"Frammento inedito" [1931]
di Sigmund Freud *
Il metodo dell’identificazione, di cui l’Io si serve per appagare le pretese pulsionali, è un procedimento molto idoneo e impiegato in maniera insolitamente frequente. Abbiamo già seguito il processo in base al quale l’attività aggressiva verso il padre conduce all’identificazione con esso e alla creazione del Super Io, e quello in base al quale la passività verso il padre diventa identificazione con la madre.
Tuttavia, altre innumerevoli identificazioni vengono compiute quotidianamente da ogni individuo. Si è osservato come il bambino, al quale viene tolto il suo gattino, trovi un risarcimento per la perdita dell’oggetto identificandosi con il gattino stesso, miagolando, aggirandosi e mangiando dal pavimento come lui.
Un bambino, abituato al fatto che il padre "come un cavallo" lo porti in giro sulle proprie spalle, può mettersi, durante un’assenza più lunga del solito da parte del padre, una bambola sulle spalle e portarla come il padre porta lui, cosicché adesso è egli stesso a interpretare il padre. Un uomo che ha perduto una donna amata, finché non avrà trovato un nuovo amore, può cercare di sostituire l’oggetto amoroso perduto mediante la propria persona (ci imbatteremo in un istruttivo esempio di questo tipo nella vita di Wilson).
L’uomo, la cui passività verso il proprio padre non ha potuto trovare una scappatoia diretta, si aiuterà spesso tramite una doppia identificazione. Si identificherà con suo padre e cercherà un uomo più giovane, che egli identificherà con se stesso e al quale donerà lo stesso amore che egli, in seguito alla sua passività inappagata verso il padre, si è augurato da quast’ultimo. In questa maniera, può diventare un omosessuale attivo. In molti casi, un uomo il cui atteggiamento passivo verso il padre non ha trovato alcuna espressione diretta, si creerà tale espressione identificandosi con Gesù Cristo. Questa identificazione è un evento per così dire regolare nella vita psichica di un cristiano; secondo le testimonianze della psicoanalisi essa può essere rinvenuta in persone normalissime.
Questo non ci deve meravigliare, poiché tale identificazione realizza quel gioco di prestigio di conciliare uno con l’altro, come con un miracolo, due desideri affatto possenti e che si contraddicono a vicenda in maniera assoluta, adempiendoli entrambi contemporaneamente. I due desideri sono: di essere assoggettato del tutto passivamente nei confronti del padre, di essere completamente femminile, e d’altro canto, di essere totalmente maschile, potente, imperativo come il padre stesso.
Cristo è stato in grado, sottomettendosi umilmente alla volontà di Dio padre, di diventare egli stesso Dio, è stato in grado, votandosi alla più completa femminilità, di raggiungere l’obiettivo estremo della mascolinità. Diventa quindi comprensibile che l’identificazione con Cristo venga intrapresa così spesso, al fine di risolvere il più rilevante dei due problemi edipici: il rapporto con il padre.
Non è forse un caso che, nei primi secoli dopo la nascita di Cristo, con la diffusione del cristianesimo nel mondo, una straordinaria regressione nell’espressione diretta dell’omosessualità coincida con una repressione della stessa. Questa espressione diretta infatti non era più indispensabile. L’identificazione con Cristo diede espressione all’omosessualità in una maniera che non solo trovò approvazione sociale, ma che doveva essere gradita anche al Super Io, che difatti anela sempre alla somiglianza con dio. Cristo rappresenta appunto la più completa conciliazione di mascolinità e femminilità.
La fede nella sua natura divina include la fede nel fatto che mediante l’estrema passività si possano realizzare i sogni più arditi di attività, che assoggettandosi senza riserve al padre, si possa superarlo e diventare essi stessi dio. Questo meccanismo di conciliazione delle tendenze antitetiche di mascolinità presenti nell’essere umano, per natura bisessuale [operante] con l’aiuto della identificazione con Cristo, è qualcosa di così appagante da garantire lunga vita alla religione cristiana. Gli uomini non diventano inclini tanto in fretta ad abbandonare quello che per loro significa la liberazione dal conflitto più grave con il quale devono lottare. Essi si serviranno ancora per molto tempo della identificazione con Cristo.
*Il Sole 24 ore, 29.01.06, p. 39
Dal "Frammento inedito" del 1931. Il testo inedito di Freud è apparso, per la prima volta in assoluto, in traduzione italiana nel volume S. Freud, Scritti di metapsicologia, a cura di M. Ranchetti, Bollati Boringhieri, Torino 2005
("Psicoterapia e Scienze Umane", 2005, XXXIX, 4, pp. 33-35)
MESSAGGIO EVANGELICO E PAOLINISMO. Un’appropriazione indebita e "L’infelicità nella civiltà ("Das Ungluck in der Kultur"): "[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori; i Romani, che non avevano fondato la loro collettività statale sull’amore, non conobbero l’intolleranza religiosa, benché per loro la religione fosse un affare di Stato e lo stato fosse imbevuto di religione. Non fu un puro caso che il sogno germanico del dominio del mondo facesse appello all’antisemitismo come a suo complemento, e non è inconcepibile che il tentativo di stabilire una nuova civiltà comunista in Russia trovi il suo sostegno psicologico nella persecuzione della borghesia. Ci si chiede soltanto, con apprensione, che cosa si metteranno a fare i Sovieti, dopo che avranno sterminato la loro borghesia [...]" (S. Freud, Il disagio della civiltà, 1929).
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
RIPARARE IL MONDO. LA CRISI EPOCALE DELLA CHIESA ’CATTOLICA’ E LA LEZIONE DI SIGMUND FREUD.
UN NUOVO UMANESIMO?! Pensare l’ "edipo completo"(Freud), a partire dall’ "infanticidio"!!!
ISRAELE E PALESTINA ... la Terra promessa. Una indicazione (1930) di Freud
Federico La Sala
JUNG NELL’IMMAGINARIO DEL CATTOLICESIMO PAOLINO: "I SIMBOLI DELLA TRASFORMAZIONE" (SULLA STRADA DI "DAMASCO")
Una nota a margine del "coraggio di trasformarsi" (di Romeo Pulsoni - "Insula europea") *
Il coraggio di trasformarsi
di Romeo Pulsoni ("Insula europea", 12 Gennaio 2025)
Sarà arduo e forse impossibile per me commentare “[i simboli della trasformazione" in C. G. Jung, e nello stesso tempo cercare di demarcare quello che a mio parere è fondamentale per discernere il culturale dal terapeutico e dallo spirituale e cioè la differenza tra il cambiamento tra la trasformazione e la trasfigurazione.
Jung chiama i simboli “trasformatori”. Come una centrale di energia idrica trasforma la pressione dell’acqua in energia elettrica, così i simboli trasformano l’energia biologica in energia spirituale.
“I simboli funzionano come trasformatori, in quanto trasferiscono la libido da una forma inferiore a una superiore” (volume V, p. 232), alla stregua del plancton che dà inizio alla catena alimentare e quindi a forme di vita più evolute.
Il processo della trasformazione viene sempre attivato dal contrasto fra istinto e spirito, fra conscio e subconscio, fra ragione e sentimento, in quanto i contrasti entrano in dialogo fra loro. Tuttavia, questo processo di trasformazione non è sempre visibile. All’inizio e per lungo tempo non si avverte nulla della trasformazione interiore, ma un po’ alla volta ci si accorge che qualcosa dentro di noi è cambiato. È un processo vitale. Come la pianta spesso cresce senza che ce ne accorgiamo, così avviene nella trasformazione di un uomo.
Come avvenga il cambiamento da energia dell’istinto in energia spirituale, Jung lo descrive con l’esempio del giovane. Per un bambino è normale avere nostalgia della madre. Ma se un adulto concentra la propria libido principalmente sulla madre, resta infantile e si radica in lui immaturità e debolezza. Per maturare interiormente deve orientare la propria libido su un simbolo, su immagini dell’inconscio, su archetipi, che trasformano la sua energia dall’istinto. Jung sostiene che non appena si rende necessario il distacco dalla madre, appare l’archetipo della madre, per esempio la madre Chiesa. Con ciò il giovane può distaccarsi interiormente dalla madre e “avviene un cambiamento vitale” (volume V, p. 235). Una via di trasformazione dell’istinto è per Jung il sacrificio, come è più chiaramente rappresentato dalla morte sulla croce di Gesù.
“Il sacrificio non comporta affatto una regressione, ma esso è al contrario una felice trasposizione della libido sull’equivalente simbolico della madre, e quindi una spiritualizzazione di essa” (volume V, p. 261). Jung chiama il processo di trasformazione anche introversione.
L’uomo orienta la propria energia verso l’interno e in questo modo è in grado di trasformarla. L’introversione viene provocata da riti, preghiere, e sacrifici. Questi atti rituali “hanno come scopo di dirigere la libido verso l’inconscio e di costringerla in tal modo verso l’introversione” (volume V, p. 290).
La trasformazione è vitale per l’uomo. Ogni attaccamento al passato fossilizza la vita. Una legge fondamentale della vita è che “tutto ciò che è giovane invecchia, ogni bellezza avvizzisce, ogni calore si raffredda, ogni splendore si offusca, ogni verità diviene piatta e banale. Tutto ciò che infatti prese forma un giorno, e tutte le forme vanno soggette all’usura del tempo; invecchiano, si ammalano, si disintegrano- a meno che non si trasmutino. Ora esse possono trasmutare, giacché una invisibile scintilla che un giorno le generò è capace di una generazione infinita, essendo eterna la sua forza... Una verità è valida solo quando è suscettibile di mutamento e testimonia di sé in nuove immagini, in nuove lingue, come un vino nuovo che viene messo in botti nuove” (volume V, p. 290). Mi si consenta il legame con Marco 2,21-22: “Nessuno cuce una toppa di tessuto grezzo su un vestito vecchio; altrimenti il rattoppo nuovo scuarcia il vecchio e si forma uno strappo peggiore. E nessuno versa un nuovo vino in otri vecchi, altrimenti il vino spaccherà gli otri e si perdono vino e otri, ma vino nuovo in otri nuovi”.
Un momento decisivo per la trasformazione è la mezza età. In questo periodo della vita tanti cercano di aggrapparsi disperatamente al passato e ostacolano così la necessaria trasformazione. Trasformazione, però, qui non vuol dire che il passato viene eliminato, ma viene unito al nuovo e integrato in esso. Secondo Jung, verso la metà della vita appare l’ombra che fino ad allora era stata respinta. Ogni uomo ha due poli, amore e odio, disciplina e non disciplina, intelletto e sentimento, anima e animus. Nella prima metà della nostra vita viviamo soprattutto un solo polo. L’altro entra nell’ombra. A metà della vita questo chiede la parola. Se si incomincia a vivere l’ombra e si reprime ciò che è vissuto fino ad allora, non si progredisce. Si vive il contrario ugualmente in modo unilaterale come il passato. Proprio attraverso i contrasti, i poli opposti, Jung vuole spezzare la ristrettezza della coscienza “e costruire così uno stato di coscienza più ampio e più elevato” (volume VIII, p. 423). Non possiamo risolvere i nostri problemi di vita una volta per tutte. Dobbiamo sempre dedicarci ad essi, altrimenti ci fossilizziamo.
“Chi non ricorda certi amici e compagni di scuola, che da giovani erano esemplari e promettenti, e che, dopo molti anni, si ritrovano inariditi e limitati dalla monotonia quotidiana?” (volume V, p. 290). Si sono attaccati con tutte le forze alle soluzioni una volta che le hanno trovate e hanno rifiutato ogni trasformazione ulteriore. Essi non diventeranno mai pienamente uomini.
La trasformazione dell’uomo inizia nel suo subconscio. Spesso è una situazione difficile a costringerlo a occuparsi del subconscio; sovente sono archetipi che di colpo appaiono nei suoi sogni o che incontra nei riti della sua fede o nella lettura.
Jung pensa che l’uomo spesso abbia bisogno di crisi, nelle quali la sua capacità vitale esterna venga paralizzata, cosa che gli permette di unire il subconscio al conscio. E qui parliamo, secondo me, del cambiamento, evento improvviso necessario per impedire una imminente catastrofe.
La caduta da cavallo sulla via di Damasco provoca il cambiamento, il percorso successivo lungo dolce e soave sono la trasformazione, l’unione del subconscio al conscio.
Il processo non può arrestarsi al cambiamento di rotta, esso indica che la direzione precedente era sbagliata e l’inversione presagisce un cammino. Attestarsi ad essa, equivale al comportamento infantile di chi vuole in modo immorale tutto e subito: “è immorale perché distrugge l’uomo. L’uomo si forma nel tempo e col tempo. Il tempo è la sua storia che si costruisce” (Hallier-Megglé, Il monaco e lo psichiatra, San Paolo 2003)
“Darò loro un altro cuore e infonderò in essi uno spirito nuovo, rimuoverò il cuore di pietra dal loro corpo e metterò in essi un cuore di carne” (Ezechiele 11, 19). Una vita di successo può ostacolare la trasformazione dell’uomo, perché gli fa dimenticare “la sua dipendenza dall’inconscio”.
Spesso sono delle condizioni esterne, come abbiamo visto, a costringere l’uomo a intraprendere il cammino della trasformazione, la quale, in ultima analisi, avviene sempre per la tensione tra i due poli opposti nell’uomo, per l’opposizione tra spirito e istinto e per l’opposizione tra conscio e subconscio. Nell’uomo i simboli possono trasformare l’energia, perché uniscono in sé conscio e inconscio. Quando l’uomo inizia un dialogo col suo inconscio, può attivarsi in lui il processo di trasformazione. Questo processo ha come meta la totalità, la completezza, termini con cui Jung traduce l’espressione biblica di perfezione. Per Jung, in ultima analisi, è solo l’immagine di Dio che si oppone “in maniera frenante alla semplice istintività” (volume VIII, p. 59).
La grande aspirazione degli uomini è la trasformazione dell’umano nel divino, del mortale nell’immortale. La via della trasformazione consiste in varie iniziazioni o riti che cambiano sempre più la figura interiore degli iniziati, anche se, come nel caso di Nicodemo, sono domandati sconti.
In Jung il fine della trasformazione è la perfezione, per le religioni misteriche il fine del processo di trasformazione era (è) l’essere trasformati in natura divina. Qui trasformazione significa “liberazione del corpo dai vincoli della natura materiale, trasfigurazione corporea”: “dopo sei giorni Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li portò sopra un monte alto, in un luogo appartato, loro soli. Si trasfigurò davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche...” (Marco 9, 2-3). Per qualche istante ai discepoli appare la sembianza divina, vedono qualcosa che era con Gesù da sempre ma nascosto ai loro occhi.
Il cambiamento è l’inizio, la trasformazione è il viaggio, la trasfigurazione è il punto di arrivo: autorealizzazione, perfezione, vita in Dio sono denominazioni diverse dello stesso obiettivo?
Come cammino di trasformazione, il guardare avviene sia a livello psicologico che spirituale. Nello stesso modo in cui guardo una persona, così essa mi guarderà.
Tornando a Jung anche un racconto può trasformare, come anche lo yoga, gli esercizi spirituali, la meditazione; ci sono “processi naturali di trasformazioni, che ci accadono sia che lo vogliamo sia che non lo vogliamo, sia che lo sappiamo sia che non lo sappiamo...I processi naturali si annunciano soprattutto nel sonno” (volume VIII, pp. 127-128).
Nell’incontro con uomini, o leggendo dei libri, possiamo entrare in contatto con le fonti interiori e scoprire in noi l’amico dell’anima, che ci vuole condurre al mistero della nostra vita (volume VIII, p. 119). Jung sostiene che tutti portiamo dentro di noi un “amico dell’anima” che è immortale e vuole trasformare ciò che in noi è mortale in immortale.
Meta di ogni trasformazione è: “la trasformazione di ciò che in me è mortale in sostanza immortale; perché si libera dall’involucro mortale ch’io sono e si desta alla propria vita” (volume VIII, p. 131).
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA, STORIA, E “PSICOANALISI”: QUALE RAPPORTO TRA IL LEGGERE UNA ISCRIZIONE (COME QUELLA DI DELFI) E IL “LEGGERSI” NEGLI OCCHI, AI FINI DELLA CONOSCENZA DI SE’ (NELL’ANTICA GRECIA)?
PER USCIRE DALL’ORIZZONTE DELLA COSMOTEANDRIA PLATONICA, E, AL CONTEMPO, DA UNA CAPACITA’ DI “LETTURA” DIMEZZATA DELLA REALTA’ E UNA PARZIALE E “”SPECULARE” CONOSCENZA DI SE’,
UN “INVITO” A RICONSIDERARE (ANCHE E ANCORA) LA SEGUENTE DISCUSSIONE TRA SOCRATE E ALCIBIADE (Platone, “Alcibiade primo”, XXVII 132c - XXVIII 133b):
SOCR. In qual modo potremmo conoscere il più chiaramente possibile la nostra anima? Giacché, con questa conoscenza, potremo evidentemente conoscere noi stessi. Per gli dèi! Comprendiamo bene quel giusto consiglio dell’iscrizione delfica ricordata ora?
ALC. Con quale intenzione lo dici, o Socrate?
SOCR. Ti dirò cosa sospetto che questa iscrizione ci voglia realmente consigliare. Perché si dà il caso che ad intenderla non vi siano molti esempi di confronto, tranne quello solo della vista.
ALC. Cosa vuoi dire con questo?
SOCR. Rifletti anche tu. Se l’iscrizione consigliasse l’occhio, come consiglia l’uomo, dicendo: “guarda te stesso”, in che modo e cosa penseremmo che voglia consigliare? Non forse a guardare verso qualcosa guardando la quale l’occhio fosse in grado di vedere se stesso?
ALC. Certo.
SOCR. Ecco: indaghiamo quale oggetto c’è che a guardarlo possiamo vedere lui e noi stessi.
ALC. È chiaro, Socrate, gli specchi e oggetti simili. SOCR. Esatto. Non c’è forse anche nell’occhio, con il quale vediamo, qualcosa dello stesso genere?
ALC. Certo.
SOCR. Hai osservato poi che a guardare qualcuno negli occhi si scorge il volto nell’occhio di chi sta di faccia, come in uno specchio, che noi chiamiamo pupilla, perché è quasi un’immagine di colui che la guarda.
ALC. È vero.
SOCR. Dunque se un occhio guarda un altro occhio e fissa la parte migliore dell’occhio con la quale anche vede, vedrà se stesso.
ALC. Evidentemente.
SOCR. Ma se l’occhio guarda un’altra parte del corpo umano o degli oggetti, ad eccezione di quella che ha simile natura, non vedrà se stesso.
ALC. È vero.
SOCR. Se allora un occhio vuol vedere se stesso, bisogna che fissi un occhio, e quella parte di questo in cui si trova la sua virtù visiva; e non è questa la vista?
ALC. Sì.
SOCR. Ora, caro Alcibiade, anche la psiche, se vuole conoscere se stessa, dovrà fissare una psiche [...]».
FILOLOGIA E FILOSOFIA: CON KANT A EFESO, ALLA RICERCA DEL "LOGOS" PERDUTO...
Alcuni appunti a margine di UN CONTRIBUTO DI GRAMSCI PER "ORIENTARSI NEL PENSIERO" (#KANT) E TENTARE DI RIUSCIRE AD #ABITARE UN #PIANETATERRA COMUNE (ERACLITO): RI-PENSARE LA #QUESTIONEANTROPOLOGICA E #CRISTOLOGICA ("ECCE HOMO") E, AL CONTEMPO, LA #QUESTIONE TEOLOGICO-POLITICA DEL #CORPO MISTICO DELLA #COMUNITA’:
A) - "POSIZIONE DEL PROBLEMA: [...] Marx è un creatore di Weltanschauung, ma quale è la posizione di Ilici? È puramente subordinata e subalterna? La spiegazione è nello stesso marxismo - scienza e azione -. Il passaggio dall’utopia alla scienza e dalla scienza all’azione (ricordare opuscolo relativo di Carlo Radek). La fondazione di una classe dirigente (cioè di uno Stato) equivale alla creazione di una Weltanschauung. [...] Marx inizia intellettualmente un’età storica che durerà probabilmente dei secoli, cioè fino alla sparizione della Società politica e all’avvento della Società regolata. Solo allora la sua concezione del mondo sarà superata (concezione della necessità, 〈superata〉 da concezione della libertà). Fare un parallelo tra Marx e Ilici per giungere a una gerarchia è stolto e ozioso: esprimono due fasi: scienza-azione, che 〈sono〉 omogenee ed eterogenee nello stesso tempo. Così, storicamente, sarebbe assurdo un parallelo tra Cristo e S. Paolo: Cristo-Weltanschauung, S. Paolo organizzazione, azione, espansione della Weltanschauung: essi sono ambedue necessarii nella stessa misura e però sono della stessa statura storica. Il Cristianesimo potrebbe chiamarsi, storicamente, cristianesimo-paolinismo e sarebbe l’espressione più esatta (solo la credenza nella divinità di Cristo ha impedito un caso di questo genere, ma questa credenza è anch’essa solo un elemento storico, non teorico)." (A. Gramsci, "Quaderno 7, § 33").
B) - PAOLO DI TARSO, IL "CITTADINO ROMANO", DIVENTA "CRISTIANO", E COSTRUISCE LA "WELTANSCHAUUNG" DEL SUO "PARTITO", FA DI #CRISTO IL "RE" DELLA "COSMOTEANDRIA" DELLA SOCIETA’ DEL SUO TEMPO, E COMINCIA A LAVORARE ALLA CONQUISTA DELL’#EGEMONIA SUI VARI "PARTITI" DEGLI APOSTOLI. Alcune note dai testi evangelici:
C) "IN PRINCIPIO ERA IL #LOGOS": STUDIANDO LE OPERE DI #SWEDENBORG, CON "I SOGNI DI UN VISIONARIO CHIARITI I SOGNI DELLA METAFISICA" (1766), PUR SE CON UN LAPSUS SIGNIFICATIVO DI "ARISTOTELISMO" RESIDUO, RISCOPRE LA LEZIONE DEL FILOSOFO DEL "LOGOS", #ERACLITO DI #EFESO ("Vegliando, noi abbiamo un mondo comune; ma sognando ciascuno ha il suo mondo") E INIZA A LAVORARE AL SUO PROGRAMMA DI CRITICA DELLA "RAGION "PURA, DELLA "RAGION PRATICA", E DELLA "CAPACITA’ DI GIUDIZIO" E,INFINE A RIFLETTERE SULLA "FINE DI TUTTE LE COSE" ( E SUL COSIDDETTO "CRISTIANESIMO") E, ANCORA, A RIPROPORRE E A RIAPRIRE LA QUESTIONE ANTROPOLOGICa ("LOGICA", 1800).
TEATRO E FILOSOFIA: AMORE, O MORTE? "ESSERE, O NON-ESSERE: QUESTA E’ LA DOMANDA" ("THE QUESTION": HAMLET, III.1.56). CHE #RISPONDERE, "QUI E ORA"?!
SE E’ VERO, COME E’ VERO, come scrive lo stesso #Shakespeare, che "conoscere bene un uomo sarebbe conoscere se stessi" ("#Amleto", V. 2. 139), la sollecitazione a riflettere sui "Sette modi in cui Amleto potrebbe vedere uno specchio di se stesso in Laerte" (cit.), a mio parere, è un ottimo consiglio a pensare ancora, di nuovo, e meglio, all’antico "#programma" metastorico, filosofico e antropologico (di ogni #essereumano), del #conoscere sé stesso della tradizione delfica e dell’ #amare il prossimo come sé stesso della tradizione evangelica.
METATEATRO E METAPSICOLOGIA. Inoltre, il contributo è anche un invito a riconsiderare il lavoro fatto da Otto Rank sia sullo stesso #Amleto ("Das «Schauspiel» in «Hamlet»", 1915) sia sul tema del "Doppio" ("Der Doppelgänger", 1914) ) e, infine, sul più generale e comune tentativo di portarsi con #Freud, oltre l’orizzonte della #Tragedia (Dante Alighieri) e del #Tempo "fuori dai cardini" di Amleto (Shakespeare).
ANTROPOLOGIA (KANT), TEATRO (#SHAKESPEARE), E #PSICOANALISI (#FREUD):
IL "MOUSETRAP" DI "AMLETO ED OFELIA" ("HAMLET", III.2) E L’ "ONORA IL PADRE E LA MADRE" ANTROPOLOGICO E "BIBLICO".
QUALE "MODELLO" DI #RELAZIONE IN UNA MODERNA SOCIETA’ DEMOCRATICA? QUALE RAPPORTO TRA LE #GENERAZIONI? CITTADINI SOVRANI E CITTADINE SOVRANE, FIGLI E FIGLIE DI ’MARIA’ E ’GIUSEPPE’, O DI ’GIOCASTA’ E ’LAIO’? O, PER CASO E ANCORA, FIGLI E FIGLIE DELLA LUPA (DI REA SILVIA E MARTE)?
LO "SPETTRO" DI "#GIUSEPPE" SI AGGIRA ANCORA PER LA "#DANIMARCA" ..... MA IN VATICANO NON LO SANNO. Vivono tutti ancora a Tebe, nella città del re Edipo! Con un’antropologia preistorica, la Chiesa Cattolica avanza sicura, verso il tremila prima di Cristo E SI PREPARA A FESTEGGIARE #NICEA (325-2025)!
Fino a quando zoppicheremo con i due piedi?: questa è una domanda - già di molti secoli prima di Cristo - del profeta Elia (1 Re: 18, 21), ma - come si sa - rilanciata da #SigmundFreud, nel XX secolo dopo Cristo! A CHE "GIOCO" SI VUOLE CONTINUARE A GIOCARE?
TEATRO (STORIA) E METATEATRO (METASTORIA).
Psicoanalisi della società contemporanea e "Disagio della civiltà" (1929): un segnavia per oltrepassare "Scilla e Cariddi", le colonne d’Ercole, e non naufragare (Ulisse).
ARCHEOLOGIA E LETTERATURA: UNA "BIBLICA" TRAGEDIA. Edipo (Mosè e Gesù) e il problema dell’#identificazione con il #Padre (#Re). Se esiste un "complesso di Edipo", dovremmo avere anche un "complesso di Laio" (Paul Adrian Fried, cit.) ... certamente! Si cfr. "Il complesso di Laio. I rapporti famigliari nei disegni dei ragazzi" di Tilde Giani Gallino, Einaudi, 1977).
AL DI LA’ DEL "MATRIARCATO" E DEL "PATRIARCATO" (J. #BACHOFEN, 1861): OLTRE LA #COSMOTEANDRIA. Tuttavia, a mio parere, senza la comprensione antropologica della "scena primaria" (#Otto Rank, 1915) della hamletica #Mousetrap (III.2) non è possibile comprendere tutta l’importanza del programma di "Amleto" ed "#Ofelia" (e dello stesso "sogno" di Freud) di portarsi al di là delle #ombre del "padre" (re) e della "madre" (regina) e di divenire ed essere cittadino-sovrano e cittadina-sovrana dello "stato di Danimarca".
QUALE "PRESEPE"?! "THAT IS THE #QUESTION": UNA #QUESTIONEANTROPOLOGICA, E TEOLOGICO-POLITICA, DI ESSERE E NON ESSERE, NON SOLO DI PSICOLOGIA O SOCIOLOGIA, ALL’ORDINE DEL GIORNO DEL #PIANETATERRA.
LA "RIFLESSIVITÀ" DI BOURDIEU, COME IL "SENSO COMUNE DEGLI SCIENZIATI", ANCORA NELLA "CAVERNA" DI PLATONE E NEL "CERCHIO DEI CERCHI" DELL’ASSOLUTO DI DI HEGEL.
Bourdieu e il senso comune degli scienziati
di Alfonso Maurizio Iacono (Doppiozero, 23 Agosto 2024)
Il ricercatore dovrebbe forse provare per metodo ciò che provò Vitangelo Moscarda guardandosi allo specchio quando si accorse che il suo naso era ben diverso da come pensava che fosse. Ma non deve oscillare tra l’essere uno, nessuno o centomila, deve solo essere sé stesso proprio mentre si vede come altro. Ma in fondo è ciò che dovremmo fare tutti quando ci interroghiamo e poniamo la domanda sul nostro stesso fare. Ma è difficile tanto quanto trovare una buona relazione tra conoscere e fare. È questo il dramma della limitatezza umana, perché noi, come ricorda Giambattista Vico, non possiamo conoscere e fare simultaneamente. Ma possiamo riflettere su questa impossibilità e trasformare il riflettere in un fare.
Un tempo si sarebbe detto che includere l’osservatore nel processo di osservazione sarebbe stata una perdita di oggettività del sapere scientifico, lusso che si sarebbero potuto permettere forse le scienze storico-sociali, ma non certo quelle naturali. Da qui la separazione tra le scienze storico-sociali e quelle naturali oppure la riduzione delle prime al criterio di verità determinata dall’esattezza e dall’evidenza delle seconde. Nel ‘900 invece il tema dell’inclusione dell’osservatore nel contesto dell’osservazione è diventato centrale nell’epistemologia scientifica. Ciò che precedentemente sarebbe stata considerata un’eresia è diventato un interesse metodologico centrale in fisica, in biologia, nelle scienze sociali. Negli anni ’30 del ‘900 Ludwig Fleck aveva già posto il problema dell’osservatore nel campo della ricerca, ma il suo libro, uscito nel 1935, non suscitò alcun interesse, negli anni ’60, il successo del contributo di Thomas Kuhn La struttura delle rivoluzioni scientifiche (Einaudi, Torino 1969), dipese certamente dal fatto che, come si dice, arrivò al momento giusto.
La visione di Giambattista Vico non è poi così lontana da tale interesse metodologico.
Pierre Bourdieu, nel solco del mutamento epistemologico operato da Ludwig Fleck (Genesi e sviluppo di un fatto scientifico, Il Mulino, Bologna 1983) e da Thomas Kuhn, ha chiesto alla sociologia qualcosa di più. Ha posto il problema metodologico dell’oggettività del soggetto scientifico che indaga e ha a che fare, a sua volta, con l’oggettività di ciò che è indagato.
Il libro Sulla riflessività (Edizione italiana a cura di G. Ienna, C. Lombardo, L. Sabetta, M. Santoro, Meltemi, Milano 2024, pp. 117) presenta quattro contributi di Bourdieu sulla riflessività che percorrono un arco della sua ricerca dagli anni ’60 agli anni ’90. Bourdieu chiama questa ricerca dell’oggettività del soggetto riflessività. Cosa significa oggettività del soggetto e cosa significa riflessività? Scrive Bourdieu: “la riflessività non è la riflessione nel senso della cogitatio cogitationis, cioè pensiero di un pensiero, riflessione di un pensiero sul mio pensiero. Non è un semplice ritorno del soggetto conoscente su sé stesso: il soggetto conoscente che prova a conoscersi. La riflessività, così come la intendo io, è effettivamente questo, ma passa attraverso un processo di oggettivazione. Il soggetto conoscente, che si tratti di un sociologo, uno storico, un etnologo e addirittura un economista, è qualcuno che possiede strumenti di conoscenza che può applicare a sé stesso, soggetto conoscente, e più precisamente all’universo sociale in cui questo soggetto conoscente è inserito” (p. 49). Si va dunque oltre l’inclusione dell’osservatore nel contesto di osservazione. Bourdieu aggiunge le condizioni oggettive in cui si trova l’osservatore scientifico quando osserva e fa le sue considerazioni.
In altre parole, la riflessività implica la localizzazione sociale del punto di vista. Si tratta di applicare il metodo sociologico di osservazione allo stesso osservatore. “L’ipotesi, continua Bourdieu, è che il soggetto conoscente non abbia accesso, per semplice riflessione, all’essenziale di ciò che è e di ciò che fa. Per accedere, deve passare attraverso un’esplorazione delle condizioni oggettive in cui è stato prodotto così com’è, e nelle quali fa quel che fa. In altre parole, si tratta di fare sociologia come la facciamo sempre, ma sull’universo delle scienze sociali, sul nostro proprio mondo, sul nostro proprio campo” (ibidem). Bisogna tenere conto degli habitus degli scienziati, di ciò che a loro appare ed è vissuto come ovvio, insomma il loro senso comune che, come direbbe Vico, in assenza di riflessione diventa pregiudizio, e che invece va interpretato criticamente. Husserl e Schutz sono qui presenti con la messa in questione del mondo dato per scontato. Ma si possono anche fare altri due riferimenti teorici, tra i molti indicati da Bourdieu. Il primo è Marx con la sua teoria del rapporto tra ideologia e classe sociale (K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, 1977). Non ci accorgiamo che le idee dominanti, le quali si presentano semplicemente come idee, esprimono l’ideologia della classe dominante. Il secondo è Wittgenstein con la sua critica a Frazer (Note sul ‘Ramo d’oro’ di Frazer, Adelphi, 1975) il quale fa apparire il passaggio dalla magia alla scienza come qualcosa di evolutivamente oggettivo e non come il suo modo di vedere il mondo.
Gli autori della Postfazione (G. Ienna, C. Lombardo, L. Sabetta, M. Santoro) chiamano il metodo di Bourdieu “razionalismo storicista... vera matrice stilistica della riflessività” (Bourdieu, cit. 101). In effetti due concetti importanti che attraversano il pensiero di Bourdieu sono quello di relazione e quello di storia. Richiamarsi alla critica degli habitus sociali e mentali del ricercatore come campo decisivo della riflessione significa richiamarsi alla loro storia e al fatto che le stesse categorie sovrastoriche dell’osservazione scientifica hanno comunque a che fare con la storia. Infine, in Bourdieu troviamo il tema del corpo. “...ci sono due modi di guardare il corpo. C’è quello di guardare il corpo altrui o di guardare il proprio corpo allo specchio come un oggetto, oppure quello che consiste nell’essere in esso, di essere con esso, di essere tutt’uno con il proprio corpo. Il punto di vista scolastico è il punto di colui che guarda gli altri è ha una filosofia dello spettatore. Possiamo andare molto oltre grazie a Maurice Merleau-Ponty e non è fare filosofia. È usare la filosofia per sbarazzarsi della filosofia che si fa quando non si ha alcuna filosofia” (ivi, p. 61). Oggi noi assistiamo a un forte ritorno a una filosofia che si fa quando non si ha una filosofia. Un vecchio tema che risorge ogni qual volta si usa la riflessione sulla conoscenza scientifica più come rassicurazione e bisogno di autorità che come ricerca critica e autonoma.
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LA RIFLESSIVITA’ DI BOURDIEU COME IL "SENSO COMUNE DEGLI SCIENZIATI" ANCORA NELLA "CAVERNA" DI HEGEL. "Gli autori della Postfazione (G. Ienna, C. Lombardo, L. Sabetta, M. Santoro) chiamano il metodo di Bourdieu “razionalismo storicista... vera matrice stilistica della riflessività” (Bourdieu, cit. 101). In effetti due concetti importanti che attraversano il pensiero di Bourdieu sono quello di relazione e quello di storia." (A. I. Iacono, cit.).
A TRECENTO ANNI DALLA NASCITA DI #KANT, NON E’ IL CASO DI DARE IL VIA A UNA #SECONDA "#RIVOLUZIONECOPERNICANA" E PORTARSI OLTRE IL #PLATONISMO E IL #PAOLINISMO DELLA #DOTTAIGNORANZA E DELLA SUA #COSMOTEANDRIA?!
#PSICOANALISI, #STORIA, E #CRITICA DELLA #RAGIONE "PURA". A mio parere, benché Bourdieu abbia fatto un lavoro eccezionale, di lui, come egli stesso dice di Freud ("mi piace citare la frase di un grande storico"), è possibile dire altrettanto: "[Bourdieu] Freud dimentica che Edipo era un figlio di re."! Non è proprio ora, con #Kafka, come con #Dante, di uscire dalla "#tana", dall’#inferno epistemologico ed antropologico della #tragedia, e ri-scoprire la nostra propria personale e politica #autonomia e #sovranità ?! Se non ora, quando?
ANTROPOLOGIA "CATTOLICA" E PEDAGOGIA "PAOLINA": "ECCE HOMO" ("Come si diventa ciò che si è").
APPUNTI SUL TEMA DELLA IDENTIFICAZIONE DEL SACERDOTE E DEI CREDENTI CON LA FIGURA DI CRISTO:
Alcuni paragrafi dalla "Lettera del Santo Padre Francesco sul ruolo della letteratura nella formazione, 04.08.2024"
"1. Inizialmente avevo scritto un titolo riferito alla formazione sacerdotale, ma poi ho pensato che, analogamente, queste cose si possono dire circa la formazione di tutti gli agenti pastorali,come puredi qualsiasi cristiano. Mi riferisco al valore della lettura di romanzi e poesie nel cammino di maturazione personale. [...]
13. Che cosa ha fatto Paolo? Egli ha compreso che la “letteratura scopre gli abissi che abitano l’uomo, mentre la rivelazione, e poi la teologia, li assumono per dimostrare come Cristo giunge ad attraversarli e a illuminarli”. In direzione di questi abissi, la letteratura è dunque una “via d’accesso”, che aiuta il pastore a entrare in un fecondo dialogo con la cultura del suo tempo.
14. Prima di approfondire le ragioni specifiche per le quali è da promuovere l’attenzione alla letteratura nel cammino di formazione dei futuri sacerdoti, mi sia concesso richiamare qui un pensiero circa il contesto religioso attuale: «Il ritorno al sacro e la ricerca spirituale che caratterizzano la nostra epoca sono fenomeni ambigui. Ma più dell’ateismo, oggi abbiamo di fronte la sfida di rispondere adeguatamente alla sete di Dio di molta gente, perché non cerchino di spegnerla con proposte alienanti o con un Gesù Cristo senza carne». L’urgente compito dell’annuncio del Vangelo nel nostro tempo richiede, dunque, ai credenti e ai sacerdoti in particolare l’impegno a che tutti possano incontrarsi con un Gesù Cristo fatto carne, fatto umano, fatto storia. Dobbiamo stare tutti attenti a non perdere mai di vista la “carne” di Gesù Cristo: quella carne fatta di passioni, emozioni, sentimenti, racconti concreti, mani che toccano e guariscono, sguardi che liberano e incoraggiano, di ospitalità, di perdono, di indignazione, di coraggio, di intrepidezza: in una parola, di amore.
15. Ed è proprio a questo livello che un’assidua frequentazione della letteratura può rendere i futuri sacerdoti e tutti gli agenti pastorali ancora più sensibili alla piena umanità del Signore Gesù, in cui si riversa pienamente la sua divinità, e annunciare il Vangelo in modo che tutti, davvero tutti, possano sperimentare quanto sia vero ciò che dice il Concilio Vaticano II: «in realtà solamentenel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo». Ciò non vuol dire il mistero di un’umanità astratta, ma il mistero di quell’essere umano concreto con tutte le ferite, i desideri, i ricordi e le speranze della sua vita. [...]
23. Che cosa, allora, guadagna il sacerdote da questo contatto con la letteratura? Perché è necessarioconsiderare e promuovere la lettura dei grandi romanzicome una componente importante dellapaideiasacerdotale? Perché è importante recuperare e implementare nel percorso formativo dei candidati al sacerdozio l’intuizione, delineata dal teologo Karl Rahner, di un’affinità spirituale profonda tra sacerdote e poeta? [...]
41. Confido di aver evidenziato, in queste brevi riflessioni, il ruolo che la letteratura può svolgere nell’educare il cuore e la mente del pastore o del futuro pastore in direzione di un esercizio libero e umile della propria razionalità, di un riconoscimento fecondo del pluralismo dei linguaggi umani, di un ampliamento della propria sensibilità umana, e infine di una grande apertura spirituale per ascoltare la Voce attraverso tante voci. [...]
43. La potenza spirituale della letteratura richiama, da ultimo, il compito primario affidato da Dio all’uomo: il compito di “nominare” gli esseri e le cose (cfr.Gn2, 19-20). La missione di custode del creato, assegnata da Dio ad Adamo, passa innanzitutto proprio dalla riconoscenza della realtà propria e del senso che ha l’esistenza degli altri esseri. Il sacerdote è anche investito di questo compito originario di “nominare”, di dare senso, di farsi strumento di comunione tra il creato e la Parola fatta carne e della sua potenza di illuminazione di ogni aspetto della condizione umana. [...]
Dato a Roma, presso San Giovanni in Laterano, il 17 luglio dell’anno 2024, dodicesimo del mio Pontificato. FRANCESCO"
(Lettera..., cit., ripresa parziale, senza le note).
Federico La Sala
CON FREUD, FACHINELLI, BATESON, E FOUCAULT, OLTRE: RIPARTIRE DA SHAKESPEARE, DALLA GRAZIA ("CHARIS"), E DALLA "NEXOLOGIA".
LA DIAGNOSI SOMIGLIA ALLA GRAZIA: RIPETIZIONE E RIPRESA.
Una formidabile sintesi sul problema e un brillante #segnavia per procedere bene e oltre. Ripartire proprio da quanto
"Porzia risponde:
RIPARTIRE DA SHAKESPEARE, DALLA INDICAZIONE DI "PORZIA" (NELLE VESTI DELL’AVVOCATO "BALDASSARE"):
A RENDERE OMAGGIO ALLE "FIGURE" DI PORZIA E A BALDASSARRE, E, PER MEGLIO, ACCOGLIERE LE INDICAZIONI DI SHAKESPEARE, forse, è da riflettere di più e meglio sul "Chi" fa la diagnosi.
"COSTRUZIONI NELL’#ANALISI" (S. FREUD, 1937): PORZIALMENTE. Se la "diagnosi #somiglia alla grazia", proprio da questo "dettaglio’ emerge la #questione su cui invita a riflettere Shakespeare ("#Amleto"), dal "biblico" #androcentrismo del #somigliare...
PARZIALMENTE: #PAOLINISMO. Da secoli Il #nodo dei "#nodi" (compreso il nodo dei "#Borromeo") è proprio ’nascosto" (come aveva cominciato a capire Freud e, quasi sicuramente, con l’aiuto dello stesso Shakespeare) nella lezione sulla grazia di "Dio" ("Charitas) del teologo di tutti i teologi dell’Occidente, Paolo di Tarso (1 Corinzi 13):
"DIA-GNOSI" DELLA "CADUTA": "THE TIME IS OUT OF JOINT" (#HAMLET, I.5). IN "PRINCIPIO" COSA "C’ERA", COSA C’E’, IL "DEUS #CHARITAS EST" GIOVANNEO O IL "DEUS #CARITAS EST" DEL #LATINORUM (ALESSANDROMANZONI)?
SHAKESPEARE CON PORZIA E BALDASSARE HA BEN CAPITO LA LEZIONE DEI "DUE SOLI" (#DANTEALIGHIERI) E SA BENISSIMO DELL’#AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE.
NOTE:
Cultura e società
LA QUALITÀ DELLA MISERICORDIA IN SHAKESPEARE
La qualità della misericordia nel «Mercante di Venezia»
di Peter Milward *
Poco dopo aver proclamato il 2016 «l’Anno della Misericordia», Papa Francesco fece riferimento alle celebri parole che il più grande drammaturgo del mondo ebbe per la «qualità della misericordia». Sono le parole che Shakespeare mette in bocca a Porzia, l’eroina del Mercante di Venezia. Ella si rivolge all’usuraio ebreo Shylock nella drammatica scena del processo, durante il quale egli cerca di perpetrare legalmente la sua vendetta contro il mercante veneziano Antonio. In cambio di un prestito che il mercante non è riuscito a restituire, l’ebreo vuole ora prelevargli, come pattuito, una libbra di carne dalla zona del cuore. Durante il processo Shylock sottolinea i propri diritti legittimi e arriva a preparare il pugnale per prendersi ciò che gli spetta. Porzia, però, giunta dalla casa di Belmonte sotto le mentite spoglie di un giovane avvocato, ammette, da una parte, le buone ragioni di Shylock e, dall’altra, gli rivolge il famoso elogio della misericordia.
In questo modo Shakespeare prepara il palco per una specie di omelia sulla misericordia. Come sarebbe a dire? Non dovrebbe, un drammaturgo, attenersi a presentare la propria commedia in un teatro, protestano i critici, invece di mettersi a predicare da un pulpito? Certamente. Ma nel caso in cui egli voglia inserire un’omelia all’interno del dramma, chi mai glielo potrà impedire? Comunque sia, Shakespeare ci invita non solo ad ascoltare la sua omelia, ma anche a meditarne il significato.
«La qualità della misericordia non è forzata (strained)», egli esordisce. Ma in che senso interpretare questa strana parola, «forzata»? Qual è il messaggio di Shakespeare? O di Porzia? Quello che l’espressione significa è che nessuno può essere costretto a essere misericordioso: la misericordia deve sgorgare direttamente dal cuore. Deve cadere «come pioggia gentile dal cielo / sulla terra». Eccoci immediatamente proiettati nel mondo della Bibbia: al libro sapienziale del Siracide, che si riferisce proprio alla misericordia (Sir 35,25); al cantico di Mosè nel Deuteronomio, in cui si fa riferimento alla Sapienza (Dt 32,2; cfr anche Is 4,6); e alle parole di Gesù nel Discorso della Montagna, con rinvio all’amore di Dio (Mt 5,45).
Porzia continua così: «È due volte benedetta, / benedice chi la dona e chi la riceve». Sarebbe certo una benedizione per il povero Antonio, se gli fosse rimesso il debito, ma lo sarebbe anche per Shylock per averglielo rimesso. È come dice Gesù, in parole non riportate nei Vangeli, ma citate da san Paolo negli Atti degli Apostoli, dove si dà maggiore importanza al dono: «Si è più beati nel dare che nel ricevere!» (At 20,35).
«È più potente nei più potenti», Porzia aggiunge, apparentemente riferendosi ai governanti, che appaiono potenti secondo la prospettiva del mondo, per quanto il loro vero potere si manifesti invece in questa «qualità della misericordia». In una straordinaria ricchezza di immagini, ella prosegue così: «Si addice / al re seduto sul trono meglio della corona. / Il suo scettro mostra la forza del potere temporale, / attributo di soggezione e di maestà / in cui dimorano il timore e il terrore per il re».
Abbiamo un re seduto sul trono e con la corona in capo e lo scettro in mano, segno del suo potere di punire la disobbedienza. Ma tutto ciò non è che la superficie dell’apparenza esterna. Come ha detto poco prima il fidanzato di Porzia, Bassanio, prima, cioè, di scegliere (giustamente) lo scrigno di piombo: «Così possano le apparenze esterne essere sempre meno se stesse, / il mondo è sempre ingannato dagli ornamenti». Proprio come si legge nei Salmi: «La sua misericordia è al di sopra di tutte le sue opere».
E così, continua Porzia: «Il potere terreno si mostra più vicino a quello di Dio / quando la misericordia tempera la giustizia». Certamente, infatti, come si legge un po’ ovunque nella Bibbia, e soprattutto nell’Antico Testamento, Dio è giusto; il Nuovo Testamento, però, sottolinea in particolare che Dio è misericordioso come un Padre amorevole.
Proseguendo l’omelia rivolta soprattutto a Shylock, Porzia aggiunge: «Dunque, ebreo, / nonostante tu faccia appello alla giustizia, considera questo: / che nel corso della giustizia / nessuno di noi dovrebbe vedere la salvezza». È questo l’insegnamento presente non solo nel Nuovo Testamento - che Shylock potrebbe effettivamente rifiutare, sebbene egli lo conosca bene quanto l’Antico -, ma anche in diversi Salmi. Ma quello di Shylock è un appello a un tipo diverso di giustizia, non tanto personale quanto legale.
In ogni caso Porzia procede facendo riferimento al Padre Nostro, la preghiera che il Signore propone, nel Discorso della Montagna, sia ai cristiani sia agli ebrei: «Preghiamo per ottenere misericordia, / e quella stessa preghiera insegna a tutti noi a rendere / le azioni di misericordia». Qui, nelle parole di Gesù, ella finisce la sua arringa, portando l’omelia alla conclusione più appropriata.
L’appello alla misericordia in «Misura per misura»
Tutti, o quasi, conoscono il Mercante di Venezia, e tutti hanno presente il personaggio di Shylock, noto come ebreo più che come usuraio. Alcuni addirittura lo identificano con il «mercante» del titolo per via della sua maggior vivacità rispetto alla sua vittima, Antonio. In quanto ebreo, specialmente nella nostra epoca del post-Olocausto, molti lo ritengono una povera vittima e si indignano quando Antonio lo critica. Ma nella scena del processo egli appare come un malvagio, assetato del sangue di Antonio, il quale è ridotto al ruolo di vittima. Ma ecco presentarsi ai giudici Porzia, travestita da avvocato, che implora Shylock di mostrare la «qualità della misericordia» verso il povero Antonio; e il pubblico resta giustamente colpito dal suo appello.
Il famoso discorso, tuttavia, non è tutto ciò che Shakespeare ha da dire sull’ideale della misericordia. Egli ci sottopone dunque un’altra eroina, forse meno conosciuta: si tratta della novizia Isabella, in Misura per misura, posteriore al Mercante di qualche anno. Ella implora misericordia per il fratello Claudio, colpevole - secondo la legge draconiana di Vienna contro i reati di natura sessuale - di fornicazione con la fidanzata Giulietta. L’appello della ragazza è rivolto ad Angelo, un giudice «preciso», il quale è forse meno legalista (in senso veterotestamentario) di quanto non fosse Shylock, ma con lui condivide una certa inclinazione puritana. È vero infatti che nell’Inghilterra elisabettiana i puritani erano chiamati sia «ebrei cristiani» (come Shylock) sia «precisi» (come Angelo).
In ogni modo, che cosa dice Isabella, dopo essere stata convinta da Lucio, amico di Claudio, a uscire dal convento? In risposta all’affermazione di Angelo: «Vostro fratello è caduto nelle mani della legge», che equivale a dire che deve morire, Isabella dice: «Ebbene, tutte le anime esistenti erano cadute, un tempo, / e colui che avrebbe potuto approfittarne / trovò il rimedio». In altre parole, come Porzia, ella sposta lo sguardo dall’Antico al Nuovo Testamento. Sotto l’Antica Alleanza, per i motivi più svariati, la maggioranza degli esseri umani era destinata a morire; nella Nuova Alleanza, grazie alla Parola di Dio fattasi carne, la grazia della salvezza è stata estesa a tutti da Gesù Cristo. Così il rimedio è la redenzione, secondo un gioco di parole che troviamo in non pochi Salmi.
Poi, sempre come Porzia, Isabella incalza Angelo con una domanda: «Come sarebbe / se Colui che è padrone del giudizio / vi giudicasse per come siete?». E così, senza attendere risposta, conclude citando apertamente la misericordia: «O, pensateci, / e la misericordia spirerà allora dentro le vostre labbra / come uomo fatto nuovo». Dopotutto, nelle opere di misericordia esiste un potere nascosto di trasformare l’uomo vecchio in uomo nuovo o, in termini paolini, di passare dal vecchio Adamo (come in 1 Cor 15) al nuovo Adamo.
Dopo qualche momento, Isabella riprende il discorso, mettendo in contrapposizione l’ideale di Dio e la realtà umana di quel giudice tanto sicuro di sé. Dopo essersi appellata al «Cielo misericordioso», ella lo implora così: «Tu che preferisci, con il tuo fulmine acuto e solforoso, / fendere l’infendibile nodosa quercia / piuttosto che il debole mirto. Ma l’uomo, l’uomo superbo, / rivestito di breve autorità, / del tutto ignorante proprio in ciò di cui si sente più sicuro, / la sua vitrea essenza, come uno scimmione arrabbiato / gioca trucchi tanto assurdi all’alto cielo, / tali da far piangere gli angeli che per i nostri capricci / riderebbero fino a farsi mortali».
Potremmo stupirci della sua fervida immaginazione, se non sapessimo che dietro di lei si cela, ovviamente, l’immaginazione di Shakespeare. Isabella non si appella semplicemente alla «qualità della misericordia», ma critica aspramente l’uomo che, per la sua eccessiva insistenza sulla giustizia legale, non riesce a riconoscere il valore di tale qualità.
Ma a questo punto è necessario considerare - e il drammaturgo lo sottolinea - il fatto che esistono due tipi di giustizia. Il primo è quella giustizia legale, tribunalesca, su cui Shylock e Angelo insistono, rispettivamente, contro Porzia e Isabella. Il secondo è una giustizia più personale e umana, che Porzia ritrova tra le leggi di Venezia e a cui si appella anche la stessa Isabella, persino quando scopre che, diversamente da quanto aveva promesso, Angelo ha mandato a morte suo fratello Claudio. Poi si rivolge al duca Vincenzo con un’implorazione ripetuta con insistenza: «Giustizia, giustizia, giustizia!».
Questo nuovo appello, da parte di Isabella, per salvare Angelo è ancora più rilevante, in quanto giunge dopo che ella ha implorato misericordia per il fratello. Esso mostra la compatibilità di due valori apparentemente incompatibili, misericordia e giustizia. Ma l’efficacia dell’appello è dovuta alla colpa segreta di Angelo. Una volta che essa è stata esposta al duca e a tutti gli altri, Isabella passa dall’implorare giustizia all’implorare misericordia persino per Angelo, il che, praticamente, rivela in Isabella un’incarnazione della Divina Misericordia.
L’appello parallelo alla giustizia nel «Re Lear»
Abbiamo ora la terza fase della nostra esposizione dell’omelia shakespeariana. Essa ha il suo culmine nel Re Lear, un dramma al tempo stesso commedia, con un finale estremamente lieto nell’atto quarto, e tragedia, con una conclusione tremendamente triste nell’atto quinto. Qui, nella scena «da perforare il fianco», che vede l’incontro dei due anziani protagonisti - Lear, che è impazzito, e Gloucester, che è stato accecato (l’uno per colpa delle figlie ingrate, e l’altro perché ha mal riposto la sua fiducia nel proprio figlio illegittimo, Edmund) -, troviamo che Lear dichiara apertamente la sua intenzione di predicare, e dice a Gloucester: «Attento, ora predicherò per te!». Ed ecco che dice: «Quando nasciamo, piangiamo per esser giunti / su questo gran palco di folli».
Ma non è tutto: il vecchio re si mette anche a fustigare - in parole che, stranamente, ricordano quelle che Isabella ha rivolto ad Angelo - «la grande immagine dell’autorità». È seguendo questa immagine, egli declama, che «attraverso abiti stracciati si vedono vizi piccoli, / vesti e pellicce nascondono ogni cosa. Rivesti il peccato d’oro, / e la forte lancia della giustizia vi si infrange impotente. / Vestilo di stracci, la pagliuzza di un pigmeo è sufficiente a bucarlo». In altre parole, proprio come Isabella, Lear sta reclamando giustizia; come, del resto, ha già fatto durante la tempesta che ha affrontato nella brughiera solitaria.
La conclusione a cui giunge è che «nessuno offende, nessuno. Ho detto nessuno», quasi anticipando un altro re di Britannia shakespeariano, Cymbeline, il quale dirà: «Perdono è la parola per tutto». Che cosa vuol dire Lear quando afferma che nessuno commette delitti? Neppure le sue due figlie ingrate? E allora che ne è stato di quelle «vesti e pellicce» di cui ha parlato poco sopra? E che ne è delle parole di san Paolo, il quale, citando due Salmi, dice: «Non c’è nessun giusto, nemmeno uno» (Rm 3,10)? Inutile dire che ciò che intende Lear, nella sua «metodica» follia, è che chi appare colpevole ed è condannato da un giudice è in realtà relativamente innocente, mentre è chi giudica che dovrebbe subire una condanna.
In altre parole, considerando il mondo del suo tempo, elisabettiano e giacobita, il drammaturgo vede che è un mondo alla rovescia, sottosopra, al contrario. È quanto ha appena affermato Lear: «Magia magia, qual è il giudice, qual è il ladro?». Simili affermazioni potevano venire, da parte di Shakespeare, soltanto se messe in bocca a un folle. Allora, persino coloro contro i quali egli aveva scritto questi versi, e che magari stavano lì a teatro seduti in un posto di onore, avrebbero annuito saggiamente all’udire quel «folle autorizzato a dire qualsiasi cosa».
Epilogo dell’epilogo
Infine, dopo aver considerato la triplice omelia shakespeariana sulla «qualità della misericordia» in tre drammi - Il mercante di Venezia, Misura per Misura e Re Lear - giungiamo ora all’epilogo, che il drammaturgo mette in bocca al protagonista de La Tempesta, Prospero. Egli sembra confessare, per bocca del suo personaggio: «E la mia fine è disperazione, / a meno che non sia consolato dalla preghiera, / che ha un potere tanto perforante da prendere d’assalto / la misericordia stessa, e da liberare tutte le colpe».
Pensiamo all’umiltà di questo grande drammaturgo, il più grande di tutti i tempi, ora, alla fine della carriera teatrale, nel confessare di sentirsi vicino alla disperazione. Cosa che, peraltro, aveva già ammesso nel sonetto 29: «In disgrazia presso la fortuna e gli occhi degli uomini / io, tutto solo, lamento la mia condizione di emarginato». Fu forse una sensazione simile - potremmo chiederci - a indurlo a lasciare inedita più della metà delle proprie opere? Fino a che due colleghi attori, John Heminge e Henry Condell, circa sette anni dopo la sua morte, non misero insieme il First Folio.
Ciò di cui egli ha bisogno, in questa situazione, non è un agente che si dia da fare e gli sbrighi gli affari in modo efficace, ma, semplicemente, la preghiera: sia da parte sua, sia da parte del pubblico, a cui chiede di pregare per lui. A questo punto, come Porzia, egli si volge alla Bibbia, o meglio, al Siracide (libro giudicato apocrifo dalla maggior parte dei protestanti). Lì, proprio dove Shakespeare aveva letto (con Porzia): «Splendida è la misericordia nel momento della tribolazione, / come le nubi apportatrici di pioggia nel tempo della siccità» (Sir 35,26), ora legge (con Prospero): «La preghiera del povero attraversa le nubi, / né si quieta finché non sia arrivata; / non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto / e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità» (Sir 35,21-22a). E allora, nonostante gli encomi che Shakespeare continua a ricevere dal mondo come «Uomo del Millennio», potremmo anche dare ascolto alla sua richiesta e pregare - come fa Orazio con Amleto - per il suo eterno riposo.
* Fonte: "La Civiltà Cattolica", 23 Luglio 2016
NOTA: LA DIAGNOSI SOMIGLIA ALLA GRAZIA.
