Ambrogio, la politica tra Stato e bellezza *
A.
Fisichella: «Nella creazione vedeva la mano di un artista»
«Insegna a noi, che vogliamo conoscere tutto solo a partire da noi stessi, l’estasi del bello»
di RINO FISICHELLA *
«Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato». Il lamento di Agostino, che lascia intuire la tristezza del suo animo, permette di entrare all’interno di quel desiderio profondo che anima ogni persona quando si trova di fronte alla bellezza. Ogni volta che viene percepita essa pone l’uomo in contemplazione, lo rapisce verso un’esperienza che la mente difficilmente riesce a comprendere fino in fondo e si coglie quanto troppo lunga sia stata l’attesa. Il tema della bellezza permea l’intera storia del cristianesimo; per nostra fortuna, la attraversa trasversalmente senza interruzione alcuna creando un vortice di sempre maggior conoscenza [...].
È un vero peccato che sia andato perso il testo di Agostino De pulchro et apto, ’Sulla bellezza e sul conveniente’, là avremmo trovato pagine intense per identificare la bellezza con l’amore. Da un frammento presente nelle Confessioni capiamo la sua prospettiva: «Io definivo il bello come ciò che si presenta bene in se stesso». Verità e bontà confluivano nella bellezza per esprimere al meglio l’unità dell’essere. Ireneo, Dionigi, Origene, Ambrogio... l’elenco ha solo l’imbarazzo di dimenticare qualcuno. In ognuno di loro la bellezza ha trovato un posto d’onore.
Ambrogio in modo particolare ha espressioni significative quando, ad esempio, nel suo Exameron spiega l’intera creazione alla luce della bellezza di Dio. Un breve passaggio come: «Dio prima ha creato le cose, poi le ha abbellite» è indice del suo modo di riflettere. Tutto ciò che esce dalle mani del creatore è plasmato della sua stessa bellezza. Il vescovo di Milano, passando in rassegna i sei giorni della creazione, paragona il creatore all’artista. «Come fanno coloro che scolpiscono nel marmo i volti e i corpi umani o li modellano nel bronzo o li riproducono con la cera», così Dio immette ogni giorno in ciò che crea una bellezza tale che potrà essere contemplata nel suo insieme a creazione completa.
La creazione porta con sé armonia e ogni cosa è fatta per essere in accordo con le altre; insomma, un’intelligenza suprema che compone un’opera d’arte. Un vero ’capolavoro’, scrive Ambrogio, che culmina nella creazione dell’uomo «suprema bellezza d’ogni essere creato». Al lettore poco attento potrà sembrare che tutto si risolva con Adamo e invece non è così. Ambrogio è troppo attento, speculativo e uomo di contemplazione per dimenticare il vero passaggio a cui questa bellezza conduce. «Veramente dovremmo mantenere un riverente silenzio, perché il Signore si riposò da ogni opera del mondo». La bellezza porta a quella serenità definita dai filosofi. L’uomo di Dio, da parte sua, la vede realizzata nel silenzio e nel riposo della contemplazione, là dove la meraviglia apre a una conoscenza sempre più nuova.
I Padri della Chiesa hanno colto con profondità questo mistero proprio perché ne erano affascinati. D’altronde solo se si ha il coraggio di immergersi nel mistero si diventa capaci di percepire la bellezza che da esso promana. Per noi, impenitenti razionalisti che vogliamo conoscere tutto solo a partire da noi stessi, diventa difficile porsi in atteggiamento estatico davanti alla bellezza. Essa, infatti, richiede di iniziare da lei, dalla forma che esprime e dalla proporzione delle sue forme per entrare con coerenza nel suo linguaggio. Se fossimo capaci di questo rapimento allora tutto potrebbe trasformarsi e gli occhi diventerebbero capaci di vedere ciò che spesso viene impedito perché troppo ricurvi su noi stessi. La bellezza allarga lo sguardo e allora l’intera creazione e l’uomo al suo culmine non più sottomessi alla violenza della tecnica potranno diventare di nuovo un inno di lode.
B.
Natoli: «Contro Simmaco fece trionfare la religione del Logos»
«Riducendo gli dei a favola, il cristianesimo fu una delle grandi forme della secolarizzazione»
di SALVATORE NATOLI *
Ambrogio nel 374 fu chiamato - si dice - per sedare una disputa, e non semplicemente teologica, tra nicenei ed ariani e ne uscì battezzato e, stando al suo biografo Paolino, eletto vescovo per acclamazione [...]. È vescovo, ed è politico. Ma è politico non perché voglia occupare lo spazio dello Stato, togliere le prerogative all’imperatore, ma perché rivendica per la Chiesa uno spazio di libertà pubblico e oggi diremmo anche identitario [...].
È però anche vero che Ambrogio non ebbe mai nessuna intenzione di rinunciare ai privilegi che i cristiani andavano a mano a mano acquisendo e non solo per loro merito, ma per protezione imperiale. Come si vede, la purezza della fede cristiana è stata, fin dall’inizio e inevitabilmente irretita nel gioco degli interessi. Per altro, quando si è minoranza si rivendica la libertà, quando si è maggioranza s’invoca la verità. Ora è proprio nel corso del IV secolo che il cristianesimo da minoranza si vien facendo maggioranza. E tuttavia la controversia con gli ultimi pagani, sia pure di grande interesse, è per molti versi residuale [...].
La polemica tra Simmaco ed Ambrogio resta istruttiva e a renderla attuale sono le sue irrisolte ambiguità, un singolare gioco delle parti. La vittoria che Ambrogio riporta su Simmaco - tale soprattutto alla luce del dopo - non mette affatto in liquazione gli argomenti avanzati dall’antico pagano, almeno in alcune sue parti. L’impero romano era ormai in crisi, ma né Ambrogio, né Simmaco ne vedono vicina la fine, meno che mai la vogliono. Ambrogio, poi, da romano qual era non se la augurava affatto. In ogni caso, l’impero romano era divenuto grande accogliendo gli dei di tutti e tutti gli dei. Nel contempo deperiva con essi. Il cristianesimo si presentava, allora, davvero come il nuovo. Ma nuovo, perché? Perché, per dirla con Weber disincantava il mondo. Il monoteismo - quello giudaico prima e cristiano dopo - riduceva i vecchi dei a favola e più che discacciarli li disfaceva.
Da questo punto di vista il cristianesimo si può considerare come una delle grandi forme di secolarizzazione. È davvero la religione del Logos [...]. Ora a fronte degli dei ridotti a favola, Simmaco deve cedere e tuttavia la forza della sua argomentazione risiede in questa sua semplice affermazione: «Non si può raggiungere un mistero così grande - dio, il divino - attraverso una sola via (uno itinere)». Qui Simmaco ha un colpo d’ala formidabile: il pagano intuisce per via politica - la libertà dei culti - che se dio è mistero nessuno può presumere di catturarlo e chi ritiene di farlo si assume indebitamente il monopolio della verità. Di qui prepotenze e violenze.
Il cristiano deve avere assoluta libertà di testimoniare - «Eritis mihi testes» - deve avere il diritto di proclamare innanzi a tutti che Gesù Cristo è il Signore, ma nulla può imporre in suo nome. E se il cristianesimo lo si vuol far valere solo in nome della sua tradizione, dei suoi valori - parola tutt’altro che cristiana - ereditati e trasmessisi si finisce per adottare, sia pur inconsapevolmente, gli argomenti di Simmaco e non quelli di Ambrogio [...]. Se il cristianesimo ha un futuro, se il futuro sarà dalla sua parte è per il fatto che il Regno di Dio non è di questo mondo. Sarebbe naufragato da tempo. L’avvenire possibile, se creduto, è il mondo redento. Per questo, quel che da laico mi dà ancora da pensare è la follia della croce. Certo non l’uso della fede per dare argomenti o fare da supporto ad un tipo di politica che di valori ne ha sempre meno o non ne ha affatto. Meglio allora Simmaco, il suo sapiente scetticismo, la sua disincantata malinconia: gli ultimi dei se ne vanno, usiamoli fino a che servono.
* Avvenire, 23.10.2007
Questa sera alle ore 21.00 a Milano all’interno del Duomo (con ingresso libero) si terrà ’Ambrogio e la politica’ ottavo evento ideato e moderato da Massimiliano Finazzer Flory in collaborazione con l’arciprete del Duomo di Milano monsignor Luigi Manganini nell’ambito di ’A passo d’uomo’.
