmo 5, non è mestiere del Salterio narrarci gli epiloghi delle vicende dei suoi personaggi. Conosciamo però come finì la preghiera di Giobbe: nonostante la sua innocenza, il Dio di Giobbe non venne all’appuntamento, e quando, alla fine, arrivò, non era il dio che Giobbe aspettava; non venne il Dio di Giobbe ma quello dei suoi amici e della loro teologia, un dio che si rivelò troppo più piccolo della giustizia di Giobbe che era cresciuta insieme alle sue piaghe.
Allora un messaggio nascosto in queste pagine bibliche è la benedizione dell’attesa. La fede in una giustizia diversa e più alta genera la speranza non-vana che domani possa davvero arrivare il Messia e che lo sapremo riconoscere come si riconosce un amico perché lo abbiamo atteso e desiderato. Il giorno del Messia è domani, ma questo domani benedice l’oggi e gli cambia il nome. Alla nostra generazione non manca solo la fede, le manca soprattutto la speranza e il desiderio dell’attesa.
Questa attesa in-finita della storia non è esclusiva di un club di innocenti e di giusti: è anche quella dei malvagi e dei peccatori, perché si può sempre infilare in uno dei pertugi di innocenza che ogni uomo vive in alcuni giorni luminosi della vita - anche Caino, anche Giuda, e quindi anche io, sebbene debba sempre combattere la tentazione invincibile di identificarmi con la parte giusta dei salmi. La nostra bontà è più grande dei nostri peccati.
Un’altra volta, un altro giorno, un altro uomo in crisi e depresso che voleva morire sotto una ginestra, fu salvato da un sussurro, da una «sottile voce di silenzio» (1 Re 19). Quella volta fu Dio che imparò a sussurrare, e quel bisbiglio arrivò all’orecchio di Elia e lo risuscitò. E se la preghiera fosse soltanto un incontro di sussurri?: «Tu benedici l’innocente Signore, lo corazza e lo incorona la tua benevolenza» (15).
Cercando la fede / 15.
Lumini: «Lo Spirito soffia. È tempo di rischiare»
Fiorentina, eremita di città, da 35 anni conduce una ricerca spirituale fondata su silenzio e preghiera che ne ha fatto un riferimento per tante persone
di Roberto I. Zanini, inviato a Firenze (Avvenire, domenica 2 febbraio 2020)
«Intorno a noi crollano strutture e certezze che per secoli hanno sorretto la società, ma che ora non sembrano più corrisponde alla vita reale. Questo provoca smarrimento, crisi di identità, angoscia. C’è chi si arrocca nel passato, alimentando vari fondamentalismi, chi si lascia prendere dalla paura del futuro. Indietro però non si torna. Dobbiamo imparare a stare nel qui ed ora per scorgere i germi di un futuro ancora in gestazione. E questo, noi cristiani lo dovremmo sapere, si può fare solo lasciandosi ispirare dallo Spirito Santo. Ma ci crediamo davvero allo Spirito Santo?».
Nel parlare Antonella Lumini è sempre molto diretta. Le sue espressioni, senza fronzoli, centrano il problema così come i suoi occhi ti guardano senza incertezze. Vive a Firenze e da trentacinque anni porta avanti un percorso di spiritualità fondato sulla preghiera interiore ispirandosi alla ’pustinia’ (deserto), la via del silenzio secondo la tradizione ortodossa russa. La sua pustinia, posta nell’appartamento in cui vive, l’ha fatta conoscere come eremita di città. Nei fatti, come per tutti gli eremiti nella storia della Chiesa, il suo stile si è rivelato attrattivo e ora organizza e conduce numerosi incontri di silenzio, meditazione e preghiera. Scrive sull’Osservatore Romano e ha pubblicato alcuni libri, l’ultimo dei quali, Spirito Santo. Divina maternità, amore in atto, è da poco in libreria per le Paoline (pagine 220, euro 17) ed è frutto di una ricerca spirituale e di scavo nel testo biblico di un paio di decenni.
Ci crediamo allo Spirito Santo? Siamo stati battezzati «in Spirito Santo e fuoco». I primi discepoli lo percepivano come presenza che guida, illumina e indica la strada. Se ci crediamo non possiamo né restare ancorati al passato, né avere paura del futuro, perché lo Spirito Santo è atto creativo, che spinge sempre oltre. La creazione non si è fermata con la Genesi, è sempre in atto. Siamo sempre nell’’in principio’ perché lo Spirito è eterna dinamicità. Non cessa di soffiare e il nostro compito, di singoli cristiani e di Chiesa, è di metterci in ascolto. Il primo comandamento, del resto, ci chiede di ascoltare: «Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio...».
Se non ascoltiamo? Se non ascoltiamo tendiamo a rimanere attaccati al passato, non evolviamo spiritualmente, perdiamo contatto con la realtà che si rinnova sempre. La Parola è eterna, lo Spirito la attualizza nella realtà concreta, nel qui e ora sempre nuovo di ogni giorno. Se non restiamo in ascolto come possiamo vivere la Parola nelle nostre azioni?
Cosa vuol dire ascoltare? Il buon ascolto avviene nel silenzio. Quando riusciamo a far cessare il rumore intorno e dentro di noi per poter sentire il ’soffio leggero’ col quale Dio si rivela, come a Elia sull’Oreb. Silenzio e solitudine consentono di vivere la dimensione dello Spirito. Poi, come Elia, come Gesù si scende dal monte e si lascia che la Parola ascoltata agisca nella quotidianità. Non si tratta di fuggire dal mondo ma di stare nel mondo senza appartenere al mondo. Si può fare opera di salvezza solo testimoniando l’azione dello Spirito in noi. Lo Spirito Santo agisce in coloro che si rendono disponibili e mai come nei nostri tempi sta attirando a sé.
Cosa intende dire? Che in questa umanità sradicata e smarrita lo Spirito apre i suoi canali di luce. Il nostro è un tempo di smascheramento dai tanti inganni, false identificazioni, ipocrisie. C’è un passaggio in atto che tutti avvertiamo, ma le cui potenzialità ancora non sono in grado di emergere. Lo Spirito preme per far dilatare i cuori, illuminare le coscienze, per trasformare le macerie del mondo con la sua opera creatrice. È evidente che quanto è mal costruito o troppo rigido sia destinato a crollare. Il nuovo che affiora sta imponendo anche alla Chiesa trasformazioni che mettono in crisi strutture ormai sterili. Sono germi di futuro che bisogna saper cogliere nel presente. Sono convinta che l’era dello Spirito stia avanzando, per questo come Gesù alla donna al pozzo possiamo ben dire che «è giunta l’ora, ed è questa, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità».
Perché la gente è attratta dall’idea del silenzio e da tante proposte di meditazione? Per lo smarrimento, la crisi di senso che domina la società. Il vecchio assetto sta crollando, mancano però nuovi riferimenti in sostituzione di quelli che fino a poco fa sembravano incrollabili. Il silenzio consente di entrare in contatto con l’atto creativo che ci ha generati e che è rimasto impresso nel cuore. Le persone avvertono una nostalgia di bellezza, di quell’innocenza che la memoria profonda preserva nonostante che questo mondo abbia smesso perfino di tutelare l’innocenza dell’infanzia. Oggi lo Spirito chiede di incoraggiare coloro che sentono il desiderio di percorrere strade che conducono a un’esistenza più profonda e consapevole. Segno evidente dell’insorgere di una nuova quanto antica vocazione che la Chiesa deve saper cogliere.
Perché non dovrebbe? Perché per troppo tempo si è creduto che vivere la libertà dello Spirito potesse comportare troppi rischi... ma la libertà dello Spirito chiede spoliamento, morte a se stessi. Si sono messe regole su regole, ma tutto ha un rischio, anche il troppo controllo comporta il rischio del potere. Se si crede allo Spirito e ci si affida, bisogna rischiare. L’urgenza lo esige. Solo lo Spirito può generare la Chiesa in uscita. In uscita dalla propria autoreferenzialità, dalle troppe regole. La beata Elena Guerra, apostola dello Spirito Santo, diceva che la Chiesa dovrebbe sentirsi come un cenacolo universale... gli apostoli stavano nel cenacolo impauriti e smarriti, ma l’irrompere dello Spirito Santo li spinge fuori senza troppo stare a guardare a rischi e conseguenze. Lo Spirito Santo irrompe e attiva. L’azione della Chiesa deve essere suscitata dallo Spirito. Non serve troppo efficientismo, servono azioni efficaci ai fini della salvezza.
Si tratta semplicemente di testimoniare il Vangelo... Come affermava Simone Weil il cristianesimo deve essere incarnato, riverberarsi nell’umanità e nel modo di vivere, emanare dalla persona. Questo è ciò che colpisce e attrae di Gesù. Non servono proselitismo, strategie, ma essere quel che si è: questa è la testimonianza fondamentale oggi per la Chiesa. Il cristianesimo risveglia uno sguardo nuovo che nasce dall’ascolto, dalla preghiera interiore. È l’esatto contrario dell’autocentratura tipica del nostro tempo, dei social, dei selfie. Il cristiano non ha bisogno di mettersi in mostra perché la sua pienezza viene da dentro, non conta l’apparire ma, ripeto, quello che si è. E questo evangelizza.
Servono maestri di silenzio e di preghiera? Dobbiamo sostenere le esperienze di coloro che sentono il richiamo al silenzio, incentivare la preghiera personale. Sviluppando comunione con Dio, la preghiera interiore crea comunione con i fratelli. Libera da condizionamenti egoici. Lo Spirito purifica, lavora nell’anima, apre alla grazia. Permette di discernere lo spirito del mondo attecchito dentro di noi. Attiva la lotta interiore. Non si parla più dei sette vizi capitali, di quella sottile psicologia elaborata dai padri del deserto, che scruta le malattie dell’anima. Ci sono forze che ci dominano e ci chiudono all’azione dello Spirito. La luce dello Spirito fa come da specchio che purifica, spezza le catene. È urgente tornare a dare importanza alla cura dell’anima, alla ricerca della luce di Dio nel nostro cuore. Le persone ne hanno bisogno, per questo scelgono pratiche di altre tradizioni, cercano maestri di vita interiore. Una sensazione di vuoto sempre più evidente che accelera l’avvento dell’era dello Spirito.
Questa è mistica... Certo. Ma la mistica non è una cosa per pochi eletti, per i santi sugli altari. L’esperienza dello spirito è relazione intima con Dio, è una potenzialità per tutti e oggi lo Spirito chiama perché i tempi urgono. Per questo «è giunta l’ora ed è questa». Gesù fa questo importante annuncio a una donna come tante. Bisogna tornare a dare spazio allo Spirito, fulcro del nostro battesimo che altrimenti rischia di restare come un seme che non fruttifica.
Critica economica.
Il feticismo delle merci che promette l’immortalità
Un saggio rilegge le profetiche analisi economiche di Walter Benjamin e la sua denuncia del capitalismo come “frutto” dell’insinuazione del serpente: «Sarete come Dio»
di Luigino Bruni (Avvenire, venerdì 24 gennaio 2020)
Un classico è sempre attuale. Non perché ha bisogno di essere attualizzato da noi, ma perché costringe chi lo legge a farsi suo contemporaneo. Chi incontra un classico fa un viaggio nel tempo, lo raggiunge dentro il suo spazio e la sua vita, e poi scopre che è anche il suo proprio tempo, il suo spazio, la sua storia e la sua vita. Senza i grandi scrittori e i grandi artisti, il passato sarebbe semplicemente inaccessibile e incomprensibile. Che cosa fosse l’atmosfera del sabato pomeriggio di un villaggio marchigiano di inizio Ottocento, cosa fossero (non solo come si mostravano) i piedi dei popolani romani del Seicento, cosa fosse la miseria dei miserabili francesi. E invece grazie a Leopardi, Caravaggio e Hugo li conosciamo e li capiamo.
I classici affratellano lo spazio e il tempo, li mettono in comunione- comunicazione. È questo, forse, il loro dono più grande. Un classico, poi, è sempre radicale, sbilanciato, eccessivo. Non è ruffiano e quindi non dice le cose che dovrebbe dire per soddisfare i gusti dei consumatori. È partigiano, è parziale come la verità, mai politically correct. Dice qualcosa, non dice tutto, ma quel qualcosa limitato e relativo contiene una goccia capace di bucare il tempo. Non è più buono degli altri uomini e donne, né più vero né dotato di una moralità superiore. È semplicemente abitato da un daimon, sempre eccedente rispetto alla persona che lo ospita; e così una tipica penitenza di questi esseri geniali (genio = daimon) è l’esperienza della inadeguatezza, di non essere all’altezza etica e spirituale delle cose che capisce, scrive, traduce in opere.
Walter Benjamin è certamente un classico. È una delle figure più originali e geniali del pensiero europeo del Novecento. Meno noto era, fino a poco fa, il suo contributo nel dibattito sul capitalismo, sulla sua natura e sul suo destino. Da qualche anno, grazie soprattutto al lavoro di Giorgio Agamben, stiamo tutti riscoprendo le geniali e profetiche intuizioni del filosofo ebreo tedesco, morto suicida nel 1940 sui Pirenei, per sfuggire alla cattura dei nazisti.
Ora, il saggio di Vincenzo Di Marco e Biancamaria Di Domenico, Walter Benjamin. La religione del capitalismo (edizioni Pazzini, pagine 112, euro 12), continua a svelarci i tesori di ’teologica economica’ contenuti nel pensiero di Benjamin, e non solo nel frammento del 1921, Capitalismo come religione, ma anche in opere più classiche, come Angelus Novus e i Passages, dove, leggendo il libro di Di Marco e Di Domenico, scopriamo idee molto importanti sull’economia, sul capitalismo e la sua dimensione sacrale, che ci svelano anche alcune affermazioni misteriose e oscure contenute nel frammento del 1921.
Il saggio affronta molti dei temi che si situano all’incrocio delle idee di Benjamin sul capitalismo, sulla filosofia e sulla religione - dal messianismo, al feticismo delle merci e quindi all’idolatria, la metamorfosi del cristianesimo in un’altra religione: il capitalismo. E lo fa dialogando con i classici che hanno scritto su questo tema, cominciando da Marx e Weber, e finendo con Derrida e Agamben (meno utili sono i molti riferimenti a commentatori contemporanei, che raramente sono all’altezza dei classici, e finiscono spesso per appesantire e complicare la lettura).
Ma nel libro ci sono soprattutto molte parole di Walter Benjamin, alcune stupende e generative di nuove parole per il nostro tempo. Parlando, ad esempio, della natura idolatrica della prostituzione e del gioco d’azzardo, scriveva: «Solo gli idealisti sprovveduti possono credere che il piacere dei sensi, di qualsiasi natura esso sia, possa determinare il concetto teologico del peccato.
Alla base della vera lussuria non c’è altro che questa sottrazione del piacere del corso della vita con Dio, il cui legame con essa risiede nel nome. Il nome stesso è il grido del nudo piacere. Questa cosa sobria, in sé priva di destino il nome - non ha altro avversario che il destino, che prende il suo posto nella prostituzione e crea il suo arsenale nella superstizione» (I passages di Parigi). Non si comprende allora, anche alla luce del passaggio appena citato (per non parlare della tesi di Benjamin che il capitalismo è una religione «senza espiazione»), l’affermazione degli autori che leggiamo a pagina 98: «Nel pensiero di Benjamin manca la nozione di peccato che troviamo invece nel cristianesimo».
Molto spazio è consacrato nel saggio al discorso sul feticismo delle merci (dove ritroviamo e rileggiamo volentieri le splendide intuizioni di Marx), anche perché è un tema centrale nel capitalismo di Benjamin e nel nostro, profondamente legato a un altro tema cardine: l’idolatria.
Infine, gli autori colgono molto bene uno dei punti centrali in Benjamin (e in Adorno) e nella religione capitalistica: la promessa di immortalità. Ma come dice Benjamin, «la promessa di immortalità che le merci incarnano è connessa a un tempo che non vuol saperne della morte, una “età dell’inferno”». Non è l’età del paradiso ma, paradossalmente, quella dell’inferno. Perché un mondo di cose che non muoiono non è l’eden della Bibbia. Nell’eden, l’albero della vita consentiva una immortalità agli uomini, a condizione che non avessero preteso di essere i padroni (di mangiare i frutti) della conoscenza del bene e del male. L’eternità buona dell’uomo non è quella di Dio, perché la sua vita resta inscritta nel perimetro etico che non è generato e consumato dall’uomo stesso.
Il capitalismo, invece, la sua hybris ha immaginato una eternità come frutto dell’onnipotenza degli uomini a partire dalla definizione assoluta (slegata) di cosa sia il bene e di cosa sia il male. C’è anche questo dentro una naturale diffidenza del pensiero cattolico nei confronti delle filosofie del contratto sociale: il bene e il male non si definiscono per contratto, come l’ideologia neoliberale pensa e vuole prima di tutto, perché il bene e il male e i suoi confini non sono negozionabili: sono dono, sono eredità, sono testamento. La promessa di eternità del capitalismo oggi non è tanto l’allungamento della vita, la sostituzione degli organi, la chirurgia estetica, ma è l’antico promessa del serpente: «diventerete come Dio». Benjamin intuiva che il capitalismo sarà religione perfetta quando le imprese vendendoci la sua merce cercheranno di venderci un pezzo di paradiso. E noi ci crederemo.
MEMORIA E STORIA / STORIA E MEMORIA.... *
il santo del giorno
Conversione di san Paolo.
La luce improvvisa, la caduta, la voce di Cristo. La fede è apertura all’inaspettato infinito
di Matteo Liut (Avvenire, sabato 25 gennaio 2020)
Il cambio di rotta, la strada nuova, la svolta imprevista: la fede è apertura all’inaspettato, alla novità che trasforma la vita, all’infinita luce che entra dentro il buio dei nostri errori. Ecco perché la Chiesa oggi celebra la Conversione di san Paolo, ricordando a tutti, così, che Dio ci chiama sempre, continuamente, che nessuno è "spacciato".
"All’improvviso lo avvolse una luce dal cielo - si legge negli Atti degli Apostoli - e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: Saulo, Saulo, perché mi perséguiti?". Era l’inizio di una nuova esistenza per Paolo, che sarebbe diventato uno dei pilastri della comunità dei credenti, l’apostolo che fece del Vangelo un messaggio davvero "cattolico", cioè offerto a ogni popolo e a ogni nazione della Terra.
Dopo l’incontro con Cristo sulla via di Damasco, Paolo rimase accecato e dopo aver recuperato la vista fu battezzato: l’immersione nella vita di Dio è il dono di uno sguardo diverso sul mondo.
Altri santi. Sant’Anania di Damasco, martire (I sec.); beata Arcangela Girlani, vergine (1460-1494).
Letture. At 22,3-16; Sal 116; Mc 16,15-18.
Ambrosiano. At 9,1-18; Sal 116 (117); 1Tm 1,12-17; Mt 19,27-29.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
AUGUSTO, LA SIBILLA TIBURTINA, E LA "MADONNA DI FOLIGNO" DI RAFFAELLO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Oikonomia /2.
È quel poco che vale davvero
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 18 gennaio 2020)
Il pensiero economico di Karl Marx è ancora un passaggio obbligato per chi voglia indagare la natura sacrale del nostro capitalismo. Le sue domande - meno le sue risposte - sono ancora capaci di aprirci squarci profondi sull’economia del nostro tempo, farci intravedere orizzonti alti ancora troppo poco esplorati, soprattutto da quando, una trentina di anni fa, con il crollo del comunismo reale si pensò di far crollare anche Marx, come se un autore non sia eccedente rispetto alla traduzione storica del suo stesso pensiero. Sia Walter Benjamin sia Marx nella loro analisi della religione capitalistica attribuiscono un ruolo centrale ai prodotti: alle merci. Marx nel "Capitale" pone all’inizio del suo ragionamento il tema del carattere feticistico delle merci, uno dei pilastri metodologici della sua critica. Carattere feticistico, cioè la merce come feticcio.
Il feticcio è un elemento del mondo sacro, tipico degli stadi originari e primitivi della religiosità umana. È un oggetto inanimato, cui le comunità e le singole persone attribuiscono proprietà magiche o soprannaturali. La parola portoghese (feitiço) venne usata dai navigatori moderni per indicare amuleti e totem che trovavano nei popoli africani, e più tardi fu parzialmente estesa anche a oggetti religiosi di tipo sacrale, a immagini di forze soprannaturali.
Quando Marx ricorre a questa espressione per caratterizzare le merci nel capitalismo, il suo riferimento alla religione era molto esplicito e intenzionale. Scriveva infatti: «Per trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci». (Il capitale, Libro 1). Come dirà in una nota, citando l’economista italiano Ferdinando Galiani, «il valore è un rapporto tra persone, celato nel guscio di un rapporto tra merci».
Per Marx le merci sono feticci perché sono realtà inanimate che rimandano a qualcosa di vivo: ai rapporti tra persone. Nei sistemi di produzione passata, era immediato legare la merce al suo produttore, ma nel sistema capitalistico noi attribuiamo alle merci una esistenza autonoma, quasi magica o arcana.
Ecco allora la definizione di merce che ci dà Marx: «A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. ... Appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile. Non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare».
Le merci acquistano dunque una esistenza propria rispetto agli uomini e alle donne che le hanno prodotte (e alle macchine e ai robot): qui sta quello che Marx chiama l’arcano. Inoltre, per Marx, è evidente che questo potere religioso si attiva solo nel capitalismo: «Appena ci rifugiamo in altre forme di produzione, scompare subito tutto il misticismo del mondo delle merci, tutto l’incantesimo e la stregoneria che circondano di nebbia i prodotti del lavoro sulla base della produzione di merci».
Misticismo, incantesimo, stregoneria.
In realtà, se prendiamo sul serio l’immagine forte della merce come feticcio, ci accorgiamo subito che il nome più adatto per il capitalismo sarebbe idolatria, essendo i feticci gli abitanti del tipico ambiente sacro dei culti idolatrici, non delle religioni, tanto meno quella ebraico-cristiana.
Ma che cos’è l’idolatria? E perché la Bibbia l’ha tanto combattuta, e i profeti in particolare ne hanno fatto il loro principale nemico (insieme ai falsi profeti)? Perché dietro la loro battaglia teologica ce n’è una antropologica che vi si aggiunge: tutte le volte che un uomo inizia ad adorare un oggetto, diventa meno uomo; perché quando qualcuno rappresenta Dio in oggetti o immagini, non riuscirà mai a eguagliare la sola immagine vera e lecita di Dio sulla terra: l’uomo e la donna, creati "a sua immagine". Tutte le altre immagini della divinità sono scarabocchi teologici e antropologici. Dietro la lotta anti-idolatrica c’è dunque un grande umanesimo.
Questa stessa battaglia ha portato la Bibbia a criticare radicalmente anche tutte le presenze "naturali" di Dio nel mondo, arrivando a cancellare dai suoi racconti anche le tracce di riti religiosi agricoli, come i canti di lutto per l’ultimo covone o per l’ultimo grappolo d’uva, dove i contadini, piangendo, chiedevano loro perdono di doverli "uccidere", e li pregavano di "risorgere" ancora nella nuova stagione. In alcune culture si inumava l’ultimo covone, si recitava il credo e si attendeva che "risorgesse".
Non dobbiamo dimenticare che le prime intuizioni di una vita che potesse continuare oltre la morte naturale, gli esseri umani l’hanno imparata dal ciclo di morte-resurrezione dei campi. E non a caso molti padri della Chiesa e molti vescovi hanno continuato a recitare queste preghiere naturali e agricole, intrecciandole con quelle cristiane. Come in un Paternoster medio alto-tedesco del XIII secolo, citato da Ernesto de Martino, dove si legge che Cristo fu «seminato dal Creatore, germogliò, venne a maturazione, fu mietuto, legato in un covone, trasportato nell’aia, trebbiato, vagliato, macinato, chiuso nel forno, e infine dopo tre giorni tratto fuori e mangiato come pane». Non sarà perfetta teologia, ma è Padrenostro splendido e vero come la nostra gente povera delle campagne.
Ricordo ancora, bambino, i miei bisnonni recitare improbabili preghiere meticce di latino-dialetto-italiano, durante i tempi del raccolto o nei lutti. Non conoscevano i dogmi trinitari, avevano idee molto vaghe sulla differenza ontologica tra Gesù e la Madonna. Quando prendevano la comunione non sapevano nulla della "sostanza" e degli "accidenti". Ma sapevano che quel pane era pane, e quindi era già sacro perché da esso dipendeva la vita e la morte; e capivano che quel pane della Messa era un pane diverso, e per questo accostarsi alla comunione aveva per loro una solennità e una densità teologica che io prego sempre di ritrovare, un giorno, fosse anche l’ultimo.
Certo, troveremo sempre teologi e scribi capaci di fini ragionamenti con in mano pezze d’appoggio in documenti del magistero per condannare i canti del lutto del covone e le preghiere dei miei nonni, per separarsi da quel mondo di ignoranza e di feticci. Ma se c’è un paradiso - e deve esserci, e i poveri lo devono abitare - insieme ai salmi degli angeli vi ritroveremo anche i canti della vendemmia e del raccolto, perché impastati di carne e di sangue, e quindi più veri di molti canti polifonici cantati senza poveri e senza dolore.
Ed ecco perché la stessa Bibbia, mentre ha combattuto duramente i riti e i simboli della fertilità insieme a quelli astrali, nelle sue pagine poetiche e sapienziali ci dona meravigliose parole sulla luna, le stelle, sui cieli "che narrano la gloria di Dio", sulla bellezza degli animali (Giobbe), sull’eros e sulla vita (Cantico). L’uomo biblico vede Dio (senza vederlo), lo sente nel tempio, lo ascolta nei profeti, lo vede e lo sente nell’uomo e nella donna, ma lo vede e lo sente anche nella "nube", nella "colonna di fuoco", nel fuoco di Elia, "nella leggera brezza del silenzio". Per affermare la sua vera diversità in un mondo dominato da una religione naturale, la Bibbia ha dovuto assolutizzare la sua critica alla dimensione religiosa delle cose, alla natura, agli alberi, alla creazione. Ma non l’ha mai cancellata, perché era vera.
Credo che un profeta biblico avrebbe almeno capito la frase che Ismaele dice parlando del suo compagno idolatra, Queequeg, in Moby Dick, il capolavoro (anche teologico) di Melville: «Come potevo allora unirmi a questo selvaggio idolatra nell’adorazione del suo pezzo di legno? Ma che cos’è adorare? Credi davvero, Ismaele, che il magnanimo Dio del cielo e della terra - pagani e tutti quanti inclusi - possa mai essere geloso di un insignificante pezzo di legno nero? Impossibile! Allora, che cos’è adorare?». Non sarebbe possibile nessun dialogo vero con il mondo delle religioni animiste, né con l’induismo, se non pensassimo qualcosa di simile a quanto dice Ismaele.
Non a caso né per sbaglio il cattolicesimo ha sviluppato e coltivato una visione sacramentale della realtà, dove le "cose" possono contenere segni e messaggi che dicono qualcosa su Dio, senza essere Dio. L’incarnazione ha dato sostanza spirituale alla storia, e quindi alle sue cose, al lavoro umano, ai suoi manufatti. Quel giovane albero del bosco di Gerusalemme, lavorato da un falegname di patiboli, non poteva saperlo ma è entrato, con i chiodi, nel seno della Trinità, per sempre.
Farebbe solo sorridere, se non fosse drammatico, vedere grandi difensori della fede autentica che oggi si scagliano contro l’idolatria (vedi Sinodo per l’Amazzonia) a motivo dei sincretismi che i poveri hanno sempre fatto e fanno, mentre non sono affatto turbati dall’idolatria del capitalismo, che in genere applaudono. In realtà, l’idolatria del capitalismo è molto più vicina, nello spirito, a quella combattuta dalla Bibbia. Perché, diversamente dai riti della campagna dei nostri antenati, che sentivano nelle cose la presenza vera dello stesso Dio, sotto le merci del nostro consumismo c’è lo stesso hevel (nulla) degli spaventapasseri-idoli criticati da Geremia.
Nel mondo della povertà, dentro le cose - nel pane, nel grano, nel vino, nelle piante, nei pochi oggetti... - si riesce a sentire il sacro buono anche perché attraverso quelle pochissime cose scorrevano la vita e la morte. Il nostro capitalismo moltiplica all’infinito le cose, ma non ne moltiplica il valore. Se possiedo un solo vestito buono, una sola penna buona, una sola bicicletta, un solo giocattolo e questi da uno diventano due, tre, dieci, il valore del primo vestito e della prima penna non aumentano ma si dimezzano, si riducono sempre più fino a scomparire se il numero (denominatore) diventa infinito. Il vestito buono ha un valore infinito proprio perché è unico. E quindi lo riparo, lo salvo, lo curo, e non lo "uso e getto".
Nella povertà le cose hanno un grande valore, e la prima povertà dell’abbondanza è la scomparsa del valore dei beni che abbiamo, diventati tutti merci.
Quando la vita ci occupa tutte le energie vitali per sopravvivere e far vivere i figli, spesso sappiamo anche pregare. E quando preghiamo usiamo solo le pochissime preghiere che ricordiamo e che amiamo perché ce li ha insegnate un genitore o una nonna, che hanno certificato la verità di quelle parole, non con la teologia ma con la loro carne donata. Nelle povertà anche le preghiere sono poche. Nessuna preghiera cristiana supera l’unico urlo inarticolato nell’altissima povertà del Golgota.
L’unico segno, la necessaria chiarezza.
Il falso mito dei "due Papi"
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, mercoledì 15 gennaio 2020)
Per quanto suggestivo possa apparire nelle serie televisive e in un film di un certo successo, quello dei "due Papi" è un falso mito, che è necessario smascherare, anche perché viene sempre più spesso rappresentato in certe cronache che fanno specchio a vere o presunte polemiche e manovre, innescate da interventi intorno a temi scottanti per l’oggi della Chiesa e l’avvenire del cristianesimo.
A smentire la possibilità che nella Chiesa odierna vi siano due Papi è lo stesso Benedetto, il pontefice emerito, che ha sempre dichiarato «incondizionata reverenza e obbedienza» all’attuale Vescovo di Roma e ieri ha eliminato ogni equivoco, chiedendo di togliere il proprio nome sia dalla copertina sia dall’introduzione e dalle conclusioni dal volume del cardinal Robert Sarah sul celibato dei preti al quale aveva concesso un proprio saggio (uniche pagine che intende firmare). Questa chiarezza era indispensabile, così il lettore sa e comprende quale sia la posizione di Benedetto XVI e quanto invece non gli appartenga, perché scritto e divulgato da altri.
Finiscono con l’alimentare la falsa mitologia dei due Papi sia quelle rappresentazioni che sottolineano amicizia e continuità fra i due personaggi in questione, senza evidenziare l’obbedienza dell’emerito all’attuale Papa, ma molto più quelle che li contrappongono in maniera subdola e ideologicamente contrassegnata. La riflessione si impone, perché i credenti non vengano disorientati più di quanto non siano dal contesto culturale e sociale in cui vivono.
Il Papa è il segno tangibile e concreto dell’unità della Chiesa, altro ruolo oltre questo non gli compete. In questo senso non può essere che uno e unico. Le epoche, da questo punto di vista certamente buie, in cui sono convissuti contemporaneamente Papi e antipapi, non hanno prodotto nulla di buono per il tessuto ecclesiale e spirituale della comunità credente. E solo quando qualcuno, come Giovanni XXIII (l’antipapa quattrocentesco), ha saputo con umiltà farsi da parte, si è ricostituita l’unità ecclesiale e ha ripreso vigore l’evangelo nel mondo.
Senza questo unico segno di unità, il cristianesimo vivrebbe una frammentazione devastante e la divisione regnerebbe sovrana, laddove al contrario, nella lettera agli Efesini leggiamo che «vi è [e quindi vi deve essere] un corpo solo e un solo Spirito, come pure siete stati chiamati a una sola speranza, quella della vostra vocazione. V’è un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, fra tutti e in tutti» (4, 4-6). Il dualismo non appartiene al cristianesimo cattolico, e quindi neanche alla fede cristiana tout court, è piuttosto frutto dello gnosticismo storico e perenne, che costituisce una costante tentazione per coloro che credono.
Per passare dalla Bibbia e dalla storia all’oggi, non possiamo dimenticare che il pontificato interrotto di papa Benedetto sia stato il vero gesto rivoluzionario che ha consentito la stagione di papa Francesco, con le sue innovazioni e la sua vivacità, sempre nel solco della tradizione della Chiesa cattolica. Abitare tale gesto, stupefacente e drammatico allo stesso tempo, significa rendersi conto che nella Chiesa vi è un solo Vescovo di Roma, ossia un solo Papa. Parlare di due Papi è insensato, come impegnarsi per contrapporre le due figure più significative dell’attuale contesto cattolico. E c’è da sospettare che dietro operazioni che adottano tale modalità, ci sia chi intende distruggere la Chiesa stessa, attentando alla sua prima nota costitutiva, che - come recitiamo nel Credo - è l’unità. Certo demitizzare i "due Papi" significa andare contro corrente e avere meno audience, ma non per questo ci si può esimere da tale compito.
Ritenere che la tradizione sia da una parte e l’innovazione dall’altra significa non comprendere il senso autentico della tradizione stessa, che è radicalmente innovativa, in quanto non guarda solo al passato, ma si innesta nel presente e si apre al futuro. Questo vale per le strutture costitutive di quella religione che pone a suo fondamento la fede cristiana. In primo luogo il culto e la liturgia, che, ininterrottamente, ma con linguaggio sempre nuovo, fa sì che il mistero si renda presente nell’oggi della sacramentalità. Qui il gesto e le parole fondamentali sono sempre le stesse: il pane che si spezza, l’acqua che si versa, le mani che si impongono, l’unzione con le parole che accompagnano e rendono sacramento il segno. Su questi fondamentali la Chiesa non ha alcun potere, in quanto le sono consegnati dalla rivelazione stessa, ma le modalità celebrative le sono affidate, perché la memoria non sia pura nostalgia e il presente non si rattrappisca in un passato preconfezionato. In secondo luogo la dottrina, che è chiamata a svilupparsi, secondo la feconda indicazione del santo cardinale John Henry Newman.
Uno sviluppo organico ed omogeneo, che, quando non è tale (o non è stato tale) ha prodotto i peggiori mali della Chiesa, ossia l’eresia e lo scisma. In terzo luogo le strutture, chiamate a trasformarsi e modificarsi, nello spirito di quanto disegnato da papa Francesco nel suo ultimo discorso alla Curia romana (21 dicembre 2019). I binari di tale trasformazione sono stati indicati nell’evangelizzazione e nella promozione umana, cardini portanti dell’agire ecclesiale nel presente e nel futuro, su cui devono poggiare e di cui devono nutrirsi le sovrastrutture o impalcature giuridiche e istituzionali.
Il falso mito dei due Papi veniva smascherato dallo stesso Benedetto XVI, quando, in un famoso discorso alla curia romana (22 dicembre 2005), riflettendo sul Concilio Vaticano II, contrapponeva un’ermeneutica della ’discontinuità’, ovvero dell’innovazione per l’innovazione, che avrebbe di fatto offerto il fianco al dualismo, non a quella della ’continuità’, come ci si sarebbe aspettato da un Papa ritenuto conservatore, ma a quella della ’riforma’. Una riforma che non ha nulla a che vedere con la rivoluzione, ma significa sviluppo e vita, apertura al futuro nel necessario e sempre fecondo radicamento nel passato, con attenzione vigile a un presente certamente problematico, ma anche affascinante e provocatorio per la fede.
Teologo, Pontificia Università Lateranense
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2020/documents/papa-francesco_20200101_omelia-madredidio-pace.html)
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A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
CREATIVITÀ E IMMAGINAZIONE COSMOTEANDRICA (cosmologia, teologia, e antropo-logia!). QUALE DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")? QUALE MADRE: "MARIA-EVA" O "MARIA-MARIA"?!....*
SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DI MARIA SS.MA MADRE DI DIO
LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
CAPPELLA PAPALE
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica Vaticana
Mercoledì, 1° gennaio 2020
«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana!
Nel primo giorno dell’anno celebriamo queste nozze tra Dio e l’uomo, inaugurate nel grembo di una donna. In Dio ci sarà per sempre la nostra umanità e per sempre Maria sarà la Madre di Dio. È donna e madre, questo è l’essenziale. Da lei, donna, è sorta la salvezza e dunque non c’è salvezza senza la donna. Lì Dio si è unito a noi e, se vogliamo unirci a Lui, si passa per la stessa strada: per Maria, donna e madre. Perciò iniziamo l’anno nel segno della Madonna, donna che ha tessuto l’umanità di Dio. Se vogliamo tessere di umanità le trame dei nostri giorni, dobbiamo ripartire dalla donna.
Nato da donna. La rinascita dell’umanità è cominciata dalla donna. Le donne sono fonti di vita. Eppure sono continuamente offese, picchiate, violentate, indotte a prostituirsi e a sopprimere la vita che portano in grembo. Ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio, nato da donna. Dal corpo di una donna è arrivata la salvezza per l’umanità: da come trattiamo il corpo della donna comprendiamo il nostro livello di umanità. Quante volte il corpo della donna viene sacrificato sugli altari profani della pubblicità, del guadagno, della pornografia, sfruttato come superficie da usare. Va liberato dal consumismo, va rispettato e onorato; è la carne più nobile del mondo, ha concepito e dato alla luce l’Amore che ci ha salvati! Oggi pure la maternità viene umiliata, perché l’unica crescita che interessa è quella economica. Ci sono madri, che rischiano viaggi impervi per cercare disperatamente di dare al frutto del grembo un futuro migliore e vengono giudicate numeri in esubero da persone che hanno la pancia piena, ma di cose, e il cuore vuoto di amore.
Nato da donna. Secondo il racconto della Bibbia, la donna giunge al culmine della creazione, come il riassunto dell’intero creato. Ella, infatti, racchiude in sé il fine del creato stesso: la generazione e la custodia della vita, la comunione con tutto, il prendersi cura di tutto. È quello che fa la Madonna nel Vangelo oggi. «Maria - dice il testo - custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (v. 19). Custodiva tutto: la gioia per la nascita di Gesù e la tristezza per l’ospitalità negata a Betlemme; l’amore di Giuseppe e lo stupore dei pastori; le promesse e le incertezze per il futuro. Tutto prendeva a cuore e nel suo cuore tutto metteva a posto, anche le avversità. Perché nel suo cuore sistemava ogni cosa con amore e affidava tutto a Dio.
Nel Vangelo questa azione di Maria ritorna una seconda volta: al termine della vita nascosta di Gesù si dice infatti che «sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (v. 51). Questa ripetizione ci fa capire che custodire nel cuore non è un bel gesto che la Madonna faceva ogni tanto, ma la sua abitudine. È proprio della donna prendere a cuore la vita. La donna mostra che il senso del vivere non è continuare a produrre cose, ma prendere a cuore le cose che ci sono. Solo chi guarda col cuore vede bene, perché sa “vedere dentro”: la persona al di là dei suoi sbagli, il fratello oltre le sue fragilità, la speranza nelle difficoltà; vede Dio in tutto.
Mentre cominciamo il nuovo anno chiediamoci: “So guardare col cuore? So guardare col cuore le persone? Mi sta a cuore la gente con cui vivo, o le distruggo con le chiacchiere? E soprattutto, ho al centro del cuore il Signore? O altri valori, altri interessi, la mia promozione, le ricchezze, il potere?”. Solo se la vita ci sta a cuore sapremo prendercene cura e superare l’indifferenza che ci avvolge. Chiediamo questa grazia: di vivere l’anno col desiderio di prendere a cuore gli altri, di prenderci cura degli altri. E se vogliamo un mondo migliore, che sia casa di pace e non cortile di guerra, ci stia a cuore la dignità di ogni donna. Dalla donna è nato il Principe della pace. La donna è donatrice e mediatrice di pace e va pienamente associata ai processi decisionali. Perché quando le donne possono trasmettere i loro doni, il mondo si ritrova più unito e più in pace. Perciò, una conquista per la donna è una conquista per l’umanità intera.
Nato da donna. Gesù, appena nato, si è specchiato negli occhi di una donna, nel volto di sua madre. Da lei ha ricevuto le prime carezze, con lei ha scambiato i primi sorrisi. Con lei ha inaugurato la rivoluzione della tenerezza. La Chiesa, guardando Gesù bambino, è chiamata a continuarla. Anch’ella, infatti, come Maria, è donna e madre, la Chiesa è donna e madre, e nella Madonna ritrova i suoi tratti distintivi. Vede lei, immacolata, e si sente chiamata a dire “no” al peccato e alla mondanità. Vede lei, feconda, e si sente chiamata ad annunciare il Signore, a generarlo nelle vite. Vede lei, madre, e si sente chiamata ad accogliere ogni uomo come un figlio.
Avvicinandosi a Maria la Chiesa si ritrova, ritrova il suo centro, ritrova la sua unità. Il nemico della natura umana, il diavolo, cerca invece di dividerla, mettendo in primo piano le differenze, le ideologie, i pensieri di parte e i partiti. Ma non capiamo la Chiesa se la guardiamo a partire dalle strutture, a partire dai programmi e dalle tendenze, dalle ideologie, dalle funzionalità: coglieremo qualcosa, ma non il cuore della Chiesa. Perché la Chiesa ha un cuore di madre. E noi figli invochiamo oggi la Madre di Dio, che ci riunisce come popolo credente. O Madre, genera in noi la speranza, porta a noi l’unità. Donna della salvezza, ti affidiamo quest’anno, custodiscilo nel tuo cuore. Ti acclamiamo: Santa Madre di Dio. Tutti insieme, per tre volte, acclamiamo la Signora, in piedi, la Madonna Santa Madre di Dio: [con l’assemblea] Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio!
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
Federico La Sala
SE LA "CARISSIMA" EU-CARESTIA è figlia DELLA CARITA’ ("CARITAS") è e resta SEMPRE una ELEMOSINA, E L’EU-CHARIS-TIA è e resta sempre una CARITA’ ("Caritas") senza GRAZIA ("CHARItaS"):
I divorziati e l’eucarestia.
La lettera del sindaco Sala e le risposte che dà la Chiesa
È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il primo cittadino di Milano lo ha fatto rivelando un’adesione di fede e una ferita
di Luciano Moia (Avvenire, sabato 28 dicembre 2019)
È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il sindaco Beppe Sala lo ha fatto rivelando un’adesione e una ferita. Un atto di coraggio e di chiarezza. Che non può che essere apprezzato da chi, come noi, da anni è impegnato a divulgare e promuovere la svolta pastorale voluta da papa Francesco all’insegna dell’accoglienza e della misericordia. Nella confessione spirituale che ha affidato, la vigilia di Natale, alle pagine de "la Repubblica", il sindaco di Milano rivela «di non poter fare a meno del confronto con il Mistero» e di partecipare regolarmente alla Messa domenicale, ma di sentirsi «a disagio rispetto al momento della Comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento».
Se una persona seria e preparata come Sala, è costretta ad ammettere un disorientamento spirituale per la sua condizione di divorziato risposato, significa che la strada per trasformare in consapevolezza diffusa le indicazioni uscite dal doppio Sinodo sulla famiglia (2014 e 2015) voluto da papa Francesco e poi dall’esortazione apostolica Amoris laetitia, è ancora lunga.
In quel testo il Papa scrive in modo esplicito che nessuno deve sentirsi condannato per sempre e che la Chiesa è chiamata ad offrire a tutti, compresi i divorziati risposati a cui è dedicato un intero capitolo - l’VIII - la possibilità di vivere pienamente il proprio cammino di fede. In questo cammino si può comprendere anche l’aiuto dei sacramenti (nota 351).
Non è un’opinione. È quanto emerso da un cammino sinodale proseguito per oltre tre anni che il Papa ha sancito con la sua parola. Poi, di fronte alle critiche e ai distinguo, Francesco ha voluto che l’interpretazione da lui considerata più efficace, quella dei vescovi della regione di Buenos Aires, fosse inserita nei cosiddetti Acta apostolica sedis - gli atti ufficiali della Santa Sede - a ribadire che indietro non si torna e che tutte le diocesi del mondo devono incamminarsi lungo quella strada.
Milano non fa eccezione. Inutile far riferimento al rito ambrosiano e alle aperture del cardinale Carlo Maria Martini, che su questi aspetti non ci sono state, in quanto scelte che non si potevano e non si possono pretendere da una singola Chiesa locale.
Francesco, come detto, ha ritenuto necessarie due assemblee mondiali dei vescovi per gettare i semi del cambiamento. Una persona divorziata e risposata che desidera riaccostarsi alla Comunione - spiega il Papa - può chiedere l’aiuto di un sacerdote preparato per avviare un serio esame di coscienza sulle proprie scelte esistenziali.
Sei, in rapidissima sintesi, i punti da non trascurare: quali sforzi sono stati fatti per salvare il precedente matrimonio e ci sono stati tentativi di riconciliazione? La separazione è stata voluta o subita? Che rapporto c’è con il precedente coniuge? Quale comportamento verso i figli? Quali ripercussioni ha avuto la nuova unione sul resto della famiglia? E sulla comunità? Domande spesso laceranti e risposte non codificabili, che possono richiedere anche lunghi tempi di elaborazione e da cui non derivano conseguenze uguali per tutti. Ma anche modalità pastorali efficaci per metterle in pratica.
Trovare e attuare queste buone prassi è faticoso e Sala, con le sue parole, ha dato voce a un disagio e una sofferenza spirituale, ma anche a una speranza, che condivide con tanti altri credenti, divorziati e risposati.
ECUMENISMO E PROBLEMA DELL’ "UNO" ... *
Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe.
Contemplando con fede la casa di Nazareth ogni credente può scorgervi un modello
di Matteo Liut (Avvenire, domenica 29 dicembre 2019)
La vita nasce da una relazione che si apre all’infinito, perché ogni essere umano che viene al mondo è segno dell’amore sconfinato di Dio. La famiglia è scrigno prezioso che ha la responsabilità di dare forma a questa continua promessa di futuro.
Oggi il rito romano pone la festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, icona universale di un’intimità domestica portatrice di un messaggio rivoluzionario: Dio abita in mezzo a noi. Contemplando la casa di Nazareth ogni credente non può non scorgervi un’ispirazione e un modello: i piccoli gesti di cura e attenzione vissuti tra quelle mura testimoniano lo stile dell’agire di Dio nella storia. Ecco perché per i cristiani farsi compagni di strada degli ultimi significa prima di tutto essere luce di speranza e di amore per le persone più vicine: tutti abbiamo bisogno di aprirci continuamente alla vita attraverso relazioni d’amore.
Altri santi. San Davide, re (X sec. a.C.); san Tommaso Becket, martire (1118-1170).
Letture. Sir 3,3-7.14-17; Sal 127; Col 3,12-21; Mt 2,13-15.19-23.
Ambrosiano. Pr 8,22-31; Sal 2; Col 1,13b.15-20; Gv 1,1-14.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
FLS
I "CONFLITTI TRA I RESTI" E UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".... *
Profezia è verità /28.
La custodia del primo nome
Luigino Bruni (Avvenire, sabato 14 dicembre 2019)
Non basta essere minoranza per essere minoranza profetica. Non è l’essere parte di un resto di superstiti a fare il resto della Bibbia. Nella conquista babilonese, alcuni ebrei furono deportati e altri restarono in patria. In ciascuna di queste due comunità - quella in esilio e quella in patria - c’era chi si auto-attribuiva lo status di "resto" annunciato da Isaia. Ezechiele e Geremia ci parlano, in pagine bellissime, di questi "conflitti tra resti", delle polemiche tra i figli per l’eredità ideale dei padri. Le crisi, soprattutto quelle grandi e decisive, generano molti "resti", vari gruppi che pretendono di essere i veri custodi del primo patto, i garanti della prima alleanza, gli eredi del primo testamento. In questi conflitti identitari è probabile che ogni gruppo possieda alcuni elementi autentici del vero "resto"; ma non appena una minoranza inizia a rivendicare la primogenitura contro gli altri gruppi, i semi buoni cominciano a guastarsi.
Durante e dopo le crisi, fondamentale è infatti la capacità di non pretendere il monopolio dell’eredità, di saper convivere con altri che si rifanno allo stesso patrimonio. Perché una virtù importante di chi si sente onestamente parte del "resto" fedele sta nel saper convivere con altri che dicono cose molto diverse in nome della stessa eredità - inclusi imbroglioni e falsi profeti, che accompagnano sempre i profeti veri. Perché quando è un solo gruppo a sentirsi il legittimo proprietario della promessa e a essere riconosciuto da tutti come tale, è quasi certo che quel gruppo sia quello sbagliato. Lo spirito ama l’eccedenza e gli sprechi. L’eredità spirituale, come la verità, è sinfonica. Solo il tempo e la storia sanno separare il grano dalla zizzania, e nessun grano può essere sicuro prima dell’ultimo attimo di non essere zizzania. Si vive tra parole dette e parole da dire senza essere i padroni della verità delle une e delle altre. I dubbi sull’autenticità della propria vocazione ed elezione sono, paradossalmente, il primo segno di autenticità. C’è anche questa buona ignoranza nel repertorio umano.
Siamo arrivati al culmine dei Libri dei Re e della storia biblica. Ed ecco un nome che da solo dice moltissime cose, quasi tutto: Nabucodonosor. «Nei suoi giorni, Nabucodonosor, re di Babilonia, salì contro di lui e Ioiakìm gli fu sottomesso per tre anni, poi di nuovo si ribellò contro di lui. YHWH mandò contro di lui bande armate di Caldei, di Aramei, di Moabiti e di Ammoniti; le mandò in Giuda per annientarlo, secondo la parola che YHWH aveva pronunciato per mezzo dei suoi servi, i profeti» (2 Re 24,1-2). Le mandò in Giuda per annientarlo... Abbiamo immediatamente l’interpretazione di quanto il testo sta narrando. L’assedio di Gerusalemme, la distruzione del tempio, l’esilio in Babilonia, la fine del regno di Giuda, sono voluti da Dio, perché sono la conseguenza della violazione dell’Alleanza. Lo aveva detto per mezzo dei profeti, e ora quella parola si compie, per dirci la serietà della parola, il valore assoluto di una promessa, la radicale verità dell’alleanza.
Se un patto è vero, se la parola che lo crea pronunciandolo non è fumo e vanitas, allora deve essere vero tutto ciò che quella reciprocità essenziale implica. Un patto è un bene relazionale, è quindi fatto di reciprocità, che muore quando quella reciprocità viene meno. Allora la distruzione del tempio e la fine del regno sono inerenti alla verità dell’alleanza con Abramo e Mosè. E questa è una cosa davvero importante.
I Libri dei Re ci dicono che la fine era già iniziata nel momento in cui Salomone importò a Gerusalemme gli dèi stranieri. Molto suggestiva e forte è allora la scena della devastazione del tempio: «In quel tempo gli ufficiali di Nabucodonosor, re di Babilonia, salirono a Gerusalemme e la città fu assediata. Nabucodonosor giunse presso la città mentre i suoi ufficiali l’assediavano. Ioiachìn, re di Giuda, uscì incontro al re di Babilonia... Il re di Babilonia lo fece prigioniero nell’anno ottavo del suo regno. Asportò di là tutti i tesori del tempio di YHWH e i tesori della reggia; fece a pezzi tutti gli oggetti d’oro che Salomone, re d’Israele, aveva fatto nel tempio di YHWH, come aveva detto YHWH» (24,10-13). Come aveva detto YHWH: ancora la stessa tesi.
Con il bottino dei tesori del tempio e della reggia (forse un dato anacronistico, poiché questo episodio avvenne probabilmente dieci anni dopo, con la seconda deportazione durante la distruzione di Gerusalemme e del tempio), si chiude un lunghissimo ciclo durato secoli. La corruzione del cuore di Salomone e dei molti re che dopo di lui si sono succeduti, raggiunge ora il suo culmine, con l’asportazione di quel tesoro e "facendo a pezzi" gli oggetti.
La parola che conduce Nabucodonosor a Gerusalemme è la stessa parola della benedizione ingannata e irrevocabile di Isacco per Giacobbe, la stessa parola che creò la luce e l’Adam. Se è vero l’Adam, se sono vere le dieci parole, se è vera Betlemme, allora deve essere vero anche Nabucodonosor. È questa la verità tremenda, drammatica e stupenda della parola biblica, una parola che è vera perché è fedele fino alle conseguenze estreme della parola: «YHWH non volle usare indulgenza» (24,4). Anche questo è la parola biblica, anche qui sta la sua unicità, è anche questo il suo messaggio rivolto alle nostre parole.
Gli scribi che componevano questi capitoli ci volevano allora dire che quella distruzione conteneva la stessa verità dell’Alleanza e del Sinai. Nella Bibbia l’alleanza e i patti sono qualcosa di immenso, dal valore infinito che noi lettori del XXI secolo non capiamo più.