Una formidabile sintesi sul problema e un brillante segnavia per procedere bene e oltre. Ripartire proprio da quanto "Porzia risponde:
PARZIALMENTE. "La diagnosi #somiglia alla grazia": questa è la #questione (#Shakespeare, "#Amleto"). Da secoli Il nodo dei "nodi" (compreso il nodo dei "Borromeo") è proprio questo: PORZIALMENTE.
Federico La Sala
L’#HAMLET E UNA "INSTAURATIO MAGNA" TEOLOGICO-POLITICA NELLA SCIA DI #DANTEALIGHIERI E #GIORDANOBRUNO, ALLA WILLIAM #SHAKESPEARE, NON ALLA FRANCESCO #BACONE CON IL SUO "PARTO MASCHIO DEL TEMPO".
IL TEATRO, IL METATEATRO, E "IL VANGELO DI #AMLETO". "THE MOUSETRAP" ("LA TRAPPOLA PER TOPI" ) E IL TENTATIVO DI PORTARE ALLA LUCE L’INGANNO DEL "#SERPENTE" E RICOSTRUIRE IL "#PRESEPE", IL "#CORPOMISTICO DELLA "#SACRAFAMIGLIA" IN "#DANIMARCA":
RICORDANDO QUANTO detto nella nota relativa alla "Part 55" sul tema, e, in particolare, mi sia lecito, che il "rendere sempre più esplicita l’#analogia tra Amleto e Gesù, sollecita a guardare a #Ofelia... come a #MariaMaddalena, la donna della tradizione evangelica, legata strettamente alla vita stessa di Gesù (uno scrittore nato nel mio paese di origine, nel 1564, di nome Paolo Silvio, scrive nel 1599, in coincidenza con un miracolo avvenuto a #Fabriano, un’opera di grandissimo successo dal titolo "La Madalena penitente" ), forse, per meglio comprendere tutta l’mportanza del commento di Ofelia (""You are as good as a chorus") sull’operazione per smascherare il "#serpente -re" camuffato da "#topo - re", occorre rileggere e ricontestualizzare la frase (almeno a partire da Amleto, III. 2. 110 e ss.):
"#Amleto [...] (A #Polonio) Sicché, signore, un tempo avete anche voi recitato all’università. Non è così?
#Polonio Infatti, monsignore, ed ero reputato un buon attore.
#Amleto E che parte faceste?
#Polonio Giulio Cesare. Venivo pugnalato in Campidoglio. Era Bruto ad uccidermi.
#Amleto E dev’essere stato un vero bruto per uccidere un tale vitellone!
(Va a sedersi a fianco di #Ofelia) Sono pronti gli attori?
#Rosencrantz Sì, signore, aspettano soltanto un vostro cenno.
#Regina Vieni, mio buon Amleto, vieni a sederti qui, vicino a me.
#Amleto Vogliate perdonarmi, buona madre: ho qui una più attirante calamita.
#Polonio (A parte al #re) Oh, oh, avete visto?
#Amleto Posso giacermi in seno a voi, signora?
#Ofelia No, questo no, signore.
#Amleto La testa, intendo, sopra al vostro grembo.
#Ofelia Oh, questo sì, signore, accomodatevi.
#Amleto Pensavate che avessi per la mente pensieri da villano?
#Ofelia Non ho pensato a nulla, mio signore.
#Amleto È un pensiero gentile dopotutto sdraiarsi tra le gambe di ragazze.
#Ofelia Che dite, monsignore?
#Amleto Niente, niente.
#Ofelia Siete allegro, signore.
#Amleto Allegro, io?
Ofelia Così mi sembra, mio signore.").
NOTA:
TEATRO METATEATRO E "COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (S. FREUD, 1937):
"IL VANGELO DI AMLETO".
AMLETO ("HAMLET") E LA DEMISTIFICAZIONE E LA DEMITIZZAZIONE DEL "#PRESEPE" DELLO "#STATO DI #DANIMARCA". Guardando con gli occhi di #Shakespeare, e di #Elisabetta d’#Inghilterra (dopo il 1588), lo "splendore" delle figure di #TommasoMoro e di #Erasmo da Rotterdam ormai è alquanto oscurato, data la loro "#amicizia" con la visione teologico-politica platonica ("cosmo-te-andrica" e "#golem-antica") della Chiesa cattolico e del Papato dell’epoca, CHIARISSIMO Paul Adrian Fried, a mio parere, il filo del suo lavoro di ricerca, nel rendere sempre più esplicita l’#analogia tra #Amleto e #Gesù, sollecita a guardare a #Ofelia... come a Maria Maddalena, la #donna della tradizione evangelica, legata strettamente alla #vita stessa di Gesù (uno scrittore nato nel mio paese di origine, nel 1564, di nome Paolo Silvio, scrive nel 1599, in coincidenza con un miracolo avvenuto a #Fabriano, un’opera di grandissimo successo dal titola "La Maddalena penitente"). RICORDANDO IL #MATRIMONIO DEL "PAPA DI WITTENBERG", #LUTERO CON #KATHARINAVONBORA, E, DEL RE-PAPA D’INGHILTERRA E DELLA SUA "CHIESA", #ENRICOVIII E ANNA BOLENA, C’E’ DA PENSARE CHE CIO’ A CUI GUARDA SHAKESPEARE E’ LA #CRITICA (#KANT, 1724-2024) "COSTRUZIONE" DI UNA #IDEA TEOLOGICO-POLITICA DI "#CORPOMISTICO" AL DI LA’ DELLA TRAGEDIA (#DANTEALIGHIERI), ANTROPOLOGICAMENTE (E NON EDIPICAMENTE) FONDATA, E, PER UNA ALTRA "DANIMARCA", RESTITUIRE LA SOVRANITA’ A "FORTEBRACCIO"!
ANTROPOLOGIA, STORIA, E METATEATRO (SHAKESPEARE).
"THE MOUSETRAP" ("LA TRAPPOLA PER TOPI") DI "AMLETO" E IL CASO DEL "PIFFERARIO" DELLO "STATO DI DANIMARCA".
"SAPERE AUDE!" (Q. ORAZIO F. ; KANT, 1784; M. FOUCAULT, 1984). AL DI LA’ DEL MACHIAVELLISMO E DELL’ #ANDROCENTRISMO TEOLOGICO-POLITICO PLATONICO-PAOLINO, a mio parere, ciò che resta del "discorso filosofico della #modernità" (J. Habermas), come ha riepilogato Kant alla fine del suo lungo lavoro di critica delle pretese della "olimpica" #ragione "pura", è proprio quanto indicava quel "Socrate pazzo" di Diogene ("Amleto"): la domanda antropologica, vale a dire il gioco del "gatto" e del "topo" (Shakespeare, "Hamlet", III. 4. 203-212), la questione "hamletica" del "come nascono i bambini" (e non solo)!
NOTE:
"SHAKESPEARE GLOBE", ELIOCENTRISMO, E "RIVOLUZIONE COPERNICANA" (KANT): FILOSOFIA (GIUSTIZIA - LOGOS), CRISTIANESIMO (AMORE - "AGAPE"), E CATTOLICESIMO (NICEA 325 -2025). Con (Parmenide ed Eraclito e) Aristotele, oltre: "In principio era il Logos" (Gv. I.1) - non un Logo.
PREMESSO CHE la #question #hamletica è storica e storiografica e che, per comprendere il lavoro di Shakespeare, forse, è opportuno pensare il rapporto tra "Shakespeare, Christianity, and Aristotele’s Poetics" all’interno di un contesto europeo segnato dalla Riforma Protestante, dalla Riforma Anglicana, e dell’attacco cattolico-spagnolo all’Inghilterra della Regina e Papessa, Elisabetta I, figlia di Enrico VIII, e dalla Rivoluzione astronomica e scientifica, aperta dall’opera di Copernico, e rilanciata alla grande da Tommaso Campanella e da Giordano Bruno, condannato come eretico e bruciato sul rogo (17 febbraio 1600).
CONSIDERANDO IL CONTRIBUTO (ASSOLUTAMENTE "MODERNO", COME HA SCRITTO UNA VOLTA LO STORICO DELLA FILOSOFIA GILSON) DEL COSIDDETTO #MEDIOEVO DELLA "PRIMA #RINASCITA" (GRAZIE A FRANCESCO D’ASSISI, GIOACCHINO DA FIORE, E DANTE ALIGHIERI) E IL RAPPORTO DI DANTE CON "IL #MAESTRO DI COLOR CHE SANNO" (Inf. IV, 131), c’è da dire e da pensare che tra Aristotele e Shakespeare (come con lo stesso Dante) c’è molta amicizia, nello spirito dell’antico e nuovo Logos (e non del #Logo di una azienda personale).
NEL PORRE AL CENTRO DELL’#AMLETO la questione antropologica (e cristologica), Shakespeare pone "aristotelicamente" un problema di #legalità e di #giustizia e di #verità: la #critica al "nuovo" Re e Padre, che è un impostore, un mentitore, e un assassino, e l’introduzione nell’opera teatrale moderna (lo stesso "Hamlet") di un’opera teatrale "aristotelica", "The Mousetrap" ("La trappola per topi"). La Rivoluzione inglese è già iniziata...
SCIOLTO QUESTO NODO E, DANDO A SHAKESPEARE CIO’ CHE DI SHAKESPEARE E DI ARISTOTELE CIO’ CHE E DI ARISTOTELE, e, ancora, chiarito che il principe "Amleto" è figlio del "Re Amleto" e della "Regina Gertrude", si può senz’altro condividere l’opinione che "[...] for Aristotle, tragedy is amoral: it’s like the process of legal discovery that occurs in a court of law." (Patrick Grey).
NOTA:
QUESTIONE ANTROPOLOGICA (E CRISTOLOGICA) ED ENIGMA DELLA SFINGE (EGITTO E GRECIA):
CON SHAKESPEARE E FREUD, OLTRE LO "SCILLA E CARIDDI" DEL "MATRIARCATO" E DEL "PATRIARCATO.
La #question di Amleto (#Hamlet) è "BIBLICA" E "COSMICA". Si tratta di uscire dalla "preistoria" (#Marx), e di andare oltre la grande instaurazione di Zeus/Apollo/Atena, accettata e sopportata per compromesso "storico-olimpico" da Era/Giunone (Freud pone #Giunone nella "testa" della sua "Interpretazione dei sogni" (1899).
"The #Mousetrap", teatro nel teatro del mondo planetario terrestre, è per fare affiorare alla coscienza (quanto ha già capito Francesco d’Assisi e Dante Alighieri) e andare oltre "#Adamo ed #Eva": #Amleto ("Gesù") è Figlio del Re Amleto ("#Giuseppe") e della Regina Gertrude ("#Maria").
Ciò che dice Freud, in una nota del testo di "L’uomo dei #topi" [*] richiama un problema all’ordine del giorno dell’umanità: comporre in spirito di giustizia e amore la guerra tra #matriacato e #patriarcato, e, riprendere il cammino con tutte le "#sibille" e con tutti i "#profeti" (come da indicazione già di Michelangelo Buonarroti).
LA PSICOANALISI E I QUATTRO "MOSCHETTIERI": FREUD ("L’UOMO DEI TOPI"), ABRAHAMS" (L’UOMO COL MAGNETOFONO"), MUSATTI ("CONDIZIONI DELL’ESPERIENZA E FONDAZIONE DELLA PSICOLOGIA") E FACHINELLI ("IL BAMBINO DALLE UOVA D’ORO". Appunti sul tema...
A sua memoria, "vent’anni dopo" (1989-2009).
FACHINELLI intuì CHE J.-J.ABRAHAMS, L’UOMO COL MAGNETOFONO, ERA UN SINGOLARE (KIERKEGAARD) GATTO, MA GLI SFUGGì il legame CON I TOPI, CON LA "MOUSETRAP" DI "AMLETO" E L’OPERA DI ALEXANDRE DUMAS.
ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA E NEXOLOGIA CHIASMATICA: "ACHERONTA MOVEBO". Aprire gli occhi (Freud), tutti e due, è difficile, ma solo sciogliendo il nesso ("nexus") tragico, il nodo edipico, è possibile uscire dall’orizzonte della tragedia e della claustrofilia (Elvio Fachinelli, 1983) e andare oltre le colonne d’#Ercole e, con Virgilio e Dante, oltre... "Sàpere aude! (Orazio-Kant).
PSICOANALISI (NEXOLOGIA) E ANTROPOLOGIA CHIASMATICA: CON KIERKEGAARD ("AUT - AUT"), OLTRE. Mi auguro che le poche indicazioni date siano buone sollecitazioni a riprendere il filo: "L’uomo dei topi" è "radioattivamente" carico di teoria. Freud s’è l’è portato dietro tutta la vita, fino alle "costruzioni nell’analisi" (1937) e oltre.
DA FREUD A FACHINELLI: CON KIERKEGAARD, OLTRE. "L’uomo col magnetofono", fondamentalmente, è lo stesso Fachinelli (v. "La parola contaminata", nel testo), andato a "scuola" di Cesare Musatti, e, al contempo, critico nel rapporto con la Società Psicoanalitica Italiana (che ancora oggi si attarda a parlare alla Platone, "Psiche e Polis").
Federico La Sala
QUALE "NESSO"* TRA IL MITO E LA STORIA DELL’EUROPA? UNA IPOTESI DI CHIARIMENTO A MARGINE DEI "SOGNI DI UN VISIONARIO CHARITI CON I SOGNI DELLA METAFISICA".
DEL #PIANETATERRA E DEL SUO BRILLANTECOLORE: IL #CORPOMISTICO DELL’#ANDROCENTRISMO TEOLOGICO-POLITICO DI PLATONE E COSTANTINO (#NICEA 325-2025) BLOCCA DA MILLENNI LA #NAVIGAZIONE NELL’#OCEANOCELESTE (#KEPLERO, 1611) DEL #GALILEO #GALILEI "CHE HA VINTO" SIA SUL PIANO CELESTE SIA SUL PIANO TERRESTRE E, ancora oggi (#2giugno2024) RENDE DIFFICILE CAPIRE UN’ #ACCA E PORTARSI FUORI DALL’ORIZZONTE DI #MAMMONA ("CARITAS").
"COME NASCONO I BAMBINI": INCARNAZIONE (#MENSCHWERDUNG), ANTROPOLOGIA, E #FILOLOGIA. Riprendendo il filo della "#Charitas" di #GioacchinodaFiore e #DanteAlighieri, forse, è meglio uscire dal "letargo" (Par. XXXIII, 94), e con il #Boehme della "De incarnatione Verbi" riflettere sulla "Charis" (gr. #Xapis") e sul Cristogramma.
NOTA: IL "TRATTATO" DEL "MASTRILLO" (#MAASTRICT), E LA "DIRITTA VIA" (DANTE ALIGHIERI). L’amicizia e l’amore della parola sono decisivi e fondamentali: senza filologia non si va da nessuna parte e non si comprende più il #nesso tra il #prima e il #dopo, si dimentica che "in #principio era il #Logos", e tutti gli erculei esseri umana finiscono per indossare le camicie con il "logo" di #NESSunO.
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA, #METATEATRO E #SPIRITO DELL’#EUROPA: L’#HAMLETICA QUESTIONE DEL #MENTITORE ("#SERPENT"), DEL FALSO #RESOCONTO "DELLA GENTE DALLA DOPPIA TESTA" (#PARMENIDE), E IL "GLOBO IMPAZZITO" ("DISTRACTED #GLOBE"). Un invito a ri-leggere #HAMLET (#Shakespeare):
"GHOST [...] Now, Hamlet, hear.
’Tis given out that, sleeping in my orchard,
A serpent stung me. So the whole ear of Denmark
Is by a forgèd process of my death
Rankly abused. But know, thou noble youth,
The serpent that did sting thy father’s life
Now wears his crown.
HAMLET O, my prophetic soul! My uncle!
GHOST [...] Adieu, adieu, adieu. Remember me. (He exits).
HAMLET [...] Remember thee?
Ay, thou poor ghost, whiles memory holds a seat
In this distracted globe. Remember thee?
Yea, from the table of my memory
I’ll wipe away all trivial, fond records,
All saws of books, all forms, all pressures past,
That youth and observation copied there,
And thy commandment all alone shall live
Within the book and volume of my brain,
Unmixed with baser matter. Yes, by heaven!
O most pernicious woman!
O villain, villain, smiling, damnèd villain!
My tables-meet it is I set it down
That one may smile and smile and be a villain.
At least I am sure it may be so in Denmark.
He writes.
So, uncle, there you are. Now to my word.
It is “adieu, adieu, remember me.”
I have sworn ’t."
(W. Shakespeare, Hamlet, I.5).
"SPETTRO, [...] E dunque ascolta, Amleto / S’è detto che, mentre dormivo nel mio giardino, / Mi morse un serpente. Così l’orecchio / Dell’intera Danimarca è stato ingannato/ turpemente con un falso resoconto /Della mia morte. Ma tu, nobile giovane, /Sappi che il serpente che morse la vita / Di tuo padre, ora ne indossa la corona.
AMLETO Oh La mia anima profetica! Mio zio?
SPETTRO [...] Addio, addio, addio. Ricordati di me!
AMLETO [...] Sì, povero spettro, fino a quando / la memoria ha uno spazio in questo glo impazzito / Ricordarmi di te? Ecco, dalla tavola / Della mia memoriascancellerò ogni sciocca / Banale annotazione [...] e il tuo comandamento / Vivrà ds solo nel Libro della mia mente, / Senza essere mischiato a materis più vile. /Sì, per il Cielo. [...] Il mio quaderno... /Conviene mettere per iscritto che uno / Può sorridere, e sorridere, ed essere un criminale / O almeno sono sicuro che può essere così in Danimarca. (scrive) [...]
(W. Shakespeare, "Amleto", I.5, trad. Agostino Lombardo, #Feltrinelli).
ARTE #FILOLOGIA E #ICONOLOGIA (#25MARZO 2024):
DANTE ALIGHIERI, IL #PONTE DELLA #TRINITA’ (#HOLIDAY), LE "#TREMARIE" (#MARIA: LA MADRE DI #GESU’; MARIA #BEATRICE: #BELLA, LA #MADRE DI #DANTE; E MARIA #LUCIA: #GEMMA DONATI, LA #MOGLIE DI DANTE), E "#VIRGILIO" (LA #FIGURA DEL "#PADRE" DI DANTE).
"VERITA’ E #INTERPRETAZIONE". "Dante incontra Beatrice al ponte Santa #Trinita": l’opera del pittore preraffaellita #HenryHoliday, alla luce delle parole di #Virgilio e di una #ipotesi generale di "ri-lettura" della #DIVINACOMMEDIA:
CULTURA E SOCIETA’.
UNA NOTA A MARGINE DI UNA DISCUSSIONE E DI UNA RILESSIONE IN CORSO SUL TEMA: "LA PSICOANALISI HA UN FUTURO?" *
#FILOLOGIA E #ANTROPOLOGIA. IL PROBLEMA DEL "CONOSCI TE STESSO" E DEL "CONOSCI TE STESSA", E LA "#CRITICA DELLA #FACOLTÀ DI #GIUDIZIO: IL CORAGGIO DEL "#SÀPERE AUDE" (#ORAZIO).
#A GLORIA DI #FREUD E A OMAGGIO DI #KANT2024. Ricordando l’eccezionale #coraggio degli #inizi della #psicoanalisi ("L’#interpretazione dei #sogni", 1899) e il coraggio di servirsi della propria intelligenza dell’#illuminismo kantiano ("Risposta alla domanda: che cosa è l’Illuminismo",1784), e, al contempo, il #grido di allarme di #SigmundFreud, lanciato da #Vienna nel 1929, sul "#Disagiodellaciviltà" (e nella #civiltà), a riguardo, può essere interessante e utile un ulteriore approfondimento e una riflessione supplementare, alla luce di una personale #ricerca (del 2010), proprio sul tema storico-filosofico relativo alle ragioni stesse della #domanda sul futuro della tradizione filosofica, picoanalitica, e della stessa civiltà (cfr. "KANT, FREUD, E LA BANALITA’ DEL MALE" ).
*
"AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Ct. 8.6):
UNA INDICAZIONE DA GIUBILEO DI PAPA FRANCESCO E UNA PREMESSA FONDAMENTALE A UN’ ANTROPOLOGIA ALL’ALTEZZA DEL "CANTICO DEI CANTICI" (Ct. 8.6).
AMORE (#CHARITAS) E CASTITA’. L’’indicazione è premessa fondamentale al #riconoscimento giuridico e teologico dei "#dueSoli" (#DanteAlighieri), della #maternità piena di "#Maria" e della #paternità piena di "#Giuseppe" e alla ricostituzione della "FAMIGLIA" umana e divina: al di là del "giocastolaio" #incesto edipico (#SigmundFreud e #ThomasMann), la riconsiderazione (al di là delle pretese imperial-costantiniane e tebane di #SistoIV e di #GiulioII della Rovere) e la riaffermazione antropologica e "cosmicomica" della Relazione d’#Amore ("Charitas") tra #MariaeGiuseppe e #Gesù.
ARTE E "PROPAGANDA FIDE": "TONDO DONI". Attenzione: nella cornice "raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti" (Galleria degli Uffizi)? Ma, per Michelangelo, non erano e non sono due #profeti e due #sibille?!
COSMOLOGIA, ANTROPOLOGIA (E CRISTOLOGIA), E PSICOANALISI. Con la ripresa dello spirito di Francesco di Assisi, di Giotto, e di Dante Alghieri, e la memoria del "Cantico dei cantici", a mio parere, è possibile comprendere "#Chiara-mente" che le radici della Terra non sono tragico-edipiche, ma "#Cosmicomiche" (come da lezione di Italo Calvino, Santiago de Las Vegas de La Habana, 15 ottobre 1923 - Siena, 19 settembre 1985).
PER L’ EPIFANIA 2025 : ALCUNE NOTE SULLA "STORIA NOTTURNA" DELLA TRAGICA FIGURA DEL "GIOCASTOLAIO" (EDIPO) DEI MAGI.
STORIA E LETTERATURA E PSICOANALISI. Memoria di un evento epocale: i Magi erano sapienti e sapevano distinguere tra il #Bambino-re (#Gesù) e il #Re-bambinone (#Erode). Ma, oggi, dove sono i Magi?
Archeologia e Storiografia. Dopo papa Gregorio I, detto papa Gregorio Magno (Roma, 12 marzo 604), e dopo papa Bonifacio IV e l’imperatore bizantino Foca (609), alla "altezza" del tempo storico del "sarcofago dell’esarca Isacco (625 - 643 d.C.)", a quanto appare epifanicamente (oggi, 6 gennaio 2024), era già in grande diffusione e costruzione la ideologia costantiniana imperiale (con le sue radici paoline) della figura della "Theotókos" (Concilio di Efeso, 431), della immagine della "Madre di Dio", la Madre del Dio - Figlio (#Imperatore - Cristo), fino a portare con san Bernardo di Chiaravalle (come scriverà Dante) a celebrare la "Vergine Madre, figlia del tuo figlio" (Par. XXXIII, 1), e a mettere "fuori campo", anzi "dalla porta", la stessa figura di #Giuseppe (#padre di Gesù, il discendente "de domo David"): il passo è costante e troverà - al di là del presepe di Francesco e dello spirito di #Assisi (Greccio, 1223) e nella messa all’indice come eretica della "Monarchia" di Dante Alighieri (con la sua teoria dei "#dueSoli") - una sollecitazione decisiva nell’opera papa francescano #SistoIV della Rovere (intorno al 1477), nella costruzione della #CappellaSistina, il cammino prosegue, arriva fino ad oggi (Epifania 2024), ed oltre - alla prossima tappa, all’anno prossimo, al 2025, al Giubileo e alla celebrazione dell’anniversario del Concilio di #Nicea del 325.
TEATRO METATEATRO ANTROPOLOGIA E TEOLOGIA-POLITICA DELL’IMMAGINE.
IL GIOCO (E IL GIOGO) DELLA RAPPRESENTAZIONE (DEL "CORPO MISTICO DEL RE"): IL PROBLEMA DELLO #SPECCHIO...
Una nota dallo stesso testo dell’ Amleto a commento della "Part 25: Ophelia’s Self-Catching Conscience in the Mirror of her Arts" del lavoro in corso di Paul Adrian Fried (November 28, 2023):
AMLETO.
Proferite, ve ne prego, il discorso come io lo proferii con voi, con lingua scorrevole; se doveste declamarlo con enfasi, come fanno tanti dei vostri colleghi, preferirei di averlo affidato al banditore della città. E non trinciate di troppo l’aria colla mano, ma sia gentile il vostro gesto, perocché anche nel più grand’impeto, nella furia e (direi) nel turbine della passione, dovete avere una temperanza che ne rintuzzi l’asprezza. Oh nulla m’indispone di più l’anima quanto íl vedere un atleta in parrucca che straccia una passione a brani, che la fa proprio in cenoi, e introna gli orecchi degli spettatori, a cui per la maggior parte non talentano che le assurde pantomime e il baccano. Farei frustare questi Termaganti1 ampollosi, che vincono in furia anche Erode; ve ne prego, evitate ciò.
PRIMO COMMEDIANTE.
Lo prometto, principe
AMLETO.
Nè siate tampoco freddo, e il senno vi guidi conformate l’azione alla parola, la parola all’azione; e abbiate questa speciale avvertenza di non varcar mai i limiti del naturale, perocchè tutto quello che va al di la di esso ei distoglie dall’intento della scena, che fu sempre, ed è tuttavia quello di riflettere la natura come in uno specchio, di mostrare alla virtù i suoi veri sembianti, al vizio la sua immagine, conservando ad ogni secolo, ad ogni tempo la loro forma e la loro impronta. Ora chi esagera o non colorisce abbastanza, sebbene possa far ridere lo stolto, non potrà che far rammaricare il saggio, la censura del quale, e si tratti pure di un solo, deve per voi pesar più che gli applausi di tutto un teatro. Vi sono certi commedianti, che ho veduto recitare, e inteso a celebrare con lodi alte, per non dire sacrileghe, i quali non avevano nè l’accento, nè il portamento da cristiano, da pagano, o da uomo, e che si enfiavano e muggivano in modo si orribile, che io li ho presi per simulacri umani sbozzati grossolanamente da qualche villano artefice nelle officine della natura; cosi male imitavano l’uomo!
PRIMO COMMEDIANTE.
Spero che noi ci siamo riformati abbastanza a questo proposito, signore.
AMLETO.
Riformatevi interamente; e coloro che recitano fra voi le parti del buffone non dicano più di quello che fu scritto per loro, perché ve ne hanno, che per provocare le risa di certi stupidi spettatori, si danno a ridere nel momento in cui la scena richiede la massima attenzione; indegna cosa, o che mostra una ben deplorabile ambizione in colui che vi ha ricorso. Andate a prepararvi. (I Commedianti escono.) Ebbene, signore? (A Polonio che entra con Rosencrantz e Guildenstern.) Assisterà il re alla rappresentazione?
POLONIO.
E la regina anche, e subito.
AMLETO.
Dite ai commedianti di affrettarsi. (Polonio esce.) Volete voi pure andarli a sollecitare?
#PSICOANALISI E #RINASCITA:
IL PROGRAMMA DI #FREUD DI RIPENSARE L’#EDIPO #COMPLETO (E CAPIRE "COME SI DIVENTA CIO’ CHE SI È") E LA DIFFICOLTÀ PRINCIPALE AFFRONTATA NEL SUO "#MOSAICO" PERCORSO.
Una ipotesi di ricerca...
#BIOGRAFIA E #STORIOGRAFIA: "SAPERE AUDE!" (KANT, 1784). RICORDANDO CHE FREUD ha iniziato la sua discesa nel regno di #Ade, agli #inferi (nel mondo dei "sogni"), con #Virgilio (e con la guida dell’#Eneide) e, in particolare, in sintonia (non con lo spirito di #Afrodite / #Venere ed #Eros / #Cupìdo ma) con lo spirito di #Era / #Giunone - con l’aiuto della "Madre", di cui richiama le parole, polemiche contro lo stesso #Zeus / #Giove - contro lo spirito del "Padre": "Flectere si nequeo Superos", #Acherontamovebo"), forse, è bene richiamare l’attenzione su uno dei primi fondamentali passi "edipici" del giovane "Freud-#Mosè" sulla strada della conoscenza e dell’uscita dallo "#stato di #minorità" (Kant, 1784):
"La notte prima del funerale di mio padre sognai una tabella a stampa, un manifesto o un affisso - pressappoco come i cartelli:
"Vietato fumare" nelle sale d’aspetto delle ferrovie - su cui si leggeva:
Si prega di chiudere gli occhi
oppure
Si prega di chiudere un occhio,
alternativa che sono abituato a raffigurare nella forma seguente:
gli
Si prega di chiudere occhi(o).
un
Ciascuna delle due versioni ha un suo significato particolare e nell’interpretazione del sogno conduce a vie particolari. Avevo scelto il cerimoniale più semplice, perché sapevo che cosa pensasse il morto di tali manifestazioni; ma altri membri della famiglia non erano d’accordo; ritenevano che saremmo stati costretti a vergognarci di fronte agli intervenuti alla cerimonia. Perciò una versione del sogno chiede di "chiudere un occhio" vale a dire di usare indulgenza. " (S. Freud, "L’Interpretazione dei sogni", cap. 6, pf. C).
ONORARE IL PADRE E LA MADRE. Sul "Si prega di chiudere gli occhi", nella lettera a Fliess del 2 novembre 1896, Freud scrive che la formulazione della frase è "a doppio senso e significa in ambedue i casi: bisogna adempiere al proprio dovere verso i morti", in particolare, il dovere filiale di chiudere gli occhi al defunto. Nella "Interpretazione dei sogni", Freud "tace": guardare negli occhi il proprio padre #Jacob (morto) e, addirittura, chiuderglieli, per l’ "Edipo re", evidentemente, è una missione "impossibile".
USCIRE DALL’#INFERNO E #APRIREGLIOCCHI. L’ anno «prima di morire, il 12 maggio 1938, mentre fuggiva da Vienna a Londra per evitare i nazisti, scrisse al figlio Ernst: "Talvolta mi paragono a Giacobbe [così si chiamava il padre] che i suoi figli, quando era già vecchio, portarono in Egitto» (J. J. Spector, "L’estetica di Freud", Mursia, Milano 1972).
A #LONDRA, #SigmundFreud muore il 23 settembre 1939: "L’uomo Mosè e la religione monoteistica" era stato pubblicato ad #Amsterdam l’anno prima, nell’autunno del 1938 (con la data: 1939).
#ARCHEOLOGIA #ANTROPOLOGIA E #PSICOANALISI ("#COSTRUZIONI NELL’#ANALISI, 1937)", E #FILOLOGIA: «GRANDE E’ LA #DIANA DEGLI EFESINI» (S. #FREUD, 1911): #EFESO, LA DEA MADRE, IL DIO FIGLIO, E L’INTERPRETAZIONE PAOLINA DEL MESSAGGIO EVANGELICO. Alcuni appunti:
«Grande è la Diana degli Efesini»
di Sigmund Freud (Opere, VI, 1911)*
L’antica città greca di Efeso, in Asia Minore (a questo proposito dobbiamo essere grati alla nostra archeologia austriaca per l’esplorazione delle sue rovine), era particolarmente celebrata nell’antichità per lo splendido tempio dedicato ad Artemide (Diana). Gli invasori ionici, forse nell’ottavo secolo avanti Cristo, conquistarono la città, che da lungo tempo era abitata da popoli di razza asiatica, e quivi trovarono il culto di un’antica dea-madre, il cui nome era probabilmente Oupis, la quale fu da loro identificata con Artemide, divinità della loro patria di origine. Gli scavi hanno dimostrato che, nel corso dei secoli, parecchi templi furono eretti nello stesso luogo in onore della dea.
Il quarto di questi templi è quello che fu distrutto dal fuoco appiccato dal folle Erostrato, nel 356, la notte stessa in cui nasceva Alessandro Magno. Il tempio fu ricostruito, più splendido che mai. La metropoli commerciale di Efeso, con il suo affollarsi di sacerdoti, maghi e pellegrini, con le sue botteghe, ove erano posti in vendita amuleti, ricordi ed ex-voto, potrebbe essere paragonata alla moderna Lourdes.
Attorno al 54 d.C. l’apostolo Paolo passò diversi anni ad Efeso. Quivi predicò, compì dei miracoli, trovando un largo seguito tra la popolazione. Perseguitato ed accusato dagli Ebrei, si staccò da questi, fondando una comunità cristiana indipendente. A cagione del diffondersi della sua dottrina, vi fu un calo del commercio degli orafi, che solevano fabbricare ricordi del luogo sacro (figurine di Artemide e modellini del tempio) per i fedeli e i pellegrini, che venivano da tutte le parti del mondo (Cfr. anche la poesia di Goethe.) Paolo era troppo rigido per tollerare che l’antica divinità sopravvivesse sotto diverso nome, per ribattezzarla come avevano fatto i conquistatori ionii con la dea Oupis, per cui i pii artigiani e artisti della città cominciarono a sentirsi preoccupati per la sorte della loro dea e anche per quella dei loro guadagni. Si ribellarono e, al grido senza fine ripetuto, di «Grande è la Diana degli Efesini», sciamarono lungo la via principale, detta «Arcadiana», fino al teatro, dove il loro capo, Demetrio, pronunciò un discorso infuocato, contro gli Ebrei e contro Paolo. Le autorità riuscirono con difficoltà a sedare il tumulto con l’assicurazione che la maestà della dea era intoccabile e fuori della portata di qualsiasi attacco ( Atti, XIX.)
La chiesa, fondata da Paolo a Efeso, non gli rimase fedele a lungo. Cadde sotto l’influenza di un uomo chiamato Giovanni, la cui personalità è stata un serio problema per i critici. Potrebbe trattarsi dell’autore dell’Apocalisse, che abbonda in invettive contro l’apostolo Paolo. La tradizione lo identifica con l’apostolo Giovanni, al quale si attribuisce il quarto vangelo. Secondo questo vangelo, quando Gesù era sulla croce gridò al discepolo favorito, accennando a Maria: «Ecco tua madre!», e da quel momento Giovanni prese Maria con sé.
Quindi, quando Giovanni andò a Efeso, Maria lo accompagnava. Di conseguenza, accanto alla chiesa dell’apostolo a Efeso, fu eretta la prima basilica in onore della dea-madre dei cristiani. La sua esistenza è attestata fin dal quarto secolo. E allora la città ebbe di nuovo la sua grande dea e, salvo il nome, scarsi furono i mutamenti. Anche gli orefici ripresero il loro lavoro, consistente nel fabbricare modelli del tempio e immagini della dea per i nuovi pellegrini. Però la funzione di Artemide, espressa dall’attributo Kourotrophos. [che alleva i figli] fu assunta da S. Artemidoro, che si prendeva cura delle donne in travaglio.
Poi venne la conquista della città da parte dell’Islam, e infine la rovina e l’abbandono, dovuti al fatto che il fiume, lungo il quale sorgeva, fu soffocato dalle sabbie. Ma nemmeno allora la grande dea di Efeso abbandonò le sue pretese. Ai nostri giorni essa è apparsa, come una santa vergine, ad una pia fanciulla tedesca, Katharina Emmerich, a Dùlmen. Essa le ha descritto il viaggio ad Efeso, l’arredamento della casa in cui era vissuta ed era morta, la forma del suo letto, e via dicendo. Sia la casa che il letto sono stati effettivamente ritrovati, esattamente quali la vergine li aveva descritti, e ora sono nuovamente meta di pellegrinaggi di fedeli.
*Fonte: "Opere di Sigmund Freud", Vol. VI, Bollati Boringhieri, Torino.
* NOTA.
IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (NON IL LOGO). IL FILOLOGICO "COLPO DI STATO" DEL "FIGLIO DELL’UOMO", PAOLO DI TARSO:
a) QUESTIONE ANTROPOLOGICA E CRISTOLOGICA. Chi è il "Figlio dell’Uomo" (Gv. 12, 34: "Filius hominis", "υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου")?!
b) LEZIONE "ANDROLOGICA" DI PAOLO DI TARSO: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
c) "IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ" ("Das Ungluck in der Kultur"): "[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori; i Romani, che non avevano fondato la loro collettività statale sull’amore, non conobbero l’intolleranza religiosa, benché per loro la religione fosse un affare di Stato e lo stato fosse imbevuto di religione [...]" (S. Freud, "Il disagio della civiltà", 1929).
La metamorfosi sulla via di Damasco
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 3 agosto 2023
Due studi recentissimi prolungano la fortuna contemporanea di Paolo di Tarso e della sua opera. Si tratta di Vincenzo Vitiello, Nel silenzio del padre (Salerno Editrice) e Metamorfosi necessaria di JoséTolentino de Mendoça (Vita e pensiero). Essi si aggiungono a una già ricca serie di lavori apparsi all’inizio del nuovo secolo che hanno visto impegnati autori del calibro di Badiou, Agamben e Zizek, per citare solo i più noti.
Ma cosa significa rileggere oggi San Paolo? Innanzitutto ripensare la figura di Gesù non tanto come una figura storica o come un personaggio letterario, ma come evento. Se c’è, infatti, un tema cruciale che viene ripreso da questi due testi è il seguente: non si può comprendere la parola di Gesù se non a partire dalla sua incidenza su chi la ascolta. Per questo Paolo assimila Gesù a un evento. Ma cos’è un evento? È qualcosa che scompagina le leggi consuete del mondo, è un taglio nel loro ordine, una frattura, un trauma. Più di preciso, per Paolo l’“evento Gesù” è stato innanzitutto un incontro.
Questo incontro precede il pensiero, precede la traduzione militante del messaggio cristiano, precede la vita stessa di Paolo perché la istituisce come nuova. Il libro di Tolentino dedica pagine toccanti a questo evento che la leggenda racconta come una caduta di cavallo di Saul, persecutore accanito dei cristiani, e della perdita della sua vista. Accecamento dell’Ego, destituzione del suo prestigio, caduta con la faccia a terra. Passaggio brusco da Saul - che nel suo etimo significa “il più grande” - a Paolo - che nel suo etimo significa “il più piccolo”. Tolentino lo descrive come un “drammatico contromano”.
Ma è solo dall’incontro con l’evento-Cristo che Paolo diventa Paolo. È, più in generale, solo da questo incontro che il cristiano diventa cristiano. Il credere sorge, dunque, da una esperienza di metamorfosi. Prima è l’incontro e poi la fede, non il contrario. È quello che scrive Vitiello quando parla della sovversione cristiana del rapporto tra uomo e Dio: non dall’uomo a Dio, ma da Dio all’uomo. Paolo lo afferma nella Lettera ai Filippesi evocando la kenosis di Dio: Gesù è l’esito dello svuotamento (abbassamento, indebolimento) di Dio, del suo farsi uomo. Il Verbo, come recita il prologo del Vangelo di Giovanni, si è fatto carne. Nondimeno, compito dell’uomo, per Paolo, resta quello di vivere nel nome della Legge perché il suo rispetto per la Torah non viene mai meno.
Il suo martirio, come ricorda Vitiello, rovescia quello di Antigone. Se l’eroina sofoclea, col suo gesto di rivolta nei confronti della Legge, intende denunciarne il carattere disumano, Paolo assume la propria morte non per negare ma per istituire la Legge. Prima dell’incontro con Cristo - prima del tempo della sua conversione - egli era un esecutore irreprensibile della Legge. Ebreo, figlio di ebrei, il suo Dio è il Dio dell’Antica alleanza che ha parlato per via dei profeti, dunque, come si descrive nella prima Lettera ai Galati, «ero molto più zelante delle mie stesse tradizioni patrie». Poi accade l’evento dell’incontro che sposta irreversibilmente la direzione della propria vita e con essa il senso stesso della Legge. In gioco è una esperienza mistica che ruota attorno a una chiamata.
La conversione provocata dalla chiamata, come ricorda Tolentino, attraverso le parole di Paolo stesso, si differenzia sia dalla domanda greca di sapere, sia da quella giudea dei “segni”. L’universo simbolico del sapere e quello immaginario dei segni vengono disarticolati dalla centralità che Paolo attribuisce alla dimensione reale dell’incontro, dell’evento-Cristo. Si tratta di una metamorfosi, dell’acquisizione di una nuova forma di vita. Per Tolentino la parola chiave alla quale apre la conversione è speranza: la speranza che la morte non sia l’ultima parola sulla vita, la speranza che s’incarna nella resurrezione di Cristo, nel dare morte alla morte. Ma questa speranza non assume mai le forme della rassicurazione o del rifugio. Sarà questa invece la lettura freudiana della religione come fuga dalla realtà, regressione infantile della vita, rifiuto della sua asprezza. Nella speranza, come viene sostenuta da Paolo, è tutto il contrario.
La fede non è affatto rifugio, ma tribolazione, non è rassicurazione ma angoscia, non è accasamento ma esodo. È quello che ha sottolineato anche Heidegger nella sua lettura di Paolo: «per la vita cristiana - scrive - non c’è alcuna sicurezza».
È il valore che Paolo nella Lettera ai romani riconosce alla testimonianza di Abramo. La speranza che egli incarna è “la speranza contro ogni speranza”, la “speranza che non vede” poiché se vedesse quello che spera, scrive Paolo, come potrebbe sperarlo?
Più di preciso, la lettura di Vitiello fa emergere come l’esperienza paolina della conversione implichi non solo una trasformazione del soggetto, ma anche del senso del tempo. L’evento del Messia modifica il suo ordine: il passato è morto, l’età del peccato e della morte è scaduta per sempre; l’avvenire si apre come giorno della resurrezione e della vita eterna.
È la differenza profonda tra la concezione ebraica del tempo e quella cristiana: nella cristologia paolina l’adesso - il “grande Oggi” di Rosenzweig -, è il Kairos rivelato dall’evento-Cristo. «L’ora viene, ed è adesso», recita il Vangelo di Giovanni: la salvezza del Regno non è domani, ma adesso, accade oggi e non in un futuro sempre a venire. Nessuno più di Paolo ha avuto l’idea del Messia come evento, incontro, contingenza che si rivela “adesso”, nella vita individuale come in quella collettiva.
È quello che Kierkegaard indicava come compito di ogni cristiano: essere contemporaneo a Cristo. Per questo cristianesimo e gnosticismo risultano, come fa notare Vitiello, radicalmente eterogeni. Se il figlio di Dio si è fatto carne è perché la carne di cui si è fatto onora il mondo, è “carne sacra”, ricorda ancora giustamente Vitiello, come sacro è il mondo.
HEGELISMO, PLATONISMO, FILOLOGIA E ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA)*
"MENSCHWERDUNG" ("DIVENTARE UN ESSERE UMANO"). "Dio è amore" ("Deus charitas est"), condivido (è una questione di "h": "Charitas", gr. "Xapitas"). Hegel ha messo il dito nella piaga: "La vita di Dio e il conoscere divino potranno bene venire espressi come un gioco dell’#amore ["ein Spielen der Liebe"] con se stesso; questa idea degrada fino all’edificazione e addirittura all’insipidezza, quando mancano la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio ["Arbeit"] del negativo" ("Fenomenologia dello Spirito", §19).
A ben "orientarsi nel pensiero" (Kant) e, al contempo, nel sollecitare una ri-considerazione unitaria della "Prefazione" ("Vorrede") della "Fenomenologia dello Spirito" di Hegel e la figura della profetessa di Mantinea, Diotima, a mio parere, emerge chiaramente il #nodo antropologico di fronte a cui Hegel si è trovato e che ha sciolto in modalità tragica, edipica e paolina, con tutta la "socratica" potenza di un #Napoleone (Alessandro Magno); non con lo spirito del #Logos (di Eraclito e dell’evangelista Giovanni) né della #Giustizia di Parmenide, egli ruba "alla #Platone" l’anima a Diotima ("Simposio") e ripropone una demiurgica e demogorgonica #cosmoteandria t(al)ebana: "[...] che il vero sia effettuale solo come sistema o che la sostanza sia essenzialmente soggetto ciò è espresso in quella rappresentazione che enuncia l’#assoluto come #spirito - elevatissimo concetto appartenente all’età moderna e alla sua #religione" (Fenom. d. spir., § 22).
A che gioco giochiamo, a che giogo vogliamo continuare a giocare? Non è meglio, forse, riprendere il filo proprio da Diotima e, con Dante Alighieri ("Due Soli") e portarsi fuori dalla tragedia dei "Tempi moderni" (Charlie Chaplin)?
P. S. 1 - «Senza Hegel non sarebbe stato possibile neppure Darwin, afferma Nietzsche, e l’avrebbe potuto dire anche di se stesso; infatti chi si ammali una volta di hegelite - così mordacemente si era espresso un decennio prima - non ne guarirà mai del tutto. E che cosa sarebbe la critica alla religione di Fuerbach e di Marx, o anche quella odierna di Ernst Bloch e Georg Lukács senza Hegel?» (Hans Küng, "Incarnazione di Dio. Introduzione al pensiero teologico di Hegel, prolegomeni ad una futura cristologia", Queriniana, 1972).
P. S. 2 - EUROPA: CRISTIANESIMO CATTOLICESIMO COSTITUZIONE E SPIRITO DI ASSISI (1986). Quando Benedetto Croce pubblicò il suo «Perché non possiamo non dirci "cristiani"» (1942), don Giuseppe De Luca ’confessò’ al Ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai: si è "rincristianito per dispetto". Come concordato...!!!
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FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA), COSMOTEANDRIA, E STORIOGRAFIA.
"PARADISO PERDUTO" E SCOMPENSI EPOCALI DI CUORE: "SÀPERE AUDE!" (ORAZIO -> #KANT).
CARDIOCENTRISMO, CARDIOPATIE, E MEDICINA. Forse, oggi, è proprio giunto il tempo di riprendere il filo e rievocare la memoria del giardino (paradiso perduto) e sollecitare un ripensamento della questione antropologica (della cristologia e del "corpus domini", del "corpo del signore" - ateo e/o devoto).
Se è vero. come è vero da sempre, che il cuore è l’organo dell’intelligenza spirituale, dell’intelligenza-che-ama o intelletto d’amore e, come ha chiarito Dante, è l’amore ("CHARITAS") che muove il sole e le altre #stelle, non è ora di uscire dal letargo (Pd. XXXIII, 94), e rendere praticabile il cammino ad ogni essere umano (cristo- logica-mente, non "paolinamente") sì che ognuno e ognuna, "dal suo proprio grembo [ἐκ τῆς κοιλίας αὐτοῦ]", possa far sgorgare "fiumi di acqua viva" (Gv 7, 38-39)?! E, finalmente, ammirare il sorgere della Terra , "della Terra, il brillante colore"?
P. S. - DANTE, MILTON, E FREUD. Alla fidanzata Martha, il 7 agosto 1882, Sigmund Freud scrive che, nel "Paradiso perduto" (John Milton, 1667), «ancora di recente, in un momento in cui non mi sono sentito sicuro del tuo amore, ho trovato consolazione e conforto».
Federico La Sala
LA CENA DELLA VITTORIA: PLATONISMO, ILLUMINISMO, E INTERPRETAZIONE DEI SOGNI DEI VISIONARI.
ANTROPOLOGIA, ECONOMIA POLITICA E METAFISICA. PREMESSO CHE "Il sapere visuale è una sorta di dannazione della filosofia. Le idee di Platone non sono visibili eppure la radice greca che dà vita alla parola idea ha a che fare con il visibile." (Alfonso M. Iacono), FORSE, è meglio cercare di vedere chi cucina "la cena della vittoria" (B. Brecht), di non affidarsi ai freudolenti "sogni di un visionario", e seguire l’indicazione di Orazio Shakespeare Kant Marx Nietzsche Freud e Foucault: "Sàpere aude!" .
FILOLOGIA E CRITICA: "SÀPERE AUDE!" (ORAZIO/KANT). A ben riflettere, accogliendo l’importante sollecitazione, si tratta di cambiare rotta e registro (oltre il platonismo e il paolinismo) e avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza, di "aprire gli occhi" (Sigmund Freud) sulla lezione evangelica di Gioacchino da Fiore sull’amore ("charitas") e, al contempo, di "sàpere" che cosa "mangiamo" a cena, se "grazia di dio" ("eu-charis-tia") o cibo avvelenato (di una tragica bimillenaria "buona-carestia"). Se non ora, quando?!
Federico La Sala
Filologia Antropologia Teologia e Pedagogia.
QUALE IMITAZIONE DEL MAESTRO (DI GRAMMATICA)? QUALE IMITAZIONE DI "SAN CRISTOFORO"? La via dell’umiltà (cristoforo-bambino) o della superbia (gigante-nano)?:
[“NANI SULLE SPALLE DI GIGANTI”: "[...] Che cosa significa l’aforisma? Umberto Eco spiega, nel suo saggio sul Medioevo di FEDERICO MOTTA EDITORE->https://www.mottaeditore.it/2017/10/nani-sulle-spalle-di-giganti/, qual è il valore di questa espressione. La prima domanda da porsi è se si tratti di una ammissione di umiltà oppure di una manifestazione di superbia. Ma soprattutto, che senso aveva per i medievali paragonare se stessi a dei nani e gli antichi a dei giganti. Un indizio può venire dal contesto in cui è inserita la massima: Bernardo parlava infatti di grammatica. In particolare, criticava gli allievi che copiavano pedissequamente gli antichi; al contrario si doveva prenderli a modello, per scrivere altrettanto bene ed essere un domani ammirati al pari loro. È quindi possibile riconoscere un invito all’autonomia. Come dirà più tardi Sigieri di Brabante, rifarsi a un’autorità non basta. Gli antichi erano pur sempre uomini, per cui nulla vieta ai #posteri di dedicarsi anch’essi alla ricerca razionale."
PSICOANALISI, STORIOGRAFIA, E FILOLOGIA:
A) Una citazione dal verbale di una riunione della Società psicologica del mercoledì (primo nucleo della Società psicoanalitica), pubblicato in un articolo del 28 gennaio 1903 da Wilhlem Stekel, tradotto e curato di Michele Lualdi:
"Un piccolo studio accogliente di un illustre neurologo. Il padrone di casa siede allo scrittorio e fuma una piccola pipa inglese.
Lo “s p i r i t o i r r e q u i e t o” si adagia su una morbida poltrona e fuma come il suo maestro, per quanto possibile con ancor più agio, una pipa inglese. Il “t a c i t u r n o” maneggia con grande abilità ed eleganza una sottile sigaretta. Il “s o c i a l i s t a” tira tranquillamente da un #Virginia, con una faccia molto seria.
Suonano.
Entra l’“i n d o l e n t e”. Il padrone di casa gli offre un #sigaro. [...]" (W. Stekel, Discussione sul fumare).
B) CONSIDERATO CHE A VIENNA, al Museo della Hofburg nelle liste dei sigari fumati dal Kaiser Franz Joseph è presente anche il sigaro "Virginia", forse, è bene dedicare allo “s p i r i t o i r r e q u i e t o” (di Stekel), che "fuma come il suo #maestro [...] una pipa inglese", maggiore attenzione (cfr. "Passando da Stekel. Edizione critica dell’Autobiografia di WilhelmStekel" di Michele Lualdi).
C) IL NOME DI DIO. A memoria di Stekel, ricordo l’importante nota di Freud sul "#significato della #successione delle vocali":
"Indubbiamente ha suscitato frequenti obiezioni l’affermazione di Stekel che, nei sogni e nelle associazioni, i nomi che devono rimanere nascosti appaiono sostituiti da altri che rassomigliano ai primi solo in quanto contengono la stessa successione di vocali. Però un’evidente analogia si incontra nella storia della religione. Tra gli antichi Ebrei il nome di Dio era tabù; non lo si poteva pronunciare né scrivere. (Vi sono molti altri esempi del particolare significato dei nomi nelle civiltà arcaiche). Tale divieto riceveva un’obbedienza così implicita che, a tutt’oggi, rimane sconosciuta la vocalizzazione delle quattro consonanti del nome dio (JHVH). Però il nome era pronunciato Jehova prendendosi in prestito le vocali della parola Adonai («Signore»), nei confronti della quale non vigeva tale proibizione (Reinach, 1905-12, 1, 1)." (cfr. S. Freud, "Opere", 1911, vol. 6).
NOTE SUL TEMA:
1) - Freud e la sua debolezza: i sigari:
2) -I SIGARI DI MARCEL DUCHAMP E I SIGARI DI JACQUES LACAN. Un ricordo di Gianfranco Baruchello (6 marzo 2017):
FLS
PSICOANALISI, FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA E STORIOGRAFIA:
LA SUGGESTIONE, L’ ENIGMA DI SAN CRISTOFORO, E
LA "PSICOLOGIA DELLE MASSE E ANALISI DELL’IO" (S. FREUD, 1921).
Per meglio comprendere il grande rilievo del contributo di Stekel, al lavoro e alle "costruzioni nell’analisi" (1937) di Freud, molto utile anche la lettura del testo della seduta del 1903, pubblicata come articolo con il titolo "Il ’Piccolo Kohn’", tradotto e curato dal dr. Michele Lualdi*:
[FREUD] - Il maestro [...] cosa è suggestione? [...] Mi sono recato dai più celebri maestri della suggestione, ma nessuno ha potuto darmi una risposta a questa domanda.
*cfr.Wilhelm Stekel: "Il ’Piccolo Kohn’" (1903)
AllegaTO: San Cristoforo (Wikipedia).
NOTA:
"INTERPRETAZIONEDEISOGNI", E "COSTRUZIONI NELL’ ANALISI" (SIGMUND FREUD,1937): "CLAUSTROFILIA" (ELVIO FACHINELLI, 1983). Una risposta all’edipica ed amletica domanda ("question") di Freud e all’enigma di Cristoforo (come quello della Sfinge), a mio parere, può essere così sintetizzata: noi (esseri umani) del Pianeta Terra "fumiamo" troppo e ancora non abbiamo capito la lezione di Amleto (Shakespeare), e della Regina Vergine, Elisabetta I d’Inghilterra, continuiamo a "fumare" il tabacco della "Virginia" e il sigaro del "Kaiser", e, non vogliamo nascere a noi stessi (esseri umani).
FLS
#PSICOANALISI #FILOLOGIA E #SERENDIPITY: UNA NOTA SULLA ROTTURA DEL RAPPORTO TRA IL #MAESTRO (#FREUD) E Lo "SPIRITO IRREQUIETO" (#STEKEL) GETTA INEDITA LUCE SULL’#ENIGMA DI SAN #CRISTOFORO DELLA "PSICOLOGIA DELLE MASSE E ANALISI DELL’IO" (cfr. post precedenti), SULL’AFORISMA "NANI SULLE SPALLE DI GIGANTI" (E, ANCORA, SULL’INTERPRETAZIONE DELLE TRE METAMORFOSI DELLO SPIRITO E DELLA LOTTA TRA IL NANO E ZARATHUSTRA NELL’OPERA DI NIETZSCHE).
Sul tema, una "vecchia" recensione di Franco Marcoaldi del lavoro di Robert K. #Merton,"Sulle spalle dei Giganti".
ANCHE IL GIGANTE INCIAMPA
di FRANCO MARCOALDI *
Rispondere a una lettera, magari anche gradita, e fosse pure soltanto con le canoniche "due righe", sembra essere diventato eroico esercizio cui ci si sottopone a malincuore. Con le dovute eccezioni, naturalmente. Robert (Bob) Merton, ad esempio, docente alla Columbia University e stella di prima grandezza della sociologia contemporanea, in risposta alla succinta missiva dell’ amico Bernard (Bud) Baylin, ha inviato non una, ma mille lettere.
Che hanno finito per comporre un libro: folle, geniale ed enigmatico, di cui è pressoché impossibile dare un resoconto rapido, e minimamente sensato. D’ altronde, lo stesso sottotitolo, "poscritto shandiano", indica chiaramente come in omaggio a Vita e opinioni di Tristam Shandy di #Lawrence #Sterne, si intenda procedere qui in modo altrettanto digressivo ed errabondo. Affidandosi alla #serendipity: la capacità di trovare una cosa avendone a lungo cercata un’ altra. Il che non ci consente, comunque, di menare a spasso per altre tre cartelle l’ eventuale acquirente del volume, senza provare a dirgli, almeno a grandi linee, e in modo necessariamente vago, di cosa - in definitiva - il libro tratti.
E allora, vediamo di tornare alla letterina che Bud invia all’ amico Bob, chiedendogli informazioni più precise riguardo al celebre aforisma da sempre attribuito a #Newton: "se ho visto più lontano, è perché stavo sulle spalle dei giganti". Siamo proprio così sicuri, si chiede Bud, che sia stato lui, a inventarlo? Detto e fatto. Bob si mette a tavolino, e affidandosi alla sua prodigiosa erudizione, risponde con una lettera (fantastica) di duecentonovanta pagine, che dà forma a quella sarabanda intellettuale raccolta ora in Sulle #spalle dei #giganti (prefazione di #UmbertoEco, Il Mulino, lire 30.000). Incredibile a dirsi, ma la semplice ricerca à rebours della genealogia di quella minuscola frasetta, consente a Merton di sollevare una infinita serie di questioni. Di immensa, e infima grandezza. Trattate tutte con eguale rispetto, ed eguale irriverenza.
Ma, tanto per cominciare, quando compare per la prima volta il celebre Aforisma? In una lettera che #Newton invia a #Hooke nel bel mezzo di una accesa controversia sulla paternità delle rivoluzionarie scoperte relative all’ ottica e alla meccanica celeste. Da qui Merton prende le mosse, e da qui comincia a sparare una gragnuola senza fine di domande. Chi ha scoperto, cosa e quando? Come la mettiamo con il problema del plagio, delle influenze consce e inconsce? E con quello del rapporto con la tradizione? Gli uomini, su questo punto, mica l’ hanno pensata sempre allo stesso modo. E ancora, i nani (quelli che vedono più lontano), stanno seduti o in piedi, sulle spalle dei giganti? E come fanno "a mantenersi in equilibrio in quell’ imbarazzante posizione"? Che accade, infine, nel caso in cui i giganti inciampino o cadano bocconi? Se si aggiunge, che nel frattempo, Merton riesce a discutere pure dei vantaggi di "cercare la verità in un dibattito a quattr’ occhi piuttosto che in una discussione pubblica". A proporci le virtù di tal John Aubrey nel definire le persone a partire da colore e taglio degli occhi. E a scoprire un sorprendente plagio di Sterne ai danni di #Burton, proprio nella pagina in cui il primo si avventa contro questa insana abitudine, beh, si capirà bene che c’ è da perdere la testa. Noi, beninteso. Non Merton, che al contrario tesse le fila del suo folle tappeto con perfetto controllo di sé, conscio dei labilissimi confini che separano, nel mondo dell’ #erudizione, #sanità e #pazzia. Talmente conscio da non perdere l’ occasione per stilare una puntuale tassonomia nosografica delle turbe cui la medesima erudizione conduce: l’ adumbrazionismo denigratorio (nulla di nuovo sotto il sole, tutto è già stato detto nell’ antichità); la correlativa sindrome anatopica (occultamento delle versioni antiche); l’ onesta criptomnesia (far passare per proprie idee scovate altrove); l’ insanabile scribendi cacoethes (quella frenesia del pubblicare da cui ci si può curare solo seguendo il consiglio di Thomas Fuller; riempiendo fogli e fogli di carta unicamente all’ inizio della riga). E così via pazziando. Ma non cadiamo pure noi nelle seduzioni digressive dello stile shandiano. E vediamo di concludere.
