FILI DI ’FUGA’ INTORNO A UN ROCCHETTO. Tracce per una discussione...*
Freud, in Al di là del principio di piacere, riporta il caso di un bambino di un anno e mezzo che non piangeva mai quando la sua mamma lo lasciava per alcune ore, "sebbene fosse teneramente attaccato a questa madre che non solo lo aveva allattato di persona ma lo aveva allevato e accudito senza aiuto esterno".
"Ora questo bravo bambino aveva l’abitudine - che talvolta disturbava le persone che lo circondavano - di scaraventare lontano da sé in un angolo della stanza, sotto il letto o altrove, tutti i piccoli oggetti di cui riusciva a impadronirsi, talché cercare i suoi giocattoli e raccoglierli era talvolta un’impresa tutt’altro che facile. Nel fare
questo - continua Freud - emetteva un «o-o-o» forte e prolungato, accompagnato da un’espressione di interesse e soddisfazione; secondo il giudizio della madre, con il quale concordo, questo suono non era una interiezione, ma significava «fort» («via»). Finalmente mi accorsi - commenta sempre Freud - che questo era un giuoco, e che il bambino usava tutti i suoi giocattoli solo per giocare a «gettarli via».
Un giorno feci un’osservazione che confermò la mia ipotesi. Il bambino aveva un rocchetto di legno intorno a cui era avvolto del filo. Non gli venne mai in mente di tirarselo dietro per terra, per esempio, e di giocarci come se fosse una carrozza; tenendo il filo a cui era attaccato, gettava invece con grande abilità il rocchetto oltre la cortina del suo lettino in modo da farlo sparire, pronunciando al tempo stesso il suo espressivo «o-o-o»; poi tirava nuovamente il rocchetto fuori dal letto, e salutava la sua ricomparsa con un allegro «da» («qui»).
Questo era dunque il giuoco completo - sparizione e apparizione - del quale era dato assistere di norma solo al primo atto, ripetuto instancabilmente come giuoco a sé stante, anche se il piacere maggiore era legato indubbiamente al secondo atto (S. Freud, "La tecnica psicoanalitica", Torino, 1979, pp. 221-222).
Fachinelli nella sua lettura del gioco (E. Fachinelli, "La Freccia Ferma. Tre tentativi di annullare il tempo", L’erba voglio, Milano 1979, pp. 33-39) opera un lieve e originale spostamento, interpreta il «fort» («via») e il «da» («qui», come «non ora» e «ora». Tale interpretazione, pur nell’apparente arbitrarietà completa creativamente il resoconto di Freud e permette di puntualizzare alcuni fatti fondamentali:
1. "nel bambino, l’ordine di successione temporale non è inizialmente differenziato dall’ordine di successione spaziale" (p. 38) e, pertanto, coincidono.
2. Il gioco del bambino è "quasi il gioco di un dio che battendo il piede crea e distrugge l’universo di cui è padrone" (p. 33).
3. "L’annullamento onnipotente, presente nel bambino osservato da Freud, avviene istantaneamente, nel puro ritmo del movimento del braccio e del suono della voce" (p. 45).
Freud, in un passo del tutto trascurato dai vari commentatori, lancia - in modo ’sorprendente’ - il discorso fuori dal campo di azione del bambino; "L’interpretazione del giuoco - egli scrive - divenne ovvia. Era in rapporto con il grande risultato di civiltà raggiunto dal bambino, e cioè con la rinuncia pulsionale (rinuncia al soddisfacimento pulsionale) che consisteva nel permettere senza proteste che la madre se ne andasse. Il bambino si risarciva, per così dire, di questa rinuncia, inscenando l’atto stesso dello scomparire e del riapparire [della madre, fls] avvalendosi degli oggetti che riusciva a raggiungere (op.cit., 222-223).
Unite, queste due linee d’interpretazione lasciano intravedere un punto di fuga che sembra aprire a suggestive implicazioni e dare al "caso" stesso un respiro eccezionale: a un anno e mezzo il bambino ’conosce’ - più di quanto Freud non immagina - le fondamenta della sua civiltà.
Esplicitiamo e chiariamo questo rapporto fondamentale (Emanuele Severino ci dà il suo aiuto), confrontando i tratti specifici dell’operare del bambino con quelli della metafisica della tradizione occidentale:
1. Platone, Simposio, pf. 205: Ogni atto per cui una cosa passa dal non essere all’essere: creazione (poiesis, pro-duzione, portare alla presenza):
2. "l’elemento decisivo del pensiero greco è l’apertura del mondo inteso come luogo dove le cose escono e ritornano nel nulla, quindi come luogo di dominio" (E. Severino, Intervista, "Lotta Continua", 09.03.1980);
3. "Il concetto fondamentale di tempo, anche se la scienza e la cultura occidentali non se ne rendono perfettamente conto, è quello in cui ’le cose hanno a che fare con il senso dell’essere e del niente’ illuminato dall’ontologia greca. Il tempo è la nientificazione delle cose: il loro uscire e ritornare dal niente (E. Severino,cit.);
4. "Per gli abitatori del tempo ... l’ente è ciò che esce e ritorna nel niente. Quando non ne era ancora uscito era un niente; quando vi ritorna è daccapo un niente. Ma solo perché l’ente è nel tempo - cioè solo perché l’ente è pensato e vissuto come un niente - può sorgere il progetto di guidare l’oscillazione dell’ente tra l’essere e il niente. Solo sul fondamento del tempo è possibile il dominio dell’ente. E, nell’apertura del tempo, la nascita del progetto di dominio e di sfruttamento dell’ente non solo è possibile, ma è inevitabile" (E. Severino, "Gli abitatori del tempo", Roma 1978, p. 31).
Fachinelli, nella lettura del gioco del bambino, condizionata dalla stessa ricerca - centrata sul tempo - preferisce mettere in evidenza e tematizzare più ciò che "funge da supporto per l’atto di annullamento" (op. cit., p. 45) - l’agire o rito ritmico - che l’annullamento stesso.
Chi, invece, mette al centro dell’indagine proprio l’annullamento è Massimo Fagioli, con la sua particolare attenzione al fatto che il bambino fa scomparire addirittura se stesso: "Un giorno la madre - scrive Freud, in una nota aggiunta al resoconto del gioco - era rimasta fuori casa per parecchie ore, e al ritorno venne accolta col saluto «Bebi (= il bambino) o-o-o!», che in un primo momento parve incomprensibile. Ma presto risultò che durante quel periodo di solitudine il bambino aveva trovato un modo per farsi scomparire lui stesso. Aveva scoperto la propria immagine in uno specchio che arrivava quasi al suolo, e si era accoccolato in modo tale che l’immagine se n’era andata «via»" (S. Freud, op. cit., p. 223).
L’elaborazione del concetto di "fantasia di sparizione" di Massimo Fagioli, formulato come insorgenza dell’istinto di morte e, nello stesso tempo, come fantasia di «aggressività» contro la situazione presente, è di rilevanza enorme perché sembra aprire (cfr. "Istinto di morte e conoscenza", in particolare tutto il cap. II, Roma 1972) un varco formidabile - quanto più la fantasia di sparizione è "unita alla libido-piacere" (op. cit., p. 57) - nel muro delle dinamiche di introiezione e proiezione (alla base del ’gioco’ identificatorio, nel quale lo stesso bambino è ’gettato’ dalla madre) in direzione di un cammino e un pensiero autonomo, che sorpassi lo Scilla-Cariddi del sado-masochismo.
Ciò che il gioco del rocchetto illumina non è solo il comportamento del bambino che si avvia a diventare essere umano (capace di intendere e di volere) ma anche il comportamento stesso della madre nel rendere possibile al bambino - alla luce della relazione dialogica, chiasmatica (già avviata) - il capovolgimento dialettico (Hegel) del rapporto, ’giocare’ a fare la madre con sé stesso e, al contempo, assisterlo nel processo di ’nascita’ di sé a sé stesso e portarsi al di là del giogo di Narciso e di Edipo e Giocasta.
Con il grido «Bebi o-o-o!», il bambino è diventato la ’madre’ e la madre diventa un "Bebi" senza madre. In questo ’giocare’ emerge con chiarezza l’importanza, come sostiene Fagioli, del ben coniugare la fantasia di sparizione, la libido, e la conoscenza, e, al contempo, la necessità del comprendere che a "far sparire l’oggetto sadico, causa della propria condizione masochistica o di castrazione, è il pensiero ’logico’ derivato" (op.cit., p. 44) - non si tratta di "simbolizzazione primordiale", come pretende Lacan ("Scritti", Torino 1974, p. 571). E, non ultimo, che restare - intelligentemente o meno - dentro l’orizzonte teorico freudiano (il caso in esame lo investe fin nelle fondamenta) significa poi autocondannarsi a stravolgere (o ad assolutizzare, quanto meno) la realtà sotto gli occhi e a rafforzare inconsapevolmente il nichilistico corso della nostra stessa civiltà.
K. Marx, in una pagina famosa dell’Introduzione del 1857, interrogandosi sul rapporto dell’arte greca con l’età presente, scrive: "la difficoltà non sta nell’intendere che l’arte e l’epos greco sono legati a certe forme dello sviluppo sociale. La difficoltà è rappresentata dal fatto che essi continuano a suscitare in noi un godimento estetico e costituiscono, sotto un certo aspetto, una norma e un modello inarrivabili".
Marx continua: "Un uomo non può tornare fanciullo o altrimenti diviene puerile. Ma non si compiace forse dell’ingenuità del fanciullo e non deve egli stesso aspirare a riprodurre, a un altro livello, la verità? (...) E perché mai la fanciullezza storica dell’umanità, nel momento più bello del suo sviluppo, non dovrebbe esercitare un fascino eterno come stadio che più non ritorna? Vi sono fanciulli rozzi e fanciulli saputi come vecchietti.
Molti dei popoli antichi - prosegue sempre Marx - appartengono a questa categoria. I greci erano fanciulli normali. Il fascino che la loro arte esercita su di noi non è in contraddizione con lo stadio sociale poco o nulla sviluppato in cui essa maturò. Ne è piuttosto il risultato, inscindibilmente connesso con il fatto che le immature condizioni sociali in cui essa sorse e solo poteva sorgere, non possono mai più ritornare" (K. Marx, "Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica", Firenze 1968, p. 40).
La connessione emersa tra il gioco del rocchetto del nipotino di Freud e la metafisica greca, e l’ipotesi marxiana che noi siamo ancora fermi nell’orizzonte dei greci, non invalida e neutralizza la spiegazione dello stesso Marx e, addirittura, non mostra noi stessi ancora fanciulli?!
Discutere oggi e di nuovo sul gioco del rocchetto potrebbe essere un’ottima occasione per capire qualcosa in più del nostro ’destino’ e, forse, constatare che Emanuele Severino ha più ragione di quanto non sembri nel suo dire: "I mortali sono la Gioia del Tutto, ma credono di essere mortali, padroni e creatori. Sotto la coltre che li copre brilla la Gioia del Tutto: la Gioia è l’inconscio essenziale dei mortali: la coltre è la follia estrema, ossia la loro fede, ciò che essi credono di vedere e di fare (E. Severino, Intervista, cit.); e, infine, nel riconsiderare l’indicazione parmenidea: "Non distaccherai l’essere dalla sua connessione con l’Essere".
* Federico La Sala (1980).
Psicoanalisi: "[...] Il paradosso di Freud è stato quello di tentare una scienza dell’individuo [...]. E se il suo tentativo può dirsi, in parte, riuscito, ciò si deve al fatto che la sua non è stata una ricerca individualizzante; non è stata una ricerca di psicologia, nel senso stretto, nel senso classico della psicologia individuale. E’ stata sin dal principio una rilevazione dei nessi, dei rapporti peculiari attraverso i quali passa l’individuo singolo dalla sua nascita, e attraverso i quali egli si forma come individuo. In questo senso il termine psicoanalisi, da lui dato al campo di ricerca da lui dato al campo di ricerca messo in luce, è fuorviante, significa un aggancio e un compromesso con la disciplina accademica chiamata psicologia [...] Con Freud, invece si apre il campo di una ricerca sui rapporti interindividuali; comincia una sorta di nexologia umana (dal latino nexus: legame, intreccio), che include il corpo come parte in causa e interlocutore. Di essa, la psicoanalisi comunemente intesa è solo un momento parziale, limitato, anche se di grande fecondità. La sua prima linea di sviluppo, non l’unica, è in direzione dell’analisi della struttura familiare" (cfr. E. Fachinelli, "Il paradosso della ripetizione","L’erba voglio" - Rivista, n. 5, 1972; poi, in E. F., "Il bambino dalle uova d’oro", Feltrinelli, Milano, 1974).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA FRECCIA FERMA. L’ITALIA IN PREDA A UNA GRAVE E PROFONDA NEVROSI OSSESSIVA (BELFAGOR, 3, 1980, pp. 363-365).
NOTA (2022)*
Antropologia Filologia e Ricapitolazione: il sorgere della Terra, il punto fermo di una epocale inversione logico-storica.
AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE (Cantico dei cantici, 8.6). L’amore non è lo zimbello del tempo...
QUESTIONE ANTROPOLOGICA: ECCE HOMO. L’ Amore "vince tutto": MA quello antropologico-evangelico di Gesù o quello andrologico di Paolo di Tarso ("di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio": 1 Cor. 11, 1-3)?!
SE DIO è amore ("Deus charitas est"), e "non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" ("non est Iudaeus neque Graecus, non est servus neque liber, non est masculus et femina; omnes enim vos #unus estis in Christo Iesu" - Galati, 3.28), NON "È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010)?!
A che gioco giochiamo, ancora?!
Non è ora di uscire dal tunnel (Dante Alighieri, Inf. XXXIV, 90)?!
Dopo Tebe, l’enigma della sfinge di Edipo non è stato risolto nemmeno con l’andata di Freud e Jung negli Usa! E l’intera umanità non ha ancora compreso né come nascono i bambini né che cosa significa vedere e aver visto il sorgere della terra!
* (07 Gennaio 2022)
NOTA (2022) **
SORGERE DELLA TERRA, ANTROPOLOGIA E URGENZA DI UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA:
“Conoscere se stessi è l’inizio di ogni saggezza”, così Aristotele. Ma, dopo il "maestro di color che sanno", ogni essere umano di ogni Accademia è rimasto all’Inferno (IV, 131) ad ascoltare le lezioni degli antichi e nessuno ha più ritrovato la "diritta via" (Dante 2021)?!
ANTROPOLOGIA. Siamo ancora fermi alla piramide del Sapiente (1510) di Bovillus (Charles de Bouelles).
LA RIVOLUZIONE FRANCESE, NAPOLEONE, E HITLER. Marc Bloch così concludeva la sua riflessione sulla strana disfatta (1940): «Hitler diceva, un giorno, a Rausching: "Facciamo bene a speculare più sui vizi che sulle virtù degli uomini. La Rivoluzione francese si richiamava alla virtù. Sarà meglio per noi fare il contrario". Si perdonerà a un Francese, cioè a un uomo civile - che è la stessa cosa - di preferire, a questo insegnamento, quello della Rivoluzione e di Montesquieu: "In uno Stato #popolare è necessaria una forza, che è la virtù"»(Marc Bloch, "La strana disfatta. Testimonianza scritta nel 1940").
UNA SEDUTA DI "PSICOANALISI" NEL "LABORATORIO" DI GALILEO GALILEI: LA SCOPERTA DEL PRINCIPIO DI INERZIA (PRINCIPIO DI RELATIVITÀ GALILEIANA), E LA NUOVA LOGICA DELLA RICERCA SCIENTIFICA:
L’ALBA DELLA MERAVIGLIA. Non è, forse, il caso di ripensare l’esperimento della nave e riprendere a tutti i livelli - al di là della logica edipico-socratica e platonico-aristotelica - il dialogo e la navigazione di Giasone e Ulisse sulla diritta via di Dante e di una seconda "rivoluzione copernicana" con Kant e, finalmente, riammirare con rinnovata gioia il Sorgere della Terra, il pianeta natìo dell’intero genere umano, passato e presente?
(28.03.2022).
LE 21 DONNE DELLA COSTITUENTE |
#CRITICA DEL #SOGNODAMORE DELLA #RAGIONEOLIMPICA (#PLATONE) E DELL’#AVVENIRE DI UNA #ILLUSIONE (#Freud). Con #DanteAlighieri, #GalileoGalilei, e #Kant, oltre la #dialettica di #Prometeo ed #Epimeteo. In #memoria di #FrancaOngaro #Basaglia, "contro tutti i muri"...