Monsignor Rino Fisichella e Salvatore Natoli presenteranno due interventi (dei quali in queste colonne anticipiamo ampi stralci) che si inscriveranno in un ciclo di cadenza semestrale all’interno di un progetto quinquennale.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
La Chiesa di Costantino, l’Amore ("Charitas") e la nascita della democrazia dei moderni
FLS
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE... *
Patristica. Sant’Ambrogio e i troppi Naboth dei nostri giorni
La grande attualità del vescovo di Milano è confermata dalla ripubblicata omelia dedicata al vignaiolo biblico vessato dal re Achab. Denuncia durissima contro i ricchi, potenti e sfruttatori
di Alessandro Capone (Avvenire, giovedì 28 gennaio 2021)
«La terra è di tutti, non solo dei ricchi, ma quelli che possono utilizzare ciò che appartiene loro sono assai pochi rispetto a chi non può farlo». Queste parole, che potremmo pensare di papa Francesco, sono in realtà del vescovo di Milano Ambrogio, il quale negli ultimi anni della vita scrisse un omelia su La storia di Naboth, appena pubblicata a cura di Domenico Lassandro e Stefania Palumbo (Loescher, pagine 336, euro 45,00), all’interno della giovane, ma molto promettente, serie patristica della Corona Patrum Erasmiana, promossa dal Centro europeo di studi umanistici ’Erasmo da Rotterdam’ di Torino sotto gli auspici di Renato Uglione.
Nell’opera Ambrogio trae spunto dalla vicenda dell’israelita Naboth (1 Re 21), che aveva una vigna vicino al palazzo del re Achab, il quale, spinto dalla brama di possesso, ordinò a Naboth di cedergli la sua vigna in cambio di un’altra o di denaro. Nulla poté Naboth, che rifiutò di obbedire perché quella vigna era eredità dei suoi padri: per mezzo di un inganno ordito dalla moglie del re, egli fu accusato di bestemmia e lapidato.
La vicenda di Naboth rappresenta il filo conduttore di tutto il testo ambrosiano e consente al vescovo di Milano, il quale oltre che sull’esperienza episcopale poteva far leva anche su quella di politico, di presentare una lucida denuncia del dramma dei poveri del suo tempo, di cui ci offre qualche vivido esempio. Egli infatti si sofferma sui sacrifici di vite umane per soddisfare la fame dei ricchi: uno cade dalla sommità di un tetto per preparare granai più ampi; un altro precipita dalla cima di un albero, mentre ispeziona i tipi di uva; un altro annega in mare per procurare pesci e ostriche... Vengono in mente i sempre attuali ’incidenti sul lavoro’, come osserva Lassandro, ma ancor di più la folla di uomini sfruttati e venduti, di turoldiana memoria, sparsi in tutto il mondo e asserviti a un lavoro mortale utile solo per il godimento di una minoranza.
E ancora il padre, di cui Ambrogio si professa testimone oculare, costretto a vendere all’asta i propri figli per rinviare la pena a cui era condannato per la mancanza di vino sulla tavola del potente. Di questo padre il vescovo descrive la tempesta interiore e la disperazione infinita e denuncia la situazione innaturale a cui l’uomo è costretto: «Come potrei dunque discernere tra i sentimenti della natura, come potrei dimenticarli, come potrei spogliarmi dei sentimenti di un padre?».
È evidente che lo scopo di Ambrogio non è di proporre semplicemente un’interpretazione del sopruso sofferto da Naboth, ma principalmente di sottolineare la necessità di rendere concreta ed efficiente una giustizia sociale basata sui valori evangelici.
Il testo ambrosiano rappresenta dunque la testimonianza drammatica di una società in cui i rapporti economici hanno conseguenze devastanti su quelli umani e sociali e allo stesso tempo propone il manifesto e l’auspicio di una società più equa e solidale, in cui il bene sia realmente, secondo la legge di natura, comune e non a vantaggio di un’élite: «Per tutti è stato creato il mondo, quel mondo che invece voi pochi ricchi tentate di rivendicare solo per voi».
Le parole del vescovo rappresentano pertanto un messaggio perennemente rivoluzionario, che ha conquistato personalità come Concetto Marchesi, Ernesto Buonaiuti e David Maria Turoldo, che nel duomo milanese in una sua predica lesse, senza riferire il nome dell’autore, alcuni passaggi proprio del testo ambrosiano, suscitando profondo scandalo e vibrate proteste dell’uditorio.
Un messaggio scomodo ancora oggi e in perfetta consonanza con quanto papa Francesco ha scritto al punto 120 dell’Enciclica Fratelli tutti: «Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società».
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI.
FLS
IL "LOGOS" E LA "CHARITAS": Sul Vaticano, e su Roma, il "Logo" del Grande Mercante. Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
Il motto dello stemma episcopale del Vescovo Ausiliare di Roma, S.E.R. Mons. Angelo De Donatis
NIHIL CARITATE DULCIUS (Ambrosius “De Officiis ministrorum” Liber 2, Caput XXX, 155)
Le parole scelte da Don Angelo per il proprio motto episcopale sono tratte dal “De officiis ministrorum” di Sant’Ambrogio laddove dice “Sit inter vos pax, quae superat omnem sensum. Amate vos invicem. Nihil caritate dulcius,nihil pace gratius...”(“Sia tra di voi la pace che supera ogni sentimento. Amatevi gli uni gli altri. Nulla è più dolce dell’amore, nulla più gradevole della pace”) *
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Fonte: http://www.sanmarcoevangelista.it (ripresa parziale).
Federico La Sala
Teatro classico.
Salvatore Natoli: «Edipo, l’enigma all’interno di ognuno di noi»
Tra libertà e destino: il filosofo Salvatore Natoli rilegge la figura centrale della tragedia antica, in scena a Milano con Glauco Mauri
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 25.11.2016)
Uccide il padre, sposa la madre, trasmette la maledizione ai figli concepiti in quell’unione colpevole. Eppure, nonostante tutto, Edipo è tra le figure del mito non solo maggiormente indagate (il proverbiale “complesso” teorizzato da Sigmund Freud è la più celebre, non la più convincente tra molte interpretazioni elaborate nei secoli), ma anche maggiormente disponibili a una rilettura in prospettiva cristiana. Una stranezza, almeno in apparenza.
Ma il filosofo Salvatore Natoli suggerisce una spiegazione più che motivata. «Il punto è - osserva - che la storia di Edipo ci è nota in particolare attraverso Sofocle e Sofocle è il più religioso fra i tragici greci, il più aperto alla dimensione della pietà e del perdono». Edipo ritorna, dunque, ma in effetti non se n’è mai andato. In questi giorni al Teatro Franco Parenti di Milano va in scena il dittico composto dalle opere sofoclee di cui il personaggio è protagonista, Edipo re ed Edipo a Colono, e contestualmente viene proposto un ciclo di conferenze, Riflessioni sul tragico, che prevede la partecipazione di studiosi quali Maurizio Bettini (30 novembre) ed Eva Cantarella (2 dicembre). A inaugurare gli incontri, questa sera alle 18, è appunto Natoli, al quale è affidato un tema più che impegnativo: Libertà e destino nella tragedia greca. Ma lo studioso non si scompone e ribadisce che è proprio da lui, da Edipo, che occorre partire.
Perché, professore?
«Perché la sua è la tragedia per eccellenza, come già sosteneva Aristotele - risponde -. Una peripezia in senso tecnico, ossia un vagare da un luogo all’altro, che però non coinvolge un dio o un semidio, ma quello che saremmo tentati di definire l’uomo medio. L’umanità media, anzi. Qualcuno che ci assomiglia e che, come capita a ciascuno di noi, trova ad affrontare i dilemmi e le contraddizioni dell’esistenza. Per i greci, del resto, la realtà intera si presenta sotto la cifra dell’antinomia, dell’enigma, addirittura della doppiezza: tutti elementi che richiedono una costante decifrazione da parte dell’uomo».
In questo Edipo è un esperto, no?
«Fino a un certo punto. Non c’è dubbio che lui e lui soltanto riesca a risolvere il famoso indovinello della Sfinge, ma è una vittoria parziale. Edipo è a conoscenza della profezia che lo destina a uccidere il padre e sposare la madre. Anche a questo enigma prova a tenere testa, d’accordo, ma senza mai interrogarsi su se stesso. Ed è per questo che, fuggendo da colui che crede sia suo padre, finisce per imbattersi nel vero padre. Uccidendolo, sposandone la vedova, realizzando la profezia che si illudeva di aver aggirato».
Da dove viene questo fraintendimento?
«Dal fatto che l’enigma del tragico non si situa sul piano esclusivamente logico, è invece un conflitto tra potenze esterne all’uomo, dalle quali l’uomo stesso rischia sempre di essere schiacciato. Nella sua espressione più radicale, l’enigma è quello che ciascuno di noi ignora di se stesso. Il tragico esprime questa lacerazione profonda dell’esistenza, questo destino di morte insito nella vicenda umana fin dal momento della nascita. Così considerata, la vita non può essere se non sfida, battaglia, agone».
Si tratta di una condizione universale?
