SHAKESPEARE, SONETTO 116
Let me not to the marriage of true minds
Admit impediments. Love is not love
Which alters when it alteration finds,
Or bends with the remover to remove:
O, no! it is an ever-fixed mark,
That looks on tempests and is never shaken;
It is the star to every wandering bark,
Whose worth’s unknown, although his height be taken.
Love’s not Time’s fool, though rosy lips and cheeks
Within his bending sickle’s compass come;
Love alters not with his brief hours and weeks,
But bears it out even to the edge of doom.
If this be error, and upon me proved,
I never writ, nor no man ever loved.
Non sarà che all’unione di animi costanti
io ponga impedimenti: non è amore quell’amore
che muta quando scopre mutamenti
o tende a ritirarsi se l’altro si ritira.
Oh no, esso è un faro per sempre fisso
che guarda alle tempeste e mai ne è scosso;
è la stella polare per ogni nave errante,
e il suo volere resta ignoto,
anche se l’altezza ne sia presa.
L’amore non è lo zimbello del Tempo, anche se rosee labbra e guance
cadono nel compasso della sua falce ricurva;
l’amore non muta con le sue brevi ore e settimane,
ma resiste fino all’orlo del Giudizio.
Se questo è errore e mi sia provato,
io non ho mai scritto, e nessuno ha mai amato.*
* William Shakesperare, Sonetti, a cura di Alessandro Serpieri, Rizzoli, Milano 1991.
** Cantico dei cantici, traduzione e cura di Giovanni Garbini, Paideia, Brescia 1992. Relativamente al prof. Giovanni GARBINI, cfr, nel sito, anche LO SCEMPIO DEL "TERRITORIO" E LE "CAMERE" SGARRUPATE!!!
Ritratto: ANSA
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL CODICE DA VINCI ... KOYAANISQATSI (LA VITA SENZA EQUILIBRIO - LIFE OUT OF BALANCE).
Pianeta Terra. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi......
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
FLS
TEATRO METATEATRO ANTROPOLOGIA E TEOLOGIA-#POLITICA DELL’IMMAGINE.
IL GIOCO (E IL GIOGO) DELLA RAPPRESENTAZIONE (DEL "CORPO MISTICO DEL RE"): IL PROBLEMA DELLO #SPECCHIO...
Una nota dallo stesso testo dell’ Amleto a commento della "Part 25: Ophelia’s Self-Catching Conscience in the Mirror of her Arts" del lavoro in corso di Paul Adrian Fried (November 28, 2023):
AMLETO.
Proferite, ve ne prego, il discorso come io lo proferii con voi, con lingua scorrevole; se doveste declamarlo con enfasi, come fanno tanti dei vostri colleghi, preferirei di averlo affidato al banditore della città. E non trinciate di troppo l’aria colla mano, ma sia gentile il vostro gesto, perocché anche nel più grand’impeto, nella furia e (direi) nel turbine della passione, dovete avere una temperanza che ne rintuzzi l’asprezza. Oh nulla m’indispone di più l’anima quanto íl vedere un atleta in parrucca che straccia una passione a brani, che la fa proprio in cenoi, e introna gli orecchi degli spettatori, a cui per la maggior parte non talentano che le assurde pantomime e il baccano. Farei frustare questi Termaganti1 ampollosi, che vincono in furia anche Erode; ve ne prego, evitate ciò.
PRIMO COMMEDIANTE.
Lo prometto, principe
AMLETO.
Nè siate tampoco freddo, e il senno vi guidi conformate l’azione alla parola, la parola all’azione; e abbiate questa speciale avvertenza di non varcar mai i limiti del naturale, perocchè tutto quello che va al di la di esso ei distoglie dall’intento della scena, che fu sempre, ed è tuttavia quello di riflettere la natura come in uno specchio, di mostrare alla virtù i suoi veri sembianti, al vizio la sua immagine, conservando ad ogni secolo, ad ogni tempo la loro forma e la loro impronta. Ora chi esagera o non colorisce abbastanza, sebbene possa far ridere lo stolto, non potrà che far rammaricare il saggio, la censura del quale, e si tratti pure di un solo, deve per voi pesar più che gli applausi di tutto un teatro. Vi sono certi commedianti, che ho veduto recitare, e inteso a celebrare con lodi alte, per non dire sacrileghe, i quali non avevano nè l’accento, nè il portamento da cristiano, da pagano, o da uomo, e che si enfiavano e muggivano in modo si orribile, che io li ho presi per simulacri umani sbozzati grossolanamente da qualche villano artefice nelle officine della natura; cosi male imitavano l’uomo!
PRIMO COMMEDIANTE.
Spero che noi ci siamo riformati abbastanza a questo proposito, signore.
AMLETO.
Riformatevi interamente; e coloro che recitano fra voi le parti del buffone non dicano più di quello che fu scritto per loro, perché ve ne hanno, che per provocare le risa di certi stupidi spettatori, si danno a ridere nel momento in cui la scena richiede la massima attenzione; indegna cosa, o che mostra una ben deplorabile ambizione in colui che vi ha ricorso. Andate a prepararvi. (I Commedianti escono.) Ebbene, signore? (A Polonio che entra con Rosencrantz e Guildenstern.) Assisterà il re alla rappresentazione?
POLONIO.
E la regina anche, e subito.
AMLETO.
Dite ai commedianti di affrettarsi. (Polonio esce.) Volete voi pure andarli a sollecitare?
L’UMANITÀ (ANTROPOLOGIA), IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE" (ECONOMIA POLITICA) E IL PERSISTERE DI UN "PREISTORICO" SIMPOSIO ALL’OMBRA DELLA "EU+CARESTIA"!!!
MINIMALISMO ED ESSENZIALISMO: "SÀPERE AUDE" (DECIDERSI A DIVENTARE SAGGIO, AD AS-SAGGIARE, A USCIRE DALLO "STATO DI MINORITÀ" (ORAZIO E KANT). A ben riflettere sulla "essenza del cristianesimo" di Ludwig Feuerbach, e, al contempo, sul problema della "eucharistia", del cibarsi della grazia ("charis") di Dio ("charitas"), forse, si può meglio cominciare a capire la profondità teologico-politica ed economica della sua "banalizzatissima" considerazione che «L’uomo è ciò che mangia»!
IN UN TESTO BRILLANTISSIMO, all’interno di un "presente storico" di secoli, segnato da una grande carestia filologica e logica, così è scritto: "La vita spirituale - di chi «nasce un seconda volta» aderendo a Cristo - poggia sulla preghiera continua e sull’#eucarestia [...]" (cfr. Flavio Piero Cuniberto, "SUL CRISTIANESIMO COME MITO E COME MISTERO). E, proseguendo; si arriva a fare propria la tesi di #RenéGirard: "L’idea che la morte di Cristo sulla croce sia il prezzo del riscatto («redenzione» da «red-imere», «riscattare») non è che una versione cristianizzata della pratica ancestrale del #bouc #émissaire, il #caproespiatorio di Girard. Una versione mitologica del mistero cristiano." (op. cit.).
IL CANTO DEL CAPRO E LA FENOMENOLOGIA DELLA TRAGEDIA: "ECCE HOMO" (PILATO). Accecati dall’astuzia della ragione platonico-hegeliana, invece di fare chiarezza sul "capro espiatorio", si rinnova la confusione e la condanna a morte proprio dell’agnello (dell’#ariete, del montone) che ha portato Ulisse (e Dante) in salvo, fuori dalla caverna e dall’inferno!
Dopo Nietzsche ("Ecce Homo", 1888), che ha denunciato l’imbroglio storico-antropologico del #paolinismo, a partire dalla morte di Dio, e di Gesù ("Ecce Homo"), chi ha mai più visto sulla Terra un cristiano, una cristiana?
Nonostante Gioacchino da Fiore, Francesco d’Assisi, Chiara di Assisi, Dante Alighieri, e, addirittura, il lavoro iperstorico ("preistorico" e archeologico) sulle radici "Cosmicomiche" della Terra (Italo Calvino), Diogene di Sinope, definito dalla tradizione "Socrate pazzo", continua ad andare con la sua lanterna accesa, alla luce del sole, per i mercati, a cercare l’uomo ("anthropos") e a sognare il #sorgeredellaterra...
L’ AMLETICA “QUESTION” DI ELISABETTA I (REGINA D’INGHILTERRA E PAPA DELLA CHIESA ANGLICANA), LA LEZIONE SULLA “VISIBILITA” (“VISIBILITY”) DI ITALO CALVINO, E IL PROBLEMA DEL “MODELLO PATRIARCALE”.
A MARGINE E A PROPOSITO DELL’ “USO PERSUASIVO E PROPAGANDISTICO DELLA FAMIGLIA” (DEL “PRESEPE”) E DEGLI ANTROPOMORFISMI MESSI IN LUCE NELLA RIFLESSIONE SUL “BENTORNATO MASCHIO” (Gianfranco Pellegrino, "Le parole e le cose", 26 ottobre 2023), FORSE, non sarebbe male se la sollecitazione a riflettere venisse accolta soprattutto dalle antropologhe, dalle filosofe, dalle psicoanaliste, e dalle teologhe:
*
VISTO CHE il “modello patriarcale” come strumento di analisi fa acqua da tutte le parti, almeno dal tempo della “dialettica” di Hegel, e, ancor di più, dopo Freud e la sua indicazione a muoversi ad usare il “modello edipico completo”, è più che augurabile fare qualche passo avanti teorico e pensare a un modello “patriarcale-matriarcale” (padrone-serva e padrona-servo), alla luce delle “Lezioni americane” (non solo la quarta, la “Visibilità”) e del “Castello dei destini incrociati” (in particolare, del capitolo della seconda parte, “La taverna dei destini incrociati”, col titolo “Anch’io cerco di dire la mia”).
Federico La Sala
P. S. - LETTERATURA E PSICOANALISI: “IL CASTELLO DEI #DESTINI INCROCIATI” (ITALO CALVINO). L’INCONTRO CON “SIGISMONDO DI VINDIBONA” [VIENNA] NELLA “TAVERNA DEI DESTINI INCROCIATI”. Una “presentazione” del mito di Edipo con le carte dei Tarocchi:
“ANCH’IO CERCO DI DIRE LA MIA. [...] Tutto questo è come un sogno che la parola porta in sé e che passando attraverso chi scrive si libera e lo libera. Nella scrittura ciò che parla è il represso. E allora Il Papa dalla barba bianca potrebbe essere il gran pastore d’anime e interprete di sogni Sigismondo di Vindobona, e per averne conferma non c’è che verificare se da qualche parte del quadrato dei tarocchi si riesce a leggere la storia che, a quanto insegna la sua dottrina, si nasconde nell’ordito di tutte le storie. [...]” (cfr. I. Calvino, “Anch’io cerco di dire la mia”, “Romanzi e racconti” II, Meridiani, Mondadori, 1992, pp. 592-595).
Federico La Sala
P. S. 2 - ARCHEOLOGIA FILOSOFICA, MATEMATICA, E FILOLOGIA...
“Bentornato maschio”( v. sopra) non è solo una chiamata in causa di intellettuali di ogni genere e di ogni specie, ma anche, e prima di tutto, è un segnavia “storico” per ogni cittadino e ogni cittadina per dare alla amletica “question” teologico-politica posta da Shakespeare, in stretto collegamento alla presenza sul trono d’Inghilterra di Elisabetta I, regina e papessa della Chiesa anglicana, una propria risposta all’altezza dell’attuale “presente storico” - è una chiamata ad uscire dall’epocale “stato di minorità”, personale e politico (Immanuel Kant, 1784 - Michel Foucault, 1984) !
“DUE SOLI” (DANTE ALIGHIERI). Re-interrogarsi alla Kantorowicz sulla “regalità antropocentrica: Dante”, sui “due corpi del re” e, ovviamente, anche sui “due corpi della regina”, forse, può essere una buona occasione per svegliarsi dal sonno dogmatico e portarsi fuori dalla cosmoteandria, atea e devota! Se non ora, quando?!
QUESTIONE MATEMATICA E ANTROPOLOGICA. Per approfondimenti, volendo accogliere alcune indicazioni sul tema, si potrebbe ricominciare a contare da almeno da due o, meglio da “Quattro”, dal poema di Italo Testa (“Le parole e le cose”, 3 Settembre 2021).
CON "AMLETO", ALLA RICERCA DELLA SOVRANITÀ PERDUTA:
LA MEMORIA DI OFELIA E IL CANTO DELLA SIRENA.
ALLA RICERCA DI UN "NUOVO CIELO" E DI UNA "NUOVA TERRA". Ricordando quanto dice Laerte di Ofelia: "Pensiero e dolore, passione, lo stesso inferno /Lei li trasforma in grazia e armonia ["Thought and afflictions, passion, hell itself /She turns to favor and to prettiness"] (Hamlet, IV,5), e, AL CONTEMPO, quanto dice la regina Gertrude allo stesso Laerte: "Una sventura calpesta i calcagni dell’altra "One woe doth tread upon another’s heel" (Amleto IV, 7), FORSE, è possibile COMPRENDERE ("biblicamente") COME nelle sue parole si celi (e si voglia continuare a celare) NON SOLO la sua "reale" caduta e, insieme, la stessa "caduta" ("follia") di Ofelia, nelle acque di una "morte fangosa":
MA ANCHE, E ANCORA, UNA POSSIBILE RINASCITA (DALL’ ACQUA E DAL MARE):
"L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO"
("[SONETTO 116->http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=385")!
Federico La Sala
L’#EUROPA (#GRANADA), #KOENIGSBERG / #KALININGRAD (E #ODESSA), LA "#DEMOCRAZIA" (COME "#STATO DI #MINORITÀ"), E IL PROBLEMA DELLA #TRASPARENZA TEOLOGICO-POLITICA. Alcuni appunti...
Un omaggio alla memoria di Dante Alighieri e William Shakespeare...
LA #TALPA E LA #CIVETTA: LA TRACCIA DI UNA FENOMENOLOGIA DELLO #SPIRITO DI "#DUE #IO" (DI #DUESOLI"). Già per #Shakespeare, ai suoi tempi (1600), Amleto e Ofelia (con il metodo della loro #follia) guardano ben oltre la linea dell’orizzonte teologico-politico di #Erasmo di Rotterdam e #TommasoMoro e lottano per portarsi fuori da un’Europa ormai avviatasi nella "marcia" del tramonto (#Nicea 325/2025).
LE PAROLE DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE. Al centro e al fondo della questione posta da #CarloGalli, nel recente "Democrazia, ultimo atto?"(cfr. estratto: https://www.einaudi.it/.../democrazia-ultimo-atto-carlo.../ ), al di là dei suoi contributi e risultati specifici, vi sono "le idee moderne di libertà, di uguaglianza, di trasparenza, che sono esposte alla contingenza (...) e che meritano ancora una volta di essere il centro intorno a cui ruota la politica".
"DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (#FREUD, 1929). Sul tema, nel suo commento, Francesco Fistetti accoglie con riserva la proposta di variazione e scrive: "[...] Al terzo termine del trinomio #libertà / #eguaglianza / #fraternità Galli sostituisce quello di "trasparenza". Trasparenza nell’accezione già di Bobbio che non devono esserci zone oscure e opacità nell’esercizio del potere e nel governo delle istituzioni, ma il sale della critica e del dibattito razionale. Ma in questo modo, cancellando la fraternità, può cassare senza colpo ferire tutta la storia del socialismo e della lotta per il socialismo come organici alla storia della modernità democratica e dello stesso liberalismo (il liberalsocialismo di un Rosselli e tanti altri). Operata questa amputazione "genealogica’ (almeno per la Modernità) resta una pallida e spettrale idea di liberaldemocrazia. Peraltro, quest’ultima viene declinata come l’ideologia e la pratica di quello che l’autore chiama il "secondo Occidente", quello degli Usa e delle istituzioni dell’Onu: un nuovo Occidente "a guida americana", di cui dalla fine della Seconda Guerra Mondiale "fa parte l’Europa" e la cui "espressione è la Nato" [...]"(cfr. https://www.facebook.com/francesco.fistetti.5/posts/10211262489754567).
"LA SOCIETÀ TRASPARENTE" (GIANNI VATTIMO, 1989), A mio parere, sulla trasparenza, un nodo decisivo legato al problema proprio di una "#societàtrasparente" (#GianniVattimo, 1989) , il dibattito è in alto mare ed è ancora tutto da affrontare, al suo livello antropologico-politico fondamentale, dalla radice (#Marx)!
QUESTIONE ANTROPOLOGICA ("CRISTOLOGICA") E CULTURA CRITICA. La questione è "metafisica", ma, a quanto pare, nessuno si ricorda più di #Kant e del suo illumiNATO "sàpere".
#PACEPERPETUA, Se non si rende trasparente il nodo antropologico e teologico-politico, non è possibile (come è stato dimostrato storicamente, almeno fino ad oggi, fino alla "tappa" europea di Granada 1492/2023) alcuna fraternità (libertà e uguaglianza) e la "pace perpetua" (Kant) è definitivamente assicurata.
Nota:
#FILOSOFIA #STORIA E#METATEATRO: #METAFOROLOGIA.
"La #civetta e la #talpa. Sistema ed epoca in #Hegel" di #RemoBodei (1975, 2021): "[...] Quale il rapporto fra la civetta della filosofia, che interpreta coscientemente l’epoca, e la talpa dello spirito, che la trasforma inconsciamente con il suo cieco lavorio? A tali interrogativi Remo Bodei cerca una risposta in questo saggio ormai classico, che ha offerto una prospettiva originale della filosofia hegeliana." ( https://www.mulino.it/isbn/9788815291226 ).
FLS
HAMLET: OPHELIA, LA CIVETTA (“THE OWL WAS A BAKER’S DAUGHTER”), COME LA "VECCHIA TALPA" ("OLD MOLE").
Una nota a margine di una domanda... *
Part 17: Ophelia’s "Owl" and "False Steward" Allusions: Why in that order?
di Paul Adrian Fried (October 03, 2023)
In her alleged madness, Ophelia says things that seem merely mad ramblings. But to original audiences, these may have been allusions to well-known tales, and there may be a reason for their ordering.
First:
OPHELIA: They say the owl was a baker’s daughter. Lord, we know what we are but know not what we may be. God be at your table. (4.5.47-49) [1]
Second:
OPHELIA: You must sing “A-down a-down”-and you
“Call him a-down-a.”-O, how the wheel becomes
it! It is the false steward that stole his master’s
Daughter. (4.5.194-197)
“THE OWL WAS A BAKER’S DAUGHTER” is a reference to a tale in which a baker’s daughter is turned into an owl after being repeatedly ungenerous with a beggar at the door - who was Jesus in disguise. This is a folktale retelling of the gospel tale of the Rich Man (Dives) and the beggar Lazarus.[2]
Ophelia summarizes: “Lord, we know what we are but / know not what we may be.”
Ophelia may feel punished, like the baker’s daughter, and as people in Denmark’s court may soon be.
Then Ophelia adds, “God be at your table”: Why this, here?
Perhaps because the Emmaus tale of two disciples welcoming a stranger (and recognizing him at table in breaking of bread) was the happy ending version of the Rich Man and Lazarus: Instead of rejecting or neglecting the stranger, they welcome him, and he reveals himself at their table.[3]
Why is it important that the owl tale comes first?
Ophelia may see herself in the ungenerous daughter: She rejected Hamlet, obeying her father, later helping the king and her father spy on Hamlet.
In the gospels, Jesus says not to take the mote or speck of dust from your neighbor’s eye before you take the plank from your own (Matt 7:3-5; Luke 6:41-42).[4]
So she may be considering repenting of her own sins before considering faults of others.
THE FALSE STEWARD STOLE HIS MASTER’S DAUGHTER
“You must sing ‘A-down’”:
The play is about the death and downfall of two kings, a queen, a prince, and others.
The “wheel” of fate turns kings into beggars, beggars into kings.
But “the false steward who stole his master’s daughter” is a reference to a tale or play about a false steward who abducts his master’s daughter while the master is away at war [5]. The steward raises the daughter as his own, but years later, when she falls in love, he tells her she cannot marry above her station, concealing from her the facts of her true parentage.
Ophelia may recognize that her father and brother were false stewards for keeping her from Hamlet, who had made vows to her.
If the allusions had been switched, Ophelia would not be following the gospel: She humbly considers her own faults before considering those of her father and brother. By this ordering of allusions, perhaps Shakespeare wanted audiences to consider that she may be “saved.”
NOTES:
[1] All quotes are from the Folger Shakespeare Library online version of Shakespeare’s Hamlet:
https://www.folger.edu/explore/shakespeares-works/hamlet/read/
[2] For more on this, see previous post on “the owl was a baker’s daughter”:
Owl & Beggar Lazarus at Baker’s Door in Hamlet 4.5 (part 11)
https://pauladrianfried.blogspot.com/2021/04/the-begggar-lazarus-at-bakers-door-in.html
As the owl folktale was a retelling of the rich man and the beggar Lazarus, see also:
https://pauladrianfried.blogspot.com/2018/01/the-ghost-of-lazarus-haunts-hamlet.html
The Lazarus-Rich Man gospel was read every First Sunday After Trinity Sunday, and also read every 5 March, 4 July, and every 30 October as the second lesson for Morning prayer.
It was also mentioned in a number of official sermons by Thomas Cranmer and John Jewell.
[3] For more on echoes of Emmaus in the Hamlet graveyard scene, see
https://pauladrianfried.blogspot.com/2018/05/emmaus-in-hamlet-in-emmaus-story-1.html
The Emmaus gospel tale from Luke 24:13-35 was read each year on Monday in Easter Week.
Shakespeare is thought to have been familiar with the Arthur Golding translation of Ovid’s Metamorphoses, in which there is a tale of Zeus and Hermes (gods) in disguise, who are guests at the home of Baucis and Philemon: God be at your table. WIkipedia notes that the tale is “[r]eferenced by Shakespeare in Much Ado About Nothing when Don Pedro courts Hero for Claudio (2.1.95), and also in As You Like It by Jaques (3.3.7-8).
[4] Horatio refers to this "mote" in 1.1, identified as a biblical allusion: "A mote it is to trouble the mind’s eye."
See the relevant parts of the following two gospels:
Matt 7:3-5, read every 9 January, 9 May, and 6 September as the second lesson at Morning prayer;
and Luke 6:41-42, read every Fourth Sunday after Trinity, and every 24 February, 22 June, and 20 October as the second reading at Morning Prayer.
This is also echoed in The Lord’s Prayer, spoken every Sunday and every day at morning and evening prayer in English churches: -“...forgive us our trespasses as we forgive them that trespass against us.” First look inward to see one’s own sins, and only then, consider sins of others.
[5] For more on “the false steward that stole his master’s daughter,” see
https://pauladrianfried.blogspot.com/2019/01/the-false-steward-that-stole-his.html
This is a tale about a one kind of (true) parentage by way of the “master” transcending apparent earthly parentage claims by the “false steward.” Similar tales include
*
NOTA:
HAMLET (SHAKESPEARE): OPHELIA, LA CIVETTA (“THE OWL WAS A BAKER’S DAUGHTER”), COME LA "VECCHIA TALPA" ("OLD MOLE"), METTE IN "LUCE" IL GIOCO TRUCCATO DEL FALSO "SIGNO - RE" e denuncia il suo giogo FOLLE E PESTIFERO.
Ofelia prende le distanze dal padre - ciambellano ("the false steward"), e da suo fratello, come dalla regina e dal re, e continua a restare fedele alla Legge (Costituzione), a sé stessa (come legittima futura regina), e ad Amleto (come legittimo futuro re) ... By this ordering of allusions, [...] Shakespeare wanted audiences to consider that she may be “saved.” (Paul Adrian Fried)!
Federico La Sala
FILOSOFIA, FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, POLITICA, E RELIGIONE E STORIA E LETTERATURA:
LA DIAGNOSI HAMLETICA DI SHAKESPEARE E LA DIALETTICA "NAPOLEONICA" DELLO SPIRITO DI HEGEL.
Una nota *
Il tramonto della cristianità
di Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 18 Settembre 2023)
La crisi della Chiesa è sotto gli occhi di tutti. Naturalmente preoccupa soprattutto i cristiani, ma non riguarda soltanto loro perché essa è l’effetto di una crisi sottostante, quella della civiltà cristiana che è la base delle nostre società. Per questo non riguarda soltanto la fede cristiana, ma la società contemporanea nel suo insieme.
In che modo e con quali conseguenze è l’argomento di un breve e interessante saggio della filosofa politica francese Chantal Delsol dal titolo esplicito, La fine della cristianità e il ritorno del paganesimo (ed. Cantagalli). Il punto di partenza della sua analisi è la constatazione che stiamo assistendo al tramonto della cristianità, la civiltà fondata sul cristianesimo che ha dominato l’Europa e il mondo Occidentale per sedici secoli. Il suo declino è certamente provocato «dal cedimento della base che ne sosteneva l’esistenza: la fede in una verità trascendente, in questo caso quella in un Dio unico venuto nel mondo», tuttavia non comporta necessariamente la fine del cristianesimo. Una religione, infatti, resta viva anche quando raccoglie un piccolo numero di credenti. Quanti e fino a quando, impossibile dirlo e, a questo punto, viene inevitabilmente alla memoria la frase forse più sconcertante pronunciata da Gesù, riportata nel Vangelo di Luca (18,8): «Quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terra?»
La civiltà cristiana, invece, scrive Delsol, come tutte le costruzioni umane è «effimera, soggetta ai tempi e alle mode, ed eminentemente fragile, mortale». È del tutto ragionevole pensare che possa finire. Il suo inizio è convenzionalmente stabilito dagli storici nel 394 d.C., data della battaglia del fiume Frigido e della definitiva sconfitta del paganesimo. Da quel momento ha preso il sopravvento una civiltà nuova «ispirata, ordinata e guidata dalla Chiesa», con un nuovo «modo di vivere» e una nuova concezione del bene e del male. Il suo declino inizia molti secoli dopo, con il movimento culturale dell’Illuminismo e la Rivoluzione Francese che cercò di fare piazza pulita della Chiesa con abbondante uso della ghigliottina contro chierici e fedeli laici. Poi divenne sempre più rapido, fino ad assomigliare a una vera débâcle culturale a partire dagli anni Sessanta del Novecento, quando i movimenti della contestazione giovanile in tutto il mondo occidentale scompaginarono la società cambiando i costumi e affossando le tradizioni, e gettarono le basi del mondo odierno. Chantal Delsol pensa che quegli anni rappresentino il punto di non ritorno della crisi e che oggi all’orizzonte, a vista d’uomo, sia impossibile immaginare una rinascita della cristianità.
Già nel 1969 Joseph Ratzinger, allora giovane teologo e professore universitario, fece questa previsione sul futuro della Chiesa: «Diventerà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi... Poiché il numero dei suoi fedeli diminuirà, perderà anche gran parte dei privilegi sociali, ... non si arrogherà un mandato politico flirtando ora con la sinistra e ora con la destra» e diventerà più spirituale.
Il futuro papa immaginava che un processo lungo e difficile ma positivo l’avrebbe condotta a liberarsi della mondanità, della pomposità e del settarismo permettendole di essere di nuovo, come all’origine, l’assemblea (questo è il significato della parola chiesa) dei ‘piccoli’, termine con cui il linguaggio biblico chiama coloro che non cercano potere, riconoscimenti o ricchezze ma Dio, e a lui si affidano con semplicità e fiducia. Purificata dalla zavorra accumulata lungo i secoli del suo predominio, dopo grandi sommovimenti e una lunga crisi che, a suo parere, era appena cominciata sarebbe rimasta «non la Chiesa del culto politico, che è già morto, ma la Chiesa della fede... Conoscerà una nuova fioritura e apparirà come la casa dell’uomo, dove trovare vita e speranza oltre la morte» (Cfr. La profezia dimenticata di Ratzinger sul futuro della Chiesa, reperibile on line o nel libro Faith and Future, Ignatius Press, 2009). Una Chiesa nuova e antica capace di annunciare sempre lo stesso messaggio di speranza affidatole duemila anni fa. Per quale altro scopo se non per conoscerlo la gente dovrebbe avvicinarsi alla Chiesa, si domanda senza tergiversare il filosofo polacco Kolakowski in un breve saggio incompiuto solo ora tradotto in italiano: «Se non è Dio e Gesù che la gente cerca nella Chiesa, la Chiesa non ha alcun compito specifico da realizzare...è Dio che tutti vorrebbero trovare nel cristianesimo», non un’ideologia o una lobby politica (L. Kolakowski, Gesù. Saggio apologetico e scettico, ed. Le Lettere).
Fine del cristianesimo, dunque, fine della morale e trionfo dell’ateismo? Tutt’altro. Se il XXI secolo vedrà la fine della cristianità, scrive Delsol, non vedrà però la fine della moralità, come paventano alcuni cristiani convinti che i principi morali derivino solo dalla religione. Lo dimostrano le società pagane la cui moralità era determinata dai costumi, dalle leggi e dalle tradizioni. Allo stesso modo la società post-cristiana segue una morale che rispecchia i costumi condivisi dalla maggioranza dei cittadini e confermata dalle leggi dello Stato il quale provvede anche alle sanzioni a sua tutela non più affidate alla Chiesa.
Per quanto riguarda l’ateismo, Delsol è certa che non trionferà perché non ha presa sull’animo umano, portato piuttosto a riempire il vuoto provocato dalla fine del trascendente con altre forme di sacro. Le religioni e le filosofie orientali rispondono perfettamente alle nuove esigenze di spiritualità, perché «non brandiscono alcun Dio, alcun dogma, alcun obbligo» e il loro «sforzo per eliminare la sofferenza è molto simile alle sessioni di sviluppo personale, ed è proprio quello che i nostri contemporanei cercano». Anche l’ecologismo è perfetto per l’uomo di oggi. Egli non riconosce più gerarchie e separazioni tra uomo e natura, e nella ricerca di una sacralità senza divinità rigetta ogni monoteismo avvicinandosi piuttosto all’antico animismo; la sua visione è una sorta di cosmo-teismo «preoccupato più dello spazio che del tempo» perché non immagina niente al di sopra del mondo. La fede ecologista, inoltre, bilancia almeno in parte l’individualismo esasperato reintroducendo il concetto di responsabilità personale verso il futuro del pianeta e di chi lo abiterà. Forse, prospetta prendendo a prestito le riflessioni del filosofo tedesco Odo Marquard, dopo il regno di Dio e dopo quello dell’uomo è giunto il regno della natura.
Dall’analisi della Delsol, dalle parole di Ratzinger, dalle considerazioni di Kolakowski emergono pensieri convergenti, non pessimisti, che indicano una via percorribile per il futuro. La Chiesa può sopravvivere tornando all’essenza della sua missione, alla sua originaria ragione d’essere: l’annuncio e la testimonianza del messaggio di Gesù, semplicemente così come lo raccontano i Vangeli. La speranza di un amore che va oltre la morte, oltre le nostre fragilità, gli errori, le mancanze. La consapevolezza di condividere un destino che dovrebbe farci sentire responsabili gli uni degli altri e tutti del mondo. La perdita del potere politico, del riconoscimento sociale, della ricchezza potrebbe essere un beneficio piuttosto che una catastrofe, argomenta Chantal Delsol. Forse non deve essere la cristianità a lasciarci, ma potrebbero essere i cristiani ad abbandonarla rinunciando alla forza e all’ideologizzazione per tornare ad essere quello che devono essere: testimoni. «Non possiamo inventare un altro modo di essere se non quello dell’egemonia? La missione dev’essere necessariamente sinonimo di conquista?» E conclude: «Probabilmente sarebbe meglio se rimanessimo solamente dei testimoni silenziosi e, in fondo, degli agenti segreti di Dio».
*
LA DIAGNOSI HAMLETICA DI SHAKESPEARE E LA DIALETTICA "NAPOLEONICA" DELLO SPIRITO DI HEGEL:
Nonostante Hegel sapesse che "The time is out of joint" (Shakespeare, "Hamlet", I.2), la visione COSMOTEANDRICA di Napoleone a cavallo a Jena (1806) in parte lo accecò e non poté più portarsi fuori dalla DIALETTICA della "strada di Damasco" (e "protestante" e "cattolica"). Con Amleto (e Marx), tuttavia non si può non ripetere: "Ben detto, vecchia talpa!" (I.5).
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, TECNOCRAZIA, E COSMOTEANDRIA: IL"NOVUM ORGANUM" (BACONE). L’ AVANZATA DEL GIGANTE, ormai, con i suoi stivali dalle sette leghe, è diventata inarrestabile: è un "golem-antico" progresso sulla strada aperta dal demiurgico sogno tragico dell’Accademia platonico-socratica, paolina, baconiana-hobbesiana, e schmittiana. "Il parto maschio del tempo ovvero la grande instaurazione del dominio dell’uomo sull’universo" è ormai a "buon" punto.
L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: TEATRO, METATEATRO, E FILOSOFIA.
SHAKESPEARE, LA CRITICA DELLA RAGIONE DEL TEMPO (DELLA BIBLICA CADUTA), E IL "RITORNO" DELLA DEA GIUSTIZIA ("IAM REDIT ET VIRGO"), DELL’ ASTREA VIRGILIANA.
SE "IL TEMPO E’ FUORI DAI CARDINI" (Amleto, I.5), IL NODO DA SCIOGLIERE (SUL PIANO PERSONALE, POLITICO, E TEOLOGICO) E’ UNA "QUESTION" EPOCALITTICA (APOCALITTICA), DI VITA E DI MORTE, DI ESSERE E NON-ESSERE...
L’ENIGMA E IL PARADOSSO. Il compito che Shakespeare si assume, a quanto appare (lodevole lo scavo "archeologico" di Paul Adrian Fried, cfr "Part 13: Ophelia, Hamlet, and 13 ways of looking at madness"), è quello di fornire una interpretazione della Bibbia che possa dare una "risposta" a chi nel suo viaggio deve affrontare i mostri (Scilla e Cariddi) del paradosso, dell’antinomia del Mentitore: "Questo fu un tempo un paradosso, ora è provato" ("Amleto", III. 1: «This was sometime a paradox, but now the time gives it proof»).
Analogamente a quanto già fatto da Dante Alighieri, con la Commedia, l’impresa "omerica" di Shakespeare è. a mio parere, rendere accessibile e praticabile la "diritta via", per portarsi fuori dall’orizzonte della #follia e dall’ inferno, ed essere pronti ("la maturità è tutto") a saper accogliere il "ritorno" della dea Giustizia, dell’Astrea virgiliana.
CULTURA E SOCIETÀ: NICEA (325 - 2025). UNA HAMLETICA "QUESTION" DI LUNGA DURATA
DI ANTROPOLOGIA, DI FILOSOFIA, DI DIRITTO, E DI STORIA DELLA CHIESA "CATTOLICA".
Con malinconia barocca, una nota a margine di una "Passeggiata"...
"[...] ... in segno di stima, plaudo alla grande a questa " terza Passeggiata Barocca di domani, venerdì 18 agosto del più antico e nobile monastero femminile di Scicli" (Ragusa).
STORIOGRAFIA E LETTERATURA. A mio parere, tuttavia, è da dire che la realtà storica (e non solo) è "a doppia faccia": se è vero che la vicenda della comunità religiosa di questo monastero è "molto diversa dall’ idea tradizionale di reclusione e di monacazioni forzate ( penso a Manzoni e a "Storia di una capinera" di Verga )", è altrettanto vero che non si tratta affatto di "un inedito protagonismo femminile da riscoprire": dal 325 al 2025, non mi sembra che la struttura "giuridica" dell’androcentrismo teologico e cristologico della chiesa cattolica sia molto mutato (lode agli sforzi antropologici ed ecumenici di papa Francesco). [...]".
P.S. 4 *
AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE. DA GIOVAN BATTISTA MARINO A... OVIDIO... “RIVISITATO”:
ADE, ADONE, E... IL NODO “INVISIBILE” DEL LEGAME TRA EROS E THANATOS. "IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (S. FREUD, 1929) E IL PROBLEMA (L’ ENIGMA DELLA SFINGE) DELLE “COSTRUZIONI NELL’ANALISI” (S. FREUD, 1937). [VENERE] lamentandosi col destino disse: “Non, però, di ogni oni cosa il destino potrà disporre. Un ricordo del mio lutto, o Adone, rimarrà in eterno: ogni anno si ripeterà la scena della tua morte, a imitazione del mio cordoglio. E il sangue sarà mutato in un fiore. [...] Detto questo, versò nèttare odoroso sul sangue, e il sangue al contatto cominciò a fermentare [...] E un’ora intera non era passata: quando dal sangue spuntò un fiore dello stesso colore, un fiore come quello del melograno, i cui frutti celano tanti granelli sotto la duttile buccia. E’ un fiore, tuttavia, che dura poco. Fissato male, e fragile per troppa leggerezza, deve il suo nome al vento, e proprio il vento ne disperde i petali ” (Ovidio, "Metamorfosi", X, Einaudi, Torino, vv.731-739).
Allegato: Immagine di “Adonis Annua”.
*
TEATRO, METATEATRO, E SOCIETÀ:
SHAKESPEARE, "IL TEMPO FUORI DAI CARDINI" (AMLETO, I.5), E LA QUESTION DELLA SOVRANITÀ TEOLOGICO-POLITICA (DEL "TO BE, OR NOT TO BE") NELL’EUROPA E NELL’EPOCA DI ELISABETTA D’INGHILTERRA.
Una nota a margine ...
"OFELIA
Dov’è la bella maestà di Danimarca?
REGINA
Che vuoi da me, Ofelia?
OFELIA (canta)
Come farei a conoscere /
da un altro il tuo vero amore? /
Dalla conchiglia al cappello, /
dai sandali, dal bordone.
REGINA
Ahimè, cara, che significa questa canzone?
[...]
RE
Come state, mia bella?
OFELIA
Bene, Dio ve ne renda merito [“God dild [yield] you.”]. Dicono che
l’allocco ["the owl"] era figlia di un fornaio. Signore Iddio,
sappiamo ciò che siamo non ciò che saremo. Iddio sia
al vostro desco!
RE
Fantastica su suo padre. (...)"
(Amleto, IV.5)
***
OPHELIA
Where is the beauteous Majesty of Denmark?
QUEEN
How now, Ophelia?
OPHELIA
⌜sings⌝
How should I your true love know
From another one?
By his cockle hat and staff
And his sandal shoon.
QUEEN
Alas, sweet lady, what imports this song?
OPHELIA
Say you? Nay, pray you, mark.
[...]
KING
How do you, pretty lady?
OPHELIA
Well, God dild [yield] you. *
They say the owl was a baker’s daughter.
Lord, we know what we are but know not
what we may be. God be at your table.
KING
Conceit upon her father. [...]
(Hamlet, IV.5).
*
"YIELD". A mio parere, qui, nelle parole di Ofelia, traspare un "doppio senso", che da tutti e da tutte è interpretato ovviamente dal lato del loro proprio "conflitto di interesse" (a difesa dell’ordine costituito e del "loro" re e della loro regina), ma che è possibile interpretare anche come consonante con lo spirito critico dello stesso promesso re, Amleto: "Where is the beauteous Majesty of Denmark?"!!!
Il senso del "discorso" di Ofelia, forse, è ben "racchiuso" (e al contempo ben "evidenziato") nelle parole di Virginia Woolf: "The eyes of others our prisons; their thoughts our cages" ("Short Stories").
IN RIFERIMENTO E IN CONTINUAZIONE DEL POST PRECEDENTE:
PIANETA TERRA: QUESTIONE ANTROPOLOGICA, FILOLOGIA, FILOSOFIA, E STORIA DEL CRISTIANESIMO...
IN PRINCIPIO ERA IL #LOGOS, NON IL LOGO DI UNA FATTORIA DI UN PADRONE CON IL SUO SERVO:
Una riflessione sul #chiedere e sul #concedere e una luminosa sollecitazione ad uscire dall’#inferno della #tragedia e dall’orizzonte dell’#HomoHominiLupus, a tutti i livelli, di #PapaFrancesco (del #13maggio 2020):
LA #PREGHIERA DEL #CRISTIANO: "[...] Il cristianesimo ha bandito dal legame con Dio ogni rapporto “feudale”. Nel patrimonio della nostra fede non sono presenti espressioni quali “sudditanza”, “schiavitù” o “vassallaggio”; bensì parole come “alleanza”, “amicizia”, “promessa”, “comunione”, “vicinanza”. Nel suo lungo discorso d’addio ai discepoli, Gesù dice così: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda» (Gv 15,15-16). Ma questo è un assegno in bianco: “Tutto quello che chiederete al Padre mio nel mio nome, ve lo concedo”! [...]" (UDIENZA GENERALE Mercoledì, 13 maggio 2020).
#Costituzione #sovranità #cittadinanza #formazione #educazione ...
ELEUSIS 2023
ANTROPOLOGIA STORIA FILOSOFIA FILOLOGIA E LETTERATURA:
VIRGINIA WOOLF E LA "PUPILLA" ("KORE", "FANCIULLA", "BAMBOLETTA") NELL’OCCHIO E NELLO SGUARDO DI SOCRATE E DI PLATONE. Alcuni appunti...
A) VIRGINIA WOOLF: "The eyes of others our prisons; their thoughts our cages" ("Short Stories").
B) PLATONE: "SOCRATE: Rifletti anche tu: se [l’iscrizione delfica] avesse rivolto un consiglio al nostro occhio, come se fosse un uomo, e gli avesse detto: «Guarda te stesso», che supposizione avremmo fatto su ciò a cui ci esortava? Non forse a guardare a quella cosa guardando alla quale l’occhio avrebbe visto se stesso?
ALCIBIADE: è chiaro.
SOCRATE: Riflettiamo: guardando a quale degli oggetti esistenti vediamo quello e contemporaneamente anche noi stessi?
ALCIBIADE: è chiaro, Socrate, che dovremmo guardare a uno specchio o a qualcosa del genere.
SOCRATE: Quel che dici è giusto. Ma nell’occhio col quale guardiamo non c’è qualcosa di questo genere?
ALCIBIADE: Certamente.
SOCRATE: Hai notato dunque che quando guarda nell’occhio il volto si riflette nello sguardo di chi si trova di fronte come in uno specchio, cosa che chiamiamo anche pupilla (72 -> "kore", "còre"), dato che è come un immagine di chi guarda?
ALCIBIADE: Quel che dici è vero.
SOCRATE: Dunque quando un occhio osserva un occhio e guarda in esso ciò che appunto esso ha di più bello, e con cui vede, in tal caso potrebbe vedere se stesso [...]"("Alcibiade primo", 133 e ss.).
C) LA "SORELLA" DI WILLIAM SHAKESPEARE: JUDITH (E LA "INVINCIBILE ARMATA"). Con straordinaria e fulminea eleganza e grande coraggio ("Sàpere aude"), Virginia Woolf prende il nome di Judith ("Una stanza tutta per sé") e taglia definitivamente la testa all’ "Oloferne" della tradizione "mammonica" occidentale e si porta fuori dal tragico e infantile ("stadio dello specchio") dello sguardo socratico-platonico e lacaniano (narcisitico, edipico, golem-antico).
CRISTIANESIMO E GEOPOLITICA, SENZA PREGIUDIZI, ALLA LUCE ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEI "DUE SOLI" (DANTE 2021):
STORIA DI EUROPA, DI IERI E DI OGGI: "THE BOOK OF SIR THOMAS MORE". Partendo dal suo tempo (quasi cento anni dopo), Shakespeare cerca di chiarire il percorso che l’Inghilterra di EnricoVIII ed Elisabetta ha fatto e che cosa ha guadagnato, a partire dagli eventi del 1517 e dopo la rottura con la Chiesa Cattolica e dopo la Riforma Anglicana!
Una possibile chiave interpretativa sta proprio nella natura del conflitto teologico-politico (e nel legame di Tommaso Moro con le indicazioni di san Paolo, e del Papa):
" Voi volete schiacciare gli stranieri [...]"Supponiamo adesso che il re, nella sua clemenza verso i trasgressori pentiti, giudicasse il vostro grave reato limitandosi a punirvi con l’esilio: dove andreste, allora?
Quale paese vi accoglierebbe vedendo la natura del vostro errore? Che andiate in #Francia o nelle #Fiandre, in qualsiasi provincia della #Germania, in #Spagna o in #Portogallo, anzi no, un luogo qualunque #diverso dall’Inghilterra, vi ritroverete inevitabilmente stranieri.
Vi farebbe piacere trovare una nazione dal carattere così barbaro che [...] vi cacciasse via come cani, quasi che Dio non vi avesse creati né vi riconoscesse come suoi figli [...]?". Questo il problema, a mio parere.
TEATRO, METATEATRO, E CRITICA DELLA TEOLOGIA-POLITICA CATTOLICO-SPAGNOLA:
SHAKESPEARE, CON "AMLETO" (E DANTE), CERCA LA VIA D’USCITA PER PORTARSI OLTRE LUTERO E OLTRE ERASMO E TOMMASO MORO.
SOVRANITA’ E OBBEDIENZA. iN "The Book of Sir Thomas More", Shakespeare prende le distanze dalle posizioni teologiche di Tommaso Moro (ed Erasmo) e chiarisce le ragioni antropologiche, politiche e teologiche della Riforma anglicana.
Sir Thomas Moore
da Maria Borio (Nuovi Argomenti, 18 Dic. 2017) *
The Booke of Sir Thomas Moore è un’opera a più mani pervenutaci in manoscritto in una stesura non definitiva che racconta l’ascesa, il trionfo e la caduta del grande statista e umanista inglese attraverso una serie di episodi secondari o immaginari della sua carriera. Con le sue correzioni e revisioni, il testo ci permette di osservare come lavoravano i drammaturghi del Rinascimento inglese. Il manoscritto contiene le uniche pagine vergate di suo pugno da Shakespeare, il cui contributo è limitato a poche scene del dramma. Una di esse (una parte della Scena 6) è quella qui riprodotta.
Il contesto della vicenda è il cosiddetto Ill May Day (1517), una rivolta del popolino contro i Lombardi, i potenti mercanti e banchieri stranieri attivi a Londra in quell’epoca. Per placare il delirio xenofobo irrompono alcuni nobili e poi Moro, il quale persuade i ribelli ad arrendersi (il fatto è un’invenzione dei drammaturghi). Come ricompensa, viene nominato cavaliere e membro del Privy Council, mentre i rivoltosi vengono imprigionati.
Le parti del testo sottolineate sono quelle cancellate dal censore di stato, Edmund Tilney. In carattere speciale (tipo grassetto) sono invece indicate le annotazioni di una mano diversa da quella dell’autore.
Il libro di Sir Tommaso Moro
di Anthony Munday e Henry Chettle,
con revisioni e aggiunte di Thomas Dekker, William Shakespeare e Thomas Heywood
LINCOLN
Silenzio, ascoltatemi! Chi non vuol vedere un’aringa affumicata a quattro centesimi[ii], il burro a undici centesimi alla libbra, la farina a nove scellini allo staio[iii] e il manzo a quattro nobili[iv] per sei chili, mi ascolti[v].
UN ALTRO GEORGE BETTS
Arriveremo a tanto se continuiamo a tollerare gli stranieri. Dategli retta.
LINCOLN
Per il cibo il nostro è un grande paese; argo[vi], questi mangiano più da noi che in patria.
UN ALTRO CLOWN BETTS
Almeno una pagnotta da mezzo centesimo al giorno, pesata alla francese[vii].
LINCOLN
Loro importano qui verdure straniere giusto per rovinare i poveri apprendisti: cos’è mai una misera pastinaca rispetto al nostro buon cuore?
UN ALTRO WILLIAMSON Schifezze, schifezze! Infiammano gli occhi, e questo basta per impestare la città con un’ondata di paralisi cerebrale[viii].
LINCOLN
Con quella l’hanno già impestata: queste bastarde piante del letame (lo sapete, no? che crescono nel letame!) ci hanno impestato, e la nostra infezione farà tremare tutta la città, cosa che in parte succede a mangiar pastinache.
UN ALTRO CLOWN BETTS
È vero, e anche le zucche.
GUARDIA
Che cosa rispondete alla clemenza del re? La rifiutate?
LINCOLN
Vorreste prenderci in contropiede, non è vero? Niente affatto, non la rifiutiamo. Accettiamo la clemenza del re, ma non avremo compassione degli stranieri.
GUARDIA
Siete gli esseri più ingenui che si siano mai infilati in un pasticcio del genere.
LINCOLN
Che ne dite adesso, apprendisti? Apprendisti ingenui? Diamogli una lezione.
TUTTI
Apprendisti ingenui? Ingenui noi?
SHREWSBURY SINDACO
Fermi, in nome del re, fermi!
SURREY
Amici, maestri, compatrioti...
SINDACO
Silenzio, oh, silenzio! Vi ordino di stare calmi!
SHREWSBURY
Maestri miei, compatrioti...
SHERWIN WILLIAMSON
Il nobile conte di Shrewsbury! Ascoltiamolo!
GEORGE BETTS
Vogliamo sentire il conte di Surrey!
LINCOLN
Il conte di Shrewsbury!
GEORGE BETTS
Vogliamo sentirli tutti e due!
TUTTI I CITTADINI
Tutti e due, tutti e due, tutti e due, tutti e due!
LINCOLN
Silenzio, vi dico, silenzio! Siete persone assennate o che cosa?
SURREY
Tutto quel che volete, tranne che persone di buon senso.
ALCUNI CITTADINI
Non vogliamo sentire lord Surrey!
ALTRI CITTADINI
No, no, no, no, no! Shrewsbury, Shrewsbury!
MORO
Hanno oltrepassato l’argine dell’obbedienza, e così travolgeranno ogni cosa.
LINCOLN
Parla lo sceriffo[ix] Moro! Vogliamo sentirlo, lo sceriffo Moro?
DOLL
Sentiamolo! Il suo è uno sceriffato[x] generoso, e ha fatto diventare mio fratello, Arthur Watchins, attendente del sergente Safe. Sentiamo lo sceriffo Moro!
TUTTI I CITTADINI
Sceriffo Moro, Moro, Moro, sceriffo Moro!
MORO
Secondo l’autorità in vigore fra di voi, ordinategli di ascoltare in silenzio.
ALCUNI CITTADINI
Surrey, Surrey!
ALTRI CITTADINI
Moro, Moro!
LINCOLN e GEORGE BETTS
Zitti, zitti, silenzio, zitti!
MORO
Voi che avete autorità e credito presso la folla, ordinategli di fare silenzio.
LINCOLN
Gli venga un accidente, non vogliono star zitti. Neanche il diavolo può governarli.
MORO
Che incarico spinoso e difficile avete, guidare gente che neanche il diavolo è in grado di governare. Cari maestri, ascoltate le mie parole.
DOLL
Sì, corpo di Cristo, vi ascolteremo, Moro. Siete un buon padrone di casa, e ringrazio vostra altezza per mio fratello Arthur Watchins.
TUTTI GLI ALTRI CITTADINI
Zitti, pace!
MORO
Attenti, voi offendete proprio quello che invocate, cioè la pace. Nessuno di voi sarebbe qui presente, se quando eravate bambini fossero vissuti dei vostri simili che avessero travolto[xi] la pace come voi volete fare adesso; quella pace in cui finora siete cresciuti vi sarebbe stata tolta, e i tempi sanguinari non vi avrebbero permesso di diventare adulti. Poveri voi! Che cosa otterrete se anche vi concediamo quello che cercate?
GEORGE BETTS
Per la Madonna, mandar via gli stranieri, cosa che senz’altro porterà grandissimo vantaggio ai poveri artigiani della città.
MORO
Mettiamo che vengano allontanati, e mettiamo che la vostra baraonda abbia soffocato[xii] tutta l’autorità reale dell’Inghilterra. Immaginate di vedere i disgraziati stranieri trascinarsi verso la costa e i porti per imbarcarsi, con i loro miseri bagagli e i bambini dietro[xiii], mentre voi ve ne state a soddisfare i vostri desideri come sovrani, con le autorità ammutolite dal vostro berciare e voi tronfi nella gorgiera della vostra arroganza: che cosa avrete ottenuto? Ve lo dico io: avrete mostrato come la superbia e la forza possono prevalere e come l’ordine può essere distrutto. Ma in questo schema di cose non uno di voi giungerebbe alla vecchiaia, poiché altri furfanti, seguendo le loro ubbie, con identiche mani, identiche ragioni e identico diritto, vi spolperebbero, e gli uomini si divorerebbero fra loro come pesci voraci.
DOLL
Dio mi sia testimone, questo è vero come il vangelo.
GEORGE BETTS LINCOLN
Sì, questo è uno pieno di buon senso, parola mia. Stiamo attenti a quello che dice.
MORO
Miei cari amici, lasciate che sottoponga un’ipotesi alla vostra riflessione. Se ci pensate bene, vi accorgerete quale forma orribile hanno in sé le vostre novità rivoluzionarie. Anzitutto, è un peccato verso il quale l’Apostolo ci ha ammonito spesso di stare in guardia, raccomandandoci di obbedire alle autorità [xiv: Si riferisce al noto passo di S. Paolo, Romani 13.1-2]; e non sbaglierei se vi dicessi che voi siete insorti contro Dio.
TUTTI I CITTADINI
Santa Vergine, che Dio non voglia!
MORO
Eppure è così, perché al re Dio prestò il proprio ufficio di terrore, giustizia, potere e comando. A lui ingiunse di governare e volle che voi obbediste. E per aggiungere a questo una più ampia maestà, prestò al re non soltanto la sua figura, il trono e la spada, ma gli diede il suo stesso nome, chiamandolo dio in terra. Che cosa fate dunque voi, ribellandovi contro un uomo insediato da Dio in persona, se non ribellarvi contro Dio? Facendo così, che cosa fate alle vostre anime? Oh sconsiderati, lavate di lacrime le vostre menti corrotte; e le stesse mani che da ribelli levate contro la pace, a favore della pace alzatele, e le vostre ginocchia sacrileghe trasformatele in piedi. Inginocchiarsi per il perdono è la guerra [xv] più sicura che potete fare voi, la cui tattica[xvi] è la ribellione. Su, su, tornate a obbedire! Perfino questa sommossa può proseguire solo con l’obbedienza. Ditemi soltanto: quando una rivolta sta per scoppiare, quale capopopolo è in grado di sedare la turba nel proprio nome? Chi vuole obbedire a un traditore? O quanto bene suonerà l’elezione di qualcuno che come titolo abbia solo quello di ‘ribelle’ per definire un ribelle?
Voi volete schiacciare gli stranieri, ucciderli, tagliargli la gola, impadronirvi delle loro case e condurre al guinzaglio[xvii] la maestà della legge, per aizzarla come un segugio. Ahimè, ahimè! Supponiamo adesso che il re, nella sua clemenza verso i trasgressori pentiti, giudicasse il vostro grave reato limitandosi a punirvi con l’esilio: dove andreste, allora? Quale paese vi accoglierebbe vedendo la natura del vostro errore? Che andiate in Francia o nelle Fiandre, in qualsiasi provincia della Germania, in Spagna o in Portogallo, anzi no, un luogo qualunque diverso dall’Inghilterra, vi ritroverete inevitabilmente stranieri.
Vi farebbe piacere trovare una nazione dal carattere così barbaro che, in un’esplosione di odiosa violenza, non vi offrisse dimora sulla terra, affilasse i suoi detestabili coltelli sulle vostre gole, vi cacciasse via come cani, quasi che Dio non vi avesse creati né vi riconoscesse come suoi figli, o che gli elementi naturali non fossero stati fatti per il vostro benessere ma riservati per legge esclusivamente a loro? Che cosa pensereste se vi trattassero così? Questa è la condizione degli stranieri, e questa la vostra barbara disumanità.
TUTTI I CITTADINI
In fede, dice la verità. Facciamo agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi stessi.
TUTTI I CITTADINI LlNCOLN
Ci faremo governare da voi, mastro Moro, se ci sarete amico e ci procurerete il perdono.
MORO
Sottomettetevi a questi nobili signori[xviii], implorate la loro mediazione presso il Re, assumete un comportamento ortodosso, obbedite al magistrato, e senza dubbio troverete misericordia, se la cercate in questo modo.
* Fonte: Nuovi Argomenti, Dic 18, 2017 (ripresa parziale, senza le note).
TEATRO E FILOSOFIA: TESTO E METATESTO. Un problema di "interpretazione" e di "giustizia".
ARTE, TEATRO, BIOGRAFIA, STORIOGRAFIA, TEOLOGIA-POLITICA. Un solo filo ’apocalittico’ dal "Ritorno di Giuditta a Betulia" (Botticelli, 1472) a "Davide con la testa di Golia" (Caravaggio, 1609/1610).
Una nota a margine di una delle "pillole di storia" della prof.ssa Galatea Vaglio, in memoria di Caravaggio...*
Chiarissima prof.ssa Mariangela Galatea Vaglio ... a suo onore, detto che la scelta dell’opera di Caravaggio è magistrale, io direi di riprendere il volo con le ali dell’aquila ("Zeus ed Era"), e, mi permetta, La solleciterei a riguadagnare l’orizzonte di un’analisi più approfondita: "Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio ... muore a Porto Ercole, per una banale febbre trascurata, il 18 luglio 1610".
Allargargando l’obiettivo dell’orizzonte storico (ricordando la "storia" di Giordano Bruno, "morto" dieci anni prima, e l’Amleto di Shakespeare, proprio di quegli anni, il 1600/1601, e la vita di Artemisia Gentileschi), forse, è da ri-considerare che la vita di Caravaggio è compenetrata dal clima di una Europa segnata da una profonda tensione apocalittica, che non risolta la precipiterà nella guerra dei Trentanni (1618-1648). Ripartendo da Botticelli (in particolare dall’opera relativa alla figura di Giuditta che taglia la testa a Oloferne, v. allegato nei commenti), forse, è possibile comprendere di più e meglio. Grazie!
P. S. - STORIA, METASTORIA,E ANTROPOLOGIA. L’indicazione dell’elisabettiano ’programma’ di Shakespeare è, a ben vedere, per il suo forte richiamo a Wuttenberg (alla Riforma di Lutero e, ovviamente, alla stessa Riforma Anglicana di Enrico VIII) una significativa sollecitazione ad "allargare l’area della coscienza" (Allen Ginsberg):
"HAMLET. Rest, rest, perturbèd spirit.- So, gentlemen, / With all my love I do commend me to you, / And what so poor a man as Hamlet is /May do t’ express his love and friending to you, / God willing, shall not lack. Let us go in together,/ And still your fingers on your lips, I pray. /The time is out of joint. O cursèd spite/ That ever I was born to set it right! / Nay, come, let’s go together. "(Hamlet, I.5).
TEATRO, METATEATRO, ANTROPOLOGIA E DISAGIO DELLA CIVILTÀ: CON SHAKESPEARE E DANTE ALIGHIERI, OLTRE LA TRAGEDIA DI EDIPO E GIOCASTA...
HEGELISMO, PLATONISMO, FILOLOGIA E ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA)*
"MENSCHWERDUNG" ("DIVENTARE UN ESSERE UMANO"). "Dio è amore" ("Deus charitas est"), condivido (è una questione di "h": "Charitas", gr. "Xapitas"). Hegel ha messo il dito nella piaga: "La vita di Dio e il conoscere divino potranno bene venire espressi come un gioco dell’#amore ["ein Spielen der Liebe"] con se stesso; questa idea degrada fino all’edificazione e addirittura all’insipidezza, quando mancano la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio ["Arbeit"] del negativo" ("Fenomenologia dello Spirito", §19).
A ben "orientarsi nel pensiero" (Kant) e, al contempo, nel sollecitare una ri-considerazione unitaria della "Prefazione" ("Vorrede") della "Fenomenologia dello Spirito" di Hegel e la figura della profetessa di Mantinea, Diotima, a mio parere, emerge chiaramente il #nodo antropologico di fronte a cui Hegel si è trovato e che ha sciolto in modalità tragica, edipica e paolina, con tutta la "socratica" potenza di un #Napoleone (Alessandro Magno); non con lo spirito del #Logos (di Eraclito e dell’evangelista Giovanni) né della #Giustizia di Parmenide, egli ruba "alla #Platone" l’anima a Diotima ("Simposio") e ripropone una demiurgica e demogorgonica #cosmoteandria t(al)ebana: "[...] che il vero sia effettuale solo come sistema o che la sostanza sia essenzialmente soggetto ciò è espresso in quella rappresentazione che enuncia l’#assoluto come #spirito - elevatissimo concetto appartenente all’età moderna e alla sua #religione" (Fenom. d. spir., § 22).
A che gioco giochiamo, a che giogo vogliamo continuare a giocare? Non è meglio, forse, riprendere il filo proprio da Diotima e, con Dante Alighieri ("Due Soli") e portarsi fuori dalla tragedia dei "Tempi moderni" (Charlie Chaplin)?
P. S. 1 - «Senza Hegel non sarebbe stato possibile neppure Darwin, afferma Nietzsche, e l’avrebbe potuto dire anche di se stesso; infatti chi si ammali una volta di hegelite - così mordacemente si era espresso un decennio prima - non ne guarirà mai del tutto. E che cosa sarebbe la critica alla religione di Fuerbach e di Marx, o anche quella odierna di Ernst Bloch e Georg Lukács senza Hegel?» (Hans Küng, "Incarnazione di Dio. Introduzione al pensiero teologico di Hegel, prolegomeni ad una futura cristologia", Queriniana, 1972).
P. S. 2 - EUROPA: CRISTIANESIMO CATTOLICESIMO COSTITUZIONE E SPIRITO DI ASSISI (1986). Quando Benedetto Croce pubblicò il suo «Perché non possiamo non dirci "cristiani"» (1942), don Giuseppe De Luca ’confessò’ al Ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai: si è "rincristianito per dispetto". Come concordato...!!!
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CATTOLICESIMO RIFORMAPROTESTANTE E CHIESA ANGLICANA . STORIA E STORIOGRAFIA: TOMMASO MORO (THOMAS MORE, 1478-1535), ENRICO VIII (1491-1547), ED ELISABETTA D’INGHILTERRA (1533-1603) E SHAKESPEARE (1613). *
FILOLOGIA, "COSTITUZIONE DOGMATICA SULLA CHIESA" (1964), E MONARCHIA DEI #DUESOLI (DANTEA LIGHIERI):"CUM #VIR #MULIERQUE VERITATEM VOCANTEM AUDIUNT" (GIOVANNI PAOLO II, 2000). Alcuni appunti sul tema...
A) QUESTIONE ANTROPOLOGICA E #CHARITAS (#LOGOS). NELLA LETTERA APOSTOLICA DEL 31 OTTOBRE DEL 2000, "PER LA PROCLAMAZIONE DI SAN TOMMASO MORO PATRONO DEI GOVERNANTI E DEI POLITICI", PAPA GIOVANNI PAOLO II COSì SCRIVE:
"1. Dalla vita e dal martirio di san Tommaso Moro scaturisce un messaggio che attraversa i secoli e parla agli uomini di tutti i tempi della dignità inalienabile della coscienza, nella quale, come ricorda il Concilio Vaticano II, risiede "il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nella sua intimità" (Gaudium et spes, 16). Quando l’uomo e la donna ascoltano il richiamo della verità [ "Cum vir mulierque veritatem vocantem audiunt"], allora la coscienza orienta con sicurezza i loro atti verso il bene. Proprio per la testimonianza, resa fino all’effusione del sangue, del primato della verità sul potere, san Tommaso Moro è venerato quale esempio imperituro di coerenza morale. E anche al di fuori della Chiesa, specie fra coloro che sono chiamati a guidare le sorti dei popoli, la sua figura viene riconosciuta quale fonte di ispirazione per una politica che si ponga come fine supremo il servizio alla persona umana. [...]".
B) SAN TOMMASO MORO: "[...] Come consigliere e segretario del re, è impegnato contro la Riforma protestante. Contribuisce alla stesura de “La #difesa dei #sette #sacramenti”, opera che valse ad Enrico VIII il titolo di #Defensorfidei. Un’ascesa inarrestabile, fino al culmine: è il primo laico ad essere nominato Gran Cancelliere. Siamo nel 1529. Solo pochi anni dopo, nel 1532, la sua vita cambierà decisamente.
Muoio fedele servo del re ma prima servo di Dio.
La sua vicenda si intreccia con la stessa vita del re Enrico VIII che, deciso a sposare #AnnaBolena, fa dichiarare nullo dall’arcivescovo Thomas Cranmer il suo matrimonio con Caterina d’Aragona, giungendo, in un’escalation di opposizione a Papa #ClementeVII, ad assumere la guida della Chiesa d’Inghilterra. Nel 1534 l’Atto di Supremazia e l’Atto di Successione sanciscono la svolta. Tommaso si era già ritirato dal mondo politico: non poteva approvare e, soprattutto, non vuole rinnegare la fedeltà al Papa. Nel 1534 viene quindi imprigionato nella Torre di Londra ma questo non basta a piegarlo. La sua “linea”, che continua ad essere quella del silenzio, non è però sufficiente a salvargli la vita. Subisce un processo, nel corso del quale pronuncia una famosa apologia sull’indissolubilità del matrimonio, il rispetto del patrimonio giuridico ispirato ai valori cristiani, la libertà della Chiesa di fronte allo Stato. Viene condannato per alto tradimento e decapitato il #6luglio, pochi giorni dopo Giovanni Fisher, di cui era grande amico, condannato per le stesse idee e assieme a lui ricordato dalla Chiesa il #22giugno. (...)"
C) EUROPA, CRISTIANESIMO E "DISAGIO DELLA CIVILTÀ": IL "CORPO DEL SIGNORE (CORPUS DOMINI)" E L’EUCARISTIA (Eu -#charis -tia"). Due note: A) SACRAMENTALISMO. [...] B) SACRAMENTARISMO).
D) DANTE ALIGHIERI E MERCURINO ARBORIO DI GATTINARA. "Forse, è bene #ricordare, mi sia lecito, la lezione magistrale di Karl Brandi che, a conclusione della sua "lettura" della figura di "Carlo V" (1935), rievoca la figura (con le seguenti testuali parole) del "gran cancelliere Mercurino di Gattinara, il cui ideale imperiale non era stato diverso dal sogno imperiale di Dante; e aveva espresso la fede in un ordinamento del mondo retto dall’Impero e dal Papato, ciascuno nella sua sfera, l’uno e l’altro pienamente e sovranamente responsabili verso l’intera umanità" ( (Einaudi, Torino 2001) ); e, ancora, che Ernst H. #Kantorowicz, nel suo lavoro su "I due corpi del re" (1957), intitola e dedica l’intero ultimo capitolo a "La regalità antropocentrica: Dante" (Einaudi, Torino 2012). ".
ARTE, FILOLOGIA, "NASCITA DELLA TRAGEDIA" (NIETZSCHE), E
QUESTIONE ANTROPOLOGICA ("ECCE HOMO", 1888):
PLATONE E "NOI", OGGI (11MAGGIO 2023). MESSA A MORTE LA #GIUSTIZIA (#DIKE) DI #PARMENIDE, #PLATONE SALE SULL’ACROPOLI E DICHIARA: "IO, PLATONE, SONO LA [DEA DELLA] #VERITÀ". "L’essere che realmente è, senza colore, senza forma, non apparente [...] occupa questo luogo. [...] e [l’anima] contemplando il vero se ne nutre e ne gode" (Fedro 247 c-d).
ELEUSIS_2023. Abbandonata "M_Arianna", interi millenni di labirinto ... nella ’invisibile’ caverna plutonica (ricordando Demetra ed Eleusis).
Dopo #Dante2021, ancora in un profondissimo #letargo (Pd., XXXIII, 94)!
P. S. - Su Platone, oggi, alcuni appunti per una possibile diversa "lettura": nelle Università e nelle Accademie (laiche e devote) si insegna ancora a credere che Aristofane scherzasse su #Socrate!
HAMLETICA: FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA), LINGUISTICA, E "COSTRUZIONI NELL’ ANALISI" (FREUD). Un omaggio a Shakespeare, alla "question" di Hamlet (Amleto, e a Ferdinand de #Saussure. In #principio era il #Logos, non un #logo...
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EUROPA, CRISTIANESIMO E "DISAGIO DELLA CIVILTÀ": IL "CORPO DEL SIGNORE ("CORPUS DOMINI)" E L’ EUCARISTIA (Eu-charis-tia").
Due note:
A) SACRAMENTALISMO. "Il termine #sacramentalismo descrive il sistema concettuale e pratico attraverso il quale in particolare la Chiesa cattolica romana, ma anche il #cristianesimo ortodosso comprende la funzione e l’uso dei #sacramenti come mezzi mediante i quali la #grazia di Dio verrebbe impartita ai fedeli. Esso è strettamente legato alla figura del #sacerdote [...]" (https://it.wikipedia.org/wiki/Sacramentalismo);
B) SACRAMENTARISMO. "Si definisce sacramentismo o #sacramentarismo il movimento di opposizione, sviluppatosi nei Paesi Bassi alla fine del Medioevo, alla tradizionale teologia eucaristica e alle relative pratiche devozionali, consistente nel #rifiuto della dottrina della transustanziazione e della messa intesa come ripetizione del #sacrificio di Cristo, dando alla comunione, la cena del #Signore, un carattere simbolico e commemorativo.
A definire sacramentisti o sacramentari i seguaci di tale movimento furono le stesse autorità ecclesiastiche, per le quali sacramentarius era chiunque sostenesse che ogni sacramento era soltanto un #segno, senza che nella cerimonia avvenisse alcuna alterazione della materia sacramentale. Anche Lutero, creatore della teoria della consustanziazione, chiamò sacramentari i suoi avversari nella controversia eucaristica che ebbe con Carlostadio, Ecolampadio, Schwenckfeld e Zwingli, quest’ultimo il più autorevole sostenitore del carattere simbolico della comunione. [...]
Alla crescita del movimento sacramentario fece seguito la reazione dell’Inquisizione. La prima vittima fu Lauken van Moeseken, decapitato nel 1518 a Bruxelles; l’ex-prete Jan de Bakker fu bruciato a L’Aja nel 1525, mentre la prima donna a morire per la sua fede fu Wendelmoet Claesdochter, strangolata e bruciata nel 1527. Negli interrogatori dichiarò che il sacramento dell’altare era « solo pane e farina» e, riferendosi all’estrema unzione, che « l’olio è buono per l’insalata e per lucidare le scarpe». Sul patibolo, rifiutando il crocifisso, dichiarò: «Il mio Dio e Signore non è questo. Il mio Signore è in me e io in lui ».[...]"(https://it.wikipedia.org/wiki/Sacramentarismo).
Federico La Sala
FILOSOFIA (DELLA CAVERNA) E PSICOANALISI:
L’OMBRA MINACCIOSA DELL’IMMAGINARIO DI EDIPO E PLATONE SULLE SPALLE DELL’INTERA EUROPA.
Una lettera di Sigmund Freud a Lou Andreas Salomé del 25 novembre del 1914, da ri-leggere:
***
PER NON BUTTARE IL BAMBINO INSIEME ALL’ACQUA SPORCA. A gloria di Freud, nonostante la catena che lo teneva legato alla Madre e, come Edipo, si sia comportato da #Padrino ("Pater Freudenreich* - Padre Freud"), fin dal "caso Dora" e, poi, sia arrivato alla disperazione e al pessimismo più nero ("Perché la #guerra?". Carteggio #Einstein-Freud, 1932/1933) sulle possibilità di portarsi fuori dalla tradizionale cosmoteandria di Platone (e Socrate), bisogna dire che, con (e come) Mosè, riuscì a salvarsi dalle grinfie del "Faraone" del XX secolo e a raggiungere Londra!
A mio parere, la sua lettera a #Lou Salomé è una grande sollecitazione a pensare ancora, di più, e meglio, alle difficoltà gigantesche che sono sì del Freud del 1914, ma che sono ancora, oggi - dopo la morte di Nietzsche (1900) e la stessa morte di Freud (1939) - quelle dell’Europa del 2023, governata dalla logica della tragedia di Edipo e dall’algoritmo demiurgico del "Grande Sconosciuto".
William Shakespeare e “Romeo e Giulietta”, il sole come metafora dell’amore *
Quanto amore è stato raccontato dagli intellettuali e dagli artisti! William Shakespeare è forse fra gli autori che più associamo al tema, perché con le sue magnifiche opere ha saputo emozionarci un secolo dopo l’altro, generazione dopo generazione. Con il testo che condividiamo con voi questa sera, tratto dal dramma “Romeo e Giulietta“, vogliamo rivivere le sensazioni di chi ama follemente e desidera con ardore, di chi sente il cuore bruciare e la mente completamente assorbita dal pensiero della persona amata.
“Silenzio! Quale luce irrompe da quella finestra lassù?” di William Shakespeare
Raccontare l’amore
Con questo meraviglioso brano, William Shakespeare racconta il sentimento che lega Romeo a Giulietta. Tutto in questi versi urla ardore, passione, ammirazione. La peculiarità di questo testo risiede infatti nell’assenza di mezzi termini. Ciò che predomina nella descrizione dell’amore di Romeo per la fanciulla veronese che gli ha rubato il cuore è la forza, una potenza che poi nella tragedia si sviluppa nel dramma della morte dei protagonisti, che realizzano la loro unione nella morte.
Nel testo concepito da Shakespeare si rincorrono le immagini naturali del sole, della luna, delle stelle e del cielo, tutte funzionali alla descrizione di Giulietta e all’espressione della potenza del sentimento di Romeo, che culmina nella dolcezza del desiderio di un contatto semplice quanto quello di una carezza:
William Shakespeare
William Shakespeare nasce il 23 aprile 1564 a Stratford-upon-Avon. Della sua vita non si hanno molte testimonianze, se non che sposa Anne Hathaway e dalla donna ha tre figli. L’autore di “Romeo e Giulietta” e di tante altre opere celeberrime, è stato uno scrittore straordinario e prolifico vissuto nell’età elisabettiana.
Ha scritto 154 sonetti e recitato, insieme alla sua compagnia, al Globe Theatre di Londra, il primo teatro all’aperto del periodo elisabettiano, costruito per la prima volta nel 1599 dalla compagnia teatrale di Shakespeare, “The Lord Chamberlain’s Men“, in seguito chiuso - era il 1642 - e ricostruito nel 1614.William Shakespeare muore a Stratford-upon-Avon nel 1616, all’età di 52 anni.
Un uomo ricco di esperienza artistica e grande sensibilità e ricchezza emotiva come William Shakespeare è stato capace di concepire personaggi unici e senza tempo. Le sue storie, i suoi drammi e le sue tragedie ruotano sempre intorno a temi universali come l’amore, l’odio, la vita e la morte, declinati tutti attraverso il filo conduttore del “misunderstanding”, ovvero l’equivoco.
* FONTE: LIBRERIAMO, 9 Maggio 2023 (RIPRESA PARZIALE).
PSICOANALISI, CRISTIANESIMO, ANTROPOLOGIA E LETTERATURA:
"PSICOLOGIA DELLE MASSE E ANALISI DELL’ IO" (S. FREUD, 1921): DANTE ("Io non Enëa, io non Paulo sono": Inf. II, 32) SA "DOVE METTE CRISTOFORO IL PIEDE" (cfr. Wilhelm Stekel, "Il ’Piccolo Kohn’ ", 1903, tradotto e curato da Michele Lualdi).
"IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS", "CRITICA DELLA RAGION PURA" (KANT), E "IDEALE DELL’IO" (S. FREUD). CON GIASONE (OVIDIO) E CON ASTREA (LA "VIRGO" DI VIRGILIO) E MARIA-BEATRICE (LA "VERGINE" DI SAN BERNARDO), DANTE RIPRENDE IL CAMMINO, dall’ INIZIO (dall’Inferno) ma dal PRINCIPIO (Par. XXXIII: "Vergine Madre, figlia del tuo figlio [...] l’amor che move il sole e l’altre stelle") e racconta come è riuscito a ritrovare "LA DIRITTA VIA" e a capire il senso antropologico di sé: "Io sono l’alfa e l’omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine" (Ap., XXII, 13).
PSICOANALISI, FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA E STORIOGRAFIA:
LA SUGGESTIONE, L’ ENIGMA DI SAN CRISTOFORO, E
LA "PSICOLOGIA DELLE MASSE E ANALISI DELL’IO" (S. FREUD, 1921).
Per meglio comprendere il grande rilievo del contributo di Stekel, al lavoro e alle "costruzioni nell’analisi" (1937) di Freud, molto utile anche la lettura del testo della seduta del 1903, pubblicata come articolo con il titolo "Il ’Piccolo Kohn’", tradotto e curato dal dr. Michele Lualdi*:
[FREUD] - Il maestro [...] cosa è suggestione? [...] Mi sono recato dai più celebri maestri della suggestione, ma nessuno ha potuto darmi una risposta a questa domanda.
*cfr.Wilhelm Stekel: "Il ’Piccolo Kohn’" (1903)
AllegaTO: San Cristoforo (Wikipedia).
NOTA:
"INTERPRETAZIONEDEISOGNI", E "COSTRUZIONI NELL’ ANALISI" (SIGMUND FREUD,1937): "CLAUSTROFILIA" (ELVIO FACHINELLI, 1983). Una risposta all’edipica ed amletica domanda ("question") di Freud e all’enigma di Cristoforo (come quello della Sfinge), a mio parere, può essere così sintetizzata: noi (esseri umani) del Pianeta Terra "fumiamo" troppo e ancora non abbiamo capito la lezione di Amleto (Shakespeare), e della Regina Vergine, Elisabetta I d’Inghilterra, continuiamo a "fumare" il tabacco della "Virginia" e il sigaro del "Kaiser", e, non vogliamo nascere a noi stessi (esseri umani).
FLS
RIFORMA PROTESTANTE E RIFORMA COPERNICANA...
ELISABETTA I ED ELISABETTA II: STORIA, MEMORIA, E ANTROPOLOGIA TEOLOGICO-POLITICA.
"ADAMO ED EVA", "MARIA E GIUSEPPE", UOMINI E DONNE UGUALI DAVANTI A DIO (AMORE, CHARITAS, XAPITAS): L’ ALLEANZA DI FUOCO. LA CHIESA ANGLICANA SORPASSA LA CHIESA "CATTOLICA". Il cattolicismo "andro(po)logico" romano è finito
A) [EUROPA, 2008]: «Chiesa anglicana: ’’Sì alle donne vescovo’’. Vaticano: ’’Strappo alla tradizione’’
Voto positivo dei componenti del Sinodo generale riuniti a York, nel nord della Gran Bretagna, che si sono espressi anche a favore di un "codice di condotta", per evitare lo scisma dei più tradizionalisti. La SantaSede: ’’Ulteriore ostacolo per la riconciliazione’’» ( Londra, 8 lug. 2008: Adnkronos/Dpa);
B) [EUROPA, 2022]: «La Chiesa anglicana: la religiosità di Elisabetta, un lascito al suo popolo
Lealtà, servizio e umiltà, le qualità della Regina che hanno toccato i suoi sudditi. La Reverenda Jules Cave Bergquist: nei suoi messaggi parlava della sua fede e del conforto e del sostegno che offriva proprio a lei
(cfr. Francesca Sabatinelli - Città del Vaticano, 09 settembre 2022).
Foto: La regina Elisabetta, capo della Chiesa Anglicana, sullo sfondo l’Abbazia di Westminster.
Federico La Sala
"THE GLOBE THEATRE" ("PIANETA TERRA"): "AMLETO" (SHAKESPEARE) E IL PROBLEMA DEL CORPO MISTICO DELLA REGINA E PAPESSA D’INGHILTERRA (ELISABETTA I ). Note di commento a margine di alcuni passaggi dell’Amleto:
La rivelazione di Polonio relativa al fatto che "in my youth I suffered much extremity for love" ("Hamlet", II.2.190-224), a mio parere, essendo legato come è al tema della concezione ("Conception is a blessing"), al "come nascono i bambini" (i "figli di Dio"), sollecita a porre particolare attenzione ai nodi non sciolti da Amleto, come dallo stesso Shakespeare, e, infine, dalla stessa cultura europea dell’attuale presente storico!
Polonio, avendo "sofferto terribilmente per amore" e quasi rischiato di diventare pazzo come Amleto ("He is far gone, far gone!"), per seguire (ipoteticamente) il "sogno" dello stesso Amleto (quello del "figliuol prodigo", come sembra suggerire l’uso e il richiamo al "come è prodiga [prodigal] /l’anima nel riempire di voti la lingua") e risolvere il problema del "marcio in Danimarca" (il nodo dell’incesto e dell’adulterio), ordina con durezza e determinazione a Ofelia di fare come egli ha fatto, per non "illudersi" e non "scottarsi":
In prospettiva, il problema da risolvere è quello del "corpo mistico" di Cristo, "Papa" (Sacerdote) e, al contempo, Re (e, nella realtà dell’epoca, del "corpo mistico" della Regina e "Papessa" - Elisabetta I d’Inghilterra) e, ancora e insieme, dei cittadini-figli e delle cittadine-figlie dell’Amore di Dio ("Love"), componenti del "corpo mistico" (teologico-politico), di cui il Figlio "Cristo", "Re" e "Sacerdote/Papa", è la "testa"!
Per quanto incredibile possa apparire, con "Amleto", Shakespeare sollecita non solo l’Inghilterra ma tutta l’Europa del suo tempo "fuori dai cardini" ("out of joint") a interpretare in modo antropologicamente e teologicamente chiaro (al di là della lunga storia "edipica", di incesti e adulteri) il sogno del messaggio evangelico e portarsi (come Omero con Ulisse e Dante con Virgilio), al di là di Scilla e Cariddi, al di là degli opposti estremismi della tradizione teologico-politica cattolica e protestante.
"That is the question": la domanda, come ben si vede, non è recintabile nel discorso poetico-teatrale e sollecita a essere "postata" oltre, nella scena storico-sociale, sul piano teologico-politico; e al contempo, riallacciando amleto-ticamente il filo con Wittenberg (Lutero) e con Giordano Bruno ("Lo spaccio della bestia trionfante"), riaprire (quantomeno) ancora e di nuovo la riflessione sulle "costruzioni nell’analisi" (S. Freud, 1937) dell’amore evangelico (lat. charitas, gr. xapitas), del corpo mistico di Cristo ("Ixthus"), e dell’eucharistia (εὐχαριστία), e riprendere il cammino della riforma religiosa e della rivoluzione copernicana.
"L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO": LA SCUOLA DI LUTERO (WITTENBERG) E IL DISCORSO DEL "PADRE-RE" DI AMLETO (SUL "CORPO MISTICO" DEL FIGLIO-EREDE DEL "PADRE NOSTRO").
Note sul tema a margine di alcuni passaggi dell’ «Amleto» ("Hamlet", I. 2. 90-123):
"RE
Amleto, è dolce e lodevole nella tua natura
che tu dia a tuo padre questo tributo di lutto.
Ma, non scordarlo, tuo padre perdette un padre,
e quel padre perduto, il suo - e l’orfano è tenuto
in obbligo filiale, per un tempo,
a dare un omaggio di tristezza. Ma perseverare
in un cordoglio ostinato è condursi
con testardaggine empia [...]
questa è una colpa contro il cielo, [...] Ti preghiamo, getta via
questa pena inutile, e pensa a noi
come a un padre. Perché, lo sappia il mondo,
tu sei erede diretto a questo trono
e io mi porto verso te con amore
non meno forte di quello che il più tenero padre
porta al figlio. Quanto alla tua intenzione
di tornartene a scuola a Wittemberg
essa è contro ogni nostro desiderio,
perciò ti scongiuriamo, convinciti a restare
qui, gioia e conforto dei nostri occhi,
primo a corte, nipote e figlio nostro.
REGINA
Non far sprecare preghiere a tua madre, Amleto.
Resta con noi ti prego, non andare a Wittemberg"
LA PSICOANALISI E IL TRAUMA DELLA CIRCONCISIONE (MASCHILE E FEMMINILE): "L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI" (1899) E LE "COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (1937). *
Recensione di Rita CORSA al numero monografico di
Quando mi sono trovata a parlare con Franco Borgogno del numero monografico di The Wise Baby - Il poppante saggio (1/2022), dedicato interamente alle trentennali indagini storiche di Carlo Bonomi, mi è subito venuto in mente il provocatorio concetto di “piglio antistorico della psicoanalisi” (2019, 268), coniato da Borgogno per indicare come la psicoanalisi tenda ad accomodarsi in una confortevole storiografia narratologica, spesso vacua, incompleta e talvolta priva di qualsivoglia traccia documentale. Questo non è di certo il caso dell’opera di Bonomi. Le ricerche archivistiche da lui effettuate, partite proprio per colmare “una circoscritta lacuna storiografica” (2022, 7), hanno successivamente preso un respiro assai ampio, giungendo a offrire una delle più accattivanti e stimolanti proposte interpretative delle origini della psicoanalisi.