#SAPEREAUDE! (#KANT, #KOENIGSBERG 1784). RIPARTIRE DA #DUE, DA #DUESOLI, E ANDARE OLTRE LA "BIBLICA" ED EDIPICA #COSMOTEANDRIA. Se è vero, come è vero, che "La nostra #storia è piena di #modelli #enantiodromici. #Maria e la #strega: due aspetti della #femminilità che non potrebbero essere più antitetici e distinti; eppure sono solo una #coppiadiopposti." (luisa maria sguazzi), a voler uscire dal #giogo della #dialettica della #terra #tebana (platonica, paolina, hegeliana, marxistica, e lacaniana) non resta altro che #prescrivere il #sintomo e oltrepassare #ScillaeCariddi e le #colonnedErcole, con #spiritocritico e amore conoscitivo.
#RINASCERE. Con #Wittgenstein, non si può non concordare: "L’Io, l’ Io è il mistero profondo - e non in senso psicologico!". Come da indicazioni dello stesso #Jung e della #ScuoladiPaloAlto, solo riprendendo il lavoro di #Kant (e #BertrandRussell) è possibile portarsi fuori dalla #palude infernale e aprire la #via a una "seconda #rivoluzionecopernicana", a una inaudita #schizofreniadellasalute...
#PLATONE, IL #TECNOCRATE... “Su cosa è stato edificato il #nuovomondo? Genocidi e stermini. Chi ha dato il nome a questo #nuovo #mondo? Un Vespucci ((in verità non lui direttamente, ma ricordiamoci dei ragni e delle formiche di #Bacone). Chi ha chiamato così l’#Amazzonia? E, chi così il #Brasile? A #Napoli, sì sempre a Nea-polis, questo nome ricorda la brace, il braciere, persone intorno a un fuoco che riscalda, un cerchio familiare che si apre e accoglie chi ha freddo - non la #devastazione e il #deserto di chi cieco e folle si mette a distruggere tutto: #Edipo con in mano il lancia-fiamme a volontà #Platone, il #Tecno-crate. Di fronte alla #Foresta gli uomini ciechi e folli di potenza (ma qui si parla anche delle donne-amazzoni) vedono nulla e fanno e ... faranno il #Brasile?” (Federico La Sala, "La #menteaccogliente. Tracce per una #svolta_antropologica", #AntonioPellicani editore, Roma #1991, pp. 180-181).
#ANDROCENTRISMO #PSICOANALISI, E PROBLEMA DEL #RIBALTAMENTO: IL #GIOCO DEL #ROCCHETTO (#FREUD) E IL PROBLEMA DEL #SOGGETTO E PREDICATO (#MARX).
Chiarissimo Jacopo Stringo, #grazie molto per il commento. Condivido in parte: "la tecnologia, figlia, diventa essa stessa creatrice del proprio creatore. Questo ribaltamento, evidentissimo nel modo attuale di vivere", a mio parere, dice proprio del legame incestuoso #Giocasta-#Edipo e della radice della stessa della filosofia dominante da millenni, quella di #Platone il #Tecnorate E quella della #dottaignoranza" paolina e cusaniana e del #sapiente #bovillus_siano. Questo è il #giogo del rocchetto della #tecnica che spinge sempre più in avanti, "verso orizzonti molto lontani", verso il #ritorno al #mondonuovo...
#FILOLOGIA #PSICOANALISI E #RELIGIONE: #ECCEHOMO. Chiarissimo Jacopo Stringo è proprio la questione del "figlio creato e creatore" che occorre sbrogliare ed è proprio su questo che ho richiamato l’attenzione, via il #giocodelrocchetto (del nipotino, se non sbaglio) di #Freud!
Con #Dioniso (e #Nietzsche), oltre: in gioco è la stessa #questioneantropologica, vale a dire la #questionecristologica. Nel #Disagiodellaciviltà (1929) #Freud disse chiaramente qual era il #nodo da sciogliere, ma - a quanto pare - si hanno ancora le idee confuse sul #cammino che l’uomo Freud, pur zoppicando, aveva intrapreso. Ricordiamo che egli #vive a #Londra...
ANTROPOLOGIA E MATEMATICA. A PARTIRE DA DUE... *
Festival dei Matti, Alberta Basaglia: “Non è tardi per parlare di mia madre Franca Ongaro e del suo ruolo nella rivoluzione che portò alla chiusura dei manicomi”
di Emanuele Salvato *
“Fondamentale”. Con quest’aggettivo Alberta Basaglia, psicologa figlia dello psichiatra Franco Basaglia e di Franca Ongaro, definisce il ruolo avuto dalla madre nel percorso che ha generato enormi mutamenti nella psichiatria italiana culminato nella cosiddetta Legge 180 o Legge Basaglia. Una Legge che ha, di fatto, portato alla chiusura dei manicomi in Italia, luoghi in cui la malattia e i malati venivano nascosti, dimenticati e non curati. Eppure raramente il nome di Franca Ongaro è stato associato alla rivoluzione che Franco Basaglia ha prodotto nel mondo della psichiatria insieme al suo gruppo di lavoro, di cui faceva parte anche la moglie la cui figura viene messa al centro nel libro “Contro tutti i muri” (Donzelli editore) scritto da Anna Carla Valeriano, studiosa di storia della psichiatria e delle istituzioni totali, che verrà presentato sabato 25 giugno al festival dei Matti di Venezia alla presenza, oltre che dell’autrice, anche di Alberta Basaglia, Maria Teresa Sega, presidente dell’associazione rEsistenze-memoria e storia delle donne in Veneto e Federica Esposito, psicologa e psicoterapeuta dell’Associazione Festival dei Matti.
“Non è mai troppo tardi - spiega al fattoquotidiano.it la figlia di Franco Basaglia e Franca Ongaro attualmente vicepresidente della Fondazione Franco e Franca Basaglia - per far emergere la figura di mia madre che con il suo lavoro vicino a mio padre è stata determinante per arrivare a generare quella rivoluzione nel mondo della psichiatria iniziata da Gorizia (città in cui Franco Basaglia diresse l’ospedale psichiatrico nel 1958 e dove iniziò a mettere in pratica le sue idee rivoluzionarie in termini di cura, ndr) in poi. E tutti i libri e gli studi usciti in quegli anni sono stati il frutto della collaborazione fra mia madre e mio padre. Sono convinta che mia madre abbia dato un apporto importante soprattutto in termini di concretezza del discorso teorico”. Aggiunge Alberta Basaglia: “Il fatto che sia sempre passata come ‘la moglie di’ fa parte di un determinato periodo storico in cui per una donna era ancora molto complicato cercare di mettersi in evidenza ed avere la giusta considerazione in un ambito prettamente maschile”. Eppure, come spiega Anna Carla Valeriano nel libro, il suo approccio sociologico all’interno di un’istituzione totale come l’ospedale psichiatrico di Gorizia, il suo interessarsi alle storie dei pazienti è stato fondamentale per arrivare a comprendere l’origine di molti disturbi psichiatrici, spesso generati proprio dal contesto sociale.
A proposito dei lavori e degli scritti realizzati insieme al marito, vale la pena di citare “Morire di classe”, un libro fotografico del 1969, nel quale gli scatti di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin hanno rivelato all’opinione pubblica quale era la condizione dei malati nei manicomi italiani. Fotografie senza filtri, con malati legati ai letti, con gli sguardi persi nel vuoto e abbandonati a loro stessi. Un vero e proprio pugno nello stomaco che contribuì ad accendere una luce su realtà scomode e che mise in evidenza la necessità di attuare quei cambiamenti necessari e non più procrastinabili che Basaglia con la moglie e il suo gruppo di lavorò iniziò ad attuare, facendoli culminare nella realizzazione della Legge 180. Il libro uscì qualche mese dopo un altro documento molto importante e utile a mettere in evidenza quanto drammatica fosse la situazione nei manicomi italiani, il documentario di Sergio Zavoli “I giardini di Abele” mandato in onda da rai Tv7 nell’autunno del 1968 e girato proprio nell’ospedale psichiatrico di Gorizia diretto da Franco Basaglia che aveva iniziato a trasformare l’ospedale facendolo diventare una comunità terapeutica. “Sono cresciuta in un clima - racconta Alberta Basaglia, che quegli anni, seppur piccola li ha vissuti e se li ricorda - in cui vedevo persone intorno a me lavorare per qualcosa in cui credevano e, visti i nostri tempi attuali, non è facile immaginare tutto questo. Ho il ricordo della presenza contemporanea di mia madre e mio padre inseriti e attivi in questo gruppo di lavoro nel quale era evidente la volontà di cambiare il mondo. La rivoluzione di Basaglia nel mondo psichiatrico italiano è stata pensata e realizzata con un gruppo di persone che hanno lavorato senza sosta affinché questa rivoluzione cambiasse davvero qualcosa”. Dopo la morte di Franco Basaglia, l’impegno di Franca Ongaro per attuare concretamente i cambiamenti previsti dalla Legge 180 è proseguito anche in Parlamento dove venne eletta per due legislature, dal 1983 al 1992, nelle fila del gruppo parlamentare di Sinistra Indipendente. Fra le sue principali battaglie si ricorda quella di fare in modo che la Legge 180, promulgata nel 1978, venisse messa in pratica nei territori. In tal senso ha elaborato due disegni di legge rivelatisi poi fondamentali per creare di Dipartimenti di salute mentale.
*Fonte: Il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2022 (ripresa parziale - senza allegati e note).
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89)..
Federico La Sala
I vescovi nel cammino sinodale: da geografi ad esploratori.
di Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo (L’Osservatore Romano, 25 giugno 2022)
Il cammino sinodale «al quale siamo tutti chiamati per essere entusiasmati dal fuoco dello Spirito» (Newsletter Segreteria generale del Sinodo dei Vescovi, n. 11, 23 aprile 2022) deve essere conosciuto. Accompagnarlo con le nostre preghiere quotidiane è importante. A livello comunitario siamo invitati a creare la «consuetudine d’amore» di pregare nel primo lunedì di ogni mese in tutte le famiglie, nelle parrocchie, nelle diocesi, nelle comunità religiose, negli ospedali, nei luoghi di lavoro e dovunque sia possibile.
C’è bisogno di un cambio antropologico profondo che i pastori devono favorire con bontà e perseveranza: «pregare per il Sinodo significa richiedere il dono del discernimento, la pazienza di accettare la lentezza di chi cammina con più fatica, la conversione del cuore che apre al vero ascolto, il coraggio di fare il primo passo verso chi ci sta più lontano, l’umiltà di chiedere perdono per le ferite che abbiamo inferto nel nostro cammino» (Newsletter Segreteria generale del Sinodo dei Vescovi, n. 11, 23 aprile 2022).
Il ministero episcopale, che si declina nelle tre funzioni di insegnamento, santificazione e governo (Lumen gentium 25-27), come espressione della missione del Signore nel suo popolo, oggi è chiamato a discernere ciò che lo Spirito Santo dice alla Chiesa, ascoltando il Popolo di Dio.
Vorremmo che tutti i nostri vescovi avessero già maturato una chiara identità sinodale, senza concedere l’attenuante che questo è un cammino reale che si scopre passo dopo passo, «si fa la strada nell’andare» come direbbe il poeta Antonio Machado («se hace camino al andar»). È un viaggio che si racconta intrecciando le storie quotidiane di tutti nella dimensione locale. Come direbbe il Piccolo Principe, i nostri vescovi non possono essere più soltanto dei geografi statici, immersi nei loro grandi registri, che ascoltano i resoconti dei viaggiatori, e segnano sulle carte le montagne, i fiumi e gli oceani delle loro diocesi. Insieme al popolo di Dio loro affidato, sono esploratori, scopritori di nuove esperienze e di sentieri aperti nella vita quotidiana per poter seguire con umiltà più da vicino Gesù, essere capaci di uscire dagli schemi con creatività per aiutare e guidare all’incontro con il Signore.
In questa fase di cambiamento non ci dobbiamo meravigliare delle numerose osservazioni che da parte dei vescovi giungono alla Segreteria generale del Sinodo, nel timore che la Chiesa sinodale possa sostituire quella gerarchica e che il Popolo di Dio rimpiazzi il magistero, nella contrapposizione ideologica tra «carisma» e «potere». Non un cammino dall’alto, né esclusivamente dal basso. Un cammino insieme nel rispetto dei ruoli. Perciò abbiamo bisogno di pregare molto affinché lo Spirito Santo realizzi l’apertura all’ascolto: «Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo» (Per una Chiesa sinodale. Comunione, preparazione, missione, 15) ... tutti in cammino.
Il secondo momento sinodale è quello della collegialità: il discernimento dei pastori riuniti in assemblea, «ai quali si chiede di ascoltare ciò che lo Spirito ha suscitato nelle Chiese loro affidate». Nel primo lunedì mensile sia ora più forte la preghiera per i vescovi affinché, come spesso ha sottolineato Papa Francesco, siano pastori con l’odore delle pecore.
Sono molto belle le suggestioni che mostrano e spiegano attraverso l’immagine del telaio gli intrecci del percorso sinodale. Le parole usate sono: riallacciare, ricucire, ritessere le relazioni. Papa Francesco in un bel libro, curato da Andrea Monda, intitolato «La tessitura del mondo», usa questa immagine per indicare che il mondo è una tessitura a mano messa a dura prova, e che ha bisogno di essere rammendata con un lavoro artigianale con i fili «della speranza, della gioia, della misericordia». La tessitura a mano è un lavoro della comunità, che stimola la relazione fra le persone e la creatività, dove è necessaria la collaborazione degli altri e favorisce l’inclusione.
Oggi nel cambio epocale, nelle città e nelle periferie esistenziali, le Chiese locali stanno sperimentando di non avere un filato, ma grovigli fatti da fili spinati di sofferenze, scarto, violenza, pandemia e guerra; e anche di un benessere vissuto con egoismo, nell’apatia e nell’indifferenza agli altri. Se c’è stata vera esperienza sinodale con il popolo di Dio, i nostri vescovi andranno al momento collegiale con le mani ferite, consapevoli che prima di mettere mano al telaio c’è bisogno di faticare all’arcolaio, per dipanare quei garbugli di dolore e trasformarli in gomitoli di fili molto forti, di «funi indistruttibili» che realizzano il tessuto che collega tutto e tutti: riscoprire le alleanze volute da Dio, l’anima delle narrazioni del rapporto fra Dio e noi uomini, e degli uomini fra loro e con il creato.
Nel tessere c’è un «nodo d’oro» da non trascurare: «la comunità coniugale-famigliare dell’uomo e della donna è la grammatica generativa, il “nodo d’oro”, potremmo dire. La fede la attinge dalla sapienza della creazione di Dio: che ha affidato alla famiglia non la cura di un’intimità fine a sé stessa, bensì l’emozionante progetto di rendere “domestico” il mondo. Proprio la famiglia è all’inizio, alla base di questa cultura mondiale che ci salva; ci salva da tanti, tanti attacchi, tante distruzioni, da tante colonizzazioni, come quella del denaro o delle ideologie che minacciano tanto il mondo» (FRANCESCO, Udienza generale, 16 settembre 2015).
Sul tema, in rete, si cfr.:
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
Federico La Sala
Dalla Bibbia alla psicoanalisi: il nuovo saggio di Massimo Recalcati
In "La legge della parola", lo psicoanalista rilegge alcuni episodi del Vecchio Testamento con gli strumenti di Freud e Lacan, facendo incontrare due linguaggi
di Roberto Esposito (la Repubblica, 15 giugno 2022).
Nella prima cappella a destra della Chiesa di Saint-Sulpice, a Parigi, vi è una pittura murale di Eugène Delacroix che ritrae la figura biblica della lotta di Giacobbe. L’identità del personaggio con cui si batte è misteriosa. Chi è l’essere che affronta in un corpo a corpo mortale? Un uomo, un angelo, un dio? Chiunque sia, in termini simbolici Giacobbe lotta contro se stesso, con la propria immagine speculare, col fantasma del proprio narcisismo. Secondo il racconto biblico, quando il combattimento finalmente termina, Giacobbe resta ferito all’anca. Quella ferita alla propria identità lo muta profondamente, dandogli un nuovo nome. Reciso un legame troppo vincolante con se stesso, egli adesso è pronto a incontrare l’Altro, ad aprirsi alla relazione.
È la lettura, profonda e suggestiva, che nel suo nuovo libro, La Legge della parola. Radici bibliche della psicoanalisi, edito da Einaudi, Massimo Recalcati fornisce di quell’episodio e, più in generale, del Libro. Come egli stesso spiega, non si tratta di un’interpretazione psicoanalitica della Bibbia e neanche di una declinazione religiosa della psicoanalisi. Ma di un incontro tra linguaggi diversi, che tali restano, reso possibile da un presupposto comune: esiste una legge non al servizio della morte - della colpa e del castigo -, ma destinata a generare nuova vita.
Si tratta della legge della parola. Essa chiede all’uomo di non volersi fare Dio, di ammettere la propria finitezza, di riconoscere la tensione che attraversa la sua esperienza, umanizzandola. La stessa che per Freud articola pulsione di vita e pulsione di morte e per Lacan distingue desiderio e godimento. Solo superando l’identificazione narcisistica con la propria immagine, come fa Giacobbe, l’uomo può riconoscere il ritmo dell’esistenza nell’alternanza tra pienezza e mancanza, gioia e dolore, vittoria e sconfitta. La rinuncia al godimento assoluto - comunque non alla nostra portata - apre la porta al desiderio. Soltanto l’esperienza di una lesione profonda - abbandono, perdita, lutto - può rendere di nuovo generativa la vita umana.