Si può, in definitiva, sapere quando e come l’ Aforisma nasce, e magari pure quando muore? Sì, in un certo senso, si può saperlo. Nasce nel dodicesimo secolo, con Bernard de Chartres. E muore con #Freud. Quando quel rompiscatole di #Stekel, allievo mitomane e indesiderato, convinto di aver superato di gran lunga il suo maestro, fa un uso davvero smodato dell’ Aforisma. Tanto che il gigante (Freud) è costretto a rispondere al nano (Stekel): "Questo può anche essere vero, ma un pidocchio sulla testa di un astronomo non può farlo". Il rebus, dunque, è risolto? Per modo di dire: morte, e soprattutto nascita dell’ Aforisma, restano comunque fittizie, aleatorie. Stabilire che il primo e assoluto ideatore sia stato Bernard significherebbe infatti, rammenta Merton, negare la validità dello stesso Aforisma. Forse che quando lo creò, "non era lui stesso posto sulle spalle dei suoi predecessori?". Insomma, è solo per rispettare il noto detto, "un bel gioco dura poco", che Merton la finisce qui. Se fosse per lui, magicamente afflitto dall’ insanabile desiderio di scrivere, sarebbe ancora lì, a giocare. Con la dovuta serietà, naturalmente. Convinto, con Auden, che "soltanto attraverso la commedia, si può davvero essere seri".
*Fonte: la Repubblica, 10 dicembre 1991.
NOTA 1
#ANTROPOLOGIACULTURALE (Gregory Bateson) #PSICOANALISI (Sigmund Freud) E #FILOLOGIA (#LorenzoValla). Ulteriori appunti...
Benché sull’amletica #question antropologica ("essere, o non essere?"), #Kant ("#Logica", 1800) abbia richiamato tutta la sua attenzione, l’#idealismo materialistico o il #materialismo idealistico ha continuato nel suo cosmo-te-andrico edipico #sogno. #GregoryBateson, "all’#enigma della #Sfinge", ha dedicato "cinquant’anni" della sua "vita di antropologo" (così in una conferenza del 1979), ma non è riuscito a venir fuori dall’orizzonte della #tragedia e dalla città di #Edipo: l’#enigma di (dove poggia il piede) san #Cristoforo (S. #Freud, "#Psicologia delle masse e analisisi dell’io", "4. #Suggestione e #libido") non l’ha sciolto:
"Cristoforo portava Cristo
Cristo portava il mondo intero
Dimmi, dove allora
Ha messo Cristoforo il piede?"
ARTE, CINEMA, ANTROPOLOGIA, FILOSOFIA E PSICOANALISI: "GÜNTHER ANDERS E LA SCENA ATTUALE".
GODOT (BECKETT) E CHARLOT (CHAPLIN). Tracce per una svolta antropologica: una nota su una "vecchia" indicazione di Günther Anders.
RIPRENDENDO IL DISCORSO DA "ADAMO ED EVA", dalla coppia più famosa della preistoria (laica e devota), sul filo della memoria del lavoro del regista Jim Jarmusch, "Solo gli amanti sopravvivono" ("Only Lovers Left Alive"), un film del 2013, e, al contempo, accogliendo la sollecitazione della rivista "Aut Aut" (397/2023) a riprendere il lavoro di Günther Anders (cfr. "L’uomo è antiquato? Günther Anders e la scena attuale", forse, è opportuno (per "orientarsi nel pensiero") cominciare proprio da "L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’era della seconda rivoluzione industriale" (1956), e, in particolare, dal capitolo intitolato "ESSERE SENZA TEMPO. A proposito di En attendant Godot di Beckett". In questo capitolo, nel "§ 6 Entrano in scena gli antipodi", così è scritto:
#Metaphysics #Anthropology #Theology #Cosmology #Koyaanisqatsi #Ubuntu #Earthrise
IL "NATUM ESSE", LA "VERGOGNA PROMETEICA", E "IL CONCETTO INESTIRPABILE DELLA DIGNITÀ UMANA"*:
I. Primo incontro con la vergogna prometeica.
L’odierno Prometeo domanda: Chi sono mai?
Comincio con alcuni appunti di diario presi in California
11 Marzo 1942
Credo di essere capitato sulle tracce di un nuovo pudendum; di un motivo di vergogna che non esisteva in passato. Lo chiamo per il momento, per mio uso, vergogna prometeica, e intendo con ciò "vergogna che si prova di fronte all’umiliante altezza di qualità degli oggetti fatti da noi stessi".
Si è aperta qui un’esposizione tecnica e insieme a T. ho preso parte a una visita guidata. T. si è comportato in modo stranissimo; tanto strano che, da ultimo, osservavo solo lui invece delle macchine esposte. Infatti, non appena uno dei complicatissimi pezzi veniva messo in azione, abbassava gli occhi e ammutoliva. Ancora più curioso il fatto che nascondeva le mani dietro la schiena, come se si vergognasse di aver portato questi suoi arnesi pesanti, goffi e antiquati, all’alto cospetto di apparecchi funzionanti con tanta precisione e raffinatezza. Ma questo "come se si vergognasse" è un’espressione troppo timorosa. Tutto l’insieme del suo comportamento non lasciava adito a dubbi. Gli oggetti di cui conosceva l’esemplarità, la superiorità, l’appartenenza ad una più elevata classe dell’essere, per lui tenevano realmente il posto che per i suoi antenati avevano avuto le autorità o le classi sociali riconosciute superiori. Doversi presentare al cospetto di quei meccanismi perfetti nella sua goffaggine di essere di carne, nella sua imprecisione di creatura, gli era realmente insopportabile; si vergognava davvero.
Se cerco di approfondire questa vergogna prometeica, trovo che il suo oggetto fondamentale, ossia la macchia fondamentale di chi si vergogna, è l’Origine. T. si vergogna di essere divenuto invece di essere stato fatto, di dovere la sua esistenza, a differenza dei prodotti perfetti e calcolati fino nell’ultimo particolare, al processo cieco e non calcolato e antiquatissimo della procreazione e della nascita. La sua onta consiste dunque nel suo natum esse, nei suoi bassi natali; che egli giudica bassi proprio perché sono natali. Ma se egli si vergogna di questa sua origine antiquata, si vergogna naturalmente anche del risultato difettoso e ineluttabile di questa origine: di se stesso. [...]" (cfr. Günther Anders, "L’uomo è antiquato" [1956], cap. "Della vergogna prometeica").
* PER NON PERDERE IL FILO DEL LAVORO DI GÜNTHER ANDERS, RICORDARE QUANTO EGLI SCRIVE NELLA DEDICA ("L’uomo è antiquato", 1956):
Federico La Sala
ARTE, ANTROPOLOGIA, E STORIOGRAFIA.
TROVATO L’AGO NEL PAGLIAIO:
"IL MISTERO DI GESÙ BAMBINA" (*)
Ringraziando il prof. Flavio Piero Cuniberto per la generosa condivisione della sorprendente opera di Nicola di Maestro Antonio, forse, è cosa buona e giusta tentare qualche riflessione e porre qualche domanda sul tema.
Considerata l’epoca di Nicola di Maestro Antonio d’Ancona (Ancona, fine XV secolo - dopo il 1511), perché considerare una stravaganza, che Giorgio Pasquali avrebbe definito "quarta e suprema", che il Bambino sia una Bambina?
Con le necessarie riserve, non è bene tener presente la tempesta non solo culturale che ha sconvolto l’ Italia a partire quantomeno dal 1440 (Lorenzo Valla), dal 1453 (caduta di Costantinopoli), e negli anni seguenti e, al contempo, immaginare che si sia potuto pensare alla figura di #Gesù come una "#bambina", antropologicamente ("Ecce Homo"), e non "androcentricamente" ("Ecce Vir")?!
Già Christine De Pizan (1364-1430), cosa scrive: «Or fus jee vrais homs, n’est pa fable,/De nefs mener entremettable» («Allora diventai un vero uomo, non è una favola,/capace di condurre le navi»? Cosa succederà di lì a poco con la Riforma Protestante e, poco dopo, con #Elisabetta I, in Inghilterra?! Non trema la "cristologia" costantiniana (Nicea 325-2025)?!
Questione antropologica (filologica e cristologica), oggi (19 marzo 2023): "chi è questo Figlio dell’Uomo" (Gv. 12, 34). Come mai il silenzio totale di tutte le Accademie "platoniche" sulla declinazione antropologica del messaggio evangelico ("Ecce Homo") in chiave andrologica e costantiniana ("Ecce Vir")? Non è questo un "meccanismo di rimozione" profondissima (S. Freud, "Disagio della civiltà", 1929), che ha finito per spezzare le reni alla Grecia e fatto diventare l’#antropologia una #andrologia e, addirittura, il Logos di Efeso, il logo di una "fattoria degli animali"?! A che gioco giochiamo?!
(*) Cfr. Flavio Piero Cuniberto, "Il mistero di Gesù Bambina", Facebook, 17 marzo 2023.
"L’ESSENZA DEL CRISTIANESIMO", LA FILOLOGIA, E LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA ("ECCE HOMO"), OGGI:
ARTE, RELIGIONE, E FILOSOFIA DELLA FAMIGLIA: RESTITUIRE A SAN GIUSEPPE ONORE E GLORIA. UN’INDICAZIONE E UNA EREDITÀ DI TERESAD’AVILA. Una nota ... *
"[...] è bene ricordare che, il culto del santo nel Carmelo entra già dalle origini dell’Ordine. La devozione a san Giuseppe, a livello personale e locale, si viveva fin dalla venuta dei carmelitani in Europa, anche se la festa del santo Patriarca, a livello di Ordine, non appare sino alla seconda metà del XV secolo.
Tale devozione nel Carmelo teresiano, va essenzialmente unita a santa Teresa. È uno dei legati più ricchi e caratteristici che la Santa lasciò ai suoi figli. Non si comprende il Carmelo teresiano senza san Giuseppe, senza l’esperienza giuseppina della Santa. Per la Santa Madre, i conventi che fonda, a immagine del primo (Avila 1562), sono ‘case’ di san Giuseppe. Per questo procura che la maggior parte di essi porti il nome e titolo di san Giuseppe.
Dei diciassette, fondati dalla Santa, undici stanno sotto il titolo di san Giuseppe. Se non tutte le fondazioni della Santa Madre portano quel titolo, non ce n’è nessuna dove non ci sia un’immagine del Santo che presieda e protegga la comunità. È un’ulteriore manifestazione, più della sua devozione ed esperienza giuseppina, il diffondere nei conventi le immagini del santo, la maggior parte delle quali ancora si conserva.
È da notare, a questo riguardo, il dato che portava con sé in tutte le fondazioni, una statua di san Giuseppe, che riceveva il titolo di “Patrocinio di san Giuseppe” [...]"
* Cfr. Antonio Faita, "Un inedito di Giuseppe Sarno: san Giuseppe con Gesù Bambino presso la chiesa teresiana di Gallipoli", Fondazione Terra d’Otranto, 19.03.2020.
NOTA:
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, CONOSCENZA: IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (non un logo). Ricordando che l’interpretazione del messaggio evangelico di Teresa d’Avila è connessa alle "Meditazioni sul Cantico dei cantici" (e non all’androcentrismo della lettura paolina), ed è molto prossima a quella di Michelangelo Buonarroti e al suo "Tondo Doni" e al suo Mosè, sollecita a riproblematizzare la questione antropologica ("Ecce Homo", non "Ecce Vir") e a portarsi oltre la cosmoteandria del cattolicesimo costantiniano (Nicea 325 - 2025). Uscire dall’inferno epistemologico. Se non ora, quando?!
ANTROPOLOGIA FILOSOFICA E VITA FUORI DALLA BILANCIA" ("LIFE OUT OF BALANCE").
COSMOTEANDRIA DEL XXI SECOLO: IL MONDO COME VOLONTÀ E RAPPRESENTAZIONE DELL’UOMO SUPREMO.
PIANETA TERRA: DOPO 1700 ANNI DAL PRIMO CONCILIO DI NICEA (325), DI "QUALE" ECUMENISMO, LA CHIESA CATTOLICO-ROMANA E L’INTERA EUROPA (LAICA E RELIGIOSA) VUOLE FARE MEMORIA?
A) - NICEA 325. "Il concilio di Nicea, tenutosi nel 325, è stato il primo concilio ecumenico cristiano. Venne convocato e presieduto dall’imperatore Costantino I, il quale intendeva ristabilire la pace religiosa e raggiungere l’unità dogmatica, minata da varie dispute, in particolare sull’arianesimo; il suo intento era anche politico, dal momento che i forti contrasti tra i cristiani indebolivano anche la società e, con essa, lo Stato romano. Con queste premesse, il concilio ebbe inizio il 20 maggio del 325. Data la posizione geografica di Nicea, la maggior parte dei vescovi partecipanti proveniva dalla parte orientale dell’Impero (...).
B) STORIA STORIOGRAFIA ED ECUMENISMO: COSTANTINOPOLI E LA "CRISTOLOGIA UMANISTICA". Riprendendo il filo dalla "Dotta Ignoranza" (Niccolò Cusano, 1440), la "Donazione di Costantino" (Lorenzo Valla, 1440, e dalla caduta di Costantinopoli (1453) e il fallimento della proposta "cristologica" del "De pace fidei" (N. Cusano, "La pace della fede", 1453, non è forse tempo di corre ai ripari, di ristrutturare il campo e riequilibrare la bilancia antropologica?!
C) BILANCIA DELLA COSTITUZIONE, BILANCIA DELL’ETICA, E PACEPERPETUA. Una "foto" per riflettere non solo l’8 marzo 2023, ma anche l’8 marzo 2025...
PSICOANALISI E FILOSOFIA:
METAPHYSICS ANTHROPOLOGY PSYCHOANALITIC. Shakespeare, dopo Lutero e prima di Nietzsche e Freud, con Amleto s’interroga sul come sia possibile andare oltre la vecchia "imitazione di Cristo". Una nota a margine di un programma di ricerca intitolato “Hamlet’s Bible”... *
TEATRO E METATEATRO. La straordinaria ricchezza di #Hamlet, a mio parere, sta proprio in questo doppio movimento: "The tension or dissonance between these similarities and differences is an important source of irony" (Paul Adrian Fried). Con questo "gioco" il meta-obiettivo di Shakespeare appare essere proprio quello di indicare una direzione di riflessione che possa portare oltre il proprio #tempo e rendere praticabile l’idea di rimettere i suoi cardini in sesto!
Europa e "Globe Theatre": "Ecce #Homo". Dato che la posta (storicamente e teologicamente) è epocale, il "gioco" è ancora più importante: qui, nell’Hamlet, il tema è "ripensare" lo #specchio dell’intera "Danimarca".
P. S.
"ECCE HOMO": NIETZSCHE E LA VOLONTA’ DI POTENZA DI JUNG. Carl Gustav Jung ha fatto un brillantissimo lavoro su «Lo Zarathustra di Nietzsche. Seminario 1934-39» , ma alla fine la sua stessa ombra gli ha impedito di giungere a fondo e a capo dell’enigma di #Edipo, della domanda (la "question") di Amleto, della "visione e l’enigma di Zarathustra e, infine, di accogliere il bambino nato dalla metamorfosi del cammello e del leone (cfr. Federico La Sala, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica", Antonio Pellicani Editore, Roma 1991).
MEMORIA E STORIA DI LUNGA DURATA. APPUNTI SU PROBLEMI DI PATRIMONIO CULTURALE, ARTE, E ANTROPOLOGIA
A) SPAGNA: A 700 ANNI DALLA MORTE DI D. GONZALO RUIZ DI TOLEDO, "SEÑOR DE ORGAZ (1323-2023)", UNA BUONA OCCASIONE PER RI-ANALIZZARE L’OPERA DI "EL GRECO" ("LA SEPOLTURA DEL CONTE DI ORGAZ", TOLEDO 1586 -1588) ... E PER RIMEDITARE LO STRAORDINARIO IMPEGNO RIFORMATORE (CARICO DI TEORIA E DI FUTURO) DI TERESA D’AVILA (1515-1582).
B) TERESADAVILA (Avila 1515 - Alba de Tormes 1582): "[...] Teresa (Teresa Sánchez de Cepeda Ávila y Ahumada) nasce in una famiglia ricca; il padre era figlio di un ebreo convertito - dunque tTeresa fu di origini ebree. La madre trasmette alla figlia l’amore per i romanzi cavallereschi, ma muore quando Teresa ha solo 13 anni.
Diventa una donna determinata, affascinante e trascinatrice, estrema nelle sue scelte e insieme capace di amministrare i monasteri e di trattare con diplomazia coi grandi dell’epoca. Da ragazza convince il fratello a fuggire per andare a combattere contro gli infedeli. Sempre col fratello scrive un romanzo cavalleresco; manifesta, insomma, subito due grandi amori della sua vita: la fede e la scrittura.
È l’epoca della grande crisi della Chiesa, che all’apice della propria magnificenza è percorsa da profonde inquietudini, divisa dalla predicazione di #Lutero e Juan de Valdés, una ferita profonda e interna. Teresa ha trent’anni all’epoca del Concilio di Trento (1545-1563), tappa di quella “rifondazione” della chiesa cattolica, che si impegna tanto nella guida delle anime, con la fondazione di nuovi ordini religiosi e la promozione di una rinnovata austerità e spiritualità, quanto nel controllo delle stesse, imponendo nuove e più severe regole monastiche e potenziando i tribunali dell’#Inquisizione. In in Spagna in particolare, dopo il culmine della potenza raggiunto sotto il regno di Carlo V (1500-1558), suo figlio Filippo II (1527-1598) si fa paladino della ortodossia cattolica. [...]" (Cfr. Maria Rosa Panté, "Teresa d’Avila", Enciclopedia delle donne)
C) CARMELITANISCALZI: L’ULTIMA LEZIONE DI TERESA D’AVILA. A CONTURSI TERME, IN PROVINCIA DI SALERNO, NELLA TERRA DEL "PRINCIPE DI EBOLI" (Rui Gomes da Silva), L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE (IN STATO DI PROGRESSIVO DEGRADO).
D) QUESTIONE ANTROPOLOGICA E PSICOANALISI: LA STORIA NON LA FANNO SOLO I PROFETI, MA ANCHE LE SIBILLE. Ricordando che l’interpretazione del messaggio evangelico di Teresa d’Avila è connessa alle "Meditazioni sul Cantico dei cantici" (e non all’androcentrismo della lettura paolina), ed è molto prossima a quella di Michelangelo Buonarroti e al suo "Tondo Doni" (e al suo Mosè), sollecita anche a riproblematizzare (Julia Kristeva, "Teresa, mon amour", 2009) il rapporto tra Freud e Lacan ("Encore", 1972-1973) ) e, infine, a portarsi oltre la logica del "superuomo" del cattolicesimo costantiniano!
STORIA, STORIOGRAFIA, E FILOSOFIA:
PONZIOPILATO, CHRISTINEDEPIZAN, E LA FILOLOGIA AL SERVIZIO DELLA COSMOTEANDRIA TERRESTRE.
Alcune note in #memoria di #Franca Ongaro Basaglia. *
A) LA DIGNITÀ DELL’UOMO: «ECCE HOMO». PONZIO PILATO «disse loro: "Ecco, ve lo conduco fuori, affinché sappiate che non trovo in lui alcuna colpa". Uscì dunque Gesù, portando la corona di spine e il mantello di porpora. Pilato disse loro: "«Ecco l’uomo» (gr. ««ἰδοὺ ὁ ἄνθρωπος - idou ho anthropos», vulg. «ecce homo»)". Vedendolo, i sommi sacerdoti e i loro inservienti gridarono: "Crocifiggi! Crocifiggi!" Disse loro Pilato: "Prendetelo voi e crocifiggetelo; io non trovo in lui colpa". Gli risposero gli Ebrei: "Noi abbiamo una legge e secondo questa legge deve morire, perché si è fatto figlio di Dio"» (Gv. 19, 4-7).
B) UNA QUESTIONE DI #LANA "CAPRINA" (NON DI "#AGNELLO", NON DI "#ARIETE"). ALLA LUCE DELL’ATTENZIONE ALLE PAROLE DI PONZIO PILATO, si comprende meglio anche il significato delle parole di CHRISTINE DE PIZAN, l’autrice della “Città delle dame”: «Or fus jee vrais homs, n’est pa fable,/De nefs mener entremettable » (« Allora diventai un vero uomo, non è una favola,/capace di condurre le navi» - cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Christine_de_Pizan), che dicono ovviamente non della “#metamorfosi” in “vir” - uomo, ma della “#metanoia” in “homo” - essere umano (su questo, in particolare, si cfr. Michele Feo, “#HOMO - Metanoia non Metamorfosi”, Dalla parte del torto, Parma, autunno 2019, numero 86, pp. 12-13).
C) MATEMATICA E #ANTROPOLOGIA: "UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia, #Donna, in Enciclopedia, 5, Torino, Einaudi editore, 1978, p. 89).
N. B. - RENE’ GIRARD , L’#AGNELLO DI #DIO, E L’#INTERPRETAZIONEDEISOGNI (S. #FREUD, 1899): la"Menzogna romantica e verità romanzesca" (1961), il "Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo" (1978), e "Il capro espiatorio" ( "Le bouc émissaire", 1982).
Parola di Girard: "Qualche lettore potrà obiettare che il Nuovo Testamento non ricorre mai all’espressione «capro espiatorio» per indicare Gesù come la vittima innocente di una frenesia mimetica collettiva; questo è vero, ma ciò avviene solo perché le Scritture cristiane dispongono di un’espressione equivalente, e anzi superiore a «capro espiatorio», vale a dire #agnello di #Dio. Questa immagine elimina gli attributi negativi e sgradevoli del capro, e pertanto corrisponde meglio all’idea della vittima innocente ingiustamente sacrificata" (cfr. René Girard, "Vedo cadere Satana come la folgore". Adelphi, Milano 2001, p. 203).
Girard accoglie la tradizionale interpretazione del messaggio evangelico e non tiene conto né di Marx, né di Nietzsche, né di Freud. Sulla lunga durata della tradizione #critica dimentica quanto ha scritto Freud nel #Disagiodellaciviltà (1929) sulla #fondazione del cattolicesimo da parte di san Paolo e, infine, fa dell’agnello un bel #caproespiatorio!
*
#SHAKESPEARE, L’#IMITAZIONE DI #CRISTO, E IL "PARTO MASCHIO DEL TEMPO" (#FRANCESCOBACONE). #METATEATRO, #METASTORIA, E #ANTROPOLOGIA FILOSOFICA...
"INVINCIBILE ARMATA" ("Grande y Felicisima Armada") E #MESSAGGIOEVANGELICO: ESSERE, O NON ESSERE (“To be, or not to be, that is the question”)? A ben vedere, storiograficamente, la #domanda di Amleto è più radicale della nobilissima intenzione di Dom Hélder #Câmara: «Quando io do da mangiare a un povero, tutti mi chiamano santo. Ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista.». Non a caso, nell’attuale presente storico, il #cattolicesimo di #Costantino e il #comunismo di #Stalin sono ormai "preistoria" (già #Lenin, ai suoi tempi, sembra che abbia auspicato l’aiuto di almeno "dieci Francesco d’Assisi" per salvare la Russia Sovietica): hanno portato, definitivamente, alla luce del sole il lato tragico delle loro assolute buone intenzioni.
FRANCESCO BACONE E LA "VIRGINIA COMPANY". "Francis Bacon, latinizzato in Franciscus Baco(-onis) e italianizzato in Francesco Bacone (Londra, 22 gennaio 1561 - Londra, 9 aprile 1626), è stato un filosofo, politico, giurista e saggista inglese vissuto alla corte inglese, sotto il regno di Elisabetta I Tudor e di Giacomo I Stuart. [...] Dopo privatizzazione delle terre, come uomo politico concettualizzò la scienza del terrore assecondando e sostenendo le deportazioni di massa dei diseredati e dei poveri nelle colonie americane della #Virginia. Tra le altre cose è necessario ricordare che nel 1619 il Consiglio Privato, di cui a quel tempo Bacone faceva parte, violando apertamente la legge inglese, e per assecondare la volontà della Virginia Company, costrinse alla deportazione nelle colonie americane ben 165 bambini, provenienti dal Bridewell Palace. Di quei 165 bambini (di età compresa tra gli 8 e i 16 anni) nel 1625 a seguito dei maltrattamenti subiti nelle piantagioni ne rimasero in vita solo dodici. Le deportazioni continuarono coinvolgendo altri millecinquecento bambini nel 1627 e ulteriori quattrocento, di origine irlandese, nel 1653 [...]".(https://it.wikipedia.org/wiki/Francesco_Bacone).
#ANDROCENTRISMO E #DISAGIODELLACIVILTÀ (#Freud, 1929). Shakespeare (con #Amleto), continua la sua navigazione e offre utili indicazioni critiche (alla Chiesa dell’Europa e alla Chiesa della Russia di #oggi) per orientarsi nel pensiero, uscire dalla #cosmoteandria planetaria, e rimettere il tempo in sesto! Riprendere le indicazioni venute da #Wittenberg e portarle avanti, in mare aperto, oltre le colonne d’Ercole della grande instaurazione ("Great Instauration") del sapere (Socrate) e della carità ( Gesù) fondata sull’#androcentrismo del potere (Platone e san Paolo), al di là dell’edipico "parto maschio del tempo" ("Temporis Partus Masculus", 1603/1608) di Francesco Bacone.
#QUESTIONEANTROPOLOGICA ED #ELEUSIS2023. A giorni inizia il nuovo anno, il 2023, e, in #Europa, una delle capitali europee della cultura è #ELEUSI. Forse è una buona occasione per risalire la corrente storica e ripensare ai #misteri #eleusini e a "come nascono i bambini"! Se non ora, quando?
PSICOANALISI E LETTERATURA. IPOTESI DI UN POSSIBILE PROGRAMMA DI RICERCA.
Appunti...
"L’ INTERPRETAZIONE DEI SOGNI" (FREUD , 1899), L’ IDENTIFICAZIONE CON CRISTO (FREUD, 1931), E LA DIVINA COMMEDIA.
A) DANTE (Inf. II, 32: "Io non Enea, io non Paulo sono") E LE "TRE MARIE": MARIA, (MARIA) BEATRICE , E (MARIA) LUCIA:
INTERPRETAZIONE DEL SOGNO: ARGO, LA NAVE DI GIASONE DOPO VENTINQUE SECOLI DALL’IMPRESA, E’ GIUNTA CON DANTE A DESTINAZIONE E HA RITROVATO IL SUO "VELLO D’ORO", L’ARIETE, L’AGNELLO (CHE PORTAVA IN SALVO E NON ALL’INFERNO E ALLA MORTE):
B) LA DIVINA COMMEDIA E SANTA LUCIA: UNA GEMMA (DONATI) IN PARADISO. Ipotesi per una rilettura... *
* Sul tema "Gemma Donati in Paradiso", mi sia lecito, si cfr. Federico LA Sala , La Fenomenologia dello Spirito... dei “Due Soli”. Ipotesi di rilettura della “Divina Commedia” (IL DIALOGO/Quaderni di teologia, Martedì, 24 luglio 2007).
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA ED "ETICA DELLA PSICOANALISI".
VETRO SOFFIATO
di Eugenio Scalfari *
Quando Citati si identifica con Dio
Lo scrittore, dopo le biografie di Goethe, Tolstoj, Kafka, ora affronta i Vangeli. Ma immedesimarsi in un romanziere è possibile. Diverso farlo con Gesù Cristo
Pietro Citati ha scritto un libro uscito di recente con l’editore Mondadori. È intitolato “I Vangeli” e dice con chiarezza qual è l’argomento. Sono 152 pagine e illustrano i quattro Vangeli sinottici valendosi anche di alcune interpretazioni specialistiche ma soprattutto dell’eccezionale capacità di Citati di raccontare il testo che gli interessa.
Uso la parola “raccontare” perché è così che lavora Citati ed è così che è diventato uno dei più importanti scrittori italiani anzi, almeno secondo me, il più importante. Conosco Citati da molti anni durante i quali abbiamo lavorato insieme per “Repubblica”. Di solito veniva definito un critico letterario e forse lo fu nei suoi primissimi anni, ma non è mai stata questa la sua vocazione. Non era un critico letterario e non è stato neppure un romanziere anche se un paio di romanzi li ha scritti e non erano affatto male, anzi furono giudicati positivamente dai suoi recensori e da lui stesso. Di solito Citati non si autoelogia ma in questo caso lo ha fatto, probabilmente perché essere un romanziere lo tenta molto. Però non lo è. È uno scrittore molto particolare, sceglie un autore e lo racconta, lo fa vivere a suo modo sulle sue pagine, lo interpreta, lo riscrive, si identifica con lui. Addirittura diventa lui stesso. Il testo non è più di quell’autore ma è suo. Così ha fatto con Goethe, con Kafka, con Tolstoj, con Leopardi e con una infinità di altri, alle volte dedicando loro un libro oppure un ampio articolo sul giornale dove da alcuni anni scrive, il “Corriere della Sera”.
Qualche giorno fa è stato intervistato sul “Foglio” da Gloria Piccioni sul tema dei Vangeli. È un’intervista interessante perché Citati racconta in quale modo ha letto le Sacre Scritture, i Vangeli certamente, ma anche i libri dei profeti, di Isaia soprattutto, ma non soltanto. Insomma il suo personaggio è Gesù, anzi Gesù Cristo, Figlio dell’Uomo e Figlio di Dio; Dio a sua volta non è soltanto il Padre, ma è anche il Figlio prima ancora di incarnarsi. Il libro che Citati ha scritto ha dunque Dio come personaggio. Attenzione però: Citati è cristiano, non è agnostico, non è ateo. Non so fino a che punto sia un cristiano praticante, di quelli che vanno alla Messa tutti i giorni o almeno tutte le domeniche e frequentano regolarmente i Sacramenti. Ma questi sono dettagli, l’importanza è la fede e Citati la fede ce l’ha e non ne fa mistero.
A questo punto la lettura del suo libro mi pone una domanda: può un cristiano scrivere un libro che usa le Scritture e ricostruisce attraverso di esse la vita di Dio? Del suo Dio? Nel libro “I Vangeli” l’autore usa le Sacre Scritture come testi veridici prodotti direttamente da Gesù Cristo: Gesù disse, Gesù fece, Gesù pensò, Gesù era Dio e Dio Gesù, Gesù nato da Maria, Giuseppe avvertito dall’Arcangelo Gabriele, la natività a Betlemme, il Sacro Bambino deposto nella mangiatoia e così via, fino alle parole dette al Getsemani, ma forse non dette, e quelle pronunciate mentre spirava sulla Croce ma forse non dette neppure queste.
Gesù Cristo parla, Citati lo fa parlare, ma lui ha anche la fede con la quale deve irrevocabilmente fare i conti ed ha anche il suo impegno di scrittore ed anche con quello (dovrebbe) fare i conti. E il conto principale è questo: i Vangeli furono scritti da evangelisti che non conobbero Gesù, vissero e scrissero alcuni anni dopo la sua morte, non furono testimoni diretti, salvo forse Giovanni, del quale però molte analisi storiche mettono in dubbio che sia stato l’Apostolo. Marco a un certo punto dice che fu chiamato da Gesù ma lo dice Marco, perché di Gesù di Nazareth non possediamo alcun segno e alcuna parola che non sia riferita e quindi interpretata da chi la riferisce. Citati cita spesso nel suo libro Gesù come se fosse una fonte diretta, ma non lo è affatto.
Per me, che sono miscredente, i Vangeli sono racconti e non possono essere scambiati come fonti della Sacra Parola. Citati scrive a suo modo quattro racconti ma lui, cristiano, ce li presenta come fonti dirette. È accettabile questo metodo da me che non credo?
Io non so se avrà voglia di rispondere a questa domanda, ma quello che a me pare sicuro è che questa volta si è accinto ad un compito affascinante quanto impossibile: ci si può identificare sicuramente con Tolstoj o con Dostoevskij ma può un cristiano identificarsi con Dio?
Certamente lo può, i mistici nei loro momenti più intensi riescono proprio a far questo e lo racconta molto bene Agostino in un punto essenziale delle sue “Confessioni”. Il mistico si identifica con Dio quando riesce a dimenticare il proprio io, la propria memoria, la propria esistenza e fa tutt’uno con la Luce che emana dal Signore. Questi momenti di identificazione mistica durano un attimo perché poi l’io ritorna ad esistere e quando l’io esiste il misticismo non c’è più.
Citati non è certamente un mistico, Citati è uno scrittore e come tale si identifica con gli altri scrittori, prende il loro posto, diventa l’autore della loro opera e ne risponde direttamente. Ma può fare questo con Dio-Cristo essendo cristiano?
* Fonte: L’Espresso, 07 novembre 2014
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#DANTE2021 E IL "#DONO DI #PENELOPE". Sui #Vangeli di #PietroCitati, E. #Scalfari si chiede: "ci si può identificare sicuramente con #Tolstoj o con #Dostoevskij ma può un cristiano identificarsi con Dio?" (https://espresso.repubblica.it/opinioni/2014/11/07/news/quando-citati-si-identifica-con-dio-285137853/). Una risposta è nella #mentecolorata
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E RELIGIONE. Appunti intorno a "L’uomo Mosè" (Freud) e "l’etica della psicoanalisi" (J. Lacan):
"A PROPOSITO DI JUNG" (Elvio Fachinelli, 1967) E A PROPOSITO DI LACAN (E. Fachinelli, 1989). *
COSMOLOGIA E COSMOTEANDRIA. Forse è giunto, finalmente, il tempo della svolta antropologica e del sorgere della Terra: deporre l’elmo di Costantino e parlare nella luce del logos (eu-angelo) e non nel buio del logo (van-gelo)!
FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DELLA MITOLOGIA. Oggi, forse, è tempo di riprendere il cammino e, come indicato da Michael Maier, portarsi oltre Tebe d’Egitto e di Grecia, oltre l’orizzonte tragico di Edipo, l’eroe dai piedi gonfi , oltre la stazione dell’ Emblema XXXIX ("Atalanta Fugiens", 1618), nella direzione di Nietzsche: "Ecce Homo. Come si diviene ciò che si è" (1888) e, finalmente, rileggere le note del 1982 su "Così parlò Edipo a Cuernevaca" e riflettere su quanto proviene dalla "voce" (1982) di Franca Ongaro Basaglia: "un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (1978). **
"FREUD O JUNG?" (E. GLOVER, 1950). La lingua batte dove il dente duole: è "un’impostazione vicina a quella esigenza antropologica dell’estatico" su cui Elvio Fachinelli richiamava l’attenzione (già dal 1975, con le note critiche sul "quinto privilegio dell’inconscio" e nel 1989, con il suo ultimo lavoro, dedicato a "La mente estatica" - alla mente accogliente).
* Per Jung, si cfr. E. Fachinelli, "Il bambino dalle uova d’oro. Brevi scritti con testi di Freud, Reich, Benjamin e Rose Thè", Feltrinelli, Milano, 1974, pp. 71-75; per Lacan, si cfr. E. Fachinelli, "Lacan e la Cosa", in "La mente estatica", Adelphi, Milano 1989, pp. 181-195.
** Franca Ongaro Basaglia, "Una voce Riflessioni sulla donna", Il Saggiatore, Milano 1982.
Federico La Sala
Pasolini interprete di san Paolo
di: Virginia Casagrande *
«Potrei parlare di UNO che è stato rapito al Terzo Cielo: / invece parlo di un uomo debole: fondatore di Chiese»[1]. Che Pasolini sia stato uno scrittore ateo ma profondamente religioso lo dimostra l’intera sua produzione. Celebre il suo instancabile bisogno di interrogare il mistero di Gesù di Nazareth, la cui traccia più sublime resta la pellicola del 1964, Il Vangelo secondo Matteo.
Meno noto invece, ma non per questo meno rilevante, è il vivo interesse che Pasolini ha mostrato per un altro personaggio fondamentale tanto per la storia del cristianesimo che per l’intera storia occidentale: Paolo di Tarso. La figura del predicatore giudeo appare una presenza costante nella sua opera, tanto che ne troviamo traccia in diversi prodotti cinematografici, narrativi e poetici, dalla fine degli anni ’40 fino alle soglie del 1975.
L’aspetto più interessante dell’interpretazione pasoliniana dell’apostolo indubbiamente emerge nell’abbozzo di sceneggiatura per un film sulla vita di San Paolo, in lavorazione dal 1966 al 1974, mai realizzato a causa della fallita collaborazione con la casa di produzione Sampaolofilm [2].
L’incompiuta paolina
L’elaborato testo di questa sceneggiatura scaturisce dal confronto tra le due principali fonti paoline: gli Atti e le Lettere. Se infatti i due testi possono essere messi a confronto in molti punti, si devono riconoscere anche notevoli discordanze. Gli Atti presentano un Paolo teologicamente più edulcorato, che tende a stemperare le radicali posizioni teologiche delle Lettere, nella prospettiva di compiacere Giacomo e la comunità madre di Gerusalemme.
Pasolini, intellettuale sagace, coglie questa tensione tra le due fonti e la estremizza nella finzione letteraria della sceneggiatura, arrivando a rappresentare Paolo come un soggetto diviso, schizofrenico come afferma Guastini[3], e a trasformare la scrittura degli Atti da parte di Luca in un’operazione ispirata da Satana. La psicosi dell’apostolo si alterna tra due poli definiti Trasumanar e Organizzar[4], o anche nel contrasto tra «il santo e il prete»[5], che rappresentano l’impossibile compromesso tra l’ascesi mistica da una parte e l’esigenza di relazionarsi con le urgenze materiali dall’altra.
Quest’ultima esigenza spinge ineluttabilmente Paolo verso l’organizzazione della Chiesa, e quindi alla fondazione funesta di una istituzione. Per questo Pasolini, d’indole fortemente anticlericale, afferma in modo veemente: «accuso San Paolo di aver fondato una Chiesa anziché una religione[6]». E ancora: «la sessuofobia, l’antifemminismo, l’organizzazione, le collette, il trionfalismo, il moralismo [...] le cose che hanno fatto il male della Chiesa sono già tutte in lui»[7]. Il promotore della carità è tornato il fariseo schiavo della Legge e della norma, che è «nata dalla fede e dalla speranza / (senza carità, che è touton méizon)»[8], facendosi in questo modo complice dell’odierna ragione borghese e responsabile dell’attuale desacralizzazione del mondo.
Pasolini espone assai lucidamente come la sola alternativa a ciò sia «vivere / [al margine / delle istituzioni come un bandito»[9], avere il coraggio di accettare una lacerante condizione di orfanità, perché «le istituzioni sono commoventi, / e commoventi perché ci sono: perché / l’umanità - essa, la povera umanità - non può farne a / meno»[10].
Il sacro e l’arcaico
Il film progettato da Pasolini avrebbe dovuto traporre i viaggi apostolici nell’Europa e nell’America della fine degli anni ’30 e fine degli anni ’60 del Novecento, nella prospettiva innanzitutto di far dialogare il predicatore[11] con la moderna società imborghesita ed industrializzata e con l’istituzione cattolica ormai inetta ed obsoleta, manipolate entrambe dal nuovo potere consumistico, fascista nelle sue modalità, in cui Pasolini riconosceva l’origine della drammatica perdita del contatto con il sacro.
Recuperare questa relazione con il mistero del mondo e delle cose era forse la più pungente urgenza del poeta, come giustamente commenta Calabrese: «per il tramite della parola di San Paolo» esso, il sacro - vero e proprio «tesoro in vasi di creta» (2Cor 4,7) - «può essere ancora nominato o rievocato»[12]. L’espediente usato da Pasolini e recuperato dal Vangelo secondo Matteo consisteva nel mantenere sulle labbra dell’apostolo delle genti i discorsi delle Lettere di 2000 anni fa inalterati, nonostante gli interlocutori gli rivolgano domande «specifiche, circostanziate, problematiche, politiche, formulate con un linguaggio tipico dei nostri giorni»[13].
Pasolini manterrà nei confronti del suo San Paolo una tensione sempre viva e spesso contraddittoria tra esaltazione e condanna («io sono tutto per il santo, mentre non sono certo molto tenero con il prete»[14]), incarnata attraverso sentimenti ambivalenti, attraverso consci e inconsci movimenti di identificazione e opposizione all’apostolo.
A tale proposito è interessante segnalare una lettera privata del 1964 indirizzata a don Giovanni Rossi della Pro Civitate Christiana, caso unico in cui l’identificazione a San Paolo si fa radicalmente cosciente e radicalmente intima: «Forse perché io sono da sempre caduto da cavallo [...] e un mio piede è rimasto imbrigliato nella staffa, così che la mia corsa non è una cavalcata, ma un essere trascinato via, con il capo che sbatte sulla polvere e sulle pietre. Non posso né risalire sul cavallo degli Ebrei e dei Gentili, né cascare per sempre sulla terra di Dio»[15].
P.P. e il suo doppio
Oltre al lampante richiamo al celebre episodio sulla via di Damasco, che Pasolini fa suo fino alle estreme conseguenze, questa lettera stabilisce l’inizio di una sottile linea di cucitura tra l’esperienza del poeta e quella dell’apostolo, che punto dopo punto prosegue fino alla fine della sua vita. Non a caso, alcuni studiosi hanno spesso definito San Paolo uno dei più forti alter ego dello scrittore[16], soprattutto nella sua volontà di essere oggetto di scandalo per la società. La lunga e complessa relazione con questo personaggio che compare, tra gli altri, in rilevanti lavori editi ed inediti come Teorema, Medea e Romans, si conclude nell’ultima raccolta poetica pubblicata in vita, la Nuova Gioventù edita nel 1975.
L’ultima parola di Pasolini su Paolo di Tarso risulta molto dura, ma non così distante da tutto quello che abbiamo osservato fino ad ora. Paolo «è stata la grande disgrazia»[17] dei luoghi del mito pasoliniano e questo è vissuto esattamente come un lutto, come un dolore quasi fisico «nel fondo più mio del cuore»[18]. Il mondo che percorreva il Tagliamento, il mondo dei ricordi fanciulleschi del poeta non è ormai che una «grande Chiesa grigia»[19] dove i ragazzi «sono cattivi e seri come vuole San Paolo»[20]; identità spogliate della loro ancestrale forza vitale, della loro allegria e spontaneità, in sintonia con la poetica delle Ceneri di Gramsci[21].
Il cambiamento antropologico appariva apocalittico e irreversibile agli occhi di Pasolini, al quale non restava altro modo di denunciare tutto questo che attraverso la sua penna, versificarlo sulle sue pagine d’appunti, laddove «nei suoi viaggi non è mai arrivato San Paolo»[22].
[1] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, a cura di W. Siti, Mondadori, Milano 2003, 25.
[2] A. Monge, «Rimpianto per il “Paolo” di Pasolini», in Paulus, n. 1 (luglio 2008), 66-67.
[3] D. Guastini, «Chi è San Paolo? Le risposte di Pasolini e Badiou», in Pòlemos 9 (2016), 87-105, qui 89.
[4] P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e Silvia de Laude, Mondadori, Milano 1999, 1462.
[5] P.P. Pasolini, Lettere 1955 - 1975, a cura di N. Naldini, Einaudi, Torino 1988, 639-640.
[6] L. De Giusti, Pier Paolo Pasolini. Il cinema in forma di poesia, Cinema Zero, Pordenone 1979, 156.
[7] Ibidem.
[8] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, 22.
[9] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, 83.
[10] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, 20.
[11] P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, 1600-1601: «ai tempi nostri ma senza cambiar nulla [...] restando fedelissimo alle sue lettere».
[12] G. Conti Calabrese, Pasolini e il sacro, Jaca Book, Milano 1994, 46.
[13] P.P. Pasolini, San Paolo, Garzanti, Milano 2017, 15.
[14] P.P. Pasolini, Lettere 1955 - 1975, 639-640.
[15] P.P. Pasolini, Lettere 1955 - 1975, 576-577. La lettera è stata pubblicata in «Rocca» del 15 novembre 1975.
[16] A. Maggi, The resurrection of the body. Pier Paolo Pasolini from Saint Paul to Sade, University of Chicago Press, Chicago 2009, 22: «This film project [...] is Pasolini’s most direct and sincere self-portrait, his most explicit autobiography».
[17] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, 471.
[18] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, 471.
[19] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, 473.
[20] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, T. II, 472.
[21] P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano 2013, 56: «attratto da una vita proletaria / a te anteriore, è per me religione / la sua allegria, non la millenaria / sua lotta [...]».
[22] P.P. Pasolini, Le ceneri di Gramsci, 472.
* Fonte: Settimana-News, 13 agosto 2020
Dostoevskij e la bellezza che salverà il mondo (forse)
DI GIULIANO ZANCHI *
«Quando Fëdor Dostoevskij, forse il solo cristiano stimato da Friedrich Nietzsche, nel 1869 portava a termine L’idiota, non poteva immaginare quali sorti attendevano un dialogo, peraltro fugace, che, estratto da un romanzo non necessariamente letto, avrebbe finito per rimbalzare ovunque come cifra obbligata di uno spiritualese che abbraccia tanto i cattolici tradizionalisti impegnati nel revival della vecchia arte sacra quanto gli agnostici pellegrini di quei santuari moderni che sono i grandi musei. Merita almeno riportare il luogo da cui sgorga la grande eco di quel suono così ecumenico.
A rivolgere queste parole al principe Miškin, protagonista del romanzo, è il giovane tormentato Ippolit. Formulate peraltro nei termini di un interrogativo, esse chiamano in causa la questione di un riscatto del mondo, il suo possibile affrancamento dal male, rappresentato nel romanzo dalla cappa di violenza e di morte che aleggia su vicende amorose insieme ingenue e torbide, destinate a precipitare nella tragedia da un momento all’altro.
Che si possa redimere una condizione compromessa come il ‘mondo’ che Dostoevskij tratteggia nelle trame cupe dei suoi romanzi, resta il tema di un vero enigma, sospeso peraltro alla natura della ‘bellezza’ che viene chiamata in suo soccorso. Cosa significa qui ‘bellezza’?
Non si tratta certamente dell’armonioso riflesso esteriore che l’umanesimo latino, da un certo momento in poi, ha posto a fondamento del proprio ideale di un’arte come finestra sul mondo. Basta leggere Le porte celesti di Pavel Florenskij per avere un’idea di quale disprezzo venga riservato a quella tradizione da parte di una cultura ortodossa cui anche Dostoevskij si mantiene tutto sommato fedele. Nonostante questo non ha nemmeno molto a che vedere con lo stereotipo spirituale dell’icona a cui è stata spesso sbrigativamente associata, né con quello delle sue neo-serializzazioni ortodosse e dei loro consumatori occidentali. Si tratta piuttosto dell’intensità sacrale che può scaturire solo da una vera profondità etica in cui grazia e moralità restano sempre indisgiungibili, ma la cui congiunzione, almeno in questo mondo, appare ogni volta misteriosa e irrealizzabile.
Quello di ‘bellezza’ è il nome che si dà all’inequivocabile manifestarsi del bene. Un insieme di qualità che non hanno necessariamente a che fare con la forma armonica, perfetta e intatta. Quanto piuttosto i tratti dell’irremovibilità con cui la bontà custodisce la propria perseverante giustizia. A costo di tutto. Anche di perdere la perfezione della forma. È il bello del bene. Esso consiste nel fatto che se necessario perde anche la faccia, se questo serve a preservare l’integrità. Si tratta perciò di una bellezza che talvolta non si cura di poter apparire anche brutta se questo resta segno della propria tenacia.
La bellezza su cui il romanzo profetizza, tanto quanto ironizza, è quella che emana dall’aura tangibile dell’«uomo veramente buono» che attraversa i tumulti della storia con sovrana semplicità d’animo e inscalfibile bontà di cuore, ritratto evangelico del mite che sfida il sorriso dei cinici e la scaltrezza dei prepotenti, nel guscio di un’innocenza dal destino sempre incerto.
Magnetismo irradiante di un profilo umano dai caratteri tipicamente cristologici che Dostoevskij, come il Padre creatore del suo mondo letterario, invia nel mondo oscuro di una tetra borghesia russa a rinnovare il gesto di redenzione che il cristianesimo pone a fondamento della storia.
Il principe è un povero Cristo nuovamente mandato sulla terra. La mitezza ancora una volta di fronte alle potenze del male. Di lui non si smette mai di dire che è bello. Questa bellezza potrebbe salvare il mondo. Questo tipo di bellezza, non il suo stereotipo occidentalizzante. Potrebbe salvare il mondo, ma non è detto che ci riesca. Nel romanzo l’esito non è prestabilito. Tutto viene fatto ribollire come un enigma messo alla prova dai fatti. Il primo fra tutti è che il principe Miškin appare come una replica sbiadita del ‘Cristo’ che dovrebbe impersonare, un replicante inadeguato alla resurrezione del suo modello, una reincarnazione scadente che resta prigioniera dei cinici e degli scaltri che vorrebbe confondere. Oppure, che renderebbe tutto ancora più tragico, la rivelazione dell’estrema debolezza di ogni ‘messia’ del passato, del presente e dell’avvenire (la tesi di Nietzsche). Più che semplice, il principe di Dostoevskij si rivela incapace.
* FONTE: VITA E PENSIERO, 09.02.2021 (ripresa parziale).
NOTA
QUALE BELLEZZA SALVERÀ IL MONDO? Affinché la bellezza non degradi in una bruttezza "umana, troppo umana" (asservita a fini ideologici) e conduca direttamente all’inferno , forse, è bene non ridurre lo sguardo ed esaminare attentamente anche l’intero quadro della Madonna Sistina (Raffaello, 1512/1513): a sx, ai piedi di San Sisto, osservare la tiara (con i simboli araldici dell’albero della famiglia dei "della Rovere"), una chiara firma della politica e della teologia di Giulio II ("Della Rovere", appunto), papa guerriero e papa mecenate. Da ricordare, infine, che la Madonna Sistina gioca un ruolo fondamentale nella storia della psicoanalisi ("caso Dora") e, ancora, che alla tomba dello stesso Giulio II, in san Pietro in Vincoli, a cui ha lavorato Michelangelo, è legato lo stesso Mosè tanto apprezzato e ammirato da Freud.
Federico La Sala
FILOLOGIA STORIA FILOSOFIA TEOLOGIA ARTE PSICOANALISI...
ANTROPOLOGIA O ANDROLOGIA?! In principio era il Logos... o il Logo?!
HOMO HOMINI DEUS EST: ECCE HOMO. Tutto dipende se si pensa in ANTROPOLOGIA o in ANDROLOGIA TEBANA (EDIPO): nel primo caso SIA l’essere umano (uomo/maschio) SIA l’essere umano (donna/femmina) è "come Cristo/Dio", nel secondo caso tutto cambia... e al messaggio evangelico cosa è capitato nel suo viaggio attraverso i secoli dei secoli?
NON "è significativo che l’espressione di Tertulliano: «Il cristiano è un altro Cristo», sia diventata: «Il prete è un altro Cristo»" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010)?!
NON è bene cercare di sapere come e perché "Così parlò Edipo a Cuernavaca" (Franca Ongaro Basaglia, 1982)!?
Non c’è più tempo per nascere a noi stessi e a noi stesse e ammirare il Sorgere della Terra.
È ora di decidersi di salire a bordo...
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA STORIA FILOSOFIA E FILOLOGIA.
LA SCOMPARSA DELLA "FANCIULLA STRANIERA" (F. Schiller, 1796) E DELL’AMORE (K. Marx, 1844) E IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ (S. Freud, 1929: "Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità [...]").
Una nota a margine di una memoria dell’antica commedia greca ...
"HOMO HOMINI LUPUS" (Freud, 1929). Formidabile questa riflessione di Andreas Katsouris sulla frase di Menandro! A ben riflettere sulle parole (e, in particolare, sul legame tra la "grazia" ("charis") del χαρίεν ("charien") e "l’anthropos), si dovrebbe tentare di capire su come e quando è stata persa la memoria delle Grazie (greco: Χάριτες - Charites) ed è stata persa anche la traccia di ogni umanità e l’orizzonte culturale dell’Europa (e del Pianeta Terra) è diventato sempre più cosmoteandrico, edipicamente, con la stessa connivenza della filosofia, della filologia, e della psicoanalisi!
CRITICA DELLA VIOLENZA: J.-J. ROUSSEAU, K. MARX, W. BENJAMIN. Una prima traccia della "caduta" è nell’atto logico-storico ("primordiale", che prima di essere materiale è linguistico) della recinzione: "Il primo che, dopo aver recintato un terreno, pensò di dire questo è mio, e trovò altri tanto ingenui da credergli, fu il fondatore della società civile"("Discorso sull’origine della disuguaglianza", 1754"); la seconda è nella denuncia marxiana (nella "Sacra Famiglia") dell’inversione soggetto-predicato (il problema della mele, delle pere, e delle fragole... del Mentitore) e della "fanciulla straniera e la civetta hegeliana" (cfr. Federico La Sala, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica", Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 190-197)"!
A quando il sorgere della Terra?
COSMOTEANDRIA E SONNO DOGMATICO: SCHOPENHAUER E IL MACROANTROPO, IL CORPO MISTICO DEL MONDO.
Storia della filosofia
Le considerazioni di Schopenhauer sulla sua filosofia
di Saverio Mariani (Ritiri Filosofici, 20 Febbraio 2022)
In quella che abbiamo definito (almeno in parte) un’opera a sé stante di Arthur Schopenhauer, il filosofo tedesco si pone nella posizione di commentare il suo contributo filosofico in relazione alla storia della filosofia nella quale sente di ricoprire un posto. Nei Supplementi a «Il Mondo come volontà e rappresentazione» infatti, Schopenhauer è franco, diretto, in alcuni passaggi appare “scocciato” da un certo ambiente filosofico. Ci sono ampi passi dell’opera nei quali entra in un dialogo nient’affatto morbido con la filosofia del suo tempo. -L’ultimo capitolo dei Supplementi, il cinquantesimo, è sintomatico essenzialmente di due cose: dell’enorme contrasto che Schopenhauer ha vissuto con l’ambiente filosofico tedesco e del rapporto ambivalente con Spinoza [1]. Entrambe queste cose, a ritroso potremmo dire, ci permettono di capire ancora meglio quanto nelle pagine precedenti l’autore ha trattato con dovizia e una acutezza importante. In queste poche pagine l’autore condensa alcune coordinate fondamentali per apprezzare lo sforzo immane che nel Mondo e poi nei Supplementi egli ha compiuto.
Filosofia immanente ed esperienza
In apertura del capitolo Schopenhauer dice esplicitamente che, prima di chiudere, c’è ancora qualche considerazione sulla sua filosofia che si può svolgere. Ancora una volta, per i motivi che abbiamo già indagato, egli rivendica l’aderenza «ai dati di fatto dell’esperienza esteriore e interiore» (Schopenhauer 2013, 817), quasi a rimarcare la solidità delle premesse di tutto il suo ragionamento. Ciò che è fuori dell’esperienza non è oggetto della filosofia: la filosofia per questo è immanente, ovvero si occupa di ciò che è all’interno della sfera dell’esperienza («nel senso kantiano del termine», scrive).
Tuttavia, persistono delle domande che non possono non essere prese in considerazione; domande che però evadono il campo dell’esperienza e quindi si pongono su un livello diverso rispetto alla filosofia immanente di cui Schopenhauer si fa promotore. Sono le stesse questioni che Kant riconosceva come oggetto della metafisica, alle quali quindi il Principio di ragione - che per l’autore è «l’espressione della forma più generale e costante del nostro intelletto» (Schopenhauer 2013, 818) - non può rispondere. È il tentativo di applicare il Pdr a elementi esterni all’esperienza che ci porta a sbattere contro problemi senza soluzione, «contro le pareti del nostro carcere». L’imperscrutabilità di queste domande, si badi bene, è assoluta, non relativa: in nessun luogo e in nessun tempo si potrà dare, per mezzo dell’intelletto umano, una risposta a tali questioni. Questa zona insondabile non rientra nella forma della conoscenza, e per dare conto di ciò Schopenhauer si affida alle parole di Scoto Eriugena nel De divisione naturae: «Della meravigliosa divina ignoranza, per la quale Dio non capisce che cosa Egli stesso sia» (Schopenhauer 2013, 819).
Quello che sfugge è dunque l’essenza delle cose, una essenza che non è «conoscente, non è intelletto, bensì un’essenza priva di conoscenza», di essa se ne può avere una comprensione parziale, non «esauriente e capace di soddisfare ogni esigenza». Ma questo, conclude Schopenhauer, «concerne i limiti della mia e di ogni filosofia» (Schopenhauer 2013, 819-820).
L’unità
Fatte tutte queste premesse, Schopenhauer compie un passo in avanti. Scrive infatti che l’unità e unicità dell’essenza delle cose è qualcosa di già concepito da tempo: «gli Eleati, Scoto Eriugena, Giordano Bruno e Spinoza lo avevano ampiamente insegnato e Schelling aveva rinfrescato questa dottrina» (Schopenhauer 2013, 820). Il che cosa sia questa unità (Uno) e come si manifesti nella molteplicità (ovvero come si compia il processo di rarefazione da Uno a Molti), sono questioni «la cui soluzione si trova per la prima volta nella mia filosofia».
La svolta si ha grazie a un rovesciamento del punto di vista e al contempo del principio su cui si incardina la comprensione del mondo: non è l’uomo ad essere un microcosmo, piuttosto è il mondo ad essere un «macroantropo». Il mondo si comprende a partire dall’uomo, da ciò che è immediato (l’autocoscienza), per poi passare a quel che è mediato, ovvero all’intuizione esterna.