I suoi pluridecennali studi, già da tempo affermatisi a livello internazionale, trovano finalmente una ricca esposizione in lingua italiana sul periodico in esame. Il numero monografico è centrato su un lungo saggio del 1994, già tradotto in molte lingue, che racchiude i frutti delle esplorazioni effettuate da Bonomi, transitando per archivi tedeschi e austriaci, alla ricerca di prove che consentissero di formulare delle ipotesi innovative sul primo Freud e sulla teoria traumatica freudiana, pilastro della metapsicologia psicoanalitica. È così germinata una tesi folgorante, che trova la sua radice nel gigantesco scotoma storiografico del giovane Freud, medico pediatra. Bonomi si chiede: Perché abbiamo ignorato il Freud “pediatra”? - che è anche il titolo del saggio del 1994 e dell’attuale numero della rivista. È questo il primo contributo di Bonomi su una materia che scandaglierà per diversi decenni.
Il trauma della castrazione è il fil rouge che scorre, impetuoso, negli scritti di Bonomi. È il tema che aveva svolto compiutamente nel libro Sulla soglia della psicoanalisi. Freud e la follia infantile (2007) e che riprende nel secondo articolo pubblicato sulla rivista(Cura o punizione? Contraddizioni e paradossi nell’incontro di Freud con la pediatria), dove l’Autore ridisegna i contorni della costruzione psicoanalitica freudiana in dialogo con il cambiamento di paradigma che avviene a fine Ottocento nel mondo della pediatria.
Il punto d’avvio di questa coraggiosa avventura è puramente storiografico, nel suo ripercorrere le vicissitudini della sessualità infantile nella pediatria tardo ottocentesca, pervasa dall’ossessione per l’onanismo, considerato causa di follia nei bambini e curato con la castrazione. La castrazione chirurgica di donne e bambine. Una pratica assai frequente, nonché terribilmente invasiva e violenta, in cui si è imbattuto Bonomi nel 1992, durante la disamina di articoli e cartelle mediche custodite nell’archivio dell’Istituto di Storia della Medicina dell’Università di Tubinga, allora diretto dal professor Gerhard Fichtner.
Bonomi rileva che Freud non solo conosce, ma deve aver osservato in prima persona tale odiosa tecnica terapeutica. Una pagina del percorso medico freudiano incomprensibilmente trascurata dai biografi. O francamente scissa dal profilo identitario medico di Freud. Perché ciò sia potuto accadere non è chiaro. Certo è, come fa notare Bonomi, che lo stesso Freud sminuì o cancellò del tutto il suo decennale impegno con i bambini, compiuto proprio in un periodo cruciale per la nascita della psicoanalisi e, in particolare, per la scoperta della sessualità infantile. Questa lacuna biografica si trasforma in un “disturbo della memoria” e in un vuoto teorico, che Bonomi indagherà negli scritti successivi.
Mi permetto di indugiare sul Freud “pediatra”. Nel marzo del 1886, dopo aver seguito le lezioni di Charcot a Parigi, Freud si recò a Berlino, da Adolf Baginsky, per acquisire una veloce formazione pediatrica in vista dell’assunzione dell’incarico offertogli da Max Kassowitz presso l’Istituto Pubblico per le Malattie dei Bambini di Vienna. Egli manterrà l’incarico di responsabile del reparto neurologico dell’ospedale per l’infanzia per 10 anni, fino al 1896. Bonomi ci informa che la struttura verrà chiusa e distrutta in seguito all’Anschluss, portando via con sé atti amministrativi e cartelle cliniche dell’epoca. Non resta quindi alcuna testimonianza degli anni trascorsi da Freud a Vienna in qualità di medico pediatra. Rimane, invece, qualche segno del breve training che Freud svolse con Adolf Baginsky a Berlino, in un momento storico in cui era preminente l’idea che la masturbazione provocasse dei gravi danni neurologici e psichici: «per Baginsky l’onanismo era una malattia del sistema nervoso che prosperava nelle cattive condizioni igieniche» e che era particolarmente pericolosa, perché contagiosa (Bonomi, 2022, 16). Ad esso era inoltre addebitata l’eziologia della maggior parte delle isterie infantili e pure di quelle in età adulta. -------Questa localizzazione genitale dell’isteria, presente fin dall’infanzia, spinse la medicina a considerare l’ablazione della clitoride e delle piccole labbra e l’asportazione delle ovaie come terapie d’elezione nell’isteria. Bonomi correda tale barbaro, ma a quel tempo molto attuato, esercizio chirurgico con un nutrito ventaglio di riferimenti bibliografici. In estrema sintesi, a suo avviso sarebbe proprio la giovanile esperienza in ambito pediatrico a giustificare l’iniziale “personale avversione” di Freud nei riguardi della teoria sessuale delle nevrosi (Freud, 1896, 340), dovuta specialmente agli orrori della castrazione femminile. Freud si riavvicinerà «alla vecchia teoria sessuale» col rafforzarsi del sodalizio con Wilhelm Fliess, che profila «una nuova soluzione terapeutica “etiologica”, basata sulla teoria della nevrosi nasale riflessa» (Bonomi, 2022, 27), una teoria che vede il locus morbi trasferito dai genitali ai “punti genitali” nel naso (Freud, 1888). Osservato alla luce della tremenda ablazione genitale, lo spostamento a livello nasale, con l’asportazione dei turbinanti, sembra certamente una soluzione più accettabile e umana. Annota invero Bonomi, che Freud «riteneva l’operazione al naso “innocua” e fu profondamente scosso dal drammatico esito dell’operazione di Emma Eckstein» (ibid., 29), come racconta l’accorata lettera a Fliess dell’11 aprile 1895 (Freud, 1986).
La vicenda è nota. All’inizio del 1895, Emma Eckstein, paziente di Freud, che da piccola aveva subito la mutilazione genitale, venne operata al naso da Fliess. L’operazione ebbe delle serie complicanze emorragiche a causa di un errore del medico - una garza emostatica fu dimenticata nella narice (Schur, 1972). Da qui il celebre “sogno dell’iniezione di Irma”, fatto da Freud nel luglio del 1895 e riportato nell’Interpretazione dei sogni (1899). Un sogno “post-traumatico” e “oto-ginecologico”, come viene definito da Anzieu (1975). Non mi soffermo su questo sogno, analizzato minuziosamente in una gran mole di scritti psicoanalitici. Segnalo solo che Bonomi lo esamina con dovizia e gran originalità, richiamandosi al mito classico e alla cultura greca.
Rimando al lettore l’approfondimento di questi dotti passaggi, il cui sunto non sarebbe in grado di rendergli pienamente giustizia. Quel che è certo, l’effetto ultimo del sogno di Irma su Freud «sembra essere stato quello di chiudere il periodo delle operazioni chirurgiche per inaugurare quello della psicoanalisi» (2022, 29). Negli anni di fine secolo ha infatti luogo la profonda trasformazione delle nozioni di nevrosi, isteria e sessualità, che perdono il loro riferimento ai “nervi” e agli organi genitali, mutandosi in disturbi senza sede anatomica: «in breve (...) diventano psicologiche» (ibid., 84). E il rivoluzionario apporto del pensiero freudiano a tale sovvertimento di paradigma è sostanziale.
Tuttavia, si può affermare che delle aree d’ombra non mancano nel primo apparato teorico freudiano: «Con l’ausilio della mitologia greca e della “metafora archeologica”, Freud costruì (...) un imponente monumento agli orrori della castrazione» (ibid., 48). Un monumento alla castrazione maschile, innalzato da un ebreo circonciso che non volle che i propri figli maschi fossero sottoposti alla medesima operazione. Eppure, osserva Bonomi, egli difettò di includere nel suo edificio teorico «la castrazione e mutilazione femminile che pure deve aver avuto un ruolo principale nelle sue esperienze mediche giovanili». Una lacuna che «sembra essere strettamente connessa con quegli aspetti di lutto incompiuto che attraversano sia la sua vita che la sua opera» (ivi). Nonostante ciò egli fu capace di creare uno strumento da usare «per entrare nel mondo delle paure del paziente ed esplorare i suoi “traumi”», aprendo la «più straordinaria indagine sulla paura mai trattata dall’uomo» (ibid., 91).
Chiarisce Bonomi che il terzo articolo (L’abisso del controtransfert. Commento a Freud pediatra), scritto appositamente per questo numero speciale, consente allo studioso di oltrepassare “la soglia”, quella del controtransfert, per trovar ragione dell’abbandono della teoria del trauma reale da parte di Freud. Qui si entra nel vivo del discorso psicoanalitico. Bonomi ipotizza che, durante l’analisi della trentenne Emma Eckstein, Freud si trovò di fronte al racconto della “scena della circoncisione” di lei bambina. Bonomi considera che Emma è la paziente principale di Freud all’alba della psicoanalisi. Il lavoro con questa donna «abitò i suoi sogni»; lo influenzò in modo decisivo nell’ipotizzare la teoria della seduzione, ma pure nella sua ritrattazione; ispirò «quella autoanalisi da cui si sviluppa il capolavoro (...) L’interpretazione dei sogni» (2022, 113). Ma quando appare in seduta la “scena della circoncisione di una fanciulla”, lo scenario relazionale si sovverte radicalmente. La vita del medico, che aveva conosciuto nella sua decennale attività pediatrica la ferocia della castrazione femminile e che, pur essendo ebreo, non aveva fatto circoncidere i suoi figli maschi, e quella della sua paziente, si intersecano indissolubilmente. E Freud si trova affacciato in maniera imprevista all’ “abisso del controtransfert”. Questa illuminante espressione viene presa in prestito da Ferenczi, che la adopera nella pagina del primo maggio 1932 del suo Diario clinico per risolvere il rompicapo del motivo dell’abbandono di Freud del concetto di trauma reale. Bonomi aggiunge un altro essenziale tassello alla sua comprensione: è proprio il racconto di Emma Eckstein relativo alla sua esperienza di bambina circoncisa, che spalanca il controtransfert di Freud, rievocando con violenza dentro di sé gli anni trascorsi a operare in qualità di neuropediatra. Bonomi chiosa che «ormai gli ingredienti fondamentali per spiegare la nascita della psicoanalisi c’erano tutti», ed essi «si erano via via chiariti a partire dallo studio su “Freud pediatra”». Essi richiedevano ormai «una narrazione degli inizi radicalmente diversa da quella a cui ci siamo abituati» (2022, 110).
Il quarto contributo (Breve storia apocalittica della psicoanalisi) è una chicca. Riguarda la traduzione in italiano dell’Introduzione al suo ultimo libro, A Brief Apocalyptic History of Psychoanalysis: Erasing Trauma, pubblicato nel 2023 da Routledge, e in uscita in francese per l’Édition Amsterdam. Questo testo chiude il cerchio di un discorso complesso, dipanatosi per decenni, che è progredito aggiungendo via via delle tessere fino a creare un elegante, inedito mosaico delle origini della psicoanalisi. La tesi esposta torna ancora all’analisi di Emma Eckstein e alla mutilazione genitale patita in infanzia. Il disvelamento in seduta provoca profonda angoscia in Freud, che però non riconosce la natura traumatica di questa Beschneidung (circoncisione). Ma l’impatto emotivo controtransferale è travolgente e si intreccia con la sua storia personale di ebreo circonciso, in conflitto con il padre al punto da decidere di non sottomettere i figli a tale rito. Ed è proprio qua, nel rispecchiamento controtransferale di Freud nel trauma della circoncisione, sofferto dalla sua paziente ma che rievoca il suo proprio trauma e quello del suo popolo, che Bonomi individua il fattore principale della nascita della psicoanalisi. E nelle pagine finali della rivista, l’Autore ipotizza «che il trauma non riconosciuto è iscritto nel pensiero di Freud come un lascito amputato da cui germoglieranno e fioriranno i sogni, le fantasie, i pensieri dei discepoli più intimi di Freud» (2022, 113). In particolare Sàndor Ferenczi, che contribuirà in maniera decisiva «a riparare questo lascito amputato, ponendo così le basi per una rifondazione della psicoanalisi» (ivi).
Forse, però, questi antichi nuclei traumatici in parte permangono ancor’oggi. Resti incistati, perché mai fino in fondo pensati, che vengono fatalmente a erodere, in silenzio, quello che per oltre un secolo è stato il granitico edificio psicoanalitico freudiano. Forse.
Riferimenti bibliografici
ANZIEU D. (1975). L’autoanalisi di Freud e la scoperta della psicoanalisi. Vol. 1.Roma, Astrolabio, 1976.
BONOMI C. (1994). Why have we ignored Freud the “Paediatrician”? The relevance of Freud’s paediatric training for the origins of psychoanalysis. In A. Haynal and E. Falzeder (eds.), 100 years of psychoanalysis. Contributions to the history of psychoanalysis. Special issue of Cahiers Psychiatriques Genevois. London, Karnac, 55-99.
BONOMI C. (2007). Sulla soglia della psicoanalisi. Freud e la follia infantile. Torino, Bollati Boringhieri.
BONOMI, C. (2023). A Brief Apocalyptic History of Psychoanalysis. Erasing Trauma. London & New York, Routledge.
BORGOGNO F. (2019). Sándor Ferenczi, psicoanalista classico e contemporaneo. Rivista di Psicoanalisi, 2, 267-279.
FERENCZI S. (1932). Diario clinico. Gennaio-Ottobre 1932. Milano, Raffaello Cortina, 1988.
FREUD S. (1888). Isteria. OSF, 1.
FREUD S. (1896). Etiologia dell’isteria. OSF, 2.
FREUD S. (1899). L’interpretazione dei sogni. OSF, 3.
FREUD S. (1985). Lettere a Wilhelm Fliess 1887-1904. Torino, Bollati Boringhieri, 1986.
SCHUR M. (1972). Freud in vita e in morte. Torino, Bollati Boringhieri, 1976.
*Fonte: SpiWeb, 28.03.203
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Plaudendo alla recensione di Rita Corsa e al formidabile lavoro di Carlo Bonomi, ad evitare equivoci e fraintendimenti storiografici, forse, è opportuno ricordare con lo stesso Carlo Bonomi (cfr. l’ Introduzione di "A Brief Apocalyptic History of Psychoanalysis: Erasing Trauma") che «la parola "(b)rith milah", circoncisione in ebraico, letteralmente “Patto del Taglio”» e, al contempo, che le parole scritte da Freud nel discorso per la festa data in suo onore dal "B’nai B’rith" [“Figli dell’Alleanza”], in occasione del suo settantesimo compleanno, sono le seguenti: "[...] Non so se sono un vero Figlio dell’Alleanza, nel senso che voi intendete. Ne ho quasi dubitato, nel mio caso erano troppe le resistenze. Ma vi posso assicurare che avete significato molto per me, che avete realizzato molto negli anni in cui vi ho frequentato. Ricevete dunque, per ieri come per oggi, il mio più caloroso grazie. Vostro, Sigmund Freud".
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA E RINASCIMENTO, OGGI (26 FEBBRAIO 2023):
ESSERE, O NON ESSERE? LA DOMANDA DI AMLETO E "LA LEZIONE DI "ABO" (Achille Bonito Oliva).
Una nota a margine ... *
"L’ARTE DA SOLA NON ESISTE. Senza un sistema composto da media, collezionisti, mercato, musei, pubblico, le opere in sé non avrebbero valore". Con questo titolo, di forte tonalità hegeliana e marxista, Achille Bonito Oliva, sul "Robinson" ("la Repubblica" del 18 febbraio 2023), sollecita in qualche modo lodevolmente a ripensare "tutto".
SOCIALITÀ CRITICA. A onore di Bonito Oliva, per non lasciar cadere l’ago nel pagliaio e rischiare di non ritrovarlo, tenendo presente che né la "religione" né la "filosofia", come l’arte, esiste da sola, forse, è opportuno allargare l’area della coscienza del tempo presente e riprendere a cercare di capire meglio la situazione storica attuale, a tutti i livelli.
NAPOLI E "LA MADONNA DEL PESCE" DI RAFFAELLO. Considerato che «il Pesce puzza dalla testa» (soprattutto se si continua a confondere inconsapevolmente ICTUS con IXTHUS, "I.X.TH.U.S."), a mio parere, solleciterei una urgentissima riflessione antropologica sulla millenaria e moribonda tradizione del “Pensare l’artista come un demiurgo, produttore isolato d’immagini"!
COSMOTEANDRIA. Continuare così, come precisa Achille Bonito Oliva, "vuol dire non riuscire a comprendere l’esistenza di una condizione filosofica dell’arte e dell’artista" e, al di là delle allusioni e delle illusioni dello stesso "ABO" (relative alla "teoria della catastrofe" e allo "spostamento che raccoglie l’esigenza di una struttura edipica uccidendo il padre, ovvero il movimento precedente"), vuol dire interrogarsi radicalmente sulla figura dell’artista e sull’arte stessa, in quanto "produzione linguistica, e dunque, operatività e pratica culturale", al di fuori della logica cosmoteandrica del mondo attuale, che anche il sistema dell’arte ha contribuito a costruire.
NOTA: FILOLOGIA E ITTICA. "Ichthỳs. Antico simbolo cristiano di Cristo; le lettere greche (ΙΧΘΥΣ) che compongono la parola, formano l’acrostico ᾿Ιησοὸς Χριστὸς Θεοῦ υἱὸς Σωτήρ «Gesù Cristo, figlio di Dio, Salvatore». (Treccani).
#Earthrise #Metaphysics #Anthropology #Eleusis2023 #Roma2024
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PSICOANALISI E FILOSOFIA:
METAPHYSICS ANTHROPOLOGY PSYCHOANALITIC. Shakespeare, dopo Lutero e prima di Nietzsche e Freud, con Amleto s’interroga sul come sia possibile andare oltre la vecchia "imitazione di Cristo". Una nota a margine di un programma di ricerca intitolato “Hamlet’s Bible”... *
TEATRO E METATEATRO. La straordinaria ricchezza di #Hamlet, a mio parere, sta proprio in questo doppio movimento: "The tension or dissonance between these similarities and differences is an important source of irony" (Paul Adrian Fried). Con questo "gioco" il meta-obiettivo di Shakespeare appare essere proprio quello di indicare una direzione di riflessione che possa portare oltre il proprio #tempo e rendere praticabile l’idea di rimettere i suoi cardini in sesto!
Europa e "Globe Theatre": "Ecce Homo". Dato che la posta (storicamente e teologicamente) è epocale, il "gioco" è ancora più importante: qui, nell’Hamlet, il tema è "ripensare" lo #specchio dell’intera "Danimarca".
P. S.
"ECCE HOMO": NIETZSCHE E LA VOLONTA’ DI POTENZA DI JUNG. Carl Gustav Jung ha fatto un brillantissimo lavoro su «Lo Zarathustra di Nietzsche. Seminario 1934-39» , ma alla fine la sua stessa ombra gli ha impedito di giungere a fondo e a capo dell’enigma di #Edipo, della domanda (la "question") di Amleto, della "visione e l’enigma di Zarathustra e, infine, di accogliere il bambino nato dalla metamorfosi del cammello e del leone (cfr. Federico La Sala, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica", Antonio Pellicani Editore, Roma 1991).
TEATRO E METATEATRO: ANTROPOLOGIA, ARCHEOLOGIA, E CINEMA...
A PROPOSITO DI "ST. VALENTINE, OPHELIA, & CLAUDIUS in HAMLET", nel post del "February 14, 2018" del suo blog, Paul Adrian Fried, nella sua lodevole ricerca intesa a precisare il senso ’nascosto’ della intenzione shakespeariana di mostrare nel comportamento del personaggio Amleto un continuo riferimento alla tradizione biblica e, in particolare, alla vita del personaggio Gesù, ha toccato il punto nevralgico e messo il dito nella piaga.
A proposito di quanto succede nel giorno di San Valentino, egli scrive:
A mio parere, il "progetto" di Shahespeare è un tentativo di trovare con Amleto, in un tempo fuori dai cardini, la via per operare una "instauratio magna" alla Dante Alighieri (la "Monarchia" dei "Due Soli"), non alla Francesco Bacone (con il "parto maschio del tempo", 1602 ca.), che riporti l’intera umanità nella condizione (simbolicamente indicata e indicabile con la metafora) del "paradiso terrestre".
Per potersi orientare, su quanto è successo storicamente e culturalmente nel tempo di Shakespeare (considerando, in particolare, gli effetti della Riforma Protestante), credo sia opportuno e necessario chiarirsi le idee sul significato della parola "caritas", che non parla affatto e per nulla dell’amore evangelico (lat. Charitas, gr. Xàpitas), ma solo di Mammona (ricchezza e carestia)!
SAPEREAUDE!: PER CAPIR(SI), FORSE, CONVIENE RITORNARE NELLA CAVERNA (AL CINEMA). Per cominciare a riflettere, e anche in modo piacevole, si potrebbe rivedere il film di Steven Spielberg "Indiana Jones e l’ultima crociata" (1989) e, al contempo, ripensare alla #connessione che il #titolo ha con la stessa metodologia della ricerca archeologica (e, se si vuole, shakespeariana): "La X è il punto dove scavare" (cit.).
"AUT - AUT". “To be, or not to be, that is the question”(HAMLET, III.1): "Voi non potete servire Dio ["Deus charitas est"] e Mammona ["Deus caritas est"] (Luca 16, 13).
Chiarissimo Paul Adrian Fried ... condivido pienamente: onore al suo lavoro su "Hamlet". Il suo commento sul "giorno di San Valentino" coglie nel segno e arriva a fare chiarezza sul puttanesimo (di cui già parlava Giambattista Vico, nella sua "Scienza Nuova" del 1730), in cui pericolosamente navighiamo sempre più.
La saggezza, la lucidità, la pazienza, la lungimiranza di Shakespeare, come di Dante Alighieri, a mio parere, riposano sulla consapevolezza indistruttibile che Amore (lat. Charitas, gr. Xàpitas) è più forte di Mammon (Mammona) e che sa ben guidare Eros e Psiche al loro incontro Amore (Love)!
In principio era la Costituzione (il Logos), non il Logo di "corporate chocolatiers, corporate greeting cards".
Federico La Sala
FILOLOGIA E ANTROPOLOGIA: NATURA, INTELLIGENZA ASTUTA, E GRATITUDINE ...
Una sollecitazione a pensare al "mondo divenuto favola" (lezione di Esopo, Fedro, e Nietzsche): come la filosofia, la teologia, e la politica mondiale, senza più Grazia (gr.: XAPIS, "CHARIS") e senza più Grazie (gr.: XAPITES, "CHARITES") perde la testa e ricade nel sacco, nella tradizionale "luminosa" caverna dell’ "homo homini lupus est" ... Dov’è l’etica? E dove la carità (gr. XAPITAS, "CHARITAS") della stessa grazia ("charis")?!
MEMORIA (E MUSE): "L’AMORE NON è LO ZIMBELLO DEL TEMPO" (W. Shakespeare, Sonetto 116).
PSICOANALISI E "DISAGIO NELLA CIVILTÀ" (S. FREUD, 1929): "Il sentimento di gratitudine è una delle espressioni più evidenti della capacità di amare. La gratitudine è un fattore essenziale per stabilire il rapporto con l’oggetto buono e per poter apprezzare la bontà degli altri e la propria. (Melanie Klein).
L’ESCA DI "POLONIO" E LA "CARPA DELLA VERITÀ": IL PUNTO DEL CAPITONE (LACAN) E LE ANGUILLE DI "AMLETO" (FREUD).
UN PUNTO DA APPROFONDIRE.Una citazione da le "Costruzioni in analisi" (S. #Freud, 1937):
JACQUES LACAN E IL GIOCO DEL DEMIURGO PLATONICO. "IL PUNTO DI CAPITONE": "Al tempo di Lacan, i materassi erano fatti di lana e i materassai li facevano cucendo la fodera con dei punti tramite un ago ritorto. I punti che tengono insieme le due fodere e la lana si chiamano “punti di capitone”.
Il punto di capitone è il nodo dell’imbottitura e Lacan ne fa la metafora del nodo che lega il piano dei significanti con il piano dei significati, altrimenti separati, come accade nella psicosi. [...] Lacan dice che il rapporto del significante e il significato è mobile, tende a disfarsi, invece nei punti in cui il significante si incrocia con il significato si producono effetti di senso. Il punto di capitone è la nozione necessaria per situare l’intenzione di significazione, cioè l’intenzione che mobiliterebbe il significante. Per colui che ascolta, ma anche per chi parla, quando si ascolta qualcosa che è stato detto è sempre nel momento successivo, in après coup, che si può accedere a quest’intenzione di capire qualcosa." (Cinzia Crosali, 2014).
FREUD E LE ANGUILLE (BURATELLI maschi E CAPITONI femmine), E L’ANATOMIA DEGLI ORGANI RIPRODUTTIVI. TRIESTE 1876: "il giovane Sigmund Freud, grazie ad una borsa di studio ministeriale, svolge presso la Stazione Zoologica di S.Andrea una ricerca sul sistema riproduttivo dell’anguilla. Freud esamina circa 400 anguille e scrive la sua prima pubblicazione: Beobachtungen über Gestaltung und feineren Bau der als Hoden beschriebenen Lappenorgane des Aals (osservazioni sulla conformazione e intima costituzione dell’organo globoso dell’anguilla, descritto come testicolo)." (OGS-ISTITUTO DI OCEANOGRAFIA).
PSICOANALISI, "NEXOLOGIA", E DISAGIO DELLA CIVILTÀ: "[...] Il paradosso di Freud è stato quello di tentare una scienza dell’individuo [...]. E se il suo tentativo può dirsi, in parte, riuscito, ciò si deve al fatto che la sua non è stata una ricerca individualizzante; non è stata una ricerca di psicologia, nel senso stretto, nel senso classico della psicologia individuale. E’ stata sin dal principio una rilevazione dei nessi, dei rapporti peculiari attraverso i quali passa l’individuo singolo dalla sua nascita, e attraverso i quali egli si forma come individuo. In questo senso il termine psicoanalisi, da lui dato al campo di ricerca da lui dato al campo di ricerca messo in luce, è fuorviante, significa un aggancio e un compromesso con la disciplina accademica chiamata psicologia [...] Con Freud, invece si apre il campo di una ricerca sui rapporti interindividuali; comincia una sorta di nexologia umana (dal latino nexus: legame, intreccio), che include il corpo come parte in causa e interlocutore. Di essa, la psicoanalisi comunemente intesa è solo un momento parziale, limitato, anche se di grande fecondità. La sua prima linea di sviluppo, non l’unica, è in direzione dell’analisi della struttura familiare" (cfr. E. Fachinelli, "Il paradosso della ripetizione","L’erba voglio" - Rivista, n. 5, 1972; poi, in E. F., "Il bambino dalle uova d’oro", Feltrinelli, Milano, 1974).
Federico La Sala
ARTE STORIA E STORIOGRAFIA:
NELL’EUROPA DEL XVI SECOLO, DOPO LA RIFORMA PROTESTANTE (1517), IL CONCILIO DI TRENTO (1545-1563) E LA BATTAGLIA DI LEPANTO (1571), UNA ALLEANZA "CATTOLICISSIMA" TRA ALTARE E TRONO:
a) FILIPPO II, ALLA VIGILIA DELL’ATTACCO ALL’INGHILTERRA, VIENE "IMMORTALATO" NELLA CERIMONIA FUNEBRE DELLA ARTISTICA CELEBRAZIONE DELLA "SEPOLTURA DEL CONTE DI ORGAZ" DA EL GRECO (TOLEDO 1586-1588).
b) QUADRO INGLESE DELLA CELEBRAZIONE DELLA DISFATTA DELLA FLOTTA SPAGNOLA NEL1588. "Il cosiddetto Ritratto dell’Armada, dipinto dopo il 1588 per commemorare la disfatta dell’Invincibile Armata. Elisabetta tiene la mano sul globo, simbolo di autorità, mentre sullo sfondo è raffigurato l’evento."
RIPENSARE LA #TEMPESTA NEL SUO #PROGRESSO. QUESTA LA DOMANDA ("THE QUESTION"), E LA SFIDA DI SHAKESPEARE: A CHE #GIOCO SI CONTINUA A GIOCARE, NEL #PIANETATERRA ("DANIMARCA")?
#HAMLET: "REST, REST, PERTURBED SPIRIT" (I.5). A mio parere, se si considera la famosa risposta di #Amleto (allo #spirito del Padre-Re) che "Il mondo è fuor di sesto" e che "è una sorte maledetta ch’io sia nato per rimetterlo a posto" (I.5), si potrebbe anche pensare che la vicenda di Amleto sia messa da #Shakespeare in parallelo con quella di #Gesù (Lc. 22. 42: "Padre, se vuoi, allontana da me questo calice!") in modo consapevole e strategico, proprio nell’ottica di un invito a tutta la cultura inglese ed europea a un ripensamento storiografico generale.
CON LAERTE (Amleto, I.3), SHAKESPEARE richiama l’intera Odissea (e non solo): ci dice che è in ’compagnia’ non solo con il padre di Ulisse e con gli Argonauti, ma con l’intera tradizione culturale europea (laica e religiosa): rispondere alla domanda di Amleto ("essere, o non essere?") non è una "barzelletta", è l’antica domanda della Sfinge (Edipo). Per Shakespeare significa voler dare una risposta la più possibile all’altezza dell’antropologia, della teologia, e della politica del tempo (e dell’eternità) e vincere la morte!
La grandezza di Shakespeare e l’importanza del suo "Amleto" è analoga a quella di #Sofocle e del suo "Edipo Re": della loro lezione, anche dopo la sollecitazione di Freud, si stenta ancora a capire il legame tra il familismo amorale e le manipolazioni istituzionali della Legge (divina ed umana).
#ECCEHOMO. La ricerca di Shakespeare si colloca alla stessa altezza del cammino di #DanteAlighieri: ritrovare la via d’accesso al "paradiso terrestre" e ricostruire la "monarchia temporale"! Con la sua Opera, e con l’#Amleto in particolare, Shakespeare cerca di ridisegnare (al di là di ogni pretesa androcentrica,fondamentalistica e imperialistica) la figura dell’#Ecce #Homo (di ogni essere umano) e la forma della terra promessa ’sognata’ dall’intera umanità!
#QUESTIONEANTROPOLOGICA (#FILOLOGIA E #CRISTOLOGIA ): SHAKESPEARE E NIETZSCHE.
La grande eroica ricerca di #Nietzsche è stata quella di rispondere alla domanda già di #Shakespeare , alla #question di Amleto, e portare il discorso oltre #Wittenberg (la #RiformaProtestante ), e chiarirsi e chiarire le idee relative all’ #essere degli esseri umani, figli e figlie del "#Re dei Re", di "Dio", e di andare oltre la tragica #logica del "sapere di non sapere" platonica, del #mentitore, e dell’ #adulterio e dell’#incesto ("Così parlò #Zarathustra ", parte IV). Egli, a mio parere, ha aperto la strada e dato indicazioni per sciogliere il nodo e non nella direzione del #supeuomo cosmoteandrico (cfr. Federico La Sala , "La #menteaccogliente. Tracce per una #svolta_antropologica ", Roma 1991).
#ANTROPOLOGIA O #ANDROLOGIA? #Gesù, chi era? Quello del "parto maschio del tempo" di san #Paolo e #Costantino (e #Bacone ), o quello del tempo di san #Francesco ("Cantico delle #Creature " o "Cantico di Frate #Sole ") e #DanteAlighieri ("l’amor che muove il sole e le altre stelle") e di ogni #essereumano nato di donna e di uomo nel pianeta Terra?
FILOLOGIA FILOSOFIA PSICOANALISI
"ABBRACCIATEVI, MOLTITUDINI" (F. SCHILLER, "INNO ALLA GIOIA", 1785): "INTERPRETAZIONE DEI SOGNI" (S. FREUD, 1899) DEI NIPOTINI E DELLE NIPOTINE DI PLATONE...
«Che cos’è, o uomini ["anthropoi"], che volete ottenere l’uno dall’altro? [...] Forse è questo che volete: diventare la medesima cosa l’uno con l’altro, in modo che non vi dobbiate lasciare né giorno, né notte? Se è questo che desiderate, io voglio fondervi e unirvi insieme nella medesima cosa, in modo che diventiate da #due che siete #uno solo, e finché vivrete, in quanto venite ad essere in questo modo uno solo viviate insieme la vita, e quando morirete, anche laggiù nell’Ade, invece di due siate ancora uno, uniti insieme anche nella morte. Orsù vedete se è questo che volete e se vi farebbe lieti ottenerlo...» (Platone, Simposio, 192 d-e)
PLATONISMO E TECNOCRAZIA. Dopo interi millenni di letargo, non è meglio svegliarsi e capire che l’intenzione di "Platone" (e di Efesto) è pure lodevole, ma molto, molto artigianale (demiurgica), il suo amore è avido e cieco (Cupìdo) e il suo fare "di due che siete uno solo" sembra voler correggere la divisione fatta da Zeus, ma alla fine fa tutto all’incontrario e fa solo un campo di sterminio, un deserto. All’altezza del 2023, come scriveva Nietzsche, siamo ancora ignoti a noi (stessi e stesse).
MATEMATICA E ANTROPOLOGIA. Forse conviene riprendere il filo da ELEUSI (quest’anno è una delle capitali europee della cultura: Eleusis2023) e cercare di capire il segreto dei misteri eleusini, come nascono i bambini, e, finalmente, scoprire (immergendosi, battesimalmente, nel) l’acqua calda, che ognuno e ognuna è già uno, una, in due; ripartire da sé e riprendere il cammino: "Sàpere aude! (Kant, 1784 - Michel Foucault, 1984). Ricominciare a contare da due, non da uno (dei due, che fa il furbo): "un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (Franca Ongaro Basaglia). In principio era il Logos - non il logo di una "fattoria degli animali"!
#SHAKESPEARE, L’#IMITAZIONE DI #CRISTO, E IL "PARTO MASCHIO DEL TEMPO" (#FRANCESCOBACONE). #METATEATRO, #METASTORIA, E #ANTROPOLOGIA FILOSOFICA...
"INVINCIBILE ARMATA" ("Grande y Felicisima Armada") E #MESSAGGIOEVANGELICO: ESSERE, O NON ESSERE (“To be, or not to be, that is the question”)? A ben vedere, storiograficamente, la #domanda di Amleto è più radicale della nobilissima intenzione di Dom Hélder #Câmara: «Quando io do da mangiare a un povero, tutti mi chiamano santo. Ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista.». Non a caso, nell’attuale presente storico, il #cattolicesimo di #Costantino e il #comunismo di #Stalin sono ormai "preistoria" (già #Lenin, ai suoi tempi, sembra che abbia auspicato l’aiuto di almeno "dieci Francesco d’Assisi" per salvare la Russia Sovietica): hanno portato, definitivamente, alla luce del sole il lato tragico delle loro assolute buone intenzioni.
FRANCESCO BACONE E LA "VIRGINIA COMPANY". "Francis Bacon, latinizzato in Franciscus Baco(-onis) e italianizzato in Francesco Bacone (Londra, 22 gennaio 1561 - Londra, 9 aprile 1626), è stato un filosofo, politico, giurista e saggista inglese vissuto alla corte inglese, sotto il regno di Elisabetta I Tudor e di Giacomo I Stuart. [...] Dopo privatizzazione delle terre, come uomo politico concettualizzò la scienza del terrore assecondando e sostenendo le deportazioni di massa dei diseredati e dei poveri nelle colonie americane della #Virginia. Tra le altre cose è necessario ricordare che nel 1619 il Consiglio Privato, di cui a quel tempo Bacone faceva parte, violando apertamente la legge inglese, e per assecondare la volontà della Virginia Company, costrinse alla deportazione nelle colonie americane ben 165 bambini, provenienti dal Bridewell Palace. Di quei 165 bambini (di età compresa tra gli 8 e i 16 anni) nel 1625 a seguito dei maltrattamenti subiti nelle piantagioni ne rimasero in vita solo dodici. Le deportazioni continuarono coinvolgendo altri millecinquecento bambini nel 1627 e ulteriori quattrocento, di origine irlandese, nel 1653 [...]".(https://it.wikipedia.org/wiki/Francesco_Bacone).
#ANDROCENTRISMO E #DISAGIODELLACIVILTÀ (#Freud, 1929). Shakespeare (con #Amleto), continua la sua navigazione e offre utili indicazioni critiche (alla Chiesa dell’Europa e alla Chiesa della Russia di #oggi) per orientarsi nel pensiero, uscire dalla #cosmoteandria planetaria, e rimettere il tempo in sesto! Riprendere le indicazioni venute da #Wittenberg e portarle avanti, in mare aperto, oltre le colonne d’Ercole della grande instaurazione ("Great Instauration") del sapere (Socrate) e della carità ( Gesù) fondata sull’#androcentrismo del potere (Platone e san Paolo), al di là dell’edipico "parto maschio del tempo" ("Temporis Partus Masculus", 1603/1608) di Francesco Bacone.
#QUESTIONEANTROPOLOGICA ED #ELEUSIS2023. A giorni inizia il nuovo anno, il 2023, e, in #Europa, una delle capitali europee della cultura è #ELEUSI. Forse è una buona occasione per risalire la corrente storica e ripensare ai #misteri #eleusini e a "come nascono i bambini"! Se non ora, quando?
L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO. STORIA E LETTERATURA:
"AMLETO", "BABBO NATALE", E LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA.
LA LEZIONE DI SHAKESPEARE AL "PRINCIPE" DELLA "EUROPA" DI OGGI, NATALE 2022.
Appunti sul tema...
RIFORMA PROTESTANTE (1517), SCISMA ANGLICANO (1534), E LA SOVRANITA’ RELIGIOSA E POLITICA (1558-1603) DI ELISABETTA: "HAMLET. "REST, REST, PERTURBED SPIRIT" (I.5). "Calma, calma, spirito perturbato": Se si riflette sulla famosa risposta di Amleto alle rivelazioni dello spirito del Padre e Re, che "Il mondo è fuor di sesto" e che "è una sorte maledetta ch’io sia nato per rimetterlo a posto" (I.5), si potrebbe anche pensare che la vicenda di Amleto sia da Shakespeare messa consapevolmente e strategicamente in parallelo con quella evangelica di Gesù ("Padre, se vuoi, allontana da me questo calice!": Lc. 22. 42) e che il suo obiettivo metateatrale sia proprio quello di sollecitare l’intera cultura inglese (ed europea) a procedere a un ripensamento generale della intera questione antropologica e teologico-politica: partire da sé e rimeditare la figura del Padre Re - di "Babbo Natale"!
A CHE GIOCO SI GIOCA, NEL PIANETA "DANIMARCA": IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS O IL LOGO?! L’Arca di Noè o la Fattoria degli Animali?! Qual è il problema istituzionale e costituzionale che Shakespeare in "Amleto" pone ad ogni essere umano? Non è una domanda ("question") radicale quella posta sull’essere e sul non essere e, al contempo, non è un invito a svegliarsi dal sonno dogmatico e a "non lasciare che il letto regale / di Danimarca sia un giaciglio per la lussuria/ e il maledetto incesto" (I.5), cioè a non lasciarsi travolgere dallo spirito della menzogna e del tradimento, ad ogni livello?
L’EUROPA E LA CRISI DEL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO: IL PRESEPE (FRANCESCO D’ASSISI, 1223) LA "MONARCHIA" (DANTE, 1313) E LA CADUTA DI COSTANTINOPOLI (1453). Alla luce del lavoro di Michelangelo (1475 - 1564) e di Shakespeare (1564-1616), ampliando lo sguardo, forse, oggi è da ammirare e ripensare, la "vertiginosa" consonanza antropologica e teologico-politica che connota l’attività di Teresa d’Avila (1515 - 1582) e di Elisabetta I d’Inghilterra (1533 - 1603): la tradizione costantiniana è decisamente sotto attacco. Tra il Nord e il Sud dell’Europa, alla fine del Cinquecento e agli inizi del Seicento, c’è un’aria di ripresa e rilancio dello spirito dell’ecumenismo francescano e umanistico-rinascimentale (con papa Sisto IV della Rovere, prima, e Giulio II della Rovere, poi) che nella Volta della Cappella Sistina (1512) aveva rivisto profeti e sibille camminare insieme verso una terra e una società di pace e di giustizia: Giordano Bruno (1548-1600) e Tommaso Campanella (1568 - 1639), come si sa, sono gli ultimi alfieri di questo "programma".
"Il disagio della civiltà" (S. Freud, 1929) e nella civiltà europea e nell’intero pianeta crescerà sempre di più, e, alla fine, si comincia ad ammettere quanto e "come spesso, nel corso della storia, la legge dell’occidente cristiano non sia stata l’imitazione di Gesù Cristo ma bensì l’imitazione dei suoi carnefici. Il corso della storia non è stato influenzato dai santi. Essi hanno agito sui cuori e sulle anime, ma la storia è rimasta criminale" (F. Mauriac, "Le fil de l’homme", 1958).
SHAKESPEARE, SONETTO 116: "L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO".
EUROPA, ELEUSI 2023
RICORDANDO EFESO (ERACLITO) ED ELEA (PARMENIDE), E LA MONTAGNA DELL’OREB (ELIA), UN OMAGGIO A SHAKESPEARE...
Appunti sulla questione dell’ "essere , o non essere", e sul "silenzio" metafilosofico di Amleto e di Cordelia ("Re Lear")... e del profeta Elia (1 Re 19,11).
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AMLETO Oh! La mia anima profetica [prophetic soul]! Mio zio?
FANTASMA [GHOST] Sì, quella bestia incestuosa e adultera / con scaltrezza di mago, doni di traditore [...] Se in te c’è natura, non sopportarlo, / non lasciare che il letto del re di Danimarca / sia un covile d’incesto e di lascivia. /Ma comunque deciderai di agire / non ti macchiare l’anima, non tramare / nulla contro tua madre. Lasciala al cielo, lei, / e a quelle spine che le stanno in cuore / e pungono e tormentano. Ora addio [...] (Amleto, I. 5).
[...]
AMLETO To be, or not to be, that is the question ("Essere, o non essere, questa è la domanda", trad. di Agostino Lombardo - Amleto, III.1).
[...]
AMLETO Io muoio, Orazio... Sento che il veleno | s’impadronisce di tutto il mio spirito. | Ormai più non mi resta tanta vita | da sentir le notizie d’Inghilterra; | ma profetizzo che su Fortebraccio | cadrà la scelta; a lui, in suo favore | va il mio voto morente. Digli questo, | insieme al più e il meno degli eventi | qui succedutisi... Il resto è silenzio. (Amleto, V. 2)
[...]
FORTEBRACCIO Questo spettacolo di morte si addice a un campo di battaglia, ma disdice a una corte. Ordinate le salve . (Escono in marcia portando i corpi e subito i cannoni sparano a salve.)
(W. Shakespeare, Amleto, V. 2).
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CORDELIA (a parte.) Che dirà Cordelia? Ama, e taci.
[...]
CORDELIA (a parte.) Povera Cordelia, allora. Eppure no,/
sono certa che il mio #amore pesa più della mia #lingua.
LEAR (...) E ora, nostra gioia, sebbene l’ultima e la più piccola,/
per il possesso del cui giovane amore sono in lizza/ le vigne di Francia e il latte di Borgogna:
/cosa sai dire per guadagnarti un terzo / più opulento di quello delle tue sorelle?/ Parla.
CORDELIA Niente, mio signore.
LEAR Niente?
CORDELIA Niente.
LEAR Dal niente nasce il niente: parla ancora.
CORDELIA Infelice che sono, non riesco/ a sollevare il mio #cuore fino alla #bocca./
Amo Vostra Maestà secondo il mio dovere:
né più né meno.
LEAR Suvvia, Cordelia! Correggi un po’ il tuo discorso / se non vuoi guastare le tue fortune.
CORDELIA Mio buon signore, voi mi avete generata, /
nutrita, amata. Io ripago quei debiti / secondo il dovuto, vi obbedisco, vi amo / e al di sopra di tutto vi onoro. Perché le mie sorelle/ hanno un marito, se dicono di amare / soltanto voi? Se mai mi sposerò,/ il signore la cui mano avrà il mio pegno / prenderà con sé metà del mio amore, / metà delle mie cure e del dovere: /
certo non mi sposerò, come le mie sorelle, / per amare soltanto mio padre. /
LEAR Ma c’è il tuo cuore, in questo?
CORDELIA Sì, mio buon signore.
LEAR Così giovane e così impietosa?
CORDELIA Così giovane, mio signore, e così sincera.
LEAR E così sia! La tua sincerità sia dunque / la tua dote; e infatti, per i sacri raggi /del sole, per i misteri di Ecate e della notte, /
per tutti gli influssi delle sfere/ per cui esistiamo e cessiamo di esistere, / qui io ripudio ogni mia cura paterna, /affinità e legame di sangue, e d’ora in poi / ti avrò per sempre straniera al mio cuore e a me./ Il barbaro Scita o colui che muta / i propri nati in cibo per soddisfare la sua fame, / troverà nel mio petto più comprensione, pietà / e conforto che non te, un tempo mia figlia.
(W. Shakespeare, Re Lear, I, 1).
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MOSE’: «Fa’ silenzio e ascolta, Israele» (Dt 27, 9)
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ELIA: «Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu un sussurro di silenzio leggero. Come l’udì, Elia uscì dalla caverna» (I Re 19, 11).
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CON SHAKESPEARE, A EFESO (ERACLITO) E A ELEA (PARMENIDE). Contrariamente a quanto appare, in genere, la saggezza e la brillantezza del lavoro di Shakespeare poggiano sulla roccia, sul profondissimo e altissimo sapere antropologicamente (non religiosamente) fondato sulla consapevolezza che "In principio era il #Logos" (Gv. 1.1) e che la domanda sul nulla ("non essere") è solo una domanda che dice di un nulla che, nel momento stesso in cui si viene es-posto, mostra di essere nient’altro che un essere diverso da un altro essere - nell’ essere stesso: "Nothing will come of nothing" (Shakespeare, Re Lear)!
TEATRO, METATEATRO, E STORIOGRAFIA: SHAKESPEARE, "RE DI NAPOLI"?
Una risposta-sollecitazione al prof. Enrico Terrinoni che ha segnalato un suo recente articolo sull’ombra di Giordano Bruno nell’arte di Shakespeare e un’ipotesi di programma di ricerca ...
Chiarissimo E. T. ... non è mai troppo tardi. "L’ombra di Bruno nell’arte di Shakespeare" ("Left", n. 31, novembre 2022) è abbastanza riconoscibile e visibile: ciò che ancora non è ben visibile è l’ombra di Shakespeare - a Napoli!
Al di là del paradosso e della creatività napoletana, c’è da pensare a una "sotterranea" sollecitazione shakespeariana alla cultura e alla società italiana del Seicento (Galileo Galilei), a che portasse avanti la Riforma di Lutero e, al contempo, "lo spaccio della bestia trionfante" (Giordano Bruno) e la generale rivoluzione copernicana!
Ora che Carlo III è diventato Re di Londra, davvero Shaspeare è diventato ... Re di Napoli! E finalmente si ricomincia a re "shakespea-re" liberamente!
Radici di futuro/5.
La favola del buon consumo
di Luigino Bruni (Avvenire, domenica 2 ottobre 2022
Per cogliere l’essenziale di una civiltà, la sua arte è sempre strada maestra. Il Mercante di Venezia di William Shakespeare, da solo dice quasi tutto sulla nascita dello spirito del capitalismo. Siamo alla fine del Cinquecento, a Londra. Shakespeare è nella sua maturità artistica. Viene in contatto, ancora una volta, con materiali narrativi italiani. In particolare con la novella "Il pecorone", di Ser Giovanni Fiorentino, composta attorno agli anni ottanta del Trecento, dove ci sono tutti gli elementi del Mercante di Venezia, incluso il centro narrativo della tragedia: la penale di carne prevista dal contratto tra il ricco mercante di Venezia (Ansaldo) e l’usuraio ebreo di Mestre (novella I). Elio Toaf, nel 1966, ha poi riportato un fatto realmente accaduto a Roma (narrato da G. Leti nel 1852) durante il pontificato di Sisto V (1585-1590): Paolo M. Secchi, mercante romano, aveva scommesso una libbra della sua carne con il «giudeo» Sansone Ceneda, un episodio forse conosciuto anche a Londra.
La trama del Mercante di Shakespeare è nota. Bassanio, giovane scialacquatore, ha bisogno di 3mila ducati per poter partecipare a una sorta di concorso amoroso (i "tre scrigni") e poter sposare la ricca e bella Porzia. Si rivolge così al suo amico Antonio, un ricco mercante di Venezia (che, forse, dà il nome all’opera), che non avendo i contanti ma amando follemente Bassanio, cerca di ottenere i denari da un noto usuraio di Rialto: l’ebreo Shyloch. Questi però non gli propone un normale contratto usuraio a interesse. Gli fa un’offerta bizzarra e tremenda: se non restituirà il denaro alla scadenza, l’usuraio preleverà come penale «una libbra della vostra bella carne, su quella parte del corpo che mi piacerà di scegliere». Antonio accetta - sul seguito della storia ci soffermeremo domenica prossima.
Perché un tale contratto? Perché presentare questo usuraio come un carne-fice? Si è molto discusso sulla presenza di un sentimento antisemita in quest’opera. In realtà Shakespeare registra i sentimenti del suo tempo senza esprimere un suo proprio giudizio sul tema - nelle opere d’arte, soprattutto nei capolavori, la descrizione del mondo è la prima critica dell’artista. Studiando quest’opera, e guardandola con gli occhi dell’economista quale sono, mi sono convinto che il giudizio etico di Shakespeare si possa rintracciare, e forse ci sorprenderà. È verosimile che il Mercante contenga una descrizione e una critica del proto-capitalismo di Venezia e, soprattutto, della "sua" Londra.
Shyloch è figura complessa e ambivalente. Una prima chiave di lettura la troviamo nel dialogo iniziale con Antonio, il mercante debitore: «Shyloch: "Ma, udite; mi parve diceste che voi non prestate mai né prendete a prestito con frutto". Antonio: "No, mai"». Antonio era un mercante che svolgeva anche attività bancaria, ma si vantava di prestare senza interessi. Infatti, quando lo vede, Shyloch pensa: «"Come ha l’aspetto di un ipocrita pubblicano! Lo odio perché è cristiano, e lo odio anche più perché nel suo umile candore presta denaro gratis, e fa così scendere a Venezia il tasso d’interesse».
Una prima tensione narrativa: da una parte l’usuraio ebreo e dall’altra il filantropo cristiano. I due si conoscevano: «Shyloch: "Inveisce contro di me, contro i miei leciti guadagni che lui chiama usura"». Antonio lo offende quindi nella piazza di Rialto. Inoltre - dato importante - Antonio non presta a interesse, eppure ora sta accettando un contratto usuraio. Ed è qui che troviamo una prima chiave di lettura. Shyloch cita la Bibbia, riporta il noto episodio dell’astuzia di Giacobbe grazie alla quale si arricchì presso il suocero Labano, un pagano (Genesi, cap. 30). Antonio commenta: «"E che c’entra? Giacobbe prese interessi?". Shyloch: "Non erano interessi diretti, come dite voi"».
L’ebreo spiega allora quell’episodio centrale nella storia d’Israele e nella storia del Mercante di Venezia. Labano vuole liquidare il salario di Giacobbe per il servizio resogli, ma la prima importante risposta di Giacobbe fu: "Non mi devi dare nulla" (Gn 30,31). Una risposta che somiglia al "gratis" di Antonio. Giacobbe e Labano stipulano poi un contratto bizzarro che al lettore appare quasi una burla, non troppo dissimile dal contratto tra Shyloch e Antonio: stabiliscono che tutti gli agnelli nati con il manto striato sarebbero stati di Giacobbe, gli altri di Labano. Il lettore sapeva che in un gregge gli agnelli striati sono molto pochi, quindi si immagina che il contratto sfavorisca Giacobbe, e pensa che quel suo "non voler nulla" fosse quasi vero. E invece ecco il colpo di scena.
Giacobbe trova un espediente (non fa quindi un furto): mentre le pecore più robuste si accoppiavano le metteva di fronte a delle verghe da lui scorticate con striature verticali, in modo - pensava - che guardando pali striati le pecore partorissero agnelli striati (Gn 30,39). L’espediente funzionò, gli agnelli migliori nacquero striati, e Giacobbe divenne molto ricco.
Il riferimento a questo episodio della Genesi è cruciale nell’economia del Mercante di Venezia (trascurato dagli interpreti). Innanzitutto, nella saga di Labano e Giacobbe, il disonesto è il suocero, che continua a non rispettare i patti (li cambiò «dieci volte»: Gn 31,5). L’imbroglione è il pagano: Giacobbe qui è solo furbo e astuto ma, a modo suo, rispetta i patti. Inoltre, Giacobbe non prese il suo salario sotto forma di denaro: prese pecore, che però furono per lui un profitto molto maggiore del salario in denaro. E Antonio chiede: «Vorreste trar da ciò qualche deduzione in favore dell’usura? Il vostro oro e il vostro argento è simile alle pecore e alle capre di Giacobbe?». In realtà la risposta è: le tue pecore lo sono. Shyloch stava infatti dicendo ad Antonio: non c’è nessuna differenza etica tra le tue "pecore" (i tuoi guadagni dai commerci) e i miei interessi sul denaro. Siamo uguali, ma tu sei ipocrita e imbroglione, come Labano, pagano come te.
Ma il senso ultimo della citazione di Giacobbe emerge alla fine: «Il suo era un modo di prosperare [thrive] e Giacobbe fu benedetto: la prosperità [thrift] è benedizione, a meno che non sia un furto». Thrift in inglese non significa profitto né tantomeno usura; significa invece prosperità, beneficio, vantaggio, persino parsimonia, e non ha quindi una accezione negativa. Per l’etica di Shyloch prosperare con la furbizia è benedizione, non è un furto né un comportamento moralmente detestabile. E se fosse questa anche l’etica di Shakespeare?
C’è infatti un secondo elemento altrettanto importante. Ciò che potrebbe essere moralmente condannabile era la prodigalità di Bassanio: «Tu non ignori, Antonio, quanto io abbia dissestato il mio patrimonio conducendo un tenore di vita molto più fastoso dei miei mezzi». Infatti, a guardar bene, nell’opera gli ossessionati dal denaro sono i cristiani (Bassanio su tutti). Shyloch chiede una libbra di carne, di nessun valore economico - il suo spirito è simile a quello di Mazzarò verso la sua "roba".
Le domande della commedia-tragedia diventano: perché prestare denaro a interesse dovrebbe essere più immorale del profitto di un mercante?: «Mi chiamate miscredente, cane assassino... e tutto per l’uso che faccio di ciò che è mio?». E perché, invece, gli scialacquatori come Bassanio sono amici, amati e rispettati? È etico poi per Antonio rischiare la propria carne per soddisfare i capricci di un amico prodigo? Da quale parte sta, allora, l’etica buona?
Ecco dunque una prima conclusione. Con il Mercante siamo in un momento di svolta dell’etica economica nella nascita del capitalismo - va notato che la parola usata per il contratto della libra di carne è «bond».
In questo dialogo-conflitto tra Shyloch e Bassanio ci sono molte radici della modernità. C’è il seme del "vangelo della prosperità", ideologia centrata sulla benedizione della ricchezza che oggi è di nuovo di moda, soprattutto nei Paesi di cultura protestante. C’è anche una radice di quella visione romantica del denaro che è buono solo se viene speso, di una ricchezza etica solo se è consumata, non importa se quel denaro è preso a prestito da istituzioni finanziarie che condanniamo. Vi si trova pure una icona del declino del primo proto-capitalismo italiano del Rinascimento. L’Italia, infatti, che entrò nell’Inghilterra puritana non era più quella dei mercanti parsimoniosi del Trecento. Era invece quella di Francesco Benni: «Non c’è più bella vita al mondo di un debitore, fallito, rovinato e disperato. Questi è colui che si può dir beato. Fate, parente mio, pur de gli stocchi [prestiti], pigliate spesso a credenza, a ’nteresse, e lasciate ch’agli altri il pensier tocchi: perché la tela ordisce uno, l’altro la tesse» (In lode del debito, 1548).
Il Mercante è un’opera cerniera tra due mondi. Nella Londra elisabettiana di Shakespeare era ancora viva un’etica feudale cristiana che lodava il consumo, la terra, la nobiltà, che permetteva il prendere in prestito, ma condannava il dare a prestito - è davvero curioso che alla condanna del prestito a usura non corrisponde una altrettanto ferma condanna del debito a usura, pratica molto più popolare e diffusa. Quell’etica cristiana approvava il debito per il lusso, e stimava i mercanti come Antonio che accumulavano grandi ricchezze nei commerci e potevano permettersi anche di prestare gratis, ma condannava e malediceva il prestito a interesse di ebrei che con il loro denaro consentivano ai mercanti cristiani di arricchirsi e fare beneficenza e lussi: «Come ha l’aspetto di un ipocrita pubblicano». Chi prestava denaro era "come Giuda", chi lo prendeva in prestito per il consumo o per gli affari era invece un "buon cristiano", imitava la "Maddalena" che "sprecò" un profumo dal valore di 300 denari. Non capiamo l’Europa moderna senza queste ambivalenze e ipocrisie, e pochissimi come Shakespeare ce lo fanno vedere con una chiarezza aurorale.
Nella prima parte del Mercante l’ambivalenza decisiva è dunque quella tutta interna a Shakespeare e alla sua età, combattuto tra il vecchio mondo e il nuovo spirito capitalista. Fino al contratto di carne, la tragedia-commedia è ancora tutta aperta: quale delle due etiche prevarrà alla fine?
Sul tema, nel sito, cfr.: I TRE ANELLI E L’UNicO "PADRE NOSTRO".
Federico La Sala
SHAKESPEARE, ENRICO VIII:
ATTO QUINTO - SCENA QUARTA
ARALDO
Iddio, nella tua infinita bontà, manda vita prospera, lunga e sempre felice alla nobilissima e possente Elisabetta, Principessa d’Inghilterra.
Fanfara. Entrano il Re e le Guardie
CRANMER
E sulla Vostra Altezza reale e sulla buona Regina
le mie nobili madrine ed io stesso invochiamo,
per questa graziosissima infante, ogni gioia e consolazione
che mai il cielo riservi alla felicità dei genitori:
che, a ogni ora che passa, esse cadano su di voi.
RE
Grazie, buon Lord Arcivescovo.
Come l’avete chiamata?
CRANMER
Elisabetta.
RE
Alzatevi, monsignore.
[All’infante] Con questo bacio abbiti la mia benedizione: ti protegga Iddio,
alle Cui mani rimetto la tua vita.
CRANMER
Amen.
RE
Mie nobili madrine, siete state troppo generose:
vi ringrazio di cuore, e così farà questa damina,
appena saprà esprimersi in inglese.
CRANMER
Sire, lasciatemi parlare,
Il cielo ora m’ispira, e le parole che sto per pronunciare
nessuno le creda adulatorie, giacché si dimostreranno veraci.
Questa infante reale - Dio sempre l’accompagni -
seppure nella culla, sin da ora promette
a questo paese mille e mille benedizioni,
che il tempo porterà a maturazione. Ella sarà -
ma pochi fra i vivi di oggi faranno in tempo a vedere tanta bontà -
un modello per tutti i prìncipi viventi nell’età sua,
e per tutti quelli delle età a venire. La Regina di Saba non fu mai
più assetata di saggezza e di luminosa virtù
di quest’anima pura. Tutte le grazie principesche
che plasmano un sovrano possente come quello che abbiamo,
con tutte le virtù che adornano i buoni,
saranno in lei raddoppiate. La Verità sarà sua nutrice,
pensieri santi e devoti la consiglieran sempre,
ed ella sarà amata e temuta. La sua gente la benedirà,
i suoi nemici tremeranno come un campo di grano battuto dai venti
e abbasseranno la testa nel dolore. Il bene crescerà con lei;
sotto di lei ognuno mangerà in pace
all’ombra della sua vigna i frutti del suo lavoro, e canterà
gli allegri canti del tempo di pace con tutti suoi vicini.
Ella farà conoscere il vero Dio, e chi le starà intorno
apprenderà da lei le più perfette vie dell’onore,
e ad esse, non già a legami di sangue, dovrà la sua grandezza.
Né questa pace si spegnerà con lei, ma come quando,
morto l’uccello favoloso, la vergine Fenice,
dalle sue ceneri rinasce un novello erede,
di lei non meno prodigioso,
così ella lascerà le sue beate virtù a qualcuno -
quando il cielo la chiamerà a sé da questa nube di tenebra -
che dalle sacre ceneri del suo onore
s’innalzerà come una stella, non meno grande per fama:
un’altra stella fissa. Pace, prosperità, amore, verità, terrore,
che furono al servizio di questa eletta infante,
diventeranno suoi, e come una vigna gli cresceranno attorno.
Ovunque risplenderà il fulgido sole del cielo,
là saranno il suo onore e la gloria del suo nome,
e daran vita a nuove nazioni. Egli verrà a fioritura
e come un cedro allungherà i suoi rami
su tutte le pianure circostanti: i figli dei nostri figli
vedranno ciò, e benediranno il cielo.
RE
Tu annunci dei prodigi.
CRANMER
Ella vivrà, per la felicità dell’Inghilterra,
sino ad età avanzata; molti giorni la vedranno sul trono,
e non uno di essi trascorrerà senza il coronamento d’una nobile azione.
Come vorrei non saperne di più! Purtroppo ella dovrà morire,
dovrà, ché i santi la vorranno fra loro; e vergine ancora,
il più immacolato dei gigli, ella ritornerà alla terra,
e il mondo intero prenderà il lutto per lei.
RE
Oh, Lord Arcivescovo,
ora mi hai reso finalmente uomo! mai prima
di questa felice creatura io avevo creato qualcosa.
La gioia di quest’oracolo mi gratifica tanto
che quando sarò in cielo mi pungerà il desiderio
di vedere cosa fa questa bimba, e loderò il mio Creatore.
Grazie a voi tutti. A voi, mio buon Lord Sindaco,
e a voi, bravi confratelli, resto molto obbligato:
la vostra presenza mi ha altamente onorato,
e avrete prova della mia gratitudine. Signori, aprite il corteo:
dovete tutti visitar la Regina, e lei vi vuol ringraziare,
altrimenti rimarrebbe male. Quest’oggi, che nessuno pensi
di avere qualcosa da sbrigare a casa. Resteran tutti qui:
per questa piccina faremo festa per tutto il dì.
[...]
* FONTE: SHAKESPEARE ITALIA
STORIA, STORIOGRAFIA, E METATEATRO.
L’EUROPA, IL CORPO MISTICO DEL RE (E DELLA REGINA) E LA MEMORIA DEI "RE TAUMATURGHI" NEL "MACBETH" (IV, 3) DI SHAKESPEARE* :
"[...] MALCOLM [...] Vi prego, il Re dà udienza?
MEDICO Sì, monsignore. C’è una folla di poveri infelici che aspetta la sua cura. La loro malattia sfida ogni sforzo dell’arte. Ma il cielo ha dato alla sua mano tale santità, che al suo tocco subito guariscono.
MALCOLM Vi ringrazio, dottore.
Il medico esce.
MACDUFF Di che malattia parla?
MALCOLM Viene chiamata il male del re. Un operare davvero miracoloso di questo buon sovrano, cui ho assistito spesso da che son qui. Come persuada il cielo, lui solo sa: ma infermi di strani mali, tutti gonfiori e ulcere, gente che fa pietà e fa disperare del tutto i medici, li cura con un’effigie d’oro che appende loro al collo recitando preghiere. E lascerà, si dice, ai re suoi successori questa grazia risanatrice. A questa virtù singolare aggiunge il dono della profezia e altre benedizioni cingono il trono e lo provano santo. [...] (https://www.shakespeareitalia.com/macbeth-atto-quarto/ )
* Cfr. Marc Bloch, "I re taumaturghi. Studio sul carattere sovrannaturale attribuito alla potenza dei re particolarmente in Francia e in Inghilterra" (1924).
CRITICA DEL SOGNO D’AMORE DELLA RAGION PURA E FILOLOGIA: A LEZIONE DA SHAKESPEARE.
SHAKESPEARE (E BEN JONSON): "EST MODUS IN REBUS" (Orazio, "Satire" I, 1, 106-107). Polonio comprende che nella "follia" di Amleto "c’è del metodo (Amleto, II,2), ma non conosce il modus, né la misura né la lingua dell’Arte poetica di Quinto Orazio Flacco.
"BEN SCAVATO VECCHIA TALPA!" (MARX, 1852): "Ma la rivoluzione va fino al fondo delle cose. Sta ancora attraversando il purgatorio. Lavora con metodo [...] La tradizione storica ha fatto sorgere nei contadini francesi la credenza miracolistica che un uomo chiamato Napoleone renderà loro tutto il loro splendore. E si è trovato un individuo il quale, dato che porta il nome di Napoleone, ha potuto spacciarsi per quest’uomo, conformemente al codice #Napoleone, il quale stabilisce: "La recherche de la paternité est interdite".
Dopo un vagabondaggio di venti anni e una serie di avventure grottesche, la leggenda diventa realtà e l’uomo diventa imperatore dei francesi. L’idea fissa del nipote si è realizzata, perché essa coincideva con l’idea fissa della classe più numerosa della popolazione francese -[...] Intendiamoci. La dinastia dei Bonaparte non rappresenta il contadino rivoluzionario, ma il contadino conservatore; non il contadino che vuole liberarsi dalle sue condizioni di esistenza sociale, dal suo piccolo appezzamento di terreno, ma quello che vuole consolidarli; non quella parte della popolazione delle campagne che vuole rovesciare la vecchia società con la sua propria energia, d’accordo con le città, ma quella che invece, ciecamente confinata in questo vecchio ordinamento, vuole essere salvata e ricevere una posizione privilegiata, insieme col suo piccolo pezzo di terreno, dal fantasma dell’Impero. Essa non rappresenta la cultura progressiva, ma la superstizione del contadino, non il suo giudizio, ma il suo pregiudizio, non il suo avvenire, ma il suo passato, non le sue moderne Cévennes, ma la sua moderna Vandea (Karl Marx, "Il 18 Brumaio di Luigi Napoleone".
PUCK - ROBIN GOODFELLOW ("Sogno di una notte di mezza estate", II) E MARX (1856): "[...] Da parte nostra non disconosciamo lo spirito malizioso che si manifesta in tutte queste contraddizioni. Nei segni che confondono la borghesia e i meschini profeti del regresso riconosciamo la mano del nostro valente amico, Robin Goodfellow, la vecchia talpa che scava tanto rapidamente, il grande minatore: la rivoluzione. La storia è il giudice e il proletariato il suo esecutore." (K. Marx, discorso per l’anniversario del People’s paper, aprile 1856).
***
AMLETO, I. 1: *
"Bernardo. Ecco, la scorsa notte,
quando la stella a occidente del polo
aveva ormai compiuto il suo percorso
in quella parte del cielo ove brilla,
la campana batteva il primo tocco,
Marcello ed io...
Compare lo Spettro
Marcello. Silenzio! Eccolo, torna!
Bernardo. È lui! È proprio lui!... Il re defunto!
Marcello. Parlagli, Orazio, tu che sai il latino.
Bernardo (A Orazio).
Guardalo bene: non è tutto il re?
Orazio. Spiccicato!... Mi sento raggelare...
di stupore... paura... non lo so.
Bernardo. Forse vorrebbe che alcuno gli parli.
Marcello. Parlagli, Orazio, su, parlagli tu!"
[...]
AMLETO, I. 5:
Entra lo Spettro
Orazio. Oh, guardate, signore, eccolo, viene!
Amleto. O angeli e ministri della grazia,
difendeteci voi!...
[...]
Parla. Che cosa vuoi che noi facciamo?
(Lo spettro fa cenno ad Amleto di avvicinarsi a lui)
Orazio. Ecco, vi accenna d’andar con lui,
come a volervi parlare da solo.
Marcello E guardate con che amorevol gesto
v’invita ad appartarvi insieme a lui!
Ma non ci andate.
Orazio. No, assolutamente.
Amleto. Perché? Che cosa c’è da aver paura?
Io, di questa mia vita materiale,
non faccio maggior conto d’uno spillo,
e quanto alla mia anima,
che male mai può farle,
s’è come lui immortale?... Mi fa cenno.
Io vado.
[...]
AMLETO, I, 5:
Amleto. Mai parlare di quel che avete visto.
Sulla mia spada giurate.
La voce dello Spettro (Da dentro)
Giurate!
[...]
La voce dello Spettro
Sulla spada!
Amleto. Ben detto vecchia talpa!
Ma come fai a scavarti la terra
così veloce?... Un minatore in gamba.
Via, signori, spostiamoci di nuovo.
Orazio. Oh, giorno e notte insieme,
quale straniera meraviglia è questa!
Amleto. E come tale dalle il benvenuto!
Ci son più cose in cielo e in terra, Orazio,
che non sogni la tua filosofia.
Ma sentite: qui, come mai innanzi,
voi due - così vi possa assistere la #Grazia! -
per quanto stravagante e stralunato
possa apparirvi il mio comportamento
(e m’accadrà di stimare opportuno
di darmi un’aria stralunata e sfatta),
non dovete far mostra, innanzi ad altri,
di saperne di più di quel mio stato
[...]
AMLETO, V, 2:
Orazio (Indicando il corpo del re)
[...]
E lasciate ch’io dica al mondo ignaro
come sono accaduti questi eventi.
Potrete così udire
di carnali rapporti, e sanguinose
e innaturali azioni, e d’assassinii
casuali, e decisioni occasionali
di morti provocate o da perfidia
o da forza maggiore, e, in questo epilogo,
di tranelli falliti e ricaduti
sulla testa di chi li aveva orditi.
Su tutto posso dir la verità.
Fortebraccio. E noi ci accingeremo ad ascoltarla,
qui, tutti insieme, coi nostri maggiori.
In quanto a me, abbraccio la mia sorte,
col dolore nel cuore;
ho dei diritti, mai dimenticati,
su questo trono, che l’ora presente
mi esorta a far valere.
Orazio. Anche di questo vi dovrò parlare,
ed a nome di chi, con il suo voto,
molti altri ne trarrà alla vostra parte.
Ma si proceda subito al da farsi,
mentre gli animi sono ancora scossi,
così che altri intrighi ed altri errori
non abbiano a recarci altre sventure.
*Fonte: Liber Liber.
FILOLOGIA TEATRO E METATEATRO: TRAGEDIA, O NON TRAGEDIA? (SHAKESPEARE).
ERODE, LA PASSIONE DI GIOVANNI BATTISTA (29 agosto 2022), E IL PROBLEMA DI AMLETO. Un segnavia...
***
MARTIRIO DI GIOVANNI BATTISTA "[...] Erode aveva fatto arrestare Giovanni, l’aveva incatenato e gettato in prigione. Il motivo di tutto ciò era stata la faccenda di Erodìade, la donna che egli aveva voluto sposare anche se era già la moglie di suo fratello Filippo.
18 Giovanni aveva detto a Erode: ’Non ti è lecito sposare la moglie di tuo fratello!’.
19 Erodìade era furiosa contro Giovanni e voleva farlo ammazzare, ma non poteva a causa di Erode.
20 Il re, infatti, aveva paura di Giovanni perché capiva che era un uomo giusto e santo, e lo proteggeva. Quando lo ascoltava si trovava a disagio, eppure lo ascoltava volentieri.
21 Ma un giorno arrivò l’occasione buona. [...]"
(Mc 6. 17-21).
***
AMLETO: "Elsinore, sala nel castello.
Entra Amleto con tre attori
Amleto (Al primo attore)
La tirata, ti prego, devi dirla
come l’ho pronunziata io a te,
sciolta, in punta di lingua. Se la urli,
come fan tanti nostri attori d’oggi,
sarebbe come affidare i miei versi
alla bocca del banditore pubblico.
Non trinciar troppo l’aria con la mano,
così, gesticola invece con garbo;
giacché pure nel mezzo della piena,
della tempesta, e potrei dir nel vortice
della passione devi mantenere
sempre quel tanto di moderazione
che le dia una certa compostezza.
Ah, mi ferisce fino in fondo all’anima
quando ascolto un robusto giovanotto
imparruccato che riduce a brani
un discorso d’amore, lacerandolo,
per rintronar gli orecchi alla platea,
che capisce soltanto, la più parte,
oscure pantomime e gran baccano.
Metterei alla frusta quel gaglioffo
che ti fa un forzato Termagante,
e un #Erode più Erode del reale.
Evitalo, ti prego."
(Amleto, III, 2);
*
"Regina. Conosci già la trama del lavoro?
Non c’è nulla che possa urtare alcuno?
Amleto. No, no, costoro fan tutto per gioco;
avvelenano, sì, ma per ischerzo.
Non c’è davvero nulla di offensivo.
Re. Il titolo?
Amleto. "La trappola per topi"...
Naturalmente in senso figurato.
Il dramma rappresenta un assassinio
avvenuto davvero in quel di Vienna.
Gonzago il duca, Battista la moglie
i loro nomi. Vedrete tra poco.
Un atto infame da capolavoro.
Ma a noi che fa? Le vostre maestà
ed io abbiamo la coscienza libera,
non ci tocca. Che scalci pur la rozza
ricoperta di piaghe purulente:
noi i garresi ce li abbiamo sani!
Entra un attore, come Luciano
Questo è Luciano, nipote del duca [...]
(Amleto, III. 2).
***
TEATRO, RELIGIONE, E POLITICA...
"Tragedia, o non tragedia?: questa è la domanda di Amleto. La consapevolezza di Shakespeare (e "la trappola per i topi") lo mostra chiaramente...
Con "Amleto", Shakespeare invita a ripensare alle sollecitazioni della Riforma di Lutero (Wittenberg) e dello "Spaccio della bestia trionfante" di Giordano Bruno (Roma, Campo dei Fiori, 17 febbraio 1600).
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA FILOSOFIA E PSICOANALISI: A TEATRO, A TEATRO! Per "aprire gli occhi" (Freud) e ricomprendere il senso dell’amore di Platone, rileggere il "Simposio" e riascoltare i poeti: ripartire da Shakespeare!
LA "REPUBBLICA" DI PLATONE: "C’È DEL MARCIO IN DANIMARCA"("AMLETO"). A seguire le indicazioni filologiche (più che i manuali di storia della filosofia, forse, si può meglio comprendere il gioco e il giogo di Platone: appropriarsi di "tutta" la "forza" ("sos-kratos") di una figura del "demos" (popolo), il famoso e saggio "So-crate", e restaurare e ripresentare tutta la forza ("sos-kratos") della vecchia aristocrazia terriera come l’arché, il principio, il fondamento dell’intera società ateniese e... di tutta la Terra.
IL "SIMPOSIO", FONDAMENTO DEL PLATONISMO PER IL POPOLO (Nietzsche): "COME VI PIACE". Per ben orientarsi e comprendere il senso del racconto di Diotima narrato da Socrate sulla figura di Eros, l’amore platonico, vale la pena riflettere su quanto già dice Shakespeare circa quattrocento anni fa:
"HANG UP PHILOSOPHY"("ROMEO E GIULIETTA", III, 3, 57):"L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO" (Sonetto 116). A commento di "queste parole" pronunciate da Rosalinda, la "donna più arguta", Harold Bloom scrive: "Shakespeare non consente a nulla che assomigli alla suprema intelligenza di Rosalinda di interferire con l’autentico rapimento di Giulietta [...] Shakespeare fa in modo che Giulietta pronunci la più nobile dichiarazione d’amore romantico mai scritta in inglese:
Dobbiamo valutare il resto dell’opera in base a questi cinque versi, mirabili per il loro giusto orgoglio e la loro intensità [...] Credo di non essere il solo a sostenere che l’amore condiviso da Romeo e Giulietta sia la passione più sana e costruttiva regalataci dalla letteratura occidentale" (H. Bloom, "Shakespeare. L’invenzione dell’uomo", Rizzoli, Milano 2001, pp.62-63).
Diotima, Giulietta, Rosalinda e le altre / Nadia Fusini. Maestre d’amore
di Mattia Mossali *
In principio, fu Diotima. È proprio a questa figura misteriosa di donna, una sacerdotessa, venuta da Mantinea, che Socrate ha riconosciuto una conoscenza in più sull’amore. Invitato dagli altri commensali, tutti uomini, che chiedono di essere istruiti sul sapere erotico, Socrate sceglie di non parlare per sé; preferisce dichiararsi ignorante, com’era suo solito, e lascia che attraverso la sua bocca sia una donna a parlare. Socrate si fa ventriloquo di una voce femminile, quella di Diotima appunto, una voce di donna che lui non esita a riconoscere quale sua maestra, sapiente delle cose d’amore. E proprio da lei Socrate apprenderà la vera natura di Eros, daimon né bello né brutto, né buono né cattivo; una via di mezzo semmai, nel quale gli opposti convivono, agonisticamente, l’uno di fianco all’altro.
Non cela il suo stupore, Socrate, di fronte a quanto va apprendendo, proprio lui che pensava a Eros come a un gran dio, perché questo era quello che tutti dicevano. La risposta della sapiente Diotima non si fa attendere; la donna redarguisce l’allievo che pensa all’amore solo dal punto di vista dell’amato, e dunque come ad un sentimento sempre corrisposto e felice; l’amore, spiega, è anche e soprattutto “amore amante”, tensione verso l’altro, bisogno e desiderio, brama di possesso e insieme mancanza; gioia infinita, che si mischia alla prefigurazione del dolore della perdita. Questo è ciò che l’esperienza d’amore restituisce, e questa è l’esperienza, elevata a vera sapienza, che Diotima comunica, mentre feconda con le sue parole la mente degli uomini raccolti in quel simposio. Proprio così; lì dove l’amore è parlato, prima ancora che agito, è Diotima a fecondare. La sacerdotessa rovescia l’immagine che vuole che sia l’uomo a depositare il proprio seme nella donna, e parlando attraverso Socrate, la cui conoscenza è stata lei a forgiare, mostra fiera i frutti della propria fecondazione.
Se mi è concesso un confronto un po’ azzardato, è la stessa sorte che, in epoca moderna, si prenderà sulle spalle la grande Lou Andreas-Salomé. Novella Diotima, che senza alcuna modestia ebbe a definirsi nientemeno che esperta dell’amore, da lei dipenderà infatti il destino, e l’opera, dei suoi grandi amanti. Sarà Lou, per esempio, ad ispirare a Nietzsche quell’opera monumentale che è lo Zarathustra. Amò poi di un sincero amore materno il giovane Rilke, salvo poi indicargli la strada dell’autonomia, affinché in se stesso il poeta potesse scorgere la femminilità interiore che lei, dal canto suo, aveva già intravisto. In questo senso, sarà sempre Lou a permettere a Rilke di rinascere poeta. E non da ultimo, Freud, che in Lou riconosce subito un qualcosa di superiore, e che non a caso lega alla filosofia, per la sua capacità di andare sempre oltre: “Arriva lei, e aggiunge ciò che manca”, scriverà il padre della psicoanalisi, al quale toccherà anche di fare l’elogio funebre alla scomparsa dell’amica.
Ebbene, quando si parla d’amore, le donne sembrano saperne di più. E tra la Diotima del Simposio platonico e la moderna Lou Andreas-Salomé, Nadia Fusini nel suo nuovo saggio, uscito per Einaudi e intitolato non a caso Maestre d’amore, sceglie di convocare alcune delle eroine shakespeariane più note, iniziando da quelle delle tragedie, con Giulietta, Desdemona e Cleopatra, passando poi ai personaggi delle commedie, con la Elena di Tutto è bene quel che finisce bene, Caterina da La bisbetica domata, Rosalinda di Come vi piace, e ancora Viola da La dodicesima notte... Ma queste sono solo alcune delle voci che Fusini convoca tra le sue pagine, quasi volesse istituire una sorta di immaginaria genealogia nella quale a riecheggiare non è più l’eco stantio di un’antica subalternità, bensì l’accattivante esaltazione del free will, termine chiaramente da intendersi non solo come “propria volontà”, ma come pensiero - e dunque gesto - fondato sulla disobbedienza, sull’ostinazione. “Vogliono e desiderano anche loro, le donne”, chiarisce Fusini, “e svelano e rivelano, amanti come sono dell’esattezza, affinché tutti capiscano, la verità inconfutabile che per vivere, che è la stessa cosa che amare, bisogna disobbedire, e l’azione umana significativa è sempre trasgressiva”.
Sarà la coraggiosa trasgressione di queste donne - si tratta di donne moderne, sì, non più dame medievali - a dettarne il destino, un destino singolare ma mai individuale; un destino cioè che si iscrive sempre insieme con l’altro, sullo sfondo di un orizzonte dialogico, con un altro-uomo, un altro-maschio, eroe anch’egli a modo suo, che la donna prende per mano, come fa Giulietta con Romeo, al quale ordinerà di rinnegare il suo proprio nome. Non più Montecchi, e nemmeno Romeo, diverranno tutti e due quello che già sono, “tu un uomo e io una donna: basta coi nomi propri, basta con le proprietà dei nomi propri, basta...”
“Come le donne precocemente apprendano un fine intelletto d’amore lo racconta anche Shakespeare”; così esordisce Fusini, il cui intento dichiarato è proprio quello di penetrare dentro il discorso amoroso, per capire quale piega esso assume in quel mondo e in quel teatro, elisabettiano e giacomiano, nell’Inghilterra di fine Cinquecento e inizio Seicento.
Sarebbe ingenuo, dopotutto, credere che l’amore sia sempre lo stesso, o meglio, che il discorso d’amore attraversi il tempo e la storia senza subirne i condizionamenti. Al contrario, la storia influenza e detta la parola amorosa, diversificandola e imprimendole ogni volta una forma differente: dall’amore cristiano a quello cortese cantato dai trovatori, dall’amore romantico a quello sadico e voyeuristico di Artaud e Bataille. Se si guarda all’Inghilterra nel periodo early modern, allora non v’è dubbio alcuno che la novità del discorso amoroso debba essere ricercata nel teatro shakespeariano, nel quale prende corpo una vera e propria “scienza dell’amore” che trova il suo banco di prova lì dove sono le donne a prendere parola, “donne amanti”, che attraverso le loro peripezie mostrano “di che cosa si tratta quando si parla d’amore”.
Dunque Shakespeare e il femminile, tema tanto affascinante quanto rischioso se si considera che le donne in quello stesso teatro non recitavano.
Certo, nella finzione drammaturgica, delle donne non si può fare a meno, ma sul palco, queste, fisicamente non compaiono: le loro sembianze vengono assunte da giovinetti mascherati, travestiti, agghindati, la cui voce ha ancora un suono delicato, flebile. Ecco dunque che proprio qui, su questo punto, Fusini si scontra con un grande paradosso - parlare di un femminile che sembrerebbe essere di fatto assente -, che però lei risolve con intelligenza e sensibilità, perché se è vero che il focus della sua indagine è inizialmente l’Inghilterra tardo elisabettiana, è altrettanto vero che, giunti al termine di questo percorso avvincente, narrato secondo i ritmi di una prosa vibrante, si comprende come l’obiettivo ultimo della studiosa sia in realtà ben più ambizioso, e rintracci in Shakespeare i semi di un discorso che ancora sussurra alle orecchie di noi tutti, donne e uomini di oggi, qualcosa che ci insegna a pensare e vivere l’amore. Qualcosa sul come e sul perché l’amore sia la passione urgente, ambigua, ma necessaria che è. Sul perché quando “cadiamo” in amore, quando cioè cediamo alle sue lusinghe, allora lì, tutti, uomini e donne, gioiamo, patiamo, talvolta godiamo, altre volte simuliamo, proprio come le creature di cui Shakespeare ci parla.
E allora, chi sono le donne di cui Shakespeare ci parla, e che Nadia Fusini magistralmente ci racconta? E chi sono gli uomini - sì, anche loro sono protagonisti - che agiscono accanto alle nostre eroine?