Nell’umanesimo biblico i patti umani hanno il loro fondamento in un meraviglioso e impensabile patto con Dio. Una religione dell’alleanza ha potuto fondare una cultura dell’alleanza che ancora, sebbene soffra, continua a sostenere la cultura occidentale. È stato anche per il valore di quel patto fondativo che abbiamo saputo dar vita ai matrimoni, alle imprese, alle cooperative, alle città e poi agli Stati nazionali e all’Unione Europea.
La religione dell’alleanza è la possibilità che i nostri "per sempre" possano essere veri mentre li pronunciamo nell’ignoranza del futuro; ma questa alleanza è anche la fonte del valore infinito della reciprocità nei patti.
Quando esco per l’ultima volta dalla porta di casa, ti dico che quel patto di reciprocità che avevamo fatto anni prima era vero, che non era fumo e vento.
Mentre vado via dico a me e a te la verità del primo patto e del tempo in cui sono restato. Certo, posso anche perdonarti e restare a casa - tanti, tante lo fanno ogni giorno, e risuscitano molti patti dai loro sepolcri -, ma ciò non toglie verità a quell’andare; anche se poi è la stessa Bibbia a dirci che quell’andare, sebbene vero, non è l’ultima parola perché "un resto tornerà".
L’interpretazione che quella comunità di redattori diede della distruzione di Gerusalemme, è allora qualcosa di straordinario e di essenziale. Di fronte alla tragedia, quegli scribi avrebbero potuto gridare l’abbandono, lamentarsi con YHWH per aver rinnegato l’alleanza. E invece scelsero di leggere quella terribile realtà nella fede, aggrappati alla corda-fides che li teneva legati al cielo, al loro passato, al futuro possibile e al "resto" che avrebbe continuato la storia. Quella lettura fu l’unica capace di salvare la loro fede e il loro popolo diverso, perché la vera alternativa che avevano era affermare che il loro Dio fosse solo un idolo, una vanitas come tutti gli altri. E invece salvarono la fede, salvarono la parola e l’alleanza, salvarono Dio. Come Giobbe.
Ecco perché la distruzione di Gerusalemme è veramente il cuore della Bibbia, il centro gravitazionale della sua fede e del suo umanesimo. Con ogni probabilità non avremmo la Bibbia, o l’avremmo totalmente diversa, se quella comunità di scribi, sacerdoti e profeti, schiantati dall’esilio, avesse scelto di salvare se stessa condannando Dio. Il "resto" potrà tornare e continuare la storia se teniamo viva la verità di quel primo patto assumendocene tutte le conseguenze.
L’esilio babilonese produsse una delle più grandi rivoluzioni religiose e etiche della storia dell’umanità. Lì, in quella terra straniera e idolatra, nacque il culto senza tempio, Dio non fu più prigioniero del suo territorio. E soprattutto terminò l’era dell’identificazione della verità con la vittoria, perché si capì che YHWH poteva restare vero anche se sconfitto, che le nostre verità possono essere vere anche se non vincono, che una vita può essere vera mentre muore.
Una innovazione antropologica e teologica decisiva, possibile perché quella comunità di scrittori-interpreti scelse la propria condanna religiosa per salvare la verità del Dio dell’alleanza e della promessa, per donarcela in eredità.
Insieme agli ori del tempio e della reggia, in questa prima deportazione (del 598-597) i babilonesi portarono via anche le élite militari, tecniche e intellettuali: «Deportò tutta Gerusalemme, cioè tutti i comandanti, tutti i combattenti, in numero di diecimila esuli, tutti i falegnami e i fabbri; non rimase che la gente povera della terra. Deportò a Babilonia il re Ioiachìn» (24,14-15).
Non rimase che la gente povera... Anche in questo racconto tragico riemerge la polemica dei "resti". Quella che scrisse o completò questo verso era una mano che apparteneva a quel gruppo (golà di deportati in Babilonia che si considerava il vero resto fedele. Così definisce "gente povera" i rimasti in patria, che in quanto poveri non potevano quindi pretendere lo status di eredi della promessa - come se l’essere poveri non fosse compatibile con l’abitare il Regno, con l’essere chiamati "beati".
Dentro queste pagine tragiche c’è infine un dettaglio che può passare inosservato: «Il re di Babilonia nominò re, al posto di Ioiachìn, Mattania suo zio, cambiandogli il nome in Sedecìa» (24,17). Il nuovo sovrano cambia nome al re da lui nominato. La stessa operazione l’avevano fatta qualche anno prima gli egiziani con il padre del re Ioiachìn: «Il faraone Necao nominò re Eliakìm, figlio di Giosia, al posto di Giosia, suo padre, cambiandogli il nome in Ioiakìm» (23,34).
È un’antica e sempre attuale abitudine dei padroni cambiare il nome ai loro sudditi. Quando un uomo o una donna ci cambia il nome, quel nuovo nome è sigillo di proprietà privata. Il Dio biblico non ci cambia il nome. Ci lascia il nostro, lo ama, vi legge la nostra vocazione, ed è con quel primo nome che ci sa chiamare: Samuele, Agar, Maria. E le poche volte in cui lo cambia (con Abramo, Sara, Giacobbe, Simone), è per indicarci un orizzonte o una vocazione ancora più liberi e larghi.
È difficile attraversare il mondo e terminare il viaggio con il nome con cui vi siamo giunti. Gli incontri e le ferite, mentre ci in-segnano il nome dell’altro, cercano fino alla fine non solo di ferire il nostro (cosa necessaria e in genere buona), ma di cambiarlo, di metterci il sigillo e da figli trasformarci in schiavi. Che possiamo custodire il nome del primo giorno per sentirlo pronunciare nell’ultimo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
VERSO "BARI 2020" E "NICEA 2025": MESSAGGIO EVANGELICO, FILOLOGIA, ED ECUMENISMO. Quale "carità" (Kapitas o Xapitas, caritas o charitas)?! *
Nicola. Protettore del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente
di Matteo Liut (Avvenire, giovedì 6 dicembre 2018)
La carità è il "miracolo" più grande che nasce dalla fede: prendersi cura degli ultimi, del prossimo in genere, oggi è il messaggio più profetico e rivoluzionario che ci lascia san Nicola. Nato tra il 250 e il 260 a Patara, nella Licia, divenne vescovo di Mira in un tempo di persecuzione e dovette affrontare anche la prigionia: si salvò grazie alla libertà di culto concessa dall’Editto di Costantino nel 313.
Difensore dell’ortodossia, forse partecipò al Concilio di Nicea nel 325. La tradizione gli attribuisce un’attenzione particolare nei confronti dei bisognosi, come le due giovani ragazze che poterono sposarsi solo grazie al dono da parte del vescovo di una dote. Morto attorno all’anno 335, nel 1087 le sue reliquie arrivarono a Bari, dove è venerato come patrono e considerato un protettore anche del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente.
Altri santi. Santa Asella di Roma, vergine (IV sec.); san Pietro Pascasio, vescovo e martire (1227-1300).
Letture. Is 26,1-6; Sal 117; Mt 7,21.24-27.
Ambrosiano. Ger 7,1-11; Sal 106; Zc 8,10-17; Mt 16,1-12.
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Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Commenti a Presicce, il suo patrono Sant’Andrea e la tela del suo martirio, opera del Catalano (Fondazione Terra d’Otranto).
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025)
ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI: INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL.
Federico La Sala
Simone Weil: la forza, la grazia
di Matteo Marchesini (Doppiozero, 23.10.2019)
«Non resta / che far torto, o patirlo», diceva l’Adelchi morente di Manzoni. Aggiungendo subito, a chiosa, che «Una feroce / forza il mondo possiede, e fa nomarsi / dritto». Il «mondo» rifiutato da Cristo è interamente sottoposto alle leggi della sopraffazione. Niente e nessuno ne è immune, e chi si illude di esserlo sta tirando una coperta ideologica sulla nuda realtà dei fatti. Il massimo che possiamo fare è sospendere a tratti il dominio di questa fisica bruta, trovare un geometrico equilibrio tra le forze e tenere ferme le tensioni contrarie in un’ascesi contemplativa. Non si può cancellare la ferocia che ci governa, solo esercitarsi ad arrestarne provvisoriamente l’azione. Ma la sua natura è così travolgente che anche per fare questo occorre un miracolo. Bisogna venire investiti dalla grazia. La forza, la grazia: sono i due poli intorno a cui ruotano i saggi più importanti di Simone Weil. Qualche mese fa, sotto il titolo Il libro del potere e con una nota di Mauro Bonazzi, Chiarelettere ne ha riuniti tre: L’Iliade o il poema della forza, Non ricominciamo la guerra di Troia, L’ispirazione occitana.
Succede spesso, negli ultimi anni, che editori più o meno piccoli ripropongano queste pagine scarne e perentorie composte subito prima e subito dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale; e non penso sia un caso. Da quando è sfumata la speranza diffusa in una palingenesi sociale (e non importa qui discutere la sua fondatezza, negata dalla Weil con argomenti decisivi), ci ritroviamo davanti a un puro potere che può mostrarsi senza pudori, ma al tempo stesso fingere che il suo ordine coincida con la giustizia. Siccome tutti, nessuno escluso, siamo condizionati dalle credenze che la vita comune infonde giorno per giorno in ognuno, questa pedagogia priva di alternative ci persuade col suo ghigno che al di là dell’esistente restano appena velleità, fantasmi, chiacchiere. Così, come sappiamo da mezzo secolo, meno sembra possibile una rivoluzione o un mutamento radicale, più la Storia si traveste da immodificabile Natura. E allora, chi alle leve del potere è più vicino si convince che se è in quella posizione non lo deve anche a un intreccio di combinazioni imperscrutabile, ma soltanto ad alcune caratteristiche eccezionali che lo distinguono, appunto per natura, da chi si trova in basso ed è schiacciato dalla sventura; la quale a sua volta, per usare le parole weiliane, apparirà non il frutto di una serie di casi e di fatalità mai del tutto riconducibili a progetti o a doti umane, bensì qualcosa di molto simile a una «vocazione innata». In una società che, non importa quanto fantasiosamente, ritiene possibile un altro mondo storico, chi in quello presente non riesce a integrarsi può essere considerato come un’avanguardia, una prefigurazione monca del futuro; in una società dove questa fiducia evapora è solo uno sfigato - termine in cui, significativamente, la sfortuna diventa una qualità negativa del soggetto che la subisce.
Vivere sottoposti al regno della forza implica prima di tutto rimuovere verità del genere. Se infatti questo regno è così potente, è anche perché in fasi storiche come la nostra accorrono a fornirgli giustificazioni ideologiche molte delle intelligenze migliori, più attendibili e più scrupolose; mentre a ricordare che esiste uno iato, sebbene quasi invisibile, tra le differenze di natura e le differenze imposte dal potere, rimangono o un pugno di acrobati della dialettica o una vasta platea di retori davvero velleitari, di chiacchieroni e utopisti da bar o da tastiera. Questo però, come sapevano qualche decennio fa a Francoforte, contrariamente a ciò che si crede non dice nulla sulla legittimità dell’esigenza che balena nella loro oratoria degradata, perché la sua apparenza ridicola e deforme è la veste nella quale sempre vengono imprigionate le istanze sconfitte. Quando la pressione della forza è enorme, chi in quel momento è portato in alto dalla sua onda può scegliersi l’avversario a sua immagine, e sconciarlo fino a farne un relitto kitsch o un involontario comico da sagra. Ma specularmente, intanto, le intelligenze impegnate a ripeterci i loro inesauribili “se è così c’è una ragione, sveglia!”, non possono non rivelare al fondo l’ingenuità propria di tutti i cinici, che si illudono di poter calcolare e controllare ciò che non si controlla e non si calcola: cioè la realtà, che per definizione coincide con l’imprevedibile, con l’inatteso, e che prima o poi li prende in contropiede (sotto il cuscino dei perdenti si scopre spesso una copia del Principe, diceva Brancati).
Capire perché le cose stanno come stanno è bene, e sfuggire a questa comprensione è segno di infantilismo; ma tessere l’apologia di ciò a cui va reso solo l’onore di riconoscergli che “è ciò che è”, trasformandolo in un “è perché deve essere”, asseconda un bisogno di rassicurazione altrettanto infantile. Chi vuole far tornare i conti con uno stridulo Gott mit uns dimentica quello che, secondo la Weil, il poeta dell’Iliade ha espresso nel modo più puro descrivendo la guerra, la situazione per eccellenza in cui il potere si mostra nella sua aperta crudeltà: ossia il fatto che nessuna diversità essenziale separa vincitori e vinti. La forza, anche quando li rende simili a tempeste in apparenza inarrestabili, non è mai un possesso dei guerrieri, ma una corrente che passa dal campo troiano a quello acheo, e viceversa, svilendo gli uomini a «cose» - fulmini gli uni, tronchi mozzati gli altri. E quando agli eroi capita la parte del tronco, della preda, «tremano» tutti, persino il grande Ettore. Eppure basta che la forza torni a sollevarli, ed ecco che la sua droga cancella dalla loro mente questo dato elementare. Allora si sentono di nuovo invulnerabili, oltrepassano il limite della tracotanza e sono punti dalla Nemesi - un concetto che, osserva la Weil, l’Occidente moderno non ha nemmeno più parole per esprimere.
Dunque lo sguardo omerico è supremamente equo perché non veste di ragioni ciò che non lo merita. Nel poema, l’efferatezza di chi sta vincendo una battaglia non è mai soffusa di una luce apologetica, e nel lamento disperato di chi soccombe non si vede mai il tratto distintivo di un «essere spregevole». Come poi la tragedia attica, e come la cultura occitana (provenzale, romanica, catara) spazzata via nel XIII secolo dalle crociate, l’Iliade ci mostra secondo la Weil una civiltà eccezionalmente consapevole del dominio della forza, e insieme indisponibile a identificare questo dominio con la giustizia. «Solo se si conosce l’imperio della forza e se si è capaci di non rispettarlo è possibile amare» ed essere giusti, conclude la pensatrice francese. Il contrario della forza è l’amore, che nei versi omerici avvolge tutto ciò che è vulnerabile e minacciato dall’annientamento. Ma accedere a questa forma di amore, come si è detto, richiede una capacità sovrumana: appunto perché il mondo umano appartiene alla forza, che quando ci innalza ci acceca, additandoci il miraggio di una realtà senza ostacoli e illudendoci di essere onnipotenti, mentre quando ci schiaccia giù a terra, in una servitù da cui sembra impossibile immaginare una liberazione, ci strappa la «vita interiore» e cancella in noi ogni sentimento.
In questi saggi la Weil si sofferma anche su un altro punto cruciale, che riguarda proprio la copertura ideologica dei rapporti di forza. Siccome il potere si posa sull’uno o sull’altro uomo con un’ampia dose di arbitrio, rendendo radicalmente diversi i destini di individui radicalmente simili, chi vuole mantenerlo senza suscitare rivolte deve saper occultare questo arbitrio e razionalizzarlo. È così che intorno alla forza, fingendosi sua causa, si diffonde l’aura illusoria del «prestigio», che gli uomini scambiano per qualità innata mentre è l’effetto di un contesto determinato, di un provvisorio gioco di luci i cui riflessi tendono però a moltiplicarsi illimitatamente. Qui forse non è inutile ricordare la nazionalità di Simone Weil, dato che la Francia è stata nel mondo moderno il paese più socializzato, quello dove i fantasmi impalpabili ma pervasivi delle identità pubbliche sono penetrati in ogni spiffero dell’esistenza. Né è certo un caso che sia stato un altro francese, pochi anni prima di lei, a eternare letterariamente questi fantasmi nella mappa più ramificata e ricca d’implicazioni che ci sia mai stata fornita. «Solo chi è incapace di scomporre, nella percezione, ciò che a prima vista sembra indivisibile, crede che la situazione faccia corpo con la persona», ha scritto Marcel Proust, che attraverso i molti strati della sua Recherche avvicina all’esperienza quotidiana le essenze platoniche weiliane.
L’analisi dello snobismo, cioè, secondo il critico americano Lionel Trilling, dell’«orgoglio a disagio» di chi non è mai sicuro della propria identità, è appunto l’analisi degli equivoci creati dal «prestigio». In un universo come quello borghese, dove non esistono più ruoli fissi e garantiti da ordini aristocratici o da fedi soprannaturali, questa precarietà è fisiologica; e il romanzo, col suo dinamismo, è nato per rappresentarla. Ma di solito i romanzieri, anche i più estremisti, portano gli equivoci a uno scioglimento: o sotto la loro superficie abbagliante si rivela una certezza solida, inconfutabile, oppure questa superficie diventa il segno di una metafisica, arcana indecifrabilità, cioè in fondo di un’altra certezza, seppure di segno negativo. Proust, invece, dimostra che l’equivoco è la sostanza stessa, la stoffa onirica e fantastica di cui è fatta la pretesa identità di ognuno: una sagoma destinata inevitabilmente a variare a seconda delle luci che il luogo, ma soprattutto il tempo, l’immaginazione e i sentimenti personali o collettivi le proiettano sopra. L’ambiguità, in questo senso, è senza fine. La magia dei nomi trasfigura di continuo la materia, e la materia fa cadere a un tratto il sipario di una convenzione, di una magia effimera. La gelosia stabilisce ragnatele finissime, e non si sa mai se abbia occhi straordinariamente acuti o se straveda. Ogni gesto, ogni parola, ogni episodio racchiudono un gomitolo di equivoci che si intrecciano e si divaricano nel tempo. Volgarità e finezza, bontà e perfidia, onorabilità e impresentabilità, prosaicità e fascino esclusivo, provincialismo grottesco e talento supremo, filisteismo e regalità si scambiano ovunque le parti, e toccano tutti i principali caratteri di questo romanzo di romanzi: Saint-Loup, i Verdurin, Morel, Charlus, Swann, i Guermantes, Rachel, Odette, Bergotte, Albertine, Vinteuil, Cottard, Elstir... e ovviamente il narratore.
Col prestigio, col potere e con i ruoli di vittime e carnefici, questi personaggi cambiano la loro stessa pelle. Ma se è così, non hanno ragione i lodatori di ciò che appare, di ciò che è in quanto s’impone? Non basta, per approvarli senza riserve, imprimere un po’ di mobilità eraclitea al loro troppo statico sistema panglossiano, al loro hegelismo mummificato e andato a male? Quale identità nuda o profonda ci resterebbe in mano da difendere, al di là delle mutevoli maschere sociali? Esiste forse là dietro un volto, un noumeno che non sia un’astratta, umanistica petizione di principio? Difficile crederci: soprattutto oggi che siamo tutti più socializzati dei vecchi francesi, essendo social e tendendo a una assai più totalitaria indistinzione di intimità e pubblicità.
In quel vorticoso primo Novecento, tra Proust e Weil, un altro francese ha messo in bocca a un suo personaggio teatrale una risposta disinvoltamente contraddittoria. «Non state confondendo la gloria e l’amore? Amereste Giocasta se non regnasse?», chiede Tiresia a Edipo nella Macchina infernale di Cocteau. «Domanda stupida e ripetuta mille volte», ribatte il marito e figlio della regina di Tebe. «Giocasta mi amerebbe se fossi vecchio, brutto, se non sbucassi dall’ignoto? Credete che non ci si possa buscare il mal d’amore toccando l’oro e la porpora?». Ma poi aggiunge che «I privilegi di cui parlate non sono la sostanza stessa di Giocasta e aggrovigliati così strettamente ai suoi organi da non poterli disunire». La scena è interessante anche perché qui, come altrimenti in Proust, la politica, cioè il campo per eccellenza del potere, fa tutt’uno con l’amore.
Ma non è, s’intende, l’amore soprannaturale che per la Weil sta sull’altro piatto della bilancia rispetto alla forza. Eppure anche di questo amore è fatto l’amore umano. Chi, che cosa amiamo dunque davvero? È il nostro amore separabile dal prestigio? All’alba della modernità, in una Russia infranciosata, il romantico e ironico Aleksandr Puškin ha lasciato nell’Onegin una immagine memorabile della divaricazione tra società e verità su cui è fiorita la nostra cultura. «In quel tempo, in quel deserto, / Lontano dal pettegolezzo, / Io non vi piacqui: questo è certo... / E dunque mi inseguite adesso? / Che cosa a voi mi pone in vista? / Non forse il fatto ch’io apparisca / Per il mio rango in società; / L’esser di ricca nobiltà; / O il marito che in guerra è stato / Ferito e alla corte è in favore? / Non forse che il mio disonore / Da tutti sarebbe osservato, / A voi nel bel mondo recando / Un lusinghevole vanto?», domanda malinconicamente Tatiana a Eugenio verso la fine del poema, dopo che lui l’ha prima tenuta affettuosamente a distanza, moderando il suo dongiovannismo, quando era una semplice ragazza di campagna, e poi l’ha ardentemente corteggiata quando l’ha vista muoversi da dama impeccabile tra i ricevimenti pietroburghesi.
Non so chi potrebbe rispondere alla domanda di Tatiana. Quanto è grande, specie in un mondo più che mai socializzato, la dose di desiderio mimetico che ci entra in circolo? Quanto influisce sui nostri atti il prestigio, questo vestito imperiale della forza? Se esistessero confini visibili o palpabili tra un’essenza e un’apparenza, combattere sotto l’insegna di una delle due riuscirebbe relativamente facile. Sarebbe lecito pensare a una lotta di princìpi, confidare in un mutamento progressivo che a poco a poco conduca a esiliare dal mondo la forza magnetica e menzognera del prestigio contrabbandato per cosa salda. Invece il mondo è strutturalmente suo. Perciò una tale etica è ritenuta insufficiente dalla platonica Simone Weil, e contemporaneamente anche dalla sensuale Etty Hillesum. Solo il riconoscimento di questa realtà, la sua accettazione senza risarcimenti e la contemplazione della forza possono sospenderla, tenere in miracoloso equilibrio la bilancia.
E sì: noi siamo anche i nostri privilegi, gli ori e le porpore di cui non potremmo mai dire, senza apparire tracotanti di fronte al fato, di esserceli guadagnati da soli. Eppure, c’è chi alle origini della nostra civiltà ci ha mostrato uomini spogliati di tutto ciò: uomini ridotti a cose passive, resi schiavi o annientati da uomini ridotti a cose ciecamente attive come catastrofi naturali. Chi amerà questi nudi? Chi rimarrà vicino a un corpo, a una voce, a un volto totalmente privati di prestigio e di potere? Chi sopporterà di stringere esseri che basta un soffio a cancellare dalla scena, e che non sembrano avere più alcuna dignità umana? Noi tendiamo a immaginare la sventura in chiave eroico-hollywoodiana, a incastonarla in una sequenza in cui lo sconfitto mantiene intatto il suo fascino, la sua forma socializzabile di uomo. Ma proviamo a immaginare invece la vera sventura, cioè una condizione in cui tutte le nostre coordinate vacillano come nel Vangelo vacillarono i discepoli durante la Passione. Immaginiamo una situazione dove ogni circostanza sembra dare ragione al mondo che umilia lo sventurato. Immaginiamo il momento in cui la sventura arriva a toccare l’ultimo strato dell’identità della persona che diciamo di amare - il momento in cui, senza che questa persona si sia inconfutabilmente macchiata di una colpa, le sue attrattive si mutano in un motivo di imbarazzo, di smarrimento o di nausea, in una specie di vergogna senza nome. Immaginiamo tutto questo, e la domanda ci farà tremare.
Forse di una tale figura nuda, senza protezioni sociali e senza neppure il marchio di una minoranza esclusa ma riconosciuta, non si può predicare nulla. Forse si può dire solo che l’uomo è più di tutto il suo prestigio, di tutte le qualità in cui i «privilegi» si mescolano ambiguamente agli «organi». Ma questo più non si può descrivere. Come l’anima, si può cogliere solo con un atto di fede. E proprio dalla fessura che lascia tra sé e il resto passa la grazia. È da lì che soffia l’amore trascendente, incondizionato, assoluto: l’amore senza il quale, diceva Denis De Rougemont occupandosi dei provenzali negli anni della Weil e in modi per molti versi opposti, siamo destinati a cadere in un romanticismo calcolatore che non troverà mai un oggetto su cui fermarsi, perché ci sarà sempre qualcosa di più attraente a meritare l’innamoramento.
Solo una decisione mai giustificabile, che è poi il contrario di una facoltà d’opzione, può arrestare questa fuga nell’illimitato. Un decennio prima, montando le tessere del suo discorso sulle Affinità elettive e il matrimonio, Walter Benjamin lasciava intravedere una prospettiva molto simile.
Credo che il saggio della Weil sull’Iliade sia uno dei due massimi capolavori della saggistica filosofica del Novecento. L’altro, non unilaterale e spoglio ma tormentosamente dialettico, va sotto il titolo di Minima moralia. Negli aforismi della raccolta adorniana si trova una frase che può stare accanto alla conclusione weiliana: «Sei amato solo dove puoi mostrarti debole senza provocare in risposta la forza». Il mondo, però, ci consegna un’ingiustizia ulteriore. Di solito si aderisce alla forza là dove la pressione collettiva è troppo intensa rispetto alle convinzioni che potrebbero farci resistere alla sua piena: cioè quando a propria volta, come carnefici, ci si trova in una condizione di debolezza, quando non si è abbastanza sicuri della propria comprensione delle cose da poter rimanere saldi in mezzo alla tempesta insieme a chi è rimasto nudo (la pressione consiste spesso in un sottile gioco di suggestioni atmosferiche incrociate, ma chi voglia vederne rappresentati i tratti più elementari e irresistibili può pensare al Bube di Cassola spinto a picchiare il prete Ciolfi, o al giovane ufficiale Eric Blair, alias George Orwell, accerchiato dalla folla birmana che esige di vederlo abbattere un elefante). Non è questa l’ultima ragione per cui il mondo ci chiude la bocca impedendoci di dire a ogni passo “non è giusto”, e quasi assimilando il nostro comportamento a un fatto di natura. Ma appunto, quasi. Resta quella fessura. Di cui nessuno si può appropriare senza tradirla, ma che nessuna forza può ridurre a sé.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VENTICINQUE SECOLI DI LETARGO ... *
Il libro di tutti i libri di Roberto Calasso
di Emanuele Zoppellari Perale (il Tascabile, 26.11.2019)
Due anni fa Roberto Calasso diagnosticò la condizione che viviamo come “l’innominabile attuale”, predominio del pensiero secolare e dei suoi limiti a scapito del sacro. Il libro di tutti i libri si muove, in direzione contraria, verso le storie che compongono l’Antico Testamento.
Già ne L’innominabile attuale l’autore sembrava voler parlare “a chi oggi non appartiene ad alcuna confessione ma al tempo stesso si rifiuta di accettare la religione - o, più precisamente, la superstizione - della società”. Ora, in un continente di templi vuoti e storie deboli, Calasso torna a quelle storie forti che per millenni hanno riempito i templi. Muovendosi da questa prospettiva, Il libro di tutti i libri segue con coerenza i fili del discorso che il suo autore è andato intessendo da quasi quarant’anni: il mito ( Le nozze di Cadmo e Armonia ; Ka), il sacrificio (L’ardore), l’elezione (K.), il passaggio dalla dieta frugivora all’imitazione dei carnivori (Il cacciatore celeste).
Ma il suo campo d’indagine, questa volta, è tra i più enigmatici. La Bibbia, ineguagliata per clamorose omissioni e contraddizioni inspiegabili, resta infinita, tuttora ineludibile e sconvolgente. Di fronte alle sue storie, i “secoli contati” che E.M. Cioran attribuiva al cristianesimo e al religioso in generale parrebbero ancora lontani. Non a torto Goethe lo definì, appunto, “il libro di tutti i libri”, da cui qualsiasi altro parte per poi tornarvi, e nella cui lettura, dedalo iniziatico, invitava a perdersi e ritrovarsi di continuo.
Le nozze di Cadmo e Armonia si apre con una frase di Sallustio, “Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre”, valida anche in questo caso. Lo sguardo di Calasso non è insensibile alla filologia - come altrimenti affrontare un libro composto da una collezione di testi ebraici arrivataci passando tramite il greco dei Settanta al latino della Vulgata fino al volgare in cui la leggiamo? - e ciononostante evita di rimanere invischiato nella pedante miopia di erudizione e accademismo. Tiene conto, altresì, del dato storico: gli Ebrei rientrati a Canaan dall’Egitto non sconfissero davvero Gerico - dicono gli archeologi - ma la trovarono già distrutta, e la vicenda di Mosè non ha riscontro in fonti esterne alla Bibbia, tanto da metterne in dubbio l’esistenza stessa. Importa poco: non si tratta di una ricostruzione storica di fatti accertati. Qui è il racconto a parlare, ed è al sapore massimo di ogni sua parola che si rivolge l’attenzione come metodo critico - persino e soprattutto nei suoi interstizi, nei suoi punti di rottura, nelle pieghe del testo e in ciò che implicano o presuppongono, in ciò che la narrazione omette, o ripete ossessivamente.
La lettura della Bibbia secondo Calasso è a sua volta un invito a rileggere la Bibbia al di là o a prescindere dalle sue innumeri interpretazioni, seguendone il mŷthos e considerandola un intreccio favoloso e unitario (la “fiaba delle fiabe” di Cristina Campo), una biblioteca sterminata ma essenzialmente coesa in cui tutte le storie sono “sinottiche e simultanee” e tutti i versetti collegati a ciascun altro versetto, perché ogni cosa è sullo stesso piano.
Si pensi che di frequente nel testo ebraico i periodi si aprono con la congiunzione vav, spesso tradotta “così”, che meglio corrisponderebbe al nostro “e”. È il potere della paratassi: permette di dire, non di spiegare. E la Bibbia, più che spiegare, capire o consolare, vuole raccontare.
E che cosa racconta questa storia, che secondo una tradizione ebraica il suo autore, il Dio Iahvè, avrebbe avuto come figlia unica e amatissima all’alba di ogni tempo, e che avrebbe dondolato sulle ginocchia, prima di donarla a Mosè e al suo popolo, purché questo non dimenticasse mai di riservargli uno spazio? Ebbene, racconta principalmente di eletti.
L’elezione è un avvenimento innaturale, un sovvertimento dell’ordine delle cose. La storia che Dio vuole scrivere supera, ribalta e nega la legge naturale di necessità con cui si svolgono ordinariamente le cose - legge che, tuttavia, Dio stesso ha creato. È un paradosso che la Bibbia enuncia in più punti, ma a cui saggiamente non intende fornire una spiegazione.
Innanzitutto, coloro che Iahvè sceglie, coloro che riempie di grazia, non sono necessariamente - anzi, non sono pressoché mai - scelti per merito. Il caso del patriarca Abramo è paradigmatico: in 75 anni, scrive Calasso,
non aveva fatto altro che seguire il padre. Nulla lo distingueva, se non aver sposato una donna molto bella, senza averne avuto figli. E ancora viveva al seguito del padre [...] Abramo non era re né sacerdote [né] capofamiglia. E non si faceva notare neppure per devozione. Ma soltanto Abramo fu scelto da Iahvè.
O si prenda suo nipote Giacobbe. Aveva raggirato il fratello Esaù, aveva ingannato il padre Isacco per ottenere la sua benedizione, aveva truffato e mentito per avere ciò che desiderava da chiunque avesse incontrato e se l’era sempre cavata, col sotterfugio o con la fuga. Eppure è l’unico, in tutta la Bibbia, a cui si spalancano le porte dell’invisibile, nella forma di una scala che sale ai cieli.
Né Abele, né Isacco, né Giacobbe, né Giuseppe, né Salomone furono primogeniti, mentre nel loro mondo la primogenitura - fatto naturale e indelebile - garantiva un vantaggio e un onore perpetui. Iahvè stesso volle per Sé i primogeniti, per esempio quando li reclamò con l’ultima piaga d’Egitto, la più letale. E ciononostante, i Suoi protagonisti non sono primogeniti, anzi, scavalcano il diritto naturale stabilito dalla primogenitura. La legge a cui obbediscono, o meglio, la legge che li ha scelti, si beffa della legge di necessità che vincola questo mondo. La loro legge è di quell’altro, ed è la grazia. Gli ultimi saranno i primi, si è detto in seguito.
Non la legge di natura, dunque, ma nemmeno l’ordine stabilito da opere e meriti. Qual è infatti il merito di Abele, che sacrificò gli animali, rispetto al demerito di Caino, che sacrificò i frutti della terra? Quale il merito di Sem, figlio di Noè e progenitore degli Ebrei, rispetto al demerito di suo fratello Iafeth, presumibilmente un giusto, che tuttavia non fu scelto? Regna soltanto il puro arbitrio di Dio, cui Abramo dovette obbedire quando gli venne chiesto di sacrificare il figlio Isacco, benché gli fosse stato promesso che proprio tramite Isacco sarebbe passata la sua infinita stirpe. Qui sta la “differenza irriducibile” della Bibbia: è una storia che, prima di ogni altra cosa, non segue leggi a noi comprensibili.
Per questo essere ‘scelti’ è quanto di più terrificante possa avvenire, poiché l’elezione determina l’esclusione dell’ordine naturale delle cose e l’appartenenza esclusiva all’invisibile. La Bibbia parla di “terrore dell’elezione”. Essere scelti significa che la propria storia non è più soltanto propria: è essenzialmente di Dio, e tramite essa passa una storia più grande, insondabile, i cui limiti si estendono oltre il tempo e lo spazio, oltre qualsiasi nostra capacità di pensare una storia.
“Se la grazia agisse soltanto come favore e non come condanna” - si legge nel libro -, se non persistesse inspiegato “il mistero della fortuna dei malvagi e delle sofferenze dei giusti”, vivremmo un mondo
La Bibbia di Calasso racconta precisamente quest’altra macchina, che ci lascia nello sconcerto come un roveto che arde senza consumarsi, e di fronte alla quale il mondo secolare e scientifico impallidisce.
Saul, per esempio, sapeva bene che essere eletti non significa avere il favore di Iahvè. Un giorno suo padre l’aveva mandato a cercare due asine smarrite. Persosi lungo la strada, aveva incontrato Samuele, un “veggente”. Questi certo poteva mostrargli la via di casa, e invece scelse di rivelargli che era destinato a diventare il primo re d’Israele. “Il caso e il destino stavano per sovrapporsi in lui” commenta Calasso. “Opprimente saldatura. Non avrebbe più respirato senza pensare a niente, come quando camminava per sentieri sconosciuti alla ricerca delle asine del padre, annoiato, distratto. [...] Ormai nulla di simile sarebbe accaduto nella sua vita”. La sua storia non era più la sua. Serviva a una storia più grande, in cui lui doveva addirittura interpretare una parte negativa.
La Bibbia non tace che sia una sensazione tremenda, e afferma inoltre che vivere come eletti sotto lo sguardo perenne di Dio sia la massima oppressione. È la condanna e il privilegio del popolo ebraico, ed è ciò che più di tutto lamenta Giobbe, a cui l’incessante attenzione divina toglie il fiato. Kafka una volta
Anche ciò che è sacro oscilla tra ciò che deve essere preservato e ciò che viene allontanato o, come suggerisce la parola stessa, sacrificato. L’essere sacro è l’essere eletto, auratico e inestimabile (“The temple is holy” dice il Canto XCVII di Ezra Pound “because it is not for sale”). “Comune a tutti i significati della consacrazione è che un essere vivente o un oggetto vengono sottratti all’uso e alla vita comune. L’invisibile li investe [...] non appartengono più a se stessi, perdono ogni pretesa di autosufficienza. È il contrario di ciò che accade nel mondo secolare”. Dopotutto, se non si riconosce l’invisibile, nulla più può essere fatto sacro.
Questa storia di eletti che Iahvè scrive nel mondo si serve di due meccanismi: il divieto e la sua infrazione. E il primo a infrangere i divieti divini è Iahvè stesso. Il più grande nemico di idoli e tentativi di rappresentare il divino creò l’uomo a propria immagine e somiglianza, come il primo di tutti gli idoli. A Davide non perdonò mai di aver mandato Uria a morire in guerra per prendere sua moglie Betsabea, eppure è da Betsabea che nacque Salomone, ed è da Salomone che passa la genealogia da cui venne, un giorno, Gesù. Dio proibisce e condanna, ma la storia che vuole raccontare necessita del male e della trasgressione, e questo, dalla nostra prospettiva, pare inaccettabile.
Perché Dio dovrebbe operare contro Se stesso e la propria parola? Forse perché, su questa via né regolare né “aequa” (così nella Vulgata), non potevano esserci “una necessità, un calcolo, una misura, che escludessero i suoi interventi fulminei e devastanti - o altrimenti salvifici - sulla terra. Non potevano esserci storie, ma una storia: la storia”, racconto che viola le regole umane e persino le regole divine accessibili all’essere umano.
Sta qui il nesso per comprendere quello che è forse il passaggio più sconvolgente della Bibbia, ossia, tra Antico e Nuovo Testamento, il superamento dell’ordine sacrificale col sacrifico unico di Dio a Dio stesso. In precedenza, nel Tempio di Gerusalemme e prima ancora, il sacrificio riscattava la vita con la vita. “Ciò che faceva [...] di quei quadrupedi l’unico oggetto regolare delle offerte era [il fatto che erano] vivi. Se il debito era la vita, non poteva essere saldato se non con altra vita. Sempre insufficiente, certo. Perciò gli olocausti andavano ripetuti”.
Poi, secondo il racconto, qualcosa avvenne per cui non sarebbe più stato necessario sacrificare, e il sangue di un unico eletto, questa volta un “essere divino”, sarebbe bastato per l’eternità. Ma così facendo la salvezza contraddiceva o quantomeno abrogava le ancestrali leggi della Tōrāh sulla necessità del sacrificio. E ancor più sconvolgente è il fatto, ben compreso da Simone Weil, che l’“Agnello è in qualche modo sgozzato in cielo prima di esserlo sulla terra. Chi lo sgozza?”. Nell’allusione al Nuovo Testamento, che rimane distante, oggetto - forse - di un’opera futura, Il libro di tutti libri si muove all’ombra di questa domanda impervia e scandalosa, la domanda delle domande, incapace di risposta e per questo in grado di far tremare l’innominabile attuale.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.... *
Botta e riposta.
Cristo ci rivela che l’espiazione non è prezzo, ma sinonimo di perdono
La croce del Figlio è il ’luogo’ dove Dio Padre dà risposta d’amore all’amore fedele estremo. E io resto convinto che una lettura della Passione come prezzo della salvezza rischia di allontanarci ...
di Luigino Bruni (Avvenire, mercoledì 30 ottobre 2019)
Cara signora Maria Carla, a proposito della teologia dell’espiazione ho scritto più volte in questi anni su “Avvenire”. In sintesi: nel Nuovo Testamento, compreso Paolo, si usa l’immagine del sangue e del riscatto pagato dal figlio, ma è solo un’immagine e sempre presa in prestito dall’Antico Testamento.
Se guardiamo il messaggio generale che emerge nei Vangeli sulla Passione di Cristo, non abbiamo elementi per pensare che il Padre abbia voluto la morte del Figlio come prezzo della salvezza.
Ormai la maggior parte degli esegeti, soprattutto dopo il Vaticano II è concorde nel leggere la Passione come fedeltà estrema del Figlio al suo compito che lo ha portato a una morte cruenta, non voluta né dal Padre né da Lui, ma accettata come conseguenza dell’incarnazione e della cattiveria degli uomini.
Poi una certa teologia, soprattutto medioevale, e anche alcuni Padri hanno voluto leggere il sacrificio del Cristo (sulla base di testi Neotestamentari, tra cui la lettera agli Ebrei), con le categorie arcaiche del sacrificio del nuovo Agnello etc. Anche la lettera ai Colossesi (che, come saprà, secondo gran parte degli studiosi non sarebbe di Paolo, ma di un suo discepolo) si muove nel passaggio che lei cita in questa stessa tradizione. Anche le preghiere liturgiche, soprattutto quelle della Settimana Santa, risentono di queste letture dell’espiazione, nella versione che ne ha dato Anselmo d’Aosta, la cosiddetta “Satisfactio”: il Padre era così adirato con gli uomini che solo il sangue del Figlio lo poteva soddisfare.
Inoltre, per la parola espiazione, bisogna stare attenti al significato. Quello normale è essere punito per riparare un male e placare l’ira divina. Ma nella Bibbia, quasi sempre il soggetto del verbo espiare è Dio, non il peccatore; ed espiare è praticamente sinonimo di perdonare. È Dio che espia, non l’uomo. Vedi per esempio Rm 3,25: Dio non ha esposto Gesù per espiare cioè punirlo al nostro posto e così placare la sua ira o ricevere soddisfazione, ma Dio è il soggetto che procura espiazione mediante la morte di Gesù, cioè concede il perdono; la Croce è vista come il “luogo” dove Dio dà il perdono, come risposta d’amore all’amore fedele estremo.
Resto convinto che una lettura della Passione come prezzo ci allontana dalla novità del Cristianesimo, ci dà una idea di Dio molto più vicina a Mardok e a Baal che al Dio Amore di Gesù o al Padre Misericordioso delle Parabole e fino a tempi recenti ci ha impedito di comprendere le pagine più belle della Bibbia e dei Vangeli. Grazie a lei per la sua lettera.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT. Alcune luminose pagine da "La fine di tutte le cose"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
IL MITO DELLE ORIGINI FAVOLOSE E IL PECCATO ORIGINALE... *
Arte e sacro. Che cosa c’era sul leggio di Maria?
Nelle raffigurazioni dell’Annunciazione il libro su cui legge Maria compare tardi, dal IX secolo. Il filologo Michele Feo va a caccia delle tante ipotesi sul contenuto del volume
di Rosita Copioli (Avvenire, sabato 19 ottobre 2019)
La storia della Madonna è un meraviglioso romanzo per immagini. Più misteriosa tra tutte l’Annunciazione perché è il mistero stesso di Maria. Ma anche la più rivoluzionaria nella storia dell’umanità, perché fonda il mondo dopo Adamo: il mondo da Gesù Cristo, origine del nostro tempo. E poi perché racchiude tutto il turbamento, anzi lo sconvolgimento, e insieme la concentrata tenerezza della Vergine prima che concepisca e nel suo stesso istante: l’anticipazione dell’aurora, prima che irrompa il giorno in lei, in ognuno di noi.
Le scarne parole di Luca e Matteo non sono prive di immagini potenti, anzi assolute: per Alberto Magno l’ombra non è l’oscurità - che non viene dalla somma luce - ma l’immagine specchiata dell’onnipotenza; tuttavia solo i Vangeli apocrifi ci mostrano le scene, gli oggetti, i simboli, che i pittori prediligono. In essi Maria è alla fonte, al pozzo con la brocca, poi in casa, intenta a filare scarlatto e porpora (colori della regalità) accanto a un vaso dove fiorisce il giglio di Gesù; più tardi ha con sé un libro aperto e talora lo legge.
Sono queste le raffigurazioni che si susseguono dovunque nei secoli, in molteplici varianti. Soprattutto impone infinite riflessioni la presenza del libro, che compare tardi, dal IX secolo, su un cofanetto d’avorio francese dall’aria regale. Perché quella ragazza umile e il libro, che fu strumento di distinzione, non solo per la sapienza, ma nelle classi sociali? E significava soprattutto autorevolezza, garanzia di verità? E cosa era scritto nel libro di Maria, oltre alle parole dei profeti, dei salmi, dei Vangeli, del Magnificat?
Si può rispondere che Maria stessa è un libro, contiene il passato e soprattutto il futuro: un libro profetico al massimo grado. Ma c’è quella commistione di realtà e di sentimenti, che colpisce nel profondo, e non si accontenta di spiegazioni teologiche. In Maria il mistero teologico è reale e carnale, attraversa la vita quotidiana, gli affetti delle madri nelle famiglie, tutte le forme reali e immaginarie, che le madri quotidiane e le divinità femminili hanno mostrato in ogni tempo e spazio.
Michele Feo, filologo e acutissimo investigatore dei testi, ne è stato così commosso e catturato, da inventariarne le immagini per uno studio colto e appassionato (Cosa leggeva la Madonna; Polistampa, pagine 304, euro 20,00). Ma non dobbiamo pensare che l’indagine di Feo si limiti a un excursus erudito che riguarda soltanto l’abbinamento con il libro. Si estende a ogni riflessione che tocca Maria, con una condivisione totale e sottile della femminilità e dei suoi valori più profondi.
Mentre segue nei secoli e nelle contestualizzazioni delle opere le Annunciazioni, decifrando e commentando le iscrizioni e le composizioni, Feo non dimentica mai l’origine. Chi è veramente Maria? Cosa accade nel momento in cui riceve l’annuncio traumatico dell’angelo che ha sconvolto lei fino a noi stessi? Perché l’Annunciazione non è un evento che si conclude, ma un progetto che ci riguarda inesorabilmente? Come sono diventati lontani nei secoli i sensi originari? Come tutto è diventato infinitamente indecifrabile, sebbene continuino a colpirci quegli atti e quei gesti e quelle mani della ragazza non ancora madre, che talora si specchiano nelle mani dell’angelo, o - come nella Vergine Annunciata palermitana di Antonello da Messina - emergono in assoluta eloquenza fuori dal quadro?
La ricchezza di questo libro sta anche nella presentazione di testi preziosi che accompagnano la figura dell’Annunciazione; non solo quelli sacri, o Dante, o Petrarca (di cui Feo è massimo studioso), che nel cammino dell’amore che nobilita attraverso la donna, compie la «rivoluzionaria e decisiva collocazione della Vergine a chiusura dei Rerum vulgarium fragmenta». Feo ci traduce molti testi straordinari: ora popolari, ora dei più sofisticati umanisti che intrecciano la Vergine con le divinità greco-latine, ora di mistici ottocenteschi, ora di teologi moderni. Il valore del libro sta anche nel sapiente dialogo che Feo intrattiene tra culture diverse.
Vorrei aggiungere una testimonianza, che ha origine da due antiche tradizioni romagnole. Esse hanno riscontri nei calendari popolari e nel Tempio malatestiano di Rimini, dove compaiono le due porte che le anime passano: nel segno del Capricorno abbandonano la carne attraverso la porta degli dèi e dell’immortalità; nel segno del Cancro si incarnano. Nell’Annunciazione (e incarnazione) del 25 marzo, nell’equinozio di primavera, Maria è seduta, intenta a filare il lino “marzuolo”. In questa immagine, che riprende il protovangelo di Giacomo, Maria è l’umile donna antica, attenta alla rocca, al fuso, al telaio. Ma rievoca anche archetipi: Elena che in Omero tesse una tappezzeria di porpora con le lotte di Greci e Troiani in cui lei è al centro; Cloto che fila lo stame della vita.
La vigilia di Natale, a Ravenna, in una filastrocca che inizia con l’invocazione «Levati, levati mio sole / con il raggio del Signore», tre angeli donano a Maria tre forcine o tre falci d’oro: lei le porge al Signore, e Lui con queste mette in moto la ruota del cosmo: è la nascita di Gesù e del tempo: il compimento dell’Annunciazione avviene nel solstizio d’inverno, sotto il segno del Capricorno. In sintonia con tradizioni immemoriali, raccolte da quelle platoniche, Maria tra primavera ed estate incarna, mentre nel cuore dell’inverno, con il “sole invitto” libera dalla carne, verso l’eternità.
*
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
Michele Feo, Mio nonno era un re , "Il grande vetro".
Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!! Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni".
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
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Federico La Sala
Sulla divinità di Gesù. il Vaticano corregge Scalfari
Nota della Sala Stampa vaticana: dal fondatore di Repubblica libera e personale interpretazione. La precisazione dopo le sconcertanti e irreali frasi attribuite al Papa sulla divinità di Gesù Cristo
di Riccardo Maccioni (Avvenire, mercoledì 9 ottobre 2019)
Qualcuno stamattina leggendo “La Repubblica” avrà fatto un balzo sulla sedia. Nel suo commento al Sinodo intitolato “Francesco e lo spirito dell’Amazzonia” il fondatore del quotidiano Eugenio Scalfari attribuisce infatti al Papa riflessioni e opinioni quanto meno sconcertanti.
In particolare Scalfari scrive: «Chi ha avuto, come a me è capitato più volte, la fortuna d’incontrarlo e di parlargli con la massima confidenza culturale, sa che papa Francesco concepisce il Cristo come Gesù di Nazareth, uomo, non Dio incarnato. Una volta incarnato, Gesù cessa di essere un Dio e diventa fino alla sua morte sulla croce un uomo».
E a conferma di quanto appena detto, il giornalista e filosofo, passa in rassegna, modificandola anche un po’, la Passione di Gesù, soffermandosi in particolare sul grido di Cristo in croce, tratto dal Vangelo di Marco che riprende il Salmo 22: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Un’invocazione che Scalfari riassume in “Signore mi hai abbandonato”. «Quando mi è capitato di discutere queste frasi - aggiunge Scalfari - papa Francesco mi disse: “Sono la prova provata che Gesù di Nazareth una volta diventato uomo, sia pure un uomo di eccezionali virtù, non era affatto un Dio”». Davvero, quella di Scalfari, un’interpretazione troppo libera e palesemente irreale, al punto da meritarsi una “correzione”.
Arrivata con una nota del direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Matteo Bruni: «Come già affermato in altre occasioni, le parole che il dottor Eugenio Scalfari attribuisce tra virgolette al Santo Padre durante i colloqui con lui avuti non possono essere considerate come un resoconto fedele di quanto effettivamente detto, ma rappresentano piuttosto una personale e libera interpretazione di ciò che ha ascoltato, come appare del tutto evidente da quanto scritto oggi in merito alla divinità di Gesù Cristo».
Del resto per capire che le espressioni attribuite al Pontefice non potevano essere reali sarebbe bastato recuperare le parole del Papa, ripetute in più occasioni. Poteva essere sufficiente anche solo riprendere pochi passaggi dell’udienza generale del 18 dicembre 2013: «Dio ha voluto condividere la nostra condizione umana al punto da farsi una cosa sola con noi nella persona di Gesù, che è vero uomo e vero Dio. Ma c’è qualcosa di ancora più sorprendente. La presenza di Dio in mezzo all’umanità non si è attuata in un mondo ideale, idilliaco, ma in questo mondo reale, segnato da tante cose buone e cattive, segnato da divisioni, malvagità, povertà, prepotenze e guerre. Egli ha scelto di abitare la nostra storia così com’è, con tutto il peso dei suoi limiti e dei suoi drammi. Così facendo ha dimostrato in modo insuperabile la sua inclinazione misericordiosa e ricolma di amore verso le creature umane».
Concetti ribaditi a Caserta il 28 luglio 2014: «L’Apostolo Giovanni è chiaro: “Colui che dice che il Verbo non è venuto nella carne, non è da Dio! È dal diavolo”. Non è nostro, è nemico! Perché c’era la prima eresia - diciamo la parola fra di noi - ed è stata questa, che l’Apostolo condanna: che il Verbo non sia venuto nella carne. No! L’incarnazione del Verbo è alla base: è Gesù Cristo! Dio e uomo, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, vero Dio e vero uomo».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
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Federico La Sala
Cosa significa Gesù per me
di Mohandas Karamchand Gandhi *
Benché io abbia dedicato gran parte della mia vita allo studio della religione e alla discussione con i capi religiosi di tutte le fedi, riconosco molto bene di non poter non sembrare presuntuoso nel momento in cui mi accingo a scrivere di Gesù Cristo e a cercare di spiegare ciò che Lui significa per me. (...)
... Egli è stato sicuramente il più alto esempio di chi ha desiderato di dare tutto senza chiedere in cambio niente e senza interessarsi a quale sarebbe stato il credo che avrebbe professato il ricevente. Sono sicuro che se Lui in questo momento vivesse tra gli uomini, Egli benedirebbe le vite di molti di coloro che forse non hanno mai sentito il Suo nome, se soltanto le loro vite incarnassero le virtù delle quali Lui è stato l’esempio vivente sulla terra, la virtù di amare il prossimo come se stessi e del fare del bene e della carità tra i propri simili.
Allora, cosa può significare per me Gesù? Per me Egli è stato uno dei più grandi maestri che l’umanità abbia mai conosciuto. Secondo i Suoi credenti Egli è stato l’Unigenito Figlio di Dio. Ma il fatto che io accetti o meno questa convinzione può far sì che Gesù abbia maggiore o minore influenza nella mia vita? È forse che tutta la grandezza dei Suoi insegnamenti e della Sua dottrina devono essermi vietati? Non posso crederci.
Per me ciò implica una nascita spirituale. In altre parole, la mia interpretazione è che nella vita di Gesù vi è la chiave della Sua vicinanza a Dio e che Egli espresse, come nessun altro ha saputo fare, lo spirito e la volontà di Dio. È in questo senso che io Lo vedo e Lo riconosco come Figlio di Dio.
(...)
E poiché la vita di Gesù ha quel senso e quella trascendenza ai quali io ho alluso, credo che Egli appartenga non soltanto al cristianesimo ma al mondo intero, a tutte le razze e a tutti i popoli, poco importa sotto quale bandiera, nome o dottrina essi possano lavorare o professare una fede o adorare un dio ereditato dai propri avi.[1]
*
[1] Mohandas Karamchand Gandhi, Cosa significa Gesù per me, «Modern Review», ottobre 1941. Pubblicato in Mohandas Karamchand Gandhi, La forza della verità. Scritti etici e politici, Edizioni Sonda, Torino 1991, vol. I, pp. 458-460 .