Il metodo analitico che Schopenhauer rivendica - installato nel quadro ineluttabile dell’esperienza - apre una nuova visuale filosofica nella quale i dati immediati della coscienza, come li chiamerà Bergson qualche anno dopo, ci mostrano la rete di rapporti e il tessuto che ci tiene connessi l’uno all’altro: la volontà.
Se questa posizione può sembrare affine a quella della filosofia panteista, Schopenhauer prende subito le distanza mostrando come esistano sì dei punti di contatto ma anche dei decisivi punti di distanza. Innanzitutto il metodo di conoscenza, ma anche la ricomprensione del male e delle storture del mondo nella “perfezione” di Dio o della Natura. Inoltre, scrive Schopenhauer «per i panteisti il mondo dell’intuizione, ossia il mondo come rappresentazione, è appunto una manifestazione intenzionale del Dio che abita in esso, ma questo non include alcuna spiegazione autentica del suo prodursi» (Schopenhauer 2013, 821-822).
Spinoza
Le riflessioni generali sui panteisti non sono che i prodromi del confronto che Schopenhauer sente di dover avere con Spinoza, e con il quale chiuderà la sua opera.
Dopo la critica kantiana, sostiene Schopenhauer, «i filosofanti tedeschi si sono nuovamente gettati quasi tutti su Spinoza», costruendo di fatto una filosofia post-kantiana che «altro non è che spinozismo agghindato senza gusto, avviluppato in discorsi incomprensibili d’ogni sorta e in vario modo deformato» (Schopenhauer 2013, 822). Il giudizio è sferzante, netto, inequivocabile e pienamente nello stile schopenhaueriano.
Il rapporto che c’è fra Spinoza e Schopenhauer, dice quest’ultimo, è quello che intercorre fra il Vecchio e il Nuovo Testamento: per entrambi «il mondo esiste per sua forza interiore e da se stesso». Ma se Spinoza si è limitato a spersonalizzare Jehova, il Dio-Creatore del Vecchio Testamento, la Volontà schopenhaueriana - «intima essenza del mondo» - è Gesù crocefisso, o il ladrone crocefisso al suo fianco. In Spinoza, infatti secondo Schopenhauer, il Deus è una perfezione di cui rallegrarsi, un’unità dalla quale nulla fuoriesce e tutto è divino. «Quello di Spinoza è ottimismo» (Schopenhauer 2013, 823); ottimismo a cui Schopenhauer guarda con sospetto, poiché tanto il neo-spinozismo, quanto ogni altra dottrina che riconduce l’esistenza del mondo a una qualche necessità assoluta, tanto le dottrine di chi crede che il mondo sia il frutto della creazione benevola di un Dio, ci pongono nell’alveo del fatalismo.
Schopenhauer sostiene di essere il primo ad aver liberato la filosofia da questo vincolo, perché «l’atto di volontà dal quale scaturisce il mondo è il nostro. È un atto libero, giacché il principio di ragione, dal quale solamente ogni necessità riceve il proprio significato, è la mera forma della sua manifestazione fenomenica» (Schopenhauer 2013, 824). E per questo nel momento in cui essa esiste si dipana secondo necessità. Il piano della rappresentazione, dunque, governato dal Principio di ragione ci mostra come necessario qualcosa che è invece, naturalmente, libero. La nostra libertà - conclude Schopenhauer - sta nell’arretrare alle spalle della rappresentazione, immergersi nella «costituzione di quell’atto di volontà e conseguentemente eventualiter volere altrimenti». In altre parole, risiede in quello “spazio” pre-umano che pone le condizioni del nostro mondo come rappresentazione.
Su quest’ultimo punto, per quanto Schopenhauer scriva, Spinoza risuona forte insieme a una piccola schiera di filosofi per cui la molteplicità è il mondo e la porta di accesso alla sfera comune entro la quale tutti ci ritroviamo a bagno sentendoci finalmente liberi.
Note:
[1] Su un altro rapporto ambivalente nei confronti di Spinoza ho provato a dare conto in: Bergson duplice. Spinoza nemico-amico della filosofia della durata, in Lo sguardo n. 26-2018 (I): http://www.losguardo.net/it/bergson-duplice-spinoza-nemico-amico-della-filosofia-della-durata/
Bibliografia:
Schopenhauer 2013: A. Schopenhauer, Supplementi a «Il mondo come volontà e rappresentazione», trad. Giorgio Brianese, Einaudi, 2013
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
SPINOZA, UN "FIGLIO" DEL "DEUS", NON UN "FIGLIO" DEL "LUPUS" (A FIANCO DI KANT, NON DI HEGEL).
Federico La Sala
PSICOANALISI: STORIA E STORIOGRAFIA. UN INVITO...
... A RIPARTIRE proprio da "Mosè e il monoteismo", da questa affermazione "difensiva" di Freud (a Charles Singer, del 31 ottobre 1938): "Un uomo vecchio non può avere idee nuove; non gli resta altro che ripetersi"!
INTERPRETARE BENE E, AL CONTRARIO, CAPOVOLGENDO LO SGUARDO, RILEGGERE PROPRIO A PARTIRE DAL CORAGGIO DI QUESTA ULTIMA OPERA (portata a compimento a Londra e pubblicata ad Amsterdam nel 1938), non solo TOTEM E TABU’ ma la stessa INTERPRETAZIONE DEI SOGNI.
Solo così lo straordinario "mosaico" dell’ampio e profondo lavoro archeologico di Sigmund Freud può apparire alla luce in tutta la sua audacia e brillantezza antropologica, filosofica e scientifica.
IL MONOTEISMO DI UNA LINGUA E DI UNA RELIGIONE E IL PROBLEMA MOSE’...
Il lavoro archeologico (e psicoanalitico) di Freud, a mio parere, non mira a "criticare" la propria o un’altra "lingua-religione" per imporre la sua "religione-lingua" (nonostante tentazioni nel suo percorso e di molti suoi psicoanalisti "seguaci" ci siano state e ci sono ancora), ma a "trovare" e capire la sorgente antropologica comune a tutte le "lingue-religioni", sì da evitare illusioni di fondamentalismo "linguistico-religioso", proprie del monoteismo faraonico (narcisistico ed edipico) di tutte le religioni e dialogare con tutte le altre "lingue-religioni".
USCIRE DALL’INFERNO. In questo Sigmund Freud è molto prossimo alla sollecitazione già e anche di Dante Alighieri (ricordare la sua Divina Commedia e la sua Monarchia e la lezione sui Due Soli) che ha criticato fortemente e duramente il patto di alleanza di lunga durata della Chiesa Cattolica con Costantino e s’interrogava su come entrare in comunicazione, in dialogo con altri esseri umani di terre lontane e di lingue diverse...
SAPERE AUDE! (Kant): AVERE IL CORAGGIO DI SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA - FINO ALLA FINE...
Sigmund Freud: "[...] Dunque, debbo rischiare" (Lettera a Charles Singer del 31 ottobre 1938)! A partire da "Mosè e il monoteismo" rileggere "Totem e Tabù", non viceversa!
Contrariamente a quanto Freud stesso dice ("io sono un incredulo radicale"), per lo più, si è finito per credere alla sua mezza verità, che l’opera sia una semplice ripetizione di vecchie idee: un giudizio assolutamente offensivo per Freud e autodistruttivo per la psicoanalisi!
Come se l’opera su "L’uomo Mosè e la religione monoteistica" non fosse mai stata scritta e Freud non fosse mai arrivato a Londra !
P. S. - GIOGO E GIOCO: REPRESSIONE, ESPRESSIONE, E DISAGIO NELLA CIVILTA’...
STORIA E CULTURA. Non è un caso che lo storico olandese, Johan Huizinga abbia scritto, nel 1935, "La crisi della civiltà" e tre anni dopo, nel 1938, un’opera fondamentale sul "gioco come funzione sociale", intitolata Homo Ludens. E, nello stesso anno, Freud riesce a raggiungere Londra e ad Amsterdam pubblica la sua ultima opera su "Mosè e il monoteismo".
Nessuno ha mai visto Dio;
se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e il suo amore diventa perfetto in noi.
"Deus CHARITAS est" (1 Gv. 4:8):
su questa via
ogni #essereumano può #sviluppare
"il senso della paternità e della maternità"
(Teresa d’Avila insegna)! -
e rinascere,
diventare "bambino" (Gv. 3.7).
#DIVINACOMMEDIA (#DANTE2021)!
IL CARDINALE #CUSANO CERCA DI PENSARE L’#INCARNAZIONE MA FA UN PASSO AVANTI E #TRE INDIETRO, VERSO LA #DIALETTTICA COSMOTEANDRICA DELL’#ASSOLUTO DI #HEGEL *
Le tre eresie di Cusano
di Maurizio Morini (Ritiri Filosofici, 21 Novembre 2021)
«Quando entra nel campo del potere-che-è, ossia nel campo dove il potere è in atto, l’intelletto va a caccia di un cibo estremamente nutriente». Con questa promessa, Cusano inizia la descrizione del secondo campo nel quale cercare la sapienza. La linea argomentativa è quella per cui ciò che non può essere, non è: quod esse potest non est. Ne discende una scoperta che Cusano definisce non di poco conto: e cioè che il non essere non è una creatura. In termini parmenidei si direbbe che il nulla non è pensabile e che la domanda “perché l’essere e non il nulla” non ha nemmeno senso perché il nulla non può mai essere. Di fatto, come dirà in altre opere, esiste solo ciò che può essere in quanto ciò che è impossibile non si realizza. Come conseguenza, noi vediamo l’attualità assoluta in virtù della quale le cose che sono in atto sono ciò che esse sono: hinc actualitatem conspicimus. Tutte queste affermazioni implicano uno scontro con le posizioni della tradizione filosofica aristotelico-tomistica.
Nel Possest la coincidenza di possibilità e necessità
Aristotele aveva stabilito il principio secondo cui l’atto è anteriore alla potenza. La potenza infatti, in quanto principio del divenire, non è sufficiente a realizzare il divenire in quanto è necessario che ci sia una causa che trasformi la potenza in atto. Ma questa causa, che Aristotele definisce come causa efficiente, deve necessariamente essere già in atto.
Cusano non accoglie lo schema aristotelico dell’anteriorità dell’atto sulla potenza in quanto né l’attualità né la possibilità possono avere una precedenza: se l’attualità precedesse la possibilità, allora essa non sarebbe più attualità (che attualità sarebbe infatti quella che si risolvesse in una non attualità?); se la possibilità precedesse l’attualità si avrebbe invece un regresso all’infinito (perché ogni attualità richiederebbe sempre una possibilità che la porta all’atto e via di seguito).
La conseguenza di questo ragionamento è quella di ammettere la coincidenza di possibilità e necessità. Tale coincidenza ha bisogno di un nome e Cusano inventa il neologismo possest, termine che nasce dalla composizione di due termini, posse-est, traducibile con l’espressione il poter essere che è. Con questo termine egli indica la coincidenza, nell’assoluto, del poter essere con l’essere in atto. Tutte le cose, nella realtà indicata da questo termine, sono complicate, perché tutto ciò che esiste, per esistere, deve poter esistere, e dunque deve esistere in quello che è il potere allo stato puro. Ma in questo potere assoluto, che è un potere che è, nel quale l’essere coincide con il potere e la possibilità con l’attualità, devono essere incluse (cioè complicate nel linguaggio cusaniano) tutte le cose. Nel termine possest il Cardinale conia un termine che esprime la congiunzione della potenza di divenire e della potenza divenuta. Poter essere è dunque poter essere in atto, per cui siccome questo poter essere è considerato in atto, si dice che questo poter essere è un posse. Si tratta di una conclusione talmente forte che, prima di proseguire, Cusano la nasconde dietro tre affermazioni che, con l’apparenza di essere devote, contengono altrettante eresie le quali, ad altri pensatori, in altri tempi e in altri modi, sono costate la libertà e la vita.
Un Dio glorioso che non compie miracoli
Quello che noi consideriamo come Dio nella nostra tradizione, afferma Cusano, non è altro che la coincidenza dell’atto puro e della potenza pura. Nonostante egli chiami questa coincidenza Dio glorioso, l’affermazione si risolve in una vera e propria eresia rispetto al pensiero ortodosso, perché la potenza pura era da sempre stata considerata il prodotto dell’atto: ad esempio, come applicazione di questo schema, la prima cosa che Dio produce è la materia la quale, nella tradizione scolastica, non ha niente a che vedere con Dio, il quale era considerato piuttosto come una sostanza costituita da un’essenza diversa da quella che possiede la sostanza materia. Cusano cancella un simile quadro teorico perché quello che era un effetto, la materia, lo inserisce nella causa, che egli chiama Dio, considerata simultaneamente come un soggetto di contrari.
Il risultato di questo ragionamento produce una seconda eresia consistente nel rifiuto del concetto di eminenza. Con questo termine la tradizione aveva designato un modo di esistenza in cui, ciò che si dà attualmente nel mondo, è presente in modo diverso nell’idea di Dio. Questo significa che la creatura è contenuta nella mente del creatore in modo qualitativamente diverso rispetto a quello della creatura: in Dio (ad esempio) anche il mio gatto esiste, ma non esiste così come esiste in sé o come esiste nella mia mente: esiste in un modo diverso (diversità intesa come perfezione) in quanto la sua vera natura non è attingibile dalla nostra conoscenza.
Come conseguenza di questo approccio teorico della Scolastica, la potenza di Dio poteva essere concepita contemporaneamente in due modi: potenza assoluta e potenza ordinata. In quanto Dio è Dio, la potenza di Dio è assoluta; se invece si considera la potenza di Dio espressa nel mondo, la potenza ordinata, questa potenza non è assoluta, perché si ritiene che il mondo non sia tutto ciò che Dio poteva creare e che esso sia una tra le creature di Dio. Nel caso del gatto, esso esiste ed è stato creato; ma il gatto non solo non poteva non essere stato creato ma esistono nella mente di Dio tutta una serie di gatti che, trattenuti nella sua mente, non sono stati creati. Si ritiene cioè che non tutto ciò che è nell’intelletto di Dio è stato da lui creato: la sua volontà infatti avrebbe fatto da filtro rispetto all’infinità delle idee che sono in Dio, idee che solo in parte si sono tradotte nel mondo.
Anche in questo caso Cusano liquida la tradizione perché il concetto di Dio coincide con la possibilità attuata in cui non vi è più alcun residuo di possibilità da esplicare. Se la creazione deriva dalla natura di Dio (e non dalla volontà), se questa natura è infinita, anche l’effetto è infinito, e quindi dobbiamo dire che nel mondo c’è la piena e totale espressione della potenza di Dio. Dire ciò significa anche abolire il principio dei miracoli, ovvero che Dio non può, a partire dalla sua volontà, porre in essere qualcosa che prima era nella sua mente.
La materia è parte di Dio
La coincidenza di possibilità e necessità provoca un mutamento anche nel concetto di materia e ciò dà luogo alla terza eresia, sicuramente quella più scandalosa. Nella Dotta ignoranza, Cusano aveva già spiegato che il concetto della possibilità coincideva con quello della materia. Il problema è che la tradizione aristotelica era giunta a quel concetto nella modalità del non sapere, pensandola come possibilità eretta come principio assoluto e che coesisteva con lo stesso Dio (il quale era pensato in termini puramente spirituali). I platonici chiamarono la possibilità assoluta mancanza, in quanto essa manca di ogni forma. Gli aristotelici la definivano “quasi niente”, perché la materia aveva soltanto in minimo grado le qualità della sostanza. Di conseguenza, essi sostenevano che le forme sono presenti nella materia solo allo stato di possibilità. concludendo poi con la tesi che nella possibilità è presente la totalità delle cose. Cusano stabilisce invece che è impossibile che vi sia una possibilità assoluta, non congiunta cioè con l’atto, perché altrimenti bisognerebbe ammettere conseguenze assurde, come riconoscere un’infinità che parte dalla mancanza: cosa del tutto contraria a Dio perché semmai, in lui, l’infinità non può che partire da un’abbondanza.
Nasce il modello della causalità immanente
Come osserva un interlocutore del cardinale, si deve dire che Dio è in tutte le cose in modo tale da non poter essere altro quello che è. Questa, dice Cusano, è una dottrina da sostenere nel modo più fermo perché la coincidenza nell’assoluto di potenza ed atto consente di spiegare altrimenti la sua dottrina della complicatio. Dio infatti è tutte le cose in modo tale da non essere una di esse più di quanto non sia un’altra. Dio è sole ma non secondo il modo di essere del sole, il quale non è tutto ciò che può essere. Se questa prospettiva si può definire panteistica, non si deve dimenticare il modo esatto in cui essa si qualifica. Nel potere-che-è sono complicate tutte le cose e nessun grado di conoscenza riesce a coglierlo. Ma, soprattutto, «il potere, considerato in senso assoluto, è ogni potere. Pertanto se io vedessi che ogni potere è in atto non resterebbe più nulla. Se infatti restasse qualcosa, si tratterebbe pur sempre di qualcosa che potrebbe essere, per cui non resterebbe se prima non fosse già stata compresa nel potere». La conseguenza di questo discorso è che qualcosa, per essere qualcosa, deve avere la potenza di essere ciò che è e quindi, se non c’è il poter essere, non esiste nulla. Così come non si porta un’onda fuori del mare, è necessario che tutte le cose che sono, siano esistite da sempre nell’eternità: ciò che è stato creato è sempre esistito nel poter essere. Tutte le cose che sono e che si muovono, sono e si muovono nel possest.
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SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA"
Federico La Sala
Santo del giorno: 21 novembre
Solennità di Cristo Re *
Il Papa Pio XI, istituendo nell’anno Giubilare 1925 la nuova solennità di Cristo Re, pubblicava la sapientissima enciclica «Quas primas». Ne riportiamo i punti principali.
«Avendo concorso quest’Anno Santo non in uno ma in più modi, ad illustrare il regno di Cristo, ci sembra che faremo cosa quanto mai consentanea al Nostro apostolico ufficio, se, assecondando le preghiere di moltissimi Cardinali, Vescovi e fedeli fatte a Noi, sia da soli, sia collettivamente, chiuderemo questo stesso Anno coll’introdurre nella sacra Liturgia una festa speciale di Gesù Cristo Re. Da gran tempo si è usato comunemente di chiamare Cristo con l’appellativo di Re, per il sommo grado di eccellenza che ha in modo sovraeminenie fra tutte le cose create. In tal modo infatti, si dice che Egli regna nelle menti degli uomini, non solo per l’altezza del suo pensiero e per la vastità della sua scienza, ma anche perché Egli è la Verità, ed è necessario che gli uomini attingano e ricevano con obbedienza da lui la verità. Similmente Egli regna nelle volontà degli uomini sia perché in Lui alla santità della volontà divina risponde la perfetta integrità e sottomissione della volontà umana, sia perchè con le sue ispirazioni influisce sulla libera volontà nostra, in modo da infiammarci verso le più nobili cose. Infine Cristo è riconosciuto Re dei cuori, per quella sua carità che sorpassa ogni comprensione umana e per le attrattive della sua mansuetudine e benignità ».
La regalità di Gesù Cristo « consta di una triplice potestà: la prima è la potestà legislativa. È dogma di fede che Gesù Cristo è stato dato agli uomini quale Redentore in cui essi debbono riporre la loro fiducia e nel tempo stesso come Legislatore, a cui debbono ubbidire. In secondo luogo egli ebbe dal padre la potestà di giudicare il cielo e la terra, non solo come Dio, ma ancora come uomo. Infine diciamo che Gesù Cristo ha pure il diritto di premiare o punire gli uomini anche durante la loro vita ».
Dove si trova il regno di N. S. Gesù Cristo? Di quali caratteri particolari è dotato? Come si acquista? Il regno di N. S. Gesù Cristo « ha principalmente carattere soprannaturale e attinente alle cose spirituali. Infatti quando i Giudei e gli stessi Apostoli credevano per errore che il Messia avrebbe reso la libertà al popolo ed avrebbe ripristinato il regno di Israele, Egli cercò di togliere loro dal capo queste vane attese, e questa speranza ». Così pure quando la folla, presa da ammirazione per gli strepitosi prodigi da lui operati, voleva acclamarlo re, egli miracolosamente si sottrasse ai loro sguardi e si nascose: ed a Pilato che l’aveva interrogato sul suo regno rispose: « Il mio regno non è di questo mondo ». L’ingresso in questo regno soprannaturale, si attua mediante la penitenza e la fede, e richiede nei sudditi il distacco dalle ricchezze e dalle cose terrene, la mitezza dei costumi, la fame e la sete di giustizia ed inoltre il rinnegamento di se stessi per portare la croce dietro al Signore. Ecco il programma di ogni cristiano che vuole essere vero suddito di Gesù Cristo Re!
* Fonte: Santo del giorno, 21 novembre 2021 (ripresa parziale).
Note:
Martirologio Romano: Solennità di nostro Signore Gesù Cristo, Re dell’Universo: a Lui solo il potere, la gloria e la maestà negli infiniti secoli dei secoli:
"[...] Questa festa fu introdotta da papa Pio XI, con l’enciclica “Quas primas” dell’11 dicembre 1925, a coronamento del Giubileo che si celebrava in quell’anno.
È poco noto e, forse, un po’ dimenticato. Non appena elevato al soglio pontificio, nel 1922, Pio XI condannò in primo luogo esplicitamente il liberalismo “cattolico” nella sua enciclica “Ubi arcano Dei”. Egli comprese, però, che una disapprovazione in un’enciclica non sarebbe valsa a molto, visto che il popolo cristiano non leggeva i messaggi papali. Quel saggio pontefice pensò allora che il miglior modo di istruirlo fosse quello di utilizzare la liturgia. Di qui l’origine della “Quas primas”, nella quale egli dimostrava che la regalità di Cristo implicava (ed implica) necessariamente il dovere per i cattolici di fare quanto in loro potere per tendere verso l’ideale dello Stato cattolico: “Accelerare e affrettare questo ritorno [alla regalità sociale di Cristo] coll’azione e coll’opera loro, sarebbe dovere dei cattolici”. Dichiarava, quindi, di istituire la festa di Cristo Re, spiegando la sua intenzione di opporre così “un rimedio efficacissimo a quella peste, che pervade l’umana società. La peste della età nostra è il così detto laicismo, coi suoi errori e i suoi empi incentivi”.
Tale festività coincide con l’ultima domenica dell’anno liturgico, con ciò indicandosi che Cristo Redentore è Signore della storia e del tempo, a cui tutti gli uomini e le altre creature sono soggetti. Egli è l’Alfa e l’Omega, come canta l’Apocalisse (Ap 21, 6). Gesù stesso, dinanzi a Pilato, ha affermato categoricamente la sua regalità. Alla domanda di Pilato: “Allora tu sei re?”, il Divino Redentore rispose: “Tu lo dici, io sono re” (Gv 18, 37).
Pio XI insegnava che Cristo è veramente Re. Egli solo, infatti, Dio e uomo - scriveva il successore Pio XII, nell’enciclica “Ad caeli Reginam” dell’11 ottobre 1954 - “in senso pieno, proprio e assoluto, ... è re”. [...]" (cfr. "Santi e beati": Francesco Patruno).
PIO XI, LETTERA ENCICLICA QUAS PRIMAS, 11 dicembre 1925
FLS
PSICOANALISI, ANTROPOLOGIA, ARTE: COME NASCONO I BAMBINI ...
Mosè o Nucleo solare
di Frida Kahlo *
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Foto/Quadro Mosè o Nucleo solare - 1945 - su commissione José Domingo Lavin - Frida Kahlo
Poiché mi trovo, per la prima volta nella mia vita, a spiegare uno dei miei quadri a un gruppo che supera le tre persone, mi perdonerete se sarò piuttosto nervosa e forse un po’ confusa.
Un giorno, più o meno due anni fa, José Domingo mi disse che gli sarebbe piaciuto che leggessi il Mosè di Freud e rappresentassi, come volevo, la mia interpretazione del libro. Questo quadro è il risultato di quella conversazione.
Ho letto il libro una sola volta e ho iniziato a dipingere sulla base della prima impressione lasciatami dal testo. Ieri, mentre scrivevo per voi queste parole, l’ho riletto e devo confessarvi che il quadro mi è apparso molto parziale e piuttosto lontano da un’interpretazione approfondita di quel che Freud analizza in modo così meraviglioso nel suo Mosè, ma non essendo più possibile modificare il dipinto cercherò di descrivervelo così come appare dinanzi ai vostri occhi.
Il suo tema specifico è Mosè o la nascita dell’Eroe, non v’è dubbio, però ho rappresentato a modo mio (sia pur molto confusamente) i fatti e le immagini che mi hanno maggiormente impressionata nella lettura del libro. Sta a voi dirmi se ho sbagliato oppure no.
Ho inteso rappresentare nel modo più intenso e più chiaro che il motivo per cui l’uomo avverte il bisogno di inventare o di immaginare eroi e dèi è la pura e semplice paura. Paura della vita e della morte.
Ho per prima cosa dipinto la figura di Mosè bambino - Mosè in ebraico significa "colui che fu tratto dalle acque" e in egiziano "bambino". L’ho dipinto come lo descrivono molte leggende, in una cesta galleggiante abbandonata sulle acque di un fiume. Dal punto di vista plastico, ho cercato di far sì che la cesta ricoperta da una pelle di animale ricordasse il più possibile un utero, perché, secondo Freud, la cesta è l’utero messo a nudo e l’acqua rappresenta la fonte materna che dà alla luce la creatura. Per evidenziare questo fatto ho dipinto il feto umano nella sua ultima fase all’interno della placenta. Le tube, che sembrano mani, si protendono verso il mondo.
Ai lati del bambino già creato ho posto gli elementi della sua creazione: l’uovo fecondato e la divisione cellulare. Freud analizza in una forma molto chiara, ma per me molto complessa, il fatto importante che Mosè non era ebreo ma egiziano, ma nel dipingerlo non ho trovato il modo di raffigurarlo né come ebreo né come egiziano, ma solo come un bambino che in generale rappresenta sia Mosè sia tutti colore che, secondo la leggenda, ebbero un inizio analogo, diventando in seguito personaggi importanti e guide del loro popolo, ossia eroi (più lungimiranti degli altri, per questo ho messo l’< occhio scrutatore >). In questo gruppo si trovano Sargon, [2] Ciro, Romolo, Paride ecc.
L’altra conclusione interessantissima di Freud è che Mosè, non essendo ebreo, diede al popolo da lui scelto per esser guidato e salvato una religione che non era ebrea ma egizia, ossia quella a cui dettero nuova vita Amenofi IV o Ekhnaton: la religione di Aton o del sole, ispirata all’antichissima religione di On (Eliopoli). Perciò ho dipinto il sole come centro di tutte le religioni, come primo Dio e creatore e riproduttore della vita.
Questa è la relazione che lega le tre figure principali che si trovano al centro del quadro. Oltre al Mosè si sono avuti e si avranno molti < nobili > riformatori di religioni e di società umane. Si può dire che costoro abbiano una funzione di messaggeri tra coloro che governano e gli dèi ne restano ancor oggi, come ben sapete. Naturalmente non potevo rappresentarli tutti, per cui ho posto, ai lati del sole, colore che in un modo o nell’altro hanno una relazione diretta con l’astro.
A destra gli occidentali, a sinistra gli orientali.
Sulla destra: il toro alato assiro, Amon, Zeus, Osiride, Horus, Jehova, Apollo, la Luna, la Vergine Maria, la Divina Provvidenza, la Santissima Trinità, Venere e... il Diavolo. Sulla sinistra: il lampo, il fulmine e la traccia del lampo, cioè Hurakan, [3] Kukulkàn [4] e Gukamatz; [5] Tlàloc, [6] la magnifica Coatlicue, [7] madre di tutti gli dèi, Quetzalcòatl, [8] Tezcatlipoca, [9] Centeotl, [10] il dio cinese (il dragone) e il dio indù, Brahama. Non sono riuscita a trovare un dio africano, ma potrei sempre aggiungerlo in un secondo tempo. Non sono in grado di dirvi qualcosa su ognuno di loro, ottenebrata come sono dalla più totale ignoranza sulle loro origini, sulla loro importanza, e così via.
Dopo aver dipinto nei rispettivi cieli gli dèi, ho voluto dividere il mondo celeste dell’immaginazione e della poesia da quello terreno della paura e della morte, e ho così dipinto lo scheletro umano e quello animale che potete vedere. La Terra li protegge con le sue mani. Tra la morte e il gruppo degli eroi non c’è alcuna divisione, poiché anch’essi muoiono e la Terra generosa li accoglie senza far distinzioni.
Sopra la stessa Terra, con teste più grandi per distinguerli dalla massa, sono raffiguranti gli eroi (pochissimi ma scelti), i riformatori di religioni, gli inventori o i creatori, i conquistatori, i ribelli... ossia i veri aristocratici.
Sulla destra - e questa figura ho dovuto ritrarla conferendole più importanza di qualsiasi altra - si vede Amenofi IV, che successivamente si chiamò Ekhnaton, il giovane faraone della diciottesima dinastia egizia (1370 - 1350 a.C.), che impose ai suoi sudditi una religione contraria alla tradizione, opposta al politeismo, strettamente monoteista con radici lontane risalenti al culto di On (Eliopoli), ossia la religione di Aton e quella di Mosè. Non ho trovato un modo per trasporre figurativamente questa parte così importante del libro.
Seguono Cristo, Zoroastro, Alessandro Magno, Cesare, Maometto, Lutero, Napoleone e Hitler,il bambino perduto. Sulla sinistra vediamo la meravigliosa Nefertiti, sposa di Ekhnaton; immagino che sia stata, oltre che straordinariamente bella, anche molto intelligente e una validissima collaboratrice del marito. Poi vediamo Buddha, Marx, Freud, Paracelso, Epicuro, Gengis Khan, Gandhi, Lenin e Stalin. Non li ho dipinti seguendo un ordine prestabilito, ma secondo le mie conoscenze storiche, anch’esse disordinate. Tra loro e la folla sottostante ho dipinto un mare di sangue con cui ho voluto rappresentare la guerra, ineluttabile e prolifica.
E, più sotto, vedete la potente e mai abbastanza celebrata massa umana, composta da ogni tipo di... individui: i guerrieri e i pacifici, gli scienziati e gli ignoranti, i creatori di monumenti, i ribelli, i porta-bandiere, i porta-medaglie, gli oratori, i pazzi e i saggi, i gioiosi e i tristi, i sani e i malati, i poeti e gli sciocchi, e tutti gli altri che vi aggrada inserire in questa p...otente folla. Solo quelli nelle prime file si distinguono, sia pur vagamente, gli altri sono irriconoscibili nella massa.
Sul lato sinistro, in prima fila, ho posto l’uomo, il creatore dei quattro colori (le quattro razze). Sul lato destro la madre, la creatrice, con il figlio in braccio. Dietro di loro, la scimmia. Ai due lati, in basso, vedete due alberi che formano una sorta di arco di trionfo, con la vita nuova che germoglia sempre dal tronco della vecchiaia. Nel centro, sempre in basso, la forza più importante per Freud e per molti altri: l’amore, rappresentato dalla conchiglia e dalla chiocciola, i due sessi, a cui si avvolgono radici sempre nuove e sempre vive.
Questo è tutto quello che posso dirvi del mio quadro, e ora attendo domande e commenti. Nonmi offenderò qualunque essi siano. Vi ringrazio.
Frida Kahlo
[1] José Domingo Lavin, uno dei maggiori estimatori di Frida Kahlo, le commissionò nel 1945 l’opera omonima. La commissione ebbe una causa fortuita: durante un pranzo a casa Lavin, il padrone di casa mostrò a Frida il testo di Freud Mosé e il monoteismo. La pittrice, dopo averne letto alcune pagine, lo chiese in prestito e ne rimase affascinata, al punto da manifestare il desiderio di esprimere in un quadro le idee e le sensazioni che la lettura del libro le aveva ispirato, e così dipinse Mosè o Nucleo solare. Due anni dopo, durante una serata a casa Lavin, Frida tenne una conferenza informale sul dipinto, che qui riportiamo. [N.d.T.]
[2] Detto Saragon il Grande, governò la penisola Mesopotamia nel 2000 a.C. circa; è ricordatocome uno dei primi fondatori di grandi imperi. [N.d.T.]
[3] Dio Maya del vento e della tempesta. [N.d.T.]
[4] Divinità suprema dei Maya preposta ai quattro elementi, alla creazione, resurrezione e reincarnazione. [N.d.T.]
[5] Dio Maya del cielo, uno degli dèi che crearono il mondo e gli uomini. [N.d.T.]
[6] Dio azteco della pioggia, dei lampi e dei tuoni. [N.d.T.]
[7] Dea azteca della terra e del fuoco. Dea-serpente, rappresenta la madre divoratrice. [N.d.T.]
[8] Una delle maggiori divinità di Aztechi, Toltechi e popolazioni del Centroamerica. Dio creatore della razza umana, legislatore e civilizzatore. È simboleggiato da un serpente piumato. [N.d.T.]
[9] Dio azteco della notte e delle cose materiali, contrapposto allo spirituale Quetzalcòatl. [N.d.T.]
[10] Dio azteco del mais. [N.d.T.]
Frida Kahlo - Lettere appassionate - [Abscondita Srl - 29 Carte d’artisti] Scritto - pg. 141
*Fonte: Yellowbrick, 10 marzo 2020
NOTA:
"Mosè o Nucleosolare" (FridaKahlo, 1945): il "nascimento del’eroe".
"Il quadro fu ispirato dalla lettura del libro di Sigmund Freud “Mosè e il monoteismo” e, ancora oggi, offre una esemplare opportunità a riflettere sulla sollecitazione di Georg Groddeck a Freud del 1917 ("La psicoanalisi non si vergogna di risalire all’epoca prenatale, e fa bene. Ma perché si sofferma sempre ed esclusivamente sull’organo del cervello, perché non vuol vedere che, ceteris rebus, da uno spermatozoo e da un ovulo si svilupperanno sempre mani, occhi, cervello?"), di Sandor Ferenczi del 1924 (Thalassa), e di Elvio Fachinelli del 1975 e affrontare la questione ancora aperta del "quinto privilegio dell’inconscio" ("L’erba voglio" - rivista, n. 22).
Per una psicoanalisi antropologica-mente coraggiosa, portarsi "sulla spiaggia" e, con Freud (Groddeck e Ferenczi), riprendere la navigazione galileiana.... e le indicazioni di Fachinelli: dal labirinto edipico si può uscire.
Federico La Sala
"QUATTRO" ... QUATTRO PROFETI? IL "TONDO DONI" E LA TRACCIA PER UN’ALTRA "INTERPRETAZIONE DEI SOGNI" DI MICHELANGELO E DEL SUO RACCONTO NELLA CAPPELLA SISTINA...
di Federico La Sala (Le parole e le cose, 9 novembre 2021)
AL FINE DI UN’INTERPRETAZIONE non riduttiva del "Tondo Doni" di Michelangelo è opportuno fare bene attenzione alla cornice lignea che sta intorno.
NELLA SCHEDA DELLA Galleria degli Uffizi, relativa alla Sacra famiglia, detta “Tondo Doni” di Michelangelo #Buonarroti è scritto:
"QUATTRO PROFETI": MA "COME NASCONO I BAMBINI"?!
Se il tema è quello della nascita di Cristo ("il Figlio dell’Uomo"), il discorso di Michelangelo è semplicemente chiaro e tondo e già anticipa alla grande il programma della Sistina: nella cornice vi sono raffigurate la testa di Cristo (in alto) e ai lati le teste di due profeti e due sibille e, al centro (il fuoco del cammino dell’intero genere umano), Gesù, il "Figlio dell’Uomo" ("Ecce Homo" - ogni essere umano, come da antropologia e filologia), con le figure dei genitori, il "profeta" Giuseppe e la "sibilla" Maria.
L’Uomo non è più un Lupo! L’uomo è per l’uomo un Dio ("Homo homini deus est"), come ricorderà Spinoza nella sua "Etica".
Sacra famiglia, detta “Tondo Doni”
Michelangelo Buonarroti (Caprese 1475 - Roma 1564) *
Michelangelo dipinse questa Sacra Famiglia per Agnolo Doni, mercante fiorentino il cui prestigioso matrimonio nel 1504 con Maddalena Strozzi avvenne in un periodo cruciale per l’arte a Firenze di inizio secolo. La compresenza in città di Leonardo, Michelangelo e Raffaello apportò uno scatto di crescita al già vivace ambiente fiorentino, che nel primo decennio del secolo visse una stagione di altissimo fervore culturale. Agnolo poté quindi celebrare le sue nobili nozze e la nascita della sua primogenita con alcune delle massime espressioni di questa eccezionale fioritura: i ritratti dei due coniugi dipinti da Raffaello, e il tondo di Michelangelo, che è l’unico dipinto certo su tavola del maestro.
Michelangelo aveva da poco studiato le potenzialità del formato circolare, molto apprezzato nel primo Rinascimento per gli arredi devozionali domestici, nei marmi del “Tondo Pitti” (Museo Nazionale del Bargello) e del “Tondo Taddei” (Royal Academy di Londra): in entrambi i casi la Madonna, il Bambino e San Giovannino occupano prepotentemente tutta la superficie del rilievo. Anche il “Tondo Doni” è concepito come una scultura, in cui la composizione piramidale del gruppo si impone su quasi tutta l’altezza e la larghezza della tavola. E’ stato notato che, nella sua compattezza, il gruppo ricorda la struttura di una cupola, tuttavia animata al suo interno dalle torsioni dei corpi e dalla concatenazione dei gesti per il passaggio delicatissimo del Bambino dalle mani di San Giuseppe a quelle della Vergine.
Questa composizione così articolata ed espressiva scaturisce dalla conoscenza e dallo studio da parte di Michelangelo dei grandi marmi del periodo ellenistico (III-I secolo a. C.), contraddistinti da movimenti serpentinati e forte espressività, che stavano emergendo dagli scavi delle ville romane. Alcuni di questi importanti ritrovamenti, come l’Apollo del Belvedere e il Laocoonte scavato nel gennaio 1506, sono citati puntualmente nel quadro fra le figure di nudi in piedi, appoggiati a una balaustra (rispettivamente a sinistra e a destra di San Giuseppe).
La presenza di Laocoonte permette di avanzare per il tondo una datazione che coincide con la nascita di Maria Doni (settembre 1507). I giovani nudi, la cui identificazione è complessa, sembrano rappresentare l’umanità pagana, separata dalla Sacra Famiglia da un basso muretto che rappresenta il peccato originale, oltre il quale c’è anche San Giovannino, che favorirebbe l’interpretazione battesimale del dipinto.
La cornice del tondo, probabilmente su disegno di Michelangelo è stata intagliata da Francesco del Tasso, esponente della più alta tradizione dell’intaglio ligneo fiorentino. Vi sono raffigurate la testa di Cristo e quelle di quattro profeti, circondate da grottesche e racemi, in cui sono nascoste, in alto a sinistra, delle mezze lune, insegne araldiche della famiglia Strozzi.
* GLI UFFIZI, 11.11.2021 (ripresa parziale)
IMMAGINARIO, STORIA, E ANTROPOLOGIA CULTURALE... *
Psicologia delle organizzazioni
Il complesso di Adamo: cos’è?
Il complesso di Adamo è un’inclinazione che si manifesta nel leader con poca esperienza o troppo orgoglioso. In molti casi questa situazione crea grandi difficoltà alle persone guidate.
di/da "La mente è meravigliosa".
Il complesso di Adamo è un modo colloquiale per definire un particolare atteggiamento arrogante. Si utilizza questa definizione soprattutto in relazione alle organizzazioni e si verifica quando un funzionario o un dirigente squalifica tutto ciò è stato fatto prima del suo arrivo.
Il suo scopo obiettivo è inaugurare una nuova realtà. In altre parole, coloro che hanno il complesso di Adamo si sentono come i fondatori di un nuovo mondo.
Chi soffre del complesso di Adamo parte dall’idea che tutto ciò che è stato fatto fino a quel momento non sia valido. Queste persone ritengono che nel lavoro fatto prima del loro arrivo non ci sia niente di positivo.
Vogliono fare “piazza pulita” e ricominciare tutto da zero. Nella stragrande maggioranza dei casi, questo atteggiamento ha conseguenze negative. Perché? Andiamo a scoprirlo!
Il complesso di Adamo
Il complesso di Adamo è tipico delle persone arroganti che si sentono come se fossero arrivati per primi sulla Terra perché non riconoscono la validità di ciò che è stato fatto fino al loro arrivo.
Per questo motivo, decidono di effettuare “cambiamenti strutturali” e optano per una “riprogettazione totale”. Basano le loro decisioni sugli errori che sono stati fatti in passato.
Ciò si verifica in quelle posizioni lavorative che hanno molte responsabilità. Tuttavia, può anche accadere in tutti i tipi di situazioni o attività.
In genere, le persone che hanno il complesso di Adamo sono individui senza esperienza, ma con una buona conoscenza. Di solito, abbracciano le teorie più innovative o le nuove tendenze del momento.
In linea di principio, questo atteggiamento è un chiaro segno di immaturità. Allo stesso modo, rivela un forte desiderio di apparire e di essere un figura determinante nella storia di un’organizzazione, una città, un paese, ecc.
Questo atteggiamento si riscontra con relativa frequenza nei politici eletti per la prima volta o che ricevono una nomina per una posizione di rilievo.
Riconoscere il complesso di Adamo
In linea di principio, una persona con il complesso di Adamo può essere percepita come qualcuno con grandi capacità di leadership, grandi idee e grande vitalità.
È ovvio che tutta la gestione precedente ha commesso degli errori da correggere. Quello che fanno queste persone è enfatizzare questi errori e da qui partono per sostenere le loro proposte di cambiamento radicale.
È molto importante differenziare questo atteggiamento da quello di un leader che si fa carico di un’organizzazione o di un’istituzione in crisi strutturale. In quest’ultimo caso, è molto probabile che saranno necessari dei profondi cambiamenti per risolvere i problemi presenti.
Chi ha il complesso di Adamo ha l’intenzione di cambiare una situazione che, pur presentando degli errori, non è in una situazione critica.
Allo stesso modo, coloro che hanno questo atteggiamento di solito manifestano determinati modelli di comportamento:
Perché questo complesso è negativo?
Perché un leader con idee innovative e il desiderio di cambiare tutto in meglio può essere negativo? Spesso, i grandi cambiamenti sono il risultato di un lavoro congiunto e non della decisione di un individuo.
Se c’è davvero bisogno di ristrutturare tutto, non c’è niente di meglio che ascoltare le opinioni e le esperienze di tutti coloro che sono coinvolti nel cambiamento.
Inoltre, bisogna iniziare soppesando gli aspetti positivi e negativi di ciò che già esiste. Tutto può funzionare meglio, ma in alcuni casi sono necessari solo pochi aggiustamenti e non un cambiamento totale. La voglia di cambiare tutto e subito può portare a una forte instabilità all’interno di un’organizzazione.
Allo stesso modo, è consigliabile tenere conto della resistenza al cambiamento e dei processi che consentono di creare una nuova struttura. Nella maggior parte dei casi è consigliabile che i cambiamenti avvengano gradualmente.
Spesso la cosa difficile è individuare con precisione i punti prioritari su cui intervenire. Le grandi ristrutturazioni sono necessarie solo se c’è una crisi evidente.
Quando sono motivate solo dal complesso di Adamo, tendono a causare disaccordi, malfunzionamenti e, molte volte, fallimenti.
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A CHE #GIOCO GIOCHIAMO? (#EricBerne). #PSICOANALISI, #PSICHIATRIA, E #LETTERATURA...
#COSMOTEANDRIA E #CIVILTÀ: UNA #GIGANTOGRAFIA DI #EDIPO....
#ADAMO, #EVA, E #PINOCCHIO. "Le #Strutture elementari della parentela" (#LeviStrauss) e il complesso di #Adamo: una questione di #antropologiaculturale e di #storia di #lungadurata ...
#SAPERE AUDE! COME ha già ben detto e spiegato #Nietzsche, e prima di #SigmundFreud, se "Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!" ("La #GaiaScienza", aforisma 125), è bene cercare di #sapere come nasce il "sogno d’amore" del #leader: dietro #Adamo, c’è la #madre, #Eva! #Adamo è un #figlio di #mamma che gioca a fare il #re e il #papà, con #Eva - la #madre!
Il #complesso di #Eva, di #Giocasta, unisce il #complesso di #Edipo (#Freud) e il complesso di #Narciso (P. - C. #Racamier - #Antedipo) ... e illumina di luce mammonica l’#alleanza del #Figlio con la #Madre e della #Madre con il #Figlio: altro che #patriarcato! Questo è un regime di #maggiorascato (la #MonacadiMonza urla ancora dal #cuore dei #PromessiSposi).
L’IO EMPIRICO E L’IO TRASCENDENTALE. Il nodo edipico-narcisistico ("biblico") è ancora non sciolto! E "lo schizofrenico della famiglia" (#PietroBarbetta, 2008) non è della solo #famiglia, è lo schizofrenico dell’intera #società (#GilbertoDiPetta, "La #schizofrenia come possibilità ontologica").
L’OPPIO DEI POPOLI E LO SPIRITO CRITICO.
JEAN-LUC NANCY, IL SOFFIO RIVOLUZIONARIO, E I PALLONI IN ARIA...
JEAN-LUC NANCY, in un suo ultimo intervento ad un convegno del maggio scorso, dice: "[...] Quando Marx dichiara che la religione è «l’oppio dei popoli, lo spirito di un mondo senza spirito» [Nella sua "Critica della filosofia del diritto di Hegel"] intende dire da un lato che la religione è un povero surrogato dell’oppio con cui i ricchi si stordiscono, ma anche e allo stesso tempo che c’è da qualche parte uno “spirito” riservato a coloro che ne hanno i mezzi. Beninteso, per lui, tutti gli uomini ne hanno i mezzi, tutti possono partecipare al vero Spirito, a condizione d’essere liberi dall’alienazione. Poiché l’alienazione non consiste essenzialmente nell’estorsione del plusvalore - che ne è piuttosto il segno. L’alienazione consiste nel non essere propriamente sé stessi, tanto in quanto individui concreti che in quanto comunità non meno concrete".
E CONTINUA: "Questo spirito soffia come tutti gli spiriti. Marx usa spesso la parola “soffio” (Atem, respirazione). Ci accontenteremo di un esempio: «Il governo prussiano è infastidito dalla resistenza passiva che incontra ovunque. Attraverso l’apparente apatia, percepisce il soffio rivoluzionario»[...]"(Jean-Luc Nancy, "Essere, Soffio / Être soufflé", Le parole e le cose", 4.10.2021).
IL MESSAGGIO EVANGELICO E IL "FIGLIO DELL’UOMO". "Allora la folla gli [a Gesù] rispose: «Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo ["Filius hominis", "υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου]?»"(Gv. 12,34).
QUESTIONE ANTROPOLOGICA. CHI è questo Figlio dell’Uomo, CHI il "Gesù Cristo" degli Evangelisti? COME è detto nell’Evangelo di Giovanni di "Gesù Cristo"? Ponzio Pilato disse: "«Ecco l’uomo» (gr. «idou ho anthropos», vulg. «ecce homo»)" (Gv. 19, 4).
QUALE SPIRITO? COME è detto nella Prima Lettera dell’Evangelista Giovanni?: "Carissimi, non prestate fede ad ogni spirito, ma mettete alla prova gli spiriti, per saggiare se provengono veramente da Dio [...] Dio è amore." (1 Gv. 4, 1-8).
IL PROBLEMA DEL MENTITORE: CHI È IL "GESÙ CRISTO" DI PAOLO DI TARSO?!: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
PSICOANALISI E CRISTOLOGIA: "OEDIPUS AT VERSAILLES" ED "EDIPO A CUERNAVACA". CHE FARE? Rileggere il testo di "Un frammento inedito di Freud del 1931" e dell’articolo di Franca Ongaro Basaglia ("PM", novembre 1982). SapereAude!
IL VENTO SOFFIA DOVE VUOLE (Gv. 3.8). QUANTI PALLONI IN ARIA ...
Federico La Sala
CONTRO IL "PADRE NOSTRO", MA CON IL "PADRE NOSTRO": SENZA LA MESSA A FUOCO DELL’ EDIPO COMPLETO (FREUD) NON SI ESCE DALLA TRAPPOLA DEL MENTITORE STORICAMENTE ISTITUZIONALIZZATA ... *
L’antropologa scomoda
Ritratti. È morta a 91 anni Ida Magli. Scrisse testi fondamentali sul matriarcato, la sessualità, l’iconografia della Madonna e la storia laica delle donne religiose. Negli ultimi anni, aveva radicalizzato il suo pensiero, abbracciando posizioni reazionarie
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 23.02.2016)
Figura controversa e complessa del panorama italiano, l’antropologa e scrittrice Ida Magli è scomparsa a Roma all’età di 91 anni. Per chi ne abbia letto i numerosi testi, in particolare quelli pubblicati tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Novanta, dedicati ad argomenti liminari al femminismo - è difficile individuare la ragione che, negli ultimi venti anni, l’ha spinta verso un passo reazionario. Sarebbe tuttavia riduttivo collocarla alla svelta nella deriva antieuropeista che in tempi recenti ha abbracciato anche se, in tutta onestà, potrebbe essere questo uno dei motivi che l’ha resa poco attraente soprattutto alle generazioni di giovani studiose che, con i testi, si confrontano. Ma per capirne il quadro completo e l’eredità che ha lasciato a chi si misura con i senso parlante dei testi, bisogna fare un necessario passo indietro, ne sono convinte in molte che di Magli hanno ascoltato quelle mirabili lezioni di Antropologia culturale alla Sapienza di Roma fino al suo pensionamento nel 1988.
Tra quelle allieve spicca Loredana Lipperini che, quando la notizia della scomparsa della professoressa Magli è stata diffusa, ha affidato ai social network parole tanto affettuose quanto colme di gratitudine per averle insegnato una curvatura dello sguardo ineguagliabile. Ed è forse su questo che ci si potrebbe soffermare, non per espungere i testi dal portato biografico ma per evitare di renderla una intellettuale rubricata semplicisticamente e rapita dalle destre; perché cioè le vada riconosciuto ciò che ha fatto, ovvero individuare alcuni elementi essenziali e spesso scomodi al dibattito antropologico e femminista contemporaneo e che poi hanno retto la parte centrale della sua esistenza.
In realtà, la storia tra Ida Magli e il femminismo è stata piuttosto intermittente, e questo nonostante abbia avuto da sempre il chiaro desiderio di seguirne il passo a giudicare dai passaggi che le sono stati cari.
Basti pensare a volumi come Matriarcato e potere delle donne (1978), in cui compaiono alcuni passi sulle società matriarcali e una inedita traduzione del poderoso testo Das Mutterrecht di Bachofen. Solo due anni prima, aveva fondato la storica rivista dwf.
È del 1982 La femmina dell’uomo e poi c’è lo studio in cui si concentra su Santa Teresa di Lisieux. Una romantica ragazza dell’Ottocento (1994), quello su La Madonna (1987), fino a un’interessante edizione aggiornata, dieci anni dopo, La Madonna, dalla Donna alla Statua; cruciale è stato La sessualità maschile (1989) e il suo studio sulla Storia laica delle donne religiose (1995).
Insieme ai testi forse più conosciuti vi è stato l’impegno costante verso l’antropologia che ha percorso sempre con disinvoltura e originalità di posizioni. È suo il più generale manuale di Introduzione all’antropologia culturale (1983) così come si deve a lei la fondazione e direzione (dal 1989 al 1992) della rivista Antropologia culturale.
Il nodo sessualità-religione è stato per Magli uno dei più frequentati, là dove entrambi i punti sono stati sempre interpretati con una certa ritrosia anche nella discussione politica pubblica.
Ida Magli in realtà, come ricorda Lea Melandri, che abbiamo raggiunto per telefono, è stata precorritrice lucidissima di alcuni snodi fondamentali: «Certo, non si può leggere solo parzialmente, bisogna guardarla nel suo intero e in quanto è stata capace di offrirci alla lettura. È rimasta sempre abbastanza in disparte, ma il femminismo l’ha intersecato; forse non è stata così riconosciuta come avrebbe meritato, e molto ci possono raccontare ancora i suoi libri; vi sono per esempio frammenti folgoranti, coraggiosi che mettono in chiaro alcuni aspetti forti: sessualità, immaginario e fantasie maschili sui corpi delle donne e il grande nodo religioso». Melandri prosegue citando alcuni passaggi cruciali, per esempio quelli che attengono il corpo delle donne, la sessualità e il potere che disciplina i corpi fino a diventare violenza.
Su quest’ultimo punto, infatti, anche la stessa attenzione di Melandri si è soffermata. «Ho letto e riletto alcuni suoi frammenti perché penso ci siano preziosi. Non sono stati mai scontati e andrebbero ascoltati. Ma penso anche alla lezione sulla storia laica delle religiose, un lavoro straordinario che andrebbe accolto con maggiore generosità».
Addio al Padre *
"[...] Abbiamo ricostruito questo percorso per mostrare chiaramente come oggi non vi sia più spazio non soltanto per il cristianesimo, ma per tutti i valori che in questi duemila anni hanno concorso alla formazione e allo sviluppo della civiltà europea. Per quanto forse i credenti cristiani non se ne rendano del tutto conto, non può sussistere una religione fondata su un Dio «Padre» laddove la figura del padre ha perso qualsiasi rilevanza e autorità. Come abbiamo ormai più volte detto, le religioni sono specchio e proiezione di ciò che pensano e che desiderano i popoli. L’immagine di un Dio-Padre è ormai priva di senso.
Non può sussistere una religione fondata sull’importanza del «Figlio» laddove la procreazione è considerata un fatto personale e gravoso e la società provvede gratuitamente ai numerosissimi aborti confermando così che vuole la propria morte. D’altra parte il figlio è ormai inutile per il padre in quanto non gli serve più a garantirne la sopravvivenza. Non serve né per l’al di là né per il di qua. Le dinastie, le successioni, le eredità sono state quasi del tutto abolite, oppure vengono significativamente caricate di tasse. Nessun genitore conta sui figli per la propria vecchiaia. Alla vita nell’aldilà è ormai quasi impossibile credere e di fatto gli uomini in Europa preferiscono non pensarci.
La dichiarazione di «morte cerebrale», i trapianti d’organi hanno tolto concretamente e simbolicamente ogni trascendenza alla morte, di cui il cadavere, fino a questa orrida decisione, sembrava racchiudere il mistero; per non parlare di ciò che il corpo era (o meglio «è», visto che il dogma non è stato abolito) nella teologia cristiana con la fede nella resurrezione dei corpi, inclusa nel Credo, alla quale però nessuno evidentemente pensa più.
Sembra quasi impossibile che vi sia stato un tempo (oggi appare lontanissimo ma in realtà si tratta soltanto di pochi anni fa) in cui gli uomini si toglievano il cappello davanti a un morto a onorarne, appunto, la sacralità. Tutto questo è stato voluto dallo Stato e dalla Chiesa in modo ossessivo, come se la realizzazione dei trapianti d’organi costituisse il centro del loro potere e dei loro desideri.
Ma il trapianto d’organi significa l’annullamento delle specifiche individualità (oltre che il consenso e la legittimazione dell’istinto sempre presente nell’uomo di sopravvivere uccidendo, mangiando l’altro); significa avvicinarsi concretamente a quella nuova forma di uguaglianza che, invece di affermare l’esistenza del singolo, afferma la sua non-forma, la sua mancanza d’identità, la sua integrazione nell’identico. Passaggio indispensabile per giungere ad annullare la differenza posta dalla natura con il Dna maschile e femminile, la differenza di genere, e affermare la «normalità» dell’omosessualità.
Non si può trarne che una sola conclusione: hanno voluto che l’omosessualità vincesse su tutto e su tutti. Ma il primato dell’omosessualità non sarebbe stato proponibile fin quando fosse stato in vigore non soltanto il primato del «padre», dei legami di parentela, dei legami di sangue, ma anche e soprattutto l’assoluta «differenza» del genere maschile e femminile, ossia la differenza per antonomasia. L’interscambiabilità dei corpi l’ha annientata. Dunque: nessun «Genere», nessuna «Paternità», nessun «Figlio», nessuna «Famiglia», nessuna «Società», nessun «Futuro».
Naturalmente questo significa che si vuole la fine non soltanto del cristianesimo, ma di tutta la civiltà e della società europea, la fine dei «bianchi». L’omosessualità è strumentale soltanto a questa fine e il suo primato sparirà insieme ai bianchi".
* Cfr. Ida Magli Dopo l’Occidente, Rizzoli, Milano, 2012.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! LA "SACRA FAMIGLIA" DELLA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA E’ ZOPPA E CIECA: IL FIGLIO HA PRESO IL POSTO DEL PADRE "GIUSEPPE" E DELLO STESSO "PADRE NOSTRO" ... E CONTINUA A "GIRARE" IL SUO FILM PRE-EVANGELICO PREFERITO, "IL PADRINO"!!!
FLS
Le illusioni di una teologia femminista: chi prenderà il posto della vittima?
di Ida Magli [1995]*
Questa, perciò, è la conclusione. Nessuna teologia femminista è possibile perché la struttura sacrificale che è stata posta alla base del cristianesimo da S. Paolo e, da allora, continuamente ribadita nei duemila anni di storia cristiana, pone alle donne un problema insolubile. Una religione sacrificale obbliga, prima di tutto, ad accettare di possedere una vittima, e subito dopo a stabilire chi debba essere il Sacrificatore e chi la Vittima. La vittima fino ad oggi è stata la Donna (le donne). Naturalmente questo significa anche che colui che ha designato la vittima - il Sacrificatore - è anche colui che detiene il Potere.
Come è chiaro, in queste brevi premesse si delinea la struttura di una società, anche se nel mondo moderno si continua a fare finta che esistano società «laiche», distinte dalle religioni. Il Protestantesimo è stato un tentativo implicito di scardinare il sistema del Potere legato al sacrificio della vittima. Ma non era ancora ben chiaro in Lutero che la discussione sul grado di realtà della presenza di Cristo nel «sacrificio della Messa» (si tende di solito a dimenticarsi che la Messa è appunto un «sacrificio») non era una polemica fra teologi e fra diverse interpretazioni delle Sacre Scritture, ma una domanda ben diversa: può sussistere una società senza sacrificio?