In una Londra dove spopola l’uso del cross-dressing, particolare sul quale non a caso Fusini insiste, ovvero dove, grazie all’abbigliamento e al trucco, uomini e donne si fondono e si confondono, in un gioco divertito che sfida le costruzioni del genere (e di classe), mi chiedo se sia lecito pensare ai personaggi shakespeariani - da Giulietta e Romeo, Desdemona e Otello, Antonio e Cleopatra, a Rosalinda e Orlando, Caterina e Petruccio, Viola e Orsino - ancor più che come a personaggi reali, come a incarnazioni di sembianti differenti, sembianti di uomini e di donne di cui si mostra la direzione, la piega che assumono quando posti in relazione l’uno all’altro. Si tratta cioè di posizionamenti di corpi in amore, di posture da cui si guarda al mondo (e dunque anche all’amore), di cui Fusini offre lo spettro vario, consapevole che sì, certo, la critica ha preso l’amore e ne ha fatto oggetto di un discorso, ma l’amore è e resta prima di tutto un’esperienza, che trova la propria voce solo attraverso storie, racconti, metafore, ogni volta nuove e differenti.
E mentre ripercorre la vicenda amorosa di Cleopatra con Antonio, Fusini si domanda: “chi gode di più? l’uomo o la donna? [...] chi ama di più, gode forse di meno? E tra gli amanti, chi riceve di più? Chi spende di meno? In amore, non è osservabile il paradosso secondo il quale chi più dà, non diventa più povero?”. Sono tutte domande che volutamente non trovano risposta, perché Fusini sa che certe domande non possono risolversi in scena, sul palcoscenico: “La mascherata non maschera, semmai mette in scena le costruzioni del maschile e del femminile, e nel mentre le suggerisce, smentisce le attese più convenzionali”. A risolvere queste domande sarà allora lo spettatore, nel nostro caso, il lettore... noi, insomma, che nel teatro di Shakespeare, e nelle sue parole, troveremo la messa in scena di significati ineliminabili dell’esperienza umana; conoscenza e jouissance insieme, perché, Fusini lo dice chiaramente, uomini e donne possono conoscersi e amarsi anche parlando, non solo fottendo.
Fusini dichiara di aver scritto questo libro, dedicato alle donne in Shakespeare, per testare sul campo l’adagio lacaniano secondo il quale la donna “è l’ora della verità per un uomo”, in quanto è lei a mettere alla prova la facoltà di desiderare dell’uomo, ponendolo di fronte alla verità del suo desiderio, nonché di fronte ai suoi enigmi. E se è vero, come ci è stato insegnato, che il teatro assolve a funzioni catartiche, Maestre d’amore permette a noi lettori moderni di accostarci all’altro, a un’alterità che per qualcuno starà dentro di sé e per qualcun altro di fronte, un’alterità che tutti, in una qualche misura, temiamo, ma al contempo desideriamo.
* Fonte: Doppiozero, 8 Marzo 2021
SHAKESPEARE CON QUINTO ORAZIO FLACCO: "AMLETO", CON "ORAZIO": UN OMAGGIO AD HAROLD BLOOM.
L’OTTIMALE "VIA DI MEZZO" (AUREA MEDIOCRITAS) SUL PIANO PERSONALE E SUL PIANO POLITICO:
"REMENBER ME" (AMLETO, 1.5.91): LA "FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO" DI SHAKESPEARE. Se Ulisse è lo specchio di Amleto, c’è da dire che Shakespeare solo con "Orazio" (come Dante, con Virgilio) riesce a ben guidare la sua nave oltre Scilla e Cariddi e oltre le colonne d’Ercole, come più e meglio di Francesco Bacone...
TEATRO FILOSOFIA E MEMORIA. Ricordando il ruolo straordinario del poeta e drammaturgo Ben Johnson ( 1572-1637), amico dello stesso Shakespeare e, come lui, grande protagonista della scena culturale della Londra del loro tempo (nel 1601 tradusse l’ «Arte poetica» di Orazio e scrisse la commedia "The Poetaster", dove si racconta appunto di Orazio e due poetastri che lo invidiano), si possono ben comprendere le ragioni che portano Harod Bloom a mettere in evidenza il ruolo eccezionale di "Orazio" nello stesso "Amleto":
"Nel 1809 August Wilhelm von Schlegel osservò che «Amleto non ha una profonda fiducia in sé stesso né in nessun altro», compresi Dio e il linguaggio, aggiungerei io. Naturalmente, vi è Orazio, che Amleto elogia fino all’eccesso, ma Orazio sembra esser lì per rappresentare ’amore del pubblico verso il principe. Orazio è il nostro #ponte verso l’oltre, verso quella curiosa ma inconfondibile trascendenza negativa che conclude la #tragedia" (Harold Bloom, "Shakespeare. L’invenzione dell’uomo" ["Shakespeare: The invention of the human", 1998], Rizzoli, Milano 2001).
***
P. S. - SHAKESPEARE E PARMENIDE. SUL FILO DI QUESTA SAGGIA INDICAZIONE DI HAROLD BLOOM, forse, è meglio riprendere la domanda sull’ «essere, o non essere». La questione della trascendenza è un epocale problema metafisico e, come tale, comporta una revisione radicale dell’antropologia filosofica tradizionale (Amleto->Kant) e sollecita a ritornare ad Elea con Orazio (Epist. I, 15):
"Com’è l’inverno a Velia
e il clima di Salerno,
questo mi devi dire, Vala,
com’è la gente che vi abita,
in che condizioni è la strada."
LA "DIVINA COMMEDIA", LA "NASCITA DELLA TRAGEDIA", E LA "INTERPRETAZIONE DEI SOGNI" DELL’EUROPA.
Il Sogno di Shakespeare sembra essere quello di portare "Amleto" ... al di là della "Tempesta", di pensare un orizzonte culturale europeo che porti Ulisse-Amleto al di là della logica della "guerra di Troia" e dell’assalto dei Proci alla sua Casa e alla sua Reggia.
Quando Sofocle tirò fuori la memoria di Edipo, lanciò l’allarme: gli Ateniesi e le Ateniesi stavano dimenticando la lezione dell’#Iliade e dell’Odissea e risprofondando nella tragedia. Così con Nietzsche e Freud, agli inizi del "secolo breve", la campana comincia a suonare a martello...
Federico La Sala
AMLETO, ODISSEA E DIVINA COMMEDIA.
CON LAERTE (Amleto, I.3), SHAKESPEARE richiama l’intera Odissea (e non solo): ci dice che è in ’compagnia’ non solo con il padre di Ulisse e con gli Argonauti, ma con l’intera tradizione culturale europea (laica e religiosa): rispondere alla domanda di Amleto ("essere, o non essere?") non è una "barzelletta", è l’antica domanda della Sfinge (Edipo). Per Shakespeare significa voler dare una risposta la più possibile all’altezza dell’antropologia, della teologia, e della politica del tempo (e dell’eternità) e vincere la morte!
IL DOPPIO CORPO DEL RE: IL "CORPO MISTICO" DI AMLETO. Nelle parole di Laerte alla sorella Ofellia sulla persona di Amleto (I, 3) è detto tutto il problema teologico-politico su cui si arrovella Shakespeare (e l’intera cultura inglese ed europea - di ieri e, non ancora, di oggi): "Forse lui ora ti ama, e per ora / Non cè macchia o furbizia a sporcare /La virtù della sua volontà. Ma, / Pesata la sua dignità [di Principe], devi temere / Che la sua volontà non sia la sua / Perché lui stesso è suddito della sua nascita. / Lui non può, come una persona qualunque, Fare le sue Scelte. Dalla sua scelta infatti / dipendono la sicurezza e la salute / dell’intero stato. Essa perciò / Deve essere approvata dalla voce e dal consenso / Del corpo di cui lui è la testa. E dunque, / Se dice che ti ama, la tua saggezza gli creda / Fino al punto in cui, nella sua posizione, / Possa dar corpo alle sue parole, non oltre, / Se i più, in Danimarca, sono contrari. / Valuta allora quale perdita il tuo onore / Può subire, se con credulo orecchio / Ascolterai le sue canzoni, o smarrirai il tuo cuore [...]" (trad. di Agostino Lombardo).
ECCE HOMO. La ricerca di Shakespeare si colloca alla stessa altezza del cammino di Dante Alighieri: ritrovare la via d’accesso al paradiso terrestre e ricostruire la "monarchia temporale"! Con la sua Opera, e con l’Amleto in particolare, Shakespeare cerca di ridisegnare (al di là di ogni pretesa androcentrica,fondamentalistica e imperialistica) la figura dell’Ecce Homo (di ogni essere umano) e la forma della terra promessa ’sognata’ dall’intera umanità!
Federico La Sala
RIVOLUZIONECOPERNICANA E RIFORMA TEOLOGICO-POLITICA IN CORSO: NUOVO CIELO E NUOVA TERRA.
Una nota*
La grandezza di Shakespeare e l’importanza del suo "Amleto" è analoga a quella di Sofocle e del suo "Edipo Re": della loro lezione, anche dopo la sollecitazione di Freud, si stenta ancora a capire il legame tra il familismo amorale e le manipolazioni istituzionali della Legge (divina ed umana).
Con Lutero (1517), con Copernico (1543), e Giordano Bruno (Nola, 1548 - Roma, 17 febbraio1600), Shakespeare osa aprire un dibattito nel suo globo teatrale che fa tremare tutto l’ordine teologico-politico e sociale precedente e seguente: riapre il discorso sulla dottrina dei "Due corpi del Re" (Ernst H. Kantorowicz)!
La critica dell’adulterio in "Amleto", connesso (come è) all’intero ordine istituzionale e collegato fin nel cuore dello stesso messaggio biblico ed evangelico, pone all’ordine del giorno lo "spaccio della bestia trionfante" e sgombra la strada alla dea Giustizia, alla Vergine Astrea (Virgilio, Egloga IV, V. 6: "Iam redit et Virgo").
*
NOTA.
Europa 1600: RegnodiNapoli->Nola->Salerno->Eboli->Contursi Terme, Chiesa della Madonna del Carmine, 1608/1613..
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA, MATRIMONIO, E MESSAGGIO EVANGELICO: "ECCE HOMO" ("QUEL SINGOLO")!
KIERKEGAARD CON SHAKESPEARE RIPRENDE IL LAVORO CRITICO CONTRO LA FILOSOFIA E LA TEOLOGIA DEL SUO TEMPO:
"HANG UP PHILOSOPHY!" [IMPICCA(la), LA (tua) FILOSOFIA] (cfr. "Romeo e Giulietta", III, 3, 57)!
CON SOCRATE, OLTRE PLATONE ED HEGEL. Lo scandalo del paradosso (e l’ "Esercizio di cristianesimo", 1850). Dopo aver posto in esergo alle sue "Briciole di filosofia" (1844) la frase di Shakespeare: "Meglio male impiccato, che male sposato", nella Prefazione alla "Postilla conclusiva non scientifica alle «Briciole di Filosofia»" (1846), Soren Kierkegaard così commenta: "In conformità del motto del libro («Meglio male impiccato, che male sposato») l’autore è tranquillamente impiccato, anzi ben impiccato, e rimane penzoloni. Nessuno, neanche per scherzo, gli ha chiesto nel gioco per quale motivo è stato impiccato. Ma era proprio questa la situazione ideale: meglio bene impiccato che non, mediante un matrimonio infelice col sistema, aver contratto parentela con tutto il mondo".
A osservare in profondità il legame di Kierkegaard con il lavoro critico di Shakespeare ("la mia anima torna - così egli scrive in "Aut Aut" - sempre all’Antico Testamento e a Shakespeare. Là si sente che quei che parlano sono uomini"), a mio parere, si comprende quanto lungimirante e profondo sia stato il contributo di "Quel Singolo" (come scritto sulla tomba di Kierkegaard) per affrontare la questione antropologica politica e teologica dell’attuale presente storico. In gioco c’è non solo la dignità ma la stessa sopravvivenza dell’intero genere umano.
ABRAMO (E LE TRE RELIGIONI). Al di là della dimensione estetica, etica, e religiosa, come da indicazione di Kafka (in una lettera del giugno 1921 a Robert Klopstock), c’è da "pensare un altro Abramo", se si vuole, risolvere l’enigma dei tre anelli (Gioacchino da Fiore): "[...] alla nascita di Cristo nella capanna semiaperta era subito presente il mondo intero, i pastori e i savi d’Oriente" (Kafka, 1921).
Federico La Sala
DANTE ALIGHIERI, SHAKESPEARE, E "ROMEO E GIULIETTA". Un problema di filologia, storia della letteratura e ...
ARTE E STORIOGRAFIA. UN QUADRO DI CESARE SACCAGGI, DAL TITOLO "INCIPIT VITA NOVA. DANTE E BEATRICE, 1903", più che richiamare la vita e le opere di Dante Alighieri richiama straniantemente l’immagine di "Romeo e Giulietta", quasi in tonalità per il film di Zeffirelli,1968).
Paradossalmente si potrebbe (quasi) ben pensare che il fraintendimento della situazione familiare di Dante sia stata prodotta inizialmente da un lavoro storiografico poco critico e, in seguito, da continui elementi di rinforzo come lo stesso successo dell’opera "Romeo e Giulietta" di Shakespeare.
DANTE IN INGHILTERRA. Da considerare che il quadro di Cesare Saccaggi (1903) viene dopo il grande lavoro portato avanti da Dante Gabriel Rossetti e dai preraffaelliti.
DANTE2021. Dopo secoli di sonnambulismo e di equivoci interpretativi, non è il caso di svegliarsi dal letargo (Par. XXXIII, 94) e cominciare a pensare semplicemente (come suggerisce lo stesso Dante Alighieri nella Divina Commedia) che la tradizionale e cosiddetta Beatrice Portinari non è affatto la Giulietta di Dante, ma la figura della sua stessa madre Bella degli Abati, morta quando egli era piccolo?!
Virgilio, nel raccontare a Dante dell’incontro con Beatrice, quando dice "E donna mi chiamò beata e bella" (Inf. II, 53), di chi sta parlando? Di Beatrice Portinari?!
Beata e Bella.... le idee straniantemente cominciano a diventare più chiare e luminose: la figlia di Dante, Maria Antonia, diventata suora, sceglie di chiamarsi suor Beatrice. Perché? Non vale la pena, forse, di riprendere a leggere la Comedìa.... finalmente!
Federico La Sala
IL SOGNO DI SHAKESPEARE E IL PROGRAMMA DI FRANCESCO BACONE.
"HANG UP PHILOSOPHY!". Something is rotten in the state of Denmark...
RIVOLUZIONE COPERNICANA. "Hang up philosophy!" e disagio della civiltà: "Romeo. Ancora esiliato? - All forca la filosofia! Se non può farmi una Giulietta, se non può cambiare di posto una città, annullare la sentenza di un principe, la filosofia non giova a nulla, non può nulla; non me ne parlare" (Shakespeare, Tutte le opere, a c.di Mario Praz, Sansoni, Firenze, p.313).
SORGERE DELLA TERRA (EARTHRISE). Probabilmente Shakespeare, ancor prima della realizzazione della Bibbia di Re Giacomo, ha già avviato un programma di rilettura e reinterpretazione antropologico-politico dell’immaginario della teologia e filosofia tradizionale... Ricordare il Sonetto 116.
NUOVO CIELO E NUOVA TERRA. Considerato il legame profondo con la cultura italiana (Giordano Bruno, ecc.), non è da escludere la ripresa in grande stile dell’idea già ’lanciata’ da Dante Alighieri di ripensare a trovare la strada per tornare nell’Eden, nel Paradiso Terrestre: da tener presente che la parola d’ordine del programma di Francesco Bacone è già e sarà proprio quella di lavorare al Grande Restaurazione (alla Instauratio Magna).
DANTE 2021: RISORGERE - RINASCERE. Al di là della vecchia filosofia ("Hang up philosophy!"): Shakespeare è sulla strada di Dante Alighieri e Giordano Bruno, e non della andrologia iper-platonica e dello "spirito di carità" paolino ("Il parto maschio del tempo" - "Temporis Partus Masculus", 1602) del teorico della Nuova Atlantide...
Nota: Sul tema, cfr. la preghiera che è inserita nella prefazione della Instauratio magna (1620).
Federico La Sala
UNA QUESTIONE DI GIUSTIZIA E DI BILANCIA (di una "statera" non di una "statua").
Ipotesi per una rilettura della "Pesatrice di perle" di Johannes van der Meer *
NASCITA E "GIUDIZIO DI SALOMONE". Del dipinto Pesatrice di perle (o Donna con una bilancia) di Jan Vermeer (databile al 1664 e conservato nella National Gallery of Art di Washington), anche alla luce del fatto che dentro il quadro c’è rappresentato un altro quadro - un dipinto con un Giudizio Universale - c’è da pensare, probabilmente, che la figura della donna in avanzato stato di gravidanza rimandi alla figura della Sibilla Libica (raffigurata da tantissimi artisti e anche da Michelangelo nella Cappella Sistina) e al suo specifico annuncio del messaggio evangelico, e comunichi il rapporto che esiste tra la bilancia (la giustizia e l’equilibrio), il grembo (il concepimento), e la nascita di un bambino, una bambina - una maestra, un maestro di umanità...
A quanto pare, anche Jan Vermeer (1632- 1675), conosceva bene il tema delle Sibille e della Giustizia (di Astrea, della Virgo della IV Ecloga di Virgilio, Dante, e Michelangelo) e della bilancia (la parola esatta della profezia della Sibilla Libica)... ed è riuscito a dare un bel quadro del tema della nascita del Bambino, dell’implicito riferimento all’esemplare giudizio di Salomone sul comportamento delle due madri e, infine, allo stesso Giudizio Universale.!
Della Sibilla Libica, infatti, questo è il suo messaggio: «Uterus Matris erit statera cunctorum. L’utero della Madre sarà la bilancia di tutti gli esseri umani». Una bilancia ("statera"), non una "statua"!
Che re-fuso - e che confusione filologica e antropologica!
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Federico La Sala
DISUGUAGLIANZA, INTOLLERANZA, E PACE PERPETUA...
FINE DELLA STORIA: NON COMPRESA LA LEZIONE DI DANTE ALIGHIERI SUI DUE SOLI E DI GIORDANO BRUNO (17 febbraio1600) SULLE TRE CORONE, DUE CORONE IN TERRA E UNA IN CIELO (“Ultima coelo manet)”, SI VA ANCORA AVANTI CON LE REGOLE DEL GIOCO DELLE TRE CARTE (questa è quella che vince, questa quella che perde, ecc...) e l’espulsione (lo spaccio) dal campo da gioco della BESTIA TRIONFANTE continua ad essere rinviata... USCIRE DAL LETARGO. La Regola, il Logos, non è un "Logo"!
CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA COSMOTEANDRIA. Non sapendo affrontare e non volendo risolvere il problema di Jean Jacques Rousseau (Discorso sull’origine della disuguaglianza: "Il primo uomo che, avendo recinto un terreno, ebbe l’idea di proclamare questo è mio, e trovò altri cosí ingenui da credergli, costui è stato il vero fondatore della società civile") come quello di Sigmund Freud (Il disagio della civiltà: "Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comuni tà critiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori"), non ci resta che lavorare ... "PER LA PACEPERPETUA" (KANT, 1795)!!!
FLS
DANTE 2021 E SHAKESPEARE 2002: ANTROPOLOGIA, POLITICA E RELIGIONE...
"SHAKESPEARE AND COMPANY": ELISABETTA I, "ALESSANDRO MAGNO" E L’ORDINE DELLA GIARRETTIERA.
Materiali per una rilettura unitaria delle "Allegre Comari di Windsor" e del discorso del Re "Enrico V" ... *
La mia ipotesi è che Shakespeare abbia compreso il senso della propria sovranità di essere umano e, da questo luogo e da poeta, produca e porti avanti il proprio discorso. In qualche modo Shakespeare è prossimo a Dante e Dante è prossimo a Shakespeare: entrambi non sono né per il papa (o la papessa) né per l’imperatore (o l’imperatrice): entrambi sono per la Monarchia dei "due Soli" e la sovranità assoluta è dell’amore che non è "lo zimbello del Tempo" (Sonetto 116) e che "move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145).
A) RIPARTIRE DALLA GIARRETTIERA, DALL’ORDINE DELLA GIARRETTIERA: "SIA SVERGOGNATO CHI NE PENSA MALE"!
WINDSOR: IL RE, I CAVALIERI, E LA FEDELTÀ. "Il Nobilissimo Ordine della Giarrettiera (in inglese The Most Noble OrderoftheGarter), risalente al Medioevo, è il più antico ed elevato ordine cavalleresco del Regno Unito. Capo dell’Ordine della Giarrettiera è il Sovrano del Regno Unito; l’ammissione è riservata a non più di 24 membri, la cui scelta è di competenza esclusiva del sovrano [...] lo stemma dell’Ordine è una giarrettiera che sormonta il motto «Honi soit qui mal y pense» (fr.: «Sia vituperato chi ne pensa male»), [...]. Il motto [...] è anche scritto sulla polena della nave ammiraglia HMS Victory, protagonista della battaglia di Trafalgar agli ordini di Horatio Nelson. [...] L’Ordine fu fondato - molto presumibilmente - nel 1349 dal re #EdoardoIII come «compagnia e collegio di cavalieri». [...] La più antica attestazione scritta dell’Ordine si trova in «Tirant lo Blanch», un romanzo cavalleresco scritto in catalano dal valenciano Joanot Martorell che venne pubblicato nella prima edizione nel 1490. [...]"(Wikipedia).
B) CON ELISABETTA I A TEATRO: A WINDSOR, NELLA LOCANDA DELLE "ALLEGRE COMARI"! “«La Giarrettiera» è il nome della locanda dove alloggia il protagonista Sir John Falstaff, e l’ordine aveva la sua sede araldica a Windsor. Se così è, la stesura del lavoro non poté farsi più tardi della fine 1596 / inizio1597, per essere rappresentata a corte il giorno di San Giorgio patrono d’Inghilterra (23 aprile 1597), giorno nel quale, appunto, la regina conferiva le investiture [...]" (Shakespeare Italia).
C) LA GIARRETTIERA. Il significato di questo questo indumento, divenuto esclusivamente ad uso femminile nel XIV secolo, è collegato al matrimonio e alla purezza della sposa: "la giarrettiera, infatti, rappresenta simbolicamente una cintura di castità" ( Clara Couture ).
D) RELIGIONE E POLITICA (LONDRA 1599). L’elogio cattolico di Enrico V ("Alessandro Magno"): “ Arcivescovo di Canterbury: [...] Portategli il discorso su argomenti / che richiedano acume e sottigliezza / vi saprà sciogliere il nodo gordiano / di tutto, come la sua giarrettiera” ("Enrico V", Atto I, scena prima, 45-47).
E) A WILLIAM SHAKESPEARE E GIUSEPPEVERDI: VIVA VERDI. Falstaff (1893) è l’ultima opera di Giuseppe Verdi . Il libretto di Arrigo Boito fu tratto da Le allegre comari di Windsor di Shakespeare, ma alcuni passi furono ricavati anche da Enrico IV parti I e II, il dramma storico nel quale per la prima volta era apparsa la figura di sir John Falstaff. [...] L’anziano e corpulento Sir John Falstaff, alloggiato con i servi Bardolfo e Pistola presso l’Osteria della Giarrettiera, progetta di conquistare due belle e ricche dame [...] (Wikipedia).
F) DIVINA COMMEDIA: RIPENSARE COSTANTINO! LA MONARCHIA, UN PROGRAMMA PER I POSTERI DI DANTE (1321-2021), L’ORDINE DELLA GIARRETTIERA (1349), E IL DISCORSODEL RE "ENRICO V" (SHAKESPEARE,1599).
* Federico La Sala
Dante 2021: Disagio della civiltà e discorso dei due Soli (del papa della chiesa cattolica e del presidente della repubblica italiana).
AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE (Cantico dei cantici, 8.6). L’amore non è lo zimbello del tempo...
QUESTIONE ANTROPOLOGICA: ECCE HOMO. L’ Amore "vince tutto": MA quello antropologico-evangelico di Gesù o quello andrologico di Paolo di Tarso ("di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio": 1 Cor. 11, 1-3)?!
SE DIO è amore ("Deus charitas est"), e "non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" ("non est Iudaeus neque Graecus, non est servus neque liber, non est masculus et femina; omnes enim vos #unus estis in Christo Iesu" - Galati, 3.28), NON "È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010)?!
A che gioco giochiamo, ancora?!
Non è ora di uscire dal tunnel (Dante Alighieri, Inf. XXXIV, 90)?!
Dopo Tebe, l’enigma della sfinge di Edipo non è stato risolto nemmeno con l’andata di Freud e Jung negli Usa! E l’intera umanità non ha ancora compreso né come nascono i bambini né che cosa significa vedere e aver visto il sorgere della terra!
Federico La Sala
Categoria: Il filosofo e la città
Il Discorso del Re
Con l’Enrico V Shakespeare completa il ritratto del nuovo principe machiavellico (non senza sottolineare le sue contraddizioni) e si prepara per i grandi drammi successivi.
di Maurizio Morini *
Enrico V viene annoverato tra i grandi re d’Inghilterra, colui che ha impresso lo slancio decisivo per la nascita dello Stato moderno inglese. Al centro della sua azione la teoria medievale del doppio corpo del re: quello naturale, soggetto alla morte, e quello mistico che non può morire. Una teoria che garantisce la continuità del sovrano riassunta in uno slogan che avrà fortuna: The king is dead, long live the King.
Nel dramma storico, questa retorica è rappresentata dal coro che, ad ogni atto, anticipando in modo solenne gli eventi, proclama le gesta e le virtù del re. Cosa che garantisce popolarità alla sua azione (Enrico è il sovrano che raccoglie i frutti di una piena legittimità) ma non l’autenticità di fronte al tribunale della storia: dopo ogni intervento del coro, Shakespeare colloca delle scene che, facendo da contrappunto a quanto raccontato, finiscono di fatto per rendere meno credibili gli eventi.
Nel primo atto «la Musa di fuoco che si eleva al cielo più fulgido dell’immaginazione», è frustrata dai sotterfugi dei due vescovi che, per interessi economici, spingono il sovrano alla guerra; nel secondo, il racconto che tutta la gioventù d’Inghilterra è a fuoco e che l’ambizione dell’onore regna esclusiva nell’animo di ogni uomo, è contraddetto con un alterco da osteria; nel terzo, le vele spiegate della Marina inglese a Southampton in direzione della Francia, incontrano i desideri di alcune voci dell’equipaggio di tornare piuttosto in un’osteria a Londra; nel quarto, il regale capitano che passa in rassegna le sue truppe per infondere coraggio, le visita in incognito finendo pure per essere contestato; nel quinto, all’immagine di Enrico che torna trionfante in Inghilterra accolto dalle folle assiepate a Dover, si contrappone la realtà di un sovrano che finisce al capezzale di Caterina di Borgogna per chiederle la mano, riunire i regni e chiudere le ostilità.
Una continua giustapposizione, tipica peraltro del filosofo inglese, tesa a marcare la differenza tra retorica e realtà, ideologia e verità effettuale, dover essere ed essere. Sicché, «ciò che è in questione non è la trasformazione del corpo politico bensì una serie di effetti politici, forse una serie di illusioni, operate attraverso mezzi politici mondani, in particolare attraverso la continua manipolazione retorica di Enrico» (Lake, 2016)
L’irresponsabilità del sovrano e il fucile di legno
Al centro di questa manipolazione si colloca il dialogo che il re conduce in incognito con i suoi soldati e il successivo monologo sull’essenza del potere regale. Enrico V è un re che ha qualità che lo rendono particolarmente popolare, come l’abitudine di visitare i suoi soldati chiamandoli fratelli, amici e compatrioti. Ma si tratta di qualcosa di studiato, una parodia dice lo stesso coro, se il re sente il bisogno di visitare i suoi sudditi, mascherato da semplice soldato, per avere conoscenza dei suoi veri umori. Così, nel dialogo notturno che precede la battaglia, Enrico si aggira nel campo militare esibendo la vecchia giustificazione secondo la quale il re non è altro che un uomo, lamentando di non poter vivere una vita tranquilla. Sembra improvvisamente di assistere al dialogo di Senofonte tra il poeta Simonide e il tiranno Gerone sulla natura della tirannia. Ma, evidentemente, quello del re solitario non è argomento adatto per rincuorare dei soldati che, all’addiaccio, rischiano la propria vita mentre il re se ne sta nelle retrovie o nel caldo del suo palazzo.
Ecco allora che il discorso si sposta sulle cause della guerra. Ma anche in questo caso i soldati rispondono picche. A parte il fatto che il problema delle cause è qualcosa che va oltre quello che essi devono sapere, dimostrandosi più realisti del re nell’attenersi (in quanto sudditi) alla dottrina degli arcana imperii; il punto, come afferma uno di loro, è che «se la causa è ingiusta, l’obbedienza che dobbiamo al re cancella in noi la macchia di qualsiasi colpa». Infatti, prosegue un altro, «se la causa non è onesta, il re stesso sarà chiamato a una grave resa dei conti, quando tutte quelle gambe e braccia e teste tagliate in battaglia si riuniranno il giorno del giudizio (...) Ora, se questi uomini non fanno una buona morte, sarà un brutto affare per il re che li ha portati a quel passo, e disobbedire al quale sarebbe contrario a tutti i giusti doveri della sudditanza».
Ma il re respinge gli argomenti in merito alle responsabilità del sovrano: «Il re non è tenuto a rispondere della fine che fanno i suoi singoli soldati, né il padre del figlio, né il padrone del servitore», in quanto «solo la guerra è il suo ufficiale fustigatore, la guerra è l’esecutore della sua vendetta; sicché gli uomini vengono puniti ora, per la causa del re, perché hanno violato anteriormente le leggi del re. (...) Se dunque muoiono impreparati, il re non è colpevole della loro dannazione». Per cui, conclude Enrico, «l’obbedienza d’ogni suddito appartiene al re, ma l’anima appartiene al suddito».
Da un punto di vista teologico si tratta di un principio ineccepibile che segna tuttavia l’assoluta irresponsabilità dei reggitori dello Stato per le proprie azioni. Viene così anticipato il principio di Hobbes secondo cui le azioni del sovrano non possono mai essere accusate di ingiustizia dai sudditi e il sovrano non può né essere messo a morte né essere punito dai suoi sudditi (Leviatano, cap.XVIII).
I soldati sono quasi convinti dalle argomentazioni retoriche del re. Uno di loro però insiste con il suo scetticismo e finisce per innervosire il re mascherato il quale, rispondendo in modo goffo e ingenuo, non riesce di meglio che suscitare lo scherno dell’interlocutore. Così, una volta usciti, ecco un monologo del re in cui vi è una vera e propria difesa dei sovrani le cui ansie non sono nemmeno da paragonare alla tranquillità dei cittadini: di fatto, protesta Enrico, la pace che egli acquista per il contadino è pagato a prezzo di dolorose veglie notturne. Torna il Gerone di Senofonte ma questa volta con una differenza: il denaro che Enrico offre, volendo ricompensare il soldato per la coraggiosa franchezza della notte, viene rifiutato con uno sdegnato «non so che farmene». -Shakespeare è filosofo per il quale le esigenze dell’individuo vengono prima di quelle dello Stato; non disconosce quest’ultimo (perché sa che i rimproveri di un individuo contro un monarca sono pericolosi «quanto lo sparo di un fucile di legno») ma lo tiene costantemente sotto il controllo critico.
«We few, happy few, band of brothers» uniti dall’azione criminale
Secondo il giudizio di Churchill (ma non solo), la battaglia di Agincourt dell’ottobre del 1415 contro il ben più numeroso esercito francese, è la più eroica delle battaglie combattute dall’Inghilterra nella storia. Tuttavia, ricorda lo statista, quella vittoria (che pure fece di Enrico V il sovrano più celebre d’Europa) fu seguita da una delle più sanguinose guerre civili che l’Inghilterra abbia mai conosciuto e tale da controbilanciare gli apparenti successi. Il tentativo di trasferire all’estero i conflitti interni è risultato fallimentare, addirittura controproducente.
Shakespeare rappresenta questa verità attraverso la drammatizzazione. Nel quarto atto, il re chiama a raccolta i sudditi nel celebre discorso di San Crispino nel quale incoraggia allo scontro imminente attraverso la classica mozione degli affetti. «Noi pochi, pochi e felici eletti, banda di fratelli...» Ma anche in questo caso i fatti che seguono gettano discredito sulle parole. I soldati, piuttosto che combattere per la gloria, cercano non solo di assicurarsi un riscatto in denaro per i futuri prigionieri, ma pianificano la vita civile successiva al ritorno in Patria al pari di criminali dediti al furto. Il sovrano, piuttosto che dare prova di virtù e generosità, ordina di far sgozzare a freddo tutti i prigionieri francesi contravvenendo ad una consolidata regola morale e di diritto internazionale. È a questo punto che un soldato equipara il re ad Alessandro il grande: peccato però che (con abile stratagemma) la persona in questione ha un difetto di pronuncia (scambia la b con la p) e il re viene ribattezzato Alexander the pig, Alessandro il maiale.
Che cosa voleva comunicare Shakespeare con questa strategia drammaturgica? Prendendo a prestito Strauss, diremmo che la sua opera è impregnata di retorica socratica, strumento indispensabile per fronteggiare, da un parte, la minaccia della società e dei governanti, e, dall’altra, mezzo per condurre chi ne è capace alla filosofia. La retorica politica si combatte con la retorica filosofica: la cautela non è mai troppa. Diventa interessante a questo punto sapere o immaginare che cosa abbia potuto pensare il competente pubblico che assisteva ai drammi di Shakespeare e che ne decretò subito il più grande successo.
Lo specchio deformato dei re cristiani e il passaggio a quelli pagani
Enrico si crede lo specchio dei re cristiani. Prima di ogni sua azione, tanto privatamente quanto pubblicamente, egli invoca l’aiuto e la protezione di Dio come mai nessun re che lo aveva preceduto aveva fatto. Ma dopo la rottura dello specchio del principe, avvenuta con la fine del regno di Riccardo II, lo specchio di Enrico è completamente deformato: si tratta di un’altra contraddizione posta nel cuore di un regno per sua natura machiavellico che sa fare uso della religione per i suoi fini e finanche di addossare la colpa della guerra allo stesso clero se l’arcivescovo risponde al re che essa può ricadere sul suo capo. Agire senza portarne la responsabilità è il capolavoro politico più volte ripetuto da Enrico.
L’astro di Inghilterra (Star of England), come lo chiama il coro alla fine dell’opera, esce però presto di scena a causa della morte prematura. Il novello Cesare, come lo aveva definito Shakespeare, lascia spazio al vero Giulio Cesare la cui opera (siamo ormai nel 1599) comincia ad essere scritta proprio nel momento in cui si chiude quella dedicata al mitico quanto controverso sovrano inglese.
* Fonte: Ritiri Filosofici, 2 Gennaio 2022
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NOTA: LA TEORIA MEDIEVALE DEL "DOPPIO CORPO DEL RE", LA "MONARCHIA" DI DANTE, E IL PROGETTO INGLESE DI PRENDERE LA FIACCOLA DELL’IMPERO DALLE MANI DELLA SPAGNA. Appunti per un’analisi dei drammi storici di Shakespeare:
a) Enrico V è un dramma storico di William Shakespeare composto tra il 1598 ed il 1599. Il dramma prende spunto dalle vicende di Enrico V d’Inghilterra, re che si distinse per aver conquistato la Francia ed aver vinto la battaglia di Azincourt. È l’opera conclusiva della tetralogia shakespeariana enrieide (o tetralogia maggiore); iniziata con Riccardo II e proseguita con Enrico IV, parte 1 e Enrico IV, parte 2.
b) La battaglia di Azincourt (o di Agincourt per gli inglesi) si svolse vicino l’omonima località nell’odierno dipartimento del Passo di Calais il 25 ottobre 1415 nell’ambito della guerra dei cent’anni, vedendo contrapporsi le forze del Regno di Francia di Carlo VI contro quelle del Regno d’Inghilterra di Enrico V.
c) Giarrettiera, ordine della(ingl. Order of the Garter) Supremo ordine cavalleresco inglese, istituito da Edoardo III nel 1349. [...] Come lo stesso nome suggerisce, lo stemma dell’Ordine è una giarrettiera che sormonta il motto Honi soit qui mal y pense (fr.: "Sia vituperato chi ne pensa male"), presente inoltre sul rovescio delle sterline in oro (sovereign) della serie 1817-1820 recanti sul dritto l’effigie di re Giorgio III. La Giarrettiera è indossata dai membri dell’Ordine durante le occasioni formali. Il motto Honi soit qui mal y pense è anche scritto sulla polena della nave ammiraglia HMS Victory, protagonista della battaglia di Trafalgar agli ordini di Horatio Nelson. [...] La più antica attestazione scritta dell’Ordine si trova in Tirant lo Blanch, un romanzo cavalleresco scritto in catalano dal valenciano Joanot Martorell che venne pubblicato nella prima edizione nel 1490. Nel romanzo si trova un intero capitolo dedicato alla leggenda della fondazione dell’Ordine. [...] Il primo straniero a essere insignito della Giarrettiera fu il duca di Urbino Federico da Montefeltro nel 1474 [...].
d)STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO... DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica.
e) RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ! FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
MEMORIA, STORIA E FILOLOGIA: IL "DISCORSO DEL RE" E LA VITA CONTRO LA MORTE...
UCRAINA. "Volodymyr Zelensky was driven neither by nationalism nor ideology. Nor was he a revolutionary. He was Everyman" ("How Volodymyr Zelensky found his roar", The Economist, 26 febbraio 2022): dopo millenni, ancora non abbiamo capito la differenza tra il legame democratico e il legame autoritario dell’ Uno con i Molti e dei Molti con l’Uno?!
COSTITUZIONE (E "TEOLOGIA"). Nel fatto che un popolo, con il suo Presidente, combatta "per la sua legge come per le mura della città“ (Eraclito, fr. 44 DK), non ha per caso un rapporto con il "capo" simbolico della Città, la figura che splende alta nel cielo di Kiev, san Michele?
ANTROPOLOGIA (EVERYMAN / "ECCE HOMO"). San Michele? La parola Michele significa: "Chi è come Dio?" (Quis Ut Deus?) e il suo messaggio - prima di tutto - vale come un urlo antropologico, nei confronti di ogni essere umano che pretende di ridurre in stato di minorità un altro essere umano! Forse è bene considerare anche questa piccola traccia filologica per orientarsi nel pensiero e nella realtà.
Federico La Sala
E #ANTROPOLOGIA
.UNA NOTA "NIETZSCHEANA"
A MARGINE DELLA #VITA DELL’
DI
Al limitare dell’#eternità (Duomo di #Modena),
#Giano e la #Sirena
non dice forse della figura
androginica
e
antropogena
del
#due in uno
umano,
fonte di
#nascita e #rinascita,
nel #ritmo e nel #ciclo del #tempo?!
UNA QUESTIONE FILOLOGICA E ANTROPOLOGICA, EPOCALE:
"L’ #Amore non verrà mai meno": un breve video di @Mode_Valdese con una riflessione e un invito a seguirci - con le opportune restrizioni - nelle attività relative al #sinodovaldese e metodista tra il 22 e il 25 agosto, da Torre Pellice (TO).
"L’ #Amore non verrà mai meno" (1 Cor. 13, 8). Domanda, ma quello antropologico-evangelico o quello andrologico-paolino ("di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo (gr. ἀνήρ ἀνδρός «uomo»), e capo di Cristo è Dio": 1 Cor. 11, 1-3).)?! Non è bene precisarlo? Grazie.
#FILOLOGIA e #ARCHEOLOGIA. L’Uomo-#Sapienza di #Ruysbroec ("nel cuore di ogni uomo un #Ecco, cioè #Vedi, guarda"), il corteo "andrologico" dei #Magi (https://it.wikipedia.org/wiki/Cappella_dei_Magi), e l’«uomo» di #PonzioPilato («#Eccehomo»: gr. «idou ho #anthropos»), oggi... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5195 ...
in dialogo con il testo di Giorgiomaria Cornelio, Verumtamen in imagine pertransit homo, "Nazione Indiana".
FLS
#ANTROPOLOGIA #FILOSOFIA #ARTE. IL #CANTICODEICANTICI E LE #DUEALI DELLA CELESTE #MUSICA.
#Caravaggio: #MariaeGiuseppe con il loro #figlio in un momento di "#Riposo durante la #fugainEgitto"
L’amore ai tempi del coronavirus
di Jeanette Winterson *
Il virus è arrivato del tutto inaspettato. Stavamo vivendo come al solito e, all’improvviso, le nostre esistenze sono cambiate. Ciò su cui avevamo fatto affidamento fino a quel momento era scomparso. Una situazione nuova, strana.
L’amore è lo stesso. Abbiamo le nostre vite in ordine e, poi, compare qualcuno, e il mondo viene messo sottosopra, capovolto. Abbiamo un bambino e niente è più come prima. Perdiamo qualcuno che amiamo e la vita diventa l’ombra di ciò che era.
L’amore ha effetti dirompenti. Quando bruciano le foreste, un metodo per spegnere il fuoco è con il fuoco, contenere l’incendio creandone uno nuovo. Proprio adesso, nel momento in cui le nostre vite sono state interrotte da un nemico che sfugge alla nostra vista, tranne che per gli effetti che determina, possiamo ricordare che anche l’amore è un alleato che sfugge alla nostra vista, non lo possiamo vedere, se non che per gli effetti che determina.
L’amore può arginare la nostra paura. Con l’amore, non siamo soli, isolati o sperduti. Quando troviamo l’amore, in ognuna delle sue forme, non ci preoccupiamo di ciò che interrompe. Con un bambino appena nato non dormiamo, non possiamo più lavorare, fare quello che ci piace. Con qualcuno che amiamo, siamo in grado di pensare solo a quella persona. Un nuovo amico o un nuovo interesse sottrae tempo e attenzione da quello che c’era già, eppure ce la caviamo piuttosto bene. Spesso anche meglio di prima.
L’amore che conosciamo ci rende resilienti. L’amore che c’è in questo momento nelle nostre vite ci dà forza. È il momento di rendere l’amore ancora più grande, di condividerlo con gli altri, così che nessuno sia solo.
Se ti sembra che non tu non stia ricevendo amore, allora dallo tu. E questo comprende dare amore a noi stessi. Pulire la casa può essere un’incombenza o un atto d’amore. Cucinare un pasto può essere un peso o tutto l’amore di cui puoi cibarti. Vestirti bene per te stesso non è suonare la lira mentre Roma brucia, è un atto di rispetto verso noi stessi. C’è una grossa differenza tra amare se stessi ed essere egoisti. Quando ci amiamo nel modo in cui potremmo amare un caro amico, siamo anche più bravi ad amare gli altri.
Sono cresciuta in una famiglia religiosa. C’erano degli svantaggi: una mentalità chiusa, pregiudizi, disinteresse verso i cambiamenti sociali. Ma alcune cose erano comprese meglio di quanto lo siano nel mondo moderno e laico. La Bibbia ci insegna questo: l’amore perfetto scaccia la paura. Significa che l’amore è un antidoto contro la paura. Sappiamo sulla base delle nostre esperienze che quando amiamo qualcuno siamo coraggiosi in suo nome. Facciamo sacrifici e assumiamo rischi. E ci sentiamo protetti dall’amore degli altri. Il vantaggio psicologico che ci dà l’amore non può essere mai sopravvalutato. L’amore ti fa bene. Soprattutto in tempi di paura.
C’era qualcos’altro appeso al muro di casa: l’amore è forte come la morte. È un’affermazione importante. Se la esaminiamo, ci rendiamo conto che l’amore è ciò che sopravvive alla morte fisica degli altri. Continuiamo ad amare qualcuno anche quando se n’è andato. E se scaviamo più a fondo in questa idea, capiamo che l’amore può opporsi al desiderio di morte che tutti, ogni tanto, proviamo. Non parlo di suicidio, ma di auto-sabotaggio, di certi comportamenti distruttivi nei quali ci ritroviamo impigliati. Amarci un po’ meglio, insieme all’amore degli altri che ci protegge, combatte la negatività che può sopraffarci.
Proprio ora dobbiamo liberare amore come colombe sopra la città. Lasciare che l’amore atterri nelle piazze, sui balconi, alle finestre, sulle spalle di tutti. Amore è il messaggero e il messaggio. Fatelo uscire. Portatelo a casa. L’amore è il meglio di noi.
*Jeanette Winterson è una scrittrice inglese, autrice, tra i tanti, di Non ci sono solo le arance (Mondadori, 1999) e Perché essere felice quando puoi essere normale? (Mondadori, 2012), che in Italia hanno avuto grande successo. Il suo ultimo libro si intitola Frankissstein (Mondadori, 2019).
*Fonte: VF, 23 aprile 2020
Uscire dal letargo "teologico" e "filologico" e dalla notte «in cui tutte le vacche sono nere»! La mistica dell’Amore (Deus charitas est), o quella di "Mammasantissima" e di "Mammona" ("Deus caritas est")?! *
Spiritualità.
Mistica cristiana: le nozze di eros e caritas
I Meridiani pubblicano il primo di tre volumi dedicati alla mistica cristiana. L’incontro con Dio supera ogni limite, fisico e linguistico, e si configura come esperienza sensibile di un amore totale
di Rosita Copioli (Avvenire, mercoledì 1 luglio 2020)
La Mistica Cristiana (Mondadori, I Meridiani, pagine. LXXXVIII+1624, euro 70,00), è il primo dei tre volumi di una vastissima opera - estesa dalle origini ai nostri giorni - ideata dieci anni fa e curata da Francesco Zambon, su ’impulso’ di Pietro Citati. Questo libro, curato da Zambon con Marco Rizzi, Sabino Chialà, Boghos Levon Zekiyan, comprende la mistica tardogreca e bizantina, siriaca, armena, latina e italiana medievale; il secondo volume presenterà la mistica tedesca e fiamminga, francese, italiana moderna; il terzo la mistica iberica (spagnola, portoghese e catalana), inglese e americana, russa, svedese. Nessun progetto ha avuto la medesima ampiezza, né pari cura filologica e critica: nemmeno i Mistici occidentali curati da Elémire Zolla; e altre pregevoli sillogi sono parziali.
Le radici sono ebraiche - nel Cantico dei Cantici, il testo più ardente e complesso dell’amore umano e divino - e greche: nel Fedro e nel Simposio di Platone, dove la ricerca della conoscenza diviene quella del bene e del bello, l’intelletto sale verso il divino: la mente si unisce allo slancio erotico, la mania che porta all’estasi: invasa da una luce alla quale tenderà tutta la tradizione occidentale fino al Rinascimento, e oltre: da Plotino, per il quale la contemplazione è superiore all’azione poiché permette la visione del vero, a Proclo; da Apuleio a Tasso, i poeti barocchi, i romantici, Yeats, Ungaretti, Luzi, Milosz.
La potenza della vista interiore è previsione e profezia. Lo afferma già Esiodo, e poi Saffo e Platone, seguiti da sant’Agostino e Dante: il poeta sprofonda nella memoria bevendo l’acqua di vita di Oceano, e lascia che il soffio del dio spiri dentro di lui, investendolo del suo nume sconvolgente. «Entra nel petto mio, e spira tue / sì come quando Marsia traesti / de la vagina de le membra sue». È il solo modo per riceverne il barlume, per glorificarlo: «O divina virtù, se mi ti presti / tanto che l’ombra del beato regno / segnata nel mio capo io manifesti».
Il mistico ricapitola ogni passaggio del Verbo incarnato e dello Spirito Santo che permette - osano i più temerari - di diventare Dio, trascinando con sé l’intera creazione. La trasfigurazione, la passione, la morte sulla croce di Gesù, il suo corpo martoriato sono lo strumento-specchio per rivivere Gesù in anima-spirito-corpo, oltrepassando i ’sensi spirituali’. Francesco nutre nelle viscere il sole - Cristo. Dalle mani e dai piedi spuntano chiodi di carne, sul costato si apre la ferita di Cristo.
Angela da Foligno aderisce al Crocifisso con i sensi dell’eros totale: «Tu sei me e io sono te». La mente di Iacopone da Todi, «En Cristo trasformata, è quasi Cristo, /cun Deo conionta tutta sta devina». Chi osa tanto, non teme la sintassi, scardina ogni figura e senso. Se fa miracoli, sfida la gravità e si innalza dal suolo, come Doucelina di Digne, altri aboliscono gli intermediari con Dio nel linguaggio, come Caterina Fieschi: «Il mio Mi è Dio, io non conosco altro Mi che esso Dio mio».
I mistici non hanno paura di niente, né del pudore, né di “ardiri” che il volgo deride: come i patriarchi della Bibbia, variano la metafora del latte della sapienza, con una passione tenerissima. Nel II secolo in Siria, un’Ode di Salomone, e Clemente Alessandrino suggono i seni del Padre e le dolci mammelle di sposa di Gesù; nel X secolo Gregorio di Narek, autore di inni inarrivabili al Cristo glorioso, invoca «comunione che distilla latte»: siamo in Armenia, dove la teologia del sacerdozio di tutti i fedeli - i corpi sono templi e altari - renderà possibile il sacrificio dell’intero popolo: il “Martirio armeno”. Misakh Metzarents (1886-1908) ne è l’ultimo fiore: «Nella notte discende ancora il ruscello di luce, / una goccia di latte della tua santità divenuta un mare; / e vedi, o Madre di Dio, ecco sto diventando bambino».
Come diceva san Tommaso d’Aquino, la mistica è la Cognitio Dei experimentalis, che Jean Gerson esplica: «Theologia mistica est cognitio experimentalis habita de Deo per amoris unitivi complexum». Ma è la più abissale delle imprese gnoseologiche e amorose. Per la “teognosia” dell’ombra, che deriva da Plotino e si distanzia da seguaci di Gesù come Giovanni e Paolo, e Agostino, mai giungeremo a conoscere Dio. La sua trascendenza rispetto a ciò che è, e all’essere stesso, è superessentialis: Dio non può essere conosciuto, descritto, visto, nemmeno dagli angeli e dai santi. Di Dio non si può parlare né in forma positiva, né in forma negativa. Ma la forma negativa si avvicina di più al suo mistero. Lo si contempla tra luce e tenebra.
Scrive Zambon: «Anche nella vita beata, al termine del reditus di tutta la creazione nel seno del Verbo, Dio sarà conoscibile solo attraverso delle mediazioni, delle teofanie (in greco, “manifestazioni, immagini di Dio”)». La teofania segue i gradi della contemplazione, della deificazione (theosis), e coincide con l’unione mistica. Ricorre alle immagini, al loro fantasma, alla fantasia: l’“alta fantasia” di Dante. La docta ignorantia fa apparire Chi è superiore alla Luce come tenebra, caligine, nube: nella “notte oscura” di Giovanni della Croce.
Una rivoluzione accade in pieno XII secolo: Guglielmo di Saint-Thierry, Bernardo di Clairvaux, Aelredo di Rievaulx, Ivo, e Riccardo di San Vittore (di cui Zambon ha curato sapientemente i Trattati d’amore cristiani del XII secolo per Valla Mondadori) mostrano a quale fuoco di trasformazione può accendersi l’intelletto d’amore che guida fino a Dio, intrecciando eros platonico e caritas paolina. Come in Ildegarda di Bingen, il grande impeto d’amore dà le ali. Culminano la poesia della fin’amor dei trovatori, le storie di Tristano e Isotta, il romanzo cortese.
Con Beatrice davanti alla candida rosa dei beati, Bernardo invita Dante a fissare Dio, nel movimento rapidissimo che imprime al creato e a noi: la metamorfosi dell’anima in Dio, l’excessus mentis, avviene per opera divina in un solo istante: «ma già volgeva il mio disio e ’l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa, / l’amor che move il sole e l’altre stelle». Riccardo di San Vittore è il più ardito. Amore terreno e carità hanno la stessa fonte, ma la carità non è mite. Ha la stessa struttura, manifestazioni e gradi della passione violenta. I Quattro gradi della violenta carità gridano in Iacopone da Todi: «Amor de caritate, perché m’ài ssì feruto? / Lo cor tutt’ho partuto, et arde per amore».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus !!! O, meglio, che progetto!!!
Federico La Sala
RIPRENDERE IL LAVORO DI FREUD. IL MALE, L’AVVENIRE DI UN’ILLUSIONE ....
Nota a margine di "Il male, un’illusione ? Intervento al Convegno Internazionale UNESCO” *
PRIMA DI FARE DICHIARAZIONI STORIOGRAFICHE DI GRANDE IMPEGNO A SOSTEGNO DELLE PROPRIE ARGOMENTAZIONI :
E PARLARE DI “divinizzazione retroattiva del marchese de Sade” è bene ricordare che l’associazione indebita di “Kant e Sade”, fatta da Lacan, nasce sulla base di una interpretazione edipico-hegeliana e di un vera e propria distruzione della kantiana “critica dell’idealismo”.
E, ancora, quando Freud richiama all’inizio del suo lavoro sulla “Interpretazione dei sogni” le parole di Giunone “flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” (Eneide, VII, 312), sa già (“sibillina-mente”) di che cosa sta parlando e di cosa c’è in gioco e, come Giunone (“Non mi sarà dato, ahimé, di impedirgli di regnare sui Latini e Lavinia, immutabile, resta sua sposa in forza del destino, ma ho il potere di tirare per il lungo, di imporre dei ritardi a eventi così grandi ...” : Eneide, VII, 312- 315 ), va avanti e ricordando-si di Napoli comincia capire cosa c’è dietro la questione “Didone” (Eneide, IV, 625 ) e la sua infatuazione per Annibale, per il vendicatore: la vittoria di Roma, dell’Amore sulla Morte. Fiducioso, continua il suo lavoro!
La “Horrenda Virgo” (Eneide XI, v. 507) , la “ragazza terribilmente bella”, come Giunone (e Freud), lo sa: deve cedere il passo ad un’altra “Virgo”, ad Astrea, alla Giustizia: «Già viene l’ultima era dell’oracolo di Cuma, / nasce di nuovo il grande ordine dei secoli. / Già ritorna la Vergine, ritornano i regni di Saturno, /già una nuova stirpe scende dall’alto del cielo. » (Ecloga IV, 4-7). La “Horrenda SYbilla” (Eneide VI, 11), ispirata da Apollo, il profeta di Delo, ha rivelato ad Enea tutto il futuro (Eneide VI, 11-12).
PERCHE’ HANNAH ARENDT, nella sua “Vita della mente” (alla luce di un inedito dialogo con Kant) richiama ancora e di nuovo Virgilio e Dante, e dal “Libro del malumore” di Goethe cita: “Chi di tremila anni / Non sa darsi conto, / Rimane all’oscuro inesperto, /Vuol vivere così di giorno in giorno” ? Boh e bah ?!
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L’ORAZIONE SULLA DIGNITA’ DELL’UOMO - A UNA DIMENSIONE.
Da Giovanni Pico della Mirandola* a Herbert Marcuse** e ...
CARO ARMANDO, PER IMPARARE "a vivere meglio senza lasciarci condizionare dalla paura della morte, cioè dalla religione, qualunque essa sia", CREDO CHE SIA NECESSARIO riconsiderare il problema di "come nascono i bambini" (a tutti i livelli)! Hai ragione: "Non possiamo permetterci, con le Sibille, Maria Vergine, Cristo come dio, Maometto ed altre favolette l’illusione di un altro Messia"! Ci siamo addormentati nella tradizione cattolico-costantiniana e illuministica acritica (contro Kant), e abbiamo finito per "concepire" noi stessi e noi stesse secondo la bio-logia e l’andro-logia “unidimensionale” dell’omuncolo!
L’«ECCE HOMO» di Ponzio Pilato, al contrario!, ci dice proprio questo - la fine delle "favolette" e di ogni "illusione di un altro Messia". Il discorso è di diritto e di fatto, romanamente universale, vale a dire, antropologico (non limitato all’«omuncolo» di qualche "uomo supremo" o “superuomo”!):
SE SIAMO ANCORA CAPACI DI LEGGERE, COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA LEZIONE DI PONZIO PILATO?! Non è una lezione critica contro i "sovranisti" laici e religiosi di ieri e di oggi?!
Che vogliamo fare? Continuare a riportare noi stessi e noi stesse davanti a Pilato e ripetere da scemi e da sceme la stessa scena, riascoltare il suo "Ecce Homo" e non capire una "H" (acca)?!
P.S. - RICORDANDO ... GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA.
COME NASCONO I BAMBINI? E COME ‘NASCONO’ I GENITORI?! ... *
Cantico dei Cantici.
Il corpo delle donne (intimità della Bibbia)
di Luigino Bruni (Avvenire, martedì 11 febbraio 2020)
Sono tra coloro che sono rimasti delusi dalla performance di Roberto Benigni al Festival di Sanremo dedicata al biblico Cantico dei Cantici. Forse perché avevo aspettative alte, grazie al ricordo, vivissimo, delle sue meravigliose letture di Dante, della Costituzione italiana, dei Dieci comandamenti; forse perché Benigni ci ha donato film molto amati per la loro poesia e forza etica.
Ma, forse, in questa delusione c’è anche qualcosa di più. Il corpo delle donne, insieme a quello dei bambini, è il primo bene che una civiltà deve tutelare e proteggere con tutte le sue forze. Quando un uomo, un maschio, parla del corpo della donna, prima deve togliersi i calzari dai piedi perché sta entrando in un territorio sacro, una terra fatta sacra da molto amore e da moltissimo dolore. Da sempre il corpo della donna, prima di essere icona dell’amore, è stato immagine di potere, di violenza, di abusi e di soprusi, di corpo ferito e di eros comprato dai maschi.
Non si può parlare del corpo delle donne senza avere ben in mente i molti millenni di storia umana in cui le donne hanno vissuto il proprio corpo come luogo da custodire e da preservare dall’uso cattivo dei maschi, un uso sbagliato che ancora troppo spesso è presente e non solo storia.
Ho guardato Benigni insieme a mia mamma e mia sorella. Due donne moderne, laiche, riconciliate con la vita e con i corpi loro, dei figli e dei mariti. Non hanno detto una parola durante lo spettacolo, ma l’aria di casa si è riempita di un pudore mescolato con l’imbarazzo e il disagio.
Accanto a loro, io ho avuto forte l’impressione di vedere sullo schermo una donna denudata in pubblico da Benigni, senza che lei avesse dato il suo consenso, denudata ai soli fini dello show. Ho visto quella giovane donna medio-orientale, vissuta due millenni e mezzo fa, e in lei ho rivisto le bellissime ragazze delle Mezzaluna fertile (il Cantico mette insieme antichi poemi nuziali babilonesi e cananei).
Una ragazza ’bruna’ in un mondo di maschi, in una cultura patriarcale che vedeva poco e male le donne, nascoste sotto la tenda, a occuparsi per tutta la vita di bambini e anziani. Quando nella Bibbia si incrocia una donna non è mai un incontro banale. Quelle donne hanno in genere lottato e sofferto molto per entrare in quel racconto, hanno dovuto farsi spazio in una cultura che non glielo dava spontaneamente.
Donne che vivevano poco e male, quasi tutte analfabete, e non di rado morivano per gravidanze non sempre volute e desiderate. Quale eros conosceva quella ragazza del Cantico? Non certamente quello delle fantasie di noi maschi del XXI secolo, né quello che ci ha raccontato Benigni.
Il Cantico è testo profetico, perché dice ai maschi e alle donne del suo tempo quale fosse il disegno di Dio sulla donna e sull’amore. Non era la descrizione dell’eros che quegli antichi scrittori vedevano attorno a loro, ma l’eros di un mondo futuro sempre desiderato e mai raggiunto.
Non dobbiamo infatti dimenticare che il Cantico è un intreccio di presenza e di assenza dell’amato. È anche un canto all’amore non trovato, che fugge, che non si trova:
«Lungo la notte, ho cercato l’amore dell’anima mia; l’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi alzerò e farò il giro della città per le strade e per le piazze; voglio cercare l’amore dell’anima mia. L’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi hanno incontrata le guardie che fanno la ronda in città: ’Avete visto l’amore dell’anima mia?’» (Cantico 3,1-3).
Senza questa dimensione di mancanza, di assenza, di limite, non si comprende l’eros che diventa solo gioco o sterile ricerca di piacere. L’eros è insieme pienezza e indigenza, ferita e benedizione. Ferita per tutti, uomini e donne, ma diversamente e di più per le donne (ferita, cioè vulnus).
Non credo che il Cantico sia stato scritto da una donna, e non lo credo per molte ragioni. Ma soprattutto non lo credo perché una donna non avrebbe parlato del proprio corpo e di quello del suo uomo con quelle parole. Le donne hanno altre parole per parlare dell’amore, dell’eros, della philia e dell’agape. Perché dell’eros le donne amano parlare solo due alla volta, nell’intimità di un rapporto d’amore, dove le parole non dette e quelle sussurrate sono importanti almeno quanto il corpo donato, e quando mancano queste poche parole diverse il corpo parla poco e male.
L’unico numero buono dell’eros è il due. E quando dell’eros si parla troppo e si parla in pubblico l’eros diventa altro, ed è bene usare altre parole molto meno nobili. La Bibbia ha da sempre letto quell’antico canto nuziale in modo sapienziale, allegorico e profetico, non per negare l’eros ma per salvarlo, perché l’unico modo per salvare l’eros è custodirlo nella sua intimità e nel suo nascondimento. E quando il Cantico viene letto senza ideologie e manipolazioni, non si fa una esperienza erotica, ma si fa una esperienza spirituale, mistica e soprattutto poetica:
«Àlzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto! Perché, ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna. Il fico sta maturando i primi frutti e le viti in fiore spandono profumo. Àlzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto!» (2,10-13).
La poesia è stata infatti la grande assente dalla lettura di Benigni, una poesia mangiata dalla bramosia, molto infantile, di stupire gli spettatori con quell’eros ’nascosto’ dai preti e rabbini finalmente scoperto e liberato. Tutti i giorni i media usano i corpi delle donne per fare spettacolo, per vendere, per fare audience. E ogni giorno di più. La Bibbia non lo ha mai fatto. Parla poco di eros e di sesso, perché ne rispetta il mistero e l’intimità. La Bibbia va portata in tv, va portata ovunque, perché parla solo e sempre di vita. Ma se proviamo a manipolarla si chiude e non ci fa accedere al suo mistero e alla sua bellezza. Come, nonostante le probabili buone intenzioni, è accaduto l’altra sera sul palco di Sanremo.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6). Un omaggio a William Shakespeare e a Giovanni Garbini.
COME NASCONO I BAMBINI? E COME ‘NASCONO’ I GENITORI?! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
«Canzonissima della Bibbia».
Il sorprendente dono del Cantico dei Cantici a Sanremo
di Rosanna Virgili (Avvenire, sabato 8 febbraio 2020)
Che gioia il Cantico dei Cantici a Sanremo! Grazie a Roberto Benigni che ha sorpreso e stupito il Festival con quel libretto della Bibbia che la tradizione ebraica e cristiana ha conservato come la canzone più bella, la ’canzonissima’ secondo una suggestione di Gianluigi Prato. Tre sono i trascendentali: verum, bonum e pulchrum. Importante è il bello. L’arte, nelle sue forme più nobili - quali la musica, la pittura, la poesia - è capace di far emergere il divino che si annida nella Parola, più di ogni altro linguaggio.
E allora l’idea di far conoscere e gustare il Cantico è stata davvero stupenda, appropriata, preziosa per un pubblico tanto vasto e popolare come quello del Sanremo in mondovisione (e non può inficiarla neppure la forzata ’licenza interpretativa’ che ha tradotto, tradendolo, l’amore tra amato e amata in altri amori che sono lontani e fuori dal limpido orizzonte biblico).
Del resto i duetti del Cantico, intervallati dalle voci del coro, assomigliano ai testi delle canzoni in gara e anch’essi nascono in un ambiente popolare; quadretti di vita rurale che hanno il sapore delle sere d’estate o del primo autunno quando, dopo la mietitura o la vendemmia, a notte, si faceva festa e gli occhi e le braccia dei ragazzi e delle ragazze si incrociavano, si intrecciavano, si inebriavano al sogno dei baci. Nel Cantico - scrive Guido Ceronetti - non c’è il nome di Dio, perché tutto è puro, quindi tutto è sacro! La forza dell’amore sveglia la primavera sui passi dell’amante che - inverosimilmente - è una donna. È lei a uscire per prima verso chi ancora non ha mai visto, ma è solcato nel suo desiderio profondo, nelle sue cavità vitali. Trasgressiva, testarda è la ’sorella’ del Cantico, si sottrae all’autorità dei fratelli, non cura la sua vigna ma corre verso le ’tende dei pastori’, esce nei deserti, batte la campagna, sfida le guardie alle mura della città, ’malata d’amore’! Una vera anomalia per un mondo in cui le donne non potevano scegliere i loro uomini ma venivano date in spose a scopo di procurare ai mariti una discendenza. Non avevano diritto sul proprio corpo, ma la donna del Cantico lo rapisce e ne fa guida e grammatica del viaggio dell’Amore. C’è un esodo dal sé, un’effrazione del self, per osare gli ignoti sentieri, le rischiose curve, gli anfratti del volto dell’Altro.
L’Amore è un’avventura senza garanzie, una strada senza ritorno, ’forte più della morte’. Irreversibile, fonte di creature nuove, diverse, bagnate di futuro. Amore che azzera i possessivi: ’io sono sua, mentre lui è mio’: l’estasi di un’unione che non risponde alla tentazione di divorare l’altro, rendendolo un cadavere.
Ma è pienezza di ’te’: del consegnarmi a te. Bocca d’infinito, sorso d’eternità, graffio di Vita! Nel testo originario le sue consonanti asciutte, nette, impossibili a essere fraintese. I sensi sono sentinelle e finestre del corpo, teso fuori di sé. ’Una voce, il mio amato’: il primo senso è casto come l’udito. ’Come sei bella, amica mia, come sei bella, le tue labbra una striscia di porpora’. Gli occhi di lui scoprono l’incanto della pelle di lei ’color del miele’, traduce magnificamente Luca Mazzinghi. Il tuo profumo è la quintessenzadi ogni aroma delle piante più squisite d’Oriente; ’c’è latte e miele sotto la tua lingua’; l’olfatto e il gusto si alleano nell’estasi d’Amore dove il tuo nardo è ben più forte di ogni vino drogato. Restituiscono al corpo la sua anima. Un minuto solo dura il tatto ma procura un vero svenimento; com’era per i Greci così nel Cantico, l’Amore è lelymmenos ’scioglitore di membra’. Per fare ’dei due un corpo solo’ direbbe l’Apostolo Paolo.
L’Amore è attesa, fatica, sudore di brama e di timore; esso regala attimi di estasi e anni di deserto, però quegli attimi valgono bene gli anni! L’Amore è corpo nudo, vuoto, puro, come il Santo dei Santi. Per questo il Cantico è il libro dei mistici, Paese sospeso. Dio come in un passaggio, la meghillà di Pasqua. Nel corpo che si perde è il profumo di Dio. Per questo è un gran peccato che la Chiesa abbia impedito per secoli l’accesso a questo piccolo libro, grandissimo tesoro, fonte di salute e salvezza per il corpo e per l’anima. Teniamo sveglio il cuore ora che ’il tempo del canto è tornato’.
L’AMORE ("CHARITAS") NON E’ LO ZIMBELLO NE’ DEL TEMPO NE’ DELLA FILOLOGIA. IL SONNAMBULISMO DI HANNAH ARENDT E MARTIN HEIDEGGER (e dell’intera storiografia filosofica, teologica, e filologica):
Martin Heidegger e Hannah Arendt: la storia della fedeltà all’amore
A cura di bea *
Negli anni in cui Martin Heidegger andava elaborando "Essere e tempo" (1927) ebbe un’intensa avventura amorosa con una sua studentessa: Hannah Arendt aveva solo diciotto anni, ed era una giovane donna di un’ intelligenza vivace e profonda. Diventò a poco a poco una vera musa ispiratrice per il pensatore tedesco: tra i due, già dal 1925, ci furono intensi scambi epistolari, grazie ai quali è possibile non solo ricostruire il loro silenzioso amore, ma anche riflessioni più intime su temi profondi, quali il rapporto “verità-amore” e “fedeltà”.
Nel paragrafo 29 di “Essere e tempo”, l’opera più famosa di Martin Heidegger, troviamo due citazioni: la prima è di Pascal
Donde viene che mentre parlando delle cose umane si dice che occorre conoscerle prima di amarle, ciò che è diventato proverbiale, i santi invece dicono, parlando delle cose divine, che occorre amarle per conoscerle, e che nella verità si penetra soltanto per mezzo della carità, del che hanno fatto una delle loro più utili sentenze...
La seconda, più incisiva, è di Agostino di Ippona
Anche se non sono citazioni dell’autore, queste prove bastano ad annullare quanto sostenne K. Jaspers, ovvero che la filosofia di Heidegger fosse “senza amore”.
Se da un lato possiamo capire la sua posizione, in quanto nell’opera i temi principali ruotano attorno all’essere, il Dasein, il tempo e la morte, dall’altra è fondamentale chiedersi il perchè di quelle due citazioni.
La spiegazione la troviamo nella vita reale del filosofo. Negli anni in cui andava elaborando Essere e tempo (1927) ebbe un’intensa avventura amorosa con una sua studentessa: Hannah Arendt aveva solo diciotto anni ed era una giovane donna di un’ intelligenza vivace e profonda.
Diventò a poco a poco una vera musa ispiratrice per il pensatore tedesco: tra i due, già dal 1925, ci furono intensi scambi epistolari, grazie ai quali è possibile non solo ricostruire il loro silenzioso amore, ma anche riflessioni più intime su temi profondi, quali il rapporto “verità-amore” e “fedeltà”.
Nelle ultime lezioni che Heidegger tenne a Marburgo nel semestre estivo del 1928 si fa riferimento alle due citazioni: egli riprende delle riflessioni che aveva scambiato con Max Scheler, per il quale amore e odio fondano la conoscenza, e sulla scia di una frase dell’Ordo Amoris “L’uomo, prima di essere un ente pensante o volente è un ente amante”, costruisce il motore immobile e invisibile che dà vita al suo Dasein, l’essere-nel-mondo.
Se Heidegger si appella ad Agostino e a Scheler, significa che l’amore è per lui un modo di apertura più originario di ogni conoscenza.
In riposta alla teoria delle passioni, la Arendt scrive nel 1953
Essere-nell’amore significa fare in primis esperienza dell’esistenza più “propria” e poi scoprire, in due, che l’essere nell’esistenza significa anche volere l’esistenza dell’altro. Amo, come dice Agostino, significa volo ut sis, ti amo, voglio che tu sia ciò che sei.
scriveva Heidegger alla sua studentessa.
Amare è anche lasciare libero l’altro, amare è cogliere il “tu” pur lasciandolo essere, senza cercare di possederlo: “... lasciar essere l’essere”
scrive il filosofo circa il concetto di libertà ne Lettere sull’umanismo.
Secondo la Arendt l’amore non consiste propriamente solo nei sentimenti verso l’ altro, ma prende una forma propria, che chiede qualcosa a entrambi gli amanti.
Se è fuori da ogni dubbio che Heidegger la amò, spingendola ad essere libera, resta tuttavia il fatto che rifiutò ostinatamente di cambiare per lei il corso della propria vita: non avrebbe mai lasciato il suo “punto fisso”, Elfride.
La concretizzazione del loro amore non avvenne mai. Avevano sì un mondo loro, ma era pur sempre circoscritto a qualche momento fuggitivo.
Hannah decise di chiudere la clandestina relazione, e lui, nonostante l’avesse ritenuta da sempre “molto più di una stella cadente”, non la trattenne, conservando però la speranza di riconquistarla.
In realtà tra i due ci fu sempre un collegamento, una sintonia che si riflette nelle numerose lettere che i due si spedirono anche dopo il primo matrimonio -poi fallito- della Arendt con G.Stern. Qualcosa cambiò nel 1933, quando Heidegger aderì al partito nazionalsocialista.
Nel frattempo la giovane Hannah si era trasferita a Parigi, dove sposò “il suo grande amore”, il filosofo tedesco H.Blucher, con il quale si imbarcò per gli Stati Uniti, lasciandosi alle spalle i ricordi del tormentato amore con quella “volpe” di Heidegger. Come un vero Don Giovanni, egli passa di donna in donna alla ricerca della Donna, vale a dire una “verità della Donna”, rifacendosi alle teorie filosofiche di Proust e Sartre:
Alla ricerca di questa verità, passa da graziose dottorande a giovani signore eleganti. Inoltre, si può notare che il suo Amore non si mostra affatto platonico, anzi l’amore si manifesta principalmente nell’effervescenza sessuale.
Non è dunque un caso che dedichi un libro su Platone alla sua “moglie-rifugio” Elfride, né che mandi alla Arendt alcuni versi dell’Antigone di Sofocle in cui il coro evoca il dio Eros.
Il 1950 è un anno di crisi per Hannah: se da una parte il secondo matrimonio sembra crollare a causa di un tradimento da parte del marito, dall’altra è un momento di riflessione feconda su un tema molto delicato, la fedeltà. Tra i due non c’erano più segreti, Blucher era al corrente delle lettere che mandava ancora al suo professore-amante, e addirittura la incoraggiava a riallacciare i rapporti.
Ma è nel suo Diario intellettuale che la filosofa trae le conclusioni dei vari episodi della sua vita.
Rispondere all’infedeltà - come è abitualmente intesa - con la gelosia equivale quindi a una perversione della fedeltà. L’infedeltà più grave e terribile che possa esistere, il peccato più grande è per la Arendt l’oblio, poiché spegne la Verità, la verità che è stata.
È per questo motivo che, pur con tutto l’orrore provato per l’adesione di Heidegger al partito nazista, decise di restare sempre in contatto, mentale e non, con lui. Un’affinità elettiva non priva di tormenti e sofferenze, incomprensioni e oscurità.
Più che di perdono, bisognerebbe parlare di una volontà di non rinnegare ciò che era stato “l’evento dell’amore”.
* A cura di bea - 30 Luglio 2014
Sul tema, nel sito, si cfr.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO". Il ’sonnambulismo’ di Hannah Arendt prima e di Emil Fackenheim dopo.
DANTE 2021: DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Chiesa Francia apre a riconoscimento figli sacerdoti
Le Monde, incontro segreto a febbraio, a giugno vedranno vescovi
di Redazione ANSA *
PARIGI. Apertura senza precedenti della Chiesa cattolica francese verso il riconoscimento dei figli di sacerdoti, secondo quanto annuncia oggi Le Monde. Stando a informazioni del quotidiano, alcuni figli di preti sono stati ricevuti per la prima volta da un responsabile ecclesiastico francese e a giugno testimonieranno davanti ad alcuni vescovi.
Tre figli di sacerdoti, membri dell’associazione francese Les Enfants du silence (in tutto una cinquantina di figli di preti) sono stati ricevuti per la prima volta - su loro domanda - da un responsabile ecclesiastico.
L’incontro, fin qui segreto, si è svolto il 4 febbraio a Parigi, nella sede della Conferenza episcopale di Francia (CEF). Per un’ora e mezzo, ad ascoltare la loro testimonianza, finora un tabù per la Chiesa, è stato il segretario generale, Olivier Ribadeau-Dumas. Una discussione "cordiale e costruttiva" secondo quanto spiegato dall’interessato, che ha ascoltato le "sofferenze" di questi uomini e donne abituati ad essere educati in una sorta di sentimento di vergogna e nel segreto, come "figli del peccato". Sempre secondo il quotidiano, gli esponenti di Les Enfants du Silence, "testimonieranno a giugno davanti ad alcuni vescovi".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Europa ed Evangelo. Una buona-scelta e una buona-notizia ...
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". -SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
Federico La Sala
L’amore.
Il Cantico dei Cantici: nuove versioni per l’Eccelso
Nuove versioni e commenti esplorano la complessità del prezioso libro biblico nel quale il legame erotico fornisce l’interpretazione dell’intera Scrittura
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, giovedì 14 febbraio 2019)
L’originale di partenza è lo stesso, le premesse da cui muovono i traduttori sono simili, eppure le versioni non sono affatto sovrapponibili. Non è detto che sia un male, anzi: è una conferma della vitalità di un testo che, come sempre accade in poesia, non smette di sollecitare l’interpretazione. Perché non è poesia solamente, del resto, ma parola dell’uomo (e più ancora della donna, in questo caso) che riverbera nella Parola di Dio.
«Ponimi come sigillo sul tuo cuore / Unico // Sì, come Morte è forte Amore // Il desiderio divora come Ade / Come fuoco arde / Come fiamma divina», scandiscono Elisabetta D’Ambrosio e Sergio Gandini nella loro versione del Cantico dei Cantici proposta da Lemma Press con il suggestivo sottotitolo di Canto eccelso (pagine 336, euro 17,50) «Poni me come marchio su cuore tuo, come marchio su braccio tuo - che violento come la morte amore, aspra come Sheol gelosia: peste sua, febbre di fuoco - fiamma di Yah», fa eco Andrea Ponso nella sua traduzione del Cantico dei Cantici, edita dal Saggiatore con una prefazione del filosofo del linguaggio Marcello La Matina (pagine 328, euro 24,00).
Il verso che abbiamo preso a campione è il sesto dell’ottavo capitolo, tradizionalmente considerato come una sintesi del Cantico, il quale è a sua volta indicato come il cuore dell’intera Scrittura da una lunga consuetudine esegetica di cui entrambe le nuove edizioni danno conto, ciascuna a suo modo.
Poeta e biblista, Ponso accompagna la propria versione - modellata, come si è intuito, su un’aderenza quasi rituale alla «radicalità della lingua ebraica» - con una ricapitolazione degli insegnamenti della tradizione cristiana greca. È una linea sostanzialmente monastica, che dall’indagine sulle passioni condotta da Evagrio Pontico arriva fino alle opere di Gregorio di Nissa, l’unico tra gli autori analizzati da Ponso che si occupi esplicitamente del Cantico.
A interessare è anzitutto la «complessità immersiva» nella quale ogni essere umano è coinvolto nel momento in cui si incammina in un percorso spirituale. Molto significativo, in questo senso, lo spazio accordato a Giovanni Climaco, la cui Scala è interpretata come un graduale avvicinamento alla sostanza più intima della realtà. Il linguaggio è lo stesso del Cantico, dunque, ma Ponso si spinge ancora più in là, postulando un’identità sotterranea tra l’operazione del tradurre e il legame erotico celebrato dal testo biblico. La cifra è sempre quella dell’alleanza: «una relazione singolare e plurale ad un tempo, unica e comunitaria, con l’alterità». La «progressiva unificazione del molteplice», insiste Ponso, non va «contro il molteplice».
Da evitare a ogni costo è la frattura dualistica (tra anima e corpo, tra sacro e profano e via elencando) denunciata a più riprese dagli stessi D’Ambrosio e Gandini, che nella loro versione prediligono una «rarefazione» verbale ispirata alla lezione di Paul Celan. Sposati tra di loro, leggono e interpretano il Cantico anche alla luce della propria esperienza di coppia, analogamente a quanto fanno la pastora battista Lidia Maggi e il biblista Angelo Reginato, di nuovo moglie e marito, in Corpi di desiderio (Claudiana, pagine 102, euro 11,90), breve collezione di «dialoghi attorno al Cantico dei Cantici» che, pur basandosi su traduzioni precedenti, finisce per elaborare una sorta di emulazione degli scambi tra la Sulamita e il suo amato.
Ecco, per intenderci, un esempio di questo canto dopo il Cantico: «Chi sei, Dio? / Tu sei misterioso, come una ragazza che nasconde il suo volto dietro al velo. / Carezze di amanti e baci appassionati. / Chi sei, Dio?». Certo, non è la prima volta questo libro brevissimo e prezioso viene commentato da una coppia di coniugi. Sia nel caso di Maggi e Reginato, sia in quello di D’Ambrosio e Gandini, prevale però un atteggiamento di forte coinvolgimento esperienziale, che fa passare in secondo piano le implicazioni pastorali. Corpi di desiderio è, essenzialmente, una meditazione biblica, in virtù della quale il Cantico offre «la chiave di lettura di tutta la Scrittura, rivelando che il segreto di quella storia, che si muove tra promessa e compimento, sta nel desiderio dell’incontro».
L’elemento concreto, carnale, non riveste minore importanza nel vasto apparato che integra la rivisitazione del Canto eccelso, dove D’Ambrosio e Gandini seguono un criterio più eclettico, intrecciando la Bibbia con il portato di altre tradizioni spirituali, in particolare quella induista, in un reticolo spesso suggestivo di analogie e rimandi. Anche per loro, come per Ponso, il Cantico dei Cantici non si risolve in una partitura drammatica, ma è un susseguirsi di voci e di suoni (illuminante la sottolineatura del ruolo assegnato alle esclamazioni), che si sottrae alla rigidità degli schemi e trova il suo naturale sviluppo nella dimensione mistica. «L’ultima parola del Cantico - osservano D’Ambrosio e Gandini - è un invito alla fuga. E forse dobbiamo fuggire dallo stesso Cantico, dall’inganno celato nel testo, in quanto testo».
Nel poemetto, peraltro, Dio non è mai espressamente invocato, se non attraverso la «sillaba discreta» (così la definiscono Maggi e Reginato) del versetto citato all’inizio. Ponso decide di lasciarla così com’è, Yah, «come per un eccesso di tatto e di libertà donata». D’Ambrosio e Gandini, invece, arrischiano l’aggettivo «divina», ben sapendo che con il Cantico si tratta sempre di «camminare sul filo di un rasoio». Ma in amore, si sa, è sempre così.
Il segreto di Saba
di Roberto Mussapi (Avvenire, martedì 22 gennaio 2019)
«Non c’è uomo né donna sotto i cieli/ che possa osare competere/ in conoscenza e sapere con noi due,/ e noi per tutto il giorno abbiamo trovato/ che niente al mondo può fare del mondo/ uno stretto recinto, se non l’amore».
Versi di uno dei massimi poeti, William Butler Yeats. Il lettore ora conosca il titolo della poesia, Salomone a Saba, e i primi due versi: «Salomone cantò a Saba,/ baciandole il volto bruno»: il poeta immagina l’incontro tra il re più sapiente degli Ebrei e la maga, la donna regina di Saba depositaria del sapere antico, magico.
Le parole di Salomone sono quelle di Yeats che intuisce la fusione di magia e sapienza, le introduce con due versi: «Salomone cantò a Saba,/ baciandole gli occhi da araba». Salomone ha trovato la comprensione definitiva dell’essere umano, solo dopo avere baciato gli occhi d’araba di Saba: scopre che l’essenza della vita è fusione tra sapienza (che non è erudizione) e magia (che è senso creaturale, non occultismo): sapienza e magia si baciano e abbracciano, per trovare il segreto e l’ origine di tutto: l’amore. Che crea un impercettibile ai sensi ma reale recinto: senza amore tutto si disperde, anche le parole e i sospiri di chi ama. L’amore crea recinto, confine libero, spazio ordinato e definito, armonia.
Da rifugiata a regista
“Shakespeare già sapeva quanto dolore c’è nel mare”
Vanessa Redgrave, scappata da Londra a 3 anni, presenta il suo doc
Sul set del doc che sarà presentato al Festival del giornalismo di Perugia il 14 - Ansa
di Anna Maria Pasetti (Il Fatto, 11.04.2018)
“Ci caricarono in fretta su una barca, ci trasportarono per qualche lega in alto mare e qui ci lasciarono a gridare al mare che ci ruggiva contro”. Non è cronaca di drammatica attualità ma è Shakespeare. Che già aveva le parole giuste per descrivere una condizione disumana, quella di profughi e rifugiati, gli eterni e disperati reietti dalla società di allora come di oggi. E come la Miranda de La tempesta scacciata col padre Prospero dal Ducato di Milano, Vanessa Redgrave aveva tre anni quando si ritrovò “rifugiata in patria” a causa della Seconda guerra mondiale. La memoria personale, l’esperienza d’interprete shakespeariana (tuttora in scena, a 81 anni) e la difesa dei diritti umani hanno trovato sintesi nel documentario Sea Sorrow - Il dolore del mare, opera prima da regista della grande attrice londinese.
Non viene neppure in mente di rievocare con lei quel passato glorioso, pur così italiano con Antonioni a dirigerla in Blow Up nel 1966, che comunque ricorda con affetto.