«Con una distinzione necessaria. Il tragico si manifesta anche nel mondo contemporaneo, ma in un orizzonte post-cristiano, di perdita e smarrimento. Il tragico greco, al contrario, scaturisce dalla natura. Fa perno sulla mancanza di identità e nello stesso tempo la ricostituisce attraverso la peripezia. Edipo conosce finalmente se stesso grazie al viaggio, altrimenti erratico, che da Tebe lo porta a Colono, alle porte di Atene, dove lo attende l’accoglienza ospitale di Teseo, ovvero la svolta capace di dare soluzione alla contraddizione del tragico».
Vuol dire che l’enigma arriva a uno scioglimento?
«Sì, è un’altra caratteristica che differenzia il tragico antico dal moderno. La struttura della trilogia greca prevede che, alla fine, una soluzione ci sia. Meglio ancora, che nell’esperienza della contraddizione l’uomo scopra la misura che gli è propria, secondo una dinamica già intuita da Nietzsche. La catarsi scaturisce da questa consapevolezza e, per compiersi, prende sempre una via obliqua, un detour alternativo al concatenarsi degli eventi. Può accadere per diretto intervento degli dèi, come nell’Orestea di Eschilo, oppure per iniziativa dell’uomo».
È il caso dell’Edipo di Sofocle?
«Esattamente. La figura decisiva è Antigone, il cui atteggiamento non rappresenta semplicemente la rivincita dell’arcaico nei confronti del diritto, come sosteneva Hegel. La mia personale convinzione è che Antigone, in quanto personificazione della pietas, indichi una via d’uscita laterale, e niente affatto arcaica, dalle strettoie della legge: tanto quest’ultima può essere implacabile, tanto la pietà dell’essere umano verso il suo simile si pone sotto il segno della comprensione. Grazie alla pietà, che sostiene le ragioni umane contro la durezza del diritto, la città stessa rivela il suo volto più accogliente, quello che permette a Teseo di prendersi carico dello straniero».
Ma come si realizza allora il rapporto fra libertà e destino?
«Se guardiamo a Edipo, dobbiamo rispondere che per essere liberi occorre conoscere il proprio destino. Il quale, a sua volta, non si colloca nel futuro, custodito magari da un’ambigua preveggenza. No, a condizionare ciascuno di noi è semmai il passato, che è la vera fonte della necessità. Qualcosa che ci spinge, non da cui siamo attratti. In questa chiave, il passato viene a costituirsi come premonizione di un futuro che si presenta sotto la forma della ripetizione, della reiterazione obbligata. Per scardinare questo meccanismo c’è un solo modo».
Quale?
«Fare chiarezza sulle proprie intenzioni. Gnòthi seautòn, il detto delfico solitamente tradotto come “conosci te stesso”, andrebbe inteso nel senso di “sappi che cosa stai domandando”. Affronta l’enigma che tu stesso sei ai tuoi occhi, prima di provare a risolvere l’enigma del mondo. Ma questo Edipo lo comprende solo al termine delle sue peripezie».
Il patrono di Milano affermò per primo la supremazia della chiesa sullo stato
di Paolo Mieli (Corriere della Sera, 26.04.2016)
Nel IV secolo il mondo cristiano fu sconvolto dall’eresia ariana. Ario, teologo nordafricano, sosteneva che Cristo, essendo stato «generato» da Dio unico, eterno e indivisibile, era «venuto dopo» e non poteva essere considerato allo stesso modo del Padre: c’era stato, cioè, «un tempo in cui il Figlio non c’era». Ai tempi di Costantino, che aveva spalancato le porte dell’impero ai seguaci di Cristo, si tenne il Concilio di Nicea (325) che condannò la dottrina ariana. Ma qualche tempo dopo l’imperatore riabilitò Ario e costrinse all’esilio il suo grande nemico, Atanasio vescovo di Alessandria. Dopodiché i decenni successivi furono contrassegnati da una lunga controversia tra ariani e atanasiani e la Chiesa di Roma faticò non poco per venire a capo della dottrina eretica che nel frattempo aveva conquistato vescovi e sovrani. Un grande protagonista di questa battaglia fu Ambrogio, che pure sulle prime aveva avuto qualche indulgenza (o qualcosa di più) nei confronti dell’arianesimo. È questo il punto di partenza di un originale libro di Franco Cardini Contro Ambrogio, che sta per essere dato alle stampe dalla Salerno.
Fin dalle prime righe, Cardini mette le mani avanti per difendersi dalle accuse che potrebbe ricevere per questo saggio impertinente. Il suo non vuol essere né un pamphlet «provocatorio», né «un’indecorosa dissacrazione», tantomeno «un dissennato attacco a livello storico o peggio ancora teologico» all’indirizzo dell’uomo che, tra l’altro, fu ispiratore e modello per sant’Agostino. Non vogliono essere, i suoi, «giudizi moralistici del tutto antistorici», né «paradossali esercitazioni ucroniche» e neppure «fatue e faziose polemiche» con il senno del poi. È, quello di Contro Ambrogio , solo un tentativo di «uscire dal comodo riparo dello storico» a favore di una modalità che gli consenta di «scoprirsi», «esporsi», «prendere posizione». Il tutto non disgiunto da un «pizzico di autoironia per aver tentato, al cospetto di un gigante della storia e del pensiero, una specie di ruggito del topo».
Tra l’altro che ci siano aspetti controversi nella vita di Ambrogio traspariva già, tra le righe, dalle impeccabili note di Marco Navoni alla Vita di sant’Ambrogio (edizioni San Paolo) scritta da Paolino, coevo e principale collaboratore del patrono di Milano. Così come, sempre tra le righe, dalle biografie di Cesare Pasini, Ambrogio di Milano. Azione e pensiero di un vescovo (edizioni San Paolo) e di Angelo Paredi, S. Ambrogio e la sua età (Jaca Book). E anche, sia pur marginalmente, dallo straordinario Teodosio il Grande (Salerno) di Hartmut Leppin.
Il libro di Cardini prende le mosse dal 374 allorché, avendo esercitato fin lì il ruolo di governatore laico di una regione che all’epoca corrispondeva alla Liguria e all’Emilia e pur non essendo ancora battezzato, il trentacinquenne Aurelio Ambrogio (era nato nel 339 a Treviri, città che dal 292 era la residenza ufficiale dell’imperatore romano d’Occidente) fu nominato vescovo di Milano, dal 286 «sede imperiale».
Era figlio di un alto magistrato del sovrano Costantino II, ma su suo padre c’è un «ambiguo silenzio» che ci indurrebbe a sospettare fosse stato coinvolto in una delle controversie dell’epoca e avesse «militato dalla parte degli sconfitti». A «portarlo così in alto» era stato il prefetto Sesto Petronio Probo, un uomo molto chiacchierato con evidenti inclinazioni all’arianesimo, così come l’imperatrice Giustina (moglie di Valentiniano I e madre di Valentiniano II) protettrice di Probo. Ariano fu anche il suo predecessore alla cattedra episcopale milanese, Aussenzio.
A decidere della sua elevazione a quell’importantissimo incarico sarebbe stato il grido di un bambino, che in una riunione popolare avrebbe invocato «Ambrogio vescovo!», suscitando un immediato entusiasmo popolare in quella che Cardini definisce una evidente «messinscena», un «ben architettato episodio di organizzazione del consenso», un genere di «spontaneità popolare accuratamente pilotata». Dietro la quale è ancora ben riconoscibile la regia di Probo. In ogni caso, a seguito di quell’acclamazione, Ambrogio si fece battezzare, divenne vescovo (con qualche irregolarità formale) e non tardò a liberarsi dell’ingombrante appoggio del suo potente protettore.
Da quel momento comparve al suo fianco il presbitero Simpliciano, fedele di Atanasio, che gli fu accanto tutta la vita e, nonostante avesse venti anni più di lui, gli sopravvisse. Per un breve periodo ci fu anche suo fratello Satiro, che Cardini sospetta nutrisse simpatie ariane. Quanto a lui, nel 376, in contrasto con l’imperatrice Giustina, si oppose all’elezione a Sirmio di un vescovo seguace di Ario e dal 378 iniziarono a comparire spunti anti-ariani nelle sue omelie. Giusto in tempo per essere in sintonia con l’editto di Tessalonica (380), con il quale l’imperatore d’Oriente, Teodosio, impose «a tutti i popoli a noi soggetti» la disciplina apostolica e la dottrina evangelica del credo «nell’unica divinità» di Padre, Figlio e Spirito Santo. Sicché Teodosio, secondo Franco Cardini, «ben più adeguatamente di Costantino, può essere considerato il vero fondatore dell’impero romano-cristiano».
Comunque la partita religiosa si riaprì nel 386, quando Giustina impose un decreto per la libertà di culto che consentiva agli ariani di pretendere una basilica in cui poter celebrare il rito. Ambrogio si oppose con forza e una folla («spontaneamente convocata», ironizza Cardini) scese in piazza a spalleggiare il vescovo, creando «una situazione al limite della legalità». La «contesa delle basiliche» andò avanti per settimane, incrinò il rapporto di Giustina con il proprio figlio Valentiniano, si concluse con il trionfo di Ambrogio e la sconfitta della libertà di professare religioni diverse da quella stabilita al Concilio di Nicea.
Il vescovo di Milano, una volta piegata la corona d’Occidente, si dedicò a sottomettere quella d’Oriente. Vale a dire Teodosio. Una prima volta, nel corso di una cerimonia religiosa, il vescovo invitò l’imperatore a lasciare il presbiterio e ad andarsi a sedere, sia pure in prima fila, tra i fedeli. Quasi esplicito il significato, sotto il profilo simbolico, di questo gesto. Ma l’occasione decisiva si presentò, dopo una serie di piccoli e grandi sgarbi da parte dell’autorità religiosa nei confronti di quella imperiale, con l’orrenda vicenda del tempio di Callinicum (l’odierna Raqqa). Lì un gruppo di cristiani aveva date alle fiamme una sinagoga, l’imperatore li aveva condannati a risarcire la comunità ebraica: Ambrogio impose a Teodosio di revocare quell’ingiunzione.
Poi, nel 390, ci fu la strage di Tessalonica. Un auriga dei giochi circensi era stato imprigionato per «comportamento immorale». I suoi tifosi avevano reagito aggredendo a sassate un funzionario imperiale, Buterico, che era stato ucciso e trascinato per le vie della città greca. Teodosio giudicò sospetta quell’esplosione di rabbia e accondiscese alla richiesta dei militari di reprimere con violenza (migliaia di morti) i rivoltosi. Ambrogio ne approfittò per umiliare una seconda volta Teodosio, chiedendogli un pubblico pentimento per l’eccidio. L’imperatore provò a resistere, ma poi decise di sottomettersi all’ingiunzione.
Secondo la ricostruzione di Paolino, Teodosio «pianse pubblicamente nella Chiesa il suo peccato... con lamenti e lacrime invocò il perdono». Anche Agostino, nel De civitate Dei, ricorda la scena: Teodosio «fece penitenza con tale impegno» che tra i fedeli il «dolore nel vedere umiliata la maestà dell’imperatore» prevalse sullo sdegno per il ricordo della strage. Teodosio si accorse probabilmente di quel che era accaduto nel profondo e, per rimediare, si recò a Roma dove fu accolto da senatori e ottimati con feste che più o meno esplicitamente rendevano omaggio agli antichi culti pagani.
Tuttavia l’episodio dell’imperatore «penitente per imposizione di un vescovo», osserva l’autore, fece scalpore in tutta l’ecumene romana: era la prima volta che «l’Augusto, da principe aureolato di autorità sacrale qual era sempre stato, da vicario del Cristo in terra, era sceso al livello di un semplice fedele, pronto ad umiliarsi per ricevere il perdono».
Ambrogio approfittò di quell’atto di sottomissione per riprendere e condurre a compimento «il progetto di delegittimazione totale e irreversibile dei ceti diversi da quello cristiano niceno in tutto l’impero». Fu lui ad ispirare l’editto del 391 che vietava qualunque forma di ossequio alle divinità «gentili» nella città di Roma e prevedeva pesanti sanzioni per i funzionari inadempienti. Era la «totale palinodia» rispetto al comportamento tenuto e alle misure adottate dall’imperatore un po’ meno di due anni prima nel corso della menzionata visita a Roma.
Da quel momento fino alla morte, nel 397, Ambrogio esercitò una sorta di «dittatura» sottile sul potere imperiale d’Oriente e d’Occidente. Anche a costo di lasciarsi andare ad imprudenze, di commettere errori, e di fare scelte in contraddizione con i suoi principi. Ma la sua missione era compiuta.
Il suo lascito fu inequivocabile. Dal momento che il sovrano era stato per lui non al di sopra, bensì all’interno della Chiesa, ne discendeva che risultava subordinato all’autorità ecclesiale. In tal senso, Ambrogio si pone alla base «di un lungo e complesso itinerario che in vario modo, attraverso l’agostinismo politico, la riforma della Chiesa dell’XI secolo e il monarchismo pontificio», ha configurato una ben delineata tradizione. Tradizione «che in ambito cattolico - una volta battute le eresie e isolati come eretici o comunque pericolosi molti movimenti “non conformisti” medievali - solo il conciliarismo quattrocentesco, in una certa misura il Vaticano II e, oggi, le scelte innovatrici di papa Francesco, hanno teso in qualche modo a limitare e a correggere».
Un messaggio venuto da lontano, radicato nella certezza che «il liberare e il mantener libero il clero dai controlli e dai condizionamenti di qualunque autorità terrena - ben al di là se non al contrario di quanto Gesù dichiara esplicitamente a Pilato - sarebbe stata condizione necessaria e sufficiente per salvarlo dalle tentazioni terrene». E sappiamo, aggiunge Cardini, che «l’intera storia della Chiesa dimostra l’opposto».
Dopo Ambrogio, la Chiesa romana divenne potente «con la forza di una mirabile espansione intellettuale e missionaria, ma anche con l’inflessibilità e l’intransigenza della fedeltà a un disegno egemonico affermatosi poi tra l’XI e il XVI secolo attraverso la rimozione delle istanze provenienti dal mondo greco, da quello orientale, da quello vario, insidioso e imprevedibile delle eresie, da quello musulmano (pensiero filosofico-scientifico a parte), salvo dover poi subire i contraccolpi degli scismi, della Riforma protestante, dell’offensiva razionalistico-scientifica».
Traendo ispirazioni e suggestioni da Francesco d’Assisi, Nicola Cusano ed Erasmo da Rotterdam, Cardini si chiede se, «astraendo dal modello e dal magistero ambrosiani la Chiesa sarebbe mai giunta a dover concepire i tribunali inquisitoriali, ad affrontare scismi e riforme, a subire lo “strappo culturale” della “modernità” con il relativo processo di secolarizzazione». Dubbi e rilievi che, come è evidente, vanno ben al di là della figura storica di Ambrogio.
Da Sant’Ambrogio a lezione di equità
C’è una linea che da Elia al vescovo di Milano a Turoldo promuove la giustizia inveendo contro l’avidità dei ricchi
di Gianfranco Ravasi (Il Sole 24 Ore, 5 gennaio 2014)
Erano gli anni del primo dopoguerra, padre Turoldo predicava ogni domenica alla Messa più frequentata nel Duomo di Milano. Si cominciavano a delineare i primi squilibri sociali, un tema che era congenito e congeniale con la figura del frate servita già molto popolare in Italia. E, così, una domenica nell’omelia egli dette fuoco alle polveri del suo arsenale oratorio, e le sue parole fiammeggianti incendiarono di sdegno alcuni fedeli che si premurarono di raccoglierle e di portarle sul tavolo dell’arcivescovo.
Allora a capo della diocesi ambrosiana c’era un benedettino diafano, segnato dalla semplicità geniale dei santi, il cardinale Ildefonso Schuster. Egli chiamò padre David e lo invitò a essere meno ardente e gli suggerì di scrivere la predica della domenica successiva così da contenere nello stampo freddo di un testo il turgore della sua passione.
Cosa che il frate fece. Quella mattina una folla ancor più numerosa era in attesa sotto le navate del Duomo. Con gesto ieratico, padre Turoldo dispiegò i suoi fogli e col registro della sua voce tonante, da cattedrale appunto, iniziò la lettura.
Ahimè, il testo scritto risultava ancor più rovente del parlato precedente. Siamo in grado di offrire ai nostri lettori alcuni squarci: «Fino a dove, o ricchi, estendete le vostre bestiali cupidigie? Vorrete forse finire ad abitare soltanto voi la terra, rivendicandone solo voi il possesso? La terra fu data in possesso a tutti, ricchi e poveri: perché, allora, vi arrogate il diritto di proprietà esclusiva del suolo?... Il mondo fu creato per tutti e, invece, voi pochi ricchi cercate di appropriarvene. Anzi, volete non solo la proprietà terriera per l’uso di voi soli pochi, ma volete anche il cielo, l’aria, il mare... Le vostre mense si alimentano col sangue dei poveri, i vostri bicchieri grondano del sangue di molti che avete strangolato col cappio... Le vostre donne sono travolte da una smania sfrenata di indossare smeraldi, giacinti, berillio, agata, topazio, ametista, diaspro, sardonice, e pur di soddisfare i loro capricci, spendono metà del loro patrimonio...». Non mancava neppure uno schizzo di sarcasmo: «Ho saputo persino, da fonte attendibile, che un ricco avaro, quando gli veniva servito a tavola un uovo, si rammaricava perché così perdeva la possibilità di avere poi un pulcino».
E concludeva: «Tu, o ricco, quando fai elemosina, non elargisci i tuoi beni al povero, ma semplicemente gli restituisci il suo. Infatti, ciò che giustamente è stato dato in uso a tutti, lo usurpi tu solo. La terra è di tutti, non dei ricchi... Restituite, allora, al povero, pagate il vostro debito a chi è indigente, perché non potete placare in altro modo Dio a causa della vostra malvagità!». Naturalmente, subito quel gruppo zelante di fedeli corse dall’arcivescovo a segnalare con indignazione il nuovo e peggiore misfatto del frate, che fu così riconvocato dal cardinale. Turoldo si presentò e stese davanti a Schuster i fogli con la sua predica.
L’arcivescovo scorse le prime righe e si mise a sorridere, continuò a leggere ed esclamò: «Ma questo è s. Ambrogio!». Si alzò, benedisse il religioso e, com’era suo uso, lo congedò dicendogli un motto che spesso ripeteva: «Faccia bene il bene!». Questo lungo resoconto, con le relative ampie citazioni, è forse il modo migliore per recensire un’opera del grande vescovo milanese del IV secolo intitolata in latino De Nabuthe Jezraelita, composta forse attorno al 395, a poca distanza dalla morte di Ambrogio che avverrà il 4 aprile 397, dopo 22 anni di episcopato.
Col titolo esplicativo Il prepotente e il povero e con l’incisivo testo latino a fronte, questo scritto ambrosiano viene proposto come archetipo della collana intitolata Vetera et nova, che le edizioni San Paolo hanno inaugurato per far conoscere in maniera agile ma efficace le piccole gemme della letteratura cristiana antica e medievale, con particolare attenzione alla loro "attualità" e alla loro capacità di graffiare anche la contemporaneità.
La limpida introduzione di Alberto Grosso chiarisce non solo l’itinerario biografico di Ambrogio, ma anche il nodo tematico che è ben espresso dal titolo apposto. Da un lato, infatti, si ha la prevaricazione del potere e della ricchezza sul povero; d’altro lato, però, si centra un punto capitale dell’autentica concezione dell’economia, la sua strumentalità e non il suo essere il fine a cui tutto sacrificare. Questo vale anche per la proprietà privata che è semplicemente uno dei mezzi per attuare il vero fine, cioè la destinazione universale dei beni creati da Dio e offerti all’intera umanità. Come scrive Grosso, nel testo di Ambrogio «si configura una necessaria prospettiva etica in cui il valore "uomo" viene posto al centro dell’attività economica. L’economia è per l’uomo» e non viceversa.
Per i lettori che non hanno molta assuefazione con la Bibbia vorremmo solo spiegare il titolo originario latino a prima vista un po’ criptico. Protagonista è un contadino di nome Nabot, la cui vicenda è narrata vivacemente nel capitolo 21 del Primo Libro dei Re. Il re di Israele di quel tempo (IX secolo a.C.) è Acab, dominato dall’ambiziosa moglie, una principessa fenicia di nome Gezabele. Egli vorrebbe allargare il parco della sua residenza di campagna a Izreel, nella pianura settentrionale del suo regno.
Ma il proprietario della vigna confinante, che è appunto Nabot, appella al diritto ereditario familiare di proprietà, inalienabile secondo la stessa legislazione ebraica. A questo rifiuto il re non riesce a opporre validi motivi per raggiungere il suo scopo e cade in depressione.
Entra, allora, in scena la regina Gezabele che non ha scrupoli morali e che escogita un piano diabolico. Ricorrendo a testimoni subornati, fa istruire un processo farsa nel quale a Nabot si imputa la falsa accusa di aver maledetto Dio e il re, un delitto gravissimo che prevedeva la pena della lapidazione. Ed è ciò che la magistratura compiacente attua, eliminando così ogni ostacolo al desiderio di Acab.
Ma nel silenzio complice dei sudditi che non osano contestare il potere, si leva forte e solitaria la voce del profeta Elia che, senza attenuanti, denuncia il crimine: «Hai assassinato e ora usurpi! Per questo dice il Signore: Nel punto ove lambirono il sangue di Nabot, i cani lambiranno il tuo sangue!... I cani divoreranno Gezabele nel campo di Izreel!» (1Re 21, 19.23).
La predizione si avvererà anni dopo quando un sanguinoso colpo di Stato eliminerà tragicamente la coppia reale. Le voci di Elia, Ambrogio e Turoldo si intrecceranno, dunque, nell’unico messaggio, quello della vera giustizia che non conosce eccezioni.
Ambrogio di Milano,
Il prepotente e il povero. La vigna di Nabot
, a cura di Alberto Grosso, San
Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), pagg. 120, € 9,90
Si veda anche, nella stessa collana e dello stesso autore, s. Ambrogio,
Il buon uso del denaro. Il
tesoro di Tobi
, pagg. 160, € 9,90
E i cristiani si armarono
di Lucia Ceci (Saturno, 21 ottobre 2011)
DISTRUGGERE PIETRE, si sa, vuol significare spesso affrancarsi da un intero sistema. Stanno a dimostrarlo immagini che condensano passaggi epocali: l’abbattimento della statua di Stalin a Budapest nell’ottobre 1956, la demolizione di centinaia di immagini di Saddam Hussein in Iraq, il fuoco talebano sui Buddha di Bamiyan.
A sancire uno spartiacque decisivo nella storia del cristianesimo fu la distruzione, nel 391, del Serapeo di Alessandria d’Egitto, il tempio dedicato al dio regolatore delle acque del Nilo, garante della salute dei vivi e del destino dei morti. Ne fece le spese soprattutto la smisurata statua di Serapide, fatta in legno laminato d’oro e d’argento, che i cristiani decapitarono, spaccarono a colpi d’ascia e diedero alle fiamme al cospetto di cittadini increduli. Dal Serapeo la furia devastatrice si estese agli altri templi di Alessandria e di lì a tutte le città dell’Egitto. Una volta profanati, gli spazi sacri vennero decontaminati e convertiti in basiliche.
Dietro la distruzione e la riconversione dei luoghi di culto si celava una battaglia decisiva per ridefinire i confini del sacro e la gestione del particolare potere che esso veicolava. Ma non era una rivoluzione dal basso: a un anno dalla strage di Tessalonica e dalla successiva penitenza cui il vescovo Ambrogio aveva costretto l’imperatore, Teodosio aveva emanato un editto che autorizzava la distruzione dei templi pagani. La croce, simbolo di sofferenza e martirio, si era trasformata in simbolo di potere. Come era stato possibile?
Giovanni Filoramo lo indaga nel denso volume La croce e la spada, che ha per oggetto il «secolo breve»: quel periodo che va dalla conversione di Costantino (312) alla morte di Teodosio (395), in cui si assiste alla trasformazione di un gruppo religioso minoritario in Chiesa di Stato, pronta, dopo essere stata perseguitata, a perseguitare a sua volta nemici interni ed esterni. Il libro ripercorre le tappe di questo itinerario e il contributo dei suoi principali protagonisti: gli imperatori romani da Costantino a Teodosio e i vescovi cristiani da Eusebio ad Agostino.
La svolta decisiva, che riguarda la ricerca di un’ortodossia unitaria e il modo in cui il cristianesimo si rapporta al potere politico, ha luogo sotto Teodosio: col Concilio di Costantinopoli si fissa il dogma trinitario e si impone, grazie all’intervento dell’imperatore, la verità dottrinale uscita vincente dall’assise valida come legge di Stato.
La dissidenza religiosa, di conseguenza, si trasforma in crimen publicum. L’avvio della criminalizzazione dell’eretico apre un capitolo nuovo e funesto nella storia del cristianesimo, quello in cui si può uccidere «in nome di Dio», illuminato nel libro attraverso l’illustrazione dei primi pericolosi segnali di cambiamento: la condanna a morte dell’eretico Priscilliano e l’uccisione della filosofa neoplatonica Ipazia. Non si trattò solo, per dirla con Edward Gibson, di «intolerant zeal». Né, come hanno sostenuto gli apologeti, di una mera conseguenza della svolta costantiniana.
Nella Chiesa del IV secolo la fede fondata sulla rivelazione di Dio mediante il Figlio mise in moto una duplice, contraddittoria spinta: inclusiva in quanto mirava ad accogliere l’intera umanità, ma anche esclusiva perché la preservazione della «purezza» della comunità portò ad eliminare, oltre all’errore, l’errante.
Giovanni Filoramo, La croce e il potere, Laterza, pagg. 443, • 24,00
SAN PIETRO ROSSO DI VERGOGNA: PAPA E CARDINALI SOTTO IL CUPOLONE DI LUCIFERO E DI MAMMASANTISSIMA.
Ma a Torino la base si mobilita
«Consultateci sul nuovo vescovo»
di Emanuele Buzzi (Corriere della Sera, 12 febbraio 2010)
In politica le chiamerebbero primarie. Per i fedeli, invece, sono più un ritorno alle origini. Di sicuro, si tratta di una piccola novità che apre nuovi scenari. A Torino, l’associazione cattolica «Chicco di Senape» ha chiesto di promuovere dei colloqui aperti per decidere il successore del cardinale Severino Poletto, vicino alla pensione. E lo ha fatto inviando una missiva, pubblicata anche sul sito internet del gruppo: «Chiediamo alla gerarchia e a chiunque possa aver voce sulla scelta del nuovo Vescovo che questa sia preparata - si legge - da una preghiera comune e da un’ampia consultazione dei parroci, degli altri preti e dei laici nelle parrocchie, nelle associazioni e negli istituti religiosi, per fornire il profilo del nuovo pastore atteso». Uno scritto che non lesina anche duri affondi al criterio decisionale ecclesiastico simile a quello «di stampo monarchico, oligarchico, autocratico».
Tommaso Giacobbe, membro del comitato di coordinamento, mette però le mani avanti: «Siamo solo un piccolo gruppo di credenti: pensiamo che nella Chiesa non ci debba essere necessariamente univocità di espressione. In fondo, si tratta di un ritorno a espressioni già in uso nell’antichità». E chiarisce: «Le modalità possono essere inventate, concordate. Vogliamo solo aprire il dialogo. Stiamo spedendo copia della lettera in giro. Anche al vescovo e al nunzio. Ma al momento non abbiamo ricevuto risposte». In realtà, la missiva ha numeri tutt’altro che esigui: «Un migliaio tra email e lettere a iscritti e simpatizzanti», precisa Giacobbe. L’associazione «Chicco di senape», nata nel 2007, vanta già 14 gruppi e molte adesioni tra personalità di spicco del mondo torinese, come quella di Ugo Perone, assessore alla Cultura della Provincia di Torino per il Pd, e Valentino Castellani.
Proprio l’ex sindaco interviene con una battuta sulla lectio magistralis di Tarcisio Bertone: «Sant’Ambrogio, che venne eletto vescovo per acclamazione, il cardinale Bertone non l’avrebbe scelto. E credo anche io, nei suoi panni». «Una Chiesa che riposi solamente sulle decisioni della maggioranza- aveva detto il segretario di Stato Vaticano- diventa una Chiesa puramente umana, ridotta al livello di ciò che è fattibile e plausibile», «dove l’opinione sostituisce la fede».
Insomma, l’antitesi della proposta lanciata da «Chicco di senape»: «Rappresentiamo solo noi stessi- afferma Castellani -. Ma vorremmo rompere questa dialettica decisionale tutta verticale, dove a volte possono prevalere logiche umane, anche di potere. Lo Spirito di Dio non passa dalla pura maggioranza ma neanche solo da scelte gerarchiche». Quella che per ora è una proposta, cela anche una speranza: «Il cammino dello Spirito apre le porte nel modo più impensato al soffio dell’innovazione», conclude Castellani.
Un vescovo eletto come Ambrogio?
di Riccardo Chiaberge (Il Sole-24 Ore, 14 febbraio 2010)
Qualche cronista a corto di metafore ha subito parlato di «primarie diocesane». Altri hanno dato la colpa al serial tv su Agostino, con il vescovo Ambrogio dipinto come un girotondino dell’Impero d’occidente. Comunque sia, quello che sta succedendo a Torino intorno alla successione del cardinale Poletto ha pochi precedenti nella storia recente della chiesa.
Un gruppo di cattolici, riuniti sotto la sigla «Chicco di Senape», ha scritto una lettera alle gerarchie vaticane chiedendo che la designazione del nuovo vescovo «sia preparata da una preghiera comune e da un’ampia consultazione dei parroci, degli altri preti e dei laici nelle parrocchie, nelle associazioni e negli istituti religiosi». È il sogno di un ritorno alle origini, quando le prime comunità cristiane eleggevano liberamente i loro pastori, e insieme una velata protesta contro i metodi autocratici dei vertici romani. Tutto il popolo di Dio dovrebbe essere consultato: le donne, che ai piani alti della Curia salgono soltanto per farei mestieri, ma anche separati e divorziati, conviventi, omosessuali e altri «fedeli che sbagliano». Certo, non siamo ai tempi di Ambrogio e Agostino. Nelle diocesi del terzo millennio rischierebbero di prevalere criteri meno nobili, con le signore che votano in massa per padre Georg o qualche altro prete bello, egli immigrati peruviani o filippini che fanno campagna ciascuno per il proprio candidato. In compenso, il fiuto di tanti papà e mamme aiuterebbe a tenere lontane dai palazzi episcopali certe tonache troppo espansive coi ragazzini.
Giovedì, parlando a Breslavia, il segretario di stato Tarcisio Bertone ha ammonito che la Chiesa non può essere una democrazia, un’istituzione «puramente umana», in cui «l’opinione sostituisce la fede».
Purtroppo, ultimamente, con le istituzioni umane la Chiesa sembra avere in comune più i vizi intrighi, lotte intestine e congiure di palazzo - che le virtù democratiche della trasparenza e del libero dibattito. E il papa è il primo a riconoscerlo. Per cambiare le cose, forse basta davvero un Chicco di Senape: senza indire referendum, si dia ascolto a tutti i credenti, non solo a quelli che sgomitano e fatturano più degli altri.
intervista a Salvatore Natoli
Natoli: «La Chiesa faccia risuonare Cristo nella società»
a cura di Lorenzo Fazzini (Avvenire, 21 gennaio 2010)
Più predicazione spirituale della Chiesa, meno strumentalizzazione (bipartisan) della fede dalla politica. Puntando maggiormente sulla dimensione spirituale (non spiritualistica) del messaggio evangelico. Solo così secondo il filosofo Salvatore Natoli, docente di filosofia teoretica all’università Bicocca di Milano, il confronto tra credenti e non credenti può riprendere quota.
Come può ripartire il dialogo tra laici e cattolici?
«Il cristianesimo è resurrezione, ma soprattutto liberazione dalla morte. E la prassi del darsi reciproco è centrale nella comunità cristiana. In questo aspetto anche i non credenti vedono che la rivelazione possiede qualcosa che fa bene agli uomini. Penso, in particolare, al tema del ’prendersi cura’: tale dimensione fa crescere la fiducia tra le persone e abbassa le tensioni. In questo mondo fatto di scontri, questo territorio è praticabile sia da chi ha fede sia da chi non crede. Per dirla con Spinoza, "homo homini Deus": l’uomo può diventare salvezza per l’altro».
Su quali argomenti vede praticabile tale confronto?
«Vi è un percorso su cui è più facile trovare una reciproca permeabilità, e un altro dove essa è più difficile. Il primo è appunto il prendersi cura: la modernità ha distrutto le comunità naturali dove la cura tra le persone era il semplice stare insieme: penso alla famiglia. E cosa meglio del cristianesimo è indice di questo prendersi a cuore degli esclusi? Anche la tradizione politica di ispirazione cattolica (cito Sturzo) faceva riferimento a questo ideale. Lo stesso cardinale Tettamanzi si è mosso in questa direzione ’universalistica’, per cui tra cristianesimo e diritti umani non vi è contraddizione ».
E l’itinerario più difficile?
«È quello dei diritti della libertà, un frutto maturo della modernità. Già il cristianesimo fa appello alla libertà come proposta mentre la democrazia ne è garanzia. Ma sui temi estremi della vita e della morte ora la Chiesa presenta il diritto naturale come valore assoluto, mentre per una lettura ’laica’ ciò rimane un nodo controverso. Lo sviluppo tecnologico ha cambiato profondamente il quadro d’insieme: quando si nasce e si muore? Quanto c’è di naturale nell’’artificiale’? L’autodeterminazione non è più naturale dell’artificiale? Certo, la Chiesa può esprimere le sue posizioni, ma non può imporle alla politica».
Lei cita il caso della solidarietà e la bioetica come elementi di ’dialogo facile’ e di quello ’difficile’ tra Chiesa e non credenti. Ma, rovesciando la prospettiva, non vi è un altrettanto rischio di strumentalizzazione?
«Certo. E ci vuole davvero lucidità ed equilibrio. La Chiesa ha il diritto di convertire, ma non di travalicare il campo. Poi vi è anche chi, secondo una prospettiva ’sociale’, usa la comunità ecclesiale a proprio vantaggio sui temi dei migranti. Ora, tanto più la Chiesa è spirituale, tanto meno è strumentalizzabile. Spirituale non vuol dire spiritualistica, ma partire dalla predicazione, ovvero dal fatto che il referente diretto della Chiesa non deve essere l’agone politico quanto la società intera».
Cattolici più attivi e meno militanti, dunque?
« Sì. Esemplifico: la risposta della Chiesa alla chiusura verso la mobilità delle persone consiste nel fatto che lei è abituata all’accoglienza. I cattolici non dicono che bisogna accogliere gli immigrati: li accolgono già. E quando parla dell’aborto, la Chiesa deve soprattutto cercare di convincere la gente a generare figli. A mio giudizio, compito della Chiesa è la pastoralità: produrre convinzione, entrare nelle coscienze piuttosto che in politica. Penso alla capacità di attrazione di una persona come il cardinale Martini, che suscitava una domanda di spiritualità. Bisogna riuscire a far sorgere la domanda: la figura di Gesù Cristo può pesare nella vita degli uomini? I cattolici devono far risuonare nella società il quesito di Cristo: Voi, chi dite che io sia?».
PAPA: ANNUNCIO FEDE EFFICACE SOLO SE C’E’ TESTIMONIANZA VITA *
CITTA’ DEL VATICANO - L’annuncio della fede é efficace solo se c’é la "testimonianza" di vita del predicatore e la "esemplarità della comunità cristiana". Lo ha detto il Papa durante l’udienza generale in piazza San Pietro, davanti a circa 30.000 persone, dedicata alla figura di sant’Ambrogio. Riferendo del rapporto tra Ambrogio e sant’Agostino, Benedetto XVI ha osservato che fu "la testimonianza di sant’Ambrogio e della sua chiesa milanese che pregava e cantava compatta come un sol corpo, capace di resistere alle prepotenze dell’imperatore e di sua madre" che portò alla conversione il "giovane africano scettico e disperato", come lo stesso Agostino racconta nelle sue "Confessioni". "E’ evidente - ha commentato Benedetto XVI - che la testimonianza del predicatore e l’esemplarità della comunità cristiana condizionano l’efficacia della predicazione". "Il vero discepolo è quello che annuncia il Vangelo nel modo più efficace", ha commentato il Pontefice in un passaggio successivo, invitando anche i "catechisti", e non solo "i teologi" a ispirarsi a questa osservazione.
IL CATECHISTA NON SIA UN CLOWN CHE RECITA UNA PARTE
Il catechista non è un "clown che recita una parte per mestiere". Lo ha detto il Papa durante l’udienza generale del mercoledì, commentando la figura di sant’Ambrogio e la influenza di questi sulla conversione di sant’Agostino. "E’ vero per il catechista - ha osservato Benedetto XVI - ciò che ho scritto nella ’Introduzione al cristianesimo’ a proposito del teologo: ’chi educa alla fede non puo’ rischiare di apparire una specie di clown che recita una parte per mestiere piuttosto - ha aggiunto - per usare una immagine Origene, egli deve essere come il discepolo amato che ha poggiato il capo sul cuore del maestro è li ha appreso il modo di pensare, di parlare, e di agire" "Alla fin di tutto - ha concluso - il vero discepolo è colui che annuncia il Vangelo nel modo più credibile ed efficace".
* ANSA» 2007-10-24 11:16
AMBROSIUS, In Epistolam Beati Pauli Ad Corinthios Primam, Caput XIII, Vers. 4-8:
"Charitas Deus est" (I Joan. 4,8).
Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio ... Il cattolicesimo ha sempre e per lo più confuso "Erode" con Cesare e Dio con "Mammona" e i "banchieri" del Tempio!!!
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". Con la morte di Giovanni Paolo II, il Libro è stato chiuso. Si ri-apre la DIVINA COMMEDIA, finalmente!!! DANTE "corre" fortissimo, supera i secoli, e oltrepassa HEGEL - Ratzinger e Habermas!!! MARX, come VIRGILIO, gli fa strada e lo segue.
Politica e questione morale nella seconda metà del IV secolo
Dio e Cesare secondo sant’Ambrogio
di Santiago de Apellániz *
Dinanzi agli interventi delle autorità ecclesiastiche nelle questioni temporali, è frequente che alcuni interlocutori parlino di ingerenza e vogliano ricordare a tali autorità, non senza una certa ironia, che si deve dare "a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio". Ciò mette in evidenza, quantomeno, due questioni di un certo spessore: in primo luogo che oggigiorno nella cultura occidentale il dualismo politico religioso è pacificamente accettato come modo di intendere i rapporti fra l’autorità politica e quella religiosa; in secondo luogo, che il testo evangelico a cui abbiamo fatto allusione non è percepito in maniera univoca.
Lo studio sistematico dell’epistolario politico di sant’Ambrogio ha, fra le altre virtù, quella di contribuire a chiarire il contenuto di questa frase di nostro Signore. La prossimità temporale del santo agli accordi di Milano del 313, il suo passato come funzionario pubblico dell’Impero, la sua santità di vita e i suoi interventi, come vescovo di Milano (374-397), dinanzi alle autorità politiche del suo tempo, si presentano come credenziali più che sufficienti per questo compito.
Troviamo in questi testi affermazioni e atteggiamenti che coincidono nel mostrare l’ostacolo che il monismo politico-religioso, allora imperante nella prassi politica, rappresenta per il libero inserimento della Chiesa e dei cristiani nella realtà temporale che li accoglie. "Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio" (Matteo, 22, 21), è l’argomentazione presentata all’imperatore per esigere una sfera di autonomia per la Chiesa, nel suo agire temporale, libero da ingerenze dell’autorità politica (cfr. Epistole, 75, 30, 31 e 35 e 76, 19). Possiamo quindi affermare che sant’Ambrogio si fa protettore di una sorte di rivoluzionario, in quanto nuovo, dualismo fra l’ambito politico e quello religioso, che presenta come un paradigma più adeguato e rispettoso verso il messaggio evangelico del modello dominante, il quale includeva la dimensione cultuale-religiosa come attività propria delle autorità politiche.
In tal senso, la disputa per l’altare della Vittoria, che oppone il santo all’aristocrazia pagana di Roma, è un ulteriore tentativo di procedere alla desacralizzazione del potere temporale, per avanzare nella concessione della cittadinanza e della libertà alla sfera spirituale-politica. Ciò logicamente significava sottrarre al potere temporale tutto ciò che riguardava la vita religiosa dei popoli; per il santo, Cesare non è competente per decidere quello che si deve dare a Dio.
Gli interventi del vescovo Ambrogio nelle questioni temporali dell’epoca, così come quelli dei vescovi di oggi, mettono in evidenza il fatto che l’autonomia e l’indipendenza necessarie per l’agire della sfera politica e di quella religiosa non implicano mancanza di comunicazione o isolamento fra le stesse. Così, per esempio, il santo segnala l’esistenza di doveri religiosi propri della sfera di azione dell’autorità politica, che fanno riferimento sia alla libertà religiosa dei cittadini dell’impero sia all’onore dovuto a Dio.
Pertanto, ci sembra che per tracciare il suo dualismo politico-religioso il santo parta da una realtà accettata nella società del suo tempo: la dimensione pubblica del fatto religioso. Ciò che il vescovo aggiunge è che questa venga espressa in dualità di ambiti. Vale a dire che l’autorità politica deve riconoscere la centralità di Dio nella vita dei popoli, ma debba farlo in un modo consono alla natura e al fine che le sono propri: il servizio che deve rendere a Dio si deve esprimere nel compimento fedele della sua missione, cercando il bene comune dei cittadini con atti non religiosi, ma civili.
Sant’Ambrogio chiede ripetutamente agli imperatori di stare attenti a far sì che i loro atti di governo non siano contrari al volere di Dio: è questo il modo concreto attraverso il quale, in dualità di ambiti, l’autorità politica onora e rende gloria a Dio. Così, il santo segnala che la dimensione morale non appartiene solo all’ambito religioso, ma anche a quello politico: ed è questo ordine morale, che le due sfere condividono, il luogo in cui s’incontrano.
L’autorità temporale potrebbe però interpretare questa pretesa del santo come qualcosa di circoscritto a quelle decisioni politiche riguardanti, in modo più o meno diretto, le questioni religiose, di modo che per il resto delle decisioni politiche si verificherebbe una situazione di amoralità. L’episodio della strage di Tessalonica chiarisce questo particolare in modo nuovo per le categorie dell’epoca. Qui non c’è un motivo religioso, reale o apparente, che inviti il santo a intervenire: a Tessalonica si sono verificati gravi tumulti, contrari all’ordine pubblico, e Teodosio, nell’esercizio della sua sovranità, ha firmato l’ordine di giustiziare, senza discriminare fra innocenti e colpevoli, parte della popolazione della città. Di fronte a tale abuso, il vescovo dichiara l’imperatore fuori dalla commissione ecclesiastica e lo esorta a pentirsi e a fare penitenza. Questa condanna religiosa di una decisione politica sottolinea l’impossibile estraneità alla moralità di qualunque atto di governo, qualsiasi sia la sua entità. Pone in tal modo l’accento sul fatto che ogni atto dell’uomo - religioso, politico o di altra natura - è un atto morale, ovvero un atto con il quale si orienta, o no, verso Dio.
Strettamente vincolato a questo argomento e da esso derivato, è il pensiero di sant’Ambrogio sul carattere relativo della sovranità del potere temporale: l’autorità politica non è un potere alla mercé di se stesso e non può esercitare la sua missione in modo arbitrario o senza considerare la presenza di Dio nel Creato e nella storia degli uomini. Così, insieme al rispetto e all’obbedienza dovuti all’autorità politica costituita, il santo sottolinea che la sovranità assoluta corrisponde solo a Dio, fonte e origine di ogni autorità. Per questo motivo, anche in dualità di ambiti, ogni forma di autorità è in ultima istanza legittimata dal suo adeguarsi a quanto disposto dal supremo e divino Legislatore.
Stando così le cose, possiamo cercare di cogliere il senso della sua famosa frase, citata nella disputa per le basiliche, imperator enim intra ecclesiam, non supra ecclesiam (Epistole, 75, 36). Per sant’Ambrogio esiste una chiara gerarchia fra l’ordine temporale e quello spirituale: posto che Dio deve essere preferito agli uomini e che il potere civile deve rifiutare ciò che può costituire un’offesa a Dio, la sfera religiosa si situa al di sopra di quella temporale. Ebbene, in dualità di ambiti, tale superiorità è esclusivamente spirituale, significa precedenza di colui che è portatore e portavoce di Cristo e non dipendenza o strumentalizzazione, poiché gli ambiti sono autonomi e indipendenti.
Infine, vediamo come il santo intende la partecipazione dell’autorità religiosa alle questioni temporali. Sant’Ambrogio segnala la necessità e l’obbligatorietà di questi interventi, quando sono in gioco l’onore o il bene delle anime. Il modo preciso in cui interviene è attraverso giudizi di carattere etico-religioso, la cui finalità principale è di orientare gli imperatori affinché le loro decisioni siano giuste, conformi al volere di Dio. La causa di questo intervento obbligato del vescovo la identifica nel possesso di un deposito di Verità salvifica, consegnato da Dio alla sua Chiesa per aiutare e invitare gli uomini a seguire le orme di Cristo sulla terra. In tal modo, l’ambito religioso, in virtù della sua superiorità spirituale, è presentato come luce e aiuto insostituibile per l’ambito politico, nel suo compito di promuovere il vero Bene comune.
In definitiva, la proposta di sant’Ambrogio sul modo d’intendere i rapporti fra l’autorità politica e quella religiosa, consta di due elementi centrali: la dualità degli ambiti e il riconoscimento della centralità di Dio nella storia degli uomini e delle comunità. Il primo permette ed esprime la maniera adeguata di dare "a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio"; il secondo crea le condizioni affinché la comunità politica, agendo come tale, non dimentichi di dare "a Dio quello che è di Dio". Ci sembra che questi due elementi siano fondamentali per una corretta comprensione del testo evangelico. Nelle moderne società occidentali il modello di dualità di ambiti è pacificamente accettato. Si ha tuttavia l’impressione che le autorità politiche stiano trascurando il fatto che, come tali e nel compimento dei fini che corrispondono loro, devono far sì che nelle società si dia "a Dio quello che è di Dio". Possono forse essere motivo di riflessione per i responsabili della sfera politica, e anche per tutti i cittadini, il significato del carattere relativo dell’autonomia dell’autorità politica e l’irrinunciabile vincolo dell’esercizio di questa autorità con l’ordine morale, indicati dal santo.
* ©L’Osservatore Romano - 31 gennaio 2010
quei bambini puniti e umiliati: altro che paese cristiano
Digiuno e castigo: scene dalla nuova Italia
di Dario Fo e Franca Rame (il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2010)
Qualche giorno fa, stando davanti al video e seguendo un telegiornale, Franca ed io siamo rimasti sconvolti. La cosa si è ripetuta anche nei giorni successivi. Siamo venuti a sapere che proprio qui, in Lombardia, in un complesso di scuole per l’infanzia, elementari e medie, ci sono dei bambini che al momento della distribuzione del cibo nella mensa si sono trovati con davanti un piatto, dentro al quale c’era un pezzo di pane, e un bicchiere d’acqua; mentre nel piatto degli altri bimbi c’era pastasciutta, e appresso formaggio e anche la frutta. Perché? Perché i genitori dei puniti non avevano pagato la retta, o anche solo erano in ritardo, e quindi i figlioli non avevano il diritto di mangiare! Digiuni per castigo dovevano restare!
Pensiamo allo choc che devono aver provato questi ragazzini: fermi, davanti al panino, il bicchiere d’acqua; e gli altri che mangiavano. Sappiamo che alcuni fra i bambini, di quelli che avevano gli spaghetti, senza una parola ne hanno messo nel piatto vuoto dei compagni una o due forchettate.
Diciamo: una società che produce un dolore, una mortificazione, un’umiliazione di questo livello a dei ragazzini innocenti - ma che razza di società è? Che razza di valori ha nel corpo, nel cuore e nel cervello? Che cultura produce? Quale dimensione sociale? Ci siamo sentiti proprio male. E’ da ricordare che questi che inscenano spettacoli del genere sono gente nostra, della nostra razza. Sono loro che hanno ordinato di togliere il cibo ai bambini poveri, in quanto indegni dei vantaggi comuni. S’è saputo poi, che questi genitori non hanno mancato per strafottenza o per un atto di inciviltà, ma solo perché non avevano i denari per pagare la retta! E’ gente travolta dalla crisi, quasi tutti causa la perdita di un lavoro, e quindi senza paga, disoccupati. Ai gestori della cucina, ai gestori di questa economia e di questa scuola e del comune non importava niente. Importava: “Non paghi, non mangi”: anche se sei un bimbo devi soccombere, essere punito.
Di colpo ci è venuto in mente Sant’Ambrogio. Su di lui, il maggiore vescovo che la nostra città abbia avuto, abbiamo realizzato e messo in scena anche uno spettacolo al Piccolo Teatro di Milano, lo Strehler.
Siamo atei, ma abbiamo studiato profondamente la storia del cristianesimo. E abbiamo scoperto che Ambrogio possedeva un grande senso della collettività, che aveva preso parola, intervenendo con durezza al Senato di Milano, quando questa era stata eletta a Capitale dell’Impero d’Oriente e d’Occidente, portando avanti il diritto della dignità degli uomini: anche quando sono schiavi, anche quando sono privi di diritti.
Lui diceva:
“Ricco signore, non t’accorgi che davanti alla tua porta c’è
un uomo nudo, e tu sei tutto assorto a scegliere i marmi che dovranno ricoprire i muri. Quell’uomo
chiede del pane e intanto il tuo cavallo mastica un morso d’oro. Tu vai in visibilio contemplando i
tuoi arredi preziosi, e quell’uomo nudo trema di freddo di fronte a te e tu non lo degni di uno
sguardo, non l’hai nemmeno riconosciuto.
“Sappi che ogni uomo affamato e senz’abito che viene
alla tua porta è Gesù; ogni disperato è Gesù. E lo incontrerai il giorno in cui si chiuderà il tempo del
mondo e lui, quello stesso uomo, verrà ad aprirti e ti chiederà: ‘Mi riconosci?’.
“Voi, ricchi, dite:
‘C’è sempre tempo per pentirsi e pagare i debiti’. Ma non c’è peggior menzogna. Ricchi, non vi è
nulla nella vostra attività di uomini che possa piacere a Dio. Anche se tenete appesa una croce sopra
il letto e disponete di una cappella dove pregare soli e assistere alla messa. Voi vi stringete ai vostri
beni, gridando ‘È mio!’. No, nulla è vostro su questa terra”.
“Schiacciate le vostre regole di infamia
e di ingiustizia. Ridate il diritto a chi non ne ha... il pane a chi non ne può masticare, impedito
dalla vostra grettezza! Distribuitene, finché siete in tempo, ai disperati, ai derubati dalla vostra
insolente avidità. Nessun lascito sostanzioso alla chiesa e al suo clero vi salverà”.
“Vi dirò”, concludeva Ambrogio, “che non si può credere a un potere magnanimo, poiché chi lo possiede vuole tutto, anche le briciole. Perciò io sono per la comunità dei beni; io sono per l’uguaglianza fra uomini diversi. Perché solo il furto ha creato la proprietà privata”.