Interrogativi, questi, irrisolti, malgrado le diverse versioni del cristianesimo che si sono presentate lungo i secoli, perché in realtà, sotto le vesti della téologia, si discuteva(si discute) delle radici di fondazione della vita di gruppo.
Nel Protestantesimo, in teoria, la necessità della vittima è meno forte che nel Cattolicesimo, in quanto si tiene fermo il punto che il sacrificio vero, quello del Salvatore si è compiuto una volta per sempre; e la messa, di conseguenza, viene interpretata come «memoria», come semplice ricordo del sacrificio di Cristo. Nel Cattolicesimo, invece, con la riaffermata «transustanziazione» del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo, il sacrificio è altrettanto reale, si compie nuovamente come sulla Croce.
Di fatto, sia l’una sia l’altra posizione girano intorno al problema irrisolvibile della necessità, o meno, della vittima. Sotto questo aspetto il cattolicesimo è tragicamente realista. Le chiese cattoliche piene di crocifissi, di corpi di martiri, di scene sanguinanti, lo dicono ad alta voce: vittime, vittime, vittime.
Nel protestantesimo, invece, esistono contraddizioni e ambiguità che, forse, sono ancor più significative. Prima di tutto, la rivendicata continuità con l’Antico Testamento, ossia con la cultura sacrificale per eccellenza.
Il cristianesimo originario, invece, e poi il cattolicesimo, almeno fino a ieri, hanno messo l’accento sulla rottura con l’ebraismo, e benché la polemica violentissima sul non riconoscimento dell’avvento del Salvatore e sull’uccisione del Figlio di Dio da parte degli Ebrei si sia svolta in termini teologici (e nell’antisemitismo concreto), in realtà era dettata dal trauma non cancellabile dell’assoluta novità portata dai Vangeli. Di fatto, però, sia l’una che l’altra Chiesa si basano fondamentalmente su S. Paolo e non su Gesù, cosa che riporta il problema alle sue radici: l’affermazione di Paolo che ogni cristiano è e deve essere, alter Christus e che «senza spargimento di sangue non esiste perdono» (Lettera agli Ebrei, 9, 22). Dunque: la vittima è necessaria.
Se le cose stanno così, nulla di ciò di cui discutono le femministe ha un senso. La richiesta del sacerdozio per le donne, per esempio, non trova che giustificazioni superficiali di parità con gli uomini, se prima non si dice cosa si vuole fare di una religione sacrificale, e se si vuole, oppure no, conservare un’organizzazione di Potere del Sacrificatore. Chiedere il sacerdozio, infatti, significa questo: diventare Sacrificatori.
Nel protestantesimo, il sacerdozio è meno «forte» di quello cattolico a causa della mancanza reale del Sacrifìcio della vittima, ed è per questo che nelle Chiese riformate è stata più facile l’equiparazione delle donne nell’ufficio di Pastore. Ma il problema si sposta di poco. In realtà (e se ne hanno abbondanti prove nella storia del Calvinismo, del Giansenismo, del Puritanesimo, ecc.) le confessioni riformate sono più rigide e coercitive del cattolicesimo proprio perché, mancando un Potere forte che si assume la «rappresentanza» del gruppo davanti a Dio, e la valvola di sicurezza del «capro espiatorio», ossia di una vittima delegata al posto di tutti, l’ansia del singolo fedele, affidato soltanto a se stesso nei confronti della giustizia divina, aumenta a dismisura.
Dunque, le donne hanno di fronte a sé un problema irrisolvibile, se continuano a muoversi nelle religioni codificate sperando che siano possibili piccoli o grandi aggiustamenti, mirati in forma analogica sulle strutture maschili già esistenti. Dio è anche Madre, oltre che Padre? Sostituire alla grammatica maschile delle Sacre Scritture e della liturgia una corrispondente grammatica femminile? Oppure, inventare una grammatica «neutra»? Il Figlio è anche Figlia? Gesù non aveva sesso? Celebrare la Messa col miele al posto del vino? Tutte ipotesi, queste, già avanzate, con l’entusiasmo e con la spavalda sicurezza tipica del femminismo, da teologhe soprattutto statunitensi. Ma, come è evidente, prive di senso. Giochi da bambine.
È vero che i teologi hanno continuamente rielaborato, sollecitati dai cambiamenti culturali e sociali che si verificano nella storia, le interpretazioni delle Sacre Scritture, con una disinvoltura stupefacente. Ma oggi si è di fronte ad una trasformazione culturale che non può essere paragonata a nessuna di quelle, sia pure grandissime, che si sono già verificate nell’itinerario storico dell’Occidente. Né l’abolizione della schiavitù, né l’invenzione del metodo scientifico, né l’accelerazione tecnologica, né l’instaurarsi della democrazia hanno messo in luce, travolgendole, le radici della fondazione della cultura e dell’assetto sociale. È questo, invece, che sta avvenendo, mano a mano che saltano i punti fermi della collocazione delle donne. Se la prima organizzazione dei gruppi umani, in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo, è avvenuta attraverso 1o scambio matrimoniale (e su questo non ci sono dubbi da parte di nessun studioso, né biologo, né antropologo, né archeologo, né etnologo, né storico); se, come afferma Lévi-Strauss, la società è nata con la «circolazione» delle donne, è questa radice che oggi, almeno in Occidente, anche in base a quel primo seme gettato da Gesù in questa direzione, sta per essere strappata, divelta. Le donne si rifiutano di «circolare». La messa in crisi dello scambio matrimoniale è molto di più che questo: è messa in crisi (come la storia qui appena tracciata dovrebbe dimostrare) del ruolo assegnato alla «femminilità», prima ancora che alle donne. Ed è sulla «femminilità» che si gioca il concetto di vittima.
Si ritorna, perciò, al problema di partenza: è necessaria la vittima per la sopravvivenza di un gruppo? E, se è necessaria, c’è qualcuno che voglia prendere il posto della vittima che le donne stanno per lasciare?
* Cfr. Ida Magli, Storia laica delle donne religiose, Longanesi, Milano 1995, pp. 312-315.
#ACHEGIOCOGIOCHIAMO?! #TRACCE PER UNA #SVOLTA_ANTROPOLOGICA. La sollecitazione di #Michelangelo (1512), #GiovanniValverde (1560), #LuigiCancrini (2005) e #MarioDraghi (2021) a finirla con "il farisaico rispetto della #legge"
#EUROPA #SPAGNA #DUE ANNI DOPO LA MORTE DI #CARLOV nel 1560 in #Italia, a #Roma si pubblica il testo di #Anatomia di #GiovanniValverde: si riconosce il ruolo attivo della donna nella #concezione del problema #comenasconoibambini
#VITAEFILOSOFIA. #COMENASCONOIBAMBINI (#ENZOPACI). Fermare il #giogo, #uscire dall’orizzonte della #tragedia e imparare a #contare
FLS
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E MEMORIA ANTROPOLOGICA.
USCIRE DALL’ORIZZZONTE DELLA BIBLICA "CADUTA" ...
DANTE - 2021 E LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI": RISALIRE LA CORRENTE E RITROVARE I PROPRI "GENITORI". Al di là di Caino, la nuova Eva - Maria e Giuseppe, il nuovo Adamo , e Gesù è figlio dell’ amore [charitas] che move il Sole e le altre stelle (Pd. XXXIII, v. 145).
Federico La Sala
ULISSE/KAFKA E "IL SILENZIO DELLE SIRENE". Una storia di lunga durata...
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Sirene
di Serena Cacchioli *
Per dimostrare che anche mezzi insufficienti, persino puerili, possono procurare la salvezza.
Per difendersi dalle sirene Ulisse si empì le orecchie di cera e si fece incatenare all’albero maestro. Qualcosa di simile avrebbero potuto fare beninteso da sempre tutti i viaggiatori, tranne quelli che le sirene adescavano già da lontano, ma in tutto il mondo si sapeva che ciò era assolutamente inutile. Il canto delle sirene penetrava dappertutto, e la passione dei sedotti avrebbe spezzato altro che catene e alberi maestri! Ma non a questo pensò Ulisse, benché forse ne avesse sentito parlare. Aveva piena fiducia in quella manciata di cera e nei nodi delle catene e, con gioia innocente per quei suoi mezzucci, navigò incontro alle sirene.
Sennonché le sirene possiedono un’arma ancora più temibile del canto, cioè il loro silenzio. Non è avvenuto, no, ma si potrebbe pensare che qualcuno si sia salvato dal loro canto, ma non certo dal loro silenzio. Nessun mortale può resistere al sentimento di averle sconfitte con la propria forza e al travolgente orgoglio che ne deriva.
Di fatto all’arrivo di Ulisse le potenti cantatrici non cantarono, sia credendo che tanto avversario si potesse sopraffare solo col silenzio, sia dimenticando affatto di cantare alla vista della beatitudine che spirava il viso di Ulisse, il quale non pensava ad altro che a cera e catene.
Egli invece, diremo così, non udì il loro silenzio, credette che cantassero e immaginò che lui solo fosse preservato dall’udirle. Di sfuggita le vide girare il collo, respirare profondamente, notò i loro occhi pieni di lacrime, le labbra socchiuse, e reputò che tutto ciò facesse parte delle melodie che, non udite, si perdevano intorno a lui. Ma tutto ciò sfiorò soltanto il suo sguardo fisso alla lontananza, le sirene scomparvero, per così dire, di fronte alla sua risolutezza, e proprio quando era loro più vicino, egli non sapeva più nulla di loro.
Esse invece, più belle che mai, si stirarono, si girarono, esposero al vento i terrificanti capelli sciolti e allargarono gli artigli sopra le rocce. Non avevano più voglia di sedurre, volevano soltanto ghermire il più a lungo possibile lo splendore riflesso dagli occhi di Ulisse.
Se le sirene fossero esseri coscienti, quella volta sarebbero rimaste annientate. Sopravvissero invece, e avvenne soltanto che Ulisse potesse scampare.
La tradizione però aggiunge qui ancora un’appendice. Ulisse, dicono, era così ricco di astuzie, era una tale volpe che nemmeno il Fato poteva penetrare il suo cuore. Può darsi - benché non riesca comprensibile alla mente umana - che realmente si sia accorto che le sirene tacevano e in certo qual modo abbia soltanto opposto come uno scudo a loro e agli dèi la sopra descritta finzione.
* Nazione Indiana, 04.10.2020 (ripresa parziale, senza immagine - c.vo, fls).
Materiali sul tema, nel sito, si cfr.:
MELUSINA: RITROVAMENTO DI SIRENE (E SIBILLE) NELLA CITTÀ DI CONTURSI TERME (SALERNO). Un’occasione per ripensare tali figure della tradizione culturale europea
Federico La Sala
IL "METAROMANZO" DI MARIO PERNIOLA. Un tentativo di uscire dalla caverna, e dalle trame millenarie del "romanzo familiare" di Giocasta ed Edipo... *
L’indovino lacrimante alla ricerca di sé
«Tiresia», il primo e ultimo romanzo di Mario Perniola. Narrazione filosofica sull’identità, uscì nel 1968. Ora riedito da Mimesis
di Fabrizio Scrivano (il manifesto, 27.03.2020)
In una breve divagazione risalente ai primissimi anni Quaranta del Novecento, Emil Cioran scrisse a proposito degli esseri umani che «niente li addolorerebbe peggio che ritrovarsi,sopra il mucchio dei loro piacevoli inganni, di fronte alla pura esistenza». Questa frase, che è insieme un giudizio, una sfida e una prospettiva di studio, non starebbe malissimo, se non in epigrafe, almeno a lato del primo e ultimo romanzo di Mario Perniola, Tiresia (Mimesis, pp.110, euro 12), che il filosofo e teorico dell’arte contemporanea già rinnegava pubblicandolo nel 1968, in quanto «effettivo superamento della mia precedente attività di critico letterario, concentratasi nel libro Il Metaromanzo (edito nel 1966)».
IN EFFETTI, narrazione filosofica sull’identità, sull’essere e sul divenire, Tiresia era pensato escritto come la messa in pratica di una teoria del racconto, e come tale metaromanzo, ma anche voluto da Perniola, in quel tratto di vita, come ultimo gesto prima di divenire altro.
Qualche anno prima di morire,cinquant’anni dopo averlo scritto, Perniola aveva pensato di ripubblicarlo, scrivendo, quale nuova premessa, una severa recensione di sé e dell’opera, che tuttavia riabilitava come strumento di una ricognizione autobiografica.
Il primo degli indovini lacrimanti che Dante nel XX Canto dell’Inferno vide camminare in processione con il volto ritorto rispetto al busto, tanto da far scorrere le lacrime nel solco intergluteo, fu proprio Tiresia, colui «che mutò sembiante / quando di maschio femmina divenne / cangiandosi le membra tutte quante».
NELLA NARRAZIONE mitologica,quello di Tiresia è un tipico caso non risolto cui è comunque assegnata una pena senza fine. Diventato donna per aver toccato col bastone una serpentessa nel momento dell’accoppiamento, dopo sette anni di sessualità femminea decide di reinvertire la sua identità. Non ermafrodita né transessuale né omosessuale ma pienamente l’uno e l’altro sesso in tempi diversi. Per aver incautamente svelato(ma, in altre narrazioni, anche solo per aver conosciuto) i segreti dell’essere donna, viene punito da Era con la cecità e poi ricompensato da Zeus con la chiaroveggenza. Ed è per questo ultimo premio che si trova all’inferno. Diciamo che è un’identità che non sa mai cosa possa condannarlo o premiarlo, e che per questo è costretto ad affidarsi a una trasformazione continua.
PERNIOLA fu molto visionario nell’intercettare questo soggetto, che poteva rappresentare un certo modo di essere senza essere. In particolare qui prende il nome e l’immagine del borghese, inteso come colui che non milita, che non combatte (né può farlo essendo per definizione senza essere alcuno ed essendo anche inconsapevole di questa sua inesistenza) per
affermare contemporaneamente sé e la negazione di sé.
Ma per procedere a questa acquisizione dell’essere e della coscienza di essere, è necessario mutare completamente il corpo, negare la propria identità per poterla riaffermare in quanto
negazione della trasformazione. Così Tiresia, che non ha nulla da rappresentare ma ha il solo obbligo di essere qualcosa, sí manifesta a sé e all’altro da sé con una sola frase tanto rassicurante quanto paradossale: di aver fatto quelle cose solo con te, e per la prima volta. Poteva forse esserci memoria di un dramma teatrale di Guillaume Apollinaire, Les Mamelles de Tirésìas (1916), che recla-mava il piacere del cambiamento consapevole, ma rimane poco e niente di surrealista nel racconto che le diverse identità di Tiresia mettono in fila, che ora parla con lei o di lei, come estranea a sé, ora parla di sé come la lei che non è più o non è ancora.
Uno sdoppiamento sessuale che ricorda assai di più Carlo, il protagonista dell’incompiuto romanzo di Pier Paolo Pasolini, noto a noi tutti con il titolo di Petrolio (scritto dal 1972 e pubblicato postumo nel 1992), che prima si sdoppia tra un modello urbano, Carlo di Polis, e un modello silvestre, Carlo di Tetis, interpretando cioè i due poli dell’accomodamento e della metamorfosi, dell’ubbidienza e del rifiuto, ma che poi si accorge di essere diventato donna, cioè qualcuno di completamente diverso da sé (cangiate tutte quante le membra) e capace perciò di esperienze tutte diverse. «E un romanzo, ma non è scritto come sono scritti i romanzi veri», scriveva Pasolini ad Alberto Moravia: «Ho reso il romanzo oggetto non solo per il lettore ma anche per me: ho messo tale oggetto tra il lettore e me, e ne ho discusso insieme (come si può fare da soli, scrivendo)». Un proposito che sa di metaromanzo anch’esso.
PERNIOLA VOLLE allontanarsi subito da quel modo di dire e ragionare, che percepiva egli stesso come troppo violento (però in realtà umoristico e qualche volta comico). Ma non dal problema che Tiresia poneva: «La femmina è tanto diversa dall’eroe che quando dice una cosa intende esattamente il contrario di ciò che dice; perciò non è vero che menta, lei in realtà non mi mente mai, parla soltanto una lingua che non conoscevo». Che, tentando di non leggere al rovescio questa frase, più o meno significa che conoscere è sorpassare l’inibizione di non riconoscere.
IDENTIFICARSI CON CRISTO PER SUPERARE EDIPO. "Frammento inedito" (1931) di Sigmund Freud
DAL DISAGIO ALLA CRISI DELLA CIVILTA’: FINE DEL "ROMANZO FAMILIARE" EDIPICO DELLA CULTURA CATTOLICO-ROMANA.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica -
L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944) ?!
Federico La Sala
Le note spirituali della Civiltà Cattolica
“L’amore delle donne accompagna la passione di Gesù”.
di p. Giancarlo Pani S.I., vicedirettore de "La Civiltà Cattolica" *
Il Vangelo di Matteo presenta il racconto della passione di Gesù incorniciato tra due episodi che hanno come protagoniste alcune donne. La prima è una donna di Betania, che unge il capo di Gesù con un prezioso olio di nardo (Mt 26,6-13), le altre sono Maria di Magdala e le donne sul Calvario quando Gesù muore (27,55s) e, dopo il sabato, si recano al sepolcro alla prima luce dell’alba (28,1). Sono figure che illuminano il mistero.
Mancavano due giorni alla Pasqua. «Mentre Gesù si trovava a Betània, in casa di Simone il lebbroso, gli si avvicinò una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo molto prezioso, e glielo versò sul capo mentre egli stava a tavola» (Mt 26,6s). È un momento di convivialità con la presenza del Signore.
Ad un certo punto compare una donna: chi sia, non si sa, non ha nome e non dice nemmeno una parola. Compie solo un gesto. Nella sala si spande la fragranza del profumo che suscita sdegno e proteste. Perché questo spreco? Si poteva venderlo per molto denaro e darlo ai poveri!
La donna tace, e Gesù afferma: «Perché infastidite questa donna? Ha compiuto un’azione buona verso di me. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me. Versando questo profumo sul mio corpo, lei lo ha fatto in vista della mia sepoltura» (vv.10-13). La donna - rivela Gesù - ha preparato il suo corpo per la morte.
Quello che gli apostoli non riescono a comprendere e che Gesù aveva detto più volte, lo ha compreso una donna: i capi dei sacerdoti e gli scribi volevano ucciderlo. In ogni caso, lei è l’unica ad aver capito che la vita di Gesù ha un esito preciso, la morte, e la morte viene perché Gesù ha donato la vita, perché si è fatto tutto a tutti. La donna lo ha veduto, lo ha ascoltato, custodisce le sue parole nel cuore, lo ha amato; e ora vuole essergli vicino con gratitudine. Risponde con amore all’amore di Gesù. Quel profumo è il suo dono, è tutto quello che ha, è tutta la sua vita. Perciò glielo versa fino in fondo, fino all’eccesso, che è la misura dell’amore che si dona senza misura.
La donna ha fatto un’azione buona, dice Gesù; in greco, alla lettera, «un’opera bella». È la bellezza di chi ama e che non bada a nulla per la persona amata. Lei ha compreso che la morte a cui Gesù va incontro è il frutto di un’intera vita donata ai fratelli. E lei, nella sua piccolezza, nella sua povertà, ha voluto esprimerlo con il suo gesto di amore. E Gesù lo accoglie, perché sa accogliere l’amore che gli diamo, che sia poco o tanto. Per lui non conta quello che si dona, ma il cuore con cui lo si dona.
Qui è una donna che dona e la donna sa bene che cosa comporta dare al mondo una vita; lei sa che dando la vita rischia di perdere la propria. Ma è il dono di un amore totale, che non teme il dolore, la sofferenza, la morte. È la profezia di quanto Gesù sta per vivere fino alla croce. La fragranza di quel profumo accompagnerà il Signore nella passione, nella morte, nella resurrezione. È un annuncio di vita e di gioia: è il profumo di Dio, il profumo del Vangelo. «Dovunque sarà annunciato questo Vangelo, nel mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche ciò che lei ha fatto» (v. 13).
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Sul Calvario, quando Gesù muore, ci sono le donne che lo accompagnano. Sono lì, nel dolore e nel pianto per il Signore che le ha amate e che loro hanno amato. Una presenza e un amore che sono un segno anche per noi. Quando la vita spesa per gli altri ci porta al calvario e alla croce, spesso la luce della risurrezione è talmente lontana da perdere ogni forza confortatrice. La sofferenza può essere così amara e così totalizzante da spingerci in una situazione di disperata solitudine, di fallimento senza rimedio: la forza del Vangelo per il quale abbiamo tentato di vivere ci si vanifica in mano.
Ai piedi della croce - nel Vangelo di Matteo - i discepoli non ci sono. Ai loro occhi Gesù che muore è il segno della fine di tutto, di una speranza delusa, di un drammatico fallimento. Singolare è allora la figura delle donne sotto la croce. Non è pensabile che ai loro occhi potessero esserci prospettive diverse. Anche per loro Gesù muore, anche per loro il domani è nelle tenebre. Ma c’è un amore più forte che, nel buio, le tiene ai piedi della croce: ed è a questo amore semplice ma pieno, piccolo ma autentico, che per primo si rivela la resurrezione di Gesù.
L’amore delle donne è una strada anche per noi: tante volte ci troviamo nel buio, nello sradicamento totale, nell’assurdo, nel silenzio di Dio. Ma come le donne sono rimaste ai piedi di Gesù che muore, così la nostra preghiera insistente e il nostro silenzio fedele di fronte a un Dio che sembra non rispondere, ha in sé il germe di una speranza: anche a noi, come alle donne, si manifesterà la gloria del Signore che risorge.
* La Civiltà Cattolica,·Domenica 5 aprile 2020]
Sul tema, nel sito, si cfr.:
UOMINI E DONNE, PROFETI E SIBILLE, OGGI : STORIA DELLE IDEE E DELLE IMMAGINI.
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI : LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
FLS
SAN CRISTOFORO E CORONAVIRUS:
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UN CAMBIAMENTO DI ROTTA FONDAMENTALE, UNA METANOIA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA URGENTE, PER QUANTI PRETENDONO DI ESSERE "PORTATORI DI CRISTO" DA UNA RIVA ALL’ALTRA DEL FIUME DEL TEMPO... *
Caro don Santino Bove Balestra
Vista la tensione e la passione personali che animano la sua Lettera "a san Cristofaro al tempo del Coronavirus" e, al contempo,sollecitato dalle sue stesse associazioni collegate a questa figura di gigante buono («Ti hanno fatto - forse un po’ abusivamente - diventare il patrono degli automobilisti (dopo essere stato più propriamente il protettore dei facchini) : oggi dovresti ispirare chi dall’automobile passa alla bicicletta, al treno o all’uso dei propri piedi!»), il discorso fatto appare essere una forma implicita di autocritica "istituzionale" (cioè, da parte dell’intera Istituzione Chiesa paolina-costantiniana) della propria capacità di "portare Cristo" in giro, di qua e di là, avanti e indietro - e, della totale e più generale cecità antropologica e pedagogica, nei confronti del "Bambino" (che ognuno e ognuna di noi, tutti e tutte, è)!
SE, OGGI, AL TEMPO DEL CORONAVIRUS, VALE l’esortazione “Restiamo tutti a casa!”, altrettanto sicuramente, domani, vale la consapevolezza che “Nulla sarà più come prima!” e, ancor di più, se vogliamo veramente cambiare rotta, che la “conversione eco-logica” (la ristrutturazione della nostra stessa "casa" !) è già "oggi necessaria", ora e subito ! Non c’è alcun tempo da perdere.
Portar-si il "bambino" sulle proprie spalle, « suprema fatica e suprema gioia », è impresa ancora tutta da tentare - e non ha nulla a che fare con il "sacrificio" e con la "messa in croce" di alcun "Bambino" ! O no?! *Federico La Sala
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ARCHEOLOGIA E ARCHITETTURA. NOTE PER LA RISTRUTTURAZIONE DELLA “CASA” *
Caro don Santino Bove Balestra
SICCOME LA SUA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SULLA FIGURA di “san Cristofaro al tempo del Coronavirus” appare essere carica di molte implicazioni e degna di grande attenzione per la nostra e generale “salute”, credo che sia opportuno non lasciar cadere l’occasione e La sollecito a meditare anche sulla differenza di significato che corre tra la parola “Cristo-foro” e la parola “Cristo-faro” (una variazione “parlata”, più che un refuso): in gioco c’è la comprensione stessa di cosa significa “portare Cristo” e come “seguire Cristo”!
Cristoforo è “Cristo-foro”, perché porta sulle spalle il Bambino, la “luce del mondo”(Gv. 8,12) e non va più in giro a spegnere “luci” o “fari”, e a “mettere in croce” bambini, uomini, donne: egli stesso (da Cristoforo) è diventato un “Cristo-faro”: «Non è forse scritto nella vostra Legge: “Io ho detto: voi siete dèi”[...]?» (Gv.10,34). Non è forse questa la “conversione eco-logica” da farsi: diventare “fari”?!
E come è possibile questa ristrutturazione della “casa” di tutti gli esseri umani, se continuiamo a negare anche al “cristoforico” Giuseppe la sua stessa “paternità” (cfr., mi sia consentito, “DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...). Di quale “casa” e di quale “chiesa” si sta parlando?!Boh?! O no?!
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L’ORAZIONE SULLA DIGNITA’ DELL’UOMO - A UNA DIMENSIONE.
Da Giovanni Pico della Mirandola* a Herbert Marcuse** e ...
CARO ARMANDO, PER IMPARARE "a vivere meglio senza lasciarci condizionare dalla paura della morte, cioè dalla religione, qualunque essa sia", CREDO CHE SIA NECESSARIO riconsiderare il problema di "come nascono i bambini" (a tutti i livelli)! Hai ragione: "Non possiamo permetterci, con le Sibille, Maria Vergine, Cristo come dio, Maometto ed altre favolette l’illusione di un altro Messia"! Ci siamo addormentati nella tradizione cattolico-costantiniana e illuministica acritica (contro Kant), e abbiamo finito per "concepire" noi stessi e noi stesse secondo la bio-logia e l’andro-logia “unidimensionale” dell’omuncolo!
L’«ECCE HOMO» di Ponzio Pilato, al contrario!, ci dice proprio questo - la fine delle "favolette" e di ogni "illusione di un altro Messia". Il discorso è di diritto e di fatto, romanamente universale, vale a dire, antropologico (non limitato all’«omuncolo» di qualche "uomo supremo" o “superuomo”!):
SE SIAMO ANCORA CAPACI DI LEGGERE, COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA LEZIONE DI PONZIO PILATO?! Non è una lezione critica contro i "sovranisti" laici e religiosi di ieri e di oggi?!
Che vogliamo fare? Continuare a riportare noi stessi e noi stesse davanti a Pilato e ripetere da scemi e da sceme la stessa scena, riascoltare il suo "Ecce Homo" e non capire una "H" (acca)?!
P.S. - RICORDANDO ... GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA.
L’anima e la cetra /2.
La mano che abbassa il ponte
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 4 aprile 2020)
«Perché le genti sono in tumulto e i popoli cospirano invano?». Con questa domanda inizia il Salmo 2. Una domanda tremenda che i profeti e i sapienti ripetono da millenni: perché nonostante la vocazione alla pace e al benessere iscritta nel cuore di ogni persona e delle comunità, gli uomini continuano a esercitarsi nell’arte della guerra, a seminare e coltivare discordia e inimicizia? Le civiltà restano vive finché non si stancano di ripetere questa domanda.
Siamo trasportati dal salmo dentro un ambiente di ribellione, in una congiura di popoli nei confronti di un re - «Spezziamo le catene, gettiamo via da noi il giogo» (2,2). Questo re non è un sovrano qualunque: «E i prìncipi congiurano insieme contro il Signore e il suo unto» (2). Il protagonista del salmo è il Messia, l’unto di YHWH, mistero e anelito di tutta la Bibbia. Il salmo dice che i popoli cospirano «invano», e che di queste congiure «ride Colui che sta nei cieli, il Signore si fa beffe di loro» (4). È molto probabile che il Salmo 2 sia stato scritto dopo l’Esilio, quando la monarchia in Israele non c’era più e il popolo aveva sperimentato la distruzione, la sconfitta, la deportazione. Aveva sentito sulla propria pelle la forza tremenda delle trame di potere e di conquista dei popoli, e lì aveva capito che la verità del loro Dio non coincideva con la vittoria sui nemici. L’esilio fu infatti il grande tempo in cui gli ebrei impararono che un Dio sconfitto può restare un Dio vero.
Perché allora quell’«invano»? Nonostante l’esperienza della sconfitta e della violenza che prevale sulla pace, la Bibbia qui e altrove annuncia l’avvento di un Messia, e quindi di un tempo nuovo finalmente diverso, giusto e buono. Più la realtà si allontana dal tempo messianico, più occorre annunciarlo. Credere e affermare una verità quando la storia e il presente dicono tutt’altro: è questo il vero ruolo della grande spiritualità, che è sempre incarnata, che parla della nostra vita soprattutto nei tempi nei quali l’evidenza dice l’opposto delle sue parole. È negli esili che si fanno i sogni più grandi.
L’attesa del Messia è un’anima profonda dell’intera Bibbia. La troviamo nei profeti, nei libri storici, e ora nei salmi. È una forma concreta che assume in essa la speranza. Questa attesa ha tenuto vivo il futuro e lo ha custodito come giudizio sul presente e come possibilità di liberazione.
Se si perde la dimensione messianica della storia, la vita individuale e sociale accorcia il suo orizzonte, si schiaccia tutta sul presente, si spegne la gioia e si abbuia la libertà. Ci riempiamo di piccole attese perché abbiamo ucciso quella più grande. Il capitalismo ha racchiuso il Messia nella merce (come aveva capito Marx), e così lo ha cancellato. Il messianesimo biblico è l’anno giubilare della storia, quel tempo diverso che diventa criterio morale per giudicare le prassi di tutti gli altri tempi. Il Messia resta tale finché non è ancora venuto. È il sovrano del non-ancora, il suo tempo è l’ideale che misura il tempo reale, un ideale che è profezia della storia. C’è un rapporto profondo tra profezia e messianesimo: entrambi sono dentro e fuori la storia, reale e ideale, già e non ancora. E quando si perde questa tensione vitale e paradossale, il messianesimo si identifica in questo o in quel leader politico e la profezia diventa profezia di corte - sta anche qui il senso di quell’anima critica nei confronti della monarchia che è ben presente e operante nei libri storici della Bibbia.
Per usare le parole di Jacob Taubes, il messianesimo biblico ci ricorda che «il ponte levatoio si trova sull’altra sponda ed è dall’altra sponda che devono comunicarci che siamo liberi». Ci dice quindi che se esiste una dimensione fondamentale della libertà che è auto-liberazione, in altre sue dimensioni decisive la libertà è invece liberazione per mano di qualcuno che abbassa per noi il ponte levatoio. La Bibbia ha custodito nei secoli questa dimensione della libertà come liberazione, l’ha scritta come suo primo comandamento, e così ci ha protetti dall’auto-inganno frequentissimo di immaginare libertà senza avvertire più il bisogno di una voce diversa dalla nostra che ci chiama e ci salva. Sta qui uno dei sensi di quella che chiamiamo salvezza. Grazie a questa attesa tenace del Messia, nella Bibbia il futuro non diventò «un tempo omogeneo e vuoto: perché ogni secondo era la porta da cui poteva passare il Messia» (Walter Benjamin).
Un errore grave e frequente dei cristiani è allora pensare che l’attesa del Messia sia finita con la venuta di Cristo, dimenticando che egli deve venire ogni giorno e deve ritornare. La liturgia è il grande luogo dove ciò che è stato si incontra con ciò che è e che sarà: in ogni Sabato Santo preghiamo che il sepolcro torni ancora vuoto e ogni resurrezione accade oggi. Nella Bibbia ricordare è verbo al futuro.
Molto noto e forte è il versetto 7 del Salmo: «Voglio annunciare il decreto del Signore. Egli mi ha detto: "Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato"». Una frase splendida, molto amata anche nel Nuovo Testamento e nel cristianesimo, dove la categoria di "Figlio di Dio" è divenuta un pilastro teologico. In questo salmo (e altrove nella Bibbia ebraica) scopriamo, tra l’altro, che chiamare Dio con l’appellativo di Padre e concepire la condizione umana come figliolanza non è una invenzione del cristianesimo ma eredità biblica.
Ma è quell’oggi che ci conquista - «oggi ti ho generato». Qui non c’è solo, forse, un’antica traccia di un canto composto per la consacrazione di un nuovo re in Israele; in questo "oggi" ci possiamo leggere anche qualcosa di diverso e di più. C’è il paradigma di ogni vocazione spirituale, che è una figliolanza che si manifesta dentro un primo oggi che si ripete in tutti gli oggi dell’esistenza, perché una vocazione è viva solo nel presente, e in questo presente continuo si incontra l’eternità.
Ogni paternità e ogni maternità umana è poi una generazione declinata al presente. È ripetere per tutta la vita: «Oggi ti ho generato» - «Ma ora che sei morta, o madre, io so le volte che mi hai generato. In silenzio, non vista d’alcuno» (David Maria Turoldo). Ogni generazione è ri-generazione, e ciò che è vivo se non si rigenera degenera. La paternità-maternità ci dice, simbolicamente (quindi realmente), che siamo vivi e capaci di generare perché oggi siamo rigenerati. Il giorno che tutti smetteranno di generarci inizieremo a morire. Per la Bibbia il principio, l’origine di questa generazione-rigenerazione sempre attuale è Dio, che quindi diventa il garante di quella mutua generazione che scandisce il ritmo della vita. Fino alla fine, quando nell’ultimo oggi ci sorprenderemo di vedere scendere il ponte levatoio e passeremo, indenni, sopra i coccodrilli.
Dopo aver udito pronunciare la promessa del Messia-figlio, eccoci precipitati in un altro paesaggio ampio e profondo: «Chiedimi e ti darò in eredità le genti e in possesso i confini della terra» (8). Questo «chiedimi» ricorda l’invito rivolto da Dio a Salomone nell’oggi della sua chiamata: «Chiedimi ciò che vuoi» (1 Re 3,4). Salomone chiese la cosa più bella («Un cuore che sa ascoltare»: 9). Non sappiamo invece cosa chiese quel re dell’antico salmo; sappiamo però la promessa ivi contenuta, che se è diventata salmo allora, è promessa universale: le genti e la terra sono anche nostra eredità e nostro possesso. Sono l’eredità e il possesso di chi prega i salmi, che oggi, mentre li canta si deve riscoprire erede di tutte le genti e possessore dell’intera terra. Nell’umanesimo biblico, però, tutta la terra è di YHWH, e gli uomini sono soltanto utilizzatori e amministratori (economi). E dunque ogni proprietà è seconda e ogni possesso è imperfetto. La promessa è vera perché è imperfetta, o perché la completezza sta nella sua incompletezza.
Ogni figlio è erede, e quindi i figli di Dio sono eredi di tutto il cielo e di tutta la terra. Lo abbiamo intuito, e ci siamo sentiti eredi. Ma ci siamo dimenticati dell’incompiutezza, siamo diventati padroni della terra, l’abbiamo profanata, siamo diventati, molte volte, mercenari.
Dentro la stessa tradizione e promessa, un giorno Gesù di Nazareth ci disse qualcos’altro di nuovo e di importante su questa speciale eredità: «Beati i miti, perché erediteranno la terra». La mitezza è anche il riconoscimento dell’incompiutezza e della provvisorietà dell’esistenza e dei nostri possessi. Il mite abita il mondo senza diventarne predatore, possiede senza concupiscenza, usa i beni con castità. Il mite è custode della terra e del fratello. È l’anti-Caino. Solo una custodia mite può amministrare l’eredità della terra e far sì che i figli siano eredi di un patrimonio non sperperato.
La mitezza è virtù delle mani - mansueto, cioè "abituato alla mano", docile alla mano del pastore, come sa fare l’agnello. La custodia mite non è stata quella della nostra generazione. Ma oggi ci siamo improvvisamente ritrovati dentro una inondazione di mitezza, in un oceano di mansuetudine. Questo tempo tremendo sta diventando il tempo dei miti. Quello di chi sa restare a casa, di chi sa stare, docile, sotto le mani di medici e infermieri. Stiamo vedendo molte mani abbassare ponti su sponde che prima sembravano irraggiungibili.
«E ora siate saggi, o sovrani; lasciatevi correggere, o giudici della terra; servite il Signore con timore e rallegratevi con tremore» (Salmo 2,10-12). Le ultime parole del salmo ci donano una nuova beatitudine per questo tempo: «Beato chi in lui si rifugia».
L’IMITAZIONE, L’EMULAZIONE, E IL PARADOSSO DELLA RIPETIZIONE “ORIGINALE” ... *
“La mimesi è l’atto di riprodurre il modello secondo le regole. L’emulazione è la spinta dell’anima mossa all’ammirazione” (Dionigi di Alicarnasso, “Sull’imitazione”).
IMITAZIONE E INDIVIDUAZIONE. “Se in campo filosofico il peccato originale dell’imitazione è consistito nella minaccia portata all’idolo del libero arbitrio ovvero all’ego del cogito cartesiano, altrettanto sacrilego risultò in ambito psicoanalitico l’attentato ai fondamenti pulsionali della psiche. Nel pensiero freudiano l’imitazione era confinata alla fase infantile o altrimenti alla psicologia delle masse, mentre nella psicologia analitica di Carl Gustav Jung tale facoltà si trovava a contrastare il fine ultimo di ogni esistenza umana, ovvero l’individuazione: “L’uomo ha una facoltà che per gli intenti collettivi è utilissima, e dannosissima per l’individuazione, quella di imitare”. Nella dichiarazione di Jung risulta comunque superata una concezione volta a relegare l’imitazione ai primi stadi dello sviluppo psichico e, ad onore del vero, lo stesso Freud aveva intuito già nel 1895, in Progetto di una psicologia, il valore imitativo delle percezioni sensoriali sussistere ben oltre l’infanzia. A questa intuizione ancorava le proprie ricerche, a metà degli anni Sessanta, il già citato Eugenio Gaddini grazie al quale è stato infine possibile riconoscere nell’imitazione una struttura permanente, una forma relazionale stabile [..]”. BIOLOGIA E ANTROPOLOGIA. Le radici stanno nel fatto - come scrive Aristotele nella “Poetica”, capitolo secondo - che “coloro che imitano imitano persone che agiscono” e - come “Vittorio Gallese, membro del team parmense cui si deve la scoperta dei neuroni specchio, ha avuto modo di ribadire” - che “il meccanismo funzionale alla base di un modello dell’intersoggettività neuroscientificamente fondato consiste nella “simulazione incarnata” (embodied simulation): “Prima e al di sotto della lettura metarappresentazionale della mente si trova l’intercorporeità - la mutua risonanza di comportamenti sensoriali e motori significativi dal punto di vista intenzionale”.
“COME NASCONO I BAMBINI”. SE è VERO, COME è VERO CHE “Al di là delle formidabili oscillazioni del concetto di imitazione e delle sue varianti terminologiche nel corso di secoli di elaborazione dapprima filosofica, poi specificamente estetica e infine teorico letteraria, le teorie della mimesi paiono dispiegare, oltre ad una coerenza non sempre evidente ma di lungo periodo, una spiccata propensione ad oltrepassare i confini disciplinari”, PER NON PERDERSI NEL LABIRINTO delle infinite ramificazioni è bene riprendere il filo delle varie teorie dalla stessa dimensione biologica e antropologica della vita umano-sociale: la NASCITA!
* Sul tema, mi sia consentito, si cfr.:
QUESTIONE ANTROPOLOGICA. E’ lecito e ancora possibile affermare una verità universale sul genere umano? “J’accuse” di René Girard. L’incomprensione della lezione di Freud (Marx e Nietzsche) lo spinge ad un’apologia del cattolicesimo costantiniano
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica.
“CHI” SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE. CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A “UNA” DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
IL PRIMOGENITO TRA MOLTI FRATELLI E LA COSTITUZIONE DOGMATICA DELL’IMPERO SU CUI NON TRAMONTA MAI IL SOLE...*
1. La gioia della verità (Veritatis gaudium) esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio[1]. La verità, infatti, non è un’idea astratta, ma è Gesù, il Verbo di Dio in cui è la Vita che è la Luce degli uomini (cfr. Gv 1,4), il Figlio di Dio che è insieme il Figlio dell’uomo. Egli soltanto, «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, rivela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»[2].
Nell’incontro con Lui, il Vivente (cfr Ap 1,18) e il Primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), il cuore dell’uomo sperimenta già sin d’ora, nel chiaroscuro della storia, la luce e la festa senza più tramonto dell’unione con Dio e dell’unità coi fratelli e le sorelle nella casa comune del creato di cui godrà senza fine nella piena comunione con Dio. Nella preghiera di Gesù al Padre: «perché tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi» (Gv 17,21) è racchiuso il segreto della gioia che Gesù ci vuole comunicare in pienezza (cfr 15,11) da parte del Padre col dono dello Spirito Santo: Spirito di verità e di amore, di libertà, di giustizia e di unità. [:::] "(Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» di Papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche, 29.01.2018. Proemio)
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!! *
Giornata della Memoria.
Hitler, radiografia del Male
A Carpi la mostra "Der körper" di Fresu parte da studi clinici sul Führer e apre a molte domande sul perdono, sull’inganno delle dittature e la vigliaccheria del male. L’analisi del teologo Dossetti
di Giuseppe Dossetti jr. (Avvenire, sabato 26 gennaio 2019)
Di fronte al materiale offerto dalla mostra, si è costretti a cercar di capire i propri sentimenti. Il mio, è duplice. Anzitutto, mi colpisce lo spogliamento radicale di quest’uomo, privato non solo dei suoi vestiti, così importanti per lui, per costruire la propria immagine, ma privato anche della sua epidermide, ’cosificato’. Mi vengono in mente analoghe radiografie di vittime dello sterminio, che ho visto a Mauthausen: l’uomo denudato, violato nella sua intimità, trafitto dal raggio come la farfalla dallo spillone. Nell’ultima stanza della mostra, si cerca di restituire vita a quel corpo, ricostruendo i battiti del suo cuore.
È come se si dicesse che Hitler continua a vivere o, meglio, continua a vivere il male che ha trovato in lui così terribile manifestazione. Viene in mente l’ultima pagina del romanzo di Camus: il batterio della peste è nascosto negli anfratti della città, per ricomparire a suo tempo. Tuttavia, questa interpretazione seducente non mi tocca, quanto invece la sorte individuale di quest’uomo.
La mostra potrebbe essere interpretata come una vendetta, la riduzione a numeri e parametri dell’uomo, che aveva voluto questo per i suoi simili. Egli volle che il suo corpo fosse bruciato, proprio per evitare di essere consegnato alle mani di chi avrebbe potuto rivalersi sulle sue spoglie.
È noto il suo orrore di fronte alla notizia che Mussolini era stato impiccato per i piedi a Piazzale Loreto. Ebbene, l’operazione di cancellare l’ultima traccia di sé non gli è riuscita completamente: un frammento importante, l’impronta del suo corpo è caduta nelle nostre mani.
Forse, Antonello Fresu ha voluto gettare nelle nostre mani questo materiale, frammentario e incompleto fin che si vuole, ma sufficiente per porci la domanda: «Adesso che hai nelle mani il corpo di Hitler, che cosa ne intendi fare? ». Infatti, non ci si può sottrarre alla richiesta di prendere posizione. È addirittura possibile che ci sentiamo ancor più coinvolti: «Che cosa avrei fatto io, che cosa farei, se avessi la totale disponibilità del corpo di quest’uomo, del suo cadavere, oppure, ancora di più, di lui ridotto a scheletro vivente, non per una radiografia, ma per la fame, per la violenza, per la spoliazione di ogni dignità?».
La mia personale reazione si condensa in una domanda, che mi ha colpito, appena ho avuto notizia di questa iniziativa: Questo corpo risorgerà? La fede nella “risurrezione della carne” è uno dei dogmi del credo cristiano. Non è molto considerato e talvolta viene dimenticato per pudore, quasi fosse un residuo mitologico. In realtà, si tratta di qualcosa che ha origine dal centro stesso della fede cristiana. Il corpo non è, cartesianamente, la macchina mossa dall’anima, a lei collegata tramite la ghiandola pineale.
Noi siamo un corpo. È la materia che ci individua. Noi siamo quello che siamo perché viviamo in un tempo e in un luogo; le nostre esperienze, vissute tramite il corpo, determinano la costituzione del nostro io. Soprattutto, il corpo è il veicolo della relazione con l’altro.
Cartesio, proprio per il legame così lasco tra anima e corpo, pone la felicità massima nella contemplazione del proprio io pensante. Ma l’uomo d’oggi vede in questo solitudine e infelicità, perché aspira all’incontro con un tu che gli stia a fronte. La persona si costituisce tramite la sua storia, e la propria storia l’uomo la vive nel corpo. Il cristiano crede nell’Incarnazione del Figlio di Dio: «Il Verbo si è fatto carne», dice il prologo del Vangelo di Giovanni. L’incontro con il Cristo avviene mediante il sacramento del Corpo, l’Eucaristia.
Tutto questo dà un valore assoluto al singolo uomo: ogni uomo è il soggetto al quale si rivolge l’iniziativa divina, ogni uomo è chiamato, come un Tu assolutamente singolare, a dare una risposta assolutamente singolare. La morte non può distruggere questa relazione. Anzi, Gesù ci dà l’esempio della morte come atto supremo di comunione, col Padre e con i suoi fratelli.
Dunque, senza un corpo, la comunione è incompleta o, addirittura, non esiste. Per questa ragione, Dio vuole la risurrezione della carne: la vuole, perché vuole la comunione con l’uomo.
Ora, la domanda è proprio questa: può Dio volere la comunione con Hitler? Se rispondiamo di sì, allora i frammenti che contempliamo in questa mostra sono cosa sacra. Ma il nostro spirito si ribella. Si ribella anche alla formula della “banalità del male”. Di fronte ai campi di sterminio, siamo piuttosto portati a pensare a un male straordinario, eccezionale. Eccezionale vuol dire anche altro da noi, mentre la banalità suggerisce che anche noi saremmo potuti giungere a tali abissi. Condannare Hitler all’inferno, in qualche modo ci rassicura, perché crea una demarcazione tra noi e lui. Siamo noi, però, autorizzati a pronunziare questa sentenza? D’altra parte, coloro che hanno così terribilmente sofferto, non hanno forse il diritto di chiedere al Giudice le sue motivazioni? Certo, potremmo invocare la pietà. Ma sarebbe una pietà a buon mercato, un ’perdonismo’ facilone e ingiusto.
Tuttavia, la domanda va posta, anche perché altri “mostri” continuano a comparire, a Srebrenica, in Congo, in Medio Oriente. Ora, la domanda dev’essere posta a Dio: sei Tu in grado di guardare in faccia questo male? Questi uomini continuano ad appartenerti? Tieni presente che se rispondi di sì, allora ti stai prendendo la responsabilità del male da loro commesso. D’altra parte, se Tu li condanni, in nome di quale giustizia Tu li condanni?
C’è forse una giustizia superiore a Te, alla quale anche Tu devi inchinarti? Tu ti rendi conto perfettamente che sei stretto nell’alternativa: o diventi anche Tu sottoposto a un sistema di valori, che Tu stesso hai contribuito a creare, ma che ora Ti rendono irrilevante, perché noi li porteremo avanti, magari in nome tuo, ma affrancati dalla tua tutela. Oppure, Tu sei il Totalmente Altro, l’Incomprensibile, che richiedi un’obbedienza cieca: ma l’enormità del male ci autorizza a rifiutare la rinuncia al giudizio e Tu, ancora una volta, sarai convocato al tribunale dell’uomo.
Di fatto, questo è già avvenuto. La scelta di Barabba è anche la protesta verso un Dio che non dà spiegazioni, che rifiuta di correggere la sua creazione, che osa riconoscere all’uomo una libertà che può giungere fino a costruire Auschwitz. Alla domanda: può Dio prendere la responsabilità del male commesso dall’uomo? la risposta è sì. Questo è avvenuto sul Golgota. Lì, Dio ha accolto radicalmente il rifiuto dell’uomo, ha accettato che l’uomo lo respingesse fuori dalla storia, ha assunto in sé le conseguenze della scelta di Adamo. Ma ha trasformato tutto questo nell’atto supremo della sua presenza. «Dio è morto», proclamò Nietzsche, per dichiararne l’irrilevanza; «Dio è morto», è stato il grido d’angoscia di coloro che hanno rinunciato alla speranza, perché non hanno avuto risposta alla loro richiesta d’aiuto. «Dio è morto», diciamo anche noi, con reverenza, poiché riconosciamo nella croce questa inflessibile volontà di comunione, che acquisisce il diritto di afferrare l’uomo, ogni uomo, poiché si è fatta carico del suo dolore e persino della sua malvagità.
Per questo, penso che anche Hitler risorgerà. Negarlo, vorrebbe dire dichiarare limitata l’efficacia del sangue di Cristo. In mezzo alle infinte croci da lui piantate, questa mostra erige la croce di Hitler, denudando la sua miseria, l’oscenità del male del quale si è reso responsabile.
Ma in mezzo a queste croci, anzi, vicino a questa, che il giudizio dell’uomo legittimamente considera meritata, c’è la croce di Gesù. Penso che uscirò dalla mostra, allo stesso modo in cui gli spettatori si sono allontanati dal Calvario: «Tutta la folla, che era venuta a vedere questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornava battendosi il petto» (Lc 23,48).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
LA SCELTA DI BARABBA: "LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO".
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala
La spettrale presenza. Hitler, la radiografia e l’inconscio ottico
di Marco Senaldi *
[Foto] Antonello Fresu. Der Körper, still da video. Palazzo dei Pio, Carpi 2019
In un brano indimenticabile de La montagna incantata di Thomas Mann, pubblicato nel 1924 ma ambientato alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, il protagonista Hans Castorp è oggetto di una radiografia.
“E Castorp vide [...] in anticipo, grazie alla potenza della luce, la futura opera della decomposizione, la carne, che lo rivestiva, dissolta, distrutta, sciolta in una nebbia evanescente, e dentro a questa lo scheletro della sua destra finemente tornito, dove intorno alla falange dell’anulare era sospeso, nero e isolato, il suo anello col sigillo ereditato dal nonno [...] e per la prima volta in vita sua si rese conto che sarebbe morto. Behrens disse: ‘Spettrale, vero? Eh, una punta di spettralità c’è davvero’”.
Si tratta di un passaggio sintomatico per diverse ragioni. Sia pur attribuendola a Castorp, esso descrive, con grande precisione, una delle prime immagine a raggi X realizzata da Röntgen, quella della mano dell’amico Albert von Kölliker, in cui, attorno allo scheletro “finemente tornito” delle dita, spicca un anello maschile. La meraviglia dell’eroe di Mann testimonia che, ai suoi esordi, lungi dall’essere considerata un semplice dispositivo clinico, la radiografia a raggi X rivestiva ben altri significati che toccavano la consapevolezza e la fisicità del soggetto. E, in effetti, la diffusione delle immagini radiografiche fu all’inizio accolta non tanto come un avanzamento nella scienza medica, quanto come una curiosità scientifica, e anche una tecnica artistica, in grado di far vedere l’invisibile, in un periodo in cui le innovazioni nel campo della riproduzione delle immagini si succedevano l’una all’altra con grande rapidità.
L’anno della scoperta di Röntgen, il 1895, infatti, coincide con quello dell’invenzione del cinematografo, ma anche con la prima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia (antenata della futura Biennale d’arte) e con uno straordinario articolo di Georg Simmel sulla psicologia della moda. Moda, cinema, arte, sono altrettanti fenomeni legati alle immagini, intese non solo come rappresentazioni del reale, ma anche come rappresentazioni di noi stessi, e dunque della nostra identità. Possiamo perciò intendere queste invenzioni come altrettanti dispositivi, cioè strumenti che ci permettono di amplificare le capacità umane, ma, consentendoci di modificare la nostra visione del mondo, contemporaneamente modificano modo in cui vediamo e consideriamo noi stessi.
È questo il motivo per cui tutte queste invenzioni evidenziano un carattere ancipite e fortemente antinomico. Da un lato il cinema, come nota ottimisticamente Walter Benjamin, risponde al diritto di ogni uomo ad essere ripreso, dall’altro introduce una drammatica spaccatura all’interno del soggetto, come testimonia Varia Nestoroff, l’attrice russa protagonista del romanzo di Pirandello Si gira!, del 1913, che non si riconosce nelle immagini di se stessa sullo schermo. Allo stesso modo l’arte moderna - inaugurata appunto dall’esposizione veneziana - intesa come “evento temporaneo”, da un lato libera dal giogo della tradizione, ma dall’altro avvia un processo di destabilizzazione permanente nel fare creativo dell’artista; e infine, suprema contraddizione è quella che Simmel attribuisce alla moda, che, tramite la manipolazione dell’immagine offerta dall’abito, da un lato promette all’individuo di distinguersi dalla folla, e dall’altro risponde esattamente al bisogno opposto, quello di uniformarsi con la massa.
Questa discordanza diventa esplosiva nel caso dei raggi X. Scoperti quasi casualmente nel corso di una ricerca sui raggi catodici, solo in seguito vennero utilizzati per scopi diagnostici, in quanto in grado di osservare la struttura ossea al di sotto della pelle, ma quasi subito ci si rese conto della loro pericolosità per la salute. In pratica, i raggi X rendono evidente il paradosso epistemologico della modernità, la quale, nello sforzo di conoscere l’essenza al di là delle apparenze, finisce col contaminarla o persino per distruggerla. Questa ambiguità radicale riaffiora in un altro grande romanzo sul destino delle immagini, cioè L’invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares, apparso non per caso nel 1940.
Il dispositivo di Morel consiste infatti in una macchina da presa e da proiezione in grado di restituire non solo l’apparenza visiva delle cose riprese, ma la loro consistenza, generando per così dire dei doppioni “tangibili” identici agli originali. Il solo difetto della macchina - ma è un difetto fatale - è che gli esseri viventi che ne subiscano le riprese patiscono effetti devastanti, e sono destinati in breve tempo a una morte certa.
Il valore politico della metafora di Bioy Casares, concepita alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, è evidente: la massima riproducibilità dell’esistente è anche ciò che ne cancella l’esistenza; la duplicazione perfetta della vita non è che un modo inconsapevolmente perfetto per creare un universo di morte. In un certo senso, la parabola del nazismo corre lungo binari paralleli a questi: la sua esaltazione inconsulta della vitalità superomistica, dell’agonismo estetico e della kalokagathia olimpica (così ben raffigurati nelle immagini sublimi dei film di propaganda di Leni Riefenstahl, come appunto Olympia, 1936) non è che l’altra faccia, la proiezione splendente e solare, dell’oscuro desiderio di morte, di distruzione e di annientamento che viene simbolicamente rappresentato, nelle uniformi dei dittatori, dall’icona del teschio.
E torniamo così alle ossa, il residuo incancellabile che viene messo in evidenza per la prima volta dai raggi X. Si dice che la moglie di Röntgen, Bertha, che fu in effetti la prima persona ad essere sottoposta a una radiografia dal marito, abbia mormorato, osservando l’immagine radiografica della propria mano, “ho visto la mia morte”. Aveva ragione - salvo che non si trattava della morte in senso tradizionale, come termine delle funzioni vitali, distacco del corpo dall’anima o semplicemente dissolvimento della materia nei suoi componenti atomici: ciò a cui la radiografia ci mette di fronte è piuttosto l’enigmatico carattere inorganico della nostra natura animale, il suo residuo ancestrale, quasi l’impronta scheletrica di un fossile, il sigillo della morte catturato però dentro un essere vivente. Questa presa di coscienza della nostra inconsapevole origine minerale ha effetti devastanti: ci si rende infatti conto non solo della nostra fragile natura mortale, ma anche del fatto contrario - reso possibile solo da una tecnica essenzialmente moderna come i raggi X - cioè dell’esistenza in noi stessi di qualcosa di alieno che ci sopravvivrà. Da qui l’elemento fantasmatico, ossia non-del-tutto-mortale, testimoniato dalla radiografia, cioè la “punta di spettralità” così ben individuata da Behrens, il medico di Castorp.
Il fatto che anche Hitler sia stato sottoposto, come milioni di altri pazienti, ad una indagine radiografica, potrebbe essere preso come un fatto del tutto normale. Ma cessa immediatamente di esserlo se pensiamo che lo stesso individuo è stato anche uno dei primi personaggi storici ad essere filmato e fotografato con una tale frequenza e una tale assiduità che non hanno precedenti. Tuttavia, mentre le fotografie e i filmati ci restituiscono un Hitler sempre presente a se stesso, sempre attentissimo a interpretare un ruolo pubblico divenuto in lui come una autentica “seconda natura”, le sue radiografie colgono un aspetto inedito e sconcertante della sua personalità. Guardarle è come osservare il fossile di un temibile Tirannosaurus Rex, il mostruoso dinosauro predatore del giurassico, il cui scheletro, anche se ridotto a una curiosità da Museo di scienze naturali, incute ancora timore. In esse cogliamo un Hitler che nemmeno Hitler sapeva di possedere, il suo estremo residuo umano, la struttura inorganica che testimonia due cose: sia il fatto che anche lui apparteneva - che gli piacesse o no - alla nostra specie -, sia il fatto che non ne era al corrente. Se c’è un’immagine che rappresenta il concetto benjaminiano di “inconscio ottico”, questa è certamente la radiografia di Hitler - cioè non la descrizione del suo inconscio psicologico (fin troppo scandagliato), ma l’istantanea del suo inconscio per così dire antropologico, la sua essenza “umana”, troppo umana, da cui certamente avrebbe desiderato liberarsi.
Non è un caso che uno dei più implacabili satireggiatori del regime nazista, cioè quel Helmut Herzfeld che cambiò il suo nome in John Heartfield in dispregio alle sue origini germaniche, abbia rappresentato nel 1932 il “vero” Hitler, utilizzando una radiografia in cui, sotto il volto del Fürher si vede il suo busto pieno di monete d’oro, in un fotomontaggio dall’ironico titolo Hitler Superuomo - ingoia oro e sputa schifezze.