Udienza.
Papa Francesco: non c’è evangelizzazione senza Spirito Santo, senza gioia
L’invito del Papa: l’evangelizzazione è lasciarti spingere dallo Spirito Santo, che sia lui a spingerti all’annuncio: con la testimonianza, anche con il martirio, e con la Parola *
"Lo Spirito Santo è il protagonista dell’evangelizzazione". Lo ha ribadito papa Francesco nell’udienza generale, dedicata anche oggi alla catechesi sul libro degli Atti degli Apostoli.
"’Padre, io vado a evangelizzare’ - ha esemplificato il Pontefice a braccio -. ’Sì, cosa fai?’, ’Ah, io annuncio il Vangelo e dico chi è Gesù, cerco di convincere la gente che Gesù è Dio’. ’Caro, questa non è evangelizzazione, se non c’è lo Spirito Santo non c’è evangelizzazione. Questo può essere proselitismo, può essere pubblicità, ma l’evangelizzazione è lasciarti spingere dallo Spirito Santo, che sia lui a spingerti all’annuncio: all’annuncio con la testimonianza, anche con il martirio, e con la Parola".
"Ho detto che protagonista dell’evangelizzazione è lo Spirito Santo - ha quindi ribadito, sempre a braccio -. E qual è il segno che tu, cristiano o cristiana, sei un evangelizzatore? La gioia, anche nel martirio". "Che lo Spirito - ha concluso Francesco - faccia di tutti noi battezzati uomini e donne che annunciano il Vangelo per attirare gli altri non a sé ma a Cristo, che sanno fare spazio all’azione di Dio, che sanno rendere gli altri liberi e responsabili dinanzi al Signore".
"Non basta leggere la Scrittura, occorre comprenderne il senso, trovare il ’succo’ andando oltre la ’scorza’, attingere lo Spirito che anima la lettera".
In uno dei passaggi della catechesi odierna "Come disse Papa Benedetto all’inizio del Sinodo sulla Parola di Dio - ha continuato -, ’l’esegesi, la vera lettura della Sacra Scrittura, non è solamente un fenomeno letterario... È il movimento della mia esistenza’. Entrare nella Parola di Dio è essere disposti a uscire dai propri limiti per incontrare Dio e conformarsi a Cristo che è la Parola vivente del Padre", ha aggiunto Francesco.
* Avvenire, mercoledì 2 ottobre 2019
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SINODO DEI VESCOVI 2008. L’ANNO DELLA PAROLA DI DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?! Fatto sta che la prima enciclica di Papa Benedetto XVI (Deus caritas est, 2006) è per Mammona.
LA GRAZIA DEL DIO DI GESU’ E’ "BENE COMUNE" DELL’INTERA UMANITA’, MA IL VATICANO LA GESTISCE COME SE FOSSE UNA SUA PROPRIETA’.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Idee.
Kasper: «Chiesa e modernità: da nemici a alleati per il futuro della democrazia»
Le difficoltà della Chiesa di riconoscersi nelle democrazie moderne hanno prodotto un Occidente secolarizzato. Ma la crisi democratica può trovare una soluzione attraverso la missione della Chiesa
di Walter Kasper (Avvenire, domenica 29 settembre 2019)
Dopo il crollo del muro di Berlino e della Cortina di ferro lo sguardo si è aperto ben oltre l’Europa, e si è sviluppato il sogno di un mondo unito. Si è sviluppata una "globalizzazione", cioè una rete internazionale mondiale a livello economico, finanziario, dei mezzi di comunicazione, della tecnologia e del turismo. Ma questo nuovo universalismo è rimasto a livello materiale, funzionale, economico, tecnico; è mancato un universalismo più profondo, spirituale e solidale. Così la vittoria della libertà è divenuta una vittoria della mentalità dello sviluppo economico e del capitalismo talvolta feroce e aggressivo nell’emisfero Sud, che ha portato come reazione a movimenti di antiglobalizzazione, anch’essi talvolta violenti.
La globalizzazione è una realtà complessa e ambigua. Da un lato porta nuovi vantaggi economici e di comunicazione, ma dall’altro la nuova libertà ha creato anche nuove interdipendenze politiche ed economiche complesse, che la gente “normale” fatica a cogliere. Poiché ora le decisioni si prendono a livelli internazionali lontani dal normale cittadino, l’uomo medio non si sente più a casa in un modo globalizzato, dove tutto cambia in modo sempre più accelerato. Ma è soprattutto nel movimento migratorio, oggi un segno dei tempi universale, che si mostra il lato negativo dell’universalismo globalizzato. La gente vi ravvede il pericolo di una perdita della propria patria e dell’identità ereditata dalla propria storia e cultura. Vede nei migranti una crisi dell’Europa come l’hanno conosciuta finora.
Tale situazione crea lo spazio per un populismo che dà risposte facili a domande estremamente difficili e complesse. Questo populismo non è un’ideologia coerente, ma è frutto della paura e della strumentalizzazione della paura. Le sue risposte spesso sono verità parziali, se non vere e proprie fake news.
Per tutelarsi da questo mondo nuovo, molti si ritirano o desiderano farlo nel mondo passato e così conservare la propria identità. Ma un’identità chiusa ed esclusiva, avversa a tutto ciò che è straniero, un’identità identitaria e xenofoba che conduca a un nuovo nazionalismo e sovranismo, nel mondo globalizzato non solo è illusoria, ma anche pericolosissima per la pace. L’uomo è per sua natura un essere sociale. Pertanto un’identità racchiusa è un’identità debole e malata. Un’identità forte è un’identità aperta, un’identità in scambio, che si lascia arricchire nell’incontro con altre identità.
Per la Bibbia tutta l’umanità è una grande unità, è il genere umano, una grande famiglia, una fratellanza. Il cristianesimo dunque non è mai un’identità chiusa in se stessa, ma un’identità universalmente aperta verso gli altri e per gli altri, soprattutto per i poveri e bisognosi e per profughi e perseguitati da altri Paesi e culture. Pertanto bisogna essere consapevoli che l’antiglobalizzazione e l’antieuropeismo sono solo un movimento antiuniversale, e in questo senso un movimento antimoderno e antilluminista, ma che si presenta con la maschera conservatrice del cristianesimo.
L’antiglobalizzazione, che si propone come tutela e difesa del cristianesimo, è in realtà un cristianesimo divenuto ideologia. Il vero cristianesimo non costruisce muri, ma ponti.
Questa identità è stata ed è la grandezza d’Europa, che in tutta la sua storia non è mai stata una realtà unitaria e identitaria: dal suo inizio e in tutta la sua storia l’Europa è stata un crocevia, uno spazio e un processo d’incontri e di mutua penetrazione di culture diverse (nel passato le culture ebraica, greca, romana, celtica, germanica, slava, normanna, senza dimenticare la cultura araba musulmana e dell’illuminismo moderno). L’Europa non è mai stata monoetnica; l’impero medioevale non fu sicuramente una realtà pluralista nel senso moderno, tuttavia costituì un’unità composta da popoli, principati e regni diversi, città imperiali e monasteri indipendenti.
Lo stato nazionale e soprattutto il nazionalismo sono nati solo in tempi relativamente recenti nel Sette e Ottocento, e poi nel Novecento nei sistemi fascisti e nazionalsocialisti sono divenuti la rovina dell’Europa e ci hanno portato alla catastrofe della Seconda guerra mondiale e alla Shoah.
Certo, dopo tutte queste crisi e disastri non possiamo ricostruire l’unità spirituale medioevale. Oggi in modo nuovo siamo di fronte alla necessità di mantenere e arricchire l’identità dell’Europa attraverso un incontro tra le diverse civiltà non europee, che non diventi uno «scontro di civiltà» (S. Huntington).
La nostra sfida è conservare e rinnovare i valori fondamentali che hanno fatto grande l’Europa e realizzare questi valori nella nuova situazione della globalizzazione, con lo stesso coraggio che hanno mostrato i nostri antenati. Certo è un compito molto complesso, nel quale non si può accontentare tutti, ma a cui bisogna invitare la grande maggioranza della gente di buona volontà; un compito la cui realizzazione richiede l’arte politica, una politica che è l’arte del possibile (O. von Bismarck). (Purtroppo, talvolta anche l’arte di fare l’impossibile). C’è il famoso detto di Wolfgang Böckenförde, stimato giurista e già presidente della Corte costituzionale tedesca: «Lo stato liberale secolarizzato si fonda su presupposti che esso stesso non è in grado di garantire». Non li può estorcere, se non vuole abdicare al suo carattere di stato libero, che rispetta la libertà e riconosce la libertà religiosa. In tal senso lo stato democratico non è uno stato neutro riguardo ai valori fondamentali, che esso presuppone e di cui vive.
Così la democrazia presuppone che la stragrande maggioranza della popolazione riconosca i valori costitutivi della democrazia, cioè la dignità della persona a prescindere dalla cultura, dalla religione, dalla provenienza, dalla nazionalità, dal sesso e dal colore della pelle; riconosca la libertà di coscienza e di parola, la libertà dell’altro, la giustizia non solo commutativa ma anche sociale, la tolleranza, soprattutto la tolleranza religiosa e per altre visioni del mondo. Il riconoscimento maggioritario di tali valori è il sine qua non della democrazia.
Questi valori fondamentali sono valori che risalgono alla tradizione cristiana e alla sua sintesi con i valori fondamentali della cultura grecoromana. In ultima analisi questi valori sono fondati nella creazione dell’uomo a immagine di Dio (Gen 1,27).
Già dopo la svolta di Costantino nel monachesimo in reazione contro una concezione imperiale della Chiesa si trovano forme democratiche (per esempio nella forma della partecipazione della comunità alle decisioni dell’abate, dell’elezione dei superiori a tempo ecc.). I teologi dell’Università di Salamanca all’inizio del Seicento (quasi duecento anni prima della Rivoluzione francese!) furono i primi a sviluppare sulla base della teologia di Tommaso d’Aquino il diritto dei popoli (Völkerrecht) e il fondamento dei diritti dell’uomo, anche degli indigeni nelle colonie, un’idea che la Rivoluzione francese ha risolutamente negato. I monaci e i teologi erano più avanti!
Ma la tragedia della storia moderna è che la Chiesa in Europa (anche le Chiese luterane) per lungo tempo non è stata in grado di riconoscere i suoi propri valori e idee nella democrazia moderna. A lungo ha sollevato critiche sui diritti umani e la democrazia. Così i moderni diritti dell’uomo sono stati sviluppati contro la Chiesa in un modo secolarizzato. Solo e molto tardi il Concilio Vaticano II, dopo lunghe controversie, è stato in grado di riconoscere i diritti dell’uomo e il diritto alla libertà religiosa. A causa di questo fallimento, la Chiesa e le Chiese luterane sono divenute corresponsabili della secolarizzazione della civiltà europea moderna.
D’altra parte a causa della secolarizzazione i diritti dell’uomo, e insieme a essi il fondamento della democrazia, sono stati staccati dalle loro radici cristiane, e staccati dalle radici - come ogni pianta - si sono indeboliti, e ora sono in crisi. Tale indebolimento e crisi hanno aperto la porta ai populisti e alla loro propaganda antidemocratica, antimoderna e anticristiana.
Durante gran parte dell’Ottocento e nella prima parte del Novecento, l’argomento sostenuto dalla Chiesa era che l’autorità dello stato è derivata da Dio. E questo escludeva il riconoscimento della democrazia, in cui tutta l’autorità deriva dal popolo. Oggi questa argomentazione è superata. Già papa Pio XII, nel suo messaggio per il Natale 1942, riconosceva che la democrazia come struttura statale era un sistema oggigiorno adeguato.
Il Concilio Vaticano II si è espresso definitivamente in questo senso. Secondo il Concilio l’autorità secolare dello Stato deriva da Dio, ma l’ordinamento concreto dello Stato, che sia democratico o monarchico, va affidato alla decisione del popolo. Pertanto il Concilio non esprime alcuna opzione in favore né della monarchia, né della democrazia o di un altro ordinamento dello Stato. Il criterio del riconoscimento non pertiene alla struttura, ma se in qualsiasi struttura democratica siano rispettati i diritti umani fondamentali, soprattutto il diritto fondamentale della libertà religiosa e la giustizia sociale. Teonomia del mondo e dello stato da un lato e autonomia della libertà umana e politica d’altra non sono contrastanti, ma vanno insieme. Di più, la teonomia non solo non esclude i diritti dell’uomo, ma li garantisce e li difende.
In conclusione, poiché la democrazia vive di valori, che originariamente sono valori cristiani, la crisi d’Europa è molto più di una crisi istituzionale strutturale: è crisi dei valori costitutivi per l’Europa e per la sua democrazia per effetto della secolarizzazione, anche a causa della Chiesa. O l’Europa scoprirà di nuovo le sue radici cristiane, o l’Europa e la sua cultura non saranno più l’Europa e la cultura dell’Europa come le abbiamo conosciute finora. Il futuro della democrazia dipende molto dalla formazione delle nuove generazioni, ma dipende soprattutto dalla presenza pastorale e dalla missione della Chiesa.
LETTERA APOSTOLICA IN FORMA DI «MOTU PROPRIO»
DEL SOMMO PONTEFICE FRANCESCO
“APERUIT ILLIS”
CON LA QUALE VIENE ISTITUITA LA DOMENICA DELLA PAROLA DI DIO
1. «Aprì loro la mente per comprendere le Scritture» (Lc 24,45). È uno degli ultimi gesti compiuti dal Signore risorto, prima della sua Ascensione. Appare ai discepoli mentre sono radunati insieme, spezza con loro il pane e apre le loro menti all’intelligenza delle Sacre Scritture. A quegli uomini impauriti e delusi rivela il senso del mistero pasquale: che cioè, secondo il progetto eterno del Padre, Gesù doveva patire e risuscitare dai morti per offrire la conversione e il perdono dei peccati (cfr Lc 24,26.46-47); e promette lo Spirito Santo che darà loro la forza di essere testimoni di questo Mistero di salvezza (cfr Lc 24,49).
La relazione tra il Risorto, la comunità dei credenti e la Sacra Scrittura è estremamente vitale per la nostra identità. Senza il Signore che ci introduce è impossibile comprendere in profondità la Sacra Scrittura, ma è altrettanto vero il contrario: senza la Sacra Scrittura restano indecifrabili gli eventi della missione di Gesù e della sua Chiesa nel mondo. Giustamente San Girolamo poteva scrivere: «L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo» (In Is., Prologo: PL 24,17).
2. A conclusione del Giubileo straordinario della misericordia avevo chiesto che si pensasse a «una domenica dedicata interamente alla Parola di Dio, per comprendere l’inesauribile ricchezza che proviene da quel dialogo costante di Dio con il suo popolo» (Lett. ap. Misericordia et misera, 7). Dedicare in modo particolare una domenica dell’Anno liturgico alla Parola di Dio consente, anzitutto, di far rivivere alla Chiesa il gesto del Risorto che apre anche per noi il tesoro della sua Parola perché possiamo essere nel mondo annunciatori di questa inesauribile ricchezza. Tornano alla mente in proposito gli insegnamenti di Sant’Efrem: «Chi è capace di comprendere, Signore, tutta la ricchezza di una sola delle tue parole? È molto di più ciò che sfugge di quanto riusciamo a comprendere. Siamo proprio come gli assetati che bevono a una fonte. La tua parola offre molti aspetti diversi, come numerose sono le prospettive di quanti la studiano. Il Signore ha colorato la sua parola di bellezze svariate, perché coloro che la scrutano possano contemplare ciò che preferiscono. Ha nascosto nella sua parola tutti i tesori, perché ciascuno di noi trovi una ricchezza in ciò che contempla» (Commenti sul Diatessaron, 1, 18).
Con questa Lettera, pertanto, intendo rispondere a tante richieste che mi sono giunte da parte del popolo di Dio, perché in tutta la Chiesa si possa celebrare in unità di intenti la Domenica della Parola di Dio. È diventata ormai una prassi comune vivere dei momenti in cui la comunità cristiana si concentra sul grande valore che la Parola di Dio occupa nella sua esistenza quotidiana. Esiste nelle diverse Chiese locali una ricchezza di iniziative che rende sempre più accessibile la Sacra Scrittura ai credenti, così da farli sentire grati di un dono tanto grande, impegnati a viverlo nel quotidiano e responsabili di testimoniarlo con coerenza.
Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha dato un grande impulso alla riscoperta della Parola di Dio con la Costituzione dogmatica Dei Verbum. Da quelle pagine, che sempre meritano di essere meditate e vissute, emerge in maniera chiara la natura della Sacra Scrittura, il suo essere tramandata di generazione in generazione (cap. II), la sua ispirazione divina (cap. III) che abbraccia Antico e Nuovo Testamento (capp. IV e V) e la sua importanza per la vita della Chiesa (cap. VI). Per incrementare quell’insegnamento, Benedetto XVI convocò nel 2008 un’Assemblea del Sinodo dei Vescovi sul tema “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”, in seguito alla quale pubblicò l’Esortazione Apostolica Verbum Domini, che costituisce un insegnamento imprescindibile per le nostre comunità.[1] In questo Documento, in modo particolare, viene approfondito il carattere performativo della Parola di Dio, soprattutto quando nell’azione liturgica emerge il suo carattere propriamente sacramentale.[2]
È bene, pertanto, che non venga mai a mancare nella vita del nostro popolo questo rapporto decisivo con la Parola viva che il Signore non si stanca mai di rivolgere alla sua Sposa, perché possa crescere nell’amore e nella testimonianza di fede.
3. Stabilisco, pertanto, che la III Domenica del Tempo Ordinario sia dedicata alla celebrazione, riflessione e divulgazione della Parola di Dio. Questa Domenica della Parola di Dio verrà così a collocarsi in un momento opportuno di quel periodo dell’anno, quando siamo invitati a rafforzare i legami con gli ebrei e a pregare per l’unità dei cristiani. Non si tratta di una mera coincidenza temporale: celebrare la Domenica della Parola di Dio esprime una valenza ecumenica, perché la Sacra Scrittura indica a quanti si pongono in ascolto il cammino da perseguire per giungere a un’unità autentica e solida.
Le comunità troveranno il modo per vivere questa Domenica come un giorno solenne. Sarà importante, comunque, che nella celebrazione eucaristica si possa intronizzare il testo sacro, così da rendere evidente all’assemblea il valore normativo che la Parola di Dio possiede. In questa domenica, in modo particolare, sarà utile evidenziare la sua proclamazione e adattare l’omelia per mettere in risalto il servizio che si rende alla Parola del Signore. I Vescovi potranno in questa Domenica celebrare il rito del Lettorato o affidare un ministero simile, per richiamare l’importanza della proclamazione della Parola di Dio nella liturgia. È fondamentale, infatti, che non venga meno ogni sforzo perché si preparino alcuni fedeli ad essere veri annunciatori della Parola con una preparazione adeguata, così come avviene in maniera ormai usuale per gli accoliti o i ministri straordinari della Comunione. Alla stessa stregua, i parroci potranno trovare le forme per la consegna della Bibbia, o di un suo libro, a tutta l’assemblea in modo da far emergere l’importanza di continuare nella vita quotidiana la lettura, l’approfondimento e la preghiera con la Sacra Scrittura, con un particolare riferimento alla lectio divina.
4. Il ritorno del popolo d’Israele in patria, dopo l’esilio babilonese, fu segnato in modo significativo dalla lettura del libro della Legge. La Bibbia ci offre una commovente descrizione di quel momento nel libro di Neemia. Il popolo è radunato a Gerusalemme nella piazza della Porta delle Acque in ascolto della Legge. Quel popolo era stato disperso con la deportazione, ma ora si ritrova radunato intorno alla Sacra Scrittura come fosse «un solo uomo» (Ne 8,1). Alla lettura del libro sacro, il popolo «tendeva l’orecchio» (Ne 8,3), sapendo di ritrovare in quella parola il senso degli eventi vissuti. La reazione alla proclamazione di quelle parole fu la commozione e il pianto: «[I leviti] leggevano il libro della Legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura. Neemia, che era il governatore, Esdra, sacerdote e scriba, e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: “Questo giorno è consacrato al Signore, vostro Dio; non fate lutto e non piangete!”. Infatti tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della Legge. [...] “Non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza”» (Ne 8,8-10).
Queste parole contengono un grande insegnamento. La Bibbia non può essere solo patrimonio di alcuni e tanto meno una raccolta di libri per pochi privilegiati. Essa appartiene, anzitutto, al popolo convocato per ascoltarla e riconoscersi in quella Parola. Spesso, si verificano tendenze che cercano di monopolizzare il testo sacro relegandolo ad alcuni circoli o a gruppi prescelti. Non può essere così. La Bibbia è il libro del popolo del Signore che nel suo ascolto passa dalla dispersione e dalla divisione all’unità. La Parola di Dio unisce i credenti e li rende un solo popolo.
5. In questa unità, generata dall’ascolto, i Pastori in primo luogo hanno la grande responsabilità di spiegare e permettere a tutti di comprendere la Sacra Scrittura. Poiché essa è il libro del popolo, quanti hanno la vocazione di essere ministri della Parola devono sentire forte l’esigenza di renderla accessibile alla propria comunità.
L’omelia, in particolare, riveste una funzione del tutto peculiare, perché possiede «un carattere quasi sacramentale» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 142). Far entrare in profondità nella Parola di Dio, con un linguaggio semplice e adatto a chi ascolta, permette al sacerdote di far scoprire anche la «bellezza delle immagini che il Signore utilizzava per stimolare la pratica del bene» (ibid.). Questa è un’opportunità pastorale da non perdere!
Per molti dei nostri fedeli, infatti, questa è l’unica occasione che possiedono per cogliere la bellezza della Parola di Dio e vederla riferita alla loro vita quotidiana. È necessario, quindi, che si dedichi il tempo opportuno per la preparazione dell’omelia. Non si può improvvisare il commento alle letture sacre. A noi predicatori è richiesto, piuttosto, l’impegno a non dilungarci oltre misura con omelie saccenti o argomenti estranei. Quando ci si ferma a meditare e pregare sul testo sacro, allora si è capaci di parlare con il cuore per raggiungere il cuore delle persone che ascoltano, così da esprimere l’essenziale che viene colto e che produce frutto. Non stanchiamoci mai di dedicare tempo e preghiera alla Sacra Scrittura, perché venga accolta «non come parola di uomini ma, qual è veramente, come parola di Dio» (1Ts 2,13).
È bene che anche i catechisti, per il ministero che rivestono di aiutare a crescere nella fede, sentano l’urgenza di rinnovarsi attraverso la familiarità e lo studio delle Sacre Scritture, che consentano loro di favorire un vero dialogo tra quanti li ascoltano e la Parola di Dio.
6. Prima di raggiungere i discepoli, chiusi in casa, e aprirli all’intelligenza della Sacra Scrittura (cfr Lc 24,44-45), il Risorto appare a due di loro lungo la via che porta da Gerusalemme a Emmaus (cfr Lc 24,13-35). Il racconto dell’evangelista Luca nota che è il giorno stesso della Risurrezione, cioè la domenica. Quei due discepoli discutono sugli ultimi avvenimenti della passione e morte di Gesù. Il loro cammino è segnato dalla tristezza e dalla delusione per la tragica fine di Gesù. Avevano sperato in Lui come Messia liberatore, e si trovano di fronte allo scandalo del Crocifisso. Con discrezione, il Risorto stesso si avvicina e cammina con i discepoli, ma quelli non lo riconoscono (cfr v. 16). Lungo la strada, il Signore li interroga, rendendosi conto che non hanno compreso il senso della sua passione e morte; li chiama «stolti e lenti di cuore» (v. 25) e «cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (v. 27). Cristo è il primo esegeta! Non solo le Scritture antiche hanno anticipato quanto Egli avrebbe realizzato, ma Lui stesso ha voluto essere fedele a quella Parola per rendere evidente l’unica storia della salvezza che trova in Cristo il suo compimento.
7. La Bibbia, pertanto, in quanto Sacra Scrittura, parla di Cristo e lo annuncia come colui che deve attraversare le sofferenze per entrare nella gloria (cfr v. 26). Non una sola parte, ma tutte le Scritture parlano di Lui. La sua morte e risurrezione sono indecifrabili senza di esse. Per questo una delle confessioni di fede più antiche sottolinea che Cristo «morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa» (1Cor 15,3-5). Poiché le Scritture parlano di Cristo, permettono di credere che la sua morte e risurrezione non appartengono alla mitologia, ma alla storia e si trovano al centro della fede dei suoi discepoli.
È profondo il vincolo tra la Sacra Scrittura e la fede dei credenti. Poiché la fede proviene dall’ascolto e l’ascolto è incentrato sulla parola di Cristo (cfr Rm 10,17), l’invito che ne scaturisce è l’urgenza e l’importanza che i credenti devono riservare all’ascolto della Parola del Signore sia nell’azione liturgica, sia nella preghiera e riflessione personali.
8. Il “viaggio” del Risorto con i discepoli di Emmaus si chiude con la cena. Il misterioso Viandante accetta l’insistente richiesta che gli rivolgono i due: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto» (Lc 24,29). Si siedono a tavola, Gesù prende il pane, recita la benedizione, lo spezza e lo offre a loro. In quel momento i loro occhi si aprono e lo riconoscono (cfr v. 31).
Comprendiamo da questa scena quanto sia inscindibile il rapporto tra la Sacra Scrittura e l’Eucaristia. Il Concilio Vaticano II insegna: «La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della Parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli» (Dei Verbum, 21).
La frequentazione costante della Sacra Scrittura e la celebrazione dell’Eucaristia rendono possibile il riconoscimento fra persone che si appartengono. Come cristiani siamo un solo popolo che cammina nella storia, forte della presenza del Signore in mezzo a noi che ci parla e ci nutre. Il giorno dedicato alla Bibbia vuole essere non “una volta all’anno”, ma una volta per tutto l’anno, perché abbiamo urgente necessità di diventare familiari e intimi della Sacra Scrittura e del Risorto, che non cessa di spezzare la Parola e il Pane nella comunità dei credenti. Per questo abbiamo bisogno di entrare in confidenza costante con la Sacra Scrittura, altrimenti il cuore resta freddo e gli occhi rimangono chiusi, colpiti come siamo da innumerevoli forme di cecità.
Sacra Scrittura e Sacramenti tra loro sono inseparabili. Quando i Sacramenti sono introdotti e illuminati dalla Parola, si manifestano più chiaramente come la meta di un cammino dove Cristo stesso apre la mente e il cuore a riconoscere la sua azione salvifica. È necessario, in questo contesto, non dimenticare l’insegnamento che viene dal libro dell’Apocalisse. Qui viene insegnato che il Signore sta alla porta e bussa. Se qualcuno ascolta la sua voce e gli apre, Egli entra per cenare insieme (cfr 3,20). Cristo Gesù bussa alla nostra porta attraverso la Sacra Scrittura; se ascoltiamo e apriamo la porta della mente e del cuore, allora entra nella nostra vita e rimane con noi.
9. Nella Seconda Lettera a Timoteo, che costituisce in qualche modo il suo testamento spirituale, San Paolo raccomanda al suo fedele collaboratore di frequentare costantemente la Sacra Scrittura. L’Apostolo è convinto che «tutta la Sacra Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare» (3,16). Questa raccomandazione di Paolo a Timoteo costituisce una base su cui la Costituzione conciliare Dei Verbum affronta il grande tema dell’ispirazione della Sacra Scrittura, una base da cui emergono in particolare la finalità salvifica, la dimensione spirituale e il principio dell’incarnazione per la Sacra Scrittura.
Richiamando anzitutto la raccomandazione di Paolo a Timoteo, la Dei Verbum sottolinea che «i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle sacre Scritture» (n. 11). Poiché queste istruiscono in vista della salvezza per la fede in Cristo (cfr 2Tm 3,15), le verità contenute in esse servono per la nostra salvezza. La Bibbia non è una raccolta di libri di storia, né di cronaca, ma è interamente rivolta alla salvezza integrale della persona. L’innegabile radicamento storico dei libri contenuti nel testo sacro non deve far dimenticare questa finalità primordiale: la nostra salvezza. Tutto è indirizzato a questa finalità iscritta nella natura stessa della Bibbia, che è composta come storia di salvezza in cui Dio parla e agisce per andare incontro a tutti gli uomini e salvarli dal male e dalla morte.
Per raggiungere tale finalità salvifica, la Sacra Scrittura sotto l’azione dello Spirito Santo trasforma in Parola di Dio la parola degli uomini scritta in maniera umana (cfr Dei Verbum, 12). Il ruolo dello Spirito Santo nella Sacra Scrittura è fondamentale. Senza la sua azione, il rischio di rimanere rinchiusi nel solo testo scritto sarebbe sempre all’erta, rendendo facile l’interpretazione fondamentalista, da cui bisogna rimanere lontani per non tradire il carattere ispirato, dinamico e spirituale che il testo sacro possiede. Come ricorda l’Apostolo «La lettera uccide, lo Spirito invece dà vita»(2Cor 3,6). Lo Spirito Santo, dunque, trasforma la Sacra Scrittura in Parola vivente di Dio, vissuta e trasmessa nella fede del suo popolo santo.
10. L’azione dello Spirito Santo non riguarda soltanto la formazione della Sacra Scrittura, ma opera anche in coloro che si pongono in ascolto della Parola di Dio. È importante l’affermazione dei Padri conciliari secondo cui la Sacra Scrittura deve essere «letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta» (Dei Verbum, 12). Con Gesù Cristo la rivelazione di Dio raggiunge il suo compimento e la sua pienezza; eppure, lo Spirito Santo continua la sua azione. Sarebbe riduttivo, infatti, limitare l’azione dello Spirito Santo solo alla natura divinamente ispirata della Sacra Scrittura e ai suoi diversi autori. È necessario, pertanto, avere fiducia nell’azione dello Spirito Santo che continua a realizzare una sua peculiare forma di ispirazione quando la Chiesa insegna la Sacra Scrittura, quando il Magistero la interpreta autenticamente (cfr ibid., 10) e quando ogni credente ne fa la propria norma spirituale. In questo senso possiamo comprendere le parole di Gesù quando, ai discepoli che confermano di aver afferrato il significato delle sue parabole, dice: «Ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).
LETTERA APOSTOLICA IN FORMA DI «MOTU PROPRIO»
DEL SOMMO PONTEFICE FRANCESCO
“APERUIT ILLIS”
CON LA QUALE VIENE ISTITUITA LA DOMENICA DELLA PAROLA DI DIO
11. La Dei Verbum, infine, precisa che «le parole di Dio espresse con lingue umane, si sono fatte simili al parlare dell’uomo, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece simile all’uomo» (n. 13). È come dire che l’Incarnazione del Verbo di Dio dà forma e senso alla relazione tra la Parola di Dio e il linguaggio umano, con le sue condizioni storiche e culturali. È in questo evento che prende forma la Tradizione, che è anch’essa Parola di Dio (cfr ibid., 9). Spesso si corre il rischio di separare tra loro la Sacra Scrittura e la Tradizione, senza comprendere che insieme sono l’unica fonte della Rivelazione. Il carattere scritto della prima nulla toglie al suo essere pienamente parola viva; così come la Tradizione viva della Chiesa, che la trasmette incessantemente nel corso dei secoli di generazione in generazione, possiede quel libro sacro come la «regola suprema della fede» (ibid., 21). D’altronde, prima di diventare un testo scritto, la Sacra Scrittura è stata trasmessa oralmente e mantenuta viva dalla fede di un popolo che la riconosceva come sua storia e principio di identità in mezzo a tanti altri popoli. La fede biblica, pertanto, si fonda sulla Parola viva, non su un libro.
12. Quando la Sacra Scrittura è letta nello stesso Spirito con cui è stata scritta, permane sempre nuova. L’Antico Testamento non è mai vecchio una volta che è parte del Nuovo, perché tutto è trasformato dall’unico Spirito che lo ispira. L’intero testo sacro possiede una funzione profetica: essa non riguarda il futuro, ma l’oggi di chi si nutre di questa Parola. Gesù stesso lo afferma chiaramente all’inizio del suo ministero: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21). Chi si nutre ogni giorno della Parola di Dio si fa, come Gesù, contemporaneo delle persone che incontra; non è tentato di cadere in nostalgie sterili per il passato, né in utopie disincarnate verso il futuro.
La Sacra Scrittura svolge la sua azione profetica anzitutto nei confronti di chi l’ascolta. Essa provoca dolcezza e amarezza. Tornano alla mente le parole del profeta Ezechiele quando, invitato dal Signore a mangiare il rotolo del libro, confida: «Fu per la mia bocca dolce come il miele» (3,3). Anche l’evangelista Giovanni sull’isola di Patmos rivive la stessa esperienza di Ezechiele di mangiare il libro, ma aggiunge qualcosa di più specifico: «In bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l’ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l’amarezza» (Ap 10,10).
La dolcezza della Parola di Dio ci spinge a parteciparla a quanti incontriamo nella nostra vita per esprimere la certezza della speranza che essa contiene (cfr 1Pt 3,15-16). L’amarezza, a sua volta, è spesso offerta dal verificare quanto difficile diventi per noi doverla vivere con coerenza, o toccare con mano che essa viene rifiutata perché non ritenuta valida per dare senso alla vita. È necessario, pertanto, non assuefarsi mai alla Parola di Dio, ma nutrirsi di essa per scoprire e vivere in profondità la nostra relazione con Dio e i fratelli.
13. Un’ulteriore provocazione che proviene dalla Sacra Scrittura è quella che riguarda la carità. Costantemente la Parola di Dio richiama all’amore misericordioso del Padre che chiede ai figli di vivere nella carità. La vita di Gesù è l’espressione piena e perfetta di questo amore divino che non trattiene nulla per sé, ma a tutti offre sé stesso senza riserve. Nella parabola del povero Lazzaro troviamo un’indicazione preziosa. Quando Lazzaro e il ricco muoiono, questi, vedendo il povero nel seno di Abramo, chiede che venga inviato ai suoi fratelli perché li ammonisca a vivere l’amore del prossimo, per evitare che anch’essi subiscano i suoi stessi tormenti. La risposta di Abramo è pungente: «Hanno Mosè e i profeti ascoltino loro» (Lc 16,29). Ascoltare le Sacre Scritture per praticare la misericordia: questa è una grande sfida posta dinanzi alla nostra vita. La Parola di Dio è in grado di aprire i nostri occhi per permetterci di uscire dall’individualismo che conduce all’asfissia e alla sterilità mentre spalanca la strada della condivisione e della solidarietà.
14. Uno degli episodi più significativi del rapporto tra Gesù e i discepoli è il racconto della Trasfigurazione. Gesù sale sul monte a pregare con Pietro, Giacomo e Giovanni. Gli evangelisti ricordano che mentre il volto e le vesti di Gesù risplendevano, due uomini conversavano con Lui: Mosè ed Elia, che impersonano rispettivamente la Legge e i Profeti, cioè le Sacre Scritture. La reazione di Pietro, a quella vista, è piena di gioiosa meraviglia: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia» (Lc 9,33). In quel momento una nube li copre con la sua ombra e i discepoli sono colti dalla paura.
La Trasfigurazione richiama la festa delle capanne, quando Esdra e Neemia leggevano il testo sacro al popolo, dopo il ritorno dall’esilio. Nello stesso tempo, essa anticipa la gloria di Gesù in preparazione allo scandalo della passione, gloria divina che viene evocata anche dalla nube che avvolge i discepoli, simbolo della presenza del Signore. Questa Trasfigurazione è simile a quella della Sacra Scrittura, che trascende sé stessa quando nutre la vita dei credenti. Come ricorda la Verbum Domini: «Nel recupero dell’articolazione tra i diversi sensi scritturistici diventa allora decisivo cogliere il passaggio tra lettera e spirito. Non si tratta di un passaggio automatico e spontaneo; occorre piuttosto un trascendimento della lettera» (n. 38).
15. Nel cammino di accoglienza della Parola di Dio, ci accompagna la Madre del Signore, riconosciuta come beata perché ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le aveva detto (cfr Lc 1,45). La beatitudine di Maria precede tutte le beatitudini pronunciate da Gesù per i poveri, gli afflitti, i miti, i pacificatori e coloro che sono perseguitati, perché è la condizione necessaria per qualsiasi altra beatitudine. Nessun povero è beato perché povero; lo diventa se, come Maria, crede nell’adempimento della Parola di Dio. Lo ricorda un grande discepolo e maestro della Sacra Scrittura, Sant’Agostino: «Qualcuno in mezzo alla folla, particolarmente preso dall’entusiasmo, esclamò: “Beato il seno che ti ha portato”. E lui: “Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio, e la custodiscono”. Come dire: anche mia madre, che tu chiami beata, è beata appunto perché custodisce la parola di Dio, non perché in lei il Verbo si è fatto carne e abitò fra noi, ma perché custodisce il Verbo stesso di Dio per mezzo del quale è stata fatta, e che in lei si è fatto carne» (Sul Vang. di Giov., 10, 3).
La domenica dedicata alla Parola possa far crescere nel popolo di Dio la religiosa e assidua familiarità con le Sacre Scritture, così come l’autore sacro insegnava già nei tempi antichi: «Questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» (Dt 30,14).
Dato a Roma, presso San Giovanni in Laterano, 30 Settembre 2019
Memoria liturgica di San Girolamo nell’inizio del 1600° anniversario della morte
FRANCESCO
[1] Cfr AAS 102 (2010), 692-787.
[2] «La sacramentalità della Parola si lascia così comprendere in analogia alla presenza reale di Cristo sotto le specie del pane e del vino consacrati. Accostandoci all’altare e prendendo parte al banchetto eucaristico noi comunichiamo realmente al corpo e al sangue di Cristo. La proclamazione della Parola di Dio nella celebrazione comporta il riconoscere che sia Cristo stesso ad essere presente e a rivolgersi a noi per essere accolto» (Verbum Domini, 56).
EVANGELO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ... *
Spiritualità.
Radcliffe: «Credere significa porsi in dialogo»
Cosa significa credere al tempo dei fondamentalismi? In un libro le riflessioni del domenicano: «Ogni buona conversazione presuppone il piacere della differenza E prende direzioni inaspettate»
di Timothy Radcliffe (Avvenire, giovedì 26 settembre 2019)
Ascoltare la parola di Dio non significa assorbirla passivamente. Secondo la Dei Verbum, vuol dire impegnarsi nel dialogo di Dio con l’umanità. «Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé» (n. 2). Nella Verbum Domini, papa Benedetto ha scritto: «La novità della rivelazione biblica consiste nel fatto che Dio si fa conoscere nel dialogo che desidera avere con noi» (n. 6). La vita di Dio è un eterno dialogo tra il Padre e il Figlio nello Spirito. La Rivelazione è l’invito che Dio ci rivolge a sentirci sempre a casa, in quell’eterna e amorevole conversazione, non è ricevere messaggi dallo spazio con gli esegeti che disperatamente cercano di decifrare strani segnali come faceva il matematico Alan Turing a Bletchley Park. La Rivelazione comporta di essere assorbiti in quell’eterno dialogo che è la vita di Dio. È quindi estremamente calzante affermare che la parola di Dio si fa carne nel dialogo con l’uomo. Il Vangelo di Giovanni, per esempio, è un succedersi di conversazioni - dal dialogo di Giovanni Battista con i sacerdoti e i leviti, fino alla conversazione finale di Gesù con Pietro sulla riva del lago. La notte prima di morire, si tenne quello che siamo soliti chiamare il «discorso d’addio », ma in realtà è l’ultimo dialogo che Gesù ha con i suoi amici. È Pilato a chiudere la conversazione con un «che cos’è la verità? ». La Parola viene silenziata. Ma la conversazione riprende quando Maria di Magdala incontra Gesù nel giardino. Non è una coincidenza che i primi documenti cristiani non fossero libri o professioni di fede, ma le lettere di san Paolo: l’altra metà delle sue conversazioni con le persone.
Leggere Paolo è come ascoltare qualcuno che parla al telefono e cercare di immaginare che cosa l’interlocutore stia dicendo all’altro capo del filo.
Perciò la parola di Dio non si rivolge a noi con una purezza immacolata che precede le nostre interpretazioni. Non possiamo risalire agli autori biblici alla ricerca della cruda verità, di una parola nuda. I sostenitori della Riforma dicevano: «Lasciate perdere, abbandonate la tradizione che la corrotta Chiesa cattolica ha aggiunto, tornate alla pura parola della Bibbia!». Poi, nel XIX secolo gli studiosi iniziarono a dire: «Attenetevi alla Bibbia, al falegname di Galilea... Attenetevi a Paolo che ha inventato il cristianesimo ». State agli evangelisti: ognuno ha la propria agenda. Tornate al puro messaggio, prima che venga distorto dalle nostre risposte. Ma in questo modo ciascuno ha trovato il Gesù che amava trovare. Lo storico ebreo Geza Vermes ci ha fatto tornare a un Gesù che era un rabbino ebreo. Teologi militanti latinoamericani scoprirono che era stato un politico rivoluzionario. I professori di Oxford vi riconobbero un altro professore che, come loro, avrebbe sicuramente apprezzato un bicchiere di sherry prima dell’Ultima Cena. I californiani invece scoprirono un hippy gentile, carino con tutti, che probabilmente avrebbe preferito la marijuana allo sherry. C’è poi il Gesù gay, il Gesù infatuato della Maddalena, il Gesù simil-Gandhi nonviolento... qualsiasi Gesù ti garbi! In realtà, se ti metti a pelare i vari strati della cipolla via via fino al centro, troverai sicuramente un Gesù che assomiglia giusto a te! Allora, invece di sbucciare la cipolla, dialoghiamo. Entriamo in dialogo con la parola di Dio e lasciamocene sconvolgere. Dialoghiamo con la tradizione. Gli uni con gli altri. La conversazione porta alla conversione.
La chiave di tutto ciò che papa Francesco sta facendo è lo sforzo di riportare il dialogo nel cuore della chiesa. Ha nominato un consiglio dei cardinali, con i quali si incontra regolarmente per discutere delle questioni della chiesa. Sta cercando di trasformare il sinodo in una vera conversazione, invece di avere delle persone che s’incontrano semplicemente per leggere dei testi che avevano scritto prima di arrivare a Roma. Io sono stato a tre sinodi, e vi assicuro che possono essere lunghi momenti estremamente noiosi. Lui invece vuole che si instauri il dialogo nel cuore di ogni parrocchia, di ogni diocesi. Ma il fondamento di tutto è il nostro dialogo con Dio.
La Dei Verbum cita sant’Ambrogio (IV secolo): «Quando preghiamo, parliamo con lui; lui ascoltiamo, quando leggiamo gli oracoli divini». Ogni buona conversazione presuppone il piacere della differenza. Non ha senso avere un dialogo con chi la pensa esattamente come te. È così noioso! Una buona conversazione prende direzioni inaspettate. Non può essere controllata. E la Bibbia è piena di dialoghi. Nell’Antico Testamento ci sono conversazioni litigiose tra i profeti e i re; e c’è un dialogo tra l’Antico e il Nuovo Testamento.
Il Nuovo Testamento abbraccia le differenze con un entusiasmo temerario. Al suo centro sta il dialogo tra i quattro Vangeli. Come ha scritto il teologo Francis Watson: «È emerso lentamente un consenso sul fatto che i quattro Vangeli debbano essere letti l’uno accanto all’altro e che a nessun altro Vangelo debba essere permesso di condividere la loro conversazione intratestuale». Quattro Vangeli che non vanno d’accordo tra loro. Nel II secolo, la chiesa si oppose fermamente a quei timorosi che volevano ridurli a una singola e coerente narrazione. La nostra interpretazione della morte di Gesù è un dialogo senza fine, da una parte con i racconti di Marco e Matteo che parlano di un uomo che grida che Dio l’ha abbandonato, e dall’altra con le narrazioni dei più sereni Luca e Giovanni, nelle quali egli confida e si abbandona allo Spirito. È una conversazione che continuerà fino a che non avremo scoperto la verità di Dio che resta al di là di ogni parola.
Ci poniamo in ascolto di questa conversazione e troviamo il coraggio di intervenire, come bambini che osano intromettersi nelle conversazioni degli adulti. E così, lentamente, essa ci trasforma. Smonta uno per uno i nostri pregiudizi, ci cura dalla violenza. Da una generazione all’altra, come il lievito nella chiesa. Ci sono voluti migliaia di anni prima che il Dio violento dei testi più antichi diventasse il Dio misericordioso, padre del figliol prodigo. Pensate solo alla schiavitù.
Paolo scriveva che in Cristo «non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). Ma nella sua Lettera a Filemone egli sembra tollerare la schiavitù. Considera Onesimo suo figlio, e vorrebbe che fosse trattato come un diletto fratello, ma non mette mai in discussione l’istituzione della schiavitù. Questa era universale all’epoca, non si sarebbe potuto immaginare una società senza di essa.
Solo con Bartolomé de Las Casas - come visto sopra - l’idea stessa di schiavitù iniziò ad essere ripudiata. I domenicani spagnoli riuscirono a persuadere il papa a denunciarla nell’enciclica Sublimis Deus del 1537. Spesso dimentichiamo che per secoli il papato ha denunciato qualsiasi forma di schiavitù. Ma abbiamo ancora molta strada da fare. Nel XIX secolo riconoscemmo la schiavitù dei lavoratori incatenati alle loro macchine. Oggi assistiamo alla riduzione in schiavitù delle donne dovuta alla tratta sessuale. Nonostante la Parola sia stata pronunciata da Gesù una volta per tutte e per sempre, la sua eco continua ad interrogarci, a sfidarci, a incalzarci ad andare oltre.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
LA PAROLA DI DIO, IL SINODO DEI VESCOVI, E UN OMAGGIO AI FRATELLI MAGGIORI E A SIGMUND FREUD. Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, dopo due anni, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! E che confusione spirituale di lunga durata!!!
Federico La Sala
Gioacchino da Fiore, ’profeta di speranza’
di Emiliano Morrone *
Si è concluso ieri il IX Congresso internazionale degli studi sul teologo della storia Gioacchino da Fiore (1135-1202), intitolato “Ordine e disordini” e svoltosi per tre giorni nell’abbazia florense di San Giovanni in Fiore (Cs). L’appuntamento cui hanno partecipato borsisti di varia provenienza, caduto nel 40° anniversario della fondazione del Centro internazionale di studi gioachimiti, che ha sede nella stessa abbazia, "è servito a chiarire aspetti essenziali del pensiero dell’abate nel contesto storico-culturale di appartenenza, dominato dalla paura della fine del tempo", ha detto il presidente del Centro, Riccardo Succurro, concludendo i lavori, aperti dal direttore del comitato scientifico e membro dell’Accademia dei Lincei: Cosimo Damiano Fonseca, già rettore dell’Università della Basilicata.
"Stavolta, a differenza dei precedenti congressi, basati in prevalenza sui contenuti dell’opera di Gioacchino, abbiamo proposto un programma di approfondimento multidisciplinare", ha spiegato Succurro: dalle nozioni di "ordine, simmetria e simbolo in Gioacchino", di cui ha parlato Marco Rainini, dell’Università Cattolica di Milano, al canone iconografico del teologo calabrese "attorno alle ruote di Ezechiele", tema affrontato da Véronique Rouchon Mouilleron, dell’ateneo francese Lumière Lyon 2, fino alla lectio magistralis del filosofo teoretico Alessandro Ghisalberti sull’"ordine nell’Aldilà", con una minuziosa disamina della disputa tra Anselmo, Aberlardo e Roscellino sulla natura di questo "ordine ontologico-dialettico".
Constant J. Mews, professore alla Monash University di Melbourne, ha relazionato su un argomento che per certi versi ha perfino evocato il senso del film-documentario di Philip Groening “Il grande Silenzio” (2005): "oltre la teologia monastica", legato alle "ragioni dei monaci" anche in rapporto alla loro vita di regole, riti, tradizione e ciclicità. Riccardo Saccenti, dell’Università di Bergamo, ha discusso di "ordine della società, ordine escatologico", inquadrando il pensiero di Gioacchino "nel contesto del XII secolo".
Gianluca Potestà, della Cattolica di Milano, ha illustrato il "contributo di Tullio Gregory agli studi sull’escatologia medievale", in una dotta lezione in memoria del noto storico della filosofia, peraltro accademico dei Lincei, morto nel gennaio scorso. Luisa Valente, dell’università romana La Sapienza, si è soffermata sull’"uso teologico dell’immaginazione nel XII secolo", che costituisce il fondamento delle scritture, del metodo esplicativo e del fascino dell’abate Gioacchino.
Questo intervento è stato accompagnato da quello di Piero Cappelli, dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, centrato sull’"attesa ebraica della fine fra antichità tarda e medioevo". "Proprio l’attesa della fine - ha chiarito Succurro - attraversa e segna lo spirito medievale. Gioacchino la supera: sostituisce il tempo della fine con la fine del tempo. Così conferisce un senso al divenire della storia" e "dunque per l’abate, che interpretando i testi sacri profetizza un orizzonte di speranza, la rivelazione - ci ha precisato Ghisalberti - continua oltre l’avvento di Cristo, con la prospettiva della piena grazia di Dio agli esseri umani e della conversione universale alla fede cristiana".
Viene qui in mente la riflessione di Gianni Vattimo dell’ottobre 2004 al VI Congresso internazionale di studi gioachimiti. "Non sarebbe difficile - scandì allora il filosofo torinese di origini calabresi, che poco dopo si candidò sindaco proprio di San Giovanni in Fiore - annettere Gioacchino al gruppo di coloro che, allo spirito di crociata che sembra imporsi un po’ dovunque, certo sia in Bin Laden sia in Bush, contrappongono la politica della parola e del dialogo".
Al netto dell’interpretazione autentica delle sue opere, Gioacchino da Fiore si pone, dunque, come pensatore di riferimento nell’epoca attuale delle incertezze: politiche, economiche, sociali, esistenziali. Il monaco calabrese sembra sopravvivere all’antistoricismo che spesso caratterizza il “mondo” digitale, la cui comunicazione immediata ed emotiva, divenuta strumento primario per il consenso politico, confligge con ogni visione dello sviluppo, dell’ordine, del progetto della storia.
Gli altri relatori del congresso sono stati: Guy Lobrichon (Université d’Avignon), Roberto Guarasci (Università della Calabria), Francesco Siri (École nationale des chartes, di Parigi). Dominique Poirel (Institut de recherche et d’histoire des textes, di Parigi), Sabine Schmolinisky (Universität Erfurt), Guido Cariboni (Cattolica di Milano), Nicole Bériou (già docente nell’Università Sorbona, di Parigi), Frances Andrews (University of St. Andrews), Jeffery R. Webb (Bridgewater State University).
Assente il governatore della Calabria, Mario Oliverio (Pd), per il deputato del Movimento 5 Stelle Alessandro Melicchio - che siede in commissione Cultura e nella giornata conclusiva ha salutato i congressisti - "eventi di questa portata vanno più sostenuti e incoraggiati a livello istituzionale, e in questo senso è un’opportunità che la collega calabrese Anna Laura Orrico (M5S, nda) sia stata nominata sottosegretario ai Beni culturali". Secondo il sindaco di San Giovanni in Fiore, Giuseppe Belcastro (Pd), "Gioacchino parla da questa nostra montagna simbolica alla coscienza contemporanea di ogni latitudine".
* ADNKRONOS, 22.09.2019 (ripresa parziale, senza immagini).
Congresso studi su Gioacchino da Fiore, suo messaggio vicino a riforma Papa
di Emiliano Morrone (ADNKRONOS, 18.09.2019)
"Senza dubbio c’è un rapporto tra il messaggio di speranza di Gioacchino da Fiore e l’opera riformatrice di Papa Francesco". Ne è convinto Riccardo Succurro, presidente del Centro internazionale di Studi gioachimiti, alla vigilia del IX congresso di accademici dedicato al pensiero dell’abate calabrese Gioacchino da Fiore, intitolato “Ordine e disordini” e previsto da domani al 21 settembre nell’Abbazia florense di San Giovanni in Fiore (Cosenza), con interventi di studiosi europei, statunitensi e australiani.
"Per Gioacchino, tra il XII e il XIII secolo, in mezzo a pesanti conflitti per il potere temporale e minata al suo interno, la Chiesa - prosegue Succurro - doveva guardare di più alla dimensione spirituale e restare accanto ai deboli, agli ultimi. Molto di questa prospettiva di rinnovamento è presente, non sappiamo con quanta influenza diretta, nella trasformazione del clero che sta compiendo l’attuale pontefice".