Oggi dame Vanessa è su altri “lidi”, quelli emergenziali dei bambini rifugiati, memore dei suoi traumi infantili da “dislocata” per fuggire dai bombardamenti su Londra nel 1940. Ma chi la immagini attivista di primo pelo si sbaglia: -“Prima di tutto non sono un’attivista ma una testimone” sottolinea in un buon italiano, e poi è sufficiente vederla negli anni ’50 in filmati d’archivio quale volontaria per i profughi ungheresi catapultati in Gran Bretagna. Se questa è la sua prima regia, Redgrave già da anni produce col figlio Carlo Nero (avuto dall’attuale marito Franco) documentari a sfondo umanitario, non a caso da un trentennio è ambasciatrice dell’Unicef e ha avuto per questo film il patrocinio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) che la tiene in grande considerazione e infatti sarà la portavoce per il Sud Europa Carlotta Sami a introdurla sabato sera a Perugia al Festival del Giornalismo dove presenterà Sea Sorrow; il doc uscirà nelle sale il 20 giugno in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato.
“Chi si rifiuta di accogliere e soccorrere questi derelitti trasgredisce la legge, niente di più evidente” chiosa l’attrice. “Perché sia la Convenzione europea dei Diritti umani del 1950 che la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989 sono legislazioni obbligatorie e vincolanti per tutte le nazioni, a meno che una non chieda una revoca ufficiale. Quindi chi non le osserva è contro legge”.
Eppure la situazione sta precipitando e Redgrave non se ne capacita, e attribuisce alla politica “un atteggiamento criminale. Certo, non tutti i Paesi si comportano allo stesso modo verso questi disperati, ma sempre più nazioni europee sono indifferenti se non egoiste”.
Colpa delle nuove destre? “Semmai delle vecchie sinistre che non hanno fatto né stanno facendo nulla di veramente sociale, di democratico, di umanitario. Io oggi conto più sulla coscienza individuale che non quella politica, perché ho incontrato eserciti di volontari e anime generose verso la causa”.
Per l’attrice pluripremiata serve partire dai più piccoli: “Educarli a scuola, farli incontrare con i loro coetanei rifugiati, non privarli della realtà per quanto dura possa essere”.
E per gli adulti incollati al web farli tornare al Bardo, proprio come lei, che ha persino desunto da La tempesta il titolo Sea Sorrow.
Sono queste alcune delle parole attribuite a Shakespeare dal manoscritto del dramma teatrale Sir Thomas More sul finire del XVII secolo.
Vanessa Redgrave le commenta commossa: “Shakespeare sentiva la verità in maniera profonda, e sapeva comunicarla. E io provo a farlo attraverso di lui. Lui ci dà il coraggio e la capacità di una comprensione migliore, ecco perché parla da sempre a gente di ogni paese. Un’anima di grandezza illimitata, eterna”.
Heiner Müller, anatomia della differenza
di Massimo Palma *
Come si ferma la patologia della vendetta, come si esce da un’epidemia della mutilazione in cui tutti tagliano arti, recidono organi e versano lacrime assieme col sangue? Sembra chiedere questo Heiner Müller, quando nel 1984-85 - la perestrojka non è ancora all’orizzonte, la DDR itera annoiata la sua “tolleranza repressiva” in materia culturale - affronta il primo Shakespeare, che dal vortice grandguignolesco del teatro elisabettiano estrae una trama illeggibile, il Tito Andronico.
Protagonista finto di una storia vera - il declino di Roma, la progressiva commistione Romani-barbari, la contaminazione della romanitas in una koinè cupa e “incivile” -, Tito Andronico è il generale che ha sconfitto i Goti, portandosi in trionfo la regina per poi concederla al nuovo imperatore Saturnino. Questo non prima di averne squartato il figlio - come atto sacrificale, atto di pietas -, scatenando una sequela di vendette mutuata da Seneca e da Ovidio che attraverso frodi, stupri, mutilazioni inferte, richieste ed esaudite, porterà fino al pasto cannibalico, dove l’eroe eponimo s’improvvisa cuoco di pietanze umane per genitrice ignara.
Come sempre in Müller, la lezione del maestro Brecht è mandata a memoria e insieme modificata: i classici vengono rivisitati per consegnarli al presente, vengono tradotti, stravolti e integrati per farli rimare col proprio tempo. E se Shakespeare parla sempre anche della nostra barbarie, in Anatomia Tito - anatomia che fa il protagonista del corpo proprio e altrui, anatomia che fa Müller del testo altrui e proprio, perché «si assimila solo disintegrando dentro di sé l’oggetto della conoscenza», ammonisce il curatore Francesco Fiorentino nell’essenziale introduzione che restituisce alcune linee guida per addentrarsi nel labirinto mülleriano - si arriva al grado estremo di sopportabilità, un grado zero dell’umano che lascia trasudare, nella sua eco pulp, persino inattesi scatti comici.
Un testo autenticamente mostruoso già in Shakespeare, quindi, che Müller traduce, chiosa e dota di commenti d’inaudita profondità, riportati in maiuscoletto, che affondano nella trama per toglierle orpelli e aggiungere carne e materia, o prendono una distanza politica, letteraria, storica, dislocandone i temi nell’oggi o nell’altrove minerale o animale. E lettera e commento, in questa preziosa edizione italiana, appaiono illuminate da un ulteriore elemento d’eco e di rimando: immagini romane di oggi, foto scattate da Alejandro Gomez Tuddo, che risuonano superbamente nell’iconografia altrimenti solo immaginata del Tito.
Il metodo, nella follia dell’oggetto, è scritto nel titolo e nel verso finale - l’anatomia, lo smembramento, è il fondamento dell’analisi: «se gli strappate la pelle di dosso, lo conoscerete». Dissezionare il Tito Andronico per comprendere Shakespeare e insieme la caduta di Roma, l’osmosi barbari-romani e insieme la proiezione culturale verso il problema dell’altro che preme alle frontiere: ovvero, il problema del prossimo secolo, amava ripetere Müller citando Pasolini, sarà l’entrata del Terzo Mondo nel Primo.
Il grande protagonista del testo è quindi quello più inatteso. Oltre la spietata Tamora, oltre Tito, oltre Lavinia - “scultura” di donna dopo la violenza subita da quei “barbari” che però imitano la letteratura romana (“non è mai un documento di cultura senza essere un documento di barbarie”, il monito brechtiano-benjaminiano alla base di molte riflessioni a cuore aperto del commento) -, l’eroe è l’indemoniato Aronne, il villain che ha appreso l’alfabeto di Roma ed è male assoluto, teorico e pratico del supplizio inflitto agli altri e allo spettatore. E soprattutto Aronne, insieme Satana in terra e nero dal nome ebraico, nella lettura di Müller è anche il “regista di se stesso”, il Negro - contro ogni politicamente corretto - che vomita verità accanto alle atrocità. Il Terzo mondo che arriva nel Primo per minarne ogni finzione di convivenza, per velargli l’inimicizia come fondamento del politico (“il resto è politica”, asserisce Aronne canzonando l’Amleto), radicalizza il suo ciclo di lutti, ne rivela la legge, la costante: ecco “il plot del nostro dramma luttuoso / Il filo rosso è il sangue dei nemici”.
Non più tragedia, ma mero Trauerspiel affogato nell’immanenza, lo scenario di Tito è la fine di ogni altezza, di ogni trascendenza del giusto e del divino, è il cielo che si abbassa e piove sangue (“nevica monumenti”, sostiene Tito in una sinestesia totalizzante). In questo cielo basso, nell’atmosfera soffocante di una Roma in rovina e senza tempo, dove appaiono supermercati, televisioni e campi di calcio, si affollano sciami di mosche, che da elementi di paesaggio divengono protagoniste e simboli dell’itinerario di Tito nella vendetta.
Ma domina dunque solo la legge del taglione in questo recital della colpa ripetuta? Regna dunque solo la letteralità scabra dell’ occhio per occhio? Dov’è l’altro, rispetto a quel Carl Schmitt che Müller legge, compulsa e fruga - lui, famelico lettore di Sofocle e di Deleuze, ossessionato dal problema-Dostoevskij del male (assoluto, radicale, innocente)?
La risposta non è certo in Shakespeare, specchio in cui rimirare la nostra barbarie perché la mostra in ogni civiltà, ma forse in quel mirabile “excursus sul Negro”, testo scritto non da Müller ma da un “malato di mente ufficiale”. L’excursus viene inserito nel cuore dell’esercizio anatomico di Tito, mentre il vecchio generale accecato dall’odio squarta e scioglie il nemico. Il matto, giocando sull’omofonia tedesca tra negro e roditore, arriva a svelare la “talpa”, altro animale shakespeariano e di qui marxiano, come metafora del Terzo Mondo - che finora è “sempre stato sotto la nostra terra”, protagonista di un “mondo negro che albeggia”.
Mentre i primi due mondi stavano finendo di guardarsi come ostili, Müller scopriva, al di là del nemico a est e a ovest, l’incredibile pressione anche culturale di chi finora non ha visto e non sa, perché “vive e muore là sotto”. Mentre ancora Honecker si diceva sicuro che il Muro sarebbe durato cent’anni, in Anatomia Tito la questione migratoria albeggiava come continuazione di quella “differenza”-Shakespeare, di cui parla la densa “conferenza” che chiude il libro. “Il terrore che proviene dalle immagini riflesse di Shakespeare è l’eterno ritorno dell’identico”, spiega Müller a se stesso e a noi. La barbarie di ogni civiltà è lo sfruttamento. Ma Aronne che ne gode, che gode del suo raccontare il male inferto, è, problematicamente, la mosca di un’intera cultura che ronza per portare altrove. Verso quell’utopia cui l’arte allude - anche quando guarda all’inimicizia assoluta e sembra affondarvi.
Risposte a Heiner Müller, anatomia della differenza *
TEATRO E CINEMA. “Anatomia Titus Fall of Rome “, “Il Gladiatore” ...
== “QUINTO: Un popolo dovrebbe capire quando è sconfitto. MASSIMO: TU lo capiresti Quinto? IO LO CAPIREI?”* ==
IL GLADIATORE (Ridley Scott, 2000) è un film-saggio da rivedere-rileggere! Per una riflessione sulla caduta dell’impero romano-americano-occidentale, è da mettere in corrispondenza e in parallelo con il lavoro di Muller, “Anatomia Titus. Fall of Rome” - e con questa ipotesi di ‘lettura’ di Palma-Fiorentino (e la storica fondamentale riflessione di Gramsci, su “Romolo Augustolo” e sul “rinato Sacro Romano Impero”, cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5154)
MASSIMO HA CAPITO: SA GIA’ CHE I “BARBARI” COMBATTERANNO (PER LA LORO LIBERTA’ E PER LA LORO DIGNITA’) E STANNO APETTANDO LA LORO RISPOSTA.
MA QUINTO NO! Quinto non risponde (cfr: https://www.youtube.com/watch?v=yeZhxEJ-fkk): non capisce (e siamo all’Inizio del film, l’attimo prima di sapere se ci sarà o meno lo scontro tra romani e “barbari”), che cosa voleva dire Massimo: lo capisce solo alla fine (quando Commodo - nel duello con Massimo - chiede a Quinto un’altra spada, ma la sua richiesta viene rifiutata, sia da Quinto che dai pretoriani (“rinfoderate le spade”, cfr.: https://www.youtube.com/watch?v=vznl3uX0DaU da lui comandati).
CHI COMPRENDE IL DISCORSO DI MASSIMO è un Africano, Juba. Alla fine del film, dopo la morte di Massimo, è proprio Juba (l’amico gladiatore, il cacciatore numida, memore della sua libertà e della sua dignità), la notte seguente, che fa ritorno nell’arena vuota, lo ricorda (“Adesso siamo liberi ... Io ti rincontrrò un giorno. Ma non ancora, non ancora”, cfr.: https://www.youtube.com/watch?v=r-XgMTevoQ0), seppellisce le statuine della moglie e del figlio di Massimo, nella sabbia dell’arena, e si avvia verso l’uscita (ultima scena del film).
Heiner Müller, anatomia della differenza: “La risposta non è certo in Shakespeare, specchio in cui rimirare la nostra barbarie perché la mostra in ogni civiltà, ma forse in quel mirabile “excursus sul Negro”, testo scritto non da Müller ma da un “malato di mente ufficiale”. L’excursus viene inserito nel cuore dell’esercizio anatomico di Tito, mentre il vecchio generale accecato dall’odio squarta e scioglie il nemico. Il matto, giocando sull’omofonia tedesca tra negro e roditore, arriva a svelare la “talpa”, altro animale shakespeariano e di qui marxiano, come metafora del Terzo Mondo - che finora è “sempre stato sotto la nostra terra”, protagonista di un “mondo negro che albeggia”.”(M. Palma)
P. S.
***L’Europa non è l’unico luogo dove sia esistito l’illuminislmo(Amartya Sen)***
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di “una seconda rivoluzione copernicana” (CFR.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2962)
Federico La Sala
*
Addio a Alessandro Serpieri, voce italiana di Shakespeare
Tra i più autorevoli anglisti, insegnava all’Università di Firenze, dov’era professore emerito. Molti i premi per le sue traduzioni di Shakespeare, Eliot, Conrad *
Nato a Molfetta nel 1935, nel 1963 è diventato assistente ordinario di Lingua e Letteratura inglese presso l’Università di Bologna, poi assistemte incaricato. Nel 1971 l’approdo all’ateneo fiorentino come professore ordinario, qui è stato poi nominato professore emerito. Dal 1979 al 1983 è stato presidente dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici, dal 1991 al 1993 ha presieduti l’Associazione Italiana di Anglistica. Si è occupato prevalentemente di opere teatrali e poesia in lingua inglese, traducendo e curando opere di Shakespeare, Eliot e Conrad.
Del 1977 il romanzo Mostri agli alisei, del 1988 il testo teatrale Dracula. Nel 1992 la vittoria del Premio Mondello per la traduzione dei Sonetti di William Shakespeare; gli sono stati assegnati anche il Monselice per la traduzione de Il primo Amleto di Shakespeare e, nel 2009, il Grinzane Cavour.
Il Nobel all’Accademia: grazie per aver dato voi una risposta meravigliosa
di Serena Danna (Corriere della Sera, 11.12.2016)
E alla fine Bob Dylan parlò. Dopo mesi di illazioni, giudizi, scontri sul conferimento del premio Nobel per la Letteratura al cantautore americano, Dylan si riappropria del palcoscenico dell’Accademia svedese. Doveva essere il grande assente della cerimonia di premiazione, rappresentato dall’amica di sempre Patti Smith che, emozionatissima, ha cantato A Hard Rain’s A-Gonna Fall.
E invece, dopo le lacrime e le medaglie, Dylan ricompare attraverso un testo - letto durante il banchetto dall’ambasciatrice americana in Svezia Azita Raji - in cui finalmente restituisce la sua versione, a partire dai ringraziamenti: «Essere premiato con il Nobel per la Letteratura è una cosa che non avrei mai immagino nella mia vita», scrive. Anche perché, fin da piccolo, si è confrontato con i «giganti della letteratura» - cita Rudyard Kipling, George Bernard Shaw, Thomas Mann, Pearl Buck, Albert Camus ed Ernest Hemingway -, dunque essere tra loro «è qualcosa che va davvero oltre le parole».
È un discorso pieno di empatia verso i maestri: «Io non so se questi uomini e donne abbiano davvero mai pensato di poter essere onorati con il Nobel un giorno, tuttavia credo che chiunque scriva un libro, una poesia o un’opera teatrale, ovunque nel mondo, custodisca dentro di sé quel segreto, probabilmente così sotterrato da non sapere neanche se c’è davvero».
Dylan - classe 1941 - dichiara di aver paragonata l’eventualità di vittoria del Nobel a quelle di andare sulla Luna: «Nell’anno in cui sono nato e in quelli successivi non c’era praticamente nessuno nel mondo considerato bravo abbastanza da vincere un Nobel. Così riconosco di essere davvero in una compagnia scarna».
Il paragone con gli astronauti non è l’unico del discorso di Dylan e, probabilmente, neanche il più visionario, visto che per spiegare la sua reazione al premio (e quello che rappresenta) ricorre a William Shakespeare. Tutto è cominciato il giorno dell’annuncio: dopo la notizia - «ci ho messo qualche minuto per realizzare quello che era successo» - l’artista ha iniziato a pensare al grande autore inglese: «Suppongo che lui si considerasse un drammaturgo. Probabilmente il pensiero che con il suo lavoro stesse producendo letteratura non l’ha neanche mai sfiorato. Le sue parole erano scritte per il palcoscenico. Per essere recitate, non lette. Mentre scriveva l’ Amleto sono sicuro che pensava a tantissime cose diverse.“Chi è l’attore giusto per questo ruolo?”, “Come andrò in scena?” “Voglio davvero ambientarlo in Danimarca?”». Non solo. Di sicuro - ipotizza Dylan - c’erano anche questioni molto meno nobili: «Ci sono abbastanza posti a sedere per i miei finanziatori? Come posso recuperare un teschio umano?».
In definitiva, scommette il cantautore, «la cosa più lontana dalle mente di Shakespeare era domandarsi se stesse facendo letteratura». Lo sa perché, in fondo, si rispecchia in lui: «Come Shakespeare, anche io sono spesso occupato nel perseguimento delle mie imprese creative e alle prese con gli aspetti pratici: “Quali sono i musicisti migliori per questa canzone?”,“Sto registrando nello studio giusto?”, “La tonalità è corretta? Queste cose non cambiano mai, neanche in 400 anni. Mai ho avuto il tempo di chiedermi “le mie canzoni sono letteratura?”».
Il cantautore - che ringrazia l’Accademia per aver preso in considerazione seriamente quella domanda e «fornito una meravigliosa risposta» - ricorda le sue aspirazioni da adolescente: «Pensavo che magari un giorno le mie canzoni sarebbero passate nei caffè o nei bar, e più avanti magari in luoghi come il Carnegie Hall o il London Palladium». E continua: «Se poi mi fossi messo a sognare in grande, allora forse avrei immaginato di registrarle e quindi di ascoltarle alla radio. Quello era il grande premio nella mia testa».
Al di là dei sogni, quello che resta cruciale nel Dylan-pensiero sono le canzoni, «il centro vitale di ogni cosa che faccio: sembrano aver trovato un posto nella vita di molte persone attraverso differenti culture e ne sono grato».
Dylan chiude con una confessione: «Come performer, ho suonato per 50 mila persone e per 50 e posso dirvi che è più difficile suonare per 50. 50 mila persone formano un’entità unica, ma non 50. Ogni persona ha un’identità separata, individuale, un mondo dentro di sé. Possono percepire le cose più chiaramente: la tua onestà e come si relazione alla profondità del tuo talento. Il fatto che il Comitato del Nobel sia così piccolo mi fa un certo effetto».
Dal canto suo, il Comitato ha ribadito, attraverso l’accademico Horace Engdahl, la convinzione nella scelta di Dylan, spazzando via qualsiasi dubbio: «Aver riconosciuto la rivoluzione attribuendo a Dylan il Nobel - ha detto Engdahl - sembrava al momento audace: ora sembra già ovvio». Perché, quando lui è arrivato «all’improvviso tutta la poesia del mondo è sembrata anemica, mentre le parole delle canzoni che i suoi colleghi continuavano a scrivere sembravano come la vecchia polvere da sparo dopo l’invenzione della dinamite».
A parte il presidente colombiano Manuel Santos, Nobel per la Pace, che ha definito l’onoreficenza «un regalo caduto dal cielo» , restano sullo sfondo gli altri premiati: il biologo Yoshinori Ohsumi; i fisici David Thouless, Duncan Haldane e Michael Kosterlitz; i chimici Jean-Pierre Sauvage, Sir J. Fraser Stoddart e Bernard L. Feringa; gli economisti Oliver Hart e Bengt Holmström. Orgogliosi e discreti nei loro tight scuri con camicia bianca, come richiesto dal dress code , rigidissimo, hanno pronunciato la «Nobel Lecture», il discorso di accettazione, e sono tornati al posto con la medaglia. Ieri sera la scena era tutta per il menestrello assente.
Il Cantico dei cantici
La verità sull’amore nascosta nel più erotico dei libri
Il testo biblico che descrive il desiderio resta un codice segreto. Come dimostrano gli ultimi studi
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 06.12.2016)
Di cosa parliamo quando parliamo del Cantico? Questa domanda non può avere risposta. «Il cantico è un enigma», scriveva Agostino (“Sermo” 46, 35). È un mistero nel senso tecnico della parola. L’iniziato non parlerà perché non potrà farlo (“mysterion” da “myein”, «tenere le labbra serrate»). Il profano parlerà, ma non saprà di che parla. «Perché chi sa non parla e chi parla non sa», secondo il detto di Lao Tse.
Ma alla fine del I secolo, quando si formò il canone della bibbia giudaica, il sapiente Rabbi Aqiba disse: «Il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico dei cantici è stato donato a Israele, perché tutte le Scritture sono sante, ma il Cantico dei cantici è il Santo dei santi». Già allora che cosa fosse il Cantico non lo si sapeva né voleva dire: la sua santità era direttamente proporzionale al suo mistero; anzi, era proprio la profondità abissale dei suoi enigmi a sprigionare quel vertice di santità.
«Petali di loto le labbra del mio amato /colano mirra. Il suo inguine è avorio / tempestato di zaffiri. / Favi colanti le tue labbra mia sposa / miele e latte sotto la tua lingua / come incenso del Libano / l’aroma del tuo grembo / giardino chiuso fonte sigillata. / Entri il mio amato nel suo giardino / succhi il suo frutto prodigioso. / Nel mio giardino entravo / mia sorella mia sposa / e la mirra e ogni essenza rapivo / e succhiavo il miele dal favo».
Poemetto di età post-esilica, forse patchwork di canti attinti al patrimonio della tradizione assiro-babilonese ed egizia oltre che ebraica, con echi greco- ellenistici nello stile di Teocrito, il Cantico è indubitabilmente un testo erotico, quasi pornografico.
Nella traduzione latina di Girolamo: Dilectus meus misit manum suam per foramen / et ventrem meus intremuit ad tactum eius. «Il mio amato infila la mano nel mio grembo/ le mie viscere fremono per lui. / Per aprirgli mi alzo /le mie mani colano mirra /dalle dita la mirra fluisce / sul chiavistello che impugno». Secondo la tradizione rabbinica, alcuni brani del Cantico venivano cantati nelle taverne. Si sdegnava Rabbi Aqiba: «Chi canta il Cantico nelle taverne o lo tratta come una canzone profana non avrà posto nel mondo futuro».
Levitò presto l’esegesi anagogica midrashica, gelosamente sacra, del Cantico come celebrazione dell’alleanza sponsale tra JH-WH e Israele, protratta poi nell’interpretazione cristiana che per secoli e secoli vi lesse la figura dell’amore di Cristo per la chiesa, non senza lasciare spazio a una congerie di altri sistemi allegorici minori, spesso iniziatici - astrologici, cabalistici, filosofico- sapienziali -, nella letteratura medievale, rinascimentale e moderna. Sulle ali della metafora della sposa-chiesa i versetti del Cantico si disseminarono nella fonosfera della liturgia, della musica, della letteratura, tramandole come mantra sempre meno dischiusi al senso. Più la torsione simbolica della teologia occidentale sottraeva loro il significato naturale - da Ambrogio a Gregorio Magno, da Guglielmo di Saint-Thierry a Bernardo di Clairvaux, da Francesco di Sales a Bossuet - più le sillabe e le immagini spandevano il loro mistero elementare.
Nigra sum sed formosa.
Da Monteverdi a Giovanni della Croce, da Maupassant a Moreau duemila anni di omissioni hanno addensato connessioni così colossali nel Cantico da renderlo simile all’Aleph di Borges: un punto dello spazio letterario che contiene una pluralità infinita di altri punti. Già il Talmud ammoniva, comunque, a non sottovalutare la letteralità che nessun testo biblico deve mai perdere. I letteralisti o naturalisti sono sempre, a ragione, esistiti: bizantini come Teodoro di Mopsuestia o giudaici come Ibn Ezra. Un grande saggio protestante del Cinquecento, Sébastien Castellion, propose di eliminare il Cantico dal canone dei testi ispirati, in polemica con Calvino; lo seguì Herder. Il Novecento ha visto anche esegeti ecclesiastici cattolici, da Dietrich Bonhoeffer a Luis Alonso Schökel, assaliti dal dubbio: se dietro i versetti del Cantico non ci fosse nulla?
Bisogna intendersi. Il Cantico è nulla. È un prisma trasparente nella cui luce si riflette, moltiplica e illumina qualunque esperienza reale o spirituale, intellettuale o dottrinale vi si accosti. Inoltre, dietro al Cantico c’è il nulla. «In verità, il vuoto del Cantico è lì per confermarne la sacralità. Il Cantico è un pezzo di vuoto sacrale. Dico che è vuoto per non negargli niente», ha scritto Guido Ceronetti.
Almeno quanto l’Ecclesiaste evoca il vuoto e almeno quanto Giobbe il dolore, il Cantico evoca la dolorosa inattingibilità dell’amore. «L’uomo non può capire il Cantico se non ha mai amato», ha scritto Bernardo. Anima mea liquefacta est. Quaesivi, et non inveni illum. Vocavi, et non respondit mihi. «La mia anima si disfa. / Lo cerco e non lo trovo / lo chiamo e non risponde».
Ha scritto Jung: «Mi sono ripetutamente trovato di fronte al mistero dell’amore, e non sono mai stato capace di spiegare cosa sia. Qui si trovano il massimo e il minimo, il più remoto e il più vicino, il più alto e il più basso, e non si può mai parlare dell’uno senza considerare l’altro. Non c’è linguaggio adatto a questo paradosso. Qualunque cosa si possa dire, nessuna parola potrà mai esprimere tutto».
Nessuna parola può esprimere tutto, ma il Cantico, illusionisticamente, lo fa. Se la natura del desiderio è indicibile, il Cantico la dispiega in enigmi. «Mettimi come un sigillo sul tuo cuore / come un tatuaggio sul tuo braccio / perché forte come la morte è l’amore / duro come l’Ade il desiderio ». L’amore è più forte della morte: cosa vuol dire? che l’amore può vincere la morte? che il piacere è una piccola morte? che l’eros è la morte dell’io e ci fa uscire dai suoi confini portando all’insania, come già segnalato da Lucrezio?
«L’eros lo conosciamo solo nella distanza del fallimento. Prima del fallimento non si dà conoscenza », ha scritto Christos Yannaras, massimo esperto contemporaneo del Cantico (alcune delle sue pagine in AA.VV., Il più bel canto d’amore. Letture e riscritture del Cantico dei cantici, Qiqajon, Comunità di Bose, pagg. 231, euro 20, che del Cantico contiene anche la migliore traduzione italiana, di Enzo Bianchi). «Dopo il fallimento sappiamo che l’eros è il modo della vita, ma un modo inaccessibile alla natura umana. Il modo della vita lo palpiamo nella privazione, nel calco dell’assenza ».
La riflessione sull’eros del teologo ortodosso Yannaras conclude oggi il discorso sul Cantico aperto da un altro filosofo greco-orientale, Origene: nel III secolo, quando da poco quell’erma testuale bifronte che esaltava un amore fisico e carnale fino all’oscenità era entrata nel libro sacro a tre religioni e in queste aveva cominciato a porre, o trasporre, il suo enigma. Enfant prodige del platonismo alessandrino, a poco più di vent’anni Origene si era evirato. Aveva, narra Eusebio, troppo da fare coi libri, giorno e notte, e questa era per lui già «una passione e una ginnastica ». Nulla doveva distoglierlo dal comparare e commentare i testi della bibbia. Il suo fu il più grande esperimento di applicazione dell’esegesi allegorica neoplatonica al cristianesimo.
Nel Commento al Cantico, opera della sua maturità, uscito ora in traduzione italiana insieme alle magnifiche Omelie sul Cantico di un altro grande padre greco, Gregorio di Nissa (Origene, Gregorio di Nissa, Sul Cantico dei cantici, a c. di V. Limone e C. Moreschini, Bompiani, pagg. 1565, euro 50), raccolse l’eredità della ricerca platonica sull’essere e la sua contrapposizione fra anima e corpo, tra metafora e lettera, tra esoterismo e “annuncio”. Sottrasse al Cantico letteralità e fisicità per accenderne l’erotismo metaforico in un modo che nessuno aveva mai osato prima: utilizzandolo in senso psicologico. Col bisturi della filologia neutralizzò la carne degli sposi, per lasciare tutto lo spazio al loro puro spirito. Operò, in un certo senso, come aveva operato sul suo stesso corpo.
L’autoevirazione di Origene, che la tradizione antica riporta, fu reale o simbolica? Di fatto, in uno dei più fantasmagorici trompe l’oeil della letteratura universale, con Origene il Cantico perse per sempre il suo originario connotato realistico per diventare un’allegoria dell’eros mistico, di quell’amore sofferente che sta in ogni atto di ricerca o tentativo di creazione o impulso di unione.
La Sulamita che cerca lo sposo non è solo Israele, secondo l’interpretazione giudaica, e non è solo la chiesa, secondo la versione cristiana vulgata. È in primo luogo l’anima, che secondo la tradizione platonica cerca sempre, e non trova, la perfezione del Logos. Con il Commento al Cantico di Origene il cristianesimo orientale si è fin dall’inizio affiancato agli altri grandi saperi tradizionali nell’esprimere il quaesivi et non inveni, il “cerco e non trovo” che si applica a tutte le sfere dell’indagine, ma anzitutto a quella su noi stessi.
Shakespeare
«Odio e amicizia, non smette di parlare del nostro presente»
Anticipatore. Intreccio di alto e basso nel suo linguaggio. E con Amleto secoli prima di Freud scoprì la psicanalisi
di Laura Zangarini (Corriere della Sera, 14.11.2016)
Amleto? «È uno dei pochi personaggi letterari che vive anche al di fuori del teatro, il suo nome dice qualcosa persino a chi non ha mai visto né letto niente di Shakespeare». Ma vale anche per Shylock, l’ebreo del Mercante di Venezia , o per Otello , tragedia su cui ieri è calato il sipario al Teatro Elfo Puccini di Milano. Nei panni del Moro, Elio De Capitani - con Lisa Ferlazzo Natoli anche regista dello spettacolo -, che insieme a Ferdinando Bruni sarà tra i protagonisti della «Shakespeare Marathon» in programma al Teatro Valli di Reggio Emilia con Sogno di una notte di mezza estate (il 17 e 19 novembre) e A Midsummer’s Night Dream di Benjamin Britten (il 18 e il 20).
A quattrocento anni dalla morte, il Cigno di Avon non smette di parlare al nostro presente, con un linguaggio, spiega De Capitani, «articolato principalmente su due suoni, crudezza e poesia, in cui sangue e violenza, odio e rivalità sono mescolati a purezza e amore, passione e amicizia». Le opere del Bardo come specchio per capire il presente: «Che cos’è la grande saga dell’ Enrico IV se non un monumentale affresco del potere, dei suoi intrighi e dei suoi inganni, valido ieri come oggi? Mi piacerebbe poterlo portare in scena, ma le condizioni in cui versa oggi il teatro italiano non lo consentono... Una produzione con 68 uomini e 2 donne? Impensabile».
Il marcio non è solo in Danimarca. «Vedo avanzare prepotente una società maschile e patriarcale. Negli Usa ha trionfato Trump, uno che ha definito le donne che non gli piacevano “maiali grassi”, “sciattone” o “animali disgustosi”». Tra le tesi di analisi politica del voto americano, «mi ha colpito leggere che Hillary Clinton potrebbe aver perso per aver definito i sostenitori di Trump un “branco di miserabili”: ma ci rendiamo conto della violenza verbale, anche sulle minoranze etniche, a cui l’uomo che insediandosi alla Casa Bianca guiderà l’America, ha fatto ricorso? Abbiamo dimenticato la frase choc con cui, riferendosi a chi difende il diritto di avere in casa fucili o pistole, Trump ha invitato “il popolo del secondo emendamento” a fermare la Clinton?».
Che l’attore e regista stia dalla parte delle donne non è una novità. «Sono cresciuto in mezzo a loro, porto forte dentro di me un lato femminile». Allora perché Otello ? «In effetti sono contento di “svestirmi” del personaggio, sentivo il bisogno di “disintossicarmi”. È stata una fatica pazzesca uccidere Desdemona a ogni replica. Eppure, anche questa tragedia è uno specchio del nostro presente. Noi contiamo le donne che muoiono: ma quante sono quelle picchiate, abusate, ferite, maltrattate, umiliate che non finiscono nelle pagine di cronaca?»
Otello è anche una parabola che parla di scontro di civiltà, di razzismo e di emarginazione. «Vede come ancora una volta torna l’attualità del Bardo? Siamo tornati a costruire muri per separare l’altro, il diverso, le minoranze». Otello è anche «l’inquietante cronaca del malvagio condizionamento psichico di Iago, che spinge il Moro al delitto rendendolo pazzo di gelosia, “il mostro dagli occhi verdi». E ricorda: «Con Amleto Shakespeare si è avvicinato alla psicanalisi secoli prima di Freud...».
Alla domanda su cosa rende le opere del Bardo di Avon tanto intriganti ancora oggi, l’attore e regista risponde senza esitazione: «Il fascino di Shakespeare è che è ancora tutto da scoprire. Anche e soprattutto nel linguaggio - i “suoni” di cui ho già parlato, l’intreccio di alto e basso. Il padre di Giulietta definisce la figlia, innamorata dell’odiato Montecchi, “una sgualdrina stizzosa e ostinata” ma in quelle stesse pagine di Romeo e Giulietta troviamo anche frasi d’amore bellissime, di pura poesia. È con questo Shakespeare che riusciamo a portare a teatro anche i giovani».
Anatomisti dell’illusione
L’intuizione di Shakespeare e Cervantes
il vero saggio è il folle (senza peccato)
Il ReggioParmaFestival celebra il grande drammaturgo con cinque settimane di spettacoli. E coinvolge lo spagnolo, morto nello stesso giorno del poeta
Uno scrittore spiega perché entrambi hanno descritto la bellezza della verità laica
L’uomo crede di sapere quello che non sa, ma ha la chance di risvegliarsi prima della sua morte
di Emanuele Trevi (Corriere della Sera, 14.11.2016)
Sul significato preciso delle coincidenze bisogna sempre dubitare, non fosse altro perché tutto ciò che accade nel mondo è una immensa, interminabile, incomprensibile coincidenza. Non dovrebbe fare eccezione nemmeno il fatto che William Shakespeare e Miguel de Cervantes, come stremati da un’identica vita titanica, siano morti lo stesso giorno, il 23 aprile del 1616.
Con l’occasione dell’anniversario, la circostanza è stata ricordata e variamente interpretata. A voler essere pedanti, come giustamente qualcuno ha ricordato, il fatto nemmeno sussiste, perché in Spagna nel 1616 vigeva il calendario gregoriano, mentre in Inghilterra si seguiva ancora quello giuliano, così che in effetti l’autore del Don Chisciotte e quello dell’ Amleto morirono a più di dieci giorni di distanza. Ciò che resta strabiliante nel rapporto tra questi due uomini, al netto di tutte le coincidenze, è il loro assomigliarsi e il loro completarsi.
Di entrambi, ci è difficile farsi un’idea psicologica attendibile: la loro vita è troppo fitta di misteri, e se di qualcosa sappiamo, è come se avessero seminato degli indizi a bella posta per depistare ogni indagine futura. Ci costringono, insomma, a guardare sempre in direzione della loro opera. Nella storia della coscienza occidentale, Shakespeare e Cervantes hanno cambiato in maniera irreversibile la coscienza di ciò che è umano, nella sua estensione e nei suoi limiti.
Prima di loro, un passo avanti di questa portata lo aveva fatto solo Dante. Dante scopre i singoli individui, con il loro carattere e le loro vicende irripetibili, e li promuove alla poesia come mai nessuno aveva fatto. Shakespeare e Cervantes approfondiscono quest’eredità in una maniera davvero dirompente.
Prendono l’uomo di Dante, e lo sottraggono al suo obbligato percorso di salvezza o perdizione. Non è che si ribellino apertamente al cristianesimo. Ma ciò che a loro interessa davvero, nell’uomo, non è la sua propensione al peccato, che si può dare per scontata. Il problema ultimo dell’uomo sarà pure la sua salvezza, ma il problema immediato è che, unico fra tutte le creature dell’universo, egli vaneggia, smarrisce in mille modi il suo legame con la verità, crede di sapere quello che non sa.
Tutto questo si può rappresentare in maniera tragica o comica, perché il tragico e il comico non sono che due maniere parziali di avvicinarsi al mistero dell’uomo: l’animale che esce di senno. Ma questo uscire di senno, questa percezione alterata della realtà, non corrispondono forse, nel senso più pieno, all’avventura dell’uomo nel mondo? Non sono forse il motore di ogni azione romanzesca e di ogni drammaturgia, intese come immagini credibili della vita e dell’ingovernabile varietà dei suoi casi? Non è da pensare, d’altra parte, che Cervantes e Shakespeare, anatomisti infallibili dell’illusione umana, avessero perso il rispetto dovuto alla realtà e ai suoi obblighi.
Con una simmetria che non smette di stupirci, entrambi ci hanno lasciato un vero testamento in materia di saggezza. Perché la loro opera contiene anche questo: la possibilità che ha l’uomo di risvegliarsi, prendere coscienza dei suoi errori, smettere di fingere. È quello che ci raccontano le ultime pagine del Don Chisciotte , e il monologo di Prospero che chiude La tempesta.
Credo che siano le pagine più belle e più profonde mai scritte da entrambi; mi piace immaginare che a scriverle sia stato un solo scrittore che non era né Shakespeare né Cervantes, ma uno spirito potente e inafferrabile, che girava per l’Europa indossando varie maschere.
Don Chisciotte morente, che riprende il nome di Alonso Chisciano e rinnega le imprese, non è diverso da Prospero, che consumata la sua vendetta depone arti magiche e potere. Il primo è sul letto di morte; il secondo sta per ritirarsi a vita privata a Milano, e ci assicura che ogni tre pensieri che farà, uno sarà dedicato alla sua tomba.
Come tutti i grandi messaggi, anche questo punge e consola. Da una parte significa che la saggezza e il risveglio arrivano troppo tardi, e servono solo a morire bene; ma è ugualmente vero, e ricco di significato, che l’essere umano può risvegliarsi prima della morte, quando ancora è dentro la sua vita, non più come ospite ma come padrone.
Quello che ci hanno lasciato Cervantes e Shakespeare è molto di più di una morale, di una filosofia. È una percezione esatta della condizione umana: così esatta che a tutti e due stanno strette le solite, fruste casacche dell’ottimismo e del pessimismo.
Shakespeare scrisse l’Enrico VI con Marlowe *
LONDRA. Enrico VI, dramma storico in tre parti, è stato scritto da William Shakespeare col contributo di Christopher Marlowe, il celebre autore del Doctor Faustus.
Si era spesso parlato dei possibili interventi del drammaturgo nelle opere del Bardo. Adesso e per la prima volta viene riconosciuto in modo ufficiale: la Oxford University Press pubblicherà uno studio, a cui hanno preso parte ventitrè ricercatori di tutto il mondo, che proporrà congiuntamente i nomi di Shakespeare e Marlowe come co-autori del dramma.
Dallo studio New Oxford Shakespeare emerge anche una collaborazione molto intensa con altri drammaturghi, che fino a questo momento erano stati considerati come suoi rivali.
In ben 17 su 44 opere teatrali del Bardo ci sarebbe la mano anche di altri autori.
* la Repubblica, 25.10.2016
La parola presente /4
BENESSERE. Equilibrio, ricchezza e salute, così è cambiata la "buona vita".
Se la religione dei corpi riduce l’uomo a merce
di Marino Niola (la Repubblica, 25.07.2016)
Well be or not to be. Benessere o non essere, questo è il problema. Il dilemma del nostro tempo che ha sciolto il dubbio amletico e lo ha trasformato in imperativo cosmetico. Estetico, dietetico, terapeutico. Dopo averne fatto a lungo un mantra economico. Ma in entrambi i casi, sia che si tratti della salute del nostro corpo, sia che si tratti della salute delle nostre finanze, resta il fatto che la parola benessere ormai riguarda sempre più l’avere e sempre meno l’essere.
Con un avvitamento della lingua che riflette una metamorfosi del senso comune e dei suoi valori di riferimento. Che prendono un’accezione sempre più materiale, legando la soddisfazione, l’autostima, l’equilibrio personale, la realizzazione di sé, il proprio riconoscimento da parte degli altri, a qualcosa che si possiede. Fino a poco tempo fa era un reddito soddisfacente, adesso è un corpo efficiente. Un passaggio che nell’inglese è scritto a chiare lettere nella stretta parentela tra wealth,ricchezza, e health, salute. Mentre l’italiano chiama entrambe benessere. Con uno slittamento interno del significato che però non affiora alla superficie del vocabolario. Ne è la prova il fatto che non si sente il bisogno di creare due termini distinti.
In realtà il termine benessere finisce per riepilogare i valori, le aspettative, le proiezioni che in ogni epoca compongono gli algoritmi della buona vita. Per gli antichi si tratta di parametri spirituali, che hanno a che fare poco con la ricchezza, un po’ più con la salute, e molto con l’equilibrio. Che è alla base di una buona disposizione dell’animo. Platone la chiama eufrosine, cioè letizia, che è anche il nome di una delle tre Grazie, divinità dispensatrici di splendore, di bellezza e di prosperità. Peraltro il termine grazia è molto imparentato con la gratuità, il disinteresse, l’armonia, la giustizia. Lo dice il nome greco delle Grazie che è Cariti, da charis che significa dono, un concetto storicamente legato alla nostra idea di carità. E dunque il benessere non dipende dalla ricchezza. Ancor più chiaro in questo senso è Aristotele, che esclude categoricamente il possesso e il successo. Perché lo star bene degli uomini non consiste semplicemente in un soddisfacimento dei desideri e dei bisogni materiali, ma nel controllo razionale delle passioni e delle pulsioni. Che è condizione dell’equilibrio individuale e dell’equità sociale. Ma il filosofo della catarsi si spinge ancora oltre e, con un ragionamento che oggi definiremmo antiutilitaristico, arriva addirittura a separare la crematistica, la scienza che riguarda l’acquisto e la gestione della ricchezza, dall’economia.
Quest’ultima, infatti, insegna come soddisfare i bisogni primari e vivere bene in mezzo agli altri, mentre la crematistica, che mira a quella che adesso chiameremmo l’accumulazione del capitale, è artificiale e in un certo senso antisociale. Insomma, per l’autore dell’Etica Nicomachea, il benessere è di natura essenzialmente relazionale, nel senso che il rapporto con gli altri costituisce un bene in sé. È il fine e non il mezzo dell’economia. Una posizione declinata al presente da una filosofa come Marta Nussbaum, non a caso definita neoaristotelica. L’autrice di Non per profitto ritiene infatti che una delle cause del declino attuale della democrazia sia l’utilitarismo spinto all’estremo che riduce l’uomo a merce, il sapere a tecnica, la bellezza a dogma, la salute a obbligo. E il benessere a Pil. Che, naturalmente, per mantenersi su livelli elevati ha bisogno di lavoratori in piena forma, di macchine corporee senza difetti. Efficienti, performanti, scintillanti. È l’avvento degli “ultimi uomini”, per dirla con lo Zaratustra di Nietzsche, quelli che credono di avere inventato la felicità, che vivono sempre più a lungo, e per i quali ammalarsi è peccato.
Ed è proprio questo scivolamento della persona verso la risorsa umana, del well-being verso il well-ness, della comunità verso l’immunità, alla base della svolta biopolitica che stiamo vivendo. Dove gli uomini diventano energie rinnovabili e quindi anche rimpiazzabili. Del resto proprio questo vuol dire risorsa, dal francese resortir, nel senso di rinascere, rinnovarsi. È l’umano al servizio dello sviluppo e non lo sviluppo al servizio dell’umano.
Una critica in ipsis verbis di questo pensiero unico della crescita si trova in un apparente lapsus degli studenti della South-Pacific University di Suva, nelle isole Figi, che hanno trascritto in pidgin-english (la lingua franca di alcune aree del Pacifico), il termine development, sviluppo, facendolo diventare develop-men, ovvero piena realizzazione dell’umano. Così quello che sembrava un errore di spelling si rivela invece una straordinaria retroilluminazione della parola. Che fa brillare un altro senso possibile, a condizione di pensare altrimenti.
Oggi l’asse del benessere si è ulteriormente e decisamente spostato. Da richness a fitness. Col risultato di trasformare i nostri stili di vita in religioni del corpo, in idolatrie della longevità, in liturgie alimentari. Con il bio al posto del dio. E la dietetica al posto dell’etica. E, quasi inavvertitamente, siamo entrati nell’era di homo dieteticus, il figlio spaventato di homo oeconomicus. Quest’ultimo, spinto in avanti dal vento del progresso e convinto che le cose sarebbero andate sempre meglio, per sé e per i suoi, investiva sul futuro. Mentre l’homo dieteticus, in preda a mille insicurezze, personali, ambientali, lavorative, sta facendo della salute il bene rifugio su cui scommettere tutto e subito, il capitale immunitario al quale destinare tempo, cure, energie e risorse. Passione e ossessione. Narcisismo ed esorcismo. Ideologia e ipocondria. Forse perché non ci è rimasto altro da scambiare e da vendere nel mercato della forza lavoro globale, se non la nostra apparenza e la nostra efficienza. Ridotti come siamo a braccianti multitasking, cottimisti del tardo capitalismo, falangi della mano invisibile.
Così il corpo torna ad essere, come diceva Baudelaire, l’arcano della merce, la forma elementare dell’economia. E il benessere diventa l’algoritmo di una condizione umana ridotta a nuda vita.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FILOLOGIA, ARTE, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA. "CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1 Gv., 4. 1-16). Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
CANOVA E IL VATICANO: LE GRAZIE, AMORE E PSICHE Una gerarchia senza Grazie (greco: Χάριτες - Charites) e un papa che scambia la Grazia ("Charis") di Dio ("Charitas") con il "caro-prezzo" del Dio Mammona ("Caritas"). Materiali per riflettere
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
«Il paradosso dell’inglese che resta la lingua ufficiale nei palazzi a Bruxelles»
di Dino Messina (Corriere della Sera, 26.06.2016)
«La “Brexit” - dice il professor Giovanni Iamartino, presidente degli anglisti italiani - ha prodotto un paradosso: l’inglese continuerà a essere la lingua più importante dell’Europa, così come lo è nel resto del mondo, mentre la Gran Bretagna è fuori».
Sarà così anche nei palazzi delle istituzioni a Bruxelles e a Strasburgo?
«Le regole dell’Ue prevedono che i documenti ufficiali vengano tradotti in tutte le lingue dell’Unione, mentre le discussioni si svolgano in inglese, tedesco o francese. È difficile che la situazione cambierà e che l’inglese venga bandito come lingua, perché, mi scusi il bisticcio, l’inglese non è più degli inglesi».
Che cosa pensano i suoi colleghi, italiani e inglesi, della Brexit?
«Sono tutti scioccati e si strappano le vesti. Una collega mi ha scritto sconsolata: d’ora in poi per consultare un libro alla British library ci chiederanno il visto? Ma al di là dei professori, pensi a tutti gli studenti dell’Erasmus che non potranno più andare in Inghilterra. Una vera rivoluzione nel nostro costume».
Ne risentirà anche la ricerca?
«Sicuramente. Cesseranno i finanziamenti europei verso i dipartimenti delle grandi università britanniche. I colleghi di Oxford, Cambridge e di altre prestigiose istituzioni erano bravissimi a chiederli e a ottenerli».
Forse è per questo che tra i giovani e i laureati ha vinto il voto favorevole al Remain...
«Sì, ma non è bastato. Si è affermato lo spirito interpretato da una famosa battuta di fine Ottocento: nebbia nella Manica, il continente isolato. I risultati del referendum sono la prova che gli inglesi si ritengono superiori al resto del mondo».
Irlandesi del Nord e scozzesi non sono d’accordo...
«Nell’Irlanda del Nord protestante potrebbe ripetersi quel che è già avvenuto nella cattolica Scozia: un referendum per staccarsi dalla madre patria e restare in Europa... E anche in Scozia, nonostante nel recente referendum i separatisti siano stati sconfitti ci potrebbero essere ripercussioni».
Quale personaggio letterario oggi sarebbe contento per l’affermazione della Brexit?
«C’è un personaggio inventato agli inizi del Settecento dal giornalismo inglese che si chiama John Bull: la perfetta incarnazione dello scetticismo, del sano buon senso, del patriottismo, del malcelato disprezzo inglese nei confronti dello straniero. Un po’ saggio, un po’ ottuso».
E quale sarebbe invece oggi addolorato?
James Boswell nella sua biografia del critico Samuel Johnson, fa dire al suo protagonista che il perfetto gentiluomo inglese, per dirsi tale, deve aver viaggiato nei Paesi del Mediterraneo, culla della civiltà occidentale. Se invece vogliamo restare nella fiction, al di là dei personaggi di Shakespeare, penserei a David Copperfield di Charles Dickens, un orfano che prima di ottenere il suo riscatto viaggia in lungo e in largo per l’Europa».
Un’isola della mente che è approdo della vita
Alla «Tempesta» che stravolge le esistenze, ma ridà senso alla «passione del vivere», Shakespeare dedicò, nel 1611, il più alto dramma della sua ultima stagione. Oggi Nadia Fusini ne dà una rilettura empatica, per Einaudi
di Corrado Bologna (il manifesto, 10.06.2016)
«Navigare è necessario, non è necessario vivere», diceva il motto della Lega Anseatica, la potente associazione di armatori e mercanti che per secoli dominò i mari del Nord Europa. La vita come opzione: una sfida prometeica. Perfino metafisica e allegorica, poi, l’idea che sia impensabile non andar per mare, non scivolare nello spazio sulla materia liquida che sfugge alla presa e non si ferma mai nel suo ritmo preistorico: la cosa più vicina, sul nostro globo, all’eternità e all’ansia terribile del profondo, dello smisurato. Via via che le scoperte dei nuovi mondi si moltiplicano e compaiono continenti impensati, far rotta sul mare significa sempre più esplorare e conoscere, conquistare l’oltre.
Il regno della dea Fortuna
I poeti interpretano questo bisogno molto concreto di ulteriorità, vi riconoscono la traccia di una memoria arcaica, forse quella mitica dei primi navigatori nel Mediterraneo. Chissà se Dante navigò mai. Certo nella Commedia un immaginario metaforico di straordinaria potenza figurale è imperniato sul mare e sulla navigazione: «la navicella dell’ingegno» su cui si apre il Purgatorio; l’Italia lacerata dai conflitti come una «nave senza nocchiere in gran tempesta» del VI canto purgatoriale; «lo gran mar dell’essere» all’inizio del Paradiso, dove noi poveri marinai «in piccioletta barca» veniamo invitati a non metterci in quell’acqua pericolosa, che «già mai non si corse». Leopardi nell’Infinito, e dopo di lui l’Ungaretti nell’Allegria di naufragi, riprendono e conducono l’allegoria fino al naufragio del pensiero, esito tragico e «dolce» del desiderio dell’oltre nella modernità.
Su tutti e tutto regna la dea Fortuna, incontrollabile sovrana della terra, dell’acqua, dell’aria: fortunale si chiama, infatti, la tempesta che può rovesciare le navi e il destino, la sorte degli uomini e dei loro beni. Signora del caso imprevista, sovrumana, la tempesta è figura del tempo minacciato, del tempo come minaccia, che mette a repentaglio l’economia e la vita. L’immaginario collettivo è ossessionato dalla Fortuna e dai fortunali. Mare e fortunale, onde terrificanti e isole che salvano i naufraghi, riempiono le carte della letteratura: la tempesta è immagine dell’esistenza dall’Odissea all’Eneide, da Robinson Crusoe a Moby Dick.
Alla tempesta che stravolge le esistenze, ma che può restituir senso alla «passione del vivere» trasformando «il mare di guai» in un «mare che salva», Shakespeare dedicò, nel 1611, il più alto dramma della sua ultima stagione, la tragedia di un naufragio e di un salvataggio su un’isola piena di vertigini e di mostruosità, di meraviglie e di terrore: un universo in miniatura, un labirinto e un’utopia, come quelle isole reali verso cui «corrono audaci i capitani di Elisabetta», la regina-isola-vergine sovrana di un’isola imprendibile, che una tempesta ha fortunosamente salvato affondando l’Armada Invencible di Filippo II di Spagna che tentava l’invasione (1587).
L’isola shakespeariana è soprattutto «un’isola della mente», «un’esperienza dell’anima». Così Nadia Fusini in Vivere nella tempesta (Einaudi, pp. 205, euro 18,50) legge i tratti di una «commedia dell’esistenza umana» carica di «una dimensione “spirituale”», un testo-conchiglia da portare all’orecchio per riconoscervi la voce di innumerevoli altri testi, frammisti al «suono della vita».
L’isola del mago-artista Prospero è popolata da «spiriti», da cose e avvenimenti new, novel, strange, da wonder, admiration, amazament, ossia «ombre, demoni, emanazioni celesti, creature evocate grazie all’arte della magia». Su di essa «non fanno che ripetersi naufragi e colpi di stato, mentre la lingua è illuminata da lampi che prefigurano nel modo del ritorno storie antiche».
Il vocabolario della tragedia classica rinasce qui sotto il segno del deinós, del «tremendo» che, come ogni autentico inizio di conoscenza, è nel contempo fear and wonder, «terrifico e meraviglioso», fin dal significato nascosto dei nomi dei personaggi: Miranda, mirabilis seduttrice del lettore, edenica Eva con il suo Adamo-Fernand, figlio del re di Napoli, stupefatti dinanzi al masque che Prospero mette in scena nell’isola-paradiso; l’aereo Ariel, «spirito etereo», «volatile e volubile», arioso angelo mercuriale che però Prospero definisce slave, «schiavo»; il «materiale e pesante» Caliban, this thing of darkness, «la cosa di tenebre» che ancora una volta l’onnipotente Prospero «riconosce sua», spaventoso, selvaggio cannibal caribico mosso dal medesimo «spirito speculativo e ironico del saggio sui cannibali» di Michel de Montaigne, che Shakespeare poté conoscere nella versione inglese di John Florio, del 1603.
Tutto è materia che si disfa
«Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita», scandisce Prospero all’inizio del IV atto della Tempesta. La vita è sogno e il teatro è il suo doppio. Presto si scoprirà che, come ogni altra cosa sull’isola, anche il naufragio è uno spettacolo messo in scena, e che Antonio e Sebastiano fanno parte di una compagnia teatrale. Il mondo intero, il globo e il Globe Theatre in cui la rappresentazione della vita va in scena, tutto si disferà like this insubstantial pageant, «come questo spettacolo senza sostanza».
Al pari di Shakespeare il mago-regista Prospero trama scenari teatrali di ampiezza cosmica; vuole dar forma all’informe dell’esistenza che con la forza di un fortunale sommerge le volontà degli uomini. Tipicamente rinascimentale, modellato su Giordano Bruno e John Dee, il suo (come quello shakespeariano) è un «umanesimo magico, ermetico e alchemico». Ma, «per fortuna», come Prospero anche Shakespeare «sembra voler trafficare più con la vita che con la morte», e il dramma si apre alla commedia, nello stesso senso positivo per cui Dante definì Commedia il suo poema «a lieto fine».
La Tempesta è una commedia delle mutazioni, «un inno alla metamorfosi», a sea-change: il fortunale che sommerge la nave conduce a buona fortuna, e il naufragio diviene «un annegamento battesimale». Il primo a convertirsi è Prospero: la sua metanoia libera Ariel dal dolore, e Ariel a lui insegna la compassione. Dal momento che ogni cosa nella Tempesta teatrale e nella tempesta della vita è spettacolo illusorio e cerimonia iniziatica, il salvataggio dal naufragio, l’approdo sull’isola, si trasformano in un’immersione-riemersione di salvezza.
Qui credo si possa cogliere il centro più originale della lettura di Nadia Fusini: se per l’Europa rinascimentale navigare necesse est, nella Tempesta, «in modo ironico o paradossale, sembra che per vivere sia necessario naufragare». La catastrofe si volge in rinascita, e come la vita anche la tempesta si svela essere una prova rigeneratrice: «chi l’attraversa ne esce trasformato. Il mare sommerge, lava e rigenera, trasforma e muta...». E l’illusoria isola di Prospero, microscopico teatro del mondo, incarna «la fantasia di creare fra terra e mare e cielo un mondo altro».
L’immaginazione di Shakespeare fu certo «infiammata» dai resoconti di chi si salvò su un’isola felice nel naufragio della Sea-Venture del 1609, scomparsa, mentre la Tempesta veniva concepita, tra i flutti dell’Oceano Atlantico durante un viaggio verso la Virginia, terra dedicata alla regina-vergine Elisabetta. In profondità però nella lettura di Nadia Fusini, sempre empaticamente in contrappunto creativo con il testo shakespeariano, la Tempesta si rivela una geniale meditazione sulla vita e sulla morte, sull’illusione e sulla pietà per sé e per gli altri, sull’energia che si sprigiona nello sforzo di salvarsi in quella tempesta che è l’esistere: «i mari minacciano, ma salvano»; e «un uomo è un uomo se lotta contro la morte, non tanto per egoismo, quanto per il rispetto della vita stessa».
Dal salvataggio alla salvezza
«Di vivere si tratta nella Tempesta», che è «una specie di Bildungsroman» in forma di teatro: di vivere, di imparare a vivere; «chi attraverso il rimorso e il pentimento e l’autodisciplina saprà mutare la salvezza materiale in redenzione, quello si salverà. Per lui il salvataggio muterà in salvezza spirituale e la liberazione dall’onda in redenzione».Come nella Tempesta di Giorgione, un fulmine squarcia e illumina il dramma di Shakespeare, permettendo al lettore di «incurvarsi verso l’interiorità», di «guardarsi nell’anima»: così Prospero insegna ai suoi nemici. L’incanto terapeutico dell’immaginazione creatrice, la meraviglia dell’arte, ci fanno riemergere dai naufragi della vita, come Ulisse sull’Isola dei Feaci, come Dante che, «uscito fuor del pelago a la riva, / si volge a l’acqua perigliosa e guata»: e così nasciamo a vita nuova, stupefatti nell’ascoltare il nostro respiro che dopo il panico dell’apnea riprende, ritmato, ad alitare e a farsi voce.
I maestri del disprezzo per le donne
di Daniela Monti (Corriere della Sera, 08.06.2016)
Nel 1929 Virginia Woolf, nel saggio Una stanza tutta per sé, inventa una storia: quella di Judith, ipotetica sorella di William Shakespeare, stessa genialità, stessa irrequietezza, stessa voglia di fare del fratello. Per seguire il proprio talento, Judith si istruisce come può, leggendo il poco che trova per casa (ma appena i genitori se ne accorgono, le tolgono i libri e le mettono in mano delle calze da rammendare), rifiuta il matrimonio spezzando il cuore al padre, scappa per inseguire il sogno di fare teatro e viene accolta da un impresario che la schernisce e da un agente teatrale che, impietosito, la mette incinta. Alla fine, non trova altra via di uscita che uccidersi.
Mentre il talento del fratello è celebrato, il suo non vale niente: ha sfidato l’ordine naturale delle cose che la vuole debole, inferiore, indegna di ricevere un’istruzione e, insieme, selvaggia e ingestibile, una a cui mettere fin da subito il guinzaglio; si è illusa di potersi esprimere da donna e artista, senza neppure ricorrere all’espediente di camuffarsi da uomo, che pure è una strada battuta; ha sbagliato tutto, è andata fuori ruolo e infatti non c’è nessuno disposto ad ascoltarla. Così Judith «giace sepolta a un certo incrocio, lì dove ora gli autobus si fermano nei pressi di Elephant and Castle». Potessimo posare una lapide mortuaria, sopra ci sarebbe scritto: coraggiosa e ingenua Judith Shakespeare, vittima di due millenni di pregiudizi contro le donne.
Perché quello contro il genere femminile, «a conti fatti, appare come il più antico, radicato, diffuso pregiudizio che la vicenda umana è stata in grado di produrre», scrive Paolo Ercolani nel suo Contro le donne (Marsilio, pp. 318, e 17,50), resoconto dettagliato di come, dalle origini della società occidentale, scrittori, filosofi, intellettuali abbiano alimentato un dibattito «tutto fra uomini» - le donne sembrano assenti dalla filosofia, se non come oggetto del discorso dei filosofi maschi - «per arrivare a stabilire l’inferiorità inemendabile e irrecuperabile dell’essere femminile». I grandi filosofi greci, i padri della Chiesa, gli illuministi, i rivoluzionari, i filosofi idealisti, persino quel campione della causa femminile che fu John Stuart Mill: un’operazione culturale a senso unico che affonda le radici nella presunta «deficienza fisica» delle donne per poi esportare tale mancanza in altri campi, quelli dell’etica, della morale, dell’organizzazione politica della società.
Fu nell’Atene democratica, «tanto esaltata dalla tradizione occidentale, che si diffuse il costume di imporre alle donne il velo di fronte a situazioni pubbliche e a uomini scapoli, al contrario di quello che accadeva a quel tempo in Persia o in Siria», scrive Ercolani, aprendo il fronte della globalizzazione del pregiudizio, il quale, come le malattie contagiose, è riuscito a infettare culture lontane e all’apparenza inconciliabili, stringendole in un unico blocco misogino.
E loro, le donne? «Molto spesso sono le donne stesse a sminuirsi rispetto al maschio, in una sorta di autofobia indotta da secoli di indottrinamento», scrive Ercolani. Il femminismo, che pure è una delle grandi narrazioni della modernità, resta ai margini del lungo excursus, diventando esso stesso un bersaglio quando «negando l’esistenza di una specificità femminile (differente dal maschio) e prefigurando irrealistici scenari di individui a-sessuati ha finito con il fare da sponda al pensiero misogino».
La via d’uscita proposta sta nel ridefinire i canoni dell’identità e soggettività umana, al di là del «narcisismo di genere». Come scriveva Caterina Botti nel suo Prospettive femministe (Mimesis), «fino a relativamente poco tempo fa l’assenza delle donne dalla filosofia non era considerata una questione degna di nota. Oggi invece lo è».
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
Shakespeare e il Canone occidentale dopo la Bibbia
di Sergio Turtulici (Riforma, 09 maggio 2016)
Nel 1616 moriva il «bardo» dell’età elisabettiana
Ho tirato su la mia misura di cultura sul sostrato del teatro dei Greci e su quello di Shakespeare. Ero bambino novenne in calzoncini corti sulla cavea di roccia del teatro greco di Siracusa, spettatore delle Troiane di Euripide, la tragedia dedicata al dolore dei vinti dalla pietà dei vincitori, j’accuse del gioco crudele della guerra di una civiltà che non la disdegnava.
Ero tredicenne quando il professore di lettere al ginnasio mi fece leggere Shakespeare. Mio padre era militare e con in mano la sua sciabola da parata declamavo «Un cavallo, il mio regno per un cavallo!», il finale di Riccardo III di Shakespeare: il sovrano che invoca salvezza, disarcionato lui e caduta nella polvere della battaglia la sua corona d’Inghilterra conquistata con una lunga catena di delitti di sangue. La letteratura inglese ha un genio universale che appartiene a lei sola e nobilita il primato della sua lingua: i suoi grandi scrittori hanno saputo affabulare racconti che sono al contempo avventure fascinose e metafore le più alte dell’enigma della condizione umana, della lacerazione del mondo.
William Shakespeare (1564-1616, quattrocento anni dalla morte), il «bardo» dell’età elisabettiana, è stato il campionissimo assoluto della letteratura inglese, la più letta, la più amata, la più universale. La Bibbia, il Libro sacro è stato per un millennio e mezzo la Legge, il «Canone occidentale».
Ha scritto Harold Bloom, celebrato critico letterario americano, che - finito nel Cinquecento quello che lo storico medievista francese Jacques Le Goff ha chiamato il Tempo sacro dell’uomo, avviata con Lutero che inchioda sul portale della chiesa del castello di Wittenberg, con le sue celebri 95 Tesi, l’inizio dell’età del dubbio critico che è stata, io penso, l’età dell’oro dell’Europa moderna, un tempo breve che oggi, nella post-modernità, è finito - l’opera drammaturgica di Shakespeare ha sostituito la Bibbia come Canone dell’Occidente. Tant’è, non è esagerazione.
Quanti rimandi alla Bibbia ci siano nelle più di trenta opere tra tragedie, commedie, storie inglesi nel laicissimo teatro di Shakespeare lo hanno documentato frotte di analisti. Lo spazio concessomi mi consente di citare solo George Steiner, francese, «pellegrino ebraico degli inviti», cosmopolita cioè, il massimo studioso del XX secolo di Letterature comparate a partire dalla Bibbia. Dell’età moderna del dubbio scettico e metodico, della Ragione cartesiana che è stata per quattro secoli la ferratura dell’Uomo occidentale nessuno è stato interprete come Shakespeare. Che cos’è il celeberrimo dubbio di Amleto, Principe di Danimarca, che ne frena l’azione di vendetta, se non il pathos di smarrimento, di angoscia esistenziale vissuta in un mondo out of joints, sconnesso dalle sue giunture, che deve cercare una connessione nuova, una nuova ragion d’essere?
L’opera di William Shakespeare lungo questi 400 anni si è caricata, secolo dopo secolo, di valore aggiunto. È stato il Romanticismo, non per niente il grande movimento europeo di ribellione, sismografo della Krisis, del declino dell’Occidente, a proiettare lo shake-scene elisabettiano come lo chiamava, tra invidia e riconoscimento, Christopher Marlowe, suo competitore nel teatro di Londra, come la superstella della letteratura di ogni tempo.
Shakespeare andrebbe letto da tutti i giovanotti che «scendono in campo» in politica. Del potere, della corruttela del potere nessuno ha indagato come lui il «Grande meccanismo». Rubo ancora un po’ di spazio per un paio di versi del brano di humour nero più potente della letteratura mondiale (Amleto v. 1). Il principe con Orazio è casualmente al cimitero il giorno della sepoltura di Ofelia. Un becchino, scavando la fossa, butta in aria vecchie ossa dissotterrate: ”Quel cranio una volta aveva una lingua dentro di sé - dice Amleto ad Orazio -. E guarda come il mascalzone lo getta a terra come fosse la mandibola di Caino. Quella che questo somaro strapazza potrebbe essere la zucca di un politicante, uno capace di imbrogliare anche Dio. O no?».
Shakespeare
Rapsodia della Tempesta perfetta
Il nuovo libro di Nadia Fusini, Vivere nella Tempesta (Einaudi)
di Emanuele Trevi (Corriere della Sera, 11.05.2016)
È giusto che il nuovo libro di Nadia Fusini, Vivere nella tempesta (Einaudi), si presenti così, senza un sottotitolo che segnali ai lettori che non si tratta di un romanzo o di un’altra opera di invenzione. Perché è vero, l’argomento del libro della Fusini è senza dubbio una tempesta particolare, cioè La tempesta di Shakespeare, allestita a Whitehall la notte di Ognissanti del 1611, con grande dispendio di macchinari e artifici, come si addiceva al festeggiamento delle prossime nozze di Elisabetta, figlia di Giacomo I d’Inghilterra, e l’Elettore del Palatinato. Ma basterà leggerne qualche pagina per rendersi conto che questo non è un saggio critico - e non certo per difetto di conoscenze o deliberato dilettantismo. Quali che siano i suoi metodi e le sue intenzioni e il carattere di chi lo scrive, infatti, un saggio critico possiede sempre una posta in gioco ben precisa. È un atto di interpretazione, e tale rimane anche nel caso in cui la conclusione del ragionamento è che c’è ben poco o nulla da interpretare.
In quest’arte difficile e oggi molto screditata, Nadia Fusini ha raggiunto fin da giovane risultati tanto eccelsi che non credo che Vivere nella tempesta rappresenti una rinuncia definitiva. Semmai, è un esperimento del quale, se di saggio critico non si può parlare, è difficile trovare una definizione attendibile. Si può dire che all’interpretazione, che ambisce di catturare l’opera nella rete dei suoi argomenti, si sostituisce un movimento simmetrico e contrario. A forza di leggere e rileggere come un breviario l’ultimo dramma di Shakespeare, è Nadia Fusini che è finita nella rete. La tempesta è più forte di lei, e ha finito per dare una forma alla sua mente a ogni rilettura, proprio come il mare con le sue onde e le sue risacche modella un ciottolo o un fondo di bottiglia.
Non potrebbe essere diversamente, visto che Nadia Fusini, fra le migliaia di libri che ha letto, solo alla Tempesta attribuisce il valore di un’immagine totale della vita. La ascolta come chi accostando l’orecchio all’apertura di una conchiglia percepisce lì dentro qualcosa che sembra proprio il rumore del mare, mentre è solo quello del nostro corpo. Ma è un errore dalle conseguenze preziose, questo, dal punto di vista della Fusini. Che sembra suggerirci, in ogni riga del suo libro, che l’autocoscienza è impossibile, e per vedere qualcosa di noi abbiamo bisogno dello specchio dell’arte proprio come per ascoltare il rumore della nostra circolazione sanguigna abbiamo bisogno di accostare l’orecchio a una conchiglia.
Come si sarà capito, il libro acquista fin dall’inizio un andamento rapsodico, digressivo, spiraliforme. Prima di puntare il dito mormorando la solita accusa di narcisismo, si leggano uno dopo l’altro i corti capitoli di Vivere nella tempesta e si ammetta onestamente che si sono imparate un sacco di cose emozionanti e sorprendenti, anche con questo metodo non molto ortodosso. Perché il punto non è mai il narcisismo e nessun’altra qualità o malattia dell’anima, l’unico vero punto è la capacità di produrre un movimento reale della coscienza, quale che sia il mezzo impiegato.
Alla fine non si potrà che convenire con Nadia Fusini quando scrive che «ciò che conta della cosa non è ciò che è, ma ciò che della cosa trasportiamo con noi e ricreiamo». Questa è la magia, la magia che Prospero scatena nell’ultimo dramma di Shakespeare e che noi stessi pratichiamo nelle nostre vite, quando siamo capaci di «portare con noi l’anima della cosa e lasciarne indietro il corpo». E visto che non si possono vivere le vite degli altri, che ognuno si cerchi la propria Tempesta.
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L’appuntamento Vivere nella tempesta di Nadia Fusini ( Einaudi, pp. 206, e 18,50) sarà presentato al Salone del Libro di Torino domenica 15 maggio (ore 16.30, Sala Rossa). Con l’autrice interverranno Anna Bonaiuto e Nicoletta Braschi
Grande mostra a Londra
Dove lo celebra anche la metro
di Alessandra Rizzo (La Stampa, 20.04.2016)
Abiti di scena, un teschio usato nell’Amleto, rare edizioni delle sue opere: a 400 anni dalla morte la British Library celebra Shakespeare attraverso dieci produzioni teatrali che hanno contribuito a crearne il mito.
«Shakespeare in Ten Acts« (Shakespeare in dieci atti») espone 200 pezzi, tra cui l’unica sceneggiatura scritta a mano dal Bardo che sia arrivata fino a noi: curiosamente, non una delle sue opere, ma un contributo a un dramma sulla vita di Thomas More. Lo spettacolo non fu mai messo in scena, ma il passo di Shakespeare contiene una difesa dei migranti che sembra scritta per i nostri giorni.
In mostra anche una rara copia del First Folio, la raccolta di 36 opere pubblicata sette anni dopo la sua morte. Gli amanti del teatro non resteranno delusi: si possono vedere costumi di scena indossati da Vivien Leigh e un teschio regalato da Victor Hugo all’attrice Sarah Bernhardt per un Amleto di fine ’800. Se i versi di Shakespeare sono universali, la messa in scena dei suoi lavori è cambiata nel corso dei secoli: la mostra documenta la prima volta di una donna su un palcoscenico inglese (1660), o di un attore nero nei panni di Otello (1825).
La rassegna alla British Library è soltanto uno degli eventi con cui la Gran Bretagna celebra una delle sue icone.
A Londra sono in programma concerti, spettacoli e tour dei luoghi legati alla sua vita e opere (il sito www.shakespeare400.org offre una lista completa). Si può bere una pinta di birra nel suo pub preferito, il George Inn a Southwark. E la metropolitana ha aggiornato la celebre mappa sostituendo i nomi delle stazioni e linee con quelli dei suoi personaggi e opere più celebri: la fermata Giulietta è connessa a quella Romeo sulla linea Amanti.
Chi ha scritto le sue opere?
Un dubbio antico, ma infondato
Da Marlowe a Bacone, tanti gli indiziati. Sulle sue tracce perfino un ex agente della Cia. In realtà l’autore non può che essere lui
di Paolo Bertinetti * (La Stampa, 20.04.2016)
Cinque anni fa apparve sui nostri schermi un curioso film americano, Anonymus, diretto da Roland Emmerich, un regista specialista del genere catastrofico. Il film racconta la vita romanzata di Edward de Vere, diciassettesimo conte di Oxford, presentandolo come il vero autore delle opere di Shakespeare. Questa teoria è tutt’altro che nuova: fu proposta per la prima volta nel 1920 dallo scrittore J. Thomas Looney, ma è stata ravvivata qualche anno fa da un agente della Cia andato in pensione. Perché mai, si chiedeva l’ex agente segreto, l’antologia della poesia inglese stampata dallo stesso editore che pubblicò il First Folio, il volume di (quasi) tutte le opere di Shakespeare, contiene diverse composizioni poetiche del conte di Oxford ma nessuna di Shakespeare? Perché lui sapeva, questa sarebbe la spiegazione, che in realtà era il conte di Oxford ad aver scritto le opere di Shakespeare, che quindi sarebbe stato soltanto un prestanome.
Il fatto è che il conte morì nel 1605, prima che Shakespeare scrivesse alcune delle sue opere maggiori. Bisognerebbe allora pensare che in realtà il conte non fosse morto, ma per misteriose ragioni si nascondesse in qualche luogo segreto - continuando però a scrivere commedie e tragedie. Anche se l’ipotesi sembra degna di quella su cui fantasticarono i fan di James Dean, quest’idea sta alla base anche di una seconda teoria. Il vero autore dei testi di Shakespeare sarebbe stato il grande drammaturgo Christopher Marlowe. Il quale era anche un agente segreto di Sua Maestà, ucciso in una rissa nel 1593. In realtà si sarebbe trattato di una messinscena: lo scomodo Marlowe avrebbe continuato a vivere in clandestinità, scrivendo i testi che Shakespeare firmava. E perché mai?
Un’altra teoria vuole che l’autore vero sia stato Francis Bacon, filosofo e uomo politico, che nei ritagli di tempo (si presume) avrebbe scritto Amleto, Re Lear, Macbeth e Otello. Vecchia teoria, di recente abbandonata. Un’altra ancora, abbastanza nuova, vuole invece che il vero autore fosse John Florio, letterato e linguista eccelso. Questa teoria è stata però rivista in un senso tutt’altro che peregrino: Florio sarebbe stato il curatore del First Folio e a lui (che «inventò» più di 1200 parole inglesi) si dovrebbero alcuni dei cambiamenti linguistici apportati ai testi delle singole opere di Shakespeare pubblicate in precedenza.
Alcuni dei maggiori studiosi di Shakespeare, ancora di recente, hanno ribadito che tutte le varie teorie sono senza fondamento. Basti pensare a due testimonianze indirette. Nel 1592 il drammaturgo Robert Greene si scagliava contro Shakespeare, definendolo «quel corvo venuto dal niente» che si faceva bello con le loro piume. Lo accusava cioè di copiare dai lavori suoi e dei suoi illustri colleghi; di copiare, ma di essere lui l’autore dei testi che andavano sotto il suo nome. Qualche anno dopo, tuttavia, Shakespeare già riceveva il plauso e le lodi del fine letterato Francis Meres, che nel suo «inventario» dei grandi autori inglesi, Palladis Tamia, del 1598, lo salutava come eccellentissimo autore di commedie e tragedie.
È ovvio che l’autore era lui. Nel ristretto e pettegolo mondo dello spettacolo un simile segreto non sarebbe durato più di un giorno. Il fatto è che, come il Robert Greene laureato a Cambridge, molti non ammettono che uno che non aveva fatto l’università potesse essere uno scrittore di tanta cultura e sapienza linguistica. Nel suo caso era bastata la Grammar School, una «scuola media» che valeva almeno un’odierna laurea in lettere classiche. Al resto aveva provveduto il genio.
* Paolo Bertinetti ha curato per Einaudi le traduzioni di «Amleto», «La tempesta» e, appena uscito, «Macbeth»
Shakespeare fratello d’Italia
Moriva il 23 aprile di quattrocento anni fa. È stato il maggiore poeta inglese, ma nei suoi drammi campeggia il Bel Paese: che forse non visitò mai
di Masolino D’Amico (La Stampa, 20.04.2016)
Quanto fu importante l’Italia per William Shakespeare? Molto, anche se non fino al punto di ridurre di una frazione l’anglicità del massimo poeta inglese. Questo titolo gli spetta per almeno tre ragioni. La prima: fu supremo nell’uso della lingua nazionale in un momento di espansione e di grandi cambiamenti, valorizzandone e accrescendone la ricchezza a tutti i livelli, da quello sublime della grande eloquenza, a quello della concentrazione espressiva (basta pensare ai Sonetti), a quello delle schermaglie dialettiche, a quello basso del volgo e della comicità. La seconda: con i suoi dieci drammi storici riassunse e spiegò a uso dei compatrioti due secoli di vicende della monarchia inglese, riflettendo sulle vicende anche torbide e discutibili che avevano condotto al momento attuale.
Falstaff vs Chisciotte
La terza: nel dar voce a decine di personaggi memorabili, comprendendo le ragioni di ciascuno (fu come disse Keats un poeta-camaleonte, capace di diventare Iago come Imogene), creò Falstaff, che sarebbe rimasto come la marionetta autoctona per eccellenza, incarnazione dell’inglese tipo, concreto nei vizi come nelle qualità: contraltare del contemporaneo arcispagnolo, il Don Chisciotte di Cervantes.
D’altro canto, a parte i surricordati dieci drammi storici, Shakespeare collocò quasi sempre le sue storie in luoghi diversi dalla madrepatria. L’in-folio, ovvero la fondamentale raccolta delle sue opere teatrali pubblicata dai colleghi qualche anno dopo la morte, contiene 36 tra tragedie e commedie. Ebbene, solo dodici si svolgono in Inghilterra: i drammi storici, più Le allegre comari di Windsor, Re Lear e, in parte, Cimbelino. Altrimenti, lo sfondo varia. Abbiamo quattro volte la Grecia, due la Francia, una volta sola la Danimarca e la Scozia, l’Illiria, Vienna ecc.
Ma l’Italia campeggia in ben dieci casi, undici se aggiungiamo la parte italiana di Cimbelino, e addirittura dodici se consideriamo territorio italiano l’isola innominata della Tempesta, che si trova da qualche parte in mezzo al Mediterraneo e di cui è occupante e signore il Duca (spodestato) di Milano.
Sì, gran parte dei drammi «italiani» parlano in realtà di Roma antica - Tito Andronico, Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra, Coriolano, nonché Cimbelino. Di questi il primo e l’ultimo sono opere fiabesche, largamente di fantasia, mentre per i tre centrali Shakespeare si documentò su fonti classiche, soprattutto Plutarco ma anche Appiano, come recentemente dimostrato da Luciano Canfora. Aveva a disposizione valide traduzioni, ma certo il latino non gli era ostico.
E - altre traduzioni a parte - anche un’infarinatura di italiano non gli mancava, sostenuta dalle opere di Giovanni alias John Florio (il dizionario italo-inglese, la raccolta di proverbi italiani in Secondi frutti) di cui sono molte tracce nei suoi lavori. In ogni caso, per gli inglesi l’Italia dei tempi di Shakespeare non era terra incognita. Di lì venivano mode e raffinatezze e molta letteratura, comprese le novelle da cui il Bardo tolse parecchie trame; era di importazione italiana persino la forma del sonetto, diffusa durante la generazione precedente.
Reinterpretato da Verdi
Non c’è dunque motivo di congetturare, come pure si è fatto, un ipotetico viaggio di Shakespeare in Italia, ipotesi non sostenuta da alcun documento. In quale Italia, comunque? La cena è collocata a Venezia due volte, nel Mercante e in Otello (atto primo); a Verona altre due - I due gentiluomini e Romeo e Giulietta; una volta a Padova (La bisbetica domata, e una a Messina (Molto rumore per nulla). I luoghi sono caratterizzati quanto basta, Venezia coi suoi ponti e la sua popolazione multietnica; Padova con l’Università e i suoi pedanti; Messina con la dominazione spagnolesca e gli sbirri indigeni, goffi, ignoranti e presuntuosi. In Romeo e Giulietta trionfa infine il Meridione, terra di sole, sangue bollente e profumi inebrianti...
A favore di una conoscenza diretta del Bel Paese ci sarebbero dettagli come il calore del luglio veronese in Romeo e Giulietta, o toponimi di Venezia (Rialto, la Frezzaria ovvero il «Sagittar» in Otello). Ma ci sono anche incongruenze madornali come il percorso fluviale da Verona a Milano nei Due gentiluomini, o, nella Bisbetica, il mestiere del padre di un personaggio, fabbricante di vele a Bergamo.
Insomma, c’è tanta Italia in Shakespeare: un amore che curiosamente tardò a essere ricambiato. Ancora nel ’700 il Bardo era poco noto da noi. Il letterato veneziano Apostolo Zeno scrisse una tragedia, Ambleto, ricavando la trama direttamente dalla fonte (Saxo Grammaticus). Preceduta da libere versioni francesi all’origine di adattamenti musicali molto lontani dai drammi, come I Capuleti e i Montecchi di Bellini e Otello di Rossini e da entusiasmi romantici tedeschi, da noi l’ammirazione per il Cigno dell’Avon scoppiò veramente solo a metà ’800. Allora però lo fece clamorosamente. E oltre ad alcuni interpreti che si sarebbero conquistati fama mondiale (Tommaso Salvini, Adelaide Ristori), espresse i tre capolavori di Giuseppe Verdi: il geniale, innovativo Macbeth, il maestoso Otello, che ancora oggi si rappresenta con una frequenza paragonabile a quella dell’originale, e infine l’aereo Falstaff. A proposito del quale un cultore di Shakespeare come il poeta W. H. Auden dovendo dedicare una conferenza alle Allegre comari di Windsor come parte di una serie che teneva a New York, preferì tacere, e far ascoltare il disco dell’opera.
Shakespeare è in tutti noi anche se non siamo epici come i suoi personaggi
di Ernesto Ferrero (La Stampa, 20.04.2016)
Non possiamo, non potremo fare a meno di Shakespeare perché in Shakespeare c’è tutto quello con cui ci misuriamo ogni giorno, pur non avendo la forza epica, l’oltranza, la vis pugnandi dei suoi personaggi. Dobbiamo continuare a leggerlo per ricuperare la pregnanza della parola, la sua intatta forza primigenia, svilita dall’uso furbesco e immiserito che ci siamo ridotti a fare. In lui la parola è acciaio e diamante, scintilla come se fosse appena uscita dalla fucina del primo giorno della Creazione, taglia come una spada. Distingue e illumina senza mai barare.
Shakespeare dovremmo provare a leggerlo con il testo originale a fronte, provare a tradurlo da noi con i nostri poveri mezzi per ammirare (imparare è impossibile) la sua straordinaria capacità di concentrare interi mondi, verità lancinanti, in tre parole di altissimo peso specifico. Per ogni parola sua, in italiano ce ne vogliono cinque. Arrampicarsi sui testi shakespeariani è come scalare una parete nord a mani nude. Sappiamo benissimo che non arriveremo mai in cima, ma l’esercizio è tonificante, rigenerante. Ci sono sconfitte espressive che fanno del bene, aiutano a crescere.
Alla fine di una prodigiosa stagione creativa, Shakespeare condensa e trasforma la gamma dei temi che più gli sono cari nei colori dell’arcobaleno. E’ la fiaba miracolosa de La tempesta, uno dei suoi testi oggi giustamente più rivisitati e frequentati. Ci possiamo ritrovare la dialettica tra natura e cultura, materia e spirito, innocenza e brutalità; la fascinazione del potere e il suo ripudio, la pietà e la vendetta, la fedeltà e il tradimento, i doveri del restare uomini malgrado tutto, la fermezza e la malinconia, l’amarezza e il sorriso, le dinamiche selvagge dei conflitti famigliari.