Allo stesso modo, nell’operazione di Antonello Fresu, le riproduzioni ingigantite delle radiografie del Fürher e i suoi esami medici ci mettono di fronte a un enigma che certamente era enigmatico per Hitler stesso: come può un superuomo simile condividere con la vile razza umana la stessa misera impalcatura scheletrica?
L’aspetto spettrale che promana da queste gigantografie è fantasmatico in un duplice senso: da un lato perché accende in chi guarda la sensazione di un morire incompleto, che si lascia dietro il resto ineliminabile dello scheletro osseo; dall’altro perché questo scheletro appartiene veramente a un fantasma, anzi al peggior incubo possibile, quello dell’individuo più disumano di sempre, Adolf Hitler. Il sottile senso di inquietudine che ne promana è anch’esso quindi duplice perché da un lato riguarda genericamente la paura della morte, ma dall’altro concerne una paura ancor più radicale, cioè che lo spettro qui radiografato non sia veramente morto, e che la sua scheletrica presenza possa ancora, in un dato momento, rianimarsi.
Si dice che, poco prima di morire, Hitler abbia affermato che “bisogna eliminare l’ebreo che è in noi”. Un’affermazione ambigua e inquietante, che sembra far presagire il vero futuro dell’antisemitismo “classico” - cioè non tanto e non più solo lo sterminio di una “razza” considerata inferiore, e tuttavia esterna a quella superiore, ma la cancellazione dell’ultima traccia di altruismo all’interno del soggetto “superiore” stesso, la distruzione dell’umano all’interno del superuomo. La visione dell’installazione di Antonello Fresu fornisce una possibile risposta alla sconcertante affermazione di Hitler: ciò da cui egli avrebbe voluto liberarsi, senza per questo riuscirci, era proprio ciò che le sue radiografie ci permettono invece di vedere: il suo scheletro, il suo teschio, i suoi organi interni, così miseramente identici a quelli di chiunque. D’altra parte, queste immagini ricordano a tutti noi che liberarsi dal fantasma di Hitler ci è altrettanto impossibile che per lui liberarsi dal fantasma dell’ebreo interiore: lo spettro di questo “Hitler interiore” è dentro di noi come le nostre ossa e i nostri organi interni, ci appartiene più di quanto noi stessi non ci apparteniamo e incarna quel fantasma del Male da cui, anche nei nostri sogni più radiosi, continuiamo a essere ossessionati.
* Marco Senaldi (Artribune, 25,01,2019)
Radiografie e battiti del cuore va in mostra il corpo di Hitler
Si inaugura a Carpi il controverso allestimento curato dallo psicoanalista Antonello Fresu
di Marco Belpoliti (la Repubblica, 26.01.2019)
Hitler a Carpi? Cosa ci fa la radiografia del capo nazista nella Sala dei Cervi dell’antico Palazzo dei Pio insieme al battito tambureggiante del suo cuore?
Hitler è morto suicida il 30 aprile 1945 nel bunker della Cancelleria di Berlino. Il suo corpo fu cosparso di benzina e bruciato, quindi la salma carbonizzata sepolta insieme ai resti di altri cadaveri irriconoscibili. I soldati sovietici cercarono il corpo del dittatore, fino a che rinvennero un osso mandibolare e due ponti dentari; presentati al suo odontotecnico, Fritz Echtmann, furono identificati grazie alla cartelle cliniche. Nonostante questo, restò l’ipotesi che fosse ancora vivo e nascosto da qualche parte, una leggenda che circolò negli anni ’50 e ’60. Nel 1945 l’esercito americano realizzò un dossier sul capo nazista utilizzando le cartelle cliniche del suo medico, Theodor Morrell: 47 pagine che contenevano la radiografia del cranio del leader e alcuni elettrocardiogrammi, intitolate Investigation into whereabouts. Nel 1983 sono state rese accessibili insieme alle ricerche dell’Fbi per "ritrovare" il dittatore.
Antonello Fresu, psicoanalista junghiano, ha usato quelle pagine e realizzato l’installazione Der Körper che s’inaugura oggi nello spazio del castello di Carpi sotto l’egida della Fondazione Fossoli (fino al 31 marzo). Nella prima stanza buia appaiono le imponenti radiografie del cranio di Hitler, alte tre metri, retroilluminate: sono fantasmi neri su fondo bianco, e insieme impressionanti opere grafiche, il cui significato luttuoso appare subito evidente.
Nella seconda sala i referti clinici analizzati da specialisti medici di oggi, come si trattasse di un paziente qualsiasi, mentre sulla volta appaiono parate naziste, Hitler che arringa la folla e raduni militari. Nella terza stanza sono riportati i documenti del dossier americano, mentre nella quarta, e ultima, su uno schermo compare la simulazione del battito del cuore e un elettrocardiografo dell’epoca emette il tracciato di quell’esame clinico in presa diretta: si attiva appena le persone entrano nella sala come un misterioso saluto di benvenuto.
L’idea di Fresu, attento indagatore dell’Ombra, per dirla con Jung, ha qualcosa d’inquietante: stende un mantello di nere tenebre in questo luogo e obbliga i visitatori a incontrare, come scrive Marco Senaldi in un testo che apparirà nel catalogo della mostra, a guardare il fossile di un Tirannosaurus Rex, il cui scheletro è stato conservato e trasformato in curiosità espositiva da Museo di Scienze Naturali. Già di per sé le radiografie sono qualcosa di conturbante, e queste di grandi dimensioni, anche senza sapere che appartengono al cranio di Hitler, inquietanti. Pare che la moglie dell’uomo che ha inventato questo metodo d’indagine, Wilhelm C. Röntgen, dopo essere stata sottoposta alla prima radiografia, abbia detto: ho visto la mia morte. Questi light box contengono una doppia morte: quella del paziente Adolf Hitler e quella del dittatore che ha provocato la più immane catastrofe del XX secolo. Un uomo e insieme il peggior criminale della storia. È come se, per una nera magia, il doppio corpo del Re, per dirla con Ernst Kantorowicz, corpo materiale e corpo sacrale, corpo che muore e quello che invece si trasmette sotto forma di regalità, si fossero ricongiunti per un imponderabile maleficio. Fresu, nel suo doppio ruolo di psicoanalista e di artista, ha messo in mostra un’ombra e il suo fantasma. Come se i fantasmi potessero avere un’ombra. Batte il cuore di uno spettro mentre i soldati camminano a passo dell’oca sulle volte ricurve del Castello.
Spettro perché, mentre i fantasmi sono bianchi, Hitler è nero, anzi nerissimo. Il capo nazista è stato e resta un enigma. Il suo maggior biografo, l’inglese Ian Kershaw, s’è chiesto come un uomo così bizzarro abbia potuto prendere il potere in uno Stato moderno com’era la Germania dell’inizio del XX secolo. Dotato di grandi abilità demagogiche e di una capacità straordinaria di sfruttare le debolezze dei suoi avversari, Hitler resta un mistero per chi l’ha indagato: di quali poteri era dotato per riuscire a trascinare le classi dirigenti tedesche in un’avventura così nefanda e disastrosa? Risposta non c’è. Salvo ricorrere alla metafisica del Male, o a spiegazioni che esorbitano dalla nostra comprensione razionale. Der Körper bordeggia quello spazio irrazionale, lo lambisce e per questo scuote il visitatore, lo mette in allerta. Persegue questo scopo e anche quello di indicare che Hitler era un uomo come noi, che aveva un corpo simile al nostro: era normale. Non era un mostro?
Possibile? Il concetto di "mostro" non è facile da maneggiare; fa vacillare, perché spiega qualcosa d’inspiegabile. Primo Levi, al termine del suo I sommersi e i salvati, sostiene di non aver mai incontrato dei mostri nel lager, solo degli uomini che erano stati educati male. L’arcano di Hitler resta irrisolto.
La mostra è elegante e la sua provocazione colpisce. Tra tutti i dittatori del XX secolo, Hitler era quello che sembrava avere meno corpo di tutti; lo nascondeva persino ai propri intimi: nessuno l’ha mai visto a torso nudo. Come aveva detto Jung, intervistato da un giornalista americano, poco dopo la sua ascesa al potere, quello che colpiva era prima di tutto la voce del dittatore, la vibrazione isterica che conteneva, una voce che stregava milioni di tedeschi e li coinvolgeva. Come controcanto a questa ostensione fantasmatica della testa e del cuore del dittatore funziona la voce tremenda di Hitler che echeggia nelle sale, una voce uscita da un corpo così piccolo e modesto, che non riusciamo a dimenticare, e che come uno spettro circola ancora oggi per l’Europa dei suoi tardi, assurdi e fanatici ammiratori.
CRISTO ED EDIPO: LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Un omaggio al lavoro del prof. Romeo De Maio ...
Recensioni editoriali
Enigma per due: si dice Sfinge, si pensa a Cristo *
È molto presente e non se ne fa accorgere. Sta nelle cattedrali, sui frontespizi degli edifici delle istituzioni, nei dipinti e nelle sculture, nelle illustrazioni dei codici, della Bibbia, nei poemi, nell’inafferrabilità delle migliori musiche. È la Sfinge, questo essere che noi umani chiamiamo mostruoso perché ha artigli al posto delle mani e lo sguardo non sfuggente. Ti guarda, lei, trapassandoti in un attimo, ti consegna al mistero, ai suoi abissi che si fanno domanda, e probabilmente fu proprio quell’attimo che, dieci anni fa, colse lo storico Romeo De Maio nella cattedrale di Bari quando, per la prima volta, si accorse della Sfinge rappresentata sulla finestra absidale del Duomo. C’era stato molte volte, lì, non l’aveva scorta mai. Dietro di lei, raffigurata sopra un carro, i simboli dell’eucarestia. Fu una folgore. Che cosa univa il pagano al sacro? E perché?
Cominciò in quel momento, per lui, “un’esperienza molto simile al poeta Theodor Däubler, che andò in Egitto per la Sfinge e le trovò Cristo accanto”. I risultati di quell’esperienza sono il libro “Cristo e la Sfinge - la storia di un enigma” (Mondadori, 350 pagine), in libreria. Negli ultimi dieci anni De Maio è andato in giro per il mondo (occidentale soprattutto) alla ricerca delle testimonianze che affiancano la Sfinge al Cristianesimo.
Perché? ” Il motivo fu l’impressionante creazione-incisione di Nicolas Poussin, pittore francese dimorato a Roma, per la copia della Bibbia destinata al re di Francia, nel 1642. Il pittore la intitolò “Chiesa e Sinagoga”, e raffigura il Dio Padre che benedice il Vecchio e il Nuovo Testamento. Sulla Bibbia tenuta in mano dal Vecchio c’è, distesa, una Sfinge che guarda da tutt’altro lato, verso est, dove sorge il sole”.
È solo un esempio dei migliaia ritrovati dall’autore. Testimonianze che non si riferiscono all’ufficialità dei documenti nel senso di rogiti, nel senso di carte bollate, nel senso di trattati con le firme apposte in calce. È questo uno dei rari casi in cui si elevano a documento storico, e dunque attendibili come una data con sopra il timbro dell’ufficialità, le espressioni degli artisti. Pittori, scultori, architetti, poeti. Teologi. Musicisti. Dicono la Storia, i suoi limiti, le sue possibilità. Le fanno i connotati.
Donatello, Bernini, Michelangelo, Klimt, De Chirico, Purcell, Giovanbattista Marino, Oscar Wilde, Mantegna, Stravinskij, Kirker, Pico della Mirandola, Cocteau, Mozart, l’abate Kirker, Flaubert. “L’artista - dice De Maio - ha la visione, l’intuizione al pari del Vate. Queste sono indispensabili, fondamentali per la conoscenza. Io ho sottoposto le creazioni artistiche alle regole della filologia e al rispetto dell’esperienza mistica”. In loro la Sfinge non è mai elemento ornamentale. Sia essa alla base di un trono gestatorio, sia riferimento poetico, sia nella scenografia di una rappresentazione teatrale. Così le madonne vegliate dalla Sfinge, da essa protette, i volti spesso uguali: i rimandi poetici, le allusioni cromatiche, la disposizione degli elementi. “Quando gli artisti la dipingono, anche su commissione papale, è per far aprire gli occhi agli ecclesiastici. Per svolgere un mistero, avviare una conoscenza non dogmatica”.
Più di tremila testimonianze ha trovato De Maio, ignorate dalla Chiesa in questi tremila anni. Come dire: volutamente non considerate. Perché è pericoloso ammettere quelle che oggi il linguaggio contemporaneo definirebbe contaminazioni. Perché il Potere Temporale, la sua Legge, non ammette altro Dio. Come avrebbe mai potuto accettare la presenza, accanto al figlio del Padre, accanto alla Madre del Figlio, lo sguardo misterioso e definitivo del simbolo pagano per eccellenza, che ha ispirato il mito tra i più antichi dell’uomo ed esplorati dalla psicanalisi nel secolo appena trascorso, con Freud che ha posto Edipo, e la profezia che a lui fece la Sfinge, tra noi e la vita che conduciamo?
De Maio considera “rivoluzionario” questo lavoro, questo lavoro, il suo “testamento anticipato. Lo avrei potuto anche intitolare “Cristo prima del Cristianesimo”. La Sfinge ci porta verso l’aspetto mistico dell’uomo, di Cristo; aspetto non considerato dal Potere Istituzionale Ecclesiastico nella sua nuda verità”. È un nuovo senso, una nuova possibilità vista da altro punto di vista. Una visione allargata e non ristretta. Senza inquisizioni. Che si apre alla domanda. Basta questa, vuole dirci De Maio, per avere la risposta.
*
Fonte: Esonet.org, 14.05.2010
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL PROBLEMA MOSE’ E LA BANALITA’ DEL MALE: FREUD NELLA SCIA DI KANT (MA NON DEL TUTTO).
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
Federico La Sala
Testimoni.
Barth «politico». La rivoluzione è cristiana
Per la prima volta in volume la conferenza tenuta nel 1911 dal teologo protestante morto 50 anni fa e dedicata al rapporto tra cristianesimo e socialismo “politico”. La rivoluzione è cristiana
di Karl Barth (Avvenire, sabato 20 ottobre 2018)
Il socialismo è il movimento di coloro che non sono indipendenti sul piano economico, di coloro che in cambio di un salario lavorano per un altro, un estraneo; è il movimento del proletariato, come lo si chiama nei libri. Il proletario non è necessariamente povero, ma nella sua esistenza è necessariamente dipendente dalle possibilità economiche e dalla buona volontà di colui che gli dà il pane, il padrone della fabbrica. È qui che interviene il socialismo: esso è e vuole essere un movimento proletario. Esso vuole rendere indipendenti coloro che non lo sono, con tutte le conseguenze che ciò può comportare per la loro esistenza materiale, morale e spirituale.
Non possiamo sostenere che anche Gesù si sia impegnato precisamente su questo punto, già semplicemente per il fatto che duemila anni fa non esisteva ancora un proletariato nel senso moderno del termine, non essendovi ancora le fabbriche. Tuttavia, chiunque legga senza pregiudizi il Nuovo Testamento, dovrebbe restare colpito dal fatto che ciò che Gesù è stato, ha voluto, e ha ottenuto, considerato da un punto di vista umano, era esattamente un movimento dal basso. Egli stesso proveniva da uno dei ceti più umili del popolo ebraico di quel tempo.
Vi ricorderete certamente del racconto di Natale e della mangiatoia di Betlemme. Suo padre faceva il carpentiere in un angolo sperduto della Galilea, e lo stesso mestiere ha fatto anche Gesù stesso, tranne che nei suoi ultimi anni di vita. Gesù non era un pastore, non era un parroco, era un operaio. Giunto al trentesimo anno di età, ha appeso al chiodo i suoi arnesi, e ha cominciato a girovagare da una località all’altra perché aveva qualcosa da dire agli uomini. Ma anche allora la sua posizione è stata completamente diversa da quella di un pastore dei nostri giorni. Noi pastori dobbiamo essere a disposizione di tutti, di chi sta in alto e di chi sta in basso, dei ricchi e dei poveri, e la nostra personalità spesso soffre di questa duplice faccia della nostra professione. Gesù si sentiva inviato ai poveri, agli umili: questo è uno dei dati più indiscutibili che ricaviamo dalla storia del vangelo.
Il senso della sua attività si riassume in una frase, nella quale sentiamo ancora oggi ardere il fuoco di un’autentica sensibilità sociale: «Vedendo il popolo, si commosse, perché erano come pecore senza pastore» (Mc 6,34). Talvolta leggiamo anche che gli si sono accompagnati dei ricchi, ma se pure non si sono tirati indietro, dopo un breve momento di entusiasmo, come il giovane ricco (Mt 19,16-22) - e aveva le sue buone ragioni per farlo - costoro facevano parte della sua cerchia come ospiti, piuttosto che essere veramente legati a lui. Un esempio tipico in questo senso è offerto da quel Nicodemo (Gv 3,2-1), «un capo dei Giudei», che si recò da lui nottetempo.
Certo, nelle ultime settimane di vita egli si è rivolto con il suo messaggio anche ai ricchi, alle persone colte: si è spostato dalla Galilea a Gerusalemme - ma sapete bene che questo tentativo s’è concluso con la croce, sul Golgota. Quello di cui era portatore era un lieto annuncio ai poveri, al popolo dei dipendenti e degli incolti: «Beati voi poveri, perché vostro è il regno dei cieli» (Lc 6,20). «Il più piccolo fra tutti voi diventerà il più grande» (Lc 9,48). «Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli» (Mt 18,10). Queste affermazioni non possono essere interpretate come parole consolatorie pronunciate da un filantropo con tono di condiscendenza. Gesù ha affermato: «Vostro è il regno dei cieli», e con questo ha inteso dire: rallegratevi di rientrare nel novero della gente minuta: voi siete più vicini alla salvezza degli altolocati e dei ricchi.
«Ti ringrazio, Padre del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25). Gesù stesso si è comportato in questo modo: egli ha scelto i suoi amici tra i pescatori del lago di Galilea, tra i pubblicani al servizio dei romani, sospettati da tutti, addirittura tra le prostitute delle città di mare. Nella scelta dei propri compagni non si può scendere verso il fondo della scala sociale più di quanto abbia fatto Gesù. Per lui, nessuno si trovava troppo in basso o contava troppo poco.
Lo ripeto: non si trattava di una sussiegosa compassione dall’alto al basso, ma nell’esplosione di un vulcano dal basso verso l’alto. Non sono i poveri ad aver bisogno di compassione, ma i ricchi, non i cosiddetti “senza Dio”, ma gli uomini pii. Queste inaudite parole: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,31), e: ’Guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione» (Lc 6,24), Gesù le ha pronunciate rivolgendosi verso l’alto, mentre rivolgendosi verso il basso ha detto: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò» (Mt 11,28). Lo spirito che ha valore agli occhi di Dio è lo spirito sociale. E l’aiuto prestato sul piano sociale è la strada che conduce alla vita eterna.
Gesù non ha soltanto parlato, ma ha anche agito in questo modo. Se si legge il vangelo con attenzione, non si può non restare stupefatti di come sia stato possibile fare di Gesù un pastore o un maestro, il cui scopo sarebbe stato quello di insegnare agli uomini una fede e una vita corrette. «Da lui usciva una forza che sanava tutti» (Lc 6,19).
Questa era la sua attività essenziale. Sia che si interpretino queste guarigioni come eventi soprannaturali o naturali - resta il fatto che egli ha operato delle guarigioni e che questa sua capacità sta al centro della sua vita molto più di quanto abitualmente si pensi. «Egli passò beneficiando e risanando» (At 10,38). Troviamo molti altri episodi del genere.
Guardando a questi dati noti a chiunque abbia letto la Bibbia, credo che nessuno abbia il diritto di dire che la socialdemocrazia è non cristiana e materialista per il fatto d’essersi posta come obiettivo l’introduzione di un ordinamento sociale più favorevole agli interessi materiali del proletariato. Gesù si è opposto alla miseria sociale affermando, con le parole e con i fatti, che essa non deve esistere. Certamente, egli ha fatto ciò infondendo negli uomini lo spirito, che trasforma la materia. Al paralitico di Cafarnao ha detto per prima cosa: «Ti sono rimessi i tuoi peccati»; e, dopo: «Alzati, prendi il tuo letto e cammina». Egli ha operato dall’interno verso l’esterno. Ha creato uomini nuovi, per creare un mondo nuovo.
IL "DESIDERIO" E IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. "Sapere aude!" .... *
Resistere resistere resistere
"Alzati e cammina", una resurrezione laica
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 19.10.2018)
Come si può intendere laicamente il mistero cristiano della resurrezione? Il corpo di Cristo che risorge dopo aver conosciuto l’assoluto nascondimento della morte, della fine della vita, non è solo una immagine consolatrice che dovrebbe liberare l’uomo dal peso insopportabile della sua finitezza, ma può essere assunto come il simbolo di una resistenza altrettanto assoluta della vita contro la tentazione della morte.
Non è, in fondo, questo uno dei significati fondamentali della predicazione di Gesù? Non abbiate paura perché non tutto è morte, perché il cuore della vita è più grande dell’ombra della morte!
Non a caso è nella parola antica Kum che è contenuto il tema della possibilità che la vita rinnovi se stessa proprio laddove pare morta, finita, consegnata ad uno scacco fatale. Kum è la parola-imperativo che, per esempio, nel testo biblico, Dio rivolge a Giona. Essa scuote il profeta dal suo letargo per consegnargli una missione impossibile che lo costringe a mettersi in movimento. Ma è anche la parola-imperativo che Gesù rivolge a Lazzaro: Kum! Alzati!
Cammina! Rimettiti in moto! Kum è la parola che riabilita la vita alla vita, proprio nel punto dove la vita si perde e muore. Ecco la cifra laica della resurrezione. Dobbiamo provare a vedere in Kum la parola che ispira ogni autentica pratica umana di cura.
La posta in gioco è decisiva: è possibile rialzarsi, ricominciare, ritornare a vivere, anche quando l’esperienza della caduta, della malattia, del fallimento, della catastrofe appare senza rimedio alcuno? In gioco non è solo il destino individuale della vita, ma quella di una città, di un popolo, di un ideale, del nostro stesso pianeta.
Il Grande Cretto di Burri che commemora il terremoto di Gibellina o il One World Trade Center di Daniel Libeskid che evoca il trauma dell’abbattimento delle Torri gemelle, non guariscono la ferita (inguaribile) ma la sanno incorporare in una forma nuova che consente alla vita di ricominciare a vivere.
Il mistero della resurrezione, riletto laicamente, indica allora non solo e non tanto la possibilità eventuale che la vita possa esistere dopo la morte, tema caro a tutte le religioni, ma la possibilità di ridare vita ad una vita che sembrava perduta, di ricostruire una città distrutta, di ritrovare un popolo privato di ogni forma di identità, di restituire un volto umano alla vita dopo l’esperienza atroce dell’orrore.
La parola Kum!, Alzati!, è un appello che esige movimento, rilancio, responsabilità di un atto che sappia riaccendere la vita. In gioco è l’evento della sorpresa che sempre accompagna il "miracolo" dell’uscita della vita dalla zona sepolcrale della morte. Non è infatti proprio questa sorpresa al centro di ogni avventura di cura? Possiamo pensare esemplarmente ad alcuni casi clinici ritenuti senza speranza che, nel corso di una cura, risorgono contraddicendo i protocolli e le previsioni prognostiche più nefaste. Può accadere con bambini colpiti da malattie rare, con giovani afflitti da patologie mentali gravi, ma anche, in uno scenario meno drammatico, con studenti ritenuti dall’istituzione scuola senza speranza, cause perse, irrecuperabili. Può accadere con territori e città che hanno fatto esperienza - solo apparentemente irreversibile - della catastrofe. Ma più in generale ogni volta che incontriamo una resistenza insperata alla morte, ogni volta che incrociamo la sorpresa della vita che non cede alla morte e ricomincia a camminare, facciamo esperienza della resurrezione.
Come se la cifra ultima della resurrezione coincidesse con quella della insurrezione: non si tratta di respingere fobicamente la caduta o la malattia, il fallimento o la perdita inconsolabile, illudendosi che possa esistere una medicina capace di dissolverne la presenza scabrosa.
Piuttosto si tratta di non lasciare l’ultima parola alla morte. Per questo sappiamo che i momenti più fecondi per una vita sono quelli che implicano passaggi stretti, crisi, ferite. Tuttavia, affinché il "miracolo" della resurrezione si possa compiere è sempre necessario un atto di fede che non può essere confuso con una semplice credenza. Non si tratta tanto di avere fede in un salvatore, ma di avere fede nella forza stessa della fede.
Quando una volta a Lacan chiesero in che cosa consistesse l’esperienza dell’analisi, egli rispose, molto semplicemente, che essa consisteva nell’offrire ad una vita persa, l’opportunità per "ripartire". Ebbene, la fede nel proprio desiderio è la condizione di base per questa ripartenza.
Alzati! è la parola-imperativo che rimette in piedi e in movimento la potenza affermativa del desiderio contro la tentazione cupa, sempre presente negli umani, della morte. Perché, in fondo, se la resurrezione non può pretendere di curare la vita dal suo destino mortale - non può liberare la vita dalla morte - essa può invece liberare la vita dalla paura paralizzante della morte e dalla sua tentazione. Perché la paura della morte, umanissima quando riguarda la prossimità dell’evento della propria fine che ci priva della gioia infinita della vita, può nascondere talvolta la paura della vita. La tentazione della morte è, infatti, un modo per voler evadere dalla fatica che la vita impone. È questa la tentazione più grande.
Testimoniare che non tutto è morte, non tutto è devastazione, non tutto è destinato a finire, che risorgere è un compito della vita, è il segreto che la parola Kum! porta con sé nei secoli.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GESÙ E IL CATTOLICESIMO-ROMANO. UNA LEZIONE DI JOYCE (da "FINNEGANS WAKE").
"PERVERSIONI" di Sergio Benvenuto. UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LA’ DELL’EDIPO
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
La psicoterapia? Ha le stesse basi della “confessione religiosa”: entrambe curano l’anima
Da Pitagora a Jung. Dall’”esame di coscienza” ai percorsi psicanalitici. Così, nei secoli, la scienza e l’uomo hanno esaminato i tormenti più profondi e la scoperta del sé
di Andrea Cionci (La Stampa, 12.09.2018)
«I primordi di ogni trattamento analitico della psiche vanno ricercati nella confessione religiosa». Sono parole di Carl Gustav Jung, psichiatra e psicoterapeuta fondatore della psicologia analitica, vissuto nella prima metà del Novecento. Del resto, se l’etimologia della parola «psicoterapia» significa appunto «cura dell’anima», questa pratica affonda le sue radici nella civiltà greca, secoli prima dell’affermarsi del Cristianesimo.
Pitagora e la tragedia greca
«Sull’esame di sé e la “confessione” delle proprie mancanze - spiega Claudio Risé, scrittore e psicoterapeuta autore del recente “La scoperta di sé” (San Paolo ed.) - nasce la filosofia e la psicologia occidentale, con Pitagora, filosofo e scienziato greco. Nel pitagorismo, tuttavia, la “confessione”, veniva fatta a sé stessi per riconoscere le proprie debolezze e gradualmente trasformarle. Questo era l’equivalente dell’”esame di coscienza” che il cristiano deve fare prima della confessione, ed ogni volta che può, per rimanere in contatto con la propria coscienza e mantenerla integra”.
Le intuizioni di Pitagora costituiscono il primo barlume di consapevolezza nella storia umana per sviluppare pratiche volte a organizzare la vita quotidiana, la personalità e la responsabilità delle persone. Per quanto la mentalità attuale spesso e volentieri conduca ad andare “dove ci porta il cuore” (cosa che spesso può coincidere con la soddisfazione immediata di ogni capriccio) già gli antichi Greci mettevano in guardia dal cedere a quelle che, con lessico freudiano, si possono definire pulsioni.
“Ma tu non essere impulsivo” raccomandava Eschilo nel coro de “I Sette contro Tebe”: nella tragedia greca, il disastro avveniva sempre a causa del cedimento a un impulso. Questo poteva provenire indifferentemente da un dio o da un demone; ecco perché, già secondo gli antichi, esso doveva essere sempre meditato e filtrato dall’uomo in un modo che conducesse a un’azione perfettamente libera».
Un sentimento umano
Se l’insegnamento pitagorico giunse fino ai Romani («La confessione dei nostri peccati è il primo passo verso l’innocenza», scriveva il drammaturgo Publilio Siro nel I sec. a.C.) anche nel resto del mondo si è costantemente rivelata l’esigenza tipicamente umana di sgravarsi la coscienza parlando con qualcuno.
Nel Messico antico, i peccatori andavano a confessarsi dai sacerdoti della dea Tlaçolteotl (la «dea delle sozzure», cioè dei peccati specialmente carnali), i quali imponevano la penitenza. Nell’antico Perù, il penitente si confessava dall’ichuri, lo sciamano. Per espirare le proprie colpe ci si doveva sottoporre a lavacri o a salassi.
«Il senso di colpa - spiega il neuropsichiatra e scrittore Giuseppe Magnarapa - esiste da sempre ed è legato al principio di autorità il quale serve, a propria volta, a garantire la pace sociale. In assenza di un qualunque sistema di regole, infatti, non esiste la società. Se si infrange la regola, la psiche esprime l’esigenza di espiare, di produrre a se stessi lo stesso lutto o danneggiamento che si è procurato all’esterno per “pareggiare i conti” e ritrovare un nuovo adattamento. L’esigenza di confessare anche pubblicamente la propria colpa esprime esattamente questa necessità. Una forma ancestrale di questo bisogno si avverte, ad esempio nella cosiddetta “televisione verità” con persone che spettacolarizzano senza vergogna la propria intimità anche confessando azioni non esattamente edificanti».
Le prime confessioni cristiane
Pubbliche erano, non a caso, le confessioni dei peccatori nei primi secoli del Cristianesimo: la preghiera, le buone azioni, il digiuno e l’elemosina erano le azioni grazie alle quali si otteneva il perdono del peccato. Questo viene definito dal Catechismo «una mancanza contro la ragione, la verità, la retta coscienza; è una trasgressione in ordine all’amore vero, verso Dio e verso il prossimo, a causa di un perverso attaccamento a certi beni».
All’inizio, lo stato di penitente era molto gravoso e comportava forme di temporanea emarginazione. Nei secoli, la confessione dei peccati si è sempre più sistematizzata, ha iniziato a svolgersi privatamente, prima col vescovo e poi col semplice sacerdote, il quale è tenuto ancor oggi a osservare il più totale segreto «professionale» su quanto ascoltato durante il sacramento.
Sovrapposizioni
Secondo Jung il processo psicoterapico si articola in quattro fasi. Durante quella che lui definisce Confessione, il paziente svuota i propri segreti, estrinsecando la propria condizione e sofferenza. Nella Chiarificazione, egli diventa consapevole dei propri sentimenti, intuisce i motivi che lo hanno condotto al dolore. Nell’Educazione, si propone di assumere nuovi comportamenti e atteggiamenti e infine, nella Trasformazione, il paziente assiste ai risultati dell’effettivo cambiamento nella sua vita.
Il parallelo col sacramento cattolico è abbastanza evidente, tanto che anche questo si articola in quattro fasi: la Contrizione, in cui il fedele si pente del male commesso, l’Esame di coscienza, in cui riflette su come e dove ha sbagliato; la Confessione, nella quale esprime al sacerdote tutti i peccati che in sincerità ricorda; infine la Soddisfazione, che implica un cambiamento nella propria vita e l’espiazione per il male compiuto con azioni risarcitorie, o con la preghiera.
Vi è infine da ricordare che alla base di tutto vi è il principio della Misericordia divina, che consente all’uomo di rialzarsi dopo i cedimenti e di proseguire sulla strada del perfezionamento spirituale. Negli ultimi anni, in ambito cattolico, si è parlato molto di Misericordia, meno spesso si è ricordato come questa non possa essere svincolata dal pentimento e dal riconoscimento dei propri peccati.
L’anonimato
Fu il cardinale santo Carlo Borromeo, alla metà del ‘500, a regolare e a diffondere il confessionale nella sua classica struttura che, poi, si diffuse in tutto il mondo. Si tratta, come noto, di una cabina di legno dotata di inginocchiatoi; fitte grate metalliche celano il viso del penitente il quale non è tenuto a rivelare la propria identità al prete. Con il Concilio Vaticano II, la Chiesa ha aperto anche alla confessione vis à vis.
Tuttavia, sarebbe interessante indagare quali benefici possa produrre l’atto rituale di liberare la propria coscienza in un soffio di parole, «spifferando» il male compiuto all’orecchio del sacerdote, ieratico e invisibile intermediario fra Dio e l’uomo, senza vederlo e senza farsi da lui vedere. Il diaframma costituito dalla grata era pensato in modo utile anche per il prete, per metterlo al riparo da contatti troppo ravvicinati e forieri di tentazioni. Probabilmente San Carlo aveva intuito, già cinque secoli fa, quello di cui da pochi decenni si occupa la Programmazione Neuro Linguistica, ovvero il linguaggio più o meno volontario che esprimono gli occhi e la posizione del corpo.
Per quanto, infatti, un pastore debba ascoltare con neutra benevolenza la confessione di un penitente, non è detto che egli riesca a controllare le sottili reazioni della sua postura e del suo sguardo che possono veicolare una quantità di messaggi involontari.
Non sappiamo se, nel mondo della psicoterapia, si sia mai sperimentata una soluzione tecnica come quella della grata del confessionale tradizionale, magari nell’ottica di assicurare maggiore libertà e comfort emotivo al paziente attraverso il completo anonimato.
Un terreno ricco di spunti
Il grande scrittore cattolico Gilbert Keith Chesterton riassumeva: «La psicoanalisi è una confessione senza assoluzione». In effetti, l’ approccio laico non prevede generalmente un sistema morale, né la credenza in un’entità trascendente. Mentre il sacerdote, con un segno di croce, riporta il fedele nella pace con se stesso, lo psicoterapeuta conduce il paziente a sciogliere dai solo i propri nodi attraverso un percorso che può essere lungo e difficile.
Ciò che emerge è che i contatti fra tradizione religiosa, (cattolica, ma non solo) e il mondo della psicoterapia-psichiatria offrono un fertile terreno di scambio. Ad esempio, oggi si parla spesso di narcisismo, di depressione; di disturbi alimentari come anoressia e bulimia; di sex addiction o ipersessualità. Non ci si trova dunque di fronte a versioni più o meno patologiche degli antichi vizi come superbia, accidia, gola e lussuria?
Margriet Sitskoorn, docente di Neuropsicologia clinica all’Università di Tilburg (Olanda), in un capitolo del suo libro «I sette peccati capitali del cervello» mostra, attraverso vari studi neuroscientifici, come il soddisfacimento dei bisogni più elementari, privi di riflessione etica e di controllo, conduca al rilascio di sostanze come dopamina e oppioidi, che producono piacere immediato anche se questo comporterà conseguenze negative per se stessi e per gli altri. E’ stata scoperta, dunque, la radice biochimica della seduzione del Male?
Tra religione e scienza «c’è piuttosto antipatia sentimentale che opposizione logica», sentenziava il colombiano Nicolás Gómez Dávila. Tuttavia, considerando che l’esperienza religiosa si è applicata allo studio dell’uomo per alcuni millenni, si potrebbe dare ragione ad Albert Einstein quando aprì al confronto fra i due mondi con una frase rimasta celebre: «La religione senza la scienza è cieca, la scienza senza la religione è zoppa».
Filosofia.
Paul Ricoeur: «La Parola sopravvive solo se riconvertita in evento»
Raccolta in libro una conferenza del filosofo del 1967 sul senso e la funzione di una comunità ecclesiale: è sempre necessaria una reinterpretazione intellettuale, pratica e sociale della parola
di Marco Roncalli (Avvenire, giovedì 17 maggio 2018)
Riflettere sulla funzione specifica di una comunità ecclesiale, le sue aspirazioni e istanze di senso, il suo linguaggio, il ruolo nella Chiesa e nella società, è quello che Paul Ricoeur - come raramente troviamo nei filosofi - prova a fare in queste pagine nate alla vigilia del Sessantotto, già girate parecchio come fotocopie di dispense fra gli studiosi di questo maestro dell’ermeneutica: mai però arrivate in un’edizione al grande pubblico.
Registrate nel gennaio 1967 alla Gerbe, una sala della parrocchia protestante di Amiens, durante un incontro teologico di due giorni, le parole di questa lunga conferenza di Ricoeur - scandita in tre parti con interlocutori cattolici, protestanti e comunisti e trascritte dal pastore Ennio Floris - furono pubblicate l’anno dopo nei “Cahiers d’études du centre protestant de recherche et de rencontres du nord” con il titolo Senso e funzione di una comunità ecclesiale al quale l’editrice Claudiana ha preferito ora Per un’utopia ecclesiale (pagine 100, euro 12,50).
L’opera va in libreria a cura di Claudio Paravati, Alberto Romele, Paolo Furia, e con una prefazione di Olivier Abel che considera quest’opera «a un tempo, come militante testimonianza di un periodo di passaggio e come banco di prova, come laboratorio di temi filosofici sviluppati, altrove o in seguito, in modo indipendente», dove «viene alla luce un aspetto del pensiero di Ricoeur troppo spesso trascurato, in cui i lettori potranno cogliere un approccio filosofico nuovo, radicale». Approccio dove - insieme ai non pochi spunti elaborati in opere successive - si comprende il del ruolo del filosofo nella Chiesa riformata francese.
Intervenendo sulla «comunità confessante» Ricoeur si ferma nella prima parte sul tema “Essere protestanti oggi” (con grande attenzione al linguaggio); nella seconda parte sulla presenza della Chiesa nel mondo (affrontando i punti di inserzione, le capacità di pressione, aspetti specifici della comunità cristiana); nella terza parte sul conflitto “Fede e religione” ricollegandosi a Bonhoeffer, Ebeling, Fuchs, come pure alla tradizione della predicazione primitiva e all’esegesi paolina. Pagine dunque militanti di un Ricoeur allora presidente del Movimento del cristianesimo sociale e anche della Federazione protestante e due anni dopo rettore dell’Università di Nanterre. Pagine che disegnano tratti di una Chiesa contrappunto di utopia dentro la società, fra critiche esterne della religione (Marx, Nietzsche, Freud) e decostruzione di varie pseudo-razionalizzazioni (che nascondono vivaci testi biblici).
Non pochi i passaggi di grande interesse. Nell’ambito del linguaggio, ad esempio, circa la parola che non può diventare reliquia, sopravvivendo grazie a costante reinterpretazione: «Chiamo interpretazione non solo ciò che possiamo fare intellettualmente ma anche praticamente, socialmente per rendere attuale una parola che continua a essere parola solamente se essa continua a essere riconvertita in un evento, che ridiventa esso stesso evento».
In ambito teologico, nella risposta data alla domanda “Possiamo ancora pronunciare la parola Dio?”: «Non possiamo più costruire delle teologie speculative, sistematiche, in cui parliamo di Dio come di una causa prima, un pensatore supremo, un essere assoluto separato da tutti gli altri esseri, ma dobbiamo pensare ciò che può significare nella Scrittura il Dio di Gesù Cristo. Se Gesù Cristo è colui che muore donando la vita, è quest’atto di svuotarsi di Cristo per noi a essere il nostro solo accesso a Dio». E così «la comunità cristiana non ha nient’altro da offrire agli altri esseri umani che quest’affermazione del Dio che si svuota, della debolezza assoluta di Dio per l’essere umano, che permette il nuovo essere umano, e che apre una speranza in cui gli esseri umani sono responsabili, ognuno nei confronti di tutti».
Infine, tutto da segnalare il passaggio nel quale Ricoeur s’interroga su quella che gli pare essere «la funzione insostituibile» di una comunità confessante in un tipo di società come la nostra, e cioè: della previsione, della decisione razionale, dell’invasione della tecnica nella vita quotidiana ad ogni livello.
Scrive il filosofo: «Mi sembra che la ragion d’essere delle chiese consista nel porre in permanenza la domanda sui fini, della “prospettiva”, in una società della “pianificazione”. Il “benessere”? A quale scopo? Tale questione tocca le ragioni profonde dell’essere umano nella società della produzione, del consumo e del tempo libero. Questa è caratterizzata da un controllo crescente dell’essere umano sui mezzi e da una cancellazione dei suoi fini, come se la razionalità crescente dei mezzi rivelasse progressivamente l’assenza di senso. Ciò è vero in particolare nelle società capitaliste [...]. In questo modo si rende manifesto l’elemento primo della società di produzione: il desiderio senza fine».
Ma c’è un altro sogno vano che anima l’essere umano della società consumista: ovvero «l’aumento della sua potenza», spiega Ricoeur. Che aggiunge: «Si vorrebbe annullare il tempo, lo spazio, il destino della nascita e della morte, ma in un progetto simile tutto diventa strumento, utensile, nel regno universale del manipolabile e del disponibile. È questo progetto che sfocia nel vuoto totale del non-senso. È così che la nostra “modernità vive simultaneamente della razionalità crescente della società e dell’assurdità crescente del destino». Una riconferma dell’assenza di giustizia presso gli uomini, ma ancor più della mancanza di amore e di significato.
Ed ecco allora i problemi che ci stagliano davanti nel segno dell’“insignificanza”: quella del lavoro, del tempo libero, della sessualità. Di fronte ad essi il compito non è recriminare o rimpiangere ma testimoniare.
Come? Facendo appello all’utopia, risponde Ricoeur, che chiama utopia «questa prospettiva di un’umanità compiuta, allo stesso tempo come totalità degli esseri umani e come destino singolare di ogni persona».
È la prospettiva che può dare un senso: volere che l’umanità sia una, volere che essa si realizzi in ogni persona. Nella responsabilità di pensare sempre un doppio destino.
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
Teologia e psicoanalisi (lacaniana)
Alleanza nel segno dell’umanesimo
di Marco Garzonio (Corriere della Sera, 07.06.2017)
Sono lontani i tempi di anatemi e diffidenze tra Chiesa e psicoanalisi. Oggi l’inconscio può essere ponte, non luogo di scontri. Scrive Pierangelo Sequeri: «Tra istituzione religiosa e istituzione psicoanalitica si è consolidato un assetto di reciproca convivenza, che fa largo spazio ad un atteggiamento di rispettosa distinzione degli ambiti e - persino - di virtuale ammissione di margini di cooperazione, nell’interesse di soggetti con speciali difficoltà proprio nell’articolazione psichica dell’esperienza religiosa». Da agosto Sequeri è preside del Pontificio Istituto «Giovanni Paolo II» per gli studi su matrimonio e famiglia. Ce lo ha voluto papa Francesco.
Al culmine d’un percorso quasi ventennale «teoria psicoanalitica» e «ragione teologica» sono spinte «dalla stessa parte», dice ancora Sequeri. All’inizio hanno giocato sensibilità e interessi di docenti della Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale. A Milano si sono svolti corsi e ricerche sui rapporti tra esperienza religiosa e psicologia del profondo, con predilezione per Jacques Lacan perché meglio corrisponderebbe alle esigenze della fede, visti i riferimenti lacaniani al «nome del Padre». Un dialogo nei propositi non ristretto alla ricerca scientifica. Dai chiostri della Facoltà s’è prospettato un percorso di cultura e responsabilità civili da assumersi, cattolici e laici, nei confronti di un diffuso disorientamento in fatto di valori alti a livello individuale e sociale. Tanto che si parla oggi di una sorta di alleanza «nella difesa dello spessore ontologico dell’essere simbolico e dell’essere pratico», nel pronunciarsi «sul senso etico della psiche», scrive (ma lo sostiene da anni) Sequeri.
Quando Bergoglio lo chiamò a Roma, Sequeri era preside della Facoltà Teologica che Paolo VI volle a Milano fuori però dalle mura della Cattolica. Una sofferenza per Giuseppe Lazzati, allora rettore, che puntava a rilanciare l’ateneo dopo il Sessantotto attraverso un dialogo tra scienze umane e teologia. Corsi e ricorsi di storia e di fede!
Prodotto recente della scuola teologica milanese è il libro di Rossano Gaboardi «Un Dio a parte». Che altro? Jacques Lacan e la teologia, pubblicato dalle Edizioni Glossa, l’editrice della Facoltà. È l’esito di una tesi di dottorato: oltre seicento pagine, rassegna densa di autori, testi, riferimenti a Lacan e seguaci e al teologo Hans Urs von Balthasar. Dalla presentazione al volume abbiamo tratto le citazioni di Sequeri intorno alla nuova «frontiera dell’umanesimo», sulla quale sembrano dunque attestate oggi Chiesa e psicoanalisi.
Poste le basi dalla teologia fondamentale, adesso la sfida potrebbe allargarsi e coinvolgere altre branche del sapere teologico, quali ad esempio la teologia pastorale e quella biblica. Si pone per primo infatti un problema di linguaggio, trasmissione, coinvolgimento sulle questioni che una corretta relazione tra fede e psicologia del profondo può generare. Se non diventano parola parlata, spezzata come pane della conoscenza, vissuta, condivisa, le parole dei teologi che studiano la psicoanalisi rimangono per pochi addetti ai lavori, autoreferenziali, lessico per iniziati.
La teologia biblica poi è l’esempio della fecondità di approcci molteplici. Numerosi specialisti già si servono di vari strumenti psicoanalitici per comprendere le Scritture, le componenti umane e storiche dei testi sacri, i pionieri della psicologia del profondo. Questi ultimi sarebbero fuori luogo in soffitta, anche se Lacan li ha criticati con un linguaggio al cui fascino la teologia fondamentale non sembra indifferente.
La rivoluzione di Sigmund Freud, ad esempio, si coglie se si ha il coraggio di affrontare con spirito libero e senza pregiudizi l’essere ebreo del fondatore della psicoanalisi. Un lettore della Bibbia può verificare come Talmud e modi di lettura del testo siano importanti per comprendere L’interpretazione dei sogni. L’ebraicità di Freud è un valore che avvicina in modo significativo il cultore della psiche, che cerca di decifrare i contenuti inconsci attraverso il mondo onirico, e il docente di critica testuale che fa parlare la Parola tramite simboli e immagini.
Discorso simile può essere fatto a proposito di Carl Gustav Jung. Dopo la pubblicazione del Libro Rosso , nel 2010, Jung va riconsiderato, in specie dai teologi: dall’apporto di questi potrebbe venire molto. Un esempio: il «processo di individuazione», cioè la conoscenza e la realizzazione di sé poggiata su riferimenti a Isaia e a Giovanni nel Libro Rosso, è versione moderna e attuale dell’Imitatio Christi, in termini psicologici. Non dimentichiamo che Jung fu psichiatra e in quanto tale ha vissuto in prima persona le sofferenze estreme della psiche che disputa con Dio, come Giobbe, o che del Creato coglie il vuoto, come Qoelet, e rischia di sprofondarci. Sul dolore del singolo e del collettivo fede e psicoanalisi insieme possono chinarsi e farsi prossimo all’uomo.
Il saggio
«Un Dio a parte». Che altro? Jacques Lacan e la teologia di Rossano Gaboardi è pubblicato da Glossa (pp. XXIV-620, e 50), la casa editrice della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale che ha sede a Milano. -La presentazione al volume - l’esito della tesi di dottorato di Gaboardi - è di Pierangelo Sequeri, dallo scorso agosto preside del Pontificio istituto «Giovanni Paolo II». Il francese Jacques Lacan (1901-1981) era psichiatra e filosofo. È stato uno dei maggiori psicoanalisti del Novecento. La sua psicoanalisi si basa sulla tesi secondo cui l’inconscio «è strutturato come un linguaggio»
Teatro classico.
Salvatore Natoli: «Edipo, l’enigma all’interno di ognuno di noi»
Tra libertà e destino: il filosofo Salvatore Natoli rilegge la figura centrale della tragedia antica, in scena a Milano con Glauco Mauri
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 25.11.2016)
Uccide il padre, sposa la madre, trasmette la maledizione ai figli concepiti in quell’unione colpevole. Eppure, nonostante tutto, Edipo è tra le figure del mito non solo maggiormente indagate (il proverbiale “complesso” teorizzato da Sigmund Freud è la più celebre, non la più convincente tra molte interpretazioni elaborate nei secoli), ma anche maggiormente disponibili a una rilettura in prospettiva cristiana. Una stranezza, almeno in apparenza.
Ma il filosofo Salvatore Natoli suggerisce una spiegazione più che motivata. «Il punto è - osserva - che la storia di Edipo ci è nota in particolare attraverso Sofocle e Sofocle è il più religioso fra i tragici greci, il più aperto alla dimensione della pietà e del perdono». Edipo ritorna, dunque, ma in effetti non se n’è mai andato. In questi giorni al Teatro Franco Parenti di Milano va in scena il dittico composto dalle opere sofoclee di cui il personaggio è protagonista, Edipo re ed Edipo a Colono, e contestualmente viene proposto un ciclo di conferenze, Riflessioni sul tragico, che prevede la partecipazione di studiosi quali Maurizio Bettini (30 novembre) ed Eva Cantarella (2 dicembre). A inaugurare gli incontri, questa sera alle 18, è appunto Natoli, al quale è affidato un tema più che impegnativo: Libertà e destino nella tragedia greca. Ma lo studioso non si scompone e ribadisce che è proprio da lui, da Edipo, che occorre partire.
Perché, professore?
«Perché la sua è la tragedia per eccellenza, come già sosteneva Aristotele - risponde -. Una peripezia in senso tecnico, ossia un vagare da un luogo all’altro, che però non coinvolge un dio o un semidio, ma quello che saremmo tentati di definire l’uomo medio. L’umanità media, anzi. Qualcuno che ci assomiglia e che, come capita a ciascuno di noi, trova ad affrontare i dilemmi e le contraddizioni dell’esistenza. Per i greci, del resto, la realtà intera si presenta sotto la cifra dell’antinomia, dell’enigma, addirittura della doppiezza: tutti elementi che richiedono una costante decifrazione da parte dell’uomo».
In questo Edipo è un esperto, no?
«Fino a un certo punto. Non c’è dubbio che lui e lui soltanto riesca a risolvere il famoso indovinello della Sfinge, ma è una vittoria parziale. Edipo è a conoscenza della profezia che lo destina a uccidere il padre e sposare la madre. Anche a questo enigma prova a tenere testa, d’accordo, ma senza mai interrogarsi su se stesso. Ed è per questo che, fuggendo da colui che crede sia suo padre, finisce per imbattersi nel vero padre. Uccidendolo, sposandone la vedova, realizzando la profezia che si illudeva di aver aggirato».
Da dove viene questo fraintendimento?
«Dal fatto che l’enigma del tragico non si situa sul piano esclusivamente logico, è invece un conflitto tra potenze esterne all’uomo, dalle quali l’uomo stesso rischia sempre di essere schiacciato. Nella sua espressione più radicale, l’enigma è quello che ciascuno di noi ignora di se stesso. Il tragico esprime questa lacerazione profonda dell’esistenza, questo destino di morte insito nella vicenda umana fin dal momento della nascita. Così considerata, la vita non può essere se non sfida, battaglia, agone».
Si tratta di una condizione universale?
«Con una distinzione necessaria. Il tragico si manifesta anche nel mondo contemporaneo, ma in un orizzonte post-cristiano, di perdita e smarrimento. Il tragico greco, al contrario, scaturisce dalla natura. Fa perno sulla mancanza di identità e nello stesso tempo la ricostituisce attraverso la peripezia. Edipo conosce finalmente se stesso grazie al viaggio, altrimenti erratico, che da Tebe lo porta a Colono, alle porte di Atene, dove lo attende l’accoglienza ospitale di Teseo, ovvero la svolta capace di dare soluzione alla contraddizione del tragico».
Vuol dire che l’enigma arriva a uno scioglimento?
«Sì, è un’altra caratteristica che differenzia il tragico antico dal moderno. La struttura della trilogia greca prevede che, alla fine, una soluzione ci sia. Meglio ancora, che nell’esperienza della contraddizione l’uomo scopra la misura che gli è propria, secondo una dinamica già intuita da Nietzsche. La catarsi scaturisce da questa consapevolezza e, per compiersi, prende sempre una via obliqua, un detour alternativo al concatenarsi degli eventi. Può accadere per diretto intervento degli dèi, come nell’Orestea di Eschilo, oppure per iniziativa dell’uomo».
È il caso dell’Edipo di Sofocle?
«Esattamente. La figura decisiva è Antigone, il cui atteggiamento non rappresenta semplicemente la rivincita dell’arcaico nei confronti del diritto, come sosteneva Hegel. La mia personale convinzione è che Antigone, in quanto personificazione della pietas, indichi una via d’uscita laterale, e niente affatto arcaica, dalle strettoie della legge: tanto quest’ultima può essere implacabile, tanto la pietà dell’essere umano verso il suo simile si pone sotto il segno della comprensione. Grazie alla pietà, che sostiene le ragioni umane contro la durezza del diritto, la città stessa rivela il suo volto più accogliente, quello che permette a Teseo di prendersi carico dello straniero».
Ma come si realizza allora il rapporto fra libertà e destino?
«Se guardiamo a Edipo, dobbiamo rispondere che per essere liberi occorre conoscere il proprio destino. Il quale, a sua volta, non si colloca nel futuro, custodito magari da un’ambigua preveggenza. No, a condizionare ciascuno di noi è semmai il passato, che è la vera fonte della necessità. Qualcosa che ci spinge, non da cui siamo attratti. In questa chiave, il passato viene a costituirsi come premonizione di un futuro che si presenta sotto la forma della ripetizione, della reiterazione obbligata. Per scardinare questo meccanismo c’è un solo modo».
Quale?
«Fare chiarezza sulle proprie intenzioni. Gnòthi seautòn, il detto delfico solitamente tradotto come “conosci te stesso”, andrebbe inteso nel senso di “sappi che cosa stai domandando”. Affronta l’enigma che tu stesso sei ai tuoi occhi, prima di provare a risolvere l’enigma del mondo. Ma questo Edipo lo comprende solo al termine delle sue peripezie».
Verità nascoste.
Il Telemaco, il messia e la Costituzione
di Sarantis Thanopulos (il manifesto, 19.11.2016)
Massimo Recalcati nell’elogiare, alla Leopolda, Matteo Renzi, ha accusato la sinistra del No di essere masochista, paternalista e di odiare la giovinezza. Accuse fondate su luoghi comuni.
Un discorso aforistico, privo di argomenti, teso a screditare l’avversario piuttosto che ad esprimere una propria opinione sui quesiti referendari.
L’andazzo è proprio questo: la grande maggioranza degli italiani nel referendum prossimo voterà pro o contro Renzi, a prescindere dalla valutazione di una riforma che modificherà in modo sostanziale la costituzione italiana.
La personalizzazione del conflitto politico ha finito per espropriarci della cura nei confronti delle regole fondamentali della nostra convivenza democratica. Si è fatta strada una corrente di «eccezione dalla costituzione», che mentre aspira formalmente a riformarla, di fatto crea il clima di una sua sospensione sul piano emotivo.
Questo tipo di sospensione dell’ordinamento costituzionale è il più pericoloso. La restrizione diretta e apertamente autoritaria delle garanzie costitutive dei nostri diritti, crea opposizione e ribellione.
La loro sostituzione con l’affidamento regressivo all’«uomo della provvidenza», da una parte sposta l’attenzione su un quesito fuorviante - se costui è quello «vero» o quello «falso» - e dall’altra favorisce la deresponsabilizzazione.
La nota identificazione del premier con Telemaco, nella versione ideata da Recalcati come riparazione (impropria) dell’assenza del padre, è espressione di un vissuto di delegittimazione collettiva. Di questa delegittimazione, della cui origine non è responsabile, Renzi si è costituito come l’interprete più importante.
L’ha fatto per negazione, cioè oscurandola: più incerta sente la propria legittimità, più insiste sulla delegittimazione degli altri.
La rottamazione pura e semplice di una classe politica inadeguata non produce di per sé legittimazione. Se resta come unica opzione perpetua il senso di delegittimazione. Infatti, Renzi, il rottamatore, si identifica con Telemaco: un figlio reso illegittimo dall’assenza del padre e dalla solitudine, vedovanza «bianca», della madre (le due condizioni sono inscindibili).
Dimentica che il ritorno della legge nel regno di Itaca, non è opera di Telemaco. Deriva dal ritorno di Ulisse nel letto coniugale, dal suo riconoscimento e legittimazione come uomo e come padre dall’amore di Penelope.
Le regole «costituzionali» che garantiscono la buona gestione delle relazioni familiari, sono fondate sulla capacità dei genitori di essere soggetti paritari nel loro legame di desiderio. I figli che rottamano il padre, cercando di sostituirlo nell’amore della madre, finiscono per assumere un ruolo messianico.
In modo analogo al governo familiare, il governo della Polis non può essere affidato a un Telemaco capovolto nel suo significato, che non sa attendere il suo tempo. Aspettare il momento giusto per sentirsi adulti - l’accesso alla piena comprensione della congiunzione erotica dei genitori e della sua problematicità - è il senso vero dell’attesa del padre in Odissea.
Un leader capace di identificarsi con Penelope e Ulisse, cioè con il senso di corresponsabilità che costituisce le relazioni cittadine in termini di condivisione e di scambio, è molto più affidabile di un figlio che si sostituisce ai genitori. Costui si imprigiona nel destino del redentore e, diversamente da Telemaco di Omero, si considera il frutto di una unione spirituale tra un padre ideale e una madre/figlia vergine. Promuove la deresponsabilizzazione che gli ha assegnato la sua funzione immaginaria e si/ci illude di poter farcela.
CHIESA
Teologia e pastorale
Fare l’amore sotto il sorriso di Dio
di MATTEO MENGHINI*
Sebbene, in seguito all’elezione di Bergoglio, alcune cose siano cambiate e ci siano state delle parziali aperture da parte dello stesso Francesco, non si può certo dire che a queste abbiano fatto seguito dei concreti mutamenti nella pastorale. Anzi, eccetto qualche raro caso, si è di fatto rimasti fermi ad una teologia di stampo tridentino.
Per rendersene conto, sarebbe sufficiente recarsi in una delle tantissime parrocchie cattoliche o chiedere a qualche coppia omosessuale o di conviventi quale sia il trattamento loro riservato. Non nego che ci siano alcuni bravi parroci che sappiano guardare oltre il diritto canonico e siano in grado di mettere in secondo piano la rigida morale vaticana.