Secondo il presidente del Centro internazionale di studi gioachimiti, attivo da 40 anni e tra gli istituti culturali più longevi della Calabria, "Gioacchino è figura contemporanea perché offre una visione aperta della storia, nella quale l’uomo, ogni uomo, è parte vitale del progresso collettivo e pertanto può contribuire all’emancipazione della società, della comunità globale, al di là delle differenze tra i popoli". Nel 2014, in occasione della XXVIII edizione dell’Incontro Internazionale Uomini e Religiosi promosso dalla Comunità di Sant’Egidio, Papa Francesco raccomandò: ’Dobbiamo essere costruttori di pace e le nostre comunità devono essere scuole di rispetto e di dialogo con quelle di altri gruppi etnici o religiosi, luoghi in cui si impara a superare le tensioni, a promuovere rapporti equi e pacifici tra i popoli e i gruppi sociali e a costruire un futuro migliore per le generazioni a venire’.
"È dunque il tema dell’accoglienza delle diversità - spiega Succurro - uno degli aspetti più attuali del pensiero di Gioacchino da Fiore, cui va aggiunta la propensione al dialogo che attraversa la sua teologia della storia", che prevede uno sviluppo dell’umanità in senso spirituale, cioè non più condizionata da codici, norme, sanzioni e paure. Infatti, nel libro della "Concordia" Gioacchino scrive: ’Tre sono dunque gli stati del mondo (...) che i simboli dei sacri testi ci prospettano. (...) Il primo è trascorso nella schiavitù, il secondo è caratterizzato da una servitù filiale, il terzo si svolgerà all’insegna della libertà. Il primo è segnato dal timore, il secondo dalla fede, il terzo dalla carità. Il primo periodo è quello degli schiavi, il secondo è quello dei figli, il terzo è quello degli amici. Il primo è il tempo dei vecchi, il secondo dei giovani, il terzo dei fanciulli’.
"Tuttavia - avverte Succurro - non bisogna lasciarsi suggestionare dalle tante, continue deformazioni dell’opera gioachimita. Qualcuno l’ha ricondotta al millenarismo o al marxismo, altri alla Teologia della liberazione. Il lungo lavoro del nostro Centro è servito a restituire nella loro purezza gli scritti di Gioacchino. Ne stiamo completando la pubblicazione integrale, al fine agevolare gli studi scientifici e anche perché la Chiesa abbia, con tutta la sua autonomia, ulteriori strumenti per valutare l’eventuale beatificazione del religioso (la relativa causa è in corso da circa 20 anni, ma forse risente negativamente di ricostruzioni teoriche articolate da Papa Benedetto XVI nel volume Perché siamo ancora nella Chiesa, nda), che necessita di un culto".
Così, il IX congresso internazionale sull’abate calabrese sarà centrato - sintetizza Succurro - sull’ordine perseguito dall’abate calabrese, cui Dante Alighieri conferì nella Divina commedia la dignità di profeta, in relazione ai disordini dell’Apocalisse e all’idea che dopo il XII secolo la storia del mondo dovesse finire, concludersi. In realtà Gioacchino da Fiore spalanca lo sguardo sulle possibilità e potenzialità dell’essere umano, sul procedere della storia, dopo l’avvento di Cristo, nella direzione del miglioramento dell’uomo e del futuro", della pace e della giustizia terrena (senza la necessità dei tribunali).
È un po’, in breve, una prospettiva ottimistica che si oppone al mondo perfetto, all’Iperuranio di Platone, all’Aldilà della dottrina a lungo dominante, cui corrisponde un al-di-qua fatto di sofferenze e patimenti da accettare, perché l’anima umana riceva il meritato premio dopo la morte del corpo. Quella di Gioacchino da Fiore è una prospettiva, insomma, che per molti versi include la responsabilità individuale: se al futuro non corrisponde la degenerazione dell’umanità, in quanto libero ogni essere umano può avere un ruolo positivo nella propria esistenza, nella storia in cui vive.
Non è poco come messaggio che riecheggia dalla Calabria, regione costretta a fare i conti con il dominio criminale della ‘ndrangheta. E non è poco, come messaggio - che avrebbe influenzato l’evangelizzazione francescana e perfino Michelangelo Buonarroti - partito da un territorio su cui gravano ancora forti pregiudizi, anche culturali.
Il Congresso si aprirà domani alle 9.30 all’Abbazia Florense di San Giovanni in Fiore (Cs) con l’intervento di presentazione di Giuseppe Riccardo Succurro, Presidente del Centro internazionale di Studi Gioachimiti, cui seguiranno i saluti delle autorità. Nella tre giorni si alterneranno interventi di studiosi italiani e internazionali.
Messaggio.
Umanità più fraterna, il Papa invita i Grandi per un nuovo patto educativo *
L’appuntamento il 20 maggio nell’Aula Paolo VI per una "società più accogliente". L’annuncio della Congregazione per l’educazione cattolica. Francesco: dialoghiamo su come costruire il futuro
Il Papa convoca a Roma per il 14 maggio 2020 personalità di tutto il mondo insieme ai giovani per una serie di iniziative, dibattiti, tavole rotonde per una "società più accogliente". La Congregazione per l’Educazione Cattolica spiega il motivo di questo evento mondiale che si svolgerà in Vaticano nell’Aula Paolo VI: "Sono invitate a prendere parte all’iniziativa proposta le personalità più significative del mondo politico, culturale e religioso, ed in particolare i giovani ai quali appartiene il futuro. L’obiettivo è di suscitare una presa di coscienza e un’ondata di responsabilità per il bene comune dell’umanità, partendo dai giovani e raggiungendo tutti gli uomini di buona volontà".
"L’iniziativa - spiega ancora la Congregazione per l’Educazione Cattolica in una nota - è la risposta ad una richiesta. In occasione di incontri con alcune personalità di varie culture e appartenenze religiose è stata manifestata la precisa volontà di realizzare una iniziativa speciale con il Santo Padre, considerato una delle più influenti personalità a livello mondiale e, tra i temi più rilevanti, è stato da subito individuato quello del Patto educativo, richiamato più volte dal Papa nei suoi documenti e discorsi. Il quinto anniversario dell’enciclica Laudato sì, con il richiamo all’ecologia integrale e culturale, si offre come piattaforma ideale per tale evento".
In un messaggio il Pontefice rinnova "l’invito a dialogare sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta e sulla necessità di investire i talenti di tutti, perché ogni cambiamento ha bisogno di un cammino educativo per far maturare una nuova solidarietà universale e una società più accogliente". Ricorda ancora Bergoglio che "in un percorso di ecologia integrale, viene messo al centro il valore proprio di ogni creatura, in relazione con le persone e con la realtà che la circonda, e si propone uno stile di vita che respinga la cultura dello scarto. Un altro passo è il coraggio di investire le migliori energie con creatività e responsabilità".
Sul tema, bel sito, si cfr.:
Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI... *
Dopo il discorso di Conte.
«Nuovo umanesimo» in politica: è tempo di dirlo e di farlo
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, domenica 1 settembre 2019)
«Molto spesso, negli interventi pubblici sin qui pronunciati, ho evocato la formula di un nuovo umanesimo. Non ho mai pensato che fosse lo slogan di un governo. Ho sempre pensato che fosse l’orizzonte ideale per un intero Paese». Questa frase, pronunziata giovedì al Quirinale da Giuseppe Conte nel discorso con cui ha accettato di verificare la possibilità di formare un nuovo esecutivo, è stata ripresa dai media in modo spesso superficiale e talvolta in maniera irridente, in alcuni casi come esclusivo supporto alla cultura dell’accoglienza, soprattutto verso i migranti, e tuttavia, ha bisogno di essere ulteriormente pensata e approfondita.
Non bisogna dimenticare che la Chiesa italiana, nel suo V convegno nazionale, celebrato a Firenze nel 2015, è stata chiamata a riflettere sul tema del ’nuovo umanesimo’ nel suo radicamento cristologico. Il titolo di quell’evento recitava ’In Cristo il nuovo umanesimo’. E papa Francesco nella riflessione che ha proposto ai vescovi italiani nell’Assemblea generale del maggio scorso ha richiamato, in particolare con riferimento alla sinodalità, il discorso che aveva pronunziato in quell’occasione.
Nell’arduo tentativo di declinare teologicamente il sintagma ’nuovo umanesimo’, nella mia relazione a Firenze, io stesso avevo richiamato la categoria fondamentale, decisamente biblica, dell’alleanza come cifra di un autentico umanesimo radicato nella fede.
Oggi mi sembra proprio questo il contributo decisivo che i cattolici italiani possono offrire al Paese in questo frangente, ma non solo. E si tratta di un orizzonte culturale, piuttosto che di un’indicazione programmatica per l’azione di un Governo (come giustamente ha rilevato Conte).
Richiamando la Costituzione, si è fatto riferimento al ’primato della persona’, come radice antropologica di ogni azione sociale, politica, culturale. Come tutti sanno, o dovrebbero sapere - e qui il rammarico per averlo troppo spesso tralasciato e dimenticato -, la nozione di ’persona’, nella sua pregnanza ontologica, è stata consegnata (o, meglio, donata) all’Occidente dalle vicende delle dispute cristologiche e trinitarie dei primi secoli, messe in atto in ambito cristiano. Si è pensato l’umano a partire dall’identità di Cristo e dal mistero di Dio.
Per la cultura pagana la persona era semplicemente la ’maschera’ (prosopon), ovvero rappresentava il ruolo, che in ambito teatrale veniva assunto e interpretato dall’attore. Oltre la funzione pubblica, il cristianesimo, invita a considerare l’uomo nel suo rapporto con l’essere, piuttosto che col fare o col rappresentarsi. La trasposizione in ambito politico del concetto di persona passa attraverso la sua valenza giuridica.
Come Antonio Rosmini aveva efficacemente dichiarato della sua ’Filosofia del diritto’, «la persona ha nella sua stessa natura tutti i costitutivi del diritto: essa è dunque il diritto sussistente, l’essenza del diritto». Questa preziosa indicazione consente il superamento sia di un crudo giusnaturalismo, sia del contrattualismo, imperante soprattutto nella concezione hobbesiana e rousseauniana dello Stato.
Ed è su tale base ’antropologica’ che si innesta la categoria dell’alleanza come modalità propria del rapporto fra persone e fra gruppi di persone.
In questa prospettiva vanno letti gli autorevoli inviti - in particolare quello del presidente della Cei Gualtiero Bassetti - a fondare un’autentica prospettiva politica non su dei semplici contratti, spesso frutto di miopi compromessi, che prima o poi esplodono, determinando la catastrofe del rapporto, ma su una visione programmatica, basata appunto su vere e proprie alleanze.
Non possiamo non ricordare che la prospettiva rosminana si rifà alla definizione di Giovanni Duns Scoto, che a sua volta radicalizza la visione di Riccardo di San Vittore (per il quale la persona è intellectualis naturae incommunicabilis existentia) fino a definirla ultima solitudo. Il Roveretano infatti afferma che la persona è una sostanza spirituale dotata di un principio incomunicabile. Così possiamo cogliere la caratteristica fondamentale della persona, ossia la sua unicità.
Sonny, il protagonista artificiale del famoso film Io robot, allorché si scopre ’quasi umano’ e ne prende coscienza, afferma con stupore: «Io sono unico». La macchina si produce, la persona si genera. Questa unicità rende preziosa ogni persona e determina un’etica della sua salvaguardia a qualsiasi classe, cultura, religione, regione, cultura appartenga.
Ma, oltre che unicità, la persona dice anche ulteriorità. Un aforisma che ci giunge dall’antica sapienza (Seneca, Naturales quaestiones) recita: «Oh quam contempta res est homo, nisi supra humana surrexerit», che cosa misera è l’umanità se non si sa elevare oltre l’umano... In questa breve espressione si sintetizza in maniera mirabile l’ulteriorità della condizione umana, espressa peraltro col verbo (surrexerit) che fa riferimento alla risurrezione. Quell’«essere della lontananza » che è l’uomo, infatti, proprio a partire dalla sua distanza originaria e dal suo oltrepassamento realizza la più piena prossimità alle cose (Martin Heidegger). E da questo senso della ’trascendenza’ dell’umano il pensiero credente non è certo assente, anzi lo afferma, per esempio in un famoso frammento di Blaise Pascal, che viene a stemperare il facile ottimismo di un progresso ideologicamente mitizzato - allorché afferma che «La natura dell’uomo non è di avanzare sempre; ha i suoi alti e bassi» (fr. 318 ed. Brunschvicg) - e a mettere in guardia da una possibile deriva spiritualistica dell’antropologia: «L’uomo non è né angelo né bestia, e disgrazia vuole che chi vuol fare l’angelo fa la bestia» (fr. 325 ed. Brunschvicg).
Il nuovo umanesimo, che non intenda esprimersi nella forma di un acritico antropocentrismo, chiede così di declinarsi e di realizzarsi attraverso autentiche alleanze, spesso purtroppo infrante, fra uomo e natura, fra i generi, fra le generazioni, fra il cittadino e le istituzioni, fra emozione e ragione, fra popoli e religioni. Una saggia fatica che certo non può essere il risultato di un programma di Governo, ma quel quel programma può ben ispirare e illuminare. E che richiede una visione culturale e antropologica alla quale i cristiani possono efficacemente contribuire.
Teologo, Pontificia Università Lateranense
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
ARITMETICA, ANTROPOLOGIA, E "MONOTONISMO"... *
Profezia è storia /13.
Benedetto è il numero uno
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 31 agosto 2019)
In questo racconto, tra i più noti della letteratura religiosa antica, il numero benedetto è il numero uno. Con Elia, solo contro le centinaia di profeti di Baal, e Abdia unico salvatore di profeti, la Bibbia ci dice che in molte crisi tremende la salvezza arriva perché c’è rimasto un giusto che salva tutti. In alcuni momenti decisivi, la massa critica è uno. Noè, Abramo, Mosè, i profeti, Elia, Abdia, Maria, Gesù: per quanto importante e bello sia il "noi", la Bibbia esalta anche l’"io". Il noi non salva nessuno se al suo cuore non c’è almeno un io che obbedisce a una voce e liberamente agisce. Un io giusto è il lievito della buona massa del noi. È questa la radice di quel principio personalista al centro dell’umanesimo occidentale, che oggi, nel fascino esercitato da nuovi noi, continua a ripeterci che nessun gruppo supera in dignità la singola persona, al massimo la può uguagliare. Nel "calcolo della dignità" nei gruppi umani le regole dell’aritmetica non valgono. Questo valore non aumenta con la somma, perché il primo addendo ha già un valore infinito - qui uno più uno più uno fa sempre e solo uno.
Durante una carestia tremenda e lunghissima, mentre una regina sanguinaria sta sterminando i profeti di YHWH, un uomo li salva: «A Samaria c’era una grande carestia. Acab convocò Abdia, che era il maggiordomo. Abdia temeva molto YHWH; quando Gezabele uccideva i profeti di YHWH, Abdia aveva preso cento profeti e ne aveva nascosti cinquanta alla volta in una caverna e aveva procurato loro pane e acqua» (1 Re 18, 2-4). Abdia è un amico dei profeti. Come l’etiope Ebed-Melec l’eunuco che salvò Geremia dalla cisterna (Ger 38), anche ora incontriamo un uomo, un "maggiordomo", che salva i profeti dalla morte.
Anche la storia delle religioni e delle civiltà conosce questa categoria di giusti, questi goel. I profeti hanno molti nemici; ma hanno anche alcuni amici e "salvatori". Li ospitano nelle loro case-Betania, li nascondono, li curano, li consolano, credono in loro quando tutti li abbandonano. I profeti hanno questi amici, ne hanno almeno uno, almeno una, che diventa il tozzo di pane e il palmo d’acqua per non morire nell’attraversamento dei deserti. A volte sono i genitori, una sorella. Non sono sempre discepoli dei profeti, a volte sono solo amici. Un amico di profeta vale più di mille discepoli.
Abdia incontra Elia, e la dote con cui si presenta sono i cento profeti che ha salvato: «Io nascosi cento profeti, cinquanta alla volta, in una caverna e procurai loro pane e acqua?» (18, 13). Elia gli si fa incontro: «Quello lo riconobbe e cadde con la faccia a terra dicendo: "Sei proprio tu il mio signore Elia?". Gli rispose: "Lo sono; va’ a dire al tuo signore: c’è qui Elia"» (18, 7-8). Abdia ha paura. Elia lo rassicura, e lui va: «Abdia andò incontro ad Acab e gli riferì la cosa». (18, 16). Elia incontra finalmente Acab. Ed entriamo in una delle pagine più note e tremende della Bibbia: la sfida, la cosiddetta ordalia del Monte Carmelo tra Elia e quattrocentocinquanta profeti di Baal. Una scena potente ed epica, che ci fa vivere in presa diretta un brano della religione di quei popoli arcaici, in bilico tra magia e fede.
«Acab convocò tutti gli Israeliti e radunò i profeti sul monte Carmelo. Elia si accostò a tutto il popolo e disse: "Fino a quando salterete da una parte all’altra? Se il Signore è Dio, seguitelo! Se invece lo è Baal, seguite lui!"» (18, 20-21). Elia propone un duello tra YHWH, il Dio di Israele e Baal, il dio locale fenicio-cananeo. Dalla parte di Baal ci sono centinaia di profeti; accanto a YHWH c’è il solo Elia.
Ancora una lotta impari, un altro Davide contro un altro Golia. Ma, anche qui, la vittoria non è una faccenda di forza né di numeri. È la qualità, non la quantità, il principio attivo di queste vittorie. Dal resto del racconto si comprende, infatti, che la sfida non è tra due dèi entrambi vivi, ma piuttosto tra Dio e il nulla. Questa vittoria di YHWH è una delle prime attestazioni monoteistiche di Israele. «Ci vengano dati due giovenchi; essi se ne scelgano uno, lo squartino e lo pongano sulla legna senza appiccarvi il fuoco. Io preparerò l’altro giovenco e lo porrò sulla legna senza appiccarvi il fuoco. Invocherete il nome del vostro dio e io invocherò il nome di YHWH. Il dio che risponderà col fuoco è Dio!"» (18, 23-24).
I profeti di Baal apparecchiano per primi il loro altare, e attendono che Baal, il dio dei fulmini, faccia bruciare la legna per il sacrificio. E poi «invocarono il nome di Baal dal mattino fino a mezzogiorno, gridando: "Baal, rispondici!". Ma non vi fu voce, né chi rispondesse» (18, 26).
Non vi fu voce... Torna quella nota bellissima che accompagna l’intera Bibbia: il Dio vero è il Dio della voce. YHWH parla, chiama, sussurra. Gli idoli sono falsi perché non hanno voce, sono sfiatati. La frenesia profetica cresce, svelandoci dettagli interessanti di quegli antichi riti: «Gridarono a gran voce e si fecero incisioni, secondo il loro costume, con spade e lance, fino a bagnarsi tutti di sangue» (18, 28). Il fuoco non ci accende, Baal non risponde. Elia ironizza e li sbeffeggia: «Gridate a gran voce, perché è un dio! È occupato, è in affari o è in viaggio; forse dorme» (18, 27). In questo sfottò Elia "si dimentica" che molti salmi sono un grido per "svegliare" Dio, e che la prima preghiera collettiva della Bibbia fu un urlo di schiavi perché YHWH, distratto, si ricordasse della sua promessa (Es 2). Anche i profeti più grandi nell’agone della lotta religiosa possono usare contro l’avversario le parole più umane e più belle imparate sotto la tenda di casa. Come noi.
Quindi arriva il turno di Elia: «Elia prese dodici pietre... Eresse un altare nel nome di YHWH... Dispose la legna, squartò il giovenco e lo pose sulla legna... Elia disse: "YHWH, Dio di Abramo, di Isacco e d’Israele, oggi si sappia che tu sei Dio in Israele... Rispondimi, Signore, rispondimi, e questo popolo sappia che tu, o Signore, sei Dio e che converti il loro cuore!". Cadde il fuoco del Signore e consumò l’olocausto, la legna, le pietre e la cenere» (18, 31-38). Colpisce l’essenzialità sobria della preghiera di Elia, se confrontata alla spettacolarità barocca dei profeti di Baal - le liturgie eccessive ed emozionali sono quasi sempre segno di fedi larvatamente idolatriche. Elia vince la sfida, e il popolo esclama: «YHWH è Dio! YHWH è Dio!» (18, 39). Elia celebra la sua vittoria facendo sgozzare uno a uno i quattrocentocinquanta profeti di Baal: «Elia disse loro: "Afferrate i profeti di Baal; non ne scappi neppure uno!". Li afferrarono. Elia li fece scendere al torrente Kison, ove li ammazzò» (18, 40). Un epilogo tremendo, come tutta la scena.
L’ordalia, o "giudizio di Dio", è una prova il cui esito veniva interpretato come diretta manifestazione della volontà degli dèi. Era molto diffusa nell’antichità e in molte culture. In Europa le ordalie furono introdotte soprattutto dai popoli germanici, in Italia dai Longobardi, per molti secoli tollerate anche dalla Chiesa. Nell’ordalia - del fuoco, dei veleni, dei metalli fusi... - chi usciva illeso dalla prova era considerato giusto e/o innocente. Il dato di fatto veniva eretto a volontà divina. Quindi il più forte in duello, o il più scaltro a camminare sul fuoco, era benedetto da Dio e portatore di un suo messaggio. E così, i forti diventavano ancora più forti, i deboli ancora più deboli. Qualcosa di molto simile alla religione economico-retributiva, che leggeva nella ricchezza la benedizione di Dio e nella povertà la maledizione, che rendeva i ricchi due volte benedetti e i poveri due volte maledetti.
La Bibbia ha dovuto lottare molto per liberarsi da questa visione arcaica e "naturalistica" della fede, e c’è riuscita solo in parte. Ha cercato di mostrarci che i "miracoli" non sono di per sé prove della verità della fede, ma solo segni imperfetti e sempre parziali. Perché anche i falsi profeti sanno fare miracoli, anche i maghi in Egitto simulavano le piaghe, e Simon Mago con i suoi gesti "strabiliava" gli abitanti di Samaria (Atti degli Apostoli, cap. 8). Geremia era avversato e perseguitato dai falsi profeti che invocavano il miracolo che li avrebbe salvati - che non ci fu.
C’è voluto l’Esilio per capire che YHWH non è vero perché vincitore, che continuava a essere il Dio della promessa anche da Dio sconfitto. Ma noi nonostante tutta la Bibbia, i Vangeli, san Paolo, san Francesco, nonostante il non-miracolo della croce e la non-ordalia dei chiodi e del legno, siamo troppo tentati di imitare Elia, di pensare che il nostro Dio è vero perché è vincente, e poi sgozziamo i perdenti.
Il miracolo del fuoco sul Monte Carmelo non prova che YHWH è Dio. Forse prova soltanto che Baal è un idolo, ma questo lo sapevamo prima dell’ordalia. Non è bene "tentare Dio", dirà un’altra anima della stessa Bibbia. Anche perché noi troppe volte apparecchiamo gli altari, facciamo veglie, urliamo e chiediamo il miracolo che non arriva. E come noi siamo capaci di non perdere la fede davanti a un figlio che non guarisce e muore, quella stessa fede vera non può essere creata da nessun miracolo. Anche perché di fronte a un miracolo per noi dobbiamo sempre continuare a chiedere a Dio: "Perché non agli altri"?
La parte luminosa di questa pagina buia del Monte Carmelo non sta allora nella luce del fuoco che irrompe sulla scena, ma nella domanda che Elia rivolge al suo popolo: «Fino a quando salterete da una parte all’altra? Se YHWH è Dio, seguitelo! Se invece lo è Baal, seguite lui!» (18,21).
La tentazione idolatrica è tenace, sempre presente e attiva nel cuore dell’uomo e della donna perché, diversamente dall’ateismo, non nega Dio ma prima lo riduce a idolo e poi lo moltiplica - ogni idolatria è politeista, perché ogni consumatore ama la varietà delle merci. L’idolatra non rinnega Dio, lo rimpicciolisce per manipolarlo. I profeti ci dicono: "scegli", perché è meglio, paradossalmente, passare interamente a Baal che aggiungerlo nel tempio accanto a YHWH. Ma noi preferiamo molti piccoli dèi innocui a un unico Dio vero e scomodo. Ecco perché sulla terra l’idolatria è molto più presente della fede. Quando il figlio dell’uomo tornerà sulla terra vi troverà certamente l’idolatria. La fede non lo sappiamo. Speriamo che la trovi almeno in uno. E se viene presto, che quell’uno possiamo essere noi.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
SVOLTA IN FRANCIA. DALLA CARITÀ ("CHARITE’") DI PASCAL ALLA CARITA’ DI PAPA RAZTINGER ("DEUS CARITAS EST", 2006), DALLA CHIAREZZA DI CARTESIO ALLA "CONFUSIO-NE" ("COMMUNIO") DI J.-L. MARION .... IL PRESIDENTE SARKOZY E IL FILOSOFO J.-L. MARION: DALL’ACCOGLIENZA DELLA DIVERSITÀ ALLA DIFESA DELL’IDENTITÀ, ’NAZIONALE’ E ’CATTOLICA’.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
Federico La Sala
Profezia è storia / 14.
E Dio imparò a sussurrare
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 7 settembre 2019)
Le crisi, le stanchezze, le depressioni non sono tutte uguali. La Bibbia ci dice che esistono anche le depressioni spirituali, non rare nella vita dei profeti. Queste arrivano, in genere nella fase adulta della vita, alle persone che hanno ricevuto una chiamata e un compito. La depressione spirituale va distinta dalla depressione psichica, cosa non facile perché i segni sono molto simili. La storia di Elia ci svela una grammatica per riconoscere queste depressioni e, magari, per cercare di superarle.
«Acab riferì a Gezabele tutto quello che Elia aveva fatto e che aveva ucciso di spada tutti i profeti» (1 Re 19,1). Nonostante la grande teofania del Monte Carmelo, il re Acab resta ambivalente e non si mostra convertito interamente a YHWH. È difficile che le conversioni vere del cuore derivino da eventi spettacolari e dalla violenza. La regina, la sterminatrice dei profeti di YHWH, continua la sua guerra: «Gezabele inviò un messaggero a Elia per dirgli: "Gli dèi mi facciano questo e anche di peggio, se domani a quest’ora non avrò reso la tua vita come la vita di uno di loro"» (19,2).
L’orizzonte del cielo di Elia si incupisce: «Elia, impaurito, si alzò e se ne andò per salvarsi» (19,3). Questa volta Elia parte non per la voce di Dio ma per la voce di Gezabele. Anche i profeti, qualche volta, partono semplicemente perché hanno paura. Elia non ha avuto paura nell’affrontare, da solo, quattrocentocinquanta profeti di Baal, ma ora è terrorizzato da questa minaccia. E fugge. Il testo ci fa entrare nell’animo di Elia: «S’inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra. Desideroso di morire, disse: "Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri". Si coricò e si addormentò sotto la ginestra» (19,3-5).
La minaccia di Gezabele scatena in Elia una vera e propria depressione spirituale. Elia è desideroso di morire. Eppure è reduce da una sbalorditiva vittoria pubblica, ha sconfitto e ucciso da solo tutti i profeti di Baal. Ora quei successi non ci sono più. Resta solo la paura e il desiderio di ritirarsi nel deserto, e lì morire.
In questa fuga in cerca della morte rivediamo Mosè, Geremia, Giobbe, Giona e il suo albero di Kikajon, Francesco, e molti profeti di ieri e di oggi che al culmine della loro storia spirituale attraversano la "tappa della ginestra" - come non pensare agli immensi versi del canto di Giacomo Leopardi?: «Odorata ginestra, contenta dei deserti». Elia chiede di morire, e invece Dio gli invia un altro messaggero: «Ma ecco che un angelo lo toccò e gli disse: "Àlzati, mangia!". Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia, cotta su pietre roventi, e un orcio d’acqua» (19,5-6). L’angelo lo toccò. In certe prove, la voce non basta: occorre che l’angelo ci tocchi, tocchi la carne e ci svegli per urto. In questi sonni profondi, il senso dell’udito è insufficiente. L’angelo deve raggiungere il corpo, l’umanità intera.
Dio gli manda ancora pane e acqua. Il bisogno primario è soddisfatto. Ma Elia, dopo aver mangiato, «di nuovo si coricò» (19,6). In queste depressioni non basta mangiare e bere per rimettersi in cammino. Qui si muore anche sazi e dissetati. Per lasciare l’ombra di morte della ginestra e risorgere c’è bisogno di qualcosa di diverso: «Tornò per la seconda volta l’angelo del Signore, lo toccò e gli disse: "Àlzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino". Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb» (19,7-8). Torna l’angelo, lo tocca una seconda volta. Ora però non gli dice semplicemente "mangia"; gli dice di mangiare in vista di un cammino, e gli nomina un nome che è un messaggio: il monte Oreb.
Per uscire da queste depressioni spirituali c’è bisogno di una nuova strada, di un nuovo senso, di una direzione. L’angelo gli fa capire che quel cibo non era per sopravvivere, ma era per camminare. Il profeta rivive, ritrovando il cammino, quando vede sulla linea dell’orizzonte un monte da raggiungere in fondo alla strada. I profeti non guariscono con pane e acqua. Li possiamo riempire di cibo, ma restano malati finché non si apre davanti a loro un nuovo percorso.
Giunto sull’Oreb, il monte di Mosè e dell’Alleanza, capiamo meglio la stanchezza profetica di Elia: «Là entrò in una caverna per passarvi la notte, quand’ecco gli fu rivolta la parola di YHWH in questi termini: "Che cosa fai qui, Elia?". Egli rispose: "Sono geloso di gelosia per YHWH poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita"» (19,9-10). Dio ed Elia dialogano. Mi sorprendono sempre i dialoghi tra Dio e gli uomini che troviamo nella Bibbia. La parola, divenuta carne, ha generato in Europa e nel mondo poesia, arte, libertà, democrazia, che è la lode della non-unanimità, perché quella parola incarnata era già un dialogo, perché quel logos era dia-logos.
YHWH, nel dialogo, dice: cosa fai qui Elia? Una domanda strana, visto che era stato un suo angelo a chiedere a Elia di andare sul monte Oreb. Elia arriva, e lì Dio gli chiede: che ci fai qui? Nella vita dei profeti queste domande strane sono molto frequenti. Si riceve un nuovo comando, si obbedisce, si parte, si arriva, e una volta arrivato si sente dire da chi lo ha chiamato: che ci fai qui? Domande sempre impreviste e tremende, che spesso amplificano la prova spirituale.
La risposta di Elia ci dice chiaramente che la sua depressione dipendeva dalla solitudine in cui si è venuto a trovare ("sono rimasto solo"). Ma la solitudine può essere solo una ragione delle crisi profonde dei profeti, ma non è mai la prima ragione - i profeti sanno convivere con molte solitudini, sono un loro ambiente spirituale co-essenziale come quello comunitario. Le ragioni più radicali sono altre. Elia soffre per vedere rinnegata e cancellata nel popolo la fede nel suo Dio. Usa lo stesso verbo che la Bibbia usa in genere per Dio - «sono geloso di gelosia» per YHWH. Elia è depresso perché il Dio che lo ha chiamato è profanato, ma anche perché sono stati uccisi i suoi profeti - esiste una grande solidarietà tra i profeti: quando un profeta è ucciso, tutti i profeti muoiono in lui.
Queste ragioni si aggiungono alla prima causa di sofferenza, forse quella più lancinante e indicibile, che Elia aveva pronunciato nella sua prima risposta nel dialogo con Dio: «Io non sono migliore dei miei padri». Qui entriamo nel cuore della crisi di Elia - e dei suoi fratelli profeti. Una frase misteriosa, di non facile esegesi. I "padri" di Elia sono Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, Saul, Davide, Salomone. Padri tutti segnati dal limite, dal peccato, e sempre dall’insuccesso. La storia dei suoi padri era stata uno spettacolo di fallimenti, della piccolezza che risaltava forte se confrontata con la grandezza della promessa. Sotto quella ginestra, Elia si sentì stretto in «social catena» alla ferita antropologica dei suoi padri, si sentì esattamente come loro. Una tappa fondamentale che vivono, in vari modi, tutti i profeti, quando un giorno si sentono esattamente come tutti gli uomini e le donne che li hanno preceduti; come tutti, come i peggiori. Si era partiti da casa e subito i miracoli, morti che risorgono, nemici sconfitti e grandi successi pubblici. Poi un evento - una calunnia, una persecuzione, una malattia... - ci fa capire che tutte quelle conquiste e frutti erano solo vanitas, fumo, paglia. Scompare tutto, ci si ritrova nel deserto sotto una ginestra, e ci si sente veramente come i nostri genitori e parenti che avevamo lasciato per un compito e una vocazione che sentivamo infinitamente diversi e migliori. Qualche volta sentire questa uguaglianza è una grande benedizione; altre volte ci deprime perché ci parla solo di fallimento.
Questa tappa può segnare la fine di una vocazione; ma, se superata, può essere la morte che prepara una autentica resurrezione. Come accadde a Elia. Sull’Oreb, infatti, con la sua anima schiacciata dalla "notte oscura", è dove si compie una delle teofanie più belle, celebri e misteriose della Bibbia. Gustiamocela senza parole di introduzione: «Dio gli disse: "Esci e férmati sul monte alla presenza di YHWH". Ed ecco che YHWH passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti a YHWH, ma YHWH non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma YHWH non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma YHWH non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna» (19,11-13). Forte è il contrasto con la scena del Monte Carmelo, dove Dio si era manifestato, con tutta la sua potenza, nel fuoco. Ora Elia è depresso e scoraggiato, e Dio non gli parla più nella potenza della natura. Qui non abbiamo solo la fine della fase religiosa primitiva che vedeva la presenza di Dio negli eventi naturali eccezionali, e la scoperta che Dio è spirito e soffio.
C’è qualcosa di più. Quella splendida espressione - qol demana daqqa -, che gli esegeti e i poeti hanno tradotto in molti modi (un suono dolce e sommesso, la voce del silenzio, il sibilo di una leggera brezza, il dolce sussurro di una voce...), ci dice che Dio deve imparare a sussurrare se vuole parlarci quando il dolore ci ha tappato le orecchie dell’anima. Dentro le grotte spirituali le parole danno solo fastidio - quante volte constatiamo il disagio che provocano le parole, inclusa la parola di Dio, in chi vive questo tipo di prove. Per risorgere da certe morti, la parola deve smettere di parlare e tornare sola voce, sussurro, tornare a quella fase originaria quando il suono non si era ancora articolato in parola. Come quando, in un’altra grotta, divenne vagito di bambino. Come quando, in un altro monte, divenne solo grido. Come alla fine, quando tutte le parole che abbiamo detto diventeranno solo un sussurro, tutte racchiuse in un unico ultimo sospiro. Nelle depressioni spirituali riusciamo a riconoscere Dio se è capace di abbassare la voce, se impara a sussurrare. Se queste cose le sappiamo fare noi, le deve saper fare anche Dio.
Profezia è storia / 15.
L’infinito valore del «no»
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 14 settembre 2019)
Nella Bibbia, e nella grande letteratura, ogni tanto si incontrano pagine che hanno la stessa forza morale di una lapide. Le storie di Uria l’Ittita, della figlia di Iefte, di Agar, Dina, Rispa, Tamar, Giobbe, Abele, il servo di YHWH, il crocifisso. Spesso passiamo oltre in cerca di pagine più edificanti. Qualcuno invece prova misericordia. Si ferma, si raccoglie, ricorda, prega, piange, se ne prende cura. La storia di Nabot e della sua vigna è una di queste pagine-lapide, un monumento eretto a una vittima innocente. La vigna di Nabot è un esercizio etico, sociale, economico, spirituale che nei secoli ha generato sentimenti morali, leggi, costituzioni. Ci ha insegnato lo sdegno, ci ha fatto gridare "non è giusto!", "ah, scellerato, scellerata", "ci deve essere giustizia in questo mondo", "perché, Dio? dove sei?", "mai più". Ha migliorato l’uomo, ha migliorato Dio.
«Nabot di Izreèl possedeva una vigna vicino al palazzo di Acab. Acab disse a Nabot: "Cedimi la tua vigna; ne farò un orto, perché è confinante con la mia casa. Al suo posto ti darò una vigna migliore di quella, oppure, se preferisci, te la pagherò in denaro al prezzo che vale". Nabot rispose ad Acab: "Mi guardi YHWH dal cederti l’eredità dei miei padri"» (1 Re 21,1-3). Acab vede la terra di Nabot, la desidera, vuole averla per farne un orto. Parla con Nabot e gli propone un contratto. Un contratto apparentemente equo e vantaggioso, al prezzo di mercato. Ma Nabot rifiuta, in nome di un valore diverso da quello economico: quella vigna è eredità dei padri.
La Legge di Mosè aveva una legislazione speciale per la terra: «Le terre non si potranno vendere per sempre perché la terra è mia» (Lv 25,23). La terra non era una merce come le altre. Se alienata per bisogni economici, poteva essere riscattata da un parente (goel), e nell’anno giubilare tornava al vecchio proprietario. La terra ereditata dalla famiglia, poi, era sottoposta a vincoli ancora maggiori. Nabot rispetta YHWH e la sua Legge e non accetta l’offerta. Inoltre, il re gli annuncia la volontà di cambiare la destinazione d’uso di quel terreno - vuole smantellare la vigna per piantare un orto.
Nella Bibbia la vigna non è un terreno qualsiasi. È simbolo profetico dell’alleanza (Isaia), è immagine del popolo di Israele. Per queste ragioni, e magari per altre, Nabot non accetta il denaro del re. Non vende, non cede, decide che quella terra non è sul mercato. Quel bene per lui è inalienabile, è un valore non negoziabile. Non vendendo dice che la sua dignità non è in vendita.
«Acab se ne andò a casa amareggiato e sdegnato per le parole dettegli da Nabot di Izreèl, che aveva affermato: "Non ti cederò l’eredità dei miei padri!". Si coricò sul letto, voltò la faccia da un lato e non mangiò niente» (21,4). Il re Acab di fronte a quel rifiuto ha una reazione a dir poco esagerata. Entra in uno stato depressivo che ricorda quello di Elia sotto la ginestra (cap.19).
La Bibbia conosce anche le depressioni sbagliate. La crisi di Elia, generata dalla persecuzione di Gezabele, fu causa di due incontri con l’angelo e poi del sussurro dell’Oreb. Questa depressione di Acab, originata da un rifiuto legittimo, produrrà solo menzogna e morte. Chi, per compito o per vocazione, si trova ad aiutare persone in crisi deve assolutamente distinguere la depressione di Elia da quella di Acab. Hanno una fenomenologia simile, ma la natura, le ragioni e le conseguenze sono completamente diverse.
Se al posto di sua moglie Acab avesse avuto un consigliere onesto, questo gli avrebbe dovuto suggerire di accettare la realtà del rifiuto, elaborare il suo (piccolo) lutto e trovare un altro luogo per il suo orto. Ma, purtroppo per lui (e per Nabot), accanto ad Acab abbiamo sua moglie Gezabele, la figura più torbida di questa storia: «Entrò da lui la moglie Gezabele e gli domandò: "Perché mai il tuo animo è tanto amareggiato e perché non vuoi mangiare?"». Acab le racconta del rifiuto di Nabot. Allora Gezabele gli disse: «Tu governi così su Israele? Àlzati, mangia e il tuo cuore gioisca. Te la farò avere io la vigna di Nabot» (21,5-7).
In queste parole della regina rivediamo Erodiade, Lady Macbeth, e altre donne di potenti che, in quelle frequenti inversioni di ruoli,
prendono saldamente in mano la situazione e cercano rapidamente una soluzione per i mariti deboli. Una Abigail all’incontrario, un comandante Ioab al femminile.
Gezabele, forse per salvare l’onore del marito ("Tu governi così su Israele?"), in nome di una concezione di potere molto diverso da quello voluto da YHWH per i suoi re, trova la peggiore via d’uscita: «Ella scrisse lettere con il nome di Acab, le sigillò con il suo sigillo, quindi le spedì agli anziani e ai notabili della città. Nelle lettere scrisse: "Bandite un digiuno e fate sedere Nabot alla testa del popolo. Di fronte a lui fate sedere due uomini perversi, i quali l’accusino: ’Hai maledetto Dio e il re!’. Quindi conducetelo fuori e lapidatelo ed egli muoia"» (21,8-10).
Con un solo atto vìola tre comandamenti della Legge - non uccidere, non desiderare la roba d’altri, non dare falsa testimonianza. Una immagine nitida della peggiore faccia del potere, mai scomparsa dalla terra.
In queste pagine rivive il peccato di Davide con Betsabea, quello dei due anziani che cercarono di violentare Susanna, e tutti i peccati e i delitti dei potenti che interpretano il loro potere come eliminazione della barriera che separa la loro parte dal tutto. Il vizio più profondo e tremendo del potere è pensare che non esista nessun limite invalicabile, che tutto diventi possibile.
La Bibbia ha combattuto questa idea di potere. La sua polemica verso la monarchia è una critica sistematica verso questa idea di potere come onnipotenza, che diventa immediatamente critica all’idolatria; perché ogni volta che un potente si comporta da onnipotente si auto-proclama dio. Ecco perché Gezabele è idolatra, uccide i profeti di YHWH, e uccide Nabot che aveva osato porre un limite al potere suo e del marito.
Nabot dicendo il suo no, aveva detto ad Acab: tu non sei Dio. È questa la lotta più vera tra ogni potere assoluto e Dio. I poteri assoluti combattono le religioni perché vogliono essere loro dio. E uccidono profeti e uomini giusti perché essi negano la loro divinità - Nabot nel NuovoTestamento rivive anche in Giovanni Battista, e l’uno e l’altro ci dicono che la vera ragione della loro morte non è di tipo etico né economico ma teologico, perché si oppongono all’onnipotenza dei potenti che quindi li uccidono.
In questo racconto colpisce, poi, la complicità degli "anziani e notabili" della città, silenti di fronte alla lettera della regina che esplicitamente contiene peccati e delitti - «Gli anziani e i notabili che abitavano nella sua città, fecero come aveva ordinato loro Gezabele» (21, 11). Quei notabili e quegli anziani, che fino all’attimo prima di ricevere la lettera e poi di mettere in pratica le sue raccomandazioni potevano essere persone per bene (e forse lo erano), nel momento in cui eseguono quell’ordine diventano immediatamente complici e colpevoli, al pari di Gezabele. Quante volte lo abbiamo visto e lo vediamo. La Bibbia, sottolineando questa complicità, ci dice che chi obbedisce agli ordini sbagliati dei potenti condivide la loro stessa colpa. Se è vero che chi aiuta i profeti ha la stessa ricompensa del profeta (come la vedova con Elia), è altrettanto vero che chi aiuta un potente assassino condivide la sua stessa colpa.
La Bibbia è coronata da molti, splendidi sì: quelli dei profeti, quello di Maria. Senza questi sì non avremmo avuto la storia della salvezza, non avremmo vocazioni, non avremmo alcune delle cose più sublimi sotto il sole. Nabot però ci ricorda il grande valore del no, e il disvalore dei sì sbagliati. Questo racconto è abbuiato da molti sì perversi, e illuminato da un solo no giusto. Quante persone salvano e salvano sé stesse perché hanno la forza di pronunciare un no. Potrebbero dire sì, la virtù della prudenza e il calcolo costi-benefici spingerebbero a vendere quel campo. Vedono chiaramente novantanove ragioni per vendere, e trovano quella sola ragione imprudente per dire no. Perché quella sola ragione è di un’altra qualità, vola in un’altra traiettoria, ha un altro timbro di voce nell’anima. Se fossero mancati i no dei molti Nabot della storia, se mancassero i no dei Nabot presenti ancora oggi in mezzo a noi, la terra sarebbe un luogo indegno dove vivere. I no dei Nabot sono il lievito e il sale della terra, senza di essi avremmo solo pane azzimo e sciapo.
Nabot fu ucciso: «Giunsero i due uomini perversi... Costoro accusarono Nabot davanti al popolo affermando: "Nabot ha maledetto Dio e il re". Lo condussero fuori della città e lo lapidarono ed egli morì» (21,12-13). Ecco la lapide.
Mentre Acab scende nella vigna per prenderne possesso, il profeta Elia riceve questa parola di Dio: «Su, scendi incontro ad Acab..., è nella vigna di Nabot. Poi parlerai a lui dicendo: "Così dice YHWH: Hai assassinato e ora usurpi!". Gli dirai anche: "Nel luogo ove lambirono il sangue di Nabot, i cani lambiranno anche il tuo sangue"» (21,18-19).
I profeti sono anche questo: in un mondo dove Nabot continua a essere ucciso, dove nessuno denuncia i delitti perché tutti complici e correi, loro - Elia o Natan - per vocazione gridano: "Hai assassinato". Compito meraviglioso. Ma Nabot è morto. La parola di Elia e la punizione che YHWH promette per Acab, sua moglie e la sua stirpe non riescono a far risorgere Nabot. Resta solo la sua lapide, che è lì per noi, e continua a chiamarci.
Geremia, in una delle sue pagine più belle, dà un grande messaggio profetico comprando un campo; qui Nabot ci dà un altro grande messaggio rifiutandosi di vendere un campo. Anche oggi ci sono contratti che salvano e ci sono non-contratti che salvano ancora di più. Il nostro capitalismo per troppo tempo è riuscito a comprare ogni vigna desiderata in cambio di denaro. Non ha trovato Nabot a dirgli di no. E il nostro pianeta sta cambiando destinazione. Ci salveremo se saremo capaci di fare del nostro tempo il tempo di Nabot. Se impareremo presto a dire di no ai nuovi potenti che oggi più che mai col loro denaro infinito si sentono onnipotenti. Perché tutta la terra è eredità: «Nabot rispose ad Acab: "Mi guardi YHWH dal cederti l’eredità dei miei padri"».
Riflessione.
Una nuova scommessa per la Chiesa di oggi
di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti (Avvenire, giovedì 22 agosto 2019)
Duemila anni di storia, un miliardo e trecento milioni di fedeli in continua crescita grazie alla spinta demografica dei paesi del Sud del mondo. Da un certo punto di vista, la Chiesa cattolica gode di ottima salute. Eppure, dietro la facciata rassicurante dei numeri, si odono scricchiolii allarmanti che non possono essere sottovalutati. Crollo della partecipazione religiosa nelle società più avanzate; difficoltà particolarmente forti tra i giovani e i ceti più istruiti; sensibile riduzione delle vocazioni. Sintomi eloquenti, ai quali si aggiunge la perdita di reputazione causata dagli scandali finanziari e dagli abusi sessuali.
Lo spostamento del baricentro in aree economicamente, politicamente e socialmente più arretrate è dunque una buona notizia solo a metà. In quei paesi - dove il livello istituzionale è meno evoluto e il rapporto con le persone più diretto - la Chiesa gioca su un terreno che le è più congeniale. Ma il timore è che le cose siano destinate a cambiare rapidamente anche in quei contesti. Difficile immaginare un futuro se la Chiesa rinuncia a dialogare con la parte più avanzata del mondo.
Almeno in Europa la Chiesa si trova di fronte a uno snodo generazionale senza precedenti: nella popolazione che ha meno di 30 anni, coloro che non credono semplicemente perché si sentono del tutto indifferenti e apatici rispetto alla «questione Dio» (i cosiddetti nones) sono netta maggioranza. Come se la cosa non li riguardasse, come se non riuscissero neppure a cogliere il senso della domanda: credi tu? Di Dio sembra proprio non sentirsi la necessità.
Oggetto di un discorso ormai superato, residuo di tradizioni che sconfinano nella superstizione o bandiera di fondamentalismi che sfociano nella violenza: è questo il registro in cui la questione della fede viene oggi rubricata in Europa da buona parte della popolazione, specie giovanile. Quando la generazione di chi oggi ha 70 anni e più passerà, la Chiesa europea, già assottigliata, si ritroverà con un numero assai esiguo di fedeli. C’è una questione organizzativa: la struttura della Chiesa - burocratizzata e gerarchica - appare inadatta a stare al passo con un mondo diventato veloce e plurale. Manca la consapevolezza che non è più possibile parlare dell’esperienza religiosa oggi usando lo stesso discorso di quando la fede era un’evidenza sociale.
Occorrerebbero, piuttosto, parole in cammino, che cerchino di dare voce e forma al diffuso senso di precarietà. Parole capaci di trasmettere l’esperienza della fede dove, con Michel de Certeau, «la sola stabilità è spingere il pellegrinaggio più in là», alla ricerca di nuove vie di presenza e narrazione. Ma sembra difficile, quasi impossibile, trovarle. C’è ancora spazio per la «buona novella» cristiana nel mondo di oggi? Ci può essere ancora una domanda che non trova risposta in ciò che già c’è, o nelle promesse di un progresso della scienza, della tecnica, dell’economia nel quale si ripongono ormai tutte le speranze di salvezza?
Facciamo un passo indietro. Se il messaggio del Vangelo, la buona notizia dell’amore che salva e vince la morte, è arrivato fino a noi è perché ha saputo parlare al profondo del cuore degli uomini e delle donne lungo i venti secoli che ci hanno preceduti. Riuscendo così a ispirare il modo di pensare e di vivere di intere società. Questa forza che ha attraversato la storia si è fondata su almeno tre pilastri, che sono però oggi tutti soggetti a una profonda erosione, sotto la spinta di cambiamenti storico-culturali di enorme portata.
Il primo pilastro ha a che fare con lo spinosissimo nodo dell’onnipotenza. Prendendo le distanze dalle religioni che l’avevano preceduta - nelle quali la potenza del sacro si manifestava al di là di qualunque limite -, quella cristiana è sempre stata molto attenta a evitare di farsi schiacciare dall’onnipotenza di Dio. In questo modo, essa ha potuto garantire una scansione tra ordine religioso e ordine politico, aprendo una dialettica che nel corso della storia si è rivelata straordinariamente fruttuosa. È per il fatto impensabile di essere una religione in cui è Dio che si sacrifica per l’uomo - e non viceversa - che quella cristiana ha potuto essere grembo per l’affermazione della soggettività moderna. Persino Nietzsche ha riconosciuto che proprio «grazie al cristianesimo l’individuo acquistò un’importanza così grande, fu posto in modo così assoluto, che non lo si poté più sacrificare».
E tuttavia, come in altre epoche, anche oggi - dentro e fuori la Chiesa - questo «scandalo» evangelico fatica a trovare ascolto: come far capire all’uomo contemporaneo - affascinato dai miti dell’efficienza, della performance, della (onni) potenza tecnica o all’opposto attratto da una divinità a cui semplicemente sottomettersi - il significato liberatorio di un Dio che, con le parole di Hölderlin, «crea l’uomo come il mare la terra: ritirandosi»?
E che mostra la propria «potenza» incarnandosi in un bambino e facendosi appendere a una croce? Il secondo pilastro riguarda la salvezza personale, tema essenziale per ogni grande religione. Dio salva la vita di ciascuno. Nella storia del cristianesimo ci sono state, come è naturale, molte oscillazioni attorno a questo tema, in una continua tensione fra terra e cielo, corpo e anima. Con la modernità, come sappiamo, sul piano culturale il baricentro si è spostato dalla salvezza eterna al successo mondano, dalla cura dell’anima al benessere materiale. Di quale salvezza si può dunque parlare oggi, quando la tecnica arriva addirittura a immaginare di poter promettere l’«immortalità»? Il terzo pilastro tocca il tema della universalità.
La Chiesa ha sempre riconosciuto e coltivato la propria vocazione universale, consapevole della necessità di parlare a tutti. Condizione per essere chiesa, appunto, anziché setta, piccolo gruppo di duri e puri ripiegati su sé stessi e separati dal resto del mondo. Sappiamo che la relazione tra fede e ragione, ereditata dalla tradizione greca e latina, è stata di enorme importanza. Sin dall’inizio la Chiesa ha intuito che il proprio destino sarebbe stato legato a quello della ragione. Ma il problema è che nel corso degli ultimi secoli si sono modificati i termini stessi della questione. Da una parte, il restringimento alla sola dimensione strumentale (vero è ciò che è certo, e dunque ciò che funziona e realizza rapidamente le promesse) ha di molto diminuito la capacità della ragione di essere guida sicura all’agire umano. Diventata tecnica, l’ambito principio in cui la ragione sembra applicarsi è il problem solving e il suo obiettivo il superamento del limite, di ogni limite.
Così, ciò che oggi sembra unificare il mondo è il grande sistema tecno/economico che, con la sua neutralità etica e le sue pretese di controllo, vorrebbe rendere superflua la stessa questione religiosa. Ma è realistico un tale progetto? Dall’altra parte, se oggi, come dicono le stime dell’autorevole Pew Research Institute, su dieci abitanti della terra tre sono cristiani, cosa vuol dire pensarsi come «universali »? In un pianeta diventato piccolo, senza più terre da esplorare, ma dove le diverse tradizioni religiose - che pure si delocalizzano e si innestano un po’ dappertutto - hanno sedimenti ormai consolidati, come sviluppare il dialogo interreligioso?