Il mondo umano è il mondo del conflitto e del disordine. Il mondo naturale è quello della riconciliazione e dell’ordine. Alla fine Prospero con la sua saggezza riesce a conciliarli. È questo tipo di magica ricomposizione che dovremmo sforzarci di emulare. Diceva Agostino Lombardo che La tempesta è una «grande conchiglia», che ad accostarla all’orecchio dà l’illusione del mormorio del mare. Tutta la vera, grande letteratura è questa illusione salvifica, che amplia i territori della conoscenza, che ci fa umani e ci solleva dalla materialità di Calibano (persino lui alla fine potrà diventare poeta). All’interno di quel mormorio possiamo cogliere la meraviglia di incanti, voci, musiche, nuvole da cui piovono ricchezze. Tutto, alla fine, svanisce e si dissolve nell’aria, perché siamo della materia di cui sono fatti i sogni. In questo Shakespeare sembra persino annunciare le smaterializzazioni dei mondi virtuali.
Prospero dichiara che la sua biblioteca costituisce per lui un ducato sufficientemente grande, ma per quanto l’uomo studi, il mondo resta governato dalle violenze del potere. Non c’è isola fuori dalle mappe che possa garantire la salvezza. Il teatro diventa lo specchio ideale di opposizioni e contrasti che senza l’intervento ordinatore della poesia resterebbero sound and fury. Quella che Shakespeare firma per nostro conto ad ogni lettura, ad ogni rappresentazione, è la pace provvisoria di cui ci dobbiamo stoicamente accontentare, facendo nostro l’amaro sorriso di Prospero.
Vivere nella tempesta significa accettare la vita tutta intera, nelle sue burrasche e nello stupore dei brevi momenti d’incantamento che ci regala. Significa accettare l’ombra e provare ad ascoltarla, a decifrarla. Significa pentirsi, perdonare, chiedere e dare misericordia, riacquistare la libertà, salvarsi, ricominciare, rinascere. Sono le parole che con Papa Francesco tornano ad essere nuove.
“Skakespeare in love” per festeggiare il Bardo *
OMAGGIO a William Shakespeare in occasione dei 400 anni dalla scomparsa del poeta, proposto dal canale tematico Iris da domani. Grandi film, documentari, teatro per celebrare il Bardo.
La rassegna si apre con Shakespeare in love di John Madden con Joseph Fiennes e Gwyneth Paltrow (sette Oscar, tre Bafta, tre Golden Globe). Tra le proposte La bisbetica domata di Zeffirelli, protagonisti Elizabeth Taylor e Richard Burton, il documentario Bbc in prima visione assoluta Shakespeare uncovered, presentato da Morgan Freeman. In cartellone i film Romeo + Giulietta di William Shakespeare, Romeo e Giulietta, Sogno di una notte di mezza estate, Titus, Othello, Otello, West Side Story, Il pianeta proibito, Riccardo III - Un uomo, un re, Hamlet (in lingua originale). Non solo cinema. Il ciclo offrirà anche documentari inediti in Italia, realizzati dalla tv pubblica inglese.
* la Repubblica, 17.04.2016
“La Tempesta”, istruzioni per l’uso dell’opera di Shakespeare e dei segreti che nasconde
Nel saggio appena uscito, Nadia Fusini offre una rilettura della commedia del grande drammaturgo che si incrocia con l’autobiografia e la storia dell’Inghilterra elisabettiana
di Leonetta Bentivoglio (la Repubblica, 06.04.2016)
Ci sono opere d’arte che ci scovano, ci intrappolano, ci restituiscono la nostra immagine sfondandone la superficie, la interrogano fino a decifrare la coscienza di noi stessi. Certi capolavori si moltiplicano dentro di noi tracciando una riconoscibilità che prescinde da tutto: tradizione, lingua, esperienze, caratteristiche psicologiche e ambientali. Questo rappresenta La Tempesta per Nadia Fusini, scrittrice e studiosa che ha dedicato a Shakespeare una parte essenziale delle proprie indagini.
Avviene ora che tramite il suo nuovo libro, Vivere nella tempesta, appena uscito per Einaudi (pagg. 202, euro 18,50), La Tempesta di Shakespeare possa assumere la medesima funzione per ogni suo lettore. Guidandolo in un mondo in grado di smuovere (tempestosamente) le ragioni dell’essere, in senso intimo e oggettivo. Da questa commedia tardiva di Shakespeare affiora una poesia “ultima” dell’esistenza che può proiettarci nel cuore della vita intera.
Fusini lo sa, e ha attraversato sempre con devozione e accanimento tale consapevolezza, che però qui, in Vivere nella tempesta, tocca col massimo della profondità e del coinvolgimento personale (è già autrice di importanti lavori su Shakespeare). Perché parlando di Prospero, Miranda e Caliban, della loro isola spiritata e salvifica, del gruppo di naufraghi che vi trova rifugio e iniziazione, questo libro parla anche di lei, dei suoi trascorsi autobiografici, dell’isola che mitizzò durante l’infanzia, del suo forte legame con il padre.
Al contempo parla di politica, psicoanalisi, storia sociale dell’Inghilterra elisabettiana, imprese di navigatori seicenteschi e accadimenti odierni. Parla di esuli che sbarcano sulle nostre coste in cerca di salvezza e della cieca voglia di potenza che domina tante menti. Parla del cosmo sterminato e trasversale equivalente alla cultura umana, dove il viaggio è ritornante e prismatico per reiterazioni, conferme e rimandi, capaci di riflettere un sentire e un sapere che ci riguarda tutti, in ogni epoca e geografia del pianeta. È l’idea della condivisibilità dell’arte l’aspetto più emozionante di questo vorticoso saggio, che si trasforma anche in romanzo e in diario, dove La Tempesta diventa specchio di tutte le nostre tempeste.
Come una conchiglia erogatrice di sonorità stratificate, il play shakespeariano può regalarci percorsi analogici e metaforici a volte nati dai fatti storici. Vedi l’episodio di una nave, la “Sea-Venture”, che nel 1609 è inghiottita dalle onde al largo delle Bermuda e data per dispersa; si scoprirà in seguito che l’equipaggio è sopravvissuto grazie all’approdo in terre strane e ignote. Nell’estro del drammaturgo s’agitano sollecitazioni attinte dalla concretezza di un’era colma di esplorazioni del Nuovo Mondo e di febbri colonialistiche.
Ma le chiavi per introdursi nella Tempesta trasfigurano la cronaca segnalando agganci etici, filosofici e letterari. L’isola è il luogo altro, dove tutti si salvano e l’immaginazione trionfa. È il test che mette alla prova le qualità morali dei naufraghi, il confronto col dolore e la perdita, la possibilità di accesso al “paese reale” di Simone Weil. È un campo da cui traspare l’affinità tra Shakespeare e Montaigne nel gusto del paradosso, nell’ironia, nel relativismo provocatorio e tollerante.
Capiamo a un tratto che l’isola è anche quella dell’Eneide, e che il naufrago Ferdinand, di cui s’innamora Miranda, è un nuovo Odisseo o un novello Enea. Caliban è il diverso, lo schiavo, il selvaggio da domare, l’irrazionale da reprimere. Figlio della strega Sycorax, dà un volto alla paura diffusa a Londra all’alba del capitalismo, simboleggiando il proletariato aggressivo e generando fantasie di mostri e streghe. Tutt’altro è la sua bramata “quasi-sorella” Miranda, limpida, passionale, vicina alla natura. Col suo slancio di compassione e perenne meraviglia, Miranda incarna un ennesimo tema della Tempesta, quello che vede come azione sovrana dell’uomo la pietà. Il padre di Miranda è Prospero, esule e mago come John Dee e Giordano Bruno, mentre Antonio è il fratello- caino che gli ha tolto il regno.
D’altronde sembra che chiunque stia sull’isola aspiri a comandare, ed è il potere un ulteriore cardine dell’opera. Ma la strada della libertà avanza verso la rinuncia realizzata da Prospero, che si sottrae al possesso del governo e dona l’adorata figlia al nuovo sposo. Perché La Tempesta è soprattutto rinascita dopo il naufragio.
“Con cinque giovani attori palestinesi sfido la sacra scrittura di Shakespeare”
Marco Paolini porta in scena con lo Stabile di Torino (e Vacis) “Amleto a Gerusalemme”.
Ultimo atto di un progetto nato nel 2008: “Per quei ragazzi è come affrontare il Corano”
di Tiziana Platzer (La Stampa, 29.03.2016)
Sta fuori al sole, nel cortile delle Fonderie Limone, la struttura-scuola-fabbrica teatrale del Teatro Stabile di Torino. Parla con un ragazzo palestinese, che ha un copione in mano, e lo agita. Una delle felici anomalie dello spettacolo è che gli interpreti discutono continuamente di quello che portano in scena.
Pane per i denti di Marco Paolini, da qualche settimana «residente» alle Fonderie per le prove di Amleto a Gerusalemme, al debutto stasera. Un progetto di Gabriele Vacis a cui l’artista veneto ha collaborato - il primo incontro teatrale fra i due risale ai tempi di Vajont, nel 1994 - ed è interprete, insieme a cinque giovani attori palestinesi e tre italiani.
Quando è andato per la prima volta a Gerusalemme?
«Quando Vacis mi ha chiamato, nel 2008. A lui diede l’incarico l’Eti, con il sostegno del ministero degli Esteri e la Cooperazione per lo Sviluppo: l’idea era creare una scuola di recitazione teatrale. Quando chiese agli insegnanti palestinesi quale attore italiano avrebbero voluto per un seminario, dissero Dario Fo. Ma Fo non era disponibile».
Lei sostituto di un Nobel quindi...
«Praticamente sì, un vice. Ho lavorato al Palestinian Theatre a Gerusalemme Est una settimana, cercando di proporre una commedia veloce, una fisicità che permettesse di togliersi rapidamente dalla scena. E alla costruzione di un canovaccio con ciò che osservavamo attorno a noi».
Ma lo spettacolo narra storie autobiografiche o Shakespeare?
«A quelle audizioni risposero in ottantasei, e trenta ragazzi furono presi, dai 15 anni in su. Adolescenti che volevano essere come tutti gli altri adolescenti del mondo, e Amleto era per loro quello che è per i nostri ragazzi che desiderano fare teatro: una sfida vera. Lo chiesero loro. In Palestina il teatro è per pochi, ma se per noi Shakespeare è una “sacra scrittura”, per quei ragazzi è stato come affrontare il Corano».
Temi delicati per i giorni che viviamo, lei è riuscito a essere un osservatore neutrale?
«Mi sono trovato davanti giovani con un’energia incredibile, contagiosa e più cercavo di assorbirla e più ne tiravano fuori. Loro certo non sono mai stati neutrali rispetto al vissuto che portavano sul palco. Sono tanti i ricordi di quei giorni, l’entrata in Gerusalemme, i controlli, i soldati, i pellegrini, eppure l’immagine che ho è entrare al Teatro Nazionale e vedere una fila di sessanta scarpe allineate al limite del palco. Sentire quell’odore di chi prepara i propri piedi a entrare nel teatro».
E la fotografia di oggi qual è?
«Dopo sette anni di quei 30 ragazzi ne sono rimasti cinque, che rappresentano la nuova generazione di attori palestinesi. Abbiamo perso tutte le ragazze, però, perché al compimento dei 18 anni le famiglie non permettono di stare in scena».
Impensabile per le donne una carriera nello spettacolo.
«Sì, ma penso lo possa essere anche per la famiglia di un ferroviere italiano».
E lei in mezzo a questa potenza generazionale, che spazio si è riservato? Voce narrante dell’«Amleto»?
«Ancora volete che racconti storie? Faccio il capocomico, il più vecchio di loro ha la metà dei miei anni. Ma sono un attore e vivo la competizione, per cui ogni tanto esagero. Il mio stare in scena è cercare di cambiare la misura di quello che il teatro produce, pensando soprattutto a chi non ha mai comprato un biglietto per uno spettacolo nella sua vita. Ho creduto che questa fosse l’unica occasione, per me, di cimentarmi con l’Amleto».
"UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FILOSOFIA E PSICOANALISI. E. Fachinelli, Sulla spiaggia (1985): La mente estatica (1989). Il libro, nella dedica, è "per Giuditta"....
LA DECAPITAZIONE DI OLOFERNE E LA FINE DELLA CLAUSTROFILIA. UN OMAGGIO A ELVIO FACHINELLI. Una nota sull’importanza della sua ultima coraggiosa opera
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Una nota di Eleonora Cirant (e altri materiali)
CHI SIAMO NOI, IN REALTA’?! RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTA’: UN NUOVO PARADIGMA.
CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE.
Che fine ha fatto il teschio di Shakespeare?
Per un documentario di Channel 4 esaminata con il radar la tomba del Bardo: profanata probabilmente due secoli fa, sfidando la maledizione incisa sulla lapide
di Vittorio Sabadin (La Stampa, 27.03.2016)
Sulla lapide della tomba di William Shakespeare nella Holy Trinity Church di Stratford-upon-Avon non è stato inciso il suo nome, ma un invito in versi a non toccare le ossa che quel sepolcro contiene. Un esame del loculo effettuato con un radar in grado di penetrare il terreno ha però permesso di scoprire che l’invito, pure accompagnato da una maledizione, non è stato rispettato: la tomba è stata profanata probabilmente due secoli fa, e il teschio di Shakespeare è stato rubato.
L’indagine commissionata da Channel 4, che ha mandato in onda ieri sera in Gran Bretagna un documentario sulla sepoltura del più grande poeta inglese, ha permesso di sfatare alcune leggende che si tramandano da tempo: Shakespeare non è sepolto in piedi come il suo amico e scrittore Ben Jonson all’Abbazia di Westminster; il corpo non si trova a cinque metri di profondità come si diceva, ma a 90 centimetri dalla superficie; è avvolto in un lenzuolo e non rinchiuso in una cassa. Ma dove si sarebbe dovuta trovare la testa del poeta ci sono segni di uno scavo e di terra frettolosamente rimessa a posto. È visibile anche una strana «scatola» di mattoni, della quale si ignora lo scopo.
La voce che il teschio di Shakespeare fosse stato rubato era circolata già nel XVIII secolo, un’epoca nella quale la violazione delle tombe era molto frequente. «C’era l’abitudine - ha spiegato l’archeologo Kevin Colls, direttore del progetto - di prelevare i teschi delle persone famose per analizzarli e per scoprire le ragioni anatomiche del loro genio. Da questo punto di vista il teschio di Shakespeare era un obiettivo molto appetibile».
Il 23 aprile si celebreranno i 400 anni dalla morte del drammaturgo, una ricorrenza così importante da avere convinto il vicario della Holy Trinity, Patrick Taylor, a concedere il permesso di esaminare con il radar la tomba. La scritta sulla lapide maledice solo chi «muoverà le mie ossa», e sembra dunque autorizzare uno scanner. «Ma non faremo altro - ha detto Taylor - e rispetteremo la richiesta di Shakespeare di non essere disturbato. Il mistero della sua tomba non sarà svelato, e non sapremo mai che cosa esattamente contiene».
Quei versi di Shakespeare per i rifugiati: "Barbaro e disumano è chi li respinge"
a cura di CORINNA SPIRITO *
"Vedere gli stranieri derelitti, coi bambini in spalla, e i poveri bagagli, arrancare verso i porti e le coste in cerca di trasporto". Sembra una descrizione attuale del dramma dei rifugiati. E’ invece un’accorata difesa dei diritti di chi fugge da fame, guerre e persecuzioni scritta più di 400 anni fa da William Shakespeare, riscoperta in questi giorni proprio sull’onda dell’attenzione internazionale sulla crisi dei migranti.
Il passaggio è contenuto nel manoscritto del "Sir Thomas More". Il dramma non è mai stato rappresentato ed è sopravvissuto in un’unica copia: si tratta dell’ultimo testo scritto a mano dal celebre poeta conservatosi fino ai nostri giorni. Oggi che la British Library ha digitalizzato e caricato online il "Sir Thomas More", insieme ad altre 299 manoscritti, se ne è riscoperta l’attualità.
"Immaginate di vedere gli stranieri derelitti, coi bambini in spalla, e i poveri bagagli, arrancare verso i porti e le coste in cerca di trasporto", recita uno dei passi del secondo atto. Shakeaspeare si riferisce ai tanti francesi protestanti che in epoca elisabettiana chiedevano asilo in Inghilterra: il numero sempre crescente di questi stranieri portò alla nascita di proteste anti-immigrazione nella città di Londra.
Rileggendo quelle parole oggi, però, è impossibile non pensare ai migranti che dalla Siria e dal Nord Africa rischiano le loro vite per raggiungere l’Europa.
William Shakespeare tenta, nelle sue pagine, di creare una certa empatia tra il suo pubblico e gli stranieri. Chiede agli spettatori di immaginare se stessi nella situazione di queste persone. "Se il Re vi bandisse dall’Inghilterra dov’è che andreste?", chiede il poeta. "Che sia in Francia o Fiandra, in qualsiasi provincia germanica, in Spagna o Portogallo, anzi, ovunque non rassomigli all’Inghilterra, orbene, vi troverete per forza a essere degli stranieri".
E poi continua, rivolgendosi ancora a chi attacca i migranti: "Vi piacerebbe allora trovare una nazione d’indole così barbara che, in un’esplosione di violenza e di odio, non vi conceda un posto sulla terra, affili i suoi detestabili coltelli contro le vostre gole, vi scacciasse come cani, quasi non foste figli e opera di Dio, o che gli elementi non siano tutti appropriati al vostro benessere, ma appartenessero solo a loro? Che ne pensereste di essere trattati così? Questo è ciò che provano gli stranieri. Questa è la vostra disumanità".
È incredibile accorgersi che un testo scritto 400 anni fa possa essere tanto attuale, ma queste parole confermano l’immortalità di William Shakespeare. Il poeta inglese parlò di sentimenti universali, in cui i lettori possono riconoscersi a distanza di secoli: l’amore, l’odio, la vendetta, la gelosia, la pietà.
Il manoscritto di Sir Thomas More, che sarà mostrato al pubblico il prossimo 15 aprile in occasione di una mostra alla British Library dedicata a Shakespeare, è l’ennesimo esempio di come la storia si ripeta: le migrazioni sono sempre esistite, causando gli stessi sentimenti in ogni epoca
«Antonio e Cleopatra», «Cimbelino»: la lezione del secolo che vide un’intersezione senza precedenti tra scienza e filosofia
«Un nuovo cielo»
Anche Shakespeare si ispirò a Galileo
di Edoardo Boncinelli (Corriere della Sera, La Lettura, 06.03.2016)
Le ultime settimane sono state tutto un ribollire di furenti discussioni politiche e di anniversari. Solo qualcuno ha ricordato, tra le altre, la ricorrenza della nascita di Galileo (15 febbraio 1546). A riportarmi alla realtà è stata una serie di messaggi su Twitter, che hanno giustamente celebrato l’anniversario della nascita del nostro grande scienziato-filosofo. Mi ha colpito in particolare il riferimento a un libro del 2014 riguardante nientemeno che l’influenza delle scoperte del nostro sulle opere di William Shakespeare. Il libro è The Science of Shakespeare. A New Look at the Playwright’s Universe di Dan Falk. Vi si afferma, tra l’altro, che chiunque sia stato, Shakespeare è vissuto in un momento veramente speciale della nostra storia.
Nato lo stesso anno di Galileo appunto, definito dall’autore «un padre fondatore della rivoluzione scientifica», e poco prima di Montaigne, Shakespeare è stato testimone di un’intersezione senza precedenti fra scienza e filosofia, nel momento in cui l’umanità cercava affannosamente di dare un senso alla propria esistenza.
Non c’è dubbio che uno degli eventi che allora contribuirono alla rifondazione di un tale senso sia stato lo sviluppo e quasi l’esplosione dell’astronomia osservativa, che portò un nuovo tocco di scientificità all’antica domanda sull’ordine che regna nel firmamento.
«Devi allora scoprire un nuovo cielo, una nuova terra», dice Antonio a Cleopatra nel dramma shakespeariano, e di nuovo cielo e di nuova terra, espressione ripresa dall’Apocalisse, veramente si trattò, allorquando si cominciò ad aprire gli occhi sulla struttura del cosmo, fino ad allora inattingibile palcoscenico di entità iperuranie, schermo fisso di realtà visibili come le stelle, ma sfolgorante indizio di verità «superiori», a noi celate.
Non possiamo ignorare, d’altro canto, le illuminanti parole di Giordano Bruno, un altro grande di cui si è celebrata la ricorrenza in questi giorni. «Non è che, rispetto all’universo, tu possa dire di essere più al centro che in qualsiasi altro luogo; perché è evidente che tutto all’intorno, ugualmente, da qualunque parte, si apre uno spazio infinito, che contiene infiniti astri e mondi», dice Bruno nel De immenso et innumerabilibus, e continua: «Considera come l’orizzonte, osservato da un’altra torre, mostri che il convesso continua il piano; quando sia impossibile correre oltre con lo sguardo, sarà come se la natura progenitrice si sia eretta una muraglia dinanzi; ma se, al contrario, sarà possibile superare ogni confine, si potrà vedere, allora, intrecciarsi ciò che è e ciò che non è».
Il pensiero filosofico era quindi pronto al gran salto, ma occorreva trovare qualcosa di concreto che ci mostrasse «la potenza dei cieli» come una cosa quasi terrena. Occorreva cioè portare il cielo sulla terra, come fecero vari scienziati fra cui Galileo a quei tempi, e Isaac Newton qualche tempo dopo, nonché Albert Einstein ancora dopo, in una vicenda appassionante che ci fa oggi parlare di onde gravitazionali, come se le vedessimo o addirittura le potessimo «cavalcare».
È noto che sulla natura della forza che teneva la Terra avvinta al Sole - e le mele sempre sull’orlo di cadere dal ramo - Newton non si volle esprimere. «Hypotheses non fingo», non faccio ipotesi, affermò a tal proposito con la ostinata e ostentata sobrietà dello scienziato. Ebbene, in questi giorni abbiamo appreso che la forza di cui sopra viaggia come un’onda dello spazio-tempo impiegando ad esempio poco più di otto minuti per raggiungere il nostro pianeta partendo dal Sole. Come dire che le forze gravitazionali viaggiano nel cosmo come onde, impegnando secondi, minuti, ore, anni o miliardi di anni, secondo i casi.
Detto così, sembra un raccontino per ragazzi, ma consideriamo quanto tempo, quanto ingegno e quanti sforzi materiali ci sono voluti per raggiungere una tale consapevolezza! «Eppur si muove!», è il caso di esclamare con Galileo. In tutto l’universo qualcosa si muove, e le azioni dei corpi che lo popolano richiedono tempo per raggiungere i loro obbiettivi. Niente viaggia a velocità infinita, anche se tanti si sciacquano continuamente la bocca con la parola «infinito». Ognuno fa la sua parte nel cosmo; ciò che è miracoloso e eccezionale è che noi lo stiamo comprendendo e descrivendo, talvolta minuziosamente.
Questo è il clima inaugurato da Galileo e respirato anche da Shakespeare e dai suoi contemporanei, almeno alcuni. Stupore, ansia di infinito, senso e superamento del limite e, nello stesso tempo, immanente trascendimento dell’umano, figurano fra i temi portanti delle sue opere, e non si può negare che descrivere le frenesie e le bassezze, ma anche le magnanimità, ha un altro sapore e un altro valore prospettico se le gesta dei protagonisti vengono proiettate contro una realtà fisica così prepotentemente dilatata.
Dan Falk nel suo libro esplora la connessione fra l’arte del famosissimo drammaturgo e lo spirito della rivoluzione scientifica, concludendo che il Bardo stesso fu significativamente influenzato dal progresso scientifico, e in particolare dall’astronomia dell’epoca. Una delle osservazioni più interessanti è quella che egli fa a proposito della commedia romantica Cimbelino. Riferendosi in particolare a una strana scena, altamente simbolica, dell’ultimo atto del dramma, dove il protagonista vede in sogno gli spiriti dei quattro membri defunti della sua famiglia aleggiare intorno a sé dormiente, si chiede se i quattro spiriti che gli volano intorno non possano essere un riflesso, magari inconsapevole, delle quattro lune che ruotano intorno al pianeta Giove, lune appassionatamente studiate e descritte da Galileo. Per fare una tale affermazione, l’autore cita, ovviamente, un certo numero di testimonianze sulle quali non possiamo soffermarci, ma basti dire che il dio Giove figura effettivamente nella commedia in questione, ed è l’unica volta che questi compare in un’opera di Shakespeare.
Possiamo concludere con una citazione dallo stesso dramma. Iachimo, gentiluomo italiano, dice, rivolgendosi alla figlia di Cimbelino: «Grazie,/ bellissima signora. Ma sono forse pazzi gli uomini?/ Dalla natura hanno avuto gli occhi per contemplare/ la volta celeste e l’inesauribile ricchezza/ della terra e del mare, per distinguere/ i globi di fuoco lassù dalle pietre indistinte/ sparse lungo le spiagge, e non riescono/ con lenti tanto perfette a distinguere/ il bello dal brutto?». O il bene dal male. Parecchi decenni più tardi Maria Mitchell, una pioniera dell’astronomia moderna, ebbe a dire: «C’è un particolare bisogno d’immaginazione nella scienza. Non è tutta matematica, né tutta logica, ma è piuttosto un’esperienza di bellezza e di poesia».
Shakespeare
Perché parliamo tutti come il poeta di Stratford upon Avon
Quattrocento anni fa moriva il Bardo. Che è entrato nella nostra vita descrivendoci davvero
Anche chi non lo ha mai letto potrà dirsi amletico. E quale donna non si è mai sentita presa in un gioco come Ofelia?
di Nadia Fusini (la Repubblica, 15.01.2016)
Se Shakespeare è davvero quel tale William battezzato a Stratford upon Avon nelle Midlands il 26 aprile del 1564, la sua morte non desta incertezze: morì all’età di 52 anni sempre a Stratford upon Avon, il 23 aprile del 1616. Sì che quest’anno, a distanza di quattro secoli, dovunque nel mondo si celebrerà la sua scomparsa. E già dall’inizio di questo fatidico 2016, per lo più bisestile, in tutta Europa fervono le iniziative per ricordare l’anonimo, elusivo, sfuggente scrittore di teatro e poeta, che risponde a quel nome, della cui vita privata non sappiamo poi molto, ma che identifichiamo con un corpus di opere, fondamentali alla nostra identità. Opere in cui, ricordando il settecentesco Samuel Johnson, un altro lettore forte di Shakespeare, nostro contemporaneo, e cioè Harold Bloom, riconosce l’invenzione della nostra stessa idea di umanità.
Cioè a dire, siamo quel che siamo perché chiunque si nasconda dietro il nome di Shakespeare in molti modi ci è padre, e dalla lontananza di una paternità tutta spirituale e immaginaria ci offre una galleria di tipi umani che sono nel tempo diventati icone del nostro mondo immaginario. E della nostra coscienza. E cioè, caratteri che partecipano della nostra vita e ricorrono nei nostri discorsi perché riconosciamo in loro emozioni che sono le nostre, diverse, eppure medesime, come quando diciamo non fare l’amletico a qualcuno che dubita, o non sarai mica geloso come Otello, di qualcuno che sospetta della fedeltà della sua donna, o sei più cattivo di Iago di qualcuno la cui malignità non riusciamo a spiegarci...
In realtà, Shakespeare non è mai stato “classico”, piuttosto sempre “popolare”. Non è l’accademia ad avere “salvato” Shakespeare, né con le spuntate armi della pedanteria saccente si raggiunge la bellezza dell’invenzione shakespeariana. È piuttosto attraverso media quali il teatro e il cinema, che Shakespeare è entrato nella nostra vita. Anche chi non ha letto Romeo e Giulietta, può invocare Romeo come proprio fratello, nel caso un destino avverso lo divida dalla propria amata. Anche chi non ha letto l’Amleto, in certi momenti della sua vita potrà dichiararsi “amletico”. E cioè, indeciso riguardo al proprio atto, svogliato rispetto al compito che il padre morto o la famiglia o la società tutta gli impongono.
Ci sono poi altri giorni in cui si insedia nella nostra mente un cattivo pensiero che la parte buona non riesce a vincere, e allora ci sentiamo vicini al nobile Macbeth, il quale fa quello che fa, e cioè uccide il buon re Duncan, che pure ama, perché sente delle voci, le voci delle streghe, che danno parola al suo desiderio inconscio. E altri giorni ancora in cui prendiamo la vita al modo di Falstaff, e non vorremmo che godere - del cibo, del sesso, del gioco, e barare e rubare e mentire come fa lui, con strafottenza, e cioè da vero playboy qual è, da quel grandissimo ed esasperante ed espansivo eroe della “carne” che è Falstaff.
In questo senso, e cioè alla lettera, il teatro di Shakespeare dispone per noi in scena una comédie humaine, al cui vasto repertorio possiamo attingere nelle più diverse e varie occasioni, quando emozioni nuove insorgono dentro di noi, e rimangono lì sospese, in attesa che, oltre a provarle, le si trasporti a una qualche forma espressiva. Che modella la nostra stessa interiorità. E cioè, il nostro teatro interiore.
Chi di noi donne non si è sentita Ofelia, l’innamorata, che presa in un gioco tutto maschile si fa ignara pedina, che pezzi più forti di lei sulla scacchiera inghiottono? E altre volte non ci siamo forse sentite Gertrude, la regina vorace che morto un marito, se ne fa un altro, senza troppo tergiversare? Non sarà forse da ammirare, e non da criticare al modo violento con cui lo fa il figlio Amleto, la sua vivace abbreviazione del tempo del lutto, quasi ci discolpasse di una certa superficialità, che fa comunque trionfare la voglia di vivere, rispetto alla tetra sosta nelle oscure caverne del lutto? Esistono donne così, fedeli al proprio piacere, costanti rispetto a una bussola con sfacciata fede puntata a godersi la vita, anche il sesso. Perché no?
Come esistono altrettante donne “ideali”: la Porzia romana, moglie di Bruto, figlia di Catone, che all’ideale del nome del padre e del marito si sacrifica. O come Cordelia, la figlia che al vecchio padre dice la verità, perché solo e soltanto la verità si deve a chi amiamo. O la veneziana Desdemona, eroina del free- will, che contro la volontà paterna e a dispetto delle convenzioni sociali, liberamente sceglie il Moro contro più addomesticati cicisbei veneziani. D’accordo, non finisce bene, ma l’atto di libertà della Desdemona shakespeariana resta, e trionfa contro le più tarde sentimentali incarnazioni del personaggio.
Come resta indimenticabile la libertà di Caterina, che Petruccio tenta invano di domare, finché non è lui a cedere alla superiore potenza della lingua indomabile della donna, equivalente fallico di un membro virile non altrettanto attivo. Sì che da domatore si ritrova domato, e l’avvertito lettore non potrà che domandarsi perplesso, alla fine: a che cosa servono questi concetti così fallaci? Non concetti, in realtà, ma pure convenzioni di comodo, come le distinzioni di genere? A ordire una grammatica, rispetto alla quale tutti scartiamo? E nessuno è al posto suo?
E se un uomo è un uomo e adora il potere, e giustamente identifica nell’oggetto corona o scettro il simbolo più efficace della potenza fallica, non gli verrà spontaneo alla bocca il nome di Riccardo III, così cattivo e feroce e spietato? Capace di tutto, perfino di prendere in sposa la stessa donna a cui ha ucciso il padre e il marito, se serve alla sua carriera. Finché si ritrova solo sul campo di battaglia ed emette quello sconsolato grido: «Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo!». Tutto ora scambierebbe per qualcosa che non ha.
E sempre tra gli uomini, quale uomo di potere sapiente e audace nei suoi giorni più maturi non s’è perso, anche se non in Oriente, tra le braccia di una seduttrice? Non c’è uomo politico di razza che non abbia sfiorato il pericolo Circe o Cleopatra, specchiandosi in tal caso in Antonio. E cioè, subendo la tentazione di lasciar naufragare Roma nel Nilo, per dirla con il romano tra le braccia della regina di Egitto. Che comunque è un bel modo di finire; di certo non peggiore di chi come Lear impazzisce per non sapersi arrendere all’evidenza della vecchiaia, che disarma l’uomo potente. Staccarsi dalla propria potenza, devolvere il potere al più giovane, è mossa difficile all’uomo abituato al comando.
Quanto all’uomo tout court, all’uomo comune, all’uomo normale, non ce n’è uno che non si sia ritrovato almeno una volta con le orecchie di Asino come Bottom, scoprendo la propria vulnerabilità di fronte agli incostanti capricci di una donna-regina... È il mistero della vita che Shakespeare incarna per noi, offrendoci di volta in volta nei suoi personagggi le maschere grazie alle quali venire in contatto con le nostre più segrete pulsioni, confermando che la pulsione, o più semplicemente la passione di vivere è di per sé teatrale, esibizionista.
Shakespeare re di teatri e Twitter a 400 anni da morte
Londra crea apposito hashtag. Celebrazioni a livello globale
di Alessandro Carlini (Ansa, 05 gennaio 2016)
Non conta l’epoca. William Shakespeare a 400 anni dalla morte è ancora protagonista indiscusso della cultura mondiale e la sua eredità si ritrova ovunque, dai teatri, ai cinema, alla tv e perfino su Twitter. Per celebrare lo storico anniversario che ricorre il prossimo 23 aprile, il British Council ha organizzato un fitto calendario di eventi e iniziative, fra cui il lancio, con tanto di intervento del premier David Cameron, dell’hashtag (e di un sito web) chiamato ’Shakespearelives’.
Il Bardo, quindi, è più ’vivo’ che mai e i suoi capolavori rivivranno attraverso una serie di eventi disseminati in 110 paesi diversi, da festival internazionali a tournée teatrali, esplorando però ogni mezzo espressivo e con la particolare attenzione che i tempi impongono ai progetti digitali che puntano ad una partecipazione di massa, globale, interattiva e interconnessa. Una realtà che sembra così lontana da quel 1616 quando lo scrittore inglese morì all’età di 52 anni a Stratford-upon-Avon (anche la sua città natale).
Eppure oggi non è difficile immaginarlo a twittare: le sue notissime e numerose citazioni e frasi entrate nel lessico corrente sembrano perfette, nella forma e nei contenuti, acute e sintetiche, per i 140 caratteri che dominano l’era della comunicazione 2.0. E già si prevede un grande successo per l’hashtag dedicato alle celebrazioni in una vera e propria gara a citare i passaggi delle tragedie più famose, dall’Amleto al Macbeth. Le opere del Bardo saranno anche ricordate nelle nuove monete da 2 sterline che avranno alcuni simboli ricorrenti nell’immaginario shakespeariano: il teschio e la rosa, la corona e la spada.
"L’eredità di Shakespeare non ha paragoni: le sue opere sono state tradotte in più di 100 lingue e vengono studiate dagli alunni di metà del pianeta", ha affermato Cameron, lanciando il sito ufficiale delle celebrazioni. E’ lo stesso primo ministro a sottolineare la portata planetaria degli eventi: la Royal Shakespeare Company farà una tournée in Cina, dove il Bardo è un degli autori più amati, mentre la compagnia del Globe di Londra si esibirà dalla Danimarca all’Iraq. Ma ci saranno anche conferenze e convegni per rivelare i ’segreti’ attorno a una figura tanto studiata e analizzata ma per certi versi ancora oscura.
Re Lear
Leggere Shakespeare ai tempi del terrorismo
Londra, 1605: un maxi-attentato sventato semina il caos
Volevano far saltare in aria il Parlamento con ben trentasei barili di polvere da sparo
È l’anno in cui nasce il capolavoro
di Siegmund Ginzeberg (la Repubblica, 15.12.2015)
Un attentato terroristico clamoroso che, seppur sventato all’ultimo momento, sconvolge una delle più grandi capitali del mondo. Popola gli incubi e le fantasie di tutta l’Europa. Scatena paura, anatemi, cacce ai complici e ispiratori, e ai simboli di un’altra religione, minoritaria nel paese. Sarà l’argomento del giorno per molto tempo. Ne parlano e ne scrivono tutti. Compreso William Shakespeare.
L’anno è il 1605. La città è Londra. I cospiratori volevano far saltare in aria il Parlamento riunito in seduta solenne il 5 novembre, con tutto il governo presente. Avevano affittato un appartamento nelle vicinanze. Avevano scavato un tunnel fino ai sotterranei della Camera dei Lord a Westminster ed erano riusciti ad ammassarvi ben 36 barili di polvere da sparo.
I congiurati erano cattolici ultrà. Non dei disperati ma un gruppo di gentiluomini colti, guidati da sacerdoti della Santa romana Chiesa. Il bello è che ce l’avevano non con la protestante Elisabetta I, la regina che aveva fatto la guerra al Papa e alla Spagna cattolica, imprigionato e torturato come agenti del nemico preti e gesuiti, fatto decapitare la cattolica cugina Maria Stuart, ma con Giacomo I che le era succeduto sul trono e che era uno Stuart, e quindi molto più moderato, inizialmente portato a una riconciliazione coi cattolici.
I congiurati erano stati denunciati da una lettera anonima. Quello che doveva dare fuoco alle micce era Guido Fawkes, uno che aveva fatto esperienza militare nelle guerre dei Paesi bassi (la Siria, l’Iraq e l’Ucraina di quei tempi). Fu arrestato subito. Poi partì la caccia a quelli che erano fuggiti in altre parti d’Inghilterra nel vano tentativo di mettere in piedi una rivolta armata.
Si diede molto rilievo alla scoperta di arsenali nascosti dove venivano tenute armi e soprattutto simboli dell’altra religione: “crocefissi, calici, e altri aggeggi per celebrare la messa (cattolica)”. Uno solo, un gesuita, un agente segreto del Papa, che era forse il capo della congiura, riuscì ad attraversare la Manica e rifugiarsi sul Continente. Gli altri furono ferocemente torturati perché confessassero, poi processati. Poi nel gennaio 1606 furono impiccati, poi decapitati, poi eviscerati, poi smembrati e squartati e infine bruciati in piazza.
La tremenda ironia della storia fa sì che ancora oggi a Londra si celebri ogni anno, con festa e fuochi d’artificio, il giorno in cui fu sventato il “Complotto delle polveri” (è un po’ il loro 4 o 14 luglio). E che allo stesso tempo Guy Fawkes, e la sua Maschera coi baffetti e il pizzo, siano diventati invece simbolo della protesta contro il potere e le sue macchinazioni.
Ai retroscena, ai postumi, e soprattutto all’impatto che l’avvenimento ebbe sulla psiche dei contemporanei, e sulla cultura dell’epoca, a partire dal suo massimo esponente, è dedicato buona parte di un libro fresco di stampa di James Shapiro, 1606: William Shakespeare and the Year of Lear (Faber & Faber 2015).
Quello fu l’anno in cui Skakespeare completò la prima versione del Re Lear (e probabilmente scrisse anche il Macbeth e mise in scena l’Antonio e Cleopatra). Fu per lui uno dei periodi più produttivi. Il nuovo re e sua moglie erano molto più interessati al teatro di quanto lo fosse stata Elisabetta. Assunsero la compagnia di Shakespeare a corte. Gli diedero una livrea rossa e uno stipendio. E in effetti ci sarebbero state più rappresentazioni di opere di Shakespeare nei tre anni di regno di Giacomo I che durante l’intero lunghissimo regno di Elisabetta. Ma la cosa più straordinaria è come Shakespeare sia riuscito a lavorare alle dipendenze del Re senza per questo divenirne servo.
Certo non poteva più permettersi battute come quella su Hotspur che «mi ammazza sei o sette dozzine di scozzesi a colazione » nella prima parte dell’Enrico IV. E neanche di contraddire apertamente le narrazioni ufficiali sulla politica corrente. Ma è quasi incredibile come sia riuscito a convogliare anche in quegli anni, un profondo sospetto sugli abusi del potere, l’orrore per gli orrori della sua epoca (di cui era testimone diretto) e, insieme, l’immancabile profonda prospezione nei meandri della natura umana.
Il Lear, indipendentemente dalle circostanze in cui è maturato e che vengono dottamente evocate in questo libro, è un’opera colossale che scava e intreccia gli aspetti più oscuri e reconditi del potere, della trasmissione del potere, del passaggio e dei conflitti tra generazioni, tra padri e figli, delle ambizioni, delle illusioni e delle delusioni umane. Se ne è scritto e discusso forse più di qualsiasi altra tragedia di Shakespeare. È stato interpretato, reinterpretato, riscritto in tutti i modi immaginabili.
Shakespeare stesso ne fece due versioni diverse. Che si concludono pure in modo diverso. In una non si intravvede scampo. Nell’altra c’è un barlume, sia pure fioco, di speranza: «Voi ora governate questo regno e curate le ferite dello Stato”». In entrambe, il nuovo potente intervenuto a rimettere a posto le cose dice: «Al peso di questi tristi tempi si deve obbedire; dire quel che sentiamo, non quello che dovremmo dire. I vecchi hanno sofferto di più. Noi che giovani siamo, mai così tanto vedremo, né così tanto vivremo ». Non è solo fine della tragedia, è una profezia della fine del mondo. In qualche versione le figlie muoiono tutte, ma Lear sopravvive: torna il vecchio a raddrizzare le cose.
Nella versione di Edward Bond (che risale agli anni Settanta, in questi giorni portata in scena da Lisa Ferlazzo Natoli al Teatro India di Roma), anziché morire di crepacuore stringendo la salma dell’unica figlia che non lo aveva tradito, a Lear sparano mentre sta cercando di picconare il Muro che lui stesso aveva iniziato a costruire.
Il testo di Bond è molto diverso da quello di Shakespeare. E questo lo rende in qualche modo più “datato” dell’originale, profetico se si vuole rispetto alla caduta del Muro di Berlino, ma più legato a conflitti ideologici del secolo scorso a cui poi sono subentrati altri conflitti. Eppure la bella regia della Natoli, che ha avuto il coraggio di accorciare Bond, e la bravura degli attori, rimediano egregiamente all’inconveniente. Abbonda la violenza: esecuzioni sommarie, stupri, occhi cavati dalle orbite, sgozzamenti, ferri da calza infilati nel cervello attraverso le orecchie, un’autopsia sanguinolenta. Forse troppo: ma questo è puro Bond, così come puro Shakespeare nell’anno del terrorismo, e anche puro notiziario di attualità quotidiana dei giorni nostri.
Shakespeare cronista a teatro
Uno studio di James Shapiro evidenzia la tempestività del Bardo nel reagire ai fatti dell’epoca: come nel 1606 un anno tragico per l’Inghilterra, ma per lui magico
di Masolino D’Amico (La Stampa, 17.12.2015)
Con una di quelle audaci sovrapposizioni di comico e tragico che avrebbero sconcertato epoche successive più ligie alle presunte esigenze del decoro, subito dopo che Macbeth ha orrendamente assassinato il suo sovrano Shakespeare fa rompere un allucinato silenzio da colpi sonoramente bussati al portone del castello di Inverness, e quindi dal chiassoso arrivo di un portiere ubriaco che si accinge a rispondere. Costui chiacchiera a ruota libera, paragonandosi al portiere dell’inferno che deve accogliere un altro dannato. «Chi sarà questa volta?» dice più o meno. «Toh, un cavillatore che giurava su tutti i piatti della bilancia, che ha commesso tradimenti in nome di Dio...».
La parola per cavillatore, che tornerà più volte nelle farneticazione del portiere, è «equivocator», termine dotto e raro fino al 1606 - l’anno in cui Macbeth fu scritto - ma diventato di uso comune in seguito al clamorosissimo processo degli attentatori della Congiura delle Polveri, scoperta il 5 novembre dell’anno prima. Gentiluomini cattolici che volevano riportare il Paese nelle braccia della Chiesa di Roma avevano progettato un colpo ancora più devastante dell’attentato islamico alle torri gemelle, immagazzinando 36 barili di polvere da sparo nelle cantine del Parlamento col progetto di farli esplodere nel corso di una seduta plenaria. In un colpo solo sarebbero stati eliminati il re, suo figlio Enrico e tutto il governo.
Il complotto fu scoperto in tempo, e i responsabili, processati senza diritto alla difesa agli inizi del 1606. Con loro fu condannato anche il gesuita Henry Garnet, accusato non di complicità ma solo di aver messo mano a un trattatello anonimo di 66 pagine che fu rinvenuto all’Inner Temple, scuola di avvocatura londinese. Il trattatello insegnava la cosiddetta «equivocation», detta anche riserva mentale, ovvero i trucchi con cui i gesuiti spiegavano come mentire sotto giuramento: sovversione imperdonabile in tempi in cui l’affidabilità dei testimoni era fondamentale.
Dopo un lungo silenzio
Per questo reato Garnet fu condannato allo stesso supplizio dei congiurati, ossia a essere prima brevemente impiccato, quindi, tolto dal cappio ancora vivo, lentamente castrato, eviscerato, e finalmente squartato e decapitato. Quando fu sulla forca, alcuni seguaci irriducibili riuscirono tuttavia a tirarlo per i piedi e a farlo morire velocemente.
Il richiamo all’«equivocator» non è certo la sola spia sulla tempestività dei drammi di Shakespeare. 1606 - William Shakespeare and the Year of Lear (Faber & Faber), il nuovo studio di James Shapiro dopo quello relativo all’anno in cui il Bardo scrisse l’Amleto, ne contiene a dozzine.
Il 1606 fu un anno tragico per l’Inghilterra, anche se magico per il Bardo, che dopo un lungo periodo di quasi silenzio - in tre anni aveva scritto solo Misura per misura e Timone d’Atene, questo in collaborazione - licenziò Re Lear, Macbeth e Antonio e Cleopatra (tutti e tre interpretati da Richard Burbage: quale altro primattore al mondo ha mai avuto un’occasione simile?).
Il fatto era che, a differenza di Elisabetta, il nuovo re aveva la passione del teatro. Uno dei suoi primi provvedimenti dopo l’accessione nel 1603 era stato di ufficializzare la compagnia di Shakespeare come King’s Men: e un’antica ditta di Londra conserva ancora la pergamena che le ordina di consegnare a Shakespeare e ai suoi otto compagni quattro iarde e mezza di stoffa rossa perché si facciano le livree con cui comparire a Corte. Ci fu quindi una pressante richiesta di lavori nuovi, e nello scriverli certamente il drammaturgo fu stimolato dall’aria inquieta che circolava.
Gli interessi del nuovo re
Figlio di Maria Stuarda che Elisabetta aveva fatto giustiziare, il re di Scozia chiamato al trono d’Inghilterra tentò subito di unificare, oltre alla corona, i due regni, e per suo ordine nacque la nuova bandiera, lo Union Jack. Shapiro calcola che nella produzione di Shakespeare sotto Elisabetta le parole «English» e «Englishness» capitino 350 volte, contro solo 39 sotto Giacomo, mentre «Britain» compare solo due volte nei drammi elisabettiani contro 29 in quelli successivi. E Lear è un sovrano della Gran Bretagna che si mette nei guai proprio per avere diviso quello che era unito (già nel 1599 Giacomo aveva scritto un trattato contro la divisione dei regni).
Sia qui sia nel successivo Macbeth, ambientato in Scozia e dove figurano antenati dello Stuart - discendente dalla progenie di Banquo, cui le streghe hanno profetizzato il trono - sono parecchi richiami agli interessi del re, studioso di demonologia (dal fondamentale trattato di Samuel Harsnett contro le Egregie Imposture Papiste, 1603, Shakespeare prende molti termini e nomi di diavoli) ed esperto di stregoneria. Malgrado questi omaggi, non necessariamente espliciti, l’anno che Giacomo aveva iniziato con splendidi festeggiamenti continuò con una serie di delusioni.
L’opinione popolare si rivelò violentemente contraria alla vagheggiata unione, che il Parlamento sabotò e finalmente fece fallire. A luglio poi scoppiò la peste - i teatri furono chiusi, come avveniva quanto i morti superavano la trentina settimanale - e il flagello continuò a crescere costringendo la Corte a lasciare Londra, dove tornò assai mogia solo a novembre.
Quando i reali poterono concedersi uno svago teatrale per le festività, il 26 dicembre, toccò loro Re Lear; e non sappiamo quanto ne fossero rallegrati. La storia era famosa e tutti sapevano che finiva bene, ma Shakespeare la cambiò, facendo morire sia il sovrano sia sua figlia in modo così crudele che nella seconda metà del secolo, con un nipote di Giacomo sul trono, questa conclusione fu riscritta in una versione edulcorata che poi avrebbe continuato a tenere le scene fino al 1835.
L’amore è il motore dell’evoluzione
Le coppie che si scelgono fanno più figli e li curano meglio *
L’amore è uno straordinario ’motore’ per l’evoluzione: le coppie che si scelgono hanno infatti più figli e li curano meglio, aumentando così la probabilità di tramandare i propri geni. La scoperta, descritta sulla rivista Plos Biology, è stata fatta sui fringuelli diamante mandarino (o diamantini), che come l’uomo sono monogami, molto esigenti nello scegliere il partner e condividono le cure dei figli.
Noi esseri umani infatti siamo piuttosto complicati quando si tratta di trovare un compagno: riusciamo a trovare la persona giusta con cui mettere su famiglia spesso dopo tanti flirt, rifiuti umilianti, ripensamenti e qualche colpo di fortuna. Ma dal punto di vista dell’evoluzione l’essere così esigenti non è una perdita di tempo ed energie, quando bisognerebbe semplicemente moltiplicarsi? No, secondo la ricerca coordinata da Malika Ihle, del Max Planck Institute for Ornithology, che ha calcolato costi e benefici dell’amore su una popolazione di 160 uccelli. Ad alcuni di essi è stato consentito di scegliersi liberamente e di rimanere insieme, mentre nell’altra metà del gruppo, un po’ come i genitori d’altri tempi, si è intervenuti separando le coppie formate spontaneamente e facendo accoppiare tra loro gli esemplari ’dal cuore spezzato’.
I risultati sono stati sorprendenti: le coppie che si erano scelte avevano avuto il 37% in più di pulcini nati vivi, mentre le coppie ’forzate’ avevano il triplo di uova non fecondate e molti pulcini morti dopo la schiusa. Inoltre nelle prime 48 ore, periodo critico per la cura dei piccoli, i padri ’non innamorati’ erano meno diligenti nell’accudirli
Massimo Cacciari legge il gran Bardo. E’ il fratricidio il grande tema del Lear
di Salvatore Balasco ("Agenzia Radicale", 09 Luglio 2015)
Erede è nome di una relazione sommamente pericolosa, il cui senso viene oggi soffocato tra impotenti nostalgie conservatrici e sradicanti idee di “libertà". Siamo disposti ad accogliere soltanto eredità che non impegnino, che non obblighino, che non esigano da noi interrogazione e risposta, ma che, anzi, ci rassicurino ancor più nelle nostre pretese di “autonomia”. Tuttavia, ciò che è dimenticato non per questo è morto, e nessun destino impedisce di riascoltare il nome di erede in tutta la pregnanza che nelle nostre lingue ancora, nonostante tutto, esso conserva.
Lo segnala il filosofo Massimo Cacciari nel suo nuovo libro ’Re Lear. Padri, figli, eredi’, appena edito dalle Edizioni Saletta dell’Uva (Caserta, pp. 80, euro 10). Il tema ’ereditare’ sarà anche al centro della prossima edizione del FestivalFilosofia, in programma dal 18 al 20 settembre a Modena-Carpi-Sassuolo. Cacciari interverrà sabato 19 settembre, alle 16.30, in Piazza Grande, a Modena, con la lectio magistralis sul tema ’Figliolanza’. Il filosofo veneziano in questo contributo ci riporta con maestria sulla scena del dramma shakespeariano ambientato in Bretagna, con il vecchio re stanco che decide di ritirarsi a vita privata e dividere il suo regno tra le tre figlie.
Il mondo è malato, "it smells of mortality". Puzza nella sua stessa carne. Una malattia il figlio per il padre: tu sei un "desease... in my flesh", dice re Lear alla figlia. Impossibile l’intesa, ogni patto violato. Le connessioni tra gli elementi, la philia elementare che li collega si sono spezzate. Sono anomia e apoleia a regnare. Un viaggio nella tragedia familiare raccontata dal gran Bardo ma anche un’analisi tra amore e potere, tra il desiderio di restare e la legge della vita che porta sempre una notte all’uomo. "Re Lear - spiega Cacciari - è l’opera più ’apocalittica’ di Shakespeare. Tutto vi precipita all’eccesso, fino al crollo di tutto e tutti: è una catastrofe cosmica, dell’intera natura. Al suo centro è la crisi irreversibile dei rapporti tra padri e figli e figlie, segnato dalla fine dell’idea tradizionale di sovranità. Il sovrano abdica; il re non sa più reggere, è diventato cieco. e quelli che vorrebbero prendere il suo posto non sono che parricidi e fratricidi".
Che ci ha detto il genio di Shakespeare? "Che questa figliolanza è l’impossibile per l’uomo -rimarca il filosofo dell’Inizio - le figlie mettono immediatamente a morte il padre da cui ereditano. Chi lascia in eredità, in questo mondo, muore. Il secolo non perdona chi si illude di lasciare in eredità e continuare a vivere. E d’altra parte nessuno in questo secolo fa erede il figlio e la figlia come puro atto di dono". E allora ecco che il Padre resiste, disperatamente resiste. Non vuole eredi. Nessuno ne ritiene degno. Ma la sua ora è venuta. Dopo il Figlio potrebbe essere riconosciuto come autentico padre soltanto colui che dona. L’auctoritas di tutte le altre figure paterne decade irresistibilmente. O può durare solo come mera potestas, contro cui figli e figlie si troveranno a dover combattere.
Nell’elegante edizione della casa editrice casertana diretta da Luigi Nunziante, Cacciari riflette sul rapporto padri-figli, avvertendo che Heres latino ha la stessa radice del greco cheros, che significa deserto, spoglio, mancante. Potrà ereditare, dunque, soltanto colui che si scopra orbus, orphanos. Per diventare eredi occorre saper attraversare tutto il lutto della perdita e dell’assenza. In Paolo non si eredita se non facendosi co-eredi col Cristo, e cioè attraverso l’imitazione della sua Croce.
In Lear - dicono queste pagine - è la contraddizione insanabile tra desiderio di essere amato e libido dominandi, ma di un dominare che pretenderebbe essere pura auctoritas. Questa contraddizione produce in lui quella hysterica passio che tutti, amici e nemici, bene conoscono. Non certo frutto soltanto della "infirmityof his age". E in ogni momento egli invoca quella pazienza che ontologicamente gli manca. Vede il bene e opera a rovescio. Male radicale della sua natura. E di quella degli altri: alla hysterica passio con cui Lear prima caccia Cordelia e più tardi maledice le figlie traditrici risponde il “troppo” di odio nei confronti del padre, che il comportamento di quest’ultime manifesta, appena mascherato da una patina “machiavellica”.
Ma vi è chi sappia vedere su "questo enorme palcoscenico di folli" (IV, 6, 185)? Solo a tentoni qualcosa si scorge - e questo qualcosa è una realtà a brandelli, fatta di frammenti corrosi (IV, 6, 151).Una sola potenza, certo, qui non conosce eccessi: quella di amare. Nessuna “follia” d’amore. Cordelia e Ofelia sono figure spiritualmente antitetiche.
Vendetta è la parola di Lear. Vendetta meditano reciprocamente le sorelle, sentendosi derubate del possesso di Edmund ("eppure ero amato", egli dice: possedere e essere posseduto è l’unica forma di amore che egli conosce). Per Cacciari, "la secessio radicale dall’idea di agape è forse il tratto più apocalittico del Lear". Nella rottura del nesso tra potestas e auctoritas sta "il peccato mortale che Lear, l’im-politico Lear, commette": egli pensa, da folle, che l’auctoritas possa valere per sé, che sia tutt’uno con la propria persona, incarnata in essa. È per lui “naturale” che il corpo del Re continui a essere considerato sacro, anche nel momento in cui, spogliandosi dell’esercizio del potere, il Re cessi di poter esercitare qualsiasi legittima violenza.
Il regno diviene la preda che nella loro lotta figlie e figli vogliono conquistare. "È il fratricidio - ma non quello fondativo, Abele-Caino, Romolo-Remo - il grande tema del Lear, non il parricidio", è la lettura di Massimo Cacciari, che con la Saletta dell’Uva aveva già pubblicato ’Il dolore dell’altro. Una lettura dell’Ecuba di Euripide e del libro di Giobbe’, ma anche ’Anni decisivi’ e soprattutto ’Magis amicus Leopardi’.
I vecchi, secedendo, danno luogo al suo scatenarsi. Accecati prima ancora di esserlo, come Gloucester, non hanno saputo costruire una diversa “armonia” tra auctoritas e potestas, illudendosi semplicemente di poterle “autonomizzare”, per rinsaldarle miracolosamente nella propria persona. La loro impotenza si trasforma, invece, nel potere sine auctoritate degli eredi. Si ammazzano le sorelle, si ammazzano i fratelli. Nessuna auctoritas può risorgere da una simile lotta, e nessuno mostra di saperlo più amaramente del “vincitore”, Edgar.
Rex destruens - ecco la persona di Lear. Ab-dicando e disunendo il regno e il potere, facendoli a pezzi, egli distrugge il nesso potere-autorità insieme alla forma del regno. La scena dei folli è anche quella dell’inesorabile tramonto del Pater-Potens. A decretarne la fine non sono però gli eredi, ma le eredi. Le figlie insieme al figliastro conducono il gioco luttuoso. Le figlie non diventano madri e alla follia dell’ultimo corpo del Re, che chiede amore, rispondono inseguendo con ogni mezzo quello stesso potere che vedono franare col Padre. Anche Cordelia? Per Cacciari "Cordelia è chi più drasticamente si ribella al Padre, al Padre che insiste nel sopravvivere oltre il proprio termine. Le altre sorelle stanno ancora, infatti, al suo antico e crudele gioco del potere. Cordelia, invece, è testimone che, nella catastrofe apocalittica che travolge ogni relazione, nessuna astuzia può più reggere, nessun compromesso dar frutto". È Cordelia a imporre l’aut-aut: vuoi amore? Allora non voler potere. Se vuoi che ti ami, non voler potere su di me.
La figlia prediletta è la negazione stessa dell’erede. Eredi loro malgrado si affacciano a conflitti futuri che non sapranno reggere; le figlie vivono nella loro stessa carne la morte del Padre, ma non sanno generare in quell’amore, che pure presagiscono. Certo è soltanto il timbro della fine. Nessuna fede, neppure la più pallida fiammella - avverte il filosofo di ’Hamletica’ - fonda qui la speranza che ad essa segua un giorno del Signore.
Salvatore Balasco
http://www.agenziaradicale.com/index.php/cultura-e-spettacoli/libri/3543-massimo-cacciari-legge-il-gran-bardo-e-il-fratricidio-il-grande-tema-del-lear
EU-ANGELO E COSTITUZIONE . "CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1 Gv., 4. 1-16).
SENZA LO "SPIRITO" DI GIOACCHINO DA FIORE, NON SI DA’ IL "TERZO PARADISO". Un omaggio critico a Michelangelo Pistoletto
Trovata coppia di scheletri, abbracciati da 5.800 anni
Lo straordinario ritrovamento nella grotta di Alepotrypa, nel sud del Peloponneso
di Redazione ANSA ATENE *
E’ innegabile: i ritrovamenti di scheletri abbracciati da secoli non smettono mai di emozionare perché sembrano confermare che, quando l’amore è davvero per sempre, è l’unico capace di unire una coppia oltre la morte. Sembra questo il caso dell’uomo e della donna i cui scheletri, ancora teneramente abbracciati dopo quasi 6000 anni, ovvero dall’epoca del Neolitico, sono stati rinvenuti ieri durante scavi presso la Grotta di Alepotrypa (il "Buco della volpe"), a ovest del villaggio di Mani, nel Peloponneso meridionale.
Non si sa ancora come e perché siano morti, ma di certo sappiamo che si amavano. Lo straordinario ritrovamento, che sinora ha un solo equivalente in Europa negli ’amanti di Valdaro’ - due scheletri di una giovane coppia risalenti al Neolitico, tumulati faccia a faccia e abbracciati, ritrovati in una necropoli scoperta nel 2007 nei pressi di Mantova - è stato annunciato ieri dalla Sovrintendenza Archeologica ellenica quasi in coincidenza con la festa, domani, di San Valentino, il patrono degli innamorati. Un analogo ritrovamento di una coppia, ma di epoca molto più recente, è avvenuto lo scorso settembre nella Cappella di Saint Morrell nel Leicestershire, in Gran Bretagna, dove sono stati rinvenuti due scheletri, risalenti al XIV secolo, che dopo 700 anni si tenevano ancora mano nella mano.
La sepoltura di Mani, che sembra non abbia subito violazioni, è stata trovata presso il luogo dove erano stati interrati un altro uomo e un’altra donna, rinvenuti accovacciati in posizione fetale. Le sepolture contenevano anche punte di freccia rotte. Grazie al metodo del Carbonio 14, gli scheletri della coppia abbracciata sono stati datati intorno al 3800 a.C., mentre l’analisi del Dna ha confermato che i resti appartenevano a un maschio e a una femmina.
Entrambe le sepolture fanno parte di una necropoli neolitica nell’area della grotta di Diros, dove gli scavi hanno già riportato alla luce tombe risalenti al 4200-3800 a.C. In base alle ricerche e alle analisi, sembra che la grotta ed i suoi dintorni siano stati utilizzati come residenza e come necropoli dal Neolitico antico (7000-5500 a.C.) sino al Neolitico recente (4200-3500 a.C.). Quindi, verso il 3200 a.C., un devastante terremoto avrebbe fatto crollare l’ingresso della grotta, sigillando all’interno coloro che vi abitavano.
Gli scavi nell’area ebbero inizio in seguito ad una scoperta fortuita fatta dagli speleologi Yiannis e Anna Petrocheilos nel 1958 e sono ripresi l’anno scorso sotto l’egida dell’Eforato di Paleoantropologia delle antichità, guidato da George Papathanassopoulos, e della Società speleologica della Grecia settentrionale, che si avvalgono della collaborazione di esperti greci e internazionali.
Commentando la scoperte, Papathanassopoulos ha ricordato che già dalla fine degli anni Settanta le visite turistiche alla grotta sono state proibite e, nello stesso periodo, sono stati avviati scavi più approfonditi. Presso il sito archeologico è stato realizzato un piccolo museo nel quale sono in mostra molti dei tantissimi reperti sinora rinvenuti. "Entrambe le tombe riportate alla luce sono in ottime condizioni - ha detto Papathanassopoulos -. Il tipo di sepoltura in posizione fetale è comune nell’epoca neolitica, ma la doppia inumazione con l’abbraccio è uno dei più antichi esempi conosciuti e, quando avremo finito di lavorarci, anch’essa sarà esposta nel museo".
Dopo 500 anni il test Dna risolve il ’caso’ di Riccardo III
Scoperti anche l’aspetto fisico e una falsa paternità*
Dopo oltre 500 anni il test del Dna permette di porre fine, oltre ogni ragionevole dubbio, al ’caso’ di Riccardo III, l’ultimo re inglese della dinastia dei Plantageneti: i resti scoperti nel 2012 in un parcheggio in Inghilterra appartengono a lui al 99,9999%, smentendo così i dubbi posti mesi fa da alcuni studiosi.
La conferma, pubblicata sulla rivista Nature Communication, arriva dalle analisi del Dna condotte dall’università di Leicester, che in questo modo è riuscita, per la prima volta, a risolvere il più vecchio caso, finora, di identificazione di un individuo.
Il test ha inoltre permesso di scoprire informazioni sull’aspetto fisico del sovrano e un caso di falsa paternità nei suoi discendenti, che mette in dubbio la legittimità della successiva dinastia Tudor.
Per confermare che lo scheletro rinvenuto fosse proprio quello del monarca descritto da Shakespeare in una delle sue opere più famose, i ricercatori Turi King e Kevin Schu hanno condotto analisi integrative dei dati genetici e genealogici, trovando un perfetto abbinamento tra il Dna trasmesso solo per via materna (mitocondriale) dei frammenti ottenuti dai resti del re e quelli di alcuni discendenti ancora in vita.
Questo ha permesso di scoprire una falsa paternità, cosa che potrebbe mettere in dubbio la legittimità dei re Tudor poi saliti al trono. Sempre grazie all’analisi del Dna, i ricercatori sono stati anche in grado di dedurre con ragionevole certezza l’aspetto fisico di Riccardo III, corrispondente a quello di alcuni primi ritratti, dunque con capelli biondi e occhi azzurri.
* ANSA, 02 dicembre 2014 (ripresa parziale).
Non si uccide così anche Riccardo III?
Undici ferite in testa e sul corpo: l’autopsia sui resti ritrovati due anni fa rivela la ferocia delle battaglie del ’400 E contribuisce a riabilitare la figura del sovrano inglese
di Vittorio Sabadin (La Stampa, 06.10.2014)
«Un cavallo, un cavallo! Il mio regno per un cavallo!» è una delle frasi più famose scritte da William Shakespeare, che la fa pronunciare a Riccardo III, alla fine dell’omonima tragedia. Il re ha ormai perso la battaglia di Bosworth Field, i suoi amici lo invitano a fuggire, ma lui rifiuta. Vuole un cavallo, per trovare e uccidere Enrico Tudor conte di Richmond, sbarcato con un esercito di mercenari dalla Francia in Inghilterra per sottrargli il trono. Il duello ha luogo, ma è Riccardo a essere ucciso: finisce la trentennale «Guerra delle due rose» tra i Lancaster e gli York, finisce l’era dei sovrani plantageneti e comincia quella dei Tudor.
Ma Riccardo III non fu ucciso come Shakespeare ha scritto nel 1591, un secolo dopo i fatti. La sua fine non fu così cavalleresca: venne massacrato da colpi inferti al cranio e al corpo, e colpito ancora quando era a terra ormai morto. Il cadavere fu spogliato e caricato riverso su un cavallo perché tutti lo vedessero mentre veniva trasportato a Leicester, e i mercenari di Enrico lo trafissero altre volte, per disprezzo ed estrema umiliazione. Il corpo del re fu buttato in una fossa, vicino alla chiesa dei Francescani, senza la carità di una bara o anche solo di un lenzuolo a ricoprirlo. Lì è rimasto per 500 anni, mentre intorno tutto cambiava: si sono costruite nuove case, gettate di cemento hanno sfiorato le sue ossa mancandole di pochi centimetri, e alla fine l’asfalto di un parcheggio comunale ha ricoperto la tomba.
I resti di Riccardo III sono stati ritrovati nel 2012 e un anno dopo, attraverso il confronto con il Dna di una discendente di 16° grado rintracciata in Canada, la sua identità è stata confermata «oltre ogni ragionevole dubbio». Ma bastava osservare quello scheletro deforme, con la spina dorsale curvata da una grave forma di scoliosi, con una spalla più alta dell’altra, per riconoscere il sovrano «monco e deforme, plasmato da rozzi stampi» descritto da Shakespeare.
Uno dei più completi esami autoptici mai condotti su resti umani ha ora permesso di scoprire come è morto Riccardo III e anche di farsi un’idea della ferocia delle battaglie medievali, molto lontane dall’epica cavalleresca di Ivanhoe descritta da sir Walter Scott. Mettendo a confronto i resoconti dello scontro di Bosworth Filed con l’esame dello scheletro di Riccardo, possiamo ricostruire meglio come sono andate le cose e forse riabilitare un poco uno dei sovrani più maltrattati dalla storia.
Il 22 agosto 1485 il re, al comando di 10.000 uomini, osservava dall’alto di una collina i 5.000 soldati di Enrico, che sembravano una facile preda. Su un’altra altura c’erano i 6.000 mercenari della famiglia Stanley, che gli aveva promesso appoggio; poco lontano erano pronte le truppe del conte di Northumberland, un altro alleato. Non c’erano ragioni di preoccuparsi. Riccardo lanciò al galoppo contro il nemico i suoi 1.500 cavalieri, nell’ultima grandiosa carica del Medioevo. Una terrificante massa di ferro e di carne piombò giù dalla collina, con il re in mezzo, la spada sguainata pronta per il sangue di Enrico. Ma, incredibilmente, l’esercito nemico non fu annientato dalla carica, e resistette. Poco male, se gli Stanley e Northumberland fossero intervenuti.
Ma gli Stanley erano noti per stare sempre a guardare le battaglie, per vedere chi stava per vincere e andare in suo aiuto, una abitudine che non è nata in Italia come comunemente si crede. Riccardo non si fidava, e per garantirsi aveva preso in ostaggio il figlio di Lord Thomas Stanley. Gli mandò a dire che lo avrebbe fatto uccidere, se non fosse immediatamente venuto in soccorso con le sue truppe, e Stanley gelido rispose: «Dite a Riccardo che faccia pure, ho altri figli». Anche Northumberland non si mosse e quella che era sembrata una scontata vittoria si trasformò in una tragedia.
Appiedato nella foga della carica, Riccardo aveva perso l’elmo. L’esame del cranio ha individuato due profonde ferite mortali, una causata da una spada, l’altra probabilmente da un’alabarda, l’asta sormontata da una scure e da una picca in uso alla fanteria. La spada ha trapassato il cranio da parte a parte; l’alabarda ha aperto uno squarcio rotondo di alcuni centimetri.
Sulle ossa ritrovate a Leicester ci sono i segni di 11 ferite, quasi tutte inflitte dopo la morte. Denudato, il cadavere è stato caricato su un cavallo e ripetutamente colpito: ne sono rimaste tracce sulla mascella, tagliata da un coltello, su una costola, su un braccio. Una spada ha penetrato la natica destra, rompendo le ossa del bacino. L’oltraggio è continuato fino alla sepoltura, con il cadavere gettato in una fossa profonda pochi centimetri, le mani legate forse per facilitarne il trasporto. Mancano i piedi, e non si sa perché.
Si è sempre pensato che, per quanto orribile sia stata la sua fine, Riccardo se la fosse meritata. Tanta cattiva fama è dovuta in gran parte a Shakespeare, che lo dipinge come un mostro deforme, gobbo e rachitico che uccide la moglie, il fratello e i due nipoti per arrivare al trono. Ma il ritrovamento dei suoi poveri, martoriati resti ha già aperto un dibattito revisionista, che presto lo riabiliterà e cancellerà le menzogne diffuse dai Tudor per legittimare la loro conquista del potere. E anche Shakespeare andrà riletto con più attenzione. Siamo inorriditi dalle azioni di Riccardo III, ma anche incantati dalle sue parole, dalla sua capacità di vendere la menzogna come verità, di fare sembrare altruistiche le più egoistiche iniziative, di trasformare in un vantaggio situazioni sfavorevoli e di servirsi di chiunque gli possa essere utile. Descrivendo un tragico re del Medioevo, Shakespeare ci parlava della politica dei nostri giorni.
Una «Memoria» telematica
La prestigiosa rivista di studi shakesperiani va in rete
Fondata da Agostino Lombardo nel 2000 approda ora nel web in lingua inglese e continuerà a scavare nell’opera del Bardo
di Ugo Rubei (l’Unità, 15.04.2014)
TRA LE TANTE COSE CHE TUTTI GLI ANGLISTI ITALIANI HANNO SEMPRE INVIDIATO AD AGOSTINO LOMBARDO CE N’È UNA - UN PO’ PARTICOLARE E DI DIFFICILE IDENTIFICAZIONE - CHE È STATA LA SUA GRANDE CAPACITÀ DI DAR VITA A UNA SCUOLA: una scuola che ha contato e che ancora conta una quantità di anglisti e di americanisti sparsi un po’ dovunque, in Italia, come in varie altre parti del mondo.
Ciò che hanno fatto e continuano a fare quei suoi non più giovanissimi allievi è insegnare letteratura - attività sempre difficile, ancorché non sempre improba, come oggi è divenuta - fare ricerca e pubblicare, interpretare e tradurre: in una parola, preservare, arricchire e aggiornare la memoria di ciò che costituisce e che dà senso a quelle discipline.
E siccome, per gli anglisti come anche per gli americanisti, parlare di memoria significa quasi inevitabilmente fare in larga parte riferimento a Shakespeare e a quella che tanti anni fa Jan Kott definì la sua contemporaneità, sembra davvero opportuno festeggiare un evento di questi giorni qual è l’approdo sulla rete della rivista Memoria di Shakespeare, cui proprio il Maestro dette vita nel 2000, con la collaborazione dell’editore universitario Bulzoni. e che, dopo la sua morte, è stata pubblicata fino a oggi.
Passare da un’elegante copertina marmorizzata in azzurro a un altrettanto elegante, ma virtuale, frontespizio on-line avrebbe, certo, provocato qualche sarcasmo, neppure troppo sfumato, da parte di chi quella rivista aveva ideato con passione fin nei minimi particolari, del tipo: «Ma che roba è, questa rete; lei si fida»?
Ma tant’è: aver creato una scuola, significa anche lasciare che altri, nel caso specifico Rosy Colombo e Nadia Fusini, si facciano carico di quel legato - di cui fa parte anche una fortunata collana che va sotto il nome, modesto, di Piccola Biblioteca Shakespeariana - per trasformarlo in forme e modi che, appunto, riescano non meramente a preservarlo, ma se possibile a farlo prosperare nella contemporaneità.
La Memoria di Shakespeare versione telematica colpisce subito perché propone la sua internazionalità attraverso l’uso dell’inglese: una scelta per misurarsi, come il web pretende, su un mercato internazionale che la lingua italiana non avrebbe consentito di scalare; una scelta coraggiosa, per chi non sia perfettamente bilingue, ma inevitabile, si direbbe, se si vuole che quella memoria preservi l’autorevolezza che fin qui l’ha distinta.
E poi, un titolo italiano per una rivista in inglese, o meglio per «A Journal of Shakespearean Studies», come da sottotitolo, è piacevolmente spiazzante: ci si aspetta una cosa per pochi intimi e invece si tratta di una rivista internazionale vera, in cui gli studiosi italiani, rivendicano in modo esplicito un ruolo centrale e propositivo. Un bel modo d’interpretare la memoria, non c’è che dire.
Se ci si addentra nella rivista - qualcosa come una quindicina di titoli! - altre piacevoli sorprese, a cominciare dal titolo di questo primo numero «Thinking with Shakespeare»: come dire, in compagnia di, o con l’aiuto di un amico disposto a far riflettere i suoi contemporanei di oggi sul senso / i sensi di un rapporto intenso e molto più profondo di quanto magari non si creda. E infatti, massiccia la presenza di filosofi, i quali appunto s’interrogano sul significato che Shakespeare ha avuto rispetto al loro lavoro nell’oggi, così come su quello di alcuni tra i grandi padri del pensiero moderno, da Hegel a Nietzsche, a Derrida.
Come ormai fortunatamente accade con una certa frequenza, sembra proprio che, superati antiche polemiche e interdetti, letterati e filosofi cerchino di capire insieme, con l’aiuto di Shakespeare, di qual natura sia fatto il pensiero.
E, come si legge nell’editoriale di questo primo numero, si finisce inevitabilmente per scoprire che per i grandi eroi del suo teatro pensare è «un atto drammatico, tragico addirittura»: perché, per pensare, ci vuole coraggio. E coraggio, di certo, hanno dimostrato le due curatrici e il loro staff, tutto al femminile - da Luciana Pirè a Maria Valentini, da Iolanda Plescia a Stefania Porcelli - che hanno dato vita a questa impresa, continuando a muoversi nel solco (on-line) della tradizione.
Anniversari paralleli William e Galileo, padri moderni Nel 1564 (450 anni fa) nascevano i due geni. complementari
Proponiamo «Galwill» un grande esperimento didattico europeo
di Massimo Bucciantini (Il Sole-24 Ore/Domenica da collezione, 06.04.2014)
Anche noi siamo nati il 15 febbraio e il 23 aprile del 1564. Anche se - a cominciare dai nostri programmi scolastici - facciamo di tutto per non rendercene conto o, distratti come siamo, ce ne dimentichiamo, quei due giorni di tanti secoli fa dovrebbero essere festeggiati insieme, come meritano. E per una ragione molto semplice: perché senza quei due compleanni saremmo tutti molto più poveri e certamente diversi da quello che siamo diventati.
Ma perché festeggiarli insieme? Shakespeare e Galileo, in fondo, non si sono mai conosciuti. Neppure per interposta persona, neppure per lettera. E non risulta neppure che l’uno abbia letto gli scritti dell’altro. Il drammaturgo inglese, scomparso all’età di 52 anni, morì il giorno stesso della sua nascita, il 23 aprile del 1616. Lo scienziato italiano gli sopravvisse per altri 26 anni, fino a quando, ormai cieco e da nove anni agli arresti domiciliari nella sua casa di Arcetri, non esalò l’ultimo respiro l’8 gennaio 1642.
Del primo sappiamo così poco che interi periodi della sua vita ci sono completamente ignoti, come gli anni che vanno dal 1585 al 1592. E quindi non conosciamo le ragioni della sua decisione di trasferirsi a Londra o come sia potuto accadere che un figlio di un guantaio in rovina sia potuto diventare in così breve tempo William Shakespeare, uno degli scrittori di teatro più famosi prima in Inghilterra e poi nel mondo intero. Come ha osservato Stephen Greenblatt, «le tracce sopravvissute della vita di Shakespeare sono molte ma sottili», e non esiste «nessun indizio immediatamente ovvio per districare il grande mistero di una forza creativa tanto immensa».
Dell’altro, invece, sappiamo "quasi" tutto. Conosciamo ogni momento della sua vita, sia quelli tragici sia quelli segnati da successi e da veri e propri trionfi. La sua corrispondenza ammonta a migliaia di lettere. Le sue carte sono gelosamente conservate nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Due dei suoi telescopi, tra le centinaia che lui stesso fabbricò, si possono ancora ammirare nelle splendide sale del Museo Galileo che si trova a un passo dagli Uffizi e dal Ponte Vecchio.
Ho detto che nessuno dei due ha mai letto gli scritti dell’altro. O meglio: se per Galileo, non ci sono dubbi al riguardo, nel caso di Shakespeare non siamo così sicuri, anche se fino a oggi i tentativi di trovare nelle sue opere teatrali riferimenti allo scienziato e al filosofo italiano non hanno portato a risultati significativi.
L’unica esile traccia è nel Cimbelino. E si trova in una delle ultime scene di questa tragedia scritta tra il 1609 e il 1610 e messa in scena la prima volta nel 1611, quando a Postumo apparve in sogno Giove circondato dagli spiriti dei genitori e dei due fratelli, un evidente allusione, secondo alcuni interpreti, ai quattro satelliti appena scoperti da Galileo.
Eppure la scoperta del telescopio venne immediatamente divulgata a Londra dall’ambasciatore inglese a Venezia, sir Henry Wotton. E ciò accadeva proprio il giorno della pubblicazione - il 13 marzo 1610 - del Sidereus Nuncius, che conteneva le novità celesti che tutti conosciamo e che avrebbero reso il loro scopritore, come annotava senza mezzi termini l’ambasciatore, «o estremamente famoso o estremamente ridicolo».
Del resto sappiamo - grazie anche al bel libro di Gilberto Sacerdoti, Nuovo cielo, nuova terra. La rivelazione copernicana di Antonio e Cleopatra di Shakespeare - quanto Shakespeare fosse attratto dai temi cosmologici e ammirasse i dialoghi italiani di Giordano Bruno, pubblicati a Londra tra il 1584 e il 1585; quanto, cioè, il nuovo cielo senza limiti del Nolano trovasse la sua trasfigurazione scenica nell’infinito amore di Antonio.
Ma allora se non si sono conosciuti, e forse mai letti, che cosa hanno in comune questi due grandi protagonisti della nostra modernità? La risposta a questa domanda va cercata nel modo in cui Galileo e Shakespeare, ciascuno per proprio conto, si pongono di fronte al loro "oggetto" di indagine. Se volessimo provare a dire in una sola frase ciò che li accomuna forse dovremmo dire che niente per loro è come appare. Niente è come appare è il principio che li unisce e la chiave del loro successo. Sta qui, in questo modo di guardare l’uomo e il mondo, la differenza che più di ogni altra li separa dai loro contemporanei. E ciò fa sì che tra loro si stabilisca un’intima e segreta corrispondenza di intenti.
Anzi, si ha quasi l’impressione che si siano suddivisi i compiti in modo perfetto: Galileo applica questo principio al mondo delle cose, all’universalità dei fenomeni della natura; Shakespeare, invece, alla natura contorta e inafferrabile dell’uomo.
L’uno scopre che il vero alfabeto della natura è da ricercare dentro le forme invisibili della matematica e, al tempo stesso, con il perfezionamento del telescopio, si accorge che il cielo non è più quello che da duemila anni appariva alla nostra vista; l’altro è un impietoso e scomodo indagatore della natura umana, tanto da reinventare l’intero alfabeto dei nostri sentimenti. Che riesce a penetrare come pochi, spingendosi oltre la loro scorza e le loro scolastiche definizioni e mettendo in scena i tanti volti del tradimento, dell’ingiustizia, della crudeltà, della vendetta, della rivalità, della gelosia, del disonore, dell’incesto, del lutto.
Come ha scritto Colin McGinn in Shakespeare filosofo, la tragedia per Shakespeare nasce dalla consapevolezza che «la mente non è qualcosa che si mette in mostra: la segretezza è parte essenziale della sua natura». Allo stesso modo accade nel mondo fenomenico, che ci appare inconoscibile finché ne affidiamo la comprensione ai nostri sensi. Certo, poi le strade si divaricano perché differenti sono i temi di indagine.
Se alle spalle di Galileo si intravedono il "divino" Archimede e il maestro Copernico, ed è in loro che lo scienziato italiano trova la sua guida e gli strumenti per trasformare il mondo-labirinto in un mondo-libro, dietro Shakespeare bisogna guardare in altre direzioni, guardare a Montaigne, ad esempio, alla lezione ricevuta dal filosofo francese, grande anatomista dell’incertezza e dell’illusione del sapere umano.
Nel 1623, sette anni dopo la morte, veniva data alle stampe la prima edizione in folio delle commedie e tragedie di Shakespeare. La metà esatta, ben diciotto su trentasei, erano inediti, e tra questi c’erano capolavori come Giulio Cesare, Macbeth, La tempesta, Antonio e Cleopatra.
Nello stesso anno Galileo pubblicava il Saggiatore. Non la sua opera più famosa ma certamente quella che contiene le sue parole più celebri, quelle che tutti dovrebbero imparare a memoria come si fa (o si dovrebbe fare) con L’Infinito di Leopardi. «La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima...».
Sono parole, ogni volta che le leggiamo, che ci affascinano nella loro assoluta e straordinaria semplicità, così come non ci lasciano in pace e ci inquietano perché sono destinate proprio a noi quelle altrettanto famose pronunciate dal mago Prospero: «Sono finiti i nostri giochi. Questi attori, come ti avevo detto, erano solo fantasmi e si sono dissolti nell’aria, in aria sottile».
È un doppio compleanno che dovrebbe essere festeggiato con tutti gli onori, dicevo. Ma forse non basta. Forse bisognerebbe fare qualcosa di più e dire che le loro opere dovrebbero entrare davvero nelle nostre scuole, perché è anche attraverso la scelta dei testi che si leggono in classe che si formano le nuove generazioni e si costruisce l’Europa del futuro. Ecco, forse, una cosa su cui riflettere e su cui lavorare. Altrimenti continueremo solo a lamentarci e a baloccarci nel nostro scontento, ripetendo che l’Europa non deve essere solo Pil, banche, poteri forti e via dicendo.
Galwill potrebbe essere un buon esperimento didattico, a Londra come a Roma, a Parigi come a Berlino, per provare a dire che l’Europa si costruisce anche a partire dalla riforma dei programmi scolastici. Un segnale forte e concreto a favore di una visione unitaria della cultura.
Shakespeare, il cosmologo
«Questo tempo è scardinato»: Amleto ammicca con la filosofia segreta di Giordano Bruno
di Richard Newbury (La Stampa TuttoScienze, 05.03.2014)
L’innovazione scientifica nella visione che ha l’umanità del mondo - lo «spirito del tempo» - di solito è prefigurata nella letteratura, nell’arte e anche nel teatro. E’ vero per Darwin, Freud ed Einstein. E così, nel XVI secolo, avvenne con il rifiuto del geocentrismo, e quindi di una Terra al centro dei cieli, in favore dell’universo eliocentrico copernicano che marginalizzava la Terra stessa alla periferia di ciò che iniziava ad apparire come uno spazio senza confini. Una risposta fu il Dr. Faustus di Christopher Marlowe, ma anche molte opere di Shakespeare (di cui si celebrerà il 450° anniversario della nascita il 23 aprile) riflettono, esplorano e drammatizzano questa nuova cosmologia.