Noi teologi abbiamo però un difetto (per fortuna!): difficilmente - nel mio caso “mai” - ci accontentiamo delle risposte preconfezionate e ciò che amiamo fare di più è dubitare di quanto “da sempre e in ogni luogo”, per parafrasare Vincenzo di Lerino, ci viene insegnato ed è accettato da molti come vero.
Pensando alla bimillenaria condanna dell’omosessualità, ma non solo, da parte della Chiesa, la mia mente non può dimenticare quanto si afferma al par. 2357 del Catechismo della Chiesa cattolica, un testo - non dimentichiamolo! - fortemente voluto da Giovanni Paolo II ed espressione della teologia promossa nel corso del suo pontificato. In esso, si parla, a proposito dell’omosessualità, di una «genesi psichica (...) in gran parte inspiegabile » e di «atti intrinsecamente disordinati».
Chiunque incappi in queste parole non può non essere portato a pensare all’omosessualità come ad un disturbo di natura psichica. Fortunatamente, nel 1973, l’Associazione psichiatrica americana ha declassificato l’omosessualità come disturbo mentale. Oggi, si sa, omosessuali si nasce, non ci si diventa né, tanto meno, ci si ammala.
In questa sede, il mio intento non è semplicemente quello di invitare alla riflessione circa l’accettazione o meno degli omosessuali o delle coppie conviventi, quanto piuttosto di rilevare alcune delle innumerevoli aporie, o contraddizioni che dir si voglia, fra il messaggio e l’antropologia biblica, da un lato, e l’atteggiamento della Chiesa, dall’altro.
Ciò che è in ballo non è infatti la sola omosessualità, ma, in termini molto più generali, la visione complessiva della sessualità umana.
Premesso che sarebbe un grave errore ecclesiologico identificare nella Chiesa la sola gerarchia (la Chiesa comprende, a mio avviso, non solo quanti sono stati battezzati, ma l’umanità intera, se è vero che c’è un solo Padre, del quale siamo perciò tutti figli), è ormai noto che l’antropologia cattolica è tutto fuorché cristiana.
La netta distinzione dell’essere umano in corpo e anima ed il disprezzo per le realtà materiali, sessualità compresa, non risale certo a Gesù di Nazareth, ma al pensiero greco ed, in particolar modo, a Platone.
Il cristianesimo ha, ahimè, ereditato e fatto proprio quest’erroneo modo di vedere le cose. Perché erroneo? Perché esso non ha nulla a che fare con la predicazione evangelica, né con l’antropologia biblica.
Chi ha un po’ di dimestichezza con le Scritture, le legga e, soprattutto nell’Antico Testamento, che io preferisco chiamare “Primo”, non troverà la benché minima contrapposizione fra corpo e anima. L’essere umano si qualifica, sin dalle prime pagine della Genesi, come un’unità inscindibile. Non è un caso che Gesù s’incarni e risorga anche corporalmente.
Quel che allora mi chiedo e che, senza dubbio, molti prima di me si saranno chiesti è: se io sono figlio di Dio e Sua creatura, perché mai dovrei disprezzare il mio corpo e, in particolar modo, la mia sessualità che, dopo il linguaggio verbale, costituisce il mio principale approccio al mondo?
Se questo corpo è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio e se l’essenza di Dio è Amore e relazione, perché mai, al di fuori del matrimonio, la sessualità dovrebbe costituire un atto peccaminoso?
Non si tratta, come molti potrebbero pensare, di giustificare la sessualità come puro e semplice atto di godimento, in cui l’altro è ridotto a mero strumento del mio personale piacere.
La sessualità va invece vista e vissuta come dono e apertura all’altro; se, dunque, essa si concretizza nella dimensione dell’amore, non può essere classificata come peccato e questo per il semplice fatto che, laddove c’è amore, non ci può essere peccato, a prescindere dalla natura di questo amore (sia esso etero o omosessuale).
C’è di più. In un recente intervento, Vito Mancuso ha non a torto parlato di una dimensione triplice dell’amore, che ognuno di noi avrà certamente, almeno una volta, sperimentato e che trova, per così dire, conferma nei tre sostantivi con cui gli antichi Greci designavano quello che oggi è troppo facilmente etichettato come amore. Vi siete mai chiesti quale sia il vero e profondo significato della parola amore: essa significa carità (agape), cioè quella propensione insita in ciascuno ad amare il prossimo come se stessi, amicizia (philia) e passione (eros).
Ebbene, ogni essere umano è chiamato a vivere questa dimensione triplice dell’amore e a non soffocare l’una in favore dell’altra. Questo non vuol certo dire che sbaglia chi, consapevolmente ed in piena libertà, sceglie di vivere nella castità o nella continenza o nell’attesa.
Però, si noti bene: ho scritto “in piena libertà”. La libertà è quello spazio della nostra coscienza che, per definirsi tale, necessita di essere assoluto, cioè svincolato da ogni realtà o istituzione esterna. È naturale che se, non dico vogliamo, ma almeno aspiriamo ad essere cristiani, l’esercizio di questa libertà deve sempre avvenire nel rispetto di chi ho di fronte.
Concludendo questa mia riflessione, ricordo con simpatia la teologa Caterina Jacobelli, autrice del tanto amato-odiato “Risus paschalis”: un contributo, quello di Jacobelli, a cui devo molto e che ha segnato la mia giovinezza e il mio modo di studiare e vivere la teologia.
La mia simpatia va anche a Franco Barbero che, in un faccia a faccia con Oreste Benzi, non si vergognava a dire: «Fate l’amore sotto il sorriso di Dio».
* Laureato in Scienze bibliche e teologiche alla Valdese di Roma e in Scienze delle religioni all’Università di Padova. Il suo blog è teologiainpillole.wordpress.com/blog
* Adista Segni Nuovi 19 NOVEMBRE 2016 • N. 40
FILOSOFIA E PSICOANALISI: A GLORIA ETERNA DI FREUD. Con l’aiuto di Edipo, ha gettato una grande luce su Mosè e con l’aiuto di Mosè ha gettato una grande luce su Edipo. Con questo doppio movimento, egli ha liberato il cielo - e la terra....
Se dopo il Padre viene uccisa anche la Legge
All’inizio il capofamiglia sedeva sul trono e governava per il suo godimento. Poi i figli presero il potere e il loro rimorso creò le regole-totem del nuovo ordine. Nacque così il patto sociale con il suo tabù: nessuno occuperà in modo arbitrario il trono vuoto. Ora quel vuoto non solo non è riempito ma ha perso ogni significato
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 03.01.2016)
Il nostro tempo sembra cancellare ogni forma di tabù. La disinibizione e l’assenza di vergogna e di senso di colpa trionfano alla faccia del vecchio uomo del Novecento ancora preso dai grandi dissidi morali tra il bene ed il male, le ragioni individuali e quelle della Storia, il progresso e la tradizione, gli Ideali e la pulsione.
Le lacerazioni tragiche del Novecento hanno lasciato il posto ad un disincanto generalizzato che sembra aver annullato l’esperienza angosciata del tabù. Una vignetta clinica può darci il senso di quello che sta accadendo. È il caso di un giovane che, insieme a dei suoi compagni, nel corso di una rapina, ha ucciso brutalmente un anziano. Nel colloquio in carcere con lo psicologo dichiara che dopo aver commesso il crimine non ha avvertito alcun senso di colpa. La sua giornata è scivolata via come se niente fosse. Ha dormito profondamente, la mattina ha fatto colazione e si è recato normalmente a scuola. Tutto era come prima. Non siamo di fronte alla lacerazione dostoevskijana tra il senso della Legge e la sua trasgressione colpevole. Il delitto non sembra più in rapporto all’esigenza morale del castigo; la colpa non divora il criminale, non lo costringe all’insonnia, non lo tormenta.
Mentre l’uomo dostoevskijano vive il dramma dell’infrazione della Legge, il giovane criminale, dopo aver compiuto il delitto, si reca tranquillamente a scuola ridendo e scherzando con i suoi amici. Egli vive un altro genere di angoscia. Quale? La confida allo psicologo: la vertigine che lo ha assalito il giorno successivo al crimine - dopo essere stato arrestato - scaturisce dalla sensazione della inesistenza della Legge; ovvero, dalla percezione che tutto, senza la Legge, è diventato possibile; anche l’uccisione spietata di un uomo per qualche euro. Diversamente dall’uomo dostoevskijano che sprofonda nell’abisso del senso di colpa di fronte al volto severo e inflessibile della Legge, per questo giovane assassino l’angoscia scaturisce dalla dimensione totalmente inconsistente della Legge.
Siamo di fronte a un’esperienza che rovescia la genesi del tabù così come Freud l’aveva concepita nel 1913 in uno dei suoi testi più visionari qual è Totem e Tabù. In quel libro, sulle orme di Darwin, il padre della psicoanalisi aveva immaginato che la prima forma organizzata di vita umana avesse come protagonista un padre titanico, geloso e crudele, possessore di tutte le donne (il Padre dell’orda), che confondeva arbitrariamente la Legge col proprio godimento. Di fronte a questa tirannia permanente i figli-fratelli, ai quali era proibito l’accesso alle donne, decidono di allearsi uccidendo il padre e divorando il suo corpo in un pasto tribale. Il fatto che i fratelli si cibino delle carni del padre manifesta tutta l’ambivalenza del loro legame al padre: ucciso in quanto oggetto d’odio, ma sbranato in quanto oggetto d’amore affinché la sua potenza illimitata possa essere incorporata dai suoi figli.
Il termine “rimorso” trova qui il suo significato più profondo: divorando il corpo del padre temuto ma amato, i figli si sentono morsi dalla colpa. L’esito del rimorso è l’instaurazione del totem: il padre morto continua a vivere sebbene non più nella forma della tirannia capricciosa, ma in quella dell’autorità simbolica incarnata nel totem.
La sua morte è, dunque, all’origine del senso stesso della Legge; il totem diviene, al tempo stesso, oggetto di venerazione e di angoscia, commemorando l’assassinio del padre e il rimorso che esso ha suscitato. Da quel momento in poi, si instaura il divieto dell’incesto che obbliga tutti i figli all’esogamia. Il senso della Legge sorge come effetto retroattivo dell’atto parricida: mentre in Edipo il parricidio infrange la Legge conducendo il figlio verso l’abisso dell’incesto e della distruzione, in Totem e Tabù esso genera la Legge.
La vita democratica della Comunità si rende possibile solo attraverso il tabù che sorge in seguito all’uccisione del padre. È solo la morte del padre che pretende di essere la Legge, di fare coincidere la Legge con la sua volontà di godimento, a costituire la condizione della nascita di una Legge più umana e della Cultura stessa. Il patto sociale sostituisce il caos della violenza; la pulsione deve sublimarsi nel riconoscimento di una Legge che, trovando il suo fondamento nel padre morto, vale per tutti, non è più Legge ad personam. Nessuno può occupare il posto del padre morto perché si tratta di un posto destinato a rimanere vuoto. I totalitarismi del Novecento e i fondamentalismi di ogni genere mostrano, a rovescio, l’inferno che può generarsi dal suo riempimento fanatico.
Nel nostro tempo il rischio però non è quello di riempire il vuoto lasciato dal padre morto, ma, nella dissoluzione neo-libertina di ogni tabù, di fare venire meno il rispetto verso la Legge. È la vertigine che assale il giovane assassino: non esiste un argine, un limite, una barriera che possa contenere il suo atto. In questo modo l’assenza della Legge sembra diventare l’unica forma della Legge; se tutto diventa possibile, se dopo aver compiuto un crimine efferato tutto resta come prima - senza senso di colpa e senza rimorsi - non sarebbe forse necessario rivalorizzare il tabù come effetto della Legge?
Il protagonista della tragedia di Sofocle è diventato la figura emblematica dell’uomo vittima del suo destino Condannato senza colpa a infrangere i due divieti fondativi: non uccidere tuo padre, non giacere con tua madre Ma secondo Lacan più che l’incesto il re di Tebe incarna l’eccessivo desiderio di verità che è in noi
I tabù del mondo
Siamo tutti Edipo l’eroe maledetto della conoscenza
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 10.01.2016)
Per definire la vita umana Lacan ha più volte evocato la leggenda antica dello schiavo-messaggero che portava iscritto sulla propria nuca rasata il messaggio che avrebbe dovuto recapitare senza poterlo leggere. Tutti noi portiamo sulle nostre nuche le sentenze, le maledizioni, gli auspici, le speranze, i desideri, le gioie delle nostre madri e dei nostri padri senza mai poterle leggere direttamente. Ciascuno porta scritto sulla propria nuca il destino che l’Altro ci ha assegnato senza poterlo decifrare. La nostra vita è allora solo l’esito di una necessità inesorabile? Ecco arrivare la sagoma inquietante di Edipo, il figlio innocente che il destino ha voluto colpevole. L’oracolo consultato al momento della sua nascita legge la sua nuca: infrangerà i tabù più grandi, i tabù dei tabù: ucciderà suo padre e si unirà sessualmente con sua madre. È questo il suo dramma: la fine della sua vita coincide con il suo inizio senza alcuna possibilità di movimento.
Conosciamo la sua storia che per Freud è la nostra storia: l’oracolo sentenzia al padre Laio il destino disgraziato di suo figlio Edipo. Per evitare che la profezia si compia, il re consegna il figlio a un pastore con la raccomandazione spietata di ucciderlo. Abbandono e infanticidio sono alle radici del dramma del figlio Edipo. Nel racconto di Sofocle il primo ad infrangere la Legge non è il figlio ma il padre: Laio vuole fare uccidere il figlio perché altrimenti ne sarebbe ucciso. Figlicidio e parricidio si corrispondono drammaticamente come due facce della stessa medaglia. Tutto, proprio tutto, è già scritto per Edipo, sin dall’inizio. Il pastore mosso a pietà affida il bimbo a un altro pastore che a sua volta lo affida a una coppia regale della città di Corinto che non poteva avere figli. Edipo scopre il suo destino consultando il Dio Apollo e proprio per evitare che si compia decide di allontanarsi dalla sua città. Lungo la strada incontra però, senza riconoscerlo, il proprio padre e lo uccide in uno scontro mortale. In seguito risolverà l’enigma della Sfinge e diventerà il re di Tebe, sposo della sposa di Laio, di sua madre Giocasta. La tragedia di Edipo si condensa nella sua impossibilità a sfuggire al proprio destino: tutto era già scritto e più Edipo rifiuta la scrittura del proprio destino, più resta impigliato.
In un primo tempo Edipo è vittima passiva della sentenza dell’Altro che porta tatuata sulla sua nuca: è un figlio abbandonato e adottato. In un secondo tempo della sua vita diviene un eroe, un salvatore; libera Tebe risolvendo il mistero della Sfinge. Sembra aver modificato il suo destino: diventa un re che assicura prosperità al suo popolo e alla sua famiglia. Ma l’ombra tetra dell’epidemia cade sulla sua città a causa di una colpa oscura. Edipo vuole sapere la causa del flagello. Attiva con decisione un’inchiesta per scoprire il colpevole ma anche in questo caso volendo sfuggire al proprio destino lo incontra inesorabilmente. La sua inchiesta trascura di indagare se stesso; è tutta rivolta verso l’esterno. È il contrario di Socrate; se questi sa di non sapere, Edipo non sa di sapere. La sua determinatezza lo allontana, paradossalmente, dalla verità. Il nucleo della tragedia, scrive Ricoeur, «non è il problema del sesso, ma quello della luce». Mentre Edipo pensa di vedere, è cieco; è Tiresia, il veggente cieco, che invece può vedere rivelandogli la verità più scabrosa: «Sei tu l’impuro che infetta questa terra... tu cerchi l’assassino di Laio. L’assassino sei tu: questo ti dico... viene da te il tuo Male...».
Edipo preferisce la verità al suo bene e a quello di chi gli sta vicino e lo ama («tutto questo bene mi ha seccato!»). Edipo non patteggia, non media, non ascolta i consigli di Tiresia e di Giocasta, non è attaccato alla propria identità, alla sicurezza delle sue proprietà. La verità, per lui, conta di più di ogni altra cosa. La sua volontà di sapere assume la forma di una hybris radicale che sfida ogni tabù. E questa verità, alla fine, sarà accecante, violenta, traumatica. L’accecamento a cui si sottopone dopo la rivelazione di Tiresia denuncia la sua colpa irrimediabile: «Luce di questo giorno, tu devi essere l’ultima mia luce. Ecco chi sono: nato da chi non mi doveva generare. Vissuto accanto a chi non mi doveva vivere accanto. Chi non dovevo uccidere, io l’ho ucciso».
Edipo non ha il dono della visione immediata della verità propria dell’oracolo. Egli è solo un uomo. La sua ricerca della verità - come quella di tutti gli uomini - è un cammino necessariamente lento e faticoso. Egli paga la colpa del suo desiderio di sapere che non si frena di fronte a nessun limite. Se Edipo non avesse voluto sapere la verità della sua origine sarebbe rimasto padre, Re e marito. Egli non accetta la rimozione, la maschera, non si accontenta di quello che sa; vuole interrompere l’omertà borghese dell’Io, vuole andare sino in fondo.
È la forza tragica di questa figura maledetta. Edipo esce dall’oscurità del non-sapere potendo finalmente vedere quello che ha compiuto. La sua identità di Re, padre e liberatore si ribalta in quella di figlio parricida e incestuoso, destinato a vivere da reietto. È il punto su cui ha insistito, dopo Freud, Lacan: la tragedia del parricidio e dell’incesto è, in realtà, una tragedia della verità. Possiamo chiederci, con Edipo, quanta verità può sopportare un uomo? Nel suo caso la rivelazione della verità coincide con la realizzazione del suo destino; la sua innocenza diventa la sua colpa; la verità non è soltanto luce che libera la visione, ma può essere anche talmente insopportabile da rendere impossibile ogni visione.
IL TERZO MILLENNIO DOPO CRISTO E’ INIZIATO, MA IN VATICANO INVECE DI AVERE FEDE E CORAGGIO perseverano alla grande, nell’ordine simbolico e nell’immaginario costantiniano?!!:
Nel discorso di Francesco alla veglia in Piazza San Pietro l’auspicio che i padri sinodali possano attingere dalla tradizione "orientamenti di speranza" e il riferimento a una Chiesa che "protegge senza sostituirsi" e "corregge senza umiliare"
di ANDREA GUALTIERI (la Repubblica, 03 ottobre 2015)
CITTA’ DEL VATICANO - "Se non sappiamo unire la compassione alla giustizia finiamo con essere inutilmente severi e profondamente ingiusti". Papa Francesco lo ricorda alla vigilia del sinodo che si apre con la messa solenne di domenica e che è chiamato ad affrontare le problematiche legate alle famiglie contemporanee. Bergoglio ha parlato durante la veglia organizzata in piazza San Pietro dalla Cei ed alla quale hanno partecipato migliaia di persone da tutta Italia, insieme ai padri sinodali e agli uditori che lunedì inizieranno il dibattito.
"Dal tesoro della viva tradizione - ha auspicato Francesco - i padri sappiano attingere parole di consolazione e orientamenti di speranza per famiglie chiamate in questo tempo a costruire il futuro della comunità ecclesiale e della città dell’uomo". Più che "parlare" di famiglia, ha precisato, si tratta di "mettersi alla sua scuola, nella disponibilità a riconoscerne sempre la dignità, la consistenza e il valore, nonostante le tante fatiche e contraddizioni che possono segnarla". Il sinodo, ha insistito il pontefice, "sappia ricondurre a un’immagine compiuta di uomo l’esperienza coniugale e familiare, riconosca, valorizzi e proponga quanto in essa c’è di bello, di buono e di santo, abbracci le situazioni di vulnerabilità, che la mettono alla prova: la povertà, la guerra, la malattia, il lutto, le relazioni ferite e sfilacciate da cui sgorgano disagi, risentimenti e rotture".
Un anno fa, alla veglia che ha preceduto il sinodo straordinario e preparatorio, il Papa argentino aveva chiesto ai vescovi di evitare di imporre pesi che essi stessi non avrebbero saputo sopportare. Ora l’atteggiamento auspicato dal pontefice per il confronto che proseguirà fino al 24 ottobre è quello di una Chiesa che, ha detto, "protegge senza sostituirsi, che corregge senza umiliare, che educa con l’esempio e la pazienza, a volte, semplicemente con il silenzio di un’attesa orante e aperta". Ma anche una comunità ecclesiale "lontana da grandezze esteriori, accogliente nello stile sobrio dei suoi membri e, proprio per questo, accessibile alla speranza di pace che c’è dentro ogni uomo, compresi quanti hanno il cuore ferito e sofferente".
Bergoglio ricorda alla sua Chiesa di essere misericordiosa perché essa stessa "per prima vive l’esperienza di essere incessantemente rigenerata nel cuore misericordioso del Padre". E solo con questa consapevolezza può "rischiarare davvero la notte dell’uomo, additargli con credibilità la meta e condividerne i passi".
Galantino: "Non gridiamo contro qualcuno" - Prima del Papa avevano parlato i responsabili dei grandi movimenti ecclesiali: da Matteo Truffelli dell’Azione cattolica a Maria Voce dei focolarini, da don Julian Carron di Cl a Kiko Arguello del Cammino neocatecumenale e Salvatore Martinez del Rinnovamento nello Spirito.
E’ stato il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, ad accogliere il pontefice: "L’esperienza quotidiana - ha detto - ci vede coinvolti in una trasformazione epocale della cultura sociale, che interessa profondamente la famiglia". E ha aggiunto: "Non vogliamo lasciare che il lamento, la stanchezza o la paura prevalgano sullo stupore, sulla gioia e sul coraggio, né che le analisi, legate a un contesto in cui sembra vincere la dinamica del non legarsi a niente e nessuno, ci frenino sulla disponibilità ad accompagnare i giovani nella scelta coraggiosa del matrimonio".
Alla folla si era rivolto in precedenza il segretario dei vescovi italiani, Nunzio Galantino: "Vogliamo anche noi gridare, ma non contro qualcuno. Il nostro è un grido di preghiera perché Dio possa accompagnare la Chiesa, chiamata a mettere occhio ma anche cuore nell’esperienza sinodale".
In piazza i ’colori’ della Chiesa - "La famiglia è alla svolta?", chiedeva la scritta su uno striscione in piazza San Pietro. Davanti al Papa sventolavano vessilli di associazioni, gruppi e movimenti ecclesiali. Tantissimi i bambini, anche sul sagrato, ai piedi del quale si è creato un inedito parcheggio di passeggini. In prima fila i drappi di diocesi del Sud, da Monreale a Cassano Jonio. Poi i forum familiari e i consultori. "Non abbiamo paura delle differenze: qui sono insieme i tanti colori della Chiesa italiana", ha sottolineato don Paolo Gentili mentre piazza San Pietro si riempiva.
Tre le testimonianza scelte dagli organizzatori: sul palco sono saliti una coppia di fidanzati - lei di Alghero, lui cubano -, due genitori con i figli e infine una coppia di nonni pisani insieme ai nipoti. Ed è stata proprio la signora toscana a raccontare in piazza lo stato d’animo con il quale grazie alla sua famiglia sta affrontando la sindrome gravissima e invalidante che la affligge: "Dire ti amo - è stato il cuore del suo intervento - significa dire che tu non morirai mai".
Al Papa poi una famiglia con 4 figli, uno dei quali affetto dalla sindrome di Down, ha portato una lampada che Bergoglio ha benedetto. Da essa, la fiamma si è propagata alle fiaccole che la folla dei fedeli aveva in tutta la piazza e il gesto si è ripetuto in contemporanea in tutte le diocesi italiane: "La luce che si è irradiata da San Pietro è il segno visibile di questa fabbrica di speranza che sono le famiglie", sottolinea don Paolo Gentili
La confessione del monsignore Krzysztof Charamsa: "Io gay felice e con un compagno".
La Santa Sede: "Lasci l’insegnamento"
"So che pagherò conseguenze, ma ora Chiesa apra gli occhi"
di Redazione ANSA *
ROMA. "Certamente mons. Charamsa non potrà continuare a svolgere i compiti precedenti presso la Congregazione per la dottrina della fede e le università pontificie, mentre gli altri aspetti della sua situazione sono di competenza del suo Ordinario diocesano". Lo ha detto padre Federico Lombardi.
"La scelta di operare una manifestazione così clamorosa alla vigilia della apertura del sinodo - dichiara padre Lombardi - appare molto grave e non responsabile, poiché mira a sottoporre l’assemblea sinodale a una indebita pressione mediatica". E questo nonostante il rispetto per le vicende personali.
La confessione del monsignore. "Voglio che la Chiesa e la mia comunità sappiano chi sono: un sacerdote omosessuale, felice e orgoglioso della propria identità. Sono pronto a pagarne le conseguenze, ma è il momento che la Chiesa apra gli occhi di fronte ai gay credenti e capisca che la soluzione che propone loro, l’astinenza totale dalla vita d’amore, è disumana". Lo afferma al Corriere della Sera, monsignor Krzysztof Charamsa, 43 anni, polacco, ufficiale della Congregazione per la Dottrina della Fede e segretario aggiunto della Commissione Teologica Internazionale vaticana, oltre che docente alla Pontificia Università Gregoriana e al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum.
Molto attivo sui social network, da twitter a linkedin, monsignor Krzysztof Charamsa, il teologo gay ha anche un suo blog, attivato alla fine di questo mese agosto. Pochi ancora i post pubblicati e il monsignore si presenta al pubblico della rete con una foto in t-shirt gialla e con un saluto in diverse lingue.
Sulle ragioni del suo coming out, spiega: "Arriva un giorno che qualcosa si rompe dentro di te, non ne puoi più. Da solo mi sarei perso nell’incubo della mia omosessualità negata, ma Dio non ci lascia mai soli. E credo che mi abbia portato a fare ora questa scelta esistenziale così forte , forte per le sue conseguenze, ma dovrebbe essere la più semplice per ogni omosessuale, la premessa per vivere coerentemente, perché - aggiunge - siamo già in ritardo e non è possibile aspettare altri cinquant’anni".
"Dunque dico alla Chiesa chi sono - aggiunge -. Lo faccio per me, per la mia comunità, per la Chiesa. È anche mio dovere nei confronti della comunità delle minoranze sessuali". Alla domanda su che cosa pensi di ottenere, mons. Charamsa afferma: "Nella Chiesa non conosciamo l’omosessualità perché non conosciamo gli omosessuali. Li abbiamo da tutte le parti, ma non li abbiamo mai guardati negli occhi, perché di rado essi dicono chi sono.
Vorrei con la mia storia scuotere un po’ la coscienza di questa mia Chiesa. Al Santo Padre rivelerò personalmente la mia identità con una lettera".
Il teologo spiega di parlare alla vigilia del sinodo sulla Famiglia perché "vorrei dire al Sinodo che l’amore omosessuale è un amore familiare, che ha bisogno della famiglia. Ogni persona, anche i gay, le lesbiche o i transessuali, porta nel cuore un desiderio di amore e familiarità. Ogni persona ha diritto all’amore e quell’amore deve esser protetto dalla società, dalle leggi. Ma soprattutto deve essere curato dalla Chiesa".
Fingere di essere Freud ci fa pensare come lui
Esperimento di realtà immersiva della Sissa di Trieste
di Carla Reschia (La Stampa, 30.09.2015)
Immaginate di essere Sigmund Freud, fategli una domanda e datevi una risposta. I volontari che hanno partecipato agli esperimenti di «embodiment» di Sofia Adelaide Osimo, ricercatrice della Sissa di Trieste, si saranno sentiti in un film, un film con una sceneggiatura un po’ strampalata, come quella scritta da Charlie Kaufman per Essere John Malkovich dove tutti, per un quarto d’ora potevano entrare nella mente del famoso attore e viverne in soggettiva i pensieri e le azioni.
La ricerca, appena pubblicata sulla rivista Scientific Reports, è ovviamente serissima. Si trattava di verificare se l’impersonamento (l’embodiment, appunto) può influire anche sui processi del pensiero. Detto altrimenti: essere un altro ci fa ragionare in maniera differente? La risposta è sì.
Nell’esperimento condotto in collaborazione con l’Event Lab dell’Università di Barcellona, le «cavie» dovevano prima chiedere consiglio su un problema di natura psicologica e poi darsi una risposta vestendo però i panni di Sigmund Freud.
Perché proprio lui? «Abbiamo sottoposto dei questionari a un campione con caratteristiche simili a quelle dei soggetti che abbiamo scelto per gli esperimenti. E il padre della psicanalisi è risultato perfetto: autorevole, conosciuto, con un aspetto molto caratteristico».
Per l’esperimento è stata usata la «realtà virtuale immersiva», ovvero una stanza virtuale dove, dotati di casco e sensori, i soggetti dell’esperimento potevano vivere fisicamente la sensazione di trovarsi letteralmente nei panni del dottor Freud. «E quando impersonavano lo psicanalista viennese, i loro consigli erano molto più efficaci di quando parlavano semplicemente tra sé e sé», spiega la ricercatrice.
Una sorta di gioco di ruolo: nella prima fase di ogni sessione il soggetto era se stesso ed esponeva a Freud un problema di natura psicologica. Subito dopo «saltava» nel corpo di Freud e a quel punto si rispondeva, dando dei consigli. Il soggetto poi tornava dentro se stesso per ascoltare le parole di Freud (la voce era la stessa del soggetto, ma alterata con un tono più basso per non creare confusione). Lo scambio poteva andare avanti per più turni, fino a che il soggetto non era soddisfatto.
«I risultati sono chiari: darsi consigli funziona sempre, ma darseli come Sigmund Freud, funziona di più - spiega Osimo -. Abbiamo dimostrato per la prima volta che l’embodiment è efficace anche su processi cognitivi di alto livello, come problem solving e processi decisionali».
Una nuova prospettiva per il counseling psicologico dove la realtà virtuale potrebbe diventare uno strumento efficace. E anche particolarmente economico. Si faccia una domanda e si dia una risposta. Ci aveva già pensato Marzullo.
Ora sul lettino c’è anche Gesù
di Alessandro Pagnini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 27.09.2015)
Il testo di Freud, proposto in edizione critica con l’originale tedesco a fronte nella eccellente curatela e nell’ampio commento di Manfred Heinz e di Roberto Righi, risale a un periodo incerto, tra il 1930 e l’inizio del ’32, ed è un testo che Freud destinò a rafforzare le premesse psicoanalitiche della biografia del Presidente americano Woodrow Wilson che il suo paziente William Bullitt, in quegli anni, aveva in animo di scrivere. Il libro di Bullitt uscirà solo nel ’67, e proprio nel primo capitolo conterrà il testo di Freud; riportato però con significative correzioni e omissioni (soprattutto relative alla teoria freudiana dell’omosessualità), a rimarcare più che altro differenze insanabili tra lui cristiano credente e Freud ebreo agnostico, pur nel comune giudizio negativo sull’umanitarismo sciocco e velleitario di Wilson, sul suo messianismo politico e sull’idea che una pace perpetua tra i popoli potesse essere garantita dalla Lega delle Nazioni.
Come documentano i curatori, Freud fu più coinvolto in quell’impresa con Bullitt di quanto non risulti dalle più accreditate biografie intellettuali a noi note. La ragione principale sembra chiara: cogliere l’occasione per una nuova presentazione pubblica della psicoanalisi e per una dimostrazione della sua efficacia esplicativa. Non scordiamoci che Freud aveva scritto a Ferenczi alla fine della Prima Guerra Mondiale, con non poco cinismo, che «per colmo di sfortuna, appena il mondo ha cominciato a interessarsi della psicoanalisi...la guerra finisce». Da allora, è vero, guarda con progressivo distacco e disaffezione alla politica, ma sa che proprio la politica può essere il pretesto adatto per propagandare le sue teorie e per rinforzarne l’impatto. Ne esce un “sommario” di psicoanalisi chiaro e incisivo e con accenti interessanti e insoliti, come nelle pagine di intonazione feuerbachiana dedicate alla figura di Cristo.
Sigmund Freud, Manoscritto 1931. Inedito in edizione critica, La casa Usher, Firenze-Lucca, pagg. 106, € 11,00. In libreria dall’1 ottobre. A fianco uno stralcio in anteprima
Le pulsioni di Wilson
La richiesta di un parere sul carattere del presidente americano fu l’occasione per dimostrare la validità della ricerca psicoanalitica. E paragonarsi a Newton...
di Sigmund Freud (Il Sole-24 Ore, Domenica, 27.09.2015)
Sono stati scritti molti libri su Thomas Woodrow Wilson e molte persone che gli furono vicine hanno tentato di dare a sé stesse e ad altri una spiegazione della sua natura. Tutti questi tentativi di spiegazione hanno in comune di terminare con un punto interrogativo. Per i suoi stessi biografi e confidenti, Wilson è rimasto un personaggio pieno di contraddizioni, un enigma. Il colonnello House scrive nel suo diario il 10 giugno 1919: «Non ho mai conosciuto un uomo di cui si potessero avere da un’ora all’altra impressioni così alterne. E non è soltanto l’espressione del suo volto che cambia. Egli possiede un carattere talmente difficile e contraddittorio che non è affatto semplice formarsi un giudizio su di lui». Tutti gli amici e i biografi di Wilson sono giunti più o meno esplicitamente alla medesima conclusione.
Wilson fu certo una personalità complessa e non sarà facile trovare il cammino per arrivare alle visioni che possano stare a fondamento delle apparenti contraddizioni della sua natura. Non vogliamo abbandonarci a illusorie speranze, apprestandoci a sottoporre ad analisi la sua vita psichica. Questa analisi non può riuscire in modo completo e pienamente soddisfacente, perché di molti lati della sua vita e della sua natura non sappiamo nulla. Quel che in generale sappiamo di lui sembra meno rilevante di quel che non sappiamo. Tutte le cose che vogliamo sapere di lui potremmo apprenderle se fosse in vita e si sottoponesse alla fatica di un’indagine psicoanalitica. Ma egli non è più in vita e quindi nessuno conoscerà mai quelle cose. Non abbiamo probabilità alcuna di comprendere i fatti decisivi della sua vita psichica, con tutti i suoi dettagli e il suo intero contesto, e perciò non abbiamo nemmeno il diritto di definire come una psicoanalisi di Wilson il nostro lavoro. Esso piuttosto è uno studio psicologico, basato sul materiale a cui, per l’appunto, abbiamo avuto accesso: non avanziamo pretese maggiori.
D’altra parte, però, non vogliamo sottovalutare il fatto di sapere varie cose su molti aspetti della vita e del carattere di Wilson. Anche se non possiamo aspirare a un’analisi completa, le nostre conoscenze sono abbastanza ampie per giustificare la nostra speranza che possa riuscirci di individuare correttamente le linee principali del suo sviluppo psichico. A ciò che sappiamo su Wilson in quanto singolo individuo, possiamo anche aggiungere quel che la psicoanalisi ci ha insegnato, in via assai generale, su tutti gli esseri umani. Wilson, in fondo, era un uomo come un altro e soggetto alle stesse leggi dello sviluppo psichico. La validità universale di queste leggi è stata dimostrata dalla ricerca psicoanalitica attraverso l’esame di innumerevoli individui.
Dicendo questo non intendiamo affermare che la psicoanalisi abbia svelato i misteri ultimi della vita psichica umana. Essa tuttavia ha per così dire spalancato la porta che conduce a questa vita interiore, permettendoci di riconoscere alcune cose vicine a questa porta, mentre altre sono all’interno, più in profondità, ancora celate dalle tenebre. Essa ha pur sempre gettato un po’ di luce in queste tenebre, sicché riusciamo a distinguere i contorni di alcune cose. Uno sforzo ulteriore ci mostrerà probabilmente che abbiamo compreso in maniera non del tutto corretta la forma di queste cose. Ma non fa nulla. L’aspettativa che i dettagli delle nostre attuali rappresentazioni dovranno subire delle modifiche non deve trattenerci dall’utilizzarli nel presente così come in effetti sono.
La nostra scienza è ancora molto giovane. Le prestazioni di Newton non sono state svalutate dal fatto che in seguito è comparso Einstein con la sua dottrina: senza un Newton probabilmente non ci sarebbe mai stato un Einstein. Sfrutteremo dunque a nostro vantaggio alcune delle tesi che la psicoanalisi ha scoperto e per le quali essa pretende fiducia; prima di mettere mano al problema psicologico che il carattere di Wilson ci pone, dobbiamo però esporre, con la massima concisione possibile, queste definizioni concettuali e questi presupposti.
Prendiamo avvio dal fatto che nella vita psichica umana, fin dall’inizio, è attiva una forza che chiamiamo libido, l’energia della pulsione sessuale. Da dove essa provenga è una questione che qui non ci preoccupa. Non è superfluo osservare che la pulsione sessuale, la cui energia è stata da noi presentata come libido, include certamente tutto ciò che di solito chiamiamo in quel modo, ma si spinge anche assai oltre. Diciamo che essa si esprime in tutto ciò per cui noi impieghiamo la parola polisemica «amore». La sua estensione coincide all’incirca con il concetto di eros in Platone. Per i profani sarebbe probabilmente una semplificazione se utilizzassimo poi, anziché pulsione sessuale e sessualità, i termini eros ed erotismo, e definissimo la libido come l’nergia dell’eros. Ma per determinate ragioni, ciò nella psicoanalisi non è accaduto e ora non possiamo cambiare le cose.
Questa libido deve essere collocata da qualche parte. Noi immaginiamo: che essa «carichi» determinati settori e determinate parti del nostro apparato psichico, similmente a come una carica elettrica aderisce a un corpo conduttore; che, proprio come quest’ultima, essa subisca variazioni quantitative; che in stato di quiete generi una tensione corrispondente a questa quantità, e che urga verso la scarica; inoltre, che essa venga alimentata e rinnovata continuamente a partire da fonti organiche. La prima collocazione della libido è quella dell’amore di sé nel narcisismo. Quest’ultimo diventa estremamente tangibile nel neonato, i cui interessi si limitano alle attività e ai prodotti del proprio corpo e che trova in sé stesso tutte le fonti di piacere. In quanto poppante, egli ha certamente un oggetto, consistente nel seno materno, ma egli non può far altro che incorporare questo oggetto nel proprio Io e trattarlo come una parte di sé.
All’opposto rispetto al narcisismo poniamo l’amore oggettuale. In rari casi viene conservata anche negli adulti una condizione simile al narcisismo del neonato. Tali uomini ci appaiono come mostri di egoismo, non essendo capaci di amare qualcos’altro da loro stessi. Normalmente, nel corso della vita, una parte della libido viene indirizzata su oggetti, ma un’altra parte resta attaccata al proprio Io. Il narcisismo è la collocazione originaria della libido, rimanendo anche quella più duratura. Il rapporto fra libido narcisistica e libido oggettuale può oscillare entro ampi margini, la quantità principale di libido può essere presso l’Io oppure presso oggetti, ma nessun essere umano è totalmente privo dell’amore di sé.
Di padre in figlio? Non più oggi, l’eredità è scomparsa
Massimo Cacciari parla di “Figliolanza” e riempie piazza Grande in ogni angolo
Nella lezione ha analizzato come il rapporto sia cambiato da Gesù in poi
di Daniele Bondi (Gazzetta di Modena, 20 settembre 2015)
La lectio magistralis di Massimo Cacciari in Piazza Grande ha per titolo “Figliolanza” ed è una lezione di Filosofia della Religione a tinte nietzschiano-kafkiane. Rispetto al mondo classico greco-latino - ove il Padre è colui che ha potenza assoluta sul figlio ed esercita la patria potestà - l’Antico Testamento presenta una differenza: il Padre di Israele è dominus e creatore di tutte le cose, ma è anche legato al suo “figlio” con un sentimento di amore che è ontologico. Nell’Ebraismo c’è quindi il tentativo sia di mantenere la trascendenza divina, sia di vedere Dio come Padre, anzi come Abbah (papà). Quest’ultima tensione, questa possibilità escatologica, si concretizzerà nel Tempo Ultimo, quello messianico, quando gli uomini potranno essere chiamati veramente figli del Dio vivente.
E con l’avvento del Messia, ecco allora venire il Tempo Ultimo e pertanto l’inaugurazione dell’Età del Figlio. Siamo di fronte a una novità assoluta: Gesù dice «Padre che sei nei Cieli» (e quindi accoglie l’idea di trascendenza assoluta dell’Ebraismo) ma sin dall’inizio Egli si costituisce come il ponte sicuro verso il Padre, come Figlio Unico del Dio vivente, come immagine perfetta della Figliolanza. «Chi non odia suo padre, non può seguirmi» non è un invito da prendere alla lettera, ma un invito a separare drasticamente la genitorialità dalla paternità. Chi ti ha generato non è il Padre: la genitorialità è un fatto naturalistico, l’autorità paterna è ben altro.
«Tutto mi è stato dato dal Padre mio» è scritto nel Vangelo secondo Matteo. Con questa espressione, Gesù dice di essere una rappresentazione perfetta del Dio-Padre in quanto «Chi vede me, vede il Padre». Emerge quindi l’intensità assoluta di una relazione mai vista sino ad allora, una relazione che ha profondità insondabili. Il Figlio è stato fatto pieno erede: tutto gli è stato dato dal Padre (come se fosse morto!) ed è divenuto la Via, la Verità e la Vita. Per cui la stessa autorità del Padre si è trasferita sul Figlio il quale ha col Padre una relazione essenziale, non contingente: “Deus est relatio” dice infatti Agostino. Il divino diventa la relazione stessa fra umano e divino. Anche perché «In principio era il Logos» e il Logos come Verbo, come Discorso, come Dialettica è stato da Filone identificato proprio col Figlio Primogenito di Dio.
Su questo sfondo del tutto nuovo, può accadere che i figli affermino: «Siamo tutti pieni eredi, ergo Dio è morto!» Il Figlio è autonomo e solo, il Padre sprofonda nel passato e se ora è l’Età del Figlio, domani verrà l’Età dello Spirito? In questo contesto può accadere che i Figli si affermino come perfetti eredi da cui le guerre fratricide per stabilire chi sia l’autentico erede. Parricidio e fratricidio diventano così consustanziali. Ma le guerre fratricide sembrano ricondurre non tanto al Padre, ma alla Patria Potestas, cioè alla lotta per il potere, a una lotta che si concretizza in percorso tragico per tornare ad essa. Lo stesso Nietzsche sostiene che è stato proprio l’avvento dell’Età del Figlio a determinare la morte di Dio. Ma in questo sfondo di Età del Figlio, si può aprire anche un’altra strada: la lotta del padre per conservare la patria potestas. Lo si può vedere nella rivolta islamica al Cristianesimo, quasi una dichiarazione di infantilismo dei “figli” incapaci di libertà, di seguire il logos se non obbedendogli (muslim significa obbediente).
Questa stessa lotta reazionaria del padre appare nella nostra cultura nella “Lettera al padre” di Kafka ove il padre pretende una potestas in quanto genitore senza accorgersi di essere figura cieca che vuole rendere impotenti i figli come impotente è lui. Il padre diventa una sorta di divinità castrata che ha generato, ma non è Padre e copre le sue proprie vergogne svergognando il figlio. Si tratta di un padre passato che non vuole tramontare e non consente al figlio di vivere liberandosi da questa estrema immagine di patria potestas.
Per papa Francesco Dio ama gli uomini “come una madre”
di Paolo Rodari (la Repubblica, 10 giugno 2013)
La «compassione» che Dio prova per «la miseria umana» è paragonabile alla reazione di una madre «di fronte al dolore dei figli». «Così ci ama Dio», ha detto Papa Francesco ieri mattina alla recita dell’Angelus, ci ama «come una madre».
Parole che molto ricordano la discussa uscita di Giovanni Paolo I, al secolo Albino Luciani - il Pontefice che non a caso molto ricorda per modi e stile Jorge Mario Bergoglio -, all’Angelus del 10 settembre 1978, quando parlando a braccio disse che Dio «è papà, più ancora è madre».
E anche Giovanni Paolo II, più tardi in almeno un paio di occasioni, parlò della paternità di Dio che «riassume in sé anche le caratteristiche che solitamente si attribuiscono all’amore materno» (udienza del 20 gennaio 1999) e ha attribuito a Dio «mani di padre e di madre nello stesso tempo » (udienza dell’8 settembre 1999).
Quando Luciani, primo fra i successori di Pietro, accomunò l’archetipo femminile all’assolutezza divina, la curia romana non reagì bene. Gelo e imbarazzo calò sul successore di Paolo VI che di lì a poco, dopo soli trentatré giorni al soglio di Pietro, sarebbe scomparso. Forse in Vaticano temevano ripercussioni nella logica dei poteri e delle posizioni gerarchiche.
Eppure già i profeti dell’Antico Testamento usarono parlare dell’amore materno di Dio: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il frutto delle sue viscere?» chiede il profeta Isaia. E ancora: «Come una madre consola il figlio, così io vi consolerò».
Fu poi Martin Lutero, nel sermone Christus, gallina nostra, a richiamare l’attenzione su una «scandalosa» identificazione. Quella di Gesù che nel Vangelo di Matteo definisce se stesso «una chioccia che riunisce i pulcini sotto le ali». Del resto, il volto «femminile» di Dio si è incarnato proprio nel «discepolato di eguali» inaugurato dalla predicazione di Gesù, in forza della quale, come si legge in Galati, «non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù».
Benedetto XVI, invece, è stato più prudente. Nel suo best seller Gesù di Nazaret scrive che il titolo di madre non spetta a Dio che è solo e assolutamente padre. «Madre non è un titolo di Dio, non è un appellativo con cui rivolgersi a Dio. Noi preghiamo così come Gesù, sullo sfondo della Sacra Scrittura, ci ha insegnato a pregare, non come ci viene in mente o come ci piace. Solo così preghiamo nel modo giusto».
Psicoanalisi
Il saggio di Recalcati
I figli Telemaco in attesa del padre che non c’è più
Come cambia il “ruolo” educativo nella società moderna col tramonto dei grandi sistemi di interpretazione del mondo
di Augusto Romano (La Stampa TuttoLibri, 08.06.2013)
Una storiella ebraica, riportata da J. Hillman, racconta di un padre che vuole insegnare al figlio ad avere più coraggio. Perciò, lo mette in piedi sul secondo gradino di una scala e gli dice: «Salta, che ti prendo». Il bambino salta e il padre lo accoglie fra le braccia. Il gioco va avanti per un po’ finché il padre improvvisamente si tira indietro e il bambino cade lungo e disteso. Mentre piangente si rimette in piedi, il padre gli dice: «Così impari a non fidarti di nessuno, neanche se è tuo padre».
Se, al di là dell’aneddoto, cerchiamo di cogliere il significato simbolico della storia, ci rendiamo conto che esso è particolarmente pregnante. Il gesto del padre, nella sua apparente crudeltà, rompe la fiducia primaria e il bisogno unitivo e, creando distanza, rende possibile la relazione, la quale implica inevitabilmente la differenza, l’alterità.
Inoltre, l’azione paterna apre al figlio il luogo dell’incertezza e della precarietà, la condizione dell’abbandono e dello sradicamento, che sono propri dell’esistenza umana; ma anche, indicando un limite, mobilita le energie volte a fare del limite stesso una opportunità e della solitudine un’occasione di creatività. Mette il figlio a contatto con l’ingiustizia e col non senso e gli affida il compito di elaborarli simbolicamente. In questa operazione trasformativa anche il padre sanguina, e proprio perché sanguina realizza una testimonianza efficace.
Simile in questo ad Abramo, rinuncia al possesso del figlio e lo abbandona pur senza abbandonarlo, giacché lascia in lui il segno del limite; si sacrifica, realizzando in prima persona ciò che addita al figlio; si assume sino in fondo la responsabilità del tradimento, confidando forse nel detto gnostico attribuito a Gesù, che dice: «Se sai quello che fai, sarai salvo; se non lo sai, sarai dannato». Il figlio si ricorderà di lui nelle situazioni limite dell’esistenza, per esempio nei rapporti d’amore, quando dovrà prendere atto della radicale dissimmetria dei soggetti della coppia ed assumersi il fardello (che però è anche uno sporgersi oltre se stesso) di amare nell’altra proprio l’irriducibile alterità.
Questo libro denso e appassionato di M. Recalcati si propone di analizzare la paternità nella società attuale, in cui sono tramontati i grandi sistemi di interpretazione del mondo e il nichilismo ha disvelato il carattere precario e per così dire ipotetico della vita individuale e associata.
Com’è sotto gli occhi di tutti, mancano i padri come quello della nostra storiella, garanti con la loro testimonianza del nesso inscindibile tra limite, sacrificio, creatività e umanizzazione. Accanto a un piccolo drappello di padri tradizionali (padre-padrone, padre-eroe), che credono illusoriamente di essere portatori di una verità da trasmettere, la stragrande maggioranza è fatta di padri assenti e di padri-bambini, compagni di gioco dei loro figli.
In questo sperdimento del limite, i figli tendono a loro volta a restare bambini, desiderosi di tutto e subito, insofferenti di ogni frustrazione, privi di orientamento verso scopi. Crescendo manifesteranno, a seconda delle situazioni, il rifiuto radicale dell’idea stessa di paternità e la tendenza compulsiva al godimento come esorcismo contro le responsabilità della vita; o, per contro, la nostalgia del padre della Tradizione, che li sollevi dall’obbligo di scegliere; o anche la chiusura saturnina, l’esigenza di controllo, il cinismo, la riduzione dell’altro a feticcio, la mercificazione dei rapporti: una vita al risparmio, una infelicità senza più desideri.
La coppia Ulisse-Telemaco rappresenta per l’Autore un esempio dell’esigenza che oggi si nasconde sotto l’infelicità, il disordine e la paura di padri e figli: un ritorno del padre che dia testimonianza della consapevolezza che la vita è il luogo di opposizioni logicamente inconciliabili ma esistenzialmente esperibili.
Infatti, il discorso di Recalcati si muove sul sottile crinale che separa l’innovazione creativa dalla normatività da un lato, e dalla pura dissipazione energetica dall’altro. A una vita all’insegna dello scialo, inteso come uno spendersi sino in fondo per la realizzazione del significato della propria esistenza, si oppone una vita all’insegna dello spreco, dello smarrimento nella pura fattualità. Gli opposti che vengono costantemente tematizzati sono filiazione/separazione, memoria/oblio, identità/alterità, fedeltà/tradimento, libertà/legge, appartenenza/erranza, caos/cosmo.
Centrale, nel discorso di Recalcati, è il problema dell’attribuzione di senso, che lo porta a parlare dell’inconscio non solo come deposito del rimosso ma anche come «il luogo di ciò che non si è ancora realizzato e che domanda di potersi realizzare». Il che sembra allontanarlo dalla matrice lacaniana cui aderisce per avvicinarlo all’idea junghiana di inconscio «progettante» e alla nozione di simbolo come paradossale tensione di termini opposti, cui è affidata la funzione di rendere possibile la trasformazione interiore. Se si sorvola su qualche vezzo linguistico, il libro è tra quelli che danno da pensare.
Se negli anni della crisi i figli smettono di combattere il padre
Con “Il complesso di Telemaco” Massimo Recalcati ribalta il paradigma di Freud
di Luciana Sica (la Repubblica, 20.03.2013)
Si sente solo, è smarrito, eppure Telemaco non è travolto dalla sfiducia. Non ha mai conosciuto suo padre, ma forse un giorno potrà riconoscerlo. In una condizione malinconica, con lo sguardo rivolto sul mare aspetta che da quell’immenso orizzonte di acqua e di cielo, torni “qualcosa”. Non un fulgido eroe senza zone d’ombra, ma un padre che sa indignarsi per le dissolutezze dei Proci e difendere i suoi affetti, un uomo anche imperfetto che però non ignora come la possibilità dell’amore sia data solo in presenza del rispetto, dell’impegno, del senso di responsabilità.
Telemaco è il nuovo figlio che si affaccia sulla scena culturale grazie a Massimo Recalcati, un analista tutt’altro che estraneo alla dimensione politica, capace di riflettere sui movimenti inconsci dell’esperienza umana ma anche di uscire dai recinti del suo sapere lacaniano, efficacemente utilizzato anche come una teoria critica della società. Con Il complesso di Telemaco (sottotitolo: “Genitori e figli dopo il tramonto del padre”, Feltrinelli, in libreria da oggi), Recalcati aggiunge un brillante tassello alla riflessione sul tema centrale della paternità, sulla sua “evaporazione”, secondo l’espressione coniata da Lacan già alla fine degli anni Sessanta.
È un libro strettamente legato a Cosa resta del padre? - titolo di gran successo ristampato più volte da Cortina. Telemaco è infatti il “giusto erede” di un genitore vulnerabile che non si propone come un modello esemplare o universale, ma può rappresentare «una testimonianza etica, singolare, irripetibile» sulla possibilità di stare al mondo con qualche passione, sulla capacità di restituire fiducia nell’avvenire. E seppure la verità che trasmette si sia indebolita, non c’è nessuna nostalgia per il pater familias, il tiranno che una volta assicurava l’ordine più repressivo, «incarnazione normativa della potenza trascendente di Dio».
L’icona un po’ struggente di Telemaco, che non trasgredisce la Legge ma anzi la invoca, che non si crogiola nel nichilismo ma chiede al mondo adulto la restituzione di un senso alla vita, allontana dall’immaginario la figura di Edipo, del figlio inconsapevole e colpevole. Su quel mito sofocleo, Freud ha costruito l’impianto della psicoanalisi - per dire l’interdizione paterna al desiderio della “Cosa” materna.
Ma se i padri non proibiscono l’incesto e anzi lo promuovono, annullando la differenza tra le generazioni, anche Edipo “evapora”, diventa una figura incapace di descrivere l’impoverimento dei legami familiari e sociali. Non basta più la sua colpa cieca per decifrare l’enigma delle identità giovanili, tanto meno l’egocentrismo di Narciso, con quel suo specchio che si rivela suicidario.
Serve uno sguardo diverso sulla crisi profonda che attraversa l’Occidente e il rapporto tra le generazioni. Ci vogliono occhi ben aperti, come quelli di Telemaco, il figlio di Ulisse e Penelope, di un uomo capace di coltivare una dimensione etica della vita e di una donna che - a dispetto del corpo intaccato dagli anni - può contare su una figura maschile non titanica, ma profondamente umanizzata.
«Telemaco si emancipa dalla violenza parricida di Edipo; egli cerca il padre non come un rivale con il quale battersi, ma come un augurio, una speranza, come la possibilità di riportare la Legge sulla propria terra», così scriveva Recalcati in un articolo di un paio di anni fa, uscito su queste pagine con il titolo In nome del figlio.
Il libro riprende e allarga quella riflessione senza eccedere in tecnicismi scolastici, senza collezionare citazioni roboanti, ma ricorrendo anche alle suggestioni del cinema: Habemus Papam e Palombella rossa di Nanni Moretti, per dire la difficoltà di sostenere il peso simbolico della funzione pubblica, l’afasia e la dimenticanza degli Ideali; l’inferno del Salò di Pasolini per alludere all’orrore distruttivo del godimento privo di desiderio, al degrado del corpo senza Eros.
Nel capitolo più originale, ecco i quattro grandi interpreti del disagio giovanile. Il protagonista del teatro freudiano, paradigma dello scontro tra il vecchio e il nuovo, fa da inevitabile punto di partenza:
«Il figlio Edipo sperimenta il padre come ostacolo alla realizzazione del suo soddisfacimento. In questo senso la sua figura ha ispirato le grandi contestazioni del 1968 e del 1977».
Il figlio-Anti-Edipo (Deleuze e Guattari), “sottofigura del primo”, ha tenuto banco negli anni Settanta con la vocazione dell’orfano, deciso a liberarsi del padre piuttosto che a combatterlo.
Ma nel tempo successivo del riflusso, quando trionfa «una falsa orizzontalità », il figlio-Narciso piega l’ordine familiare alla legge arbitraria dei suoi capricci, si specchia negli oggetti che consuma, con il penoso risultato di svuotarsi di ogni slancio vitale. È in questi anni, con la grande crisi non solo economica del mondo occidentale, che entra sulla scena Telemaco: è lui - un personaggio dell’Odissea - che «ci mostra come si può essere figli senza rinunciare al proprio desiderio».
«Ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo, se vuoi possederlo davvero»: Recalcati evoca il celebre detto di Goethe (citato da Freud) per affermare quanto sia cruciale «il movimento di ripresa del passato», il confronto con le tracce paterne cicatrizzate nel proprio destino.
Ma alla fine di un libro così pieno di pathos, nell’epilogo l’autore fa un passo ulteriore, si mette in gioco, racconta di sé, delle intemperanze adolescenziali e dei suoi genitori: di un padre dall’italiano incerto chino nella cura delle sue piante malate, di una madre che non è andata a scuola e lo incoraggia a studiare. «Da bambino avevo due eroi: Gesù e Telemaco. Era il mio modo di meditare sul legame con mio padre e sulla sua assenza... »: poco più di quattro pagine che emozionano, lasciano un senso di stupore. E restituiscono in pieno quel fondamento cristiano di Massimo Recalcati.
I tabù del mondo
Telemaco fratello di Edipo senza complesso
Cerca il padre e, in viaggio, rischia la sua vita
Il personaggio dell’Odissea è un’alternativa positiva alla vita maledetta del protagonista della tragedia di Sofocle. Perché non assume la memoria della sua origine come una catena. Ma si fa carico attivamente dell’eredità lasciatagli da Ulisse Per oltrepassare davvero il genitore, un figlio deve riconoscere la sua alterità. Diversamente ci si condanna a una lotta vana, che non si risolverà mai
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 13.03.2016)
Per il perverso la Legge degli uomini non merita rispetto perché è solo una maschera per difendersi dalla scabrosità della pulsione e dalla sua volontà di godimento. Ogni tabù, primo fra tutti quello del padre, deve essere dissolto dalla forza inceneritrice della sola Legge che conta, quella del godimento per il godimento. Ne l’Odissea di Omero i giovani principi che pretendono di sostituire con la violenza e il sopruso Ulisse nella sua funzione di re di Itaca e di marito di Penelope sono una rappresentazione del carattere assoluto del desiderio perverso: vogliono in sposa una donna che potrebbe essere una madre, dichiarano morto suo marito senza averne le prove, non tengono conto della volontà dell’assemblea imponendo alla parola la forza arbitraria delle armi, invadono la casa del loro re, offendono e stuprano le sue serve, saccheggiano le provviste, non rispettano la Legge dell’ospitalità e la sua sacralità che costituisce la trave portante di tutto il mondo greco.