Da questa prospettiva - maturata in una rivisitazione particolarmente creativa della psicoanalisi lacaniana - Recalcati rilegge gli episodi più intensi della Bibbia. Al centro di tutti torna, declinato in modi diversi, il rapporto costitutivo tra desiderio e divisione. Il rifiuto della fusione con se stessi a favore dell’alterità. Da parte dell’uomo, ma anche di Dio. Che, nella genesi, crea il mondo separandolo da sé. La luce di cui lo inonda coincide con la forza simbolica di una parola che rompe la notte dell’indifferenziato, generando l’infinita molteplicità della vita. Come anche nella psicoanalisi freudiana e lacaniana, la parola che Dio rivolge all’uomo non è solo comunicazione, ma rivelazione. Luce e taglio. Creando il mondo Dio si ritira, rinuncia all’onnipotenza, come hanno diversamente sostenuto Lévinas, Bonhoeffer, Simone Weil. Con un secondo taglio immette la differenza, anche sessuale, nelle forme viventi. Separa la vita umana dalla nuda vita biologica.
Ma, contro ogni retorica umanistica, la vita umana non nasce integra. Sperimenta l’odio prima dell’amore, la vendetta prima del perdono. Il fratricidio di Caino apre la storia dell’uomo nel segno della violenza assoluta. Egli uccide il fratello per essere solo, per essere tutto.
Come sostiene Lacan, Caino è l’altro nome di Narciso. Riconosce in Abele la propria immagine irraggiungibile e la distrugge. Dio lo condanna, per poi salvarlo, spezzando la catena della violenza reciproca. La violenza divina non è mai cieca. Il diluvio che scatena sul mondo corrotto consente a Noè di rigenerarlo. Così come il crollo della torre di Babele e del suo sogno di monolinguismo ripristina la molteplicità delle lingue. Perfino nell’episodio, in prima istanza incomprensibile, del sacrificio di Isacco, la mano di Dio si arresta, si ritira, sostituendo un montone al figlio prediletto di Abramo. Dio rinuncia al dominio, interrompendo la spirale del sacrificio.
Il rapporto dell’uomo con Dio resta problematico. Il racconto biblico non nasconde la tensione. Al contrario, come farà la psicoanalisi, la rivela. Il grido di Giobbe, a metà tra blasfemia e preghiera, reclama una spiegazione da Dio per la sofferenza ingiusta. Anch’egli non è una figura della rassegnazione, della pazienza, ma della lotta. In termini psicoanalitici, la sua vicenda attesta che, se la sofferenza umana è ineliminabile, attraverso il sintomo la si può interpretare, tradurre, decifrare. Il libro sapienziale di Qohelet spinge al culmine la consapevolezza dell’inaggirabilità della morte e dunque della vanità della vita. Il suo eterno oscillare tra splendore e polvere. Ma invita, proprio perciò, a godere di quanto si ha. Non nell’attesa, ma ora, adesso.
Per questo Recalcati collega Qohelet al Cantico dei cantici. In questo esplode la gioia dell’amore, la festa degli amanti. Che, però, non infrange la legge del desiderio, non s’inscrive nella logica del godimento assoluto. Anzi lo dichiara impossibile. Impossibile è la fusione in Uno di coloro che restano Due, differenziando la disponibilità femminile dal sogno di possesso maschile. La Bibbia rivela la problematicità, ma anche la necessità, del rapporto. Come insegna il racconto paradossale di Giona, il più umano dei profeti, è difficile rispondere alla chiamata di Dio, ma tale difficoltà custodisce il mistero dell’esistenza.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA NASCITA DELL’ESSERE UMANO E IL GIOCO DEL ROCCHETTO. Al di là del giogo di Edipo e Giocasta.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
L’INCONSCIO, IL TEMPO, IL SUONO. SU PSICOANALISI E MUSICA
di MICHELE GARDINI *
1. Un inconscio sonoro?
Sigmund Freud ha costantemente mostrato, come uomo di mondo e come scienziato dell’anima, una marcata predilezione estetica e scientifica per l’immagine e la parola: ho compreso a mio modo - afferma il padre della psicoanalisi - «specialmente la letteratura e le arti plastiche, più raramente la pittura», mentre «[n]el caso in cui ciò non mi riesce, come per esempio per la musica, sono quasi incapace di godimento»[1]. E così, quasi per democratica specularità (ma quale piano qui rifletterebbe, quale influenzerebbe altro?), l’Inc finisce per risultare saturo di immagini, mentre la coscienza fa tutt’uno con il linguaggio.
Molti sono le ragioni di questa “sordità congenita” della psicoanalisi classica, un deficit che solo a fatica il movimento psicoanalitico si è lasciato alle spalle, fino a riconoscere che la psicoanalisi ha eccessivamente e impropriamente insistito sui diritti di Narciso a discapito di quelli di Eco[2]. Il maggiore ostacolo consiste però nel fatto che la musica è un’arte totalmente temporale, come la coscienza, laddove i processi dell’Inc, secondo un’incrollabile convinzione freudiana, sarebbero atemporali, quasi come una statua immersa in un’atmosfera di eternità imperturbabile.
I processi del sistema Inc sono atemporali, e cioè non sono ordinati temporalmente, non sono alterati dal trascorrere del tempo, non hanno, insomma, alcun rapporto col tempo. Anche la relazione temporale è legata al lavoro del sistema C[3].
La musica, inoltre, non si assoggetta particolarmente bene ai presupposti della metapsicologia freudiana. Essa è l’unica facoltà non alterata dall’ambiente onirico. A differenza degli elementi visivi, nel sogno non si frammenta in un caos incoerente né decade rapidamente al risveglio. Nei sogni è «costantemente normale», ed è inoltre immune dai mascheramenti degli altri elementi onirici[4]. Del resto, le parole della veglia sono fino a un certo punto in grado di parafrasare un’immagine o altre parole del sogno; una melodia non può invece essere parafrasata.
Condensazione e spostamento, come sappiamo, sono i cardini della logica onirica. Tuttavia solo il verbale e l’iconico possono essere sottoposti a condensazione, ma certo non una melodia. Quale assurdità logica sarebbe mai “sintetizzare una melodia” o “schematizzarla”? E per quanto riguarda lo spostamento, un trasferimento inconscio d’intensità tra diversi elementi è impossibile nella musica, unica arte la cui stessa natura è di presentare in carne e ossa, ossia fenomenizzare, anche le transizioni tra diverse situazione emotive, senza bisogno di ipotizzarle, ricostruirle a posteriori o postularle ad hoc.
Certamente la musica sembra un linguaggio narcisistico, e ciò si rispecchia nel riverberarsi reciproco dei suoi significanti: un suono musicale pare potersi trascendere solo verso un altro suono musicale, mai rimandare ad altro. Ciononostante si tratta soprattutto di un’apparenza, di patologia o di certa cattiva mitologia romantica. Di fatto la musica, ad esempio nel cantare insieme, veicola una socializzazione difforme dal carattere individualistico-egoistico dell’Inc[5], e quando gli uomini vivono in condizioni di difficoltà, fanno musica[6].
Eppure, nonostante questi aspetti discordanti, la musica ne condivide con l’Inc uno davvero capitale: entrambi non conoscono il “non”. Come una frase musicale non può negarne o contraddirne un’altra, così moti pulsionali dell’Inc esistono gli uni accanto agli altri senza sopprimersi e contraddirsi. Mete incompatibili tendono a formare non contraddizioni, ma compromessi.
In questo sistema non esiste la negazione, né il dubbio, né livelli diversi di certezza. Tutto ciò viene introdotto solo dal lavoro della censura fra l’Inc e il Prec. La negazione è solo un sostituto della rimozione a un più alto livello. Nell’Inc ci sono solo contenuti forniti di un investimento più o meno forte[7].
Come nel processo primario dell’Inc si sovrappongono molteplici linee pulsionali e rappresentazionali, anche contraddittorie, lo stesso accade naturalmente con le “voci” musicali, mentre ciò non sarebbe concepibile, condurrebbe anzi al caos, nel caso del linguaggio verbale concettuale, e anche delle immagini che ne costituiscono la preistoria. Le emozioni si stratificano e convivono come possono fare i suoni, non le parole o le icone. Per questo il linguaggio dell’analisi è poco titolato a parlare di altro che non siano icone e parole, e non riesce a rinvenire nel sogno e nell’inconscio, da esso quasi trasformati in qualcosa di «pre-concettuale»[8], la presenza del suono musicale, che per natura non gli è affine.
2. Tra ripetizione e variazione
Meglio dunque non forzare il fenomeno musicale nell’inconscio, ma lasciare che sia proprio la musica a suggerirci un principio di metodo per ripensare più criticamente l’Inc freudiano. Osserviamo dunque il principio di piacere da una doppia angolatura: il punto di vista “ortodosso” della coazione a ripetere propria di tutte le pulsioni, e dall’altro lato il suono nei suoi caratteri teleologici e “ripetitivi” (ritmo, prosodia, simmetrie). Ancora una volta, per quanto sembri strano, Freud ha completamente ignorato quest’aspetto, tutto preso dal suo modello iconico-verbale.
Ciò è strano innanzitutto perché risalta che la musica, per sostenersi, ha strutturalmente bisogno della ripetizione, non potendo godere della permanenza temporale né del significante (come le arti plastiche) né del significato (come la poesia). Ma anche le pulsioni, afferma Freud, incontrano una coazione a ripetere, in ragione dell’eterna mancanza di appagamento della pulsione erotica e dell’eterna ricerca di uniformazione della pulsione di morte.
Questo però, piuttosto che fornire un punto di incontro banale tra le due esperienze, ci induce appunto a ripensare criticamente il concetto stesso di coazione a ripetere.
Freud, infatti, non ha visto che la ripetizione, se non è patologica, implica sempre un margine di variazione all’interno della conservazione: anche per il semplice fatto di essere ripetuto una seconda volta, un pattern non è già più lo stesso della prima volta, e ciò è tanto vero fin dalle prime esperienze infantili, quanto lo è nel caso della ripetizione di temi musicali. Stern ha esplicitamente parlato a questo proposito di «tema con variazioni»[9]. La ripetizione, nelle prime esperienze infantili come in musica, non è mai disgiunta (se non in casi aberranti) da novità temporali e intensificazioni. Il mito di Eco e Narciso mostra infatti con precisione stupefacente che se lo “specchio” (prima quello sonoro di Eco, poi quello visivo di Narciso) rinviasse ossessivamente al soggetto solo e mai nient’altro che se stesso, il risultato sarebbe disunire le pulsioni di morte da quelle di vita e assicurare loro il primato[10]. Per fornirne subito un riscontro musicale, la vera realizzazione di una coazione a ripetere patologica, in senso “ortodosso”, si ha ad esempio con la razionalizzazione totale della scuola post-weberniana, che fa del suono una raffigurazione spaziale, un diagramma, una fissità iconica (proprio nel senso della preferenza estetica freudiana?), una paralisi che non evolve né si auto-arricchisce più nel tempo[11]: qualcosa, in ogni caso, che sta alla fine di una lunga storia, non all’inizio di una breve vita. Ed è curioso che nulla sembri più “ripetitivo” all’ascolto, meno dotato del senso della novità di quella musica in cui proprio la serialità assoluta ha intellettualmente abolito la ripetizione di un elemento prima che siano enunciati tutti gli altri. Il rivale mimetico del serialismo, ovvero il minimalismo musicale post-moderno, non si dimostra poi maggiormente dialettico del suo apparente avversario: dove la ripetizione diviene semplicemente - non dialetticamente - la stessa cosa della variazione non c’è più “nulla da aspettarsi”, il “progresso” risulta puramente incrementale, non tematico, cosicché indifferentemente tutto scorre e tutto sta fermo. Il principio di realtà non si guadagna ma al contrario, secondo le conclamate intenzioni della scuola, evapora completamente nello stordimento, nel sogno e nella trance. Al massimo, in luogo di un’“angoscia noiosa” subentrerà una “noia angosciosa”.
Nell’originaria reiterazione ritmico-melodica si ha al contrario progresso e sviluppo, nel senso di apprendimento del controllo dell’assenza (della madre come oggetto desiderato) mediante alternanza di presenze e assenze e anticipazione della risposta. La voce materna non è ancora completamente voce esterna dell’Altro, nel senso del rigido dogma lacaniano, e per questo, mentre sostiene la relazione con l’altro, comincia a formare anche l’identità-durata del Sé. Il legame si potenzia attraverso la musica, nel canto e nella nenia. La figura inconscia dell’eco prodotta dalla voce materna è il primo contenuto significante dell’«involucro sonoro del Sé» in un’esperienza che dura[12]. Freud non valorizza la ripetizione(/variazione) in musica, né si rende conto che in generale la coazione a ripetere, col suo margine d’incertezza irriducibile sull’a-venire, genera un embrione di tempo e la sua direzionalità anche nell’Inc. Superato un certo limite, però, la variazione distrugge l’effetto della ripetizione, instaurando la perdita e il caos. Oltre comincia l’angoscia e l’ingiunzione di un ritorno alla ripetizione[13], che lasciata a sé sola ricadrebbe però in una noia non meno angosciosa. La meccanica di tensione/distensione crea una temporalità originaria affettiva e uditiva, tesa fra noia e angoscia, ma come tutto ciò che procede verso una conclusione e risoluzione prepara anche gradualmente, sullo sfondo, esattamente come un fenomeno transizionale, l’esperienza della perdita e del lutto.
3. Filastrocche e ninnenanne
Il piacere del bambino nell’essere cullato dalla madre, udendo filastrocche e ninnenanne, impone di non ridurre la madre a semplice oggetto di “consumazione” alimentare ed “erogazione” di prestazioni fisiologiche. Il “piacere” del principio di piacere, come comincia a delinearsi già in Melanie Klein, non è solo consumazione, ma anche comunicazione con l’Altro (la madre, in specifico) e instaurazione di un legame simbiotico, scandito temporalmente. Infatti, vera fusione simbiotica non può aversi solo aderendo a una identificazione tautologica senza tempo, ma richiede di svolgersi superando la frammentarietà dell’istante.
Dietro il non-senso esplicito della filastrocca c’è infatti un senso declinato in specularità fonica (es. rima) e regolarità ritmica che, mentre parla in questo mondo, parla di un altro mondo «originario»[14]. Di quale mondo si tratta?
Ritmo e intonazione sono già oggetto di sensibilità prelinguistica: il feto reagisce al battito cardiaco e alla voce materna che si stagliano sul rumore come struttura primaria. Del resto l’orecchio, per la sua ricettività incondizionata, è fin da subito il senso più esposto alle perturbazioni mondane dell’omeostasi in forma di aggressioni acustiche[15], e necessita dunque di un principio organizzatore che le neutralizzi, cosicché sempre in seguito la nostra immaginazione aderirà quasi vischiosamente a ritmo e melodia, mai a caos e rumore[16]. Lo “stile uditivo” permette infatti di mantenere il contatto con qualcuno anche non spazialmente presente, e il relativo margine d’imprecisione rispetto alla vista è compensato dal suo legame, destinato a diventare strutturale, con l’immaginazione[17].
L’organizzazione dell’universo sonoro comincia addirittura al quinto mese di gravidanza, presupponendo dunque una forma di successione/sviluppo temporale già in utero, dove per Freud si supporrebbe esserci assoluta fissità. Al settimo i neonati sarebbero in grado di memorizzare a proprio modo una frase musicale[18]. L’esposizione prenatale a stimoli acustici ha conseguenze strutturali e funzionali sul sistema uditivo, che viene sintonizzato sulla madre. La voce è percepita ed è efficace solo in una relazione simbiotica di scambio pre e post-natale, che è fin dall’inizio sonora e affettiva, umana. L’effetto che se ne ottiene è di «incantamento»: il neonato prediligerà poi il rispecchiarsi del suono prenatale in quello postnatale, e il suo passaggio dall’agitazione alla quiete mostra il significato magico-onirico di ritorno al paradiso perduto prospettato dalla musica della voce materna[19].
Ma solo la musica può fare questo in modo assolutamente privilegiato, come mondo totalmente altro. Gli altri linguaggi (figurazione, verbalizzazione) sono sempre attratti dall’intenzionalità su questo mondo. La musica pertanto è senza significato e apparentemente autoreferenziale e narcisistica solo in quanto punta a un “archi-significato”, senza cui tutti gli altri significati sarebbero insignificanti[20]. Il suo significato è semplicemente non mondano. Esso non rinviene una realtà, ma si inserisce in un processo onirico: come Orfeo, il neonato non può portare la madre (simbolizzata da Euridice) con sé, tuttavia il suono gli permette di recuperare, significandolo, ciò che sta al posto dell’unità originaria perduta[21].