«Oh mirabile e ignoto mondo che possiedi abitanti così piacevoli!», esclama Miranda alla fine de «La Tempesta». L’opera è ambientata in quel «Nuovo mondo» dall’altra parte dell’Atlantico, governato da Prospero, a sua volta ispirato al grande cosmologo e matematico elisabettiano John Dee. Si tratta di un mondo in transizione dalla magia al metodo induttivo baconiano e alla scienza empirica, dall’astrologia all’astronomia. «La colpa, caro Bruto, non è nelle nostre stelle, ma in noi stessi», fa dire Shakespeare a Cassio nel «Giulio Cesare».
Tra il 1583 e il 1585 Giordano Bruno fu mandato a Londra da Enrico III di Francia, in qualità di «Elemosiniere» e «Confessore» dell’ambasciatore francese. In «borghese», essendo l’unico sacerdote cattolico nella Londra protestante, il Nolano operò come confessore anche presso l’ambasciata di Spagna e, rivelando i segreti del confessionale a Walsingham, salvò due volte la regina Elisabetta, sventando alcuni complotti per assassinarla, e rivelò anche le lettere con cui la regina di Scozia, Maria Stuarda, firmò la propria condanna a morte.
Suo compagno di cospirazioni era John Florio, precettore della figlia dell’ambasciatore, che entrò in contatto diretto con Shakespeare. Un altro collegamento fu un compagno di scuola di Shakespeare alla «Grammar School» di Stratford e amico di famiglia, Richard Field, editore delle opere dello stesso Bruno.
Il Nolano diventò un catalizzatore sia per la Nuova Drammaturgia sia per la Nuova Scienza in un’epoca caratterizzata da una mistura alchemica di magia e matematica, astronomia e astrologia, empirismo e mito, il tutto fuso nel falso oro della scienza moderna. Bruno, infatti, ispirò la controcultura copernicana anti-aristotelica e ateista della «School of Night» di Sir Walter Raleigh.
Ispirò anche Thomas Harriot, «il più grande scienziato prima di Newton», l’uomo che per primo ipotizzò un universo infinito, osservando con un telescopio le stelle e i crateri sulla Luna prima ancora di Galileo.
L’esperimento pratico di Raleigh e di Harriot fu «l’isola di Prospero» nella Virginia del Nuovo Mondo in piena espansione, mentre l’esperimento creativo fu proprio il «Dr. Faustus» di Kit Marlowe, un personaggio chiaramente modellato su Bruno, che frequentò, anche lui, la copernicana Università di Wittenberg, così come lo stesso Amleto, che sovverte una corte aristotelica (e anche l’unità drammatica) ], il suo « calmo spirito» Orazio e poi spie e assassini come Rosencranz e Guildenstern.
Tra il 1593 e il 1594 la peste chiuse i teatri e Shakespeare divenne famoso a corte e nelle università come «l’Ariosto inglese», molto prima che qualcuno sapesse che scriveva drammi teatrali, nello stesso periodo in cui Field pubblicò i suoi poemi best-seller, ironici ed erotici, «Venere e Adone» e «Il Ratto di Lucrezia».
Il segretario di Stato Lord Burghley aveva messo sia Shakespeare sia Florio al seguito di un membro della «School of Night», il giovane, bisex e incredibilmente ricco conte di Southampton, al quale Burghley, suo tutore, voleva far sposare la nipote. E non a caso Venere che seduce un riluttante Adone diventò uno degli artifici di Shakespeare. Se Southampton, che senza dubbio ne era stato sedotto, introdusse Shakespeare alle usanze di corte, Florio - «il precettore italiano di quattro regine», compilatore del primo dizionario italiano-inglese e primo traduttore dei «Saggi» dello scettico Montaigne - diventò suo amico così intimo da apparire in «Pene d’amor perdute» (titolo mutuato da Florio, così come «La Tempesta» è influenzata da Montaigne) nei panni di Oloferne, mentre Bruno è Berowne, il quale dichiara: «Bene, studierò il modo di conoscere le cose che mi è proibito di sapere».
Così, secondo quanto ipotizzano le ricerche più recenti, nel 1600, quando il Nolano fu mandato al rogo per le sue idee copernicane, Shakespeare scrisse un’opera che non raccontava solo l’accidioso tramonto dell’epoca elisabettiana, ma conteneva anche una cosmologica «Renovatio» di stampo bruniano. Amleto, d’altra parte, rifiuta l’universo culturale, politico e cosmologico della visione tolemaica. Se poi ha difficoltà a passare dal pensiero all’azione, non è perché pensa troppo, ma perché le sue idee implicano un totale «rinnovamento» che non può essere portato a compimento da nessuna singola azione o vendetta. Tutti i personaggi in scena devono rivelare le loro autentiche qualità. Per Amleto, in particolare, «Questo tempo è scardinato. Maledetto destino, che proprio io sia nato per rimetterlo in sesto».
Nel processo di morte (incarnato da Polonio) e di corruzione (rappresentato dalla tomba) si verificano una continua mutazione e trasformazione e la conclusione - in stile bruniano - di Amleto è la seguente: «Se è ora, non sarà dopo; se non deve essere dopo, sarà ora; se non è ora, comunque sarà. Essere pronti a tutto». Questo è proprio il multiverso nolano che genera risultati multipli. Come dice Amleto a Orazio: «Ci sono più cose in cielo e in Terra di quante ne sogni la tua filosofia».
Traduzione di Carla Reschia
Usa, la Corte Suprema spiana
la strada ai matrimoni omosessuali
maurizio molinari
corrispondente da new york
E’ incostituzionale la legge che definisce il matrimonio come l’unione fra un uomo e una donna, e il bando delle nozze gay in California deve essere abolito: con queste due sentenze, emesse a pochi minuti di distanza l’una dall’altra, la Corte Suprema di Washington consegna altrettante vittorie alla campagna per la parità dei diritty fra gay e etero negli Stati Uniti.
La prima sentenza riguarda la legge “Defense of Marriage Act” del 1996. Con un verdetto di 5 a 4, scritto dal giudice Anthony Kennedy, viene definita “incostituzionale” perché affermare che il matrimonio è solo l’unione fra un uomo e una donna “viola la pari tutela davanti alla legge di tutti i cittadini che il governo deve garantire”. Inoltre, secondo il testo scritto da Kennedy e sostenuto dai quattro giudici liberal della Corte Suprema, “il Defense of Marriage Act viola il diritto degli Stati di legiferare sul tema del matrimonio”.
L’altra sentenza, scritta dal giudice John Roberts che è anche il presidente della Corte Suprema, riflette un’opinione bipartisan su “Proposition 8” ovvero il bando delle nozze gay approvato con un referendum in California nel 2008. La tesi espressa da Roberts è che a decidere su “Propotision 8” deve essere una Corte della California ma l’indicazione data è a favore dell’abolizione, destinata a consentire il ritorno alla legalità delle nozze gay. Su questa posizione, che accomuna la difesa del diritto degli Stati a legiferare sul matrimonio e il sostegno alle nozze gay, si è ritrovata una maggioranza di 5 giudici che include oltre al presidente il conservatore Antonin Scalia e i liberal Ruth Bader Ginsburg, Stephen Breyer, Elena Kagan.
Fuori dalla sede della Corte Suprema i militanti per i diritti gay hanno reagito alle sentenze con espressioni di giubilo. Il presidente americano Barack Obama ha saputo delle sentenze della Corte Suprema mentre era a bordo dell’Air Force One in volo verso il Senegal. “Applaudo la decisione della Corte Suprema di abolire il Defense of Marriage Act perché si tratta di una legge che discrimina - dichiara Obama - trattando le coppie gay e lesbiche come se fossero di una classe inferiore. La Corte Suprema ha corretto quanto era sbagliato ed ora l’America è un posto migliore”. Da qui l’omaggio alle “coppie che si sono battute a lungo per ottenere il riconoscimento della parità dei diritti” e la disposizione al ministero della Giustizia per “mettere in atto legalmente” il pronunciamento della Corte Suprema.
* La Stampa, 26.06.2013
E Shakespeare mise in scena la nuova Inghilterra
Al British Museum mostra sul Bardo e il suo mondo: così la nascente identità dell’isola trovò espressione nei drammi
di Richard Newbury (La Stampa, 17.09.2012)
LONDRA Nel 1570-1572 Francis Drake circumnavigò il mondo, proprio come fa Ariel, lo spirito nato dalla fantasia di Prospero, nella Tempesta. Drake non solo ha cambiato il punto di vista sul mondo del pubblico shakespeariano, ma aveva immaginato un Nuovo Mondo. Tornando con la Golden Hind, unica rimasta della sua flottiglia originale di cinque navi di piccole dimensioni, Drake portò al suo investitore principale, la Regina Vergine, Elisabetta I, un profitto del 4700%.
John Maynard Keynes ha calcolato che questo non solo servì a pagare l’agile flotta di navi oceaniche che nel 1588 sconfisse l’Armada spagnola, ma fornì anche il capitale iniziale per la Compagnia delle Indie Orientali, che nel 1612 aveva già infranto l’egemonia portoghese dell’Oceano Indiano. Fu anche per gli investitori di Walter Raleigh la spinta alla colonizzazione della Virginia, bloccando così l’espansione spagnola dalla Florida in su e quella francese dal Quebec in giù, il che significa che questo «nuovo mondo coraggioso» parlava inglese, quindi una lingua così strana che nessun ambasciatore si sarebbe preso la briga di imparare.
Londra non era più «la fine del mondo», ma una città internazionale, un punto d’accesso globale. Nessuna meraviglia che Shakespeare e i suoi compagni investitori chiamassero il loro nuovo teatro The Globe, perché «tutto il mondo è un palcoscenico e tutti gli uomini e le donne sono gli attori»: Jacques in Così è se vi pare .
Era sul palco del Globe davanti al rozzo pubblico della platea - i poveri e gli apprendisti che pagavano un penny -, alle classi medie delle gallerie e ai cortigiani che mostravano i polpacci seduti sul bordo del palco, che Shakespeare interrogava queste nuove identità - immaginate, personali, nazionali, commerciali, confessionali, coloniali e razziali - che rimangono al centro del nostro mondo democratico globalizzato e capitalista.
Nell’ambito delle Olimpiadi della Cultura il British Museum ha montato una magica grotta di Prospero, una mostra con cento oggetti e opere d’arte di grande suggestione, insieme con video di scene famose, che idealmente ci mettono in contatto con il mondo di Shakespeare, e in cui riconosciamo le nostre identità nelle loro affinità e differenze («Shakespeare. Staging the World», aperta fino al 25 novembre).
La sete di sangue vista da vicino, e non da un lontano «drone», è una di queste differenze. Il primo oggetto è la testa di un orso segnata da morsi riportata alla luce là dove accanto al Globe c’era un’arena. Henslowe, partner di Shakespeare nell’impresa del Globe, guadagnava due volte tanto dai combattimenti tra cani e orsi oltre che dai bordelli. Quando l’esercito di Malcolm lo accerchia, Macbeth dice cupamente: «Come un orso devo combattere fino alla fine». L’autentico massacro dei traditori infilzati sulle picche sul London Bridge implicava che le viscere e gli occhi degli animali («Via, vile gelatina» in Re Lear) fossero necessari per garantire l’autenticità teatrale. Una spada elisabettiana e un pugnale trovati nei pressi del Tamigi ci ricordano non solo che i giovani Tebaldo (Romeo e Giulietta) venivano uccisi ogni giorno fuori della scena, ma anche che, tra i rivali di Shakespeare, Kit Marlowe fu ucciso con un pugnale e Ben Jonson fu imprigionato per aver ucciso un collega attore con una spada.
Il ritratto secentesco dell’aristocratico ambasciatore moresco della Barberia a Londra solleva interrogativi sull’«altro» nella creazione dell’identità «bianca» e anche sull’identità di Otello: era arabo o nero come i 900 africani che vivevano a quel tempo in una Londra di 200.000 abitanti? Ben inteso, Otello è di sangue reale - come il principe Nelson Mandela, la cui copia di Shakespeare, introdotta di nascosto nella prigione di Robben Island, reca sottolineate e firmate (16.12.79) le parole di Cesare: «I vigliacchi muoiono tante volte prima della loro morte: il coraggioso non assapora la morte che una volta sola. Di tanti prodigi che ho sentito il più singolare a me sembra che un uomo possa averne paura. La morte è una necessaria conclusione: verrà quando verrà» (atto II, seconda scena, 32-7).
La curatrice del British Museum, Dora Thornton, ha impiegato quattro anni per rintracciare gli oggetti, Becky Allen ha costruito il set di una serie di grotte di Prospero, mentre il professor Jonathan Bate di Oxford, il decano degli studiosi di Shakespeare, ha sviluppato il tema molto attuale dell’identità.
In primo luogo c’è la crescente consapevolezza di Londra di essere una città di commerci a livello mondiale come celia Falstaff nelle Allegre comari di Windsor, «esse saranno le mie Indie orientali e occidentali e io commercerò con entrambe». Poi c’è il mondo pastorale della shakespeariana Foresta di Arden, non solo nel Sogno di una notte di mezza estate e in Così è se vi pare, ma anche nella poesia Venere e Adone che rese noto Shakespeare come «il Tasso inglese».
La contea di Warwick era la «campagna» di Shakespeare, dove visse in pensione da gentiluomo. Tuttavia, stava maturando una nuova identità, una nuova idea nazionale di un «paese» come l’«Inghilterra», come si vede nelle opere storiche del Bardo e, soprattutto, nell’ Enrico V. Questo nuovo nazionalismo cerca ispirazione nell’antica Roma, si rivolge a Virgilio e Ovidio, mentre un’Inghilterra appena diventata coloniale guarda al Giulio Cesare. L’ Antonio e Cleopatra di Plutarco era un modo esotico ed erotico di mettere in luce la Regina Vergine attraverso il suo sontuoso opposto: Cleopatra. Anche Venezia era la città commerciale e globale per antonomasia contro la quale la nascente Londra con il suo capitalismo e i suoi immigrati giudei (convertiti) poteva mettere alla prova la propria identità. Shylock nel Mercante di Venezia è rappresentato nel bene e nel male come l’unico capitalista onesto. Venezia confina con il minaccioso Islam e allo stesso modo le sorgenti potenze commerciali atlantiche come l’Inghilterra devono confrontarsi con popoli estranei alla cristianità come con Calibano nella Tempesta.
Nel 1603 l’incoronazione di Giacomo VI di Scozia con il nome di Giacomo I d’Inghilterra, colui che fece della Globe Company di Shakespeare la King’s Company, creò una nuova identità da presentare sul palco: «La Gran Bretagna». Cimbelino e Re Lear esplorano un retaggio pre-anglosassone che è eredità comune britannica. Inoltre, se gli indigeni nudi e tatuati della Virginia erano simili agli antichi inglesi visti dai Romani, col tempo sarebbero potuti diventare come gli spettatori londinesi? Il 5 novembre 1605 il complotto «jihadista» ispirato dai gesuiti per far saltare per aria il Parlamento durante la cerimonia di apertura dei lavori, eliminando così Lord, Comuni, vescovi, giudici e la famiglia reale, tutti riuniti insieme, fu scoperto appena in tempo e saldò in modo irreversibile il protestantesimo all’identità britannica. Macbeth con i temi del regicidio e dell’«equivocità» gesuitica è la risposta immediata di Shakespeare a questo evento che ha sancito l’identità religiosa nazionale.
La tempesta è stata scelta per illustrare il tema dell’identità britannica tanto nella cerimonia di apertura delle Olimpiadi come in quella delle Paralimpiadi. Per i suoi contemporanei La tempesta, con la sua magica giostra d’identità, fu il più grande capolavoro diShakespeare. Ebbe il posto d’onore nel First Folio delle sue opere stampate raccolte postume dai colleghi scrittori e attori, un onore concesso solo al «cigno di Avon». Era, come scrisse il suo più grande rivale, Ben Jonson, «non di una sola epoca ma per tutti i tempi», anzi «l’anima del mondo» - e la nostra.
Quel no a re Salomone dalla donna del Cantico
di Armando Torno (Corriere della Sera, 28 agosto 2012)
Nella Bibbia c’è un libro che parla d’amore. È il più breve tra i testi sacri. Figura tra i ketüvîm («scritti»). Il suo titolo: Cantico dei cantici. Per secoli su di esso le interpretazioni si sono accumulate. E ancora continuano. La tradizione giudaica lo ha inteso quale allegorica rappresentazione della storia d’Israele; quella cristiana, già nei primi secoli con i Padri, vi ha scorto la metafora della passione che unisce Cristo alla Chiesa. Chi scrive, più semplicemente, desidera ricordare l’amore che si avverte in ogni sua pagina. Un amore non consumato. I sensi eccitati, anziché cercare requie nel godimento, interrogano la fede.
La lettura si deve a Gianantonio Borgonovo, biblista e dottore dell’Ambrosiana; del suo lavoro, che ebbe una parziale pubblicazione in Maschio e femmina li creò (Glossa 2008), riportiamo lo schema, ché lo scavo filologico sul testo ebraico è ancora in corso. Diremo innanzitutto che in questa lettura del Cantico non si assiste al semplice incontro della sposa e dello sposo, come sovente riportano alcune traduzioni della Bibbia, ma si è di fronte a una sorta di libretto d’opera (Origene già lo intuì).
Proprio un canovaccio lirico non è, ma gli assomiglia. Ha un inizio sorprendente, intrecciato con frasi staccate, che sembra una danza. La vicenda si può riassumere così: entra in scena una donna che si presenta al Re (a Salomone, che ha un harem di 700 mogli e 300 concubine) per il matrimonio di quel giorno. Nel momento in cui dovrebbe giacere con lui nell’alcova, ella fugge.
Sette sono i personaggi nel Cantico che ruotano intorno a questo amore che resta nel vento e non riesce a toccare i corpi. C’è lei, la protagonista. Chi è? Forse una vignaiuola venduta all’harem; o una ragazza del contado catturata dalle guardie del Re. Con una gravidanza i suoi vantaggi si moltiplicherebbero, ma lei rinuncia. Poi vi sono le donne dell’harem: la invidiano e non le fanno mancare un certo disprezzo, giacché si nega al Re e continua a pensare al suo amato. Ed è proprio l’amato il terzo personaggio: assente nel dramma, vive solo nel ricordo, parla con la bocca dell’amata e appare in scena solo alla fine chiedendo fedeltà. Il quarto è Salomone, dal profilo faraonico. Giunge per il matrimonio di quel giorno e appena vede la giovane se ne invaghisce. Né manca l’inserviente dell’harem: è il quinto personaggio dell’ipotetico libretto, che ha il compito di preparare la ragazza (in Ester 2,12 si legge che tale pratica durava un anno). Sesto: le guardie del Re, sentinelle che annunciano o reprimono; nel versetto 5,7 del Cantico picchiano la protagonista. Settimo e ultimo: i fratelli della ragazza. Hanno intenzione di guadagnare il più possibile dal prezzo nuziale della sorella. Nel capitolo 8 si leggono anche i corrispondenti valori desiderati.
Borgonovo aggiunge: «L’unico genere letterario che assomigli al Cantico è la poesia d’amore amarniana, che si sviluppò tra il 1350 e il 1280 prima della nostra era e fu un’isola chiusa nella tradizione poetica egiziana».
In calce a questo libretto d’opera, che diventerà scrittura nel periodo ellenistico sotto l’incalzare della magnifica letteratura greca, varrebbe la pena aggiungere che il Cantico è all’origine della stessa fede di Israele e - nota Borgonovo - «per parlare di monoteismo o di monolatria non ha trovato l’esperienza migliore della passione e della gelosia di una donna per il suo amato, ben espresse dal canto dell’amore invincibile che la ragazza innalza alla fine».
Il riferimento è ai versetti 8, 6-7 dove si leggono anche le celebri parole: «Forte come la morte è l’amore». Il sigillo ricordato in 8,6 è posto «sul tuo braccio», ma forse è qualcosa di più. Il vocabolo ebraico zr’, ovvero zéra o zeróa, può essere inteso sia come seme che come braccio: se si sceglie la prima ipotesi, allora la ragazza chiede al suo amato di esserle fedele totalmente, partendo dalla sostanza che trasmette la vita.
Uno dei massimi esponenti del giudaismo rabbinico, Aquiba, vissuto nel II secolo della nostra era, ha scritto che «il mondo intero non è degno del giorno in cui il Cantico è stato donato a Israele» (Misnah, Jadayim 3,5). E quella ragazza, che non si concede a Salomone, ne è il vero simbolo
Lotte di potere e profitto: così Shakespeare anticipò Marx
di Sergio Perosa (Corriere della Sera, 09.07.2012)
Nell’ampio volume Shakespeare filosofo dell’essere (Mimesis), che presenta da una prospettiva singolare tutti i drammi di Shakespeare, Franco Ricordi, studioso, uomo di teatro e regista, ne fa un grande filosofo: non sistematico, ma nella concretezza teatrale.
La filosofia, intesa come domanda sull’essere e sul non essere, è vissuta nella drammaturgia; parla il linguaggio del teatro, che è specchio e metafora del mondo. Al tempo stesso, o per questo, Shakespeare è epicentro e ispiratore della cultura occidentale; ha rapporti con tutti e tutti strega: illuministi e romantici, Wagner e Verdi, Marx (che vi trova espressa la legge del tornaconto e del profitto) e Freud (che vi trova le basi stesse della psicanalisi).
L’articolazione data ai drammi di Shakespeare, pur suggerendo il senso dei rapporti cronologici fra loro, è geografica, a seconda dei Paesi in cui sono ambientati o a cui sono riferiti. In quelli in rapporto con la Grecia (Troilo e Criseide fra tutti), il drammaturgo rintraccia i fondamenti del teatro là dove nasce la filosofia, l’efferatezza e l’inganno, il senso di ansia, il metateatro e quello che Ricordi chiama il «nichilismo spettacolare» che sarà tipico dei nostri tempi.
In quelli romani, il senso della Storia è motore del discorso politico-religioso, sul potere e sul delitto, ma il suo meccanismo è antifilosofico, succube piuttosto del Destino e delle casualità. Segna il crollo degli ideali e la constatazione pessimistica del proprio fallimento: non si può migliorare il mondo, solo tentare di salvarlo. L’Italia e il Mediterraneo di molti altri drammi sono la culla dell’amore romantico e tragico (Romeo e Giulietta per tutti); vi si mescolano fantasia e realtà, fiaba e conflitti, crisi di identità e angoscia. In quelli di storia britannica (compreso Macbeth) predominano la Storia come azione e distruzione ed il rovesciamento dei valori: significativamente, la sessualità pervade la lotta per il potere e i testi stessi. Il momento massimo e cruciale è in quelli - come Amleto e Misura per misura - legati a una sorta di Mitteleuropa, che preludono alla crisi della filosofia fra ’800 e ’900 e alla «calamità attraente» dell’attuale cultura occidentale.
Da ultimo, drammi come Re Lear e i «romances», Cymbeline e La tempesta, slegati da strette rispondenze geografiche (benché l’ultimo mostri una premonizione dell’America), sono visti come esempi di un Teatro Universale in cui la «filosofia del naufragio» è percorsa da un modernissimo senso di inquietudine e incombente catastrofe, di crisi di identità - quel «io non sono quel che sono» che distingue e ispira i momenti più alti della drammaturgia di Shakespeare. Lì «il Tempo è drammaturgo del mondo» e trionfa il suddetto nichilismo spettacolare. Lì il teatro diventa esibizione di sé, autoriflessivo, ma anche teatro del corpo e dell’assurdo, del perdono e della redenzione.
Ricco di motivi, riflessioni e spunti, appassionato e traboccante di gusto teatrale, il libro ha belle e pungenti analisi dei singoli drammi, prolungate letture da regista-attore. In forma sincretica, ne tracciano un’ampia e convincente campitura. Ci lasciano con uno Shakespeare campione del teatro-mondo e della speculazione filosofica calata ed esaltata sulle scene.
La lezione di Giulietta e Romeo
Salvare l’umanità attraverso l’amore e il sacrificio di sé: questo ci insegnano i due amanti più famosi del mondo
di Paola Casella (Corriere, 07.05.2012)
Perché Romeo e Giulietta di Shakespeare è immortale, e fonte di continua ispirazione? Innanzitutto perché racconta in modo inimitabile l’amore adolescenziale, nella sua intensità totalizzante. Quale momento drammaturgico ha saputo riprodurre con altrettanta immediatezza l’impossibilità di due giovanissimi amanti di staccarsi l’uno dall’altro della scena dell’atto secondo, in cui la quasi quattordicenne Giulietta entra ed esce dal balcone di casa Capuleti perché non riesce a separarsi da Romeo? Le dediche di eterna fedeltà scritte sulle strade delle nostre città sotto le finestre dell’amato bene non sono che il pallido riflesso di quella scena memorabile.
«Addio, amor mio!», dice Giulietta, facendo gesto di rientrare in casa. E un minuto dopo: «Resta ancora un poco. Torno subito». Poi esce ancora: «Tre parole, diletto Romeo, e l’ultima buona notte». E poi ancora: «Mille volte buonanotte!». E all’ultima uscita: «Buona notte, buona notte! Il dividersi è un dolore così dolce, che continuerei a darti la buonanotte fino a domattina!». Chi di noi non ricorda questo andirivieni all’infinito, con la prima «cotta» del liceo, su cui la compagnia telefonica di Stato ha prosaicamente costruito un tormentone di fine anni Ottanta?
Non è un caso che quasi tutte le frasi più celebri di Romeo e Giulietta siano contenute proprio nella scena del balcone, che trova il suo riflesso nella successiva in cui i due amanti, dopo la prima notte di passione, sono costretti a separarsi per quella che noi lettori scopriremo essere l’ultima volta: «O finestra, lascia entrare la luce, e lascia uscire la vita», dirà Giulietta, quando Romeo sta per lasciare la sua stanza. E lui: «Addio, addio! Un bacio ancora e scendo!».
Ed è sempre Romeo, sempre nella scena del balcone, a illuminare un altro aspetto drammaturgicamente potente dell’amore adolescenziale: l’annullamento di ogni altro essere umano dal proprio orizzonte emozionale e visivo, e l’identificazione dell’obiettivo amoroso come centro unico della propria esistenza. «Qual luce rompe laggiù, da quella finestra? Quello è l’oriente, e Giulietta è il sole», dice Romeo, vedendo la sua amata apparire al chiarore della luna.
L’eco di queste parole si sente ancora oggi in ogni frase appassionata pronunciata (o scritta sulle pagine di Facebook) da teenager convinti, magari solo per lo spazio di un mattino, che la fidanzatina del momento sia il pianeta attorno al quale ruota la loro intera esistenza.
Nella febbre d’amore che agita Romeo e Giulietta c’è l’impazienza che sarà loro fatale, quel «sangue caldo della gioventù», come lo descrive la ragazza, che impedisce loro di aspettare, di riflettere, e che nella tragedia di Shakespeare è contrastato dalla prudenza dei vecchi che pure, con le loro rivalità insensate, sono la causa prima della tragedia a seguire. Memorabile, per impatto drammaturgico e comicità (che Shakespeare alterna spesso al dramma sottolineando l’aspetto ridicolo della condizione umana), la scena fra Giulietta e la sua balia venuta a portare notizie di Romeo: Giulietta l’assedia di domande, la balia procrastina la sua risposta, intuendo il pericolo di una decisione tanto sbrigativa. «Chi ha troppa fretta arriva tardi quanto chi si mette in cammino col passo più lento», ammonirà Romeo il saggio Frate Lorenzo, anticipando gli eventi tragici a seguire.
Del resto nella passione irrefrenabile che unisce Romeo e Giulietta è contenuto un altro elemento fondamentale della narrazione shakespeariana: il legame fra amore e morte, eros e thanatos, già tanto presente nella tragedia classica. Tutta la narrazione è disseminata di lugubri presagi che i protagonisti ignorano o addirittura avvallano: «Fa tanto di giunger le nostre mani con le tue sante parole», dice Romeo a Frate Lorenzo, implorandolo di unirlo in matrimonio a Giulietta. «Poi la morte divoratrice d’amore osi pur tutto quel che vuole», perché morire è preferibile al vivere senza la propria amata. Quella di Romeo e Giulietta è l’eterna sfida di un amore contrastato: i protagonisti sono i figli unici di due famiglie che si odiano da sempre, e quest’odio è un impedimento reale alla concretizzazione del loro sogno d’amore. Gran parte dei film ispirati alla tragedia shakespeariana ha fatto leva su questo contrasto come fonte primaria della tensione drammatica: così Romeo diventa un americano di origine polacco-irlandese e Giulietta un’immigrata portoricana in West side story, i due si trasformano in un italoamericano e una ragazza cinese in China girl, ma anche un passeggero della terza classe e una ragazza della prima in Titanic, o un vampiro e una teenager nella saga di Twilight che, pur non essendo adattamenti veri e propri, devono molto al testo shakespeariano. «Il mio unico amore sarebbe dunque nato dal mio unico odio!», esclama la virginale Giulietta, enucleando il cuore del dilemma. E Shakespeare si assicura di inserire legami affettivi molto forti fra i due protagonisti e le rispettive tribù di appartenenza, per rendere emotivamente strazianti le scelte di campo che entrambi devono operare.
Che il dilemma riguardi anche profondamente il tema dell’identità è reso chiaro da uno dei passaggi più noti della tragedia shakespeariana, quello in cui Giulietta, sempre nella scena del balcone, chiede: «Che cosa c’è in un nome? Quel che noi chiamiamo con nome di rosa, anche se lo chiamassimo d’un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo». È un richiamo alla comune umanità che sottende ogni divisione etnica, religiosa, nazionale: lo stesso cui dà voce Shylock nel monologo del Mercante di Venezia: «Se ci pungete, non sanguiniamo?».
Il risvolto positivo della tragedia di Romeo e Giulietta è infine quello preannunciato nel prologo: la morte dei due giovani seppellirà la guerra d’odio dei loro genitori. I due amanti non sopravvivranno, ma il loro amore diventerà pace, e leggenda. La tragedia di Shakespeare resta immortale perché riscopre la speranza in un amore tanto puro da porre fine alle insensatezze degli uomini, e perché le dinamiche della passione giovanile, ma anche i contrasti fra identità contrapposte, restano gli stessi in ogni epoca. Semplicemente Shakespeare, meglio di tutti, li riproduce con la verità poetica di cui solo un grande autore è capace.
Amleto, primo intellettuale della modernità inquieta
Si trova in Verdi, ispira Freud, è un «arrabbiato» del ’900
di Sergio Perosa (Corriere, 06.05.2012)
Shakespeare è innanzitutto uomo di teatro, autore di copioni adattabili ad ogni circostanza o evenienza, per l’albagia di corte come per l’universo carcerario. Tutto il Mondo è un Teatro, e il teatro è per lui specchio e metafora del mondo. Scrive in splendidi versi anche nei momenti più truci, ma la poesia viene come per crescita spontanea, compenetrata al gesto teatrale.
Già nell’in-folio postumo che nel 1623 raccoglieva i suoi trentasei drammi, l’amico-rivale Ben Jonson aveva scritto che non era solo «di un’epoca, ma per tutti i tempi». Mai previsione fu più azzeccata. Per quattrocento anni Shakespeare è stato intimo e centrale alla nostra cultura.
I romantici ne fanno il loro padre per la scoperta della soggettività, del sogno e della fiaba, delle passioni estreme. In Germania e Francia, Amleto è visto come il primo intellettuale moderno, insoddisfatto e inquieto. Nell’800 Shakespeare diventa una Bibbia ed è rintracciabile nelle grandi creazioni epiche, in Wagner, Verdi, Melville (Moby Dick non sarebbe com’è senza la sua radicata presenza).
Freud scopre in lui presupposti ed esempi per la sua psicoanalisi: Amleto come Edipo, vittima di fissazioni, turbe e complessi; e come tale viene da allora rappresentato. Joyce lo vede coinvolto nel dramma del rapporto fra padri e figli e della reciproca perdita; nel secondo dopoguerra, per continuare con lui, Amleto sarà uno degli Angry Young Men, dei «giovani arrabbiati».
Dal ’900 a oggi Shakespeare, secondo il titolo del libro di Ian Kott, è nostro contemporaneo; non c’è forma di dramma in cui non si ritrovi la sua presenza ed ispirazione - compreso, per paradosso, quello della incomunicabilità o del corpo. Una tragedia di sangue e vendetta come Tito Andronico, lo stesso Macbeth e Re Lear, sono già teatro della crudeltà.
Le sue grandi campiture di temi storico-politici - che istruirono Brecht, senza emozionarlo - affascinano il nostro tempo: i drammi di storia inglese, Riccardo III, Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra, Macbeth, lo stesso Amleto, Re Lear, hanno al centro l’attrazione, la conquista, la perdita, le angosce e le disillusioni del potere, con una carica di emozione poetica e teatrale che altrove non si ritrova (in un malandato teatro di Brooklyn ho visto un Macbeth in giapponese dove la foresta di Birnam era un fremito di verdi bambù: teneva benissimo la scena e si capiva anche senza comprendere le parole). In questi drammi, e segnatamente in Misura per misura, il Potere è quasi sempre collegato al sesso, che serpeggia fra i protagonisti come impulso motore e insieme disgregatore: una consapevolezza e connessione che è della nostra realtà e del nostro teatro.
Sesso, amore e morte sono le grandi componenti di Romeo e Giulietta e Antonio e Cleopatra: nell’uno l’irresistibile passione giovanile, quella matura eppure esaltante oltre ogni perdita terrena nell’altro. Quest’ultimo dramma è già campito sul grande contrasto fra Oriente e Occidente, e nei vari casi le contrapposizioni drammatiche sono adattabili a circostanze storiche e sociali diverse, di altri luoghi e tempi: ebrei e palestinesi, samurai e contadini.
È successo in tutta una serie di produzioni teatrali e di film. Shakespeare affronta poi l’inquietante presenza fra noi del diverso, dello straniero, dell’«altro»: l’ebreo conculcato eppure rivendicato nel Mercante di Venezia, il Moro svilito e tradito, regredito da acculturato di rango alla condizione di «barbaro» in Otello, la donna umiliata e offesa eppure fino all’ultimo ribelle, forse nascostamente, nella Bisbetica domata. Sono drammi in cui si prefigurano i modi di repressione tipici dei regimi totalitari del ’900, ed hanno permesso continue forme di attualizzazione.
Completa il quadro, nella Tempesta, la precoce percezione del colonialismo e dell’abnorme rapporto che si instaura fra colonizzatore e schiavo: Prospero che riconosce Calibano come parte oscura di sé. Se ne sono avute diverse riscritture dall’altra parte (Aimé Césaire in testa, Une tempête) nei Paesi post-coloniali, in Africa, India, Estremo Oriente. Sembrano fruibili in ogni parte del mondo.
Questi temi riecheggiano nella sensibilità e nel teatro dell’ultimo mezzo secolo, dove pure riverbera il nichilismo assoluto, quasi insopportabile, di Re Lear. Lo stesso tema della follia, che Shakespeare inscena ed esplora nelle sue varie forme - reale, indotta, simulata, per disperazione o per finta, di buffoni o poveri derelitti allo stremo - apre le porte al teatro dell’assurdo.
Tenendo sempre presenti due aspetti. Shakespeare è grande autore comico quanto tragico: oltre ad Amleto ci sono Falstaff, le commedie dell’amore romantico (spesso ambientate in Italia), delle beffe di corte e di campagna, delle traversie in cui incorrono le giovani travestite da maschietti (con tutte le ambivalenze e gli equivoci sessuali del caso).
È proteiforme, di una «infinita varietà» come Cleopatra: cupo, tragico e oscuro, ilare, romantico e sognante. Si presta a tutto e tutto sopporta; si può fare quel che si vuole con i suoi drammi, ogni forma di prevaricazione - e molte ne sono state fatte - e lui resiste, rimbalza in piedi, ci sorride e ci atterrisce.
Se poi più che drammi rifiniti, scrive copioni «instabili» fatti per la recitazione, lo fa con indomita sicurezza e maestria verbale. In un passo del Sogno d’una notte di mezza estate, Téseo sentenzia che il pazzoide, l’amante e il poeta sono impastati di immaginazione, e che il poeta, pur nella frenesia che li accomuna, «dà all’aereo nulla una stabile dimora e un nome»: cioè concretezza, visibilità, conforto formale. Così fa Shakespeare, già anticipatore e maestro del nostro meta-teatro, del dramma entro il dramma, a specchio del suo stesso gioco. Dura da quattrocento anni, e a leggerlo sembra che abbia scritto ieri.
I MAESTRI DEL CINEMA
Taviani: nel nostro film il riscatto dei detenuti *
«Da quando ho conosciuto l’arte, questa cella è diventata una prigione» Questo commento lo fa un attore diverso da tutti gli altri. S’è inchinato agli applausi, è sceso dal palco, s’è tolto il costume di scena. Ed è rientrato in cella. È uno dei trenta detenuti della sezione Alta Sicurezza del carcere romano di Rebibbia. Assieme a loro ha interpretato il Giulio Cesare di Shakespeare, ed è stato ripreso all’interno del film Cesare deve morire.
Così il suo commento - autentico, pronunciato dopo una giornata di riprese, e poi divenuto il finale del film - riassume tutto il senso della pellicola che ha vinto l’Orso d’Oro a Berlino. «L’arte apre la mente e l’anima. Rende in qualche modo "liberi" - spiega Paolo Taviani (80 anni) - E questo, per trenta uomini condannati a decine d’ anni di galera, se non al "fine pena mai", ha un significato speciale».
Il significato di Cesare deve morire: la «liberazione interiore» - a metà tra documento e fiction - di trenta, autentici carcerati. Trasformati in attori. «Molti di loro non sanno né leggere né scrivere - considera Fabio Cavalli (che nel film, e nella realtà, è stato il regista dello spettacolo, poi ripreso dai Taviani) - E quando scoprono i poeti hanno uno shock. Capiscono di essere dei potenziali artisti; rimpiangono quanto hanno perduto. Ma soprattutto pensano: forse non è ancora finita. Forse abbiamo ancora una chance».
La singolare storia della costruzione di Cesare deve morire (da domani nelle sale) rispecchia la sua affascinante anomalia. «Un giorno una cara amica c’invitò a vedere uno spettacolo nel carcere di Rebibbia - racconta Vittorio Taviani (82 anni) - All’inizio eravamo diffidenti. "Sarà anche buono - pensavamo - ma pur sempre filodrammatico". I detenuti lessero l’Inferno di Dante, "traducendolo" nel loro parlare dialettale. E confrontandolo col proprio inferno personale. Uno di loro disse: "Queste parole voi potete capirle fino a un certo punto. Noi invece le sentiamo tutte, perché le abbiamo vissute". Rimanemmo fulminati».
Così emoziona, e commuove insieme, la rigorosa pellicola in un severo bianco e nero - e solo a tratti in vividi colori - che segue passo passo la creazione dello spettacolo: provini, letture a tavolino, prove in piedi, rappresentazione. E serale, inesorabile rientro in cella. «Lavorare con attori che sono stati anche ladri o assassini, significa evocare esperienze che un comune attore non possiede. Alcuni di loro hanno talento; ma è un talento diverso. Portano inconsapevolmente negli occhi, nella voce, qualcosa che rende i loro personaggi più veri».
Quanto al rapporto umano con loro, i sentimenti dei Taviani sono stati contrastanti. «Girare un film significa condividere la stessa ricerca di verità. E quindi fare amicizia - osserva Paolo - Poi però abbiamo pensato: è giusto compatire questi assassini? Non bisognerebbe compatire le loro vittime?». Aggiunge Vittorio: «Finchè sentimmo che attraverso Shakespeare riuscivamo a tirar fuori da loro emozioni che, in un certo senso, purificavano le loro colpe. Uno di loro ha scritto alla moglie: "Vieni a vedere lo spettacolo. Quando recito mi sembra di potermi perdonare"».
L’Orso d’Orso, per i due anziani maestri, è stato fonte «di grande piacere e stupore». Circa quelli che hanno cercato di salire sul carro del vincitore, Nanni Moretti («L’unico a voler distribuire il film - precisa la produttrice Grazia Volpi - Nessun’altro ci ha creduto») commenta: «Questa è una vittoria dei fratelli Taviani. Non del cinema italiano». Ma soprattutto degli interpreti. «Noi speriamo che chi vedrà Cesare deve morire capisca che essi - è vero - si sono macchiati di colpe orrende. Ma che sono e restano uomini».
Giacomo Vallati
* Avvenire, 1 marzo 2012
La lussuria
di Ruben Alves (Cem-Modialità, n. 1, gennaio 2012)
Lussuria! Che immagini vi vengono in mente quando sentite pronunciare questa parola? Non occorre dirlo, lo sappiamo. Sono immagini di orge, baccanali, uomini e donne che fanno sesso in qualsiasi maniera... Ma tengo a dirvi che la lussuria non è niente di tutto questo. La lussuria non vive nei genitali. Essa vive negli occhi. Proprio così: la lussuria è un modo di guardare. Il resto sono semplici deduzioni algebriche...
Il peccato della lussuria consiste proprio in questo: le persone che ne sono vittime perdono la capacità di vedere i volti. Vedono solo i genitali e ciò che si può fare con questi. In tale maniera, però, diventano incapaci di amare. Perché l’amore non inizia mai nei genitali. L’amore inizia nello sguardo. Guardando nel fondo degli occhi di chi è posseduto dal demone della lussuria, si vede solo una cosa: peni e vagine. Ora, una volta tanto, va ancora bene. Sono parti, piccole parti di un delizioso giocattolo che si chiama «fare l’amore». Ma quando quegli occhi vedono solo questo, il risultato è un’immensa monotonia. Perché tutte le orge, in fondo, sono la stessa cosa.
Quale cura, allora, per il disturbo oftalmico chiamato lussuria? Non la preghiera, neppure la promessa, non la flagellazione, neppure la minaccia. Il rimedio è la poesia. I demoni hanno in odio la poesia. Non c’è lussuria che resista ai poemi di Vinicius de Moraes, di Carlos Drummond de Andrade e di Adélia Prado. Rispetto a quest’ultima, ad esempio, ci sarà mai qualcosa di più erotico della sua poesia intitolata «Matrimonio»?
Ai miei tempi antichi di protestante, eravamo soliti fare una cosa chiamata «culto domestico». La famiglia si riuniva per leggere la Bibbia e pregare. Credo che usanze simili sarebbero salutari: le famiglie che dopo cena si riuniscono per leggere poesia. Incluse le Sacre Scritture. Non c’è lussuria che resista al Canto dei Cantici
Colui che è tentato dalla lussuria è perché non è amato. Il rimedio per la lussuria è l’amore.
(traduzione di Marco Dal Corso)
Se studiare Shakespeare migliora la diagnosi
Varie ricerche su Medical Humanities segnalano la particolare capacità che aveva il Bardo, nelle tragedie e commedie, nel descrivere l’intreccio mente-corpo. Sarebbe un’ottima lezione sulla psicosomatica per i futuri clinici
di Maurizio Paganelli (la Repubblica/Salute, 24.01.2012
La letteratura a sostegno di diagnosi e cura in medicina: e chi meglio di William Shakespeare, allora? «Molti dottori sono recalcitranti nel mettere in relazione disturbi emotivi con effettivi sintomi fisici. Questo porta a ritardi diagnostici, moltiplicazioni di esami e test, trattamenti inappropriati. Potrebbero diventare migliori medici studiando Shakespeare e le correlazioni mente-corpo da lui descritte», così, nelle conclusione di una ricerca apparsa di recente su Medical Humanities (gruppo British Medical Journal), afferma Kenneth Heaton, gastroenterologo britannico.
Heaton ha analizzato in modo sistematico un totale di 88 opere, 42 del Bardo, le altre dei suoi contemporanei, con attenzione alla descrizione dei sintomi psicosomatici. Nessuno ha mai descritto o capito meglio di Shakespeare tali sintomi. Mancanza di respiro e forti emozioni; vertigine/debolezza e aumentata sensibilità al dolore; stordimento e languore; stanchezza/fatica cronica e stato ansioso o stress; disturbi dell’udito e del sonno legati ad eventi traumatici. Freddezza, svenimento, debolezza sono usati da Shakespeare con maggiore precisione e più frequentemente di altri autori della sua epoca. La ricerca non è la sola che segnala il link tra medicina e tragedie e commedie shakespeariane.
Sempre su Humanities Medicine, il professore di letteratura inglese Eric Langley (suo Narcisismo e suicidio in Shakespeare) ha affrontato il tema, assai pertinente in epoca di peste, del contagio e dell’infezione nei drammi del grande poeta. Non solo: lo psicologo Murray Cox usa da tempo Shakespeare come strumento psicoterapico. «Difficile che un medico non ne rimanga attratto... perché sembra sentirle e capace di farcele sentire», commenta un altro medico, Theodore Dalrymple sul Telegraph. E The Shakespeare Blog, a dimostrazione della tesi, si sofferma sul Macbeth. Primo commento sul blog: «Cosa i medici possono imparare da Shakespeare? Voglio sperare, un po’ di umanità».
La docente di Lingua e letteratura inglese: "Modernissime le sue intuizioni"
Quel dottore dell’anima tra scienza e passione
di Nadia Fusini (la Repubblica/Salute, 24.01.2012)
Forse non tutti sanno che Shakespeare aveva un genero, di nome John Hall, che era medico. Pare avesse studiato medicina in Francia, dopo aver frequentato il Queen’s College di Cambridge. A Shakespeare doveva piacere quel genero, almeno quanto amava la figlia maggiore, Susanna, se è vero che li nominò esecutori testamentari. Immagino che con lui discutesse di medicina, e in particolare del legame tra psiche e soma, che non poteva non interessargli, visto che di passioni della mente tratta il suo teatro. John Hall da parte sua aveva intenzione di pubblicare le sue osservazioni "on english bodies", e cioè sui corpi inglesi, e sulle cure "sia empiriche che storiche" sperimentate sui suoi pazienti, "in casi disperati".
Shakespeare era uno scrittore, e non un medico, ma come riconoscerà Freud passeggiando sulle Dolomiti con il giovanissimo Rilke, un poeta arriva a profondità di conoscenza della psiche insuperate dalla scienza medica. E coglie con immediata intelligenza il fatto che corpo e anima sono inscindibili e gli affetti, cioè a dire le perturbazioni della mente, infettano entrambi.
L’uomo è una specie di piccola trinità di memoria, ragione e volontà, come ben dimostra Amleto, e sarà bene che si conosca nei suoi impulsi e analizzi i propri affetti. E se finora si è predicato che l’uomo naturale deve rispecchiarsi in Dio e prendere a modello quell’immagine sublime, è bene anche che quella specie di "teologia clinica" che nei loro trattati sulle passioni invocano i pastori puritani si misuri non su un uomo ideale, ma sulla realtà dell’uomo naturale, così com’è. L’uomo si conosce con l’uomo, non specchiandosi in Dio. Serve uno studio oggettivo dell’ordine naturale, sia nel microcosmo uomo, che nel macrocosmo società.
Shakespeare articola questa conoscenza nel modo drammatico di un teatro, che mette al centro dell’agone lo scontro antico tra ragione e passione, e lo rinnova. Le fonti filosofiche del dibattito sono Platone, Aristotele, Agostino, Tommaso insieme con Plutarco, Seneca, Cicerone, Boezio. Le fonti mediche sono Ippocrate e Galeno. È un patrimonio di sapere, dove è difficile separare l’astrologia dalla medicina, l’etica dalla filosofia e dalla teologia, come nel caso di De proprietatibus rerum di Bartholomeus Anglicus, riproposto all’epoca da Stephen Batman, studioso e bibliofilo. O del trattato di Sir Thomas Elyot, The Castell of the Health, la cittadella della salute. O del Trattato della melanconia di Timothy Bright. O dello specchio degli umori di Thomas Walkington, The optick glass of humours... Questo e molti altri trattati Shakespeare conosce. Shakespeare non è un filosofo, è un teatrante e arriva a conoscere la mente umana nel modo drammatico, in quei veri e proprii psico-drammi, dove porta in scena il profondissimo innesto dell’anima nel corpo, tra psiche e soma per l’appunto cogliendo con modernissimo intuito gli intrecci.
Nel Paradiso terrestre chi lavava i piatti?
di Jacques Noyer, vescovo emerito di Amiens
in “Témoignage Chrétien” del 29 settembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)
La risposta, se ci fosse, sarebbe per noi di grande utilità per porre fine al dibattito nel quale la chiesa è impegnata oggi con passione. Di fatto, la teoria del genere sarebbe il nemico principale della tradizione cristiana a vedere recenti dichiarazioni. Questa ideologia mirerebbe a distruggere completamente la morale del matrimonio cristiano, ma anche a relativizzare le più antiche certezze della struttura ecclesiale che attribuisce a ciascun sesso ruoli specifici.
Queste diverse e spesso sofisticate teorie conducono, mi sembra, a togliere le relazioni uomo-donna dalla sfera della natura per situarle solo nell’ambito della cultura. Sappiamo da tantissimo tempo che le società umane si sono costruite attorno a strutture familiari molto diverse. I ruoli sociali di uomini e donne si distribuiscono in modo differente tra i Bororos dell’America o tra i Pigmei dell’Africa.
Anche se i bambini nascono sempre allo stesso modo, quest’ultimi entrano in mondi molto diversi. Ma sino ad ora abbiamo potuto, con un po’ di ingenuità e molta sufficienza, affermare che c’era un modo “naturale” di vivere la sessualità e di fondare una famiglia, che le relazioni sessuali, la cui finalità procreatrice è evidente, trovano solo nella famiglia stabile, monogamica, educante, così come la incontriamo nei nostri paesi, coerenza e quindi moralità.
In fondo è un po’ la stessa cosa di quando i teologi del passato si chiedevano quale lingua utilizzassero Adamo, Dio ed Eva nel Paradiso terrestre. Quale lingua parlerebbe un bambino se non incontrasse nessuna lingua parlata attorno a lui: il latino? l’ebraico? Facciamo fatica ad accettare questa realtà benché evidente: l’uomo non esiste allo stato naturale ma sempre e solo all’interno di una cultura. Non esiste una sessualità naturale come non esiste una lingua naturale. Non si potrà mai fondare sulla natura una morale della famiglia o della sessualità. La bibbia ci dice che l’essere umano è stato creato, uomo e donna, il che significa non solo una differenza biologica ma una struttura relazionale attorno alla quale si costruisce ogni cultura umana.
Quali che siano le leggi e i costumi di una società, la sola esigenza cristiana è il rispetto, l’uguaglianza, l’amore tra le persone senza dimenticare evidentemente il figlio frutto e posta in gioco di queste relazioni.
Si potrà dire che una certa istituzione sia la più favorevole all’amore rispetto ad altre. Ma la regola dell’amore vicendevole resta il solo criterio veramente cristiano nelle relazioni tra uomini e donne ... e figli.
So che dicendo queste cose faccio vacillare tutte le certezze che permettono di rifiutare i divorziati, di proibire l’accesso all’altare alle ragazze, di riservare il ministero agli uomini, di trattare gli omosessuali come devianti.
Non è possibile, a sostegno di quelle certezze, invocare l’autorità divina ricavabile dalla legge naturale o dal comportamento di Gesù.
Non esiste altra legge all’infuori di quella dell’Amore ed essa è inscritta nel cuore di ogni uomo e di ogni donna
DIO E’ SPIRITO, AMORE ("DEUS CHARITAS EST": 1 Gv. 4.8). SE UN PAPA TEOLOGO SCRIVE LA SUA PRIMA ENCICLICA, TITOLANDOLA "DEUS CARITAS EST" ("CHARITAS", SENZA "H"), E’ ORA CHE TORNI A CASA, DA "MARIA E GIUSEPPE", PER IMPARARE UN PO’ DI CRISTIANESIMO.
LA TRADIZIONALE "SCOLA" COSTANTINIANA DI BENEDETTO XVI: IL MAGISTERO DELL’INGANNARE IL PROSSIMO COME SE STESSO. Un’analisi di Giancarlo Zizola, con note
(...) Von Balthasar, era molto netto (...). Diceva che «al cristiano è vietato il ricorso ai mezzi d’azione specificamente mondani per un preteso incremento del regno di Dio in terra». Criticava l’integralismo di gruppi di «mammalucchi cristiani che aspirano a conquistare il mondo» (...)
FAME NEL MONDO?! CIBO MATERIALE E CIBO SPIRITUALE: UNA SOLA GRANDE SPECULAZIONE TEOLOGICO-POLITICA ED ECONOMICA! La Conferenza della Fao e l’intervento di Benedetto XVI. Una nota sull’evento - con appunti sul tema
Trovare Dio nel deserto dell’anima
di Giorgio Montefoschi (Corriere della Sera, 29.12.2010)
Secondo la scarna descrizione che di lui fecero fra’ Eliseo de los Martires e fra’ Girolamo di San José, Juan de la Cruz, Giovanni della Croce - uno dei più grandi mistici dell’Occidente - era di statura medio piccola e ben proporzionato nel corpo; il volto, moro, aveva una fronte ampia e spaziosa, naso appena aquilino, barba a mezzo pelo, occhi neri profondi e incoraggianti; il portamento era distinto e grave e, nella sua modestia e mitezza di tratto, irradiava una impronta di nobiltà spirituale, di serenità, e di calma.
Ma, dietro a quella mitezza e a quella serena calma, si celava una volontà di ferro: la volontà che nel corso della sua non lunga vita (era nato, da una famiglia povera, nel villaggio di Fontiveros, vicino ad Avila, nel 1542, morì nel convento di Ubeda, in Andalusia, mentre i confratelli gli leggevano brani del Cantico dei Cantici, il 13 dicembre del 1591), gli consentì di lottare con tutte le sue forze per la riforma dell’ordine del Carmelo a cui apparteneva (in questo vicinissimo a Santa Teresa d’Avila, che aveva incontrato nel 1567 e procedeva in questa stessa linea, fondando conventi «teresiani» dal Nord al Sud della Spagna); gli dette il coraggio e la pazienza di sopportare le contestazioni e le umiliazioni dei carmelitani che rimanevano calzati e vedevano come perturbatori della conservazione gli scalzi, e per circa un anno un duro carcere; la convinzione interiore di non doversi arrendere in alcun modo e per nessun motivo all’idea che la vera riforma della Chiesa non andava impiantata sulla ortodossia del pensiero e della dottrina, bensì cercata e risolta nel cuore dell’uomo addormentato in una fede affievolita, o spenta.
Le sue poesie, fortemente improntate dal Cantico dei Cantici, il libro amoroso e mistico per eccellenza, descrivono l’Amore: il dolore insopportabile che si prova per la lontananza o l’assenza di chi è amato e si nasconde; lo sgomento della solitudine; i misteriosi tocchi d’amore che, per sua volontà imperscrutabile, l’amato concede improvvisamente a chi ama e invece si sente abbandonato e ferito, come prigioniero nel ventre di una bestia, e poi improvvisamente vede un lampo che, però, di nuovo lo acceca e lo ferisce, dal momento che è un lampo, e scompare; infine, le dolcezze sublimi dell’unione, ineffabili, paragonabili con molta approssimazione a un naufragio di una luce piccola in una luce immensa, di un suono in una musica silente. Sono poesie meravigliose. A chi lo interrogava su quale fosse l’origine di questi versi così ricchi e belli, rispose: «A volte era Dio a darmeli, a volte ero io a cercarmeli». Li cercava - come fa ogni poeta, ogni scrittore, ogni artista nel buio più assoluto: vera condizione, imprescindibile, per la creazione.
È lo stesso buio, la tenebra, che è al centro dei suoi Commentari - la Salita al Monte Carmelo, la Notte Oscura, il Cantico Spirituale, la Fiamma d’amore: vale a dire, i lunghi commenti che seguono le Canzoni, nei quali, appunto, si specchiano il verso e la prosa, i percorsi niente affatto dissimili del poeta e dell’uomo che insegue Dio e da Dio è inseguito - perché tutto, tutto comincia da lì. Comincia dal buio che l’anima sente nella mancanza d’amore, e lì finisce: nella tenebra che Dio impone all’anima per poterla accogliere nuda, smarrita nel buio, dentro di Sé.
Nessuno, mai, è riuscito a raccontare questo cammino dalla tenebra alla tenebra, e dalla tenebra alla luce, come ha fatto Juan de la Cruz. Nessuno, mai, ha tracciato una salita tanto ardua, priva di ogni consolazione, comprese quelle ultraterrene. Nessuno, mai, ha concepito per l’anima un abisso così profondo. La Sposa è già in una notte oscura, eppure è infiammata d’amore: un amore che non riesce a definire e la sovrasta, e che forse, in una sua precedente visita, le ha regalato lo Sposo. Quindi, esce dalla sua casa addormentata, esce dalla prigione dei sensi, e va a cercarlo. Ma, per trovarlo, deve andare dove lui si è nascosto e dove, dunque, deve lei stessa nascondersi; deve ridursi a una tenebra ancora più oscura: e spogliarsi, annullare ogni conoscenza terrena, ogni conoscenza dell’intelletto, ogni tentazione della memoria, ogni folle presunzione della fantasia; deve annichilirsi nel corpo e nello spirito come, nel Getsemani e sulla Croce, fece Gesù.
«Per giungere a ciò che non sai» , scrive Juan de la Cruz nella Salita al Monte Carmelo, «devi passare per dove non sai; per giungere al possesso di ciò che non hai, devi passare per dove non hai niente; per giungere a dove non sei, devi passareper dove ora non sei; per giungere interamente al tutto, devi rinnegarti totalmente in tutto» .
L’anima, insomma, deve conoscere Dio attraverso ciò che Egli non è, piuttosto che attraverso ciò che è; deve farsi arida e vuota come il deserto (deve andare nel deserto in cui andò Gesù); deve sentirsi tradita, abbandonata, morta, sola. Ma ecco che in quel momento, quando penserà di essere infinitamente lontana da Dio, sentirà un «tocco amoroso» che la sconvolge, una voce forte e dolce che la chiama, e capirà che mai più di quel momento è stata vicina a Dio: che non è fuggito, è in lei tutto nascosto, e la sta chiamando.
Come è possibile questo amore? Come è possibile amare chi non si conosce? Come è possibile, nel buio, questo amore del buio? Come è possibile che io vada a cercarti - dice la Sposa allo Sposo - se «quello che capisco mi piaga e mi ferisce d’amore e quello che non riesco a comprendere mi uccide?». È possibile - le risponde lo Sposo - perché io non ti ho abbandonata mai, io ti amata da sempre, prima che tu lo sapessi, e ti amerò per sempre. La Sposa trema, incredula, a queste rivelazioni che di colpo squarciano la tenebra fitta, e balbetta d’amore, non sa che dire. Allora, l’Amato le infonde nel cuore una immensa, pacifica e amorosa certezza: il calore che non si consuma mai della fiamma. E l’anima brucia e non si consuma in quella fiamma. È rapita e si perde in quella pacificante luce. E - come accade nel Fedro, e alla fine del Verbo degli uccelli, il poema mistico medievale del persiano Attar, come accade in ogni amore vero - la bellezza dell’Amata e dell’Amato si specchiano e si confondono.
* San Juan de la Cruz o Giovanni della Croce nacque in Spagna nel 1542 e morì nel 1591. Fondatore dei Carmelitani Scalzi, fu beatificato nel 1675 e canonizzato nel 1726. Il volume contenente Tutte le opere di Juan de la Cruz, con testo spagnolo a fronte, è curato da Luigi Bracco (Bompiani, pagine CXCVIII-2330, € 45) e fa parte della collana «Il pensiero occidentale» , diretta da Giovanni Reale.
PER NON DIMENTICARE. UN OMAGGIO A SHAKESPEARE E UN OMAGGIO ALLA DANIMARCA:
LA RESISTENZA NONVIOLENTA IN DANIMARCA
DI HANNAH ARENDT *
La storia degli ebrei danesi e’ una storia sui generis, e il comportamento della popolazione e del governo danese non trova riscontro in nessun altro paese d’Europa, occupato o alleato dell’Asse o neutrale e indipendente che fosse. Su questa storia si dovrebbero tenere lezioni obbligatorie in tutte le universita’ ove vi sia una facolta’ di scienze politiche, per dare un’idea della potenza enorme della nonviolenza e della resistenza passiva, anche se l’avversario e’ violento e dispone di mezzi infinitamente superiori.
Certo, anche altri paesi d’Europa difettavano di "comprensione per la questione ebraica", e anzi si puo’ dire che la maggioranza dei paesi europei fossero contrari alle soluzioni "radicali" e "finali". Come la Danimarca, anche la Svezia, l’Italia e la Bulgaria si rivelarono quasi immuni dall’antisemitismo, ma delle tre di queste nazioni che si trovavano sotto il tallone tedesco soltanto la danese oso’ esprimere apertamente cio’ che pensava. L’Italia e la Bulgaria sabotarono gli ordini della Germania e svolsero un complicato doppio gioco, salvando i loro ebrei con un tour de force d’ingegnosita’, ma non contestarono mai la politica antisemita in quanto tale.
Era esattamente l’opposto di quello che fecero i danesi. Quando i tedeschi, con una certa cautela, li invitarono a introdurre il distintivo giallo, essi risposero che il re sarebbe stato il primo a portarlo, e i ministri danesi fecero presente che qualsiasi provvedimento antisemita avrebbe provocato le loro immediate dimissioni.
Decisivo fu poi il fatto che i tedeschi non riuscirono nemmeno a imporre che si facesse una distinzione tra gli ebrei di origine danese (che erano circa seimilaquattrocento) e i millequattrocento ebrei di origine tedesca che erano riparati in Danimarca prima della guerra e che ora il governo del Reich aveva dichiarato apolidi. Il rifiuto opposto dai danesi dovette stupire enormemente i tedeschi, poiche’ ai loro occhi era quanto mai "illogico" che un governo proteggesse gente a cui pure aveva negato categoricamente la cittadinanza e anche il permesso di lavorare. (Dal punto di vista giuridico, prima della guerra la situazione dei profughi in Danimarca non era diversa da quella che c’era in Francia, con la sola differenza che la corruzione dilagante nella vita amministrativa della Terza Repubblica permetteva ad alcuni di farsi naturalizzare, grazie a mance o "aderenze", e a molti di lavorare anche senza un permesso; la Danimarca invece, come la Svizzera, non era un paese pour se debrouiller).
I danesi spiegarono ai capi tedeschi che siccome i profughi, in quanto apolidi, non erano piu’ cittadini tedeschi, i nazisti non potevano pretendere la loro consegna senza il consenso danese. Fu uno dei pochi casi in cui la condizione di apolide si rivelo’ un buon pretesto, anche se naturalmente non fu per il fatto in se’ di essere apolidi che gli ebrei si salvarono, ma perche’ il governo danese aveva deciso di difenderli. Cosi’ i nazisti non poterono compiere nessuno di quei passi preliminari che erano tanto importanti nella burocrazia dello sterminio, e le operazioni furono rinviate all’autunno del 1943.
Quello che accadde allora fu veramente stupefacente; per i tedeschi, in confronto a cio’ che avveniva in altri paesi d’Europa, fu un grande scompiglio. Nell’agosto del 1943 (quando ormai l’offensiva tedesca in Russia era fallita, l’Afrika Korps si era arreso in Tunisia e gli Alleati erano sbarcati in Italia) il governo svedese annullo’ l’accordo concluso con la Germania nel 1940, in base al quale le truppe tedesche avevano il diritto di attraversare la Svezia.
A questo punto i danesi decisero di accelerare un po’ le cose: nei cantieri della Danimarca ci furono sommosse, gli operai si rifiutarono di riparare le navi tedesche e scesero in sciopero. Il comandante militare tedesco proclamo’ lo stato d’emergenza e impose la legge marziale, e Himmler penso’ che fosse il momento buono per affrontare il problema ebraico, la cui "soluzione" si era fatta attendere fin troppo.
Ma un fatto che Himmler trascuro’ fu che (a parte la resistenza danese) i capi tedeschi che ormai da anni vivevano in Danimarca non erano piu’ quelli di un tempo. Non solo il generale von Hannecken, il comandante militare, si rifiuto’ di mettere truppe a disposizione del dott. Werner Best, plenipotenziario del Reich; ma anche le unita’ speciali delle SS (gli Einsatzkommandos) che lavoravano in Danimarca trovarono molto da ridire sui "provvedimenti ordinati dagli uffici centrali", come disse Best nella deposizione che rese poi a Norimberga. E lo stesso Best, che veniva dalla Gestapo ed era stato consigliere di Heydrich e aveva scritto un famoso libro sulla polizia e aveva lavorato per il governo militare di Parigi con piena soddisfazione dei suoi superiori, non era piu’ una persona fidata, anche se non e’ certo che a Berlino se ne rendessero perfettamente conto.
Comunque, fin dall’inizio era chiaro che le cose non sarebbero andate bene, e l’ufficio di Eichmann mando’ allora in Danimarca uno dei suoi uomini migliori, Rolf Guenther, che sicuramente nessuno poteva accusare di non avere la necessaria "durezza". Ma Guenther non fece nessuna impressione ai suoi colleghi di Copenhagen, e von Hannecken si rifiuto’ addirittura di emanare un decreto che imponesse a tutti gli ebrei di presentarsi per essere mandati a lavorare.
Best ando’ a Berlino e ottenne la promessa che tutti gli ebrei danesi sarebbero stati inviati a Theresienstadt, a qualunque categoria appartenessero - una concessione molto importante, dal punto di vista dei nazisti. Come data del loro arresto e della loro immediata deportazione (le navi erano gia’ pronte nei porti) fu fissata la notte del primo ottobre, e non potendosi fare affidamento ne’ sui danesi ne’ sugli ebrei ne’ sulle truppe tedesche di stanza in Danimarca, arrivarono dalla Germania unita’ della polizia tedesca, per effettuare una perquisizione casa per casa.
Ma all’ultimo momento Best proibi’ a queste unita’ di entrare negli alloggi, perche’ c’era il rischio che la polizia danese intervenisse e, se la popolazione danese si fosse scatenata, era probabile che i tedeschi avessero la peggio. Cosi’ poterono essere catturati soltanto quegli ebrei che aprivano volontariamente la porta. I tedeschi trovarono esattamente 477 persone (su piu’ di 7.800) in casa e disposte a lasciarli entrare.
Pochi giorni prima della data fatale un agente marittimo tedesco, certo Georg F. Duckwitz, probabilmente istruito dallo stesso Best, aveva rivelato tutto il piano al governo danese, che a sua volta si era affrettato a informare i capi della comunita’ ebraica. E questi, all’opposto dei capi ebraici di altri paesi, avevano comunicato apertamente la notizia ai fedeli, nelle sinagoghe, in occasione delle funzioni religiose del capodanno ebraico. Gli ebrei ebbero appena il tempo di lasciare le loro case e di nascondersi, cosa che fu molto facile perche’, come si espresse la sentenza, "tutto il popolo danese, dal re al piu’ umile cittadino", era pronto a ospitarli.
Probabilmente sarebbero dovuti rimanere nascosti per tutta la durata della guerra se la Danimarca non avesse avuto la fortuna di essere vicina alla Svezia. Si ritenne opportuno trasportare tutti gli ebrei in Svezia, e cosi’ si fece con l’aiuto della flotta da pesca danese.
Le spese di trasporto per i non abbienti (circa cento dollari a persona) furono pagate in gran parte da ricchi cittadini danesi, e questa fu forse la cosa piu’ stupefacente di tutte, perche’ negli altri paesi gli ebrei pagavano da se’ le spese della propria deportazione, gli ebrei ricchi spendevano tesori per comprarsi permessi di uscita (in Olanda, Slovacchia e piu’ tardi Ungheria), o corrompendo le autorita’ locali o trattando "legalmente" con le SS, le quali accettavano soltanto valuta pregiata e, per esempio in Olanda, volevano dai cinquemila ai diecimila dollari per persona. Anche dove la popolazione simpatizzava per loro e cercava sinceramente di aiutarli, gli ebrei dovevano pagare se volevano andar via, e quindi le possibilita’ di fuggire, per i poveri, erano nulle.
Occorse quasi tutto ottobre per traghettare gli ebrei attraverso le cinque-quindici miglia di mare che separano la Danimarca dalla Svezia. Gli svedesi accolsero 5.919 profughi, di cui almeno 1.000 erano di origine tedesca, 1.310 erano mezzi ebrei e 686 erano non ebrei sposati ad ebrei. (Quasi la meta’ degli ebrei di origine danese rimase invece in Danimarca, e si salvo’ tenendosi nascosta). Gli ebrei non danesi si trovarono bene come non mai, giacche’ tutti ottennero il permesso di lavorare. Le poche centinaia di persone che la polizia tedesca era riuscita ad arrestare furono trasportate a Theresienstadt: erano persone anziane o povere, che o non erano state avvertite in tempo o non avevano capito la gravita’ della situazione. Nel ghetto godettero di privilegi come nessun altro gruppo, grazie all’incessante campagna che in Danimarca fecero su di loro le autorita’ e privati cittadini. Ne perirono quarantotto, una percentuale non molto alta, se si pensa alla loro eta’ media.
Quando tutto fu finito, Eichmann si senti’ in dovere di riconoscere che "per varie ragioni" l’azione contro gli ebrei danesi era stata un "fallimento"; invece quel singolare individuo che era il dott. Best dichiaro’: "Obiettivo dell’operazione non era arrestare un gran numero di ebrei, ma ripulire la Danimarca dagli ebrei: ed ora questo obiettivo e’ stato raggiunto".
L’aspetto politicamente e psicologicamente piu’ interessante di tutta questa vicenda e’ forse costituito dal comportamento delle autorita’ tedesche insediate in Danimarca, dal loro evidente sabotaggio degli ordini che giungevano da Berlino. A quel che si sa, fu questa l’unica volta che i nazisti incontrarono una resistenza aperta, e il risultato fu a quanto pare che quelli di loro che vi si trovarono coinvolti cambiarono mentalita’. Non vedevano piu’ lo sterminio di un intero popolo come una cosa ovvia. Avevano urtato in una resistenza basata su saldi principi, e la loro "durezza" si era sciolta come ghiaccio al sole permettendo il riaffiorare, sia pur timido, di un po’ di vero coraggio.
Del resto, che l’ideale della "durezza", eccezion fatta forse per qualche bruto, fosse soltanto un mito creato apposta per autoingannarsi, un mito che nascondeva uno sfrenato desiderio di irreggimentarsi a qualunque prezzo, lo si vide chiaramente al processo di Norimberga, dove gli imputati si accusarono e si tradirono a vicenda giurando e spergiurando di essere sempre stati "contrari" o sostenendo, come fece piu’ tardi anche Eichmann, che i loro superiori avevano abusato delle loro migliori qualita’. (A Gerusalemme Eichmann accuso’ "quelli al potere" di avere abusato della sua "obbedienza": "il suddito di un governo buono e’ fortunato, il suddito di un governo cattivo e’ sfortunato: io non ho avuto fortuna"). Ora avevano perduto l’altezzosita’ d’un tempo, e benche’ i piu’ di loro dovessero ben sapere che non sarebbero sfuggiti alla condanna, nessuno ebbe il fegato di difendere l’ideologia nazista.
* [Da Hannah Arendt, La banalita’ del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1964, 1993, alle pp. 177-182....]
* TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 395 del 5 dicembre 2010 Telegrammi della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Verso la giornata della memoria
La Resistenza della Danimarca
Settemila ebrei si salvarono nell’ottobre del ’43 attraversando lo stretto di Øresund:
il popolo danese, racconta Bo Lidegaard, si oppose all’operazione di pulizia etnica
di Sergio Luzzatto (Il Sole 24 Ore/Domenica, 12.01.2014)
L’8 settembre della Danimarca fu inaugurato da un telegramma. Era il telegramma inviato a Berlino da Werner Best, giovane ufficiale delle SS che Hitler aveva nominato da poco, in quell’estate 1943, plenipotenziario del Reich a Copenaghen. «Una coerente attuazione del nuovo corso in Danimarca comporta adesso, a mio parere, una risoluzione della questione ebraica nel Paese»: così Best telegrafava a Berlino, e tutto lasciava intendere che la risoluzione della faccenda coincidesse anche lì con la Soluzione finale. Invece no. La storia prese tutt’altra piega. Per gli ebrei locali - diversamente che in Italia - l’8 settembre ’43 segnò l’inizio di una tragedia a lieto fine.
Ormai da tre anni e mezzo la Danimarca era stata occupata dai tedeschi sotto uno strano regime di compromesso, una specie di occupazione pacifica per cui il Reich non aveva dichiarato lo stato di guerra né si era assunto la responsabilità degli affari interni danesi. A differenza che in Norvegia, dove la monarchia e il governo costituzionale erano stati deposti con l’avvento del collaborazionista Quisling, in Danimarca il re Cristiano X era rimasto sul trono e le istituzioni democratiche avevano continuato a funzionare. I tedeschi avevano tenuto quasi soltanto a garantirsi, attraverso il controllo dello stretto di Øresund, la regolarità delle comunicazioni dal mar Baltico al mare del Nord, e inoltre un accesso diretto alla produzione agricola danese.
Ma nell’agosto 1943 il precario equilibrio dell’occupazione pacifica si era infranto contro un’ondata di sabotaggi, scioperi, sommosse, cui i tedeschi avevano risposto instaurando la legge marziale. E scatenando infine la caccia - anche in Danimarca - contro il nemico per eccellenza, l’orrido giudeo: contro i sette-ottomila ebrei presenti allora sul territorio danese. Tremila circa di questi discendevano da famiglie insediate fin dal Seicento e appartenevano a un’élite assimilata. Circa altrettanti, i cosiddetti «ebrei russi», erano arrivati all’inizio del Novecento fuggendo la povertà e i pogrom dell’Europa orientale. Mille e passa erano giunti di recente: profughi tedeschi, austriaci, boemi, in fuga dalla persecuzione nazista.
Uomo di fiducia di Himmler, il «dottor Best» - come rispettosamente veniva qualificato a Copenaghen - sapeva quel che il capo delle SS si aspettava da lui: un personale contributo all’opera di disinfestazione razziale, la liquidazione degli ebrei dalla Danimarca verso le terre dello sterminio. Senonché Werner Best era un ufficiale nazista particolarmente colto, sensibile, e scaltro. A fine settembre ’43, quando ricevette da Berlino l’ordine esplicito di procedere all’arresto e alla deportazione di tutti gli ebrei «purosangue», Best ebbe l’intelligenza di capire che la Danimarca non era, agli effetti della Soluzione finale, un Paese d’Europa come un altro. Decise allora di intraprendere un temerario doppiogioco. In apparenza, promosse l’operazione di pulizia etnica. In sostanza, procurò di limitarne la riuscita.
Ciò che rendeva la Danimarca un Paese diverso era una diversa concezione del "noi" e del "loro". Agli occhi dell’opinione pubblica, l’altro da sé non era l’israelita, cittadino danese o profugo straniero, che partecipava di una diaspora millenaria: l’alieno era il nazista, tedesco o indigeno, che designava l’ebreo come un «sottouomo». Così, proprio l’avvio dell’operazione antiebraica suscitò in Danimarca - dopo tre anni e mezzo di attendismo, o di larvato collaborazionismo - un movimento spontaneo di resistenza civile. E generò, rispetto ad altri contesti di persecuzione degli ebrei d’Europa durante la Seconda guerra mondiale, una configurazione originale del rapporto tra carnefici, vittime e spettatori.
Sapientemente ricostruita ed efficacemente raccontata, è questa la storia che si legge nel libro di Bo Lidegaard, Il popolo che disse no: è l’avventurosa storia del salvataggio di massa di quei sette o ottomila ebrei di Danimarca. Entro le prime due settimane dell’ottobre 1943 la stragrande maggioranza di loro poté traversare lo stretto di Øresund e raggiungere la Svezia, la cui neutralità nella guerra equivaleva alla salvezza. Gli ebrei furono indirettamente aiutati dagli uomini delle istituzioni, che rifiutarono di prestare ai tedeschi qualunque tipo di assistenza politica, militare, culturale. Furono indirettamente aiutati da uomini di chiesa come il vescovo di Copenaghen, che contro la violazione nazista del diritto fece appello alla libertà di coscienza del suo gregge. Soprattutto, gli ebrei furono aiutati dal soccorso diretto della gente comune. Inseguite dai carnefici, le vittime vennero assistite dagli spettatori, che in Danimarca non rimasero tali.
Si prenda un posto come Gilleleje, villaggio di pescatori all’estremo nord dello stretto di Øresund. Millesettecento anime che da un giorno all’altro si trovano ad accogliere - a nascondere, a scaldare, a nutrire, infine a imbarcare - diverse centinaia di ebrei sconosciuti, danesi o stranieri, uomini donne vecchi bambini. Certo, per i pescatori di Gilleleje la rotta degli ebrei braccati dalla Gestapo corrisponde a una benvenuta opportunità economica: pur di salire su una barca e arrivare in Svezia, i profughi sono pronti a sborsare fino all’ultima corona che resti loro in tasca. Ma i soldi versati ai pescatori non bastano per spiegare la nascita, a Gilleleje, di un «Comitato ebraico» animato dal meccanico Petersen e dal droghiere Lassen insieme al falegname del villaggio, al maestro di scuola, al medico condotto e al presidente del consiglio parrocchiale. I soldi non spiegano la mobilitazione di una comunità locale che, salvando la vita agli ebrei fuggiaschi, intende salvarsi come comunità umana.
La notte del 6 ottobre soldati della Gestapo avevano fatto irruzione nella chiesa di Gilleleje, avevano arrestato ottantacinque ebrei precariamente nascosti in quel luogo sacro, ne avevano disposto la deportazione verso il ghetto boemo di Terezin, anticamera dei Lager. La nascita del Comitato ebraico di Gilleleje costituiva una risposta a questo schiaffo. Non rappresentava soltanto un gesto di solidarietà verso sconosciuti ebrei in fuga: era anche un gesto di rivendicazione del l’identità comunitaria. Era una mobilitazione in difesa dei valori non negoziabili su cui tale identità si fondava.
Lungo le coste danesi dell’Øresund si moltiplicarono esperienze collettive di salvataggio come quella di Gilleleje. In totale, nei primi quindici giorni dell’ottobre ’43, le traversate in barca organizzate clandestinamente furono circa settecento: e circa settemila furono gli ebrei che così scamparono in Svezia ai colpi della Soluzione finale. Mentre nessuno dei settecento trasporti illegali (neanche uno!) fu intercettato dalle pattuglie della Marina tedesca.
L’inefficacia dei pattugliamenti navali si spiega, prima di tutto, con il sottile doppiogioco del dottor Best. Il plenipotenziario germanico riuscì allora a convincere perfino Adolf Eichmann, giunto in missione a Copenaghen, che gli ebrei di Danimarca stavano meglio dispersi per le città della Svezia che ammassati nei ghetti di Boemia o nelle camere a gas di Polonia. Ma a un livello più profondo, l’improbabile inefficacia dei pattugliamenti lungo l’Øresund - e l’inusuale arrendevolezza di un uomo come Eichmann - si spiegano attraverso una dinamica propriamente politica. In Danimarca, il Terzo Reich rinunciò a realizzare la Soluzione finale per una ragione molto semplice, insopportabilmente semplice: perché fu posto di fronte all’opposizione di un popolo intero.
Il dramma del vero in Shakespeare
di Giorgio Montefoschi (Corriere della Sera, 28.10.2010)
La Parola che si fa carne e vive nell’uomo è il culmine del mistero «Per Shakespeare», dice Nadia Fusini nel primo capitolo del suo bellissimo libro dedicato a Shakespeare, intitolato Di vita si muore (Mondadori, pp. 496, 22)-e e organizzato in cinque atti a testimoniare l’impegno drammatico che l’Autrice nello scriverlo ha speso - «il teatro ha a che fare con il miracolo dell’incarnazione».
Fra tutte le idee, le ipotesi, le suggestioni che colmano le pagine della Fusini, questa mi sembra l’idea centrale, la vera idea chiave attraverso la quale orientarsi in quel fitto groviglio che è il mondo delle passioni custodite nell’anima dell’uomo, alle quali Shakespeare, non da filosofo, non da moralista, offre lo spazio dinamico dell’atto, della vita e della rappresentazione.
L’incarnazione. In un secolo che è religioso, ma non ha più certezze; un secolo «in cui si assiste alla rivelazione che i corpi celesti non sono perfetti e immutabili; in cui la nuova astronomia vede corruzione e mutamento nelle regioni più remote dei cieli», l’eroe elisabettiano non può che rivolgere lo sguardo a se stesso. Si guarda, come un Narciso che sa di non potersi ingannare, in uno specchio di superficie finché questo specchio non si rompe per un sasso che qualcuno (non lui: il messaggero del Male) alle sue spalle gli tira, e di colpo vi precipita dentro. Lì, in quell’abisso, egli scopre la passione, «trova la sua anima». E, nell’attimo in cui sprofonda, riemerge incarnato nell’«ospite sconosciuto» che ciascuno di noi nasconde in sé.
Così, Bruto, l’eroe che decide di salvare la libertà e di uccidere il tiranno, scopre l’insostenibile tensione che si crea nell’anima in quell’interim eterno - vero luogo della tragedia - che corre fra «il primo impulso che muove l’atto» e l’esecuzione dell’atto stesso, e se ne tortura.
Amleto scopre e conosce la forza brutale della libido, che vede incarnata in primo luogo in sua madre e poi, quale peccato originale, in tutte le donne, compresa l’innocente Ofelia; scopre e conosce il peso di sentirsi Figlio inseguito dal Padre assassinato che gli chiede vendetta; scopre la propria impotenza, e in questa l’inefficacia tutta luterana «di ogni opera e di ogni agire».
Otello conosce la maledizione della gelosia: l’inferno terreno costituito dalle immagini sconce e terribili alle quali diamo carne nell’immaginazione quando sospettiamo il tradimento; e il tradimento che lui stesso, sospettando di Desdemona, fa dell’amore.
Credendo di essere Dio, Re Lear non si accorge che Cristo, suo Figlio, «ha le fattezze di Cordelia», e non essendo più padre, più re, più Dio, conosce, insie me alla empietà degli esseri umani, l’immensa solitudine di chi si sente abbandonato da Dio; ma poi, al culmine della follia che lo devasta, nel cuore di quelle tempeste in cui errabondo vaga, conosce il miracolo della grazia che altro non è se non la pietà cristiana: l’unica risorsa che pur nella sventura ci rimane e consiste nel condividere il dolore del nostro prossimo.
Macbeth - l’uomo ferito, come Edipo, dal proprio atto - scopre la violenza del Male; la forza del Male che ci fa perdere la ragione; l’orrore di un Male di cui non sappiamo la provenienza, del quale potremmo addirittura dichiararci incolpevoli per come irride la nostra volontà, ma che ciononostante ci devasta la mente; infine, nell’ingordigia delle tenebre in cui affonda, conosce la paura.
Da dove viene il Male? Siamo responsabili del Male che ci travolge? L’umanità non è che una folla di esseri perduti schiavi del tempo? Dio esiste? E dov’è? Queste sono le domande fondamentali, che si agitano nel teatro dell’anima dei personaggi di Shakespeare, si incarnano nel dissidio fra la ragione e la passione, e in quello sublime della Parola.
La Parola, infatti, la Parola che si fa carne e vive nell’uomo per la redenzione dell’uomo - come sa magnificamente spiegare Nadia Fusini, in un libro che possiede uno sguardo sulla letteratura, sulla filosofia e le scienze umane che va ben oltre il Cinque e il Seicento - è la vera incarnazione, il culmine dell’incarnazione e del mistero.
Ecco il motivo per il quale, molto spesso, nel teatro di Shakespeare, abbiamo l’impressione che le parole si contraddicano, oppure che ci respingano, oppure che ci chiamino a una altezza dalla quale ricadiamo indietro, condannati, dopo aver intravisto la luce, all’esilio.
Perché le parole che contengono la verità sono, e devono restare inattingibili. È così. Noi proviamo a scandagliarla la Parola; ci illudiamo di comprenderla, come a d esempio ci succede quando leggiamo le Lettere di San Paolo. Ma poi, ogni volta, dobbiamo riaprire il libro, riconsiderarlo quel significato che prima pareva chiaro e ora ci pare oscuro. E questo, all’infinito.
Le passioni secondo Shakespeare
Il nuovo saggio di Nadia Fusini svela i meccanismi con cui il grande scrittore mette in scena l’animo umano grazie alla finzione del teatro
di Giuseppe Montesano (la Repubblica, 08.09.2010)
Chi è Shakespeare, il misterioso e immenso continente dove la poesia si è fatta più reale della realtà? Di lui non sappiamo nemmeno che faccia avesse. Quando nell’800 fu esposto il suo ritratto più attendibile, il rifiuto fu unanime: aveva le labbra troppo "lubriche", la faccia era troppo "licenziosa", la carnagione troppo scura, i tratti somatici troppo da "italiano" o da "ebreo" e troppo poco britannici.
E l’orecchino! In quel ritratto Shakespeare porta un orecchino d’oro che gli dà un’aria davvero troppo da avventuriero. E anche nella sua opera tutto sembra troppo: la vita, la morte, l’amore, i sogni, il dolore, tutto nell’ambigua stregoneria evocatoria di Shakespeare sembra cantare per far smarrire lettori e esegeti. Ma è proprio dentro questo traboccare che toglie il fiato che si immerge l’ultimo libro di Nadia Fusini, Di vita si muore. Lo spettacolo delle passioni nel teatro di Shakespeare (Mondadori, pagg. 496, euro 22) riemergendone con uno Shakespeare per noi, qui e oggi.
La Fusini apre Di vita si muore dichiarando di averlo scritto nel "modo dell’amore", vale a dire nell’ebbrezza scaturita dalla lettura quotidiana di Shakespeare, e confessando che il saggista ha qui preso le vesti di un interprete rabbinico: «Qui si esercita un modo di lettura che del midrash ha l’andamento; ovvero il movimento di chi cerca il significato di quel che è scritto risolvendo qualsiasi domanda o questione, che dallo scritto possa sorgere, dentro il testo stesso».
Da questo voltare le spalle a una critica accademica nasce l’oggettività innamorata che divampa in Di vita si muore, una oggettività che può concedersi l’accensione passionale e l’illuminazione imprevista perché sa che bisogna fondarle sull’acribia filologica e sull’acume critico. Al centro del libro c’è l’intreccio tra le passioni e la ragione sondato in spirali continue, spire che si avvolgono intorno al loro oggetto per spremere da esso verità, e che affondano l’opera di Shakespeare nelle contraddizioni della sua epoca non per appiattirne l’unicità ma per farla brillare in tutta la sua energia. Così se è il rapporto tra corpo e linguaggio che si accampa nel cuore del racconto conoscitivo della Fusini, in esso emergono in dettaglio anche gli influssi culturali dei quali si nutriva Shakespeare, da Aristotele al Principe, da Galeno al Leviatano, dall’Edipo a Colono ai Passion Plays del medioevo cristiano, da Marlowe alle Anatomie medico-morali degli elisabettiani.
In Di vita si muore scopriamo così uno Shakespeare che cita da The Anatomie of the Minde di Thomas Rogers, e che in Amleto richiama il trattato On Melancholy di Timothy Bright; ci appare un poeta che conosce bene, e indaga, le controversie tra Lutero e i cattolici; capiamo meglio quanto Shakespeare sia prossimo al pensiero della nuova scienza di Hobbes e Spinoza; e vediamo come questa materia divenga memorabile teatro.
Il miracolo di questa metamorfosi che trasforma le idee e le ideologie in persone e vite non lontane dalla equanime ferocia di Dostoevskij sta nella natura doppia del teatro, il teatro che, come il romanzo, mette in scena la finzione per smascherarla, crea una dialettica tra bene e male sottratta alle ovvietà morali e giunge a quel culmine conoscitivo in cui l’emozione getta un fascio di luce sul male non per fingere di annullarlo, ma per scoprirne le ambiguità. E lo strumento sovrano di tale operazione è per la Fusini il linguaggio, il luogo della metamorfosi e della conoscenza in Shakespeare: «E’ l’invenzione di una lingua che non è dialettica né discorsiva, ma è tesa nell’irriducibile contrasto dell’ossimoro, figura connaturata a questo linguaggio teatrale che nega la sintesi e con essa ogni idea di armonia degli opposti, operando piuttosto per congiunzioni di pensiero illegittime... Sì, questa lingua "sforza" le parole, le violenta... E’ così che un linguaggio, che dispera dell’ordine, inventa altri gradini per conquistare la torre di Babele. La sua disperazione è la sua forza, la sua povertà la sua grandezza».
Ecco indicata, e stupendamente, la verità di Shakespeare, il luogo dove lo scontro tra passione e ragione si duplica nello scontro tra tragico e comico e tra giusto e ingiusto, il luogo in cui è possibile porsi domande sul mondo che è out of joints, "fuori dai cardini", in una lingua che per raccontare la nascente Modernità le offre la recita della sua lacerazione nella lingua stessa della lacerazione.
Allora i drammi e le tragedie che la Fusini legge e interpreta in Di vita si muore si illuminano di una luce nuova, e le intuizioni abbondano: in Macbeth sono la droga della paura e il desiderio di ignoranza di Macbeth come salvezza dalla lucidità del pensiero; in Amleto è l’indagine sottile sul Tempo a partire dal "frattempo", la pausa in cui la vicenda è un fantasma immaginato dalla mente di Amleto; in Otello è una lettura che andrebbe citata riga per riga: dall’intuizione di Iago come uomo nuovo della Modernità che si fonda sull’Economico e "stupra l’anima" di Otello, a quella di Iago che "fa teatro con le parole" come Shakespeare; dall’intuizione magnifica che è Otello e non Iago il vero traditore dell’amore, a quella che nell’Otello le parole tradiscono se stesse; da quella che vede Otello naufragare perché considera l’amore secondo il "principio di proprietà", a quella dell’amore di Desdemona come forza al di là del bene e del male borghesi.
Alla fine non c’è dubbio: Di vita si muore non è solo un libro bello, è anche un libro importante. Le grandi opere letterarie vanno interpretate attraverso se stesse, e non siamo noi a svelarle ma semmai sono loro che ci svelano a noi stessi: mettendoci senza riguardi di fronte a ciò che non avevamo la forza o la passione per vedere. Quanto costa andare verso le verità che Shakespeare o Kafka o Baudelaire ci mostrano nel terrore e nella pietà? Niente di meno che l’anima, ecco cosa chiede la letteratura. Ma in cambio offre qualcosa di impagabile: una brace accesa nella notte dell’anima, un sovrabbondare di vita nella nostra miseria quotidiana.
Libro risponde ai dubbi sull’identità del grande drammaturgo
Shakespeare mistero risolto
L’ossessione per l’autore ha riguardato anche Omero: per alcuni era una donna
di Nadia Fusini (la Repubblica, 08.06.2010)
È o non è William Shakespeare di Stratford l’autore di quel corpus di opere che va sotto tale nome? Shakespeare è un vero nome, o un nome finto, uno pseudonimo? Della contestata attribuzione si occupa lo studioso James Shapiro in Contested Will (Faber, pp.367, £20), libro che potrebbe mettere fine all’ansia, perché chi legga sino alla fine non potrà avere dubbi: Shakespeare è Shakespeare, non è Francis Bacon, né Edward de Vere, conte di Oxford, né Christopher Marlowe, né la regina Elisabetta... Perché sì è detto di tutto, e alle ipotesi più stravaganti sono abboccati non solo dei creduloni - un nome per tutti, Sigmund Freud. Ma si aggiunga alla lista Mark Twain, Henry James... Con pazienza e senza disprezzo Shapiro ci accompagna nelle contorte peregrinazioni alla ricerca del "vero" Shakespeare, che nasce da una diffidenza, da un pregiudizio: nella sostanza, non si riesce a credere che un provinciale, un uomo qualunque possa essere stato capace di tanto. Troppo sembra conoscere l’autore di Amleto, di Lear, di Otello, troppo profondo è il suo pensiero, troppo vasto il suo intelletto, troppo raffinata la sua lingua: non può essere un uomo qualunque, di una qualunque città di provincia. Il quale, in più, alla fine abbandona baracca e burattini e vi torna, e compra case, stemmi, e pensa solo ai soldi, per soldi litiga, come se l’unica cosa che conti siano i possessi materiali. Vi pare una mentalità da grande scrittore, questa? (si può osservare che non sarebbe certo il primo Shakespeare a scrivere per soldi; anzi da che mondo è mondo pare che il denaro sia la grande molla dell’ispirazione.) Ma per certi idealisti che avevano assunto Shakespeare a Bibbia laica, non poteva essere così.
Delia Bacon, un’americana stravagante, forse anche perché si chiamava come si chiamava, decise che l’autore del corpus shakespeariano era Francis Bacon e venne in Inghilterra a cercare prove dentro la tomba del poeta, ed era pronta a scavare, se non le fosse stato impedito, convinta com’era che nella bara avrebbe trovato le prove. Un altro, che si chiamava Looney, nomen omen anche in questo caso (perché loony sfuma nell’idea di lunatico, eccentrico, fuori di testa) invece è convinto che sia il conte di Oxford, e non importa che il conte muoia ben prima che Shakespeare smetta di scrivere. Altri ancora ricorrono a sedute spiritiche, per farsi dire la verità proprio da lui, da Shakespeare.
All’inizio della quête, che Shapiro descrive con brio e pazienza, c’è un peccato originale. Risale al 1790, quando Edmond Malone lavora a una nuova edizione dei drammi shakespeariani, che vuole in ordine cronologico, e tale ordine crede di poter costruire in base ai rimandi personali, biografici, che cerca nei testi, quasi che si potesse scrivere solo di cose che si conoscono perché le abbiamo vissute. È il grande abbaglio che acceca Freud (secondo il quale Shakespeare non poteva scrivere l’Amleto se non dopo la morte del padre), e prima ancora giustifica chi dirà: come faceva Shakespeare a sapere tutto dell’arte della falconeria, se non era un aristocratico? Come faceva a sapere tutto di una nave, se non aveva mai navigato?
Il punto è che con l’epoca moderna, si cominciò a dubitare di tutto: ad esempio, chi aveva scritto l’Iliade? Chi l’Odissea? Lo stesso autore? Impossibile, decretò Samuel Butler: si capisce subito che l’Odissea l’ha scritta una donna, che sa come si tendono i panni al sole, si piegano le lenzuola e come si tesse al telaio. E difatti, è una principessa siciliana, di Trapani, l’autrice. Mentre è certamente un uomo che sa tutto della guerra ad aver scritto l’Iliade. E se per quello chi aveva scritto la Bibbia? Era davvero credibile che fossero dei pescatori ignoranti? Non erano analfabeti i discepoli?
Qui il libro si fa non solo interessante, ma cogente, dimostrando come il concetto di autorità e autorialità e identità e proprietà si stringano in nodo intrinseco e problematico, tanto da produrre nuove interpretazioni, succubi tutte dello Zeitgeist; dalle quali si evince che non la verità, ma il mito domina e guida la vicenda. E il mito trionfa proprio allontanando dalla cosa vera, evocando false ombre, sembianti. Basterebbe leggere, Shakespeare è lì; se non gli si vuol credere, se non si vuol credere alle testimonianze di chi l’ha incontrato, ai contemporanei che della sua esitenza testimoniano, è senz’altro perché un certo fanatismo occulteggiante è la strada che da che mondo è mondo prende la fantasia. Mentre per conoscere Shakespeare ci vuole intelligenza e immaginazione.
Il programma messo a punto per scovare i "plagi" degli studenti copioni
avrebbe permesso di individuare il poeta che collaborò alla stesura dell’Edoardo III
Shakespeare e l’opera a 4 mani
un software svela il mistero
di MARCO PASQUA *
Un software anti-plagio svela un mistero letterario e storico, che si trascina ormai dai più di 400 anni. Brian Vickers, studioso di William Shakespeare, ormai non ha più dubbi: l’Edoardo III, pubblicato per la prima volta in forma anonima nel 1596, fu scritto a quattro mani. Il poeta e drammaturgo di Stratford-upon-Avon avrebbe collaborato con il collega Thomas Kyd. Una conclusione alla quale Vickers, ricercatore presso l’università di Londra, è arrivato utilizzando "Pl@giarism", il software che riesce a smascherare gli studenti copioni, scovando le frasi "riprese" da altre opere.
Come ricorda il quotidiano britannico Times, che ha reso noto lo studio di Vickers, il giallo dell’Edoardo III (titolo originale "The Reign of King Edward III"), è stato parzialmente risolto alla fine degli anni Novanta, quando l’opera è stata ufficialmente inserita nella raccolta completa dei testi scritti da Shakespeare. E questo nonostante molti studiosi continuassero a mettere in dubbio l’ipotesi che il famoso drammaturgo, la cui "mano" era solo in parte visibile nell’opera, avesse potuto collaborare con qualcun altro.
Adesso, il programma potrebbe permettere di porre fine a questa antica diatriba letteraria. Sviluppato dall’università di Maastricht, consente di individuare le cosiddette "impronte linguistiche": frasi ripetute, di almeno tre parole, che identificano una data opera. Vickers sostiene che in testi scritti da autori diversi, si trovano generalmente tra le 10 e le 20 corrispondenze, perché certe frasi sono di uso comune. Nel caso dell’Edoardo III, invece, sono state trovate 200 "impronte", tra questo e le opere di Shakespeare scritte prima del 1596. "Con 200 corrispondenze - ha detto lo studioso, parlando con il Times - si può essere relativamente sicuri". Il software, però, è importante anche perché svela chi fu l’autore che collaborò alla scrittura dell’Edoardo III. "Tutti erano in grado di riconoscere nelle scene di quest’opera alcuni elementi propri di Shakespeare - ha sottolineato Vickers - ma nessuno sapeva perché alcuni versi non sembravano essere stati scritti da lui". Secondo "Pl@giarism" la risposta arriva dalla produzione letteraria di Thomas Kyd: sono 200 le corrispondenze tra l’Edoardo III e i testi firmati da questo drammaturgo vissuto nella seconda metà del Cinquecento. Per il programma anti-copioni, il 40% dell’opera (corrispondente a 4 scene), fu scritto da Shakespeare; il rimanente 60%, invece, porta inequivocabilmente la firma di Kyd.
Non tutti, però, sono d’accordo con le conclusioni della ricerca: c’è, infatti, chi mette in dubbio l’efficacia di questo software. E’ il caso di Stanley Wells, presidente della fondazione "Shakespeare Birthplace Trust": "Sinceramente sono scettico e non credo che si sia raggiunto un livello tale, per il quale queste indagini, che si servono di un programma informatico, possano dimostrare la paternità di un’opera".
* la Repubblica, 13 ottobre 2009
Hey William, giù la maschera e dicci chi eri veramente
Il mistero sull’identità del Bardo, un autore che non sapeva scrivere neppure la sua firma
Uno, cento, mille William Shakespeare: è esistito veramente il Bardo?
E se no, chi era in grado di scrivere gli immortali drammi che portano il suo nome, come fosse un marchio di fabbrica?
di Ugo Leonzio (l’Unità, 30.06.2009)
Shakespeare era analfabeta. Sì, proprio lui, il «dolce cigno dell’Avon», non era in grado di mettere una firma decente neppure in fondo al suo testamento. Se quest’estate pensate di andare al «Globe» di villa Borghese a Roma, e commuovervi mentre i monologhi di Macbeth, di Prospero o di Lear si aggirano tra i vostri occhi umidi e il palcoscenico, cercate su google il saggio di Robert Detobel Shakespeare’s signatures analyzed. Delle sei firme autografe, considerate l’unica prova autentica della sua scrittura, nessuna è veramente una «firma» ma l’anonima esecuzione di uno scrivano. Quando consegnava i copioni di drammi, commedie e tragedie costruite con la prosa più intatta e immortale che sia mai stata scritta in lingua inglese, gli attori notavano l’immancabile assenza di correzioni come se qualcuno li avesse diligentemente ricopiati.
Nessuno dei suoi ritratti è autentico e certamente non è Will l’autore dei Sonetti. L’autore, alle soglie della vecchiaia, descrive la sua implacabile decadenza fisica. All’epoca Will aveva più o meno ventisei, anni. Chi era l’analfabeta Will? E chi era «Shake-speare», la misteriosa entità che scrivendo Amleto, poteva permettersi di usare 600 parole nuove di zecca, mai apparse nelle opere precedenti? Che conosceva Venezia meglio dei veneziani? Che maneggiava il greco e il latino come i Wit di Oxford e la filosofia meglio Giordano Bruno? E le abitudini dei calzolai, degli armigeri, le danze, gli usi, i pettegolezzi, le congiure, le perversioni, le parentele, i gradi di nobiltà della Corte come se ci vivesse e ci fosse vissuto da sempre? Che Will avesse una vocazione a raddoppiarsi e a sparire era evidente fin dai suoi esordi, quando ancora non si chiamava Shakespeare e non pensava di fuggire a Londra per fare l’attore.
WILL UNO E BINO
Al suo doppio testamento (nel quale lasciava dieci tremolanti sterline ai poveri del paese) corrisponde anche un doppio matrimonio. Non nel senso che Will si sia sposato due volte ma che mentre William Shagspere di Stratford otteneva, il 28 novembre 1582, una licenza matrimoniale per sposarsi con Anne Hathwey (incinta di tre mesi) un’altra licenza veniva rilasciata in data 27 novembre 1582 per il matrimonio di William Shaxpere e Anne Whatley di Temple Grafton, un villaggio a cinque miglia da Stratford. È inutile cercare una persona, un vero Will. Inutile e infruttuoso per un motivo semplice, nessun poeta o drammaturgo nato in quell’epoca aveva un genio sufficiente per creare le opere di «Shake-speare». Nessuno, tranne Christopher Marlowe, che era morto nel 1593, a ventinove anni, assassinato in un complotto organizzato da Sir Francis Welsingham, il potente Segretario di Stato, capo delle spie della regina Elisabetta. Intorno alla morte di Marlowe e alla certezza che fosse morto davvero (il corpo su cui venne eseguita l’autopsia non era certamente il suo), esiste un libro ormai leggendario The reckoning di Charles Nicholl (Random House).
Questo omicidio potrebbe contenere, in modo del tutto imprevedibile, il segreto dell’entità enigmatica, ironica e crudele che amava firmare le sue opere «Shake-speare», come se fosse un soprannome, una marca. O una factory che disponesse di un immenso potere.
UN’ENTITÀ
Will venne ingaggiato da «Shake-speare», in una strada di Londra, verso la fine del 1591. Venne rimosso dal suo incarico il 23 marzo 1603 alla morte della regina Elisabetta. Era famoso, ricco, molto ricco. Greene, Fletcher, Kid, Beaumont, Lodge, Peele e tutti i magistrali protagonisti della bella brigata elisabettiana erano morti senza niente. Per tutti quegli anni, Will recitò un ruolo che solo un genio assoluto avrebbe potuto inventare, qualcuno che non aveva mai conosciuto, con cui non aveva mai scambiato una parola, una lettera, da cui non aveva mai ricevuto messaggi e che restò per lui misterioso almeno quanto lo è per noi. È strano che questo problema sfiori di rado le opere degli studiosi, anche quelle acute, profonde, intelligenti come quella di Luca Fontana Shakespeare come vi piace (il Saggiatore) o molto glamour come Shakespeare in Venice di Shaul Bassi e Alberto Toso Fei (edizioni Elzeviro) da leggere assolutamente prima di inseguire il nostro amato fantasma tra Rialto e il Ponte de le Tette.
Poi, provate a domandarvi chi è l’entità «Shake-speare» che esprime nel suo stile meravigliosamente unico una mente inquieta, ferita, violata, abituata a scendere negli abissi, capace di uccidere, di nascondere il proprio sesso, di vivere nel bordello di miss Overdone, di odiare il padre, di perdere un regno e riconquistarlo e perderlo di nuovo come in un sogno? (il primo nome che vi viene in mente sarà quello giusto).
La leggenda.
Una storia affascinante di religioni e migrazioni nel personaggio biblico
alla base della fondazione del regno
Bruna e sensuale, la regina di Saba stregò anche Stalin
di Armando Torno (Corriere della Sera, 11.03.2009)
Una e trina. Si definisce «nigra» nel Cantico dei Cantici. Ma per gli studiosi le donne evocate dal testo sono tre: la sposa, la femmina libera e la prostituta
Che relazione c’è tra la Regina di Saba e l’Etiopia? E quale rapporto ci fu tra questa donna che ha suscitato meraviglia nei secoli - anche Händel ne fu magato - e quella che corre in cerca d’amore nel Cantico dei Cantici? Ogni risposta deve cominciare da un semplice passo del piccolo libro sapienziale.
Diremo innanzitutto che Gerolamo, nella sua versione latina della Bibbia, la celebre Vulgata, rende il versetto 1,5 del Cantico con queste parole: «Nigra sum sed formosa/ filiae Ierusalem/ sicut tabernacula Cedar/ sicut pelles Salma». L’attuale traduzione italiana utilizzata dalla Chiesa Cattolica (Cei, 2008) è la seguente: «Bruna sono ma bella/ o figlie di Gerusalemme/ come le tende di Kedar / come le cortine di Salomone».
Il latino nigra, l’attuale bruna, equivale all’ebraico šehôrâ, ovvero nera (femminile di šahor). Apparentemente è un termine facile, in realtà cela significati a cominciare dalle sequenza consonantica šhr: in essa si possono trovare le ragioni del «desiderare ardentemente», del «ricercare», o di «essere nero». L’esegesi spiega il passo ricordando che la carnagione scura - l’aveva anche la sposa egiziana del Salomone storico - è tuttavia tipica di una ragazza abbronzata a causa dei lavori agricoli. Del resto, non pochi antichi poeti arabi amano opporre il colore chiaro delle giovani nobili (nel Cantico sono le Figlie di Gerusalemme) a quello di schiave e serve che svolgono lavori al sole. Ma c’è qualcosa da aggiungere: la radice šhr diventa in taluni passi del piccolo libro biblico - per esempio in 3,1 e 5,6: «L’ho cercato, ma non l’ho trovato» - un sinonimo intensivo di un’altra sequenza consonantica, bqš, che nel Cantico appare e scompare indicando l’inquietudine d’amore della donna. Gerolamo, sempre meraviglioso nelle sue soluzioni, sceglie «formosa», placando la sete di sensualità imprigionata nel soffio impronunciabile.
Fermiamoci qui, ché si potrebbe continuare all’infinito, per sottolineare che le donne del breve poemetto non sono una ma tre (è la tesi di Giovanni Garbini: Cantico dei Cantici, Paideia 1992). Si vedono e si nascondono nella corsa d’amore la sposa, la donna libera e la prostituta. Per questo nel rincorrersi dei giochi tra sillabe e sentimenti è lecito evocare la Regina di Saba che giunge a Gerusalemme per mettere alla prova la saggezza di Salomone e rimane incantata dalla sua sapienza. È una visita attuata senza badare a spese.
Si legge nel Primo libro dei Re: «Ella diede al monarca centoventi talenti d’oro, aromi in gran quantità e pietre preziose» (10,10). La regina senza nome - la leggenda musulmana la chiama Balkis e quella etiope Makeda; Saba non è una località ma una popolazione: la parola è la trascrizione greca di Sheba - intraprende il suo viaggio per stipulare un accordo commerciale, giacché il re controllava le vie di comunicazione e quindi poteva danneggiare gli affari dei Sabei che, tra l’altro, riscuotevano gabelle dalle carovane di passaggio.
Il regno di Saba si estendeva nell’Arabia meridionale, in coincidenza con l’attuale Yemen. Ha una storia fascinosa, della quale fanno parte anche migrazioni in Etiopia (le vicende, con ricca iconografia, sono ricostruite da Giovanni Garbini e Bruno Chiesa nel volume I primi Arabi, Jaca Book 2007). Del resto, il Paese che sorge sull’altra riva del mar Rosso, proprio l’Etiopia, rivendica il figlio nato dal leggendario amore che si accese tra la regina e Salomone. Lo chiamarono Menelik ed è l’antenato degli imperatori etiopi. Il monarca di questa terra vanta tra i suoi titoli «Leone vittorioso della tribù di Giuda». Non a caso il suo emblema è una stella a sei punte che evoca quella di Davide. La Regina di Saba diventò un’icona per le onorificenze dell’Etiopia: nella tesoreria del Museo Statale di Storia, che si affaccia sulla piazza Rossa a Mosca, è conservata una grande medaglia che il Negus mise sul petto a Stalin (l’onore toccò anche ad Eisenhower).
Morale del racconto. La donna - le rappresenta tutte - del Cantico è scura, come la Regina di Saba, come le etiopi. È sensuale, come prova la radice ebraica accennata. Senz’altro volle conoscere la carne, oltre alla sapienza di Salomone, e se ciò accadde nessuno ci impedisce di credere che il continuo amplesso evocato dal poemetto sia metafora del viaggio d’amore della Regina. Difficile dire se Stalin pensasse a lei, dopo aver ricevuto la medaglia, ma in nessuna foto la mostra. Aveva letto troppo attentamente Machiavelli per concedersi questo lusso biblico.
Ma la sacralità nell’Etiopia settentrionale si respira in ogni villaggio. Nonostante sia praticamente circondato da Paesi musulmani l’antica Abissinia ha mantenuto una cristianità profonda, fatta di riti antichissimi. L’influenza islamica però si sente, ad esempio, nel dover togliersi le scarpe quando si entra in una chiesa, esattamente come si fa per le moschee.
Molti dei monasteri ortodossi sono vietati alle donne, come quello di Debre Damo il più antico dell’Etiopia. Situato sul cucuzzolo di una montagna, si raggiunge infilandosi in una cesta che viene tirata su dai sacerdoti con una fune. Si sale gratis, ma se poi non si dà una consistente mancia i santi signori non ti fanno più scendere. Il monastero contiene un’incredibile collezione di più di mille testi sacri scritti e decorati a mano e frammenti di antichi manoscritti.
Decine e decine di chiese e monasteri, alcuni dei quali edificati nel 13˚ secolo ma quasi tutti vietati alle donne, si nascondono nelle 37 isole e sulle rive del lago Tana. Forse il luogo di culto più spettacolare è quello di Ura Kidane Mehret.
Ad Addis Abeba, la capitale dell’Etiopia, si può ammirare un piccolo gioiello, la cattedrale di San Giorgio, curiosa per la sua forma ottagonale. È molto più giovane di tutti i tesori del Paese, costruita dopo la battaglia di Adua del 1896 dai prigionieri di guerra italiani. Spettacolari le vetrate con immagini sacre. Qui furono incoronati gli imperatori Zewditu nel 1917 e Hailè Selassie nel 1930. Anche loro con un rito sacro.
Sulla Regina di Saba, e sull’Etiopia, nel sito, si cfr.:
misticismo
Rileggere il canto nuziale della Bibbia
Un amore che è fatto di anima e carne
Il commento del filosofo e teologo greco Origene a un libro dell’Antico Testamento, il «Cantico dei Cantici» (Bompiani), un carme nuziale metafora della teologia cristiana
di GIORGIO MONTEFOSCHI *
Le parole del Cantico dei Cantici, che la tradizione attribuisce al re Salomone, hanno un doppio valore - come succede quasi ovunque nella Bibbia - ricorda Vito Limone nella importante prefazione alla recente edizione pubblicata dall’editore Bompiani del commento che del Cantico fece il grande teologo e filosofo greco Origene, superando, a detta di San Gerolamo, se stesso: un significato letterale che accompagna la narrazione, e un significato simbolico che trasferisce quello che leggiamo altrove.
Il vocabolo greco paidon, per esempio, significa bambino, ma nel medesimo tempo indica una situazione infantile, ancora acerba, non pronta, dell’uomo. Il Cantico dei Cantici, del resto, scrive Origene nel Prologo della sua opera, non è una lettura infantile: per menti o anime, cioè, che non abbiano raggiunto l’età interiore che consenta di accostarsi a questa «azione drammatica», quale lui la definisce, cogliendone il senso vero.
Di che cosa parla il Cantico, il grande carme nuziale intriso di tutta la bellezza, di tutti i palpiti e di tutte le seduzioni dei sensi, al quale l’uomo interiore potrà accostarsi soltanto nella sua maturità piena? Parla di una sposa e di uno sposo, del desiderio di unirsi che li consuma, e di un amore «che non avrà mai fine». La sposa è l’anima, o anche la Chiesa, vale a dire l’unione delle anime che credono in Dio e aspirano a conoscerlo. Lo sposo è Dio. Ma come è possibile che avvenga questa conoscenza, se l’anima, per quanto matura, è sempre tentata dalle distrazioni del mondo, sempre fragile, sempre sul punto di smarrirsi, anche quando immagina di essere più vicina all’oggetto del suo desiderio?
«Mi baci con i baci della sua bocca», ha esclamato all’inizio: che non mi parli più per mezzo dei suoi servi, dei patriarchi o dei profeti, venga lui stesso a baciarmi sulla bocca. «Perché le tue mammelle» aggiunge subito dopo, osando dare del tu allo sposo, «sono più deliziose del vino e l’odore dei tuoi profumi è superiore a tutti gli aromi». La sposa - spiega Origene - ha gustato fin qui il buon vino rappresentato dalla Legge e dai Profeti; ora aspira a una dottrina diversa da quella alla quale è stata preparata, a un sapere che intravvede e le è ancora sconosciuto e lei immagina sia racchiuso nel cuore e nel petto. Ecco perché dice che le mammelle sono più deliziose del vino. Con la parola «mammelle» - prosegue Origene - intendiamo «la facoltà principale del cuore». Non fu sul petto, e sul cuore, che Gesù fece reclinare la testa di Giovanni, il discepolo che amava più di ogni altro?
Lo sposo, sappiamo, è pastore. «Dimmi, tu, che l’anima mia ha amato», lo implora la sposa, «dove fai pascolare il tuo gregge, dove riposi a mezzogiorno, affinché non accada che io mi ritrovi, come vestita a festa, presso i greggi dei tuoi compagni». Il mezzogiorno è il momento della luce perfetta, senza ombre: la luce nella quale Abramo, alle querce di Mamre, ha visto apparire sulla soglia della sua tenda un essere sconosciuto, dal quale ha appreso, con stupore enorme, che sua moglie Sara, vecchia e sterile, sta per avere un figlio.
La sposa desidera intensamente questa luce perfetta. Lo sposo, però, la ammonisce: «Se non avrai conosciuto te stessa, o buona - o anche bella - fra le donne, esci sulle tracce dei greggi e fai pascolare i tuoi capretti tra le tende dei pastori».
Che cosa vuol dire lo sposo alla sposa, con queste parole che sembrano frenare il suo impeto? Vuole dirle: se non avrai riconosciuto che già mi appartieni, che la causa della tua bellezza viene dal fatto che sei stata creata a immagine e somiglianza di Dio, perderai tempo a cercarmi nel mondo, facendo pascolare i tuoi capretti fra le tende di altri pastori, illusa dai sensi, travolta dal peccato, «sballottata qua e là da ogni soffiar di dottrina verso l’inganno». E se riconoscerai questo, se davvero riconoscerai di essere fatta a mia immagine e somiglianza, allora - fa dire Origene allo sposo in un vertiginoso distacco dalle parole e dai tempi - allora conoscerai mio Figlio: «Nessuno, infatti, conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo». E quella è la verità più profonda; l’unica: il Dio fatto uomo. Sta scritta nei Vangeli, in Isaia, nei Salmi.
Dopo questo ammonimento, la sposa è arrossita per la durezza del rimprovero subìto e il rossore della vergogna. Tuttavia, questo rossore ha abbellito le sue guance, che ora sono molto più belle di quanto fossero prima. «Come sono diventate belle le tue guance, come quelle della tortora», le dice lo sposo, «e la tua nuca è come una collana». Le tortore - spiegherà Origene più avanti - sono degli uccelli molto particolari: possono accoppiarsi solo sapendo che non si accoppieranno più a nessun altro nel corso della loro vita, e rimarranno accoppiate per sempre. Anche dopo la morte. La nuca è il simbolo dell’obbedienza. E il simbolo dell’obbedienza è Gesù.
Adesso, nella azione drammatica si inseriscono altre voci, che non sono né quella dello sposo, né quella della sposa. Dicono: «Oggetti simili all’oro faremo per te, con ricami d’argento». Sono i compagni dello sposo: gli angeli. Gli angeli sono sempre stati vicini allo sposo. Ma non soltanto nella sua breve vita terrena: per esempio quando nel deserto lui fu tentato dal diavolo e loro si avvicinarono per servirlo. Dal principio, lo hanno servito; anche prima che venisse nel corpo. E, insieme a lui, hanno servito la sposa ancora fanciulla, «in attesa che - come scrive Paolo di Tarso nella Lettera ai Galati - giungesse la pienezza del tempo e Dio inviasse il Figlio suo, nato da una donna, nato sotto la legge». Quale sconvolgente notizia. Se la sposa siamo noi - dice Origene, seguendo San Paolo, nuovamente - questo significa che noi tutti esistevamo già prima della creazione del mondo, «perché fossimo santi e irreprensibili davanti a lui, predestinandoci nell’amore a essere suoi figli adottivi». Ci amava prima, insomma. E, poiché ci amava, volle venire nella carne e nel sangue. Essere in tutto simile a noi. E consegnarsi.
Quanto agli oggetti che gli angeli offrono alla sposa (l’Antico, il Nuovo Testamento), questi sono «simili all’oro», perché con «oro vero» si intendono le cose invisibili. La sposa sollecitata dagli oggetti simili all’oro, vorrà conoscere l’oro vero. Ciò avverrà finalmente quando sarà risorta. Come il Figlio. E, insieme a lui, nello stesso giaciglio, godrà di un riposo immenso.
La Stampa, 8/3/2009
LA STORIA
Svelato il volto di William Shakespeare
Un quadro scioglie il mistero. Alcuni studiosi ne sono convinti: il ritratto è stato dipinto quando era ancora in vita. Gli scettici: fare attenzione ai falsi
LONDRA. Occhi scuri, baffi e barba, labbra sottili: svelato il vero volto di William Shakespeare. La scoperta, è stata possibile grazie all’analisi di un quadro dipinto mentre lo scrittore era ancora in vita. Per l’annuncio ufficiale bisogna attendere fino a domani, ma il Times ha già anticipato oggi l’importante novità. Finalmente, quindi, si sa quale sia il vero volto di William Shakespeare, avendo i massimi esperti del settore stabilito con certezza che uno dei numerosi ritratti della gloria della letteratura britannica è stato dipinto prima della morte.
Il quadro in questione è stato realizzato sei anni prima che l’aedo morisse, ovvero quando aveva 46 anni. È stato dipinto nel 1610 ed è appartenuto per tre secoli alla stessa famiglia. Inizialmente lo aveva il conte di Southampton, che fu il mecenate di Shakespeare. Nessuno immaginava che l’uomo del dipinto potessere essere lo scrittore, tutti pensavano che si trattasse di Sir Walter Raleigh.
A dipingere l’opera fu un fiammingo, Cornelis Janssen, che lavorò a lungo in Inghilterra. Questo sarebbe l’unico ritratto di Shakespeare in vita, specifica il Times. Ce ne sono, infatti, altri due, entrambi dipinti dopo la sua morte da pittori che lo avevano conosciuto personalmente. L’esperto d’arte Alec Cobbe ha eseguito numerosi test scientifici per accertare l’originalità dell’opera. Anche Stanley Wells, uno dei massimi studiosi di Shakespeare, concorda con questa teoria. Altri ricercatori, invece, mantengono posizioni più caute. I curatori Erin Blake e Tarnya Cooper sono scettici soprattuttto per il moltiplicarsi di falsi difficili da scovare.
Al Valle di Roma un ritorno alle atmosfere del teatro elisabettiano
Shakespeare, ovvero il giro del mondo in quaranta minuti
di Giuseppe Fiorentino (L’Osservatore romano, 1 marzo 2009)
È proprio vero: Shakespeare si apprezza interamente al teatro, assistendo alla messa in scena delle sue opere. Tanto più se a calcare le travi del palcoscenico è una compagnia - come quella inglese dei Propeller - che cerca di ricreare l’atmosfera del teatro elisabettiano. Se leggere un testo di Shakespeare costituisce già un’esperienza unica, è al teatro - e solo al teatro - che i versi del genio di Stratford-upon-Avon acquisiscono vera profondità, conferendo alla scena quasi una dimensione in più, oltre quelle spazio-temporali.
I testi di Shakespeare riescono a creare nel breve volgere di qualche minuto una realtà radicalmente nuova, proiettando personaggi e spettatori in luoghi e tempi improbabili. Improbabili però solo in apparenza, perché nel teatro shakespeariano davvero tutto è possibile. A condizione però che la parola teatrale sia liberata da ogni orpello e sia lasciata libera di dispiegare tutta la sua forza evocatrice. Nessun appesantimento scenografico e nessuna ricercatezza nei costumi è quindi necessaria. Anzi questi accorgimenti nuocciono gravemente alla messa in scena, dove solo la parola e la bravura degli attori devono creare i tempi e gli spazi, anche scenografici, della pièce.
Questo soprattutto perché Shakespeare ha sviluppato la propria arte calibrandola su spazi teatrali essenzialmente spogli. In fondo il Globe era solo una disadorna struttura in legno dove venivano proposti spettacoli diretti a un pubblico di gente semplice e che partecipava rumorosamente - spesso consumando cibo - alle vicende dei protagonisti. Il teatro shakespeariano è quindi un genere prettamente popolare, molto popolare, lontano mille miglia da certi snobismi che in Italia ne hanno caratterizzato le rappresentazioni. E’ questa una caratteristica che si apprezza a pieno assistendo agli spettacoli nella lingua originale, come ora al Valle di Roma dove i Propeller hanno messo in scena il Sogno di una notte di mezza estate e Il mercante di Venezia.
Lontano dal peso delle traduzioni, il verso acquisisce tutta la sua forza dinamica - anche sonora - rivelando allo stesso tempo la ricchezza linguistica dell’autore, maestro impareggiabile nella formulazioni di ambiguità semantiche che quasi sempre sfociano nel comico. Tutto dipende dalla bravura degli attori che, nel caso dei Propeller, sanno approfittare anche di alcuni vincoli imposti dal teatro elisabettiano. Come quello dei ruoli femminili interpretati da uomini. Nelle mani dei Propeller - un gruppo di veri artisti che oltre a recitare sanno cantare, suonare strumenti di vario genere e danzare - questo, che per alcuni è un limite, diventa un’arma in più, anche in chiave appunto comica, rivelando una carica a suo modo eversiva.
L’attore, nella sua sobrietà, è quindi al centro del più autentico teatro shakespeariano. A lui è chiesto di agire (da qui "attore") invece dell’autore, dando dimensione e profondità drammatiche al testo. Non si tratta quindi di un interprete, anche perché qui non c’è nulla - o non dovrebbe esserci nulla - da trasporre in un altro linguaggio scenico. A meno che non si scelga, come purtroppo è spesso accaduto nei teatri italiani, di trasformare alcuni grandi personaggi in casi al limite del patologico o in caricature fumettistiche.
Soprattutto, l’attore non deve essere troppo invadente e distogliere lo spettatore da quello che in realtà è il vero scopo di Shakespeare. Per il quale il palco - meglio se vuoto - è prima di tutto un laboratorio. Una sorta di ambiente protetto, come verrebbe da dire oggi, dove analizzare le dinamiche fondamentali che sottendono ai rapporti umani. In questo territorio universale - che proprio per questo deve essere libero da ogni concreto riferimento di spazio e di tempo - è possibile osservare da una posizione privilegiata come in ogni luogo ed epoca si muovono gli uomini e le donne sotto la spinta delle grandi passioni e dei tormenti che si addensano nella vita di ciascuno. "Il mondo - dichiara Antonio nel primo atto de Il mercante di Venezia - io lo tengo in conto solo per quello che è: un palcoscenico sul quale ognuno recita la parte che gli è assegnata".
Il teatro quindi come luogo di analisi, l’attore come agente catalizzatore e il regista come deus ex machina, come primo artefice dell’opera di indagine. Primo artefice e, in fondo, primo protagonista. I testi di Shakespeare sono infatti ricchi di personaggi che agiscono come registi, decidendo di nascosto i destini dei loro compagni di scena. Basti pensare al Prospero de La tempesta o all’Oberon del Sogno di una notte di mezza estate. È lui con la sua magia - la stessa magia del regista - ad articolare la trama della commedia, grazie alla collaborazione di Puck, il folletto che opera dietro comando di Oberon e che in realtà è una maschera di attore.
E come ogni attore shakespeariano, è capace di rompere ogni unità di spazio e di tempo per compiere, se necessario e se richiesto dal suo padrone-regista, il giro del mondo in soli quaranta minuti. E in fondo anche la trama ordita da Porzia al termine de Il mercante di Venezia sembra l’azione di un regista che cambia a proprio piacimento i destini dei personaggi. Un teatro nel teatro, quindi, in un gioco di incastri che amplifica e riverbera la magia creativa della parola shakespeariana. Per renderla ancora più adatta al suo scopo primario: scrutare nelle profondità del cuore umano.
DIO E’ AMORE (CHARITAS), NON MAMMONA (CARITAS)!!! "CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1 Gv., 4. 1-16) - NON "DEUS CARITAS EST" (Benedetto XVI, 2006).
E venne Cristo a svelare i trucchi e le tentazioni sulla scena del potere
dI MAURIZIO SCHOEPFLIN (Avvenire, 28.02.2009) *
Costantemente sospeso tra i lampi della tentazione diabolica e la serenità del servizio reso ai fratelli, il potere intimorisce e affascina, attrae e respinge nel medesimo tempo.
Ben lo comprese William Shakespeare, che spesso nei suoi immortali capolavori ha scandagliato gli abissi dell’animo di chi il potere lo detiene e di chi lo subisce.
Proprio per questo, appare originale e intelligente l’idea di Rocco D’Ambrosio di farsi guidare dal celebre bardo di Stratford- upon- Avon all’interno dell’intricato labirinto costituito dalle numerose questioni connesse con la complessa realtà del potere, non a caso definito « una scena del vasto teatro che è il mondo... che vede recitare tanti personaggi e susseguirsi diverse tragedie o commedie, in tempi e scenografie diverse » . Ma D’Ambrosio, prete della diocesi di Bari e docente di Filosofia politica presso la Pontificia Università Gregoriana, non si è fermato a Shakespeare: ha continuamente rivolto lo sguardo al Vangelo, al fine di farsi ispirare e guidare nella sua ampia ricognizione.
« La parabola di vita di Gesù - egli scrive - può essere anche letta come una significativa parabola di rapporto con il potere; sia il potere che Dio Padre gli aveva conferito, sia il potere che i suoi contemporanei gli attribuivano o negavano. Dalla stalla di Betlemme alla croce sul Calvario e alla tomba vuota della risurrezione, Gesù ha esercitato il suo potere regale, che tutti hanno colto, in alcuni casi hanno apprezzato, in altri combattuto » .
A D’Ambrosio sta a cuore sottolineare lo stile di vita del tutto nuovo inaugurato dal Figlio di Dio, che « ha superato le tentazioni del potere e smascherato la sua idolatria... ha criticato aspramente ogni abuso di potere, coraggiosamente svelato ogni ipocrisia... ha servito gli altri fino al dono di sé, ha fuggito chi lo voleva incoronare » .
Nei tre capitoli di cui è composto il libro - «Il potere in sé », «Chi detiene il potere », «Chi circonda il potere » - l’autore offre un quadro preciso del problema, un quadro che volutamente non esclude il lettore, ma lo chiama direttamente in causa: « Il potere s’impasta d’umano - afferma D’Ambrosio -; dell’umanità esso è proprio e per questo motivo impone scelte etiche a ognuno di noi. Volenti o nolenti, sulla scena ci siamo tutti » .
Davanti ai nostri occhi si staglia l’esempio luminoso del Cristo, che «ha sferzato i mercanti nel tempio, ha moltiplicato i pani, ha cavalcato un asino, non ha disposto nemmeno di un luogo dove posare il capo, ha lavato i piedi ai suoi, ha regnato dalla croce, è risorto nel silenzio della notte ».
*
Rocco D’Ambrosio
IL POTERE E CHI LO DETIENE
Edb, Pagine 212. Euro 20,00
VITA E FILOSOFIA. AL DI LA’ DEL BIOLOGISMO, IN CAMMINO ....
GLI ’AMORI’ E LA STORIA INFINITA DELL’AMORE.
Jacques Attali ha curato un volume dedicato all’evoluzione dei rapporti di coppia a far data da quattro miliardi di anni fa. Un’anticipazione
Se il futuro dell’uomo si chiama poliamore - di Jacques Attali (la Repubblica, 25.11.2008)
Per i primi esseri umani la donna è ristoro, l’uomo potenza, lei è terra mentre lui è cielo. Il matrimonio, la consacrazione di un rapporto di coppia, nasce solo presso gli Ebrei. Dalla poligamia alle società monogamiche.
a cura di Federico La Sala *
Da oltre quattro miliardi di anni, la storia della vita segue una sola strada, quella della propria conservazione. E fa ricorso a una sola strategia, quella della diversificazione. Per riuscirvi inventa mille stratagemmi a cominciare dal più singolare di tutti, il più fantasmagorico, fonte di variazioni che si rinnovano senza sosta: la sessualità, strana divisione di ogni specie in due generi, la cui unione è necessaria perché la specie si perpetui.
La specie umana è la prima a inscrivere i rapporti tra i sessi in una concezione globale del mondo. A tal punto che fece dell’amore e delle sue interdizioni uno dei pilastri fondanti delle prime civiltà, le quali stabilirono che le leggi di quei rapporti fossero eterne poiché fissano le condizioni della sopravvivenza e dell’identità culturale.
Per i primi esseri umani, la donna è accoglimento, luogo di ristoro; l’uomo è potenza e movimento. La donna è «Terra», l’uomo è «Cielo», dicono i popoli delle origini. La donna ha il progetto esistenziale di trasmettere la vita, mentre l’uomo ha un progetto di conquista motivato dalla paura della fine. Gli uomini temono le donne poiché, mettendoli al mondo, li destinano alla morte e perciò, finché il ruolo dei padri nella procreazione non è stato scoperto, le madri hanno avuto un potere assoluto sui figli. In particolari circostanze geografiche e storiche, le prime mitologie organizzano la protezione demografica del gruppo. Definiscono tabù ed esigenze primarie. Non esiste nessuna pratica (dall’incesto alla zoofilia, passando per la pedofilia, il feticismo, la pornografia o l’erotismo) che, vietata da alcune società, non sia fortemente raccomandata da altre e soltanto i rapporti sessuali tra madre e figlio sono condannati universalmente.
A un certo punto - spinte da circostanze del tutto particolari - alcune società si orientano verso la poliandria (più uomini per una sola donna), mentre, una volta che l’uomo prende coscienza della paternità, quasi tutte le altre tendono alla poliginia (più donne per un solo uomo). Visto che servono più donne che uomini, queste società poliginiche sono necessariamente bellicose e conquistatrici. L’accumulazione del denaro per produrre ed economizzare il lavoro non è ancora d’attualità: la poligamia non è facilmente compatibile con il capitalismo? Dobbiamo aspettare gli Ebrei, quattromila anni fa, perché le relazioni tra i due sessi siano consacrate in una cerimonia, il matrimonio, che si svolge in un luogo di culto sotto il controllo dei genitori e dei religiosi senza però che sia messa in discussione la poliginia.
Poi arriva il cristianesimo. Prima di allora, nessuno aveva preteso di imporre a tutta l’umanità la monogamia, la fedeltà totale e relazioni irreversibili. Nessuno aveva preteso di gestire con tanta precisione la vita sessuale di ogni fedele. E mentre tutte le religioni avevano considerato inaccettabile il celibato, per Paolo e i suoi discepoli il vero scandalo è il sesso. Per i padri della Chiesa, la monogamia non è che uno stratagemma perché l’umanità sopravviva: la vita è un dono di Dio che è compito degli uomini trasmettere. Da allora assume una forma assoluta: una sola donna, un solo uomo, tutta la vita, nel rifiuto della sensualità e sotto la sorveglianza puntigliosa di Roma. Attraverso il controllo della sessualità e del matrimonio, la Chiesa, sposa e madre, tenta così di prendere il potere sull’Occidente, poco prima che nel VII secolo l’islam venga a restituire legittimità alla poliginia su un quinto del pianeta.
Anche se in Europa la Chiesa cattolica è dominante da un punto di vista politico, non riesce a imporre quasi niente della sua concezione dell’amore fino al XII secolo. La poliginia resta consuetudine dei potenti, il concubinato quella dei contadini, e i preti, che prima di allora non sono stati quasi mai casti, si occupano raramente dei matrimoni.
In compenso, un vento venuto d’Oriente, dove la poliginia è una tradizione dei regimi imperiali, sconvolge l’Occidente glorificando erotismo e amor cortese. Ne scaturisce la modernità occidentale che trova il suo nutrimento in una ricerca amorosa che alcuni reprimono e trasformano in bramosia di conoscenza, ambizione artistica o superamento di sé.
Con Christopher Marlowe e William Shakespeare fa la sua apparizione il colpo di fulmine, unione paritetica dei corpi e degli spiriti, e l’amore trova mille forme di espressione nella letteratura e nell’arte. Uomini e donne cominciano a parlarsi da pari a pari e il loro dialogo non cesserà più: nasce l’attrazione per l’Altro, l’interesse per l’Altro, il bisogno dell’Altro e l’attaccamento all’Altro. Le donne vi ricoprono il ruolo principale, sono le prime che osano davvero parlare d’amore.
La Riforma protestante e l’avvento della società borghese del XVII secolo limiteranno l’amore alle esigenze della riproduzione sociale e faranno dell’eredità la prima ragion d’essere della famiglia e del matrimonio: non si deve risparmiare in onore di Dio, né per avere più donne, ma per accrescere la ricchezza della famiglia. Nel XIX secolo l’unione borghese riesce là dove il matrimonio cristiano ha fallito e lo Stato riorganizza il matrimonio monogamico a proprio profitto, ma senza punire l’uomo che pratica la poliginia.
Nel XX secolo, mentre in gran parte del mondo le donne si battono ancora contro la poliginia, contro il matrimonio forzato e quello dei bambini (ancora oggi una ragazzina su tre è data in sposa prima di aver compiuto 18 anni), l’amore diventa la prima rivendicazione veramente planetaria. Si impone il diritto di ciascuno a essere amato e la coppia diventa un rapporto tra due persone che si parlano, si osservano, si giudicano e si amano. Non c’è nulla che permetta di garantire la perennità della relazione, poiché se è vero che gli esseri umani hanno bisogno di amare ed essere amati, molti hanno anche bisogno di cambiare oggetti e soggetti d’amore. L’utopia cristiana e la norma borghese vengono perciò cancellate: l’assenso degli sposi, se è veramente libero, non può essere né eterno, né esclusivo.
Come in un ritorno alle origini, si annuncia una nuova era che porta con sé nuove forme di relazioni tra esseri umani fondate sulla soddisfazione istantanea dei desideri e liberate progressivamente dall’assillo della riproduzione: si profila il matrimonio contrattualmente provvisorio, in cui la durata del rapporto sarà fissata in anticipo dalla coppia; il poliamore, in cui ciascuno potrà avere in tutta trasparenza più amori allo stesso tempo; la polifamiglia, in cui si farà parte contemporaneamente di più famiglie; la polifedeltà, in cui ciascuno sarà fedele a diversi membri di un gruppo dalle sessualità molteplici. Quanto ai bambini, vivranno in una casa dove i vari genitori verranno a turno a occuparsi di loro.
In un futuro più lontano sessualità, desiderio e amore saranno ancora più facili da dissociare, macchine speciali si occuperanno della riproduzione e, prima di diventare anch’essa meccanica, la sessualità sarà una pratica devoluta esclusivamente al piacere. L’utero artificiale e la clonazione schiuderanno prospettive vertiginose in cui ciascuno potrà decidere autonomamente di riprodursi e un giorno si arriverà forse all’ermafroditismo universale.
È un po’ come se l’umanità scegliesse di ripercorrere a ritroso la storia della vita, tornando prima al matrimonio di gruppo, poi alla partenogenesi. Per riscoprire un giorno, chissà, il bisogno dell’altro. E quindi dell’amore.
Si deve resistere a un tale avvenire o rimanere stupiti davanti a tanti mutamenti? Possiamo sperare che l’amore salvi gli esseri umani dalla propria follia? Il nostro libro è un viaggio in questa storia meravigliosa e minacciata. Un viaggio che ci porterà a scoprire le tribù poliandriche della Cina e i rituali omosessuali della Nuova Guinea; le donne degli harem d’Arabia e i numerosi mariti delle donne tibetane; le prostitute d’America e le geishe giapponesi; i maestri dell’erotismo indiano e i matrimoni di gruppo nel Congo; famiglie borghesi e trii bisessuali; macchine di piacere e chimere d’amore. Tutti protagonisti dell’ambizione umana più elevata e più rivoluzionaria: trascendersi per raggiungere un ideale, quello di piacere all’altro per piacere a se stessi. Ed essere amati.
Jacques Attali - Stéphanie Bonvicini,
AMORI. Storia del rapporto uomo-donna
Fazi, 2008
pagg. 240, euro 29,
Ansa» 2008-11-23 18:34
ROMEO E GIULIETTA TRA EBREI E MUSULMANI
di Francesca Pierleoni
ROMA - La storia di ’Romeo e Giulietta’ con protagonisti musulmani e ebrei, che vivono i propri sentimenti al di là del conflitto. E’ la chiave con cui almeno tre film quest’anno rielaborano la tragedia di Shakespeare: ’In Fair Palestine’, realizzato da alcuni liceali di Ramallah; David and Fatima di Alain Zaloum, sull’amore tra un soldato israeliano e una ragazza palestinese, e il canadese Adam’s wall di Michael MacKenzie, sul legame a Montreal tra un ragazzo di origine israeliana e una giovane libanese.
Dopo il debutto a gennaio in Palestina, sarà a dicembre al Sottodiciotto Festival di Torino, In Fair Palestine: a story of Romeo and Juliet, la docu-fiction realizzata ’no budget’ dagli studenti delle due ultime classi superiori della Quaker-run Friends’ School di Ramallah. Coordinato da un professore di inglese, Doug Hart, il film diretto da uno dei ragazzi, Yazan Al Nahhas, e interpretato dai suoi compagni, mescola la rilettura della vicenda di Romeo e Giulietta, a scene di vita di tutti i giorni dei ragazzi palestinesi.
"Abbiamo pensato di usare una piece che ha valori e principi universali e che tratta di matrimoni combinati, guerre tra famiglie, amore a prima vista, vita di adolescenti per esprimerci in una maniera diversa da quella in cui i media occidentali ci rappresentano" ha spiegato Tarek Knorn, cosceneggiatore e attore nel film. In questa versione modernizzata, che segue fedelmente il testo shakespeariano, i palestinesi Romeo (Abdul-Majeed Tahboub) e Giulietta (Deema Totah), appartenenti a famiglie rivali, si incontrano a una festa che celebra il pellegrinaggio alla Mecca. L’elemento del conflitto israeliano-palestinese, trattato solo marginalmente nel film dei ragazzi, è centrale invece in David and Fatima dell’egiziano-canadese Alain Zaloum, che comprende nel cast in ruoli di contorno, Martin Landau (nella parte di un rabbino anticonvenzionale) e Tony Curtis. La pellicola (che ha debuttato a Los Angeles a settembre), ambientata a Gerusalemme, ma girata quasi interamente negli Stati Uniti (più qualche scena in Israele) con interpreti statunitensi, ha vinto il Mondavi Award per la pace e la comprensione culturale. La storia è quella di David (Cameron Van Hoy) israeliano idealista impegnato nel servizio di leva, che nella città santa incontra e si innamora di una ragazza palestinese, Fatima (Danielle Pollack). Come prevedibile, la loro relazione incontra l’ostilità feroce delle rispettive famiglie. "Sono nato in Medioriente e ho una moglie israeliana, quindi penso di capire le ragioni e le tensioni tra le due parti - ha detto Zaloum -. Il fatto di essere di religione cristiana forse mi ha dato più obiettività nel raccontare questa storia".
L’amore contrastato tra un ebreo e una musulmana ritorna in Adam’s Wall di Michael MacKenzie. Il film, prodotto e da poco distribuito in Canada ha avuto la sua prima mondiale al Festival du Nouveau Cinema du Montreal. Protagonisti della vicenda sono Adam (Jesse Aaron Dwyre), adolescente i cui genitori sono stati uccisi in Israele, che vive a Montreal con il nonno ebreo ortodosso, e Yasmine (Flavia Bechara), ragazza musulmana emigrata dal Libano con parte della sua famiglia, attivista per i diritti dei palestinesi. I due si incontrano a una protesta studentesca e tra loro scatta un legame immediato.
Ad ostacolarlo, l’odio del nonno di Adam per gli arabi e nuove tensioni legate all’improvvisa scomparsa in Libano della mamma di Yasmine. "Intorno a questo conflitto c’é una grande rabbia e io non volevo mostrarlo in una versione edulcorata - ha spiegato il regista - allo stesso tempo la storia è riportata a un contesto quotidiano. Non esistono soluzioni immediate per uno scontro come questo ma va ricordato che anche un piccolo gesto può aiutare".
ANTROPOLOGIA
Ecco la famiglia
più antica del mondo
Scoperta in Sassonia la sepoltura di una coppia con due figli. Vissuti nell’età della pietra, morti in guerra, furono tumulati uniti
di ELENA DUSI *
Ha 4.600 anni la storia d’amore più lunga. Gli archeologi hanno trovato l’uomo e la donna ancora uniti. Hanno liberato dalla terra le loro ossa intrecciate e hanno notato che tra le braccia stringevano anche due bambini. In piena età della pietra, quella venuta alla luce a Eulau in Germania è la prima famiglia umana di cui si abbia una conoscenza certificata con il test del Dna: niente a che vedere con l’uomo dalla clava in mano dei fumetti, ma un’immagine di unione e pietas familiare. Anche se le circostanze della morte della coppia e dei loro figli parlano di un’epoca di violenza furiosa fra le varie tribù di umani.
Le ultime ore della famiglia di Eulau sono state trascorse in battaglia, probabilmente con il gruppo di un altro villaggio. Il figlio minore di 4 o 5 anni ha il cranio sfondato. I genitori e il primogenito di 8 o 9 anni hanno fratture sugli avambracci, come se avessero tentato di difendersi. Attorno ai loro scheletri sono state deposte le asce e i gioielli che gli appartenevano in vita. Alcune sepolture più in là, una donna ha una punta di freccia conficcata in una vertebra. In tutto tredici individui sono stati sotterrati nella collina di Eulau. Oltre alla coppia con due figli, c’è una donna con i suoi tre bambini, un uomo con due "cuccioli" di 4 e 5 anni e un’altra madre con quello che probabilmente era suo figlio e aveva 5 anni al momento della battaglia.
Dopo la strage, qualcuno che era scappato mentre asce e lance roteavano, è tornato per ricomporre i cadaveri. E li ha sepolti tenendo conto dei loro legami familiari, sistemando in un abbraccio millenario l’uomo e la sua donna con i due bambini accoccolati al petto, come se proteggerli servisse ancora a qualcosa. "La loro unione nella morte suggerisce un’unione anche nella vita" scrivono i ricercatori inglesi e tedeschi delle università di Bristol e di Mainz guidati da Wolfgang Haak. Anche se la tomba di Eulau è stata scavata a partire dal 2005, è solo oggi che la rivista Pnas (Proceedings of the national academy of sciences) pubblica i risultati degli esami svolti con il Dna, la datazione al radiocarbonio e l’analisi delle molecole contenute nelle ossa e nei denti.
Qualche elemento in più sui rapporti fra uomo e donna nell’età della pietra arriva proprio dallo studio dei denti. La loro composizione racconta infatti di quali alimenti si sia nutrito un individuo durante l’infanzia, quando incisivi e canini si sviluppano. Tutte le donne sepolte a Eulau, hanno scoperto Haak e i colleghi, hanno seguito una dieta diversa dagli uomini e dai figli che sono nati dalle loro unioni. "Segno che erano originarie di villaggi diversi e si sono trasferite nella dimora del marito nel momento in cui hanno generato i bambini".
I ricercatori non si illudono però che nel terzo millennio avanti Cristo le famiglie umane avessero assunto una forma simile a quella codificata con il matrimonio moderno. "Quella che abbiamo scoperto è la famiglia più antica il cui legame sia stato confermato dal test del Dna" scrivono. "Ma sappiamo anche che in quel contesto e quell’epoca le unioni poligame erano prevalenti e le coppie vivevano spesso vicende personali turbolente".
* la Repubblica, 18 novembre 2008
Tutti per pazzi Shakespeare
Quando Patrick Stewart lasciò la Royal Company
per diventare il capitano Picard di “Star Trek” inaugurò
una serie di trasmigrazioni tra palcoscenico e grande e piccolo
schermo che diedero nuova fama al drammaturgo.
Ma ora che David Tennant, star
di una serie tv di fantascienza, ha deciso di fare la stessa cosa il pubblico è in delirio
e lo spettacolo “sold out” da mesi. Così il Regno Unito trasforma il suo cantore in icona
Amleto e il Dottor Who
il Bardo diventa global
Durante le Olimpiadi
di Londra del 2012
si aprirà
un grande festival
shakespeariano
di ENRICO FRANCESCHINI *
STRATFORD- UPON-AVON. «Essere o non essere? Questo è il problema ». Cioè se sia meglio vivere o morire, resistere o togliersi la vita. Eppure quando David Tennant, l’attore reso celebre dal personaggio televisivo del Dottor Who, pronuncia la battuta più noto dell’Amleto sul palcoscenico del Courtyard Theatre, nella città natale di Shakespeare, nella messa in scena della Royal Shakespeare Company, il problema è anche un altro: se uno come lui faccia bene ad affrontare il rischio degli oltraggi del pubblico e dei dardi della critica, o se non gli converrebbe piuttosto continuare a prendere le armi nei viaggi intergalattici di una ben collaudata serie tivù. L’uragano di applausi che chiude puntualmente ogni rappresentazione scioglie però quasi subito il dilemma, e i critici sembrano del medesimo parere: questo Amleto in eskimo, maglione a collo alto e berrettino da marinaio, interpretato da una stella dell’intrattenimento di massa, piace molto e piace a molti, tanto che dall’inizio dell’estate sta registrando sold out, tutto esaurito, come un concerto di Madonna, promettendo di andare avanti così fino a metà novembre, per poi trasferire la moderna versione del dramma shakespeariano a Londra. Dove i biglietti, messi in vendita due giorni fa, sono andati esauriti in sei ore per essere poi rivenduti dai bagarini a 500 sterline (600 euro) l’uno.
Per il Dottor Who, bisogna dire, il rischio di un disastroso fallimento era relativo. In primo luogo perché Tennant, pur dovendo la fama internazionale e lo status di star alla televisione (e al cinema, con il quarto film di Harry Potter), come molti attori britannici proviene dal teatro classico: iniziò la sua carriera con la classica gavetta shakespeariana nei piccoli teatri di Edimburgo, e nel 2000 interpretò Romeo in Romeo e Giulietta, sempre con la Royal Shakespeare Company, anche allora a Stratford. In secondo luogo perché gli inglesi, sebbene abbiano comprensibilmente elevato Shakespeare al livello di simbolo ed eroe nazionale, non esitano a tirarlo giù dal piedistallo, a mescolarlo alla vita di tutti i giorni, a farne un prodotto della cultura popolare. Il Bardo, in effetti, oggi è dappertutto, senza che nessuno se ne scandalizzi, anzi: a teatro e al cinema, in tivù e alla radio, in libreria e nelle botteghe di souvenir, nei coffee shop e nelle boutique.
Il fenomeno non è nuovo, dura da anni, decenni, qualcuno dice da anche di più: in fin dei conti sono tre secoli che la cittadina di ventiduemila abitanti sul fiume Avon, duecento chilometri a nord della capitale, dove William Shakespeare venne alla luce (quando gli abitanti erano tremila) e dove giace sepolto, è una meta di pellegrinaggi. La sua casa natale, su Henley Street, è stata restaurata e ricostruita così tante volte che probabilmente il drammaturgo non la riconoscerebbe neanche, ma milioni di turisti la visitano ancora incantati; così come vanno a vedere con un brivido d’emozione la sua tomba nella cappella della Holy Trinity Church, domandandosi chi fosse veramente l’uomo sepolto sotto la lapide con l’ iscrizione misteriosa: «Buon amico, per amore di Gesù trattieniti/ dall’estrarre le ceneri qui racchiuse/ sia benedetto colui che risparmia queste pietre/ e maledetto colui che rimuove le mie ossa».
Stratford, grazie a Shakespeare, è la seconda maggiore attrattiva turistica del Regno Unito, dopo la capitale, e questo passi. Ma il lato più curioso è che questo boom non declini, non affievolisca, casomai continui a crescere e a moltiplicarsi, mettendo il naso letteralmente ovunque. La settimana scorsa, per esempio, il ministero della Cultura britannico ha annunciato l’organizzazione di un Festival mondiale di Shakespeare in coincidenza con le Olimpiadi di Londra del 2012 (il festival inizierà il 23 aprile 2012, anniversario della nascita del commediografo), dislocato in tre città, Londra, Stratford e Newcastle, per sottolineare l’idea che il più grande autore teatrale di tutti i tempi è ormai da tempo diventato una “figura globale”, effettivamente “olimpica”: sicché fra quattro anni vedremo il suo caratteristico profilo stampato anche sui cinque cerchi dei Giochi, dei quali dovrebbe diventare, insieme ai Beatles, al Big Ben, a Buckingham Palace e alla famiglia reale, l’icona. Morale: siamo, e sempre di più saremo, tutti pazzi per Shakespeare.
Il Bardo è un classico, anzi “il” classico, che non invecchia mai e non passa mai di moda. A decretarlo basterebbero i suoi trentotto testi teatrali e i suoi 154 sonetti: è considerato l’autore più venduto della storia della letteratura mondiale, alcuni calcolano che abbia venduto più copie lui della Bibbia. Ma anche chi non l’ha mai letto, anche chi non ha mai visto una sua commedia o una sua tragedia, crede di conoscerlo, sa chi è, cos’è, cosa rappresenta. Shakespeare in effetti è l’Inghilterra, Shakespeare è la lingua inglese ossia la vera lingua globale planetaria, così come nel 2012 Shakespeare sarà le Olimpiadi di Londra. Del resto si può ben dire che Shakespeare è qualsiasi cosa, l’amore, il tradimento, la guerra, la morte, l’amicizia, la commedia, la tragedia, perché nel suo mondo, c’è tutto; e - si è tentati di aggiungere - il contrario di tutto: come ha notato uno dei tanti suoi biografi, in Shakespeare un lettore attento può trovare sostegno per quasi qualsiasi posizione voglia prendere. Lo riconosceva lui per primo, con una battuta ripetuta spesso a sproposito: «Il diavolo può citare le Sacre Scritture per i propri fini».
Paradossalmente, di questo formidabile e immortale tuttologo non sappiamo quasi niente, a parte dove e quando è nato, dove e quando è morto, e le opere che ci ha lasciato. Ma siccome ci ha lasciato solo quelle, e non una sola lettera, non un solo documento, non un solo manoscritto, anche la paternità di queste è stata a lungo e continua a essere oggetto di dibattito, controversie e dubbi. Possibile, è stato ripetuto fino alla noia, che il figlio di un modesto guantaio di provincia, nell’Inghilterra del Sedicesimo secolo, potesse diventare il drammaturgo e poeta più grande del suo tempo, e di ogni tempo? I sostenitori della tesi secondo cui commedie e drammi attribuiti a Shakespeare furono in realtà scritti da altri (tra i quali Bacone, celebre filosofo e scrittore; Christopher Marlowe, altro affermato autore teatrale dell’epoca; addirittura la regina Elisabetta I), sono numerosi. E il mistero sull’identità di William Shakespeare rimane in fondo così fitto che qualcuno ha avuto la bella idea di scriverci sopra un romanzo giallo: W., thriller di Jennifer Lee Carrell (in Italia è uscito qualche mese fa per Rizzoli), che miscelando abilmente verità storica e fantasia creativa tenta di indagare e risolvere l’enigma.
Fuor di finzione, uno specialista di saggi best seller, Bill Bryson, ha ricucito insieme in Il mondo è un teatro, ultima ed ennesima biografia shakespeariana (pubblicata recentemente in Italia da Guanda), tutto quello che si sa o meglio si suppone sul Bardo: i genitori, piccoli proprietari terrieri; la moglie, più vecchia di lui, sposata quando William aveva appena diciotto anni; l’istruzione scolastica; i figli; e poi il trasferimento a Londra, l’apprendistato di attore e scrittore, il successo, l’apparente simpatia per il cattolicesimo, a cui forse si convertì. Siamo certi che nacque, visse e morì un signor William Shakespeare, ma non siamo nemmeno sicuri - nota Bryson - di quale sia la grafia corretta del suo nome; e a quanto pare non ne era sicuro nemmeno lui, poiché nelle firme che ci sono rimaste non è mai scritto allo stesso modo: Willm Skaksp, William Shakespe, Wm Shakspe, William Shakspere, William Shakspeare, dunque in tutti i modi possibili, tranne William Shakespeare, quello che viene universalmentre associato al suo nome.
In compenso gli studiosi si sono ossessivamente concentrati sulle sue opere, contando ogni parola, registrando ogni inezia. Ci hanno informato che i suoi drammi contengono 139.198 virgole, 26.794 due punti e 15.785 punti interrogativi; che nei lavori teatrali si parla 401 volte di orecchie; che l’espressione dunghill( mucchio di letame) viene usata dieci volte, dullard (babbeo) due volte, bloddy(maledetto) 226; che i suoi personaggi menzionano l’amore 2.259 volte, ma l’odio soltanto 183; e che in tutto ha vergato 884.647 parole e 118.406 versi. Sappiamo anche che Shakespeare copiava: un’analisi delle parti I, II e III dell’Enrico IVrivela che, su 6.043 versi, 1.771 furono scritti da autori precedenti, 2.373 da lui ma sulle fondamenta posate dai suoi predecessori e solo 1.899 erano interamente farina del suo sacco; così com’è noto che fra le sue fonti spiccano Plauto, Chaucer, Greene, e anche svariati autori italiani, come Boccaccio, Ariosto, Baldassar Castiglione, Torquato Tasso. «Shakespeare aveva debiti in ogni direzione, ed era in grado di utilizzare qualunque cosa trovasse», osserva Ralph Waldo Emerson in uno dei più noti saggi su di lui: anche questo, in fondo, un segno di modernità.
L’incendio del Globe, il grande teatro all’aperto sulle rive del Tamigi dove andarono in scena la maggior parte delle sue opere, contribuì a coprire di mistero e segretezza la sua vita. Ricostruito un’infinità di volte, ora quel teatro si riempie di nuovo ogni estate presentando tutto il repertorio shakespeariano: la stagione attuale si conclude a metà ottobre, e ad ogni rappresentazione vengono messi in vendita almeno settecento biglietti ad appena cinque sterline l’uno, circa sei euro, nello spirito del teatro popolare del Sedicesimo secolo, quando Shakespeare sedeva tra il pubblico e a Londra infuriava la peste. Le prime edizioni dei suoi testi teatrali vengono vendute all’asta per milioni di sterline, accanite discussioni sull’autenticità di questo o quel ritratto che lo rappresenta continuano a infuriare tra i critici e gli storici, mentre il Dottor Who calca il palcoscenico di Stratford-upon- Avon nei panni di un Amleto in maglione, ma non meno convincente di quello tradizionale. «Morire, dormire, sognare forse», declama David Tennant nel ruolo del giovane principe di Danimarca, tormentato dal fantasma del padre. E il pubblico alla fine si spella le mani dagli applausi, come avveniva cinquecento anni or sono, come avverrà tra altri cinquecento. Perché avevamo, abbiamo e avremo sempre bisogno del Bardo, per ricordarci che «il mondo è tutto un palcoscenico, e uomini e donne, tutti sono attori». Non soltanto il Dottor Who.
* LA REPUBBLICA/DOMENICA, 14 SETTEMBRE 2008 - ripresa parziale.
Shakespeare filosofo
di Leopoldo Fabiani (la Repubblica, 07.06.2008)
Il genio di William Shakespeare è stato celebrato, commentato, analizzato in innumerevoli modi. Tra i meno consueti è sostenere la tesi il grande Bardo sia stato anche filosofo. Colin McGinn, studioso di filosofia della università di Miami, formatosi a Oxford, collaboratore della London Review of Books, ha esaminato sei capolavori shakespeariani (Amleto, Otello, Re Lear, Macbeth, Sogno di una notte di mezza estate e La tempesta) in chiave filosofica e ne ha tratto un libro che negli Stati Uniti ha suscitato molta curiosità e qualche discussione: Shakespeare filosofo. Il significato nascosto nella sua opera, che sarà pubblicato a luglio dall’editore Fazi.
L’idea che sta alla base del libro è che nelle sue opere Shakespeare abbia tentato di dare risposta a questioni squisitamente filosofiche come l’effettiva consistenza dell’"Io", la funzione manipolatoria del linguaggio, il concetto di causa, la possibilità della conoscenza del mondo da parte dell’uomo. E che il "genio senza tempo" sia stato comunque un uomo ben piantato nella sua epoca, influenzato da quanto gli avveniva intorno e attento alle novità.
Secondo McGinn Shakespeare avrebbe conosciuto e sarebbe stato profondamente influenzato dalle opere di Montaigne (il cui saggio sui cannibali sarebbe a tra le fonti della Tempesta), e sarebbe poi approdato a una concezione scettica della vita (che viene dedotta in particolare dall’Amleto).
Anche se l’idea che pensatori come Hume e Wittgenstein siano stati ispirati dal "canone" shakespeariano ha suscitato più di un dubbio, senz’altro il libro di McGinn apre prospettive nuove su un’opera di cui è facile pensare che tutto sia già stato detto.
Un saggio di Massimo Giuliani vede nel libro biblico non solo la teoria dell’amore, ma anche una visione politica, legata al tema di Israele disperso tra le nazioni
Il Cantico dei cantici? Una metafora politica
di MARCO RONCALLI (Avvenire, 10.05.2008)
Che con straordinarie metafore celebrasse l’intimo rapporto d’amore tra Dio e il popolo di Israele, era piuttosto noto. Che nonostante la consuetudine di citarlo in occasioni sponsali non potesse venir considerato un inno all’amore coniugale - vista l’assenza di preoccupazioni procreative o di allusioni al vincolo matrimoniale anche. Idem quanto alla presenza dell’Eterno nei codici della parola amore (e leggasi pure, oltre il termine eros, ciò che ruota attorno a philìa, agàpe, ecc.). Né può essere considerata una novità la teoria dell’amore «esodo da sé di ciascuno dei due per essere dell’altro» (per dirla con il teologo Bruno Forte). Meno battuta è invece la pista che porta a leggere questo dialogo straordinario -cioè il Cantico dei Cantici - come «metafora teologico-politica» applicata al tema di Israele disperso tra le nazioni. Che è esattamente quanto proposto in questo nuovo saggio dedicato da Massimo Giuliani allo Shir haShirim, nel solco di una comunque solida tradizione che dai targumim (traduzioni/parafrasi aramaiche del testo) ai coevi midrashim (in buona parte raccolti nello Shir haShirim Rabbà), da Rashi - grande commentatore del XII secolo - a molti pensatori contemporanei, arriva sino a noi.
L’opera è divisa in due parti e lungi dal focalizzarsi su aspetti filologici e storico-letterali, attribuisce al Cantico un ruolo di pilastro portante, centrale, nell’ideale arcata «creazione-rivelazioneredenzione » che alza la storia della salvezza. La prima parte rielabora un seminario tenuto lo scorso anno mantenendo il registro della conversazione orale con parecchi rimandi alle interpretazioni sviluppatesi entro il giudaismo rabbinico o nella cultura ebraica moderna e tenendo sullo sfondo il lavoro di Franz Rosenzweig La stella della redenzione. La seconda, valorizzando la traduzione del Cantico di Daniele Garrone (riportata in appendice al volume), scandaglia, oltre la grammatica dell’eros, il paradigma dell’esilio ma sino ad analizzare le prospettive aperte dal superamento della condizione diasporica o della sua negazione nella complessa dimensione politica, fra sionismo e antisionismo, oltre le elaborazioni ancorate alle prerogative messianiche. Per considerare infine in chiusura un’emblematica poesia di Paul Celan: Todesfuge, scritta nel 1945, dopo Auschwitz, nella quale la Shulamita del Cantico è contrapposta alla protagonista del Faust goethiano Margarete.
Tornando alla parte più organica del libro, Giuliani, dato per scontato dietro ogni nudità il problema dell’io, dell’identità, e dopo averci ricordato che nella Bibbia a dire ’io’ è Dio, s’interroga su come sia permesso o proibito interpretare il Cantico, poi sulle ragioni per le quali esso è finito nel canone biblico tanto ebraico quanto cristiano, andando oltre la risposta che poggia sull’attribuzione al re Salomone e piuttosto sottolineando dentro l’esilio di Israele un pegno storico e una riprova della sua elezione.
E, proprio nella convinzione che il Cantico finisca per abbracciare il problema teologico-politico per antonomasia del popolo ebraico, l’esilio e la sua redenzione, fonde i due interrogativi in un’unica questione. Per la cui soluzione prova anche ad identificare i protagonisti del Cantico. Che per certi autori poi non sarebbero così chiaramente l’amante e l’amata.
Per Amos Luzzatto, ad esempio personaggio reale sarebbe solo, lei, la ragazza, una sognatrice per la quale il ’noi’ della storia amorosa sarebbe un prodotto dell’immaginazione. Altri autori invece vedono un triangolo, aggiungendo al noi dell’amante e dell’amata , le cosiddette figlie di Gerusalemme, le figlie di Sion: perché l’amore non è mai evento privato; perché l’amore di Dio per Israele, pur esclusivo, è al servizio del resto dell’umanità.
Se però, come Giuliani riconosce, resiste in ogni caso la definizione di Rosenzweig pronto a vedere nel Cantico «il nucleo e il centro della rivelazione» - pur prendendo seriamente i divieti dei rabbini che impedivano interpretazioni letterali del dialogo, resiste anche la difficoltà di leggere il testo solo come allegoria degli ebrei in galut, in esilio, (proibizione che è - tra l’altro - un’eccezione alla regola generale dell’ermeneutica rabbinica contemplante la lettura simbolica proprio dopo quella ’alla lettera’). A meno che proprio la chiave di lettura teologico-politica apra la porta su qualcosa in più del dramma storico dei senza patria, indicando la nostalgia di un centro perduto e il dubbio sulla presenza di Dio nella vita del suo popolo.
Sentimenti celati, tra sogni e sofferenze, nei versetti dello Shir haShirim che nel tempo dell’esilio non spengono mai nel popolo il desiderio del ritorno. A Sion.
Massimo Giuliani
EROS IN ESILIO
Letture teologico-politiche del «Cantico dei cantici»
Medusa. Pagine 152. Euro 14
Nel 1612, l’autore di Giulietta e Romeo scrisse Storia di Cardenio
Il testo andò perduto durante l’incendio che distrusse il Globe Theatre
"Ecco il Chisciotte firmato Shakespeare"
Giallo sul ritrovamento di un dramma
DAL nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI *
È PROBABILMENTE l’accoppiata più forte della letteratura mondiale: il padre di tutti i commediografi e quello di ogni narratore, William Shakespeare e Miguel Cervantes. Immaginiamo che l’autore di Giulietta e Romeo abbia scritto un dramma ispirato dal Don Chisciotte di Cervantes.
Immaginiamo che questo dramma sia andato in scena soltanto due volte, al tempo di Shakespeare, e poi il testo sia scomparso in un incendio del Globe Theatre di Londra; che quattro secoli più tardi un direttore della Royal Shakespeare Company riesca miracolosamente a ritrovare il dramma andato perduto e decida di metterlo in scena con una produzione ispano - britannica, in omaggio ai due formidabili scrittori uniti dalla singolare vicenda.
È una storia che fa sognare e che diventerà realtà, stando a quanto annunciato l’altro giorno dal direttore della Royal Shakespeare Company, Gregory Doran, a Madrid. Ma è una storia che contiene anche un mistero: cosa ha esattamente ritrovato, il signor Doran?
"Certamente non un manoscritto polveroso su uno scaffale", dice un portavoce della Royal Shakespeare Company interpellato da Repubblica qui a Londra. Per capirne di più, come in un giallo che si rispetti, conviene fare un passo indietro. Qualche notizia certa su un’opera di tal genere esiste. Il Don Chisciotte arriva in Inghilterra nel 1612, sette anni dopo la pubblicazione in Spagna, tradotto in inglese da John Shelton. Basandosi su un episodio del romanzo di Cervantes, quello stesso anno Shakespeare scrive un dramma intitolato Storia di Cardenio, aiutato da un altro commediografo, John Fletcher.
Il "Cardenio" viene messo in scena due volte l’anno seguente al Globe Theatre, che viene però distrutto pochi mesi più tardi da un incendio (quello che i turisti visitano sulle rive del Tamigi è una copia) in cui vanno bruciati molti originali delle commedie del grande bardo, tra cui anche quella ispirata dal Don Chisciotte. Da allora si perdono le tracce del manoscritto, al punto da insinuare perfino il dubbio che sia mai esistito.
Quarant’anni dopo la prima rappresentazione, nel 1653, uno storico dell’arte racconta di avere visto una copia del "Cardenio" firmata sul frontespizio da Shakespeare e Fletcher. Poi il giallo fa un altro balzo in avanti: nel 1727 il drammaturgo Lewis Theobald sostiene di avere scritto il suo dramma Double falshood (Doppia menzogna) traendo ispirazione dal "Cardenio".
E veniamo al presente. Già nell’ottobre scorso Doran accennò vagamente al "ritrovamento" dell’opera perduta di Shakespeare. L’altro ieri, secondo quanto riporta il quotidiano spagnolo El Mundo, è stato più esplicito: "Siamo riusciti ad autenticare uno dei manoscritti sulla cui veridicità si facevano infinite supposizioni. Siamo riusciti a trovare degli originali affidabili. C’è un indizio molto chiaro. Confrontandolo con la prima edizione in inglese del Don Chisciotte, ci sono alcuni monologhi quasi identici. Shakespeare trascriveva spesso alla lettera dialoghi da testi originali, per esempio con Plutarco". Ma il giallo non verrà chiarito, né il mistero svelato, sino a quando il "Cardenio" ritrovato non andrà in scena, nel 2009.
* la Repubblica, 25 maggio 2007
Don Chisciotte, ritrovato dramma di Shakespeare *
Un dramma di William Shakespeare sul personaggio di Don Chisciotte di Miguel de Cervantes è una realtà. Il drammaturgo inglese lo scrisse a quattro mani nel 1613 in collaborazione con John Fletcher. Uno dei manoscritti della prima versione dell’opera shakesperiana sconosciuta è stato recuperato quasi 400 anni dopo la sua "sparizione". Lo ha annunciato il direttore della Royal Shakespeare Company di Londra, Gregory Doran, in un’intervista al quotidiano spagnolo «El Mundo». Doran ha detto anche che la storica compagnia inglese sta lavorando alla messa in scena di quest’opera, che potrebbe arrivare sul palcoscenico nel 2009 grazie ad una mega co-produzione ispano-britannica. Il «Don Chisciotte» venne tradotto in inglese nel 1612. Poco dopo, affascinato dall’epopea cavalleresca, Shakespeare convinse Fletcher a scrivere insieme una sorta di continuazione della saga.
* Avvenire, 25.05.2007
LINGUA ITALIANA: LA PAROLA PIU’ BELLA E’ AMORE PER GLI ABITANTI DEL BELPAESE
Roma, 20 dic.- (Adnkronos) - Non c’e’ dubbio: e’ ’amore’ la parola piu’ bella per gli italiani. E’ quanto emerge da una ricerca di Gfk Eurisko riportata nell’ ’Annuario 2006’ della Dante Alighieri, il piu’ completo vademecum della lingua e cultura italiana, curato da Paolo Peluffo e Luca Serianni.
A indicarla il 22% degli intervistati, soprattutto operai (32%). A grande distanza al secondo posto c’e’ naturalmente ’mamma’, citata dall’8%. Al terzo ’pace’ seguita ad un punto di distanza da ’liberta’’. Tra le altre parole piu’ gettonate anche ’famiglia’, ’amicizia’, ’figli’ e ’felicita’. Nella top ten a pari merito: ’ciao’, ’sole’, ’rispetto’, ’vita’, ’democrazia’ e ’Italia’.
* ADNKRONOS, 20.12.2006
Noi, i "Danesi" .... e "il mulino di Amleto"?!
Con il ritorno sulla "scena" di tutta l’Europa (a partire dall’Inghilterra e dall’Italia), e nelle cronache dei nostri giorni, di "POLONIO" (spie, servizi segreti, veleni ... e ciambellani), la sollecitazione a capire, a "connettere" e a "collegare", è diventata "forte", fortissima!!!
"AMLETO" sollecita - e Shakespeare con lui - a chiedere ancora e di nuovo attenzione al ruolo del ciambellano, al "Polonio" - appunto, all’intera vicenda e, soprattutto, al suo buon-messaggio (eu-angelo): Fortebraccio è tornato!!!
Cosa fare?: accogliere la "sollecitazione" e ri-leggere l’ "opera al Polonio" - senza indugi! Forse potremo capire di più e meglio non solo il lavoro di Shakespeare, ma anche il nostro stesso storico presente ... e vedere in tutta lucidità il "marcio" che c’è intorno a noi, tutti e tutte, oggi - dappertutto, a livello planetario!!!
Federico La Sala (02.12.2006)
Usa: Amleto processato a Washington
Giuria ferma su pazzia del Principe, verdetto non concordato
(ANSA) - WASHINGTON, 16 MAR - Amleto e’ stato processato ieri al Kennedy Center di Washington, in una udienza presieduta da un vero giudice della Corte Suprema. La giuria e’ rimasta bloccata sulla questione se il Principe di Danimarca fosse realmente pazzo.Amleto, sul banco degli imputati, era impersonato da un attore che ha invocato il suo diritto legale a non testimoniare.I dodici giurati non sono riusciti a concordare un verdetto: sei erano per la condanna mentre gli altri sei hanno sposato la tesi della pazzia.
Ansa» 2007-03-16 19:59
L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO: "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (Cantico dei cantici: 8.6). Un omaggio a William Shakespeare* e a Giovanni Garbini**:
AMLETO
Orazio, muoio.
Tu vivi; e riferisci onestamente
della mia causa tutto quanto il giusto,
a chi vorrà saperlo.
ORAZIO
Non pensatelo.
Io sono, più che un Danese, un Romano,
e qui ci resta ancora del liquore.
AMLETO
No, dammi quella coppa!
Se sei uomo, dammela, perdio!
Mio buon Orazio, qual nome macchiato
vivrà di me, se questi avvenimenti
avessero a rimanere ignoti!
Se m’hai tenuto nel tuo cuore, Orazio,
tieniti ancor lontano, per un poco,
dalla gioia suprema del trapasso,
e seguita su questo duro mondo
a respirare ancora il tuo dolore
per raccontare ad altri la mia storia.
(Marcia militare e spari all’interno)
Che cos’è questo strepito di guerra?
OSRICO
È il giovin Fortebraccio di Norvegia.
Torna dalla Polonia vincitore,
e lancia queste salve a salutare
gli ambasciatori del re d’Inghilterra.
AMLETO
Io muoio, Orazio... Sento che il veleno
s’impadronisce di tutto il mio spirito.
Ormai più non mi resta tanta vita
da sentir le notizie d’Inghilterra;
ma profetizzo che su Fortebraccio
cadrà la scelta; a lui, in suo favore
va il mio voto morente. Digli questo,
insieme al più e il meno degli eventi qui succedutisi
[...]
FORTEBRACCIO
E noi ci accingeremo ad ascoltarla,
qui, tutti insieme, coi nostri maggiori.
In quanto a me, abbraccio la mia sorte,
col dolore nel cuore;
ho dei diritti, mai dimenticati,
su questo trono, che l’ora presente
mi esorta a far valere.
ORAZIO -
Anche di questo vi dovrò parlare,
ed a nome di chi, con il suo voto,
molti altri ne trarrà alla vostra parte.
Ma si proceda subito al da farsi,
mentre gli animi sono ancora scossi,
così che altri intrighi ed altri errori
non abbiano a recarci altre sventure.
FORTEBRACCIO -
Quattro miei capitani
mettano il corpo d’Amleto su un palco,
così come s’addice ad un soldato: perché se fosse stato lui sul trono,
si sarebbe mostrato un buon sovrano.
Diamo il nostro saluto al suo trapasso
con musiche e con riti militari.
Gli altri corpi toglieteli alla vista:
è una vista da campo di battaglia
e s’addice assai male a questo luogo.
E s’ordini alla truppa di sparare.
FINE
Cit. da: William Shakespeare, Amleto - evidenziazioni mie, fls
Amleto, sorprendente inspiegabile di Alessandro Zuccari (Avvenire, 06.07.2016)
Contraddittorio, inspiegabile, non di rado intrattabile: il principe di Danimarca ci assomiglia davvero molto. «Sì, Amleto è uno di noi», ammette il critico Piero Boitani, autorità riconosciuta negli studi shakespeariani. Professore di letteratura comparata alla Sapienza, il critico è autore di saggi spesso incentrati sul sottile legame fra visione poetica ed esperienza spirituale. Esemplare, per restare in tema, il suo Il Vangelo secondo Shakespeare (il Mulino, 2009), una ricerca sulle tracce di cristianesimo che affiorano, in modo più o meno velato, nelle opere del Bardo.
Al Meeting di Rimini Boitani dialogherà con il poeta Davide Rondoni su "Il senso dell’altro in Amleto" (domenica 21 agosto, ore 19, Sala Poste Italiane A4): un appuntamento che cade nel quarto centenario della morte di Shakespeare e che promette di indagare un aspetto solitamente trascurato di quello che Boitani stesso definisce «il maledettissimo play». Contraddittorio, appunto. E per questo tanto più affascinante.
Scusi, professore, ma il principe non è un individualista solitario?
«Solo in apparenza, esattamente come ciascuno di noi. In realtà in ogni momento del dramma il protagonista sta in rapporto con qualcun altro, secondo una logica assai complessa di contrapposizioni e alleanze. Fondamentale, per lo svolgimento della trama, è l’inimicizia con lo zio Claudio, usurpatore del trono che in effetti spetterebbe allo stesso Amleto. E poi c’è la relazione, tormentata fino alla cupezza, con la madre Gertrude, che diventa il bersaglio di accuse sempre più pesanti e a tratti eccessive».
Amleto non sta difendendo la memoria del padre?
«La questione è più complicata. Al padre o, meglio, al fantasma del padre Amleto crede e non crede, ha il timore di essere ingannato da un’apparizione che, per quanto ne sa, potrebbe essere di natura diabolica. Anche il celebre espediente della rappresentazione teatrale inserita nel dramma è, in fondo, un modo per prendere le distanze dallo spettro, cercando nel frattempo di saggiarne la reale consistenza. Il punto è che Amleto non è a suo agio col padre, così come non lo è con la madre. Eppure lui, che è tanto abile nell’analizzare i comportamenti e i sentimenti altrui, non si sofferma mai su se stesso, non si fa carico della difficoltà di relazione con i genitori. Il fantasma potrebbe essere una proiezione della sua mente, ma questo dubbio non lo sfiora mai».
Un’altra incoerenza?
«Incoerente, a ben vedere, è tutto il dramma. Nella prima parte, per esempio, Amleto è in preda a un sentimento malinconico che sconfina nella pazzia: forse simulata, forse vera. Questa è, del resto, la sezione del play in cui lo spettro del padre è presente con maggior insistenza. La cesura con quel che segue è molto brusca. Al ritorno dal misterioso viaggio durante il quale sostiene di essere stato fatto prigioniero dai pirati, il principe è del tutto cambiato. Riconosce l’ordine divino nascosto in ogni cosa, arriva a commuoversi per la "speciale provvidenza" che si manifesta perfino nella morte di un passero. Non ci sono elementi che aiutino a comprendere questa trasformazione. Amleto è stato in pericolo di vita, certo, e questo potrebbe aver contribuito a fargli cambiare prospettiva. Il risultato non è però meno sorprendente».
In che senso?
«Prendiamo un’altra relazione decisiva, quella con Ofelia. Nella prima parte Amleto l’ha maltrattata in maniera plateale quanto ingiusta, autorizzandoci a sospettare che la follia della ragazza sia, almeno in parte, una conseguenza degli affronti subìti. Ma nella seconda parte, durante la cruciale scena del cimitero, un irriconoscibile Amleto si precipita nella fossa nella quale Ofelia sta per essere sepolta, dichiarando finalmente di amarla».
Può essere un principio di pentimento?
«Amleto è, sotto molti punti di vista, l’inizio di qualcosa. Anche sotto il profilo religioso qui si intuisce, ancora lontana, quella luce di speranza che Shakespeare lascerà risplendere nei drammi romanzeschi della piena maturità, come Il racconto d’inverno e La tempesta. Al tema, già accennato, della provvidenza, si affianca un desiderio di salvezza che nel finale di Amleto si impone con un’urgenza che sfiora l’irragionevolezza. Anche in questo caso c’è un rapporto di cui tenere conto, quello con l’amico Orazio. Insieme lui e Amleto hanno studiato all’università di Wittenberg e le loro conversazioni denotano la familiarità con categorie filosofiche e teologiche. Quando arriva la resa dei conti, Orazio è perfettamente consapevole che Amleto è colpevole di più di un’uccisione: il vecchio Polonio, re Claudio, il duellante Laerte sono tutti morti, in qualche maniera, per mano sua. Con quali argomenti, dunque, Orazio può augurarsi che il "dolce principe" sia accompagnato al riposo eterno da "canti e voli d’angeli"?».
Lei quale risposta si è dato?
«Shakespeare, almeno in questa circostanza, non appare molto incline a sciogliere l’enigma. Probabilmente le ultime parole di Amleto, "il resto è silenzio", sono da prendere alla lettera. Nella sua vicenda, come in quella di ogni essere umano, c’è sempre un nucleo che rimane irriducibile a ogni spiegazione».
FESTE A LONDRA PER IL COMPLEANNO DI SHAKESPEARE (il manifesto, 21.04.2006)
In occasione del compleanno di Shakespeare, che cade domenica 23, la National Portrait Gallery di Londra organizza a partire da oggi una serie di iniziative, che comprendono conferenze, concerti e proiezioni cinematografiche. Ma il fulcro della manifestazione è la mostra, Searching for Shakespeare, in corso al museo londinese fino al 29 maggio. L’esposizione ruota intorno al più celebre ritratto del grande drammaturgo inglese, il cosiddetto «Chandos portrait», attribuito a John Taylor e dipinto intorno al 1610. In realtà, però, non ci sono prove sicure che l’uomo raffigurato nel quadro sia effettivamente Shakespeare: la mostra dunque, mettendo a confronto l’opera con altri presunti ritratti dell’autore di Amleto e proponendo diversi documenti originari dell’epoca, mira a ricostruire l’immagine del Bardo, così come la descrissero i suoi contemporanei.
Caro Direttore da quel poco che conosco di Shakespeare, credo che le tesi della studiosa inglese (cfr. art. qui di seguito allegato) sia assolutamente campata in aria e sento molto ’puzza’ di "appropriazione indebita": al massimo e al meglio, penso, l’opera di Shakespeare si collega al lato critico della tradizione ebraico-cristiana (Giordano Bruno e tradizione cabalistica, per intendersi!!!) che non, come si vuole e tenta di dimostrare, alla tradizione cattolica - in senso proprio e stretto !!! Federico La Sala
Allegato:
IL CASO Il drammaturgo era seguace della Chiesa di Roma: una studiosa inglese smonta le tesi precostituite degli ultimi decenni
SHAKESPEARE, CATTOLICO E APOLOGETA?
La furia protestante aveva mandato tanti fedeli al Papa sul patibolo. Per salvarsi alcuni intellettuali, fra i quali anche il poeta, adottarono un linguaggio cifrato e allegorico
di Andrea A. Galli (Avvenire, 23.02.2006)
Nessun lamento, nessun componimento è stato tramandato sulla fine di Richard Whiting, abate e umanista inglese che il 15 novembre 1539 venne impiccato dalle milizie protestanti, le quali, con fare più azteco che puritano, gli strapparono il cuore e lo mostrarono come trofeo alla cittadinanza atterrita. Con Whiting, ricordato come un erudito e un saggio amministratore, se ne andò per sempre (venne rasa al suolo) anche l’abbazia di Glastonbury, nel Somerset, fondata sul luogo della celtica Avalon, dove secondo la leggenda era approdato Giuseppe di Arimatea direttamente dalla Terra Santa e dove arrivarono i primi missionari da Roma, a cui si aggiunse San Patrizio di ritorno dall’Irlanda, che lì venne sepolto. Fu insomma strappato il cuore spirituale del Paese, simbolo di un misterioso e diretto legame tra l’Inghilterra e Cristo. Non un poeta ricordò quegli avvenimenti di tono apocalittico. Eppure è certo che violenze del genere, oltre che seminare il terrore, alimentarono l’ostilità verso una riforma protestante imposta dall’alto, con l’obiettivo di far tabula rasa dell’identità religiosa di un popolo. Lo si può dedurre dalla durata della persecuzione anticattolica, tra le più cruente della storia della Chiesa, che ancora settant’anni dopo, con Giacomo VI, non aveva perso di intensità. Lo hanno dimostrato negli ultimi decenni storici revisionisti come John Bossy, Jack Scarisbrick, Edwin Jones, Christopher Haigh, che hanno fatto luce sulla censura operata dalla storiografia elisabettiana verso la resistenza cattolica, che rimase vigorosa per quasi un secolo. È sullo sfondo di questi studi sul cattolicesimo negato nell’Inghilterra tra ’500 e ’600 che si situa il recentissimo libro di Clare Asquith - moglie di un ex diplomatico britannico in Unione Sovietica ed esperta di letteratura elisabettiana - dal titolo Shadowplay. The hidden beliefs and coded politics of William Shakespeare. Un libro d’eccezione essendo forse la più articolata ricerca su un mistero che da temp o aleggia sugli studi shakespeariani: il più grande drammaturgo di sempre, il massimo poeta inglese era cattolico? Per rispondere alla vexata questio la Asquith ha scelto una via inedita. Non si è limitata a raccogliere gli indizi biografici che hanno insospettito molti critici nel corso del ’900. Come il probabile incontro tra il giovane Shakespeare e il gesuita (poi martirizzato) Edmund Campion, che fu in contatto con un gruppo di dissidenti di Stratford on Avon, paese natale di Shakespeare. O il testamento di Alexander Hoghton - figura di riferimento della resistenza cattolica nel Lancashire, in rapporto con lo stesso Campion - in cui Hoghton raccomandava uno dei suoi giovani aiutanti, un tale "William Shakeshaft", all’impresario teatrale Thomas Asketh (secondo alcuni colui che lanciò Shakespeare sulla scena artistica londinese). O la preghiera trovata incisa su una trave della casa sempre di Shakespeare, firmata dal padre di costui, John: un testo redatto da San Carlo Borromeo e diffuso dai gesuiti, che permetteva ai cripto-cattolici che lo recitavano in punto di morte di spirare in comunione con Roma. O il fatto che la prima compagnia teatrale a cui Shakespeare si unì a Londra, quella patrocinata da Lord Strange, fosse notoriamente in odore di "papismo". La Asquith è andata oltre la raccolta di queste tracce, scandagliando per vent’anni la produzione culturale elisabettiana e studiando il linguaggio cifrato che gli intellettuali cattolici adottarono per sostenere la propria causa, evitando di finire sul patibolo. Un linguaggio ermetico per i lettori di oggi, assai meno per un pubblico allenato a ragionar per simboli e allegorie. Pubblico che in un verso di Robert Chester - poeta ricordato con sufficienza nelle antologie per il suo pedante poema Love’s Martyr - come «love is a holy, holy, holy tyhing» non faticava a cogliere il rimando al triplice Sanctus della liturgia eucaristica. Pubblico che ad un’opera come The Spanish Tragedy di Thomas Kyd - intessuta di rimandi alle rappresentazioni sacre medievali e alle sofferenze della Chiesa inglese - tributava non a caso un successo enorme, rimasto assai poco spiegabile per la critica moderna. Pubblico che in un "pun", un artifizio retorico come quello del sonetto 23 di Shakespeare - «More than that love which more hath more expressed» poteva agevolmente cogliere il rimando alla carità e al martirio di Thomas More. Una chiave di lettura che unita alla riconsiderazione dei teatri elisabettiani come luoghi di raccolta del dissenso cattolico, entra nell’opera shakesperiana con risultati certamente suggestivi. Si va da un’opera come Titus Andronicus, giudicata solitamente "grossolana" e a tratti incongruente, che diventa un’assai congruente rappresentazione della persecuzione antipapista e un invito ai resistenti a rinunciare alla violenza, in attesa di un intervento militare dal Continente. Alla sovrapponibilità tra un personaggio come la pia Paulina di The Winter’s Tale e Magdalene Browne contessa di Montague, zia di Ferdinando Stanley (il Lord Strange primo patrono di Shakespeare) e unica esponente della nobiltà inglese tollerata nella sua ostentata fede romana. Alla vera identità di Hamlet, figura plasmata secondo la Asquith sulla personalità di Philip Sidney, il grande poeta e cortigiano di Elisabetta, tenuto a battesimo da Filippo II di Spagna e figlio di quell’Henry Sidney sospettato a lungo di essere cattolico. Sir Philip Sidney che conobbe padre Edmund Campion durante un suo viaggio diplomatico a Praga, nel 1577, che fu amato in patria come l’Amleto letterario lo era nella sua Danimarca e che, a dispetto della vulgata che lo vuole uno zelante protestante, sarebbe stato invece assai vicino a Roma. Anzi, per molti sarebbe stato il simbolo dell’animo esitante di fronte alla dittatura elisabettiana e alla scelta di affermare pubblicamente la propria fede. Come Hamlet, anche King Lear abbonderebbe di messaggi in codice, in specifico di omaggi agli eroici membri della Comp agnia di Gesù, che sacrificarono la vita muovendosi per anni nella clandestinità, ecc. Insomma il famoso mondo "out of joint", sconnesso, al centro della riflessione di Shakespeare non sarebbe tanto la civiltà europea alle prese con l’entrata traumatica nella modernità (come un po’ fumosamente riportano tanti manuali di letteratura) ma l’Inghilterra violentata nella sua tradizione secolare e nella sua identità più profonda, quella cattolica. Interpretazione che sta facendo discutere, forse perché tutt’altro che una semplice ipotesi.
Storie e ricerche in Rete: il caso Shakespeare
di Elena Rossi *
Fino a pochi anni fa, tra i siti più segnalati sulle riviste, compariva uno Shakespeare Web come uno dei maggiori archivi dedicati al grande bardo. Questo sito ha subito alterne vicende e a un certo punto è stato completamente svuotato, per riapparire poi in una nuova veste, che oggi comprende solo alcuni frammenti di quello che era un tempo. Avremmo voluto scrivere all’autore per sapere che cosa è successo, visto che parla anche di "ricorrente vandalismo", ma purtroppo non c’è più la possibilità di fargli domande, ma solo di rispondere a quelle inviate dai lettori fino al 1997.
Lo citiamo perché è una delle tante storie della Rete e perché le sezioni proposte sono comunque curiose, a partire dalle "Domande e risposte", suddivise in tre sezioni (la prima riservata agli studenti pigri e svogliati, la seconda a quelli preparati e veramente motivati, la terza a chi non ha esigenze scolastiche). Ci sono poi una raccolta di notazioni storiche che seguono la vita del poeta e un gioco. Quest’ultimo consiste nel ricostruire una citazione di Shakespeare a partire da una serie di parole disposte casualmente, posizionandole nell’ordine giusto come su una lavagna magnetica.
E parliamo proprio di citazioni, che rappresentano un bel problema.
Le raccolte sono innumerevoli, ma quelle che ci interessano qui sono quelle che danno la possibilità di risalire all’opera da cui sono tratte. Mettiamo infatti che vi imbattiate in una citazione di cui viene detto l’autore ma non la fonte. Un problema, questo, che può presentarsi per esempio a un traduttore, visto che nei romanzi inglesi le citazioni da Shakespeare sono date per scontate come da noi quelle da Dante.
Attualmente due sono i siti migliori a questo scopo, che dispongono di tutte le opere in formato digitale e di un buon motore di ricerca interno. I l primo è quello del Mit - The Complete Works of William Shakespeare - che è stato anche il primo a mettere in rete le opere complete; il secondo è un sito australiano curato da Matty Farrow: Works of the Bard. Entrambi sono dati anche di un glossario e di link a siti correlati. Li abbiamo messi alla prova su tre frasi di diversa lunghezza:
to be or not to be
ask me no reason why I love you
not from the stars do I my judgment pluck
(rispettivamente Amleto, Le allegre comari di Windsor e Sonetto XIV).
Nel sito del Mit, la funzione di ricerca consente di scegliere se cercare fra tutte le opere o solo in una delle categorie, ponendo come criterio che compaiano "tutte le parole" (all the words) o una qualsiasi di quelle digitate (any of the words); che le parole siano legate fra di loro (match the words) o meno, con un margine di errore da valutare numericamente. Ponendo il margine d’errore uguale a zero, effettivamente si risale alla citazione voluta, con rimando al punto esatto dell’opera.
Stranamente, l’unica difficoltà l’abbiamo incontrata con il celebre "to be or not to be" dell’Amleto. Impostando la ricerca su tutte le opere, ne sono venute fuori una ventina; limitandola alle tragedie, è comparso solo il Machbeth. Abbiamo pensato che potesse dipendere dal fatto che sono tutte parole di uso molto comune e in più c’è quell’ "or" in mezzo che potrebbe confondersi con gli indicatori booleani. C’è da dire, però, che l’uso di tali indicatori non è previsto e quindi rimane un mistero perché in questo caso il motore non consideri l’insieme di parole come un tutto. Di fatto, digitando anche la frase completa, con i segni di interpunzione, così come è riportata nell’archivio, ("To be, or not to be: that is the question"), compare un messaggio di errore nella risposta.
Misteri dei database. Comunque abbiamo fatto ulteriori prove e in genere la ricerca funziona piuttosto bene. Nel secondo sito troverete alcune istruzioni che consigliamo di leggere per ottenere i risultati migliori dalla ricerca. Non dovete utilizzare segni di interpunzione, ma potete avvalervi di alcune chiavi che possono supportare anche un valore numerico; ad esempio near [5] o [5] introdotto fra due parole, definisce il livello di vicinanza che devono avere nel testo. La ricerca è più veloce se si utilizzano questi accorgimenti anziché digitare una frase intera fra virgolette alte.
Qui non abbiamo avuto difficoltà a trovare in breve tempo la risposta sugli stessi esempi.
Uno dei problemi che si pongono più spesso, però, è quello delle differenti trascrizioni, che dipendono dalle fonti usate. E su questo vale la pena di leggere la nota aggiunta al sito del Mit. Shakespeare è un autore che più di altri può causare tali problemi, perché esistono diverse "edizioni originali" che già non concordano fra loro, e in quelle successive alcune parole sono state trascritte con una grafia più moderna. La punteggiatura, poi, era praticamente assente nei manoscritti ed era il più delle volte il tipografo ad aggiungerla. A titolo di esempio, il curatore del sito propone proprio il celebre monologo di Amleto, nell’edizione da lui scelta, confrontata con un’altra altrettanto accreditata.
Sempre restando nel campo delle citazioni, ci sono altri siti che permettono una ricerca su diversi archivi, selezionando il testo, l’autore o l’opera, come questo, intitolato The Quotation Pages. Ovviamente, se non conoscete nemmeno l’autore, non avete altra scelta, ma è un po’ come cercare un ago in un pagliaio. Più interessante usare questi siti per sfogliare la selezione di citazioni proposte.
La Bartleby Library è invece un archivio di testi di poeti inglesi e americani dal 1250 al 1920, che permette la ricerca solo al suo interno. Qui siete facilitati dal fatto che sono elencati gli autori e le opere contenute - di Shakespeare per esempio, ci sono solo poemi e sonetti - e quindi sapete già che cosa potete trovare.
La ricerca, comunque, non ci è sembrata molto selettiva. Non ci sono istruzioni e bisogna andare un po’ per tentativi: provando ancora con il sonetto XIV, siamo arrivati alla pagina che contiene tutti i primi versi dei sonetti (fra cui quello cercato), ma in mezzo ad altre pagine che riguardano autori diversi. Provando con "Beauty is but a vain and doubtful good", sono venute fuori una ventina di risposte possibili: la prima è quella che cercavamo (The Passionate Pilgrim, XIII), ma le altre contenevano anche una sola delle parole cercate.
Citiamo infine un sito che propone un quiz a risposta multipla studiato per le scuole elementari. Inglesi, naturalmente, perché le risposte non sono così scontate per chi non ha studiato Shakespeare fin da bambino. Si tratta semplicemente di individuare volta per volta la citazione proposta; le risposte non si limitano a dire se è giusto o sbagliato, ma forniscono una breve contestualizzazione della frase.
Per chi fosse interessato a Shakespeare più in generale, segnaliamo un unico sito, che rappresenta un valido sforzo di ordinare tutto quanto compare in rete su questo autore: http://daphne.palomar.edu/shakespeare/bestsites.htm.
Troverete ovviamente i siti già citati, ma anche molto altro materiale interessante, catalogato secondo tematiche che vanno dalla storia del costume in epoca elisabettiana a Shakespeare nel cinema; dai siti per insegnanti fino alle fonti che possono aver ispirato direttamente o indirettamente l’opera del poeta. Si tratta di una raccolta di indirizzi, brevemente commentati, ma ben suddivisi. Un po’ come il risultato di una ricerca fatta su un motore, ma già selezionata per voi, da utilizzare come punto di partenza per una navigazione.
Alcuni di questi siti - è bene saperlo - rimandano ad altri elenchi tematici, come il webring sul film Shakespeare in Love (in Other sites/Movies), che contiene decine di siti, tra cui quello da cui abbiamo tratto quasi tutte le immagini che illustrano questa pagina: http://www.geocities.com/Hollywood/Heights/5443/index1.html
INTERVISTA
Il poeta francese venerdì sarà in Italia per ricevere il Premio Europeo per la Poesia: anche gli scienziati e i filosofi ne sono debitori
Bonnefoy: non c’è futuro senza versi
«La mia Europa deriva tanto da Omero quanto da Shakespeare. Il rapporto della varietà delle lingue vive con il passato è essenziale»
«Al Collège de France ho sentito matematici e fisici dire che dovevano la loro capacità di invenzione alle lettere o alla musica»
di Bianca Garavelli (Avvenire, 01.11.2006)
Yves Bonnefoy ha «scientificamente» scelto la poesia. Dopo la laurea in Matematica alla Sorbona, negli anni Quaranta, poco più che ventenne, frequenta il gruppo surrealista e la sua vita cambia direzione. Poi si allontana dal surrealismo, si laurea in Filosofia, segue i corsi di Gaston Bachelard. È un lettore selettivo e partecipe, apprezza i grandi autori di ogni letteratura, ma anche i pittori che hanno segnato la storia dell’arte: da questi interessi poliedrici nasce la sua poesia. Il 3 novembre a Treviso sarà insignito del prestigioso Premio Europeo di Poesia, i cui vincitori accedono automaticamente alla candidatura al Nobel.
Il Premio Europeo di Poesia è un riconoscimento di per sé importante per la giuria di altissimo livello che lo rappresenta. Quanto è emozionante riceverlo?
«Mi sento in effetti molto onorato, molto commosso, perché conosco bene la qualità eminente della giuria del Premio Europeo, ma anche perché è un premio italiano, e questo è un segno di distinzione, dato che mi viene da un paese che prende la poesia sul serio, cosa che è diventata piuttosto rara nel nostro secolo. D’altra parte, è un premio che si vuole europeo e che dunque si interessa alla differenza delle lingue in seno alla ricerca poetica: e niente potrebbe interessarmi di più. Quando si tratta di pensare al futuro della poesia, la domanda sul suo rapporto con la diversità delle lingue vive, ai miei occhi, è la più importante. Come meglio affrontarla, in Francia o in Italia, che ponendosi nel quadro degli idiomi che non hanno smesso, dopo la Grecia e Roma - ma anche dopo le grandi migrazioni celtiche e germaniche - di avere degli scambi fecondi?»
Qual è la sua Europa? Ci sono nella sua biblioteca autori europei che hanno contribuito in modo significativo a formare la sua poesia?
«La mia Europa? Sarei portato, spontaneamente, a risponderle che è quella nata più direttamente dall’antichità mediterranea, l’Europa che deriva dall’Odissea ma anche dalle Bucoliche e da Lucrezio e Ovidio, e subito dopo da Dante e Petrarca. Ma penso allora a Shakespeare, che ha rappresentato tanto per me, e a Hölderlin, e a Yeats. E noto questo: l’Europa, in poesia, nasce meno dal tale o talaltro "grande poeta" e più dai rapporti che gli uni e gli altri poeti intrattengono fra loro, oltre le frontiere. La nostra Pléiade non esiste che grazie a Petrarca, l’Ariosto ha letto i nostri romanzi cavallereschi, come anche Cervantes; e Shakespeare ha letto l’Ariosto in un momento decisivo, Goethe doveva all’Italia tanto quanto alla mitologia germanica, Goethe che ha tanto contato per Nerval, a sua volta innamorato di Napoli, di Virgilio. La grandezza della poesia europea sta in questi scambi ed è in essi che la amo.»
Essere poeta nella società di oggi significa avere un ruolo molto più appartato rispetto al passato: il poeta non può competere con un narratore famoso, non è uno scienziato e non ha neppure il credito intellettuale di un filosofo. Che cosa pensa di questa realtà?
«Io penso che anche oggi la poesia conta più di quanto sembra. È vero che non propone nuove idee, come la filosofia, o non produce delle finzioni divertenti, ma fa molto di più: lavora per preservare l’intensità, il vigore, la luminosità della lingua, e a questo titolo permette allo spirito di mantenere intatto il suo potere di creazione, anche in campo scientifico. Al Collège de France, dove ho insegnato, ho sentito spesso matematici, fisici dire che dovevano la loro capacità di invenzione al rapporto che avevano avuto con delle poesie (o d’altra parte anche con la musica). La parola poetica libera le parole dalle loro anchilosi, che paralizzano tutte le invenzioni e là dove ci sono dei grandi sapienti, dei grandi pensatori, la poesia non è mai lontana.»
Lei ha scritto che si dovrà «varcare la morte» per vivere. Quali suoi libri rappresentano le svolte più significative, le «morti e rinascite» per la sua scrittura?
«"Superare la morte" - convincersi della propria finitudine - per accettare la pienezza della vita, è un desiderio che si può avere, un compito che ci si assegna, ma non è affatto un’esperienza che si possa pretendere di aver portato a termine in maniera soddisfacente. È il voto più profondo della poesia e lo si fa di nuovo, in ogni nuovo testo poetico. Detto questo, ci sono da questo punto di vista delle grandi svolte nella mia scrittura? Sì, il primo libro che ho pubblicato, Douve (1953), che ha messo fine agli scritti precedenti proprio attraverso la scoperta di questa vocazione della poesia, poi Dans le leurre du seuil (Nell’insidia della soglia, 1975), vent’anni dopo, che è venuto in occasione della rinuncia a un certo grande sogno che avevo fatto.»
«Terre intraviste» (Edizioni del Leone) è il suo libro più recentemente tradotto in Italia, da Fabio Scotto, che contiene alcuni inediti: segnano la direzione verso cui si muove la sua poesia?
«In quest’antologia, che devo all’iniziativa di Paolo Ruffilli, c’è qualche poesia inedita, dei sonetti, e in questo, in effetti, c’è qualcosa di abbastanza nuovo per me. Ho tradotto di recente un certo numero di sonetti di Petrarca e adesso sto traducendo tutti quelli di Shakespeare: così ho riflettuto sulle potenzialità di questa forma poetica e cerco di ridare loro vita nel seno di quel verso libero che mi sembrava una condizione necessaria, ai giorni nostri, della scrittura in francese. Ma non è la direzione principale che ho intrapreso dopo il mio ultimo libro, Les planches courbes [Le assi curve, previsto nella collezione Lo Specchio Mondadori] anche questo tradotto da Fabio Scotto. Vorrei avvicinare la poesia al teatro, lasciare che il testo poetico si riempia di voci che vengono da non so dove in me e che si fronteggiano come su una scena.»
A Shakespeare non fa male il Giappone
di Roberto Mussapi *
«As you like it» (Come vi piace), la commedia di Shakespeare nella versione cinematografica di Kenneth Branagh suggerisce alcune considerazioni sull’inesauribile tesoro dell’opera shakespeariana. Alcuni hanno mostrato stupore per l’ambientazione della commedia nel Giappone del primo Novecento, dove viveva una sorta di aristocrazia borghese inglese. Stupisce lo stupore: è assolutamente normale nel teatro la scelta registica di epoche e luoghi differenti da quelli in cui l’autore ha inscenato il dramma. Amleto ha vestito abiti di ufficiali tedeschi della seconda guerra mondiale, di un principe ottocentesco, la spoglia nudità di un personaggio senza tempo in una scena nuda. Perché natura del grande teatro è di rappresentare vicende universali, e di avere dato la vita a personaggi che, generati in un tempo preciso, non abbandoneranno mai più il palcoscenico del mondo.
Ma nel caso di Shakespeare, più ancora che negli altri grandi drammaturghi elisabettiani e nei tragici greci, questo spostamento cronologico e spaziale è quasi intrinsecamente richiesto dalle opere. Shakespeare rifonda la tragedia nel supremo dramma elisabettiano, e inventa la commedia moderna: da satira sociale, intrattenimento critico, antenato pur nobilissimo del cabaret, quale era anche nei grandi autori greci e romani, diviene prodigio del sogno, incantesimo fiabesco: «Il sogno di una notte di mezza estate», «Molto rumore per nulla», «Come vi piace», nulla hanno a che vedere con la critica di costume, lo spirito canzonatorio e corrosivo delle opere di Aristofane o Plauto, ma portano in scena il sogno nelle sue volute capricciose e incantevoli, la fiaba. Inventa una geografia immaginaria e le storie sono rigorosamente anacronistiche: troviamo un duca ad Atene, un’isola caraibica, il cui abitante si chiama infatti Caliban, collocata più o meno tra Tunisi e Napoli, luoghi ove si incontrano personaggi dai nomi latini e rinascimentali, con prevalenza di giardini, boschi, dove il gioco delle ombre può suscitare più facilmente gli incantesimi.
L’idea di Branagh -a mio parere il massimo regista shakespeariano nel cinema- di ambientare in un Giappone fiorito, incantato, mutuato dalla pittura di Hokusai, la vicenda di un’identità scambiata, una storia d’amore la cui trama si basa su un innocente e piacevole inganno, è geniale: ha trovato il luogo e il tempo che l’autore aveva previsto per quella commedia, anche se li aveva conosciuti solamente in sogno, e indica la vera collocazione di ogni opera shakespeariana: ovunque e in nessun luogo.
* Avvenire, 11.11.2006
L’AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE ....
22 dicembre 2006: "Abbracciatevi, moltitudini!"(L. van B.)!!!
E’ ORA DI ANDARE NELL’ "ARCA-DIA".
UNA COPPIA DI PACIFISTI INVITA A MUOVERSI:"Il Synchronized Global Orgasm salverà il pianeta". Shakespeare insegna: "As You Like It" !!!
2006-11-22 19:29
Virata rock per Shakespeare
Artisti Gb compongono musiche ed arrangiamenti per sonetti
(ANSA)-ROMA, 22 NOV- Insolita scelta della Royal Shakespeare Company che ha voluto il rock per accompagnare i sonetti dello scrittore durante un prossimo spettacolo. Spettera’ dunque a Antony Hegarty (Antony and the Johnsons), a Liz Fraser (Cocteau Twins) e a Natalie Merchant (10000 Maniacs) comporre musica per alcuni dei sonetti del drammaturgo. L’esordio dello Shakespeare ’remixed’ avverra’ in ’Nothing Like the Sun’ al Courtyard Theatre di Stratford upon Avon il 24 e 25 febbraio.
A Prescot rinasce il teatro shakespeariano *
Prescot, la cittadina dell’inghilterra nordoccidentale celebre per ospitare la residenza dei conti di Derby, riceverà un finanziamento pubblico di trenta milioni di sterline per la ricostruzione di un suo antico teatro. L’investimento è motivato dal fatto che qui un William Shakespeare ancora ragazzino visse per alcuni anni e iniziò a muovere i primi passi nel teatro. La ristrutturazione del teatro è parte di un progetto più ampio, dal titolo «Shakespeare in the North», che mira a valorizzare i cosiddetti «anni persi» trascorsi dal Bardo nel Lancashire, la contea di Lancaster. «Questo progetto farà conoscere il profondo e importante rapporto tra il Bardo e il nord dell’Inghilterra», ha dichiarato David Thacker, regista di molte opere di Shakespeare e responsabile del progetto «Shakespeare in the North».
* Avvenire, 03.03.2007
NORBERTO BOBBIO.
Il pensatore negli ultimi tempi affrontò con serietà i temi religiosi, dalla morte alla vita ultraterrena: una conversazione inedita
Il filosofo e l’aldilà
«Ci vedemmo nella sua abitazione torinese. Alla parete del piccolo salotto era appesa una stampa con Cristo alla colonna»«Da poco aveva perso la moglie e mi disse: "Grazie a Valeria ho capito che l’amore è più forte della morte"»
di Vittorio Possenti (Avvenire, 12.04.2007)
Norberto Bobbio fu un corrispondente straordinario. Ripercorrendo le sue lettere dal 1975 in avanti, indirizzate ad una persona di tanto più giovane e allora mai incontrata, non posso tacere la meraviglia per la loro puntualità e sostanza. Più avanti cominciarono incontri diretti. Dopo due interventi chirurgici, susseguitisi a breve distanza, andai a trovarlo nella sua casa torinese di via Sacchi, vicinissima a quella dove avevo abitato da ragazzo: era il 1992.
Parlammo a lungo, con pause perché Bobbio si affaticava, di diritto naturale, di razionalismo, del problema del male, una questione che lo travagliava senza risposta e su cui è stato in continua ricerca. Me ne scrisse pochi giorni dopo, a valle della lettura di una mia controversia con Hans Albert, dove si tocca anche il tema del male. Risposi alle sue domande, come sempre chiare e pungenti, su Dio, il cristianesimo, il male e il dolore, ed è l’unica mia lettera di cui conservi il testo. Vi era in Bobbio una zona profonda della coscienza dove risuonavano i più alti interrogativi dell’esistenza, dove proseguiva la sua tormentata e talvolta amara ricerca, e su cui un naturale riserbo stendeva un velo, non però così spesso che qualcosa non ne tralucesse.
Ritornai varie volte in via Sacchi, talvolta anche con mia moglie Nora; negli ultimi tempi prendeva parte silenziosa ai nostri colloqui la moglie Valeria. La sua morte nel 2001 fu colpo decisivo: da quel giorno Bobbio iniziò a morire. Ma fu anche l’occasione della sua ’dichiarazione di fede’, fede nell’amore che in qualche modo quieta l’angoscia del dolore. Visitandolo nel settembre 2001 con Nora dopo la scomparsa della sposa, ascoltammo commossi il racconto del suo amore per Valeria che sentiva costantemente viva e presente in lui, e che portava nel cuore. Confido di non venire meno al dovuto riserbo dicendo che nel colloquio Nora ed io abbiamo ascoltato da Bobbio le cose forse più intense e belle da lui mai pronunciate.
Aspettiamo in un piccolo salotto; appesa alla parete vi è una stampa con Cristo alla colonna. Il dottor Polito, che gli fa da segretario da numerosi anni, ci fa entrare nello studiolo che è stato di Valeria e dove, dice, «il Professore si è arroccato». E’ seduto su una sedia, molto invecchiato, molto stanco. Si esprime in tono basso, quasi parlasse a se stesso e con lo sguardo abbassato, con lunghi silenzi, ripetendo e riprendendo più volte alcune frasi: la vecchiaia (è vicino ai 92 anni), il suo peso nonostante non abbia malattie gravi, la stanchezza fisica e psichica che lo attanaglia.
Parlava e ricordava Valeria: rimanemmo commossi ascoltando dalla bocca di un uomo cui l’età aveva addolcito ma non spento una certa asperità di temperamento e che si è sempre tenacemente dichiarato un inguaribile pessimista, la potenza evocativa, la dolcezza, la freschezza, la forza con cui esprimeva il suo amore per Valeria, portata costantemente come vivente nel suo cuore. Noto alcune frasi, sebbene non ne ricordi l’ordine con cui vennero pronunciate: «E’ stato un amore purissimo, delicatissimo, dolcissimo». Si conobbero in montagna, a sciare. Valeria aveva 18 anni, lui 26. Lo colpì la sua purezza, la sua schiettezza. «Con Valeria, per Valeria, attraverso Valeria ho capito che cosa è la morte e che cosa l’amore». «Lei è presente, è qui nel mio petto. Continua ad amarmi».
Ascoltammo attenti il suo dettato, in cui lo sposo e l’uomo parlava con se stesso, con le sue profondità, con quelle profondità che esistono in ogni persona, tanto più vere in quanto sono aperte verso l’altro, e dove si trova il nostro io più autentico, all’incrocio di memoria, mente, volere, affetti. «Ho imparato che l’amore è più forte della morte. Amor omnia vincit», concluse piano.
Il Simposio di Platone. Tra ragione e follia
di Umberto Galimberti (la Repubblica , 11.04.2007)
Il Simposio di Platone è, tra i dialoghi del filosofo di Atene, il più vertiginoso perché mette in tensione l’ordine della ragione, che Platone ha inaugurato per l’intero Occidente, con l’abisso della follia che Platone definisce: “Più bella della saggezza d’origine umana”. Mediatore tra l’uno e l’altro mondo è Amore il cui compito è di tradurre e interpretare i messaggi della follia inaccessibili alla ragione e le parole della ragione incomprensibili alla follia.
Folle è il mondo degli dèi che, concedendosi a tutte le metamorfosi, non si attengono al principio di identità e di non contraddizione che sono i cardini della ragione. Del resto già Eraclito aveva detto che: “Il dio è giorno e notte, inverno e estate, guerra e pace, sazietà e fame, e si mescola a tutte le cose assumendo di volta in volta il loro aroma”, mentre “l’uomo ritiene giusta una cosa e ingiusta l’altra”, in una parola non mescola, come invece fa il dio, tutte le cose, ma istituisce quelle identità e differenze che, tra loro disgiunte e connesse, istituiscono l’ordine della ragione che è prerogativa dell’uomo e non del dio.
Accade però che nel Simposio Platone non considera l’anima razionale da lui inaugurata nella sola prospettiva dell’ordine a cui contribuisce. Sa infatti da quale caos l’ha evocata perché conosce le passioni che hanno alimentato la crisi di cui si è fatta interprete la tragedia, non ignora la temibile apertura verso la fonte opaca e buia di ogni valore sociale che chiama in causa il fondamento stesso della città, sa che la ragione e il sapere che la esprime si ottengono, come la buona armonia nella città, espellendo il katharma, il residuo del sacrificio, il rifiuto del discorso che non sta alla regola, ma sa anche che bisogna sacrificare agli dèi perché è da quel mondo che vengono le parole che poi la ragione ordina in sequenza non oracolare e non enigmatica. Per questo, nell’edificare il cosmo della ragione, il solo che gli uomini possono abitare, Platone non chiude l’abisso del caos, ma lo riconosce come minaccia e dono, come sede di parole incontrollabili, come dimora degli dèi, e perciò dice: “I beni più grandi ci vengono dalla follia naturalmente data per dono divino”.
Per Platone infatti anche la follia è un’esperienza dell’anima, nella consapevolezza che le esperienze dell’anima sfuggono a qualsiasi tentativo che cerchi di fissarle e disporle in successione ordinata perché, al di là di ogni ordine razionale, l’anima sente che la totalità è sfuggente, che il non-senso contamina il senso, che il possibile eccede sul reale, che ogni tentativo di comprensione totale emerge da uno sfondo abissale che è caos, apertura, spalancamento, disponibilità per tutti i sensi. Intermediario tra il mondo della ragione e il mondo della follia è Amore, per accedere al quale bisogna soffrire quella malattia che Socrate chiama “a-topia” e che noi potremmo tradurre con “dis-locazione”.
Per accedere agli abissi della follia che ci abita occorre infatti dislocarsi dal recinto protetto dalla ragione, abbandonare le dimore dell’io e, per non perdersi nella follia, occorre che ad accompagnarci sia l’amato, che noi amiamo proprio perché egli ha colto e in qualche modo riflesso la nostra follia. Amore, infatti, è sì un evento duale, ma non tra me e te, ma, grazie a te, tra il mio ordine razionale e l’abisso della mia follia.
«Che cosa avrà mai da dire sull’amore e su una vita da vivere in pienezza un teologo?», si chiede Jürgen Moltmann. «Non dovrebbe, il teologo, assumere atteggiamento distaccato da questo mondo e dalle sue gioie, per dedicarsi interamente alla ricerca di Dio?» Per nulla, risponde. Perché l’amore per Dio e l’amore per la vita sono due facce della stessa esperienza
Moltmann
Inno alla vita
Una vita non vissuta è quanto di più orribile ci possa accadere. È vita morta. E si tratta di esperienze negative che a tutti capitano. Ciò che importa è non subirle, ma elaborarle, per affrontare con rinnovato coraggio questa vita che merita di essere accettata ed amata. Ciò che rende umano il vivere dell’uomo è questo interesse per la vita che noi chiamiamo «amore»
di Jürgen Moltmann (Avvenire, 30.04.2007)
Che cosa avrà mai da dire sull’amore e su una vita da vivere in pienezza un teologo? Non dovrebbe, il teologo, assumere atteggiamento distaccato da questo mondo e dalle sue gioie, per dedicarsi interamente alla ricerca di Dio? Come potrebbe amare la vita e vivere l’amore, quando dovrebbe essere totalmente preso dall’amore per Dio? E se quel teologo fosse poi un prete, non ci attenderemmo da lui più una saggezza pastorale che conoscenze nell’arte di amare? Io comunque sono un teologo evangelico, da cinquant’anni felicemente sposato, con quattro figli e cinque nipoti.
Sono arrivato alla fede in Dio ed allo studio della teologia dopo aver attraversato le esperienze di morte della guerra e le depressioni dei campi di concentramento, quando iniziai ad amare di nuovo la vita. Quando, nella notte profonda di morte, confidai in Dio, io mi sentii rivivere. Quando mi risollevai da quella tenebrosa tristezza e ricominciai a vedere i colori, ad ascoltare le melodie ed a percepire nuovamente la vita, a fiutarla, a gustarla, io trovai anche Dio. Per me l’amore per Dio e l’amore per la vita sono due facce della stessa esperienza. Ed è proprio questa la tesi che ora vorrei motivare in chiave teologica e filosofica, partendo dalle esperienze che noi della vita facciamo.
La mia vuol essere anche una critica a quelle dissociazioni che si sono venute via via affermando a partire da Agostino e che ci sono ormai così familiari: tra amor e caritas, tra eros e agape, tra vitalità e spiritualità, tra amore carnale e amore spirituale, in breve: tra al di qua e aldilà. Quel Dio di cui intendo parlare per me è la forza dell’al di qua, non un punto di fuga nell’aldilà. Nel Dio creatore noi non rileviamo alcuna traccia di negazione della vita ma soltanto un’affermazione, la più intensa, della vita stessa. Dio è presente nel cuore della vita e noi ne avvertiamo la sua vicinanza con tutti i nostri sensi. Noi sentiamo Dio quando sentiamo la vita, e quando amiamo davvero la vita su questa terra a miamo Dio stesso.
Stando alle esperienze di Dio narrateci nella Bibbia, la benedizione divina intensifica ancor più lo slancio vitale, non attenua il piacere di vivere. Chi sperimenta la vicinanza dell’Eterno impara ad amare di più questa vita limitata e mortale, non a disprezzarla. Lo Spirito, nel quale Dio si rende presente, è la forza vitale delle sue creature, lo spazio in cui esse si possono sviluppare in tutte le dimensioni. E nello Spirito di Cristo si fa esperienza della forza vitale della risurrezione, di un amore che è più forte della morte e di una vita che la morte sconfigge. Nella benedizione di Dio e nella forza della risurrezione di Cristo la nostra vita, tanto limitata, fragile, malata e mortale, conosce una vitalità senza fine, una realtà degna di essere amata senza limiti [...].
È difficile definire la vita umana, se per vita dell’uomo non intendiamo soltanto il funzionamento dei suoi organi, il bios dunque, ma anche il carattere specificamente umano del vivere, la zoe. Ogni definizione, proprio perché tale, circoscrive l’uno ed emargina l’altro: Come circoscrivere la vita umana senza emarginare interi ambiti vitali? Proviamoci.
La vita umana non dev’essere soltanto generata e messa al mondo, ma anche accettata, affermata, amata dai genitori e dai nostri simili. Una vita generata può svilupparsi nella sua umanità soltanto nelle sfere sociali dell’accoglienza, dell’affermazione e dell’amore. Facile la controprova: i bambini non accettati, non affermati, non amati intristiscono, si ammalano, muoiono presto o non sviluppano mai correttamente il loro potenziale vitale.
Vita umana non è semplicemente quella vissuta per se stessi e alla giornata. Umanamente si è vivi nella misura in cui si è interessati alla vita e si partecipa all’altrui vita, la si accetta ed afferma, ci si apre ad essa disponibili a sperimentarla con tutti i propri sensi. E più ameremo la vita senza riserve, appassionatamente, usciremo da noi stessi e ci esporremo alle esperien ze che la vita ci offre, più saremo anche capaci di provare felicità, ma più intensamente proveremo anche i dolori del vivere, le delusioni, le preoccupazioni, le afflizioni, la morte. L’uno non è mai disgiunto dall’altro: più vitale è la gioia di vivere, più letale sarà anche la pena del morire. È il paradosso insolubile della vita umana: amare di più comporta fare esperienze più intense di entrambi: del gioire e del patire, del vivere e del morire. Controprova. Quando non si ama più, neanche se stessi, non ci si lascia coinvolgere in nulla, e tutto si appiattisce, si rimane indifferenti anche alla vita ed alla morte. Non si provano più dolori, preoccupazioni, afflizioni, certo, ma nemmeno si vive, irrigiditi dentro un corpo che pur continua a vivere.
Quando la speranza di vivere subisce continue delusioni, alla fine si rivolta contro il deluso e lo scarnifica. Quando si perde ogni prospettiva di lavoro, di amore, di una vita che valga la pena di essere vissuta, ci si dispera, si prova un moto di odio per se stessi e per tutti. Quando muore la speranza di vivere, s’incomincia ad uccidere. La disperazione e la violenza brutale che si mette in atto contro i più deboli, perfino contro se stessi, non sono che le due facce della stessa esperienza di vita non amata. La gioia di vivere si rovescia nell’autodistruzione che Sigmund Freud chiamava pulsione di morte.
Ma questa disperazione non si legge soltanto sul volto deformato del violento. La vita non amata si mostra anche nel silenzio, nella mancanza di un senso del vivere. Boujour tristesse! Ciò che della vita ancor rimane, allora, è quel disgusto che troviamo nei ricchi e belli di questo mondo. Taedium vitae: una vita vuota, priva di senso, capace soltanto d’intrattenersi in qualche modo con se stessa. «Voglio divertirmi», dicono, ma in realtà intendendo trastullarsi prima di morire, perché la vita è diventata per loro insipida, non offre più stimoli. È la "società del divertimento" che si sta affermando negli strat i sociali più agiati della nostra società. La vita ha perso ormai ogni suo senso e quindi si sente il bisogno continuo di intrattenimento. E così la vita si rende ancor più vuota, da trascorrere nelle noiose conversazioni di una sala d’aspetto. Ma questa vita meravigliosa può davvero scorrere come una conversazione senza senso in una sala d’aspetto?
La situazione peggiore, comunque, è quella che si determina in chi vorrebbe vivere ma non può, perché non ne ha le possibilità. Ciò che unicamente conta nelle società moderne è la prestazione, il successo. Chi è in grado di dare ciò che da lui ci si aspetta conta qualcosa, vale, e chi non ne è capace non conta nulla, è considerato un "fallito" (looser). E la pressione sociale in tal senso oggi è così forte che porta l’individuo ad identificarsi con la sua prestazione: io sono ciò che sono capace di fare, e proprio perché faccio qualcosa mi posso permettere qualcosa, ad esempio viaggiare in Alfa Romeo o in Mercedes, perché tutti vedano chi sono. È praticamente impossibile sfuggire alla pressione che ci porta a condividere il sistema di valori della società in cui viviamo. E così chi non ha un lavoro è convinto di non contare più nulla e che la sua vita non meriti più di essere vissuta. Come uscire da queste autocommiserazioni?
Il primo passo da fare è quello di aprire gli occhi sulla realtà di fatto. Il secondo è rompere il silenzio e parlarne. A Berlino si è costituita un’interessante associazione di disoccupati, il «Club dei perdenti», tutti individui che si danno una mano per rimettersi in carreggiata. L’ultimo passo è quello di ritrovare fiducia in se stessi e vincere le paure di un nuovo fallimento. È la volontà di sfruttare le possibilità che la vita ci offre, ovunque siano. E non necessariamente deve trattarsi di un’attività lavorativa, perché c’è vita anche oltre il lavoro.
Ma nelle esperienze negative della vita è possibile fare anche esperienze di Dio di segno positivo. Tutto il cristianesimo non è altro c he una testimonianza di esperienze della vicinanza di Dio fra le tenebre della morte, di esperienze della grazia in mezzo alle oppressione della colpa, di esperienze di rigenerazione alla speranza in mezzo alla disperazione, di esperienze di consolazione fra le tante preoccupazioni, di esperienze di grandi accoglienze in un mondo che ogni giorno nega la vita, e infine di esperienze di sentirsi amati fin dall’eternità pur in una vita che non si sente amata né rispettata.
La vita umana vive quando si sa affermata, riconosciuta, amata, e muore quando si sente negata, umiliata, resa insignificante. La donna forte del film Il mondo di Antonia dice: «Bisogna viverlo». Una vita non vissuta è quanto di più orribile ci possa accadere. È vita morta. E si tratta di esperienze negative che a tutti capitano. Ciò che importa è non subirle, ma elaborarle, per affrontare con rinnovato coraggio questa vita che nonostante le sofferenze che l’accompagnano merita di essere accettata ed amata. Ciò che rende umano il vivere dell’uomo è appunto questo interesse per la vita che noi chiamiamo «amore» [...].
Concludiamo con uno sguardo alla vita eterna. Ciò che nella tradizione cristiana s’intende per "vita eterna" non è una vita "dopo la morte" ma una vita contro la morte. È una vita talmente possente che è in grado di vincere - l’apostolo Paolo dice «annientare» - la stessa morte. Una "vita dopo la morte" può coesistere con la morte e con questa nostra vita mortale. Ma una vita eterna, scaturita dalla risurrezione dei morti, rende questa nostra vita mortale immortale e questo mondo transeunte imperituro, e bandisce la morte dal creato. Nella speranza personale della risurrezione dei morti e della vita eterna, come si confessa nel Credo apostolico, rientra pure l’aspettativa cosmica della «vita del mondo futuro» (Credo niceno). Entrambe si trovano riassunte nell’ultima, grandiosa visione biblica dell’Apocalisse (21, 4-5):
Dio tergerà ogni lacrima dai loro
occhi;
non ci sarà più la morte,
né lutto, né lamento, né affanno,
perché le cose di prima sono passate.
E Colui che sedeva sul trono disse:
«Ecco, io faccio nuove tutte le cose».
Ma creature finite e morali riescono a concepire una vita nuova, eterna, soltanto se sono in Dio e Dio è in loro, soltanto dunque se la sorgente eterna della vita e l’Essere eterno, l’Essere che si autoconferma, è in mezzo a loro, dove le differenze che pur esistono tra la sorgente della vita e le forze della vita, come tra l’Essere eterno e l’essere temporale, scompaiono e l’uno si mostra nell’altro. Ed allora tutte le creature partecipano dell’eternità del loro Creatore, ogni vivente partecipa della vita divina, ogni esistente sussiste nella forza dell’Essere eterno. È quella che noi chiamiamo eternità relativa, o partecipata. Ed è anche la grandiosa visione che di Dio la Bibbia delinea:
Ecco la dimora di Dio con gli uomini!
Egli dimorerà tra di loro
Ed essi saranno suo popolo
All’interno di questa inabitazione cosmica di Dio nel suo creato tutto ora diventa "nuovo". Nella nuova creazione tutte le creature partecipano, in massima spontaneità e pienezza, alla vitalità eterna di Dio. La pienezza della vita ora abita in mezzo ad esse. È questa la gioia infinita che Dio prova, o, secondo un’antica visione, è questo «il regno della gloria». È qui che si vivono tutti gli istanti di vita pienamente vissuta. E gli sguardi che in quella vita s’incrociano sono come i primi raggi dell’aurora del giorno di Dio che viene, per rimanere per sempre.
E la vita del nostro qui ed ora non varrebbe dunque la pena di essere infinitamente amata, di essere vissuta senza condizioni né riserve?!
Lo scrittore Martin Baum in un libro ha "tradotto" nello slang dei giovani 15 opere
"I Montecchi e i Capuleti erano sempre lì a scannarsi a Verona"
Shakespeare in versione coatta
"Giulietta, quella grande gnocca..."
Successo a Londra tra i giovanissimi, ma piace anche ai genitori
L’autore confessa: "Mi ha aiutato mio figlio di tredici anni"
LONDRA - "Verona era zona combattuta tra i Montecchi e i Capuleti. E siccome erano sempre lì a scannarsi eccetera, il principe di Verona gli aveva detto di darsi una calmata o qualcuno gli avrebbe fatto un c. così". Così incomincia "Romeo and his fit bitch Jools2" , tradotto "Romeo e quella gran gnocca di Giulietta", la versione in gergo chav (giovanile e coatto) della tragedia di Shakespeare, riscritta da Martin Baum, un 48enne del Dorset che in un nuovo libro ha tradotto in slang una serie di opere del Bardo.
Oltre alla storia di "Romeo e la sua gang" che si "imbuca" alla festa dei Capuleti dove conosce Giulietta, a essere riprodotti nel linguaggio di strada dell’Inghilterra del 21esimo secolo, sono stati diversi altri testi di Shakespeare, da "Tanto rumore per nulla", diventato "Tanto rumore per un cacchio", a "I due gentiluomini di Verona", in slang "I due tipi di Verona", fino a "Macbeth", trasformato in "Macbeff", (come viene pronunciato in gergo).
Secondo quanto riporta oggi il Sun, il Shakespeare chav sta avendo un gradissimo successo tra i ragazzini, oltra a fare ridere più di un genitore. "Sono uno scrittore e un autore di satire. Amo i classici e ho deciso così di riscrivere alcune delle opere di Shakespeare", ha dichiarato Baum, confessando di essersi fatto aiutare dal figlio 13enne Josh, più aggiornato sullo slang giovanile. "Credo che se una cosa serve a introdurre i ragazzi a Shakespeare allora si tratta di una cosa buona. Ne ho scritte 15 finora e adesso spero di realizzare un secondo libro con altre ancora. Ma la prossima sfida sarà con Dickens".
* la Repubblica, 25 aprile 2008
Una nuova biografia del più grande e misterioso bardo di tutti i tempi
Libri, l’enigma Shakespeare e altre vite straordinarie
di DARIO OLIVERO *
W. S.
Gli studiosi di Shakespeare hanno contato e registrato ogni inezia delle sue opere. Sono riusciti a dirci che contengono 138.198 virgole, 26.794 due punti e 15.785 punti di domanda; che nei lavori teatrali si parla 401 volte di orecchie; che l’espressione dunghill, mucchio di letame, viene usata dieci volte, mentre dullard, babbeo, ricorre due volte; che i suoi personaggi menzionano l’amore 2.259 e l’odio 183, la parola dannato compare 105 volte, maledetto 226. In tutto il Bardo ci ha lasciato 884.647 parole per 31.959 battute e 118.406 versi. Niente male. Se non fosse che del più studiato poeta di tutti i tempi non si conosce quasi nient’altro.
Pochissimo della giovinezza (una multa presa dal padre e accenni alla sua carriera di funzionario pubblico), nulla della donna che sposò e ancora meno di nulla di quando arrivò a Londra e nel giro di un decennio divenne il più grande di tutti. Così è andata a finire che gli studiosi più o meno onestamente hanno cercato di riempire quel buco troppo imbarazzante. Uno dei più laici è Bill Bryson che nel suo Il mondo è un teatro. La vita e l’epoca di William Shakespeare (tr. it. S. Bortolussi, Guanda, 15 euro) almeno dichiara fin da subito che i fatti noti sono quelli che sono e che tutto il resto è già grasso che cola se ha almeno una parvenza di plausibilità. In compenso si naviga attraverso Elisabetta e Giacomo, cattolici e puritani, congiura della polveri (ordita da un lontano parente di William), conciatori, appestati, teatri sul Tamigi, teatranti invidiosi e scomparsi e giganti come Marlowe e Ben Jonson, l’incendio e la ricostruzione del Globe, i sonetti per il grande amore gay.
In appendice, anche se l’autore inorridisce all’idea, un onesto elenco della cosiddetta scuola antistratfordiana, cioè la teoria di quelli (tra loro Sigmund Freud, Mark Twain, Henry James e Orson Welles, mica gli ultimi arrivati) che pensano che il grande S. non sia mai esistito se non come nom de plume di Bacone, Marlowe, il conte di Oxford, la stessa Elisabetta e così via.
* la Repubblica, 4 settembre 2008 (ripresa parziale).
Primo ciak a Venezia per la commedia giovanistica diretta da Volfango De Biasi
e ambientata ai giorni nostri. Una rilettura del Bardo a beneficio degli adolescenti...
Shakespeare? Un teen-movie
Chiatti-Vaporidis insieme per "Iago"
di CLAUDIA MORGOGLIONE *
L’IDEA di mettere insieme due tra i divi e sex symbol più amati dai ragazzini - lui Nicolas Vaporidis, lei Laura Chiatti - non è particolarmente originale. Ma a rendere interessante Iago, il film di cui sono entrambi protagonisti e che si comincia a girare domani a Venezia, è lo scrittore, e l’opera, da cui la pellicola è tratta. Ovvero William Shakespeare e uno dei suoi capolavori assoluti: l’Otello.
Proprio così: il Bardo diventa fonte diretta d’ispirazione per una commedia giovanilistica nostrana, destinata a un pubblico di ragazzi, sulla scia di una catena di successi degli ultimi anni, a partire da Notte prima degli esami. E che l’operazione sia esattamente questa, lo si capisce anche dall’autore del film: il regista e sceneggiatore è Volfango De Biasi, che si è imposto all’attenzione col successo al botteghino di Come tu mi vuoi. Teen movie interpretato dal solito Vaporidis, in coppia con Cristiana Capotondi, e che nelle sale ha incassato ben 8 milioni di euro.
Ma adesso, accanto a Nicolas, c’è lei, la bionda e fatale Laura Chiatti. Attrice più sfaccettata, interprete di film per adolescenti (vedi Ho voglia di te, accanto a Riccardo Scamarcio) ma anche di opere più complesse e d’autore, dall’Amico di famiglia di Paolo Sorrentino al Caso dell’infedele Klara di Roberto Faenza, che ha da poco finito di girare.
Stavolta, però, l’attrice si muove in un contesto decisamente più sbarazzino. Al centro del film c’è il personaggio del titolo: Iago, appunto (Nicolas Vaporidis), studente di architettura nella Venezia di oggi. Laureando di grande talento, ma di umili origini, il nostro eroe vede soffiarsi posto di lavoro e l’amata Desdemona (Laura Chiatti) da un raccomandatissimo figlio di papà, Otello: da qui la sua furia e la sua decisione di riprendersi la ragazza e la vita. Tessendo un fitto gioco di inganni e di tranelli...
Insomma, un rovesciamento dell’ottica di Shakespeare, in cui Otello diventa l’antagonista, e Iago una vittima di ingiustizie. Certo, qualche snob potrebbe pensare che il più grande commediografo della storia della letteratura potrebbe rivoltarsi nella tomba, di fronte a questo stravolgimento dei toni della sua tragicissima opera; ma la realtà è che non è certo la prima volta che le sue opere immortali vengono utilizzate in maniera, diciamo così, molto libera.
Comunque la pensiate, quel che è certo è che le riprese di Iago - prodotto da Claudio Saraceni per Ideacinema, Medusa e Cattleya - cominciano domani a Venezia, e dovrebbero durare, se tutto andrà secondo i piani nove settimane: quattro nella città della Laguna, una a Padova e quattro a Roma. Quanto all’uscita, una data di massima ancora non c’è, ma sicuramente sarà nel 2009. Per i fan di Vaporidis, della Chiatti, o di entrambi, sarà un appuntanento da non perdere.
Al di là del dibattito biografico sull’adesione o meno del Bardo inglese al cattolicesimo, un saggio esplora le tracce evangeliche nel «messaggio» della sua opera
Una presenza che, a partire dall’«Amleto», si fa via via sempre più evidente, fino alla «Tempesta
Shakespeare e la Buona Novella
DI ALESSANDRO ZACCURI (Avvenire, 31.10.2009)
« Lo sai chi è Shakespeare, ragazzo? Shakespeare è l’autore della Bibbia di re Giacomo». L’informazione che Leonardo DiCaprio riceve in Gangs of New York è tutt’altro che affidabile, eppure ha una sua verità, e non soltanto perché i due massimi monumenti della lingua inglese - le opere de Bardo e la ’ versione autorizzata’ della Sacra Scrittura - sono perfettamente coetanei, situandosi entrambi nel passaggio fra XVI e XVII secolo. No, la questione è più sottile e profonda, e riguarda quella che Harold Bloom ha definito « l’invenzione dell’umano » da parte di Shakespeare. Espressione fulminante, d’accordo, ma ancora incompleta rispetto al quadro che ora, in un saggio straordinario, Piero Boitani inserisce nella prospettiva di un ritrovato « cristianesimo naturale » .
Il libro si intitola Il Vangelo secondo Shakespeare ed è fondato sull’analisi dei cosiddetti last plays, gli ultimi testi del corpus shakespeariano, drammi in prevalenza romanzeschi la cui compattezza tematica è annunciata in Amleto e portata a compimento nella Tempesta. Due capolavori, fa notare Boitani, all’interno delle quali risuona in modo inequivocabile un amen di provenienza biblica, un « così sia » che, nel congedo del mago Prospero, insiste addirittura sulla clausola finale del Padre nostro: il perdono dei peccati, la liberazione dal male.
L’indagine sulle citazioni e allusioni scritturistiche in Shakespeare vanta una lunga tradizione erudita, di cui Boitani - docente di Letterature comparate alla Sapienza di Roma - tiene conto nella sola fase di documentazione, così come non si sofferma sulla questione, oggi molto dibattuta, della fede professata del grande drammaturgo, nei cui versi pure non mancano gli indizi di un’adesione al cattolicesimo.
A occupare la scena è invece la decifrazione della ’ buona novella’ che Shakespeare annuncia proprio a partire dalla tragedia del principe di Danimarca, quell’Amleto che desidera una ’consumazione’ niente affatto nichilista, ma indirizzata piuttosto a emulare il consummatum est della Passione. Non diversamente Lear, il re ridotto alla condizione di Giobbe, spera di poter vivere un giorno come « spia di Dio » , un’immagine nella quale si concentra tutta la complessità della teologia shakespeariana. Non si tratta, avverte Boitani, di un sistema coerente, quanto di una costruzione poetica che tuttavia, anche quando sembra sconfinare nel sincretismo ed eludere le questioni fondamentali ( l’esistenza di un Dio personale, anzitutto, su cui Shakespeare non si pronuncia mai in termini definitivi), trova perfetta corrispondenza con il cuore dell’annuncio evangelico.
Illuminante, in particolare, risulta l’interpretazione di Boitani a proposito dell’uso dell’agnizione, e cioè del riconoscimento, nell’ultimo Shakespeare. Si tratta di uno dei più antichi stratagemmi drammaturgici, per cui una persona creduta morta o semplicemente scomparsa torna a manifestarsi, ricomponendo il cerchio degli affetti e ristabilendo l’ordine di giustizia. Le agnizioni abbondano nei last plays, ma nessuna ha la forza perturbante del ritorno di Ermione nel Racconto di inverno . Una statua che prende vita, lasciando lo spettatore incerto tra lo stupore per l’incantesimo e la meraviglia per il miracolo. La risurrezione, il destino del corpo, il ruolo decisivo che - come già nei racconti della Pasqua - le donne assumono nella stagione estrema del teatro shakespeariano. Un Vangelo, insomma, che non soltanto ’ inventa’ l’umano, ma lo restituisce a se stesso, trasformandolo e salvandolo.
Piero Boitani
IL VANGELO SECONDO SHAKESPEARE
Il Mulino. Pagine 176. Euro 15,00
Letteratura
Shakespeare era cattolico. Ecco le prove
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 10 settembre 2011)
Certo che “indulgenza” è una ben strana parola di commiato per un poeta protestante. Ma come, non era iniziato tutto da lì, da Lutero che contestava, appunto, la validità delle indulgenze concesse dal Papa? Eppure indulgence è proprio il termine su cui poggia l’ultimo verso dell’ultima opera di William Shakespeare, La tempesta. È il famoso addio del mago Prospero, trasparente alter ego dello stesso drammaturgo, che si congeda dal pubblico e intanto implora preghiere, misericordia, perdono dei peccati, evocando un impianto dottrinale clamorosamente estraneo agli insegnamenti della Chiesa anglicana. Come se non bastasse, Prospero ha appena riconquistato il titolo di duca di Milano, la città che, grazie a san Carlo Borromeo, è diventata la capitale della Riforma cattolica.
Indizi troppo labili, si dirà, per rilanciare la tesi del cattolicesimo professato in segreto dal Bardo dell’Avon. Ma la documentazione esibita da Elisabetta Sala nel corposo L’enigma di Shakespeare (in uscita dalle Edizioni Ares, che già hanno pubblicato due importanti saggi dell’anglista: L’ira del re è morte ed Elisabetta la “Sanguinaria”) è talmente ampia e dettagliata da mettere alla prova anche gli scettici più inveterati. Del resto, recentemente perfino il primate anglicano, l’arcivescovo Rowan Williams, ha affermato di considerare più che probabile la cattolicità del poeta.
Parlano i testi, ma parlano anche i fatti della vita di Shakespeare e della sua famiglia. Già il padre, il guantaio John, ha tutta l’aria di essere un “ricusante”, e cioè un dissidente cattolico che rifiuta di sottomettersi alla Chiesa scismatica istituita da Enrico VIII. E “ricusanti” sono i nobili ai quali William si lega per la sua avventura umana e artistica. I Montague, per esempio, il cui cognome sostituisce quello dei Montecchi nel copione di Romeo e Giulietta. Apparteneva alla loro cerchia, e non solo per motivi di parentela, lo stesso conte di Southampton, probabile destinatario della prima serie dei Sonetti: una figura storicamente molto diversa dal magnifico giovinastro caro a una tradizione che risale, al più tardi, a Oscar Wilde.Ma torniamo alle opere di Shakespeare che, pur nella loro strepitosa varietà di generi e di toni, sembrano seguire uno schema fisso, evidente anche in capolavori come Amleto. Un evento traumatico (non di rado una tempesta, immagine che nella trattatistica dell’epoca allude allo scompiglio provocato dalla Riforma) ha cancellato il passato, scatenando dissidi e incertezze. Davanti all’incrudelirsi della sorte, l’unica possibile soluzione è affidata all’intervento di un potere esterno, spesso un’invasione militare “benevola” così come doveva apparire ai ricusanti inglesi la sperata - e mai realizzata - vittoria della Spagna cattolica nel duello navale con l’Inghilterra di Elisabetta. La regina, a sua volta pare fare da modello alla galleria di femmine dispotiche, o anche solo bisbetiche, tanto frequenti in Shakespeare.
Sconfitti e perseguitati, i protagonisti cercano nascondigli, cambiano identità, praticano insomma l’arte dell’“equivocazione”, un concetto che dal punto di vista letterario rappresenta un’evoluzione delle ambiguità care al manierismo, ma che nel concreto rimanda all’attività dei missionari cattolici in territorio britannico. I quali, in caso di cattura, erano invitati a proteggere la loro vita introducendo una riserva mentale nelle risposte date durante l’interrogatorio (alla domanda «Hai celebrato Messa?», il sacerdote poteva rispondere «No», intendendo «Non oggi»). Un confronto tra alcuni dei passaggi più oscuri di Shakespeare e i testi di autori spirituali quali il martire gesuita Robert Soutwhwell offre chiavi di lettura sorprendenti, tra cui va annoverata la decifrazione di quel «spie di Dio» messo in bocca a re Lear.
Un’espressione incomprensibile, se pensiamo che Shakespeare volesse compiacere la Corona. Ma che diventa chiarissima se accettiamo che Will in persona si sia considerato, per tutta la sua vita, un poeta segreto, un teatrante in missione per conto di Dio.
Elisabetta Sala, L’enigma di Shakespeare, cortigiano o dissidente?, Edizioni Ares. Pagine 464. Euro 24,00
Alessandro Zaccuri
Shakespeare
AMLETO.
UN EROE MOLTO MODERNO.
il personaggio e le sue diverse incarnazioni
DI NADIA FUSINI*
Non sempre mi sento ben disposta verso i nostri predecessori per il mondo che ci hanno lasciato. Ma ci sono certi atti e fatti che festeggio, come quel giorno del 26 luglio del 1602 quando un tale James Roberts, stampatore, iscrisse all’ Albo della corporazione dei cartolibrai - lo Stationer’ s Register - «un copione intitolato La vendetta di Amleto Principe di Danimarca così come è stato recentemente rappresentato dai servitori del Lord Ciambellano». James Roberts doveva essere un uomo di fiducia della compagnia, aveva registrato altri drammi di Shakespeare. Era a quanto pare un tipografo importante; possedeva i diritti di stampa delle locandine teatrali di Londra e condivideva con un certo Richard Watkins il copyright degli almanacchi e degli oroscopi, insieme alla Bibbia i veri bestseller dell’ epoca. Ma non doveva essere particolarmente interessato a stampare drammi, che non vendevano più di mille copie, e per tale motivo, forse, l’ anno dopo cedette il copyright. O forse no, forse quella registrazione cautelativa, per assicurarsi che altri non pubblicassero una versione non autorizzata, fu una precauzione inutile, e a nulla valse.
Fatto sta che nel 1603 comparve presso gli editori Nicholas Ling e John Trundle e per i tipi di Valentine Simmes «La tragica Storia di Amleto Principe di Danimarca, di William Shakespeare; rappresentata diverse volte dai servitori di Sua Maestà nella città di Londra, come pure nelle due Università di Cambridge e Oxford, e altrove». Simmes era uno stampatore molto sciatto e poco rinomato e difatti questa edizione - la prima in quarto - è molto carente, ridotta, diversa da quella che conosciamo, la quale si basa su un testo che comparve a stampa nel 1605, questa volta per i tipi di Roberts, presentandosi come «nuova edizione aumentata quasi del doppio della precedente, secondo il testo autentico e integrale». Autentico e integrale è una vanteria bella e buona; di certo è un testo ampio e nel complesso accurato, ancora differente rispetto a quello che verrà pubblicato nell’ in-folio del 1623, che sembra essere un «trattamento» intermedio.
Il punto è che a quei tempi i testi dei drammi non erano considerati testi letterari. Erano semplici documenti teatrali, molti dei quali sono in realtà sopravvissuti per caso alla distruzione cui erano destinati. Della quarantina di drammi che Shakespeare scrisse o alla cui stesura collaborò, soltanto quattordici furono pubblicati lui ancora in vita. Il Tito Andronico, il primo dei suoi drammi a vedere la luce della stampa, comparve senza neppure il suo nome sul frontespizio, altri portavano il suo nome, ma lì mancava un verso, lì cambiava un nome. Non fa meraviglia tale stato di cose. E’ in effetti difficile esagerare la confusione di una stamperia in epoca elisabettiana e giacomiana. Il rumore delle macchine, gli schizzi d’ inchiostro per terra, il puzzo di urina - perché pare che per mantenere umidi i tamponi nottetempo i tipografi impregnassero la pelle di urina umana - mosche dappertutto. Non era facile stare attenti. In più, certi testi arrivavano per via traverse. Lope de Vega racconta di un mestiere tipico a quei tempi, in effetti niente male: c’ era gente prezzolata che andava a teatro e mandava a memoria scene su scene per poi trascriverle e vendere il testo così rappezzato a un’ altra compagnia. Ma anche quando era la compagnia stessa a fornire il testo, non si trattava quasi mai del copione in uso per la rappresentazione, ma di una qualche prima stesura manoscritta dell’ autore, piena di correzioni; oppure la bella copia di un amanuense prezzolato, che aveva le sue preferenze ortografiche, o di punteggiatura, e laddove non capiva la mano dell’ autore non aveva remore dall’ intervenire. Non c’ era in nessuna forma l’ idea della sacralità del testo, non di quello drammatico - ripeto. -Come che sia quel 26 luglio di ormai ben quattro secoli fa, grazie a uomini sconosciuti fu salvato un testo, senza il quale non è retorica dire che la nostra tradizione sarebbe stata differente. Perché Amleto non è solo un mito moderno - ovvero, uno dei grandi eroi inventati nell’ epoca moderna, lui e Don Giovanni; Amleto è una forma dello spirito, è un modo di essere, una consapevolezza, una coscienza. Non a caso da lui è stato coniato un aggettivo: amletico. E’ come se si riconoscesse un’ essenza - l’ amletismo - essenziale, per l’ appunto, a individuare un tratto umano, esistenziale, che comincia a esistere con l’ epoca moderna. Non si trova nella reggia di Tebe, ma in quella di Elsinore, e di Londra.
A Londra all’ inizio del ’600 nasce Amleto; ovvero, il prototipo di un eroe che agisce di rinvio. Ritarda. Differisce. E quando arriva all’ azione, è nel modo caotico di un atto inconcludente, con la finale investitura di Fortebraccio, il figlio del nemico, che come un asso pugliatutto arriva e vince la partita. In fondo, non farà diversamente nella realtà l’ amletica regina Elisabetta, quando darà la sua dying voice, il suo voto di morente, al figlio di quella Stuarda, sua nemica, sua rivale, che lei stessa aveva mandato a morte.
Non abbiamo prove che Elisabetta mai vide una rappresentazione del dramma, ma io non dubito che lo aveva letto, ne aveva sentito parlare, ne aveva parlato, se non con altri col suo fedele figlioccio Jack, traduttore del Furioso in Inghilterra. E’ certo che lo rappresentarono nel Palazzo reale di Hampton Court per Giacomo di Scozia, quando giunse a insediarsi su quel trono, per avere il quale aveva acconsentito a che la madre venisse giustiziata. E dovette essere una bella rappresentazione, forse con Shakespeare nella parte del fantasma, perché pare che quello fosse il suo ruolo. E Richard Burbage nel ruolo del figlio Amleto.
Una rappresentazione senz’ altro interessante, perché per Giacomo Stuart se Gertrude fosse o no complice dell’ omicidio del re consorte era una questione scottante, sua madre la Stuarda essendo stata cacciata dal regno di Scozia con l’ accusa di avere tramato l’ assassinio del marito, quel miserabile Lord Darnley che le aveva ammazzato su due piedi l’ amante, l’ italiano David Riccio, mentre quello le si stringeva alle gonne, quasi lei fosse una Madonna di Misericordia, e urlava: «Madonna, io sono morto, giustizia, giustizia!». Maria era incinta di Giacomo e si prese un bello spavento. Dopodiché si vendicò. Si invaghì del conte di Bothwell, un tipo violento e protervo, il quale come prova d’ amore le fece fuori il marito. Lei non ammise mai di aver comandato il delitto, ma come la madre di Amleto non rispettò le formalità del lutto e nemmeno tre mesi dopo, sposò Bothwell. «Economia, economia», spiega Amleto all’ amico Orazio: «Le pietanze arrostite del banchetto funebre non erano ancora fredde, che furono servite al matrimonio».
La storia della Stuarda e Riccio e Bothwell era come ai nostri tempi la storia di Lady Diana e Dodi al Fayed; tutti avevano la loro idea sul tipo di intrigo che c’ era dietro.
Certamente anche Shakespeare, il quale però di fronte a Giacomo non poteva schierarsi apertamente con chi sosteneva che la Stuarda, ebbene sì, era una femme fatale, una vera e propria Elena di Troia. Né d’ altra parte poteva fare finta di niente, se non voleva irritare il suo pubblico popolare. Così lasciò tutto nell’ ambiguità. E’ colpevole Gertrude? Sì, no. Il fantasma stesso invita a non indagare. Del resto, a che servirebbe? La donna è sempre colpevole, in quanto madre. E sempre innocente. «Fragilità, il tuo nome è donna», commenta Amleto. Il quale è sì uomo, ma soprattutto figlio. E tale rimane, non progredisce. E’ in quanto figlio che Amleto si iscrive nella galleria degli eroi che inaugurano i tempi moderni.
Con Amleto si compie un passaggio come dall’ Antico al Nuovo Testamento; si instaura la nuova alleanza tra la creatura e il suo creatore, tra il presente di chi nasce e l’ anteriorità del suo passato. E’ il mondo del figlio che si apre, dove il figlio salva il padre, e non viceversa, col suo sacrificio. Potremmo avere dubbi sulle virtù redentive di Amleto, visto il suo indugio e il disastro finale; ma si dovrà riconoscere che se Amleto agisce (e lo fa), non è per sé; è per salvare il mondo del padre. Lui di suo tornerebbe volentieri a Wuttenberg, a studiare filosofia. Se resta a Elsinore, non lo fa per vocazione. E’ una missione. -E’ in questa chiave - nel rapporto tra vocazione e missione - che il suo fantasma aleggia sulle decisioni del Wilhelm Meister, quando nei suoi anni di apprendistato lo assume a modello.
Sempre il suo fantasma abita la fantasia di Stephen Dedalus, che nel capitolo intitolato a «Scilla e Cariddi» dell’ Ulisse, si arrovella intorno al «mistero della paternità». Parte anche lui dall’ affermazione goethiana che vede Amleto come «il bel sognatore inefficiente che si infrange contro la dura realtà», per fissare a occhi spalancati l’ enigma della "generazione" paterna; una generazione senza corporeità, «uno stato mistico, una successione apostolica». «L’ amor matris, genitivo soggettivo e oggettivo, questa è l’ unica cosa vera della vita», elucubra Stephen. «La paternità è una finzione legale». Come a dire, il padre è un nome.
Ma non è forse nel nome del padre e del figlio che si regge il mondo? (Ancora?) A questo serve Amleto: a ricordarlo. Amleto è il fantasma che agisce questa verità: il padre - vivo o morto - comanda. Del suo nome è fatta la Legge. Insieme, in Amleto affascina una certa svogliatezza. Di suo, Amleto non si illude riguardo al valore dell’ azione. E’ questo aspetto che risorge in certi eroi tipo Rudin di Turgenev: intelligente, perspicace, ma ossessionato dalla propria inutilità, Rudin è il tipo che di Amleto riprende la posa da clown, piuttosto che di principe. Come fa Prufrock di T. S. Eliot, che afferma senza indugio che no, lui non è il principe Amleto. Come fanno certi personaggi cecoviani, che rammentano Amleto per dirne l’ impossibile resurrezione. Ivanov lo confessa: «Mi sento morire di vergogna al pensiero che io possa diventare un Amleto...». Orfani e incerti della propria missione, i personaggi di Cecov - da Ivanov, a Costantino, a zio Vania - riprendono di Amleto la posa apatica; quando Amleto dice che no, a lui non piace il mondo, gli fa schifo, schifo... Nella posizione dell’ uomo problematico risorge in Tonio Kroger, il quale si sente «predestinato e dannato» - appunto come Amleto, quando grida: maledetta sfiga, ma proprio a me doveva toccare di nascere per rimettere le cose a posto? Che è pressappoco quello che dice, quando il fantasma del padre gli chiede la vendetta. Proprio a me? Poi lo fa, ubbidisce. In una delle sue ultime incarnazioni, quella beckettiana di Finale di Partita, Amleto è Hamm e non vendica il padre, ma si vendica del padre. Prima o poi così doveva chiudersi la partita. Che però non è finita.