I Proci sono la rappresentazione di una giovinezza alla deriva, perduta nella notte di un godimento senza limiti che non arretra di fronte all’immagine del padre. Con essi entra in contrasto la figura di Telemaco, il figlio che Ulisse non ha potuto crescere lasciandolo ancora in fasce per partire per la guerra di Troia. Ne Il complesso di Telemaco (Feltrinelli) ho proposto la sua figura come quella del figlio giusto in quanto giusto erede. Egli, infatti, diversamente dai Proci, non entra in un conflitto mortale col padre, non vuole la morte di chi lo ha generato, non cancella con violenza il debito simbolico che lega tra loro le generazioni. Al contrario; Telemaco sa che senza la ricostruzione di una alleanza simbolica tra padri e figli non si potrà in alcun modo riportare la Legge ad Itaca.
In questo senso Telemaco è una alternativa positiva alla vita maledetta di Edipo. Mentre il personaggio di Sofocle si cava gli occhi dopo aver scoperto la sua vera identità di figlio incestuoso e parricida, quello di Omero ricerca il volto assente del padre. Struggenti e indimenticabili per forza e tenerezza sono i versi del canto XVI dell’Odissea nei quali si racconta l’incontro tanto atteso tra il padre e il figlio nell’umile capanna del porcaro Eumeo: «E Telemaco, abbracciando il padre glorioso, versava lacrime fitte. Entrambi avevano voglia di piangere, e piangevano forte, gemendo più degli uccelli, più delle aquile o degli avvoltoi dagli artigli ricurvi a cui i contadini rubarono i piccoli prima che avessero messo le ali. Così, pietosamente versavano lacrime da sotto le ciglie».
Un abisso separa questa scena dal duello mortale di Edipo con il padre Laio. Ma la forza di Telemaco non consiste tanto nel rovesciare la spinta parricida nell’esigenza di una nuova alleanza tra padri e figli. Certo, questa figura, per come l’Odissea l’ha scolpita, è anche una figura della nostalgia: Telemaco è in attesa del ritorno del padre. Ma non è questo il tratto che rende questo figlio - diversamente dai Proci - un figlio giusto, un giusto erede.
La forza di Telemaco è nel mostrarci che l’eredità non consiste nel ricevere passivamente rendite, beni o geni dai nostri avi, ma, come indica Freud, citando Goethe a conclusione della sua ultima opera dal sapore testamentario, titolata Compendio di psicoanalisi, «ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo se vuoi possederlo davvero». Questa, solo questa, è la forza più propria di Telemaco; egli non si limita ad attendere nostalgicamente il ritorno del padre, ma si mette in viaggio verso Pilo e Sparta, rischiando la sua vita.
Telemaco non è una figura passiva dell’attesa, ma una icona del figlio che di fronte all’assenza del padre impugna il proprio desiderio. È, infatti, solo il viaggio del figlio di fronte all’assenza del padre - ma un padre non è forse sempre la presenza di un’assenza? - a rendere possibile il ritorno del padre e della Legge a Itaca.
Ho definito “generazione Telemaco” la generazione dei nostri figli che di fronte al declino irreversibile dell’autorità simbolica del padre non vivono, come i Proci e Edipo, la necessità destinale della lotta a morte col padre, ma quella di farsi eredi giusti, ovvero di mettersi in moto, di rischiare la propria vita nel loro viaggio. Perché essere figli giusti, cioè eredi, non significa incassare il bottino dell’eredità, ma spingersi, esporsi, compiere il proprio cammino nel mondo. Telemaco infrange un nuovo falso tabù che è stato fomentato da una concezione solo puberalmente trasgressiva del desiderio: per essere eredi bisogna volere la morte del padre, liberarsene, fargli la pelle. Egli, al contrario, mostra che il lutto autentico del padre si può compiere solo se si riconosce il debito che ci lega e l’assenza che, sempre, la sua presenza porta con sé. L’odio per il padre in nome di una libertà assoluta getta la vita in un legame impossibile da sciogliere.
L’erede, invece, può avanzare nel suo viaggio perché non assume la memoria della sua provenienza come una catena, un peso inerte, una maledizione - come accade per Edipo - ma il reale di cui egli è fatto. Per oltrepassare davvero il padre bisogna riconoscere la sua alterità. Diversamente i figli si condannano ad una lotta vana, destinata a non risolversi mai, nel nome di una emancipazione illusoria contro il tabù del padre. Ma se il debito non è assolto, è fatalmente destinato ad allargarsi. Nessun sentimento, infatti, come l’odio resiste al passare del tempo.
Padri che dominano troppo
di Nicola Gardini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 13.03.2016)
Admeto, come leggiamo in Euripide, aveva ottenuto dagli dèi di poter evitare la morte nel caso in cui qualcuno si offrisse al suo posto. Il giorno arrivò e si offrì l’irreprensibile moglie, Alcesti. I genitori, benché anziani, si guardarono bene dal sostituirsi a lei. Al funerale Admeto li rinnegò entrambi. Alcune delle parole rivolte al padre sono diventate il titolo dell’ultimo saggio di Eva Cantarella Non sei più mio padre, pubblicato da Feltrinelli. È un proclama rivoluzionario: la biologia, che non è certo riscrivibile, qui si dà per convenzione, per pratica sociale, per politica. E davvero Eva Cantarella mostra che il rapporto padre-figlio o, più latamente, tra generazioni nella Grecia antica è questione di potere; vale come istituzione giuridico-economica prima ancora che legame d’amore o esperienza affettiva.
I padri dominano, i figli subiscono. Se fanno di testa loro, sono semplicemente disobbedienti, non significa che siano artefici del proprio destino (come, invece, i figli scapestrati dei moderni romanzi di formazione). La relazione paternalistica si mantiene più o meno incontestata, almeno sulla base delle testimonianze pervenuteci, dal periodo arcaico a quello della morte di Socrate. Padri dominatori, perfino uccisori dei propri figli compaiono nella mitologia delle origini, che si fonda, guarda caso, proprio sul racconto di una competizione padre-figlio (Urano-Crono). Il figlio può, con un castrante falcetto, prevalere, ma sarà a sua volta padre dominatore. Anche Zeus ha la meglio su Crono. Sebbene con lui, finalmente, la catena di violenza familiare si interrompa, Zeus continua ad avere autorità assoluta sui figli; il suo potere paterno non si mette in dubbio. E così non si mette in dubbio quello di Odisseo.
Molti, valutando i fatti dell’Odissea, parlano di una maturazione di Telemaco. Eva Cantarella dimostra che Telemaco resta figlio e basta; quel che fa lo fa perché così vuole il padre. Lo stesso vediamo nella tragedia, in cui si esprime la voce della nuova polis. Già ho citato il caso di Admeto. Si pensi anche all’emblematico caso di Ippolito, che soccombe alla maledizione del padre, o a quello di Oreste, che si fa matricida per vendicare il padre. Insomma, il figlio sta per il padre, o sottostà al padre. E quando, come Edipo, si affranca da lui con la violenza, non trova alcuna felicità.
Le prime vere contestazioni del modello tradizionale, come risulta dalla commedia di Aristofane, cominciano solo verso la fine del quinto secolo, quando Atene, per effetto della guerra, entra in crisi e i figli cercano di ridefinire le proprio ragioni e funzioni, anche prendendo i padri a sberle. Da padre adesso fa uno come Socrate: un padre elettivo, che decostruisce qualunque rapporto di potere, autorizzando l’indipendenza e l’autosufficienza intellettuale del figlio. E immagine del nuovo figlio è, pur con tutti i suoi lati riprovevoli, un Alcibiade: ubriaco di troppa libertà, reso arrogante proprio dall’amore di Socrate, disobbediente e irriverente per principio, trionfante nella catastrofe.
Non sei più mio padre, che presto verrà completato da una seconda parte su Roma, aggiunge un sostanziale capitolo al racconto della civiltà antica che Eva Cantarella va componendo con sapienza e con eleganza da molti anni. I meriti del suo metodo sono grandi: rigore nell’utilizzo delle fonti (letterarie e no), chiarezza nella presentazione degli argomenti anche più ardui, una lucidità critica che, tendendo alla condensazione, sa però illuminare la complessità dei contesti, anche quando sfumino nel buio dell’indocumentabile. Un’altra cosa degna di lode: qui non si cade mai nella trappola dell’attualizzazione. Lo sguardo resta fermamente, scientificamente storico, come già nelle altre bellissime indagini sull’omosessualità e sulla donna per le quali Eva Cantarella è diventata celebre.
Tuttavia il lettore non può non sentire che la trattazione di temi come questi, che parlando di identità e di responsabilità, di giustizia e di benessere sociale, risponde a interrogativi e a problemi attualissimi. Finito di leggere Non sei più mio padre, dobbiamo domandarci: Chi sono i padri oggi? E i figli? I politici, lo sappiamo, stanno cercando di dare risposte e qualche felice soluzione sembra già a portata di mano (la legge Cirinnà). Pensiamoci tutti a queste domande. Ci troviamo davanti a grandi e concrete occasioni di rinnovamento, come ai tempi di Socrate. Possiamo tutti riformarci come padri e come madri, favorendo la crescita e la libertà e l’uguaglianza. Non costringiamo le nostre società all’ennesima dose di cicuta.
La parola di Gesù sul lettino di Freud
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 14 gennaio 2013)
Alla fine della mia lettura de I Vangeli alla luce della psicoanalisi di Françoise Dolto, ripubblicato dopo circa trent’anni da una nuova piccola casa editrice milanese et al./edizioni, ho pensato: “ecco un gioiello!”.
A suscitare il mio entusiasmo diverse ragioni. La prima è la sua autrice: Françoise Dolto. Amica e allieva di Jacques Lacan, originalissima psicoanalista con una propensione particolare alla cura dei bambini, profondamente interessata ai processi di umanizzazione della vita e agli snodi principali dello sviluppo psicologico del soggetto (infanzia e adolescenza), sino alle angosce e alle responsabilità che investono i genitori, ma anche attenta alle trasformazioni della vita collettiva e ai virtuosismi del desiderio e alla sua declinazione femminile, Dolto non si è mai rifugiata in un linguaggio esoterico o specialistico, ma ha sempre cercato di rendere trasmissibile il proprio pensiero.
La sua originalità nel mondo della psicoanalisi è consistita anche dal fatto che non ha mai nascosto la sua fede cristiana e la sua militanza cattolica. Fatto raro per uno psicoanalista che si rifaceva all’insegnamento di Freud, seppur ripreso da Lacan. Per il padre della psicoanalisi, infatti, l’uomo religioso è abbagliato da una illusione narcisistica.
A partire da Freud - forse con la sola eccezione significativa di Lacan - la tradizione psicoanalitica ha sostenuto compattamente l’idea della religione come “nevrosi” o, addirittura, come “delirio dell’umanità”. L’uomo religioso è l’uomo che rifiuta la responsabilità di affrontare le asprezze reali della vita per rifugiarsi nella credenza illusoria di un “mondo dietro il mondo” - come direbbe Nietzsche - , regredendo allo stato di un bambino che trasferisce su Dio tutti quei tratti di infallibilità e di perfezione che prima attribuiva al proprio padre. Rispetto a questo schema Dolto rappresenta una importante alternativa.
È questa la seconda ragione del mio entusiasmo di lettore. Dolto non entra mai nel merito di una difesa di ufficio della religione contro la psicoanalisi. Ella pensa e ragiona da psicoanalista interessata non tanto al fenomeno dell’uomo religioso o della credenza religiosa - interesse che ha invece calamitato il pensiero di Freud - , ma alla lettura diretta dei Vangeli.
Il suo discorso vira così da una psicoanalisi del sentimento religioso in generale alla parola di Gesù. La lettura dei Vangeli viene descritta come “un’onda d’urto” che mette a soqquadro la nostra rappresentazione ordinaria della realtà. Dolto mette con decisione l’accento su Gesù come maestro del desiderio: «Gesù insegna il desiderio e trascina verso di esso», verso quella che Dolto definisce provocatoriamente «una nuova economia dell’egoismo».
Cosa significa? Gesù ci insegna a non avere paura di accogliere la forza e la trascendenza del desiderio che ci abita e che spinge la vita umana al di là del campo animale del soddisfacimento dei bisogni. L’egoista non è chi segue con fedeltà la chiamata del suo desiderio, ma colui che pretende che gli altri si uniformino al suo. Chi invece segue con decisione la chiamata del proprio desiderio, come fa, al limite della truffa, il fattore disonesto raccontato in una parabola dall’evangelista Luca, non è un egoista in senso dispregiativo, ma qualcuno che sa rendere la sua vita generativa. Per questo Dolto vede nel completamento cristiano della Legge ebraica una sovversione radicale del rapporto tra Legge e desiderio. La forma più alta e liberatoria della Legge non entra in conflitto repressivo col desiderio perché coincide in realtà con il desiderio stesso.
In questo senso Gesù insegna il desiderio, insegna a non rinunciare al proprio desiderio. Com’è liberatoria questa versione della parola di Gesù rispetto alla sua riduzione ad un ammonimento morale!
Ecco allora l’ultima ragione - quella decisiva - per la quale la lettura di questo librogioiello mi ha entusiasmato. È il modo in cui Dolto ribalta le interpretazioni più canoniche delle parabole applicando l’arte dell’analista alla parola stessa di Gesù. Prendiamo come esempio quella nota a tutti del buon samaritano. L’interpretazione catechistica la riduce al fatto che tutti noi dovremmo dedicare del tempo a chi giace inerme e ferito sulla nostra strada, al nostro prossimo più sfortunato. Dolto invece identifica il prossimo non con lo sventurato che chiede aiuto, ma con chi offre in modo disinteressato il suo aiuto. Strabiliante!
Il prossimo è il buon samaritano! Ed è per questo, per come ci ha soccorsi e donato il suo tempo
senza esigere riconoscenza alcuna, né farci sentire in debito, che occorre amarlo, amare il
samaritano come nostro prossimo. Per questa ragione l’amore cristiano non ha nulla di consolatorio,
non è un rifugio illusorio, non è una negazione del carattere spigoloso del reale. L’amore in Gesù è
come avviene nell’incontro con il buon samaritano - una forza che ci scuote e che porta con sé la
necessità dello strappo e della separazione.
Nella celebre parabola del figliol prodigo tra i due fratelli il peccato più grande - il solo che conta - l’ha compiuto chi si aspettava che l’eredità fosse semplicemente una questione di clonazione, di fedeltà passiva al passato. Il figlio che resta accanto al padre è il figlio nel peccato perché non accetta la Legge del desiderio che è la Legge della separazione. Gesù è l’incarnazione pura di questa forza separatrice («Non sono venuto a portare la pace ma la spada!»).
Molte delle parabole commentate da Dolto mettono il dito nella piaga mostrando il rischio che il legame familiare scivoli verso un legame incestuoso che impedisce lo sviluppo pieno della vita. È questo il caso dei racconti delle resurrezioni, come quella del figlio della vedova di Nain, della figlia di Giairo o dello stesso Lazzaro.
La parola di Gesù risveglia dalla morte perché strappa la vita da legami mortiferi che non la fanno accedere alla potenza generativa del desiderio. “Vieni fuori!” - il grido che Gesù rivolge a Lazzaro - deve essere preso come un nuovo imperativo categorico che consegna la vita umana alla Legge del desiderio. “Vieni fuori!” significa: non stare nel riposo incestuoso, non evitare il rischio della perdita, non delegare il tuo desiderio a quello dell’Altro, non smarrire la tua più singolare vocazione!
È questo il volto di Gesù ritratto da Dolto che ribalta un altro luogo comune che vorrebbe liquidare la verità del cristianesimo come un evitamento dell’incontro col reale (la morte, il sesso, la malattia, l’angoscia, ecc).
La lettura di Dolto rovescia anche questo pregiudizio mostrando come il reale scaturisca proprio dall’incontro con la parola di Gesù perché questa parola spinge ciascuno di noi ad assumere la Legge del proprio desiderio. Gesù non vuole proteggere la vita dalle ustioni del reale, non si offre come riparo consolatorio, né tantomeno pretende di guidare le nostre vite. Egli è l’incarnazione della Legge del desiderio; non ci guida, ma ci attrae a sé. È causa del desiderio e non emissario di una Legge sadica che opprime il desiderio
DIALOGHI
Dolto, Vangelo e psicoanalisi *
«Quando leggo i Vangeli, io incontro qualcuno. Attraverso i generi, le immagini, fantasmi letterari dei Vangeli, scopro un’umanità che si esprime, una personificazione così straordinaria, una carnalità così profonda che hanno del divino. In un racconto come lo scritto evangelico, così pieno di “natura” fin nei dettagli apparentemente incoerenti o alogici, trovo una coerenza al di là degli aspetti che possono apparire stravaganti. I Vangeli producono in me delle onde d’urto, di cui cerco di rendermi conto.
Con la psicoanalisi si va sempre oltre: a ogni risposta, si scopre un’altra domanda. Ma la psicoanalisi non spiega tutto. A un certo punto si ferma perché l’umano si ferma, non può andare oltre. Ma il desiderio ci trascina sempre oltre... Allora, è o il nonsenso e l’assurdo oppure è il senso che continua a interrogarci nel più profondo di noi stessi fin nel nostro inconoscibile; e questo, per me, è il campo di Dio. Aggiungo che la resurrezione è un evento che non è mai stato negato dai cristiani. È anche a partire da tale evento che la civiltà cristiana si è strutturata. Il “risveglio” di Gesù è la base stessa della fede di tutti i cristiani. Questo “risveglio” dalla morte è una testimonianza che sento veritiera, autentica: sento che, quali che siano le morti che ho subìto, ne sono tornata “risvegliata” poiché sono viva».
Ma, da quali morti è risuscitata? Quali morti, già da adesso, l’hanno risvegliata a un’altra vita?
«Ma, via, abbiamo vissuto molte morti, lei e io! La morte del feto quando nasce il bambino. La morte nel bambino il quale, credendo che suo padre e sua madre facciano le leggi del cielo e della terra, si accorge che essi non sono onnipotenti! Che perdita di fiducia nei propri genitori! Più tardi, che morte nel momento della pubertà! Amo un essere con tutta la mia fede, con tutta la mia immaginazione, con tutto il mio corpo e, disgraziatamente, scopro di essergli del tutto indifferente! Dopo essersi divertito un po’ con il mio amore, si allontana da me per un’altra! Facciamo continuamente l’esperienza della nostra immaginazione impotente sulla realtà, poco conforme ai nostri sogni, eccetera. Tutta questa vita, mi dica lei, non è forse una morte permanente? Siamo esseri che scoprono, un giorno dopo l’altro, la propria impotenza. Un’impotenza che è sempre una morte per il nostro desiderio che vorrebbe essere onnipotente. È questo rischio ad accompagnare la nostra vita di viventi, amanti, desideranti, dandole anche senso».
In fin dei conti, rinasciamo dalle nostre ceneri?
«È vero. Continuiamo a risorgere... Continuiamo a vivere ricostruendo su lutti, morti, separazioni che spesso ci provano molto profondamente. Rinasciamo al nostro desiderio dopo aver lasciato in ogni nostro piacere, in ogni nostro tentativo, un po’ di noi stessi, della nostra speranza o delle nostre illusioni. Eppure, la speranza rinasce e il desiderio è sempre dentro di noi, e canta di nuovo il suo richiamo se rimaniamo in buona salute!... È questa paura che Gesù, durante tutta la sua vita, vuole farci superare: “Non abbiate paura!”. Non ripete forse questa frase come un leitmotiv? Egli stesso è giunto fino in fondo al suo desiderio: fare ciò che il Padre voleva. Non ha avuto alcun pensiero di vendetta contro coloro che lo torturavano e lo condannavano ingiustamente a morte, non si è mai sottratto, non ha mai schivato quella morte malgrado i tormenti dell’angoscia nel Giardino degli Ulivi. Tutto il suo essere accettava volontariamente di servire il desiderio inconoscibile che, attraverso di lui, doveva realizzarsi per salvare tutti gli esseri umani dalle angosce del loro desiderio mascherato dall’orrore del peccato, terrorizzato dalla morte fisica».
Secondo lei, Gesù è venuto a insegnarci a vivere il nostro desiderio. Ma, allora, perché è risuscitato? Che cosa aggiunge la sua resurrezione?
«Noi siamo esseri di carne, cerchiamo la soddisfazione del nostro desiderio, il godimento della carne. Ma mai questa carne e i piaceri che essa ci procura ci bastano né ci appagano. Gesù risuscitato ci insegna che se cerchiamo in spirito e in verità, affrontando il dubbio e la sua prova, se superiamo la carne senza bandire i piaceri condivisi, senza fare l’economia dei rischi per il nostro corpo, oltre la morte troveremo la pienezza del nostro desiderio».
Parliamo ora dei testi dei Vangeli. Che cosa la colpisce innanzitutto in questi passi che riferiscono, ciascuno a suo modo, che il Cristo si «risveglia» dalla morte?
«Quello che mi colpisce, o meglio, quello che mi commuove, è la gioia. Ogni apostolo, ogni donna, ogni discepolo si mette in cammino per avvertire gli altri e comunicare che il Cristo non è morto ma vive. Ognuno annuncia a tutti il suo incontro con lui, la propria scoperta e la propria gioia. Questo dono della gioia è il primo “frutto”, il primo effetto di tale avvenimento. La gioia non è divertimento né piacere, la gioia è un’emozione profonda che invade tutto il nostro essere, che ci esalta e ci fa sfavillare. Così, gli amici che vanno verso Emmaus si sentono il cuore ardere e, subito, ritornano a Gerusalemme a trovare gli Undici. “Vedendo il Signore, i discepoli furono felici”, eccetera. Sento, in tutti questi testi, lo choc o lo stupore; poi, passata l’incredulità, la gioia sconvolgente del ritrovarsi e, subito dopo, la familiarità, la sorpresa davanti alla trasformazione di Gesù. È davvero sconvolgente e gioioso, anche per me».
Dopo la morte, noi dunque ci svegliamo, come dice il Vangelo, attraverso il Cristo, a un’altra vita...
«Sì, credo di sì. Lo spirituale, non essendo consumo carnale, porterà una gioia indicibile nelle nostre parole attuali, poiché il piacere nel godimento del corpo è solo una metafora, un’analogia. Scopriremo allora il desiderio dello spirito soltanto sfiorato, presentito nell’amore di adesso. Sì, credo che potremo, in spirito, conoscere la verità dell’amore e un godimento di cui non abbiamo alcuna nozione prima di essere passati attraverso la morte».
Che cosa aggiungiamo noi alla comprensione della resurrezione di Gesù?
«Non dico che aggiungiamo qualcosa! Il mistero rimane sempre. Mi sembra che parlandone come abbiamo fatto, entrambi abbiamo provato innanzitutto della gioia; e poi ci siamo posti fra quei cristiani, giacché proprio questo è il loro nome: coloro che credono al Vangelo perché Gesù è morto e si è “risvegliato”».
Françoise Dolto
* Avvenire, 12 novembre 2012
L’omofobia serve agli adolescenti per sentirsi veri uomini
di Delia Vaccarello (l’Unità, 9 gennaio 2013)
A cosa serve il bullismo omofobico? la violenza a scuola è un fulmine nel cielo sereno della convivenza scolastica o invece ha radici fortissime? Dinanzi alle differenze a chi giova rispondere con la violenza? A questi e ad altri interrogativi, Giuseppe Burgio, ricercatore in campo pedagogico da anni impegnato sulle questioni legate all’orientamento sessuale, risponde in maniera netta: l’omofobia serve agli adolescenti per sentirsi veri uomini.
Nel saggio Adolescenza e violenza. Il bullismo omofobico come formazione alla maschilità (ed. mimesis), Burgio dimostra che il bullismo omofobico è una tappa nel processo di costruzione della virilità: chi lo esercita ricava il vantaggio di aderire allo stereotipo del maschio come si deve. Disprezzare ciò che è «passivo» e «femminile» (caratteristiche associate all’omosessualità) diventa un elemento cruciale, così in adolescenza l’odio per i gay si rivela un modo di esorcizzare la tentazione di essere «dipendenti» quindi «femminucce» attraverso l’identificazione della virilità con l’aggressività.
un fenomeno non isolato
L’omofobia non sarebbe un fenomeno isolato, messo in atto a scuola dai ragazzi che «scherzano pesante» ma diventa necessario ai ragazzi eterosessuali per definirsi all’altezza di quella virilità simbolica che la società e la cultura impongono di interpretare. Prendendo in esame testimonianze dirette Burgio si concentra sugli attori della relazione - vittime, aggressori, contesto scolastico - e analizza alcuni aspetti importanti tra cui spicca «il disgusto maschile»: nei racconti si parla di sputi e di altre violenze che avvengono nei gabinetti (dove ci sono sporcizia e cattivi odori), una collocazione che dimostra il bisogno di marcare un confine nei riguardi dei gay, considerati persone che provocano ribrezzo contro le quali schierarsi. Poiché a livello «fantastico» il contatto con l’omosessuale «sporca» la virilità, il ragazzo gay viene degradato, associato allo squallore, per sottolineare ancora di più la differenza rispetto al coetaneo etero con il vantaggio di proclamarsi «veri maschi».
Ancora, un elemento costante nelle testimonianze è «il pettegolezzo derogatorio»: oltre all’insulto, infatti, assume un ruolo predominante «il dirlo in giro». L’omosessualità di un compagno va resa nota attraverso un turbinio di voci e, peggio, va provata attraverso invasioni della privacy, come il furto di telefonini e diari, nonché vere e proprie trappole. Un compagno etero, ad esempio, provoca l’amico che sente invaghito di lui fino ad illuderlo di dargli un bacio: «il mio ex compagno di banco, ex amico, ex persona di cui ero innamorato, ci ha provato con me in maniera molto esplicita e spudorata per vedere se io ero gay, io ho ceduto e appena sono andato per baciarlo si è scostato, mi ha allontanato, si è alzato e se ne è andato e poi mi ha sputtanato con tutti quanti...».
atteggiamento inquisitorio
L’atteggiamento inquisitorio nei riguardi di chi è sospettato di omosessualità risulta necessario perché avere accanto un ragazzo gay diventa per molti etero un’esperienza minacciosa. Inutile sottolineare la tortura cui l’adolescente omosessuale viene esposto.
A cambiare la situazione - oltre che una scuola del futuro dove programmi, docenti e personale ausiliario, non colludano con gli stereotipi della «virilità autentica» -, ci stanno pensando anche i ragazzi. L’omosessuale che dichiara se stesso e il proprio desiderio non si pone più come vittima e non fornisce più al ragazzo etero uno specchio rovesciato utile a definirsi. Il ragazzo gay che si sfila dal gioco «vittima aggressore», spinge gli etero a non considerare il proprio percorso così scontato, con l’esito auspicato di incrinare la corazza degli stereotipi.
È possibile - conclude Burgio - che la rottura del legame tra violenza e maschilità possa ricodificare la virilità a livello simbolico, e far sorgere «una maschilità che non si vergogni di riconoscere come proprie anche la cura, la relazionalità, la mitezza». Per far questo occorre ripensare il maschile, fornire ai ragazzi modelli diversi e articolati, far comprendere che per diventare adulti bisogna necessariamente «attraversare» la condizione di sentirsi «confusi e smarriti», che è ben più fertile del mascherarsi dietro corazze, violenze, stereotipi. Occorre una nuova educazione alla maschilità, i cui primi «discepoli» saranno i maschi già adulti.
"Anch’io sul cammino di Santiago"
di Elena Loewenthal (La Stampa, 10/06/2011)
Carità spagnola è il titolo del nuovo romanzo di Abraham B. Yehoshua, appena uscito in Israele. I lettori italiani dovranno aspettare l’autunno per leggerlo: nell’edizione Einaudi si chiamerà La scena perduta , per evocare il mistero di un’assenza, di una lontananza nel tempo e nella mente. È un libro complesso, insolito per questo grande narratore. Forse un bilancio personale, di vita e letteratura. Anche e soprattutto una storia scabrosa nel suo affondo psicologico, nel non detto che tiene insieme - ma soprattutto separa - le intriganti personalità dei protagonisti.
«È un romanzo che ha al centro la questione della creatività. Il suo mistero. Che parla dell’arte, nelle sue forme più diverse. Questo tema lo affronto attraverso la storia di un vecchio regista per il quale viene allestita una vasta retrospettiva, a Santiago de Compostela, in Spagna. Qui il cinema “incontra” la teologia, perché la sede di questo evento è uno spazio cattolico. Il regista si chiama Moses ed è un tipico esponente del fior fiore (in ebraico si direbbe “il cuore del cuore”) della società israeliana: gerosolimitano di origine tedesca, di famiglia colta e illuminata. Assieme a lui arriva alla restrospettiva la compagna con cui ha un rapporto fuori degli schemi, indefinibile. Lei è la “sua” attrice, ma prima era la donna dello sceneggiatore che ha organizzato la manifestazione, e che è una vecchia conoscenza del regista. Hanno lavorato insieme sino a una drastica rottura, originata da un litigio insolubile. Anche lo sceneggiatore è un uomo speciale, speculare rispetto al regista: è arrivato in Israele bambino, dal Nord Africa. Insieme hanno fatto film surrealistici, simbolici, grotteschi. D’avanguardia. Poi è sceso il ghiaccio, fra loro».
L’edizione in ebraico ha una copertina molto eloquente. Vi si trova la fotografia di un celebre quadro, dove è raffigurato un vecchio curvo, di spalle, che succhia al seno di una giovane donna dall’aria molto triste. Qual è il nesso tra questa immagine e il romanzo?
«Non voglio svelare troppo al lettore... ma questa scena è cruciale. È una raffigurazione della “caritas romana”, evocata nel mito di Pero e Cimone e ricordata per allusione nel titolo del mio romanzo: un padre condannato a morire di fame in prigione e salvato dalla pietà della figlia che gli offre il suo latte. I protagonisti del libro si ritrovano come per caso di fronte a questo quadro, a Santiago, in occasione della retrospettiva. E tornano immediatamente con la memoria a quel litigio di tanti anni prima, quando l’attrice - all’epoca compagna di Trigano, lo sceneggiatore - si rifiutò di girare una scena, per la sua scabrosità, trovando l’appoggio del regista... e tutto cominciò, anzi finì, fra loro tre. In sostanza, attraverso il quadro si scopre il fondamento mitologico e dunque culturale di quel loro vicolo cieco sentimentale di tanto tempo prima - che non era un capriccio ma qualcosa di molto profondo. Per quanto mi riguarda, ho voluto in questo libro esplorare il mistero della creazione artistica - letteraria, figurativa, cinematografica - e in particolare l’interazione tra il genio della fantasia, dell’invenzione provocatoria, che “sfonda” la realtà, e l’imprescindibile fondamento costruttivo, il metodo e la costanza che sono elementi necessari all’artista».
La critica israeliana ha accolto con il consueto entusiasmo, e in qualche caso un po’ di sconcerto, questo libro insolito - particolarmente ricco di divagazioni e spunti dotti. Molti hanno rilevato che il romanzo porta un’impronta personale come nessun altro dei suoi libri. In parole povere, è vero che in Moses c’è molto di Yehoshua, e che questa è anche una retrospettiva dei suoi libri, oltre che dei film del protagonista?
«Non ho mai scritto di uno scrittore... Ma questa volta desideravo esplorare, come dicevo, le forze della creazione artistica, le forze che agiscono al momento di produrre, e che valgono per ogni manifestazione artistica. È vero, dunque, che in Moses c’è qualcosa di me e di ciò che agisce in me quando creo. È anche vero che due o tre dei film evocati nel romanzo e presentati nella retrospettiva sono echi di miei libri. Ma nulla di più. Diciamo allora che m’interessava esplorare quella tensione simbolica, surrealistica, grottesca, così presente in tutta l’arte europea del secondo dopoguerra, da Beckett a Camus e Fellini e tanti altri. Una tensione così forte e potente, in Europa ma anche in Israele».
A proposito di Israele, pare di individuare in questo romanzo una specie di «superamento» della dimensione locale, anzi qualcosa di più. Azzardando, viene da pensare quasi a una fascinazione esercitata in lei dall’«altro» per eccellenza nell’identità ebraica (e israeliana): l’universo religioso e umano del cattolicesimo. Santiago, la scena, la carità: luoghi e simboli di una fede «altra».
«Il libro è cattolico solo nella sua cornice, nell’ambientazione - e non nella sostanza. È indubbio che però per me il rapporto tra questa religione e l’arte sia carico di fascino, attrazione - anche e soprattutto perché, all’opposto, l’ebraismo è una fede “avara”, anzi ostile, nei confronti dell’arte. Ho dunque attinto all’immaginario cattolico, innestandolo in una storia secondo me profondamente israeliana».
Un saggio di Davide Susanetti che attualizza Sofocle
Se vivere insieme diventa tragedia
Le ossessioni del nostro presente dietro i drammi di Edipo, Aiace, Oreste voluti dal fato
di Nadia Fusini (la Repubblica, 06.06.2011)
Accadono cose che ci commuovono. Ci meravigliano, ci spaventano, ci confondono. Restiamo stupiti, ammutoliti. Poi, come se il significato fosse qualcosa che viene dopo l’emozione, proviamo a ragionare. In altre parole, diventiamo responsabili, e cioè capaci di rispondere di ciò che accade - e ci offende, o ci contraria, o ci rincuora - spassionatamente raffreddando la passione. Addirittura, in un certo senso dimenticando il nostro interesse, anche nel senso puro e semplice di coinvolgimento personale, ideologico. La ragion pura è un sogno inattingibile, ma lo sforzo per raggiungere tal fine resta encomiabile. Un modo magnifico di ragionare per comprendere un fatto accaduto nei nostri giorni s’è manifestato nell’articolo di Barbara Spinelli del 18 maggio scorso, dove rifletteva su quel che è accaduto nella suite dell’albergo Sofitel di Manhattan a una personalità di spicco, un "eroe" moderno, ricorrendo a Dostoevskij. Ecco, mi sono detta un bell’uso della letteratura! - che come tutti sanno è una forma di conoscenza, un patrimonio, di cui disponendo si può capire la realtà in cui viviamo.
E’ la stessa reazione che ho avuto leggendo il libro di Davide Susanetti, Catastrofi politiche (Carocci editore, pagg. 236, euro 18). Il sottotitolo spiega che Sofocle, sì, il grande drammaturgo - cui si debbono indimenticabili tragedie come Antigone, Filottete, Edipo Re, Edipo a Colono, Aiace, Elettra, le Trachinie - con le sue storie ci racconta "la tragedia di vivere insieme". E’ questo secondo Susanetti il vero dramma a tema nel teatro greco già con Sofocle, e ancora di più con Euripide: con loro si liquida un mito, e cioè che le istituzioni reggano l’urto della vita. Invece, più e più volte nelle loro tragedie "la casa va in frantumi, la città rischia di diventare un deserto inabitabile". Altro che catarsi, trionfa la catastrofe. Per catastrofe intendendo la devastazione della memoria, e con essa l’intransitabile passaggio da una generazione all’altra, e dunque alla fine l’impossibilità di vivere congiunti in uno stesso orizzonte condiviso.
Con garbo e sapienza Susanetti ri-racconta le vecchie storie. Non c’è nessuna compiaciuta e sterile esibizione, c’è semmai un gusto del sapere; si sente che conoscere i suoi testi dà allo studioso un’emozione autentica. Li indaga con amore, li parafrasa, li riassume, li assorbe nella sua lingua, nel nostro tempo. Ma non per questo si concede un’estemporanea attualizzazione, nessun troppo ovvio riferimento al presente. Eppure chi legge sente affiorare i fantasmi che aleggiano sulla scena politica nei secoli dei secoli fino ad oggi... Ed è qui l’incanto, dove si dimostra che la cultura serve all’intelligenza. Che la conoscenza della tradizione sostiene il presente e sorregge ogni vero atto di comprensione della nostra esistenza qui e ora.
Pian piano riconosciamo la "nostra" catastrofe politica: dietro Edipo, Aiace, Oreste si sollevano a specchio i tipi attuali, i contemporanei impacci intellettuali e pratici che ossessionano il nostro presente. Sofocle è un signore vissuto in un certo tempo e di quel certo tempo parla; risponde di ciò che accade nella sua epoca nel modo poetico. Ripeto: non vive nell’empireo, è un "poeta" e un "politico" che vive ad Atene e mai la lascia e la ama. Il potere lo conosce, la sua vita ne è toccata, di Atene e di Pericle e della democrazia è fervido sostenitore. Basta leggere l’orgoglio con cui descrive la sua terra nell’Edipo a Colono. Nelle sette tragedie che ci sono giunte per lo più al centro è un uomo di straordinarie capacità, che gli dei travolgono, come accade ad Aiace. E’ commovente oltre ogni dire seguire le dolorose vicende dell’eroe che la dea Atena trasforma in una cieca macchina di distruzione... E’ tremendo assistere alla fine atroce di Eracle, e non è colpa di Deianira la quale gli ha mandato in dono il mantello che gli divora la carne; è il fato che così si compie. Quanto a Elettra e a Oreste, anche loro sono perduti in un atto cui li trascina la legge androcratica della stirpe, che riconosce nella vendetta del padre l’inevitabile debito di obbedienza. Ma quale nuovo ordine seguirà?
Il modo della lettura del testo antico da parte di Davide Susanetti non ha niente a che fare con una certa critica marxista d’antan, che anche in revival foucaltiani, intende strappare alla sovrastruttura della costruzione artistica la maschera che nasconde il vero fondo. Niente di tutto ciò. Nessuno smascheramento, nessun violento strappo. Susanetti acconsente, si concede al testo, lo insegue nelle sue ambiguità, lo commenta intonandosi alle sue preoccupazioni. Perché un dramma è anche questo, un gomitolo di fili in cui si annodano le cure profonde di una cultura, una società, un paese; una cultura, una società, un paese, in questo caso, dove il potere comincia ad apparire in-fondato. Tanto che chi lo raggiunge è forse "solo un delinquente più fortunato di altri".
Vi ricordo che così Edipo giunge a Tebe: con le mani insanguinate. Edipo è tyrannos a Tebe, e quel termine, anche se non coincide con il significato che noi diamo alla parola "tiranno", però svela che Edipo non è re per diritto di nascita. E’ semmai un self-made re, che grazie alla sua intelligenza - ha risolto l’indovinello, ricordate? - si eleva il più in alto che può, finché non si ritrova il "più maledetto" tra gli uomini. Ma, allora, chi governa il mondo?
NON RIDURRE DIO AI NOSTRI PROGETTI E SCHEMI. Premessa sul tema:
MESSAGGIO EV-ANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER. (Federico La Sala)
BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 1° giugno 2011
Cari fratelli e sorelle,
leggendo l’Antico Testamento, una figura risalta tra le altre: quella di Mosè, proprio come uomo di preghiera. Mosè, il grande profeta e condottiero del tempo dell’Esodo, ha svolto la sua funzione di mediatore tra Dio e Israele facendosi portatore, presso il popolo, delle parole e dei comandi divini, conducendolo verso la libertà della Terra Promessa, insegnando agli Israeliti a vivere nell’obbedienza e nella fiducia verso Dio durante la lunga permanenza nel deserto, ma anche, e direi soprattutto, pregando. Egli prega per il Faraone quando Dio, con le piaghe, tentava di convertire il cuore degli Egiziani (cfr Es 8-10); chiede al Signore la guarigione della sorella Maria colpita dalla lebbra (cfr Nm 12,9-13), intercede per il popolo che si era ribellato, impaurito dal resoconto degli esploratori (cfr Nm 14,1-19), prega quando il fuoco stava per divorare l’accampamento (cfr Nm 11,1-2) e quando serpenti velenosi facevano strage (cfr Nm 21,4-9); si rivolge al Signore e reagisce protestando quando il peso della sua missione si era fatto troppo pesante (cfr Nm 11,10-15); vede Dio e parla con Lui «faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico» (cfr Es24,9-17; 33,7-23; 34,1-10.28-35).
Anche quando il popolo, al Sinai, chiede ad Aronne di fare il vitello d’oro, Mosè prega, esplicando in modo emblematico la propria funzione di intercessore. L’episodio è narrato nel capitolo 32 del Libro dell’Esodo ed ha un racconto parallelo in Deuteronomio al capitolo 9. È su questo episodio che vorrei soffermarmi nella catechesi di oggi, e in particolare sulla preghiera di Mosè che troviamo nella narrazione dell’Esodo. Il popolo di Israele si trovava ai piedi del Sinai mentre Mosè, sul monte, attendeva il dono delle tavole della Legge, digiunando per quaranta giorni e quaranta notti (cfr Es 24,18; Dt 9,9). Il numero quaranta ha valore simbolico e significa la totalità dell’esperienza, mentre con il digiuno si indica che la vita viene da Dio, è Lui che la sostiene. L’atto del mangiare, infatti, implica l’assunzione del nutrimento che ci sostiene; perciò digiunare, rinunciando al cibo, acquista, in questo caso, un significato religioso: è un modo per indicare che non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca del Signore (cf Dt 8,3). Digiunando, Mosè mostra di attendere il dono della Legge divina come fonte di vita: essa svela la volontà di Dio e nutre il cuore dell’uomo, facendolo entrare in un’alleanza con l’Altissimo, che è fonte della vita, è la vita stessa.
Ma mentre il Signore, sul monte, dona a Mosè la Legge, ai piedi del monte il popolo la trasgredisce. Incapaci di resistere all’attesa e all’assenza del mediatore, gli Israeliti chiedono ad Aronne: «Fa’ per noi un dio che cammini alla nostra testa, perché a Mosè, quell’uomo che ci ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto» (Es 32,1). Stanco di un cammino con un Dio invisibile, ora che anche Mosè, il mediatore, è sparito, il popolo chiede una presenza tangibile, toccabile, del Signore, e trova nel vitello di metallo fuso fatto da Aronne, un dio reso accessibile, manovrabile, alla portata dell’uomo. È questa una tentazione costante nel cammino di fede: eludere il mistero divino costruendo un dio comprensibile, corrispondente ai propri schemi, ai propri progetti. Quanto avviene al Sinai mostra tutta la stoltezza e l’illusoria vanità di questa pretesa perché, come ironicamente afferma il Salmo106, «scambiarono la loro gloria con la figura di un toro che mangia erba» (Sal 106,20). Perciò il Signore reagisce e ordina a Mosè di scendere dal monte, rivelandogli quanto il popolo stava facendo e terminando con queste parole: «Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione» (Es 32,10). Come con Abramo a proposito di Sodoma e Gomorra, anche ora Dio svela a Mosè che cosa intende fare, quasi non volesse agire senza il suo consenso (cfr Am 3,7). Dice: «lascia che si accenda la mia ira». In realtà, questo «lascia che si accenda la mia ira» è detto proprio perché Mosè intervenga e Gli chieda di non farlo, rivelando così che il desiderio di Dio è sempre di salvezza. Come per le due città dei tempi di Abramo, la punizione e la distruzione, in cui si esprime l’ira di Dio come rifiuto del male, indicano la gravità del peccato commesso; allo stesso tempo, la richiesta dell’intercessore intende manifestare la volontà di perdono del Signore. Questa è la salvezza di Dio, che implica misericordia, ma insieme anche denuncia della verità del peccato, del male che esiste, così che il peccatore, riconosciuto e rifiutato il proprio male, possa lasciarsi perdonare e trasformare da Dio. La preghiera di intercessione rende così operante, dentro la realtà corrotta dell’uomo peccatore, la misericordia divina, che trova voce nella supplica dell’orante e si fa presente attraverso di lui lì dove c’è bisogno di salvezza.
La supplica di Mosè è tutta incentrata sulla fedeltà e la grazia del Signore. Egli si riferisce dapprima alla storia di redenzione che Dio ha iniziato con l’uscita d’Israele dall’Egitto, per poi fare memoria dell’antica promessa data ai Padri. Il Signore ha operato salvezza liberando il suo popolo dalla schiavitù egiziana; perché allora - chiede Mosè - «gli Egiziani dovranno dire: “Con malizia li ha fatti uscire, per farli perire tra le montagne e farli sparire dalla faccia della terra”?» (Es 32,12). L’opera di salvezza iniziata deve essere completata; se Dio facesse perire il suo popolo, ciò potrebbe essere interpretato come il segno di un’incapacità divina di portare a compimento il progetto di salvezza. Dio non può permettere questo: Egli è il Signore buono che salva, il garante della vita, è il Dio di misericordia e perdono, di liberazione dal peccato che uccide. E così Mosè fa appello a Dio, alla vita interiore di Dio contro la sentenza esteriore. Ma allora, argomenta Mosè con il Signore, se i suoi eletti periscono, anche se sono colpevoli, Egli potrebbe apparire incapace di vincere il peccato. E questo non si può accettare. Mosè ha fatto esperienza concreta del Dio di salvezza, è stato inviato come mediatore della liberazione divina e ora, con la sua preghiera, si fa interprete di una doppia inquietudine, preoccupato per la sorte del suo popolo, ma insieme anche preoccupato per l’onore che si deve al Signore, per la verità del suo nome. L’intercessore infatti vuole che il popolo di Israele sia salvo, perché è il gregge che gli è stato affidato, ma anche perché in quella salvezza si manifesti la vera realtà di Dio. Amore dei fratelli e amore di Dio si compenetrano nella preghiera di intercessione, sono inscindibili. Mosè, l’intercessore, è l’uomo teso tra due amori, che nella preghiera si sovrappongono in un unico desiderio di bene.
Poi, Mosè si appella alla fedeltà di Dio, rammentandogli le sue promesse: «Ricordati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “Renderò la vostra posterità numerosa come le stelle del cielo, e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò ai tuoi discendenti e la possederanno per sempre”» (Es 32,13). Mosè fa memoria della storia fondatrice delle origini, dei Padri del popolo e della loro elezione, totalmente gratuita, in cui Dio solo aveva avuto l’iniziativa. Non a motivo dei loro meriti, essi avevano ricevuto la promessa, ma per la libera scelta di Dio e del suo amore (cfr Dt 10,15). E ora, Mosè chiede che il Signore continui nella fedeltà la sua storia di elezione e di salvezza, perdonando il suo popolo. L’intercessore non accampa scuse per il peccato della sua gente, non elenca presunti meriti né del popolo né suoi, ma si appella alla gratuità di Dio: un Dio libero, totalmente amore, che non cessa di cercare chi si è allontanato, che resta sempre fedele a se stesso e offre al peccatore la possibilità di tornare a Lui e di diventare, con il perdono, giusto e capace di fedeltà. Mosè chiede a Dio di mostrarsi più forte anche del peccato e della morte, e con la sua preghiera provoca questo rivelarsi divino. Mediatore di vita, l’intercessore solidarizza con il popolo; desideroso solo della salvezza che Dio stesso desidera, egli rinuncia alla prospettiva di diventare un nuovo popolo gradito al Signore. La frase che Dio gli aveva rivolto, «di te invece farò una grande nazione», non è neppure presa in considerazione dall’“amico” di Dio, che invece è pronto ad assumere su di sé non solo la colpa della sua gente, ma tutte le sue conseguenze. Quando, dopo la distruzione del vitello d’oro, tornerà sul monte per chiedere di nuovo la salvezza per Israele, dirà al Signore: «E ora, se tu perdonassi il loro peccato! Altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto» (v. 32). Con la preghiera, desiderando il desiderio di Dio, l’intercessore entra sempre più profondamente nella conoscenza del Signore e della sua misericordia e diventa capace di un amore che giunge fino al dono totale di sé. In Mosè, che sta sulla cima del monte faccia a faccia con Dio e si fa intercessore per il suo popolo e offre se stesso - «cancellami» -, i Padri della Chiesa hanno visto una prefigurazione di Cristo, che sull’alta cima della croce realmente sta davanti a Dio, non solo come amico ma come Figlio. E non solo si offre - «cancellami» -, ma con il suo cuore trafitto si fa cancellare, diventa, come dice san Paolo stesso, peccato, porta su di sé i nostri peccati per rendere salvi noi; la sua intercessione è non solo solidarietà, ma identificazione con noi: porta tutti noi nel suo corpo. E così tutta la sua esistenza di uomo e di Figlio è grido al cuore di Dio, è perdono, ma perdono che trasforma e rinnova.
Penso che dobbiamo meditare questa realtà. Cristo sta davanti al volto di Dio e prega per me. La sua preghiera sulla Croce è contemporanea a tutti gli uomini, contemporanea a me: Egli prega per me, ha sofferto e soffre per me, si è identificato con me prendendo il nostro corpo e l’anima umana. E ci invita a entrare in questa sua identità, facendoci un corpo, uno spirito con Lui, perché dall’alta cima della Croce Egli ha portato non nuove leggi, tavole di pietra, ma ha portato se stesso, il suo corpo e il suo sangue, come nuova alleanza. Così ci fa consanguinei con Lui, un corpo con Lui, identificati con Lui. Ci invita a entrare in questa identificazione, a essere uniti con Lui nel nostro desiderio di essere un corpo, uno spirito con Lui. Preghiamo il Signore perché questa identificazione ci trasformi, ci rinnovi, perché il perdono è rinnovamento, è trasformazione.
Vorrei concludere questa catechesi con le parole dell’apostolo Paolo ai cristiani di Roma: «Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi. Chi ci separerà dall’amore di Cristo? [...] né morte né vita, né angeli né principati [...] né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,33-35.38.39).
Il Papa ai preti: Dio ci liberi dagli scandali
di Marco Ansaldo (la Repubblica, 11 giugno 2010)
«Santità, sul celibato sono frastornato per le tante critiche». La domanda del giovane sacerdote risuona forte in una Piazza San Pietro gremita. «L’unificazione dell’io di Cristo con il nostro - risponde il Papa teologo e pastore - implica una vita nuova, nella quale siamo oltre il matrimonio. Il celibato è una grazia del Signore. È un sì definitivo, è un darsi nelle mani del Signore, un atto di fedeltà e di fiducia. Per il mondo agnostico il celibato è un grande scandalo. È il contrario del non sposarsi che è di moda oggi».
Un ampio giro sulla papamobile, per l’occasione scoperta, tra 15 mila preti accorsi a Roma da quasi 100 Paesi diversi - un raduno senza precedenti. E poi un botta e risposta con 5 di loro, introdotto dal prefetto per la Congregazione del clero, cardinale Claudio Hummes, che lo ha invitato a perdonare «i sacerdoti smarriti». E parlando di celibato, ma anche di «teologie degli Anni ‘70 e ‘80 invecchiate e diventate ridicole», «dell’arroganza della ragione che oscura la presenza di Dio», e «della crisi delle vocazioni», Benedetto XVI ha terminato ieri sera la Veglia di preghiera al grido: «Dio ci liberi dagli scandali che oscurano la testimonianza». Oggi una sua Messa nella Basilica concluderà l’Anno sacerdotale tra le polemiche per lo scandalo degli abusi nella Chiesa.
Il tema era stato già affrontato al mattino dal segretario di Stato vaticano, cardinale Tarcisio Bertone. Se si disobbedisce alla parola del Signore scegliendo l’«iniquità» del peccato, aveva detto Bertone, ci si allontana dalla comunione con lui.
Anche l’Osservatore Romano è tornato ad affrontare l’argomento pedofilia. «La ferita chiederà tempo per rimarginarsi - notava il quotidiano in un editoriale dedicato alla chiusura dell’Anno sacerdotale - e niente potrà essere come se nulla fosse accaduto. Qualcuno ha parlato di "annus horribilis", ma in realtà è stato un anno di grazia», poiché «il tempo della prova si è rivelato occasione per una crescita».
È però l’Austria il laboratorio delle nuove strategie. Un sondaggio effettuato da ricercatori dell’Università Keplero di Linz ha rivelato che quasi il 60% dei preti austriaci vuole l’abolizione del celibato obbligatorio. Già i vescovi austriaci avevano chiesto l’apertura di una discussione sull’argomento durante la loro ultima assemblea plenaria.
L’Anno sacerdotale si concluderà oggi con un insolito cambio di programma, che non ha mancato di far discutere. Benedetto XVI ha deciso in extremis di non proclamare San Giovanni Maria Vianney, il Curato d’Ars, figura emblematica della restaurazione cattolica della Francia dopo la Rivoluzione Francese, "patrono di tutti i preti del mondo". Una proclamazione già annunciata dal maestro delle Celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice, monsignor Guido Marini, sull’Osservatore Romano. Secondo l’agenzia francese I.Media, la decisione è stata presa perché il Curato d’Ars non sarebbe «abbastanza rappresentativo del sacerdozio del XXI secolo».
Un «angelo-idiota» ci salverà
di Peter Sloterdijk *
È merito comune di Dostoevskij e Nietzsche l’aver introdotto la nozione di idiota nel discorso moderno sulla religione. Ciò che si produce con questa espressione diviene comprensibile non appena la si distingue da quella di angelo: essa assume valore nell’esserne l’opposto e lo strumento di contrasto. La tradizione religiosa europea ha elaborato in forme dalle mille pieghe l’apparizione di un angelo, e come questa intervenga all’interno della vita profana; ma sono stati il più grande psicologo-romanziere del XIX secolo e l’autore dell’Anticristo ad aver capito che ci sono apparizioni di idioti che contaminano la vita umana.
Per entrambi la parola «idiota» è carica di significato cristologico, poiché tutti e due si lanciano nell’audace tentativo di sfiorare con l’aggettivo "idiota" il segreto tipologico del redentore, benché a partire da premesse contrastanti. In tutto ciò si trova un materiale esplosivo per la psicologia della religione, dal momento che tutti i tentativi volti a provocare il sorgere delle figure di redentori si erano inevitabilmente orientati al modello dell’angelo o del messaggero; al l’idea, cioè, che un inviato incaricato di portare un messaggio trascendente si presentasse ai mortali e, in quanto eroe-salvatore, li liberasse dalla disperazione fisica e dalla perdizione morale.
In un primo tempo il redentore non è perciò che una forma moltiplicata di messaggero; solamente la cristologia ellenica ha introdotto il salto categoriale per cui il messaggero non si accontenta più di portare il messaggio, ma è lui stesso il messaggio. Nel periodo della sua fioritura lo schema del messaggero o dell’angelo era chiaramente tanto potente da contribuire a creare la teoria del redentore.
Ciò detto, per imporre il redentore quale messaggero di tutti i messaggeri, i teologi cristiani hanno dovuto farne il figlio della sostanza e proclamarlo unico segno perfettamente adeguato dell’Essere. Il fatto che abbia saputo rispondere a questa esigenza indica la capacità performativa del modello angelotico. La cristologia classica mostra la metafisica del messaggio e dei messaggeri all’apogeo del suo potere. Essa deriva da una situazione del mondo e della teoria caratterizzata dal dogma del forte mittente.
Quella struttura discorsiva che abbiamo l’abitudine di qualificare come metafisica non è forse altro che un riflesso della sottomissione del pensiero alla rappresentazione di un Essere che, in quanto mandante assoluto, monopolizza tutti i troni, le potenze, i poteri e i loro flussi di segni e i loro intermediari. In questo incondizionato Essere-mittente, il dio della Bibbia e quello dei filosofi potrebbero convergere.
Se ci si trova d’accordo sulla formula secondo la quale i tempi moderni sono un processo di informazione che provoca la crisi della metafisica del mittente, allora abbiamo già in mano lo strumento per capire perché una teologia sensibile alla propria epoca, dopo Gutenberg, non se la cavi più solo con una teoria angelotica del redentore come inviato.
Nella modernità, con la moltiplicazione delle potenze mittenti, con l’inflazione di messaggeri sul libero mercato dell’informazione, un ipermessaggero del tipo del Dio redentore, incarnato da rappresentanti apostolici, non può affermare la propria posizione feudale di privilegio. Chi vuole avere in un senso specifico un effetto liberatorio sugli uomini non può più in futuro essere un messaggero incaricato di portare un messaggio trascendente ma, al contrario, dovrà apparire come un essere umano, la cui alterità immediatamente visibile nella presenza reale deve sostituire completamente il latore di un messaggio dall’aldilà. Quello che caratterizza il genio di Dostoevskij nel campo della filosofia delle religioni è il fatto di essere stato il primo a riconoscere e a pensare fino alle sue estreme conseguenze la possibilità di riprogrammare la cristologia su base idiotica, anziché su base angelotica. È proprio perché il mondo moderno è saturo del rumore dei messaggeri del partito al potere e del baccano artistico dei geni che attirano l’attenzione sulle loro opere e i loro sistemi di follia, che non è più possibile sottolineare in maniera convincente la differenza religiosa nella modalità del messaggero.
Il dio-uomo presente non può arrivare ai mortali in quanto messaggero, ma solo come idiota.
L’idiota è un angelo senza messaggio, colui che completa intimamente e senza distanza ogni entità che incontra casualmente. Anche la sua entrata in scena è legata all’apparenza ma non perché nell’aldiqua essa richiami alla mente lo splendore trascendente, piuttosto perché nel cuore di una società di attori e di strateghi dell’ego essa incarna un candore inatteso e una benevolenza disarmante... Non è il suo carattere infantile, nel senso corrente del termine, che gli apre una particolare via d’accesso verso gli esseri umani, a parte il caso in cui si dia all’espressione infantile un senso eterodosso. È possibile qualificare come infantile la propensione, nelle relazioni con gli altri, a non mettere in gioco il proprio Sé, ma a rimanere a disposizione quale complemento dell’altro. Quando la possibilità dell’essere infantile così compreso si trasforma in attitudine, ci si trova di fronte a quello che Dostoevskij ha espresso col termine idiozia; espressione che, in modo evidente, può figurare come espressione di denuncia solo nel suo uso più superficiale... È questo tratto che deve aver interessato Nietzsche nella questione della presunta idiozia di Gesù, dal momento che questi incarna in modo infantile l’ideale della vita nobile e senza risentimento; non, però, dalla parte del Sé attivo, ma da quella dell’accompagnatore, di colui che incoraggia e completa. Di conseguenza, avremmo un’idiozia eminente che si esprime sotto forma di disponibilità e di propensione a servire, al contempo, preumani e sovrumani. Il redentore idiota sarebbe quello che non conduce la propria vita in quanto personaggio principale della propria storia, ma che ha scambiato il suo posto con la propria placenta, per sistemare al suo posto, in quanto placenta stessa, un essere-nel-mondo.
1 Tratto da Peter Sloterdijk, «Sfere I. Bolle», a cura di Gianluca Bonaiuti, con un’introduzione di Bruno Accarino, Meltemi, Roma, pagg. 576, € 34,00. In libreria da giovedì 19 febbraio [2009].
* Fonte: Il Sole-24 Ore.