4. Transizione musicale
Musica, dunque, come oggetto o dimensione transizionale. Il bambino, com’è noto, non può passare da principio di piacere a principio di realtà senza una «madre sufficientemente buona»[22] che ne favorisca un adattamento attivo e progressivo, educandolo per gradi a tollerare l’assenza dell’oggetto amato e l’autonomia del mondo. L’uomo non conosce contatto diretto con il reale. È la bontà del partner a consolidare la realtà delle cose, e il processo passa transitoriamente per l’illusione. “In-ludo” in senso etimologico e anche concettuale non è l’opposto della realtà se non per equivoco. I bambini giocano sul serio, l’illusione conduce alla realtà ed entrambe, insieme, sono l’opposto dell’allucinazione. Per portare nuovamente un controesempio musicale, il farsi direttamente choc sonoro dei moti inconsci dell’anima nello Schönberg espressionista[23], abolendo nella stimolazione immediata il “fenomeno transizionale” dell’arte musicale e della sua tradizione formale, realizza un mondo sensibilmente allucinatorio, che toglie l’accesso alla realtà vera e propria.
Il fenomeno transizionale costruisce per Winnicott un’area neutra di fiducia, un “mondo” inattaccabile dal dubbio. Ma anche la musica non costituisce forse, per eccellenza, un mondo inattaccabile dal dubbio?
La musica moderna, però, rappresenta l’eccezione a questi presupposti, anzi la loro corrosione. Essa non manifesta nelle sue forme artistiche solo la lacerazione dell’anima moderna che, dal punto di vista psicoanalitico, “ripete” come sintomo, come nello sforzo per padroneggiarla e liberarsene. Essa incarna anche il carattere faustiano, disumano, la potenza della tecnica moderna nella sua volontà di dominio assoluto sul proprio materiale sonoro e sulla sua organizzazione[24]. Per questo non potrà mai, con i propri mezzi, mediare un ritorno a un mondo reale e conciliato[25]. Il dissolversi delle mediazioni, la diretta messa a contatto e il paradossale rispecchiamento reciproco di stimoli elementari (nella forma di chocs psicofisici) e iper-razionalità nell’organizzazione del materiale (primitivismo e iper-intellettualismo), non passando più evolutivamente per nessun oggetto o nessuna fase transizionale, non possono che trovare in musica una sintesi paradossale nella dissonanza[26]. La dissonanza generalizzata edifica un mondo dove domina il male, straniato, allucinatorio, che non potrà mai consolidarsi in o mediare un mondo “reale”.
L’INCONSCIO, IL TEMPO, IL SUONO. SU PSICOANALISI E MUSICA
di MICHELE GARDINI *
5. Psicoanalisi e tipologia degli stili
Alcuni concetti fondamentali della psicoanalisi kleiniana possono a questo punto riassumere il discorso e chiarire meglio il rapporto tra la musica classico/romantica e quella che Adorno ha chiamato «nuova musica». Si devono agli studi di Michel Imberty - studioso di non esclusiva formazione psicoanalitica - alcune ispirazioni fondamentali di queste riflessioni
Il punto fondamentale è che inizialmente la madre, per Klein, è uguale alla totalità del mondo esterno. Il bambino non vi cerca solo nutrimento e assolvimento di compiti fisiologici, ma comprensione[27]. L’Io si sviluppa in gran parte intorno a questo primo e vantaggioso oggetto-mondo, base di ulteriori identificazioni vantaggiose[28]. Esso è il risultato della prima posizione psichica riconosciuta dall’autrice nell’evoluzione del bambino, quella schizo-paranoide, che scinde la realtà degli oggetti in due parti (“buona” e “cattiva”), identifica quella buona con sé e proietta la parte buona di sé sull’oggetto, mentre sulla parte cattiva dell’oggetto viene proiettata, per disconoscerla e liberarsene, la parte cattiva di sé, e viceversa. La madre che si allontana, che nega il seno, che in generale non risponde è la madre “cattiva”, che suscita nel bambino angoscia persecutoria e pulsioni aggressive, a propria volta scisse dal sé e riproiettate sulla madre in forma di “aggressione dell’aggressore”.
Il gioco verbale (“baby-talk”) e il canto madre-bambino sono aspetti culminanti della responsività, sono fenomeni transizionali, ma elaborano anche in forma complessa la temporalità. Con ciò preparano il passaggio dalla posizione schizo-paranoide a quella depressiva, “adulta”, che deve fare i conti con il senso della perdita e accettarlo. La posizione depressiva accetta dunque ed elabora la possibilità dell’assenza e dell’indipendenza dell’oggetto amato, nonché la inevitabile compresenza in esso di bene e di male, e lo stesso fa nell’io. La posizione depressiva si guadagna progressivamente mediante una riduzione delle scissioni, ed è una transizione favorita da un ambiente circostante “buono”. La melodia, fatta di suono e silenzio, di ritmo composto di arsi e tesi, di consonanze e dissonanze, di domanda e risposta tra i temi incarna esemplarmente l’elaborarsi di questa transizione che conduce, passo dopo passo, all’accettazione della realtà nel suo carattere composito e contraddittorio, tanto nel mondo esterno quanto nell’Io. Se però questo ambiente favorevole manca, e il contesto è freddo e ostile, il bambino non riesce a svolgere questo compito cruciale e ricade nelle forme schizo-paranoidi, dominate da continue scissioni e proiezioni, che condizioneranno la sua esistenza adulta.
Ora, se «l’Io primitivo manca di coerenza»[29], dobbiamo rilevare che lo stesso tocca all’Io alla “fine della storia”, nell’epoca della tecnica. Se la madre per il bambino era il mondo, è ora la tecnica a essersi sostituita socialmente e archetipicamente alla mediazione materna nell’identificazione totale col mondo. Ma questa mediazione è un controsenso e non può riuscire: la tecnica non può condurre alla maturità della posizione depressiva semplicemente perché essa stessa è per natura schizo-paranoide. Da un lato vuole dominare il tempo vissuto e annullarne gli effetti di perdita, producendo, nel senso esattamente colto da Heidegger, un oblio dell’«essere-per-la-morte» al fine di totalizzare il piacere; dall’altro fornisce piacere rescindendo sistematicamente tutti i legami (temporali, mondani, relazionali) tra gli individui, e trasformando così l’Io in un caos dis-integrato di scissioni e proiezioni, e il mondo non più in una «madre sufficientemente buona», ma in un partner sempre più ostile.
Queste categorie consentono fra l’altro a Imberty di leggere in profondità, in senso tipologico, alcune epoche e alcuni stili musicali.
Il romanticismo accetta l’ambivalenza suddetta del tempo, e sopporta la contraddizione della situazione sonora. Il gioco sonoro, dominato dal principio di piacere, nella fiducia che vi sarà sempre una corrispondenza tra le sue parti protegge al suo interno l’ascoltatore dall’incursione della morte, come la ninnananna materna ne protegge il figlio, ma contemporaneamente è tempo, e come tale va verso un’autentica conclusione. Esso integra quindi in sé la remota consapevolezza della morte con il piacere dell’illusione (posizione depressiva). La musica classico/romantica è tecnicamente illusoria, cioè “conduce in un gioco”.
La contemporaneità - a partire, per largo consenso degli studiosi, da Debussy - regredisce invece passo dopo passo a una posizione schizo-paranoide, rifiutando quest’ambivalenza del tempo e quindi l’orizzonte della morte. Debussy rappresenta la prima crisi nel concetto di sviluppo musicale. I suoi melismi sono momenti appagati della propria felicità isolata, senza premesse e senza conseguenze, quasi “irresponsabili”. In lui tornano solo gli «istanti buoni», colmi d’iperattività vitale, mentre sono negati gli «istanti cattivi», che lasciano trasparire la disintegrazione dell’Io e l’angoscia della morte. Persino i suoi finali non sono mai conclusioni, ma semplici arresti[30], mentre gli accordi di settima e nona vengo defunzionalizzati, spogliati del loro carattere transitorio di dominante e goduti isolatamente in se stessi, come fonti di piacere autonomo[31]. Ma in Debussy troviamo anche momenti di furia brutale, strappi, momenti di aggressività quasi disperata, legati all’irruzione del «caso», cioè del tempo non integrato[32]. Quando l’istante prevale sulla durata, si ha una liberazione delle pulsioni di morte, che - come indicato da Anzieu - prevalgono su quelle di vita. La musica perde così coesione e direzione, restringendosi a un presente senza passato e avvenire[33].
È quindi in Schönberg che viene distrutta la sintassi come grande forma e continuità del tempo. La musica dodecafonico-seriale è tecnicamente allucinatoria. In essa, il costante vincolo alla negazione determinata[34], l’elusione programmatica di ogni momento di risoluzione armonico/melodica - riflesso del cronico stato d’incertezza di sé e delle proprie risoluzioni della psiche moderna abbandonata a se stessa dal mondo tecnicamente organizzato[35] - impedisce la interiorizzazione di un alter-ego buono che conduca l’io oltre se stesso, verso il mondo[36].
Ciò che è assolutamente notevole della tecnica dodecafonico-seriale è infatti questo: che quanto più la successione da un suono all’altro e la loro sovrapposizione in accordi segue una logica stringente, matematica, e si avvicina alla calcolabilità e prevedibilità totale sul piano dell’intelletto, tanto meno i suoni appaiono legati e consequenziali sul piano dell’ascolto sensibile. L’udito corporeo è sempre meno in grado di cogliere la logica della concatenazione, non emerge più il senso di attesa nel gioco di conservazione/variazione intrinseco all’esperienza musicale, e in luogo dello sviluppo si percepisce la semplice successione, che in quanto tale, priva di teleologia, non sembra però “avanzare” di un passo. Ne nasce un universo allo stesso tempo fisso e mobile, un’agitazione nell’assenza totale di evoluzione[37]. Ma proprio nella “freddezza” matematizzante della nuova musica, che intende essere dispersione difensiva dell’angoscia e, secondo la bella espressione di Klein, «interruzione delle emozioni», ritornano (come un «ritorno del rimosso») il caos e il sentimento primordiale di angoscia che lo accompagna. Quando la voce materna si spezza e non protegge più, l’involucro sonoro del Sé, come indicato da Anzieu, torna a riempirsi di rumori e grida terrificanti.
* Fonte: Scienza e Filosofia, n. 13, 2015 (ripresa parziale, senza le note).
NON C’È INCONSCIO SENZA PLAYLIST
Da Oliver Sacks a "Città vuota"di Mina: passando, e perché no, per Brahms e Freud. Così le compilation disegnano il nostro mondo interiore. Parola d’ordine? "Soundscapes"
di V I T T O R I O L I N G I A R D I *
Musicofilia, la raccolta di racconti di Oliver Sacks su musica e cervello, inizia con una storia tratta da un romanzo di fantascienza di Arthur C. Clarke. Dove i Superni, alieni intelligenti ma insensibili alla musica, si dedicano allo studio di noi umani senza comprendere perché dedichiamo tanto tempo ad ascoltare, eseguire, comporre musica. Una cosa così evanescente e, soprattutto, inutile. Se l’astronave fosse atterrata tra i kaluli di Papua Nuova Guinea, forse i Superni avrebbero avuto qualche elemento in più. Infatti, racconta Steven Feld in un sorprendente trattato di etnomusicologia (Suono e sentimento), i kaluli rielaborano con la musica i flussi sonori della natura e le modulazioni del canto degli uccelli. Da lì nasce il sentimento della comunicazione sonora.
Se mindscapes è un neologismo per evocare l’incontro visivo tra psiche e paesaggio - i luoghi che cerchiamo nel mondo per dare sostanza e immagine a qualcosa che è già in noi - potremmo chiamare soundscapes quei paesaggi sonori che danno forma acustica ai nostri stati mentali. Suoni che, mentre li scopriamo nel mondo, ritroviamo in noi stessi. Teorizzati dal compositore canadese Murray Schäfer, i soundscapes compongono il nostro mondo acustico. Che non è necessariamente artistico o musicale, può essere fatto di voci e di silenzio. Un silenzio che possiamo ascoltare.
Anche se esistono (rari) umani che, come i Superni, forse mancano dell’apparato neurale per apprezzare suoni o melodie, su tutti gli altri la musica esercita un potere enorme. Eccita e deprime, accarezza la memoria e la ferisce, irrita e diverte. Non posso ascoltare l’aria del nodo avviluppato dalla Cenerentola senza entusiasmarmi ridendo. Ogni volta che sento Città vuota mi struggo di nostalgia e ammirazione per il capolavoro sonoro e sociale che Mina è stata per il nostro Paese e per la mia adolescenza. E quando sento i preludi di Chopin mi commuovo perché sono entrati nel mio paesaggio sonoro quando ero bambino e mia madre li suonava al piano.
A partire dalla " straordinaria tenacia della memoria musicale", i paesaggi sonori dell’infanzia rimangono, dice Sacks "incisi nel cervello". Non c’è musica senza inconscio e non c’è inconscio senza memoria. William Styron (Un’oscurità trasparente) racconta che fu un brano della Rapsodia per contralto di Brahms a salvarlo dal suicidio: " Questo suono, che, come ogni forma di musica, anzi, di piacere, mi aveva lasciato indifferente per mesi e mesi, trafisse il mio cuore come un pugnale, e mi sommerse all’istante una marea impetuosa di ricordi, tutte le gioie che quella casa aveva conosciuto".
Priva com’è di "significato", la musica non veicola concetti né formula proposizioni, ma lavora in profondità nella neuropsiche. Scrittura che raggiunge gli analfabeti, visione che tocca i non vedenti, innesca l’immaginazione, s’immerge nella memoria, s’infila nella solitudine. Portando con sé il suo paradosso: lo stesso spartito che evoca il dolore produce, al tempo stesso, la consolazione.
Il bisogno di musica che una volta ci spingeva a costruire artigianali compilation su musicassette, oggi ci vede competenti collezionisti di playlist. L’effetto psichico della musica (la fedeltà della sua compagnia; la capacità, esasperata dagli auricolari, di creare un mondo a parte; la tenuta ermetica della bolla sonora con cui ci avvolge e protegge) è potente fino alla dipendenza. Effetti così importanti non possono che guidare le nostre scelte musicali. Che oggi, grazie alla duttilità pervasiva delle fonti sonore, cerchiamo di governare, essendone talvolta governati.
Ci sono musicofili onnivori e melomani sofisticati, dodecafonici autistici e canzonettari enciclopedici. E fragili allergici: "Non posso ascoltare il jazz", mi dice un paziente ossessivo, " è senza contorni, non sai dove va, e per questo mi angoscia". Per Theodor Reik, psicoanalista austriaco e collaboratore di Freud, le "melodie che scorrono nella mente" possono fornire all’analista indizi che conducono ai segreti della vita emotiva: "la musica che accompagna il nostro pensiero cosciente non è mai accidentale".
È questo il segreto di Spotify e dei suoi milioni di utenti? Il tentativo di costruire il proprio soundscape? L’illusione di governarlo, imprimerlo nella memoria per diffusione ambientale? E il segreto del nostro soundscape saprà difendersi dalla ripetizione e dal facile accesso? Dalla finta confidenza di sottofondi sonori gradevolmente imposti? Corriamo il rischio, nonostante lo streaming sia on demand, di scegliere sempre meno e di ricevere, lisciati dalla comodità, ghirlande prêt- à- porter di ricordi musicali. Se l’ombra dei mindscapes sono i non-luoghi, è possibile che sulla storia personale e collettiva dei nostri soundscapes si allunghi l’ombra di non- musiche. Che proprio nei non-luoghi hanno facile diffusione: sale d’aspetto, lounge bar, ristoranti griffati. E se il vinile fosse una riappropriazione del proprio paesaggio sonoro?
Anche quando non suona e si limita ad accompagnarci nel dormiveglia di un ricordo, la musica cura, e talvolta guarisce. Studi scientifici raccontano il lavoro di riparazione neurologica e psichica che la musica promuove nel nostro cervello. I parenti accendono registratori al capezzale di pazienti comatosi per risvegliarli al mondo con le impronte sonore dei ricordi. Future madri appoggiano sorgenti musicali sulle loro pance gravide: ben prima che fiorisca il linguaggio intoneranno cantilene come musiche primordiali dei kaluli.
IL SOGNO DI SHAKESPEARE E IL PROGRAMMA DI FRANCESCO BACONE.
"HANG UP PHILOSOPHY!". Something is rotten in the state of Denmark...
RIVOLUZIONE COPERNICANA. "Hang up philosophy!" e disagio della civiltà: "Romeo. Ancora esiliato? - All forca la filosofia! Se non può farmi una Giulietta, se non può cambiare di posto una città, annullare la sentenza di un principe, la filosofia non giova a nulla, non può nulla; non me ne parlare" (Shakespeare, Tutte le opere, a c.di Mario Praz, Sansoni, Firenze, p.313).