Questione che a maggior ragione investe l’ecumenismo: quale ruolo il cattolicesimo romano può e deve giocare rispetto alle altre confessioni cristiane, numericamente più deboli ma custodi di ricchezze da rimettere in gioco, a vantaggio dei cattolici stessi e del mondo intero? In questa cornice, all’inizio del XXI secolo, la scommessa cattolica non è allora né quella di rincorrere qualcosa che starebbe davanti - la piena affermazione della modernità, con tutti i suoi successi - né di inseguire un sogno di restaurazione e rinnovata centralità - cullandosi nella nostalgia di un passato ormai perduto. Si tratta, piuttosto, di muovere i primi passi di una via nuova, recuperando la consapevolezza di avere qualcosa di inaudito da dire. Qualcosa che manca a questo tempo. Qualcosa di prezioso per il nostro futuro comune.
Intervista a Massimo Cacciari
A un’Europa vecchia e sterile serve il fertilizzante della Chiesa
· La crisi della società italiana e il ruolo della Chiesa ·
di Andrea Monda (L’Osservatore Romano, 18 luglio 2019)
Il cambiamento d’epoca di cui parla Papa Francesco è tale che ha colto impreparato l’Occidente. Da qui parte la riflessione di Massimo Cacciari che riprende la suggestione di Giuseppe De Rita sulle due autorità, civile e spirituale, e si concentra sulla prima, quella «che fa acqua un po’ da tutte le parti». Lo abbiamo incontrato in un caldo pomeriggio di luglio, è arrivato a piedi e se n’è andato a piedi, una sorta di Giovanni Battista inquieto e sempre pronto ad accendersi di una santa ira che non risparmia nessuno.
Qual è l’elemento più preoccupante della crisi attuale?
Il problema è che la parte laica, civile, è proprio quella che fa acqua, per una complessa serie di cause. Le grandi culture che hanno formato l’Europa del dopoguerra e che hanno dato consistenza alla politica italiana si sono mostrate inapte a comprendere e a dar forma alla nuova età. Sono cose che succedono nella storia, quando un mondo finisce. Il mondo del dopoguerra si è chiuso con la caduta del muro, con la fine dell’impero socialista, con le trasformazioni globali negli equilibri economici e politici, la nascita della nuova Cina e il decollo indiano. Siamo di fronte a una nuova età, come quella che segna la fine delle polis greche, come quella che segna la fine dell’età dell’impero romano. Barbari che compaiono, gente di cui non capisci la lingua, e le grandi famiglie culturali e politiche europee, che sono sostanzialmente quella socialdemocratica, quella cristiano-popolare e quella liberale, non comprendono la situazione, rimangono abbarbicate inerzialmente a determinati valori e giudizi, che sono diventati pregiudizi, dato il mutare della situazione. Questo vale in particolare per le culture liberali e socialdemocratiche: i primi diventano dei puri conservatori, mentre la socialdemocrazia rimane aggrappata a un modello di stato sociale e di idea di uguaglianza che non può più reggere rispetto ai fenomeni di globalizzazione. È tutto da reimpostare, da rivedere, in particolare in Italia, dove accanto a questa trasformazione globale c’è anche la catastrofe specifica che passa sotto il nome di tangentopoli, che invece è il crollo anche di tenuta etica e morale dei partiti del patto antifascista.
Qui De Rita direbbe che la mia lettura è tutta politicistica (io credo cultural-politicistica): secondo me non sono mai le trasformazioni semplicemente economiche che possano motivare quello che è successo in questo paese e in Europa. Accade dunque che le componenti fondamentali che hanno dato vita all’Unione europea entrano in un cono d’ombra totalmente subalterno ai modelli neoliberisti; anche l’euro nasce in questo clima: il mercato, la libera concorrenza... non c’è più il pilastro della solidarietà, della sussidiarietà, punti fondamentali per la cultura di uno Sturzo, di un De Gasperi. Tutti questi pilastri vengono meno. Rimane l’affannosa rincorsa a quelle che si presume essere le nuove forme di potere. E quando con la crisi vengono meno le possibilità di promettere ancora ulteriormente «magnifiche sorti e progressive», queste forze si spappolano.
Lo scenario che sta illustrando non è dei migliori...
Lo so, ma nel mio discorso non c’è niente di nostalgico. Il problema non è il venir meno di determinati valori, ma il fatto che questa Europa è vecchia, forse decrepita, e non si può chiedere a un vecchio di non aver paura, di essere audace. La domanda allora è: c’è la stoffa per ritessere un discorso politico, per riformare una élite politica in Italia, in Europa? Perché questi nazionalismi, i sovranismi sono nient’altro che l’effetto del disgregarsi di queste precedenti culture, che non sono state al passo con la trasformazione. Sono il segno che l’Europa è vecchia, che non produce più, che è un terreno sterile; bisogna quindi trovare nuovi fertilizzanti. E penso, da non credente (ma è da qui che nasce la mia attenzione al mondo cattolico) che forse il fertilizzante può venire proprio dalla Chiesa: discutendo, dialogando, dibattendo, polemizzando... È il mondo cattolico che può essere il segno di contraddizione, che può rimettere in movimento qualcosa. Se non da lì, da dove può venire? Certo, frange socialdemocratiche possono anche tentare un discorso sui temi economici, sui temi sociali... ma è da lì che può venire la spinta maggiore.
Eppure oggi quel mondo cattolico sembra silente o, il che forse è peggio, diviso al suo interno...
Ha ragione. Un esempio molto banale, visto da fuori. Io ero convintissimo che l’agitazione del crocifisso, del rosario in un comizio sarebbe costata cara in termini di consenso. Pensavo che era impossibile che passasse inosservata la blasfemia di gesti simili e invece mi dicono i miei amici sondaggisti e analisti che il gesto ha fatto guadagnare consenso, proprio dal mondo cattolico. Qui c’è un problema colossale e mi riferisco al problema educativo, alla formazione della classe dirigente, un ambito che oggi appare sterile. Gli intellettuali non esercitano più alcuna influenza. Le università hanno sempre esercitato in Europa un’egemonia culturale, ma tutto questo oggi sembra finito. E si fa fatica a pensare un’Europa senza cristianità.
Secondo l’espressione del Papa, non è un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d’epoca, che però ha trovato tutti impreparati.
Il modello è proprio quello del libro di Karl Polanyi, La grande trasformazione. Dove la trasformazione economica diventa trasformazione della testa della gente. Dobbiamo diventare consapevoli che abbiamo a che fare con un uomo diverso; il mutamento è culturale e antropologico, basta vedere i giovani, i ragazzi. Questo mutamento ha colto impreparate le culture che sono uscite dalla grande prova della guerra, che hanno avviato l’Unione europea e che hanno fatto le costituzioni, quelle costituzioni che avevano quel carattere tipicamente democratico, progressivo, come ad esempio la costituzione italiana. Il fatto è che sull’Europa ci sono stati e permangono molti equivoci. Ad esempio si cita il modello di Spinelli ma ho la sensazione che i tanti che lo citano non l’hanno mai letto. Quello era un modello totalmente neo-illuministico e sostanzialmente autoritario per cui è l’élite che fa l’Europa in barba alle diverse sovranità nazionali. Quindi quando parliamo di identità nazionale di cosa parliamo? Una identità liberale? Cosmopolita? Illuminista? Per come si sono sviluppate le vicende dell’Europa è evidente che si è perduto di vista l’elemento della sussidiarietà, che era fondamentale nel modello federalista autentico. In quel modello con la creazione dell’unione europea politica si superava, ma al tempo stesso si difendeva, l’identità nazionale, la si garantiva, dando peso politico al singolo stato membro, in un’unione che faceva la forza di ognuno. Non si è riuscito a spiegarlo, a comunicarlo in nessun modo. E ora è facile comunicare il messaggio opposto: Italy first e così via. Non si è riuscito a comunicarlo perché si è trasmessa sempre e costantemente l’impressione che l’obiettivo fosse il mero superamento dell’identità nazionale all’interno di un modello illuministico. Così come non si è compreso che la battaglia sull’Europa è decisiva per la cristianità. Si può certo dire “l’Europa vada come va, tanto noi, la Chiesa, siamo il mondo”. È giusto da una parte, dall’altra è sempre vero che urbs et orbis, la città e il mondo, come a dire che non può esserci un mondo senza centro, e qual è il centro? Washington? Pechino? Buenos Aires? Roma? Gerusalemme? Certo, il Mediterraneo, il centro è quello. Non si è ancora capito in nessun modo che il centro, bene o male, continua a essere questo. E invece assistiamo in Europa all’assenza e al fallimento totale di politiche mediterranee, perché non si ha questa visione storica, e agli errori tattico-politici che dipendono dall’incomprensione della dimensione di lungo periodo. Il Mediterraneo non era cruciale soltanto per evitare che diventasse il fossato, il muro che è diventato, ma lo era in quanto è esso stesso l’Europa che si gioca lì, in quelle acque che uniscono Atene e Gerusalemme con la prima e la seconda Roma.
La crisi assume i contorni di una mutazione antropologica. Penso all’impatto delle tecnologie, al grande innalzamento dell’età della vita e penso all’elemento che oggi sembra giocare un ruolo fondamentale anche a livello politico, quasi elettorale: la paura, che si trasforma in rancore.
Ritengo che la paura sia strettamente collegata all’invecchiamento. Organismi vecchi difficilmente affrontano le sfide con coraggio. Un organismo vecchio tende a difendersi, quando l’ambiente muta si chiude, questa è fisica. Questi fenomeni che avvertiamo ovunque in Europa derivano, secondo me, sostanzialmente da questo. Come nei secoli dell’Impero romano, mutatis mutandi, l’Europa ha bisogno di accogliere. Ma bisognava farlo per tempo. Perché era evidente che l’Europa avesse bisogno di sangue nuovo, e anche di intelligenza nuova, e che dovesse quindi affrontare questo meticciamento, come dice il cardinale Scola che lo aveva capito perfettamente e predicato in modo incessante. Ricordo quando era Patriarca a Venezia: non c’era manifestazione religiosa dove lui non ricordasse questo aspetto del meticciato. Per tempo era necessario che l’integrazione avvenisse attraverso politiche di cittadinanza, politiche economiche rivolte anche ai paesi da cui veniva questa gente, stringendo accordi commerciali, culturali, scambi con più paesi. Avremmo dovuto fare noi europei quello che in termini neocoloniali assoluti sta facendo la Cina. Questo è compito degli europei, come si fa a non capire? È lo stesso discorso del Mediterraneo di cui sopra: l’Europa è Euro-Africa. Qual è il tuo destino, Europa? A chi devi guardare se non ai due miliardi e mezzo che saranno tra un po’ gli africani, a chi altri devi guardare?
Se svolto per tempo e organizzato bene, quel lavoro politico di integrazione avrebbe dato vita a quel positivo meticciamento di cui parlava Scola. È certo che se non lo organizzi in alcun modo e improvvisamente, in base alla spinta delle guerre, dei cambiamenti climatici, della miseria, cominciano a precipitarti addosso enormi masse di rifugiati, esuli, poveretti, è chiaro che quei vecchi di cui sopra, soprattutto durante una crisi economica, diventano inevitabilmente la più facile preda di una propaganda di destra classica.
Hitler, che non c’entra niente con questo discorso, nel 1929, prima della crisi, prende il solo 2,8 per cento dei voti, e Stresemann e Briand, pochi giorni prima del crollo di Wall Street, s’incontrano, dicono ogni problema tra loro è risolto, che si metteranno d’accordo su tutto, fratelli per sempre, e che insieme Germania e Francia lavoreranno da domani per dar vita all’unione europea. Sei mesi dopo c’è la crisi e tre anni dopo c’è l’avvento di Hitler. Crisi non gestite, trasformazioni epocali non governate, possono produrre di tutto, come abbiamo visto quando sono crollati gli stati socialisti e c’è stata la guerra in Bosnia. Questa è la grande responsabilità che devono capire gli eredi di quelle culture, devono capirla, mettersi insieme e dire: cosa facciamo insieme?
Parliamo degli eredi di quella cultura che è quella cattolica, che lei, da laico, non credente, definisce un potenziale fertilizzante di una società vecchia.
La Chiesa è fondamentale, la forma politica della Chiesa ha dimostrato di essere quella forse più valida per affrontare problemi di questo genere. Però la domanda che io mi pongo sempre di più è: si capisce che la battaglia decisiva è qui in Europa?
Sono stato io a suggerire a monsignor Ravasi il motto episcopale quando fu ordinato: Praedica Verbum. Proprio come dovevano fare i professori di religione nelle scuole: evidenziare senza chiacchiere, senza spiegazioni. Semplicemente praedica Verbum, che però si rivela un segno di contraddizione, perché non sarai mai capace di seguire quel Verbo. Però - è questo è il punto - vedi che distanza c’è rispetto alla realtà. Misura la distanza, inquieta l’intelligenza dei tuoi interlocutori facendoli riflettere su questa distanza, senza tante chiacchiere, senza voler fare il maestro di nessuno. Questa parola indubitabilmente ha formato da due millenni l’Europa. Predicare il Verbo può avere, secondo me, effetti politici enormi ancora oggi come li ha avuti in passato.
Che cosa sono i movimenti di riforma se non tornare a quel breviloquio? Quel Verbo ha formato la testa della gente, proprio in momenti di crisi. Si tratta allora pascalianamente di scommettere di nuovo su questa forza.
Intervista a Massimo Cacciari...
di Andrea Monda (L’Osservatore Romano, 18 luglio 2019)
E i laici? Qual è il loro ruolo?
I laici devono riprendere un grande discorso di riforma dell’Unione, delle sue istituzioni con coraggio, con radicalità. Sono trent’anni che si insegue invece la moderazione, ma come vuoi risolvere moderatamente una situazione di grande trasformazione? Puoi essere benissimo un moderato, se si tratta di barcamenarsi, ma se affronti una tempesta devi abbandonare la moderazione. La Tempesta di Shakespeare si apre appunto con una tempesta per cui tutti i personaggi sono come annichiliti, ci sono pure i re, ma non contano niente adesso, il re non serve ora, ci vuole invece il nocchiere, ci vuole uno che governi nella tempesta: tu caro re non sei più sulla terraferma come prima. Questa è la sfida per i laici che devono provarsi per capire se sono in grado di governare nella tempesta. Allora potrebbero combinarsi, accordarsi con la dimensione spirituale. Se c’è una grande forza spirituale questo ha effetti civili, politici, sociali, ma ci vuole radicalità, in entrambi i campi, nel capire che qui in Europa si gioca una battaglia forse decisiva per la stessa cristianità.
Sul versante cattolico: da una parte c’è questo predicare il Verbo, anche in maniera molto essenziale, di Papa Francesco, dall’altra c’è quel dato preoccupante che lei prima citava, c’è qualcuno che sventola i simboli religiosi e accresce il suo consenso, magari incitando la folla a fischiare contro il Papa. Uno scollamento a dir poco inquietante.
Secondo me in questo momento difficile d’invecchiamento europeo, di crisi delle culture politiche di cui ho parlato, è stata coinvolta anche l’immagine della Chiesa, ridotta all’interno di un discorso di astratto cosmopolitismo: la Chiesa che s’interessa del mondo, s’interessa dei migranti, il Papa che va a Lampedusa... è stata data una lettura superficiale, complice anche il modo in cui il Papa è stato letto da laici e non credenti, in una chiave alla partito d’azione, alla Spinelli... Si è data questa immagine: un cosmopolitismo degli intellettuali.
Il che contrasta frontalmente con la realtà, se pensiamo, ad esempio, alla predicazione di Francesco che è il massimo della concretezza, della prossimità.
Sì, ma c’è stata questa lettura. E bisogna fare attenzione, perché appunto uno furbo come Salvini ha capito questo e si è inserito in questa situazione cercando in modo sottile di spaccare, mettendo i Papi uno contro l’altro, venerando per esempio la figura di Giovanni Paolo II, il Papa dell’identità cristiana, della lotta al comunismo....
L’identità è una parola che adesso è rispuntata fuori prepotentemente.
Questa è un’altra battaglia culturale formidabile da fare. Perché l’identità cristiana è l’identità che acquisisci facendoti prossimo, non esiste un’identità a sé. L’identità è pros eteron, per l’altro, la tua identità diviene nella misura in cui ti fai altro, diviene nella misura in cui ti approssimi, ti fai prossimo all’altro. Questo è fondamentale, non si tratta di un’identità astratta. Un’identità “suolo e sangue” semmai è quella del polites greco, l’identità cristiana non ha niente a che vedere con questo. Questa è una battaglia culturale grande, complessa e urgente. Potrebbe aiutare il recupero di un’etica classica di un certo tipo per questa battaglia da condurre insieme laici e cattolici. Sfida difficilissima in una condizione in cui l’Europa è in una situazione di estrema debolezza economica e demografica. Ci vorrebbe davvero una grande iniziativa, credibile sul piano delle riforme da attuare, delle riforme da svolgere, sul piano anche del ceto politico, della classe dirigente che la porta avanti, perché anche quello ha la sua importanza. L’autorevolezza del ceto politico è un elemento importante nell’azione politica e invece oggi è ai minimi storici.
Il suo libro su Maria, «Generare Dio», mi è venuto in mente perché prima parlava dell’Europa decrepita, che ha bisogno di un fertilizzante, che è in crisi di generatività.
In crisi come tutto l’Occidente che ha avuto il suo grande boom dalla metà del Settecento alla prima guerra mondiale, un grande boom demografico, e poi questo boom demografico si è spostato in Asia e Africa. Dipende da vari fattori, ma certo è un segno caratteristico del declino di un paese, di una stirpe. In questo contesto il tema di Maria è importantissimo, se s’intende in questa chiave. C’è stato un modo del tutto sbagliato con cui si sono affrontati in questi anni temi di questo genere come famiglia e procreazione. Con una posizione da parte della Chiesa non di attacco, ma di difesa. Errore devastante.
Penso al tema della dignità della donna: io nel libro dico che quando la donna genera, genera Dio. E invece si è scelta la linea della difesa su vecchie frontiere riguardanti i diritti della donna, il diritto di famiglia... Il risultato è che oggi in regioni cattoliche come il Veneto nessuno più segue quello che gli dice Santa Romana Chiesa. Una forza politica può dare un’immagine di sé conservatrice, ma se la dà la Chiesa è spacciata. Alla riforma devi rispondere con la tua riforma, alla crisi rispondi con i santi, rispondi con San Francesco, con Sant’Ignazio, non puoi rispondere difendendo etiche e basta. L’idea di Maria per me è fondamentale, è l’idea di una donna che consapevolmente, liberamente, accoglie, malgrado il dubbio, malgrado il dolore, malgrado la sofferenza, accoglie e segue fino alla Croce.
Ritorno sul tema del rancore, da dove nasce questo risentimento?
Ci sono dei vizi nella nostra natura. Il realismo cristiano ce lo dice, chiamalo peccato originale, chiamalo come vuoi, ma la nostra natura è prigioniera. Ed ecco allora gli animali danteschi, i vizi capitali che oggi vengono esaltati in un sistema individualistico, penso all’invidia, all’avarizia. L’invidia è l’opposto della prossimità. Il cristiano dice di farsi prossimo, l’individualismo dice “io invidio”, sono due posizioni inconciliabili, drammaticamente contrapposte. L’avarizia, pleonexia dicevano i classici, è volere avere di più, tenere il mio e avere di più. Il risentimento allora può diventare odio, perché se io ho e voglio avere di più, se comincio ad avere di meno, c’è l’invidia, e l’invidia può diventare odio.
Una dinamica opposta alla dinamica che i cristiani indicano nel termine caritas e che Aristotele diceva giustizia, dikaiosyne: il giusto non è soltanto colui che dà a ciascuno il suo, ma che vuole il bene dell’altro. Quindi già per Aristotele la giustizia è un atteggiamento per l’altro, pros eteron. Sono temi che poi la Chiesa eticamente recupera: San Tommaso quando parla di etica recupera questi elementi propri, che poi, nell’itinerario in Deum, vengono tutti valorizzati ancora di più, esaltati ancora di più e trasposti su un piano ancora più alto. Ora di nuovo siamo lì, siamo forse nella fase estrema del sistema individualistico. Sono venuti meno quegli organismi, quelle organizzazioni, quelle forme che metabolizzavano queste dinamiche proprie dell’individualismo. I partiti politici facevano una cosa di questo genere, le assumevano e le trasformavano, le metabolizzavano, le accordavano, e facevano venire fuori una specie di sintesi, ognuno per la sua parte sociale. La crisi dei partiti politici ha provocato anche questo. Nessuno dei partiti, anche l’unico che c’è che è la Lega, compie più questo lavoro, assolutamente. Mette insieme, fa un mucchio di tutte le istanze degli individui e le mette lì ma senza mediazione, senza sintesi. L’attuale governo è esemplare da questo punto di vista: ce n’è per tutti, meno tasse per chi vuole meno tasse, il reddito di cittadinanza per chi vuole il reddito di cittadinanza...
I partiti politici come i corpi intermedi sono entrati in crisi, anche perché, bisogna riconoscerlo, si sono “dimissionati”. Se i corpi intermedi per anni e anni sono andati avanti facendo clienti, non possono più avere credibilità.
La tecnologia come contribuisce a questo cambiamento d’epoca?
È chiaro che è fondamentale. Di per sé non è niente di nuovo, perché dalla rivoluzione industriale e ancora prima, scienza e tecnica sono elementi strettamente connessi. Ma ci sono grandi trasformazioni con dei veri “salti”, come quello dell’Ottocento. E così oggi assistiamo a un grande salto tecnologico, che però oggi può intervenire nella vita, nel determinarne le forme. La vita, questo è il punto. Secondo me, il tratto più spaventoso, più tremendo, più terribile proprio nel senso greco di meraviglioso e tremendo, cioè stupefacente, è che questo individuo è tutto fuorché l’individuo nascosto, è tutto esposto, tutto sulla scena, tutto a disposizione, tutto calcolabile; non è il singolo, è esattamente l’opposto del “singolo” di Kierkegaard. No, questo è proprio l’individuo, è un numero, ma sul palco, sulla scena. Esposto. È l’oscenità di quest’epoca, e sarà sempre peggio; con i big data che ci possono essere adesso tu individuo sei perfettamente quello che risulti in base a quello che acquisti: i libri che acquisti, i vestiti che acquisti, le telefonate che fai, i treni che prendi, quante volte usi il bancomat. Tutto questo è totalmente schedato, il data è la combinazione di tutte queste informazioni dalle quali viene fuori come risultato chi sei tu. E un domani potrebbe accadere benissimo che tu vai a chiedere lavoro a qualcuno: “il nome scusi? Vediamo, ah lei è questo”. Vede dove siamo arrivati? A una inquietante forma di uguaglianza, ciò che alcuni teorici della democrazia temevano, che l’uguaglianza potesse portare a questo, non a caso ci avevano aggiunto la fratellanza.
Che però è stata la grande dimenticata, a favore di libertà e uguaglianza.
Anche perché, come ricordava un vero grande sociologo e filosofo come Georg Simmel, libertà e uguaglianza per conto loro sono in assoluto opposizione e contrasto, sono la contraddizione logica, perché se sono libero non sono uguale a te. Quindi libertà e uguaglianza di per sé fanno l’individuo, ognuno libero contro l’altro. E dunque ci vuole la fratellanza. Come si produce questa fratellanza, questa amicizia? Come si produce? Chi la produce? E allora, di nuovo, organismi, corpi intermedi, partiti, sindacati, da “sin-ducere”, mettere insieme. Ci abbiamo provato in passato e in parte ci siamo riusciti. Ma ora se tutto questo si spappola non c’è niente da fare, ci sono i big data, c’è chi ne dispone, e a sua disposizione sono anche gli individui.
Profezia è storia / 6.
Il Nome che si deve imparare
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 6 luglio 2019)
La tentazione di tutti i costruttori di templi è il desiderio di catturare Dio nella dimora che gli hanno edificato. Perché il rischio di ogni teoria e prassi del sacro è la trasformazione della divinità in un bene di consumo. La Bibbia ci ricorda che la presenza di Dio nei templi e sulla terra è una presenza assente, dentro la quale si può compiere l’umile esercizio della fede. Il sacro biblico è un sacro parziale, il tempio è luogo religioso imperfetto. Questa necessaria "castità religiosa", che lascia sempre indigenti e desiderosi del "Dio del non-ancora" mentre se ne sperimenta una certa presenza vera e imperfetta, è stata custodita e coltivata gelosamente dalla Bibbia; e un giorno ha consentito agli ebrei di continuare la loro esperienza di fede anche con il tempio distrutto. La povertà di dover stare in un tempio meno luminoso di quelli degli altri popoli, generò la ricchezza di una religione liberata dal luogo sacro e quindi possibile anche negli esili. Solo gli idoli sono abbastanza piccoli da essere contenuti dai loro santuari. Il Dio biblico è l’Altissimo perché infinitamente più alto di ogni tetto di tempio che gli possiamo costruire.
La dedicazione del tempio avviene durante una grande assemblea di tutto Israele. La liturgia inizia con il trasporto nel tempio dell’arca dell’alleanza, prelevandola dalla tenda dove l’aveva posta Davide: «Il re Salomone e tutta la comunità d’Israele, convenuta presso di lui, immolavano davanti all’arca pecore e giovenchi, che non si potevano contare né si potevano calcolare per la quantità» (1 Re 8,5). L’arca dell’alleanza (che, come ricorda il testo, conteneva "soltanto" le tavole della Legge di Mosè) è sacramento del tempo nomade dell’esodo e del Sinai, è il legame tra passato, presente e futuro. Un altro filo d’oro che unisce il nuovo tempio alla storia antica d’Israele è la presenza della nube: «Appena i sacerdoti furono usciti dal santuario, la nube riempì il tempio del Signore, e i sacerdoti non poterono rimanervi per compiere il servizio a causa della nube, perché la gloria del Signore riempiva il tempio» (8,10-11). La nube, infatti, aveva già riempito la "tenda del convegno" quando Mosè ne ebbe completato la costruzione: «Allora la nube coprì la tenda del convegno e la gloria del Signore riempì la Dimora»; neanche «Mosè poté entrare nella tenda del convegno, perché la nube sostava su di essa e la gloria del Signore riempiva la Dimora» (Esodo 40,34-35).
Il tempio inizia la sua vita pubblica sotto il segno di una radicale ambivalenza. Esso è la nuova tenda del convegno, la nuova dimora dell’Arca e delle tavole della Legge, la casa che custodisce le radici e il Patto. Al tempo stesso, la nube scura dice che il tempio ospita una presenza che pur essendo vera è meno vera dell’assenza del Dio, che è signore del tempio perché non è costretto ad abitarvi. La nube è simbolo della presenza della "gloria di YHWH" e dell’oscurità della nostra capacità di vederlo e di comprenderlo. E così Salomone, in quello che è forse il verso più bello e il senso profondo di tutto questo grande capitolo, può (e deve) esclamare: «Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco, i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruito!» (8,27). E così Salomone, nel giorno stesso della dedicazione del tempio, il suo capolavoro religioso e politico, ripete più volte che la "dimora" vera di Dio non è il suo tempio meraviglioso. È questa capacità di continua auto-sovversione che rende la Bibbia viva e capace di sorprenderci sempre.
Un’altra strategia narrativo-teologica per esprimere l’assenza-presenza di Dio è la distinzione tra YHWH e il suo nome. Il nome nella Bibbia dice molte cose, e tutte importanti (la Bibbia è anche una storia di nomi dati e cambiati, detti e taciuti). YHWH, il nome che Dio rivela a Mosè sul Sinai, è rivelazione perché svela e subito ricopre (ri-velare). È un nome/non-nome ("Io sono colui che sono"), che non si lascia manipolare né pronunciare se non nel tempio in speciali occasioni. Il nome svolge allora la stessa funzione della nube: svela e rivela, dice e tace, illumina e abbuia. Ogni volta che un ebreo entrava nel tempio doveva rivivere qualcosa dell’incontro di Mosè con il roveto: un dialogo con qualcuno che arde senza consumarsi, che parla senza esserci: «Siano aperti i tuoi occhi notte e giorno verso questa casa, verso il luogo di cui hai detto: "Lì porrò il mio nome!"» (8,29). Nel tempio c’è il nome di Dio per ricordarci che il Dio del nome non è lì, perché se ci fosse non sarebbe Dio. E se il tempio non contiene Dio, ma solo il suo nome, è possibile pregare e incontrare YHWH ovunque.
La fede biblica ha fatto di tutto per salvaguardare la co-essenzialità della presenza e assenza di Dio. Tutte le deviazioni idolatriche che ha conosciuto lungo la sua lunga storia sono state l’esito dell’uscita della nube dal tempio e dell’illusione che il nome di YHWH fosse YHWH stesso. Quando la nube del mistero si dirada e scompare riusciamo finalmente a vedere gli dèi in una luce chiarissima solo perché sono diventati idoli. Il prezzo del vedere senza la nube è vedere qualcosa di diverso - che ci piace tanto, ma che non è Dio. Finché riusciamo a restare indigenti di fronte a una nube che avvolge il mistero e ad un nome che svela e rivela, possiamo sperare in modo non vano che oltre quella nube e quel nome ci possa essere una presenza viva; quando invece, per vedere meglio, non accettiamo più questa povertà religiosa, quando scacciamo la nube e vogliamo vedere Dio faccia a faccia, quando pronunciando il nome di Dio pensiamo di conoscerlo perfettamente, lì finisce la fede biblica e inizia l’idolatria.
La fede vive nello spazio che si crea tra la nostra sincera esperienza soggettiva di Dio e la realtà di Dio in sé: quando questo spazio si riduce con esso si riduce la fede; quando si annulla, è la fede che si annulla. La pronuncia del nome di Dio ci salva finché teniamo viva la coscienza che tra quel nome e Dio c’è una nube di mistero che non riduce la fede ma la rende umanissima e vera. Sotto il sole l’unica esperienza di Dio che possiamo fare è dentro una nube densa, e il nome al quale Dio risponde è un non-nome che riesce a chiamarlo e svegliarlo finché sa di chiamarlo con un nome imperfetto e imparziale e quindi vero. E poi, se come dice l’Apocalisse, «porteranno il suo nome sulla fronte» (22,4), allora il nome di Dio ce lo rivela l’altro mentre ci guarda in volto - e noi lo riveliamo a lui.
Dentro questo orizzonte di luce e d’ombra, di vicinanza e di distanza, possiamo entrare nella grande preghiera di Salomone nel suo tempio. È una preghiera solenne, abbraccia l’intera storia della salvezza che dall’Egitto arriva fino alla distruzione del tempio di Gerusalemme e all’esilio, e forse oltre. È un canto individuale e collettivo; è ringraziamento, memoria e supplica, con incastonate alcune autentiche perle. Il suo centro è ancora l’esperienza dell’esilio: «Se nella terra in cui saranno deportati, rientrando in se stessi, torneranno a te supplicandoti nella terra della loro prigionia, dicendo: "Abbiamo peccato, siamo colpevoli, siamo stati malvagi", se torneranno a te con tutto il loro cuore e con tutta la loro anima nella terra dei nemici che li avranno deportati ... tu ascolta nel cielo, luogo della tua dimora, la loro preghiera e la loro supplica e rendi loro giustizia» (8,47-49).
È meravigliosa questa preghiera detta da Salomone e scritta da scribi deportati in Babilonia che stavano imparando una lezione essenziale: ci si salva nell’esilio "rientrando in se stessi" e "tornando a te [Dio]". Sono questi i due movimenti primi negli esili, che sono molto più radicali e decisivi del "ritornare a casa". Perché senza il "mi alzerò e andrò da mio padre" (Lc 15, 18), nessun ritorno è ritorno di salvezza - nella Bibbia e nella vita non è sufficiente tornare a casa perché terminino gli esili, come ci ha raccontato anche il Terzo Isaia.
L’esperienza dell’esilio ispira anche l’altra splendida preghiera di Salomone per lo straniero: «Anche lo straniero, che non è del tuo popolo Israele, se viene ... a pregare in questo tempio, tu ascolta nel cielo, luogo della tua dimora, e fa’ tutto quello per cui ti avrà invocato lo straniero» (8,41-43). Se la dimora di Dio è "il cielo" (ritornello costante) allora ogni uomo sotto il sole lo può pregare, perché questo Dio non è più imprigionato dai confini nazionali e il suo regno è la terra intera. Sono questi brani ispirati da una religiosità universalistica e inclusiva, scritti da un popolo che stava ricostruendo attorno al suo Dio diverso la sua identità nazionale ferita mortalmente, che fanno della Bibbia qualcosa a sua volta diverso da un libro che narra le vicende storiche e teologiche di un singolo popolo. Queste frasi, queste preghiere, potevano e dovevano non esserci in questi libri storici; e invece ci sono, come "fiori del male" generati lungo i fiumi di Babilonia. Solo un popolo che aveva conosciuto l’umiliazione di sentirsi straniero in un grande impero dai grandi dèi, poté capire che se c’è un Dio vero e se la terra non è solo popolata di idoli, allora questo deve ascoltare la preghiera di ogni persona; perché se il mio Dio non ascolta lo straniero allora non ha orecchie capaci di ascoltare neanche me, perché, semplicemente, è un banale idolo che sa operare solo dentro il suo finto recinto sacro. La fede biblica degli esiliati comprese che il suo Dio era diverso perché stava diventando il Dio di tutti.
L’umanesimo biblico e il cristianesimo ci hanno detto e ridetto che se c’è un Dio vero, deve essere il Dio di tutti. Lo sapevamo, ma lo abbiamo imparato veramente durante le guerre, le deportazioni, i campi di prigionia, nei soldati "nemici" nascosti dentro le nostre case, quando abbiamo saputo leggere, nel grande dolore, il "nome di Dio" sulla fronte di chi bussava alla nostra porta, di chi arrivava ai nostri confini e nei nostri porti. I nostri nonni e i nostri genitori lo avevano imparato, e su questa lezione della carne e del sangue hanno costruito e ricostruito l’Europa. Noi lo abbiamo dimenticato. Ma forse nel lungo esilio dell’umano che stiamo attraversando potremo ancora reimparare quel Nome.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA. PERDERE LA COSCIENZA DELLA LINGUA ("LOGOS") COSTITUZIONALE ED EVANGELICA GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI ... *
Politica.
Che cos’è il populismo? L’inganno della parte che vuole essere il tutto
Il politologo Yves Mény: le democrazie rappresentative si fondano sul popolo ma lo relegano a osservatore. Ma non c’è reale alternativa: un vero potere popolare finirebbe nelle mani dell’uomo forte
di Yves Mény (Avvenire, giovedì 20 giugno 2019)
Le democrazie sono al centro del desiderio politico. O almeno lo sono state per molto tempo e si sono identificate con la libertà, l’autonomia, l’auto-governo, con la vittoria della maggioranza e del numero sul singolo sovrano. La democrazia è, potremmo dire in sintesi, il desiderio della multitudine di sostituirsi al re, al dittatore o a un gruppo ristretto ma dominante, alle élites, alla casta, all’establishment. Ma la folla, le masse, l’aggregazione dei singoli, si trova di fronte ad un impasse, che nel mio recente libro pubblicato dal Mulino, Popolo ma non troppo ho denominato “malinteso democratico”.
Come unire infatti tutti questi atomi, attraversati da aspirazioni, interessi, emozioni cosi diversi da impedire loro di fatto di unirsi? Nel corso della storia molti sono stati i tentativi: ridurre, ad esempio, la dimensione territoriale della città per rendere possibile la conoscenza e l’unione di tutti. È il sogno greco, rivisto da Rousseau; ma non possiamo scordare la deriva delle colonie greche di Sicilia dove il despota finisce per incarnare il demos.
Una variante diversa è offrire una visione alternativa del popolo. È il realismo senza pietà di Hobbes dove il sovrano, sulla copertina del suo libro, è rappresentato da mille corpi di cittadini assorbiti, ingoiati e capovolti per dar corpo all’unità. C’è poi il sogno-incubo della rivoluzione russa di dare il potere a una classe unica al prezzo di eliminare qualche privilegiato; e c’è il realismo all’inglese che “inventa” il principio rappresentativo per incanalare le aspirazioni di molti nella fattibilità pratica del governo di pochi; e c’è la non meno realistica e fredda osservazione di Gaetano Mosca sull’ineluttabilità delle élites, la doccia fredda sul desiderio.
"Unirsi in un popolo" è il desiderio che continuamente si ripresenta di trasformare la diversità in una unità metafisica. «L’Italia è fatta, bisogna fare gli italiani» constatava Massimo d’Azeglio; Eugen Weber descrive la trasformazione dei francesi di fine Ottocento «da contadini a cittadini»; Benedict Anderson evoca la nazione come «comunità sognata». Per farla breve, il “popolo” non smette di desiderare di diventare anche una realtà sociale e non soltanto un’utopia magica.
Purtroppo la contraddizione interna è sempre in agguato: il popolo come concetto è indispensabile per legittimare l’accesso al potere. Anche le dittature pretendono di governare in nome e per il bene del popolo. E questo popolo che le democrazie hanno posto sul piedestallo per poi relegarlo nel ruolo di osservatore degli atti dei governanti si rivolta sempre di più per far avverare l’utopia di Lincoln «Government of the people, by the people, for the people».
In altre parole, il popolo americano, ma anche tutti gli altri, fanno proprie le tre prime parole della costituzione americana «We the People...», che è una splendida frase per parlare di legittimazione, ma è una pia illusione quando si tratta di governare.
Si potrebbe ricordare la reazione di un francese chiamato ad approvare la costituzione scritta da Napoleone: «Che c’è nella costituzione?» E la risposta fu «Bonaparte»...
Non c’è alternativa alla necessità della rappresentanza: non vi è mai stato un “vero” potere popolare e se ci fosse si correrebbe il rischio di radunarsi di fatto sotto le ali di un uomo forte, di un salvatore. Dio ci salvi da questa fatalità! Il desiderio di sentirsi uniti in un popolo non è soltanto forte, inganna, inebria.
Qualunque gruppo può pretendere di essere il popolo anche quando si tratta di una parte di popolo molto ridotta, come quella che vota sulla piattaforma Rousseau o quando i Gilets jaunes che da sei mesi pretendono di essere il «popolo» prendono più o meno 1,5% dei voti alle elezioni europee. La parte pretende cioè di essere il tutto.
Ovviamente ci sono anche buone ragioni per portare avanti le proprie rivendicazioni perché il sistema rappresentativo è sempre (al meglio) il governo della maggioranza o, più spesso, appoggia su una minoranza sociologica trasformata in maggioranza politica grazie ai miracoli dei sistemi elettorali. La situazione non sembra particolarmente felice.
Ma bisogna essere lucidi: l’unanimità, che sulla carta sembra il sistema più rispettoso della volontà del popolo è un sistema “blocca-tutto” ed esiste soltanto nelle piccole tribù primitive, benché sia attivo anche là dove la ricerca del consenso si trasforma in molteplici veti incrociati: l’Italia ne sa qualche cosa...
Ricordiamoci che l’unanimismo sfocia nella dittatura e soprattutto nella dittatura delle menti. Il populismo, «l’ideologia del popolo» rischia quindi di essere una grande illusione e un inganno. Riconosciamogli però un merito: rimescola le carte e spesso pone fine a quello che il poeta Paul Eluard chiamava «il duro desiderio di durare».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
MESSAGGIO EVANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER (E DI TUTTI I PAPI).
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
IL PRIMOGENITO TRA MOLTI FRATELLI E LA COSTITUZIONE DOGMATICA DEL SOLE DI ORIENTE E DI OCCIDENTE...*
1. La gioia della verità (Veritatis gaudium) esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio[1]. La verità, infatti, non è un’idea astratta, ma è Gesù, il Verbo di Dio in cui è la Vita che è la Luce degli uomini (cfr. Gv 1,4), il Figlio di Dio che è insieme il Figlio dell’uomo. Egli soltanto, «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, rivela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»[2].
Nell’incontro con Lui, il Vivente (cfr Ap 1,18) e il Primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), il cuore dell’uomo sperimenta già sin d’ora, nel chiaroscuro della storia, la luce e la festa senza più tramonto dell’unione con Dio e dell’unità coi fratelli e le sorelle nella casa comune del creato di cui godrà senza fine nella piena comunione con Dio. Nella preghiera di Gesù al Padre: «perché tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi» (Gv 17,21) è racchiuso il segreto della gioia che Gesù ci vuole comunicare in pienezza (cfr 15,11) da parte del Padre col dono dello Spirito Santo: Spirito di verità e di amore, di libertà, di giustizia e di unità. [:::] "(Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» di Papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche, 29.01.2018. Proemio)
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Catechesi sugli Atti degli Apostoli: 3. «Lingue come di fuoco» (At 2,3). La Pentecoste e la dynamis dello Spirito che infiamma la parola umana e la rende Vangelo *
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Cinquanta giorni dopo la Pasqua, in quel cenacolo che è ormai la loro casa e dove la presenza di Maria, madre del Signore, è l’elemento di coesione, gli Apostoli vivono un evento che supera le loro aspettative. Riuniti in preghiera - la preghiera è il “polmone” che dà respiro ai discepoli di tutti i tempi; senza preghiera non si può essere discepolo di Gesù; senza preghiera noi non possiamo essere cristiani! È l’aria, è il polmone della vita cristiana -, vengono sorpresi dall’irruzione di Dio. Si tratta di un’irruzione che non tollera il chiuso: spalanca le porte attraverso la forza di un vento che ricorda la ruah, il soffio primordiale, e compie la promessa della “forza” fatta dal Risorto prima del suo congedo (cfr At 1,8). Giunge all’improvviso, dall’alto, «un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano» (At 2,2).
Al vento poi si aggiunge il fuoco che richiama il roveto ardente e il Sinai col dono delle dieci parole (cfr Es 19,16-19). Nella tradizione biblica il fuoco accompagna la manifestazione di Dio. Nel fuoco Dio consegna la sua parola viva ed energica (cfr Eb 4,12) che apre al futuro; il fuoco esprime simbolicamente la sua opera di scaldare, illuminare e saggiare i cuori, la sua cura nel provare la resistenza delle opere umane, nel purificarle e rivitalizzarle. Mentre al Sinai si ode la voce di Dio, a Gerusalemme, nella festa di Pentecoste, a parlare è Pietro, la roccia su cui Cristo ha scelto di edificare la sua Chiesa. La sua parola, debole e capace persino di rinnegare il Signore, attraversata dal fuoco dello Spirito acquista forza, diventa capace di trafiggere i cuori e di muovere alla conversione. Dio infatti sceglie ciò che nel mondo è debole per confondere i forti (cfr 1Cor 1,27).
La Chiesa nasce quindi dal fuoco dell’amore e da un “incendio” che divampa a Pentecoste e che manifesta la forza della Parola del Risorto intrisa di Spirito Santo. L’Alleanza nuova e definitiva è fondata non più su una legge scritta su tavole di pietra, ma sull’azione dello Spirito di Dio che fa nuove tutte le cose e si incide in cuori di carne.
La parola degli Apostoli si impregna dello Spirito del Risorto e diventa una parola nuova, diversa, che però si può comprendere, quasi fosse tradotta simultaneamente in tutte le lingue: infatti «ciascuno li udiva parlare nella propria lingua» (At 2,6). Si tratta del linguaggio della verità e dell’amore, che è la lingua universale: anche gli analfabeti possono capirla. Il linguaggio della verità e dell’amore lo capiscono tutti. Se tu vai con la verità del tuo cuore, con la sincerità, e vai con amore, tutti ti capiranno. Anche se non puoi parlare, ma con una carezza, che sia veritiera e amorevole.
Lo Spirito Santo non solo si manifesta mediante una sinfonia di suoni che unisce e compone armonicamente le diversità ma si presenta come il direttore d’orchestra che fa suonare le partiture delle lodi per le «grandi opere» di Dio. Lo Spirito santo è l’artefice della comunione, è l’artista della riconciliazione che sa rimuovere le barriere tra giudei e greci, tra schiavi e liberi, per farne un solo corpo. Egli edifica la comunità dei credenti armonizzando l’unità del corpo e la molteplicità delle membra. Fa crescere la Chiesa aiutandola ad andare al di là dei limiti umani, dei peccati e di qualsiasi scandalo.
La meraviglia è tanta, e qualcuno si chiede se quegli uomini siano ubriachi. Allora Pietro interviene a nome di tutti gli Apostoli e rilegge quell’evento alla luce di Gioele 3, dove si annuncia una nuova effusione dello Spirito Santo. I seguaci di Gesù non sono ubriachi, ma vivono quella che Sant’Ambrogio definisce «la sobria ebbrezza dello Spirito», che accende in mezzo al popolo di Dio la profezia attraverso sogni e visioni. Questo dono profetico non è riservato solo ad alcuni, ma a tutti coloro che invocano il nome del Signore.
D’ora innanzi, da quel momento, lo Spirito di Dio muove i cuori ad accogliere la salvezza che passa attraverso una Persona, Gesù Cristo, Colui che gli uomini hanno inchiodato al legno della croce e che Dio ha risuscitato dai morti «liberandolo dai dolori della morte (At 2,24). È Lui che ha effuso quello Spirito che orchestra la polifonia di lodi e che tutti possono ascoltare. Come diceva Benedetto XVI, «la Pentecoste è questo: Gesù, e mediante Lui Dio stesso, viene a noi e ci attira dentro di sé» (Omelia, 3 giugno 2006). Lo Spirito opera l’attrazione divina: Dio ci seduce con il suo Amore e così ci coinvolge, per muovere la storia e avviare processi attraverso i quali filtra la vita nuova. Solo lo Spirito di Dio infatti ha il potere di umanizzare e fraternizzare ogni contesto, a partire da coloro che lo accolgono.
Chiediamo al Signore di farci sperimentare una nuova Pentecoste, che dilati i nostri cuori e sintonizzi i nostri sentimenti con quelli di Cristo, così che annunciamo senza vergogna la sua parola trasformante e testimoniamo la potenza dell’amore che richiama alla vita tutto ciò che incontra.
* PAPA FRANCESCO
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 19 giugno 2019 (ripresa parziale).
CHARIS in Vaticano. Il nostro sogno è fare comunione. Ce lo chiede il Papa
I responsabili del Rinnovamento Carismatico Cattolico si incontrano in Vaticano da oggi fino a sabato 8 giugno per pregare insieme in attesa dell’apertura ufficiale di Charis
di Emanuela Campanile (Vatican News, 06 giugno 2019)
Città del Vaticano Si sono dati appuntamento in Vaticano - Aula Paolo VI - e arrivano da tutto il mondo. Sono più di 550 e sono i responsabili del Rinnovamento Carismatico Cattolico. Vogliono pregare insieme e mettersi all’ascolto dello Spirito Santo in attesa dell’inizio ufficiale di Charis previsto proprio domenica 9 giugno: solennità di Pentecoste. Voluto espressamente da Papa Francesco, Charis (Catholic Charismatic Renewal International Service) segna una nuova tappa per il Rinnovamento Carismatico Cattolico come corrente di grazia nel cuore della Chiesa.
Il Charis
Si tratta di un servizio di comunione tra tutte le realtà del Rinnovamento Carismatico Cattolico che, nel mondo, conta attualmente più di 120 milioni di cattolici che vivono l’esperienza del battesimo nello Spirito in gruppi di preghiera, comunità, scuole di evangelizzazione, reti di comunicazioni e ministeri vari. Quando nella solennità di Pentecoste prenderà ufficialmente il via, l’Iccrs e il Catholic Fraternity cesseranno di esistere.
Rinnovamento come corrente di grazia
"Il nostro sogno è fare ciò che il Papa ci ha chiesto", spiega nell’intervista Jean-Luc Moens, il professore belga nominato moderatore di Charis. "Lui parla del Rinnovamento carismatico come di una corrente di grazia nella Chiesa, riprendendo l’espressione dal cardinale Suenens, il quale voleva sottolineare che il Rinnovamento Carismatico non è un movimento, perché - prosegue il professore - in un movimento c’è un’appartenenza; le persone sono o dentro o fuori. Dunque, c’è una separazione. Una corrente di grazia è un’altra cosa. Il cardinale faceva il paragone con la corrente del Golfo nell’Atlantico che riscalda tutto l’oceano e poi sparisce. Allora, forse posso dire qualcosa di abbastanza strano, ma - conclude - il nostro sogno è quello di sparire quando tutta la Chiesa avrà scoperto il battesimo nello Spirito Santo".
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALL’INCONTRO PROMOSSO DA CARITAS INTERNATIONALIS
Sala Clementina
Lunedì, 27 maggio 2019
Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle,
sono lieto di avere questa opportunità di incontrarvi in occasione della vostra XXI Assemblea Generale. Ringrazio il Cardinale Tagle per le parole che mi ha indirizzato e rivolgo un cordiale saluto a tutti voi, alla grande famiglia della Caritas e a quanti nei vostri rispettivi Paesi si impegnano nel servizio della carità.
In questi giorni, provenendo da ogni parte del mondo, avete vissuto un momento significativo nella vita della Confederazione, finalizzato non solo ad adempiere ai doveri statutari, ma anche a rafforzare i vincoli di comunione reciproca nell’adesione al Successore di Pietro, a motivo dello speciale legame esistente tra la vostra organizzazione e la Sede Apostolica. Infatti, San Giovanni Paolo II volle conferire a Caritas Internationalis la personalità giuridica canonica pubblica, chiamandovi a condividere la missione stessa della Chiesa nel servizio della carità.
Oggi vorrei soffermarmi a riflettere brevemente con voi su tre parole-chiave: carità, sviluppo integrale e comunione.
Considerata la missione che la Caritas è chiamata a svolgere nella Chiesa, è importante tornare sempre a riflettere assieme sul significato della stessa parola carità. La carità non è una sterile prestazione oppure un semplice obolo da devolvere per mettere a tacere la nostra coscienza. Quello che non dobbiamo mai dimenticare è che la carità ha la sua origine e la sua essenza in Dio stesso (cfr Gv 4,8); la carità è l’abbraccio di Dio nostro Padre ad ogni uomo, in modo particolare agli ultimi e ai sofferenti, i quali occupano nel suo cuore un posto preferenziale. Se guardassimo alla carità come a una prestazione, la Chiesa diventerebbe un’agenzia umanitaria e il servizio della carità un suo “reparto logistico”. Ma la Chiesa non è nulla di tutto questo, è qualcosa di diverso e di molto più grande: è, in Cristo, il segno e lo strumento dell’amore di Dio per l’umanità e per tutto il creato, nostra casa comune.
La seconda parola è sviluppo integrale. Nel servizio della carità è in gioco la visione dell’uomo, la quale non può ridursi a un solo aspetto ma coinvolge tutto l’essere umano in quanto figlio di Dio, creato a sua immagine. I poveri sono anzitutto persone,e nei loro volti si cela quello di Cristo stesso. Essi sono sua carne, segni del suo corpo crocifisso, e noi abbiamo il dovere di raggiungerli anche nelle periferie più estreme e nei sotterranei della storia con la delicatezza e la tenerezza della Madre Chiesa. Dobbiamo puntare alla promozione di tutto l’uomo e di tutti gli uomini affinché siano autori e protagonisti del proprio progresso (cfr S. Paolo VI, Enc. Populorum progressio, 34).
Il servizio della carità deve, pertanto, scegliere la logica dello sviluppo integrale come antidoto alla cultura dello scarto e dell’indifferenza. E rivolgendomi a voi, che siete la Caritas, voglio ribadire che «la peggiore discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 200). Voi lo sapete bene: la grandissima parte dei poveri «possiede una speciale apertura alla fede; hanno bisogno di Dio e non possiamo tralasciare di offrire loro la sua amicizia, la sua benedizione, la sua Parola, la celebrazione dei Sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e di maturazione nella fede» (ibid.). Pertanto, come ci insegna anche l’esempio dei Santi e delle Sante della carità, «l’opzione preferenziale per i poveri deve tradursi principalmente in un’attenzione religiosa privilegiata e prioritaria» (ibid.).
La terza parola è comunione, che è centrale nella Chiesa, definisce la sua essenza. La comunione ecclesiale nasce dall’incontro con il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che, mediante l’annuncio della Chiesa, raggiunge gli uomini e crea comunione con Lui stesso e con il Padre e lo Spirito Santo (cfr 1 Gv 1,3). È la comunione in Cristo e nella Chiesa che anima, accompagna, sostiene il servizio della carità sia nelle comunità stesse sia nelle situazioni di emergenza in tutto il mondo. In questo modo, la diakonia della carità diventa strumento visibile di comunione nella Chiesa (cfr Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 4). Per questo, come Confederazione siete accompagnati dal Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, che ringrazio per il lavoro che svolge ordinariamente e, in particolare, per il sostegno alla missione ecclesiale di Caritas Internationalis. Ho detto che siete accompagnati: non siete “sotto”.
Riprendendo questi tre aspetti fondamentali per vivere nella Caritas, ossia la carità, lo sviluppo integrale e la comunione, vorrei esortarvi a viverli con stile di povertà, di gratuità e di umiltà.
Non si può vivere la carità senza avere relazioni interpersonali con i poveri: vivere con i poveri e per i poveri. I poveri non sono numeri ma persone. Perché vivendo con i poveri impariamo a praticare la carità con lo spirito di povertà, impariamo che la carità è condivisione. In realtà, non solo la carità che non arriva alla tasca risulta una falsa carità, ma la carità che non coinvolge il cuore, l’anima e tutto il nostro essere è un’idea di carità ancora non realizzata.