SORGERE DELLA TERRA (EARTHRISE). Probabilmente Shakespeare, ancor prima della realizzazione della Bibbia di Re Giacomo, ha già avviato un programma di rilettura e reinterpretazione antropologico-politico dell’immaginario della teologia e filosofia tradizionale... Ricordare il Sonetto 116.
NUOVO CIELO E NUOVA TERRA. Considerato il legame profondo con la cultura italiana (Giordano Bruno, ecc.), non è da escludere la ripresa in grande stile dell’idea già ’lanciata’ da Dante Alighieri di ripensare a trovare la strada per tornare nell’Eden, nel Paradiso Terrestre: da tener presente che la parola d’ordine del programma di Francesco Bacone è già e sarà proprio quella di lavorare al Grande Restaurazione (alla Instauratio Magna).
DANTE 2021: RISORGERE - RINASCERE. Al di là della vecchia filosofia ("Hang up philosophy!"): Shakespeare è sulla strada di Dante Alighieri e Giordano Bruno, e non della andrologia iper-platonica e dello "spirito di carità" paolino ("Il parto maschio del tempo" - "Temporis Partus Masculus", 1602) del teorico della Nuova Atlantide...
Nota: Sul tema, cfr. la preghiera che è inserita nella prefazione della Instauratio magna (1620).
Federico La Sala
Cosmologia.
Sull’eternità anche la scienza è davanti a un atto di fede
Multiversi e universo circolare sono teorie che non possono essere provate sperimentalmente. Per uscire dall’impasse serve un approccio che faccia propri i metodi della filosofia e della teologia
di Piero Benvenuti (Avvenire, domenica 15 maggio 2022)
Sin dall’emergere della coscienza, l’umanità si è confrontata con l’evidente temporalità della propria vita terrena contrapposta all’esistenza di un cosmo irraggiungibile e apparentemente eterno. La regolare ripetizione dei fenomeni celesti, dai più semplici, come l’alternarsi del giorno e della notte o delle fasi lunari, sino ai più complessi, come il ripetersi ciclico delle eclissi ogni 18 anni o il moto di precessione delle costellazioni che richiesero secoli di accurate osservazioni per essere rivelati, testimoniavano una immutabilità cosmica nel tempo che sta alla base del concetto di eternità. Anche da questo confronto nasce l’aspirazione della coscienza umana a superare il limite imposto dalla morte fisica, immaginando la possibilità di proseguire o quantomeno di conservare la propria esperienza in un’altra dimensione simile, se non addirittura coincidente con l’atemporalità o eternità del cosmo.
Questo desiderio primordiale prese forma concreta nei secoli grazie, da un lato, alla visione aristotelica del cosmo, che separava nettamente il mondo terreno, mutevole e corruttibile, dall’empireo eternamente perfetto delle sfere cristalline e dall’altro alla teologia scolastica che, sposando il modello aristotelico, identificava nel cielo quasi il luogo fisico, il Paradiso, dove godere della vita ultraterrena, della vita eterna, come recita tutt’ora il Credo apostolico.
Le sfere cristalline vennero definitivamente infrante da Galilei nelle notti fatali del dicembre 1609 con le prime osservazioni del cielo con il suo cannocchiale, ma il concetto di eternità celeste rimase vivo, anche se non più sostenuto da una cosmologia comprensibile. Solamente a partire dalla metà del secolo scorso, grazie alle rivoluzionarie teorie della fisica quantistica e della relatività generale e al contemporaneo progresso tecnologico, una nuova cosmologia ha cominciato a prender forma. Sin dall’inizio il nuovo modello interpretativo rivelò la sua caratteristica fondamentale: l’universo è essenzialmente evolutivo, ha una storia che lo ha fatto passare attraverso fasi diversissime tra loro, ma tutte strettamente collegate da un processo unitario che ha prodotto entità e fenomeni di crescente complessità. Negli ultimi decenni, i nuovi sofisticati strumenti osservativi - gli eredi del cannocchiale galileiano - operanti sia da terra che dallo spazio, hanno permesso ai cosmologi di ricostruire la storia cosmica con notevole precisione lungo un periodo di ben 13,8 miliardi di anni.
Tralasciando i dettagli del modello cosmologico e soffermandoci unicamente sulla sua caratteristica essenziale, ovvero la sua evoluzione spazio-temporale, dovremmo ora riprendere l’analisi del concetto di eternità alla luce della nostra nuova interpretazione scientifica della realtà. Prima però di addentrarci nel tema, sono necessarie alcune premesse, tutte conseguenti dalla epistemologia cosmologica.
Innanzitutto dobbiamo chiederci se il metodo scientifico galileiano, che ci ha permesso di ricostruire e descrivere con successo le singole fasi dell’evoluzione cosmica e soprattutto di averne evidenziato l’evoluzione, sia veramente in grado di descrivere il cosmo come fenomeno unico e unitario. La risposta non può che essere negativa: infatti il metodo scientifico poggia sulla possibilità di ripetere l’esperimento che si vuole descrivere, eventualmente modificando le condizioni al contorno in modo da far emergere quelle regolarità che vanno sotto il nome generico di leggi fisiche. Nel caso dell’universo, tale essenziale procedimento è impossibile per l’unicità del fenomeno cosmico. Inoltre, non solo non possiamo modificare le condizioni di partenza, ma non siamo nemmeno in grado di quantificarle, il che impedisce di distinguere tra condizioni iniziali e leggi fisiche preesistenti.
Da decenni ormai i cosmologi stanno indagando la possibilità di unificare le due grandi teorie fisiche del ventesimo secolo, la fisica quantistica e la relatività generale, ma sorge sempre più prepotentemente il dubbio che l’esistenza di leggi universali - la gravità e le interazioni fondamentali - e la loro validità in ogni epoca dell’evoluzione, sia un’illazione indebita. In altre parole, anche le cosiddette leggi universali, dedotte nel presente, potrebbero essere emerse in epoche primordiali come prodotto dell’evoluzione stessa. In definitiva, un motivo in più per ammettere, con umiltà galileiana, che il metodo scientifico da solo non è adatto a descrivere la totalità cosmica e soprattutto le sue fasi iniziali.
Di fronte a questa crisi epistemologica, la cosmologia ha reagito proponendo modelli che cercano di aggirare il problema delle condizioni iniziali e dell’inizio stesso. Il nostro universo sarebbe uno dei tanti o infiniti possibili "multiversi", ognuno dei quali potrebbe aver avuto condizioni iniziali diverse e seguire quindi storie evolutive indipendenti. Oppure l’universo potrebbe avere una storia ciclica, senza un vero e proprio inizio. Teorie affascinanti e scientificamente plausibili, ma intrinsecamente non verificabili in quanto gli eventuali universi paralleli non potranno mai comunicare tra loro, così come un universo ciclico non può inviarci messaggi circa la sua precedente esistenza. Queste proposte di uscita dall’impasse cosmologico non sono scientificamente verificabili e appartengono quindi alla più ampia categoria delle teorie filosofiche e teologiche. Conseguentemente richiedono, per essere accettate, un atto di fede: torneremo a breve su questo punto.
Possiamo ora trarre una prima conclusione sul concetto di eternità: banalmente potremmo associarlo alla evoluzione cosmica che non prevede un termine temporale. Tale accostamento è però di scarso o nullo interesse, visto che l’evoluzione locale del nostro sistema solare ne prevede comunque una fine fisica, unitamente all’umanità tutta: una fine molto lontana nel tempo, quando il Sole diventerà una stella gigante e ingloberà tutti i pianeti, ma pur sempre inevitabile.
Questo concetto di durata eterna del cosmo, applicabile anche ai multiversi e all’universo ciclico, non si pone quindi in alcuna relazione con la nostra coscienza e con l’escatologia, ovvero la speranza di una sua sopravvivenza alla morte. La discussione diviene più interessante se superiamo il concetto di cosmologia scientifica, che si occupa unicamente della realtà fisica e misurabile del cosmo, e, consapevoli che l’evoluzione cosmica è unitaria e comprende nella sua storia anche l’emergere della vita biologica e della coscienza, abbracciamo il concetto di una cosmologia globale. Quest’ultima dovrà necessariamente tener conto dei risultati che il metodo scientifico ha evidenziato relativamente alle singole fasi evolutive, ma, ove questo perda, come abbiamo visto, la sua applicabilità, si avvarrà di altre epistemologie, tipicamente filosofiche o teologiche.
Il risultato non sarà quindi una singola cosmologia, ma diversi modelli cosmologici tutti aventi pari dignità veritativa. La scelta di uno di questi non sarà più obbligata da evidenze scientifiche, ma si baserà su un libero atto di fede. Potrò per esempio credere che il cosmo e la sua evoluzione, ivi compresa l’emergere della vita e della coscienza sia frutto del caso (mi trovo per caso nell’unico universo, tra gli infiniti possibili, compatibile con la vita). In questo modello, come abbiamo visto, eternità ed escatologia si trovano su piani incomunicabili. Alternativamente e, sottolineo, con uguale dignità, posso scegliere un modello nel quale il cosmo e la sua evoluzione siano frutto di un libero atto d’amore che mantiene tutta la realtà in esistenza, nell’attesa paziente che da essa emerga una coscienza che, altrettanto liberamente, voglia riconoscere tale atto d’amore e lo ricambi nei confronti del prossimo e di tutto il cosmo. La relazione che si crea in questo mutuo scambio, come conosce bene chi l’ha sperimentata con persone amate che non sono più, resiste agli insulti del tempo ed è per sempre. L’eternità comincia da qui.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MATEMATICA E ANTROPOLOGIA, ALTRO CHE MISTERO. GALILEO GALILEI E’ GALILEO GALILEI ... E LA TRASCENDENZA CRISTIANA NON E’ LA TRASCENDENZA "DELL’ENTE ...CATTOLICO-ROMANO", DEL VATICANO!!! Cerchiamo di "non dare i numeri": il "Logos" non è un "Logo", e la "Charitas" non è la "caritas"!!!
Federico La Sala
Stop al cognome del padre ai figli: cosa cambia in Italia
La Consulta ha stabilito che le norme che regolano l’attribuzione del cognome in Italia sono illegittime e in contrasto con la Costituzione *
In Italia cambiano le leggi che riguardano l’attribuzione del cognome al figlio, con una storica sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittime le norme che regolano questo processo nell’ordinamento del nostro Paese. Nello specifico la Consulta si è pronunciata sulla legge che non consente di attribuire a un figlio il solo cognome della madre e su quella che, in mancanza di un accordo tra i genitori, impone il solo nome del padre, anziché quello di entrambi i genitori.
Perché la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittime le norme sul cognome
La sentenza è arrivata dopo una lunga battaglia legale intrapresa da una giovane coppia lucana per i nomi dei tre figli. I primi due erano stati registrati col cognome della madre e il terzo era stato registrato automaticamente con il cognome del padre perché nato dopo il matrimonio dei genitori.
La famiglia avrebbe voluto registrare con il cognome della madre anche il terzo figlio, per rendere uguali tutti i fratelli, ma gli uffici comunali si erano opposti. I magistrati in primo grado avevano dato ragione al Comune, ma la Corte d’Appello di Potenza ha dichiarato “rilevante e non manifestamente infondata” la questione di legittimità costituzionale delle norme in materia, sollevata dai legali della coppia.
I due avvocati, Domenico Pittella e Giampaolo Brienza, hanno espresso, nei confronti della decisione della Consulta “grande soddisfazione”. Il primo ha raccontato che “la coppia che ha intrapreso questo complesso e faticoso iter giudiziario mi ha chiamato poco fa. I due coniugi sono commossi e consapevoli di avere scritto una pagina storica, loro ci hanno sempre creduto”
Come funziona l’attribuzione del cognome in Italia e come è cambiata negli anni
In Italia, come è noto, il cognome viene assegnato al momento della dichiarazione di nascita per l’iscrizione del nuovo nato nel registro dell’anagrafe. Per prassi avviene in questo modo.
Non esiste una legge specifica in maniera, ma una serie di disposizioni regolatrici di fattispecie diverse, come chiarito dalla Corte Costituzionale nel 2006. Nel 2014 la Corte di Strasburgo aveva condannato l’Italia per la violazione della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo, e nel periodo successivo si era discusso ampiamente nel nostro Paese su come cambiare la legge.
L’Europa ha infatti sottolineato che l’impossibilità di dare il cognome della madre al figlio e l’attribuzione automatica di quello del padre discrimina le donne. Era stata formulata anche una proposta di legge per il doppio cognome ai figli, fermata alla Camera dei Deputati, come vi avevamo raccontato qui.
La Consulta si era espressa contro lo status quo nel 2016 dichiarando l’illegittimità costituzionale della norma che prevede l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo, in presenza di una diversa volontà dei genitori. Dopo quella sentenza è diventato possibile trasmettere anche il cognome della madre, ma solo posponendolo a quello paterno, come già visto.
Secondo quali articoli della Costituzione le norme sul cognome sono illegittime
La nuova sentenza non è ancora stata depositata, ma l’Ufficio comunicazione e stampa della Corte Costituzionale ha fatto sapere che le norme censurate sono state dichiarate illegittime per contrasto con l’articolo 2, l’articolo 3 e l’articolo 117, primo comma, della Costituzione. Quest’ultimo in relazione all’articolo 8 e all’articolo 14 della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo.
Cosa cambia adesso in Italia per l’attribuzione del cognome ai figli: le nuove regole
La Consulta ritiene discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio la regola che attribuisce automaticamente il cognome del padre al figlio. Per il principio di eguaglianza e per l’interesse del bambino, i giudici della Corte Costituzionale hanno stabilito che entrambi i genitori devono poter condividere la scelta sul suo cognome, in quanto elemento fondamentale dell’identità personale.
Dunque la nuova regola permette al figlio di assumere il cognome di entrambi i genitori nell’ordine concordato dai genitori, salvo che questi decidano di attribuirgli soltanto il cognome di uno dei due. Senza un accordo della coppia, spetterà al giudice intervenire, in conformità con quanto dispone l’ordinamento giuridico.
La Corte Costituzionale ha dunque dichiarato illegittime tutte le norme che prevedono l’attribuzione automatica del cognome del padre al bambino, sia per i figli nati fuori dal matrimonio sia per i figli nati nel matrimonio e per i figli adottivi. La sentenza sarà depositata nelle prossime settimane, e spetterà a quel punto al legislatore formulare nuove norme per adattare il sistema a quanto deciso dai giudici.
* Fonte: Qui Finanza, 27 aprile 2022 (ripresa parziale).
GIORNATA DELLA TERRA (22 aprile 2022): SORGERE DELLA TERRA, ANTROPOLOGIA ("ECCE HOMO"), E CONCORDIA.
In memoria del "discorso sulla dignità dell’uomo" (1486) di Giovanni Pico della Mirandola...
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E FILOLOGIA. "Tutti dobbiamo contribuire a fermare la distruzione della nostra casa comune e ripristinare gli spazi naturali: governi, aziende e cittadini dobbiamo agire come fratelli e sorelle che condividono la Terra, la casa comune che Dio ci ha affidato" (Papa Francesco).
IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS. Memoria di Anselmo d’Aosta (21 aprile): riprendere il lavoro sul "Cur Deus Homo" e portarlo oltre l’orizzonte della Dotta Ignoranza (1440) e della Scuola di Atene: meglio seguire l’indicazione di Michelangelo già presente nel Tondo Doni e ripensare il cammino delle Sibille e dei Profeti.
USCIRE DALLA TERRA (CAVERNA)... E, FINALMENTE, VEDERE DALLO SPAZIO, DALLA LUNA, IL SORGERE DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE DELLA CASA COMUNE DELL’INTERO GENERE UMANO: L’ALBA DELLA MERAVIGLIA.... E LA FINE DELLA CLAUSTROFILIA!
Federico La Sala
Dialoghi con la Chimera /1:
MARIA TERESA CARBONE, MADRE/FIGLIO.
A cura di Laura Pugno (Le parole e le cose, 1 Marzo 2022)
Per la verità non so se c’è una storia da raccontare. O forse ce ne sono così tante che non riesco a vederle, smarrita come sono in una foresta di possibilità, anzi in un territorio selvaggio, per citare il titolo del tuo libro sulla poesia come “terzo paesaggio”. Non meno selvaggio, questo territorio - anzi di più - perché è il mio. E allora forse posso cominciare a risponderti con una poesia che ho scritto qualche mese fa:
Che mentre penso
alle persiane rotte e a te che parti
e che penso che sono
me fino in fondo
un’altra me a me inattingibile
mi spinge verso il bagno
che è questa me che regna
sui miei bisogni
sulla vita nuda
che la me a me nota
riveste di pensieri e di intenzioni
Come vedi, qui non c’è la maternità, ma lo spaesamento di fronte a quanto di noi non conosciamo. In fondo, a dispetto delle nostre convinzioni, sappiamo pochissimo di quello che siamo, microscopici puntolini in un universo sconfinato.