Occorre essere sempre attenti a non cadere nella tentazione di vivere una carità ipocrita o ingannatrice, una carità identificata con l’elemosina, con la beneficienza, oppure come “pillola calmante” per le nostre inquiete coscienze. Ecco perché si deve evitare di assimilare l’operato della carità con l’efficacia filantropica o con l’efficienza pianificatrice oppure con l’esagerata ed effervescente organizzazione.
Essendo la carità la più ambita delle virtù alla quale l’uomo possa aspirare per poter imitare Dio, risulta scandaloso vedere operatori di carità che la trasformano in business: parlano tanto della carità ma vivono nel lusso o nella dissipazione oppure organizzano Forum sulla carità sprecando inutilmente tanto denaro. Fa molto male constatare che alcuni operatori di carità si trasformano in funzionari e burocrati.
Ecco perché vorrei ribadire che la carità non è un’idea o un pio sentimento, ma è l’incontro esperienziale con Cristo; è il voler vivere con il cuore di Dio che non ci chiede di avere verso i poveri un generico amore, affetto, solidarietà, ecc., ma di incontrare in loro Lui stesso (cfr Mt 25,31-46), con lo stile di povertà.
Cari amici, vi ringrazio, a nome di tutta la Chiesa, per quello che fate con e per tanti fratelli e sorelle che fanno fatica, che sono lasciati ai margini, che sono oppressi dalle schiavitù dei nostri giorni, e vi incoraggio ad andare avanti! Possiate tutti voi, in comunione con le comunità ecclesiali a cui appartenete e di cui siete espressione, continuare a dare con gioia il vostro contributo perché cresca nel mondo il Regno di Dio, Regno di giustizia, di amore e di pace. Vi nutra e vi illumini sempre il Vangelo, e vi guidi l’insegnamento e la cura pastorale della madre Chiesa.
Che il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie.
NICODEMO 0 DELLA NASCITA: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3). *
Luca, l’evangelista delle donne (blog di Gianfranco Ravasi, Cardinale arcivescovo e biblista)
Il caso della donna dai sette mariti
di Gianfranco Ravasi (Famiglia Cristiana, 16 maggio 2019)
Siamo in pieno periodo pasquale ed è quindi significativo affrontare un tema connesso con la risurrezione, un argomento che già ai tempi di Gesù era oggetto di dispute con posizioni antitetiche. Noi consideriamo il soggetto secondo un curioso profilo femminile. Si tratta di un caso estremo ipotetico che gli avversari propongono a Gesù per metterlo in difficoltà (l’episodio, citato anche da Matteo e Marco, è da leggere in Luca 20,27-40). Nell’Antico Testamento era codificata una prassi secondo la quale, se un uomo sposato decedeva senza figli, l’eventuale fratello ne doveva sposare la vedova, così da assicurare una discendenza e una memoria al defunto.
Si trattava del cosiddetto “levirato” (dal latino levir, “cognato”), come facilmente si può comprendere da chi era coinvolto in questa normativa (Deuteronomio 25,5-10). Il nostro compito ora è spiegare il caso limite addotto dagli avversari di Gesù appartenenti alla corrente aristocratico-conservatrice dei sadducei a prevalenza sacerdotale. Essi negavano la risurrezione perché tale dottrina, pur presente nella Bibbia (si veda Ezechiele 37), era assente nella Torah (la Legge), ossia nei primi cinque libri della Sacra Scrittura.
Essi puntano a mettere in imbarazzo il rabbì di Nazaret prospettandogli una catena di “levirati” che hanno per protagonista una sola donna: ben sette fratelli subentrano in matrimoni successivi, morendo però tutti prima di aver assicurato una discendenza alla vedova e, quindi, al loro primo fratello defunto. Il paradosso fittizio è introdotto per costringere Gesù a schierarsi con loro contro i farisei - l’altra corrente giudaica avversaria - negando la risurrezione che questi ultimi sostenevano come dottrina di fede. Infatti, sogghignando, alla fine gli domandano: «Alla risurrezione, di quale dei sette la donna sarà moglie?».
Cristo, nella sua risposta, non cade nel tranello e replica volando alto: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio» (Luca 20,34-36). Egli nega, così, una lettura “materialistica” della risurrezione. E aggiunge una motivazione teologica ulteriore, citando un passo dell’incontro di Mosè con il Signore al roveto ardente del Sinai: «Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui» (Luca 20,37-38; cf. Esodo 3,6).
Dio non si lega a cadaveri, ma a esseri viventi ai quali apre un orizzonte di vita oltre la morte secondo categorie differenti rispetto a quelle meramente “carnali”, basate sulla nostra storia che si muove sulla base delle coordinate spazio-temporali. Si tratta di un nuovo ordine di rapporti, di una nuova creazione, di un orizzonte nel quale i vincoli parentali e sociali sono trasfigurati. Queste parole di Gesù avevano conquistato quel grande filosofo e scienziato credente che fu Blaise Pascal. A partire dal 1654 fino alla morte (1662) egli le portò sempre con sé, scritte su un foglio, cucito nella fodera del farsetto, intitolato “Fuoco”, e scoperto alla morte del pensatore da un domestico.
Eccone il testo modulato sulle parole di Gesù, commentate liberamente da Pascal: «Dio d’Abramo, Dio d’Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti. Certezza, certezza. Sentimento. Gioia. Pace. Dio di Gesù Cristo. Dio mio e Dio vostro. Il tuo Dio sarà il mio Dio. Oblio del mondo e di tutto fuorché di Dio. Egli non si trova se non per le vie indicate dal Vangelo».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala
Pianeta Terra. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana...*
Terrapiattisti in raduno a Palermo: “Sveleremo il grande inganno”
di LAURA ANELLO (La Stampa, 11.05.2019)
PALERMO Dicono che la terra è piatta, un disco che volteggia nello spazio. Sostengono che le immagini della Nasa sono farlocche, che lo sbarco sulla Luna è una bugia, che gli astronauti sono abili attori, che il Gps funziona perché le antenne sono poste in cima a misteriosi grattacieli sparsi per il mondo e persino che a protezione di questo “disco volante” su cui vive l’umanità ci sono montagne di ghiaccio color smeraldo alte quattrocento chilometri sorvegliate da guardiani millenari.
Eppure, domani, il raduno nazionale dei “terrapiattisti” - così si chiamano gli alfieri di questa teoria - convocato all’albergo Garibaldi di Palermo, ha attratto cento persone e pure l’interesse di Beppe Grillo, che aveva annunciato la sua presenza in nome del libero pensiero. “Voglio stare in mezzo a un po’ di cervelli che non scappano davanti a nulla, nessun pregiudizio, nessuna legge della fisica è definitiva”. In realtà non si è ancora iscritto (quota di partecipazione 20 euro, senza sconti per nessuno) e lo staff di Grillo ha fatto sapere che non verrà. Ma gli organizzatori non escludono che possa arrivare a sorpresa: “Se è interessato alle nostre teorie, lo inviterò a confrontarsi mezz’ora con noi”, dice Agostino Favari, uno dei relatori. Inizia la giornata con la Cucina de La Stampa, la newsletter di Maurizio Molinari
Di sicuro, i terrapiattisti sono, per così dire, molto oltre il grillismo inteso come sfiducia nel sistema, nelle “competenze” e nelle verità della scienza ufficiale. Ne ha fatto le spese il povero astronauta Umberto Guidoni che, invitato da Le Iene a un confronto con due esponenti di spicco del terrapiattisti, alla fine si è fatto cadere le braccia di fronte a una contestazione da pochade: “Se il pollo si brucia in forno sotto la carta argentata, perché un astronauta dovrebbe resistere al calore del sole dentro la navicella”? Sì, perché la teoria della terra piatta (e quindi dell’assenza della curvatura terrestre) trascina via pezzo a pezzo secoli di acquisizioni e di dimostrazioni scientifiche, cancellando con una spugna Galileo, Einstein e pure Darwin. Non esisterebbe neanche la forza di gravità e sarebbe una fandonia l’evoluzione umana. I dinosauri? Roba da Disneyland. Le ossa che sono state ritrovate apparterebbero ai giganti che hanno popolato la terra prima di noi, e che hanno realizzato costruzioni a loro misura come - ebbene sì - il porticato di San Pietro e gli archi del duomo di Milano.
Per non dire, come i relatori sosterranno domani a congresso, che in realtà siamo nel 1019, perché il calendario è stato mistificato con l’aggiunta di mille anni di storia e che forse Titania, Lusitania e Queen Elisabeth erano la stessa nave. A parlare dal palco del raduno, oltre a Favari che in tasca ha una laurea in Ingegneria (“Ma non dirò nient’altro di quello che faccio nella vita”), saranno Albino Galuppini (una laurea in Scienze agrarie, di professione agricoltore), Calogero Greco e Morena Morlini.
Domenica 12 maggio illustreranno relazioni e risponderanno alle domande per otto ore (dalle 9 alle 19 con una pausa pranzo dalle 13 alle 14.30) su argomenti come la differenza di pressione tra l’atmosfera e lo spazio siderale, l’astronomia zetetica, il dimenticato impero dei giganti - quelli oscurati da Bernini e Michelangelo, forse figure d’invenzione anche loro - l’orbita del sole sulla terra piatta, l’egocentrismo della stella polare. E naturalmente, sul “rifiuto dell’informazione”. Che, ahinoi, ancora non crede in queste nuove verità. Come non ci crede il Comune di Palermo, che ha negato il patrocinio e diffidato gli organizzatori dall’utilizzare il logo istituzionale nonostante loro abbiamo invitato “tutte le persone rappresentative delle organizzazioni di potere, a partire dal presidente della Regione siciliana, il capo della polizia di Stato della Sicilia, dei carabinieri e delle guardia di finanza, aggiungendo doverosamente il capo del servizio segreto interno e del servizio segreto militare della Sicilia. E pure il cardinale. Oltre che gruppi filosofici buddisti, steineriani, amici di Osho, yoga”. L’obiettivo è svelare il grande abbaglio (“Quanti danni fa la scuola”), l’impostura, l’inganno, il complotto. Squarciare il velo da Truman Show che da millenni oscura il cielo degli umani. Un velo piatto, s’intende.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
FACHINELLI E FREUD NELLA “NAVE” DI GALILEI: LA CONVERSAZIONE CONOSCITIVA (IL NUOVO "CIRCOLO ERMENEUTICO").
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
ALBERT EINSTEIN, LA MENTE ACCOGLIENTE. L’universo a cavallo di un raggio di luce (non di un manico di scopa!).
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
VITA E FILOSOFIA: "NICODEMO O DELLA NASCITA". Sulla strada di Enzo Paci.... *
Idee.
Se il laico Polito, come Nicodemo, vuole risorgere a nuova vita
In un libro il giornalista affronta da non credente l’urgenza personale e sociale di trovare una strada alternativa all’imperante e acritico giovanislimo consumistico trovando una sponda nel Vangelo
di Francesco Ognibene (Avvenire, martedì 30 aprile 2019)
«Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?». Lo stupore di Nicodemo nel colloquio notturno con Gesù, riferito dal Vangelo di Giovanni, condensa l’eterna incomprensione dell’uomo rispetto alla possibilità di «rinascere dall’alto», di ricominciare a qualunque età come il Signore propone all’inquieto fariseo non più sazio di quel che è e che sa, tanto da interrogarsi su di sé, ma senza darlo a vedere (e infatti va dal Maestro al riparo delle tenebre). Il dialogo sotto la volta stellata propone la ricerca senza fine di chi per esperienza e posizione sociale potrebbe sentirsi a posto e che invece si sente attratto dalla possibilità solo intravista di scoprire, lui già maturo, la possibilità di un nuovo inizio.
La domanda di Nicodemo torna con prepotenza tra le pagine del recente libro del giornalista Antonio Polito Prove tecniche di resurrezione. Come riprendersi la propria vita (Marsilio), che in una premessa e dieci sfide lanciate alla vita quotidiana traccia un laicissimo percorso autobiografico attraverso «il ribaltamento di prospettive che sto vivendo con l’avanzare dell’età», cioè l’inesorabile cernita nel proprio zaino esistenziale quando si veleggia ormai oltre i 60 nella più apparente normalità, ma con una contabilità dell’essenziale e del superfluo in pieno svolgimento nella stiva del cuore. Si tratta di decidere se lasciarla inascoltata fingendosi giovani per sempre oppure cogliere senza patemi quello che Polito definisce «avviso di mortalità», respingendo la pressione dello «spirito del tempo» che con tono suadente «suggerisce che sentirsi invecchiati sia indice di un disagio psichico». Non è «la solita crisi di mezza età», ma una vera e propria «rivelazione» dopo la quale a una coscienza sincera «tutto sembra diverso». E si capisce che serve un gesto forte, una ribellione. O una rinascita.
L’obbligo ingiunto alla fascia più adulta della società (numericamente sempre più rilevante) di vestire abiti di un’altra taglia ha una tale forza cogente che Polito ne parla come di una vera ideologia, il cui assunto centrale è che, «come il sesso nelle teorie del gender, l’età "è quella che uno si sceglie"». Un simile obbligo sociale finisce però col neutralizzare la domanda a occhi sgranati di Nicodemo: davvero posso risorgere in vita? La tensione «insopportabile» tra il sé percepito interiormente e l’immagine sociale a cui adeguarsi è «tra ciò che ormai si sa di essere e ciò che gli altri vorrebbero che si continuasse a fingere di essere». Prendere sul serio il tempo che passa ci pone nelle condizioni di comprendere il segreto di ogni età, le risorse impareggiabili che la connotano, il meglio di sé all’orizzonte e non dietro le spalle. Tattiche autoconsolatorie? Tutt’altro: è la chance di un nuovo inizio, quello che l’ascesi cristiana definisce "cominciare e ricominciare" e che nel libro Polito chiama «possibile resurrezione laica».
Il credente, per mano a Dio, mai dovrebbe pensarsi tramontato, perduto, spacciato, col count down che ticchetta. Ma anche i termini secolari risuonano di questa intuizione cristiana: il problema di chiudersi dietro le spalle la porta della pretesa di eterna giovinezza, annota Polito, «non si risolve provando a tornare ciò che si era prima, da giovane, trasformandosi in un replicante del sé di un tempo. Richiede piuttosto la soluzione opposta: si deve provare a rinascere, a cambiare se stessi, a diventare diversi e possibilmente migliori».
Di educazione cattolica, Polito riconosce che è proprio quell’imprinting a impedirgli oggi di credere nella risurrezione annunciata dai Vangeli: quella dai morti «è competenza dei credenti, e io non lo sono», ma «arrivato a questo punto della mia vita sento ugualmente un impellente e disperato bisogno di risorgere».
Come si fa a volere «una cosa in cui non si crede?». Domanda senza sconti a cui il giornalista risponde riconoscendo che «l’idea di un Dio motore primo dell’universo non è così inconciliabile con la ragione, né con le leggi della natura rivelateci dalla scienza di Darwin e di Einstein». E anche sulla morale di stampo cristiano l’autore afferma che «più mi guardo intorno e meno trovo in giro princìpi etici più moderni e condivisibili di quelli introdotti oltre duemila anni fa dal cristianesimo». Non solo: «L’etica cristiana mi pare oggi l’unica che ci consenta di mantenere un rapporto con la dimensione del "naturale", di fronte alla hybris di un’epoca che crede di potersene far beffe, fino a terminare la vita senza morte o ad affittare uteri per generarla».
Recuperare il senso del limite - sapersi mortali davvero -, con la domanda di Nicodemo nel cuore, libera dalla dittatura dell’efficienza e dello sciocco giovanilismo. Se i cristiani l’hanno perso di vista, è bello farselo ricordare da chi c’è arrivato per un suo diverso e liberissimo percorso. Disponendosi ad accogliere l’intuizione dell’uomo risorto in vita, così espressa poeticamente da papa Francesco: «Sussurratevelo fino a crederci: il vino migliore sta per arrivare».
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
HUSSERL CONTRO L’HOMUNCULUS: LA ’LEZIONE’ DI ENZO PACI AI METAFISICI VISIONARI (ATEI E DEVOTI) DI IERI (E DI OGGI).
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
A proposito del documento con cui Ratzinger si congeda dalla Chiesa
Un canto del cigno triste e inopportuno
di Marcello Neri (Il Mulino, 15 aprile 2019)
Inadeguato e inopportuno, così è il recente testo di Ratzinger sulla genesi sociale e culturale degli abusi nella Chiesa cattolica. Inadeguato non solo rispetto al tema che si vuole trattare, ma anche alla logica interna che si vorrebbe perseguire. Un affastellarsi di frasi, memorie personali, giudizi, osservazioni, senza un principio argomentativo che renda coerente l’impianto. Inopportuno per i tempi, le maniere, gli esiti prodotti.
Dalla storia, in cui a diritto l’aveva fatto entrare la scelta spirituale delle sue dimissioni da pontefice romano, Ratzinger ha iniziato a uscire quasi subito dopo: troppa devota obbedienza nominale al successore e troppe parole che andavano in altra direzione.
Ratzinger, volente o nolente, ha contribuito ad alimentare il mito di un «doppio» canonicamente e teologicamente mai esistito, reso possibile solo dalla logica mediatica e dalla perfidia di coloro che hanno piegato a essa il lento declino di un uomo che per mezzo secolo ha avuto in mano le sorti della Chiesa cattolica. Fino al punto di dover riconoscere, in un momento di folgorante obbedienza ecclesiale, di non esserne stato all’altezza.
L’ultimo scritto è quello di un uomo solo con i suoi demoni e i suoi conti da regolare, senza un amico che lo consigli saggiamente di tenere per sé le annotazioni su cui è stata costruita una vera e propria campagna di delegittimazione della Chiesa cattolica (dal Vaticano II all’analisi delle ragioni strutturali da parte di Francesco degli abusi sessuali).
Non solo, ma anche lo scritto di un uomo usato da amici privi di quel rispetto e di quella devozione con i quali, come Bibbia e sapienza popolare ci insegnano, dobbiamo circondare il tempo finale dei nostri vecchi. L’ethos uscito dal Sessantotto sarà traballante, finanche scanzonato e ignaro del prezzo che avrebbe fatto pagare alle generazioni future. Ma l’ethos che ha fatto di una «senile» prova di Ratzinger un piano di battaglia per imbrattare i muri del Vaticano II e ostacolare ancora una volta il percorso intrapreso dalla Chiesa sotto la mano severa di Francesco non è altro che il risentimento della rivalsa per il potere perduto.
Entrare nel merito dell’articolo di Ratzinger è quasi imbarazzante. Mi chiedo, d’altro lato, se si possa assistere inermi all’autodistruzione di una mente che ha fatto della propria personale visione del cristianesimo lo schema di base dell’ortodossia cattolica a livello globale.
Agghiacciante la parte che elabora le ragioni della dimissione dallo stato clericale dell’abusatore comprovato. Il crimine lede la fede dogmatica e per questa ragione deve essere perseguito in maniera implacabile. Le vittime nel testo di Ratzinger non esistono, ridotte al silenzio più assordante e alla dimenticanza del non venire nominate neanche en passant. Esse sono solo lo strumento mediante il quale il perpetratore violenta l’innocenza originaria e la perfezione perpetua della fede.
In questo momento, addebitare in toto le ragioni degli abusi nella Chiesa cattolica ai processi sociali e culturali di cambiamento degli assetti relazionali tra le generazioni, le persone, i singoli e le autorità costituite è semplicemente indice di cattivo gusto - anche nel caso uno sia profondamente convinto di ciò. Non si può dire, semplicemente perché si è visto che non è vero.
Distorsioni indebite e legittimazioni improprie del potere che circola nella Chiesa non possono essere ricondotte alla caduta morale di alcuni, neanche di molti dei suoi; si tratta piuttosto - come ha ricordato poco tempo fa monsignor Heiner Wilmer, vescovo di Hildesheim - di qualcosa che appartiene al dna della Chiesa stessa e come tale va trattato.
Non a tutti è concessa una platea globale per il proprio canto del cigno. Quando questo accade si dovrebbe raccogliere presso di sé le poche forze rimaste e prendere congedo con dignità dalla Chiesa che è di tutti. Altro è stato con Ratzinger, che si è lasciato avvincere da ancestrali paure e da una vendicatività di basso profilo, a uso e consumo di una combriccola di filibustieri che non provano un briciolo di sentimento per lui.
Che «un Dio che inizia con noi una storia d’amore e vuole includere in essa tutta la creazione» sia l’orizzonte ultimo da cui prende le mosse questo testo, così come esso si è prodotto e con gli effetti intenzionali che ha messo in circolo, è la piegatura drammatica del canto del cigno di Ratzinger.
RICORDARE! Oggi, il 20 marzo è la Giornata Mondiale della Felicità, istituita dall’ONU nel 2012 .....
Se «La felicità (εὐδαιμονία) è un buon dèmone (δαίμων)» (Marco Aurelio, "Pensieri"), l’ Evangelo, composto dalle radici greche εὐ (eu, "buono") e ἄγγελμα (angelma, "novella", "messaggio"), è quindi una buona novella, non un semplice "vangelo" (un "messaggio" con le istruzioni relative alla destinazione - van-gelo)!
Federico La Sala
«Guardate a Dio e sarete raggianti!» (Sal 34,6). Ma come un vitello d’oro di Mammona ("caritas") o come il bambino, figlio dell’Amore ("charitas") di Giuseppe e Maria?! *
Il Vangelo.
Pregare trasforma in ciò che si contempla
di Ermes Ronchi (Avvenire, giovedì 14 marzo 2019)
II Domenica di Quaresima
Anno C
Salì con loro sopra un monte a pregare. La montagna è la terra che si fa verticale, la più vicina al cielo, dove posano i piedi di Dio, dice Amos. I monti sono indici puntati verso il mistero e la profondità del cosmo, verso l’infinito, sono la terra che penetra nel cielo. Gesù vi sale per pregare. La preghiera è appunto penetrare nel cuore di luce di Dio. E scoprire che siamo tutti mendicanti di luce.
Secondo una parabola ebraica, Adamo in principio era rivestito da una pelle di luce, era il suo confine di cielo. Poi, dopo il peccato, la tunica di luce fu ricoperta da una tunica di pelle. Quando verrà il Messia la tunica di luce affiorerà di nuovo da dentro l’uomo finalmente nato, “dato alla luce”. Mentre pregava il suo volto cambiò di aspetto. Pregare trasforma: tu diventi ciò che contempli, ciò che ascolti, ciò che ami, diventi come Colui che preghi.
Parola di Salmo: «Guardate a Dio e sarete raggianti!» (Sal 34,6). Guardano i tre discepoli, si emozionano, sono storditi, hanno potuto gettare uno sguardo sull’abisso di Dio. Un Dio da godere, un Dio da stupirsene, e che in ogni figlio ha seminato una grande bellezza.
Rabbì, che bello essere qui! Facciamo tre capanne. Sono sotto il sole di Dio e l’entusiasmo di Pietro, la sua esclamazione stupita - che bello! - Ci fanno capire che la fede per essere pane, per essere vigorosa, deve discendere da uno stupore, da un innamoramento, da un “che bello!” gridato a pieno cuore. È bello stare qui. Qui siamo di casa, altrove siamo sempre fuori posto; altrove non è bello, qui è apparsa la bellezza di Dio e quella del volto alto e puro dell’uomo.
Allora «dovremmo far slittare il significato di tutta la catechesi, di tutta la morale, di tutta la fede: smetterla di dire che la fede è cosa giusta, santa, doverosa (e mortalmente noiosa aggiungono molti) e cominciare a dire un’altra cosa: Dio è bellissimo» (H.U. von Balthasar).
Ma come tutte le cose belle, la visione non fu che la freccia di un attimo: viene una nube, e dalla nube una voce.
Due sole volte il Padre parla nel Vangelo: al Battesimo e sul Monte. Per dire: è il mio figlio, lo amo. Ora aggiunge un comando nuovo: ascoltatelo. Il Padre prende la parola, ma per scomparire dietro la parola del Figlio: ascoltate Lui. La religione giudaico-cristiana si fonda sull’ascolto e non sulla visione. Sali sul monte per vedere il Volto e sei rimandato all’ascolto della Voce. Scendi dal monte e ti rimane nella memoria l’eco dell’ultima parola: Ascoltatelo. Il mistero di Dio è ormai tutto dentro Gesù, la Voce diventata Volto, il visibile parlare del Padre; dentro Gesù: bellezza del vivere nascosta, come una goccia di luce, nel cuore vivo di tutte le cose.
(Letture: Genesi 15,5-12.17-18; Salmo 26; Filippesi 3,17- 4,1; Luca 9,28-36)
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Philippe Barbarin, arcivescovo di Lione, condannato a sei mesi di prigione per avere coperto abusi sessuali
Il cardinale non aveva denunciato gli abusi sessuali di padre Bernard Preynat nei confronti di un gruppo scout tra il 1986 e il 1996 *
Il cardinale Barbarin condannato a sei mesi di prigione per non avere denunciato gli abusi sessuali di padre Bernard Preynat, accusato di aver abusato di un gruppo scout tra il 1986 e il 1996.
L’arcivescovo di Lione ha sempre ripetuto di non avere idea di cosa potesse essere giudicato colpevole. Di fatto il porporato, in Francia, incarna pienamente la crisi che la Chiesa sta attraversando con gli scandali di abusi e con gli insabbiamenti.
Dopo le audizioni, la procuratrice Charlotte Trabut non aveva formulato accuse precise né contro l’arcivescovo né contro i cinque ex membri della diocesi indagati assieme a lui. Una posizione difficile da tenere dopo le testimonianze, crude e struggenti, consegnate da alcuni ex scout.
Supportati dall’associazione di vittime ’La Parole libérée’, nove uomini hanno prima accusato padre Preynat di averli abusati - fatti per i quali quest’ultimo non è stato processato -, quindi hanno presentato denuncia contro chi avrebbe coperto gli abomini del sacerdote. In assenza di procedimenti giudiziari, nel 2017 hanno fatto richiesta di convocazione diretta davanti al tribunale, che ha garantito loro un processo, bypassando le indagini che si erano chiuse con un nulla di fatto.
"Non ho mai cercato di nascondere nulla, tantomeno questi fatti orribili", si è difeso il prelato 68enne davanti al giudice, spiegando di aver saputo degli abusi di Padre Preynat solo nel 2014, quando una vittima si confidò con lui. Però per l’avvocato di parte civile, Jean Boudot, il cardinale era a conoscenza dei fatti almeno dal 2010, quando parlò con il prete dei rumors che giravano attorno a lui.
La mancata denuncia di aggressione sessuale sui minori di 15 anni è classificata dal codice penale francese tra i reati di ostruzione alla giustizia. C’è però uno scambio di lettere avvenuto nel 2015 tra il vescovo e il Vaticano, che gli consigliava di licenziare il prete "evitando lo scandalo pubblico": istruzioni seguite alla lettera dal cardinale, per sua stessa ammissione.
Vaticano.
Il Papa apre gli archivi su Pio XII
L’annuncio all’udienza con l’Archivio Segreto Vaticano a ottanta anni dall’elezione di Eugenio Pacelli al Soglio di Pietro. "Condusse la Chiesa in anni tristi e bui"
di Enrico Lenzi (Avvenire, lunedì 4 marzo 2019)
Ottanta anni fa - il 2 marzo 1939 - il cardinale Eugenio Pacelli veniva eletto Papa assumendo il nome di Pio XII. E in occasione di quell’anniversario, papa Francesco, uno dei suoi successori, annuncia che presto gli studiosi e i ricercatori avranno la possibilità di consultare tutti i documenti su quel pontificato, sino alla morte di Pacelli, avvenuta a Castel Gandolfo il 9 ottobre 1958.
L’annuncio è arrivato durante l’udienza concessa all’Archivio Segreto Vaticano, che sta proprio curando, su desiderio già di Benedetto XVI, la preparazione di questa immensa documentazione lungo 19 anni di regno di Pio XII, parte della quale, a dire il vero, già consultabile per volere di Paolo VI (che di Pio XII fu per molti anni strettissimo collaboratore) e di Giovanni Paolo II.
"Condusse la Chiesa in tempi difficili"
Nel suo discorso papa Francesco ricorda come Pio XII "si trovò a condurre la Barca di Pietro in un momento fra i più tristi e bui del secolo Ventesimo, agitato e in tanta parte squarciato dall’ultimo conflitto mondiale, con il conseguente periodo di riassetto delle Nazioni e la ricostruzione postbellica, questa figura è stata già indagata e studiata in tanti suoi aspetti, a volte discussa e perfino criticata (si direbbe con qualche pregiudizio o esagerazione). Oggi essa è opportunamente rivalutata e anzi posta nella giusta luce per le sue poliedriche qualità: pastorali, anzitutto, ma poi teologiche, ascetiche, diplomatiche".
Alla luce di questo la decisione di papa Francesco di rendere consultabile tutta la documentazione sul pontificato di Pio XII, "sicuro che la seria e obiettiva ricerca storica saprà valutare nella sua giusta luce, con appropriata critica, momenti di esaltazione di quel Pontefice e, senza dubbio anche momenti digravi difficoltà, di tormentate decisioni, di umana e cristiana prudenza, che a taluni poterono apparire reticenza, e che invece furono tentativi, umanamente anche molto combattuti, per tenere accesa, nei periodi di più fitto buio e di crudeltà, la fiammella delle iniziative umanitarie, della nascosta ma attiva diplomazia, della speranza in possibili buone aperture dei cuori".
"La Chiesa non ha paura della storia"
Del resto, aggiunge Francesco, "la Chiesa non ha paura della storia, anzi, la ama, e vorrebbe amarla di più e meglio, come la ama Dio! Quindi, con la stessa fiducia dei miei predecessori, apro e affido ai ricercatori questo patrimonio documentario". Ora gli studiosi e i ricercatori dovranno attendere il 2 marzo 2020, giorno che il Papa ha fissato come quello di apertura della documentazione a 81 anni dalla elezione papale di Eugenio Pacelli.
"Svolgete un lavoro nel silenzio"
L’udienza è stata anche l’occasione per ringraziare tutto il personale per il lavoro che "svolge nel silenzio e lontano dai clamori, coltiva la memorai, e in un certo senso mi pare che esso possa essere paragonato alla coltivazione di un maestoso albero, i cui rami sono protesi verso il cielo, ma le cui radici sono solidamente ancorate nella terra"
Preti pedofili, j’accuse del vescovo Marx: il Vaticano ha insabbiato
Corpus demoni. Al Sinodo l’alto prelato tedesco schierato con Bergoglio: «Dossier sulle violenze distrutti o mai creati». Scontro con i conservatori
di Luca Kocci (il manifesto, 24.02.2019)
La Chiesa ha messo in atto un’azione sistematica di copertura degli abusi sessuali commessi dal clero per proteggere i preti pedofili, «calpestando» le vittime
La severa accusa alle gerarchie ecclesiastiche è arrivata dal cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco-Frisinga e presidente della Conferenza episcopale tedesca, intervenuto ieri mattina in Vaticano, all’incontro mondiale sulla «Protezione dei minori nella Chiesa». Una relazione, quella di Marx, in sintonia con il grido che, fuori dall’aula del Sinodo dove sono riuniti i 190 presidenti delle conferenze episcopali e superiori generali di tutto il mondo, si è levato dalle vittime degli abusi riunite nel network internazionale Eca global (Ending clerical abuse) le quali, in una marcia da piazza del Popolo a piazza San Pietro, hanno chiesto «tolleranza zero», invocando «la fine dell’impunità e degli insabbiamenti degli abusi da parte della Chiesa». «Gli abusi sessuali nei confronti di bambini e giovani sono dovuti all’abuso di potere», ha detto Marx. L’amministrazione ecclesiastica, ha aggiunto, «non ha compiuto la missione della Chiesa, al contrario, l’ha oscurata, screditata e resa impossibile. I dossier che avrebbero potuto documentare i terribili atti e indicare il nome dei responsabili sono stati distrutti o nemmeno creati. Invece dei colpevoli, a essere riprese sono state le vittime ed è stato imposto loro il silenzio. I procedimenti per perseguire i reati sono stati deliberatamente disattesi, anzi cancellati o scavalcati.
I diritti delle vittime sono stati calpestati». Si riferiva in particolare alle diocesi tedesche, ha precisato in conferenza stampa, sottolineando però che «la Germania non è un caso isolato».
Sono indispensabili «trasparenza e tracciabilità», per chiarire «chi ha fatto cosa, quando, perché e a quale fine, e cosa è stato deciso», ha proseguito l’arcivescovo di Monaco, secondo il quale non ci sono obiezioni che tengano: né rispetto al «segreto pontificio» (non vale per «i reati riguardanti l’abusi di minori») né alla preoccupazione di «rovinare la reputazione di sacerdoti innocenti o del sacerdozio e della Chiesa»: la «presunzione di innocenza», la «tutela dei diritti» e «la necessità di trasparenza non si escludono a vicenda». Anzi «non è la trasparenza a danneggiare la Chiesa, ma gli abusi commessi, la mancanza di trasparenza, l’insabbiamento».
È stata anche la volta delle donne.
Prima la testimonianza (venerdì sera) di una vittima che ha subito abusi da quando aveva undici anni da parte di un prete della sua parrocchia: «Da allora - ha raccontato - io che adoravo i colori e facevo capriole sui prati spensierata non sono più esistita», «restano incise nei miei occhi, nelle orecchie, nel naso, nel corpo, nell’anima tutte le volte in cui lui bloccava me bambina con una forza sovrumana, io mi anestetizzavo, restavo in apnea, uscivo dal mio corpo, cercavo disperatamente con gli occhi una finestra per guardare fuori, in attesa che tutto finisse». «Dobbiamo trovare il coraggio di parlare e denunciare - ha concluso -, pur sapendo che rischiamo di non essere credute o di dover vedere che l’abusatore se la cava con una piccola pena», «non può e non deve essere più così».
Poi la relazione di Veronica Openibo, religiosa nigeriana, superiora della Società del santo bambino Gesù, che ha rimarcato l’esistenza di un fenomeno conosciuto già da qualche anno ma ancora in ombra: la violenza subita dalla suore da parte di preti e religiosi, soprattutto in Africa. La Chiesa sta facendo qualcosa, ma «non è ancora abbastanza», ha aggiunto suor Openibo, che ha indicato alcuni problemi da affrontare, come «l’abuso di potere, il clericalismo, la discriminazione di genere», e alcune prassi da abolire: nascondere «per evitare di portare alla luce uno scandalo e gettare discredito sulla Chiesa»; e «la scusa che si debba rispetto ad alcuni sacerdoti in virtù della loro età avanzata e della loro posizione gerarchica».
Oggi il summit termina, con la messa e l’intervento del papa. Le posizioni sono emerse con chiarezza. I conservatori puntano il dito sull’omosessualità: sarebbe questa la causa degli abusi sessuali (però così non spiegano le violenze sulle donne). La maggioranza filo-Francesco indica invece nel clericalismo e nel potere la radice degli abusi e chiede creazione di strutture di ascolto autonome con il coinvolgimento di laici e donne, collaborazione e denuncia alle autorità civili, riforma del segreto pontificio, rimozione di preti colpevoli e vescovi collusi o complici.
Nemmeno sfiorato il tema del celibato obbligatorio - per molti osservatori il vero nodo del problema -, ma su questo punto anche Francesco è inamovibile. Proposte concrete, però, sono state avanzate. L’incontro non ha valore deliberativo, si tratterà quindi di vedere se ora diventeranno regole scritte. «Non crediamo che solo perché abbiamo iniziato a scambiare qualcosa tra di noi, tutte le difficoltà siano eliminate», ha concluso la giornata, con la celebrazione penitenziale. il vescovo ghanese Philip Naameh.
Il vertice
Il consigliere del Papa: «Distrutti i dossier sugli abusi nella Chiesa»
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 24.02.2019)
CITTÀ DEL VATICANO «Ora cerco di concentrarmi sul mio diritto divino di essere vivo». Un giovane cileno che fu abusato da un prete racconta la sua storia, chiude gli occhi e imbraccia il violino, le note di Bach risuonano nel silenzio della Sala Regia e delle gerarchie ecclesiali di tutto il mondo riunite per la «celebrazione penitenziale» guidata da Francesco. Prima del mea culpa del Papa («dobbiamo dire, come il figlio prodigo: Padre, ho peccato») e di cardinali e vescovi («confessiamo che abbiamo protetto dei colpevoli e ridotto al silenzio chi ha subito del male»), il Pontefice ha invitato all’«esame di coscienza» spiegando che «si rendono necessarie azioni concrete per le chiese locali»: l’incontro mondiale sulla protezione dei minori finisce con la messa di oggi ma l’essenziale si vedrà da domani.
La questione centrale è quella che ieri il cardinale Reinhard Marx, uno dei consiglieri più stretti del Papa, ha scandito senza perifrasi: «I dossier che avrebbero potuto documentare i terribili atti e indicare il nome dei responsabili sono stati distrutti o nemmeno creati. Invece dei colpevoli, a essere riprese sono state le vittime ed è stato imposto loro il silenzio. Le procedure e i procedimenti stabiliti per perseguire i reati sono stati deliberatamente disattesi, e anzi cancellati o scavalcati. I diritti delle vittime sono stati di fatto calpestati e lasciati all’arbitrio di singoli individui. Sono tutti eventi in netta contraddizione con ciò che la Chiesa dovrebbe rappresentare». Il cardinale, presidente dei vescovi tedeschi, ha spiegato più tardi che si riferiva in particolare a ciò che la Chiesa tedesca ha scoperto nella ricerca, durata tre anni, sugli abusi nelle sue diocesi. Ma «presumo che la Germania non sia un caso isolato», ha aggiunto.
La denuncia di Marx è la premessa di una serie di riforme, a cominciare dall’abolizione o almeno revisione del «segreto pontificio», definito dal documento «Secreta continere» del 1974.
Il cardinale Marx spiega che la «trasparenza» si deve accompagnare alla «tracciabilità» delle «procedure amministrative», in modo che chiunque possa sempre sapere «chi ha fatto che cosa, quando, perché e a quale fine, e che cosa è stato deciso, respinto o assegnato». E aggiunge: «Ogni obiezione basata sul segreto pontificio sarebbe rilevante solo se si potessero indicare motivi convincenti per cui il segreto pontificio si dovrebbe applicare al perseguimento di reati riguardanti l’abusi di minori. Allo stato attuale, io di questi motivi non ne conosco».
In questi giorni si è parlato di «nuove strutture legali» di controllo - legate ai metropoliti (le diocesi più grandi) e composte anche da laici, donne e uomini - cui i vescovi debbano «rendere conto». E di centri di ascolto per raccogliere denunce in ogni conferenza episcopale e diocesi. Ma soprattutto sono state le donne a scuotere le gerarchie. Dalla canonista Linda Ghisoni alla suora nigeriana Veronica Openibo, che ieri ha parlato di «mediocrità e ipocrisia» e avvertito: «Questa tempesta non passerà. Spero e prego che alla fine di questa conferenza sceglieremo deliberatamente di spezzare ogni cultura del silenzio». Suor Veronica, parlando accanto al Papa, ha evocato il cambio di linea nello scandalo cileno, all’inizio sottovalutato: «La ammiro, fratel Francesco, per essersi preso del tempo, da vero gesuita, per discernere e per essere abbastanza umile da cambiare idea, chiedere scusa e agire: un esempio per tutti noi».
La giornalista messicana Valentina Alazraki non l’ha mandata a dire, a cardinali e vescovi: «Vi aiuteremo a trovare le mele marce e a vincere le resistenze per allontanarle da quelle sane. Ma se voi non vi decidete in modo radicale a stare dalla parte dei bambini, delle mamme, delle famiglie, della società civile, avete ragione ad avere paura di noi, perché noi giornalisti, che vogliamo il bene comune, saremo i vostri peggiori nemici».
IL "DIO DI AMORE" DI (OVIDIO E) BRUNETTO LATINI E "L’AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE" DI DANTE.... *
Su Brunetto Latini, “Poesie”, a cura di Stefano Carrai
di Claudio Giunta (Domenicale del Sole 24 ore, 20 marzo 2016)
Il Tesoretto di Brunetto Latini non è certamente quel misconosciuto «capolavoro della letteratura allegorica» che diceva Jauss (ma come mai lo abbiamo preso sul serio?), ma è un modo eccellente per avvicinarsi alla poesia dei primi secoli; e questa nuova edizione a cura di Stefano Carrai è un modo eccellente per avvicinarsi al Tesoretto.
Si tratta di un poemetto, 2944 versi in tutto, scritto da Brunetto Latini al principio degli anni Settanta del Duecento. È uno strano ibrido. Comincia come un racconto di viaggio (il poeta-protagonista si trova a Roncisvalle, e qui incontra uno studente bolognese che gli comunica la sconfitta dei guelfi a Montaperti), prosegue come un trattato didascalico (la Natura personificata illustra al poeta l’ordinamento del cielo e della terra), poi come un trattato morale (il poeta incontra in successione le virtù, il dio d’Amore, il poeta Ovidio), e finisce con una bizzarra ‘Penitenza’, circa 500 versi in cui Brunetto riflette sulla caducità delle cose umane ed esorta un amico a cambiare vita come lui l’ha cambiata («che sai che sén tenuti», scrive, «un poco mondanetti»); dopodiché il racconto riprende e il protagonista si trova sul monte Olimpo, dove incontra il grande Tolomeo, «maestro di storlomia». Qui il testo s’interrompe di colpo.
Al di là però del contenuto, né originale né profondo, e al di là dello stile, senza veneri (anche perché imprigionato in una gabbia metrica da filastrocca: coppie di settenari a rima baciata), il Tesoretto è un testo interessantissimo perché è davvero un repertorio di topoi immaginativi, un campione di medievalità: c’è il viaggio nella foresta, c’è un mondo fantastico all’interno del quale il personaggio-poeta può dialogare via via con la Natura, con Ovidio o con Tolomeo, ci sono le ipostasi delle virtù e delle percezioni, che pescano dall’identico immaginario da cui hanno pescato gli sceneggiatori di Inside Out (Desianza=Joy, Paura=Fear): «Desïanza ... sforza malamente / d’aver presentemente / la cosa disïata / ed è sì disvïata / che non cura d’onore / né morte né romore, / se non che la Paura / la tira ciascun’ora, / sì che non osa gire / né solo un motto dire».
Il commento di Carrai è un commento esatto e intelligente. Sembra poco, ma è tantissimo, perché i commenti alla poesia (e soprattutto alla poesia antica) sono spesso un po’ stupidi. Chi ha studiato per anni un autore o un testo non si rassegna facilmente a farsi da parte, cioè a tacere una volta chiarito ciò che nel testo c’è da chiarire, ed eventualmente a far riflettere il lettore su ciò che il testo può dire sul suo autore o sulla mentalità dell’epoca in cui venne scritto: non si rassegna, gli viene, come diceva il dottor Johnson, «la fregola di dire qualcosa anche quando non c’è nulla da dire», o peggio - e la cosa è specialmente frequente nel campo della medievistica - gli viene la fregola di trovare verità nascoste, di sciogliere gli enigmi, il che porta spesso a postulare enigmi là dove non ce ne sono, onde una ridda di ipotesi e contro-ipotesi da stancare un causidico. E poi, a riempire le pagine, valanghe di ‘riscontri intertestuali’, come se importasse qualcosa che il poeta X ha preso quella parola dal poeta Y o dal poeta Z. Carrai invece non scaraventa sul lettore tutto il contenuto delle sue schede, spiega il testo dove occorre, e dove non riesce a spiegare prospetta delle ipotesi d’interpretazione, appoggiandosi - per consentire o per dissentire - a chi del Tesoretto si è occupato prima di lui.
Al Tesoretto Carrai fa seguire, com’è consuetudine, il Favolello, che è un altro breve poemetto in settenari baciati, più pedestre nel contenuto (è uno scialbo trattatello sull’amicizia), ma interessante soprattutto perché cita come amici-destinatari due rimatori contemporanei, Rustico Filippi e Palamidesse di Bellindote. E al Favolello segue, nel volume (che appunto per questo s’intitola Poesie: è l’opera omnia in volgare italiano di Brunetto), l’unica canzone di Brunetto che ci venga tramandata dai manoscritti, S’eo son distretto, strana poesia d’amore e devozione che alcuni hanno interpretato come un documento dell’omosessualità dell’autore (con ovvi riflessi sull’interpretazione di Inferno XV) e altri, direi più plausibilmente, come canto nostalgico per la patria, Firenze, dal quale il guelfo Brunetto viene bandito dopo Montaperti.
Manca, e avrebbe invece dovuto esserci, la canzone responsiva di Bondie Dietaiuti (così, nel Medioevo, si dissolvevano le tenzoni poetiche: gli scribi copiavano i corpora personali degli autori obliterando i testi missivi e responsivi dei loro corrispondenti, che in questo modo si disperdevano; ma in un’edizione moderna non si vede perché le tenzoni non debbano essere date nella loro integrità).
Il discorso sul Tesoretto e sul Favolello non è chiuso. Sono testi facili solo all’apparenza, specie a causa delle contorsioni che il metro e lo schema delle rime impongono all’autore. Di certi hapax resta poco chiaro, nonostante lo sforzo degli interpreti, il significato. Altri termini sono ambigui (per esempio non parafraserei con ‘verità’, con Contini e Carrai, il drittura di Favolello 7 «e fàllati drittura»: ‘giustizia’, che è il senso che drittura ha usualmente, mi pare più aderente al contesto). E certi passi dovranno forse essere riconsiderati in una futura edizione critica. Per esempio, ai vv. 1275-79 tutti gli editori postulano un (credo inattestato altrove) ablativo assoluto: «E vidi ne la corte, / là dentro, fra le porte, / quattro donne reali / che corte principali / tenean ragione ed uso». Dove «corte principali» vorrebbe dire ‘nella prima corte’. Ma dato che le «donne» di cui si parla sono virtù, e che principales è l’aggettivo che nel Medioevo spesso si predica delle virtù, in genere le cardinali, ci si deve domandare se la lezione corretta non sia piuttosto, con minimo emendamento, «come principali», cioè ‘come signore, regine di quella corte di giustizia’ (e sarebbe un altro errore d’archetipo, da aggiungere a quelli registrati da Pozzi e Contini nei Poeti del Duecento).
Forse potremmo chiudere, invece, il discorso sui rapporti tra Brunetto e Dante, salvo che non saltino fuori nuovi testi che permettano di riconsiderare sotto nuova luce la questione. Questione che è nota ad ogni studente liceale: Dante mette Brunetto all’Inferno, tra i sodomiti, ma non dice nulla della sua colpa (il che sorprende fino a un certo punto, dato che non sempre Dante lo fa), né di questa colpa si parla nelle fonti che non dipendono da Dante (il che non sorprende per niente: ci si aspetta che l’omicidio o la simonia lascino traccia nelle cronache, non necessariamente le inclinazioni sessuali).
Sodomia va allora inteso figuratamente, come ‘peccato contro la propria lingua materna’ (perché Brunetto, fiorentino, ha scritto il suo Tresor in francese)? Oppure come peccato politico (perché Brunetto non avrebbe «riconosciuto la sacra autorità dell’Impero»)? Mi sembra che la soluzione proposta da Zanato e ora da Carrai resti la più sensata: dato che Brunetto ci appare in compagnia di «Prisciano, Francesco Accursio e Andrea de’ Mozzi, [cioè] del gruppo di intellettuali, perlopiù pedagoghi ed ecclesiastici, che si sono resi colpevoli di pratiche omosessuali», non c’è ragione di pensare che lui non si sia macchiato dello stesso - non metaforico - peccato.
Non andrei oltre; né speculerei, per le ragioni che ho già accennato, sulla ‘memoria’ della poesia brunettiana nel canto XV. Il poeta Brunetto non aveva niente da insegnare a Dante, perché il peggior Dante (per esempio quello un po’ lezioso di Inferno IV: «Venimmo al piè d’un nobile castello, / sette volte cerchiato d’alte mura, / difeso intorno d’un bel fiumicello...») è migliore del migliore Brunetto. E l’idea che quando Dante mette in scena un altro poeta si serva - attraverso accorte allusioni - delle parole che quel poeta ha adoperato nelle sue opere mi sembra davvero un’idea tutta nostra, un’idea da filologi moderni, che mettiamo a forza nella testa di scrittori molto meno sottili di noi.
E questo vale anche per la testimonianza che molti (anche Carrai) considerano più probante: l’avvio del canto XV, «Ora cen porta l’un de’ duri margini...», nel quale si condenserebbero «gli echi di mosse identiche del Tesoretto, vv. 1183-84 “Or va mastro Burnetto / per un sentiero stretto”, e 2181-82 “Or si ne va il maestro / per lo camino a destro”». Ma direi di no: è una formula di transizione che si trova molte volte nella poesia narrativa francese, per esempio nel Girart de Rossillon («Ere s’en vait Girarz egal solel / per un estreit sender...» (l’identica immagine del sentiero stretto che si trova in Brunetto Latini), nella chanson de toile Gaiete et Oriour («Or s’an vat Oriour stinte et marrie»), nel Macaire franco-veneto, «Ora se voit sor un corant destrer». Langue, insomma, non parole, come nella poesia medievale capita non dico sempre, ma quasi.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". DANTE "corre" fortissimo, supera i secoli, e oltrepassa HEGEL.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Catechesi sul “Padre nostro”: 7. Padre che sei nei cieli
di Papa Francesco *
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
L’udienza di oggi si sviluppa in due posti. Prima ho fatto l’incontro con i fedeli di Benevento, che erano in San Pietro, e adesso con voi. E questo è dovuto alla delicatezza della Prefettura della Casa Pontificia che non voleva che voi prendeste freddo: ringraziamo loro, che hanno fatto questo. Grazie.
Proseguiamo le catechesi sul “Padre nostro”. Il primo passo di ogni preghiera cristiana è l’ingresso in un mistero, quello della paternità di Dio. Non si può pregare come i pappagalli. O tu entri nel mistero, nella consapevolezza che Dio è tuo Padre, o non preghi. Se io voglio pregare Dio mio Padre incomincio il mistero. Per capire in che misura Dio ci è padre, noi pensiamo alle figure dei nostri genitori, ma dobbiamo sempre in qualche misura “raffinarle”, purificarle. Lo dice anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, dice così: «La purificazione del cuore concerne le immagini paterne e materne, quali si sono configurate nella nostra storia personale e culturale, e che influiscono sulla nostra relazione con Dio» (n. 2779).
Nessuno di noi ha avuto genitori perfetti, nessuno; come noi, a nostra volta, non saremo mai genitori, o pastori, perfetti. Tutti abbiamo difetti, tutti. Le nostre relazioni di amore le viviamo sempre sotto il segno dei nostri limiti e anche del nostro egoismo, perciò sono spesso inquinate da desideri di possesso o di manipolazione dell’altro. Per questo a volte le dichiarazioni di amore si tramutano in sentimenti di rabbia e di ostilità. Ma guarda, questi due si amavano tanto la settimana scorsa, oggi si odiano a morte: questo lo vediamo tutti i giorni! E’ per questo, perché tutti abbiamo radici amare dentro, che non sono buone e alle volte escono e fanno del male.
Ecco perché, quando parliamo di Dio come “padre”, mentre pensiamo all’immagine dei nostri genitori, specialmente se ci hanno voluto bene, nello stesso tempo dobbiamo andare oltre. Perché l’amore di Dio è quello del Padre “che è nei cieli”, secondo l’espressione che ci invita ad usare Gesù: è l’amore totale che noi in questa vita assaporiamo solo in maniera imperfetta. Gli uomini e le donne sono eternamente mendicanti di amore, - noi siamo mendicanti di amore, abbiamo bisogno di amore - cercano un luogo dove essere finalmente amati, ma non lo trovano. Quante amicizie e quanti amori delusi ci sono nel nostro mondo; tanti!
Il dio greco dell’amore, nella mitologia, è quello più tragico in assoluto: non si capisce se sia un essere angelico oppure un demone. La mitologia dice che è figlio di Poros e di Penía, cioè della scaltrezza e della povertà, destinato a portare in sé stesso un po’ della fisionomia di questi genitori. Di qui possiamo pensare alla natura ambivalente dell’amore umano: capace di fiorire e di vivere prepotente in un’ora del giorno, e subito dopo appassire e morire; quello che afferra, gli sfugge sempre via (cfr Platone, Simposio, 203). C’è un’espressione del profeta Osea che inquadra in maniera impietosa la congenita debolezza del nostro amore: «Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce» (6,4). Ecco che cos’è spesso il nostro amore: una promessa che si fatica a mantenere, un tentativo che presto inaridisce e svapora, un po’ come quando al mattino esce il sole e si porta via la rugiada della notte.