E allora, non parto da me, ma dalla parola chimera che deriva dal greco (χίμαιρα) dove inizialmente significava “capra”, anche se molto presto la gentile capretta delle fiabe si è mutata in mostro, testa di leone e coda di drago, “sbuffante terribile fuoco ardente”, come dice Omero. Già in origine, un elemento familiare pronto a trasformarsi e ad atterrirci.
Ti porto due esempi molto contemporanei. Il primo l’ho trovato per caso, cercando l’etimologia del termine “chimera”: nel sito Una parola al giorno, in data 15 febbraio 2012, giusto dieci anni fa, l’anonimo redattore per definire appunto una chimera evocava “la terrifica pandemia annunciata di una qualche influenza animale con zerovirgola casi accertati” - il che, letto oggi, fa una certa impressione. Il secondo è cronaca dei nostri giorni, il recente trapianto del cuore di un maiale in un corpo umano, un intervento che ha prevedibilmente e giustamente aperto un interrogativo cui è difficile rispondere: alleveremo suini (animali cui viene riconosciuta notevole intelligenza, qualsiasi cosa si intenda per “intelligenza”) pur di garantire la sopravvivenza di esseri appartenenti alla nostra specie?
Vedi, il punto per me è che noi stessi - intendo noi umani, ma vale per gli altri animali e le piante e tutto ciò che è vivo - siamo chimere da sempre, frutti di una quantità di incroci avvenuti in ogni fase della nostra storia, ben prima che fossimo o pretendessimo di essere in grado di padroneggiare queste ibridazioni. E torno alla tua domanda, premettendo che le mie conoscenze scientifiche sono limitatissime e quando parlo della “combinazione madre figlio”, come dici tu, mi baso più su sensazioni e sentimenti che su dati certi.
Chiarisco però che lo spunto che aveva dato origine al nostro dialogo, e quindi a questa conversazione, era un’altra scoperta relativamente recente: la presenza di dna maschile nel corpo, e specificamente nel cervello, di donne anche in età molto avanzata che avevano avuto figli maschi - questo è appunto il microchimerismo, e aggiungo per completezza che se ne sono registrati esempi anche in donne che non hanno partorito e che hanno probabilmente acquisito queste cellule allo stato fetale, da gemelli poi riassorbiti dentro di loro. (Spero, se ci saranno studiosi di queste materie fra i lettori di quanto scrivo, che perdoneranno il mio pressapochismo).
Della maternità ho diretta esperienza, e inoltre - come sai - è un argomento che sto studiando nella speranza di affrontarlo in modo non “ideologico” (sarà possibile?), ma forse proprio per questo la osservo con la meraviglia che si prova davanti a un mistero, e quindi senza sorprendermi all’idea che delle cellule dei miei figli - due maschi e una femmina - siano incistate dentro di me a più di trent’anni dalla loro nascita. Perché dovrei stupirmi? Se pure in me c’è qualcosa di “non mio”, cioè di non mio alla nascita, questo “non mio” io non lo conosco, né posso o voglio distinguerlo dal “mio” (“mio” geneticamente e “mio” acquisito dal momento in cui esisto) che, ripeto quello che ho detto all’inizio, mi è altrettanto opaco. Tutt’al più posso rallegrarmi al pensiero che nella continua costruzione di quella persona che io chiamo io, non si ritrovino solo tracce dei miei bisnonni o dei cinodonti del Permiano ma anche particelle del futuro, nella forma del dna dei miei figli, maschi o femmine che siano.
Per quanto ci sforziamo di analizzarci (e ricordiamo, a proposito di etimologie, che “analisi” vuol dire “scomposizione”), sono convinta che il tutto, un tutto in continuo divenire, prevale sulle parti, e questo tutto ci sfugge: ci sono sempre zone in ombra, che non vogliamo vedere, che non sappiamo vedere. Una ignoranza, almeno per me, stupenda e salvifica, perché da un lato ci spinge a conoscere di più, a capire meglio, dall’altro ci nasconde quanto siamo piccoli, irrilevanti, caduchi nella nostra individualità, e dunque ci permette di andare avanti, di vivere.
Sarà un caso allora (e torno a parlare non troppo obliquamente di maternità) che oggi che siamo o ci illudiamo di essere meno ignoranti, il tasso di natalità stia calando - in certi casi crollando - ovunque? Certo, le ragioni sono diverse, e alcune sono molto semplici, concrete, in primo luogo politiche sociali insufficienti, che lasciano i giovani genitori quasi soli a destreggiarsi fra lavori molto spesso precari, e per questo ancora più impegnativi, e la necessaria attenzione alla crescita dei loro figli. Ma mi pare che ci sia una tela di fondo, che il nostro (credere di) sapere di più, mettendoci di fronte ai nostri limiti, ci terrorizzi.
Appartenendo alla generazione di donne che ha affermato “l’utero è mio e lo gestisco io”, oggi mi trovo a ripensare a quella frase, che pure continuo a condividere, da un’altra prospettiva: fino a che punto ognuno e ognuna di noi può dire di possedere il proprio corpo, se smettiamo di vederci come individui e ci pensiamo come appartenenti a una specie?
Oggi si parla tanto delle responsabilità che abbiamo verso chi verrà dopo di noi ed è giusto, giustissimo, ma ho la sensazione che questa responsabilità ci sia troppo gravosa, proprio quando, e forse non è una coincidenza, possiamo (illuderci di) scegliere se/come/quando avere figli.
Ora che i bambini non li portano più le cicogne, non si trovano più sotto i cavoli, che spavento! Tocca a noi decidere e pensa un po’, in un mondo che va malissimo (non che prima andasse alla grande, ma ci facevamo meno illusioni).
Forse la chimera, e quindi la storia, è questa: fino a quando gli umani (parlo soprattutto da donna) saranno disposti ad accogliere quell’assoluto inatteso che è un figlio, una figlia, ibridi come noi eppure già diversi e lontani, come noi proiettati verso una fine che non conosciamo?
Unisco queste due domande, perché davanti alle parole totem e daimon confesso che dovrei costruirmi alla svelta strumenti di cui non dispongo. Ne conosco superficialmente il significato, ma non le uso, non mi appartengono. Ho avuto invece un’educazione cattolica più approfondita di quanto capitasse, anche quando ero bambina, alle mie coetanee e ai miei coetanei. E anche se dalla religione mi sono discostata tanti anni fa, è ancora quella educazione a determinare in larga parte il mio vocabolario, il mio modo di pensare. Per questo, se rifletto sul tempo (mi pare questo, in sostanza, il senso delle tue domande), non posso non fare riferimento a una frase che, da quando l’ho sentita la prima volta, avrò avuto sette o otto anni, continua a risuonare in me: “Prima che Abramo fosse, io sono” (Giovanni, 8:51-59): l’indicativo presente come rappresentazione dell’eterno dove, come su un unico piano, si trova tutto quello che (nella nostra percezione) è stato e sarà.
Se, come ha detto Werner Herzog in Cave of forgotten dreams, a un certo punto della nostra storia “noi umani siamo diventati prigionieri del tempo” (un’altra frase a cui non so rinunciare), vorrei pensare che di tanto in tanto possiamo liberarci da questa schiavitù e riusciamo ad avere accesso a quell’altra dimensione, magari senza rendercene conto, mentre ci abbandoniamo al sonno, mentre sogniamo. Chimere, forse.
SCHEDA EDITORIALE, CON UN BREVE ALCUNE PAGINE DAL LIBRO DI
DEREK BICKERTON,
QUELLO DI CUI LA NATURA NON HA BISOGNO *
QUELLO DI CUI LA NATURA NON HA BISOGNO
IL PROBLEMA DI WALLACE
La struttura di questo libro è semplice. In questo capitolo enuncio un problema e delineo quella che ritengo sia la sua soluzione. Il resto del libro si compone di argomenti ed evidenze a supporto di questa soluzione. Sebbene sia abbastanza facile da enunciare, il problema ha parecchie ramificazioni che ci porteranno a esplorare i territori di molte discipline quali la biologia evolutiva, la paleoantropologia, la psicologia, la neurobiologia e la linguistica. State pur certi che, alla fine, tutto ci ricondurrà alla stessa domanda iniziale, una delle più cruciali che si possano porre: in che modo la specie umana ha acquisito una mente che sembra di gran lunga più po- tente di quanto agli esseri umani serva effettivamente per sopravvivere?
Visto che ormai si usa dare ai problemi il nome di chi per primo li ha sollevati (c’è il problema di Platone, quello di Darwin, quello di Orwell, ecc.), chiameremo il nostro il problema di Wallace, poiché il primo a formularlo in maniera chiara e univoca fu Alfred Russel Wallace, cofondatore insieme a Darwin della teoria dell’evoluzione per selezione naturale. Per dirla con le sue stesse parole: «La selezione naturale avrebbe potuto dotare i selvaggi di un cervello di poco superiore a quello di una scimmia, mentre essi possiedono un cervello che è di poco inferiore a quello di un membro medio delle nostre società scolarizzate» (Wallace 1869, pp. 391-92). Con «selvaggio», l’espressione usata in generale a quel tempo, Wallace intendeva semplicemente qualcuno che aveva avuto quella che molti, oggi, considererebbero l’enorme fortuna di essere nato in una società senza scrittura e pre-industriale. La sua considerazione della capacità intellettuale dei « selvaggi » era abbastanza illuminata per l’epoca - ci sarebbero voluti decenni prima che qualcuno avesse l’onestà di sostituire quel « di poco inferiore » con «eguale». Eppure, riconoscere l’universalità dell’intelligenza umana ha portato a Wallace soltanto problemi e inquietudine.
Se l’evoluzione fosse un processo graduale e la selezione naturale rispondesse solamente alle esigenze imposte agli animali dall’ambiente che abitano, allora gli esseri umani dovrebbero avere un cervello « di poco superiore a quello di una scimmia ». Un cervello leggermente migliore di quello di una scimmia sarebbe comunque bastato per superare in intelligenza qualsiasi altra cosa si muovesse su due o quattro zampe e raggiungere così la cima della catena alimentare. I primi umani non avevano bisogno di occuparsi di matematica, di costruire barche, di comporre musica o di avere idee circa la natura dell’universo per poter fare tutte le cose che in concreto facevano. Il fatto che, all’improvviso, scoprissero di essere dotati di un cervello che potenzialmente avrebbe potuto renderli capaci di tutte queste cose era già abbastanza notevole. Ma ancor più straordinario era che quegli stessi cervelli avrebbero reso capaci coloro che li possedevano di ricoprire il mondo intero delle proprie opere, di immergersi negli abissi più profondi degli oceani e addirittura (meno di mezzo secolo dopo la morte di Wallace) di lasciarsi alle spalle la Terra.
Wallace non riusciva a credere che la selezione naturale avesse potuto fare tutto ciò: una qualche forza sovrannaturale doveva essere intervenuta per creare in maniera improvvisa e inattesa l’immenso divario che sussiste tra le capacità mentali umane e quelle di ogni altra specie. Tale divario sembrava davvero qualcosa di eccezionale perché nulla di simile esisteva altrove in natura. Ciò che si dava negli altri casi era precisamente quello che la teoria della selezione naturale avrebbe predetto: qualche isola di adattamento altamente compito-specifico, sullo sfondo di una altrimenti graduale distribuzione delle capacità cognitive attraverso l’intero range delle specie.
Molti di coloro che hanno scritto di storia della teoria evoluzionista hanno attribuito le teorie di Wallace sull’evoluzione umana alla sua conversione allo spiritualismo - un buon modo per far scomparire del tutto il suo problema. Ma, a prescindere dalle convinzioni dello stesso Wallace, il problema che egli ha sollevato rimane. La mente umana è uno sviluppo evolutivo del tutto improbabile, da qualsiasi punto la si guardi; e dovremmo rendere onore all’onestà che Wallace mostrò nel-l’affrontare questo problema, indipendentemente dalle nostre inclinazioni personali nei confronti della soluzione che egli proponeva.
Sebbene Wallace sia stato il primo a dare una chiara articolazione al problema, quasi certamente altre menti illustri di epoche precedenti ne furono in qualche modo consapevoli.
Quando Shakespeare scrisse i versi riportati in esergo all’inizio di questo libro, presumibilmente non intendeva esprimere altro che la rabbia di Lear nei confronti della figlia che aveva ridotto il numero dei suoi servitori. Ma con Shakespeare c’è sempre un livello ulteriore di significato nascosto tra le righe (una delle ragioni per cui è il più grande tra gli scrittori). E in queste righe si cela la sua consapevolezza che anche «i più umili » tra gli uomini possedessero molto di più di quanto non servisse per meri scopi di sussistenza materiale e che, paragonate alle nostre, le vite delle «bestie» sono di gran lunga più limitate. Come questo sia potuto accadere senza l’intervento di una qualche misteriosa forza esterna all’evoluzione è il tema di questo libro.
LA RISPOSTA DI DARWIN
Senz’altro Darwin si rese conto del problema: «Non può esservi dubbio che la differenza tra la mente dell’uomo inferiore e quella dell’animale superiore sia immensa » (Darwin 1871, p. 100 [trad. it. p. 106]). Egli mostrava la stessa considerazione di Wallace nei confronti dei « selvaggi », notando « quanto strettamente ci assomigliassero nelle loro disposizioni e in molte delle nostre facoltà mentali » (p. 34 [trad. it. p. 63]) i tre fuegini che si trovavano a bordo del Beagle. Tuttavia, allo stesso tempo, aveva ingegnosamente disarmato l’argomento del divario tra scimmia ed essere umano sostenendo che « vi è una differenza molto maggiore di capacità mentale tra uno dei pesci inferiori ... e una delle scimmie superiori, che tra questa e un uomo» (loc. cit.). Se c’era una gradazione in un caso, allora, nonostante le apparenze, doveva esserci anche nell’altro, e infatti « si può dimostrare che non c’è differenza fondamentale tra l’uomo e i mammiferi superiori » (loc. cit. [p. 64]).
Questo però è un mero gioco di prestigio. La gradazione d’intelletto tra una lampreda e uno scimpanzé non è un argomento contro il divario ma a favore di esso. Se vi sono innumerevoli specie dotate di capacità a metà strada tra quelle di una lampreda e quelle di uno scimpanzé, dovrebbero esserci anche molte specie intermedie tra esseri umani e scimpanzé. Come mai, allora, non ci sono animali dotati di una piccola o moderata quantità di autocoscienza, né c’è un aumento graduale della capacità di innovazione o della creatività, né ci sono livelli diversi di produzioni artistiche (anche solo in una singola arte o in due), o per lo meno un linguaggio rudimentale? Il mero asserire che non vi è nessuna «differenza fondamentale» non è (e non avrebbe potuto essere, neppure al tempo di Darwin) un pronunciamento scientifico. Era ed è una pura e semplice dichiarazione di fede.
Darwin aveva cercato un fondamento empirico per questa sua dichiarazione avvalendosi degli stessi metodi che aveva usato per supportare le proprie tesi nell’Origine delle specie: accumulando un’ampia scorta di resoconti a carattere aneddotico circa il comportamento degli altri animali. Ma quello che funziona quando ci sono delle evidenze oggettive nella conformazione fisica delle varie specie funziona molto meno quando si tratta di capacità mentali. Dal momento che non vi sono dati oggettivi e non ambigui a supporto di questi aneddoti, ci si deve affidare ciecamente alle interpretazioni soggettive, le quali, come è noto, sono incerte e inaffidabili. La tendenza tipica degli esseri umani ad antropomorfizzare marchia troppe di quelle evidenze.
Eppure, anche in questo caso, Darwin, pensatore sempre cauto, trova un modo per salvaguardarsi. Egli continua a professare la propria fede nel fatto che « la differenza mentale tra l’uomo e gli animali superiori, per quanto sia grande, è certamente di grado e non di genere». Ma gli esempi che porta in quello stesso paragrafo fanno tutti riferimento alle emozioni più che ai processi cognitivi. Si sente costretto a suggerire subito un piano alternativo: « Se si potesse provare che alcuni elevati poteri mentali, come la formazione di concetti generali, l’autocoscienza, ecc. sono assolutamente peculiari all’uomo, il che sembra estremamente dubbio, non sarebbe improbabile che queste qualità apparissero come il risultato incidentale di altre facoltà intellettuali altamente avanzate e queste ancora principalmente il risultato dell’uso continuo di un linguaggio perfetto» (p. 101 [trad. it. p. 106]).
Si trattava di un’intuizione brillante, ma al tempo di Darwin non poteva essere molto più di una cambiale. [...]"
*
Fonte: Adelphi. (ripresa parziale).