Quante volte noi uomini abbiamo amato in questa maniera così debole e intermittente. Tutti ne abbiamo l’esperienza: abbiamo amato ma poi quell’amore è caduto o è diventato debole. Desiderosi di voler bene, ci siamo poi scontrati con i nostri limiti, con la povertà delle nostre forze: incapaci di mantenere una promessa che nei giorni di grazia ci sembrava facile da realizzare. In fondo anche l’apostolo Pietro ha avuto paura e ha dovuto fuggire. L’apostolo Pietro non è stato fedele all’amore di Gesù. Sempre c’è questa debolezza che ci fa cadere. Siamo mendicanti che nel cammino rischiano di non trovare mai completamente quel tesoro che cercano fin dal primo giorno della loro vita: l’amore.
Però, esiste un altro amore, quello del Padre “che è nei cieli”. Nessuno deve dubitare di essere destinatario di questo amore. Ci ama. “Mi ama”, possiamo dire. Se anche nostro padre e nostra madre non ci avessero amato - un’ipotesi
storica -, c’è un Dio nei cieli che ci ama come nessuno su questa terra ha mai fatto e potrà mai fare. L’amore di Dio è costante. Dice il profeta Isaia: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, sulle palme delle mie mani ti ho disegnato» (49,15-16).
Oggi è di moda il tatuaggio: “Sulle palme delle mie mani ti ho disegnato”. Ho fatto un tatuaggio di te sulle mie mani. Io sono nelle mani di Dio, così, e non posso toglierlo. L’amore di Dio è come l’amore di una madre, che mai si può dimenticare. E se una madre si dimentica? “Io non mi dimenticherò”, dice il Signore. Questo è l’amore perfetto di Dio, così siamo amati da Lui. Se anche tutti i nostri amori terreni si sgretolassero e non ci restasse in mano altro che polvere, c’è sempre per tutti noi, ardente, l’amore unico e fedele di Dio.
Nella fame d’amore che tutti sentiamo, non cerchiamo qualcosa che non esiste: essa è invece l’invito a conoscere Dio che è padre. La conversione di Sant’Agostino, ad esempio, è transitata per questo crinale: il giovane e brillante retore cercava semplicemente tra le creature qualcosa che nessuna creatura gli poteva dare, finché un giorno ebbe il coraggio di alzare lo sguardo. E in quel giorno conobbe Dio. Dio che ama.
L’espressione “nei cieli” non vuole esprimere una lontananza, ma una diversità radicale di amore, un’altra dimensione di amore, un amore instancabile, un amore che sempre rimarrà, anzi, che sempre è alla portata di mano. Basta dire “Padre nostro che sei nei Cieli”, e quell’amore viene.
Pertanto, non temere! Nessuno di noi è solo. Se anche per sventura il tuo padre terreno si fosse dimenticato di te e tu fossi in rancore con lui, non ti è negata l’esperienza fondamentale della fede cristiana: quella di sapere che sei figlio amatissimo di Dio, e che non c’è niente nella vita che possa spegnere il suo amore appassionato per te.
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PAPA FRANCESCO - UDIENZA GENERALE -Aula Paolo VI
Mercoledì, 20 febbraio 2019 (ripresa parziale).
DANTE, OGGI. PER UNA NUOVA "BUSSOLA TEOLOGICA" .... *
Classici.
Più fede nella politica, la lezione di Dante
La vicenda biografica e intellettuale del grande fiorentino si rivela di grande attualità ancora oggi, specie per quanto riguarda l’impegno dei credenti a favore del bene comune
di Gabriella M.Di Paola Dollorenzo (Avvenire, 17 febbraio 2019)
L’intervista al cardinale Gualtiero Bassetti (Avvenire, 9 dicembre 2018) ha riportato la nostra attenzione «sull’impegno concreto e responsabile dei cattolici in politica». Già nell’inchiesta del mensile Jesus sul «tempo del rammendo » (ottobre 2018), il presidente della Cei aveva rimarcato l’urgenza di ricostruire una presenza laicale che guardasse alla politica come a un’avventura positiva, nella necessità di una classe dirigente in grado di opporre alla sfiducia popolare un forte senso di concretezza e di responsabilità. Queste virtù o, per meglio dire, questi talenti ci permettono di richiamare la coerenza del pensiero politico di Dante così come ebbe a svilupparsi, sia negli anni di politica attiva sia dopo l’esilio e parallelamente allo svolgersi del suo pensiero teologico nella Commedia. Considerare l’architettura del suo pensiero, il rapporto tra teoria e prassi, l’utilizzo anzi l’interazione delle fonti (Sacre Scritture, autori grecolatini, testi arabi) può essere utile per individuare l’archetipo del cristiano impegnato nella realtà politica del proprio tempo, con l’ambizione di tradurre l’imitatio Christi nel concreto operare all’interno della res publica.
La vicenda umana del Poeta incardinato nella realtà politica del suo tempo, specialmente negli anni che vanno dalla morte di Beatrice (1290) alla condanna all’esilio (1302), ci permette di riflettere sul rapporto teologia- politica, così come fu duramente ma appassionatamente vissuto, in «un crescendo di temerarietà e di coerenza» (Giorgio Petrocchi, Vita di Dante, 1993) e, nello stesso tempo, avendo ben salda la «coscienza della storia», quell’habitus morale in base al quale «gli avvenimenti non si confondono caoticamente nella memoria, ma sono collegati dalla coscienza della causa e dell’effetto, dell’iniziativa e della responsabilità» (Romano Guardini, Dante, 2008). Se accogliamo l’approccio euristico di Jürgen Moltmann (si veda in particolare Dio nel progetto del mondo moderno, edito da Queriniana nel 1999), possiamo capire in che senso la teologia può “binarizzarsi” con la politica determinando le scelte tra il bene e il male, nel concreto avvicendarsi della storia di una città, di una nazione, di un popolo. Non è un caso che la formazione filosofico-teologica di Dante preceda cronologicamente l’attività politica, anzi ne sia quasi il trampolino di lancio: «Io che cercava di consolarme, trovai non solamente a le mie lagrime rimedio, ma vocaboli d’autori e di scienze e di libri: li quali considerando, giudicava bene che la filosofia, che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa. E da questo imaginare cominciai ad andare là dov’ella si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti » ( Convivio, II, xii, 5-7).
Dopo aver approfondito l’Etica Nicomachea e la Politica di Aristotele (nella traduzione latina di Guglielmo di Moerbeke e col commento di Tommaso d’Aquino), nel libro II del Convivio si rivendica il primato della morale. Dante va oltre Tommaso d’Aquino: se la metafisica è la scienza di Dio, l’uomo potrà cercare lo status felicitatis in questa vita e, dato che l’uomo è un animale sociale, in una politica regolata dalla morale. Pertanto non è conforme alla morale rinchiudersi nella contemplazione dell’intelligibile, quando l’odio e la violenza di parte sconvolgono la comunità in cui si vive.
Nel 1294, anno dell’elezione e successiva abdicazione di Celestino V, nonché dell’ascesa al papato di Bonifacio VIII, Dante ha un ruolo diplomatico- culturale di primo piano nella delegazione dei cavalieri destinati dal Comune al seguito dell’imperatore Carlo Martello. In seguito, con la stesura del Paradiso, Dante potrà immaginare un incontro con Carlo al cospetto di Dio; il dialogo tra i due, con esplicito richiamo alla Politica di Aristotele, ma anche al De Anima, ha una precisa connotazione teologica: «“Vuo’ tu che questo ver più ti s’imbianchi?”. /E io: “Non già; ché impossibil veggio / che la natura, in quel ch’è uopo, stanchi”. / Ond’ elli ancora: “Or dì: sarebbe il peggio /per l’omo in terra, se non fosse cive?”. / “Sì”, rispuos’ io; “e qui ragion non cheggio”. / “E puot’ elli esser, se giù non si vive /diversamente per diversi offici? / Non, se ’l maestro vostro ben vi scrive”» ( Paradiso, VIII, 113-120).
Sarebbe un male per l’uomo sulla terra se non facesse parte di un ordine civile, di un organismo sociale? E può esistere un’organizzazione civile se i suoi membri non siano ordinati a vivere esercitando diverse funzioni? E Dante risponde “sì” alla prima domanda e “no” alla seconda. La naturale politicità dell’uomo si accompagna alla necessità di distinguere gli offici poiché Nihil frustra natura facit (Politica I, 2).
Il quinquennio successivo al 1294 segnerà intensamente la vita e l’opera di Dante proprio perché continuo sarà lo scambio tra teoria e prassi, una prassi in toga candida: dalla riflessione filosofica riguardo al primato della morale alla traduzione di ciò nella vita della polis, una sorta di ragion pratica kantiana ante litteram: impegno civile, riflessione morale, tenace inseguimento della giustizia.
Proprio quando Firenze è dilaniata da lotte sociali interne e lo stesso papato non è immune dalla brama di potere che assale i partiti politici, Dante tiene ben ferma la barra del suo operare cristiano, perché è fermamente convinto di agire nella direzione indicata dalla bussola teologica. In questo atteggiamento riconosciamo l’attualità del suo pensiero politico e del suo agire politico. Dopo la condanna, negli anni dell’esilio, Dante consegnerà alle pagine del Convivio, della Commedia, ma soprattutto del trattato Monarchia, la riflessione teorica frutto della sua esperienza politica. È un progetto in fieri perché dovrà fare i conti col divenire della storia, è un progetto politico voluto da Dio per il bene dell’umanità.
Dopo la fine del potere temporale dei Papi, la Chiesa, a partire dall’enciclica In praeclara summorum (1921) di Benedetto XV, fino al Messaggio al presidente del Pontificio Consiglio della cultura in occasione del 750° anniversario della nascita di Dante Alighieri (2015) di papa Francesco, ha pienamente rivendicato, si pensi alla mirabile Altissimi cantus, la lettera apostolica di Paolo VI, l’appartenenza di Dante alla Chiesa cattolica e alla fede di Cristo, proprio considerando la sua battaglia di cristiano impegnato nella vita politica del suo tempo e nella sua somma opera teologica.
Oggi l’umanesimo cristiano di Dante può essere una traccia da seguire nella comunicazione religiosa e laica che stiamo vivendo. Per la preparazione del laicato cattolico alla vita politica, il pensiero di Dante può diventare una “bussola teologica”. Il rapporto tra fede, morale e politica, vissuto alla luce dei valori cristiani, che fece di Dante il segno di contraddizione della sua epoca, oggi fa di lui un nostro contemporaneo.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
ARACNE, FILOMELA, E TRE ARAZZI. Arte e resistenza: ascoltare la voce della spoletta ... *
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Tessere come smascheramento: disfare la violenza dello stupro
La tela di Aracne apre il libro sesto delle Metamorfosi, la storia di Filomela lo chiude.
Per entrambe queste donne, tessere rappresenta lo smascheramento dei "misteri sacri" e il disfare la violenza dello stupro. Prima che la dea adirata Atena (Minerva) stracci la stoffa tessuta da Aracne, la tessitrice, donna mortale, racconta su di essa una storia molto particolare: quella delle donne stuprate da dèi che si mutano in bestie. Prima dell’intervento della dea gelosa, Aracne è il centro di una comunità femminile.
Insuperabile nella sua arte, Aracne è così piena di grazia che donne da ogni luogo vengono da lei per vederla cardare, filare, tessere. Attorno a lei si radunano altre donne che guardano, parlano, lavorano, riposano. Qui il telaio rappresenta un’occasione per creare comunità e pace, un contesto in cui è possibile, per il piacere, essere non violento e non possessivo.
In questo Aracne ricorda Saffo, che pure era il centro di una comunità di donne e a cui similmente Ovidio riserva un vicolo cieco, adottando la tradizione che tenta di sminuire la poetessa facendola morire suicida poiché respinta da un uomo. Ciò che sopravvive del lavoro di Saffo e gli studi successivi respingono come falsa questa ipotesi.
E’ solo facendo uno sforzo di interpretazione che noi oggi possiamo suggerire che Aracne, la donna artista, non si impiccò come ci racconta la storia, ma fu linciata. Il suicidio è un surrogato dell’omicidio. Aracne è distrutta dal suo stesso strumento quando esso è nelle mani della dea irata.
Ma chi è Atena? Non realmente femmina, giacché emerge, priva di madre, dalla testa del padre, una fantasia maschile che si fa carne, che strangola la voce delle donne reali. Lei è la figlia vergine il cui scudo è la testa di un’altra vittima donna, Medusa. Atena è la pseudo-donna che racconta la storia del giusto ordine.
Centrali, nel suo arazzo, sono gli dei in tutta la loro gloria, ma ai quattro angoli della tela, all’interno del bordo di rami d’olivo, Atena tesse un ammonimento alla donna artista, affinché essa non resista all’autorità ed alla gerarchia: in colori brillanti, quattro figure dicono "Pericolo!".
L’errore di Aracne è solo apparentemente l’orgoglio per la propria arte (che è pienamente giustificato: Aracne vince la gara); in verità, lei è in pericolo perché racconta una storia pericolosa. Fra le donne rappresentate nel suo arazzo c’è la stessa Medusa.
Raccontare lo stupro di Medusa da parte di Poseidone è suggerire ciò che può nascondere il mito per cui la donna muta gli uomini in pietra. Il luogo del crimine era l’altare di un tempio di Atena. Il retroterra del crimine era la necessità della città di scegliere un dio per darsi nome e ciò che usualmente viene rappresentato come una rivalità fra Poseidone ed Atena per ottenere tale onore.
Medusa fu stuprata o sacrificata sull’altare di Atena? Fu la donna "punita" da Atena, o fu uccisa durante una crisi, come offerta della città di Atene ad una dea "adirata", proprio come Ifigenia fu sacrificata ad una Artemide assetata di sangue? Dietro alla testa decapitata della donna, che Perseo usa per mutare gli uomini in pietra, c’è l’antica Gorgone, la maschera apotropaica rituale che segnava gli angoli dei camini nelle case ateniesi.
La Medusa mitica può ricordare una reale vittima sacrificale: dietro la testa che tramuta in pietra gli uomini, potrebbe esserci una donna lapidata a morte dagli uomini. E, anche qui, la responsabilità deve cadere su un’altra "donna", Atena.
La storia viene erotizzata dal collocare la violenza fra uomini e donne, e Freud, nella sua equazione "decapitazione = castrazione" rinforza e sviluppa la misoginia presente nel sacrificio mitico. Se Medusa è divenuta una figura centrale con cui ogni donna artista deve fare i conti è perché, ella stessa ridotta al silenzio, Medusa è stata usata per ridurre al silenzio altre donne.
Aracne, narrando sulla tela le storie delle donne stuprate da dei mutati in bestie, demistifica gli dei (il sacro) e li rivela come bestie (la violenza). Ovidio può raccontare la sua versione della storia solo perché la versione della donna è stata strappata in pezzi e lei stessa ricondotta ad uno stato "naturale".
Proprio come Freud, terrorizzato dalla "donna-come-madre" e dalla donna tessitrice, usa la psicoanalisi per riportare le donne ad un’identificazione con la "natura", così il mito usa Atena affinché trasformi Aracne in un ragno repellente, che potrà tessere tele puramente letterali, disegni incomprensibili. La metamorfosi, così come la psicoanalisi nelle mani di Freud, rovescia la direzione della violenza: Medusa, come Aracne, spaventa e minaccia gli uomini.
Il ragno femmina intrappola e divora i maschi che si accoppiano con lei... Lo strumento della tessitrice, la spoletta, viene usato per ridurla al silenzio. Ma non viene usato per zittire l’artista maschio, che si appropria dell’abilità femminile quale metafora per la propria stessa abilità.
Quale strumento di violenza, Atena è un’estensione di Zeus. La vendetta sulla donna artista, che usa il telaio per raccontare storie che non ci è permesso di udire se non sono mediate dagli uomini, non è una vendetta degli dei, è una vendetta culturale.
Quando Filomela comincia a tessere durante il suo lungo anno di prigionia, non è solo la sua sofferenza che la muove ad un nuovo uso del telaio, ma lo specifico scopo di essere udita da sua sorella. Come strumento che lega e connette il telaio (o la spoletta che è una sua parte) ri-membra e aggiusta ciò che la violenza riduce in pezzi: il legame fra sorelle, il potere della donna di parlare, la forma della comunità, la comunicazione. La guerra ed il tessere sono antitetici.
Ma il mito ci chiede di credere che, dopo il suo lungo e paziente sforzo, Filomela sia disposta a trasformare il suo lavoro al telaio in vendetta immediata. Ci si chiede di credere, dopo che Filomela ha trasformato la prigione in laboratorio e la disciplina domestica in un anno di lotta, che tutto ciò l’ha lasciata immutata, che la sua scoperta non ha il potere di cambiare nulla.
E il mito ci chiede di credere che dopo un anno di pianto sulla tomba della sorella, Procne sia disposta non ad un rito di riunione, ma ad uno di omicidio. L’alternativa più importante suggerita dall’arazzo di Filomela non è mai stata considerata: il potere del testo di insegnare all’uomo a conoscere se stesso.
E’ il barbaro Tereo o è il cittadino greco che risponde alla storia tessuta dalla donna con la violenza? All’interno della tradizione greca, il mito è stato usato per insegnare alle donne il pericolo insito nella nostra capacità di vendicarci. Ma se il mito istruisce, così come è istruttivo l’arazzo di Filomela, allora ci dice anche che possiamo insegnare a noi stesse, all’interno del potere dell’arte, le forme della resistenza.
E’ il tentativo di negare che il tessere di Filomela poteva avere altri fini a parte la vendetta che rende il mito così pericoloso, perché esso tenta di persuaderci al considerare la violenza inevitabile e l’arte debole... ma è lo stesso mito a testimoniare contro se stesso, perché se l’arte di Aracne e Filomela fosse davvero stata così debole, non sarebbe stata repressa con violenza così estrema. [...]
*
Federico La Sala
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. "VA’, RIPARA LA MIA CASA" *
Il caso.
Il cardinale Müller pubblica un "Manifesto della fede" senza citare il Papa
Il porporato spiega il documento come una risposta a quella che definisce la crescente confusione dottrinaria. Il testo diffuso per primo dal sito web Usa che diede risalto alle accuse di Viganò
di Mimmo Muolo (Avvenire, domenica 10 febbraio 2019)
Un elenco ragionato di alcune verità della fede cattolica, tratte dal Catechismo. Si presenta così il “Manifesto della fede” scritto dal cardinale Gerhard Ludwig Müller (fino al 2017 prefetto della Congregazione per la dottrina delle fede), diffuso sabato da un sito web Usa (che diede voce alle accuse rivolte al Pontefice da monsignor Carlo Maria Viganò) e nel quale diversi commentatori hanno voluto vedere (forse troppo frettolosamente?) un attacco a Francesco, mai citato. L’estensore del documento esordisce affermando che «dinanzi a una sempre più diffusa confusione nell’insegnamento della fede, molti vescovi, sacerdoti, religiosi e laici della Chiesa cattolica mi hanno invitato a dare pubblica testimonianza verso la Verità della rivelazione». Nei successivi cinque punti in cui è articolato il “Manifesto” (più un appello finale), vengono toccati altrettanti argomenti fondamentali: «Dio uno e trino, rivelato in Gesù Cristo; la Chiesa; l’ordine sacramentale; la legge morale; e la vita eterna».
«L’epitome della fede di tutti i cristiani risiede nella confessione della Santissima Trinità - scrive il cardinale -. La differenza delle tre persone nell’unità divina segna una differenza fondamentale rispetto alle altre religioni. Riconosciuto Gesù Cristo, i fantasmi scompaiono. Egli è vero Dio e vero uomo. Il Verbo fatto carne, il Figlio di Dio è l’unico Salvatore del mondo e l’unico mediatore tra Dio e gli uomini». Perciò «è con chiara determinazione che occorre affrontare la ricomparsa di antiche eresie che in Gesù Cristo vedevano solo una brava persona, un fratello e un amico, un profeta e un esempio di vita morale». Anche il Papa mette spesso in guardia dalla ricomparsa di antiche eresie (il pelagianesimo, ad esempio) e fin dall’inizio del Pontificato ha detto che una Chiesa senza la Croce corre il rischio di diventare una Ong.
A proposito della Chiesa, Müller ricorda che «Gesù Cristo ha fondato la Chiesa come segno visibile e strumento di salvezza, che sussiste nella Chiesa cattolica» e che «diede alla sua Chiesa, che “è nata dal cuore trafitto di Cristo morto sulla croce”, una struttura sacramentale che rimarrà fino al pieno compimento del Regno».
Quanto all’ordine sacramentale, «la Chiesa è in Gesù Cristo il sacramento universale della salvezza». Dunque, scrive il porporato, «non è un’associazione creata dall’uomo, la cui struttura può essere modificata dai suoi membri a proprio piacimento». Il riferimento è anche all’Eucaristia, «fonte e culmine di tutta la vita cristiana» e alle condizioni per riceverla in modo degno. Chi è in peccato grave deve prima accedere alla confessione. «Dalla logica interna del sacramento - afferma il prefetto emerito dell’ex Sant’Uffizio - si capisce che i divorziati risposati civilmente, il cui matrimonio sacramentale davanti a Dio è ancora valido, come anche tutti quei cristiani che non sono in piena comunione con la fede cattolica e pure tutti coloro che non sono debitamente disposti, non ricevano l’Eucaristia». Müller infine invita i pastori a ricordare anche le verità ultime della fede, la vita eterna e il giudizio dopo la morte con «la terribile possibilità che una persona, fino alla fine, resti in contraddizione con Dio: rifiutando definitivamente il Suo amore, essa “si dannerà immediatamente per sempre”». «Tacere su queste e altre verità di fede oppure insegnare il contrario è il peggiore inganno contro cui il Catechismo ammonisce vigorosamente», conclude il porporato.
La carità è una e ha più forme
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, domenica 10 febbraio 2019)
Confusione e divisione nella Chiesa sono due termini ricorrenti nei media, che spesso travisano quanto accade nella vigna del Signore. Il testo diffuso sabato 9 febbraio a firma del cardinal Gerhard Müller mi sembra un contributo alla riflessione aperto a successivi approfondimenti per la fede dei credenti, eppure è stato presentato come un intervento, anzi un vero e proprio "manifesto della fede", contro il magistero del Papa e, dunque, contro l’unità della Chiesa. Un’operazione grave e greve.
Parafrasando il beato Antonio Rosmini potremmo dire che nel testo pubblicato ieri da alcuni siti internet di vari Paesi si cerca di declinare la carità intellettuale/dottrinale in conflitto con quella che lo stesso Rosmini denomina «carità pastorale», culmine delle tre forme di carità: temporale (per i bisogni immediati), intellettuale (per la sete di verità), pastorale (per il dono di sé incondizionato). Ora se il cardinale teologo esercita la seconda di queste forme in maniera autentica, non può in nessun modo contrapporsi alla forma suprema di carità, che il Vescovo di Roma esprime nell’oggi della storia.
Ricordare la dottrina, purché non si intenda ritenere che il cristianesimo sia esclusivamente "dottrinale", è un servizio per tutta la Chiesa. Esercitare il servizio della carità pastorale è imprescindibile e necessario in un mondo in cui i gesti valgono più delle parole e i fatti più delle teorie.
La Chiesa di oggi non ha alcun bisogno di divisioni e di contrapposizioni, ma di concordia e di unità: quella unità di cui il Papa è segno. Nonostante una minuscola, ma insistente, campagna di deliberato fraintendimento, le verità della Rivelazione che Müller richiama trovano serena espressione nel magistero dell’attuale pontefice, anche in materia "morale" e in particolare per quanto riguarda la logica sacramentale e il rapporto fra i sacramenti dell’eucaristia e del matrimonio.
A questo riguardo il cardinale scrive: «Dalla logica interna del sacramento si capisce che i divorziati risposati civilmente, il cui matrimonio sacramentale davanti a Dio è ancora valido, come anche tutti quei cristiani che non sono in piena comunione con la fede cattolica e pure tutti coloro che non sono debitamente disposti, non ricevano la santa Eucaristia fruttuosamente, perché in tal modo essa non li conduce alla salvezza. Metterlo in evidenza corrisponde a un’opera di misericordia spirituale». Né va dimenticato che, in un testo particolarmente significativo a tale riguardo, Müller aveva affermato: «Se il secondo legame fosse valido davanti a Dio, i rapporti matrimoniali dei due partner non costituirebbero nessun peccato grave, ma piuttosto una trasgressione contro l’ordine pubblico ecclesiastico, quindi un peccato lieve». E tutto ciò è in perfetta coincidenza con il dettato dell’Amoris laetitia.
La confusione e la divisione sono l’arma diabolica utilizzata non da uomini di Chiesa, autenticamente in ricerca e animati dalle migliori intenzioni, ma da vecchi e nuovi media propensi al sensazionalismo, lobby laiciste e manipoli di ipercritici "interni" che sembrano non avere altro interesse che il discredito su quanto lo Spirito opera nell’attuale momento che la Chiesa cattolica vive. Ecco perché il nostro cuore e la nostra mente non sono affatto turbati da simili operazioni (Gv 14,1), in quanto radicati nella convinzione che la comunità ecclesiale non è, nemmeno in questi anni, guidata da un uomo, ma dallo Spirito, perché:
«La Chiesa ha in sé del divino e dell’umano. Divino è il suo eterno disegno; divino il principal mezzo onde quel disegno viene eseguito, cioè l’assistenza del Redentore; divina finalmente la promessa che quel mezzo non mancherà mai, che non mancherà mai alla santa Chiesa e lume a conoscere la verità della fede, e grazia a praticarne la santità, e una suprema Providenza che tutto dispone in sulla terra in ordine a lei. Ma dopo ciò, oltre a quel mezzo principale, umani sono altri mezzi che entrano ad eseguire il disegno dell’Eterno: perciocché la Chiesa è una società composta di uomini, e, fino che sono in via, di uomini soggetti alle imperfezioni e miserie dell’umanità. Indi è che questa società, nella parte in cui ella è umana, ubbidisce nel suo sviluppamento e nei suoi progressi a quelle leggi comuni che presiedono all’andamento di tutte le altre umane società. E tuttavia queste leggi, a cui le umane società sono sommesse nel loro svolgersi, non si possono applicare interamente alla Chiesa, appunto perché questa non è una società al tutto umana, ma in parte divina» (Antonio Rosmini, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa). E in essa la verità si fa nella carità, ovvero nell’unità (cf Ef 4,15).
Professore ordinario di Teologia fondamentale
Sul tema, nel sito, si cfr.:
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DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?! Bergoglio incontra Ratzinger: "Siamo fratelli". Ma di quale famiglia?!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. "VA’, RIPARA LA MIA CASA"!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
L’immaginario del cattolicesimo imperiale.... *
Olimpiade, la mamma feroce che fece di Alessandro Magno un re
Una biografia ricostruisce intrighi, delitti e ambizioni della sovrana epirota. Mentre il figlio conquistava il mondo lei elargiva consigli su come trattare i sudditi
di Giorgio Ieranò (La Stampa TuttoLibri 09.02.2019)
Forse non è vero che dietro a ogni grande uomo c’è sempre una grande donna. Ma dietro a molti grandi condottieri c’è spesso una madre ingombrante. Gengis Khan, stando alla Storia segreta dei mongoli, aveva paura solo della mamma, l’intrepida Hoelun. Maria Letizia Bonaparte vegliò severa sul figlio Napoleone per tutta la sua vita.
Ad Alessandro Magno toccò invece in sorte Olimpiade, donna inquietante e strana. Secondo gli antichi, praticava oscuri culti misterici, durante i quali maneggiava serpenti che poi si portava persino nel letto. Era devota ai riti dionisiaci, che celebrava con torme di femmine invasate, tra le quali si distingueva, scrive Plutarco, per essere «la più selvaggia». Si diceva che persino il marito, il re di Macedonia Filippo II, persona non facilmente impressionabile, ne fosse terrorizzato. Ma Olimpiade fu soprattutto una donna di potere.
Senza di lei, forse, Alessandro non sarebbe mai divenuto re: fu la madre, con il delitto e l’intrigo, a spianargli la via verso il trono.
Certi ritratti a tinte fosche di Olimpiade nascono forse proprio dal fatto, scandaloso per gli autori antichi, maschi e maschilisti, che una donna fosse riuscita a imporsi come protagonista politica (qualcosa di simile accadrà poi con un’altra spregiudicata regina, Cleopatra).
Ne è convinto Lorenzo Braccesi, storico del mondo antico, che dedica ora alla mamma di Alessandro Magno una biografia documentata e avvincente. Olimpiade ne emerge con tutte le sue ambiguità. Una donna che, da un lato, scrive Braccesi, appariva avvolta in «una nebbia misterica dove il mito poteva sovrapporsi alla vita e alla realtà». Ma, d’altro lato, era una sovrana accorta e astuta. Del resto, era nata figlia di re: suo padre, Neottolemo I, era signore dell’Epiro, un piccolo regno la cui dinastia vantava però una discendenza da Achille. Aveva poi sposato un altro re, Filippo di Macedonia. I due si sarebbero conosciuti proprio durante una cerimonia misterica, un rituale d’iniziazione alle oscure divinità dell’isola di Samotracia. E il loro figlio, Alessandro, era destinato a diventare il più grande di tutti i re, fondatore di un impero universale che andava dalle rive del Nilo a quelle dell’Indo.
Olimpiade è immersa negli eventi che, nella seconda metà del IV secolo, cambiano la storia del mondo. Dapprima accanto al marito Filippo, che, con la battaglia di Cheronea (338 a. C.), schiaccia la libertà di Atene e diviene padrone della Grecia. Poi seguendo da lontano i trionfi di Alessandro. Mentre il figlio avanza impetuoso nei territori dell’impero persiano, guidando le sue falangi attraverso i deserti e le montagne dell’Asia, la madre intrattiene con lui una corrispondenza di cui Braccesi ricompone le tracce partendo dai testi degli storici antichi. Olimpiade dispensa saggi consigli su come comportarsi con i sudditi. E il figlio le racconta con orgoglio i suoi successi. Si accinge anche, con festosa sollecitudine, a comunicarle di avere scoperto, nella remota India, le sorgenti del Nilo, salvo poi fare ammenda del clamoroso errore.
Il ruolo di regina madre Olimpiade aveva dovuto conquistarselo. I re di Macedonia erano poligami. Filippo, nel 337 a. C., aveva sposato una nobile macedone, di nome Cleopatra. Plutarco riferisce che Olimpiade, «donna collerica e gelosa», s’infuriò per queste nuove nozze. C’era il rischio che Cleopatra partorisse un erede di puro sangue macedone, che avrebbe messo fuori gioco Alessandro, il figlio della principessa epirota.
Nel 336 a. C., mentre entrava nel teatro di Ege (oggi Verghina), l’antica capitale del regno macedone, Filippo venne ucciso da un sicario di nome Pausania. Fu Olimpiade ad armare la mano del regicida? Lo storico Giustino racconta che la regina andò a deporre una corona di fiori sul capo di Pausania, giustiziato e appeso a una croce. Non erano solo calunnie: Braccesi riesamina tutte le testimonianze e conclude che, quasi certamente, Olimpiade fu la mandante dell’omicidio del marito. Comunque sia, grazie all’assassinio di Filippo, Alessandro ottenne subito il trono. E Olimpiade, per evitare rischi futuri, costrinse la rivale Cleopatra a impiccarsi dopo averne ucciso la figlia bambina.
La regina avrebbe pagato il prezzo dei suoi intrighi. Dopo la morte di Alessandro a Babilonia, nel 323 a. C., i suoi generali iniziarono a combattere per spartirsi l’impero. Olimpiade, a questo punto, era sempre più solo una presenza ingombrante. Tentò di salvare la dinastia ma fu uccisa nel 316 a. C. Di lei resterà la leggenda cupa e misteriosa. Solo Giovanni Pascoli, nel suo poemetto Alexandros, la immaginerà diversa. Una madre assorta nella malinconia, che, ascoltando lo stormire della quercia profetica del tempio di Zeus a Dodona, nel natio Epiro, crede di sentire la voce del figlio lontano. Una madre «in un sogno smarrita», mentre «il vento passa e passano le stelle».
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’immaginario del cattolicesimo romano.
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
I cattolici in politica per costruire il futuro
Oggi come 100 anni fa, l’impegno non è rivolto al passato ma riguarda
la capacità di immaginare una via d’uscita dalla crisi delle società avanzate
di Mauro Magatti (Corriere della Sera, 06.02.2019)
Nelle ultime settimane, in occasione dei cento anni dell’Appello ai liberi e forti di Sturzo, si è riacceso il dibattito sul ruolo dei cattolici in politica (Galli della Loggia e Panebianco sul Corriere ). Comunque la si pensi, il tema è oggi rilevante per almeno due ragioni. In primo luogo perché nell’Italia a pezzi di oggi il variegato mondo cattolico, nonostante la secolarizzazione incalzante, continua a essere - seppur tra mille difficoltà - una delle poche presenze rilevanti. E in secondo luogo perché, nel cambio d’epoca che stiamo attraversando, il rapporto tra politica e religione è tornato centrale. Nel post-2008, in un mondo diventato multipolare, la ricerca di un nuovo equilibrio tra identità cultuali e sviluppo tecno-economico spinge le diverse aree del pianeta a posizionarsi secondo una logica che ricorda da vicino le tesi dello Scontro delle civiltà di Samuel Huntington. Dove la dimensione religiosa è necessariamente tirata in ballo.
Non a caso, in Occidente, le varie forme della nuova destra (da Trump a Orbán a Bolsonaro) sono sostenute dall’ala più conservatrice del mondo cristiano. Un’alleanza teorizzata da Bannon e costruita contro due «nemici»: la cultura progressista (che ha il torto di combinare la fede nella innovazione tecnoscientifica con i diritti individuali); e il mondo islamico, storico avversario oggi accusato di minacciare la cristianità attraverso l’immigrazione e il terrorismo. La «democrazia illiberale» di cui parla Orbán è il prodotto di una nuova «santa alleanza» tra politica e religione - da realizzare su base nazionale - per sconfiggere i due avversari sopra richiamati. La capacità di mobilitare i fermenti identitari di parte del mondo religioso costituisce un elemento importante nella spiegazione dell’avanzata dei nuovi partiti sovranisti. In Italia la presenza di papa Francesco - con i conseguenti orientamenti della Cei - ha finora limitato l’uso da parte di Salvini dei simboli religiosi. Ma sotto la cenere, la brace brucia.
Cento anni fa, col suo appello, Sturzo tentò di radunare le forze cattoliche per evitare la dissoluzione della democrazia, stretta tra le destre emergenti e le sterili convulsioni della sinistra. Oggi in Italia, in Europa, in Occidente, quel bisogno si ripropone: come allora, il disordine mondiale sta risucchiando gli strati popolari su posizioni estremiste. Col consenso di quella parte del mondo religioso che spera in una rivincita nei confronti della secolarizzazione.
Rispetto a 100 anni fa, si possono notare una somiglianza e una differenza. Sturzo fu il prodotto più maturo della lettura che l’Enciclica Rerum Novarum aveva offerto dei grandi cambiamenti prodotti dall’industrializzazione. Come allora, anche oggi il mondo cattolico ha a disposizione un testo (Laudato si’) che per ampiezza e ricchezza è in grado di fornire la cornice di riferimento per l’azione negli ambiti economico, sociale e politico. La differenza è che l’Appello a i liberi e forti arrivò dopo più di 20 anni spesi ad animare la presenza civile dei cattolici. Vero e proprio tirocinio nella carne delle società, che permise a Sturzo di maturare una concezione politica realista e vicina ai problemi reali delle persone.
Per quanto nel Paese ci sia molto di più di quello che emerge nella comunicazione pubblica, e per quanto molto di questo nuovo venga proprio dalla radice cattolica, c’è da domandarsi se sia già il tempo di serrare le fila o se non sia invece il momento di lavorare con più determinazione a innovare i processi dell’economia, della società, dei territori in modo da maturare i termini di una proposta adeguata ai tempi che viviamo.
Inutile cercare si rispondere in astratto a questa domanda. Quello che occorre fare è partire subito e comunque dalla società: ascoltando i bisogni e i sogni del «popolo» (termine caro a papa Francesco) e orientandoli nella direzione indicata dalla Laudato si’. E cercando poi di capire, strada facendo, quale siano i modi e le forme più adatte per contribuire al rilancio del Paese.
Quel che deve essere chiaro è che un impegno dei cattolici in politica, oggi come 100 anni fa, non riguarda la difesa di un’identità o di interessi di parte. Riguarda invece la capacità di questo sguardo sul mondo di immaginare una via d’uscita dalla crisi nella quale le società avanzate si trovano oggi. Nella convinzione che la radice cristiana abbia qualcosa da dire sul futuro e non solo sul passato.
Fu questa la grande sfida di Sturzo, che, nonostante le sue personali traversie politiche, alla fine portò frutti importanti. Il suo lavoro sul campo e la sua ispirazione politica furono infatti decisivi per la nascita dei partiti di ispirazione cristiana che, nel dopoguerra, ebbero un ruolo importante a livello internazionale.
Circa un eventuale ritorno dell’impegno dei cattolici in politica, sarà dunque di questo che si dovrà parlare: lo sguardo cristiano è capace di dire una parola nuova sulla crisi del mondo contemporaneo? Di costruire un consenso, ben al di là dei propri confini identitari, attorno alle linee tracciate dalla Laudato si’? Di essere voce di quei radicamenti concreti (nel mondo dell’impresa, della ricerca, delle professioni, del sociale e così via) da cui trarre anche quella classe dirigente di cui tutti sentono la mancanza?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. In principio era il Logos ... *
Il sogno della Bellezza
di Roberto Mussapi (Avvenire, mercoledì 30 gennaio 2019)
«Un tempo mi stupivo perché una guerra così lunga/ d’Europa e d’Asia davanti a Pergamo/ fosse stata causata da una donna./ Adesso vi comprendo, siete stati saggi,/ Paride e Menelao, tu a rivolerla, / Paride a non volerla cedere. / Fu così bella che valse la pena// che in suo onore Achille morisse, / e Priamo lodasse le cause della guerra.»
Molteplici le cause delle guerre. Spesso economiche, a volte mascherate da valori civili, patriottici o religiosi. Qui però non ci riferiamo a una delle tante tragiche guerre storiche, ma alla prima, che, anche se realmente avvenuta, diviene mito di fondazione del nostro mondo. Troia esiste e fu assalita e arsa dalla lega dei greci.
Ma pur se storica, quella vicenda è mitica, oltre il tempo della storia e del calendario: un poeta, Properzio, il primo ma non l’unico, intuisce il mistero e il segreto di quella terribile contesa: Elena, moglie di un nobile greco, fuggita con un principe troiano: Elena sarà dell’uno e dell’altro, e mai di nessuno definitivamente. È la bellezza assoluta, irraggiungibile, che nessuno potrà mai definitivamente possedere.
La guerra dei primordi è la perversione di un sogno umanamente comprensibile: ognuno di noi vuole la Bellezza, e non comprende che non può essere solo sua. Ci preesiste.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EUROPA, LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE, E LA LEZIONE DI NIETZSCHE.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
METAFISICA. LA LEZIONE IMMORTALE DI KANT, DALLA STIVA DELLA "NAVE" DI GALILEI.... *
Martin Heidegger
Così la metafisica lavora al proprio annientamento
Filosofia. Nessuna concessione all’antisemitismo nazista nel IV dei «Quaderni neri»: a metà anni ’40, l’avversario è piuttosto il «monoteismo ebraico-cristiano», responsabile, tra l’altro, dei «sistemi della dittatura totale»: da Bompiani
di Lucio Cortella (il manifesto, 27.01.2019)
Chi pensava di trovare la teorizzazione del supposto antisemitismo di Martin Heidegger nel quarto volume dei suoi Quaderni - Note I-V. Quaderni neri 1942-1948 (traduzione di Alessandra Iadicicco, Bompiani, pp. XVIII-700, euro 30,00) rimarrà deluso. Alla «questione ebraica» il filosofo tedesco dedica in tutto una quindicina di righe. Per le restanti 700 pagine, a parte un rapido accenno al «profetismo», nient’altro.
Anche questa quarta puntata dei Quaderni neri si conferma come un «diario filosofico», una meditazione pensante di Heidegger su se stesso, sui grandi temi della propria filosofia, in particolare sulla questione che, a partire dalla «svolta» avvenuta alla fine degli anni Venti, era diventata per lui centrale e cruciale, la questione dell’essere e della sua «storia». Per Heidegger l’essere non va confuso con gli «enti»: non è né una cosa del mondo né una sostanza trascendente e sovrasensibile al di fuori del mondo, come l’ente «supremo» della tradizione metafisica cristiana. L’essere non è identificabile con una «sostanza», è invece un essenziale sottrarsi (e nascondersi) a ogni tipo di «entificazione», a ogni oggettivazione. Ciò che noi comprendiamo dell’essere emerge solo dalla storia, dalla «sua» storia che è poi anche la «nostra». Ma al tempo stesso questa è la storia del suo tradimento, della sua perdita, del suo abbandono.
L’efficienza del fare
Già la filosofia degli inizi, in Grecia, aveva trattato l’essere come un ente, come una «presenza», anche quando lo ha pensato come un’entità trascendente (le idee di Platone, il motore immobile aristotelico, il Dio cristiano), ma così ha annullato e rimosso quella che Heidegger chiama differenza ontologica, la differenza essenziale tra «essere» ed «ente». Riducendo l’essere all’ente lo ha reso disponibile all’oggettivazione, alla manipolazione, alla strumentalizzazione, aprendo le porte all’età della tecnica. La modernità diventa così la realizzazione estrema di quella metafisica che ha dimenticato l’essere a favore dell’ente. Quella dimenticanza, tuttavia, non è un errore umano. Al contrario, è proprio il modo in cui l’essere stesso si è reso «presente» nella storia. L’oblio sta inscritto in quella ambivalenza per cui l’essere è al tempo stesso un nascondersi e un presentarsi. La sua riduzione a ente e la stessa civiltà della tecnica sono perciò il destino che l’essere stesso ci ha riservato.
La nozione fondamentale che Heidegger usa in questi anni, e che ricorre spesso nei quaderni, è quella della «macchinazione», un termine che veniva spesso impiegato dalla propaganda antisemita contro il presunto disegno di «dominio ebraico» sul mondo. Ma la «Machenschaft» assume in Heidegger un significato che va ben al di là, perché indica la caratteristica fondamentale dell’età della tecnica, in cui centrale è l’efficienza del fare (machen) e del produrre. La «macchinazione» si rivela, perciò, come il destino che l’essere ci ha riservato facendoci dimenticare la sua differenza dall’ente e presentandosi come ciò che può venire infinitamente prodotto, trasformato e manipolato. La conseguenza è la «desertificazione» (Verwüstung), la cancellazione del mondo e lo sradicamento dell’essere umano.
È in questo contesto che Heidegger colloca la sua comprensione della «ebraicità» (Judenschaft). Nelle poche righe contenute nel primo dei cinque quaderni che compongono il volume, riconduce l’essenza dell’ebraismo all’essenza della tecnica. Siamo nel pieno della seconda guerra mondiale, durante l’estate del 1942, e la distruzione dell’Europa avanza, con i suoi massacri, i bombardamenti, le devastazioni. Heidegger definisce tutto ciò «l’anti-Cristo», ma questo spirito di distruzione - aggiunge - non può che derivare dal suo stesso fondamento, cioè dal «Cristo».
Un destino delle origini
È il Cristianesimo, dunque, il responsabile, insieme alla metafisica, della distruzione cui sta andando incontro l’Occidente. Ma ecco che - con una mossa inaspettata - Heidegger riconduce anche il «Cristo» a una radice più profonda: quella della «ebraicità». Cristianesimo, metafisica ed ebraismo vengono coinvolti in una comune responsabilità di fronte alla distruzione di quei tempi. Nel momento del suo massimo dispiegamento, la metafisica produce il proprio stesso annientamento: questo il destino che attende anche «ciò che è essenzialmente ebreo». Teorizzare l’autoannientamento (Selbstvernichtung) del popolo ebraico proprio negli anni in cui la Germania nazista portava a compimento la barbarie dell’olocausto desta indubbiamente sconcerto e una legittima indignazione, tanto più se si pensa che dieci anni prima Heidegger aveva aderito entusiasticamente al nazismo, salvo poi ricredersi e ritirarsi dalla vita pubblica.
Tuttavia, la tesi dell’autoannientamento esprime una concezione ben più generale e riguarda il destino della metafisica e della tecnica, destino in cui l’ebraismo viene coinvolto solo tangenzialmente. Secondo Heidegger infatti, quella parabola di autodistruzione era già inscritta nel pensiero aurorale greco, pensiero che fin dagli inizi aveva obliato l’essere a favore dell’ente. E se negli anni della sua adesione al nazismo Heidegger aveva creduto alla possibilità di un «nuovo inizio» nella storia dell’essere, ora guarda a quell’adesione come a un errore di prospettiva: «L’errore fu la fretta precipitosa, fu solo un errore di tempo. Fu il non vedere ancora chiaramente che quel tempo era “lungo”».
Non ci sarà un nuovo inizio ma l’inesorabile autoannientamento della Germania, dell’Europa e dello stesso esserci. Da queste pagine non sembra dunque emergere alcuna concessione all’antisemitismo nazista, che, anzi - in un veloce passaggio del diario di qualche anno dopo - viene giudicato da Heidegger «folle e riprovevole». In quel periodo, l’avversario non è tanto l’ebreo quanto il «monoteismo ebraico-cristiano», al quale vengono ricondotti anche «i moderni sistemi della dittatura totale». La polemica più dura è rivolta al cristianesimo e alla sua «teologia clericale»: «io non sono un cristiano», scrive Heidegger, «e unicamente per la ragione che non posso esserlo». Tra pensiero e fede c’è «fessura», inconciliabilità assoluta: se esiste una «filosofia cristiana», bisogna chiedersi «fino a che punto una tale filosofia pensi», dato che «per il pensiero non vi è nessun Dio».
Un interrogativo, tuttavia, rimane: come mai - dopo che alla fine della guerra era diventata evidente a ogni tedesco la mostruosità dell’olocausto - Heidegger insiste, sebbene tramite pochi accenni, con la sua critica filosofica nei confronti di «ciò che è ebreo» invece di fare i conti seriamente con lo sterminio perpetrato dai nazisti? La risposta non può che essere intrinseca alla sua ontologia, incapace di interrogarsi sull’enormità di quell’evento. Agli occhi di Heidegger, il destino dell’essere sembra decidersi più sul terreno, per lui nefasto, della democratizzazione verso cui si sta avviando la Germania del dopoguerra, sotto il segno della perdita per lui incolmabile dell’identità, e come un «macchinario omicida» che conduce al «completo annientamento», piuttosto che sull’atroce sterminio di un intero popolo.
La sofferenza delle vittime, la meditazione sull’orrore e la negazione estrema dell’umano che l’olocausto rappresenta finiscono, dunque, per non avere alcuna rilevanza davanti al punto di vista anonimo e imperscrutabile della storia dell’essere.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ORIENTARSI, OGGI - E SEMPRE. LA LEZIONE IMMORTALE DI KANT, DALLA STIVA DELLA "NAVE" DI GALILEI.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!! *
Giornata della Memoria.
Hitler, radiografia del Male
A Carpi la mostra "Der körper" di Fresu parte da studi clinici sul Führer e apre a molte domande sul perdono, sull’inganno delle dittature e la vigliaccheria del male. L’analisi del teologo Dossetti
di Giuseppe Dossetti jr. (Avvenire, sabato 26 gennaio 2019)
Di fronte al materiale offerto dalla mostra, si è costretti a cercar di capire i propri sentimenti. Il mio, è duplice. Anzitutto, mi colpisce lo spogliamento radicale di quest’uomo, privato non solo dei suoi vestiti, così importanti per lui, per costruire la propria immagine, ma privato anche della sua epidermide, ’cosificato’. Mi vengono in mente analoghe radiografie di vittime dello sterminio, che ho visto a Mauthausen: l’uomo denudato, violato nella sua intimità, trafitto dal raggio come la farfalla dallo spillone. Nell’ultima stanza della mostra, si cerca di restituire vita a quel corpo, ricostruendo i battiti del suo cuore.
È come se si dicesse che Hitler continua a vivere o, meglio, continua a vivere il male che ha trovato in lui così terribile manifestazione. Viene in mente l’ultima pagina del romanzo di Camus: il batterio della peste è nascosto negli anfratti della città, per ricomparire a suo tempo. Tuttavia, questa interpretazione seducente non mi tocca, quanto invece la sorte individuale di quest’uomo.
La mostra potrebbe essere interpretata come una vendetta, la riduzione a numeri e parametri dell’uomo, che aveva voluto questo per i suoi simili. Egli volle che il suo corpo fosse bruciato, proprio per evitare di essere consegnato alle mani di chi avrebbe potuto rivalersi sulle sue spoglie.
È noto il suo orrore di fronte alla notizia che Mussolini era stato impiccato per i piedi a Piazzale Loreto. Ebbene, l’operazione di cancellare l’ultima traccia di sé non gli è riuscita completamente: un frammento importante, l’impronta del suo corpo è caduta nelle nostre mani.
Forse, Antonello Fresu ha voluto gettare nelle nostre mani questo materiale, frammentario e incompleto fin che si vuole, ma sufficiente per porci la domanda: «Adesso che hai nelle mani il corpo di Hitler, che cosa ne intendi fare? ». Infatti, non ci si può sottrarre alla richiesta di prendere posizione. È addirittura possibile che ci sentiamo ancor più coinvolti: «Che cosa avrei fatto io, che cosa farei, se avessi la totale disponibilità del corpo di quest’uomo, del suo cadavere, oppure, ancora di più, di lui ridotto a scheletro vivente, non per una radiografia, ma per la fame, per la violenza, per la spoliazione di ogni dignità?».
La mia personale reazione si condensa in una domanda, che mi ha colpito, appena ho avuto notizia di questa iniziativa: Questo corpo risorgerà? La fede nella “risurrezione della carne” è uno dei dogmi del credo cristiano. Non è molto considerato e talvolta viene dimenticato per pudore, quasi fosse un residuo mitologico. In realtà, si tratta di qualcosa che ha origine dal centro stesso della fede cristiana. Il corpo non è, cartesianamente, la macchina mossa dall’anima, a lei collegata tramite la ghiandola pineale.
Noi siamo un corpo. È la materia che ci individua. Noi siamo quello che siamo perché viviamo in un tempo e in un luogo; le nostre esperienze, vissute tramite il corpo, determinano la costituzione del nostro io. Soprattutto, il corpo è il veicolo della relazione con l’altro.
Cartesio, proprio per il legame così lasco tra anima e corpo, pone la felicità massima nella contemplazione del proprio io pensante. Ma l’uomo d’oggi vede in questo solitudine e infelicità, perché aspira all’incontro con un tu che gli stia a fronte. La persona si costituisce tramite la sua storia, e la propria storia l’uomo la vive nel corpo. Il cristiano crede nell’Incarnazione del Figlio di Dio: «Il Verbo si è fatto carne», dice il prologo del Vangelo di Giovanni. L’incontro con il Cristo avviene mediante il sacramento del Corpo, l’Eucaristia.
Tutto questo dà un valore assoluto al singolo uomo: ogni uomo è il soggetto al quale si rivolge l’iniziativa divina, ogni uomo è chiamato, come un Tu assolutamente singolare, a dare una risposta assolutamente singolare. La morte non può distruggere questa relazione. Anzi, Gesù ci dà l’esempio della morte come atto supremo di comunione, col Padre e con i suoi fratelli.
Dunque, senza un corpo, la comunione è incompleta o, addirittura, non esiste. Per questa ragione, Dio vuole la risurrezione della carne: la vuole, perché vuole la comunione con l’uomo.
Ora, la domanda è proprio questa: può Dio volere la comunione con Hitler? Se rispondiamo di sì, allora i frammenti che contempliamo in questa mostra sono cosa sacra. Ma il nostro spirito si ribella. Si ribella anche alla formula della “banalità del male”. Di fronte ai campi di sterminio, siamo piuttosto portati a pensare a un male straordinario, eccezionale. Eccezionale vuol dire anche altro da noi, mentre la banalità suggerisce che anche noi saremmo potuti giungere a tali abissi. Condannare Hitler all’inferno, in qualche modo ci rassicura, perché crea una demarcazione tra noi e lui. Siamo noi, però, autorizzati a pronunziare questa sentenza? D’altra parte, coloro che hanno così terribilmente sofferto, non hanno forse il diritto di chiedere al Giudice le sue motivazioni? Certo, potremmo invocare la pietà. Ma sarebbe una pietà a buon mercato, un ’perdonismo’ facilone e ingiusto.
Tuttavia, la domanda va posta, anche perché altri “mostri” continuano a comparire, a Srebrenica, in Congo, in Medio Oriente. Ora, la domanda dev’essere posta a Dio: sei Tu in grado di guardare in faccia questo male? Questi uomini continuano ad appartenerti? Tieni presente che se rispondi di sì, allora ti stai prendendo la responsabilità del male da loro commesso. D’altra parte, se Tu li condanni, in nome di quale giustizia Tu li condanni?
C’è forse una giustizia superiore a Te, alla quale anche Tu devi inchinarti? Tu ti rendi conto perfettamente che sei stretto nell’alternativa: o diventi anche Tu sottoposto a un sistema di valori, che Tu stesso hai contribuito a creare, ma che ora Ti rendono irrilevante, perché noi li porteremo avanti, magari in nome tuo, ma affrancati dalla tua tutela. Oppure, Tu sei il Totalmente Altro, l’Incomprensibile, che richiedi un’obbedienza cieca: ma l’enormità del male ci autorizza a rifiutare la rinuncia al giudizio e Tu, ancora una volta, sarai convocato al tribunale dell’uomo.
Di fatto, questo è già avvenuto. La scelta di Barabba è anche la protesta verso un Dio che non dà spiegazioni, che rifiuta di correggere la sua creazione, che osa riconoscere all’uomo una libertà che può giungere fino a costruire Auschwitz. Alla domanda: può Dio prendere la responsabilità del male commesso dall’uomo? la risposta è sì. Questo è avvenuto sul Golgota. Lì, Dio ha accolto radicalmente il rifiuto dell’uomo, ha accettato che l’uomo lo respingesse fuori dalla storia, ha assunto in sé le conseguenze della scelta di Adamo. Ma ha trasformato tutto questo nell’atto supremo della sua presenza. «Dio è morto», proclamò Nietzsche, per dichiararne l’irrilevanza; «Dio è morto», è stato il grido d’angoscia di coloro che hanno rinunciato alla speranza, perché non hanno avuto risposta alla loro richiesta d’aiuto. «Dio è morto», diciamo anche noi, con reverenza, poiché riconosciamo nella croce questa inflessibile volontà di comunione, che acquisisce il diritto di afferrare l’uomo, ogni uomo, poiché si è fatta carico del suo dolore e persino della sua malvagità.
Per questo, penso che anche Hitler risorgerà. Negarlo, vorrebbe dire dichiarare limitata l’efficacia del sangue di Cristo. In mezzo alle infinte croci da lui piantate, questa mostra erige la croce di Hitler, denudando la sua miseria, l’oscenità del male del quale si è reso responsabile.
Ma in mezzo a queste croci, anzi, vicino a questa, che il giudizio dell’uomo legittimamente considera meritata, c’è la croce di Gesù. Penso che uscirò dalla mostra, allo stesso modo in cui gli spettatori si sono allontanati dal Calvario: «Tutta la folla, che era venuta a vedere questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornava battendosi il petto» (Lc 23,48).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
LA SCELTA DI BARABBA: "LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO".
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala
La spettrale presenza. Hitler, la radiografia e l’inconscio ottico
di Marco Senaldi *
[Foto] Antonello Fresu. Der Körper, still da video. Palazzo dei Pio, Carpi 2019
In un brano indimenticabile de La montagna incantata di Thomas Mann, pubblicato nel 1924 ma ambientato alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, il protagonista Hans Castorp è oggetto di una radiografia.
“E Castorp vide [...] in anticipo, grazie alla potenza della luce, la futura opera della decomposizione, la carne, che lo rivestiva, dissolta, distrutta, sciolta in una nebbia evanescente, e dentro a questa lo scheletro della sua destra finemente tornito, dove intorno alla falange dell’anulare era sospeso, nero e isolato, il suo anello col sigillo ereditato dal nonno [...] e per la prima volta in vita sua si rese conto che sarebbe morto. Behrens disse: ‘Spettrale, vero? Eh, una punta di spettralità c’è davvero’”.
Si tratta di un passaggio sintomatico per diverse ragioni. Sia pur attribuendola a Castorp, esso descrive, con grande precisione, una delle prime immagine a raggi X realizzata da Röntgen, quella della mano dell’amico Albert von Kölliker, in cui, attorno allo scheletro “finemente tornito” delle dita, spicca un anello maschile. La meraviglia dell’eroe di Mann testimonia che, ai suoi esordi, lungi dall’essere considerata un semplice dispositivo clinico, la radiografia a raggi X rivestiva ben altri significati che toccavano la consapevolezza e la fisicità del soggetto. E, in effetti, la diffusione delle immagini radiografiche fu all’inizio accolta non tanto come un avanzamento nella scienza medica, quanto come una curiosità scientifica, e anche una tecnica artistica, in grado di far vedere l’invisibile, in un periodo in cui le innovazioni nel campo della riproduzione delle immagini si succedevano l’una all’altra con grande rapidità.
L’anno della scoperta di Röntgen, il 1895, infatti, coincide con quello dell’invenzione del cinematografo, ma anche con la prima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia (antenata della futura Biennale d’arte) e con uno straordinario articolo di Georg Simmel sulla psicologia della moda. Moda, cinema, arte, sono altrettanti fenomeni legati alle immagini, intese non solo come rappresentazioni del reale, ma anche come rappresentazioni di noi stessi, e dunque della nostra identità. Possiamo perciò intendere queste invenzioni come altrettanti dispositivi, cioè strumenti che ci permettono di amplificare le capacità umane, ma, consentendoci di modificare la nostra visione del mondo, contemporaneamente modificano modo in cui vediamo e consideriamo noi stessi.
È questo il motivo per cui tutte queste invenzioni evidenziano un carattere ancipite e fortemente antinomico. Da un lato il cinema, come nota ottimisticamente Walter Benjamin, risponde al diritto di ogni uomo ad essere ripreso, dall’altro introduce una drammatica spaccatura all’interno del soggetto, come testimonia Varia Nestoroff, l’attrice russa protagonista del romanzo di Pirandello Si gira!, del 1913, che non si riconosce nelle immagini di se stessa sullo schermo. Allo stesso modo l’arte moderna - inaugurata appunto dall’esposizione veneziana - intesa come “evento temporaneo”, da un lato libera dal giogo della tradizione, ma dall’altro avvia un processo di destabilizzazione permanente nel fare creativo dell’artista; e infine, suprema contraddizione è quella che Simmel attribuisce alla moda, che, tramite la manipolazione dell’immagine offerta dall’abito, da un lato promette all’individuo di distinguersi dalla folla, e dall’altro risponde esattamente al bisogno opposto, quello di uniformarsi con la massa.
Questa discordanza diventa esplosiva nel caso dei raggi X. Scoperti quasi casualmente nel corso di una ricerca sui raggi catodici, solo in seguito vennero utilizzati per scopi diagnostici, in quanto in grado di osservare la struttura ossea al di sotto della pelle, ma quasi subito ci si rese conto della loro pericolosità per la salute. In pratica, i raggi X rendono evidente il paradosso epistemologico della modernità, la quale, nello sforzo di conoscere l’essenza al di là delle apparenze, finisce col contaminarla o persino per distruggerla. Questa ambiguità radicale riaffiora in un altro grande romanzo sul destino delle immagini, cioè L’invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares, apparso non per caso nel 1940.
Il dispositivo di Morel consiste infatti in una macchina da presa e da proiezione in grado di restituire non solo l’apparenza visiva delle cose riprese, ma la loro consistenza, generando per così dire dei doppioni “tangibili” identici agli originali. Il solo difetto della macchina - ma è un difetto fatale - è che gli esseri viventi che ne subiscano le riprese patiscono effetti devastanti, e sono destinati in breve tempo a una morte certa.
Il valore politico della metafora di Bioy Casares, concepita alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, è evidente: la massima riproducibilità dell’esistente è anche ciò che ne cancella l’esistenza; la duplicazione perfetta della vita non è che un modo inconsapevolmente perfetto per creare un universo di morte. In un certo senso, la parabola del nazismo corre lungo binari paralleli a questi: la sua esaltazione inconsulta della vitalità superomistica, dell’agonismo estetico e della kalokagathia olimpica (così ben raffigurati nelle immagini sublimi dei film di propaganda di Leni Riefenstahl, come appunto Olympia, 1936) non è che l’altra faccia, la proiezione splendente e solare, dell’oscuro desiderio di morte, di distruzione e di annientamento che viene simbolicamente rappresentato, nelle uniformi dei dittatori, dall’icona del teschio.
E torniamo così alle ossa, il residuo incancellabile che viene messo in evidenza per la prima volta dai raggi X. Si dice che la moglie di Röntgen, Bertha, che fu in effetti la prima persona ad essere sottoposta a una radiografia dal marito, abbia mormorato, osservando l’immagine radiografica della propria mano, “ho visto la mia morte”. Aveva ragione - salvo che non si trattava della morte in senso tradizionale, come termine delle funzioni vitali, distacco del corpo dall’anima o semplicemente dissolvimento della materia nei suoi componenti atomici: ciò a cui la radiografia ci mette di fronte è piuttosto l’enigmatico carattere inorganico della nostra natura animale, il suo residuo ancestrale, quasi l’impronta scheletrica di un fossile, il sigillo della morte catturato però dentro un essere vivente. Questa presa di coscienza della nostra inconsapevole origine minerale ha effetti devastanti: ci si rende infatti conto non solo della nostra fragile natura mortale, ma anche del fatto contrario - reso possibile solo da una tecnica essenzialmente moderna come i raggi X - cioè dell’esistenza in noi stessi di qualcosa di alieno che ci sopravvivrà. Da qui l’elemento fantasmatico, ossia non-del-tutto-mortale, testimoniato dalla radiografia, cioè la “punta di spettralità” così ben individuata da Behrens, il medico di Castorp.
Il fatto che anche Hitler sia stato sottoposto, come milioni di altri pazienti, ad una indagine radiografica, potrebbe essere preso come un fatto del tutto normale. Ma cessa immediatamente di esserlo se pensiamo che lo stesso individuo è stato anche uno dei primi personaggi storici ad essere filmato e fotografato con una tale frequenza e una tale assiduità che non hanno precedenti. Tuttavia, mentre le fotografie e i filmati ci restituiscono un Hitler sempre presente a se stesso, sempre attentissimo a interpretare un ruolo pubblico divenuto in lui come una autentica “seconda natura”, le sue radiografie colgono un aspetto inedito e sconcertante della sua personalità. Guardarle è come osservare il fossile di un temibile Tirannosaurus Rex, il mostruoso dinosauro predatore del giurassico, il cui scheletro, anche se ridotto a una curiosità da Museo di scienze naturali, incute ancora timore. In esse cogliamo un Hitler che nemmeno Hitler sapeva di possedere, il suo estremo residuo umano, la struttura inorganica che testimonia due cose: sia il fatto che anche lui apparteneva - che gli piacesse o no - alla nostra specie -, sia il fatto che non ne era al corrente. Se c’è un’immagine che rappresenta il concetto benjaminiano di “inconscio ottico”, questa è certamente la radiografia di Hitler - cioè non la descrizione del suo inconscio psicologico (fin troppo scandagliato), ma l’istantanea del suo inconscio per così dire antropologico, la sua essenza “umana”, troppo umana, da cui certamente avrebbe desiderato liberarsi.
Non è un caso che uno dei più implacabili satireggiatori del regime nazista, cioè quel Helmut Herzfeld che cambiò il suo nome in John Heartfield in dispregio alle sue origini germaniche, abbia rappresentato nel 1932 il “vero” Hitler, utilizzando una radiografia in cui, sotto il volto del Fürher si vede il suo busto pieno di monete d’oro, in un fotomontaggio dall’ironico titolo Hitler Superuomo - ingoia oro e sputa schifezze.
Allo stesso modo, nell’operazione di Antonello Fresu, le riproduzioni ingigantite delle radiografie del Fürher e i suoi esami medici ci mettono di fronte a un enigma che certamente era enigmatico per Hitler stesso: come può un superuomo simile condividere con la vile razza umana la stessa misera impalcatura scheletrica?
L’aspetto spettrale che promana da queste gigantografie è fantasmatico in un duplice senso: da un lato perché accende in chi guarda la sensazione di un morire incompleto, che si lascia dietro il resto ineliminabile dello scheletro osseo; dall’altro perché questo scheletro appartiene veramente a un fantasma, anzi al peggior incubo possibile, quello dell’individuo più disumano di sempre, Adolf Hitler. Il sottile senso di inquietudine che ne promana è anch’esso quindi duplice perché da un lato riguarda genericamente la paura della morte, ma dall’altro concerne una paura ancor più radicale, cioè che lo spettro qui radiografato non sia veramente morto, e che la sua scheletrica presenza possa ancora, in un dato momento, rianimarsi.
Si dice che, poco prima di morire, Hitler abbia affermato che “bisogna eliminare l’ebreo che è in noi”. Un’affermazione ambigua e inquietante, che sembra far presagire il vero futuro dell’antisemitismo “classico” - cioè non tanto e non più solo lo sterminio di una “razza” considerata inferiore, e tuttavia esterna a quella superiore, ma la cancellazione dell’ultima traccia di altruismo all’interno del soggetto “superiore” stesso, la distruzione dell’umano all’interno del superuomo. La visione dell’installazione di Antonello Fresu fornisce una possibile risposta alla sconcertante affermazione di Hitler: ciò da cui egli avrebbe voluto liberarsi, senza per questo riuscirci, era proprio ciò che le sue radiografie ci permettono invece di vedere: il suo scheletro, il suo teschio, i suoi organi interni, così miseramente identici a quelli di chiunque. D’altra parte, queste immagini ricordano a tutti noi che liberarsi dal fantasma di Hitler ci è altrettanto impossibile che per lui liberarsi dal fantasma dell’ebreo interiore: lo spettro di questo “Hitler interiore” è dentro di noi come le nostre ossa e i nostri organi interni, ci appartiene più di quanto noi stessi non ci apparteniamo e incarna quel fantasma del Male da cui, anche nei nostri sogni più radiosi, continuiamo a essere ossessionati.
* Marco Senaldi (Artribune, 25,01,2019)
Radiografie e battiti del cuore va in mostra il corpo di Hitler
Si inaugura a Carpi il controverso allestimento curato dallo psicoanalista Antonello Fresu
di Marco Belpoliti (la Repubblica, 26.01.2019)
Hitler a Carpi? Cosa ci fa la radiografia del capo nazista nella Sala dei Cervi dell’antico Palazzo dei Pio insieme al battito tambureggiante del suo cuore?
Hitler è morto suicida il 30 aprile 1945 nel bunker della Cancelleria di Berlino. Il suo corpo fu cosparso di benzina e bruciato, quindi la salma carbonizzata sepolta insieme ai resti di altri cadaveri irriconoscibili. I soldati sovietici cercarono il corpo del dittatore, fino a che rinvennero un osso mandibolare e due ponti dentari; presentati al suo odontotecnico, Fritz Echtmann, furono identificati grazie alla cartelle cliniche. Nonostante questo, restò l’ipotesi che fosse ancora vivo e nascosto da qualche parte, una leggenda che circolò negli anni ’50 e ’60. Nel 1945 l’esercito americano realizzò un dossier sul capo nazista utilizzando le cartelle cliniche del suo medico, Theodor Morrell: 47 pagine che contenevano la radiografia del cranio del leader e alcuni elettrocardiogrammi, intitolate Investigation into whereabouts. Nel 1983 sono state rese accessibili insieme alle ricerche dell’Fbi per "ritrovare" il dittatore.
Antonello Fresu, psicoanalista junghiano, ha usato quelle pagine e realizzato l’installazione Der Körper che s’inaugura oggi nello spazio del castello di Carpi sotto l’egida della Fondazione Fossoli (fino al 31 marzo). Nella prima stanza buia appaiono le imponenti radiografie del cranio di Hitler, alte tre metri, retroilluminate: sono fantasmi neri su fondo bianco, e insieme impressionanti opere grafiche, il cui significato luttuoso appare subito evidente.
Nella seconda sala i referti clinici analizzati da specialisti medici di oggi, come si trattasse di un paziente qualsiasi, mentre sulla volta appaiono parate naziste, Hitler che arringa la folla e raduni militari. Nella terza stanza sono riportati i documenti del dossier americano, mentre nella quarta, e ultima, su uno schermo compare la simulazione del battito del cuore e un elettrocardiografo dell’epoca emette il tracciato di quell’esame clinico in presa diretta: si attiva appena le persone entrano nella sala come un misterioso saluto di benvenuto.
L’idea di Fresu, attento indagatore dell’Ombra, per dirla con Jung, ha qualcosa d’inquietante: stende un mantello di nere tenebre in questo luogo e obbliga i visitatori a incontrare, come scrive Marco Senaldi in un testo che apparirà nel catalogo della mostra, a guardare il fossile di un Tirannosaurus Rex, il cui scheletro è stato conservato e trasformato in curiosità espositiva da Museo di Scienze Naturali. Già di per sé le radiografie sono qualcosa di conturbante, e queste di grandi dimensioni, anche senza sapere che appartengono al cranio di Hitler, inquietanti. Pare che la moglie dell’uomo che ha inventato questo metodo d’indagine, Wilhelm C. Röntgen, dopo essere stata sottoposta alla prima radiografia, abbia detto: ho visto la mia morte. Questi light box contengono una doppia morte: quella del paziente Adolf Hitler e quella del dittatore che ha provocato la più immane catastrofe del XX secolo. Un uomo e insieme il peggior criminale della storia. È come se, per una nera magia, il doppio corpo del Re, per dirla con Ernst Kantorowicz, corpo materiale e corpo sacrale, corpo che muore e quello che invece si trasmette sotto forma di regalità, si fossero ricongiunti per un imponderabile maleficio. Fresu, nel suo doppio ruolo di psicoanalista e di artista, ha messo in mostra un’ombra e il suo fantasma. Come se i fantasmi potessero avere un’ombra. Batte il cuore di uno spettro mentre i soldati camminano a passo dell’oca sulle volte ricurve del Castello.
Spettro perché, mentre i fantasmi sono bianchi, Hitler è nero, anzi nerissimo. Il capo nazista è stato e resta un enigma. Il suo maggior biografo, l’inglese Ian Kershaw, s’è chiesto come un uomo così bizzarro abbia potuto prendere il potere in uno Stato moderno com’era la Germania dell’inizio del XX secolo. Dotato di grandi abilità demagogiche e di una capacità straordinaria di sfruttare le debolezze dei suoi avversari, Hitler resta un mistero per chi l’ha indagato: di quali poteri era dotato per riuscire a trascinare le classi dirigenti tedesche in un’avventura così nefanda e disastrosa? Risposta non c’è. Salvo ricorrere alla metafisica del Male, o a spiegazioni che esorbitano dalla nostra comprensione razionale. Der Körper bordeggia quello spazio irrazionale, lo lambisce e per questo scuote il visitatore, lo mette in allerta. Persegue questo scopo e anche quello di indicare che Hitler era un uomo come noi, che aveva un corpo simile al nostro: era normale. Non era un mostro?
Possibile? Il concetto di "mostro" non è facile da maneggiare; fa vacillare, perché spiega qualcosa d’inspiegabile. Primo Levi, al termine del suo I sommersi e i salvati, sostiene di non aver mai incontrato dei mostri nel lager, solo degli uomini che erano stati educati male. L’arcano di Hitler resta irrisolto.
La mostra è elegante e la sua provocazione colpisce. Tra tutti i dittatori del XX secolo, Hitler era quello che sembrava avere meno corpo di tutti; lo nascondeva persino ai propri intimi: nessuno l’ha mai visto a torso nudo. Come aveva detto Jung, intervistato da un giornalista americano, poco dopo la sua ascesa al potere, quello che colpiva era prima di tutto la voce del dittatore, la vibrazione isterica che conteneva, una voce che stregava milioni di tedeschi e li coinvolgeva. Come controcanto a questa ostensione fantasmatica della testa e del cuore del dittatore funziona la voce tremenda di Hitler che echeggia nelle sale, una voce uscita da un corpo così piccolo e modesto, che non riusciamo a dimenticare, e che come uno spettro circola ancora oggi per l’Europa dei suoi tardi, assurdi e fanatici ammiratori.
COME IL BUON-GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").... *
Messaggio.
Il Papa: ecco la Rete che vogliamo. Per liberare, non intrappolare
Oggi, memoria di san Francesco di Sales, pubblicato il Messaggio di papa Francesco per la Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali che sarà celebrata il 2 giugno
di Gianni Cardinale (Avvenire, giovedì 24 gennaio 2019)
Internet «rappresenta una possibilità straordinaria di accesso al sapere», ma è anche «uno dei luoghi più esposti alla disinformazione e alla distorsione consapevole e mirata dei fatti e delle relazioni interpersonali, che spesso assumono la forma del discredito». La rete poi «è un’occasione per promuovere l’incontro con gli altri», ma «può anche potenziare il nostro autoisolamento, come una ragnatela capace di intrappolare». Ecco quindi che il web deve essere fatto non «per intrappolare, ma per liberare».
Lo scrive papa Francesco nel Messaggio, diffuso oggi, per la 53ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali che quest’anno si celebra, in molti Paesi, domenica 2 giugno, Solennità dell’Ascensione del Signore.
Il Messaggio del Pontefice è pubblicato come da tradizione nel giorno in cui la Chiesa celebra la memoria liturgica di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti. Ed ha come titolo «’Siamo membra gli uni degli altri’ (Ef 4,25). Dalle social network communities alla comunità umana» (IL TESTO INTEGRALE).
Nel testo il Pontefice denuncia l’uso dei social per fomentare "spirali di odio" e "ogni tipo di pregiudizio", nonché i rischi del cyberbullismo, del narcisismo e dell’autoisolamento che porta al fenomeno degli "eremiti sociali". Papa Francesco inoltre ribadisce che la rete deve fondarsi "sulla verità" e non "sui like".
Per Papa Francesco «le reti sociali, se per un verso servono a collegarci di più, a farci ritrovare e aiutare gli uni gli altri, per l’altro si prestano anche ad un uso manipolatorio dei dati personali, finalizzato a ottenere vantaggi sul piano politico o economico, senza il dovuto rispetto della persona e dei suoi diritti». Senza contare che «tra i più giovani le statistiche rivelano che un ragazzo su quattro è coinvolto in episodi di cyberbullismo».
Usando la metafora della rete come comunità, il Pontefice osserva come «nello scenario attuale, la social network community non sia automaticamente sinonimo di comunità». Infatti «nei casi migliori le community riescono a dare prova di coesione e solidarietà, ma spesso rimangono solo aggregati di individui che si riconoscono intorno a interessi o argomenti caratterizzati da legami deboli».
Come ritrovare allora «la vera identità comunitaria nella consapevolezza della responsabilità che abbiamo gli universo gli altri anche nella rete online?».
Una possibile risposta, scrive papa Francesco, «può essere abbozzata» a partire da un’altra metafora, quella del corpo e delle membra, che san Paolo usa nella Lettera agli Efesini «per parlare della relazione di reciprocità tra le persone, fondata in un organismo che le unisce». Infatti «l’essere membra gli uni degli altri è la motivazione profonda, con la quale l’Apostolo esorta a deporre la menzogna e a dire la verità: l’obbligo a custodire la verità nasce dall’esigenza di non smentire la reciproca relazione di comunione».
Per il Pontefice «l’immagine del corpo e delle membra ci ricorda che l’uso del social web è complementare all’incontro in carne e ossa, che vive attraverso il corpo, il cuore, gli occhi, lo sguardo, il respiro dell’altro». Così quando «la rete è usata come prolungamento o come attesa di tale incontro, allora non tradisce se stessa e rimane una risorsa per la comunione». Quando «una famiglia usa la rete per essere più collegata, per poi incontrarsi a tavola e guardarsi negli occhi, allora è una risorsa». Quando «una comunità ecclesiale coordina la propria attività attraverso la rete, per poi celebrare l’Eucaristia insieme, allora è una risorsa». Quando “la rete è occasione per avvicinarmi a storie ed esperienze di bellezza o di sofferenza fisicamente lontane da me, per pregare insieme e insieme cercare il bene nella riscoperta di ciò che ci unisce, allora è una risorsa”.
La «rete che vogliamo» conclude papa Francesco è «la strada al dialogo, all’incontro, al sorriso, alla carezza...». Una rete insomma «non fatta per intrappolare, ma per liberare, per custodire una comunione di persone libere». E la Chiesa stessa «è una rete tessuta dalla comunione eucaristica, dove l’unione non si fonda sui ‘like’, ma sulla verità, sull’’amen’, con cui ognuno aderisce al Corpo di Cristo, accogliendo gli altri».
Il Messaggio del Pontefice ha raccolto il plauso di Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, segretario generale e presidente della Federazione della Stampa: "È un’esortazione e un invito alla riflessione".
Vedi anche: Ecco la nuova App Cei per restare informati sulla vita della Chiesa e non solo
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"Dominus Iesus": RATZINGER, LO "STERMINATORE DI ECUMENISMO". Un ’vecchio’ commento del teologo francescano Leonard Boff
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.
Federico La Sala
Vaticano.
Il Papa: serve una nuova bioetica «globale» nell’era della robotica
Il rilancio dell’umanesimo cristiano per un’antropologia all’altezza delle sfide globali su scienza e nuove tecnologie applicate all’uomo. È la consegna del Papa alla Pontificia Accademia per la Vita
di Francesco Ognibene (Avvenire, martedì 15 gennaio 2019)
Una «nuova prospettiva etica universale, attenta ai temi del creato e della vita umana», con l’obiettivo di «rilanciare con forza l’umanesimo della vita che erompe dalla passione di Dio per la creatura umana»: è l’impegno culturale al quale papa Francesco chiama la Pontificia Accademia per la Vita, a 25 anni dalla sua fondazione per opera di san Giovanni Paolo II su impulso del grande genetista Jerome Lejeune, del quale è in corso il processo di canonizzazione.
In una lettera al presidente dell’Accademia monsignor Vincenzo Paglia, il Santo Padre indica tre fondamentali obiettivi ai quali l’istituzione deve puntare nel suo futuro per animare il dibattito bioetico, sapendo «elaborare argomentazioni e linguaggi che siano spendibili in un dialogo interculturale e interreligioso, oltre che interdisciplinare».
1. La bioetica globale
Il criterio di riferimento per la tutela e la promozione della vita umana, secondo il Pontefice, è oggi la ricostruzione di un umanesimo, che «in tanti decenni» è stato invece logorato e confuso «con una qualsiasi ideologia della volontà di potenza», ideologia che oggi «si avvale dell’appoggio convinto del mercato e della tecnica» e che è da «contrastare». La «differenza della vita umana - spiega Francesco - è un bene assoluto, degno di essere eticamente presidiato, prezioso per la cura di tutta la creazione». Questo nuovo «orizzonte umanistico», da «riaprire» anche «in seno alla Chiesa» e fondato sulla visione cristiana dell’uomo come creatura a immagine del Padre, è in grado di produrre una «sintesi antropologica all’altezza di questa sfida epocale». Si tratta infatti di «rendere la riflessione su questi temi sempre più attenta al contesto contemporaneo, in cui il ritmo crescente dell’innovazione tecnoscientifica e la globalizzazione moltiplicano le interazioni, da una parte, tra culture, religioni e saperi diversi, dall’altra, tra le molteplici dimensioni della famiglia umana e della casa comune che essa abita». La risposta a questo scenario è la «bioetica globale, con la sua visione ampia e l’attenzione all’impatto dell’ambiente sulla vita e sulla salute».
2. Le manipolazioni dell’umano.
La riflessione bioetica della Chiesa deve puntare sulle «nuove tecnologie oggi definite "emergenti e convergenti". Esse - spiega il Papa - includono le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, le biotecnologie, le nanotecnologie, la robotica». Evidente la preoccupazione di Francesco: «Avvalendosi dei risultati ottenuti dalla fisica, dalla genetica e dalle neuroscienze, come pure della capacità di calcolo di macchine sempre più potenti, è oggi possibile intervenire molto profondamente nella materia vivente. Anche il corpo umano è suscettibile di interventi tali che possono modificare non solo le sue funzioni e prestazioni, ma anche le sue modalità di relazione, sul piano personale e sociale, esponendolo sempre più alle logiche del mercato. Occorre quindi anzitutto comprendere le trasformazioni epocali che si annunciano su queste nuove frontiere, per individuare come orientarle al servizio della persona umana, rispettando e promuovendo la sua intrinseca dignità».
3. Diritti umani e fraternità
La bioetica come riflessione sulla vita umana a partire da una riconoscibile visione dell’uomo non può prescindere secondo il Papa da una chiara visione della «giustizia che mostri il ruolo irrinunciabile della responsabilità nel discorso sui diritti umani e la loro stretta correlazione con i doveri, a partire dalla solidarietà con chi è maggiormente ferito e sofferente». Questa premessa rende possibile affermare che «la medicina e l’economia, la tecnologia e la politica che vengono elaborate al centro della moderna città dell’uomo, devono rimanere esposte anche e soprattutto al giudizio che viene pronunciato dalle periferie della terra». Giustizia e diritti umani parlano la lingua degli esclusi, anche dal progresso: «Di fatto, le molte e straordinarie risorse messe a disposizione della creatura umana dalla ricerca scientifica e tecnologica - spiega il Papa - rischiano di oscurare la gioia della condivisione fraterna e la bellezza delle imprese comuni, dal cui servizio ricavano in realtà il loro autentico significato. Dobbiamo riconoscere che la fraternità rimane la promessa mancata della modernità. Il respiro universale della fraternità che cresce nel reciproco affidamento - all’interno della cittadinanza moderna, come fra i popoli e le nazioni - appare molto indebolito. La forza della fraternità, che l’adorazione di Dio in spirito e verità genera fra gli umani, è la nuova frontiera del cristianesimo».
Il Papa ricorda anche il grande impegno dell’Accademia lungo un quarto di secolo «per la promozione e la tutela della vita umana in tutto l’arco del suo svolgersi, la denuncia dell’aborto e della soppressione del malato come mali gravissimi, che contraddicono lo Spirito della vita e ci fanno sprofondare nell’anti-cultura della morte. Su questa linea - aggiunge - occorre certamente continuare, con attenzione ad altre provocazioni che la congiuntura contemporanea offre per la maturazione della fede, per una sua più profonda comprensione e per più adeguata comunicazione agli uomini di oggi». Francesco chiede però anche di presare attenzione alla «distanza fra l’ossessione per il proprio benessere e la felicità dell’umanità condivisa», che «sembra allargarsi» sino «a far pensare che fra il singolo e la comunità umana sia ormai in corso un vero e proprio scisma». Uno sguardo umanistico ed esistenziale che allarga l’orizzonte dell’Accademia e la stessa frontiera della bioetica senza negare nulla di ciò che ha segnato il suo percorso storico ma espandendo a tutto campo l’energia della passione per l’uomo figlio di Dio.
Il cielo si apre
Siamo tutti figli di Dio nel Figlio
di Ermes Ronchi ( Avvenire, giovedì 10 gennaio 2019)
In quel tempo, poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il Battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».
«Viene dopo di me colui che è più forte di me". In che cosa consiste la forza di Gesù? Lui è il più forte perché parla al cuore. Tutte le altre sono voci che vengono da fuori, la sua è l’unica che suona in mezzo all’anima. E parla parole di vita. «Lui vi battezzerà...» La sua forza è battezzare, che significa immergere l’uomo nell’oceano dell’Assoluto, e che sia imbevuto di Dio, intriso del suo respiro, e diventi figlio: a quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio (Gv 1,12). La sua è una forza generatrice («sono venuto perché abbiano la vita in pienezza», Gv 10,10), forza liberante e creativa, come un vento che gonfia le vele, un fuoco che dona un calore impensato. «Vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Il respiro vitale e il fuoco di Dio entrano dentro di me, a poco a poco mi modellano, trasformano pensieri, affetti, progetti, speranze, secondo la legge dolce, esigente e rasserenante del vero amore. E poi mi incalzano a passare nel mondo portando a mia volta vento e fuoco, portando libertà e calore, energia e luce. Gesù stava in preghiera ed ecco, il cielo si aprì. La bellezza di questo particolare: il cielo che si apre. La bellezza della speranza! E noi che pensiamo e agiamo come se i cieli si fossero rinchiusi di nuovo sulla nostra terra. Ma i cieli sono aperti, e possiamo comunicare con Dio: alzi gli occhi e puoi ascoltare, parli e sei ascoltato.
E venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento». La voce annuncia tre cose, dette per Gesù e per ciascuno di noi: “Figlio” è la prima parola: Dio è forza di generazione, che come ogni seme genera secondo la propria specie. Siamo tutti figli di Dio nel Figlio, frammenti di Dio nel mondo, specie della sua specie, abbiamo Dio nel sangue e nel respiro.
“Amato” è la seconda parola. Prima che tu agisca, prima di ogni merito, che tu lo sappia o no, ogni giorno ad ogni risveglio, il tuo nome per Dio è “amato”. Immeritato amore, incondizionato, unilaterale, asimmetrico. Amore che anticipa e che prescinde da tutto.
“Mio compiacimento” è la terza parola. Che nella sua radice contiene l’idea di una gioia, un piacere che Dio riceve dai suoi figli. Come se dicesse a ognuno: figlio mio, ti guardo e sono felice. Se ogni mattina potessi immaginare di nuovo questa scena: il cielo che si apre sopra di me come un abbraccio, un soffio di vita e un calore che mi raggiungono, il Padre che mi dice con tenerezza e forza: figlio, amore mio, mia gioia, sarei molto più sereno, sarei sicuro che la mia vita è al sicuro nelle sue mani, mi sentirei davvero figlio prezioso, che vive della stessa vita indistruttibile e generante.
(Letture: Isaia 40,1-5.9-11; Salmo 103; Tito 2,11-14;3,4-7; Luca 3, 15-16.21-22).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Udienza generale.
Papa Francesco: dove c’è il Vangelo c’è rivoluzione
Nella prima catechesi del 2019 Francesco ritorna sulla preghiera del Padre Nostro: «Pregare Dio come un figlio, non come un pappagallo che parla, parla, parla»
di Redazione Internet (Avvenire, mercoledì 2 gennaio 2019)
"Dove c’è il Vangelo c’è rivoluzione. Il Vangelo non lascia quieti, ci spinge: è rivoluzionario". Così si è espresso il Papa nella prima udienza generale del 2019, ricordando che il Vangelo di Matteo pone il testo del Padre nostro "in un punto strategico, al centro del discorso della montagna", Francesco ha osservato che con le Beatitudini "Gesù incorona di felicità una serie di categorie di persone che nel suo tempo - ma anche nel nostro! - non erano molto considerate. Beati i poveri, i miti, i misericordiosi, le persone umili di cuore... È la rivoluzione del Vangelo".
"Il grande segreto che sta alla base di tutto il discorso della montagna” è questo, ha aggiunto Francesco, nel corso dell’udienza generale, in aula Paolo VI: "Siate figli del Padre vostro che è nei cieli. Apparentemente questi capitoli del Vangelo di Matteo sembrano essere un discorso morale, sembrano evocare un’etica così esigente da apparire impraticabile, e invece scopriamo che sono soprattutto un discorso teologico".
È UNO SCANDALO ANDARE IN CHIESA MA ODIARE GLI ALTRI
Il cristiano, ha osservato il Pontefice, “non è uno che si impegna a essere più buono degli altri: sa di essere peccatore come tutti. Il cristiano semplicemente è l’uomo che sosta davanti al nuovo Roveto Ardente, alla rivelazione di un Dio che non porta l’enigma di un nome impronunciabile, ma che chiede ai suoi figli di invocarlo con il nome di ‘Padre’, di lasciarsi rinnovare dalla sua potenza e di riflettere un raggio della sua bontà per questo mondo così assetato di bene, così in attesa di belle notizie". Ecco dunque come Gesù introduce l’insegnamento della preghiera del “Padre nostro”: "Lo fa prendendo le distanze da due gruppi del suo tempo. Anzitutto gli ipocriti: ‘Non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente’. C’è gente che è capace di tessere preghiere atee, senza Dio: lo fanno per essere ammirati dagli uomini". "Quante volte - ha detto a braccio - noi vediamo lo scandalo di quelle persone che vanno in chiesa e stanno tutta la giornata lì e poi vivono odiando gli altri o parlando male della gente. Ma allora è meglio non andare in chiesa". "Se vai in Chiesa devi vivere come figlio e dare buona testimonianza, non una contro testimonianza".
PREGARE NON È PARLARE COME UN PAPPAGALLO, MA RIVOLGERSI A DIO COME UN FIGLIO AL PADRE
La preghiera cristiana, invece, "non ha altro testimone credibile che la propria coscienza, dove si intreccia intensissimo un continuo dialogo con il Padre: ‘Quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto’".
"I pagani pensano - ha aggiunto il Papa - che parlando, parlando parlando Dio ascolta”, ma “io penso - ha aggiunto a tanti cristiani che credono che pregare è parlare a Dio come un pappagallo, no pregare si fa dal cuore, da dentro", ha osservato a braccio. "Tu invece - dice Gesù -, quando preghi, rivolgiti a Dio come un figlio a suo padre, il quale sa di quali cose ha bisogno prima ancora che gliele chieda. Potrebbe essere anche una preghiera silenziosa, il ‘Padre nostro’: basta in fondo mettersi sotto lo sguardo di Dio, ricordarsi del suo amore di Padre, e questo è sufficiente per essere esauditi".
"È bello pensare - ha concluso - che il nostro Dio non ha bisogno di sacrifici per conquistare il suo favore! Non ha bisogno di niente, il nostro Dio: nella preghiera chiede solo che noi teniamo aperto un canale di comunicazione con Lui per scoprirci sempre suoi figli amatissimi. E Lui ci ama tanto".
Dopo i saluti ai pellegrini polacchi, una ventata di musica e colore in aula Paolo VI: si sono esibiti, infatti, davanti a un divertito papa Francesco, artisti del circo di Cuba, con danze ed esercizi acrobatici. "Con il loro spettacolo portano bellezza, una bellezza che ci vuole tanto sforzo, allenamento per farlo. La bellezza sempre eleva il cuore, ci fa più buoni a tutti, ci porta alla bontà, ci porta a Dio. Grazie tante" così li ha salutati il Pontefice.
IL PRESEPE E LA NOTTE DI NATALE: LA LEZIONE DI MARX, E IL MESSAGGIO EVANGELICO .... *
«L’omelia del ’78 di Ratzinger:
Un mondo senza dolore non è umano»
«Ecco perche Marx aveva torto». Il tempo di Natale: Dio ha scelto di condividere con gli uomini il peso della vita
di Joseph Ratzinger (Corriere della Sera, 27.12.2018)
«Consolate, consolate il mio popolo!» (Is 40,1). Questo abbiamo appena ascoltato dalla voce del profeta Isaia. Queste grandi, antiche parole di speranza e di fiducia del popolo d’Israele, toccano sempre di nuovo il cuore. All’interno della storia dei profeti suonavano nuove: all’inizio, al tempo dei Re - a partire da Elia e, passando per Amos, Osea e Michea, fino a Isaia e Geremia - i profeti erano stati soprattutto ammonitori duri ed esigenti che, a difesa della causa dei dimenticati, delle vedove, degli orfani e dei poveri, scuotevano la coscienza degli ipocriti, potenti e sicuri di sé con la loro giustizia esteriore. Si ascoltavano parole inquietanti e sconvolgenti come queste: «Le vostre feste, le vostre preghiere non le posso più sentire, non posso più sopportare l’odore del vostro incenso. Il digiuno che voglio è piuttosto rendere giustizia all’orfano e alla vedova» (cfr. Is 1,11-17).
Geremia
Alla fine della lunga serie di ammonitori che scuotono, sta Geremia, il quale, contro l’ostinato nazionalismo che vuole appropriarsi di Dio e strumentalizzarlo, si leva con le ragioni della fede e diviene martire. Seguì il grande silenzio dell’esilio babilonese. Ma dopo settant’anni, dopo che Israele era stato schiacciato e sembrava quasi cancellato, si sente questa voce del tutto nuova! «Basta soffrire. La grande potenza, che vi ha deportato, non c’è più». Si riaprono le porte della patria. La steppa si muta in strada e ora i calpestati, i vinti, alla fine sono i veri vincitori. Dio si è ricordato di loro, ed egli è più potente delle grandi potenze di questo mondo, anche se è lui a scegliere il momento nel quale intervenire. «Consolate il mio popolo!». Dio non dimentica i sofferenti, ma li ama e li solleva.
Il cuore
Per quanto questo ci commuova e ci tocchi il cuore, permane in noi una qualche obiezione o perlomeno una domanda: questa consolazione non è troppo lontana nel tempo? E non ha forse ottenuto troppo poco? Ben presto Israele stesso è caduto di nuovo in disgrazia. E se oggi osserviamo il mondo, non mancano immagini di desolazione che ci toccano. Proprio quando vediamo come domini in mezzo ai popoli benestanti la desolazione, tanto più ci domandiamo: «Signore, dov’è la tua consolazione?». Ma forse tanto più comprendiamo che abbiamo bisogno della Chiesa, che con piena autorità oggi può pronunciare nel nome del Signore le parole di allora: «Consolate il mio popolo!». È lei che dà la vera consolazione.
Storia della salvezza
La Chiesa, nel corso del suo anno liturgico, ripercorre l’intera storia della salvezza. Per molte settimane si presenta a noi con l’atteggiamento di Osea o di Elia: e cioè ammonendoci, scuotendoci, esortandoci, volendo strapparci dal nostro egoismo, dalla nostra avidità, dal nostro autocompiacimento. Ma nell’Avvento giunge l’ora del Dio buono, del Dio che consola. Diviene evidente che la Chiesa non è solo un’agenzia morale, un’organizzazione umanitaria, che essa non esige solo il rispetto di vari precetti, indica bisogni e pone richieste, ma che è lo spazio della grazia, in cui Dio le va incontro soprattutto come colui che dona e che dà. Ma dove si trova questa consolazione? Dio come consola in realtà?
Luce e fede
Il primo livello consiste nel fatto che siamo chiamati. Egli desidera che irradiamo la luce della fede che ha posto nei nostri cuori e così riscaldiamo il mondo. Egli vuole consolare attraverso di noi e ci fa sapere che egli ama in particolar modo proprio gli afflitti, gli sconsolati, che s’identifica con loro e in essi attende noi e la nostra bontà. Il nome dello Spirito Santo è «Consolatore». Dio ci aiuta nello Spirito Santo tanto più quanto più siamo uomini che consolano, uomini di una bontà che consola. Questo significa anche che noi non dobbiamo essere come quelli per i quali la piccola consolazione della vita quotidiana è troppo poco e che dicono: no, questo sistema deve essere trasformato, abbiamo bisogno di un mondo nel quale la consolazione non sia più necessaria; ovvero, come ha detto Brecht esasperando il concetto: «Vogliamo un mondo nel quale non ci sia più bisogno di amore». Un mondo così, però, nel quale non c’è più bisogno di consolazione, sarebbe un mondo desolato; un mondo in cui l’amore non fosse più necessario, perché il sistema provvede già a tutto, sarebbe un mondo disumano. Dio vuole consolare attraverso di noi.
Solo parole
Ma invece, di continuo si solleva il sospetto che siano solo parole, promesse consolatorie. Chiediamoci allora: che cosa avviene quando un uomo consola un bambino a cui è morta la mamma? Non può annullare quella morte, non può cancellare il dolore da essa provocato, non può magicamente trasformare il mondo con ciò che esso ha di triste. Può però entrare nella solitudine generata dall’amore distrutto, che è l’autentico motivo del dolore, come uno che condivide il dolore e dà amore. Così, pur non potendo cancellare l’accaduto, non è un parolaio; se penetra, amando, nella solitudine dell’amore perduto, trasforma dall’interno, sana all’origine, sana l’essenziale. E non c’è alcun dubbio che, se egli veramente condivide il dolore e dà amore, allora le sue non saranno solo parole.
Cambiare il sistema
Dio non ha operato - come noi sogneremmo e come poi Karl Marx ha gridato a gran voce al mondo - in modo da far scomparire il dolore e cambiare il sistema, così che non ci sia più bisogno di consolazione. Questo significherebbe toglierci l’umanità. Ed è quello che nel segreto desideriamo. Sì, essere uomini ci è troppo pesante. Ma se ci venisse tolta la nostra umanità, smetteremmo di essere uomini e il mondo diverrebbe disumano. Dio non ha operato così. Ha scelto un modo più sapiente, più difficile, da un certo punto di vista, ma proprio per questo migliore, più divino. Egli non ci ha tolto la nostra umanità, ma la condivide con noi. Egli è entrato nella solitudine dell’amore distrutto come uno che condivide il dolore, come consolazione. Questo è il modo divino della redenzione. Forse possiamo capire nel modo migliore che cosa significhi cristianamente redenzione a partire da qui: non trasformazione magica del mondo, non che ci viene tolta la nostra umanità, ma che siamo consolati, che Dio condivide con noi il peso della vita e che ormai la luce del suo condividere l’amore e il dolore sta per sempre in mezzo a noi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL PRESEPE E LA NOTTE DI NATALE. La lezione di Pirandello a Benedetto XV e a Benedetto XVI
LA TEOLOGIA DI "MAMMONA" ("caritas"), LA LEZIONE DI MARX, E IL MESSAGGIO EVANGELICO ("Charitas").
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito... *
L’esilio e la promessa...
Ricordare è verbo di futuro
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 1 dicembre 2018)
Sono i segni religiosi quelli che più incidono la terra e dicono il carattere di una cultura. Templi, altari, edicole, croci, steli separano nel territorio il sacro dal profano, rivelano e danno nomi e vocazioni alle terre, trasformano gli spazi in luoghi. La terra porta iscritte nelle sue ferite i nostri vizi e le nostre virtù. Accoglie mite le nostre tracce, si lascia, mansueta, associare alle nostre sorti, e con una sua misteriosa e reale reciprocità comunica con noi. Tra le note della profezia c’è anche la capacità di interpretate il linguaggio della creazione, di raccontarcelo, di parlare al nostro posto e in nostro nome. Cosa direbbero, oggi, i profeti di fronte piaghe che stiamo producendo nel nostro pianeta? Quali parole di fuoco pronunzierebbero di fronte alle nostre "alture" popolate di idoli? Come profetizzerebbero davanti alle nostre miopie e ai nostri egoismi collettivi? Forse griderebbero, comporrebbero nuovi poemi, canterebbero, cantano, Laudato si’.
«Mi fu quindi rivolta questa parola del Signore: "Figlio dell’uomo, volgiti verso i monti d’Israele e profetizza contro di essi: Monti d’Israele, udite la parola del Signore Dio. Così dice il Signore Dio ai monti e alle colline, alle gole e alle valli: Ecco, manderò sopra di voi la spada e distruggerò le vostre alture"» (Ezechiele 6,1-3). Ezechiele profetizza contro i monti, resi complici innocenti delle infedeltà del popolo. Quelle colline, quelle valli e gole sono anche simbolo di quella creazione che "geme" in attesa di esseri umani suoi degni custodi. Sono gli animali, piante, suolo e sottosuolo, oceani e mari, che ogni giorno, e ogni giorno di più, subiscono le conseguenze della trasformazione della nostra vocazione da accudimento in tirannia. I profeti parlano anche per loro e al loro posto - ancora in mezzo tra terra e uomo, tra uomini e cielo, mediatori inchiodati su croci come messaggi di carne.
Fn dal suo primo insediamento in Caanan, il popolo di Israele ha sentito costantemente la seduzione dei culti cananei. Forte era il fascino di quegli dèi semplici, naturali, scanditi dai ritmi e dalle immagini della fertilità, e che si potevano vedere, raffigurare, toccare, ha avvertito la tentazione della loro prostituzione sacra che, sulle alture, offriva vie immediate di unione con le divinità. E se non ci fossero stati i profeti, YHWH, il nome del loro Dio diverso e unico, con il passare del tempo sarebbe diventato uno dei tanti nomi uno dei tanti dèi dei molti pantheon dei popoli vicini e vincitori. I profeti sono amici di Dio e amici dell’uomo, che ripetono: l’uomo è diverso perché Dio è diverso. Tengono alto e trascendente Dio per tenere più alto possibile l’uomo, per non ridurlo a consumatore-consumato di idoli manufatti. I profeti fanno sì che la naturale contaminazione che una fede riceve dall’incontro con gli altri popoli, non superi una soglia critica e faccia perdere il filo rosso dell’alleanza e dell’anima collettiva.
Senza il contagio religioso con Babilonia, con l’Egitto e coi popoli cananei, non avremmo molte pagine, bellissime, della Bibbia. Ma se quella fertilizzazione mutua fosse entrata nelle midolla e nel cuore della Promessa, del Sinai, della Legge e del Patto, quel popolo diverso dalla fede diversa sarebbe stato riassorbito nelle religioni naturali del Vicino Oriente. Il profeta è sentinella anche perché suona la tromba e dà l’allarme quando la contaminazione supera il punto critico e diventa assimilazione e sincretismo. E sa che c’è un luogo dove queste contaminazioni non possono e non devono entrare: il tempio, il luogo che custodisce la nostra storia più intima, l’altare del patto, il cuore del nostro nome. E, come conseguenza, il popolo di Israele non deve entrare nei templi degli altri popoli e adorare le loro divinità. Non solo perché quei popoli sono adoratori di idoli (Israele non ha sempre pensato che tutti gli altri dèi fossero idoli), ma perché il giorno che un popolo inizia a entrare e pregare in più di un tempio sta dicendo che, in fondo, non crede davvero a nessun dio (come quell’uomo che dicendo "ti amo" a più di una donna, in realtà sta dicendo che non ne ama davvero nessuna). Ecco perché la lotta dei profeti ai santuari delle alture ci dice, in poesia, cose molto serie - la poesia dice sempre cose molto serie.
Quando, ad esempio, le comunità nate da un carisma attraversano grandi crisi, la tentazione non sta l’eliminazione o la cancellazione del "Dio" della prima alleanza, ma nell’introduzione nel proprio tempio di altre divinità che iniziano ad affiancarsi al primo "culto". Si importano preghiere, canzoni, pratiche più vicine allo spirito del tempo, più semplici e comprensibili, che rispondono meglio ai gusti dei "consumatori". Entro un certo limite, questi arrivi possono aiutare e arricchire. Ma se queste pratiche estranee entrano dentro "il tempio", e se noi iniziamo a frequentare i templi degli altri senza distinguerli più dal nostro, la contaminazione inizia a minare il patto e la promessa; e arriverà presto il giorno in cui ci troveremo a parlare con il nostro primo Dio in templi tutti uguali, e non accadrà più nulla - molte crisi esistenziali, individuali e comunitarie, nascono da operazioni di affollamento del luogo del primo incontro, che diventa così fitto da non riuscire vedere né udire più nulla.
Ma i santuari e i templi erano anche i luoghi dei sacrifici di animali e di bambini. Dietro alla critica dei culti cananei e babilonesi c’è sempre, nei profeti grandi, la critica all’uso del sacrificio come moneta per commerciare con un Dio commerciante.
La polemica durissima dei profeti contro l’oro e l’argento, non è una critica economica né etica al denaro usato per i commerci umani; è una critica teologica e quindi antropologica, è una condanna ad una visione economica della fede e quindi della vita.
L’oro è pericolosissimo perché diventa il materiale con cui si fabbricano gli idoli: le statuette di Baal o di Astarte ieri, oggi i prodotti e i beni che, come nuovi idoli, ci vendono una sottospecie di eterna giovinezza. Più oro si possiede più grande è il prezzo che possiamo pagare per i nostri sacrifici.
I ladri che profanano il luogo santo non sono allora ladri di cose o di denaro; sono ladri religiosi, che sottraggono all’uomo la sua dignità e lo riducono a servo di idoli: «Getteranno l’argento per le strade e il loro oro si cambierà in immondizia, con esso non si sfameranno, non si riempiranno il ventre... Della bellezza dei loro gioielli fecero oggetto d’orgoglio e fabbricarono con essi le abominevoli statue dei loro idoli. Per questo li tratterò come immondizia... Sarà profanato il mio tesoro [tempio], vi entreranno i ladri e lo profaneranno» (7,19-22). Il denaro e l’oro sono immondizia quando non sono usati per vivere ma per fabbricare ogni sorta di idolo. Questa natura profonda delle ricchezze si rivela in pienezza soltanto alla fine («Viene la fine, viene la fine su di te»: 7,6).
Alla fine della vita, quando sarà evidente la differenza radicale tra le ricchezze (materiali e non) che abbiamo usato per sfamare e sfamarci, e le altre che abbiamo usato per creare o comprare idoli venditori di illusioni. Oppure nelle altre "fini", quando dentro una grossa crisi, malattia, depressione, capiamo che potremo ricominciare solo se impariamo a riconoscere altre ricchezze che ancora non abbiamo visto, in noi e attorno a noi.
Al centro di queste parole durissime che il profeta alza contro le alture, gli idoli e le infedeltà del popolo, ci raggiunge come raggio di sole aurorale un altro brano di teologia del resto (la Bibbia potrebbe essere raccontata come storia del resto fedele): «Tuttavia farò sopravvivere in mezzo alle nazioni alcuni di voi scampati alla spada, quando vi disperderò nei vari paesi. I vostri scampati si ricorderanno di me fra le nazioni in mezzo alle quali saranno deportati ... Sapranno allora che io sono il Signore» (6,8-10).
Tuttavia: i profeti amano molto questo avverbio, perché completa e add