PSICOANALISI ANTROPOLOGIA FILOSOFIA E FIABA. TRACCIA PER UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA... *
L’Enfant et les sortilèges: un saggio psicoanalitico in musica
Opera in due parti di Maurice Ravel su libretto di Colette
di Franca Munari (Centro Veneto di Psicoanalisi)
L’Enfant et les sortilèges è un’opera composta da Maurice Ravel fra il 1919 ed il 1925, su libretto di Colette. Si tratta della seconda ed ultima opera lirica di Ravel. Capolavoro di orchestrazione, L’Enfant et les sortilèges viene spesso eseguita in forma di concerto anche per le difficoltà della sua messa in scena. Fu rappresentata per la prima volta il 21 marzo 1925 nella Salle Garnier del Grand Théâtre di Montecarlo, orchestra diretta da Victor de Sabata, coreografia di George Balanchine, regia di Raoul Gunsbourg.
E’ composta da una successione di quadri indipendenti costituiti da una moltitudine di generi musicali, dal jazz al foxtrot passando per il ragtime, la polka, il valzer ed infine un coro di musica sacra. Con quest’opera Ravel ebbe modo di dimostrare le sue capacità di compositore e di orchestratore, che gli consentirono di tradurre in suoni tutte le onomatopee contenute nel libretto di Colette, utilizzando spesso come strumenti oggetti inconsueti come la grattugia per il formaggio, la raganella a manovella, la frusta, i crotali, un ceppo di legno, o strumenti desueti come eoliofoni, flauto a coulisse ed il nuovissimo, per l’epoca, e originale luthéal. Più vicino alle attuali commedie musicali che ad un’opera, L’Enfant et les sortilèges è un lavoro senza precedenti nel repertorio di Ravel: esprime la sensibilità del compositore e nello stesso tempo rivela il suo gusto per l’incantesimo e la minuziosità della sua orchestrazione.
Straordinaria l’animazione - e raramente questa parola fu più appropriata - degli oggetti concreti di Colette e la loro trasposizione in musica di Ravel. Walt Disney con le sue Silly Simphony (1929-1939) e poi con Fantasia (1940) era ancora di là da venire.
Il libretto.
C’è un bambino nella sua stanza
Il Fanciullo, sei o sette anni, siede al tavolino
Non ho voglia di fare i compiti
Ho voglia di andare a passeggiare.
Ho voglia di mangiare tutti i dolci.
Ho voglia di tirare la coda al gatto.
E di tagliare quella dello scoiattolo
Ho voglia di sgridare tutti!
Ho voglia di mettere la mamma in castigo.
Nella descrizione della madre che entra nella stanza, madre di cui si vede solo la parte inferiore del corpo le indicazioni di scena dicono:
“S’apre la porta. Entra la Madre, o piuttosto quello che ne permettono di vedere il soffitto molto basso e le proporzioni della scena, ove tutti gli oggetti sono di dimensioni esagerate per mettere in evidenza la piccolezza del Fanciullo: cioè una giubba, la parte inferiore d’un grembiule di seta, la catenella d’acciaio da cui pende un paio di forbici, e una mano. Questa mano s’alza, interroga con l’indice.”
La madre sgrida e punisce il bambino che non ha fatto i compiti e ha sporcato di inchiostro il tappeto, dandogli solo tè senza zuchero e pane secco per merenda.
Quando la madre se ne va il bambino “Con un manrovescio fa saltare la teiera e la tazza, che vanno in pezzi. S’arrampica sulla finestra, apre la gabbia dello Scoiattolo e con la sua penna di ferro punge la bestiola che, ferita, stride e scappa via; poi tira la coda al Gatto, che soffia e si nasconde sotto una poltrona. Impugna l’attizzatoio come una spada, sparpaglia il fuoco, rovescia il bricco. S’avventa contro le figurine della tappezzeria lacerandole. Apre la cassa dell’orologio e si aggrappa al bilanciere d’ottone, che si stacca e gli resta fra le mani. Poi fa a pezzi quaderni e libri.”
Gli oggetti maltrattati gli si rivoltano contro.
IL FUOCO
Saltellando fuori del camino, sottile, scintillante di pagliuzze d’oro:
Indietro!
Io riscaldo i bravi bambini, ma brucio i cattivi!
Piccolo barbaro impudente,
tu hai insultato tutti gli Dei protettori,
che stanno fra l’infelicità e la tua
fragile barriera.
Ah! Tu hai brandito l’attizzatoio,
rovesciato il bollitore,
sparpagliato i fiammiferi, attenzione!
Attenzione al Fuoco che danza!
Tu fonderai come un fiocco
sulla sua lingua scarlatta!
Ah! Attenzione! Io riscaldo i bambini buoni!
Attenzione! Brucio quelli cattivi!
Attenzione! Attenzione! Attento a te!
IL FANCIULLO
Ho paura, ho paura!
A questo punto compaiono la gatta e il gatto di casa che la corteggia.
Approcci, ripulse, schermaglie
IL GATTO E LA GATTA
nhou! Mòrnàou, nàour, moàou!
Monhin! Méràhon!
In realtà i gatti hanno un vero e proprio amplesso, la musica lo descrive chiaramente, e nella realizzazione scenica il bambino li guarda attonito e anche spaventato.
Uscito in giardino il bambino viene rimproverato dalle bestie per aver separato le coppie della libellula e del pipistrello, e perché i piccoli del pipistrello sono rimasti senza madre.
IL FANCIULLO
Senza madre!...
[Guardando il gatto e la gatta che si fanno le coccole e le altre coppie di animali]
Si amano. Sono felici. Non si curano di me...
Si amano... non si curano di me... io sono solo...
Mamma!...
LE BESTIE
Ah! c’è il Bambino col coltello!
C’è il Bambino con il bastone!
Il bambino cattivo della gabbia!
Il bambino cattivo della reticella!
Quello che non ama nessuno
e che nessuno ama.
Dobbiamo fuggire?
No! Bisogna castigarlo.
Io ho i miei artigli!
Io ho i miei denti!
Io le mie ali dotate di unghie!
Uniamoci, uniamoci! Ah!
Gli oggetti attaccati diventano persecutóri
Si fanno tutte addosso al Fanciullo per ferirlo; nella lotta si feriscono anche fra loro. Il Fanciullo cade a terra malconcio. Quasi nello stesso tempo un piccolo scoiattolo, ferito nella mischia, gli cade accanto con un grido acuto. Il Fanciullo si toglie un nastro dal collo e fascia la zampa ferita dello Scoiattolo, poi ricade senza forze. Silenzio e stupore delle bestie
LE BESTIE
(esitando, in sordina)
ma...mma
LE BESTIE
È buono, il bambino, è bravo, molto bravo, è
così bravo e così buono.
Ha medicato la ferita, tamponato il sangue.
È bravo, così bravo, così dolce.
È buono il bambino, è bravo, molto bravo.
È così dolce
IL FANCIULLO
(tendendo le braccia)
Mamma!
(Una luce si accende dietro i vetri nella casa. Nello stesso tempo la luna, non velata da nubi, e i riflessi rossi e d’oro del sole tramontato, inondano il giardino di limpida chiarezza. Canto di usignoli, mormorio di alberi e di bestie. Le bestie, ad una ad una, ritirano al Bambino il loro aiuto diventato inutile, sciolgono armoniosamente, con rimpianto, il loro gruppo che si era stretto attorno a lui, ma continuano a scortarlo, anche se da un po’ più lontano: gli fanno festa con lo sbatter delle ali, con capriole di gioia, e poi, fermando all’ombra degli alberi il loro benevolo corteo, lasciano il Bambino solo. In piedi, luminoso e biondo, in un alone di luna e di aurora, tende le sue braccia verso ciò che le bestie hanno chiamato «Mamma!»)
La dichiarazione del bambino relativa alla sua sofferenza per l’esclusione edipica: “Si amano. Sono felici. Non si curano di me...” sembra far infuriare tutti gli animali che ha attaccato, fino a quando lui non fascia con la sua sciarpa la zampa dello scoiattolo che nel parapiglia si è ferito. Le bestie si arrestano vedendo che lo ha fatto e lo aiutano cercando di riportarlo a casa dove potranno aiutarlo.
Questa “favola” e il lavoro di Melanie Klein su di essa, Situazioni d’angoscia infantile espresse in un’opera musicale e nel racconto di un impeto creativo mi tornano sempre alla mente quando lavorando mi accade di assistere ad una situazione o una fase di distruttività rabbiosa, e in qualche modo disperata, di un paziente, adulto o bambino.
Melanie Klein non vide questa rappresentazione, ma lesse la recensione della sua messa in scena berlinese, dove portava il titolo di La parola magica, fatta da Eduard Jakob sul Berliner Tageblatt dal quale prese il contenuto dell’opera e presentò questo lavoro, alla Società britannica di psicoanalisi il 15 maggio 1929. (Munari 2021)
La cosa straordinaria è la costanza nella clinica del ritrovamento e della ripetizione della costellazione di questi temi a contenuto distruttivo, ovviamente diversamente declinati e diversamente rappresentati in scene a seconda del soggetto, seguiti da elementi intensamente persecutori, fino, attraverso il lavoro analitico, a una riparazione finalmente possibile. Proprio come in questa favola, in cui Colette si fa letteralmente “psicoanalista di bambini”, così la definisce Julia Kristeva nel volume a lei consacrato, di Il genio femminile (2002).
Bibliografia
Colette (19) L’enfant et les sortilèges. Trad. it. del libretto. L’orchestra virtuale del Flaminio. flaminioonline.it
Klein M. (1929) Situazioni d’angoscia infantile espresse in un’opera musicale e nel racconto di un impeto creativo. In Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino.
Kristeva J. (2002) Le génie féminin, t. III: Colette, Paris, Gallimard, 2004
Munari F. (2021) Favole: L’enfant et les sortilegès. Le trame dell’edipo. Centro Veneto di Psicoanalisi, 23 gennaio 2021
Ravel M. Colette L’enfant et les sortilèges. Par Opera de Lyon. youtube
Ravel M. Colette L’enfant et les sortilèges. Par Opera de Lausanne. youtube
NOTA: RIPARTIRE DAL BAMBINO. ...
Ricordando il lavoro su "Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe" (Bruno Bettelheim, 1976), un gran plauso a Franca Munari per la ripresa della riflessione su "L’Enfant et les sortilèges", opera composta da Maurice Ravel fra il 1919 ed il 1925, su libretto di Colette (pseudonimo di Sidonie-Gabrielle Colette) intitolato inizialmente "Divertissement pour ma fille"!
Tenendo ferme acquisizioni già presenti nel "lavoro di Melanie Klein su di essa" (1929), Munari formidabilmente così commenta: "La cosa straordinaria è la costanza nella clinica del ritrovamento e della ripetizione della costellazione di questi temi a contenuto distruttivo, ovviamente diversamente declinati e diversamente rappresentati in scene a seconda del soggetto, seguiti da elementi intensamente persecutori, fino, attraverso il lavoro analitico, a una riparazione finalmente possibile. Proprio come in questa favola, in cui Colette si fa letteralmente “psicoanalista di bambini”, così la definisce Julia Kristeva [...]".
Detto questo, a ben vedere, c’è solo da ripartire dal Bambino e (almeno e ancora!) del gioco del rocchetto ... dare il via a una seconda rivoluzione copernicana non solo in filosofia, ma anche in psicoanalisi! Se non ora, quando?!
Freud (come Mosé) non ha cercato di nascere a sé stesso oltre sé stesso e salvarsi dalla claustrofilia?!
ANTROPOLOGIA STORIA PSICOANALISI E COSMOLOGIA: SORGERE DELLA TERRA E NASCITA...
COME NASCONO I BAMBINI?: LA NASCITA RIENTRA NELL’AREA DELLA "CLAUSTROFILIA" (Elvio Fachinelli, 1983). Nonostante la Scuola di Atene e la scuola del sospetto (Marx, Nietzsche, e Freud) e il lavoro fatto, ancora non abbiamo messa la testa fuori dalla Matria e Patria Terra, ancora non siamo nati (come essere umani "terrestri") e ancora non sappiamo nulla né della pace né della guerra, né della nascita né della morte, né dell’amore che muove il sole e le altre stelle (Dante, 1321- 2021)!
DOTTA IGNORANZA (1440) E CLAUSTROFILIA (1983). Nel 2016, Michel Serres confessa: "La filosofia, si dice, conduce alla saggezza [sagesse]. Secondo un altro significato della parola, prima di morire vorrei diventare levatrice - che in francese diciamo sage-femme, cioè letteralmente, «saggia donna» -, vorrei aiutare a partorire il mondo nuovo.
La mia vita intera mi ci ha preparato, attraverso l’ascolto attento degli scricchiolii emessi dal vecchio. Sento le crisi che attraversiamo, le inquietudini che suscitano, come dei lamenti emessi nel travaglio del parto. Amo la #madre, accolgo il #bambino. Possa migliorare incessantemente la mia attività di medico ostetrico, il mio diventare sage-femme" (cfr. "Il mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente" [Le Gaucher boiteux. Puissance de la pensée], Torino, 2016).
Fedeico La Sala
ANTROPOLOGIA, COSMOLOGIA, E TEOLOGIA: IL SORGERE DELLA TERRA...
IL RIBALTAMENTO DEL CUORE, LA NASCITA, E LA SCOPERTA DELL’AMORE ("AGAPE", "CHARITAS"). Al di là della reciprocità ("do ut des") della "carità ("caritas")! *
Il segno e la carne /12. La rinuncia alla reciprocità
La rinuncia alla reciprocità
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 19 febbraio 2022)
I profeti sono la porta che mette in comunicazione Dio con gli esseri umani e gli uomini e le donne con Dio: a noi donano parole divine, a Dio donano le nostre parole migliori che poi egli usa per parlare con noi, in un dialogo continuo dove noi impariamo la lingua di Dio e diventiamo più umani e Dio diventa più Dio.
Il capitolo undici del rotolo di Osea contiene alcuni dei versi più belli e amati di tutta la Bibbia, è una vetta della profezia. Ma non li comprendiamo se arriviamo a questo capitolo senza aver prima attraversato i moltissimi versi di condanna, di maledizione, di delusione, di tradimento dei capitoli precedenti, senza aver incontrato tutte le parole che Osea ha speso per dirci che l’Alleanza tra YHWH e il suo popolo è spezzata per sempre, che la promessa è svanita per l’infedeltà di Israele. Quei capitoli (4-11) sono veri come è vero il capitolo undici. Come è vero il sepolcro vuoto ed è vero il Golgota, perché la verità del primo giorno dopo il sabato non sarebbe tale senza la verità della croce. La grandezza teologica e antropologica di questo capitolo si svela solo a chi ha percorso la via crucis fino alla fine, è arrivato sul monte e non ha trovato tre tende, ma tre croci. Lì ha voluto stare sotto il patibolo, ha visto morire veramente quel profeta diverso, e ha pensato, veramente, che era finito tutto, che quella speranza stupenda si era infranta contro il no degli uomini che non hanno accolto la luce. E poi ha seguito il cadavere nel terreno di Giuseppe d’Arimatea, ha visto porre la pietra sull’entrata della tomba, e ha sentito che quella pietra chiudeva per sempre anche quella breve stagione straordinaria di salvezza. E solo dopo, soltanto dopo questa verità verissima, ha sentito che il suo nome era chiamato da una voce viva: “Maria”. Non un secondo prima.
Quando invece saltiamo i capitoli difficili e duri della Bibbia, quando schiviamo il Golgota e dalla Domenica delle Palme andiamo subito in Galilea, le risurrezioni diventano finte e non salvano nessuno. Solo chi muore veramente può conoscere una risurrezione vera: «Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio. Ma più li chiamavo, più si allontanavano da me; immolavano vittime ai Baal, agli idoli bruciavano incensi. A Èfraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con lacci d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia» (Osea 11,1-4).
YHWH aveva trasformato il giogo degli idoli che opprimevano tutti gli altri popoli in legami d’amore, curando il popolo come un figlio; ma il popolo non aveva voluto sentire nulla, e ha continuato le sue prostituzioni: «Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto, nessuno sa sollevare lo sguardo» (11,7). La libertà guadagnata, grazie all’allentamento del morso del giogo, era diventata occasione per fuggire in cerca di nuovi amanti, era stata usata per allontanarsi da casa. Perché, lo abbiamo imparato anche noi: i legami d’amore restano lacci, e i figli crescono se riescono a spezzare i loro lacci, persino quelli che avevamo creato solo per amarli. Chiamato a guardare in alto: siamo chiamati a guardare le stelle, solo i sapiens lo sanno fare, gli animali non possono guardare il cielo - forse non c’è definizione più bella della vocazione umana.
Ma mentre Osea ripercorre questa tristissima storia di dolore e di fallimento, ecco che accade l’inatteso, e ci ritroviamo in una delle grandi risurrezioni della Bibbia: «Come potrei abbandonarti, Èfraim, come consegnarti ad altri, Israele? Come potrei trattarti al pari di Adma, ridurti allo stato di Seboìm? Il mio cuore si capovolge dentro di me, il mio intimo freme di compassione» (11,8). Senza soluzione di continuità, senza nessun preavviso, Osea fa rotolare la pietra del sepolcro e ci accorgiamo, noi e lui, che è vuoto. Quel non-spazio tra quei due versetti contigui crea un tempo infinito che inverte il senso del libro di Osea. Eravamo davvero convinti che YHWH non potesse fare altro che prendere atto della libertà di Efraim e quindi abbandonarlo alla stessa sorte di Adma e Seboìm (città sul Mar Morto, come Sodoma e Gomorra). E invece no: su quella non-speranza irrompe l’impensato, il verso delle cose viene piegato e inizia per Dio il tempo della fedeltà senza reciprocità - la nostra, la sua reciprocità. Non siamo di fronte soltanto a un pentimento di YHWH (come dopo il Diluvio o dopo la punizione per il vitello d’oro); qui c’è una conversione di Dio, come suggerisce il verbo ebraico che parla di un ribaltamento del cuore. YHWH cambia sguardo, inverte la strada, cambia la direzione della sua azione: dunque si converte. E fa qualcosa che non avrebbe dovuto fare, l’opposto di quanto detto finora.
È una vetta della teologia biblica e delle religioni. Qui davvero Osea è maestro di tutti i profeti, di Isaia e di Geremia. Il Dio del capitolo undici di Osea lotta e vince il Dio dei suoi capitoli precedenti. Deus contra Deum: dentro la stessa Bibbia, dentro lo stesso libro, dentro lo stesso profeta. Da questa lotta emerge un Dio inedito. Questa rinuncia alla reciprocità, non ancora conosciuta dagli uomini, ora diventa possibile per Dio: «Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Èfraim, perché sono Dio e non un uomo» (11,9).
Perché sono Dio e non un uomo: è splendido che la diversità tra Dio e l’uomo stia proprio nel suo essere capace di amare anche senza reciprocità. Come a dirci: “Voi non siete capaci di amare se non siete riamati, io invece non riesco a non amarvi, è per questa incapacità di non amarvi anche se siete ingrati che Io sono Dio”.
La divinità emerge dallo scarto tra l’amore e la reciprocità, un amore che un giorno chiameremo agape, perché questo amore non era la reciprocità della philìa (amicizia) né il desiderio dell’eros. Quasi a dirci: solo un Dio può amare senza reciprocità: voi, che siete cattivi, non vivete la reciprocità con me, neanche io la vivo con voi e vi amo rinunciando alla reciprocità.
Ma poi ci dice anche qualcos’altro. Il Dio di Osea, infatti, da una parte prende le distanze da noi e ci dice parole che non sono ancora le nostre, ma mentre ce le dice ci fa diventare quelle parole diverse, ci sta creando più grandi di come eravamo ieri. Ci mostra una forma di amore che noi non abbiamo ancora, e nel mostrarcela ci rende capaci dell’amore del non-ancora. Meraviglioso.
È così che la parola continua a creare il mondo dicendolo, dicendoci a noi stessi. Noi non siamo il Padre misericordioso che perdona il figliol prodigo prima ancora che gli abbia chiesto perdono, ma ogni volta che ascoltiamo quella parabola di Luca ci nasce il desiderio di somigliarli, vogliamo diventare come lui, diventiamo realmente giorno dopo giorno come lui, finché almeno una volta nella vita ci ritroviamo capaci di accogliere e perdonare un figlio o un amico esattamente come quel padre misericordioso della parabola.
Gli uomini credendo nell’esistenza di Dio hanno detto e dicono molte cose. Una di queste è molto importante: se esiste Dio allora l’uomo non è Dio, quindi non è onnipotente, è limitato e mortale. La Bibbia ha fatto di tutto per tenere viva e operante questa distanza tra il Creatore e noi creature. Ma poi ci ha detto anche un’altra cosa: che siamo stati creati a “immagine di Dio”, e questa parola ha scombinato tutto il rotolo del mondo. Perché se noi siamo immagine di Dio allora ogni volta che Dio ci svela qualcosa di sé ci sta svelando anche qualcosa di noi, qualcosa di diverso, ma anche qualcosa di uguale. Parlandoci della sua giustizia ci parla della nostra giustizia, parlandoci del suo amore ci parla del nostro amore, diverso e simile, e svelandocelo aumenta la somiglianza tra i due amori.
Se guardiamo bene tra le pieghe del mondo, scopriamo ancora qualcosa di entusiasmante. Ci possiamo accorgere che anche le grandi parole umane condividono alcune dimensioni di questa capacità della parola biblica. Scriviamo in una Costituzione, la nostra, che la «Repubblica è fondata sul lavoro» ben sapendo che mentre lo scriviamo la Repubblica non è ancora fondata veramente sul lavoro, perché a fondare la vita sociale c’erano ancora troppi privilegi e ingiustizie. Ma scrivendolo stiamo dicendo, implorando, pregando che la Repubblica possa diventare davvero fondata sul lavoro, vogliamo che quelle parole più grandi di noi abbiano la capacità performativa di cambiare il nostro mondo. Poi scriviamo nei tribunali «La legge è uguale per tutti» ben sapendo che la legge non è ancora davvero uguale per ricchi e poveri, per italiani e stranieri. Ma ogni volta che inauguriamo una nuova aula di tribunale e vi riscriviamo al centro quella frase stupenda stiamo facendo avvicinare il mondo reale a quella parola profetica. Si trova qui una dimensione profetica della terra, quella profezia civile, popolare, cittadina di comunità intere che affidano a poche parole i propri desideri più grandi e i sogni collettivi, che sono autentiche parole-preghiera.
Non sappiamo, infine, come Osea scrisse quel versetto otto del capitalo undici. Forse fu lui il primo a essere tramortito e sconvolto da quanto capì e scrisse. Forse non se lo immaginava, non se lo aspettava, gli arrivò come dono, tutta gratuità, fu risorto da quelle sue parole. O, forse, guardando un giorno un uomo o una donna che era stata capace di amare e di perdonare oltre le infedeltà dell’altro, o ritrovandosi lui stesso capace di amore fedele per sua moglie infedele, Osea intuì che se gli uomini e le donne sono capaci di essere più grandi della loro reciprocità la fonte di questa capacità doveva trovarsi in Dio stesso. O, forse, queste due esperienze sono state una sola, quando Osea nel ricevere quella nuova parola dalla bocca di YHWH, al termine del verso sette gli fiorì un verso differente, vi riconobbe la vita attorno a sé, e finalmente la capì. Una certezza però l’abbiamo: Osea ha incontrato e annunciato una risurrezione perché è arrivato fino in fondo alla crisi sua e della sua comunità. Neanche un centimetro di meno: da dentro la certezza della fine è nata la certezza di un futuro. Troppe volte non risorgiamo perché ci fermiamo alla prima o alla seconda stazione della via crucis, non chiamiamo le crisi col loro nome tremendo, ci consoliamo con piccole risurrezioni e non tocchiamo il fondo degli abissi, dove il piede può tentare un nuovo volo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Cosmologia, antropologia, cristianesimo e civiltà.
"IL FIGLIO DELL’UOMO": UNA QUESTIONE ANTROPOLOGICA E FILOLOGICA...
COSMOLOGIA. “Da Copernico in poi l’uomo rotola dal centro verso una X”. Così Nietzsche, nel 1886. Ma, per un filosofo nato filologo e, per di più, uno dei grandi maestri del sospetto, contrariamente a quanto si è sempre ripetuto in modo "umano, troppo umano", non è bene tornare a interrogarlo e cercare di avere ulteriori dati sulla destinazione "ignota"?
ANTROPOLOGIA. Nel 1888 pubblica "Ecce homo. Come si diviene ciò che si è": un Urlo contro la paolina religione del "Vir Dei", una critica radicale della cosmoteandria faraonica, e un aut aut epocale.
LA PUNTA DI UN ICEBERG BIMILLENARIO: PUGLIA (12 FEBBRAIO 2022). "Ecce Vir": il "caso serio" del quadro intitolato "Sabinus vir Dei".
Tracce per una seconda rivoluzione copernicana
SCIOGLIMENTO DEI GHIACCIAI E RINASCIMENTO, OGGI. Una ristrutturazione epocale e lo sgretolamento della cosmoteandria tradizionale (#cosmo, teologia/ #dio e #andrologia/uomo) è già da tempo in atto: la nascita di una antropologia annunciata già da Michelangelo nel suo "Tondo Doni", con le sue due sibille e i suoi due profeti - non "quattro profeti", come vuole la Galleria degli Uffizi, e da Galileo Galilei con il suo "Sidereus Nuncius" (1610), fondata sulla visione del sorgere della Terra, è già in cammino: un capovolgimento e una nuova ricapitolazione, una radicale inversione logico-storica!
Federico La Sala
9 febbraio: Giornata mondiale della lingua greca.
Se per i Greci si “nasce dal ridere”
In un antico papiro si legge che il mondo sarebbe nato con sette risate e a ogni risata nacque grandiosamente qualcosa... Aneddoti e curiosità sulla lingua di Omero
di Dorella Cianci (Avvenire, martedì 8 febbraio 2022)
Ogni anno, il 9 febbraio, è la Giornata mondiale dedicata alla lingua greca e, mentre da un lato aumenta lo sconforto per la sempre minore considerazione che il nostro Paese dedica allo studio di questa cultura, oltre che alla lingua, soprattutto a causa delle eccessive frammentazioni disciplinari dei Dipartimenti, che spesso escludono il greco, dall’altro si aggiunge la gioia per i tanti eventi promossi in queste ore, di cui molti in collaborazione con l’Ambasciata di Grecia in Italia. Come ricorda Francesco De Martino, grecista pugliese, professore ordinario emerito e un tempo allievo della scuola filologica barese di Carlo Ferdinando Russo, uno dei primi ad aver trasformato l’insegnamento della grammatica greca in una creativa e feconda ripartizione di parole fra dialetti di area eolica, ionica e dorica: “Non ce ne rendiamo conto, ma senza i grecismi e senza i latinismi non riusciremmo quasi più a dire nulla”.
Ci son tanti libri che sviscerano l’elogio della cultura greca e pochi dedicati autenticamente alla lingua, senza farne per forza un elogio, che poi - alla fin fine - rischia di diventare insopportabile per gli studenti. Col greco si descrivono tante sfumature del cuore e della mente (che, peraltro, per i Greci son quasi la stessa cosa, come ci ricorda la parola thymos), ma pochi sanno che il greco ha molto a che fare col ridere.
In un saggio per “Athanor”, una serie annuale diretta da Augusto Ponzio per i tipi di Mimesis, De Martino ha evidenziato che non solo si “muore dal ridere”, ma per i Greci si “nasce dal ridere”. In un antico papiro si legge infatti che il mondo sarebbe nato con sette risate e a ogni risata nacque grandiosamente qualcosa: il tempo, l’acqua, il nous, la luce, la moira, la generazione. In fondo, come noto, ridere è sì la regola degli dei, ma anche, come ricorda Aristotele, un buon marchio di fabbrica dell’uomo, poiché “solo l’uomo, fra tutti gli animali, ride”. E a questo passo, un tempo splendidamente tradotto da Mario Vegetti, alludono sia Rabelais, nel frontespizio del Gargantua (1534), sia Bergson, nel saggio Il Riso (1900).
“Ridere - precisa De Martino - è un atto personale, ma un tempo ritenuto poco eroico, come spiega uno scolio all’Iliade, dove Ettore sorride nel famoso addio ad Andromaca. Eppure il ridere, anche se poco eroico, è decisamente una cosa seria, in Grecia, tanto che a Sparta diventa addirittura una divinità; anche se, qualche volta, con troppa abbondanza, può essere una malattia, come per gli Abderiti (così dice Luciano, nell’opuscolo Come si scrive la storia).
Insomma... Ridere o non ridere? Questo è il problema e di certo Pitagora preferì non ridere o, perlomeno, non farsi mai vedere durante una risata. E così, mentre i commediografi avevano intuito subito la potenza del riso, i filosofi ci arrivarono un po’ più tardi, anche perché, per esempio, per Anassagora o per Aristosseno ridere era vietato, soprattutto con gli allievi, come testimonia Eliano.
Tuttavia, come si legge nel piccolo e brillante saggio di Francesco De Martino, che si rifà a sua volta a grandi pubblicazioni come quella notissima di Carlos Miralles, Ridere in Omero, o come quella di Monique Trédé, Le Rire des Anciens, ma anche quella uscita a Cambridge di Alexander Mitchell, Greek Vase-Panting and the Origins of Visual Humour, il riso, pur se valorizzato tardi dalla filosofia, stette molto a cuore alle dee, come nel caso di Afrodite, dove nell’Inno a lei dedicato è scritto “ride sempre”. Ma ridono anche Atena nell’Iliade e Calipso nell’Odissea! E in alcuni casi riesce a ridere addirittura Demetra, la quale, per definizione, è la dea “senza sorriso”, proprio perché ha perso per sempre sua figlia Persefone. Apollodoro racconta che la vecchia Iambe, anche con qualche oscenità, strappò almeno una risata alla dea.
E’ bene dunque che i giovani studenti sappiamo come la cultura greca, prima in tantissime cose, ha saputo analizzare anche la profondità del ridere, un atto rivoluzionario, che è sempre stato più apprezzato dai giovani, come seppe notare Aristotele nella Retorica, ma anche Platone, quando - nelle Leggi - parlò della preferenza dei ragazzi verso la commedia e dei bambini verso gli spettacoli giocosi e ridanciani dei burattini. Resta il dispiacere per non avere fra le mani quel capolavoro greco che sarebbe stato il II libro della Poetica, forse interamente dedicato al riso, anche se, almeno in apparenza, Aristotele non amò il modo in cui i commediografi seppero usarlo. Fortunatamente possiamo leggere, anche in tal senso, Umberto Eco, che fra le sue tantissime qualità, sappiamo bene come amava la lingua greca, consigliando ai professori di non iniziare dal complicato periodo arcaico, ma dal semplice greco dei Vangeli.
SUL TEMA, SI CFR.:
SUL MITO DI DEMETRA, IAMBE E BAUBO’, cfr. Ernesto De Martino, I Gephyrismi (1934), in "Scritti minori su religione, marxismo e psicoanalisi", Nuove Edizioni Romane, Roma 1993, pp. 56-63.
MARIA CATERINA JACOBELLI, "Il «Risus Paschalis» e il fondamento teologico del piacere sessuale" (1991)" (QUERINIANA, BRESCIA 2004).
Maurizio Bettini, Nascere. Storie di donne, donnole, madri ed eroi, Einaudi, Torino 1998.
Federico La Sala
FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, MITO E STORIA.
DANTE2021: UN PASSO AL DI LÀ DELL’EDIPO. Solo con Virgilio (e con Ovidio) e, soprattutto, con Beatrice (la madre! - Freud docet), Dante poteva e può rinascere (Par. XXXIII, 106-108: "Omai sarà più corta mia favella, /pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante/ che bagni ancor la lingua a la mammella"), uscire dal letargo (Par. XXXIII, 94) e, addirittura, riproporsi - in un’ottica arcadica e messianica (con la sua Divina Commedia) - come "un altro Tifi, un’altra Argo" (Virgilio, Ecl. IV, 34)!
"Ulisse e la sua Odissea... chi non conosce il lungo peregrinare dell’eroe omerico? Ma forse pochi sanno che Ulisse era figlio d’arte: il padre Laerte, infatti, prese parte assieme ai cinquantadue valorosi greci noti col nome di Argonauti, a una mitica impresa che li vedrà solcare i mari fino a Oriente, oltre i confini conosciuti, alla conquista del vello d’oro (la pelle di un ariete dorato che era apparso in soccorso a due giovani Frisso e Elle e li aveva condotti in salvo al di là dei mari, in Colchide).
L’impresa degli Argonauti è una delle più affascinanti del mito greco anche perché il tema del viaggio sulla nave Argo si intreccia non solo con le mille avventure vissute, o la storia d’amore tra Giàsone e Medea, ma anche con temi che in qualche modo hanno a che vedere con la conquista di conoscenze tecnico-scientifiche. Intanto perché Argo è la primissima nave mai costruita, che segna l’inizio della navigazione, per la quale occorrevano conoscenze prima di allora appannaggio esclusivo degli Dei: conoscenze tecniche, geografiche e astronomiche.
La spedizione degli argonauti ai confini orientali del mondo conosciuto si rivela così una spedizione altamente allegorica, in cui si narra di fatto non solo di una missione civilizzatrice ma anche dell’ incontro tra Occidente e Oriente, che aveva già elaborato un sapere astronomico e astrologico; ed è di fatto un’anticipazione di quel che ebbe luogo nella realtà documentata nel III sec. A.C.: il viaggio di Alessandro Magno in India da cui riportò avanzatissime conoscenze matematiche.
Ma ci parla anche di un mito che persiste tutt’oggi: quello del viaggio verso l’ignoto, del desiderio di spingere sempre più avanti le frontiere dello scibile, che tanto caratterizza la ricerca scientifica." (Clara Caverzasio, "La spedizione argonautica, tra mito e scienza", Il Giardino di Albert (ReteDue), 30 maggio 2015)
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STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala