FILI DI ’FUGA’ INTORNO A UN ROCCHETTO. Tracce per una discussione...*
Freud, in Al di là del principio di piacere (1920), riporta il caso di un bambino di un anno e mezzo che non piangeva mai quando la sua mamma lo lasciava per alcune ore, "sebbene fosse teneramente attaccato a questa madre che non solo lo aveva allattato di persona ma lo aveva allevato e accudito senza aiuto esterno".
"Ora questo bravo bambino aveva l’abitudine - che talvolta disturbava le persone che lo circondavano - di scaraventare lontano da sé in un angolo della stanza, sotto il letto o altrove, tutti i piccoli oggetti di cui riusciva a impadronirsi, talché cercare i suoi giocattoli e raccoglierli era talvolta un’impresa tutt’altro che facile. Nel fare
questo - continua Freud - emetteva un «o-o-o» forte e prolungato, accompagnato da un’espressione di interesse e soddisfazione; secondo il giudizio della madre, con il quale concordo, questo suono non era una interiezione, ma significava «fort» («via»). Finalmente mi accorsi - commenta sempre Freud - che questo era un giuoco, e che il bambino usava tutti i suoi giocattoli solo per giocare a «gettarli via».
Un giorno feci un’osservazione che confermò la mia ipotesi. Il bambino aveva un rocchetto di legno intorno a cui era avvolto del filo. Non gli venne mai in mente di tirarselo dietro per terra, per esempio, e di giocarci come se fosse una carrozza; tenendo il filo a cui era attaccato, gettava invece con grande abilità il rocchetto oltre la cortina del suo lettino in modo da farlo sparire, pronunciando al tempo stesso il suo espressivo «o-o-o»; poi tirava nuovamente il rocchetto fuori dal letto, e salutava la sua ricomparsa con un allegro «da» («qui»).
Questo era dunque il giuoco completo - sparizione e apparizione - del quale era dato assistere di norma solo al primo atto, ripetuto instancabilmente come giuoco a sé stante, anche se il piacere maggiore era legato indubbiamente al secondo atto (S. Freud, "La tecnica psicoanalitica", Torino, 1979, pp. 221-222).
Fachinelli nella sua lettura del gioco (E. Fachinelli, "La Freccia Ferma. Tre tentativi di annullare il tempo", L’erba voglio, Milano 1979, pp. 33-39) opera un lieve e originale spostamento, interpreta il «fort» («via») e il «da» («qui», come «non ora» e «ora». Tale interpretazione, pur nell’apparente arbitrarietà completa creativamente il resoconto di Freud e permette di puntualizzare alcuni fatti fondamentali:
1. "nel bambino, l’ordine di successione temporale non è inizialmente differenziato dall’ordine di successione spaziale" (p. 38) e, pertanto, coincidono.
2. Il gioco del bambino è "quasi il gioco di un dio che battendo il piede crea e distrugge l’universo di cui è padrone" (p. 33).
3. "L’annullamento onnipotente, presente nel bambino osservato da Freud, avviene istantaneamente, nel puro ritmo del movimento del braccio e del suono della voce" (p. 45).
Freud, in un passo del tutto trascurato dai vari commentatori, lancia - in modo ’sorprendente’ - il discorso fuori dal campo di azione del bambino: "L’interpretazione del giuoco - egli scrive - divenne ovvia. Era in rapporto con il grande risultato di civiltà raggiunto dal bambino, e cioè con la rinuncia pulsionale (rinuncia al soddisfacimento pulsionale) che consisteva nel permettere senza proteste che la madre se ne andasse. Il bambino si risarciva, per così dire, di questa rinuncia, inscenando l’atto stesso dello scomparire e del riapparire [della madre, fls] avvalendosi degli oggetti che riusciva a raggiungere" (op.cit., 222-223).
Unite, queste due linee d’interpretazione lasciano intravedere un punto di fuga che sembra aprire a suggestive implicazioni e dare al "caso" stesso un respiro eccezionale: a un anno e mezzo il bambino ’conosce’ - più di quanto Freud non immagina - le fondamenta della sua civiltà.
Esplicitiamo e chiariamo questo rapporto fondamentale (Emanuele Severino ci dà il suo aiuto), confrontando i tratti specifici dell’operare del bambino con quelli della metafisica della tradizione occidentale:
1. Platone, Simposio, pf. 205: Ogni atto per cui una cosa passa dal non essere all’essere: creazione (poiesis, pro-duzione, portare alla presenza):
2. "l’elemento decisivo del pensiero greco è l’apertura del mondo inteso come luogo dove le cose escono e ritornano nel nulla, quindi come luogo di dominio" (E. Severino, Intervista, "Lotta Continua", 09.03.1980);
3. "Il concetto fondamentale di tempo, anche se la scienza e la cultura occidentali non se ne rendono perfettamente conto, è quello in cui ’le cose hanno a che fare con il senso dell’essere e del niente’ illuminato dall’ontologia greca. Il tempo è la nientificazione delle cose: il loro uscire e ritornare dal niente (E. Severino,cit.);
4. "Per gli abitatori del tempo ... l’ente è ciò che esce e ritorna nel niente. Quando non ne era ancora uscito era un niente; quando vi ritorna è daccapo un niente. Ma solo perché l’ente è nel tempo - cioè solo perché l’ente è pensato e vissuto come un niente - può sorgere il progetto di guidare l’oscillazione dell’ente tra l’essere e il niente. Solo sul fondamento del tempo è possibile il dominio dell’ente. E, nell’apertura del tempo, la nascita del progetto di dominio e di sfruttamento dell’ente non solo è possibile, ma è inevitabile" (E. Severino, "Gli abitatori del tempo", Roma 1978, p. 31).
Fachinelli, nella lettura del gioco del bambino, condizionata dalla stessa ricerca - centrata sul tempo - preferisce mettere in evidenza e tematizzare più ciò che "funge da supporto per l’atto di annullamento" (op. cit., p. 45) - l’agire o rito ritmico - che l’annullamento stesso.
Chi, invece, mette al centro dell’indagine proprio l’annullamento è Massimo Fagioli, con la sua particolare attenzione al fatto che il bambino fa scomparire addirittura se stesso: "Un giorno la madre - scrive Freud, in una nota aggiunta al resoconto del gioco - era rimasta fuori casa per parecchie ore, e al ritorno venne accolta col saluto «Bebi (= il bambino) o-o-o!», che in un primo momento parve incomprensibile. Ma presto risultò che durante quel periodo di solitudine il bambino aveva trovato un modo per farsi scomparire lui stesso. Aveva scoperto la propria immagine in uno specchio che arrivava quasi al suolo, e si era accoccolato in modo tale che l’immagine se n’era andata «via»" (S. Freud, op. cit., p. 223).
L’elaborazione del concetto di "fantasia di sparizione" di Massimo Fagioli, formulato come insorgenza dell’istinto di morte e, nello stesso tempo, come fantasia di «aggressività» contro la situazione presente, è di rilevanza enorme perché sembra aprire (cfr. "Istinto di morte e conoscenza", in particolare tutto il cap. II, Roma 1972) un varco formidabile - quanto più la fantasia di sparizione è "unita alla libido-piacere" (op. cit., p. 57) - nel muro delle dinamiche di introiezione e proiezione (alla base del ’gioco’ identificatorio, nel quale lo stesso bambino è ’gettato’ dalla madre) in direzione di un cammino e un pensiero autonomo, che sorpassi lo Scilla-Cariddi del sado-masochismo.
Ciò che il gioco del rocchetto illumina non è solo il comportamento del bambino che si avvia a diventare essere umano (capace di intendere e di volere) ma anche il comportamento stesso della madre nel rendere possibile al bambino - alla luce della relazione dialogica, chiasmatica (già avviata) - il ri-specchiamento dialettico (Hegel) del rapporto, ’giocare’ a fare la madre con sé stesso e, al contempo, assisterlo nel processo di ’nascita’ di sé a sé stesso e portarsi al di là del giogo di Narciso e di Edipo e Giocasta.
Con il grido «Bebi o-o-o!», il bambino è diventato la ’madre’ e la madre diventa un "Bebi" senza madre. In questo ’giocare’ emerge con chiarezza l’importanza, come sostiene Fagioli, del ben coniugare la fantasia di sparizione, la libido, e la conoscenza, e, al contempo, la necessità del comprendere che a "far sparire l’oggetto sadico, causa della propria condizione masochistica o di castrazione, è il pensiero ’logico’ derivato" (op.cit., p. 44) - non si tratta di "simbolizzazione primordiale", come pretende Lacan ("Scritti", Torino 1974, p. 571). E, non ultimo, che restare - intelligentemente o meno - dentro l’orizzonte teorico freudiano (il caso in esame lo investe fin nelle fondamenta) significa poi autocondannarsi a stravolgere (o ad assolutizzare, quanto meno) la realtà sotto gli occhi e a rafforzare inconsapevolmente il nichilistico corso della nostra stessa civiltà.
K. Marx, in una pagina famosa dell’Introduzione del 1857, interrogandosi sul rapporto dell’arte greca con l’età presente, scrive: "la difficoltà non sta nell’intendere che l’arte e l’epos greco sono legati a certe forme dello sviluppo sociale. La difficoltà è rappresentata dal fatto che essi continuano a suscitare in noi un godimento estetico e costituiscono, sotto un certo aspetto, una norma e un modello inarrivabili".
Marx continua: "Un uomo non può tornare fanciullo o altrimenti diviene puerile. Ma non si compiace forse dell’ingenuità del fanciullo e non deve egli stesso aspirare a riprodurre, a un altro livello, la verità? (...) E perché mai la fanciullezza storica dell’umanità, nel momento più bello del suo sviluppo, non dovrebbe esercitare un fascino eterno come stadio che più non ritorna? Vi sono fanciulli rozzi e fanciulli saputi come vecchietti.
Molti dei popoli antichi - prosegue sempre Marx - appartengono a questa categoria. I greci erano fanciulli normali. Il fascino che la loro arte esercita su di noi non è in contraddizione con lo stadio sociale poco o nulla sviluppato in cui essa maturò. Ne è piuttosto il risultato, inscindibilmente connesso con il fatto che le immature condizioni sociali in cui essa sorse e solo poteva sorgere, non possono mai più ritornare" (K. Marx, "Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica", Firenze 1968, p. 40).
La connessione emersa tra il gioco del rocchetto del nipotino di Freud e la metafisica greca, e l’ipotesi marxiana che noi siamo ancora fermi nell’orizzonte dei greci, non invalida e neutralizza la spiegazione dello stesso Marx e, addirittura, non mostra noi stessi ancora fanciulli?!
Discutere oggi e di nuovo sul gioco del rocchetto potrebbe essere un’ottima occasione per capire qualcosa in più del nostro ’destino’ e, forse, constatare che Emanuele Severino ha più ragione di quanto non sembri nel suo dire: "I mortali sono la Gioia del Tutto, ma credono di essere mortali, padroni e creatori. Sotto la coltre che li copre brilla la Gioia del Tutto: la Gioia è l’inconscio essenziale dei mortali: la coltre è la follia estrema, ossia la loro fede, ciò che essi credono di vedere e di fare (E. Severino, Intervista, cit.); e, infine, nel riconsiderare l’indicazione parmenidea: "Non distaccherai l’essere dalla sua connessione con l’Essere".
* Federico La Sala (1980).
LA FRECCIA FERMA. L’ITALIA IN PREDA A UNA GRAVE E PROFONDA NEVROSI OSSESSIVA (BELFAGOR, 3, 1980, pp. 363-365).
NOTA (2022)*
Antropologia Filologia e Ricapitolazione: il sorgere della Terra, il punto fermo di una epocale inversione logico-storica.
AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE (Cantico dei cantici, 8.6). L’amore non è lo zimbello del tempo...
QUESTIONE ANTROPOLOGICA: ECCE HOMO. L’ Amore "vince tutto": MA quello antropologico-evangelico di Gesù o quello andrologico di Paolo di Tarso ("di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio": 1 Cor. 11, 1-3)?!
SE DIO è amore ("Deus charitas est"), e "non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" ("non est Iudaeus neque Graecus, non est servus neque liber, non est masculus et femina; omnes enim vos #unus estis in Christo Iesu" - Galati, 3.28), NON "È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010)?!
A che gioco giochiamo, ancora?!
Non è ora di uscire dal tunnel (Dante Alighieri, Inf. XXXIV, 90)?!
Dopo Tebe, l’enigma della sfinge di Edipo non è stato risolto nemmeno con l’andata di Freud e Jung negli Usa! E l’intera umanità non ha ancora compreso né come nascono i bambini né che cosa significa vedere e aver visto il sorgere della terra!
* (07 Gennaio 2022)
NOTA (2022) **
SORGERE DELLA TERRA, ANTROPOLOGIA E URGENZA DI UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA:
“Conoscere se stessi è l’inizio di ogni saggezza”, così Aristotele. Ma, dopo il "maestro di color che sanno", ogni essere umano di ogni Accademia è rimasto all’Inferno (IV, 131) ad ascoltare le lezioni degli antichi e nessuno ha più ritrovato la "diritta via" (Dante 2021)?!
LA RIVOLUZIONE FRANCESE, NAPOLEONE, E HITLER. Marc Bloch così concludeva la sua riflessione sulla strana disfatta (1940): «Hitler diceva, un giorno, a Rausching: "Facciamo bene a speculare più sui vizi che sulle virtù degli uomini. La Rivoluzione francese si richiamava alla virtù. Sarà meglio per noi fare il contrario". Si perdonerà a un Francese, cioè a un uomo civile - che è la stessa cosa - di preferire, a questo insegnamento, quello della Rivoluzione e di Montesquieu: "In uno Stato #popolare è necessaria una forza, che è la virtù"»(Marc Bloch, "La strana disfatta. Testimonianza scritta nel 1940").
UNA SEDUTA DI "PSICOANALISI" NEL "LABORATORIO" DI GALILEO GALILEI: LA SCOPERTA DEL PRINCIPIO DI INERZIA (PRINCIPIO DI RELATIVITÀ GALILEIANA), E LA NUOVA LOGICA DELLA RICERCA SCIENTIFICA:
L’ALBA DELLA MERAVIGLIA. Non è, forse, il caso di ripensare l’esperimento della nave e riprendere a tutti i livelli - al di là della logica edipico-socratica e platonico-aristotelica - il dialogo e la navigazione di Giasone e Ulisse sulla diritta via di Dante e di una seconda "rivoluzione copernicana" con Kant e, finalmente, riammirare con rinnovata gioia il Sorgere della Terra, il pianeta natìo dell’intero genere umano, passato e presente?
(28.03.2022).
LE 21 DONNE DELLA COSTITUENTE |
FREUD E RANK: UN INVITO A RIPRENDERE LA RICERCA SUL TEMA DELLA NASCITA E DELL’ ANTROPOLOGIA (PSICOANALITICA E FILOSOFICA).
UNA NOTA *
Angoscia di separazione
A cura di Giorgio Mattana (SpiPedia / La Ricerca, Luglio 2014)
L’angoscia di separazione, introdotta per primo da Otto Rank (1924) con il concetto di trauma della nascita, fa riferimento a un evento centrale e caratteristico di ogni relazione,a partire da quella primaria fra madre e bambino. Immerso in una situazione di dipendenza totale dalla madre, il neonato può vivere la separazione da essa come un evento estremamente drammatico, capace di ripercuotersi negativamente sulle future separazioni adulte, e prima ancora sul vissuto di quei processi fondamentali di separazione che sono lo svezzamento, la crescita, l’adolescenza e la maturità.
Nel caso di un poco felice superamento delle prime angosce infantili di separazione, anche il vissuto della morte come separazione definitiva sarà difficilmente elaborabile e integrabile nella prospettiva di vita del soggetto. Nell’ambito della revisione della sua prima teoria dell’angoscia, Freud (1926) chiaramente antepone all’angoscia di castrazione legata alla fase fallica e al dramma edipico un’angoscia di separazione che rimanda a fasi evolutive precedenti, e tuttavia in qualche modo già prefigura quelle successive, nella fedeltà a un modello energetico-pulsionale della mente che individuava il vero pericolo e motivo del “segnale d’angoscia” nella scomparsa dell’oggetto in quanto fonte di soddisfacimento pulsionale. In linea con le ultime formulazioni freudiane, la Klein (1935) sottolinea come nel corso dello sviluppo il bambino vada inevitabilmente incontro a situazioni di separazione o di perdita, le prime e più significative delle quali riguardano la nascita e lo svezzamento. Quest’ultimo in particolare, nella sua connessione con la separazione dalla madre e l’ingresso nella posizione depressiva, rappresenterebbe il modello di tutte le perdite successive. Benché espresse in un linguaggio pulsionale, le formulazioni kleiniane sembrano inscriversi più organicamente di quelle freudiane in un contesto relazionale, come risulterebbe dal rifiuto del concetto freudiano di narcisismo primario e dalla tesi della originarietà della relazione con oggetti esterni e interni.
Fra gli autori postkleiniani, Bion (1962) sottolinea la capacità innata del bambino di far fronte alle frustrazioni che inevitabilmente la madre, come rappresentante della realtà, provoca in lui. Si tratta di frustrazioni orali collegate anche alla separazione, come nel caso dello svezzamento, o di frustrazioni edipiche precoci legate alla presenza della figura del padre. Grazie alla sua capacità di rêverie, la madre potrà accogliere l’angoscia di morte che si accompagna nell’infante alla frustrazione dei bisogni più elementari, aiutandolo a trasformarla e tollerarla, oppure fallire in questo compito creando le premesse della sua patologia relazionale adulta. In sintonia con l’ultima Klein (1963), Winnicott (1965) definisce la capacità di essere solo come una delle conquiste evolutive più difficili, ma al tempo stesso essenziali al raggiungimento della maturità affettiva. Il bambino sviluppa la capacità di essere solo in maniera progressiva: dapprima in presenza della madre e successivamente, in maniera graduale, attraverso l’interiorizzazione di questa, fino alla possibilità di essere veramente solo, inconsciamente sostenuto dalla sua rappresentazione interna.
Notevole supporto empirico alle formulazioni postfreudiane dell’angoscia di separazione proviene dalle osservazioni effettuate da Bowlby (1960, 1988) nell’ambito dei suoi studi sull’attaccamento. Questo autore concepisce l’angoscia di separazione come qualcosa di primario e biologicamente determinato, espressione della tendenza innata del bambino a stabilire un intimo contatto emotivo con l’oggetto, e conseguenza diretta della rottura di tale legame. Come evidenziano Emde (1981) e Stern (1985), fin dalla nascita il bambino mostra uno spiccato interesse per l’ambiente umano e ricerca selettivamente l’interazione con esso, contrariamente all’interpretazione prevalente del narcisismo primario freudiano come fase iniziale caratterizzata dall’assoluta chiusura relazionale del soggetto.
Come conseguenza della sua centralità nello sviluppo, numerosi autori postfreudiani pongono particolare enfasi sulla separazione in analisi, suscettibile di far emergere nel transfert gli antichi vissuti separativi del soggetto, fino a farne in alcuni casi l’aspetto centrale del trattamento e delle sue finalità trasformative.
Notevole è l’attenzione riservata dagli autori kleiniani alle difese dall’angoscia di separazione, dalla negazione alla scissione e all’identificazione proiettiva, all’identificazione adesiva, alla masturbazione anale e a diversi tipi di agito. Significativa la posizione di Meltzer (1967), che si sofferma sulla ciclicità del processo analitico, sottolineando come l’esperienza della separazione tenda a dominare l’inizio e la fine di tali cicli (seduta, settimana, segmento, anno di analisi): l’analisi è “dominata” da questo aspetto dinamico “fino a quando le ansie con esso connesse non siano state chiarite, di modo che la loro elaborazione possa avviarsi” (p. 46).
Ancora più radicalmente, Quinodoz (1991) colloca la separazione e le connesse ansie e difese al centro dell’attenzione fin dalla prima seduta, di fatto facendone l’asse portante del trattamento fino alla sua conclusione.
Con Bion (1963), è possibile replicare a tale accentuazione considerando la separazione un “elemento” della psicoanalisi, centrale e imprescindibile ma da non confondere con il tutto, bensì da esplorare di volta in volta nelle sue declinazioni peculiari, nella sua variabile incidenza nelle diverse manifestazioni psicopatologiche. Appresa dall’esperienza, la categoria psicoanalitica della separazione a quest’ultima deve rimanere collegata, testimoniando caso per caso la propria rilevanza e dinamica, onde evitare di costituirsi in categoria metafisica inconfutabile, essendo in linea di principio tutto quanto avviene fuori della stanza dell’analisi interpretabile nel suo nome. Ciò introduce a un’ultima considerazione, che muove dalla consapevolezza che intense angosce di separazione e relative difese possono del pari attivarsi all’interno della situazione analitica: a condizione di ancorarsi a indici clinici significativi, l’esperienza della separazione e dell’identità separata nelle sue diverse e multiformi modalità, appare qualcosa di più complesso e interiore rispetto alla separazione spazio-temporale legata ai “cicli” analitici.
Come suggeriscono Winnicott (1965) e la Klein (1963), l’esperienza della separazione è un vissuto profondo e difficilmente obiettivabile, a partire dall’essenziale possibilità di sperimentarla in presenza dell’oggetto. Per converso, non sempre e non necessariamente sensazioni di vuoto, solitudine e distacco con le relative ansie e difese corrispondono in maniera lineare a situazioni di separazione in senso spazio-temporale.
Bibliografia
Bion W.R. (1962). Apprendere dall’esperienza. Roma, Armando, 1972.
Bion W.R. (1963). Gli elementi della psicoanalisi. Roma, Armando, 1973.
Bowlby J. (1960). Separation anxiety. Int. J. Psycho-Anal, 41, 89-113.
Bowlby J. (1988). Una base sicura. Milano, Cortina, 1989.
Emde R.N. (1981). Changing models of infancy and the nature of early development. Remodeling the foundation. J. Am. Psychoanal. Ass., 29, pp. 179-219.
Freud S. (1926). Inibizione, sintomo e angoscia. O.S.F., 10.
Klein M. (1935). Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi. In Scritti 1921-1958, Torino, Boringhieri, 1978.
Klein M. (1963). Sul senso di solitudine. In Il nostro mondo adulto ed altri saggi. Firenze, Martinelli, 1972.
Meltzer D. (1967). Il processo psicoanalitico. Roma, Armando, 1971.
Quinodoz J.M. (1991). La solitudine addomesticata. Roma, Borla, 1992.
Rank O. (1924). Il trauma della nascita. Guaraldi, Firenze, 1972.
Stern D.N. (1985). Il mondo interpersonale del bambino. Torino, Bollati Boringhieri, 1987.
Winnicott D.W. (1965). La capacità di essere solo. In Sviluppo affettivo e ambiente. Roma, Armando, 1974.
*
"SAPEREAUDE!" (KANT): "DA DOVE VENGONO I BAMBINI?" (Emma Eckstein, 1900).
UN BAMBINO, UN FETO "TOTALMENTE NARCISISTICO"?! A BEN VEDERE, l’opera di Freud, "Inibizione, sintomo e angoscia" è del "1926": data l’importanza dell’argomento, legato al problema della nascita ("La prima esperienza angosciosa, almeno per l’uomo, è la nascita, la quale significa, obiettivamente, la separazione dalla madre; la nascita potrebbe anzi essere paragonata a una evirazione che la madre subisce (in base all’equivalenza bambino = pene). Ora, sarebbe molto soddisfacente se l’angoscia, quale simbolo di una separazione, si ripetesse per ogni separazione ulteriore; ma l’apprezzamento di questa corrispondenza ci è purtroppo impedito dal fatto che la nascita non viene soggettivamente vissuta come una separazione dalla madre, in quanto questa, quale oggetto, è del tutto sconosciuta al #feto, che è #totalmente #narcisistico" (cfr. Freud, "Inibizione, sintomo e angoscia", cap. 7, Opere Vol. 10),
collegabile al "Trauma della Nascita" di Otto Rank (1924), all’ #enigma della #Sfinge (al tragico "#nodo di#Ercole"), e alla questione antropologica sul #comenasconoibambini (#Sigmund Freud, 1937), non è il caso di rianalizzare meglio e di più il contributo di Otto Rank e le stesse riflessioni di Freud che toccano infine anche la discussione di lunga durata sulla "Analisi terminabile e interminabile"?
Federico La Sala
MEDEA E ULISSE, IL «POLUTROPOS ANER» DELL’ODISSEA: "IO MI CHIAMO NESSUNO" ("JE M’APPELLE PERSONNE) E IL PROBLEMA DELL’ «ESSERE, O NON ESSERE» (SHAKESPEARE, "AMLETO", III.1).
IL "VELLO D’ORO" DI GIASONE E MEDEA, E LA FIGURA ("TROPICALLY") DELLA "TRAPPOLA PER TOPI" ("THE MOUSETRAP") DI AMLETO E OFELIA (HAMLET, III.2).
ANTROPOLOGIA E FILOLOGIA. CONSIDERANDO CHE Medea" (in greco antico: Μήδεια, Mḕdeia), a mio parere, richiama... "Ou-tis" (Odissea IX,366: Οὔτις ἐμοί γ’ ὄνομα), "Ne-Homo", "#Nessuno", "Nulla", "Niente" (in greco antico: Mηδείς, Medéis) è una figura "duplice" (allude a Sé e a Nessuno), come quella di Odisseo (di Ulisse con Polifemo), il nodo genealogico resta, e il problema "ontologico" (dell’ essere) della risposta alla questione della Sfinge anche: "Chi" sei?
"METAMORFOSI" E "DIVINA COMMEDIA": "TRASUMANAR" (Par., I. 70). #DanteAlighieri, a quanto risulta, ha ben riflettuto sia su "Ulisse e Penelope" sia su "Giasone e Medea", come su "#Edipo e #Giocasta", e ha saputo trovare l’uscita antropologica dall’orizzonte "olimpico" della "tragedia", dalla "caduta" all’inferno: egli non ha fatto naufragio. Forse è bene tenerne conto.
FILOSOFIA LINGUISTICA ANTROPOLOGIA E CRITICA:
UNA HAMLETICA QUESTIONE DI TEMPO E DI RAPPRESENTAZIONE (KANT).
SE, COME SCRIVE ERACLITO DI EFESO, "Il tempo [#aìon] è un fanciullo che gioca spostando i dadi: il regno di un fanciullo" (fr. 52), E, COME SCRIVE SHAKESPEARE NEL SUO "AMLETO", "il tempo è fuori dai cardini" ("The time is out of joint": "Hamlet", I.5), RICORDANDO KANT (1724-1804), E CONSIDERANDO "IL TEMPO ESAURITO" (Enrico Castelli, 1900-1977), alla luce di una sintetica "lezione" grafica di Umberto Eco, forse, è opportuno una ripresa di riflessione sul tema.
MEMORIA E STORIA. LA sollecitazione viene da una importante testimonianza di Franco Lo Piparo: "Mi sono ricordato di una vignetta filosofica sul tempo che Eco ideò in occasione di una mia conferenza all’Università di San Marino. Era il 26 gennaio 1995 [...]" (cfr. "UNA VIGNETTA FILOSOFICA DI ECO SUL TEMPO E ALTRE ANCORA",16 agosto 2024):
QUESTIONE ANTROPOLOGICA ("CRISTOLOGICA"). Umberto Eco, oso pensare (#sàpereaude!"), rendeva "silenziosamente" omaggio a Kant e alla sua "Critica della ragion pura": forse, egli aveva cominciato a lavorare intorno al libro che uscirà due anni dopo, "Kant e l’ornitorinco" (Bompiani 1997 - La nave di Teseo 2016) e stava già riflettendo sul rapporto "essere e tempo" e "tempo ed essere" a livello antropologico (nel tentativo di gettare luce sul lavoro di Kant e, infine, anche di Heidegger).
NOTA:
LETTERATURA, PSICOANALISI, E ANTROPOLOGIA:
CON CARDUCCI E WINNICOTT, UNA RIFLESSIONE SUL "DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (FREUD). SULL’ALBERO ("THE TREE") DELLA VITA, E SULL’ENIGMA DEL "TRE" ("THE THREE").
L’AMORE, IL "MELOGRANO"), E LA MORTE DEL "FIOR DELLA MIA PIANTA":
A). G. CARDUCCI,
L’albero a cui tendevi
la pargoletta mano,
il verde melograno
da’ bei vermigli fior,
nel muto orto solingo
rinverdì tutto or ora
e giugno lo ristora
di luce e di calor.
Tu fior della mia pianta
percossa e inaridita,
tu dell’inutil vita
estremo unico fior,
sei ne la terra fredda,
sei ne la terra negra;
né il sol più ti rallegra
né ti risveglia amor.
* "Pianto antico è una poesia di Giosuè Carducci dedicata al figlio Dante. Il testo autografo reca la data giugno 1871. È il quarantaduesimo componimento della raccolta Rime nuove (1887) [...] Dante era stato il primo maschio, dopo Beatrice e Laura, nato dopo il matrimonio di Carducci con Elvira Menicucci. L’ultima figlia, Libertà, nascerà nel 1872 [...]"("Pianto antico").
B). D. W. WINNICOTT,
"L’ALBERO *
Sotto, mamma sta piangendo, piangendo, piangendo.
In questo modo la conoscevo.
Una volta, steso sul suo grembo
Come ora su un albero morto
Imparai a farla sorridere
A fermare le sue lacrime
Ad annullare la sua colpa
A guarire la morte che aveva dentro.
Il rallegrarla era la mia ragione di vita.
* "Ripensando al recente convegno “ Chi cura chi” che la SPI ha organizzato a Genova nel Novembre 2021 sul tema del rovesciamento di ruolo tra bambino e genitore mi è tornata in mente una poesia scritta da Winnicott a 27 anni ed intitolata “L’albero”. In essa Winnicott parla della propria madre piangente e del fatto che allietare questa madre era diventato fin dall’infanzia lo scopo della sua vita. [...]" (cfr. LUCIA FATTORI, "L’ALBERO D.W. WINNICOTT. Ripensando a “Chi cura chi", SPI-Web, 31/01/2022)
L’ALBERO DELLA VITA (IL "MELOGRANO") E LA TRINITÀ EDIPICA (E "MAMMONICA") DELLA PESTE TEBANA:
ALLA RADICE DEL PROBLEMA DELL’ ALBERO ("THE TREE"), A MIO PARERE, C’E’ UN NODO ANTROPOLOGICO NON SCIOLTO CHE RIMANDA (NELL’ORIZZONTE DELL’ IMMAGINARIO ANTROPOLOGICO DELL’INTERO PIANETA TERRA E, IN PARTICOLARE, DELLA CULTURA DELL’OCCIDENTE), ALLA "TRINITÀ RELAZIONALE DELLA VITA UMANA ("THE THREE") E AL PERMANERE NELLA "FASE" DELLA BIBLICA "CADUTA" E DELLO STADIO "OLIMPICO" (NARCISISTICO-EDIPICO) DELLA TRAGEDIA. SIGMUND FREUD L’AVEVA GIÀ INTUITO ("GIOCO DEL R0CCHETTO", 1920) E NON HA LAVORATO INVANO: GLORIA A LUI.
L’#HAMLET E UNA "INSTAURATIO MAGNA" TEOLOGICO-POLITICA NELLA SCIA DI #DANTEALIGHIERI E #GIORDANOBRUNO, ALLA WILLIAM #SHAKESPEARE, NON ALLA FRANCESCO #BACONE CON IL SUO "PARTO MASCHIO DEL TEMPO".
IL #TEATRO, IL #METATEATRO, E "IL #VANGELO DI #AMLETO". "THE #MOUSETRAP" ("LA #TRAPPOLA PER #TOPI" ) E IL TENTATIVO DI PORTARE ALLA LUCE L’INGANNO DEL "#SERPENTE" E RICOSTRUIRE IL "#PRESEPE", IL "#CORPOMISTICO DELLA "#SACRAFAMIGLIA" IN "#DANIMARCA":
RICORDANDO QUANTO detto nella nota relativa alla "Part 55" sul tema, e, in particolare, mi sia lecito, che il "rendere sempre più esplicita l’#analogia tra Amleto e Gesù, sollecita a guardare a #Ofelia... come a #MariaMaddalena, la donna della tradizione evangelica, legata strettamente alla vita stessa di Gesù (uno scrittore nato nel mio paese di origine, nel 1564, di nome Paolo Silvio, scrive nel 1599, in coincidenza con un miracolo avvenuto a #Fabriano, un’opera di grandissimo successo dal titolo "La Madalena penitente" ), forse, per meglio comprendere tutta l’mportanza del commento di Ofelia (""You are as good as a chorus") sull’operazione per smascherare il "#serpente -re" camuffato da "#topo - re", occorre rileggere e ricontestualizzare la frase (almeno a partire da Amleto, III. 2. 110 e ss.):
"#Amleto [...] (A #Polonio) Sicché, signore, un tempo avete anche voi recitato all’università. Non è così?
#Polonio Infatti, monsignore, ed ero reputato un buon attore.
#Amleto E che parte faceste?
#Polonio Giulio Cesare. Venivo pugnalato in Campidoglio. Era Bruto ad uccidermi.
#Amleto E dev’essere stato un vero bruto per uccidere un tale vitellone!
(Va a sedersi a fianco di #Ofelia) Sono pronti gli attori?
#Rosencrantz Sì, signore, aspettano soltanto un vostro cenno.
#Regina Vieni, mio buon Amleto, vieni a sederti qui, vicino a me.
#Amleto Vogliate perdonarmi, buona madre: ho qui una più attirante calamita.
#Polonio (A parte al #re) Oh, oh, avete visto?
#Amleto Posso giacermi in seno a voi, signora?
#Ofelia No, questo no, signore.
#Amleto La testa, intendo, sopra al vostro grembo.
#Ofelia Oh, questo sì, signore, accomodatevi.
#Amleto Pensavate che avessi per la mente pensieri da villano?
#Ofelia Non ho pensato a nulla, mio signore.
#Amleto È un pensiero gentile dopotutto sdraiarsi tra le gambe di ragazze.
#Ofelia Che dite, monsignore?
#Amleto Niente, niente.
#Ofelia Siete allegro, signore.
#Amleto Allegro, io?
Ofelia Così mi sembra, mio signore.").
NOTA:
ANTROPOLOGIA, STORIA, E METATEATRO (SHAKESPEARE).
"THE MOUSETRAP" ("LA TRAPPOLA PER TOPI") DI "AMLETO" E IL CASO DEL "PIFFERARIO" DELLO "STATO DI DANIMARCA".
"SAPERE AUDE!" (Q. ORAZIO F. ; KANT, 1784; M. FOUCAULT, 1984). AL DI LA’ DEL MACHIAVELLISMO E DELL’ #ANDROCENTRISMO TEOLOGICO-POLITICO PLATONICO-PAOLINO, a mio parere, ciò che resta del "discorso filosofico della #modernità" (J. Habermas), come ha riepilogato Kant alla fine del suo lungo lavoro di critica delle pretese della "olimpica" #ragione "pura", è proprio quanto indicava quel "Socrate pazzo" di Diogene ("Amleto"): la domanda antropologica, vale a dire il gioco del "gatto" e del "topo" (Shakespeare, "Hamlet", III. 4. 203-212), la questione "hamletica" del "come nascono i bambini" (e non solo)!
NOTE:
CON #KANT E #FREUD, #OLTRE. "UNA SCELTA DECISIVA PER L’INDIVIDUO E PER LA SPECIE". Un nuovo #paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO #FACHINELLI. Antropologia, psicoanalisi, e #critica della #ragione hegeliana (e lacaniana).
Una nota a margine del lavoro di Pietro Barbetta: *
Brillante breve saggio sulla storica figura della cultura psicoanalitica e filosofica italiana, "Elvio Fachinelli - Psychoanalysis of Dissension in Italy" ("Qeios", 24 aprile 2024): pur partendo dall’importante #caso dell’#uomo con il #magnetofono (cfr. J.-J. #Abrahams, "L’uomo col magnetofono: dramma in un atto con grida d’aiuto di uno psicoanalista", con note di J.-P. #Sartre, J.-B #Pontalis, B. #Pingaud e E. #Fachinelli, edizioni L’erba voglio, Milano 1977), seguendo il filo di una obsoleta #storiografia freudiana (e fachinelliana), a mio parere, si perde l’equilibrio e ne esce una #visione della ricerca fachinelliana del tutto riduttiva, schiacciata nella valorizzazione pure importante dell’indicazioni di Sándor #Ferenczi.
Sul tema, mi sia lecito, si cfr. il capitolo intitolato "Il punto di svolta. L’indicazione di Fachinelli" all’interno di un mio "vecchio" lavoro, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica" (Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 138-161): "Con #Freud, #oltre - in una nuova direzione e in modo nuovo: contro le sfingi e contro l’imbalsamazione degli uomini come delle teorie".
DA RICORDARE: "L’#Interpretazione dei #Sogni" (1899) ha il suo legame con l’#Eneide (VII, 312: "Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo") di #Virgilio e "L’uomo Mosè e la religione monoteistica"(1938) con il tema dell’«In exitu Isräel de Aegypto» della #DivinaCommedia (Pg. II, 46-48) di #DanteAlighieri.
Note:
L’ipotesi della distruzione in Sigmund Freud
di Elvio Fachinelli ("Il Corpo", 1, marzo 1965).*
"[...] Si pensi al programma ambizioso iscritto sul frontespizio della Interpretazione dei sogni: Acheronta movebo; trent’anni dopo, nelle ultime pagine de Il disagio nella civiltà, la mantenuta coerenza del proposito appare velata d’amarezza: "M’inchino al rimprovero... di non saper recare alcuna consolazione."Né disperazione, è chiaro; ma piuttosto la consapevolezza del profilarsi - al limite di separazione fra ciò che siamo e il futuro visibile dell’utopia - di una scelta decisiva per l’individuo e per la specie" (* ).
* Cfr. AA, VV., "La negazione freudiana", "Nuova Corrente", 61/62, 1973, 159-171; poi, in E. Fachinelli, "Il bambino dalle uova d’oro", Milano, Feltrinelli 1974, pp. 13-29).
PSICOANALISI, FILOLOGIA, FILOSOFIA, E ANTROPOLOGIA (#KANT2024): "L’#INTERPRETAZIONEDEISOGNI (1899) E LE "#COSTRUZIONI NELL’#ANALISI" (1937).
UN CHIARIMENTO DI FREUD SULLA SUA "RIVOLUZIONE COPERNICANA".
Quale rapporto tra la parola #interpretazione, una "brutta parola" (#SigmundFreud, 1926), e la nuova #parola #costruzione? Sicuramente un #rapporto con il #mare (e la paura del suo "sentimento oceanico"): "Maresfield Gardens" (#Londra, 1938-1939) e ... una #relazione con #Copernico, #Darwin, e le #anguille di #Trieste! Vale a dire: la traccia di una possibile #svolta_antropologica (cfr. "La #menteaccogliente", 1991), un #segnavia di una #seconda #rivoluzionecopernicana (cfr. Kant, Freud, e la banalità del male 2010).
IL "GIOCO DEL ROCCHETTO" ("Al di là del principio del piacere", 1920). Nella Nota del 1937, Freud così getta #luce sulla sua paradigmatica indicazione #dialogica di procedere nella #pratica analitica della #costruzione:
Note:
MUSICA ANTROPOLOGIA E RICERCA SCIENTIFICA: ALFRED A TOMATIS E L’ORECCHIO DI MOZART.
La storia dell’orecchio di Mozart
L’orecchio è uno strumento importantissimo per un musicista. Mozart, aveva un orecchio eccezionale, riusciva a sentire il minimo sbaglio di intonazione e tutta la sua musica è in armonia perfetta: la musica corale scritta da Mozart è davvero speciale per quel suono perfettamente amalgamato formato da voci perfettamente legate da armonie perfette che sembrano accarezzare l’orecchio.
Oltre all’orecchio musicale Mozart aveva una evidente malformazione all’orecchio sinistro: sarà per questo che era così eccezionale?
Studi moderni hanno evidenziato che la malformazione non incide su anomalie dell’orecchio interno e pertanto è solo un fattore ereditario che si manifesta ad un solo orecchio.
Effetto Mozart
Secondo il Dottor Tomatis, la musica di Mozart può curare le difficoltà di apprendimento, l’epilessia, la dislessia, il ritardo mentale e il deficit di attenzione dei bambini.
Nel 1954, Tomatis inventò un apparecchio di rieducazione uditiva chiamato l’Orecchio Elettronico, e lo usò per curare bambini con difficoltà di apprendimento e autismo, convinto che prima di saper parlare bisogna saper ascoltare: cantare bene, parlare, pensare, apprendere bene e, in ultima, la buona salute psicofisica, dipendono da un buon udito.
Quando parliamo o cantiamo, produciamo soltanto suoni che possiamo sentire, Tomatis afferma “che non ci si deve limitare a pensare all’udito come funzione delegata all’orecchio esterno e alla membrana timpanica, ma come attività dell’orecchio interno, cioè del sistema vestibolo-cocleare”.
Tutti sappiamo udire ma pochi sanno ascoltare. L’ascolto è un’abilità particolare, ed è la chiave per: l’apprendimento, il linguaggio e anche per l’identità personale. Il malfunzionamento dell’udito può provocare disturbi di apprendimento e capacità mentali dei bambini. Il dottore pensò bene di prendere come punto di riferimento Mozart.
Mozart è stato concepito e cresciuto nei suoni. Prima ancora di imparare a suonare,il piccolo Wolfgang imparò molto presto ad ascoltare in modo attivo.
Il trattamento è il seguente: si inizia ascoltando musica mozartiana pura, poi gradualmente viene filtrata: si eliminano le frequenze più basse, filtrando prima 1.000 Hz, poi 2.000 Hz, e se ritenuto necessario si arriva fino a 8.000 Hz. Di norma, un bambino riceve questa stimolazione sonora due ore al giorno, cinque giorni alla settimana per tre settimane. Grazie a questo metodo i suoni attraversano le orecchie e le ossa del cranio(probabilmente il modo con il quale i suoni vengono uditi all’interno dell’utero). Tomatis ha ideato cuffie speciali (auricolari dotati di vibratore collocato al vertice del cranio) che trasmettono i suoni direttamente alle ossa craniche
FLS
"ESSERE, O NON ESSERE" (#SHAKESPEARE): "CHE VUOL DIRE #LEGGEMORALE IN NOI #PROFESSORE?", OGGI (#KANT2024)
ILLUMINISMO, #ILLUMINAZIONE, E "#SAPEREAUDE!" (#KANT): UNA RISPOSTA ALLA #DOMANDA. Riconosciuta gratitudine per l’attenzione e per l’intervento, che cosa rispondere (in breve) a chi ha posto la #questione e desidera sapere?
Innanzitutto, che Il "professore" è il "tu" stesso con "te" stesso; secondo, che il sapere di non sapere e il #decidere con "te" stesso se si vuole sapere ("essere") o non sapere ("non essere") è già un primo passo, quello decisivo e fondamentale, per uscire dallo "stato di #minorità" (Kant, 1784); e, terzo, che cominciare a #dialogare con "#te" stesso come un #altro, apre al grande "aut aut"! "Che fare?" (Lenin), "Che cosa devo fare?" (Kant).
Nel #ribaltamento e nel #riconoscimento di "sé" come un "altro" (Paul #Ricoeur) prende il via la "#fenomenologia dello #spirito" (alla #Hegel) o la #divinacommedia (alla #DanteAlighieri): "To be, or not to be, that is the question" (#Shakespeare, "Amleto", III.1). Uscire dall’inferno, dal #letargo (Inf. XXXIV, 94) è possibile: "#Amore è più forte di #Morte" (Ct. 8.6, trad. di Giovanni Garbini).
ESPERIENZA E CRITICA DELLA FACOLTA’ DI #GIUDIZIO. "Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così succede. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, è così accade. Ipocriti, sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?" (Lc. 12, 56-57).
Note:
ANTROPOLOGIA E #STORIA. Immanuel Kant: «L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da un difetto d’intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di fare uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo.» .
FILOSOFIA E #CRITICA. Immanuel Kant, "Critica della facoltà di giudizio", a cura di Emilio Garroni e Hansmichael Hohenegger, Einaudi.... Accanto alla Critica della ragione pura e alla Critica della ragione pratica, la Critica della facoltà di giudizio è il terzo capolavoro dell’impresa critica di Immanuel Kant: non solo il suo compimento, ma anche e soprattutto il suo ripensamento e insieme la sua fondazione.
LA GRAVIDANZA DI ADAMO, IL "PARTO MASCHIO DEL TEMPO O LA GRANDE INSTAURAZIONE DELL’#IMPERO DELL’#UOMO SULL’#UNIVERSO" (FRANCIS BACON / BACONE, 1602), E UNA #QUESTION ANTROPOLOGICO-POLITICA EPOCALE (SHAKESPEARE, #AMLETO, 1602): LA PUNTA DI UN ICEBERG.
Quanto emerge dalle cronache relative alla "gravidanza durante la #transizione" (cfr. Clemente Pistilli, "Gravidanza durante la transizione, i medici: “Marco è al 5° mese, rischi per lui e per il bambino”",
"La Repubblica, 19 gennaio 2024) è un evento, a mio parere, che mostra la punta di un iceberg gigantesco, che porta a galla i miti e i detriti di un #immaginario cosmo-te-andrico, biblico (da "#caduta") e platonico (da "#tragedia"), più che millenario, e sollecita a un immane e straordinario lavoro collettivo di presa di coscienza antropologica (se non si vuole andare a picco #titanic-amente): le sollecitazioni "cosmicomiche" (#Calvino) di #Dante Alighieri a uscire dal "letargo" (Par. XXXIII, 94) sono ancora del tutto ignorate!
Forse è proprio il tempo di riaprire la #Commedia e non rinchiuderla ancora nell’orizzonte del "Boccaccio" e del "Petrarca" ...
ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA) E FILOLOGIA. In principio era il Logos di Eraclito (non il "logo" androcentrico dell’Adamo di Paolo di Tarso: 1 Cor. 15, 45-47=C.E.I.]).
#21GENNAIO 2024.
Nota:
TEOLOGIA ANTROPOLOGIA E SCIENZA:
COME NASCE LA COSCIENZA? COME NASCONO LE IDEE? COME NASCONO I BAMBINI?!
LA "NAVE" DI GALILEO GALILEI E IL "DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI DEL MONDO" *
La sfida.
E il filosofo vinse sullo scienziato la scommessa sulla coscienza
25 anni fa il neuroscienziato Koch aveva scommesso con il filosofo Chalmers che entro il 2023 si sarebbe scoperto come i neuroni producono la coscienza. Ha pagato con una cassa di porto
di Andrea Lavazza (Avvenire, sabato 1 luglio 2023
Che i filosofi abbiano la meglio sugli scienziati non è esperienza comune nel panorama intellettuale di oggi. Quando poi vincono una scommessa venticinquennale in uno dei campi di ricerca più importanti e significativi per la nostra vita, allora siamo di certo davanti a una grande notizia. Nel 1998, il neuroscienziato Christof Koch aveva messo in palio una ricompensa alcolica con il filosofo David Chalmers, nella certezza che sarebbe stato scoperto entro il 2023 il modo in cui i neuroni del cervello producono la coscienza. Il 23 giugno scorso, in occasione della riunione annuale dell’Associazione per lo Studio Scientifico della Coscienza alla New York University, entrambi i contendenti hanno convenuto pubblicamente che la ricerca nel campo è ben lungi dall’essere giunta a un risultato definitivo e hanno dichiarato Chalmers vincitore. Nessuno nella comunità scientifica ha avuto da obiettare.
La coscienza è ciò di cui facciamo esperienza in prima persona, in modo spesso ineffabile: il gusto del gelato al cioccolato, la rossezza di un pomodoro, il mal di denti o la gioia profonda nel ritrovare un figlio che sembrava scomparso. In sintesi, “l’effetto che ci fa” qualcosa a livello soggettivo. Secondo molti pensatori, ciò che dà significato e valore alla nostra esistenza (ma possiamo scegliere un’azione buona rispetto a una cattiva anche se non proviamo nulla nel compierla). Qualcosa di assolutamente scontato e normale, ma che sembra sfuggire a chiare descrizioni. Tanto che va ancora per la maggiore la definizione proposta da William James: “La coscienza è quella cosa che scompare quando facciamo un sonno senza sogni e ricompare al risveglio”.
Per tanti secoli è stata associata a un elemento immateriale, l’anima o lo spirito, infine la mente. Ma la scienza contemporanea l’ha dichiarata un fenomeno naturale, che non può sfuggire alle leggi fisiche, e perciò indagabile con gli strumenti utilizzati per esplorare il cervello, dove si pensa risieda. Il giovane Chalmers ebbe l’intuizione di distinguere un “problema semplice”, ovvero trovare le basi neuronali della cognizione - alle quali ci stiamo avvicinando - da un “problema difficile”, ovvero come sorgano da un’entità materiale le sensazioni mentali che non sembrano condividere nessuna proprietà con la loro presunta fonte, ovvero le cellule nervose. Koch lavorava con il premio Nobel Francis Crick ed era attivamente impegnato a identificare i correlati della coscienza, ovvero quelle regioni del cervello che appaiono indispensabili per la presenza dei fenomeni coscienti. Di qui la scommessa che nulla aveva a che fare con le convinzioni esistenziali dei proponenti, dato che il “materialista” Koch era allora un cattolico praticante e il dualista Chalmers - ovvero sostenitore alla Cartesio (più o meno) dell’esistenza di due sostanze - un agnostico.
In un quarto di secolo la scienza è andata veloce e diverse teorie che ambiscono a spiegare la nascita e il funzionamento della coscienza sono oggi sul mercato. La circostanza che ha portato oggi a dirimere la contesa fra i due studiosi risiede nel fatto che si è da poco conclusa un’altra sfida legata proprio al tentativo di testare la migliore spiegazione. Sono infatti due le proposte - empiricamente validabili - che si contendono oggi i favori della comunità dei ricercatori. La teoria dell’informazione integrata (IIT), dovuta principalmente a Giulio Tononi e allo stesso Koch, e la teoria dello spazio di lavoro globale (GNWT), sostenuta da Stanislas Daheane e Jean-Pierre Changeux. La IIT sostiene che la coscienza è legata a una “struttura” cerebrale formata da uno specifico tipo di connessioni neuronali che rimane attivo per tutto il tempo in cui si verifica una determinata esperienza, come per esempio la visione di un oggetto. Si ritiene che questa struttura si trovi nella corteccia occipitale, nella parte posteriore del cervello. La GNWT, invece, suggerisce che la coscienza nasce quando le informazioni vengono trasmesse a diverse aree del cervello attraverso una rete interconnessa. La trasmissione avviene all’inizio e alla fine di un’esperienza e coinvolge la corteccia prefrontale, nella parte anteriore del cervello.
Sei laboratori indipendenti, come riferisce “Nature”, hanno condotto il più grande esperimento collettivo in merito, seguendo un protocollo preregistrato e utilizzando vari metodi complementari per misurare l’attività cerebrale. I risultati anticipati - ancora da sottoporre alla revisione per la pubblicazione - non corrispondono perfettamente a nessuna delle due teorie, sebbene il modello dell’informazione integrata appaia leggermente più preciso. John Horgan, “su Scientific American”, è stato più tranchant: i dati sono inconcludenti, alcuni favoriscono la IIT, altri lo spazio di lavoro globale. L’esito non sorprende, posto che il cervello è così complesso e la coscienza così poco definita, mentre la ricerca, lungi dal convergere verso un paradigma unificante, è diventata più che mai frammentaria e caotica.
Ecco che allora i prudenti filosofi, rappresentati da Chalmers, hanno portato a casa una cassa di porto offerta con stile da un Koch pronto a rilanciare per i prossimi 25 anni. Sapremo allora come emerge la coscienza dal cervello o sarà ancora un mistero? Più facile dire “Impossibile” che trovare una spiegazione, obietterà qualcuno. Vero, ma il fatto è che la coscienza pare proprio refrattaria a essere ridotta a un puro prodotto della materia.
* COME NASCE LA COSCIENZA? COME NASCONO LE IDEE? COME NASCONO I BAMBINI?
Appunti sul tema:
A) LA "NAVE" DI GALILEI E IL "DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI DEL MONDO": IL "LABORATORIO" DELLA "CONVERSAZIONE CONOSCITIVA". «Rinserratevi con qualche amico nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio, e quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti: siavi anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vada versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca che sia posto a basso; e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza(...)
Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia mentre il vascello sta fermo non debbano succedere così: fate muovere la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur di moto uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti; né da alcuno di quelli potrete comprendere se la nave cammina, o pure sta ferma. »
(Galileo Galilei, "Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano", 1632 - Salviati, giornata II).
B) COME NASCONO I BAMBINI. EUROPA: "EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva".
C) ANTROPOLOGIA, FILOSOFIA E PSICOANALISI: APPRENDERE DALLA "METAFISICA" DELL’ESPERIENZA...
LA NASCITA DELL’ESSERE UMANO E IL GIOCO DEL ROCCHETTO. Al di là del giogo di Edipo e Giocasta.
Federico La Sala
UNA VOCE
Virgole e fiamme
di Giorgio Agamben (Quodlibet, 19 giugno 2023)
A un amico che gli parlava del bombardamento di Shangai da parte dei giapponesi, Karl Kraus rispose: «So che niente ha senso se la casa brucia. Ma finché è possibile, io mi occupo delle virgole, perché se la gente che doveva farlo avesse badato a che tutte le virgole fossero nel punto giusto, Shangai non sarebbe bruciata».
Come sempre, lo scherzo nasconde qui una verità che vale la pena di ricordare. Gli uomini hanno nel linguaggio la loro dimora vitale e se pensano e agiscono male, è perché corrotto e viziato è innanzitutto il rapporto con la loro lingua. Noi viviamo da tempo in una lingua impoverita e devastata, tutti i popoli, come Scholem diceva per Israele, camminano oggi ciechi e sordi sull’abisso della loro lingua ed è possibile che questa lingua tradita si stia in qualche modo vendicando e che la sua vendetta sia tanto più spietata quanto più gli uomini l’hanno guastata e negletta.
Ci rendiamo tutti più o meno lucidamente conto che la nostra lingua si è ridotta a un piccolo numero di frasi fatte, che il vocabolario non è mai stato così stretto e consunto, che il frasario dei media impone dovunque la sua miserabile norma, che nelle aule universitarie si tengono lezioni in cattivo inglese su Dante: come pretendere in simili condizioni che qualcuno riesca a formulare un pensiero corretto e ad agire in conseguenza con probità e avvedutezza? Nemmeno stupisce che chi maneggia una simile lingua abbia perso ogni consapevolezza del rapporto fra lingua e verità e creda pertanto di poter usare secondo il suo tristo profitto parole che non corrispondono più ad alcuna realtà, fino al punto di non rendersi più conto di star mentendo.
La verità di cui qui parliamo non è solo la corrispondenza fra discorso e fatti, ma, ancor prima di questa, la memoria dell’apostrofe che il linguaggio rivolge al bambino che proferisce commosso le sue prime parole. Uomini che hanno smarrito ogni ricordo di questo sommesso, esigente, amoroso richiamo sono letteralmente capaci, come abbiamo visto in questi ultimi anni, di qualsiasi scelleratezza.
Continuiamo, pertanto, a occuparci delle virgole anche se la casa brucia, parliamo fra noi con cura senz’alcuna retorica, prestando ascolto non soltanto a quello che diciamo, ma anche a quello che ci dice la lingua, a quel piccolo soffio che si chiamava un tempo ispirazione e che resta il dono più prezioso che, a volte, il linguaggio - che sia canone letterario o dialetto - può farci.
L’Oggetto e la sua evoluzione tra Freud e Klein
di Costanza La Scala *
L’oggetto
“L’oggetto, dunque: non vi è termine che non ritorni così di frequente in ogni considerazione sulla pratica o sulla teoria psicoanalitica, ma non ve ne sono che suscitino più malintesi, se non addirittura polemiche” (Guignard, 1977, 9). Con queste parole Guignard introduce l’argomento che poi tratterà nel suo volume sul tema delle pulsioni, dell’oggetto e delle sue vicissitudini.
Il termine oggetto nasce come termine tecnico in psicoanalisi per designare innanzitutto l’oggetto di una pulsione. È ciò, persona o cosa che sia, che permette di arrivare ad un soddisfacimento e non ha particolari connotazioni proprie se non appunto la capacità di allentare una tensione pulsionale del soggetto. Esistono però degli oggetti interni, seppur non denominati come tali, già nelle formulazioni freudiane: ne è un esempio il Super-Io, ma lo sono anche quegli oggetti interni arcaici la cui origine è così antica da non essere rintracciabile, quelli che Freud ad esempio individua nel padre dell’orda primitiva in Totem e Tabù (1913), oppure da un certo punto di vista anche quelli che vediamo delinearsi in trasparenza sulle scene dei fantasmi originari, filogeneticamente intesi.
Con il procedere della ricerca psicoanalitica e l’apporto di altri dopo Freud, M. Klein soprattutto con la teorizzazione sugli oggetti interni e sui processi inerenti all’identificazione proiettiva, il termine oggetto subirà anch’esso una sua evoluzione, fino al punto di raggiungere quella sua complessità, oggi indispensabile per comprendere appieno, nella clinica, le fantasie dei pazienti. Con Kristeva, si tratta di “una ricchezza fatta di immagini-sensazioni-sostanze, la cui ‘impurità’ teorica è compensata dalla fecondità clinica” (Kristeva, 2000, 69). È proprio in questa natura concreta, così pregna di percezioni, che connota l’oggetto interno e lo colloca fisicamente dentro l’Io, che si radica la differenza tra oggetto interno kleiniano e la rappresentazione di freudiana memoria. È vero anche però che Freud stesso, in La Negazione (1925), scrive: “La riproduzione della percezione nella rappresentazione non ne è sempre la ripetizione fedele; essa può risultare modificata da omissioni, alterata da commistioni di vari elementi” (Freud, 1925, 200). È proprio sulla natura di queste commistioni che M. Klein ci offrirà un fondamentale apporto con le sue teorizzazioni successive sulla formulazione degli oggetti interni e sui meccanismi che portano a determinarne le qualità.
L’oggetto poi è stato utilizzato anche per definire una scuola di pensiero psicoanalitico, presente soprattutto nella società psicoanalitica britannica: la teoria delle relazioni oggettuali, alla quale si accostarono studiosi come Winnicott, Balint, ma anche Fairbairn, arrivando in particolare con quest’ultimo a importanti differenze rispetto all’originaria teoria freudiana, soprattutto per quanto riguarda la prospettiva economica. A differenza di questi autori, M. Klein rimase sempre fedele alla prospettiva freudiana, non aderendo alla teoria delle relazioni oggettuali. Tale fu, infatti, la difficoltà nel mantenere saldo il legame tra la teoria delle relazioni oggettuali e la teoria pulsionale freudiana, che nel 1939 si istituì un gruppo di studio apposito chiamato Gruppo Oggetti Interni, che si incontrò saltuariamente durante gli anni della guerra per cercare di capire e integrare i nuovi punti di vista sugli oggetti.
L’oggetto, da veicolo di gratificazione a modalità di espressione pulsionale
Laplanche e Pontalis nella loro Enciclopedia (1967) approfondiscono i diversi usi del temine oggetto in Freud, intendendolo quindi come Oggetto della pulsione, Oggetto d’amore o d’odio e Oggetto della conoscenza. Ma fermiamoci sulla prima prospettiva e consideriamone i risvolti nell’evoluzione della teoria da Freud a M. Klein.
La concezione freudiana dell’oggetto comincia a prendere forma nei Tre saggi (1905) a partire dall’analisi delle pulsioni sessuali e prosegue poi nel 1915 in Pulsioni e loro destini. In questi scritti Freud distingue fonte, oggetto, meta e spinta.
La fonte e la meta della pulsione sono rispettivamente un processo somatico eccitante che ha luogo in un organo (possibile zona erogena) e l’azione verso la quale la pulsione spinge (la scarica che porta al soddisfacimento), e più vie, diverse tra loro, possono condurre alla stessa meta. La spinta è l’elemento motorio della pulsione, la somma di forze che la caratterizza.
L’oggetto sessuale invece, centro del nostro interesse, è inizialmente definito come “la persona dalla quale parte l’attrazione sessuale” (Freud, 1905, 451). Qui Freud ci invita ad “allentare nei nostri pensieri il legame tra pulsione e oggetto. La pulsione sessuale probabilmente è in un primo tempo indipendente dal proprio oggetto e forse non deve neppure la sua origine agli stimoli del medesimo” (ivi, 462). In Pulsioni e loro destini (1915) Freud ribadirà questa concezione dell’oggetto come mero mezzo per raggiungere il soddisfacimento pulsionale, passibile di essere mutato infinite volte in base alle modificazioni pulsionali: “Oggetto della pulsione è ciò in relazione a cui, o mediante cui, la pulsione può raggiungere la sua meta. È l’elemento più variabile della pulsione, non è originariamente collegato ad essa, ma le è assegnato soltanto in forza della sua proprietà di rendere possibile il soddisfacimento” (Freud, 1915, 18).
Klein, come già detto, rimase sempre fedele alla teoria pulsionale formulata da Freud, sentendosi saldamente radicata all’interno della psicoanalisi classica. Ella però, cominciando a utilizzare la tecnica del gioco infantile, si accorse che i suoi piccoli pazienti giocavano con gli oggetti - oggetti giocattoli - mettendo in scena rappresentazioni che, nel gioco, davano vita a diverse persone, tra cui anche l’analista. Questi oggetti per loro erano vivi: amabili, affettuosi, o minacciosi, anche spietati. Sono oggetti molto diversi da quelli descritti in Freud, infatti sono concepiti in modo animistico e antropomorfico e vivono, sentono, ma anche muoiono, e vengono ingaggiati in relazioni piene e intense.
L’oggetto interno diventa allora “un’esperienza inconscia o una fantasia di un oggetto concreto fisicamente situato dentro l’Io (il corpo), che possiede motivazioni o intenzioni proprie nei confronti dell’Io e degli altri oggetti. Tale oggetto possiede una propria esistenza all’interno dell’Io e può identificarsi con esso in grado maggiore o minore (mediante una fantasia di assorbimento, o di assimilazione, con l’Io). Il modo in cui si esperisce l’oggetto interno dipende strettamente da come si è sperimentato l’oggetto esterno - e gli oggetti interni sono, per così dire, specchi della realtà. Ma anch’essi contribuiscono significativamente, tramite la proiezione, al modo in cui gli stessi oggetti esterni vengono percepiti e sperimentati” (Hinshelwood, 1989, 87).
Dunque, come conciliare questa scoperta con la teoria pulsionale alla quale M. Klein si sentiva così legata? M. Klein si rese conto che poteva conservare e integrare entrambi i concetti, di pulsione e di oggetto interno, quando comprese che le relazioni con gli oggetti, instaurate dai bambini, erano fortemente determinati da pulsioni provenienti da fonti libidiche. Per i bambini gli oggetti erano connotati da intenzioni in linea con il loro assetto pulsionale ed erano investiti da numerose identificazioni proiettive. Non è però solo la pulsione a essere proiettata e introiettata, ma anche, concretamente, alcuni frammenti del bambino stesso (ad esempio parti o prodotti del suo corpo). L’oggetto interno è costituito anche da elementi concreti e sensoriali, e alcuni pezzi buoni o cattivi del seno o del bambino, alcuni derivati di essi quali feci, urine o latte, possono essere collocati nell’Io del bambino o espulsi nel seno della madre: “L’oggetto interno kleiniano è un conglomerato di rappresentazioni, di sensazioni e di sostanze: una pluralità, insomma, di oggetti interni assai eterogenei” (Kristeva, 2000, 68-9).
La relazione del bambino con questi suoi oggetti è una fantasia, costituita dai suoi personaggi e da una sua trama. Gli oggetti diventano allora materiale per la vita fantasmatica del bambino, ma anche mezzi per esprimere i suoi bisogni pulsionali, e non solo quindi veicolo di gratificazione pulsionale. Questo cambio di prospettiva si è evoluto in ulteriori arricchimenti teorici, ne è un esempio il lavoro di Susan Isaacs presentato alle Controversal Discussions sulle fantasie inconsce (1948), che descrive come le pulsioni possano trovare espressione nell’inconscio sotto forma di fantasie, in particolare sotto forma di una fantasia di relazione con un oggetto. Questa ulteriore teorizzazione permette di legare ancora di più insieme la prospettiva economica freudiana con quella definita più psicologica, abbracciata poi dal filone delle relazioni oggettuali. Successivi apporti di Bion, Meltzer, e altri autori post-kleiniani sul tema dell’oggetto hanno permesso di descrivere più nel dettaglio la molteplicità e i diversi attributi degli oggetti interni, la loro geografia e organizzazione nel mondo interno.
Quando nasce l’oggetto
Ma torniamo a Freud. In entrambe le opere sopra citate (1905 e 1915) Freud sostiene che l’appagamento pulsionale inizialmente abbia luogo appoggiandosi al soddisfacimento di un bisogno fondamentale per la sopravvivenza, e solo in seguito se ne renda autonomo, come accade nel caso del bisogno nutrizionale: “Nel ciucciare o succhiare con delizia abbiamo già potuto notare le tre caratteristiche essenziali di una manifestazione sessuale infantile” (Freud, 1905, 492-493).
Laplanche e Pontalis (1967) sostengono che proprio il concetto di appoggio permette di districare, almeno in parte, il complesso problema dell’oggetto della pulsione. Ad esempio, per la fase orale, l’oggetto dal punto di vista della pulsione di autoconservazione è ciò che nutre, dal punto di vista della pulsione orale invece è ciò che viene incorporato, “con tutta la dimensione fantasmatica inerente all’incorporazione. L’analisi dei fantasmi orali mostra che questa attività di incorporazione può riguardare oggetti del tutto diversi dagli oggetti alimentari, e definisce allora la relazione oggettuale orale” (Laplanche et Pontalis, 1967, 395).
Il tema dell’oggetto compare proprio nelle parole che seguono, proseguendo con la citazione di Freud sulla suzione infatti egli scrive: “Questa [la manifestazione sessuale infantile] sorge appoggiandosi a una delle funzioni vitali del corpo; non conosce ancora un oggetto sessuale, è autoerotica; e la sua meta è dominata da una zona erogena” (Freud, 1905, 493). L’oggetto in quanto oggetto altro da sé, non è ancora presente dunque secondo Freud, e proprio su questo punto troviamo un importante differenza tra i nostri due autori.
Secondo M. Klein infatti gli oggetti hanno una loro esistenza psichica sin dalla nascita e il neonato esiste in relazione a oggetti che sono sin dal principio distinti dall’Io; esistono dunque relazioni oggettuali sin dal primo giorno di vita. In una nota in Complesso edipico e angosce primitive (1945), M. Klein scrive: “Nella psiche infantile questi oggetti parziali - seno e pene - sono associati in effetti sin dal principio con la madre e con il padre. Le esperienze quotidiane con i genitori e il rapporto inconscio che si costituisce con essi in quanto oggetti interni si agglomerano sempre più con gli oggetti parziali primari e si aggiungono alla loro prominenza nell’inconscio infantile” (Klein, 1945, 396).
Klein spiega anche il perché di questa sua convinzione: “L’ipotesi di uno stadio, che si protrae per parecchi mesi, anteriore alle relazioni oggettuali implica che nel lattante, salvo la libido fissata al suo corpo, non siano presenti impulsi, fantasie, angosce e difese, oppure che questi non siano in rapporto a un oggetto, sicché opererebbero in vacuo. L’analisi di bambini abbastanza piccoli mi ha invece fatto capire che non esiste spinta pulsionale, situazione di angoscia o processo psichico che non coinvolga oggetti, esterni o interni; che, insomma, le relazioni oggettuali sono al centro della vita psichica. Mi ha inoltre fatto capire che l’amore e l’odio, le fantasie, le angosce e le difese sono attivi sin dal principio e che sono indivisibilmente connessi ab inizio a relazioni oggettuali. Queste intuizioni mi hanno permesso di vedere molti fenomeni in una luce nuova” (Klein, 1952, 531).
Apparentemente questa posizione pone M. Klein in netta contrapposizione con il suo maestro, che invece postulava un iniziale stato non oggettuale del bambino piccolo, detto narcisismo primario. Freud però si era a sua volta accorto che pur non sentendo alcun bisogno del mondo esterno, l’Io autoerotico ne ha però necessità perché è da lì che trae gli oggetti indispensabili ad appagare le pulsioni di autoconservazione: “Ebbene, sotto il dominio del principio di piacere si compie nell’Io un’evoluzione ulteriore. Esso assume in sé gli oggetti offertigli, in quanto costituiscono fonti di piacere, li introietta (secondo l’espressione di Ferenczi), e caccia d’altra parte fuori di sé ciò che nel suo stesso interno diventa occasione di dispiacere” (Freud, 1915, 31). Questi processi di proiezione e introiezione, che diventeranno poi un caposaldo della formulazione kleiniana, si pongono come punto nevralgico nell’articolazione di queste due prospettive sull’origine dell’oggetto (ma anche del soggetto).
Come mette in luce Kristeva (2000), la questione tra narcisismo e oggetto è estremamente complessa, perché prima di arrivare a teorizzare una distinzione tra narcisismo primario e secondario, cosa che avviene solo con L’Io e l’Es (1922), Freud aveva considerato il narcisismo come conseguenza di un’identificazione (per esempio nel Leonardo, ne L’uomo dei Lupi e in Schreber), che è un’evoluzione della sopra citata introiezione ferencziana. La domanda dunque è la seguente: “visto che il narcisismo è già l’interiorizzazione di un rapporto, si può parlare di uno stato realmente non oggettuale? Se uno stato non oggettuale esistesse, cosa ancora da dimostrare, la definizione di ‘narcisismo primario’ sarebbe inappropriata, poiché designava inizialmente il riflusso di una relazione” (Kristeva, 2000, 63-64). È dunque la messa a punto del concetto di identificazione da parte dello stesso Freud che, per dirla con Roussillon, “decostruisce il postulato solipsistico del narcisismo. Da quel momento l’esplorazione dell’importanza e dell’influenza dell’oggetto sul funzionamento psichico, considerato come altro-soggetto, è iniziata e resta un tema assolutamente essenziale nella psicoanalisi contemporanea” (Roussillon, 2014, 23).
Conclusioni
In questo breve scritto abbiamo dunque potuto soffermarci sull’evoluzione cui è andato incontro l’oggetto nel tempo e su alcuni importanti punti di contatto e di contrasto tra la concezione di esso formulate da Freud e da M. Klein. Agli analisti successivi, il compito di ampliare queste teorizzazioni, più o meno creativamente, attingendo al proprio personale rapporto con Freud e Klein, divenuti oggetti interni per ciascuno di noi. Vorrei concludere con una citazione di Guignard che mi sembra leghi saldamente insieme queste due prospettive: “Il lungo e troppo corto cammino della vita dà all’essere umano mille e una occasione di stabilire e di sciogliere tutta una rete di relazioni con il mondo esterno, sul modello esuberante delle sue relazioni con gli oggetti interni. Non potrà farlo che nella misura in cui un certo equilibrio economico regola queste relazioni interne. In mancanza di ciò, l’energia pulsionale, che è cieca e di spinta costante, si aprirà un passaggio nei solchi più facili, cioè, nella ripetizione. Ed è qui che l’Io si metterà a soffrire nel modo così sconvolgente descritto da Freud” (Guignard, 1977, 11). Anche gli oggetti interni stessi subiscono tuttavia variazioni nel corso della vita e “in effetti, è forse un compito che dura tutta la vita per tutti noi quello di venire gradualmente a capo della realtà degli oggetti esterni con cui viviamo e che, per introiezione, ci costituiscono”. (Abram e Hinshelwood, 2018, 72, traduzione mia).
Bibliografia
Abram J. E Hinshelwood R. D. (2018). The clinical paradigms of Melanie Klein and Donald Winnicott, Routledge, New York.
Freud S. (1905). Tre saggi sulla teoria sessuale. OSF 4.
Freud S. (1913). Totem e Tabù. OSF 7.
Freud S. (1915). Pulsioni e loro destini. OSF 8.
Freud S. (1922). L’Io e L’Es. OSF 9.
Freud S. (1925). La Negazione. OSF 10.
Guignard F. (1977). Pulsioni e vicissitudini dell’oggetto. Roma, Borla, 2000.
Hinshelwood R.D. (1989). Dizionario di psicoanalisi kleiniana. Milano, Cortina, 1990.
Isaacs S. (1948). The Nature and Function of Phantasy. In International Journal of Psycho-Analysis, 29, 73-97.
Klein M. (1945). Complesso edipico e angosce primitive. In Scritti, 1978.
Klein M. (1952). Le origini della traslazione. In Scritti, 1978.
Klein M. (1978). Scritti 1921-1958. Torino, Bollati Boringhieri.
Kristeva J. (2000). Il genio femminile Melanie Klein. Roma, Donzelli, 2006.
Laplanche J. E Pontalis J.B. (1967), Enciclopedia della psicoanalisi. Roma, Laterza, 2008.
Roussillon R. (2014). Ruolo e funzione dell’oggetto nelle trasformazioni della pulsione. In (a cura di) Munari F. Mangini E. Metamorfosi della pulsione. Milano, Franco Angeli.
* CENTRO VENETO DI PSICOANALISI. KnotGarden 2023/1, Melanie Klein oggi
FILOLOGIA ANTROPOLOGIA, E PSICOANALISI
LA "PIETAS" DELLA TRADIZIONE DI ROMA E LA "CARITAS ROMANA" NELLA STORIA DELL’ARTE E NELLA LETTERATURA.
ALCUNE NOTE SULLA "PRIMA LEGGE DI NATURA"
"CARITAS ROMANA"- In Valerio Massimo (sua è la fonte da cui proviene il racconto, ripreso poi da Giovanni Boccaccio, in "De mulieribus claris", con il titolo "Una Giovanetta Romana"), la figlia allatta la vecchia madre in carcere; nella tradizione artistica diventa invece la figlia che allatta il vecchio padre in carcere.
AMORE (CHARITAS): "COME NASCONO I BAMBINI". Come mai questa sottolineatura rappresentativa della giovane donna che allatta il vecchio padre nell’immaginario culturale europeo che ha quasi cancellata l’altra, quella della figlia che allatta la vecchia madre?! Non è tempo di svegliarsi dal sonno dogmatico (Kant) e avere il coraggio di pensare il "complesso edipico completo" (S. Freud) e imparare ad amare il padre e la madre?:
A) LA PIETAS COME ORIGINE DI TUTTE LE VIRTÙ: "Un pretore consegnò al triumviro una donna di nobile stirpe condannata alla pena capitale presso il suo tribunale affinché fosse uccisa in carcere. Colui che era a capo della custodia, dopo averla presa, mosso da misericordia non la strangolò subito: diede anche il permesso alla figlia di andare da lei, ma diligentemente perquisita affinché non portasse del cibo, ritenendo che sarebbe morta di fame. Poiché trascorsero molti giorni, lui stesso si chiedeva con che cosa mai riuscisse a sostentarsi così a lungo, osservando la figlia con più attenzione si accorse che quella, denudando il petto, placava la fame della madre con l’aiuto del suo latte.
Di uno spettacolo così straordinario quella novità fu portata da lui stesso al triumviro, dal triumviro al pretore, dal pretore al consiglio dei giudici, e procurò alla donna la remissione della pena.
A che punto non arriva o cosa non escogita la #pietas, che scoprì un nuovo sistema per salvare una madre dal carcere? Cosa c’è di tanto inusitato, che cosa di tanto inaudito se non che una madre sia nutrita dal petto di sua figlia? Qualcuno potrebbe ritenere questo fatto contro natura, se amare i genitori non fosse la prima legge di natura." ("Factorum et dictorum memorabilium libri IX", cit. da Laura R. Bevilacqua, "UN PANTHEON PER LE VIRTÙ II 13, I QUADERNI DEL RAMO D’ORO ON-LINE n. 10 , 2018).
B) "LA SCENA PERDUTA" E LA "CARITÀ ROMANA" (ALLA LUCE DELLA PSICOANALISI): "[...] Nell’ultimo romanzo di Abraham B. Yehoshua “La scena perduta”, un anziano regista è invitato ad una retrospettiva dei suoi film, durante la quale gli verrà attribuito un premio. Con sorpresa i film che vengono proiettati sono le sue prime prove cinematografiche e Moses si trova ad assistere alle scene che aveva girato allora, usando come set la casa della propria infanzia: è un ritorno alle origini. [...] La retrospettiva servirà a Moses per ricucire un’antica rottura, la fine della collaborazione con il suo creativo, ispirato, sceneggiatore, colui con cui aveva girato le opere più riuscite della sua carriera. Era successo che, al momento di riprendere la scena finale di un film, frutto della fantasia visionaria dello sceneggiatore, il regista avesse esitato, optando per un’altra conclusione, meno ardita e cruda, tradendo la fiducia nell’intuizione e nelle fonti generose della creatività del collega [...]
la scena ripudiata riprendeva il tema della Caritas Romana, e raffigura la leggenda meravigliosa di Pero e Cimone, messa per iscritto nel primo secolo d.C. da Valerio Massimo nei suoi Factorum et dictorum memorabilium libri IX . Vi si narra di una giovane donna che allatta il vecchio padre.
Da Guido Reni a Caravaggio, a Rubens, a Murillo, la storia è stata rappresentata poi da innumerevoli pittori: l’impatto dei dipinti si rivela più forte di quello del #racconto e ogni artista ha cercato di presentare la propria versione. Perfino a #Pompei è riemerso un affresco con questo motivo; a #Budapest esiste una statua in cui la donna che allatta il vecchio sorregge un bambino già sazio, col dito in bocca, quasi pronto per addormentarsi. Nel 1606 #Caravaggio riuscì ad inserire la scena, così scandalosa nella sua carnalità, nella Pala d’altare della chiesa del Pio Monte della #Misericordia di #Napoli, sublimando la sua sensualità nella cornice delle opere di misericordia corporale, “dar da mangiare agli affamati e “visitare i carcerati”.
Allo psicoanalista la “retrospettiva” di Yehoshua evoca subito il termine freudiano di Nachträglickheit, che indica il lavoro psichico che torna a ritroso sul passato, per farlo rivivere in una rinnovata significazione affettiva, ricostruendo ogni volta, insieme al soggetto anche l’oggetto di desiderio. E’ quella ciclica e indispensabile modalità del soggetto di accostarsi alle proprie origini, alle fonti di sé, nel corso delle varie tappe della vita.
La storia di Pero, che col suo latte salva Cimone, incatenato e condannato a morire di fame, può rappresentare una delle diverse e inaspettate forme del ripresentarsi della configurazione edipica e del generoso dono d’amore, Caritas -Agape, all’origine dell’esistenza psichica. Quanto con l’età sarà simbolizzato e acquisterà limite e regola definendo il soggetto (il carcere e le catene di Edipo) all’inizio era unione carnale con la madre, senza confini definiti. Il quadro sconvolgente, che ci parla anche di realtà che a volte si rendono dolorosamente presenti nella crisi della coppia di oggi, mostra come nella figlia riviva la madre, nel vecchio il bambino che era stato.
Nel 1920 la psicoanalista Lou Andreas Salomé, a completamento del concetto di narcisismo primario, ci teneva a ricordare a Freud il valore dell’originario materno e gli proponeva: “Allo stato primario è presente un’identità tra mondo e Io, dove non esistono ricordi”, identità che nell’esperienza di godimento ripresenta “quel non-esser-ancora-Io, quell’esser-tu-e-Io che vigeva all’origine.”
Su questo sentimento di estasi, che Romain Rolland aveva chiamato “sentimento oceanico”, nel 1929 (Il disagio della civiltà) Freud si sarebbe fermato a riflettere, riconoscendo come il senso soggettivo dell’Io sia “soltanto un avvizzito residuo di un sentimento assai più inclusivo, anzi di un sentimento onnicomprensivo che corrispondeva a una comunione quanto mai intima dell’Io con l’ambiente”
Può essere doloroso per l’Io, soprattutto dopo essersi dovuto staccare da un’esperienza così appagante ed aver attraversato con fatica le difficili conquiste che portano alla maturità, alla costituzione dei limiti e della conoscenza, tornare a ripensare all’illimitato e al perturbante rapporto con il femminile originario, per andare nuovamente ad attingere alla fonte della saggezza.
Secondo Luce Irigaray (All’inizio, lei era, 2012), per capire qualcosa del “tra-noi”, sarebbe necessario tornare al mondo e alla filosofia dei presocratici. E’ toccante quello che scrive, e che sembra commentare la scena della Caritas Romana: “All’origine è una lei -natura, donna o Dea- che ispira la verità a un saggio... La totalità del discorso è ancora misteriosamente fondata a partire da lei - natura, donna o Dea - che rimane inaccessibile cosa dalla quale sorgono le parole e alla quale sono rivolte.”
Inoltratosi ormai nella vecchiaia, nel 1935, Freud scriveva a Lou Andreas Salomé: “Quanto buon carattere e umorismo ci vogliono per sopportare l’orribile avanzare dell’età! (...) Il giardino là fuori e i fiori della stanza sono belli, ma la primavera come noi diciamo a Vienna, è una presa in giro. Naturalmente sono sempre affidato alle cure di Anna, proprio come una volta ha osservato Mefistofele (Faust II, 7003): «E si finisce che si dipende dalle creature fatte da noi.»”
*Fonte: cfr. Maria Pierri, “Questo è il posto, questa è l’origine”, SpiWeb, 4 marzo 2014 (ripresa parziale).
#FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO (#Hegel): #LINGUA #MENTE E #SOCIETA’. *
Morire per fame di contatto
di MAURIZIO PECICCIA (la Repubblica, 07 Aprile 2018
Bambini correttamente alimentati ma deprivati di interazioni e contatti possono letteralmente morire di fame. Nella Cronaca lo storico del XIII secolo, Salimbene de Adam, descrive un esperimento, ideato dall’imperatore Federico II di Svevia, per rispondere alla dibattuta questione che gli antichi linguisti si erano posta sin dai tempi dei faraoni Psammetico: qual è la lingua umana originaria? l’egiziano, il frigio, l’ebraico?
Federico II decise di far nutrire regolarmente un gruppo di neonati in assoluto silenzio, i piccoli furono toccati quel minimo indispensabile alle cure igieniche al fine di eliminare completamente le loro possibilità di interazioni linguistiche con le nutrici.
Salimbene narra che quei bimbi non parlarono nè in ebraico, nè in egiziano, nè in alcun’altra lingua: l’assenza di contatto fisico e verbale li condusse fatalmente alla morte. La dichiarata avversione di fra’ Salimbene contro Federico II fece pensare ad una esagerazione della propaganda guelfa, si ipotizzò che le conseguenze dell’esperimento fossero state ingigantite per incolpare l’odiato imperatore di infanticidio.
I resoconti di Salimbene furono indirettamente accreditati dalle osservazioni di Renè Spitz uno psicoanalista viennese emigrato durante la seconda guerra mondiale negli Stati Uniti. Spitz condusse, per la prima volta uno studio su bambini abbandonati in orfanotrofio seguendo il metodo scientifico sperimentale. Nello scritto Hospitalism e nel filmato Grief a peril in infancy il ricercatore osservò 91 bambini abbandonati sin dalla nascita in orfanotrofio, nutriti regolarmente ma con scarsi contatti interpersonali. Le nutrici dedicavano qualche carezza ai primi della grande camerata in cui vivevano gli infanti ma per gli ultimi il tempo stringeva e non si andava oltre le minime interazioni necessarie al nutrimento e all’igiene.
Dopo 3 mesi di carenza di contatti i bimbi svilupparono una grave apatia, inespressività del volto, ritardo motorio e deterioramento della coordinazione oculare. Nelle loro culle si formò un piccolo avvallamento che li avvolgeva completamente. I piccoli entravano in uno stato che Spitz paragonò al letargo: se ne stavano immobili in quelle nicchie che per molti divennero le loro tombe. Entro la fine del secondo anno di vita, il 37% dei 91 bambini, pur essendo stati alimentati correttamente, morì. Morirono con i segni clinici del marasma, una malattia provocata dalla carenza proteica tipica della denutrizione. Morirono i bambini che stavano in fondo alla camerata e che avevano ricevuto cibo senza contatti interpersonali. Chi riuscì a sopravvivere non fu in grado di parlare o di camminare, spesso i superstiti non erano in grado nemmeno di rimanere autonomamente seduti.
Le osservazioni pionieristiche condotte da Spitz negli anni ’40 furono riprese negli anni ‘90 e applicate con metodi sperimentali più aggiornati da gruppi di ricercatori tra i quali Metha e altri (The english and Romania adoptees study), Rutter e altri (Early adolescent outcomes of institutionally deprived and non-deprives adoptees), Zeanah e altri (The Bucarest early intervention project core group). Gli autori dedicarono osservazioni longitudinali di oltre 20 anni per studiare la piaga dell’abbandono dei bambini rumeni.
(2- continua)
Nota:
#FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO (#Hegel): #LINGUA #MENTE E #SOCIETA’. In #memoria di #Kant, #Marx, Ferdinand de #Saussure, #Gabriele De Rosa (primo rettore dell’ #Università degli Studi di #Salerno), di #Tullio De Mauro e di #Edoardo Sanguineti... ***
"Se il #padrone conosce 1000 parole e tu ne conosci solo 100 sei destinato ad essere sempre #servo" (don Lorenzo Milani).
PSICOANALISI, FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA E STORIOGRAFIA:
LA SUGGESTIONE, L’ ENIGMA DI SAN CRISTOFORO, E
LA "PSICOLOGIA DELLE MASSE E ANALISI DELL’IO" (S. FREUD, 1921).
Per meglio comprendere il grande rilievo del contributo di Stekel, al lavoro e alle "costruzioni nell’analisi" (1937) di Freud, molto utile anche la lettura del testo della seduta del 1903, pubblicata come articolo con il titolo "Il ’Piccolo Kohn’", tradotto e curato dal dr. Michele Lualdi*:
[FREUD] - Il maestro [...] cosa è suggestione? [...] Mi sono recato dai più celebri maestri della suggestione, ma nessuno ha potuto darmi una risposta a questa domanda.
*cfr.Wilhelm Stekel: "Il ’Piccolo Kohn’" (1903)
AllegaTO: San Cristoforo (Wikipedia).
NOTA:
"INTERPRETAZIONEDEISOGNI", E "COSTRUZIONI NELL’ ANALISI" (SIGMUND FREUD,1937): "CLAUSTROFILIA" (ELVIO FACHINELLI, 1983). Una risposta all’edipica ed amletica domanda ("question") di Freud e all’enigma di Cristoforo (come quello della Sfinge), a mio parere, può essere così sintetizzata: noi (esseri umani) del Pianeta Terra "fumiamo" troppo e ancora non abbiamo capito la lezione di Amleto (Shakespeare), e della Regina Vergine, Elisabetta I d’Inghilterra, continuiamo a "fumare" il tabacco della "Virginia" e il sigaro del "Kaiser", e, non vogliamo nascere a noi stessi (esseri umani).
FLS
PSICOANALISI, STORIOGRAFIA, E FILOLOGIA:
A) Una citazione dal verbale di una riunione della Società psicologica del mercoledì (primo nucleo della Società psicoanalitica), pubblicato in un articolo del 28 gennaio 1903 da Wilhlem Stekel, tradotto e curato di Michele Lualdi:
"Un piccolo studio accogliente di un illustre neurologo. Il padrone di casa siede allo scrittorio e fuma una piccola pipa inglese.
Lo “s p i r i t o i r r e q u i e t o” si adagia su una morbida poltrona e fuma come il suo maestro, per quanto possibile con ancor più agio, una pipa inglese. Il “t a c i t u r n o” maneggia con grande abilità ed eleganza una sottile sigaretta. Il “s o c i a l i s t a” tira tranquillamente da un #Virginia, con una faccia molto seria.
Suonano.
Entra l’“i n d o l e n t e”. Il padrone di casa gli offre un #sigaro. [...]" (W. Stekel, Discussione sul fumare).
B) CONSIDERATO CHE A VIENNA, al Museo della Hofburg nelle liste dei sigari fumati dal Kaiser Franz Joseph è presente anche il sigaro "Virginia", forse, è bene dedicare allo “s p i r i t o i r r e q u i e t o” (di Stekel), che "fuma come il suo #maestro [...] una pipa inglese", maggiore attenzione (cfr. "Passando da Stekel. Edizione critica dell’Autobiografia di WilhelmStekel" di Michele Lualdi).
C) IL NOME DI DIO. A memoria di Stekel, ricordo l’importante nota di Freud sul "#significato della #successione delle vocali":
"Indubbiamente ha suscitato frequenti obiezioni l’affermazione di Stekel che, nei sogni e nelle associazioni, i nomi che devono rimanere nascosti appaiono sostituiti da altri che rassomigliano ai primi solo in quanto contengono la stessa successione di vocali. Però un’evidente analogia si incontra nella storia della religione. Tra gli antichi Ebrei il nome di Dio era tabù; non lo si poteva pronunciare né scrivere. (Vi sono molti altri esempi del particolare significato dei nomi nelle civiltà arcaiche). Tale divieto riceveva un’obbedienza così implicita che, a tutt’oggi, rimane sconosciuta la vocalizzazione delle quattro consonanti del nome dio (JHVH). Però il nome era pronunciato Jehova prendendosi in prestito le vocali della parola Adonai («Signore»), nei confronti della quale non vigeva tale proibizione (Reinach, 1905-12, 1, 1)." (cfr. S. Freud, "Opere", 1911, vol. 6).
NOTE SUL TEMA:
1) - Freud e la sua debolezza: i sigari:
2) -I SIGARI DI MARCEL DUCHAMP E I SIGARI DI JACQUES LACAN. Un ricordo di Gianfranco Baruchello (6 marzo 2017):
FLS
IL "NATUM ESSE", LA "VERGOGNA PROMETEICA", E "IL CONCETTO INESTIRPABILE DELLA DIGNITÀ UMANA"*:
I. Primo incontro con la vergogna prometeica.
L’odierno Prometeo domanda: Chi sono mai?
Comincio con alcuni appunti di diario presi in California
11 Marzo 1942
Credo di essere capitato sulle tracce di un nuovo pudendum; di un motivo di vergogna che non esisteva in passato. Lo chiamo per il momento, per mio uso, vergogna prometeica, e intendo con ciò "vergogna che si prova di fronte all’umiliante altezza di qualità degli oggetti fatti da noi stessi".
Si è aperta qui un’esposizione tecnica e insieme a T. ho preso parte a una visita guidata. T. si è comportato in modo stranissimo; tanto strano che, da ultimo, osservavo solo lui invece delle macchine esposte. Infatti, non appena uno dei complicatissimi pezzi veniva messo in azione, abbassava gli occhi e ammutoliva. Ancora più curioso il fatto che nascondeva le mani dietro la schiena, come se si vergognasse di aver portato questi suoi arnesi pesanti, goffi e antiquati, all’alto cospetto di apparecchi funzionanti con tanta precisione e raffinatezza. Ma questo "come se si vergognasse" è un’espressione troppo timorosa. Tutto l’insieme del suo comportamento non lasciava adito a dubbi. Gli oggetti di cui conosceva l’esemplarità, la superiorità, l’appartenenza ad una più elevata classe dell’essere, per lui tenevano realmente il posto che per i suoi antenati avevano avuto le autorità o le classi sociali riconosciute superiori. Doversi presentare al cospetto di quei meccanismi perfetti nella sua goffaggine di essere di carne, nella sua imprecisione di creatura, gli era realmente insopportabile; si vergognava davvero.
Se cerco di approfondire questa vergogna prometeica, trovo che il suo oggetto fondamentale, ossia la macchia fondamentale di chi si vergogna, è l’Origine. T. si vergogna di essere divenuto invece di essere stato fatto, di dovere la sua esistenza, a differenza dei prodotti perfetti e calcolati fino nell’ultimo particolare, al processo cieco e non calcolato e antiquatissimo della procreazione e della nascita. La sua onta consiste dunque nel suo natum esse, nei suoi bassi natali; che egli giudica bassi proprio perché sono natali. Ma se egli si vergogna di questa sua origine antiquata, si vergogna naturalmente anche del risultato difettoso e ineluttabile di questa origine: di se stesso. [...]" (cfr. Günther Anders, "L’uomo è antiquato" [1956], cap. "Della vergogna prometeica").
* PER NON PERDERE IL FILO DEL LAVORO DI GÜNTHER ANDERS, RICORDARE QUANTO EGLI SCRIVE NELLA DEDICA ("L’uomo è antiquato", 1956):
Federico La Sala
ARTE, CINEMA, ANTROPOLOGIA, FILOSOFIA E PSICOANALISI: "GÜNTHER ANDERS E LA SCENA ATTUALE".
GODOT (BECKETT) E CHARLOT (CHAPLIN). Tracce per una svolta antropologica: una nota su una "vecchia" indicazione di Günther Anders.
RIPRENDENDO IL DISCORSO DA "ADAMO ED EVA", dalla coppia più famosa della preistoria (laica e devota), sul filo della memoria del lavoro del regista Jim Jarmusch, "Solo gli amanti sopravvivono" ("Only Lovers Left Alive"), un film del 2013, e, al contempo, accogliendo la sollecitazione della rivista "Aut Aut" (397/2023) a riprendere il lavoro di Günther Anders (cfr. "L’uomo è antiquato? Günther Anders e la scena attuale", forse, è opportuno (per "orientarsi nel pensiero") cominciare proprio da "L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’era della seconda rivoluzione industriale" (1956), e, in particolare, dal capitolo intitolato "ESSERE SENZA TEMPO. A proposito di En attendant Godot di Beckett". In questo capitolo, nel "§ 6 Entrano in scena gli antipodi", così è scritto:
#Metaphysics #Anthropology #Theology #Cosmology #Koyaanisqatsi #Ubuntu #Earthrise
Antropologia. In principio è il gesto: ritorna (finalmente) Marcel Jousse
Ritorna in libreria dopo 40 anni "Antropologia del gesto" del grande gesuita francese, il primo a intuire e teorizzare la relazione tra gestualità, fisiologia del corpo umano e linguaggio
di Simone Paliaga (Avvenire, venerdì 26 agosto 2022)
Figure erratiche costellano di tanto in tanto la storia del pensiero e delle idee. Le ricadute delle loro riflessioni hanno lasciato traccia presso allievi e ammiratori ma il loro ruolo è oramai quasi dimenticato. Se si aggiunge che in taluni casi, per scelta e convinzione, questi maestri occulti hanno lasciato ben poco o nulla per iscritto e hanno rifiutato un qualsiasi inquadramento disciplinare il gioco è fatto. La fama è eclissata alla pari della memoria della loro opera. È il caso del padre gesuita e antropologo sperimentale, come amava definirsi, Marcel Jousse di cui è appena uscito, dopo quarant’anni di assenza dalle librerie, a cura di Antonello Colimberti, presso l’editore Mimesis, L’antropologia del gesto (pagine 426, euro 32,00).
Ma di là dall’intreccio tra psicologia, antropologia, linguistica e pedagogia, l’influenza sotterranea del lavoro di ricerca di Jousse ben travalica i confini delle scienze umane. Mary e Padraic Colum, rispettivamente critica letteraria e poeta, riportano nel loro Our friend James Joyce come alla fine degli anni venti del Novecento, lo scrittore irlandese, nel corso del suo soggiorno parigino, avesse frequentato con assiduità i corsi tenuti da Jousse. Potrebbe essere, secondo taluni critici, questa la via da percorrere per scendere nei penetrali del Finnegans Wakedove Joyce non esita a evocare le “ joussture”. E cosa dire poi dell’idea avanzata da Stephan Dedalus intorno alle origini gestuali del linguaggio?
Ma l’influenza della riflessione del padre gesuita non si riduce solo all’infatuazione di uno scrittore. Se fosse stato così poco innovatore e privo di interesse a Michel de Certeau non sarebbe balenato alla mente di predisporre, nel 1965, alla facoltà di teologia dell’Institut catholique di Parigi, un corso interamente dedicato all’antropologo sperimentale. Né tanto meno di scrivere in una lettera che «sarebbe urgente la riedizione, in uno o due volumi, degli articoli di Jousse e la pubblicazione dei suoi corsi». E lo stesso vale per Walter Ong. Nel suo capolavoro Oralità e scrittura lo studioso si confronta con le tesi di Jousse, sottolineando come «abbia mostrato l’intimo legame esistente fra modelli ritmici orali, il processo respiratorio, i gesti e la simmetria bilaterale del corpo umano». Sullo stesso piano si muove il teologo Gaston Fessard che, già nel 1927, dedica all’antropologo uno studio intitolato Una nuova psicologia del linguaggio: lo stile orale in padre Marcel Jousse.
E solo per concludere il piccolo excursus, esso non è stato marginale nemmeno nelle riflessioni di Ivan Illich dedicate a descolarizzazione della società e alla lettura poi raccolte Nella vigna del testo. Lo stesso vale anche Roman Jakobson e Pëter Bogatyrëv, tra i maggiori rappresentanti del circolo di Praga, che insistono sul ruolo giocato da Jousse nel mettere in luce il ruolo giocato nella creazione letteraria folclorica da corporeità e gestualità. E potremmo proseguire in questa carrellata fino ad arrivare più vicino a noi, sfiorando le indagini evoluzionistiche e neuroscientifiche e in particolare quelle di Michael Corballis, che non ha difficoltà a riconoscere il coincidere di gesto e parola.
Già perché per Jousse in principio c’è proprio il gesto con le sue leggi. Infatti il nucleo principale di questa storia degli effetti del pensiero di un autore dimenticato, si trova proprio in L’antropologia del gesto, il libro postumo, non concluso ma completato, per la sopraggiun-ta scomparsa dell’autore avvenuta nel 1961 settantacinquenne, grazie all’intervento dell’omonima fondazione e soprattutto all’instancabile intraprendenza dell’allieva Gabrielle Baron. A lei si deve, nel corso del tempo, l’impegno a trascrivere parte degli oltre mille corsi che, durante la sua attività di insegnamento svoltasi tra il 1932 e il 1957, Jousse ha tenuto nell’aula Turgot della Sorbona, all’École des Hautes Études, all’École d’Anthropologie e presso il suo Laboratorio di Ritmo-pedagogia.
Per quanto Jousse sia stato allievo di Marcel Mauss e di Pierre Janet, abbia approfondito gli studi nelle lingue classiche, abbia fatto ricerche sul campo negli Stati Uniti presso i nativi delle Grandi Pianure, egli stesso riconosce che la sua autentica formazione sia avvenuta durante i primi anni di vita. Proveniente da una famiglia contadina e analfabeta, gran parte dell’intuizioni che hanno alimentato il suo pensiero, Jousse le ricava nelle cantilene, nelle filastrocche e nella recitazione a memoria dei Vangeli, che la madre gli ha elargito nel corso dell’infanzia.
Ritmo, dondolamento, imitazione sarebbero all’origine dei tre meccanismi che sono alla base dell’Anthropos: ritmo-mimismo, bilateralismo e formulismo. Per Jousse «l’uomo, mimatore per natura, si fa specchio delle interazioni della realtà circostante», riconoscendo il Cosmo come un incessante groviglio di gesti interazionali che lui accoglie, «rigioca» e dispone in successione dando origine anche al pensiero e alla Tradizione. È questa forza dell’Anthropos, misteriosa e irrefrenabile, che permette al bambino di ripetere spontaneamente i suoni, i movimenti, i gesti. E sono proprio questi a costituire il primum fondamentale dell’uomo, perché «prima di fabbricare degli attrezzi, prolungamenti dei suoi gesti, l’Anthropos plasma il proprio gesto».
Alla capacità mimica si aggiunge il bilateralismo, vale a dire il riconoscimento che «l’uomo divide il mondo secondo la sua struttura bilaterale: crea la destra e la sinistra, crea l’avanti e crea l’indietro, crea l’alto e crea il basso. Al centro c’è l’uomo che fa la separazione » e questo svolge un ruolo fondamentale nel processo di cristallizzazione del vivente, che sfocia nel formulismo. Con questa espressione Jousse individua la tendenza dell’Anthropos a stereotipare i gesti, grazie a cui si forma il legame tra le generazioni dando origine a mentalità e le culture. «Per tale motivo il formulismo è fonte di vita per un popolo quando dà origine a formule viventi, portatrici di realtà», ma quando esso si emancipa dalla concretezza viva e sfocia nel suo eccesso per “pigrizia” genera l’“algebrosi”, l’astrattezza, che finisce con il celare il vivente e la realtà all’Anthropos. Che così perde se stesso.
INFANZIA ANTROPOLOGIA E STORIA:
IL "BALBETTIO" BABELICO, LA DIVINA COMMEDIA, E LA B-ARCA DEL BUON NOE’ (EU-NOE’).
LA "FEMMINA BALBA" (DANTE 2021), EUNOE’ (2022), E LA PRIMAVERA DELLA TERRA-MADRE (ELEUSIS 2023). Brillante coincidenza, chiarissimo Carlo Pulsoni: a Bologna nasce il MUBA, il nuovo "Museo dei bambini e delle bambine"), e "Insula Europea" decide la ripresa della "vecchia" riflessione di Corrado Bologna sul “Balbettio" in poesia, scritta per il volume "Eunoé. Liber amicorum per Giorgio Agamben", apparso presso Quodlibet di Macerata nell’aprile 2022)
«CERCATE L’ANTICA MADRE» (Eleusi 2023). La fomidabile immagine in copertina di Enrico Pulsoni, che dice della ripetizione e dello specchio, a me pare un buon-messaggio: auguralmente, sembra annunciare una sollecitazione epocale sia a portarsi oltre l’infantile stadio dello specchio e la persuasione edipica e narcisistica della "femmina balba" (Dante, Purg. XIX, 7) sia ad uscire dallo stato di minorità (e/o stato di superiorità) balbelica (e/o babelica) - a non restare ancora nella fascinazione di "quell’antica strega" (Purg. XIX, 58) e a portarsi oltre la "preistorica" dialettica del rispecchiamento platonico-hegeliano e paolino-costantiniano. Earthrise!
JONATHAN GOTTSCHALL
L’ISTINTO DI NARRARE
COME LE STORIE CI HANNO RESO UMANI
Traduzione di Giuliana Maria Olivero
L’uomo passa più tempo immerso in un universo di finzione che nel mondo reale. Nessun altro animale dipende dalla narrazione quanto l’essere umano, lo «storytelling animal». Questo strano comportamento, che ci porta a mettere al centro della nostra esistenza cose che non esistono, è innato e antichissimo. -Ma a che scopo? Jonathan Gottschall studia la narrazione da molti punti di vista e si muove tra biologia, psicologia, neuroscienze e letteratura, appoggiandosi alle ricerche più avanzate, ed evoca i tangibili vantaggi del mondo fantastico. Raccontando storie i bambini imparano a gestire i rapporti sociali; con le fantasie a occhi aperti esploriamo mondi alternativi che sarebbe troppo rischioso vivere in prima persona, ma che risulteranno utilissimi nella vita reale; nei romanzi e nei film cementiamo una morale comune che permette alla società di funzionare.
Il potere universale della finzione è probabilmente la nostra caratteristica più distintiva, il segreto del nostro successo evolutivo, ciò che ha reso l’uomo un animale diverso dagli altri, permettendo a lui solo di vivere contemporaneamente molte vite, accumulare esperienze diverse e costruire il proprio mondo con l’incanto dell’invenzione.
* Scheda editoriale: Bollati Boringhieri, 2018 - 13,00 €, 256 PAGINE
JONATHAN GOTTSCHALL
IL LATO OSCURO DELLE STORIE.
COME LO STORYTELLING CEMENTA LE SOCIETÀ E TALVOLTA LE DISTRUGGE
Traduzione di Giuliana Olivero
L’essere umano è l’animale che racconta storie. Jonathan Gottschall ha usato questa fortunata metafora in L’istinto di narrare, descrivendo magistralmente quell’ecosistema di finzione narrativa nel quale siamo immersi e che caratterizza in maniera così peculiare la nostra specie. Le storie creano la struttura delle nostre società, fanno vivere a ogni persona migliaia di vite, preparano i bambini alla vita adulta e formano i legami che ci consentono di convivere in pace.
Ma tutto questo ha un lato oscuro che non possiamo più ignorare: le storie potrebbero anche essere la causa della nostra distruzione.
Con questo libro Jonathan Gottschall torna sul tema della narrazione con tutto il bagaglio interdisciplinare delle sue conoscenze, attingendo alla psicologia, alla scienza della comunicazione, alle neuroscienze e alla letteratura per raccontarci fino a che punto le storie siano in grado di influenzare il nostro cervello e le nostre vite. E non sempre per il meglio.
La narrazione ha agito nel corso della storia come collante delle società, certo, ma è anche la forza principale che disgrega le comunità: è il metodo più efficace che abbiamo per manipolare il prossimo eludendo il pensiero razionale. Dietro i più grandi mali della civiltà - il disastro ambientale, la demagogia, il rifiuto irrazionale della scienza, le guerre - c’è sempre una storia che confonde le menti. Le nuove tecnologie amplificano gli effetti delle campagne di disinformazione, e le teorie del complotto e le fake news rendono quasi impossibile distinguere i fatti dalla finzione, per cui la domanda che dobbiamo porci urgentemente è: «come potremo salvare il mondo dalle storie?».
* Scheda editoriale: Bollati Boringhieri, 2022 - 24,00 €, 274 PAGINE
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LINGUISTICA, ARCHEOLOGIA FILOSOFICA, E APOCALISSE [1, 8]: "L’INFINITO", IL "CONOSCI TE STESSO", E IL TEMPO DELL’AORISTO.
Una domanda all’altezza dei tempi:*
Brillantissima, epocale domanda, questa di Salvo Micciché! Una sollecitazione straordinaria a svegliarsi da un letargo più che millenario e a prendere la parola: annuncia, forse, un grande Natale2022, un BuonAnno2023? Boh? Bah?!
Dalle profondità oceaniche, dalla fossa labirintica di ogni M-Arianna, intanto, egli ha riportato spiritosa-mente - alla luce di una generale coscienza caduta in un sonno dogmatico profondo - l’implicito e l’indeterminato tempo del γνῶϑι σεαυτόν "conosci te stesso", di ogni comunicazione di ogni essere umano: l’A e l’O... risto [Ap. 1, 8].
*
"Sempre caro mi fu quest’ermo colle / e questa siepe che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude./ Ma sedendo e mirando, interminati/ spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quïete/ io nel pensier mi fingo; ove per poco/ il cor non si spaura. E come il #vento / odo stormir tra queste piante, io quello / infinito silenzio a questa #voce / vo comparando: e mi sovvien l’#eterno, /e le morte stagioni, e la presente /e viva, e il suon di lei. Così tra questa/ immensità s’annega il pensier mio: /e il naufragar m’è dolce in questo mare" (Giacomo Leopardi, "L’Infinito").
FLS
PIANETA TERRA 2022.
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, ANALFABETISMO, E "DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (FREUD, 1929):
COME NASCONO I BAMBINI? COSA "STA SCRITTO AL CENTRO DELLE NOSTRE PANCE" DI ESSERI UMANI?
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CORDONE OMBELICALE
di Annalisa Teggi (L’ Osservatore Romano, 02 dicembre 2022
"Se dovessi scegliere la notizia dell’anno di questo 2022 che si avvia al termine, la tirerei fuori dalle pieghe più silenziose della realtà. Lo scorso maggio a Catania è stato trovato un neonato abbandonato in una cesta con il cordone ombelicale ancora attaccato. Proprio quest’ultimo dettaglio mi è rimasto impresso, quasi fosse un grido. Che grande vulnerabilità esposta in quel cordone, segno di una dipendenza totale. Guai a manifestare una cosa del genere, oggi. I nostri cordoni ombelicali li tagliamo spavaldamente, o piuttosto li nascondiamo con cura (anche noi stessi). Ostentiamo la fierezza di traguardi che ci siamo guadagnati da soli, con le nostre forze. Senza chiedere niente a nessuno - la medaglia da appuntarsi al petto. Ma sarà poi vero?
[...]
«Sono» nasce da un «siamo», e sta scritto al centro delle nostre pance. È un «siamo» che è durato nove mesi dentro il grembo e non sparisce quando siamo creature separate da nostra madre. Restiamo bisognosi di non recisi dal cuore del mondo.
In una lettera datata 8 gennaio 1944 J.R.R. Tolkien scrisse a suo figlio Christopher: «Ma Dio è anche (si fa per dire) dietro di noi, sostenendoci, nutrendoci (dato che siamo creature sue). Quel luminoso punto di potere dove il cordone della vita, il cordone ombelicale dello spirito termina, là è il nostro angelo, che guarda in due direzioni: a Dio dietro di noi, senza che noi possiamo vederlo, e a noi». Ce lo immaginiamo sempre presente, l’angelo custode. Ma un po’ staccato da noi. Magari su un’imprecisata nuvoletta sopra la nostra testa. Solo un genio profondamente intuitivo poteva regalarci quest’istantanea dell’angelo custode che sta a reggere il cordone ombelicale che ci lega fecondamente al Cielo. Verrebbe da attribuirgli tutta l’energia vivace che si vede nei corpi e nei volti di chi fa il tiro alla fune. Solo che non c’è nessuna gara per l’angelo, solo l’inesausto desiderio di non separarci dal vero bene.
E questo «cordone ombelicale dello spirito» non è il filo del burattino che viene manovrato, è una cascata di nutrimento che ci tiene in piedi, per essere davvero liberi. Liberi, perché legati come figli. " (L’Osservatore Romano, 02 dicembre 2022).
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PSICOANALISI E SINTONIA: "FORT - DA", IL FILO D’ORO DEL ROCCHETTO DI ERNST, IL NIPOTINO DI FREUD.
Convivialità
di Giuliano Castigliego *
Platone, che di convivi qualcosa capiva, è stato tra i primi a sostenere che per la trasmissione di conoscenze non fossero sufficienti i libri, ma uno scambio costante tra l’allievo e il maestro e che anzi il motore dello scambio filosofico fosse l’amore, la philía. Nella (verosimilmente) sua settima lettera scrive infatti riferendosi alla filosofia: “questa non è una scienza che si possa insegnare come le altre: è qualcosa che nasce all’improvviso nell’anima dopo un lungo rapporto (συνουσία, synousia, lett. “essere insieme”) e una convivenza assidua con l’argomento, come la scintilla che scaturisce dal fuoco e poi si nutre di se stessa” (Platone, cit. da Harrison, in Giardini ).
Le neuroscienze gli danno oggi ragione. Quello che conta infatti non solo ai fini della trasmissione della conoscenza, dunque dell’apprendimento, ma della stessa strutturazione e funzionalità cerebrale è l’esperienza vissuta, un’esperienza che è sempre in relazione con l’altro, dunque intersoggettiva, laddove “l’intersoggettività - precisa Gallese - è prima di tutto intercorporeità”. Sono dunque le relazioni, nella loro concretezza fisica ed emozionale, a strutturare la nostra mente. Più esattamente, “l’esperienza...centrata e modulata sulle e dalle relazioni interpersonali...struttura la morfologia del cervello e ne costruisce la funzionalità....e questa strutturazione a sua volta condiziona il peculiare modo con cui quel soggetto [quel preciso individuo] farà esperienza” (Imbasciati, Neuroscienze e teoria psicoanalitica, Springer).
D’altro canto la nostra vita è fin dalla nascita un convivio: veniamo al mondo così fragili da aver bisogno non solo del nutrimento ma anche dell’affettuosa presenza e dell’amoroso contatto materno e questa prima modalità di relazione, in cui il latte è caldo d’affetti, diviene il nostro stile di attaccamento (Bowlby), la modalità relazionale che ci accompagna, dalla culla alla bara, nel rapporto con gli altri e nell’ esplorazione della vita. Nel percorso che, con maggiore o minore sicurezza, (Bowlby, Ainsworth) sviluppiamo a partire dalla nostra base sicura, sperimentiamo la convivialità come una piacevole pausa nell’accidentata e stressante routine quotidiana, un cocktail di fiducia ed esplorazione che ci consente di ritrovare noi stessi e di conoscere gli altri/le altre in un setting in cui i piaceri della tavola hanno sostituito ma non cancellato il dolce ricordo del latte materno. In questo contesto di vicinanza e oralità, in cui trovano posto contemporaneamente fiducia ed esplorazione, l’essere insieme (synousia) può trasformarsi al meglio in sintonia, in un’intesa che non esclude le differenze. Quando infine si avvicina il congedo dalla vita, siamo grati di condividere qualche parola e magari un ultimo sorso di conforto con chi ci ha accompagnato nel viaggio, oppure lasciamo che ci chi è caro, dopo averci mestamente recato l’ultimo saluto, torni alla gioia della vita in un convivio in nostro onore.
Anche la psicoanalisi ha intuito fin dal suo nascere che la vicinanza, in forma di più sedute settimanali, è necessaria perché la “Talking Cure” possa portare i suoi frutti ma ha posto come limite alla stessa vicinanza l’astinenza, necessaria perché gli affetti del tranfert e contro transfert non vengano agiti ma compresi. D’altro canto nello sviluppo della psicoanalisi si è assistito, sia nella teoria che nella pratica, al passaggio dall’interpretazione dei contenuti a quella della relazione, al punto che Balint, già nel 1970, nel suo “Six Minutes for the Patient” poteva scrivere:” Adesso non viene più richiesta al medico la soluzione di avvincenti enigmi e problemi ma un...preciso “modularsi” (tune in) sulla frequenza delle comunicazioni del paziente”. Almeno a partire da allora, ma in realtà fin da molto prima, l’attenzione dello psicoanalista e della teoria psicanalitica è stata centrata sulla ricerca dell’adeguata lunghezza d’onda (Balint), della sintonizzazione affettiva (Stern) tra paziente e terapeuta. Sappiamo d’altro canto che tale modulazione affettiva ricrea e, se possibile, rimodula, un rapporto affettivo ancora più importante, quello tra madre e bambino, divenuto oggetto d’indagine dell’infant research, da parte dei cosiddetti “Baby Watchers” (dalla Bick, a Bowlby, alla Ainsworth, a Winnicott, a Stern alla Beebe) fino a Fonagy e al suo concetto di mentalizzazione.
Vorrei allora dar qui conto di tre situazioni conviviali a cavallo tra teoria, clinica ed esperienza di vita, che illustrano concretamente quanto la convivialità divenga esperienza di condivisione, scambio, apprendimento e sviluppo interiore.
Prendo le mosse dalla situazione più istituzionale, ma non per questo meno esperienziale, la settimana di studio Balint a Sils in Engadina (Svizzera) https://www.sils-balintwoche.ch/balint/schweizer-balint- gesellschaft una sorta di corso di formazione e d’aggiornamento, incentrato sui gruppi Balint, rivolto a medici di tutte le discipline, psicologi, terapeuti, infermieri, teologi, studenti di medicina e psicologia, che si svolge nella forma attuale dal 1962, si sviluppa durante un’intera settimana e viene ospitato in un Hotel. Il programma alterna gruppi Balint in plenaria (fino a 70 partecipanti) al mattino e piccoli gruppi (con circa 8-10 partecipanti) nel pomeriggio, integrati da un dialogo aperto sull’esperienza stessa nelle discussioni serali. I pomeriggi liberi nella natura dell’Engadina ma anche le cene conviviali offrono poi spazio per lo scambio interpersonale, ma anche per il relax personale.
L’impronta decisiva alla settimana è stata data, alla fine degli anni 60’, dallo stesso Michael Balint,
(psicoanalista ed ideatore dei gruppi che poi da lui hanno preso nome), che l’ha condotta fino alla sua
morte, avvenuta nel 1970. A lui si deve l’idea dei gruppi grandi (in plenaria) che hanno soprattutto
carattere formativo, offrendo a tutti la possibilità di partecipare anche se in forma diversa.
La leggenda
tramandata dai precedenti conduttori della settimana Balint racconta che, accompagnato a Sils da
Luban-Plozza, Balint si sia trovato di fronte ad un’imprevista marea di partecipanti (80-100). Senza
perdersi d’animo, Balint avrebbe fatto disporre le sedie in due cerchi concentrici, uno interno, riservato
a 8 partecipanti volontari, disponibili a raccontare un caso clinico, al conduttore e al co-conduttore, ed
uno esterno in cui potevano sedere tutti gli altri. Da allora si procede ancora così: uno dei partecipanti
del gruppo interno presenta un caso clinico e dopo averlo fatto si mette in ascolto del gruppo interno
che, coadiuvato dal conduttore e dal co-conduttore, si concentra sul rapporto tra il terapeuta e il
paziente. Si sviluppa così un dialogo in cui ogni partecipante del gruppo interno può riconoscersi o
meno con il paziente e/o il terapeuta ed esprimere in libertà le proprie sensazioni, emozioni, opinioni,
che vanno a comporre un mosaico, talvolta eccentrico, talaltra armonioso, in ogni caso arricchente del
rapporto tra terapeuta e paziente. A un certo punto, quando il dialogo interno lo richiede, il conduttore
apre al gruppo esterno, i cui partecipanti, dopo aver a lungo ascoltato, sentono il bisogno di esprimere
a loro volta le loro impressioni. Infine il gruppo interno accoglie o meno gli impulsi provenienti dal
gruppo esterno, tornando a lavorare sul rapporto tra paziente e terapeuta, che ha la possibilità di
esprimere ciò che le dinamiche di gruppo hanno suscitato in lui.
Il fascino del gruppo Balint e della settimana Balint a Sils consiste, per me, proprio in quella dimensione di esperienza personale, intersoggetiva e collettiva che va al di là del puro apprendimento e della conoscenza. È la dimensione esperienziale del gruppo ad indurre i partecipanti a superare le barriere del controllo razionale, ad aprirsi alle proprie associazioni e all’empatia verso gli altri partecipanti, a condividere (o meno) sensazioni, emozioni, pensieri, creando un prisma di riflessione che illumina di colori diversi il rapporto paziente-terapeuta, aprendolo a sfumature fino a poco prima impensate, senza peraltro pretese di completezza né tanto meno di verità. Ogni caso esposto espone a sua volta ciascuno dei partecipanti alle proprie emozioni e ferite e lo confronta con quelle altrui. I casi, nel corso della giornata si accumulano e con loro si accresce l’esposizione di ciascun partecipante a quelle scintille di cui parlava Platone. Le scintille scaturiscono talvolta gradualmente, talaltra all’improvviso dall’essere con sé stessi con gli altri e si propagano, se tutto va al meglio, di partecipante in partecipante, all’intero gruppo che ne viene modellato e trasformato, trasformando a sua volta i partecipanti. Spesso si sente l’esigenza, quasi fisica, di ritirarsi nelle ore libere e di lasciare che la natura offra tranquillità ed armonia dopo tanta tensione interiore. Talvolta le scintille si propagano alla discussione serale che ne viene eccitata fino allo scontro più acceso, in alcuni casi il dialogo serale è l’occasione per riconoscersi nelle difficoltà altrui, per ammettere i propri limiti, per accettare, con maggiore o minore fatica, incertezze e dati di fatto. Non mancano neppure i casi in cui il dialogo serale è noia. Poi giunge, quanto mai atteso e gradito, il convivio serale in cui le animosità (generalmente) si stemperano nel piacere delle vivande e nell’euforia del vino, nello scambio di esperienze, di battute più o meno scherzose, di amenità più o meno amene. Non sempre si è soddisfatti alla fine della settimana, ma certo non si lascia Sils come ci si è arrivati.
La seconda situazione mi riporta ai tempi bui della pandemia, che in Svizzera, dove vivo e lavoro da più
di vent’anni, ha avuto un decorso assai diverso che in Italia. Quando, nei primi mesi del 2020, il
COVID19 ha cominciato a dilagare in un’ Italia impreparata e attonita, seminando panico e morte con
particolare virulenza nella regione da cui provengo, la Lombardia, la Svizzera è stata solo lambita dal
contagio, che ha colpito in quel periodo pressoché esclusivamente il Canton Ticino (nella seconda
ondata dell’autunno 2020 tutta la Svizzera verrà invece colpita portando anche negli ospedali elvetici
il tragico dilemma del Triage). In tutti i Cantoni erano state comunque introdotte nei primi mesi del
2020 le stesse misure restrittive (Lockdown) adottate in Italia e negli altri paesi europei. Analogamente
tutti i medici di qualsiasi specialità erano stati invitati a sospendere tutte le consultazioni non urgenti
e a mantenere il contatto con i loro pazienti il più possibile tramite telefono e videocall. Gli stessi
pazienti erano allarmati e la grande maggioranza preferiva rimanere a casa, anche se le persone con
disturbi psichiatrici più gravi continuavano a richiedere e a ottenere da me e dagli altri colleghi/e dello
studio in cui lavoriamo consultazioni personali. Tanto io e come gli altri colleghi/e continuavamo a
recarci in studio secondo gli stessi orari di prima ma tutto era in pochi giorni cambiato. Inoltre ognuno
di noi, pur lavorando nello stesso studio, si trovava in condizioni profondamente diverse. Una collega
austriaca che risiedeva in Svizzera, non aveva problemi a raggiungere il posto di lavoro, faticava però
a capire la mentalità svizzera, assai più restia ad esempio di quella austriaca o italiana all’impiego di
mascherine, peraltro introvabili.
Una collega svizzera che risiedeva in Austria temeva di giorno in
giorno che con la chiusura delle frontiere non avrebbe più potuto recarsi sul posto di lavoro, lasciando
nel caos i suoi pazienti. Un’altra collega austriaca era in più confrontata con le discutibili decisioni della
Clinica psichiatrica, che aveva chiuso il reparto di psicoterapia, da lei diretto, per far posto a un reparto
dedicato solo a pazienti Covid che si immaginava l’avrebbero riempito in pochi giorni/settimane ma
che rimaneva intanto vuoto. Io potevo recarmi in studio esattamente come prima ma non più a Brescia
dove risiedeva mia madre allora 96enne, molti parenti, amici e colleghi. Vedevo immagini di
disperazione arrivare dall’Ospedale di Brescia, ove avevo lavorato anni prima, ma mi trovavo
nell’assurda situazione di non poter esser di alcun aiuto a Brescia e di avere per lo più contatti telefonici
o per videocall con la maggioranza dei miei pazienti qui in Svizzera.
Certo sono uno psichiatra, non un
anestesista ma cosa c’è di più assurdo per un medico di trovarsi nel mezzo di una catastrofe sanitaria
e di non poter essere di aiuto? Mi ero dichiarato disponibile a lavorare nella città dove risiedo in Clinica
o in Ospedale in caso di emergenza, ma paradossalmente l’emergenza qui non arrivava. Quando la
scarsità dei medici a Brescia divenne tale, che l’Ospedale si trovò nella condizione di dover accettare
medici volontari, feci domanda, ma non venni accettato. Certo, mi dissi, a chi può servire in
un’emergenza Covid uno psichiatra, laureatosi in medicina nel lontano 1987? E rimasi qui, dove intanto
i pazienti cominciavano a stare peggio, a risentire del malessere generale, a sentirsi sempre più isolati,
a tornare allo studio. Così noi colleghi/e, presi dalle nostre preoccupazioni, che non potevamo
raccontare a nessuno perché nessuno potevamo vedere, salvo i familiari che ne avevano già di loro e
che volevamo naturalmente proteggere, abbiamo cominciato a raccontarle a noi stessi. Naturalmente
potevamo farlo solo quando i/le pazienti, con le loro i loro deliri e le loro ossessioni, le loro ansie e le
loro angosce, se ne erano andati/e. E negli studi rimanevano solo le nostre, che poi tanto diverse dalle
loro non erano: la paura di prendere il Covid, di trasmetterlo ai nostri familiari, soprattutto ai bambini,
o ai nostri/alle nostre pazienti, la paura di perdere persone a noi care, di non poterle più neanche
vedere, di non essere in grado di fronteggiare le crescenti ansie e le angosce dei pazienti, di non reggere
alla tensione che sentivamo crescere non solo fuori ma dentro di noi mentre le decisioni politiche dei
nostri paesi d’origine sembravano andare, come schegge ben più impazzite dei nostri pazienti, verso il
più totale caos (l’Austria minacciava di inviare l’esercito al valico del Brennero per sigillare la dogana
italo-austriaca, alle frontiere austro-elvetiche i doganieri austriaci portavano le mascherine, quelli
svizzeri a pochi passi la ignoravano, in Italia intanto non c’erano più posti non solo negli Ospedali ma
nemmeno nei cimiteri).
Così abbiamo cominciato a rimanere un po’ più a lungo il venerdì sera e a
raccontarci i nostri vissuti della settimana in una sorta di supervisione molto, molto informale, che
sapeva più di amichevole colloquio. Lo confesso, ci riuscivamo meglio bevendo qualche bicchiere,
accompagnato da pane e formaggio. Era naturalmente una convialità tutt’altro che festosa, segnata
invece dalla sofferenza, dalla litania dei numeri di morti e contagiati, dalle notizie sempre più cupe
provenienti dall’Italia, che producevano in me sentimenti di colpa, ma anche di rabbia di fronte alla
scoperta dei primi gravi errori di gestione della pandemia. Eppure quell’incontro di tanti vissuti, che
nascondevamo ai familiari, ai pazienti e in definitiva anche a noi stessi nel corso della settimana, e che
si mescolavano alle nostre diverse mentalità e sensibilità, inducevano in noi anche momenti d’ilarità,
che fatico a confessare ancora adesso ma senza i quali difficilmente saremmo riusciti a proseguire con
la stessa carica e a trasmetterla ai/alle pazienti. Era in definitiva proprio la cruda sincerità con cui
guardavamo alla realtà nostra e dei pazienti a suscitare l’ironia, come unica alternativa alla
disperazione.
Vorrei concludere con un ricordo di convivialità, professionale e privato ad un tempo. Vivo e lavoro, come dicevo, da oltre vent’anni in Svizzera dove la puntualità, cronometrica, è non solo consolidata, buona abitudine ma anche valore fondante, di correttezza, della società. A maggior ragione come italiano, indiziato di ritardo, ho sempre tenuto alla puntualità. Devo però confessare di aver perso qualche colpo ultimamente nell’avvio della prima consultazione. Con un paziente in particolare mi è accaduto più di una volta di giungere con un paio di minuti, talvolta anche cinque di ritardo, preannunciandolo peraltro sempre. Per scusarmi del primo ritardo ho chiesto al paziente, se avessi potuto offrirgli un caffè. Ha accettato volentieri e da quella seduta l’avvio della consultazione, avviene sempre con un espresso per entrambi. È stata l’occasione di farmi strada attraverso la sua (e mia) riservatezza, di insinuare crepe in nelle sue rigide aspirazioni a ideali di estrema correttezza, di avvicinarmi alla sua difficoltà ad accettare i propri limiti. Nel corso degli anni la relazione terapeutica si è approfondita, la stato del paziente è migliorato, non si è più rinchiuso nell’isolamento quando è gli succedeva di andare in crisi, accettando invece l’aiuto. In una recente seduta mi sono permesso di chiedergli quali fossero, a suo dire, i fattori che hanno condotto al miglioramento del nostro rapporto terapeutico e in definitiva del decorso. Mi ha risposto che un elemento importante è stato il fatto che io l’abbia spesso chiamato quando non si presentava alle sedute, manifestando in tal modo un intresse che lo ha fatto riflettere inducendolo poi a un atteggiamento più attivo e socievole. Poi ha fatto una pausa e mi ha chiesto se poteva dire qualcos’altro. “Naturalmente” ho risposto. “ A dir la verità - ha aggiunto - credo che siano stati importanti anche i suoi ritardi e i suoi caffè. Se arriva in ritardo lei, posso permettermi qualche sbaglio anch’io”.
L’ombra dell’oggetto: Psicoanalisi del conosciuto non pensato.
di Olivia Spinola (cultura emotiva - 6 Marzo 2020
“L’ombra dell’oggetto, Psicoanalisi del conosciuto non pensato” è uno tra i più importanti libri di Christopher Bollas, originariamente pubblicato nel 1987 e recentemente ripubblicato da Cortina.
Bollas, psicoanalista britannico contemporaneo di spicco, umanista e sofisticato scrittore, sviscera all’interno del suo libro il concetto del conosciuto non pensato, che ha origine nell’”essenza della vita prima dell’esistenza della parola”, e che lui ha avuto modo di esplorare attraverso il suo lavoro con giovani schizofrenici e autistici, impossibilitati a tradurre la loro esperienza in parole.
Con questo filo conduttore suddivide il suo libro in tre sezioni: L’ombra dell’oggetto, Stati d’animo, e il Controtransfert, sezioni attraverso le quali accompagna il lettore a scoprire come il linguaggio in psicoanalisi consenta di rivivere ciò che è stato vissuto ma non pensato in epoche di vita precoci e in cui lo stare con e l’essere si sovrappongono.
In ragione dell’estrema complessità del materiale da lui trattato, ho preferito soffermarmi sulla prima parte del libro, intitolata proprio L’ombra dell’oggetto.
Il libro si apre con questa citazione di Freud (1917), una tra le più significative del suo lavoro inerente il processo di lutto e di malinconia, nonché tra le più enigmatiche del suo scritto.
Per comprendere questa frase è necessario rifarsi alla clinica, che mostra come gli stati depressivi si caratterizzino per un’identificazione con l’oggetto perduto (reale o fantastico), amato con grande ambivalenza. Pertanto, secondo Freud, una volta identificatosi con l’oggetto il malinconico rivolge verso di Sé l’odio che prima provava per la persona perduta, facendo sua l’ombra che prima apparteneva all’oggetto.
L’autore spiega come l’oggetto, in questa prima fase di vita, getti la sua ombra, i suoi dolori, le sue esperienze penose inconsce sul bambino senza che il piccolo abbia gli strumenti per dare un nome a questi stati.
Si tratta di qualcosa di molto profondo che diviene fondante dell’essere del bambino e della sua esperienza, senza che esso possa tuttavia essere tradotto in parola, e conseguentemente senza che possa essere tramutato in pensiero. Ed è qui che subentra il lavoro dell’analisi, precisa Bollas: consentendo l’emergere nel pensiero dei più antichi ricordi dell’essere, facendo esperienza con il linguaggio di ciò che è stato vissuto, conosciuto, ma non pensato.
Sostando sulle prime esperienze infantili, si ispira alle teorizzazioni di Winnicott inerenti all’holding primario, e definisce un ulteriore concetto che chiama “l’idioma di cura“. L’idioma di cura è il dialetto costituito dal modo in cui la madre si occupa del bambino, il modo in cui lo tiene, in cui risponde ai suoi gesti, ne sceglie gli oggetti e ne percepisce i bisogni interni. Questa “danza” genera un discorso privato a cui possono partecipare solo loro due, la mamma e il bambino, e che crea un linguaggio intersoggettivo esclusivo.
In che modo? L’autore si rifà anche in quest’occasione ai lavori di Winnicott, riprendendo il concetto di “madre ambiente”, che facilita la crescita e l’adattamento del proprio bambino attraverso i rituali psicosomatici (cura del corpo e degli stati emotivi del bambino), consentendo la trasformazione dei suoi stati interni ed esterni: appagamento, sazietà, rispecchiamento... Bollas descrive l’esperienza della madre che altera costantemente l’ambiente del bambino per soddisfarne i bisogni come un processo trasformativo.
Gradualmente, la progressiva assenza della madre unitamente all’aumentare delle competenze del bambino (motilità, linguaggio, ecc), va generando l’oggetto transizionale, che consente lo spostamento del processo trasformativo dall’ambiente madre a innumerevoli oggetti soggettivi in cui il bambino diviene protagonista.
Questo processo di ricerca di esperienze e oggetti trasformativi continua nell’arco di tutta la vita, e si manifesta nella ricerca di un oggetto (una persona, un luogo, un evento o un’ideologia) che prometta di trasformare il Sé, così come il Sé è stato trasformato dalla madre che ha contribuito all’integrazione dell’essere del bambino.
Secondo Bollas, l’esperienza estetica, intesa come il piacere che deriva dall’essere abbracciati da una poesia, una composizione, un quadro o qualsiasi oggetto ha le sue fondamenta nei momenti in cui il mondo interiore del bambino riceve una forma dalla madre. Pertanto, secondo l’autore, il momento estetico fa parte del conosciuto non pensato.
Il dolore della fame, un momento di vuoto, viene trasformato dal latte della madre in un’esperienza di sazietà. Questa è una trasformazione primaria: vuoto, sofferenza e rabbia diventano sazietà e soddisfazione. L’estetica di questa esperienza è il modo particolare in cui la madre soddisfa il bisogno del bambino e trasforma le sue realtà interne ed esterne. Secondo Bollas, quindi, il bambino incorpora, insieme al latte, la nuova esperienza gratificante e l’estetica della cura. Il bambino non assume solo i contenuti, ma anche la forma della comunicazione materna.
La madre trasmette la sua estetica attraverso il suo modo di stare con il bambino, e il bambino è e sente di essere primariamente rispecchiandosi nello psiche-soma della madre. Questa è, secondo Bollas, una condizione in cui l’essere curati dall’estetica materna rende il pensiero apparentemente irrilevante per la sopravvivenza.
Questo ci porta all’ultimo tema fondamentale trattato in questa prima sezione: il rapporto con il Sé come oggetto. Con questo concetto, a tratti ambiguo ed enigmatico, Bollas sostiene che ogni adulto gestisce aspetti di sé stesso come una madre o un padre gestivano il Sé bambino. Nello specifico, Bollas scrive che attraverso l’esperienza di essere l’oggetto dell’altro, esperienza che viene interiorizzata, si crea un senso di essere in due in un essere solo, e questo ci permette di meglio rivolgerci al nostro vero Sé in qualità di altro da noi: usiamo il modo in cui siamo stati curati e immaginati per gestire e oggettivare il nostro Vero Sé.
Ciò è particolarmente importante all’interno della cura psicoanalitica. Secondo Bollas, l’analista dovrà essere disposto a farsi usare come oggetto abbandonandosi all’idioma di cura interiorizzato del paziente che verrà riproposto in analisi e consentendo un incontro intrasoggettivo nel quale una lingua arcaica, non verbale, può essere ascoltata, interpretata e trasformata.
ANTROPOLOGIA E ARCHEOLOGIA FILOSOFICA
MICHELANGELO, L’ INSEGNAMENTO DELLA SCRITTURA ALFABETICA, E LA MEMORIA DELLA "PAROLA" (Saussure).
SIGNIFICANTI INSIGNIFICANTI E SIGNIFICANTI SIGNIFICATIVI. La lista della spesa di Michelangelo è una formidabile sollecitazione a riflettere sul filo che ci ha portati fuori dal labirinto delle ecolalie e a non dimenticare i cartelloni (con le lettere e le immagini) per insegnare l’alfabeto nelle scuole elementari e, in particolare, quello con l’immagine della fatina muta che illustra e accompagna la lettera H - Acca.
L’ENIGMA DELLA SFINGE E LA "LEZIONE" DEL MAESTRO (MICHELANGELO): UNA "STELE DI ROSETTA".
La lista della spesa in duplice elenco (scrittura alfabetica e linguaggio visivo-iconico) è, a ben pensare, un invito a una piccola scoperta: richiama con brillantezza la questione antropologica dell’enigma della Sfinge e getta luce sulla Persona ("Michelangelo") che svolge il ruolo di "Arianna" e dà il "filo" a "Teseo" per non andare in confusione e perdersi nel "labirinto" (del mercato)!
Da ricordare che l’anno prossimo, 2023, una delle capitali europee della cultura è Eleusi: Eleusis 2023.
Federico La Sala
COSMOLOGIA, ANTROPOLOGIA E STORIA.
"L’INFINITO" E "QUESTO" ATTUALE PRESENTE STORICO: UNA LEZIONE DI "GRAMMATICA DELLA FANTASIA".
Note in memoria di Giacomo Leopardi e di Gianni Rodari...
UMANITÀ, UMILIAZIONE, E FILOLOGIA. Come c’è amore (charitas) e "amore" (caritas), patria e "patria", famiglia e "famiglia", c’è anche scuola e "scuola" - e la "scuola" che propone l’umiliazione come "un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità" è proprio di una politica e di una pedagogia che ha perso ogni legame con il messaggio costituzionale ed evangelico.
"L’ ACCA IN FUGA" (Gianni Rodari). La "fatina #muta" è fuggita - e la filologia non lo sa! "La fatina muta potrà servire al lettore per cogliere intuitivamente la realtà complessa di questo strano fenomeno: quello di un suono assente" (Pietro Barbetta, "Chi ricorda la fatina muta?", Doppiozero, 20 novembre 2022) ... ha il #filo di M_Arianna, la Terra-Madre (Eleusis2023 - Demetra).
"QUESTO" PRESENTE STORICO E L’INFINITO SILENZIO. Un’antica esortazione: "Cercate l’antica madre" (Virgilio): riprendere il cammino (Dante2021) e il lavoro di Freud sul gioco del #rocchetto ("Al di là del principio di piacere") e portarsi fuori dall’ecolalico labirinto e dalla edipica #caverna platonica:
A) L’INFINITO - E "QUESTO" ERMO COLLE...:
"Sempre caro mi fu quest’ermo colle / e questa siepe che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude./ Ma sedendo e mirando, interminati/ spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quïete/ io nel pensier mi fingo; ove per poco/ il cor non si spaura. E come il #vento / odo stormir tra queste piante, io quello / infinito silenzio a questa #voce / vo comparando: e mi sovvien l’eterno, /e le morte stagioni, e la presente /e viva, e il suon di lei. Così tra questa/ immensità s’annega il pensier mio: /e il naufragar m’è dolce in questo mare" (Giacomo Leopardi, "L’Infinito").
B) IL PROFETA ELIA E "IL SUSSURRO DI UNA BREZZA LEGGERA" - "IL SUONO DI UN SOTTILE SILENZIO" (Michel Masson):
“Gli disse [Dio a Elia]: ‘Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore’. Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna. Ed ecco, venne a lui una voce che gli diceva: ‘Che cosa fai qui, Elia?’”. (1 RE 19, 11-13).
Il segreto delle origini: aspetti libidici e aspetti antilibidici
di Lucia Fattori *
Racamier (1992) distingue due tipi di segreto: quello antilibidico che costituisce un impedimento all’attività fantasmatica e interrompe il filo che percorre le generazioni e il segreto libidico, impregnato di Eros, che produce il pensiero sulle origini e collega le generazioni facendo scorrere informazioni ed emozioni legate al piacere.
Il segreto delle origini è uno di quei segreti con cui il bambino si confronta più volte, nel corso dell’infanzia, via via che si sviluppano le sue capacità di osservazione, di comprensione, di fare collegamenti causali e temporali. Esso può essere annoverato fra i segreti libidici perché mette in moto fantasie, rêveries, ipotesi. Ricordiamo come per Freud (1908) le teorie sessuali infantili sorgano spontaneamente “sotto il solo influsso delle componenti pulsionali del sesso” (p.462).
Ma se avviene un impatto traumatico con la scena primaria o con la sessualità adulta, il segreto delle origini può diventare causa di un blocco della vita fantasmatica, o di un viraggio della fantasia in delirio o, ancora, in certi casi, di un arresto della stessa nascente capacità di pensare.
Il caso di Asmit (che ho descritto in dettaglio altrove: Fattori, 1996), mostra quest’ultima possibile estrema conseguenza sullo sviluppo infantile di un segreto impensabile che incombe sulla scena: un arresto del processo di formazione della capacità di pensare e la presenza di un funzionamento centrato sull’agire.
A sette anni, al momento della presa in carico, Asmit è un bambino iperattivo, dislalico, disprassico, disgrafico, con un ritardo generale negli apprendimenti. Il bambino ha assistito nei suoi primi anni di vita ai rapporti sessuali fra i genitori e ne ha un ricordo vivissimo, fonte di confusione non solo a livello percettivo, in relazione alla figura combinata dell’incomprensibile mostro con due teste , ma anche e soprattutto in relazione al senso affettivo di quello che passa tra i genitori: tra due genitori che trascorrono la giornata a farsi del male (è una coppia legata da un rapporto marcatamente sado-masochistico), quel modo notturno di stare insieme non può che essere un altro modo per aggredirsi (cfr. Freud, 1908: “la concezione sadistica del coito” teoria sessuale, tipica dei bambini che sono stati testimoni del rapporto sessuale fra i genitori); ma nello stesso tempo il bambino avverte, con un vago senso di inganno, che non è così e che qualcosa gli sfugge.. Asmit riuscirà finalmente a comunicarmi il suo sentimento di esclusione da quel modo segreto ed incomprensibile dei genitori di stare insieme di notte quando nel flusso del suo confuso discorso, comparirà una frase chiara, descrizione di un’emozione e richiesta di condivisione di una sofferenza: “Loro due sempre a fare la lotta...polli! Io da solo...sempre da solo io!”.
Nel caso di Asmit di fronte ad un segreto non -conosciuto / impensabile, (o, meglio conosciuto a livello inconscio, come il conosciuto/ non pensato di Bollas, 1989) il pensiero è stato impossibilitato a svilupparsi, mentre si è creato un quadro di grave disturbo di apprendimento, che sembra legato ad una vera e propria carenza di pensiero, con la compresenza di una severa iperattività, dato che l’espressione dei vissuti avviene attraverso comportamenti impulsivi legati all’azione.
Altre volte l’impatto traumatico con la scena primaria potrebbe dar luogo ad una forma più lieve di disturbo cognitivo-affettivo: quella rappresentata dall’ inibizione intellettiva. La Klein (1931), nel suo Contributo alla teoria dell’inibizione intellettiva fa appunto risalire questa patologia al meccanismo della scissione, attivato dal segreto per eccellenza, quello appunto del coito fra i genitori, laddove particolari condizioni rendano particolarmente intensa l’emozione legata alla scena primaria vista-fantasticata. Verrebbe da dire che in tali casi tagliare i collegamenti causali e temporali che sono fondamentali nei processi di apprendimento sia in definitiva il tentativo di tagliare a metà la figura combinata separando così i genitori.
“Seghiamo i sogni brutti a metà, così fanno meno paura!” mi suggeriva un piccolo paziente. La presenza di un qualche segreto nella vita di un bambino rimanderebbe dunque al segreto primario, quello delle origini. Avverrebbe a scopo difensivo una scissione dell’Io: c’è un Io che nel preconscio/inconscio sa ed un Io che non sa o che comunque non vuole sapere qualcosa che lo turberebbe
Anche in questo caso è l’area del sapere/non sapere, e dunque l’area cognitiva, quella che viene danneggiata, attraverso il meccanismo dell’inibizione intellettiva, dalla presenza di un segreto che il bambino non conosce, ma di cui inconsciamente sente la presenza, segreto che, seguendo la Klein, rimanderebbe al segreto della vita sessuale dei genitori e alla procreazione.
Marcello, mi venne portato all’età di 11 anni, all’inizio della prima media, su sollecitazione della scuola. Il rendimento scolastico di questo bambino preoccupava gli insegnanti per la presenza di difficoltà selettive: presentava problemi molto gravi nell’area della logica, matematica e verbale, mentre il profitto era buono nel resto degli apprendimenti ad eccezione che in Storia, materia in cui il bambino sembrava non orientarsi. Questo mi fece pensare che il focus della problematica fosse la capacità di operare collegamenti sia temporali che causali.
I genitori nel colloquio anamnestico descrissero una prima infanzia senza particolari problemi, ma, con grande imbarazzo, mi riferirono che il padre era stato assente per tre anni, dai due ai cinque anni del bambino, perché detenuto in un carcere lontano dalla città di residenza della famiglia. Il bambino gli era stato portato tre-quattro volta all’anno, ma rientrato a casa l’uomo non aveva mai fatto cenno alla detenzione che di fatto era diventata così un segreto, indicibile e vergognoso. Durante quello stesso colloquio concordammo che era venuto il momento di dire la verità al bambino e l’uomo nei giorni seguenti comunicò al figlio questo pezzo di storia familiare, colmando in Marcello una specie di buco relativo alla sua vita tra i due e i cinque anni. Successivamente, durante una seduta Marcello mi raccontò come “prima”, ovvero prima della rivelazione, sentisse di “avere delle macchie nere nel cervello”. Riemersero anche brandelli di ricordi dell’edificio del carcere, del viaggio in treno, degli abbracci del papà in presenza di persone con una divisa.
Marcello recupererà abbastanza in fretta alcune delle capacità carenti (più difficile fu il recupero in matematica dato che il ragazzo mancava delle nozioni di base.)
Forse possiamo pensare che il meccanismo difensivo di tagliare(segare!) i collegamenti causa-effetto e prima-dopo fosse servito a Marcello per non mettere insieme frammenti isolati di ricordi inquietanti che si portava dentro e quindi per evitare di dare un senso all’esperienza delle visite in carcere. Il riferimento ad un “cervello con le macchie nere” fa pensare alle aree oscure coperte dal segreto che interrompono, nell’immagine così efficace che il ragazzo propone, i collegamenti dentro la sua mente.
Canestri (1970) parlando delle difficoltà in matematica scrive: “questi studenti non fanno collegamenti, smontano ed usano in modo non integrato i sensi”. Sembrerebbe trattarsi nelle forme più gravi di una regressione al sé frammentato per evitare di integrare fra loro i pezzi dell’esperienza sensoriale oppure, ad un livello più evoluto, di una forma di inibizione intellettiva che fa ricorso a meccanismi di scissione tagliando i collegamenti causali e temporali, come nel caso di Marcello, cosa che darebbe ragione delle difficoltà settoriali di apprendimento (la matematica e la storia) in questo ragazzo.
Un altro possibile effetto antilibidico di un segreto che riguarda i genitori e di cui il bambino non è a conoscenza potrebbe essere lo strutturarsi di un pensiero ossessivo dominato da fobie, laddove il segreto incomprensibile diventa un fantasma pauroso che domina la mente del bambino : il bambino si fa inconsciamente ricettacolo e depositario delle paure, delle vergogne, di pezzi di storia inconfessabili dei genitori e ne è atterrito perché esse appartengono ad un mondo adulto estraneo alla sua esperienza e alla sua possibilità di comprensione. Affermano Abraham e Torock (1987): “La peculiarità del fantasma della fobia è di venire ad assillare per incitare a denunciare una paura, appartenuta ai genitori, occulta e mai formulata” (p.383). Verrebbe da dire, una paura segreta.
Carla è una bambina che sembra aver fatto sua, a livello inconscio, la paura segreta della mamma. Carla infatti ha la fobia delle olive e della frutta col nocciolo, fobia che ci porta di nuovo alla riproduzione, ovvero al fantasma delle origini o, meglio, al segreto legato al fantasma delle origini. Da un colloquio con la mamma il segreto emerge da subito: la bambina è stata concepita attraverso l’inseminazione artificiale, all’interno di un rapporto di coppia molto squilibrato dove, mi sembra di capire, il marito è poco più che un donatore di sperma. La donna sembra considerare la bambina come cosa sua: le dà il nome della propria madre, la allatta al seno fino ai due anni stabilendo un rapporto di fusionalità intensa, anche fisica, con lei, la fa dormire stabilmente nel letto matrimoniale da cui il marito è stato allontanato. Forse in questo caso il vero segreto non è quello della PMA, ma, quello delle fantasie materne di una fecondazione non solo senza coito, ma forse anche senza l’apporto dell’uomo. Quanto ai noccioli Carla mi confida che se ne inghiotte uno teme che questo si fonda con lei e la trasformi. Emerge il ricordo di un libro sul corpo umano che la madre le aveva regalato quando era piccola e dell’illustrazione che vi aveva trovato sulla fecondazione dell’uovo da parte di un “seme”. Sembra che la bambina, identificata con l’uovo materno aggredito dagli spermatozoi abbia sviluppato una fobia come eco del grande segreto: quello della fecondazione assistita, ma, soprattutto, quello del vissuto nella madre in relazione alla fecondazione assistita: una violenza cui la donna ha accettato di sottoporsi vincendo la propria inconscia resistenza a ricevere il seme maschile all’interno della segreta fantasia onnipotente di poter fare un figlio da sola. È ancora una volta Il fantasma delle origini e la sottostante segreta fantasia materna che sembrano essere all’origine della patologia di questa bambina, occupando il suo spazio mentale a danno di Eros e dello sviluppo di un pensiero libero e creativo.
Il segreto delle origini: aspetti libidici e aspetti antilibidici
di Lucia Fattori *
Sempre nell’ambito del segreto delle origini, in passato uno dei più diffusi segreti di cui un bambino poteva essere tenuto all’oscuro era quello dell’adozione. Oggi, grazie anche ai suggerimenti degli operatori del settore, sembra che frequentemente i genitori comunichino con naturalezza fin dall’inizio questo tipo di segreto, che finisce dunque per non essere più un segreto, mentre piuttosto la problematica del segreto compare spesso in relazione alla procreazione medicalmente assistita. Credo che il problema del segreto si ponga soprattutto con la fecondazione eterologa perché con quella omologa e all’interno di una buona coppia genitoriale avviene spesso un “riconcepimento psicologico” del figlio che toglie importanza e rilevanza emotiva al fatto meccanico in sé.
Ma il segreto delle origini è anche il segreto libidico per eccellenza perché muove curiosità e fantasie creative e ad esso possiamo forse collegare un altro grande segreto che nella civiltà occidentale accompagna i nostri bambini, un segreto decisamente “libidico”: quello dei vari personaggi che portano doni: Babbo Natale, San Nicola, la Befana: è un segreto “buono” che fa stare bene i piccoli. Forse si tratta di un tentativo che i genitori mettono in atto di “riparare” il segreto della relazione sessuale che li unisce e che esclude il bambino, mentre nel bambino attraverso questi personaggi buoni verrebbe bonificata la parte inquietante delle fantasie inconsce sul rapporto sessuale fra i genitori. I misteriosi genitori della notte vengono trasformati in vecchietti innocui, portatori di doni in segno di pace e di rassicurazione. La Befana vien di notte... recita la filastrocca, ed è la notte che deve essere resa rassicurante. Anche altre figure notturne che portano doni potrebbero essere lette secondo un’ottica che le collega alla scena primaria: ad esempio Gesù Bambino che porta i regali (a Milano, in Germania) potrebbe servire a rendere accettabile il potenziale bambino, frutto del rapporto sessuale dei genitori. Del resto il clima di complicità che si crea fra una mamma e un papà che preparano i regali sotto l’albero la notte di Natale ha qualcosa della complicità della coppia che vive la propria intimità notturna attenta a non svegliare il figlio che dorme nei pressi.
Un discorso a parte vorrei fare per S. Lucia che porta i regali in alcune zone del Nord Italia: quello di Santa Lucia è un personaggio non del tutto buono che sembra conservare senza bonificarla la parte inquietante dell’esperienza della scena primaria. Questa santa è la protettrice degli occhi, quegli occhi che lei stessa però potrebbe accecare se arrivando nottetempo trovasse il bambino con gli occhi aperti: si tratta di una punizione per gli aspetti voyeristici di una eventuale esposizione alla scena primaria?
La S. Lucia che butta la cenere negli occhi del bambino curioso, il bambino che non ha voluto addormentarsi, ha molto in comune con il mago Sabbiolino (Der Sandman: l’uomo della sabbia) della novella di Hoffmann che Freud cita nel Perturbante (1919), in relazione al segreto e all’assistere a situazioni che dovevano rimanere segrete.
Ne Il Perturbante (Das Unheimliche) il segreto è un protagonista, a partire dal fatto che la seconda delle due accezioni fondamentali dell’aggettivo heimlich è proprio “segreto” (la prima è “familiare, domestico”). Freud cita questa definizione tratta dal Dizionario Sanders della lingua tedesca: “nascosto, tenuto celato in modo da non farlo sapere ad altri”. Ma Freud sottolinea che un effetto perturbante sta innanzitutto all’interno della parola stessa unheimlich: questo termine finisce infatti per avere lo stesso significato del suo contrario, heimlich. Infatti anche un- heimlich, rimanda, in quanto contrario della prima accezione di heimlich (familiare), all’oscurità, alla notte, al segreto (“questi pallidi giovani sono unheimlich e ordiscono Dio sa che nefandezze, p.86). Conclude Freud: “In questa lunga citazione la cosa più interessante per noi è che la parolina heimlich tra le molteplici sfumature del suo significato ne mostra anche una in cui coincide col suo contrario” e mette l’accento su una citazione di Shelling (1842) che potrebbe, a suo parere comporre gli opposti. Afferma Shelling: “unheimlich è tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e che è invece affiorato (p.275)”. E in fondo il segreto assume la sua piena configurazione di segreto solo a posteriori, quando viene confidato!
Ma torniamo alla contrapposizione fra segreto libidico ed antilibidico.
Nelle parole della mamma del piccolo Nathaniel della novella di Hoffmann, l’Uomo della sabbia è proprio come S. Lucia, un personaggio favoloso e misterioso che getta sabbia negli occhi dei bambini che non vogliono dormire. Nella tradizione di molti paesi europei è un vecchietto o ancora uno gnomo che vola con l’ombrello aperto, comunque una figura non troppo inquietante e in certe tradizioni( come in una novella di Andersen, l’Omino del sonno, 1841), è addirittura convertito in un personaggio tutto-buono che con qualche granello di sabbia negli occhi fa addormentare i bambini e gli fa fare bei sogni, come del resto anche s. Lucia ha una sua versione tutta-buona come protettrice degli occhi ( a proposito di significati contrari contenuti in un’unica rappresentazione!) . Com’è dunque questo mago? giovane o vecchio, buono o cattivo, alto o piccino?? e la santa, come sarà vestita (con le scarpe tute rote e il cappello alla romana come recita la filastrocca...)? ci sarà l’asinello? Avranno fame? (l’uso in quel di Brescia e Verona è di preparare del cibo sia per lei che per l’asinello). Domande, fantasie, ipotesi: aspetti indubbiamente libidici legati in qualche modo al segreto delle origini: S. Lucia infatti può essere letta come la mamma della notte, così come il Mago Sabbiolino può rappresentare il padre della notte, entrambi sineddoche, la parte per il tutto, dell’amplesso fra i genitori...
Ma la vicenda del piccolo Nathaniel della novella di Hoffmann ha un risvolto drammatico e le fantasie del bambino che lo avevano mosso a appostarsi( “ Stabili di appurare che aspetto avesse”, p. 279) diventano decisamente all’insegna di Thanatos, piuttosto che di Eros, trasformandosi in delirio e precipitandolo nella follia: il padre , infatti, muore poco tempo dopo che il bambino ha assistito, nascosto, alla scena segreta in cui il padre stesso e il suo misterioso amico Coppelius armeggiavano intorno ad un braciere ardente. Stavano cercando di “fondere” dei metalli in un misterioso braciere per degli esperimenti di tipo alchemico: creare dalla fusione un nuovo metallo, il mitico oro? Possiamo leggere questi esperimenti notturni e segreti come una metafora della procreazione e del mito delle origini?
E quando il bambino viene scoperto prendono corpo non tanto le blande minacce materne di ricevere la sabbia negli occhi, quanto le cupe e spaventose minacce della balia: ” ll mago Sabbiolino è un uomo cattivo che viene dai bambini quando non vogliono andare a letto e getta loro negli occhi manciate di sabbia, tanto che gli occhi sanguinanti balzano fuori dalla testa. Allora li getta nel sacco e li porta nella mezzaluna e li dà da beccare ai suoi piccoli, che stanno nel nido e hanno il becco ricurvo come le civette, col quale squarciano gli occhi dei bambini cattivi.“(p.279). Le parole che il protagonista sente pronunciare da Coppelius e il tentativo di questo di cavargli gli occhi inverano questa minaccia.
Il tema della vista è centrale nella novella di Hoffmann riportata da Freud, e la punizione riguarda lo strappo degli occhi che Freud collega con l’evirazione. Del resto l’occhio viene spesso inteso come simbolo dell’organo maschile. Ma per quale colpa viene punito il bambino? nella novella di Hoffmann il tema va oltre gli aspetti voyeristici di una simbolica scena primaria, potenziali suscitatori di fantasie integratrici di quel visto-non visto che è portatore di sane e creative immaginazioni per diventare invece generatore di fantasie deliranti : Freud infatti leggerà il senso di colpa non tanto come legato al vedere, ma mettendo l’accento sulla morte improvvisa del padre del ragazzo lo collegherà più direttamente ai desideri edipici di eliminazione del padre e quindi alle temuta vendetta da parte di questi in forma di evirazione. Si tratta di “una tremenda angoscia infantile causata dalla prospettiva di un danno agli occhi o dalla loro perdita in quanto collegata all’angoscia di evirazione”. E ricorda come anche per Edipo la punizione autoinflitta è proprio l’accecamento come metafora dell’evirazione, nel suo caso per un incesto avvenuto, nel caso del protagonista della novella per i desideri incestuosi (che si presume abbiano accompagnato il piacere voyeristico dello spiare). Freud afferma: “Unheimliche è allora un che di familiare alla vita psichica fin dai tempi antichissimi, in questo caso l’angoscia di castrazione, ed ad essa estraniatosi soltanto a causa del processo di rimozione” (102). Il rapporto con la rimozione chiarisce secondo Freud la definizione di Shelling secondo la quale il perturbante è qualcosa che avrebbe dovuto rimanere nascosto (rimosso) e che invece è affiorato: “comprendiamo perché l’uso linguistico consente al Heimlich di trapassare nel suo contrario, il perturbante (Unheimlich) (pp. 176 sg.): infatti questo elemento perturbante non è in realtà niente di nuovo o di estraneo, bensì un qualcosa di familiare alla vita psichica fin da tempi antichissimi, che le è diventato estraneo soltanto per via del processo di rimozione”.
In definitiva l’interpretazione che Freud dà della novella di Hoffmann è che alla base ci sia una certa quota di angoscia infantile legata alla perdita degli occhi come sostituto della paura dell’evirazione connessa soprattutto col desiderio della morte del padre nell’ottica del complesso Edipico: “L’elemento del complesso colpito più intensamente dalla rimozione, ossia il desiderio di morte contro il padre cattivo, trova la sua raffigurazione nella morte del padre buono ...” (p.284).
Il segreto per Nathaniel si fa forte angoscia e poi un delirio che a intermittenza lo perseguiterà fino alla morte per suicidio: il segreto delle origini ha qui una funzione contraria al movimento libidico connesso all’Edipo perché la morte improvvisa del padre invera il fantasma e lo sottrae alla sfera del gioco della fantasia. Forse senza questo evento tragico Nathaniel avrebbe creato liberamente delle ipotesi per spiegarsi le segrete operazioni cui aveva assistito, così come avrebbe tenuto ancora segreti /rimossi i propri desideri edipici e le angosce relative.
Il centro del discorso freudiano nel Perturbante è dunque il rapporto fra segreto e rimozione, ma più che sull’angoscia di evirazione io metterei l’accento sulla rimozione relativa alla scena primaria per gli aspetti relativi al vedere-sapere. Possiamo pensare che il bambino “sa” da sempre, a suo modo, dell’accoppiamento dei genitori, ma rimuove una grossa parte di questa conoscenza, per “riscoprirla” da più grandicello. Afferma Freud (1908): “I bambini [...] acquistano il sospetto di qualcosa di proibito il cui accesso è loro precluso dai ‘grandi’ e coprono pertanto di segretezza le loro ulteriori indagini. [...] Questa conoscenza precoce viene tuttavia sempre tenuta segreta e successivamente, in corrispondenza delle ulteriori vicende dell’esplorazione sessuale del fanciullo, rimossa e dimenticata” (p.455).
Del resto una dose di segreto è fisiologica nell’infanzia e permette l’uso della fantasia a fronte di una conoscenza insatura della realtà: pensiamo, come ricordavo sopra, al segreto di Babbo Natale e consimili, anche se non tutti sono d’accordo: ad esempio per la Dolto (2014) bisognerebbe dire da subito ai bambini che quella di Babbo Natale è solo una favola.
L’accecamento di Edipo non ha solo il senso di un’autopunizione in termini di autocastrazione, ma forse può essere letta anche in relazione alla scoperta del segreto. Edipo ci ricorda che la verità può essere traumatica: la sua vicenda ha, in definitiva, origine da un segreto e dalla necessità di ‘conoscere la verità’, nonostante una parte di lui, rappresentata da Tiresia, da Giocasta e dal servo di Laio, tentino di dissuaderlo, di farlo restare nell’area incerta del segreto. Come sappiamo prevale il desiderio di conoscere la verità, ma la verità è intollerabile ed Edipo di fronte alla verità sceglie di accecarsi: autopunizione, ma anche tentativo a posteriori di non sapere/non vedere.
Certo, non si può mentire e non si deve tacere, ma ci sono segreti che il bambino non è grado di capire e, soprattutto, di tollerare; sarebbe un metterlo a contatto con una realtà più grande di lui. In fondo tutto il nostro funzionamento psichico si basa sull’ uso moderato di meccanismi di difesa che l’Io inconsciamente mette in atto per aiutare il soggetto ad avvicinarsi in modo attenuato alla crudezza della realtà perché per l’adulto, e a maggior ragione per il bambino, la realtà è spesso un “troppo” potenzialmente traumatico. E la sessualità adulta è un troppo per le capacità di comprensione e di tenuta emotiva del bambino: l’area di segretezza, che avvolge il rapporto sessuale fra i genitori protegge il bambino da questo “troppo” e, nella dimensione incerta e sospesa del sapere/non sapere, permette al bambino tutta una serie di fantasie che fondano il fantasma originario.
Un esempio di segreto libidico legato al fantasma delle origini mi sembra sia ben descritto nella lettura che Bonaminio dà, in un lavoro presente in questo stesso KnotGarden, del film Ritorno al futuro. Attraverso il viaggio, che è il viaggio analitico, ma forse anche solo il ricorso alla funzione libidica della fantasia e della rêverie, le figure caricaturali dei genitori della prima parte del film (un padre svalorizzato e ridicolo, forse con una funzione rassicuratoria in termini edipici, in quanto rivale poco pericoloso, e una madre goffa e poco desiderabile, forse con la stessa funzione) diventano un uomo di successo e una donna piacente: la soddisfazione del desiderio edipico che avviene nel corso del viaggio, costituisce un fantasma fondante, un “sogno” ad occhi aperti che attraverso una riemersione del segreto desiderio edipico rimosso e la sua realizzazione in fantasia permette, per usare la felice espressione di Quinodoz (2003), di “voltare pagina”.
Bibliografia
Andersen, H. C. (1841). Ole Chiudigliocchi (Ole Lukoie). In: Tutte le fiabe. Perugia, Newton Compton Editor, 2006.
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Dolto F. (2004). Come allevare un bambino felice e farne un adulto maturo. Milano, Mondadori.
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Freud S. (1919). Il Perturbante, OSF, 9.
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Scelling F. (1842). Filosofia della mitologia. Milano, Mursia, 1990.
Quinodoz J. M. (2003). I sogni che voltano pagina. Milano, Raffaello Cortina.
Chi ricorda la fatina muta?
di Pietro Barbetta (Doppiozero, 20 Novembre 2022)
Ricordo che, in prima elementare, sui muri della classe, erano appese alcune tavole di cartoncino bianco, simili a quelle di un test proiettivo, come le macchie di Rorschach. In ognuna di queste tavole c’era un’immagine. Rivedo con nitidezza il dado che rappresenta la letterina D dell’alfabeto. Ma, tra le altre, ricordo anche una strana tavola, inquietante, o, come direbbe uno psicoanalista, perturbante: la fatina muta, che rappresenta un fonema afono, la lettera H della lingua italiana. Esiste tra le ventuno, come ottava lettera dell’alfabeto, ma non si pronuncia. Pensare alla negazione mi riporta a questa immagine, a interrogare, quindi, il linguaggio e il suo rapporto con quel che gli sta fuori: il corpo, l’immaginario e il niente.
La fatina muta potrà servire al lettore per cogliere intuitivamente la realtà complessa di questo strano fenomeno: quello di un suono assente. Aspetto relativo alla negazione che silenziosamente si mostra durante l’apprendimento della lingua materna.
Nel 2007 è stata pubblicata per Quodlibet la traduzione di un testo di Daniel Heller-Roazen, Ecolalie: l’autore, in questo volume ci parla in modo completo di tutti quei fenomeni linguistici che somigliano alla fatina muta. Il processo infantile di apprendimento della lingua è inevitabilmente una perdita, la caduta di un’enorme quantità di fonemi dallo spazio cognitivo dell’infante. Così esordisce Heller-Roazen: “I suoni prodotti dal bambino nelle onomatopee rappresenterebbero forse gli ultimi scampoli di un balbettio altrimenti dimenticato, o non sarebbero piuttosto i segni di una lingua di là da venire?”
In prima elementare, quando non sentiamo la presenza evidente della fatina muta, cosa stiamo perdendo? Da un caotico sistema di rumori, suoni, versi e fonemi, che la voce può emettere, per apprendere la lingua materna bisogna eliminarne alcuni. Mentre si crea un ordine linguistico, dunque, si riducono drasticamente le potenzialità fonetiche del soggetto. Questo è apprendere.
Il termine “ecolalie”, usato da Heller-Roazen, si riferisce al suo maestro Roman Jakobson, autore di Linguaggio infantile, afasia ed universali fonologici, apparso nel 1971 per Einaudi in Il farsi e il disfarsi del linguaggio. Linguaggio infantile e afasia.
Il paradosso della negazione linguistica è che, quando si perdono le competenze linguistiche di base, emergono le ecolalie, suoni inusitati. Quei fonemi che avevamo perduto durante l’apprendimento della lingua materna riemergono, senza significato, assieme a uno strano modo di gesticolare. Heller-Roazen conclude che la lingua madre non basta a se stessa: “È qui che la lingua, gesticolando oltre se stessa in un discorso che non può dirsi tale, si apre a una non-lingua che la precede e la segue”.
Queste ricerche insistono sulla relazione tra il corpo e il linguaggio, come se, questi due fenomeni dell’esistenza, corpo e linguaggio, non fossero due, ma uno solo: tra corpo e linguaggio vi è reciproca immanenza, ce lo insegnano i corpi teneri dei neonati e dei feriti, che gridano, lamentano, gioiscono e non si lasciano comprendere nel loro dirci, con espressione. Qualcosa che per l’altro rimane oscuro.
Che cosa accade durante la prima infanzia e nella patologia? Suoni strani, inusitati, vengono emessi dell’infante e, nella patologia, recuperati.
Nel linguaggio psicopatologico viene imposta una distinzione tra ecolalia e glossolalia. Per ecolalia si intende, di norma, una ripetizione senza senso di alcune frasi o parole, udite dal paziente; con glossolalia invece ci si riferisce a una sorta di nuovo linguaggio idiosincrasico inventato dal paziente. Nel caso ecolalico si parla di afasia, un danno al sistema nervoso; la glossolalia invece riguarda la follia, ma anche l’esperienza religiosa pentecostale, o i canti delle donne durante i funerali. In entrambi i casi però la questione riguarda la produzione di rumori, suoni, versi, grida che evocano fonemi negati al discorso, cioè alla lingua ufficiale del parlante. Ma anche esperienze del corpo; le tarantate di Galatina, studiate da Ernesto De Martino, per esempio, producono glossolalie e movimenti eco-gestuali, simili a quelli delle bambine quando l’adulto le rimprovera di stare “composte”.
Le ecolalie perdute durante l’apprendimento della lingua materna riemergono nei fenomeni afasici conseguenti ai danni focali di un’ischemia o di una violenta contusione alla testa oppure, nelle glossolalie, di un paziente schizofrenico, quale fu Antonin Artaud, che ne ricavò forme poetiche, o non schizofrenico, quale fu James Joyce in Finnegans Wake.
Negli anni Sessanta, presso le scuole elementari si insegnava l’alfabeto a partire da un rapporto biunivoco tra il segno e la pronuncia. In quel contesto, tutto funziona bene fin quando ci si trova di fronte alla “fatina muta”.
L’infante alle prese con la parola scritta si chiede che senso ha una lettera che non si emette, una funzione che serve solo a rendere dure un paio di consonanti gutturali. Il testo di Heller-Roazen indaga questo fenomeno sul piano ontogenetico, nei primi due capitoli - quando scrive intorno alla crescita/perdita infantile - e filogenetico, quando parla, con grande competenza, della creazione storico sociale delle lingue. Le lingue sono tali perché esiste un’indefinita quantità di suoni che vengono negati. Un po’ come nella Biblioteca di Babele raccontata da Jorge Luis Borges.
Esiste un modo per ricreare quel tempo perduto? Forse sì, ma bisogna cambiare epistemologia.
La mente relazionale: Neurobiologia dell’esperienza interpersonale, terza edizione
di Elisa Ginanneschi (Cultura Emotiva, 15 Novembre 2021)
La terza edizione de La mente relazionale, edita Raffaello Cortina, rivista e ampliata per accogliere i principali progressi in campo neurobiologico, definisce due ambiti principali di informazione: a un primo livello viene proposta una nuova visione interdisciplinare delle conoscenze assodate; a un livello successivo, all’interno della stessa cornice teorica, vengono tratte implicazioni concettuali, formulate nuove ipotesi e affrontate nuove tematiche, per esempio l’esperienza di appartenenza e lo sviluppo dell’identità. Corredato da una bibliografia ricchissima di oltre mille voci, questo testo, scritto da un magistrale Daniel Siegel, si presenta come un manuale atto a coinvolgere neurobiologia e campo relazionale, scandito da esempi tratti dalla pratica clinica e dalla vita quotidiana.
Il libro si propone di mostrare come il tentativo di costruire relazioni più profonde, con gli altri e con la propria esperienza interiore, promuova l’integrazione sia di processi interni che interpersonali: percorso che è alla base del benessere psicologico e della resilienza.
La mente però è anche un flusso di informazioni che rappresenta sotto forma di pattern di eccitazione neuronale, corrispondenti ai simboli mentali. Si pensa che ognuna di queste forme di rappresentazioni comporti il coinvolgimento di circuiti cerebrali diversi; i vari sistemi possono lavorare indipendentemente, oppure interagire in maniera simultanea: quando pensiamo a un avvenimento del nostro passato, per esempio, possiamo evocare rappresentazioni complesse che comprendono sensazioni, percezioni, idee e simboli linguistici.
I rapporti interpersonali possono facilitare o inibire questa tendenza a integrare le rappresentazioni delle nostre diverse esperienze, e le relazioni che caratterizzano i nostri primi anni di vita possono avere un ruolo fondamentale nel plasmare le strutture di base che ci permettono di avere una visione coerente del mondo:
L’approccio del testo si presenta come piuttosto innovativo: esso considera infatti i processi mentali, corporei e relazionali come fenomeni che coinvolgono pattern di flussi di energia e di informazioni, che consentono di riunire in maniera efficace i dati della scienza con la natura soggettiva della vita umana.
Il libro si apre partendo da una digressione anatomica delle strutture cerebrali, al fine di creare un quadro iniziale di conoscenze comuni che sono alla base di quelle che l’Autore, Daniel J. Siegel, definisce “triangolo dell’esperienza umana”, composto da mente, relazioni e cervello incorporato o incarnato, ovvero il meccanismo dei nostri flussi di energia e di informazioni.
Segue poi un capitolo dedicato agli stati della mente, definiti come organizzazione di processi mentali differenti, che in un dato momento consentono il collegamento fra attività cerebrali diverse.
Nel terzo capitolo, trattante la memoria e la narrazione, vengono riassunte le conoscenze inerenti le diverse forme mnestiche, le quali ci aiutano a comprendere come le esperienze dell’infanzia giochino un ruolo importante nel determinare sia ciò che ricordiamo che le modalità con cui revochiamo gli eventi passati e costruiamo il racconto della nostra vita.
Si passa poi alla trattazione della tematica dell’attaccamento nei bambini e degli adulti, al tema delle emozioni - ingredienti fondamentali delle esperienze di attaccamento sicuro - come aspetto cardine sia nell’evoluzione dell’identità e delle funzioni mentali del bambino che nelle relazioni interpersonali dell’età adulta.
Il processo di attribuzione dei significati e le relazioni interpersonali sembrano infatti essere mediate dalle stesse reti neurali responsabili dei processi emozionali, indi per cui le emozioni possono essere viste come processi integrativi che collegano i mondi interni e interpersonali della mente umana.
Da qui si passa poi all’analisi dei meccanismi coinvolti nella creazione delle rappresentazioni - o simboli mentali - delle esperienze e la costruzione della realtà. In tal senso, le nostre esperienze interne, mediate da emozioni, stati della mente e relazioni interpersonali, contribuiscono a plasmare i modi in cui questi processi rappresentazionali si sviluppano.
L’operazione di costruzione, spesso inconsapevole, di categorie e concetti, può tradursi infatti in simboli linguistici, i quali svolgono la funzione di rappresentazioni di conoscenze sul nostro mondo costruito socialmente e che vengono poi frequentemente condivise con gli altri.
Le rappresentazioni possono quindi agire da filtro della nostra esperienza, plasmando le proprie convinzioni sulla realtà e persino influenzando la percezione del reale.
Il capitolo 7 è invece incentrato sul processo di regolazione - o autoregolazione - e coerenza: tramite la regolazione emotiva è reso possibile l’emergere di stati integrati, che sono alla base di un funzionamento coerente. Essa si sviluppa inizialmente nell’ambito di esperienze interpersonali infantili, che conducono all’acquisizione di capacità auto-organizzative.
Il capitolo 8 esplora invece la natura delle connessioni fra le menti, in particolare il legame fra connessioni interpersonali e mente relazionale. La regolazione personale è infatti collegata all’interazione del Sé con altre persone. Questo ci aiuta a comprendere come le relazioni interpersonali possano continuare a promuovere il benessere emotivo durante tutta la nostra vita e come giungiamo a conoscere “noi stessi”.
Il capitolo successivo è dedicato all’integrazione interiore e relazionale: la mente realizza un senso di coerenza collegando gli stati della mente nel tempo, che forniscono un senso di continuità al Sé. Varie forme di disfunzione mentale possono in tal senso essere considerate il risultato di compromissioni dell’integrazione, che generano un senso di caos o di rigidità.
L’ultimo capitolo si sofferma infine sui MOI (Me + Noi) e sull’integrazione dell’identità. Attraverso l’analisi dell’importanza dell’esperienza di appartenenza e del suo rapporto col senso di identità, vengono presi in esame l’integrazione fra processi interiori e relazionali alla base del senso di identità e approfondite le implicazioni corrispondenti per il benessere personale, interpersonale, pubblico e planetario.
Il testo, seppur molto ampio e trattante tematiche complesse alla base della neurobiologia relazionale, è in realtà corredato da un lessico piuttosto semplice, che lo rende scorrevole e comprensibile.
L’idea alla base dei vari temi trattati ed esposti nel libro, poi riassunta nel titolo, è la seguente: le esperienze sociali possono plasmare direttamente la nostra architettura mentale, ponendosi dunque come passaggio fondamentale nella formazione della nostra mente, della nostra capacità di regolazione emotiva e perfino nella costruzione della nostra identità.
Perciò, per affrontare adeguatamente alcune delle sfide che ci si presentano e che si inseriscono nella nostra epoca contemporanea, potrebbe rivelarsi indispensabile trovare un modo di coltivare un senso integrato della nostra identità, che possa estendersi e divenire comunicativa con gli altri, con la comunità intesa in senso ampio e con la Terra tutta.
Daniel Siegel: dal concetto di integrazione alla finestra di tolleranza - Introduzione alla Psicologia
Siegel è noto per il suo lavoro in ambito di neurobiologia interpersonale e mindfulness. Alla base della sua teoria si ha il concetto di integrazione.
di Francesca Fiore *
Daniel Siegel è autore di diverse pubblicazioni, in Italia sono stati pubblicati diversi suoi libri, tra cui: La mente relazionale (2001), Errori da non ripetere (2005), Mindfulness e cervello (2009), Minsight (2011), 12 strategie rivoluzionarie per favorire lo sviluppo mentale del bambino con Tina Payne Bryson (2012).
La vita
Daniel J. Siegel è nato il 17 luglio 1957 negli stati uniti d’America. Egli ha conseguito la laurea in medicina presso la Harvard Medical School e ha completato la sua formazione post-lauream presso l’università della california, UCLA, specializzandosi in pediatria e psichiatria infantile, adolescenziale e per adulti. Siegel divenne un membro dell’istituto di ricerca per la salute mentale presso l’UCLA, dove svolgeva studi in merito alla relazione esistente tra tipo di attaccamento e emozioni, comportamento, e memoria.
Attualmente, è professore di psichiatria sempre presso l’UCLA ed è fondatore del Mindful Awareness Research Center. Inoltre, è direttore del centro Mindsight Institute, in cui si relizzano corsi di formazione per famiglie e comunità e anche del Life Span Learning Institute e dell’Advisory Board della Blue School di New York City, oltre ad essere membro del Consiglio di fondazione presso l’Istituto Garrison.
Siegel è autore di diverse pubblicazioni, tra cui il libro più note risulta essere: The Developing Mind: come le relazioni e il cervello interagiscono per dare forma a chi siamo, in cui, per la prima volta, si parla di neurobiologia interpersonale.
In Italia sono stati pubblicati diversi suoi libri, tra cui: La mente relazionale (2001), Errori da non ripetere (2005), Mindfulness e cervello(2009), Minsight (2011), 12 strategie rivoluzionarie per favorire lo sviluppo mentale del bambino con Tina Payne Bryson (2012).
Siegel è stato invitato a partecipare a diverse conferenze e convegni in ambito scientifico e non, ad esempio è stato ricevuto dal re di Thailandia, da Papa Giovanni Paolo II, dal Dalai Lama, etc.
Attualmente, Vive nel sud della California con la sua famiglia.
Il Pensiero di Siegel
Siegel è noto per il suo lavoro in ambito di neurobiologia interpersonale e per la mindfulness. Recentemente, ha integrato questi approcci proponendo una pratica volta ad armonizzare la parte interna ed esterna degli individui.
Alla base della teoria di Siegel si ha il concetto di integrazione, un processo che origina dal concetto di gerarchizzazione delle diverse parti del cervello. Siegel, dunque, si rifersce alla teoria del cervello tripartitico di McLean, in base alla quale esistono tre strutture cerebrali che sviluppano in diversi periodi cronologici, generando tre diverse parti del cervello: il troncoenecefalo, evolutivamente più antico; il sistema limbico sottocorticale, più recente rispetto al primo, e la neo-corteccia, ultima a formarsi. La salute mentale dunque si ha quando le diverse parti sono integrate tra loro fino a rendere fluide tutte le componenti e le funzioni del cervello.
L’Integrazione tra le diverse strutture cerebrali porta alla integrazione della coscienza e delle diverse parti del sé.
Siegel, inoltre, introduce il concetto di finestra di tolleranza, legato alla sfera del tono dell’umore che varia durante l’arco della giornata rispettando un andamento sinusoidale, che varia a seconda delle diverse situazioni esterne che si verificano nell’arco della giornata. Fluttuare all’interno della finestra di tolleranza è normale, ma se si dovesse andare oltre, allora si ha uno stato chiamato disregolazione, ovvero perdita di controllo o apatia. Di conseguenza, si manifesta malessere psichico, che consiste nell’incapacità di trovare strategie di regolazione emotiva che consentano di rientrare all’interno della finestra di tolleranza.
Siegel sostiene che ognuno riesce a individuare la strategia propria per rientrare nella finestra di tolleranza, ma per fare questo è necessario possedere delle buone capacità di mastery, ovvero controllo dei propri stati interni. Inoltre, l’ampiezza della finestra di tolleranza varia con l’età per cui è minima alla nascita e massima in età adulta, solo nel caso in cui si è ottenuto uno sviluppo equilibrato, derivante da un attaccamento sano, che ha consentito una giusta tolleranza alla frustrazione, garantendo l’adeguata gestione degli sbalzi emotivi.
L’attaccamento, dunque, è considerato un processo innato, adattivo, biologicamente determinato, e induce in età adulta a stabilire relazioni simili al tipo di attaccamento infantile sviluppato. Le relazioni di attaccamento consentono al bambino di creare uno schema interno del Sé che è codificato a livello cerebrale e le esperienze infantili modellano i diversi circuiti cerebrali coinvolti. I neuroni attivati creano una mappa mentale o modello specifico di attivazione neurale, che richiama un’immagine mentale o sensoriale o una rappresentazione linguistica di un concetto. Secondo Siegel, si crea di conseguenza un sé emergente, un proto sé, determinato in gran parte da caratteristiche genetiche e innate. Questo senso di sé è radicato nel cervello così come nelle sue interazioni con l’ambiente e in relazione al funzionamento altrui. Inoltre, l’interazione con l’ambiente esterno consente al sé di evolversi e di avere un senso di coerenza essenziale per la crescita e, per questo, il sé diventa integrato.
Il modo in cui il cervello crea le immagini di sé e di altre menti è definita da Siegel mindsight. La mindsight è una capacità complessa che si sviluppa durante l’infanzia e che può essere arricchita durante l’intero arco di vita attraverso l’esperienza (Aitken e Trevarthen, 1997).
La mente, dunque, è un insieme di parti del cervello che funzionano in sinergia ovvero sono integrate tra loro. Quindi, se non esistesse un funzionamento ottimale, a causa di esperienze negative di attaccamento, la mente del bambino potrebbe funzionare come un sistema non integrato. Al contrario i bambini con attaccamento sicuro sembrano avere maggiori risultati durante il loro sviluppo (Cassidy & Shaver, 1999) come: flessibilità emotiva, funzionamento sociale e abilità cognitive. Esperienze e relazioni interpersonali sane, dunque, determinano un normale e naturale processo di resilienza, ovvero un risanamento a livello cerebrale di vecchie ferite impresse dalle esperienze. Questo processo di resilienza è definito sintonizzazione, inteso come la capacità di stabilire relazioni reciproche con gli altri sia a livello verbale sia emotivo sia comportamentale.
Chi presenta un attaccamento disorganizzato, invece, mostra diversi disagi emotivi, relazionali e cognitivi, oltre a una marcata predisposizione alla disregolazione. Quindi, la mancanza di esperienze precoci di sintonizzazione porta al manifestarsi di diverse forme dii disagio, di disregolazione, di scarsa resistenza allo stress, con effetti destabilizzanti anche sul sistema immunitario. L’insieme di questi effetti nocivi può causare una modifica nell’attivazione dei geni, la cosiddetta epigenesi. Quindi, la scelta di un percorso di attivazione piuttosto che un altro può essere influenzata da queste esperienze non sane, che potrebbero essere alla base del disagio psicologico.
Secondo Siegel una buona capacità di mindsight deriva dall’integrazione del funzionamento dell’emisfero destro e sinistro, La dissociazione, invece, si ha nel momento in cui si possiede una scarsa capacità di mindsight. Per cui, buone capacità cognitive e una buona integrazione tra le parti dovute a un attaccamento sano, migliorando la connessione tra i due emisferi e favoriscono la capacità di mindsight.
Se un individuo ha subito un trauma, la mente non è riuscita a integrare i vari aspetti delle esperienze traumatiche o di perdita, e in questi casi i comportamenti diventano riflessivi e la mente attua modelli di risposta inflessibili. Per questo, le emozioni possono inondare la mente e il comportamento consapevole diventa abbastanza alterato (Siegel, 2001). Ciò può produrre reazioni emotive eccessive, turbolenze interiori e un conseguente senso di vergogna e umiliazione. In tali condizioni, l’individuo può essere incline a manifestazioni di rabbia e aggressività o a mettere in atto comportamenti invadenti o violenti, mentre è gravemente compromessa la capacità dell’individuo di mantenere una comunicazione collaborativa con gli altri.
Mindfulness In base a questi assunti teorici la psicopatologia e i disturbi mentali possono essere considerati come una conseguenza di un deficit di integrazione. Per questo, il terapeuta avrà il compito favorire l’integrazione nel paziente, per produrre maggiore benessere.
Secondo Siegel è possibile raggiungere questo scopo attraverso una consapevolezza mindful. Avere un atteggiamento mindful significa saper guidare consapevolmente la propria attenzione. Infatti, uno degli obiettivi della pratica mindfulness è di aumentare il grado di consapevolezza che consente di osservare il cambiamento, ma anche gli automatismi di pensiero, le emozioni e il modo in cui la mente si lega a questi aspetti mutevoli. Siegel sostiene che riuscire a stabilire una connessione con se stessi, vivere consapevolmente momento per momento, può attivare lo stesso meccanismo risanatore, a livello cerebrale, che si attua nel momento in cui si vivono delle esperienze terapeutiche. Si ottiene in questo modo una vera e propria integrazione neurale. Quindi, la mindfulness modifica il cervello promovendo la plasticità neurale e di conseguenza il cambiamento delle connessioni neurali in risposta all’esperienza.
La pratica della consapevolezza mindful coinvolge ed integra varie zone del cervello. Queste aree svolgono un ruolo fondamentale per il benessere, promuovendo funzioni importanti quali: la regolazione corporea, la comunicazione sintonizzata, l’equilibrio emotivo, la flessibilità della risposta, l’empatia, l’insight, la modulazione della paura, l’intuizione, la moralità (Siegel, 2001).
*Fonte: State of mind, 14 marzo 2019 (ripresa parziale - senza allegati).
FREUD E LACAN: ATTO PSICOANALITICO, METAFISICA DELL’ESPERIENZA ED ETICA DELLA PSICOANALISI. Un omaggio al prof. di Filosofia, H. J. PATON, amico di Wilfred Bion ...
RIPARTENDO DA LONDRA, (J. Lacan, "LA PSICHIATRIA INGLESE E LA #GUERRA", 1947) E RITENENDO IMPORTANTE OGGI PIù DI IERI, QUANTO SCRITTO nell’editoriale degli "Appunti" della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi del Campo Freudiano (Giugno 2016), che l’atto_analitico è "un concetto nuovo" che si deve a Lacan: “L’atto psicoanalitico, mai visto né sentito se non da noi, vale a dire mai notato, e ancor meno messo in discussione, ecco che invece noi lo poniamo come il momento elettivo del passaggio dello psicoanalizzante a psicoanalista”; “Ciò che chiamiamo la seduta è un lasso di tempo in cui si tratta dello stabilirsi di un rapporto con la dimensione fuori tempo dell’inconscio [...]” (cfr. SLPcf), FORSE, POTREBBE essere una buona idea, per riflettere di nuovo sul "tempo e l’atto nella pratica della psicoanalisi", mettere a disposizione in lingua italiana le opere di H.J. PATON: 1). "Kant’s Metaphysics of Experience (1936); 2) "The Categorical Imperative" (1947).
STORIA E STORIOGRAFIA: "APPRENDERE DALL’ESPERIENZA". A ben vedere, il titolo dell’opera di W. R. BION offre una indicazione-chiave, carica di teoria: richiama "ovviamente" l’amicizia di Wilfred R. Bion con Herbert James Paton e le sue indicazioni sulla via critica dell’imperativo categorico e della metafisica dell’ esperienza di Kant" (e, freudianamente e assolutamente, non la via paolina del "Kant con Sade" di Lacan).
Federico La Sala
ILLUSIONE E CORAGGIO DI SAPERE (KANT, 1784): L’INDICAZIONE DI FACHINELLI...
SPIPEDIA - LA RICERCA
A cura di Almatea Kluzer Usuelli *
“Illusione” (dal latino illudere : deridere, farsi beffe, scherzare), é “ogni errore dei sensi o della mente che falsi la realtà” (Lessico Universale Italiano).
Nella letteratura psicoanalitica il termine illusione ha mantenuto fino ad un certo punto la medesima connotazione e il valore eminentemente negativo che gli é attribuito nel linguaggio comune, in contrapposizione con ‘realtà’ ‘verità’ e simili.
Nel saggio “L’avvenire di un’Illusione” Freud esamina il fenomeno religioso in rapporto all’impotenza infantile. L’illusione, che costituisce il fondamento delle credenze religiose, permetterebbe di soddisfare il bisogno di protezione da parte di una figura paterna. Il suo perdurare nell’età adulta è visto come un segno di infantilismo . Anche se “la voce dell’intelletto é fioca, essa non ha pace finché non ottiene udienza.. E questo é uno dei pochi punti che consentano un certo ottimismo per l’avvenire dell’umanità. . . a lungo andare nulla può resistere alla ragione ” (L’avvenire di un’illusione,p.482)
Winnicott ha dato una connotazione nuova al termine illusione, promuovendolo a concetto fondamentale nella teoria e nella pratica psicanalitica. Secondo questo Autore il soggetto e l’oggetto nascono, differenziandosi progressivamente, dalla coppia madre-bambino, nell’ambito dell’area transizionale, attraverso la creazione di una serie di oggetti: transizionali, appunto, in quanto si collocano in una zona di passaggio tra bambino e mamma, tra quello che diventerà l’Io e il non io, il Soggetto e l’Oggetto, il mondo interno e il mondo esterno ecc.
Immaginiamo quest’area all’inizio come un’impercettibile fessura: mamma e bambino costituiscono un’unità, le cure materne si adeguano ai bisogni del bambino in modo tale da creare in lui un’illusione di completezza, di onnipotenza magica.
Le inevitabili imperfezioni delle cure materne, fatte di ritardi, di inadeguatezza, di distrazioni, confluiscono nell’esperienza della separazione e provocano in lui una graduale percezione dei propri limiti, dei propri confini.
Quest’evoluzione può avvenire in modo non traumatico, quando l’impercettibile fessura dell’inizio si allarga, diventando uno spazio sempre più vasto, popolato di oggetti transizionali, rappresentanti simbolici dell’unità primitiva, intermediari tra io e non io.
In questi oggetti si materializza l’illusione (fondata sull’esperienza del rapporto con la “madre sufficientemente buona”) della congruenza tra sé e mondo esterno. In quest’area perdura la fiducia, l’illusione che l’oggetto, l’Altro, pur separato dal soggetto, corrisponda ai suoi bisogni,alle sue aspettative, sia predisposto a ciò, e che tutto quanto ci circonda si disponga intorno a noi con una certa coerenza o addirittura in bell’ordine provvidenziale.
Le delusioni inevitabili, i vissuti di frustrazione, mancanza, assenza, impotenza, introducono il soggetto nella dimensione del limite, nella “realtà” della propria finitezza; ma in condizioni ottimali questa consapevolezza acquisita si costituisce come un sapere che non intacca la capacità di illusione, così come del resto la capacità di illusione non oscura la visione chiara e distinta della “realtà” dei propri limiti.
C’é evidentemente qualcosa di paradossale in questa doppia visione, che non porta all’esclusione di uno dei due atteggiamenti tra loro contradditori.
Si potrebbe pensare ad un’organizzazione psichica, dove le diverse aree di funzionamento non sono tra loro integrate, senza tuttavia entrare in conflitto l’una con l’altra.
Se questo schema può corrispondere ad una struttura primitiva della mente, sorge tuttavia l’interrogativo di come possano coesistere nella vita adulta la capacità di illusione con il riconoscimento del limite che impone il “reale”. Nel suo percorso maturativo, l’Io tende verso una sempre maggiore integrazione e, nello sforzo di costituirsi come un’unità, riduce la sua tolleranza nei confronti del paradosso e delle contraddizioni. Debbono quindi intervenire particolari “accorgimenti” per permettere all’Io di accogliere e di sopportare la compresenza di ambiti di esperienza contradditori.
Possiamo identificare questi “accorgimenti” con i meccanismi di difesa costituiti dal diniego e dalla scissione dell’io? Forse. In questo caso essi non sarebbero più soltanto i segni della psicosi e della perversione, ma verrebbero promossi a meccanismi fondamentali della psiche, in quanto permetterebbero all’Io di sospendere il giudizio, e di mantenersi in un’ area di relativa ambiguità, necessaria alla sua sopravvivenza.
Tuttavia vorrei precisare alcune differenze fondamentali relative alla funzione del diniego e della scissione nella costituzione dell’oggetto transizionale e rispettivamente del feticcio: mentre il feticcio si costituisce a partire dal diniego dell’assenza, l’oggetto transizionale é per così dire un prodotto della presenza materna e nasce in un ambito di indifferenziazione tra io e non io, tra quello che diventerà il mondo interno e il mondo esterno. In questo caso il diniego si instaurerebbe secondariamente, a protezione dell’area transazionale, contro un eccesso di “alterità”, di “realtà” inassimilabile.
Il termine illusione dunque, nell’opera di Winnicott, ha assunto una connotazione e un valore nuovo: non più sinonimo di errore, bensì fondamento ontologico del soggetto. In questo contesto la realtà non si contrappone all’illusione, ma é invece definibile come illusione condivisa.
Un approccio del soggetto al mondo esterno non sufficientemente sostenuto dall’illusione, produrrebbe un’incapacità di dare un senso all’esperienza.
Bibliografia
Freud,S.(1927).L’avvenire di un’ illusione.O.S.F.,10.
Kluzer Usuelli,A. (1992) The Significance of Illusion In The Work of Freud and Winnicott: a Controversial Issue. Int J. Psycho-Anal. 19,179
Winnicott,D.W.1971. Playing and Reality. New York, Basic Books.
Winnicott,D.W.1987. Lettres vives. Editions Gallimard,Paris.
* Fonte: SPI-WEB, LA RICERCA
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NOTA
"ILLUSIONE" E CORAGGIO DI SAPERE (KANT, 1784): L’INDICAZIONE DI FACHINELLI C’è illusione e "illusione": con D. W. #Winnicott e W. R. Bion, #ElvioFachinelli ha saputo portarsi #SullaSpiaggia (1985) e, andando oltre "l’avvenire di un’illusione" (S. Freud, 1927), ha osato cominciare ad esplorare l’#oceano della "area perinatale" (E. #Fachinelli, "La mente estatica", 1989). CON #KANT E #FREUD, #OLTRE (cfr. Federico LA Sala, "La #mente #accogliente. Tracce per una #svolta_antropologica", Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 138-161).
FLS
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JACQUES LACAN E MELANIE KLEIN. UN INCONTRO MANCATO. ALCUNE CONSIDERAZIONI DI F. PALOMBI *
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Così lo psicoanalista francese si appella all’autorità di Melanie Klein per suffragare la validità dello stadio dello specchio, ovvero di quello che è universalmente riconosciuto come il suo più importante contributo alle teorie psicoanalitiche. Il capitolo degli Scritti dal quale abbiamo estrapolato il nostro esergo, intitolato “Dei nostri antecedenti”,[2] è molto importante in quanto Lacan lo dedica a ricostruire retroattivamente il suo «ingresso nella psicoanalisi»,[3] i suoi più importanti riferimenti clinici e culturali e le tappe più significative del suo personale itinerario teorico.
Gli Scritti vengono pubblicati nel 1966 quando Lacan ha ormai consumato la sua definitiva rottura con l’IPA e ha già fondato la sua scuola eppure, dopo la morte della Klein, sembra tenere ancora molto a saldare il debito teorico contratto con lei. Ricordiamo che non sempre lo psicoanalista francese ha dimostrato sensibilità umana e onestà intellettuale simili; per rendersene conto basta leggere la sua ricostruzione della scoperta dello stadio dello specchio priva di qualsiasi riconoscimento ai lavori di Henri Wallon che era stato uno dei primi psicologi ha studiare tale fenomeno.[4] Proveremo a ipotizzare, nella conclusione del presente contributo, che questa inconsueta deferenza possa essere considerata alla stregua di un sintomo di difficoltà personali e teoriche dello psicoanalista francese.
Si deve, infatti, evidenziare che alcuni importanti tratti del cammino teorico di Lacan hanno seguito le orme della Klein eppure tra i due pensatori non si è mai instaurata una sincera collaborazione teorica o istituzionale. Abbiamo provato a enfatizzare questa loro peculiare relazione sin dal titolo del nostro testo che si ispira liberamente a quello di un capitolo della monumentale biografia che Élisabeth Roudinesco ha dedicato allo psicoanalista francese.[5] Cercheremo di chiarire, nei limiti dello spazio concessoci, alcune delle principali influenze della Klein su Lacan e qualcuno dei motivi del loro mancato incontro concentrandoci, dal punto di vista teorico, sullo stadio dello specchio e, da quello testuale, sulle occorrenze del nome della psicoanalista austro-britannica contenute nelle due raccolte dei testi di Lacan.[6]
1. Problemi psicoanalitici comuni
Lacan inizia a leggere i testi della Klein verosimilmente dopo il 1937 accorgendosi che, seppur per vie diverse, la studiosa austro-britannica si poneva problemi psicoanalitici assai simili a quelli che si proponeva di affrontare lui. Tali questioni compongono un elenco abbastanza nutrito nel quale ci pare particolarmente importante evidenziare i seguenti: «statuto del soggetto, strutturazione delle relazioni oggettuali, ruolo arcaico del legame edipico, posizione paranoide della conoscenza umana».[7] Abbiamo già esaminato dettagliatamente quest’ultima questione che abbiamo evidenziato in corsivo perché costituisce, a nostro avviso, una delle più importanti articolazioni tra psicoanalisi e filosofia all’interno del sistema di pensiero lacaniano.[8] Tuttavia, in questa sede, ci preme ancora sottolineare che l’importanza attribuita alla paranoia consentì allo psicoanalista francese di assumere una peculiare interpretazione della seconda topica freudiana conducendolo su alcune posizioni teoriche assai vicine a quelle kleiniane. Tale prossimità motiverà successivamente anche il loro comune contrasto alla corrente statunitense della Ego psychology e alla sua interpretazione della genesi dell’io come trasformazione di una porzione dell’es conseguente a una risposta adattiva dell’individuo al mondo esterno.[9]
Crediamo che la prima citazione esplicita del nome della Klein in un testo di Lacan si possa rintracciare in quello intitolato “I complessi familiari nella formazione dell’individuo”, pubblicato nel 1938. Tale occorrenza si riferisce proprio alla questione del corpo frammentato sul quale ritornerà la sua breve autobiografia intellettuale, presentata negli Scritti del 1966, che abbiamo prima considerato. Lacan in questo testo giovanile sostiene che
il fantasma di castrazione è [...] preceduto da tutta una serie di fantasmi di frammentazione del corpo [...]. Purtroppo i ricercatori che meglio hanno capito l’origine materna di questi [...] (come Melanie Klein) insistono unicamente sulla simmetria e sull’estensione che apportano nella formazione dell’Edipo [...]. Ai nostri occhi il loro interesse risiede nell’irrealtà evidente della loro struttura. L’esame di questi fantasmi trovati nei sogni e in certi impulsi permette di affermare che essi non si rapportano a nessun corpo reale, bensì a un manichino eteroclito.[10]
Nel brano si manifesta una strategia retorica che si riproporrà in quasi tutti i principali riferimenti alla Klein contenuti nei testi di Lacan: lo psicoanalista francese manifesta un esplicito apprezzamento del valore della ricerca della studiosa austro-britannica al quale fanno seguito alcune critiche rispettose che, tuttavia, adombrano la rielaborazione e la reinterpretazione, talvolta anche radicale, dei suoi risultati clinici.
In questo caso particolare, lo psicoanalista francese è interessato a enfatizzare l’importanza del suo stadio dello specchio del quale il testo del 1938 contiene la prima versione pubblicata a stampa.[11] Anche per questo, Lacan è interessato ad appoggiarsi, seppur in modo critico, all’autorità della Klein per valorizzare l’importanza delle proprie ricerche. In questa prospettiva, potremmo glossare il brano in corpo minore sopra citato osservando che per entrambi «l’immaginario è originariamente costituito da fantasmi innati. Ma, mentre per la Klein, questi rimangono immodificati [...], per Lacan sono soggetti a continue trasformazioni».[12]
In tale prospettiva, la complessa dinamica di riconoscimenti sintetizzata dallo stadio dello specchio permette a Lacan di ripensare complessivamente la struttura della soggettività psicoanalitica; per evidenziare tale riformulazione egli denota il soggetto con il pronome francese je per distinguerlo dall’io che indica con moi. Una delle prime occorrenze di questa importante distinzione lacaniana è contenuta in un testo del 1936, intitolato “Aldilà del principio di realtà”, nel quale lo psicoanalista francese si chiede: «come si costituisce quella realtà con cui universalmente s’accorda la conoscenza dell’uomo? Attraverso le identificazioni tipiche del soggetto, come si costituisce quell’io, quel je, in cui si riconosce?».[13]
Questa differenziazione andrà precisandosi quando Lacan chiarirà che il bambino, tra i sei e i diciotto mesi, aldiquà della superfice speculare, è il soggetto (je) dello stadio dello specchio, mentre la sua immagine riflessa costituisce la principale manifestazione dell’io (moi).[14] Si deve, comunque, notare che già “I complessi familiari”, sono in grado di evidenziare il carattere «illusorio» che possiede l’immagine del soggetto riflesso nello specchio e quella che si può definire come la sua funzione morfogena.[15] Lacan giunge a tale conclusioni anche perché, intorno al 1936, aveva iniziato a interpretare «la genesi dell’io [...], alla stregua di Melanie Klein, come una serie di operazioni fondate sull’identificazione alle imago».[16]
2. Imago
Proprio la peculiare interpretazione lacaniana del concetto di imago e la sua funzione nel contesto dello stadio dello specchio[17] ci induce a soffermarci, tra i diversi complessi esaminati nel testo del 1938, su quello che Lacan definisce «dell’intrusione». Si tratta di pagine che accostano le considerazioni di Agostino sulla vita infantile alle più avanzate osservazioni della clinica psicoanalitica del tempo.[18] Particolarmente interessante è la citazione lacaniana di un celeberrimo passo delle Confessioni nel quale il padre della Chiesa scrive di aver «considerato a lungo un piccino in preda alla gelosia; non parlava ancora e già guardava livido, torvo, il suo compagno di latte».[19]
La gelosia tra fratelli e lo stadio dello specchio rivelano, attraverso la lente lacaniana, la medesima forma «narcisistica dell’io» che viene costituendosi per mezzo della «imago del doppio». Inoltre, esse costituiscono anche un ripensamento del complesso edipico proposto dallo psicoanalista francese che presenta, al di là delle citazioni esplicite, alcune importanti affinità con i lavori della Klein[20] e, in particolare, con quelli relativi alla imago del seno.[21]
A Bruxelles, nel maggio 1948, Lacan tiene una relazione all’undicesimo congresso degli psicoanalisti di lingua francese, che pubblicherà lo stesso anno con il titolo “L’aggressività in psicoanalisi”, nel quale nuovamente accosta la citazione agostiniana sulla gelosia infantile alle ricerche della Klein sui bambini poiché entrambe lavorerebbero sullo «stesso limite dell’apparizione del linguaggio».[22] Un medesimo riconoscimento verrà proposto nella comunicazione letta al tredicesimo congresso della medesima associazione tenutosi nel 1950, dove Lacan sottolinea che quando la Klein esamina «le categorie del Buono e del cattivo nello stadio infans» è anche in grado di collocare, almeno implicitamente, il «problema dell’implicazione retroattiva delle significazioni in una tappa anteriore all’apparizione del linguaggio».[23]
Tornando al testo del 1948, segnaliamo alcune sue righe che sono importanti per i nostri interessi in quanto teorizzano una pratica della «maieutica analitica» volta a produrre nel paziente una sorta di «paranoia controllata» ispirata dalla kleiniana «proiezione di [...] cattivi oggetti interni».[24] Lacan successivamente ribadisce, una volta ancora, l’importanza del suo stadio dello specchio, definito come un «crocevia strutturale» della soggettività, per comprendere le forme che assume l’aggressività umana.[25] Il testo, a questo punto, propone una sorta di succinto inventario dei più importanti contributi kleiniani alla ricerca psicoanalitica (imago materna, paterna e fraterna, posizione depressiva)[26] per poi muovere un passo a lato rispetto alle conclusioni proposte dalla studiosa austro-britannica. Lacan, infatti, dichiara che sia necessario meglio perimetrare i concetti, precisare i fenomeni e approfondire l’analisi di alcune relazioni. Più precisamente, lo psicoanalista francese sostiene che
mostrandoci la primordialità della «posizione depressiva» [...] Melanie Klein [...] ci permette, in particolare, di situare come assolutamente originale la prima formazione del superio. Ma appunto, interessa delimitare l’orbita entro cui per la nostra riflessione teorica si collocano i rapporti, lungi dall’essere tutti delucidati [...] di quel masochismo primordiale che escludiamo dalle nostre tesi, per isolarne la nozione di un’aggressività legata alla relazione narcisistica e alle strutture [...] di oggettivazione sistematica che caratterizzano la formazione dell’io.[27]
Potremmo dire, in estrema sintesi, che questa relazione del 1948 innesta nel nascente sistema lacaniano alcuni temi kleiniani e, in particolare, alcuni aspetti della posizione schizo-paranoide,[28] per mostrare come la funzione del suo concetto di moi, nel contesto dello stadio dello specchio, possa essere pensata come una forma «di misconoscimento organizzata in una struttura paranoica».[29]
3. Una traduzione mancata
Abbiamo sin qui considerato le influenze teoriche della Klein su Lacan ma per completare, seppur sommariamente, le nostre riflessioni sulla questione è utile proporre qualche osservazione anche sul rovescio della questione. Da un punto di vista anagrafico e formativo la Klein appartiene alla generazione di psicoanalisti precedente a quella di Lacan dal quale era separata anche da vicende biografiche, contesti culturali, formazione, pratica clinica e, in particolare, da uno stile di scrittura assai diverso. La studiosa austro-britannica, per questa somma di ragioni, «non si interessava affatto agli enunciati lacaniani, troppo difficili da decifrare, intraducibili e a lei poco utili». Tuttavia, tutte queste differenze non indussero la Klein a sottovalutare l’importanza di Lacan nel quadro della psicoanalisi francese del tempo e soprattutto quella di un suo eventuale sostegno politico nelle intricate vicende dell’IPA del secondo dopoguerra. [30] Infatti, lo psicoanalista francese mediò tra lei ed Henri Ey nel quadro della complessa organizzazione del primo congresso mondiale di psichiatria del 1950 nel quale si riproponeva la rigida contrapposizione tra i seguaci della Klein e quelli di Anna Freud. [31]
Lacan sembrava desideroso di ottenere il sostegno della studiosa austro-britannica e quando la incontrò personalmente, al sedicesimo congresso mondiale dell’IPA che si tenne a Zurigo nel 1949, le propose di tradurle il suo libro intitolato La psicoanalisi dei bambini.[32] Incominciò, così, una vicenda imbarazzante che la Roudinesco ricostruisce in modo dettagliato e assai documentato motivando, dal punto di vista dei rapporti personali, anche la mancata collaborazione tra i due grandi psicoanalisti.
Dopo aver ottenuto l’incarico dalla Klein, Lacan gestì questo delicato compito teorico e politico con autentica sciatteria e incappò in un vero e proprio atto mancato al quale non si preoccupò di porre adeguato riparo. Analoghi atteggiamenti e trascuratezza, talvolta, hanno punteggiato la biografia di un intellettuale che ha fatto dello stile la cifra della propria esistenza[33] ma che ha anche teorizzato la fondamentale importanza della Spaltung nella struttura della soggettività.[34]
Possiamo brevemente riassumere la vicenda narrata dalla Roudinesco nel modo seguente: Lacan subappaltò la prima metà della traduzione a un suo paziente, René Diatkine, che gliela consegnò nei tempi stabiliti e successivamente cercò di affidare la parte rimanente del lavoro a una coppia di studiosi, Françoise e Jean-Baptiste Boulanger, senza informare la Klein. Non pago di questa mancanza di correttezza, perse la prima parte della traduzione senza ammettere la propria mancanza con nessuno dei protagonisti di questa vicenda.[35] Non passò molto tempo prima che Diatkine, i coniugi Boulanger e la Klein ebbero occasione di confrontarsi sulla questione svelando la sinecura di Lacan e facendogli perdere ogni residua «credibilità». La studiosa austro-britannica a questo punto decise di rivolgere il proprio sostegno presso l’IPA in favore di Daniel Lagache che, grato, si adoperò per fare pubblicare la traduzione francese de La psicoanalisi dei bambini nella collana di PUF da lui diretta: il libro uscì nel 1959 con grande soddisfazione della Klein. [36]
JACQUES LACAN E MELANIE KLEIN. UN INCONTRO MANCATO. ALCUNE CONSIDERAZIONI DI F. PALOMBI *
Non siamo storici di professione e, forse, proprio per questo, non riusciamo a evitare la suggestione di immaginare un’altra storia alternativa, una sorta di eucronia, nella quale Lacan avesse dedicato maggior impegno alla traduzione del libro della Klein e le vicende della psicoanalisi in Francia avessero preso un’altra direzione. Non siamo nemmeno psicoanalisti ma il pensiero del clamoroso smarrimento della prima parte della traduzione, commesso da Lacan, non ci consente di resistere a esprimere qualche dubbio sull’effettiva consistenza della stima che lo psicoanalista francese provava per la Klein e la sua elaborazione teorica.
Note
[1] Lacan (1966), p. 65.
[2] Ivi, pp. 61-66.
[3] Ivi, p. 61.
[4] Cfr. Lacan (1938), pp. 40-41, (1966), pp. 62-65 e Roudinesco (1993), p. 119.
[5] Ivi, pp. 207-213.
[6] Lacan (1966) e (2001). Segnaliamo che i seminari di Lacan contengono più di 150 occorrenze del nome della Klein e che, di conseguenza, il loro esame esorbita la succinta presentazione che ci prefiggiamo di proporre al lettore in questa sede.
[7] Roudinesco (1993), p. 119, corsivo nostro.
[8] Palombi (2019), pp. 117-119.
[9] Cfr. Roudinesco (1993), pp. 119-120, Palombi (2002), pp. 111 e Hartmann (1939).
[10] Lacan (1938), p. 52, corsivi nostri.
[11] La prima esposizione orale dello stadio dello specchio venne proposta due anni prima, al congresso dell’IPA svoltosi a Marienbad, ma le sue tesi non avevano suscitato particolare interesse in quella sede; cfr. Lacan (1946), p. 178-179 e (1966), p. 62, n. 1.
[12] Vegetti Finzi (1990), p. 389.
[13] Lacan (1936), p. 86.
[14] Lacan (1949), p. 88; cfr. Palombi (2019), pp. 150-151.
[15] Lacan (1938), pp. 40-41; cfr. Lacan (1949), p. 89.
[16] Roudinesco (1993), p. 127
[17] Palombi (2019), pp. 130-131, 153-155.
[18] Lacan (1938), pp. 36-45.
[19] Agostino, Confessioni, I, VII, p. 14.
[20] Roudinesco (1993), p. 158.
[21] Vegetti Finzi (1990), p. 317.
[22] Lacan (1948), p. 109.
[23] Lacan (1951), p. 130.
[24] Lacan (1948), p. 103.
[25]Ivi, p. 107.
[26] Ivi, p. 109.
[27] Ivi, pp. 109-110.
[28] Cfr. Klein (1946).
[29] Roudinesco (1993), p. 211.
[30] Ivi, p. 212.
[31] Ivi, p. 210.
[32] Klein (1932); cfr. Roudinesco (1993), p. 212.
[33] Cfr. Lacan (1966), p. 5.
[34] Cfr., per esempio, Lacan (1961), p. 630 e Palombi (2019), pp. 150-151.
[35] Roudinesco (1993), pp. 212-213.
[36] Ibidem; cfr. Grosskurth (1986), pp. 438-440.
Bibliografia
Agostino, Le confessioni, Einaudi, Torino, 1984.
Grosskurth, P. (1986), Melanie Klein. Il suo mondo e il suo lavoro, Bollati Boringhieri, Torino, 1988.
Hartmann, H. (1939), Psicologia dell’Io e problema dell’adattamento, Boringhieri, Torino, 1978.
Klein, M. (1921-1958), Scritti, Bollati Boringhieri, Torino, 1994.
, (1932), La psicoanalisi dei bambini, Martinelli, Firenze, 1969.
, (1946), Note su alcuni meccanismi schizoidi in Klein (1921-1958) pp. 409-434.
Lacan, J. (1936), “Aldilà del «principio di realtà»” in Lacan (1966), pp. 67-86.
, (1938), “I complessi familiari nella formazione dell’individuo” in Lacan (2001), pp. 23-84.
, (1946), “Discorso sulla causalità psichica” in Lacan (1966), pp. 145-187.
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, (1966), Scritti, Einaudi, Torino, 1974, 2 voll.
, (2001), Altri scritti, Einaudi, Torino, 2013.
Palombi, F. (2002), Il legame instabile. Attualità del dibattito psicoanalisi-scienza, Franco Angeli, Milano.
, (2019), Jacques Lacan, Carocci, Roma.
Roudinesco, É. (1993), Jacques Lacan. Profilo di una vita, storia di un sistema di pensiero, Cortina, Milano.
Vegetti Finzi, S. (1990), Storia della psicoanalisi. Autori, opere, teorie 1895-1990, Mondadori, Milano.
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Fonte: Spi-Web, 03/10/2022 (ripresa parziale, senza immagini).
Il filosofo Simone Regazzoni: «Rimettiamo al centro il Pianeta Blu»
È ora di ripensare la nostra identità e mettere l’Oceano e non la Terra al centro dell’idea di appartenenza. È l’invito del filosofo Simone Regazzoni che ripercorrendo la storia del pensiero vi scopre la chiave del futuro: sentirsi interconnessi agli altri esseri viventi. Dell’intero Universo
di MARIA TATSOS (Corriere della Sera, "Io Donna", 12-09-2022)
Il 24 dicembre del 1972 il New York Times pubblica una foto destinata a entrare nella Storia. È lo scatto realizzato dagli astronauti dell’Apollo 17 in viaggio verso la Luna, che ritrae la Terra. Per la prima volta, l’occhio umano scopre che il pianeta è una sfera blu, in cui è l’acqua - e non la terraferma - a colpirci per vastità.Noi Sapiens con l’Oceano abbiamo avuto un rapporto contraddittorio: ci affascina e ci spaventa, con fare predatorio sfruttiamo le sue ricchezze come se fossero inesauribili e lo inquiniamo come se potesse, per magia, rigenerarsi come l’araba fenice. È giunto il momento di ripensare alla nostra relazione con l’elemento acquoreo intorno a noi. E per farlo abbiamo sentito il filosofo Simone Regazzoni, che insegna presso l’Irpa di Milano (Istituto di Ricerca di Psicanalisi Applicata) e che al tema ha dedicato Oceano. Filosofia del pianeta (Ponte alle Grazie).
Propongo di chiamarlo Oceano, ma non sono il primo. Sul sito della Nasa è definito Ocean Planet, o Water World (Pianeta Oceano o Pianeta Acquoreo). Da un ventennio, si tende a sottolineare la centralità dell’Oceano per la nostra vita. Definire Terra il nostro pianeta è una visione riduttiva, legata agli umani, e non a tutte le altre specie biologiche che per l’80 per cento vivono nei mari. Cambiare nome non è un vezzo, ma ci consente di prendere consapevolezza di un altro modo di abitare questo mondo, cioè iperconnessi con gli altri viventi, come se fossimo immersi in una grande bolla oceanica in movimento, partecipi di questo grande flusso con tutto ciò che è vita. Uno sguardo differente può aiutarci a cambiare i nostri comportamenti. La natura non è qualcosa di altro da noi.
Sì, è così. Specie evolute come la nostra hanno mantenuto un tratto legato all’origine della vita. Nasciamo in un mare interiore, una sacca d’acqua che è l’utero materno che, come ha detto lo psicanalista Sándor Ferenczi, è come un piccolo Oceano. Non c’è futuro per il pianeta e per la nostra vita se non ci prendiamo cura delle acque. L’aumento della CO2 comporta un rialzo della temperatura che influisce sulle correnti oceaniche. Basti pensare alla corrente del Golfo, che determina il clima del nord Europa. Sono sufficienti pochi gradi in più e il pianeta diventa invivibile. E anche se abitiamo lontano dagli oceani, il nostro modo di vivere e il nostro futuro dipendono da loro e da come li trattiamo.
Oceano, in greco “okeanòs”, è parola talmente antica che non è greca. Va a cogliere un tipo di esperienza primigenia che Omero e gli antichi filosofi presocratici hanno descritto molto bene: per loro è un fiume che circola, salendo dal mare verso il cielo e poi ritorna al mare. Noi oggi la chiamiamo idrosfera. Questo dava la consapevolezza di essere immersi in un tutto che ci avvolge, un’immagine che è antica e anche contemporanea: il finale di 2001 Odissea nello spazio di Kubrick mostra un feto in una sorta di bolla d’acqua di fronte al pianeta Terra, come se si specchiassero l’uno nell’altra. Questa interconnessione gli antichi la conoscevano bene e l’avevano denominata Okeanòs, una figura mitica che non era né maschile, né femminile, più potente di Zeus.
Gli egizi parlano di un’origine di tutto a partire dall’Oceano. Dalla Mesopotamia giunge la più antica mappa nota, conservata presso il British Museum, dove il mondo è attorniato da un fiume salato. Le cosmogonie dell’area mediterranea, di provenienza orientale, presentano questo elemento fluido, in divenire, da cui tutto proviene e resta in profonda connessione. Il primo filosofo della Storia, Talete, le conosceva e sosteneva che all’inizio c’è l’acqua, sulla quale la Terra scorrerebbe come sopra una tavola ben levigata. È il primo a evocare quest’immagine, ma già nel mito del diluvio universale c’è un’arca-microcosmo che galleggia. Quest’idea di terra instabile che scorre su qualcosa di fluido viene dimenticata, per poi riemergere in tempi recenti con la teoria della deriva dei continenti. Gli antichi non erano così lontani dalla verità.
Perché in una Terra che oggi è quasi interamente mappata rimane per gran parte inesplorato e racchiude forme di vita a noi ancora ignote. È come se fosse una parte intima di noi che al contempo ci è estranea. È uno spazio vicino a noi, ma alieno e la sua forza non si può addomesticare. Pensiamo alle grandi piattaforme petrolifere, progettate per resistere alle correnti: possono naufragare investite da un’onda anomala, fenomeno che non sappiamo spiegare e che incide anche sulla navigazione. Al contempo, ci affascina perché è l’ultimo fronte esplorabile del nostro pianeta. È lo spazio che rimane per l’avventura, come il cielo.
Moby Dick è qualcosa di portentoso, non afferrabile e non controllabile, che ci attira e ci fa paura. È simbolo dell’Oceano che Melville tratteggia a partire da un quadro di Turner, Whalers, dove c’è una balena nera che esce dalle acque. Entrambi avevano visto che lo spazio oceanico rappresenta quel tipo di forza, che è al contempo emblema di pienezza vitale e rischio di distruzione. I surfisti delle grandi onde, quelle di oltre 20 metri, cercano di non contrapporsi alla loro energia, ma di entrare in consonanza. È quella vita che non conosce morte, di cui facciamo esperienza come il massimo dell’intensità, al limite della disgregazione. È una forza vitale immortale. Siamo fatti al 50-60 per cento di acqua.
Se mettiamo un neonato in piscina, non ha paura. Non a caso il parto in acqua è tra i meno traumatici. Siamo dei pesci modificati: ce lo dice la biologia, e anche il filosofo Empedocle diceva che siamo stati pesci. Nuotare significa riscoprire quella dimensione. D’estate, il contatto con il mare ci permette di scaricare la tensione accumulata nel nostro vivere da terrestri. Nuotare è un modo di pensare: Platone afferma che non saper scrivere è come non saper nuotare. Greci e romani davano al nuoto grande importanza, che nel tempo si è persa. Solo dall’Ottocento la spiaggia diventa luogo-soglia per tornare in contatto con una parte di noi rimossa.
Questa è fra le scoperte più recenti. Nei nostri oceani, abbiamo visto che c’è possibilità di vita anche senza luce solare e fotosintesi - esistono dei batteri chemioautotrofi, che ricavano energia ossidando l’acido solfidrico - quindi anche su vari pianeti e lune ghiacciati con oceani sotto la crosta potrebbero esserci condizioni adatte. Questo cambia anche la nostra prospettiva del nostro pianeta nel cosmo. La Terra non è al centro dell’universo, anche se mentalmente ci consideriamo ancora tali. Se pensiamo a un pianeta Oceano connesso ad altri significa pensare alla possibilità di un universo biologico anche nel nostro sistema solare.
Per me la filosofia non è un discorso astratto. Parte da un’esperienza, da un vissuto e da una biografia. Maupiti è un luogo non ancora invaso dai resort turistici, consente l’esperienza della labilità della terraferma: ci si trova su un rialzo di sabbia che si alza di pochi metri sulle acque, è come essere alla deriva in una zattera. Mi sono trovato in mezzo a un brulicare di vita - coralli, pesci - con la percezione che da un momento all’altro quella distesa blu con cui mi sono sentito in consonanza può cancellare ciò che è stabile. È stata l’occasione di una riflessione suscitata da un’esperienza viva e carnale, a partire dalla quale confrontarmi con i testi filosofici.
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Verso la generazione Oceano
Una recensione* del lavoro di Federico La Sala
di Riccardo Pozzo (ildialogo.org, Domenica, 15 febbraio 2004)
(a) Nato a Contursi Terme, in provincia di Salerno, nel 1948, e da decenni insegnante di filosofia e pedagogia all’Istituto Magistrale Agnesi di Milano, dove è un illuminato punto di riferimento per studenti e colleghi, La Sala è un pensatore che a una notevole originalità di pensiero affianca una profonda radicalità nella tradizione fenomenologica aperta da Enzo Paci. Ha pubblicato La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica (Pellicani, Roma, 1991), Della terra il brillante colore (Rispostes, Roma-Salerno, 1999) e diversi saggi apparsi su Alfabeta, Aquinas, Belfagor, La critica sociologica e altre riviste.
(b) La Sala propone con questo volumetto un manifesto “sul coraggio di servirsi della propria intelligenza, oggi - per diventare uomini liberi e donne libere, cittadini sovrani e cittadine sovrane, non imprenditori e imprenditrici, sfruttatori o sfruttatrici, della propria o dell’altrui forza lavoro” (p. 7). Con esso, La Sala chiude la trilogia iniziata con La mente accogliente e proseguita in Della terra il brillante colore, nella quale viene compiutamente elaborata un’ontologia chiasmatica, un’ontologia “segnata da una relazione illuminata dal sapere-potere dell’amore, umano e politico, di sé, dell’altro e dell’altra” (p. 7), e dunque “una via chiasmatica alla conoscenza” che prenda le vesti di un materialismo storico, “liberato dalla sua cecità e capace non solo di realizzare un’anamnesi della genesi e risolvere il miracolo greco passando attraverso il denaro”, ma anche, e specialmente, “di sognare meglio quello che hanno sognato tante generazioni e anche noi ancora sogniamo” (p. 12).
Sopratutto, La Sala invita a considerare il gradino ontologico presente nell’inizio dell’avventura della vita umana, nella nascita di un bambino, nella quale “si passa dal dentro al fuori e dal sensibile (materiale-materno) all’intelligibile (altrettanto fisico, materiale-paterno)” (p. 16). La Sala nota la confusione e la guerra che da sempre si stagliano nell’orizzonte antropologico occidentale, che non è mai andato al di là del cosmo pensato dai Greci, nel quale “tanto la donna e la femminilità quanto il bambino e l’infanzia non hanno mai avuto diritto di cittadinanza e sono sempre stati domesticati e confinati nel recinto della debolezza e della minorità” (p. 18). Ma proprio l’esclusione della femminilità e dell’infanzia dal linguaggio della filosofia e della politica è ciò che ha fatto dimenticare che “fuori dal tutto non c’è il nulla (al piú, la volontà di negare l’essere), ma la vita e la via della vita: si viene dalla vita, si nasce alla vita e si muore nella vita. E’ la vita a comprendere e illuminare il mondo, non il contrario. E, ancor piú precisando, è la vita che determina la coscienza, non viceversa” (p. 22). La Sala pone il seguente aut aut che non ammette altre soluzioni: o si resta all’interno del progetto antico della moderazione e di quello moderno della libertà o si prosegue si prosegue con occhi aperti e piedi per terra sulla strada della ricerca aperta da Rousseau di un contratto sociale che sappia dire “agisci in modo che il tuo desiderio non si trovi a essere antagonistico rispetto a quello di un altro, affinché non finisca col ritorcersi contro di te” (p. 34).
(c) Va detto che l’umana ontologia che La Sala si è posto a ricostruire non è cosa nuova. Già Dante, come ricorda La Sala (p. 62), ne individuò il nucleo concettuale nelle seguenti nove parole: “Dio, cielo, amore, mare, terra, è, vive, muore, ama” (De vulgari eloquentia, I, 8). Lo stesso, l’originalità del contributo di la Sala va vista nella riflessione sulle possibilità e i limiti di un’antropologia filosofica che sia in grado di esprimersi sulle tematiche che definiscono il ventunesimo secolo, e penso in primo luogo alle questioni connesse alla vita, alla famiglia e alla cittadinanza. Basti pensare alla fertilità che il suo approccio prende una volta che lo si usi per discutere, per fare solo qualche esempio, di libertà riproduttiva, clonazione, aborto, adozione in loco e a distanza, libertà civili e diritti del bambino. Questo di La Sala non è un libro dotto (come i tanti sulla cosidetta philosophy of sex and love, che tra l’altro è oggi materia d’insegnamento in molte università degli Stati Uniti), è un libro che risulta da un serio lavoro intellettuale (nel senso weberiano), ovvero da un lavoro che mira a incidere sulla vita politica di una nazione.
Riccardo Pozzo
* Cfr. Magazzino di Filosofia, n. 9, 2002, pp. 61-62, Franco Angeli editore, Milano 2003.
MEMORIA E ANTROPOLOGIA E DISAGIO DELLA CIVILTÀ:
DANTE ALIGHIERI, PRIMO LEVI, HANNA HARENDT, ED ENZO PACI.
"IL CANTO DI ULISSE" E IL "PIKOLO" SEGRETO DELLA STORIA...
COME UNO SQUILLO DI TROMBA. L’Ulisse di Dante ad Auschwitz svela a Primo Levi il Pikolo segreto della storia "che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie".
HANNAH ARENDT E IL PROBLEMA DELL’INIZIO, DELLA NASCITA: "Nella grande opera sulla Città di Dio Agostino enuncia, senza però darne spiegazione, ciò che avrebbe potuto divenire il sostegno ontologico di una filosofia della politica autenticamente romana o virgiliana. A suo dire, come sappiamo, Dio creò l’uomo come creatura temporale, homo temporalis; il tempo e l’uomo furono creati insieme, e tale temporalità era confermata dal fatto che ogni uomo deve la sua vita non semplicemente alla moltiplicazione della specie, ma alla nascita, l’ingresso di una creatura nuova che, come qualcosa di completamente nuovo, fa il suo ingresso nel mezzo del continuum temporale del mondo. Lo scopo della creazione dell’uomo fu di rendere possibile un inizio: «Acciocché vi fosse un inizio, fu creato l’uomo, prima del quale non ci fu nessuno», «Initium ... ergo ut esset, creatus est homo, ante quem nullus fuit» [Agostino, De civitate Dei, libro XII, cap. 21]. La capacità stessa di cominciamento ha le sue radici nella natalità e non certo nella creatività, non in una dote o in un dono, ma nel fatto che gli esseri umani, uomini nuovi, sempre e sempre di nuovo appaiono nel mondo in virtù della nascita" (H. ARENDT, La vita della mente, Bologna 1987).
UN PRESEPIO NEL LAGER. Nel Natale 1944, Enzo Paci con vari militari (tra cui Paul Ricoeur) prigionieri nel Lager di Wietzendorf, riflette su "Nicodemo o della nascita").
Federico La Sala
Psicoanalisi, pediatria, filosofia e pedagogia.
Un problema di libero arbitrio, di ricerca, di eresia, e di fanatismo...
SAPERE AUDE! (KANT, 1784). In omaggio a Sigmund Freud ("sono io stesso un eretico"), forse, è non male ricordare oggi (e ancora) che nel greco classico, il termine eresia, come "il latino haeresis da cui direttamente proviene, riproduce il greco αἴρεσις (...) ha le varie accezioni di "presa, scelta, elezione, inclinazione verso qualcuno o qualcosa, proposta" ; e che questa parola è un segnavia decisivo del suo stesso percorso - dall’inizio fino alla fine. "Acheronta movebo": almeno dalla "Interpretazione dei sogni" fino a "L’uomo Mosè e la religione monoteistica".
IL "PADRE" DELLA PSICOANALISI. L’atteggiamento autoritario di Freud (che ovviamente è anche teorico, addirittura ’autorizzato’ da #Platone) è leggibilissimo (anche) nel testo della stessa lettera (28 nov. 1920): poco gradendo le critiche di #Groddeck, la risposta che egli dà è carica di risentimento: sentendosi provocato, ha il tono di chi si chiude in difesa (anche con le sue ragioni) e risponde a tono (con un"Lei non sa chi sono io!"). Per far meglio capire il suo "carattere", Freud invita Groddeck a leggersi la sua ultima opera "Al di là del principio del piacere"!
"LA FRECCIA FERMA" (Elvio Fachinelli, 1979). Al di là di Freud, il problema, come ben si sa, è proprio il "sonno dogmatico" (Kant) della stessa psicoanalisi (e non solo) che ancora non è riuscita a ben pensare il nodo che lega il rapporto eresia, ortodossia, e fanatismo.
"DAL LUOGO DELLE ORIGINI". Dopo Freud, Winnicott fa un passo da gigante oltre lo "Scilla e Cariddi" edipico: con il coraggio degli inizi dello stesso Sigmund Freud, egli si è portato più vicino appunto al "luogo delle orgini" (1968) - oltre l’ideologico cielo di ogni atavico perbenismo e di ogni cieco narcisismo:
"Il punto centrale sull’adolescente è la sua immaturità e il fatto che non è responsabile [...] l’adolescente è immaturo, gli adulti maturi devono saperlo e devono credere nella propria maturità più che mai [...] se gli adulti cedono le proprie responsabilità ciò significa abbandonare i figli in un momento critico.
L’adolescente non ne è contento, la ribellione non ha più senso, e L’ADOLESCENTE CHE VINCE TROPPO PRESTO RIMANE IMPIGLIATO NELLA SUA STESSA TRAPPOLA, deve diventare dittatore e deve restare lì ad aspettare di essere ucciso.
[...] ciò che conta è che la sfida adolescenziale sia affrontata. Qui la comprensione è sostituita dal confronto [...] la parola confronto è usata per significare che un adulto (il ragazzo) rivendica ad alta voce il diritto di avere il proprio punto di vista [...] il confronto riguarda il contenimento senza rappresaglie, senza vendette, ma che tuttavia conserva la sua propria forza.
[...]
L’adolescenza è qualcosa di più della pubertà fisica, l’adolescenza implica crescita, e questa crescita è lenta. E mentre la crescita prosegue, la responsabilità deve essere presa dalle figure genitoriali. Se queste abdicano allora l’adolescente è costretto a fare un salto verso una falsa maturità e a perdere la sua maggiore risorsa: la libertà di avere delle idee e di agire sulla spinta dell’impulso."
(Donald Winnicott, “Dal luogo delle origini”, 1968, pp. 242-243).
P. S. - Sul tema, mi sia contentito, si cfr. Federico La Sala, Kant, Freud, e la banalità del male.
Federico La Sala
#CRITICA DEL #SOGNODAMORE DELLA #RAGIONEOLIMPICA (#PLATONE) E DELL’#AVVENIRE DI UNA #ILLUSIONE (#Freud). Con #DanteAlighieri, #GalileoGalilei, e #Kant, oltre la #dialettica di #Prometeo ed #Epimeteo. In #memoria di #FrancaOngaro #Basaglia, "contro tutti i muri"...
#SAPEREAUDE! (#KANT, #KOENIGSBERG 1784). RIPARTIRE DA #DUE, DA #DUESOLI, E ANDARE OLTRE LA "BIBLICA" ED EDIPICA #COSMOTEANDRIA. Se è vero, come è vero, che "La nostra #storia è piena di #modelli #enantiodromici. #Maria e la #strega: due aspetti della #femminilità che non potrebbero essere più antitetici e distinti; eppure sono solo una #coppiadiopposti." (luisa maria sguazzi), a voler uscire dal #giogo della #dialettica della #terra #tebana (platonica, paolina, hegeliana, marxistica, e lacaniana) non resta altro che #prescrivere il #sintomo e oltrepassare #ScillaeCariddi e le #colonnedErcole, con #spiritocritico e amore conoscitivo.
#RINASCERE. Con #Wittgenstein, non si può non concordare: "L’Io, l’ Io è il mistero profondo - e non in senso psicologico!". Come da indicazioni dello stesso #Jung e della #ScuoladiPaloAlto, solo riprendendo il lavoro di #Kant (e #BertrandRussell) è possibile portarsi fuori dalla #palude infernale e aprire la #via a una "seconda #rivoluzionecopernicana", a una inaudita #schizofreniadellasalute...
#PLATONE, IL #TECNOCRATE... “Su cosa è stato edificato il #nuovomondo? Genocidi e stermini. Chi ha dato il nome a questo #nuovo #mondo? Un Vespucci ((in verità non lui direttamente, ma ricordiamoci dei ragni e delle formiche di #Bacone). Chi ha chiamato così l’#Amazzonia? E, chi così il #Brasile? A #Napoli, sì sempre a Nea-polis, questo nome ricorda la brace, il braciere, persone intorno a un fuoco che riscalda, un cerchio familiare che si apre e accoglie chi ha freddo - non la #devastazione e il #deserto di chi cieco e folle si mette a distruggere tutto: #Edipo con in mano il lancia-fiamme a volontà #Platone, il #Tecno-crate. Di fronte alla #Foresta gli uomini ciechi e folli di potenza (ma qui si parla anche delle donne-amazzoni) vedono nulla e fanno e ... faranno il #Brasile?” (Federico La Sala, "La #menteaccogliente. Tracce per una #svolta_antropologica", #AntonioPellicani editore, Roma #1991, pp. 180-181).
#ANDROCENTRISMO #PSICOANALISI, E PROBLEMA DEL #RIBALTAMENTO: IL #GIOCO DEL #ROCCHETTO (#FREUD) E IL PROBLEMA DEL #SOGGETTO E PREDICATO (#MARX).
Chiarissimo Jacopo Stringo, #grazie molto per il commento. Condivido in parte: "la tecnologia, figlia, diventa essa stessa creatrice del proprio creatore. Questo ribaltamento, evidentissimo nel modo attuale di vivere", a mio parere, dice proprio del legame incestuoso #Giocasta-#Edipo e della radice della stessa della filosofia dominante da millenni, quella di #Platone il #Tecnorate E quella della #dottaignoranza" paolina e cusaniana e del #sapiente #bovillus_siano. Questo è il #giogo del rocchetto della #tecnica che spinge sempre più in avanti, "verso orizzonti molto lontani", verso il #ritorno al #mondonuovo...
#FILOLOGIA #PSICOANALISI E #RELIGIONE: #ECCEHOMO. Chiarissimo Jacopo Stringo è proprio la questione del "figlio creato e creatore" che occorre sbrogliare ed è proprio su questo che ho richiamato l’attenzione, via il #giocodelrocchetto (del nipotino, se non sbaglio) di #Freud!
Con #Dioniso (e #Nietzsche), oltre: in gioco è la stessa #questioneantropologica, vale a dire la #questionecristologica. Nel #Disagiodellaciviltà (1929) #Freud disse chiaramente qual era il #nodo da sciogliere, ma - a quanto pare - si hanno ancora le idee confuse sul #cammino che l’uomo Freud, pur zoppicando, aveva intrapreso. Ricordiamo che egli #vive a #Londra...
ANTROPOLOGIA E MATEMATICA. A PARTIRE DA DUE... *
Festival dei Matti, Alberta Basaglia: “Non è tardi per parlare di mia madre Franca Ongaro e del suo ruolo nella rivoluzione che portò alla chiusura dei manicomi”
di Emanuele Salvato *
“Fondamentale”. Con quest’aggettivo Alberta Basaglia, psicologa figlia dello psichiatra Franco Basaglia e di Franca Ongaro, definisce il ruolo avuto dalla madre nel percorso che ha generato enormi mutamenti nella psichiatria italiana culminato nella cosiddetta Legge 180 o Legge Basaglia. Una Legge che ha, di fatto, portato alla chiusura dei manicomi in Italia, luoghi in cui la malattia e i malati venivano nascosti, dimenticati e non curati. Eppure raramente il nome di Franca Ongaro è stato associato alla rivoluzione che Franco Basaglia ha prodotto nel mondo della psichiatria insieme al suo gruppo di lavoro, di cui faceva parte anche la moglie la cui figura viene messa al centro nel libro “Contro tutti i muri” (Donzelli editore) scritto da Anna Carla Valeriano, studiosa di storia della psichiatria e delle istituzioni totali, che verrà presentato sabato 25 giugno al festival dei Matti di Venezia alla presenza, oltre che dell’autrice, anche di Alberta Basaglia, Maria Teresa Sega, presidente dell’associazione rEsistenze-memoria e storia delle donne in Veneto e Federica Esposito, psicologa e psicoterapeuta dell’Associazione Festival dei Matti.
“Non è mai troppo tardi - spiega al fattoquotidiano.it la figlia di Franco Basaglia e Franca Ongaro attualmente vicepresidente della Fondazione Franco e Franca Basaglia - per far emergere la figura di mia madre che con il suo lavoro vicino a mio padre è stata determinante per arrivare a generare quella rivoluzione nel mondo della psichiatria iniziata da Gorizia (città in cui Franco Basaglia diresse l’ospedale psichiatrico nel 1958 e dove iniziò a mettere in pratica le sue idee rivoluzionarie in termini di cura, ndr) in poi. E tutti i libri e gli studi usciti in quegli anni sono stati il frutto della collaborazione fra mia madre e mio padre. Sono convinta che mia madre abbia dato un apporto importante soprattutto in termini di concretezza del discorso teorico”. Aggiunge Alberta Basaglia: “Il fatto che sia sempre passata come ‘la moglie di’ fa parte di un determinato periodo storico in cui per una donna era ancora molto complicato cercare di mettersi in evidenza ed avere la giusta considerazione in un ambito prettamente maschile”. Eppure, come spiega Anna Carla Valeriano nel libro, il suo approccio sociologico all’interno di un’istituzione totale come l’ospedale psichiatrico di Gorizia, il suo interessarsi alle storie dei pazienti è stato fondamentale per arrivare a comprendere l’origine di molti disturbi psichiatrici, spesso generati proprio dal contesto sociale.
A proposito dei lavori e degli scritti realizzati insieme al marito, vale la pena di citare “Morire di classe”, un libro fotografico del 1969, nel quale gli scatti di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin hanno rivelato all’opinione pubblica quale era la condizione dei malati nei manicomi italiani. Fotografie senza filtri, con malati legati ai letti, con gli sguardi persi nel vuoto e abbandonati a loro stessi. Un vero e proprio pugno nello stomaco che contribuì ad accendere una luce su realtà scomode e che mise in evidenza la necessità di attuare quei cambiamenti necessari e non più procrastinabili che Basaglia con la moglie e il suo gruppo di lavorò iniziò ad attuare, facendoli culminare nella realizzazione della Legge 180. Il libro uscì qualche mese dopo un altro documento molto importante e utile a mettere in evidenza quanto drammatica fosse la situazione nei manicomi italiani, il documentario di Sergio Zavoli “I giardini di Abele” mandato in onda da rai Tv7 nell’autunno del 1968 e girato proprio nell’ospedale psichiatrico di Gorizia diretto da Franco Basaglia che aveva iniziato a trasformare l’ospedale facendolo diventare una comunità terapeutica. “Sono cresciuta in un clima - racconta Alberta Basaglia, che quegli anni, seppur piccola li ha vissuti e se li ricorda - in cui vedevo persone intorno a me lavorare per qualcosa in cui credevano e, visti i nostri tempi attuali, non è facile immaginare tutto questo. Ho il ricordo della presenza contemporanea di mia madre e mio padre inseriti e attivi in questo gruppo di lavoro nel quale era evidente la volontà di cambiare il mondo. La rivoluzione di Basaglia nel mondo psichiatrico italiano è stata pensata e realizzata con un gruppo di persone che hanno lavorato senza sosta affinché questa rivoluzione cambiasse davvero qualcosa”. Dopo la morte di Franco Basaglia, l’impegno di Franca Ongaro per attuare concretamente i cambiamenti previsti dalla Legge 180 è proseguito anche in Parlamento dove venne eletta per due legislature, dal 1983 al 1992, nelle fila del gruppo parlamentare di Sinistra Indipendente. Fra le sue principali battaglie si ricorda quella di fare in modo che la Legge 180, promulgata nel 1978, venisse messa in pratica nei territori. In tal senso ha elaborato due disegni di legge rivelatisi poi fondamentali per creare di Dipartimenti di salute mentale.
*Fonte: Il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2022 (ripresa parziale - senza allegati e note).
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89)..
Federico La Sala
I vescovi nel cammino sinodale: da geografi ad esploratori.
di Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo (L’Osservatore Romano, 25 giugno 2022)
Il cammino sinodale «al quale siamo tutti chiamati per essere entusiasmati dal fuoco dello Spirito» (Newsletter Segreteria generale del Sinodo dei Vescovi, n. 11, 23 aprile 2022) deve essere conosciuto. Accompagnarlo con le nostre preghiere quotidiane è importante. A livello comunitario siamo invitati a creare la «consuetudine d’amore» di pregare nel primo lunedì di ogni mese in tutte le famiglie, nelle parrocchie, nelle diocesi, nelle comunità religiose, negli ospedali, nei luoghi di lavoro e dovunque sia possibile.
C’è bisogno di un cambio antropologico profondo che i pastori devono favorire con bontà e perseveranza: «pregare per il Sinodo significa richiedere il dono del discernimento, la pazienza di accettare la lentezza di chi cammina con più fatica, la conversione del cuore che apre al vero ascolto, il coraggio di fare il primo passo verso chi ci sta più lontano, l’umiltà di chiedere perdono per le ferite che abbiamo inferto nel nostro cammino» (Newsletter Segreteria generale del Sinodo dei Vescovi, n. 11, 23 aprile 2022).
Il ministero episcopale, che si declina nelle tre funzioni di insegnamento, santificazione e governo (Lumen gentium 25-27), come espressione della missione del Signore nel suo popolo, oggi è chiamato a discernere ciò che lo Spirito Santo dice alla Chiesa, ascoltando il Popolo di Dio.
Vorremmo che tutti i nostri vescovi avessero già maturato una chiara identità sinodale, senza concedere l’attenuante che questo è un cammino reale che si scopre passo dopo passo, «si fa la strada nell’andare» come direbbe il poeta Antonio Machado («se hace camino al andar»). È un viaggio che si racconta intrecciando le storie quotidiane di tutti nella dimensione locale. Come direbbe il Piccolo Principe, i nostri vescovi non possono essere più soltanto dei geografi statici, immersi nei loro grandi registri, che ascoltano i resoconti dei viaggiatori, e segnano sulle carte le montagne, i fiumi e gli oceani delle loro diocesi. Insieme al popolo di Dio loro affidato, sono esploratori, scopritori di nuove esperienze e di sentieri aperti nella vita quotidiana per poter seguire con umiltà più da vicino Gesù, essere capaci di uscire dagli schemi con creatività per aiutare e guidare all’incontro con il Signore.
In questa fase di cambiamento non ci dobbiamo meravigliare delle numerose osservazioni che da parte dei vescovi giungono alla Segreteria generale del Sinodo, nel timore che la Chiesa sinodale possa sostituire quella gerarchica e che il Popolo di Dio rimpiazzi il magistero, nella contrapposizione ideologica tra «carisma» e «potere». Non un cammino dall’alto, né esclusivamente dal basso. Un cammino insieme nel rispetto dei ruoli. Perciò abbiamo bisogno di pregare molto affinché lo Spirito Santo realizzi l’apertura all’ascolto: «Popolo fedele, Collegio episcopale, Vescovo di Roma: l’uno in ascolto degli altri; e tutti in ascolto dello Spirito Santo» (Per una Chiesa sinodale. Comunione, preparazione, missione, 15) ... tutti in cammino.
Il secondo momento sinodale è quello della collegialità: il discernimento dei pastori riuniti in assemblea, «ai quali si chiede di ascoltare ciò che lo Spirito ha suscitato nelle Chiese loro affidate». Nel primo lunedì mensile sia ora più forte la preghiera per i vescovi affinché, come spesso ha sottolineato Papa Francesco, siano pastori con l’odore delle pecore.
Sono molto belle le suggestioni che mostrano e spiegano attraverso l’immagine del telaio gli intrecci del percorso sinodale. Le parole usate sono: riallacciare, ricucire, ritessere le relazioni. Papa Francesco in un bel libro, curato da Andrea Monda, intitolato «La tessitura del mondo», usa questa immagine per indicare che il mondo è una tessitura a mano messa a dura prova, e che ha bisogno di essere rammendata con un lavoro artigianale con i fili «della speranza, della gioia, della misericordia». La tessitura a mano è un lavoro della comunità, che stimola la relazione fra le persone e la creatività, dove è necessaria la collaborazione degli altri e favorisce l’inclusione.
Oggi nel cambio epocale, nelle città e nelle periferie esistenziali, le Chiese locali stanno sperimentando di non avere un filato, ma grovigli fatti da fili spinati di sofferenze, scarto, violenza, pandemia e guerra; e anche di un benessere vissuto con egoismo, nell’apatia e nell’indifferenza agli altri. Se c’è stata vera esperienza sinodale con il popolo di Dio, i nostri vescovi andranno al momento collegiale con le mani ferite, consapevoli che prima di mettere mano al telaio c’è bisogno di faticare all’arcolaio, per dipanare quei garbugli di dolore e trasformarli in gomitoli di fili molto forti, di «funi indistruttibili» che realizzano il tessuto che collega tutto e tutti: riscoprire le alleanze volute da Dio, l’anima delle narrazioni del rapporto fra Dio e noi uomini, e degli uomini fra loro e con il creato.
Nel tessere c’è un «nodo d’oro» da non trascurare: «la comunità coniugale-famigliare dell’uomo e della donna è la grammatica generativa, il “nodo d’oro”, potremmo dire. La fede la attinge dalla sapienza della creazione di Dio: che ha affidato alla famiglia non la cura di un’intimità fine a sé stessa, bensì l’emozionante progetto di rendere “domestico” il mondo. Proprio la famiglia è all’inizio, alla base di questa cultura mondiale che ci salva; ci salva da tanti, tanti attacchi, tante distruzioni, da tante colonizzazioni, come quella del denaro o delle ideologie che minacciano tanto il mondo» (FRANCESCO, Udienza generale, 16 settembre 2015).
Sul tema, in rete, si cfr.:
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
Federico La Sala
Dalla Bibbia alla psicoanalisi: il nuovo saggio di Massimo Recalcati
In "La legge della parola", lo psicoanalista rilegge alcuni episodi del Vecchio Testamento con gli strumenti di Freud e Lacan, facendo incontrare due linguaggi
di Roberto Esposito (la Repubblica, 15 giugno 2022).
Nella prima cappella a destra della Chiesa di Saint-Sulpice, a Parigi, vi è una pittura murale di Eugène Delacroix che ritrae la figura biblica della lotta di Giacobbe. L’identità del personaggio con cui si batte è misteriosa. Chi è l’essere che affronta in un corpo a corpo mortale? Un uomo, un angelo, un dio? Chiunque sia, in termini simbolici Giacobbe lotta contro se stesso, con la propria immagine speculare, col fantasma del proprio narcisismo. Secondo il racconto biblico, quando il combattimento finalmente termina, Giacobbe resta ferito all’anca. Quella ferita alla propria identità lo muta profondamente, dandogli un nuovo nome. Reciso un legame troppo vincolante con se stesso, egli adesso è pronto a incontrare l’Altro, ad aprirsi alla relazione.
È la lettura, profonda e suggestiva, che nel suo nuovo libro, La Legge della parola. Radici bibliche della psicoanalisi, edito da Einaudi, Massimo Recalcati fornisce di quell’episodio e, più in generale, del Libro. Come egli stesso spiega, non si tratta di un’interpretazione psicoanalitica della Bibbia e neanche di una declinazione religiosa della psicoanalisi. Ma di un incontro tra linguaggi diversi, che tali restano, reso possibile da un presupposto comune: esiste una legge non al servizio della morte - della colpa e del castigo -, ma destinata a generare nuova vita.
Si tratta della legge della parola. Essa chiede all’uomo di non volersi fare Dio, di ammettere la propria finitezza, di riconoscere la tensione che attraversa la sua esperienza, umanizzandola. La stessa che per Freud articola pulsione di vita e pulsione di morte e per Lacan distingue desiderio e godimento. Solo superando l’identificazione narcisistica con la propria immagine, come fa Giacobbe, l’uomo può riconoscere il ritmo dell’esistenza nell’alternanza tra pienezza e mancanza, gioia e dolore, vittoria e sconfitta. La rinuncia al godimento assoluto - comunque non alla nostra portata - apre la porta al desiderio. Soltanto l’esperienza di una lesione profonda - abbandono, perdita, lutto - può rendere di nuovo generativa la vita umana.
Da questa prospettiva - maturata in una rivisitazione particolarmente creativa della psicoanalisi lacaniana - Recalcati rilegge gli episodi più intensi della Bibbia. Al centro di tutti torna, declinato in modi diversi, il rapporto costitutivo tra desiderio e divisione. Il rifiuto della fusione con se stessi a favore dell’alterità. Da parte dell’uomo, ma anche di Dio. Che, nella genesi, crea il mondo separandolo da sé. La luce di cui lo inonda coincide con la forza simbolica di una parola che rompe la notte dell’indifferenziato, generando l’infinita molteplicità della vita. Come anche nella psicoanalisi freudiana e lacaniana, la parola che Dio rivolge all’uomo non è solo comunicazione, ma rivelazione. Luce e taglio. Creando il mondo Dio si ritira, rinuncia all’onnipotenza, come hanno diversamente sostenuto Lévinas, Bonhoeffer, Simone Weil. Con un secondo taglio immette la differenza, anche sessuale, nelle forme viventi. Separa la vita umana dalla nuda vita biologica.
Ma, contro ogni retorica umanistica, la vita umana non nasce integra. Sperimenta l’odio prima dell’amore, la vendetta prima del perdono. Il fratricidio di Caino apre la storia dell’uomo nel segno della violenza assoluta. Egli uccide il fratello per essere solo, per essere tutto.
Come sostiene Lacan, Caino è l’altro nome di Narciso. Riconosce in Abele la propria immagine irraggiungibile e la distrugge. Dio lo condanna, per poi salvarlo, spezzando la catena della violenza reciproca. La violenza divina non è mai cieca. Il diluvio che scatena sul mondo corrotto consente a Noè di rigenerarlo. Così come il crollo della torre di Babele e del suo sogno di monolinguismo ripristina la molteplicità delle lingue. Perfino nell’episodio, in prima istanza incomprensibile, del sacrificio di Isacco, la mano di Dio si arresta, si ritira, sostituendo un montone al figlio prediletto di Abramo. Dio rinuncia al dominio, interrompendo la spirale del sacrificio.
Il rapporto dell’uomo con Dio resta problematico. Il racconto biblico non nasconde la tensione. Al contrario, come farà la psicoanalisi, la rivela. Il grido di Giobbe, a metà tra blasfemia e preghiera, reclama una spiegazione da Dio per la sofferenza ingiusta. Anch’egli non è una figura della rassegnazione, della pazienza, ma della lotta. In termini psicoanalitici, la sua vicenda attesta che, se la sofferenza umana è ineliminabile, attraverso il sintomo la si può interpretare, tradurre, decifrare. Il libro sapienziale di Qohelet spinge al culmine la consapevolezza dell’inaggirabilità della morte e dunque della vanità della vita. Il suo eterno oscillare tra splendore e polvere. Ma invita, proprio perciò, a godere di quanto si ha. Non nell’attesa, ma ora, adesso.
Per questo Recalcati collega Qohelet al Cantico dei cantici. In questo esplode la gioia dell’amore, la festa degli amanti. Che, però, non infrange la legge del desiderio, non s’inscrive nella logica del godimento assoluto. Anzi lo dichiara impossibile. Impossibile è la fusione in Uno di coloro che restano Due, differenziando la disponibilità femminile dal sogno di possesso maschile. La Bibbia rivela la problematicità, ma anche la necessità, del rapporto. Come insegna il racconto paradossale di Giona, il più umano dei profeti, è difficile rispondere alla chiamata di Dio, ma tale difficoltà custodisce il mistero dell’esistenza.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA NASCITA DELL’ESSERE UMANO E IL GIOCO DEL ROCCHETTO. Al di là del giogo di Edipo e Giocasta.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
L’INCONSCIO, IL TEMPO, IL SUONO. SU PSICOANALISI E MUSICA
di MICHELE GARDINI *
1. Un inconscio sonoro?
Sigmund Freud ha costantemente mostrato, come uomo di mondo e come scienziato dell’anima, una marcata predilezione estetica e scientifica per l’immagine e la parola: ho compreso a mio modo - afferma il padre della psicoanalisi - «specialmente la letteratura e le arti plastiche, più raramente la pittura», mentre «[n]el caso in cui ciò non mi riesce, come per esempio per la musica, sono quasi incapace di godimento»[1]. E così, quasi per democratica specularità (ma quale piano qui rifletterebbe, quale influenzerebbe altro?), l’Inc finisce per risultare saturo di immagini, mentre la coscienza fa tutt’uno con il linguaggio.
Molti sono le ragioni di questa “sordità congenita” della psicoanalisi classica, un deficit che solo a fatica il movimento psicoanalitico si è lasciato alle spalle, fino a riconoscere che la psicoanalisi ha eccessivamente e impropriamente insistito sui diritti di Narciso a discapito di quelli di Eco[2]. Il maggiore ostacolo consiste però nel fatto che la musica è un’arte totalmente temporale, come la coscienza, laddove i processi dell’Inc, secondo un’incrollabile convinzione freudiana, sarebbero atemporali, quasi come una statua immersa in un’atmosfera di eternità imperturbabile.
I processi del sistema Inc sono atemporali, e cioè non sono ordinati temporalmente, non sono alterati dal trascorrere del tempo, non hanno, insomma, alcun rapporto col tempo. Anche la relazione temporale è legata al lavoro del sistema C[3].
La musica, inoltre, non si assoggetta particolarmente bene ai presupposti della metapsicologia freudiana. Essa è l’unica facoltà non alterata dall’ambiente onirico. A differenza degli elementi visivi, nel sogno non si frammenta in un caos incoerente né decade rapidamente al risveglio. Nei sogni è «costantemente normale», ed è inoltre immune dai mascheramenti degli altri elementi onirici[4]. Del resto, le parole della veglia sono fino a un certo punto in grado di parafrasare un’immagine o altre parole del sogno; una melodia non può invece essere parafrasata.
Condensazione e spostamento, come sappiamo, sono i cardini della logica onirica. Tuttavia solo il verbale e l’iconico possono essere sottoposti a condensazione, ma certo non una melodia. Quale assurdità logica sarebbe mai “sintetizzare una melodia” o “schematizzarla”? E per quanto riguarda lo spostamento, un trasferimento inconscio d’intensità tra diversi elementi è impossibile nella musica, unica arte la cui stessa natura è di presentare in carne e ossa, ossia fenomenizzare, anche le transizioni tra diverse situazione emotive, senza bisogno di ipotizzarle, ricostruirle a posteriori o postularle ad hoc.
Certamente la musica sembra un linguaggio narcisistico, e ciò si rispecchia nel riverberarsi reciproco dei suoi significanti: un suono musicale pare potersi trascendere solo verso un altro suono musicale, mai rimandare ad altro. Ciononostante si tratta soprattutto di un’apparenza, di patologia o di certa cattiva mitologia romantica. Di fatto la musica, ad esempio nel cantare insieme, veicola una socializzazione difforme dal carattere individualistico-egoistico dell’Inc[5], e quando gli uomini vivono in condizioni di difficoltà, fanno musica[6].
Eppure, nonostante questi aspetti discordanti, la musica ne condivide con l’Inc uno davvero capitale: entrambi non conoscono il “non”. Come una frase musicale non può negarne o contraddirne un’altra, così moti pulsionali dell’Inc esistono gli uni accanto agli altri senza sopprimersi e contraddirsi. Mete incompatibili tendono a formare non contraddizioni, ma compromessi.
In questo sistema non esiste la negazione, né il dubbio, né livelli diversi di certezza. Tutto ciò viene introdotto solo dal lavoro della censura fra l’Inc e il Prec. La negazione è solo un sostituto della rimozione a un più alto livello. Nell’Inc ci sono solo contenuti forniti di un investimento più o meno forte[7].
Come nel processo primario dell’Inc si sovrappongono molteplici linee pulsionali e rappresentazionali, anche contraddittorie, lo stesso accade naturalmente con le “voci” musicali, mentre ciò non sarebbe concepibile, condurrebbe anzi al caos, nel caso del linguaggio verbale concettuale, e anche delle immagini che ne costituiscono la preistoria. Le emozioni si stratificano e convivono come possono fare i suoni, non le parole o le icone. Per questo il linguaggio dell’analisi è poco titolato a parlare di altro che non siano icone e parole, e non riesce a rinvenire nel sogno e nell’inconscio, da esso quasi trasformati in qualcosa di «pre-concettuale»[8], la presenza del suono musicale, che per natura non gli è affine.
2. Tra ripetizione e variazione
Meglio dunque non forzare il fenomeno musicale nell’inconscio, ma lasciare che sia proprio la musica a suggerirci un principio di metodo per ripensare più criticamente l’Inc freudiano. Osserviamo dunque il principio di piacere da una doppia angolatura: il punto di vista “ortodosso” della coazione a ripetere propria di tutte le pulsioni, e dall’altro lato il suono nei suoi caratteri teleologici e “ripetitivi” (ritmo, prosodia, simmetrie). Ancora una volta, per quanto sembri strano, Freud ha completamente ignorato quest’aspetto, tutto preso dal suo modello iconico-verbale.
Ciò è strano innanzitutto perché risalta che la musica, per sostenersi, ha strutturalmente bisogno della ripetizione, non potendo godere della permanenza temporale né del significante (come le arti plastiche) né del significato (come la poesia). Ma anche le pulsioni, afferma Freud, incontrano una coazione a ripetere, in ragione dell’eterna mancanza di appagamento della pulsione erotica e dell’eterna ricerca di uniformazione della pulsione di morte.
Questo però, piuttosto che fornire un punto di incontro banale tra le due esperienze, ci induce appunto a ripensare criticamente il concetto stesso di coazione a ripetere.
Freud, infatti, non ha visto che la ripetizione, se non è patologica, implica sempre un margine di variazione all’interno della conservazione: anche per il semplice fatto di essere ripetuto una seconda volta, un pattern non è già più lo stesso della prima volta, e ciò è tanto vero fin dalle prime esperienze infantili, quanto lo è nel caso della ripetizione di temi musicali. Stern ha esplicitamente parlato a questo proposito di «tema con variazioni»[9]. La ripetizione, nelle prime esperienze infantili come in musica, non è mai disgiunta (se non in casi aberranti) da novità temporali e intensificazioni. Il mito di Eco e Narciso mostra infatti con precisione stupefacente che se lo “specchio” (prima quello sonoro di Eco, poi quello visivo di Narciso) rinviasse ossessivamente al soggetto solo e mai nient’altro che se stesso, il risultato sarebbe disunire le pulsioni di morte da quelle di vita e assicurare loro il primato[10]. Per fornirne subito un riscontro musicale, la vera realizzazione di una coazione a ripetere patologica, in senso “ortodosso”, si ha ad esempio con la razionalizzazione totale della scuola post-weberniana, che fa del suono una raffigurazione spaziale, un diagramma, una fissità iconica (proprio nel senso della preferenza estetica freudiana?), una paralisi che non evolve né si auto-arricchisce più nel tempo[11]: qualcosa, in ogni caso, che sta alla fine di una lunga storia, non all’inizio di una breve vita. Ed è curioso che nulla sembri più “ripetitivo” all’ascolto, meno dotato del senso della novità di quella musica in cui proprio la serialità assoluta ha intellettualmente abolito la ripetizione di un elemento prima che siano enunciati tutti gli altri. Il rivale mimetico del serialismo, ovvero il minimalismo musicale post-moderno, non si dimostra poi maggiormente dialettico del suo apparente avversario: dove la ripetizione diviene semplicemente - non dialetticamente - la stessa cosa della variazione non c’è più “nulla da aspettarsi”, il “progresso” risulta puramente incrementale, non tematico, cosicché indifferentemente tutto scorre e tutto sta fermo. Il principio di realtà non si guadagna ma al contrario, secondo le conclamate intenzioni della scuola, evapora completamente nello stordimento, nel sogno e nella trance. Al massimo, in luogo di un’“angoscia noiosa” subentrerà una “noia angosciosa”.
Nell’originaria reiterazione ritmico-melodica si ha al contrario progresso e sviluppo, nel senso di apprendimento del controllo dell’assenza (della madre come oggetto desiderato) mediante alternanza di presenze e assenze e anticipazione della risposta. La voce materna non è ancora completamente voce esterna dell’Altro, nel senso del rigido dogma lacaniano, e per questo, mentre sostiene la relazione con l’altro, comincia a formare anche l’identità-durata del Sé. Il legame si potenzia attraverso la musica, nel canto e nella nenia. La figura inconscia dell’eco prodotta dalla voce materna è il primo contenuto significante dell’«involucro sonoro del Sé» in un’esperienza che dura[12]. Freud non valorizza la ripetizione(/variazione) in musica, né si rende conto che in generale la coazione a ripetere, col suo margine d’incertezza irriducibile sull’a-venire, genera un embrione di tempo e la sua direzionalità anche nell’Inc. Superato un certo limite, però, la variazione distrugge l’effetto della ripetizione, instaurando la perdita e il caos. Oltre comincia l’angoscia e l’ingiunzione di un ritorno alla ripetizione[13], che lasciata a sé sola ricadrebbe però in una noia non meno angosciosa. La meccanica di tensione/distensione crea una temporalità originaria affettiva e uditiva, tesa fra noia e angoscia, ma come tutto ciò che procede verso una conclusione e risoluzione prepara anche gradualmente, sullo sfondo, esattamente come un fenomeno transizionale, l’esperienza della perdita e del lutto.
3. Filastrocche e ninnenanne
Il piacere del bambino nell’essere cullato dalla madre, udendo filastrocche e ninnenanne, impone di non ridurre la madre a semplice oggetto di “consumazione” alimentare ed “erogazione” di prestazioni fisiologiche. Il “piacere” del principio di piacere, come comincia a delinearsi già in Melanie Klein, non è solo consumazione, ma anche comunicazione con l’Altro (la madre, in specifico) e instaurazione di un legame simbiotico, scandito temporalmente. Infatti, vera fusione simbiotica non può aversi solo aderendo a una identificazione tautologica senza tempo, ma richiede di svolgersi superando la frammentarietà dell’istante.
Dietro il non-senso esplicito della filastrocca c’è infatti un senso declinato in specularità fonica (es. rima) e regolarità ritmica che, mentre parla in questo mondo, parla di un altro mondo «originario»[14]. Di quale mondo si tratta?
Ritmo e intonazione sono già oggetto di sensibilità prelinguistica: il feto reagisce al battito cardiaco e alla voce materna che si stagliano sul rumore come struttura primaria. Del resto l’orecchio, per la sua ricettività incondizionata, è fin da subito il senso più esposto alle perturbazioni mondane dell’omeostasi in forma di aggressioni acustiche[15], e necessita dunque di un principio organizzatore che le neutralizzi, cosicché sempre in seguito la nostra immaginazione aderirà quasi vischiosamente a ritmo e melodia, mai a caos e rumore[16]. Lo “stile uditivo” permette infatti di mantenere il contatto con qualcuno anche non spazialmente presente, e il relativo margine d’imprecisione rispetto alla vista è compensato dal suo legame, destinato a diventare strutturale, con l’immaginazione[17].
L’organizzazione dell’universo sonoro comincia addirittura al quinto mese di gravidanza, presupponendo dunque una forma di successione/sviluppo temporale già in utero, dove per Freud si supporrebbe esserci assoluta fissità. Al settimo i neonati sarebbero in grado di memorizzare a proprio modo una frase musicale[18]. L’esposizione prenatale a stimoli acustici ha conseguenze strutturali e funzionali sul sistema uditivo, che viene sintonizzato sulla madre. La voce è percepita ed è efficace solo in una relazione simbiotica di scambio pre e post-natale, che è fin dall’inizio sonora e affettiva, umana. L’effetto che se ne ottiene è di «incantamento»: il neonato prediligerà poi il rispecchiarsi del suono prenatale in quello postnatale, e il suo passaggio dall’agitazione alla quiete mostra il significato magico-onirico di ritorno al paradiso perduto prospettato dalla musica della voce materna[19].
Ma solo la musica può fare questo in modo assolutamente privilegiato, come mondo totalmente altro. Gli altri linguaggi (figurazione, verbalizzazione) sono sempre attratti dall’intenzionalità su questo mondo. La musica pertanto è senza significato e apparentemente autoreferenziale e narcisistica solo in quanto punta a un “archi-significato”, senza cui tutti gli altri significati sarebbero insignificanti[20]. Il suo significato è semplicemente non mondano. Esso non rinviene una realtà, ma si inserisce in un processo onirico: come Orfeo, il neonato non può portare la madre (simbolizzata da Euridice) con sé, tuttavia il suono gli permette di recuperare, significandolo, ciò che sta al posto dell’unità originaria perduta[21].
4. Transizione musicale
Musica, dunque, come oggetto o dimensione transizionale. Il bambino, com’è noto, non può passare da principio di piacere a principio di realtà senza una «madre sufficientemente buona»[22] che ne favorisca un adattamento attivo e progressivo, educandolo per gradi a tollerare l’assenza dell’oggetto amato e l’autonomia del mondo. L’uomo non conosce contatto diretto con il reale. È la bontà del partner a consolidare la realtà delle cose, e il processo passa transitoriamente per l’illusione. “In-ludo” in senso etimologico e anche concettuale non è l’opposto della realtà se non per equivoco. I bambini giocano sul serio, l’illusione conduce alla realtà ed entrambe, insieme, sono l’opposto dell’allucinazione. Per portare nuovamente un controesempio musicale, il farsi direttamente choc sonoro dei moti inconsci dell’anima nello Schönberg espressionista[23], abolendo nella stimolazione immediata il “fenomeno transizionale” dell’arte musicale e della sua tradizione formale, realizza un mondo sensibilmente allucinatorio, che toglie l’accesso alla realtà vera e propria.
Il fenomeno transizionale costruisce per Winnicott un’area neutra di fiducia, un “mondo” inattaccabile dal dubbio. Ma anche la musica non costituisce forse, per eccellenza, un mondo inattaccabile dal dubbio?
La musica moderna, però, rappresenta l’eccezione a questi presupposti, anzi la loro corrosione. Essa non manifesta nelle sue forme artistiche solo la lacerazione dell’anima moderna che, dal punto di vista psicoanalitico, “ripete” come sintomo, come nello sforzo per padroneggiarla e liberarsene. Essa incarna anche il carattere faustiano, disumano, la potenza della tecnica moderna nella sua volontà di dominio assoluto sul proprio materiale sonoro e sulla sua organizzazione[24]. Per questo non potrà mai, con i propri mezzi, mediare un ritorno a un mondo reale e conciliato[25]. Il dissolversi delle mediazioni, la diretta messa a contatto e il paradossale rispecchiamento reciproco di stimoli elementari (nella forma di chocs psicofisici) e iper-razionalità nell’organizzazione del materiale (primitivismo e iper-intellettualismo), non passando più evolutivamente per nessun oggetto o nessuna fase transizionale, non possono che trovare in musica una sintesi paradossale nella dissonanza[26]. La dissonanza generalizzata edifica un mondo dove domina il male, straniato, allucinatorio, che non potrà mai consolidarsi in o mediare un mondo “reale”.
L’INCONSCIO, IL TEMPO, IL SUONO. SU PSICOANALISI E MUSICA
di MICHELE GARDINI *
5. Psicoanalisi e tipologia degli stili
Alcuni concetti fondamentali della psicoanalisi kleiniana possono a questo punto riassumere il discorso e chiarire meglio il rapporto tra la musica classico/romantica e quella che Adorno ha chiamato «nuova musica». Si devono agli studi di Michel Imberty - studioso di non esclusiva formazione psicoanalitica - alcune ispirazioni fondamentali di queste riflessioni
Il punto fondamentale è che inizialmente la madre, per Klein, è uguale alla totalità del mondo esterno. Il bambino non vi cerca solo nutrimento e assolvimento di compiti fisiologici, ma comprensione[27]. L’Io si sviluppa in gran parte intorno a questo primo e vantaggioso oggetto-mondo, base di ulteriori identificazioni vantaggiose[28]. Esso è il risultato della prima posizione psichica riconosciuta dall’autrice nell’evoluzione del bambino, quella schizo-paranoide, che scinde la realtà degli oggetti in due parti (“buona” e “cattiva”), identifica quella buona con sé e proietta la parte buona di sé sull’oggetto, mentre sulla parte cattiva dell’oggetto viene proiettata, per disconoscerla e liberarsene, la parte cattiva di sé, e viceversa. La madre che si allontana, che nega il seno, che in generale non risponde è la madre “cattiva”, che suscita nel bambino angoscia persecutoria e pulsioni aggressive, a propria volta scisse dal sé e riproiettate sulla madre in forma di “aggressione dell’aggressore”.
Il gioco verbale (“baby-talk”) e il canto madre-bambino sono aspetti culminanti della responsività, sono fenomeni transizionali, ma elaborano anche in forma complessa la temporalità. Con ciò preparano il passaggio dalla posizione schizo-paranoide a quella depressiva, “adulta”, che deve fare i conti con il senso della perdita e accettarlo. La posizione depressiva accetta dunque ed elabora la possibilità dell’assenza e dell’indipendenza dell’oggetto amato, nonché la inevitabile compresenza in esso di bene e di male, e lo stesso fa nell’io. La posizione depressiva si guadagna progressivamente mediante una riduzione delle scissioni, ed è una transizione favorita da un ambiente circostante “buono”. La melodia, fatta di suono e silenzio, di ritmo composto di arsi e tesi, di consonanze e dissonanze, di domanda e risposta tra i temi incarna esemplarmente l’elaborarsi di questa transizione che conduce, passo dopo passo, all’accettazione della realtà nel suo carattere composito e contraddittorio, tanto nel mondo esterno quanto nell’Io. Se però questo ambiente favorevole manca, e il contesto è freddo e ostile, il bambino non riesce a svolgere questo compito cruciale e ricade nelle forme schizo-paranoidi, dominate da continue scissioni e proiezioni, che condizioneranno la sua esistenza adulta.
Ora, se «l’Io primitivo manca di coerenza»[29], dobbiamo rilevare che lo stesso tocca all’Io alla “fine della storia”, nell’epoca della tecnica. Se la madre per il bambino era il mondo, è ora la tecnica a essersi sostituita socialmente e archetipicamente alla mediazione materna nell’identificazione totale col mondo. Ma questa mediazione è un controsenso e non può riuscire: la tecnica non può condurre alla maturità della posizione depressiva semplicemente perché essa stessa è per natura schizo-paranoide. Da un lato vuole dominare il tempo vissuto e annullarne gli effetti di perdita, producendo, nel senso esattamente colto da Heidegger, un oblio dell’«essere-per-la-morte» al fine di totalizzare il piacere; dall’altro fornisce piacere rescindendo sistematicamente tutti i legami (temporali, mondani, relazionali) tra gli individui, e trasformando così l’Io in un caos dis-integrato di scissioni e proiezioni, e il mondo non più in una «madre sufficientemente buona», ma in un partner sempre più ostile.
Queste categorie consentono fra l’altro a Imberty di leggere in profondità, in senso tipologico, alcune epoche e alcuni stili musicali.
Il romanticismo accetta l’ambivalenza suddetta del tempo, e sopporta la contraddizione della situazione sonora. Il gioco sonoro, dominato dal principio di piacere, nella fiducia che vi sarà sempre una corrispondenza tra le sue parti protegge al suo interno l’ascoltatore dall’incursione della morte, come la ninnananna materna ne protegge il figlio, ma contemporaneamente è tempo, e come tale va verso un’autentica conclusione. Esso integra quindi in sé la remota consapevolezza della morte con il piacere dell’illusione (posizione depressiva). La musica classico/romantica è tecnicamente illusoria, cioè “conduce in un gioco”.
La contemporaneità - a partire, per largo consenso degli studiosi, da Debussy - regredisce invece passo dopo passo a una posizione schizo-paranoide, rifiutando quest’ambivalenza del tempo e quindi l’orizzonte della morte. Debussy rappresenta la prima crisi nel concetto di sviluppo musicale. I suoi melismi sono momenti appagati della propria felicità isolata, senza premesse e senza conseguenze, quasi “irresponsabili”. In lui tornano solo gli «istanti buoni», colmi d’iperattività vitale, mentre sono negati gli «istanti cattivi», che lasciano trasparire la disintegrazione dell’Io e l’angoscia della morte. Persino i suoi finali non sono mai conclusioni, ma semplici arresti[30], mentre gli accordi di settima e nona vengo defunzionalizzati, spogliati del loro carattere transitorio di dominante e goduti isolatamente in se stessi, come fonti di piacere autonomo[31]. Ma in Debussy troviamo anche momenti di furia brutale, strappi, momenti di aggressività quasi disperata, legati all’irruzione del «caso», cioè del tempo non integrato[32]. Quando l’istante prevale sulla durata, si ha una liberazione delle pulsioni di morte, che - come indicato da Anzieu - prevalgono su quelle di vita. La musica perde così coesione e direzione, restringendosi a un presente senza passato e avvenire[33].
È quindi in Schönberg che viene distrutta la sintassi come grande forma e continuità del tempo. La musica dodecafonico-seriale è tecnicamente allucinatoria. In essa, il costante vincolo alla negazione determinata[34], l’elusione programmatica di ogni momento di risoluzione armonico/melodica - riflesso del cronico stato d’incertezza di sé e delle proprie risoluzioni della psiche moderna abbandonata a se stessa dal mondo tecnicamente organizzato[35] - impedisce la interiorizzazione di un alter-ego buono che conduca l’io oltre se stesso, verso il mondo[36].
Ciò che è assolutamente notevole della tecnica dodecafonico-seriale è infatti questo: che quanto più la successione da un suono all’altro e la loro sovrapposizione in accordi segue una logica stringente, matematica, e si avvicina alla calcolabilità e prevedibilità totale sul piano dell’intelletto, tanto meno i suoni appaiono legati e consequenziali sul piano dell’ascolto sensibile. L’udito corporeo è sempre meno in grado di cogliere la logica della concatenazione, non emerge più il senso di attesa nel gioco di conservazione/variazione intrinseco all’esperienza musicale, e in luogo dello sviluppo si percepisce la semplice successione, che in quanto tale, priva di teleologia, non sembra però “avanzare” di un passo. Ne nasce un universo allo stesso tempo fisso e mobile, un’agitazione nell’assenza totale di evoluzione[37]. Ma proprio nella “freddezza” matematizzante della nuova musica, che intende essere dispersione difensiva dell’angoscia e, secondo la bella espressione di Klein, «interruzione delle emozioni», ritornano (come un «ritorno del rimosso») il caos e il sentimento primordiale di angoscia che lo accompagna. Quando la voce materna si spezza e non protegge più, l’involucro sonoro del Sé, come indicato da Anzieu, torna a riempirsi di rumori e grida terrificanti.
* Fonte: Scienza e Filosofia, n. 13, 2015 (ripresa parziale, senza le note).
NON C’È INCONSCIO SENZA PLAYLIST
Da Oliver Sacks a "Città vuota"di Mina: passando, e perché no, per Brahms e Freud. Così le compilation disegnano il nostro mondo interiore. Parola d’ordine? "Soundscapes"
di V I T T O R I O L I N G I A R D I *
Musicofilia, la raccolta di racconti di Oliver Sacks su musica e cervello, inizia con una storia tratta da un romanzo di fantascienza di Arthur C. Clarke. Dove i Superni, alieni intelligenti ma insensibili alla musica, si dedicano allo studio di noi umani senza comprendere perché dedichiamo tanto tempo ad ascoltare, eseguire, comporre musica. Una cosa così evanescente e, soprattutto, inutile. Se l’astronave fosse atterrata tra i kaluli di Papua Nuova Guinea, forse i Superni avrebbero avuto qualche elemento in più. Infatti, racconta Steven Feld in un sorprendente trattato di etnomusicologia (Suono e sentimento), i kaluli rielaborano con la musica i flussi sonori della natura e le modulazioni del canto degli uccelli. Da lì nasce il sentimento della comunicazione sonora.
Se mindscapes è un neologismo per evocare l’incontro visivo tra psiche e paesaggio - i luoghi che cerchiamo nel mondo per dare sostanza e immagine a qualcosa che è già in noi - potremmo chiamare soundscapes quei paesaggi sonori che danno forma acustica ai nostri stati mentali. Suoni che, mentre li scopriamo nel mondo, ritroviamo in noi stessi. Teorizzati dal compositore canadese Murray Schäfer, i soundscapes compongono il nostro mondo acustico. Che non è necessariamente artistico o musicale, può essere fatto di voci e di silenzio. Un silenzio che possiamo ascoltare.
Anche se esistono (rari) umani che, come i Superni, forse mancano dell’apparato neurale per apprezzare suoni o melodie, su tutti gli altri la musica esercita un potere enorme. Eccita e deprime, accarezza la memoria e la ferisce, irrita e diverte. Non posso ascoltare l’aria del nodo avviluppato dalla Cenerentola senza entusiasmarmi ridendo. Ogni volta che sento Città vuota mi struggo di nostalgia e ammirazione per il capolavoro sonoro e sociale che Mina è stata per il nostro Paese e per la mia adolescenza. E quando sento i preludi di Chopin mi commuovo perché sono entrati nel mio paesaggio sonoro quando ero bambino e mia madre li suonava al piano.
A partire dalla " straordinaria tenacia della memoria musicale", i paesaggi sonori dell’infanzia rimangono, dice Sacks "incisi nel cervello". Non c’è musica senza inconscio e non c’è inconscio senza memoria. William Styron (Un’oscurità trasparente) racconta che fu un brano della Rapsodia per contralto di Brahms a salvarlo dal suicidio: " Questo suono, che, come ogni forma di musica, anzi, di piacere, mi aveva lasciato indifferente per mesi e mesi, trafisse il mio cuore come un pugnale, e mi sommerse all’istante una marea impetuosa di ricordi, tutte le gioie che quella casa aveva conosciuto".
Priva com’è di "significato", la musica non veicola concetti né formula proposizioni, ma lavora in profondità nella neuropsiche. Scrittura che raggiunge gli analfabeti, visione che tocca i non vedenti, innesca l’immaginazione, s’immerge nella memoria, s’infila nella solitudine. Portando con sé il suo paradosso: lo stesso spartito che evoca il dolore produce, al tempo stesso, la consolazione.
Il bisogno di musica che una volta ci spingeva a costruire artigianali compilation su musicassette, oggi ci vede competenti collezionisti di playlist. L’effetto psichico della musica (la fedeltà della sua compagnia; la capacità, esasperata dagli auricolari, di creare un mondo a parte; la tenuta ermetica della bolla sonora con cui ci avvolge e protegge) è potente fino alla dipendenza. Effetti così importanti non possono che guidare le nostre scelte musicali. Che oggi, grazie alla duttilità pervasiva delle fonti sonore, cerchiamo di governare, essendone talvolta governati.
Ci sono musicofili onnivori e melomani sofisticati, dodecafonici autistici e canzonettari enciclopedici. E fragili allergici: "Non posso ascoltare il jazz", mi dice un paziente ossessivo, " è senza contorni, non sai dove va, e per questo mi angoscia". Per Theodor Reik, psicoanalista austriaco e collaboratore di Freud, le "melodie che scorrono nella mente" possono fornire all’analista indizi che conducono ai segreti della vita emotiva: "la musica che accompagna il nostro pensiero cosciente non è mai accidentale".
È questo il segreto di Spotify e dei suoi milioni di utenti? Il tentativo di costruire il proprio soundscape? L’illusione di governarlo, imprimerlo nella memoria per diffusione ambientale? E il segreto del nostro soundscape saprà difendersi dalla ripetizione e dal facile accesso? Dalla finta confidenza di sottofondi sonori gradevolmente imposti? Corriamo il rischio, nonostante lo streaming sia on demand, di scegliere sempre meno e di ricevere, lisciati dalla comodità, ghirlande prêt- à- porter di ricordi musicali. Se l’ombra dei mindscapes sono i non-luoghi, è possibile che sulla storia personale e collettiva dei nostri soundscapes si allunghi l’ombra di non- musiche. Che proprio nei non-luoghi hanno facile diffusione: sale d’aspetto, lounge bar, ristoranti griffati. E se il vinile fosse una riappropriazione del proprio paesaggio sonoro?
Anche quando non suona e si limita ad accompagnarci nel dormiveglia di un ricordo, la musica cura, e talvolta guarisce. Studi scientifici raccontano il lavoro di riparazione neurologica e psichica che la musica promuove nel nostro cervello. I parenti accendono registratori al capezzale di pazienti comatosi per risvegliarli al mondo con le impronte sonore dei ricordi. Future madri appoggiano sorgenti musicali sulle loro pance gravide: ben prima che fiorisca il linguaggio intoneranno cantilene come musiche primordiali dei kaluli.
IL SOGNO DI SHAKESPEARE E IL PROGRAMMA DI FRANCESCO BACONE.
"HANG UP PHILOSOPHY!". Something is rotten in the state of Denmark...
RIVOLUZIONE COPERNICANA. "Hang up philosophy!" e disagio della civiltà: "Romeo. Ancora esiliato? - All forca la filosofia! Se non può farmi una Giulietta, se non può cambiare di posto una città, annullare la sentenza di un principe, la filosofia non giova a nulla, non può nulla; non me ne parlare" (Shakespeare, Tutte le opere, a c.di Mario Praz, Sansoni, Firenze, p.313).
SORGERE DELLA TERRA (EARTHRISE). Probabilmente Shakespeare, ancor prima della realizzazione della Bibbia di Re Giacomo, ha già avviato un programma di rilettura e reinterpretazione antropologico-politico dell’immaginario della teologia e filosofia tradizionale... Ricordare il Sonetto 116.
NUOVO CIELO E NUOVA TERRA. Considerato il legame profondo con la cultura italiana (Giordano Bruno, ecc.), non è da escludere la ripresa in grande stile dell’idea già ’lanciata’ da Dante Alighieri di ripensare a trovare la strada per tornare nell’Eden, nel Paradiso Terrestre: da tener presente che la parola d’ordine del programma di Francesco Bacone è già e sarà proprio quella di lavorare al Grande Restaurazione (alla Instauratio Magna).
DANTE 2021: RISORGERE - RINASCERE. Al di là della vecchia filosofia ("Hang up philosophy!"): Shakespeare è sulla strada di Dante Alighieri e Giordano Bruno, e non della andrologia iper-platonica e dello "spirito di carità" paolino ("Il parto maschio del tempo" - "Temporis Partus Masculus", 1602) del teorico della Nuova Atlantide...
Nota: Sul tema, cfr. la preghiera che è inserita nella prefazione della Instauratio magna (1620).
Federico La Sala
Cosmologia.
Sull’eternità anche la scienza è davanti a un atto di fede
Multiversi e universo circolare sono teorie che non possono essere provate sperimentalmente. Per uscire dall’impasse serve un approccio che faccia propri i metodi della filosofia e della teologia
di Piero Benvenuti (Avvenire, domenica 15 maggio 2022)
Sin dall’emergere della coscienza, l’umanità si è confrontata con l’evidente temporalità della propria vita terrena contrapposta all’esistenza di un cosmo irraggiungibile e apparentemente eterno. La regolare ripetizione dei fenomeni celesti, dai più semplici, come l’alternarsi del giorno e della notte o delle fasi lunari, sino ai più complessi, come il ripetersi ciclico delle eclissi ogni 18 anni o il moto di precessione delle costellazioni che richiesero secoli di accurate osservazioni per essere rivelati, testimoniavano una immutabilità cosmica nel tempo che sta alla base del concetto di eternità. Anche da questo confronto nasce l’aspirazione della coscienza umana a superare il limite imposto dalla morte fisica, immaginando la possibilità di proseguire o quantomeno di conservare la propria esperienza in un’altra dimensione simile, se non addirittura coincidente con l’atemporalità o eternità del cosmo.
Questo desiderio primordiale prese forma concreta nei secoli grazie, da un lato, alla visione aristotelica del cosmo, che separava nettamente il mondo terreno, mutevole e corruttibile, dall’empireo eternamente perfetto delle sfere cristalline e dall’altro alla teologia scolastica che, sposando il modello aristotelico, identificava nel cielo quasi il luogo fisico, il Paradiso, dove godere della vita ultraterrena, della vita eterna, come recita tutt’ora il Credo apostolico.
Le sfere cristalline vennero definitivamente infrante da Galilei nelle notti fatali del dicembre 1609 con le prime osservazioni del cielo con il suo cannocchiale, ma il concetto di eternità celeste rimase vivo, anche se non più sostenuto da una cosmologia comprensibile. Solamente a partire dalla metà del secolo scorso, grazie alle rivoluzionarie teorie della fisica quantistica e della relatività generale e al contemporaneo progresso tecnologico, una nuova cosmologia ha cominciato a prender forma. Sin dall’inizio il nuovo modello interpretativo rivelò la sua caratteristica fondamentale: l’universo è essenzialmente evolutivo, ha una storia che lo ha fatto passare attraverso fasi diversissime tra loro, ma tutte strettamente collegate da un processo unitario che ha prodotto entità e fenomeni di crescente complessità. Negli ultimi decenni, i nuovi sofisticati strumenti osservativi - gli eredi del cannocchiale galileiano - operanti sia da terra che dallo spazio, hanno permesso ai cosmologi di ricostruire la storia cosmica con notevole precisione lungo un periodo di ben 13,8 miliardi di anni.
Tralasciando i dettagli del modello cosmologico e soffermandoci unicamente sulla sua caratteristica essenziale, ovvero la sua evoluzione spazio-temporale, dovremmo ora riprendere l’analisi del concetto di eternità alla luce della nostra nuova interpretazione scientifica della realtà. Prima però di addentrarci nel tema, sono necessarie alcune premesse, tutte conseguenti dalla epistemologia cosmologica.
Innanzitutto dobbiamo chiederci se il metodo scientifico galileiano, che ci ha permesso di ricostruire e descrivere con successo le singole fasi dell’evoluzione cosmica e soprattutto di averne evidenziato l’evoluzione, sia veramente in grado di descrivere il cosmo come fenomeno unico e unitario. La risposta non può che essere negativa: infatti il metodo scientifico poggia sulla possibilità di ripetere l’esperimento che si vuole descrivere, eventualmente modificando le condizioni al contorno in modo da far emergere quelle regolarità che vanno sotto il nome generico di leggi fisiche. Nel caso dell’universo, tale essenziale procedimento è impossibile per l’unicità del fenomeno cosmico. Inoltre, non solo non possiamo modificare le condizioni di partenza, ma non siamo nemmeno in grado di quantificarle, il che impedisce di distinguere tra condizioni iniziali e leggi fisiche preesistenti.
Da decenni ormai i cosmologi stanno indagando la possibilità di unificare le due grandi teorie fisiche del ventesimo secolo, la fisica quantistica e la relatività generale, ma sorge sempre più prepotentemente il dubbio che l’esistenza di leggi universali - la gravità e le interazioni fondamentali - e la loro validità in ogni epoca dell’evoluzione, sia un’illazione indebita. In altre parole, anche le cosiddette leggi universali, dedotte nel presente, potrebbero essere emerse in epoche primordiali come prodotto dell’evoluzione stessa. In definitiva, un motivo in più per ammettere, con umiltà galileiana, che il metodo scientifico da solo non è adatto a descrivere la totalità cosmica e soprattutto le sue fasi iniziali.
Di fronte a questa crisi epistemologica, la cosmologia ha reagito proponendo modelli che cercano di aggirare il problema delle condizioni iniziali e dell’inizio stesso. Il nostro universo sarebbe uno dei tanti o infiniti possibili "multiversi", ognuno dei quali potrebbe aver avuto condizioni iniziali diverse e seguire quindi storie evolutive indipendenti. Oppure l’universo potrebbe avere una storia ciclica, senza un vero e proprio inizio. Teorie affascinanti e scientificamente plausibili, ma intrinsecamente non verificabili in quanto gli eventuali universi paralleli non potranno mai comunicare tra loro, così come un universo ciclico non può inviarci messaggi circa la sua precedente esistenza. Queste proposte di uscita dall’impasse cosmologico non sono scientificamente verificabili e appartengono quindi alla più ampia categoria delle teorie filosofiche e teologiche. Conseguentemente richiedono, per essere accettate, un atto di fede: torneremo a breve su questo punto.
Possiamo ora trarre una prima conclusione sul concetto di eternità: banalmente potremmo associarlo alla evoluzione cosmica che non prevede un termine temporale. Tale accostamento è però di scarso o nullo interesse, visto che l’evoluzione locale del nostro sistema solare ne prevede comunque una fine fisica, unitamente all’umanità tutta: una fine molto lontana nel tempo, quando il Sole diventerà una stella gigante e ingloberà tutti i pianeti, ma pur sempre inevitabile.
Questo concetto di durata eterna del cosmo, applicabile anche ai multiversi e all’universo ciclico, non si pone quindi in alcuna relazione con la nostra coscienza e con l’escatologia, ovvero la speranza di una sua sopravvivenza alla morte. La discussione diviene più interessante se superiamo il concetto di cosmologia scientifica, che si occupa unicamente della realtà fisica e misurabile del cosmo, e, consapevoli che l’evoluzione cosmica è unitaria e comprende nella sua storia anche l’emergere della vita biologica e della coscienza, abbracciamo il concetto di una cosmologia globale. Quest’ultima dovrà necessariamente tener conto dei risultati che il metodo scientifico ha evidenziato relativamente alle singole fasi evolutive, ma, ove questo perda, come abbiamo visto, la sua applicabilità, si avvarrà di altre epistemologie, tipicamente filosofiche o teologiche.
Il risultato non sarà quindi una singola cosmologia, ma diversi modelli cosmologici tutti aventi pari dignità veritativa. La scelta di uno di questi non sarà più obbligata da evidenze scientifiche, ma si baserà su un libero atto di fede. Potrò per esempio credere che il cosmo e la sua evoluzione, ivi compresa l’emergere della vita e della coscienza sia frutto del caso (mi trovo per caso nell’unico universo, tra gli infiniti possibili, compatibile con la vita). In questo modello, come abbiamo visto, eternità ed escatologia si trovano su piani incomunicabili. Alternativamente e, sottolineo, con uguale dignità, posso scegliere un modello nel quale il cosmo e la sua evoluzione siano frutto di un libero atto d’amore che mantiene tutta la realtà in esistenza, nell’attesa paziente che da essa emerga una coscienza che, altrettanto liberamente, voglia riconoscere tale atto d’amore e lo ricambi nei confronti del prossimo e di tutto il cosmo. La relazione che si crea in questo mutuo scambio, come conosce bene chi l’ha sperimentata con persone amate che non sono più, resiste agli insulti del tempo ed è per sempre. L’eternità comincia da qui.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MATEMATICA E ANTROPOLOGIA, ALTRO CHE MISTERO. GALILEO GALILEI E’ GALILEO GALILEI ... E LA TRASCENDENZA CRISTIANA NON E’ LA TRASCENDENZA "DELL’ENTE ...CATTOLICO-ROMANO", DEL VATICANO!!! Cerchiamo di "non dare i numeri": il "Logos" non è un "Logo", e la "Charitas" non è la "caritas"!!!
Federico La Sala
Stop al cognome del padre ai figli: cosa cambia in Italia
La Consulta ha stabilito che le norme che regolano l’attribuzione del cognome in Italia sono illegittime e in contrasto con la Costituzione *
In Italia cambiano le leggi che riguardano l’attribuzione del cognome al figlio, con una storica sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittime le norme che regolano questo processo nell’ordinamento del nostro Paese. Nello specifico la Consulta si è pronunciata sulla legge che non consente di attribuire a un figlio il solo cognome della madre e su quella che, in mancanza di un accordo tra i genitori, impone il solo nome del padre, anziché quello di entrambi i genitori.
Perché la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittime le norme sul cognome
La sentenza è arrivata dopo una lunga battaglia legale intrapresa da una giovane coppia lucana per i nomi dei tre figli. I primi due erano stati registrati col cognome della madre e il terzo era stato registrato automaticamente con il cognome del padre perché nato dopo il matrimonio dei genitori.
La famiglia avrebbe voluto registrare con il cognome della madre anche il terzo figlio, per rendere uguali tutti i fratelli, ma gli uffici comunali si erano opposti. I magistrati in primo grado avevano dato ragione al Comune, ma la Corte d’Appello di Potenza ha dichiarato “rilevante e non manifestamente infondata” la questione di legittimità costituzionale delle norme in materia, sollevata dai legali della coppia.
I due avvocati, Domenico Pittella e Giampaolo Brienza, hanno espresso, nei confronti della decisione della Consulta “grande soddisfazione”. Il primo ha raccontato che “la coppia che ha intrapreso questo complesso e faticoso iter giudiziario mi ha chiamato poco fa. I due coniugi sono commossi e consapevoli di avere scritto una pagina storica, loro ci hanno sempre creduto”
Come funziona l’attribuzione del cognome in Italia e come è cambiata negli anni
In Italia, come è noto, il cognome viene assegnato al momento della dichiarazione di nascita per l’iscrizione del nuovo nato nel registro dell’anagrafe. Per prassi avviene in questo modo.
Non esiste una legge specifica in maniera, ma una serie di disposizioni regolatrici di fattispecie diverse, come chiarito dalla Corte Costituzionale nel 2006. Nel 2014 la Corte di Strasburgo aveva condannato l’Italia per la violazione della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo, e nel periodo successivo si era discusso ampiamente nel nostro Paese su come cambiare la legge.
L’Europa ha infatti sottolineato che l’impossibilità di dare il cognome della madre al figlio e l’attribuzione automatica di quello del padre discrimina le donne. Era stata formulata anche una proposta di legge per il doppio cognome ai figli, fermata alla Camera dei Deputati, come vi avevamo raccontato qui.
La Consulta si era espressa contro lo status quo nel 2016 dichiarando l’illegittimità costituzionale della norma che prevede l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo, in presenza di una diversa volontà dei genitori. Dopo quella sentenza è diventato possibile trasmettere anche il cognome della madre, ma solo posponendolo a quello paterno, come già visto.
Secondo quali articoli della Costituzione le norme sul cognome sono illegittime
La nuova sentenza non è ancora stata depositata, ma l’Ufficio comunicazione e stampa della Corte Costituzionale ha fatto sapere che le norme censurate sono state dichiarate illegittime per contrasto con l’articolo 2, l’articolo 3 e l’articolo 117, primo comma, della Costituzione. Quest’ultimo in relazione all’articolo 8 e all’articolo 14 della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo.
Cosa cambia adesso in Italia per l’attribuzione del cognome ai figli: le nuove regole
La Consulta ritiene discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio la regola che attribuisce automaticamente il cognome del padre al figlio. Per il principio di eguaglianza e per l’interesse del bambino, i giudici della Corte Costituzionale hanno stabilito che entrambi i genitori devono poter condividere la scelta sul suo cognome, in quanto elemento fondamentale dell’identità personale.
Dunque la nuova regola permette al figlio di assumere il cognome di entrambi i genitori nell’ordine concordato dai genitori, salvo che questi decidano di attribuirgli soltanto il cognome di uno dei due. Senza un accordo della coppia, spetterà al giudice intervenire, in conformità con quanto dispone l’ordinamento giuridico.
La Corte Costituzionale ha dunque dichiarato illegittime tutte le norme che prevedono l’attribuzione automatica del cognome del padre al bambino, sia per i figli nati fuori dal matrimonio sia per i figli nati nel matrimonio e per i figli adottivi. La sentenza sarà depositata nelle prossime settimane, e spetterà a quel punto al legislatore formulare nuove norme per adattare il sistema a quanto deciso dai giudici.
* Fonte: Qui Finanza, 27 aprile 2022 (ripresa parziale).
GIORNATA DELLA TERRA (22 aprile 2022): SORGERE DELLA TERRA, ANTROPOLOGIA ("ECCE HOMO"), E CONCORDIA.
In memoria del "discorso sulla dignità dell’uomo" (1486) di Giovanni Pico della Mirandola...
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E FILOLOGIA. "Tutti dobbiamo contribuire a fermare la distruzione della nostra casa comune e ripristinare gli spazi naturali: governi, aziende e cittadini dobbiamo agire come fratelli e sorelle che condividono la Terra, la casa comune che Dio ci ha affidato" (Papa Francesco).
IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS. Memoria di Anselmo d’Aosta (21 aprile): riprendere il lavoro sul "Cur Deus Homo" e portarlo oltre l’orizzonte della Dotta Ignoranza (1440) e della Scuola di Atene: meglio seguire l’indicazione di Michelangelo già presente nel Tondo Doni e ripensare il cammino delle Sibille e dei Profeti.
USCIRE DALLA TERRA (CAVERNA)... E, FINALMENTE, VEDERE DALLO SPAZIO, DALLA LUNA, IL SORGERE DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE DELLA CASA COMUNE DELL’INTERO GENERE UMANO: L’ALBA DELLA MERAVIGLIA.... E LA FINE DELLA CLAUSTROFILIA!
Federico La Sala
Dialoghi con la Chimera /1:
MARIA TERESA CARBONE, MADRE/FIGLIO.
A cura di Laura Pugno (Le parole e le cose, 1 Marzo 2022)
Per la verità non so se c’è una storia da raccontare. O forse ce ne sono così tante che non riesco a vederle, smarrita come sono in una foresta di possibilità, anzi in un territorio selvaggio, per citare il titolo del tuo libro sulla poesia come “terzo paesaggio”. Non meno selvaggio, questo territorio - anzi di più - perché è il mio. E allora forse posso cominciare a risponderti con una poesia che ho scritto qualche mese fa:
Che mentre penso
alle persiane rotte e a te che parti
e che penso che sono
me fino in fondo
un’altra me a me inattingibile
mi spinge verso il bagno
che è questa me che regna
sui miei bisogni
sulla vita nuda
che la me a me nota
riveste di pensieri e di intenzioni
Come vedi, qui non c’è la maternità, ma lo spaesamento di fronte a quanto di noi non conosciamo. In fondo, a dispetto delle nostre convinzioni, sappiamo pochissimo di quello che siamo, microscopici puntolini in un universo sconfinato.
E allora, non parto da me, ma dalla parola chimera che deriva dal greco (χίμαιρα) dove inizialmente significava “capra”, anche se molto presto la gentile capretta delle fiabe si è mutata in mostro, testa di leone e coda di drago, “sbuffante terribile fuoco ardente”, come dice Omero. Già in origine, un elemento familiare pronto a trasformarsi e ad atterrirci.
Ti porto due esempi molto contemporanei. Il primo l’ho trovato per caso, cercando l’etimologia del termine “chimera”: nel sito Una parola al giorno, in data 15 febbraio 2012, giusto dieci anni fa, l’anonimo redattore per definire appunto una chimera evocava “la terrifica pandemia annunciata di una qualche influenza animale con zerovirgola casi accertati” - il che, letto oggi, fa una certa impressione. Il secondo è cronaca dei nostri giorni, il recente trapianto del cuore di un maiale in un corpo umano, un intervento che ha prevedibilmente e giustamente aperto un interrogativo cui è difficile rispondere: alleveremo suini (animali cui viene riconosciuta notevole intelligenza, qualsiasi cosa si intenda per “intelligenza”) pur di garantire la sopravvivenza di esseri appartenenti alla nostra specie?
Vedi, il punto per me è che noi stessi - intendo noi umani, ma vale per gli altri animali e le piante e tutto ciò che è vivo - siamo chimere da sempre, frutti di una quantità di incroci avvenuti in ogni fase della nostra storia, ben prima che fossimo o pretendessimo di essere in grado di padroneggiare queste ibridazioni. E torno alla tua domanda, premettendo che le mie conoscenze scientifiche sono limitatissime e quando parlo della “combinazione madre figlio”, come dici tu, mi baso più su sensazioni e sentimenti che su dati certi.
Chiarisco però che lo spunto che aveva dato origine al nostro dialogo, e quindi a questa conversazione, era un’altra scoperta relativamente recente: la presenza di dna maschile nel corpo, e specificamente nel cervello, di donne anche in età molto avanzata che avevano avuto figli maschi - questo è appunto il microchimerismo, e aggiungo per completezza che se ne sono registrati esempi anche in donne che non hanno partorito e che hanno probabilmente acquisito queste cellule allo stato fetale, da gemelli poi riassorbiti dentro di loro. (Spero, se ci saranno studiosi di queste materie fra i lettori di quanto scrivo, che perdoneranno il mio pressapochismo).
Della maternità ho diretta esperienza, e inoltre - come sai - è un argomento che sto studiando nella speranza di affrontarlo in modo non “ideologico” (sarà possibile?), ma forse proprio per questo la osservo con la meraviglia che si prova davanti a un mistero, e quindi senza sorprendermi all’idea che delle cellule dei miei figli - due maschi e una femmina - siano incistate dentro di me a più di trent’anni dalla loro nascita. Perché dovrei stupirmi? Se pure in me c’è qualcosa di “non mio”, cioè di non mio alla nascita, questo “non mio” io non lo conosco, né posso o voglio distinguerlo dal “mio” (“mio” geneticamente e “mio” acquisito dal momento in cui esisto) che, ripeto quello che ho detto all’inizio, mi è altrettanto opaco. Tutt’al più posso rallegrarmi al pensiero che nella continua costruzione di quella persona che io chiamo io, non si ritrovino solo tracce dei miei bisnonni o dei cinodonti del Permiano ma anche particelle del futuro, nella forma del dna dei miei figli, maschi o femmine che siano.
Per quanto ci sforziamo di analizzarci (e ricordiamo, a proposito di etimologie, che “analisi” vuol dire “scomposizione”), sono convinta che il tutto, un tutto in continuo divenire, prevale sulle parti, e questo tutto ci sfugge: ci sono sempre zone in ombra, che non vogliamo vedere, che non sappiamo vedere. Una ignoranza, almeno per me, stupenda e salvifica, perché da un lato ci spinge a conoscere di più, a capire meglio, dall’altro ci nasconde quanto siamo piccoli, irrilevanti, caduchi nella nostra individualità, e dunque ci permette di andare avanti, di vivere.
Sarà un caso allora (e torno a parlare non troppo obliquamente di maternità) che oggi che siamo o ci illudiamo di essere meno ignoranti, il tasso di natalità stia calando - in certi casi crollando - ovunque? Certo, le ragioni sono diverse, e alcune sono molto semplici, concrete, in primo luogo politiche sociali insufficienti, che lasciano i giovani genitori quasi soli a destreggiarsi fra lavori molto spesso precari, e per questo ancora più impegnativi, e la necessaria attenzione alla crescita dei loro figli. Ma mi pare che ci sia una tela di fondo, che il nostro (credere di) sapere di più, mettendoci di fronte ai nostri limiti, ci terrorizzi.
Appartenendo alla generazione di donne che ha affermato “l’utero è mio e lo gestisco io”, oggi mi trovo a ripensare a quella frase, che pure continuo a condividere, da un’altra prospettiva: fino a che punto ognuno e ognuna di noi può dire di possedere il proprio corpo, se smettiamo di vederci come individui e ci pensiamo come appartenenti a una specie?
Oggi si parla tanto delle responsabilità che abbiamo verso chi verrà dopo di noi ed è giusto, giustissimo, ma ho la sensazione che questa responsabilità ci sia troppo gravosa, proprio quando, e forse non è una coincidenza, possiamo (illuderci di) scegliere se/come/quando avere figli.
Ora che i bambini non li portano più le cicogne, non si trovano più sotto i cavoli, che spavento! Tocca a noi decidere e pensa un po’, in un mondo che va malissimo (non che prima andasse alla grande, ma ci facevamo meno illusioni).
Forse la chimera, e quindi la storia, è questa: fino a quando gli umani (parlo soprattutto da donna) saranno disposti ad accogliere quell’assoluto inatteso che è un figlio, una figlia, ibridi come noi eppure già diversi e lontani, come noi proiettati verso una fine che non conosciamo?
Unisco queste due domande, perché davanti alle parole totem e daimon confesso che dovrei costruirmi alla svelta strumenti di cui non dispongo. Ne conosco superficialmente il significato, ma non le uso, non mi appartengono. Ho avuto invece un’educazione cattolica più approfondita di quanto capitasse, anche quando ero bambina, alle mie coetanee e ai miei coetanei. E anche se dalla religione mi sono discostata tanti anni fa, è ancora quella educazione a determinare in larga parte il mio vocabolario, il mio modo di pensare. Per questo, se rifletto sul tempo (mi pare questo, in sostanza, il senso delle tue domande), non posso non fare riferimento a una frase che, da quando l’ho sentita la prima volta, avrò avuto sette o otto anni, continua a risuonare in me: “Prima che Abramo fosse, io sono” (Giovanni, 8:51-59): l’indicativo presente come rappresentazione dell’eterno dove, come su un unico piano, si trova tutto quello che (nella nostra percezione) è stato e sarà.
Se, come ha detto Werner Herzog in Cave of forgotten dreams, a un certo punto della nostra storia “noi umani siamo diventati prigionieri del tempo” (un’altra frase a cui non so rinunciare), vorrei pensare che di tanto in tanto possiamo liberarci da questa schiavitù e riusciamo ad avere accesso a quell’altra dimensione, magari senza rendercene conto, mentre ci abbandoniamo al sonno, mentre sogniamo. Chimere, forse.
SCHEDA EDITORIALE, CON UN BREVE ALCUNE PAGINE DAL LIBRO DI
DEREK BICKERTON,
QUELLO DI CUI LA NATURA NON HA BISOGNO *
QUELLO DI CUI LA NATURA NON HA BISOGNO
IL PROBLEMA DI WALLACE
La struttura di questo libro è semplice. In questo capitolo enuncio un problema e delineo quella che ritengo sia la sua soluzione. Il resto del libro si compone di argomenti ed evidenze a supporto di questa soluzione. Sebbene sia abbastanza facile da enunciare, il problema ha parecchie ramificazioni che ci porteranno a esplorare i territori di molte discipline quali la biologia evolutiva, la paleoantropologia, la psicologia, la neurobiologia e la linguistica. State pur certi che, alla fine, tutto ci ricondurrà alla stessa domanda iniziale, una delle più cruciali che si possano porre: in che modo la specie umana ha acquisito una mente che sembra di gran lunga più po- tente di quanto agli esseri umani serva effettivamente per sopravvivere?
Visto che ormai si usa dare ai problemi il nome di chi per primo li ha sollevati (c’è il problema di Platone, quello di Darwin, quello di Orwell, ecc.), chiameremo il nostro il problema di Wallace, poiché il primo a formularlo in maniera chiara e univoca fu Alfred Russel Wallace, cofondatore insieme a Darwin della teoria dell’evoluzione per selezione naturale. Per dirla con le sue stesse parole: «La selezione naturale avrebbe potuto dotare i selvaggi di un cervello di poco superiore a quello di una scimmia, mentre essi possiedono un cervello che è di poco inferiore a quello di un membro medio delle nostre società scolarizzate» (Wallace 1869, pp. 391-92). Con «selvaggio», l’espressione usata in generale a quel tempo, Wallace intendeva semplicemente qualcuno che aveva avuto quella che molti, oggi, considererebbero l’enorme fortuna di essere nato in una società senza scrittura e pre-industriale. La sua considerazione della capacità intellettuale dei « selvaggi » era abbastanza illuminata per l’epoca - ci sarebbero voluti decenni prima che qualcuno avesse l’onestà di sostituire quel « di poco inferiore » con «eguale». Eppure, riconoscere l’universalità dell’intelligenza umana ha portato a Wallace soltanto problemi e inquietudine.
Se l’evoluzione fosse un processo graduale e la selezione naturale rispondesse solamente alle esigenze imposte agli animali dall’ambiente che abitano, allora gli esseri umani dovrebbero avere un cervello « di poco superiore a quello di una scimmia ». Un cervello leggermente migliore di quello di una scimmia sarebbe comunque bastato per superare in intelligenza qualsiasi altra cosa si muovesse su due o quattro zampe e raggiungere così la cima della catena alimentare. I primi umani non avevano bisogno di occuparsi di matematica, di costruire barche, di comporre musica o di avere idee circa la natura dell’universo per poter fare tutte le cose che in concreto facevano. Il fatto che, all’improvviso, scoprissero di essere dotati di un cervello che potenzialmente avrebbe potuto renderli capaci di tutte queste cose era già abbastanza notevole. Ma ancor più straordinario era che quegli stessi cervelli avrebbero reso capaci coloro che li possedevano di ricoprire il mondo intero delle proprie opere, di immergersi negli abissi più profondi degli oceani e addirittura (meno di mezzo secolo dopo la morte di Wallace) di lasciarsi alle spalle la Terra.
Wallace non riusciva a credere che la selezione naturale avesse potuto fare tutto ciò: una qualche forza sovrannaturale doveva essere intervenuta per creare in maniera improvvisa e inattesa l’immenso divario che sussiste tra le capacità mentali umane e quelle di ogni altra specie. Tale divario sembrava davvero qualcosa di eccezionale perché nulla di simile esisteva altrove in natura. Ciò che si dava negli altri casi era precisamente quello che la teoria della selezione naturale avrebbe predetto: qualche isola di adattamento altamente compito-specifico, sullo sfondo di una altrimenti graduale distribuzione delle capacità cognitive attraverso l’intero range delle specie.
Molti di coloro che hanno scritto di storia della teoria evoluzionista hanno attribuito le teorie di Wallace sull’evoluzione umana alla sua conversione allo spiritualismo - un buon modo per far scomparire del tutto il suo problema. Ma, a prescindere dalle convinzioni dello stesso Wallace, il problema che egli ha sollevato rimane. La mente umana è uno sviluppo evolutivo del tutto improbabile, da qualsiasi punto la si guardi; e dovremmo rendere onore all’onestà che Wallace mostrò nel-l’affrontare questo problema, indipendentemente dalle nostre inclinazioni personali nei confronti della soluzione che egli proponeva.
Sebbene Wallace sia stato il primo a dare una chiara articolazione al problema, quasi certamente altre menti illustri di epoche precedenti ne furono in qualche modo consapevoli.
Quando Shakespeare scrisse i versi riportati in esergo all’inizio di questo libro, presumibilmente non intendeva esprimere altro che la rabbia di Lear nei confronti della figlia che aveva ridotto il numero dei suoi servitori. Ma con Shakespeare c’è sempre un livello ulteriore di significato nascosto tra le righe (una delle ragioni per cui è il più grande tra gli scrittori). E in queste righe si cela la sua consapevolezza che anche «i più umili » tra gli uomini possedessero molto di più di quanto non servisse per meri scopi di sussistenza materiale e che, paragonate alle nostre, le vite delle «bestie» sono di gran lunga più limitate. Come questo sia potuto accadere senza l’intervento di una qualche misteriosa forza esterna all’evoluzione è il tema di questo libro.
LA RISPOSTA DI DARWIN
Senz’altro Darwin si rese conto del problema: «Non può esservi dubbio che la differenza tra la mente dell’uomo inferiore e quella dell’animale superiore sia immensa » (Darwin 1871, p. 100 [trad. it. p. 106]). Egli mostrava la stessa considerazione di Wallace nei confronti dei « selvaggi », notando « quanto strettamente ci assomigliassero nelle loro disposizioni e in molte delle nostre facoltà mentali » (p. 34 [trad. it. p. 63]) i tre fuegini che si trovavano a bordo del Beagle. Tuttavia, allo stesso tempo, aveva ingegnosamente disarmato l’argomento del divario tra scimmia ed essere umano sostenendo che « vi è una differenza molto maggiore di capacità mentale tra uno dei pesci inferiori ... e una delle scimmie superiori, che tra questa e un uomo» (loc. cit.). Se c’era una gradazione in un caso, allora, nonostante le apparenze, doveva esserci anche nell’altro, e infatti « si può dimostrare che non c’è differenza fondamentale tra l’uomo e i mammiferi superiori » (loc. cit. [p. 64]).
Questo però è un mero gioco di prestigio. La gradazione d’intelletto tra una lampreda e uno scimpanzé non è un argomento contro il divario ma a favore di esso. Se vi sono innumerevoli specie dotate di capacità a metà strada tra quelle di una lampreda e quelle di uno scimpanzé, dovrebbero esserci anche molte specie intermedie tra esseri umani e scimpanzé. Come mai, allora, non ci sono animali dotati di una piccola o moderata quantità di autocoscienza, né c’è un aumento graduale della capacità di innovazione o della creatività, né ci sono livelli diversi di produzioni artistiche (anche solo in una singola arte o in due), o per lo meno un linguaggio rudimentale? Il mero asserire che non vi è nessuna «differenza fondamentale» non è (e non avrebbe potuto essere, neppure al tempo di Darwin) un pronunciamento scientifico. Era ed è una pura e semplice dichiarazione di fede.
Darwin aveva cercato un fondamento empirico per questa sua dichiarazione avvalendosi degli stessi metodi che aveva usato per supportare le proprie tesi nell’Origine delle specie: accumulando un’ampia scorta di resoconti a carattere aneddotico circa il comportamento degli altri animali. Ma quello che funziona quando ci sono delle evidenze oggettive nella conformazione fisica delle varie specie funziona molto meno quando si tratta di capacità mentali. Dal momento che non vi sono dati oggettivi e non ambigui a supporto di questi aneddoti, ci si deve affidare ciecamente alle interpretazioni soggettive, le quali, come è noto, sono incerte e inaffidabili. La tendenza tipica degli esseri umani ad antropomorfizzare marchia troppe di quelle evidenze.
Eppure, anche in questo caso, Darwin, pensatore sempre cauto, trova un modo per salvaguardarsi. Egli continua a professare la propria fede nel fatto che « la differenza mentale tra l’uomo e gli animali superiori, per quanto sia grande, è certamente di grado e non di genere». Ma gli esempi che porta in quello stesso paragrafo fanno tutti riferimento alle emozioni più che ai processi cognitivi. Si sente costretto a suggerire subito un piano alternativo: « Se si potesse provare che alcuni elevati poteri mentali, come la formazione di concetti generali, l’autocoscienza, ecc. sono assolutamente peculiari all’uomo, il che sembra estremamente dubbio, non sarebbe improbabile che queste qualità apparissero come il risultato incidentale di altre facoltà intellettuali altamente avanzate e queste ancora principalmente il risultato dell’uso continuo di un linguaggio perfetto» (p. 101 [trad. it. p. 106]).
Si trattava di un’intuizione brillante, ma al tempo di Darwin non poteva essere molto più di una cambiale. [...]"
*
Fonte: Adelphi. (ripresa parziale).
PSICOANALISI ANTROPOLOGIA FILOSOFIA E FIABA. TRACCIA PER UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA... *
L’Enfant et les sortilèges: un saggio psicoanalitico in musica
Opera in due parti di Maurice Ravel su libretto di Colette
di Franca Munari (Centro Veneto di Psicoanalisi)
L’Enfant et les sortilèges è un’opera composta da Maurice Ravel fra il 1919 ed il 1925, su libretto di Colette. Si tratta della seconda ed ultima opera lirica di Ravel. Capolavoro di orchestrazione, L’Enfant et les sortilèges viene spesso eseguita in forma di concerto anche per le difficoltà della sua messa in scena. Fu rappresentata per la prima volta il 21 marzo 1925 nella Salle Garnier del Grand Théâtre di Montecarlo, orchestra diretta da Victor de Sabata, coreografia di George Balanchine, regia di Raoul Gunsbourg.
E’ composta da una successione di quadri indipendenti costituiti da una moltitudine di generi musicali, dal jazz al foxtrot passando per il ragtime, la polka, il valzer ed infine un coro di musica sacra. Con quest’opera Ravel ebbe modo di dimostrare le sue capacità di compositore e di orchestratore, che gli consentirono di tradurre in suoni tutte le onomatopee contenute nel libretto di Colette, utilizzando spesso come strumenti oggetti inconsueti come la grattugia per il formaggio, la raganella a manovella, la frusta, i crotali, un ceppo di legno, o strumenti desueti come eoliofoni, flauto a coulisse ed il nuovissimo, per l’epoca, e originale luthéal. Più vicino alle attuali commedie musicali che ad un’opera, L’Enfant et les sortilèges è un lavoro senza precedenti nel repertorio di Ravel: esprime la sensibilità del compositore e nello stesso tempo rivela il suo gusto per l’incantesimo e la minuziosità della sua orchestrazione.
Straordinaria l’animazione - e raramente questa parola fu più appropriata - degli oggetti concreti di Colette e la loro trasposizione in musica di Ravel. Walt Disney con le sue Silly Simphony (1929-1939) e poi con Fantasia (1940) era ancora di là da venire.
Il libretto.
C’è un bambino nella sua stanza
Il Fanciullo, sei o sette anni, siede al tavolino
Non ho voglia di fare i compiti
Ho voglia di andare a passeggiare.
Ho voglia di mangiare tutti i dolci.
Ho voglia di tirare la coda al gatto.
E di tagliare quella dello scoiattolo
Ho voglia di sgridare tutti!
Ho voglia di mettere la mamma in castigo.
Nella descrizione della madre che entra nella stanza, madre di cui si vede solo la parte inferiore del corpo le indicazioni di scena dicono:
“S’apre la porta. Entra la Madre, o piuttosto quello che ne permettono di vedere il soffitto molto basso e le proporzioni della scena, ove tutti gli oggetti sono di dimensioni esagerate per mettere in evidenza la piccolezza del Fanciullo: cioè una giubba, la parte inferiore d’un grembiule di seta, la catenella d’acciaio da cui pende un paio di forbici, e una mano. Questa mano s’alza, interroga con l’indice.”
La madre sgrida e punisce il bambino che non ha fatto i compiti e ha sporcato di inchiostro il tappeto, dandogli solo tè senza zuchero e pane secco per merenda.
Quando la madre se ne va il bambino “Con un manrovescio fa saltare la teiera e la tazza, che vanno in pezzi. S’arrampica sulla finestra, apre la gabbia dello Scoiattolo e con la sua penna di ferro punge la bestiola che, ferita, stride e scappa via; poi tira la coda al Gatto, che soffia e si nasconde sotto una poltrona. Impugna l’attizzatoio come una spada, sparpaglia il fuoco, rovescia il bricco. S’avventa contro le figurine della tappezzeria lacerandole. Apre la cassa dell’orologio e si aggrappa al bilanciere d’ottone, che si stacca e gli resta fra le mani. Poi fa a pezzi quaderni e libri.”
Gli oggetti maltrattati gli si rivoltano contro.
IL FUOCO
Saltellando fuori del camino, sottile, scintillante di pagliuzze d’oro:
Indietro!
Io riscaldo i bravi bambini, ma brucio i cattivi!
Piccolo barbaro impudente,
tu hai insultato tutti gli Dei protettori,
che stanno fra l’infelicità e la tua
fragile barriera.
Ah! Tu hai brandito l’attizzatoio,
rovesciato il bollitore,
sparpagliato i fiammiferi, attenzione!
Attenzione al Fuoco che danza!
Tu fonderai come un fiocco
sulla sua lingua scarlatta!
Ah! Attenzione! Io riscaldo i bambini buoni!
Attenzione! Brucio quelli cattivi!
Attenzione! Attenzione! Attento a te!
IL FANCIULLO
Ho paura, ho paura!
A questo punto compaiono la gatta e il gatto di casa che la corteggia.
Approcci, ripulse, schermaglie
IL GATTO E LA GATTA
nhou! Mòrnàou, nàour, moàou!
Monhin! Méràhon!
In realtà i gatti hanno un vero e proprio amplesso, la musica lo descrive chiaramente, e nella realizzazione scenica il bambino li guarda attonito e anche spaventato.
Uscito in giardino il bambino viene rimproverato dalle bestie per aver separato le coppie della libellula e del pipistrello, e perché i piccoli del pipistrello sono rimasti senza madre.
IL FANCIULLO
Senza madre!...
[Guardando il gatto e la gatta che si fanno le coccole e le altre coppie di animali]
Si amano. Sono felici. Non si curano di me...
Si amano... non si curano di me... io sono solo...
Mamma!...
LE BESTIE
Ah! c’è il Bambino col coltello!
C’è il Bambino con il bastone!
Il bambino cattivo della gabbia!
Il bambino cattivo della reticella!
Quello che non ama nessuno
e che nessuno ama.
Dobbiamo fuggire?
No! Bisogna castigarlo.
Io ho i miei artigli!
Io ho i miei denti!
Io le mie ali dotate di unghie!
Uniamoci, uniamoci! Ah!
Gli oggetti attaccati diventano persecutóri
Si fanno tutte addosso al Fanciullo per ferirlo; nella lotta si feriscono anche fra loro. Il Fanciullo cade a terra malconcio. Quasi nello stesso tempo un piccolo scoiattolo, ferito nella mischia, gli cade accanto con un grido acuto. Il Fanciullo si toglie un nastro dal collo e fascia la zampa ferita dello Scoiattolo, poi ricade senza forze. Silenzio e stupore delle bestie
LE BESTIE
(esitando, in sordina)
ma...mma
LE BESTIE
È buono, il bambino, è bravo, molto bravo, è
così bravo e così buono.
Ha medicato la ferita, tamponato il sangue.
È bravo, così bravo, così dolce.
È buono il bambino, è bravo, molto bravo.
È così dolce
IL FANCIULLO
(tendendo le braccia)
Mamma!
(Una luce si accende dietro i vetri nella casa. Nello stesso tempo la luna, non velata da nubi, e i riflessi rossi e d’oro del sole tramontato, inondano il giardino di limpida chiarezza. Canto di usignoli, mormorio di alberi e di bestie. Le bestie, ad una ad una, ritirano al Bambino il loro aiuto diventato inutile, sciolgono armoniosamente, con rimpianto, il loro gruppo che si era stretto attorno a lui, ma continuano a scortarlo, anche se da un po’ più lontano: gli fanno festa con lo sbatter delle ali, con capriole di gioia, e poi, fermando all’ombra degli alberi il loro benevolo corteo, lasciano il Bambino solo. In piedi, luminoso e biondo, in un alone di luna e di aurora, tende le sue braccia verso ciò che le bestie hanno chiamato «Mamma!»)
La dichiarazione del bambino relativa alla sua sofferenza per l’esclusione edipica: “Si amano. Sono felici. Non si curano di me...” sembra far infuriare tutti gli animali che ha attaccato, fino a quando lui non fascia con la sua sciarpa la zampa dello scoiattolo che nel parapiglia si è ferito. Le bestie si arrestano vedendo che lo ha fatto e lo aiutano cercando di riportarlo a casa dove potranno aiutarlo.
Questa “favola” e il lavoro di Melanie Klein su di essa, Situazioni d’angoscia infantile espresse in un’opera musicale e nel racconto di un impeto creativo mi tornano sempre alla mente quando lavorando mi accade di assistere ad una situazione o una fase di distruttività rabbiosa, e in qualche modo disperata, di un paziente, adulto o bambino.
Melanie Klein non vide questa rappresentazione, ma lesse la recensione della sua messa in scena berlinese, dove portava il titolo di La parola magica, fatta da Eduard Jakob sul Berliner Tageblatt dal quale prese il contenuto dell’opera e presentò questo lavoro, alla Società britannica di psicoanalisi il 15 maggio 1929. (Munari 2021)
La cosa straordinaria è la costanza nella clinica del ritrovamento e della ripetizione della costellazione di questi temi a contenuto distruttivo, ovviamente diversamente declinati e diversamente rappresentati in scene a seconda del soggetto, seguiti da elementi intensamente persecutori, fino, attraverso il lavoro analitico, a una riparazione finalmente possibile. Proprio come in questa favola, in cui Colette si fa letteralmente “psicoanalista di bambini”, così la definisce Julia Kristeva nel volume a lei consacrato, di Il genio femminile (2002).
Bibliografia
Colette (19) L’enfant et les sortilèges. Trad. it. del libretto. L’orchestra virtuale del Flaminio. flaminioonline.it
Klein M. (1929) Situazioni d’angoscia infantile espresse in un’opera musicale e nel racconto di un impeto creativo. In Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino.
Kristeva J. (2002) Le génie féminin, t. III: Colette, Paris, Gallimard, 2004
Munari F. (2021) Favole: L’enfant et les sortilegès. Le trame dell’edipo. Centro Veneto di Psicoanalisi, 23 gennaio 2021
Ravel M. Colette L’enfant et les sortilèges. Par Opera de Lyon. youtube
Ravel M. Colette L’enfant et les sortilèges. Par Opera de Lausanne. youtube
NOTA: RIPARTIRE DAL BAMBINO. ...
Ricordando il lavoro su "Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe" (Bruno Bettelheim, 1976), un gran plauso a Franca Munari per la ripresa della riflessione su "L’Enfant et les sortilèges", opera composta da Maurice Ravel fra il 1919 ed il 1925, su libretto di Colette (pseudonimo di Sidonie-Gabrielle Colette) intitolato inizialmente "Divertissement pour ma fille"!
Tenendo ferme acquisizioni già presenti nel "lavoro di Melanie Klein su di essa" (1929), Munari formidabilmente così commenta: "La cosa straordinaria è la costanza nella clinica del ritrovamento e della ripetizione della costellazione di questi temi a contenuto distruttivo, ovviamente diversamente declinati e diversamente rappresentati in scene a seconda del soggetto, seguiti da elementi intensamente persecutori, fino, attraverso il lavoro analitico, a una riparazione finalmente possibile. Proprio come in questa favola, in cui Colette si fa letteralmente “psicoanalista di bambini”, così la definisce Julia Kristeva [...]".
Detto questo, a ben vedere, c’è solo da ripartire dal Bambino e (almeno e ancora!) del gioco del rocchetto ... dare il via a una seconda rivoluzione copernicana non solo in filosofia, ma anche in psicoanalisi! Se non ora, quando?!
Freud (come Mosé) non ha cercato di nascere a sé stesso oltre sé stesso e salvarsi dalla claustrofilia?!
ANTROPOLOGIA STORIA PSICOANALISI E COSMOLOGIA: SORGERE DELLA TERRA E NASCITA...
COME NASCONO I BAMBINI?: LA NASCITA RIENTRA NELL’AREA DELLA "CLAUSTROFILIA" (Elvio Fachinelli, 1983). Nonostante la Scuola di Atene e la scuola del sospetto (Marx, Nietzsche, e Freud) e il lavoro fatto, ancora non abbiamo messa la testa fuori dalla Matria e Patria Terra, ancora non siamo nati (come essere umani "terrestri") e ancora non sappiamo nulla né della pace né della guerra, né della nascita né della morte, né dell’amore che muove il sole e le altre stelle (Dante, 1321- 2021)!
DOTTA IGNORANZA (1440) E CLAUSTROFILIA (1983). Nel 2016, Michel Serres confessa: "La filosofia, si dice, conduce alla saggezza [sagesse]. Secondo un altro significato della parola, prima di morire vorrei diventare levatrice - che in francese diciamo sage-femme, cioè letteralmente, «saggia donna» -, vorrei aiutare a partorire il mondo nuovo.
La mia vita intera mi ci ha preparato, attraverso l’ascolto attento degli scricchiolii emessi dal vecchio. Sento le crisi che attraversiamo, le inquietudini che suscitano, come dei lamenti emessi nel travaglio del parto. Amo la #madre, accolgo il #bambino. Possa migliorare incessantemente la mia attività di medico ostetrico, il mio diventare sage-femme" (cfr. "Il mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente" [Le Gaucher boiteux. Puissance de la pensée], Torino, 2016).
Fedeico La Sala
ANTROPOLOGIA, COSMOLOGIA, E TEOLOGIA: IL SORGERE DELLA TERRA...
IL RIBALTAMENTO DEL CUORE, LA NASCITA, E LA SCOPERTA DELL’AMORE ("AGAPE", "CHARITAS"). Al di là della reciprocità ("do ut des") della "carità ("caritas")! *
Il segno e la carne /12. La rinuncia alla reciprocità
La rinuncia alla reciprocità
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 19 febbraio 2022)
I profeti sono la porta che mette in comunicazione Dio con gli esseri umani e gli uomini e le donne con Dio: a noi donano parole divine, a Dio donano le nostre parole migliori che poi egli usa per parlare con noi, in un dialogo continuo dove noi impariamo la lingua di Dio e diventiamo più umani e Dio diventa più Dio.
Il capitolo undici del rotolo di Osea contiene alcuni dei versi più belli e amati di tutta la Bibbia, è una vetta della profezia. Ma non li comprendiamo se arriviamo a questo capitolo senza aver prima attraversato i moltissimi versi di condanna, di maledizione, di delusione, di tradimento dei capitoli precedenti, senza aver incontrato tutte le parole che Osea ha speso per dirci che l’Alleanza tra YHWH e il suo popolo è spezzata per sempre, che la promessa è svanita per l’infedeltà di Israele. Quei capitoli (4-11) sono veri come è vero il capitolo undici. Come è vero il sepolcro vuoto ed è vero il Golgota, perché la verità del primo giorno dopo il sabato non sarebbe tale senza la verità della croce. La grandezza teologica e antropologica di questo capitolo si svela solo a chi ha percorso la via crucis fino alla fine, è arrivato sul monte e non ha trovato tre tende, ma tre croci. Lì ha voluto stare sotto il patibolo, ha visto morire veramente quel profeta diverso, e ha pensato, veramente, che era finito tutto, che quella speranza stupenda si era infranta contro il no degli uomini che non hanno accolto la luce. E poi ha seguito il cadavere nel terreno di Giuseppe d’Arimatea, ha visto porre la pietra sull’entrata della tomba, e ha sentito che quella pietra chiudeva per sempre anche quella breve stagione straordinaria di salvezza. E solo dopo, soltanto dopo questa verità verissima, ha sentito che il suo nome era chiamato da una voce viva: “Maria”. Non un secondo prima.
Quando invece saltiamo i capitoli difficili e duri della Bibbia, quando schiviamo il Golgota e dalla Domenica delle Palme andiamo subito in Galilea, le risurrezioni diventano finte e non salvano nessuno. Solo chi muore veramente può conoscere una risurrezione vera: «Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio. Ma più li chiamavo, più si allontanavano da me; immolavano vittime ai Baal, agli idoli bruciavano incensi. A Èfraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con lacci d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia» (Osea 11,1-4).
YHWH aveva trasformato il giogo degli idoli che opprimevano tutti gli altri popoli in legami d’amore, curando il popolo come un figlio; ma il popolo non aveva voluto sentire nulla, e ha continuato le sue prostituzioni: «Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto, nessuno sa sollevare lo sguardo» (11,7). La libertà guadagnata, grazie all’allentamento del morso del giogo, era diventata occasione per fuggire in cerca di nuovi amanti, era stata usata per allontanarsi da casa. Perché, lo abbiamo imparato anche noi: i legami d’amore restano lacci, e i figli crescono se riescono a spezzare i loro lacci, persino quelli che avevamo creato solo per amarli. Chiamato a guardare in alto: siamo chiamati a guardare le stelle, solo i sapiens lo sanno fare, gli animali non possono guardare il cielo - forse non c’è definizione più bella della vocazione umana.
Ma mentre Osea ripercorre questa tristissima storia di dolore e di fallimento, ecco che accade l’inatteso, e ci ritroviamo in una delle grandi risurrezioni della Bibbia: «Come potrei abbandonarti, Èfraim, come consegnarti ad altri, Israele? Come potrei trattarti al pari di Adma, ridurti allo stato di Seboìm? Il mio cuore si capovolge dentro di me, il mio intimo freme di compassione» (11,8). Senza soluzione di continuità, senza nessun preavviso, Osea fa rotolare la pietra del sepolcro e ci accorgiamo, noi e lui, che è vuoto. Quel non-spazio tra quei due versetti contigui crea un tempo infinito che inverte il senso del libro di Osea. Eravamo davvero convinti che YHWH non potesse fare altro che prendere atto della libertà di Efraim e quindi abbandonarlo alla stessa sorte di Adma e Seboìm (città sul Mar Morto, come Sodoma e Gomorra). E invece no: su quella non-speranza irrompe l’impensato, il verso delle cose viene piegato e inizia per Dio il tempo della fedeltà senza reciprocità - la nostra, la sua reciprocità. Non siamo di fronte soltanto a un pentimento di YHWH (come dopo il Diluvio o dopo la punizione per il vitello d’oro); qui c’è una conversione di Dio, come suggerisce il verbo ebraico che parla di un ribaltamento del cuore. YHWH cambia sguardo, inverte la strada, cambia la direzione della sua azione: dunque si converte. E fa qualcosa che non avrebbe dovuto fare, l’opposto di quanto detto finora.
È una vetta della teologia biblica e delle religioni. Qui davvero Osea è maestro di tutti i profeti, di Isaia e di Geremia. Il Dio del capitolo undici di Osea lotta e vince il Dio dei suoi capitoli precedenti. Deus contra Deum: dentro la stessa Bibbia, dentro lo stesso libro, dentro lo stesso profeta. Da questa lotta emerge un Dio inedito. Questa rinuncia alla reciprocità, non ancora conosciuta dagli uomini, ora diventa possibile per Dio: «Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Èfraim, perché sono Dio e non un uomo» (11,9).
Perché sono Dio e non un uomo: è splendido che la diversità tra Dio e l’uomo stia proprio nel suo essere capace di amare anche senza reciprocità. Come a dirci: “Voi non siete capaci di amare se non siete riamati, io invece non riesco a non amarvi, è per questa incapacità di non amarvi anche se siete ingrati che Io sono Dio”.
La divinità emerge dallo scarto tra l’amore e la reciprocità, un amore che un giorno chiameremo agape, perché questo amore non era la reciprocità della philìa (amicizia) né il desiderio dell’eros. Quasi a dirci: solo un Dio può amare senza reciprocità: voi, che siete cattivi, non vivete la reciprocità con me, neanche io la vivo con voi e vi amo rinunciando alla reciprocità.
Ma poi ci dice anche qualcos’altro. Il Dio di Osea, infatti, da una parte prende le distanze da noi e ci dice parole che non sono ancora le nostre, ma mentre ce le dice ci fa diventare quelle parole diverse, ci sta creando più grandi di come eravamo ieri. Ci mostra una forma di amore che noi non abbiamo ancora, e nel mostrarcela ci rende capaci dell’amore del non-ancora. Meraviglioso.
È così che la parola continua a creare il mondo dicendolo, dicendoci a noi stessi. Noi non siamo il Padre misericordioso che perdona il figliol prodigo prima ancora che gli abbia chiesto perdono, ma ogni volta che ascoltiamo quella parabola di Luca ci nasce il desiderio di somigliarli, vogliamo diventare come lui, diventiamo realmente giorno dopo giorno come lui, finché almeno una volta nella vita ci ritroviamo capaci di accogliere e perdonare un figlio o un amico esattamente come quel padre misericordioso della parabola.
Gli uomini credendo nell’esistenza di Dio hanno detto e dicono molte cose. Una di queste è molto importante: se esiste Dio allora l’uomo non è Dio, quindi non è onnipotente, è limitato e mortale. La Bibbia ha fatto di tutto per tenere viva e operante questa distanza tra il Creatore e noi creature. Ma poi ci ha detto anche un’altra cosa: che siamo stati creati a “immagine di Dio”, e questa parola ha scombinato tutto il rotolo del mondo. Perché se noi siamo immagine di Dio allora ogni volta che Dio ci svela qualcosa di sé ci sta svelando anche qualcosa di noi, qualcosa di diverso, ma anche qualcosa di uguale. Parlandoci della sua giustizia ci parla della nostra giustizia, parlandoci del suo amore ci parla del nostro amore, diverso e simile, e svelandocelo aumenta la somiglianza tra i due amori.
Se guardiamo bene tra le pieghe del mondo, scopriamo ancora qualcosa di entusiasmante. Ci possiamo accorgere che anche le grandi parole umane condividono alcune dimensioni di questa capacità della parola biblica. Scriviamo in una Costituzione, la nostra, che la «Repubblica è fondata sul lavoro» ben sapendo che mentre lo scriviamo la Repubblica non è ancora fondata veramente sul lavoro, perché a fondare la vita sociale c’erano ancora troppi privilegi e ingiustizie. Ma scrivendolo stiamo dicendo, implorando, pregando che la Repubblica possa diventare davvero fondata sul lavoro, vogliamo che quelle parole più grandi di noi abbiano la capacità performativa di cambiare il nostro mondo. Poi scriviamo nei tribunali «La legge è uguale per tutti» ben sapendo che la legge non è ancora davvero uguale per ricchi e poveri, per italiani e stranieri. Ma ogni volta che inauguriamo una nuova aula di tribunale e vi riscriviamo al centro quella frase stupenda stiamo facendo avvicinare il mondo reale a quella parola profetica. Si trova qui una dimensione profetica della terra, quella profezia civile, popolare, cittadina di comunità intere che affidano a poche parole i propri desideri più grandi e i sogni collettivi, che sono autentiche parole-preghiera.
Non sappiamo, infine, come Osea scrisse quel versetto otto del capitalo undici. Forse fu lui il primo a essere tramortito e sconvolto da quanto capì e scrisse. Forse non se lo immaginava, non se lo aspettava, gli arrivò come dono, tutta gratuità, fu risorto da quelle sue parole. O, forse, guardando un giorno un uomo o una donna che era stata capace di amare e di perdonare oltre le infedeltà dell’altro, o ritrovandosi lui stesso capace di amore fedele per sua moglie infedele, Osea intuì che se gli uomini e le donne sono capaci di essere più grandi della loro reciprocità la fonte di questa capacità doveva trovarsi in Dio stesso. O, forse, queste due esperienze sono state una sola, quando Osea nel ricevere quella nuova parola dalla bocca di YHWH, al termine del verso sette gli fiorì un verso differente, vi riconobbe la vita attorno a sé, e finalmente la capì. Una certezza però l’abbiamo: Osea ha incontrato e annunciato una risurrezione perché è arrivato fino in fondo alla crisi sua e della sua comunità. Neanche un centimetro di meno: da dentro la certezza della fine è nata la certezza di un futuro. Troppe volte non risorgiamo perché ci fermiamo alla prima o alla seconda stazione della via crucis, non chiamiamo le crisi col loro nome tremendo, ci consoliamo con piccole risurrezioni e non tocchiamo il fondo degli abissi, dove il piede può tentare un nuovo volo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Cosmologia, antropologia, cristianesimo e civiltà.
"IL FIGLIO DELL’UOMO": UNA QUESTIONE ANTROPOLOGICA E FILOLOGICA...
COSMOLOGIA. “Da Copernico in poi l’uomo rotola dal centro verso una X”. Così Nietzsche, nel 1886. Ma, per un filosofo nato filologo e, per di più, uno dei grandi maestri del sospetto, contrariamente a quanto si è sempre ripetuto in modo "umano, troppo umano", non è bene tornare a interrogarlo e cercare di avere ulteriori dati sulla destinazione "ignota"?
ANTROPOLOGIA. Nel 1888 pubblica "Ecce homo. Come si diviene ciò che si è": un Urlo contro la paolina religione del "Vir Dei", una critica radicale della cosmoteandria faraonica, e un aut aut epocale.
LA PUNTA DI UN ICEBERG BIMILLENARIO: PUGLIA (12 FEBBRAIO 2022). "Ecce Vir": il "caso serio" del quadro intitolato "Sabinus vir Dei".
Tracce per una seconda rivoluzione copernicana
SCIOGLIMENTO DEI GHIACCIAI E RINASCIMENTO, OGGI. Una ristrutturazione epocale e lo sgretolamento della cosmoteandria tradizionale (#cosmo, teologia/ #dio e #andrologia/uomo) è già da tempo in atto: la nascita di una antropologia annunciata già da Michelangelo nel suo "Tondo Doni", con le sue due sibille e i suoi due profeti - non "quattro profeti", come vuole la Galleria degli Uffizi, e da Galileo Galilei con il suo "Sidereus Nuncius" (1610), fondata sulla visione del sorgere della Terra, è già in cammino: un capovolgimento e una nuova ricapitolazione, una radicale inversione logico-storica!
Federico La Sala
9 febbraio: Giornata mondiale della lingua greca.
Se per i Greci si “nasce dal ridere”
In un antico papiro si legge che il mondo sarebbe nato con sette risate e a ogni risata nacque grandiosamente qualcosa... Aneddoti e curiosità sulla lingua di Omero
di Dorella Cianci (Avvenire, martedì 8 febbraio 2022)
Ogni anno, il 9 febbraio, è la Giornata mondiale dedicata alla lingua greca e, mentre da un lato aumenta lo sconforto per la sempre minore considerazione che il nostro Paese dedica allo studio di questa cultura, oltre che alla lingua, soprattutto a causa delle eccessive frammentazioni disciplinari dei Dipartimenti, che spesso escludono il greco, dall’altro si aggiunge la gioia per i tanti eventi promossi in queste ore, di cui molti in collaborazione con l’Ambasciata di Grecia in Italia. Come ricorda Francesco De Martino, grecista pugliese, professore ordinario emerito e un tempo allievo della scuola filologica barese di Carlo Ferdinando Russo, uno dei primi ad aver trasformato l’insegnamento della grammatica greca in una creativa e feconda ripartizione di parole fra dialetti di area eolica, ionica e dorica: “Non ce ne rendiamo conto, ma senza i grecismi e senza i latinismi non riusciremmo quasi più a dire nulla”.
Ci son tanti libri che sviscerano l’elogio della cultura greca e pochi dedicati autenticamente alla lingua, senza farne per forza un elogio, che poi - alla fin fine - rischia di diventare insopportabile per gli studenti. Col greco si descrivono tante sfumature del cuore e della mente (che, peraltro, per i Greci son quasi la stessa cosa, come ci ricorda la parola thymos), ma pochi sanno che il greco ha molto a che fare col ridere.
In un saggio per “Athanor”, una serie annuale diretta da Augusto Ponzio per i tipi di Mimesis, De Martino ha evidenziato che non solo si “muore dal ridere”, ma per i Greci si “nasce dal ridere”. In un antico papiro si legge infatti che il mondo sarebbe nato con sette risate e a ogni risata nacque grandiosamente qualcosa: il tempo, l’acqua, il nous, la luce, la moira, la generazione. In fondo, come noto, ridere è sì la regola degli dei, ma anche, come ricorda Aristotele, un buon marchio di fabbrica dell’uomo, poiché “solo l’uomo, fra tutti gli animali, ride”. E a questo passo, un tempo splendidamente tradotto da Mario Vegetti, alludono sia Rabelais, nel frontespizio del Gargantua (1534), sia Bergson, nel saggio Il Riso (1900).
“Ridere - precisa De Martino - è un atto personale, ma un tempo ritenuto poco eroico, come spiega uno scolio all’Iliade, dove Ettore sorride nel famoso addio ad Andromaca. Eppure il ridere, anche se poco eroico, è decisamente una cosa seria, in Grecia, tanto che a Sparta diventa addirittura una divinità; anche se, qualche volta, con troppa abbondanza, può essere una malattia, come per gli Abderiti (così dice Luciano, nell’opuscolo Come si scrive la storia).
Insomma... Ridere o non ridere? Questo è il problema e di certo Pitagora preferì non ridere o, perlomeno, non farsi mai vedere durante una risata. E così, mentre i commediografi avevano intuito subito la potenza del riso, i filosofi ci arrivarono un po’ più tardi, anche perché, per esempio, per Anassagora o per Aristosseno ridere era vietato, soprattutto con gli allievi, come testimonia Eliano.
Tuttavia, come si legge nel piccolo e brillante saggio di Francesco De Martino, che si rifà a sua volta a grandi pubblicazioni come quella notissima di Carlos Miralles, Ridere in Omero, o come quella di Monique Trédé, Le Rire des Anciens, ma anche quella uscita a Cambridge di Alexander Mitchell, Greek Vase-Panting and the Origins of Visual Humour, il riso, pur se valorizzato tardi dalla filosofia, stette molto a cuore alle dee, come nel caso di Afrodite, dove nell’Inno a lei dedicato è scritto “ride sempre”. Ma ridono anche Atena nell’Iliade e Calipso nell’Odissea! E in alcuni casi riesce a ridere addirittura Demetra, la quale, per definizione, è la dea “senza sorriso”, proprio perché ha perso per sempre sua figlia Persefone. Apollodoro racconta che la vecchia Iambe, anche con qualche oscenità, strappò almeno una risata alla dea.
E’ bene dunque che i giovani studenti sappiamo come la cultura greca, prima in tantissime cose, ha saputo analizzare anche la profondità del ridere, un atto rivoluzionario, che è sempre stato più apprezzato dai giovani, come seppe notare Aristotele nella Retorica, ma anche Platone, quando - nelle Leggi - parlò della preferenza dei ragazzi verso la commedia e dei bambini verso gli spettacoli giocosi e ridanciani dei burattini. Resta il dispiacere per non avere fra le mani quel capolavoro greco che sarebbe stato il II libro della Poetica, forse interamente dedicato al riso, anche se, almeno in apparenza, Aristotele non amò il modo in cui i commediografi seppero usarlo. Fortunatamente possiamo leggere, anche in tal senso, Umberto Eco, che fra le sue tantissime qualità, sappiamo bene come amava la lingua greca, consigliando ai professori di non iniziare dal complicato periodo arcaico, ma dal semplice greco dei Vangeli.
SUL TEMA, SI CFR.:
SUL MITO DI DEMETRA, IAMBE E BAUBO’, cfr. Ernesto De Martino, I Gephyrismi (1934), in "Scritti minori su religione, marxismo e psicoanalisi", Nuove Edizioni Romane, Roma 1993, pp. 56-63.
MARIA CATERINA JACOBELLI, "Il «Risus Paschalis» e il fondamento teologico del piacere sessuale" (1991)" (QUERINIANA, BRESCIA 2004).
Maurizio Bettini, Nascere. Storie di donne, donnole, madri ed eroi, Einaudi, Torino 1998.
Federico La Sala
FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, MITO E STORIA.
DANTE2021: UN PASSO AL DI LÀ DELL’EDIPO. Solo con Virgilio (e con Ovidio) e, soprattutto, con Beatrice (la madre! - Freud docet), Dante poteva e può rinascere (Par. XXXIII, 106-108: "Omai sarà più corta mia favella, /pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante/ che bagni ancor la lingua a la mammella"), uscire dal letargo (Par. XXXIII, 94) e, addirittura, riproporsi - in un’ottica arcadica e messianica (con la sua Divina Commedia) - come "un altro Tifi, un’altra Argo" (Virgilio, Ecl. IV, 34)!
"Ulisse e la sua Odissea... chi non conosce il lungo peregrinare dell’eroe omerico? Ma forse pochi sanno che Ulisse era figlio d’arte: il padre Laerte, infatti, prese parte assieme ai cinquantadue valorosi greci noti col nome di Argonauti, a una mitica impresa che li vedrà solcare i mari fino a Oriente, oltre i confini conosciuti, alla conquista del vello d’oro (la pelle di un ariete dorato che era apparso in soccorso a due giovani Frisso e Elle e li aveva condotti in salvo al di là dei mari, in Colchide).
L’impresa degli Argonauti è una delle più affascinanti del mito greco anche perché il tema del viaggio sulla nave Argo si intreccia non solo con le mille avventure vissute, o la storia d’amore tra Giàsone e Medea, ma anche con temi che in qualche modo hanno a che vedere con la conquista di conoscenze tecnico-scientifiche. Intanto perché Argo è la primissima nave mai costruita, che segna l’inizio della navigazione, per la quale occorrevano conoscenze prima di allora appannaggio esclusivo degli Dei: conoscenze tecniche, geografiche e astronomiche.
La spedizione degli argonauti ai confini orientali del mondo conosciuto si rivela così una spedizione altamente allegorica, in cui si narra di fatto non solo di una missione civilizzatrice ma anche dell’ incontro tra Occidente e Oriente, che aveva già elaborato un sapere astronomico e astrologico; ed è di fatto un’anticipazione di quel che ebbe luogo nella realtà documentata nel III sec. A.C.: il viaggio di Alessandro Magno in India da cui riportò avanzatissime conoscenze matematiche.
Ma ci parla anche di un mito che persiste tutt’oggi: quello del viaggio verso l’ignoto, del desiderio di spingere sempre più avanti le frontiere dello scibile, che tanto caratterizza la ricerca scientifica." (Clara Caverzasio, "La spedizione argonautica, tra mito e scienza", Il Giardino di Albert (ReteDue), 30 maggio 2015)
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STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
L’UOMO MOSÈ E LA RELIGIONE MONOTEISTA, 1938 (VERSIONE INTEGRALE CON INTRODUZIONE) *
L’Uomo di Ur ovvero l’uomo di “prima”
Quanto prima
Come Abramo, più di Abramo, Freud merita il titolo di Uomo di Ur. Nelle 7000 pagine delle sue Gesammelte Werke le parole che cominciano con la sillaba Ur, con il senso di venire “prima” per importanza o per tempo, come Urteil, giudizio, Ursache, causa, Urvater, padre primitivo, Urverdrängung, rimozione originaria, Urzeit, preistoria, sono 2625 su 1909 pagine. In pratica, sfogli tre pagine e trovi un riferimento a qualcosa che “viene prima”.
Il titolo mi è stato suggerito dall’analisi statistica dei tre saggi che compongono l’ultima performance di Freud, il romanzo storico L’uomo Mosè e la religione monoteistica, che parla del non ebreo, venuto prima degli ebrei, loro padre primigenio nonché putativo. Da lacaniano potrei sviluppare considerazioni sulla sessuazione maschile dell’uno non castrato mentre tutti sono castrati. Preferisco fare un discorso più aderente alla scrittura freudiana. In realtà, il mio interesse per la ricorrenza della sillaba iniziale Ur nei testi freudiani è connesso a un problema epistemologico non futile: la rilevanza nel discorso di Freud del termine Ursache, “causa”, letteralmente la cosa che viene prima dell’effetto. Non c’entra Urlaub, “vacanza”. [...]
Il mio interesse per il problema eziologico in Freud risale al 1991, trent’anni fa, ai tempi del convegno romano Lacan in Italia. Allora lessi un testo, omesso dagli atti del convegno, intitolato “Preparare la scienza correggendo la posizione dell’etica”, tesi enunciata da Lacan nella prima pagina del suo saggio Kant avec Sade (1963).1 Alla luce dei successivi trent’anni di lavoro, la mia interpretazione di Lacan si è molto semplificata e precisata: la correzione dell’etica antica, che produsse la scienza moderna, fu la sospensione - il fenomenologo direbbe l’epochè - della nozione di causa. Il soggetto della scienza moderna agisce in modo autonomo e libero, non determinato da causalità estrinseche che lo precedano, neppure di tipo finalistico. Di conseguenza anche la produzione scientifica è poco eziologica.
Inventando la dinamica, Galilei sospese la nozione di causa del moto; infatti, inconcepibile per gli antichi, ammise il moto inerziale del mobile che prosegue il proprio percorso rettilineo a velocità uniforme in assenza di forze che lo modifichino. Si tratta di un moto che non ha un prima perché è già da prima: è causa di sé stesso. La nuova scienza corregge l’etica delle cause; meno deterministica dell’antica, diventerà espressamente probabilistica con la meccanica quantistica. Freud non registra l’evento; non parla di probabilità ma di verosimiglianza, grazie a due premesse, una individuale, l’altra collettiva. Per Freud non c’è ragione di pensare in termini probabilistici; “prima” di ogni altra viene la verità certa del parricidio; per la lingua tedesca probabilità e verosimiglianza si dicono allo stesso modo, Wahrscheinlichkeit. Per il tedesco è verosimile, cioè attendibile, che il “dopo” sia simile al “prima” in nome del principio di ragione.
Semplice, ma non per questo facilmente accettabile. La resistenza dei freudiani ad accettare la correzione dell’etica è dovuta al fatto che Freud stesso non si corresse. Non sospese la causa. Infatti, nella sua metapsicologia le cause pulsionali spadroneggiano; i suoi testi metapsicologici sono scorribande narrative che raccontano sempre la stessa favola del prima, che vien prima, e del dopo, che vien dopo. In questo senso la “nuova scienza” freudiana, la junge Wissenschaft di Freud, nacque antica: per ogni effetto psichico presupponeva un “prima”, una causa psichica, la pulsione, che determina “dopo” la soddisfazione libidica (chiusura causale). Pur non conoscendo Aristotele,2 che arrivò a lui contrabbandato dall’antica medicina di Ippocrate, Freud praticò l’aristotelico scire per causas: pretendeva di comprendere, begreifen, gli effetti psichici, riconoscendone le cause. Freud distingueva le cause efficienti, le pulsioni sessuali, dalle cause finali, le pulsioni di morte. Le prime sono veramente prime nel senso che vengono prima nel produrre la soddisfazione sessuale; le seconde si potrebbero dire cause ultime, nel senso che vengono dopo il trauma e tendono ad acquietare ogni tensione libidica post-traumatca.
Queste sono le due facce del “prima” che domina tutta la metapsicologia freudiana, degna della migliore tradizione alchemica, prolungata e confermata dalla psicologia archetipica di Jung, sua figlia naturale, da Freud non riconosciuta. Ho giustificato a sufficienza la mia ricerca statistica sulle ricorrenze di Ur in Freud? Tento, allora, di dare una spiegazione scientifica, documentata testualmente, di quel che nel terzo saggio sull’Uomo Mosè e la religione monoteistica Freud chiamò “imperativo bisogno di causalità”3 (gebieterisches Kausalbedürfnis). Tento di spiegare, senza voler comprendere, un fenomeno di pensiero assai diffuso dentro e fuori dalla psicanalisi; pretendo erklären al posto di begreifen; miro al “come” e sospendo il “perché”.
Devo innanzitutto dire che per il senso comune la transizione verso la moderna forma di scientificità che, ripeto, non è deterministica ma probabilistica, non è facile da comprendere, quindi da accettare. Il fenomeno si spiega storicamente, però, e non sarebbe difficile da comprendere. Dal 22 giugno 1633, quando si concluse con la condanna il processo della Chiesa cattolica a Galilei, alla scienza moderna i moderni resistono. Non perché siano particolarmente religiosi. Alla nuova forma di scienza, basata sulle “sensate esperienze e necessarie dimostrazioni” resistono allo stesso modo sia credenti sia non credenti, perché non vi trovano verità eterne da far proprie ma solo congetture, cioè verità incerte, addirittura “non vere”, ma false, che procedono dal falso al meno falso. Anche Freud resistette alla scienza moderna. In biblioteca non aveva le opere né di Galilei né di Cartesio. Non citò mai Galilei nelle Gesammelte Werke, affascinato com’era da Leonardo, più artista che uomo di scienza. Il senso comune, compreso quello psicanalitico, pretende verità certe, anche se false. Da Freud in poi, il senso psicanalitico si basa sulla verità mitologica dell’Edipo, un’esemplare verità narrativa, pre-cartesiana, posta assiomaticamente al di là di ogni dubbio, quindi non scientifica. Freud la riconosceva come il suo shibboleth.
Freud non fu un caso unico e neppure raro. Tuttora si resiste alla scienza in nome del riduzionismo; i lacaniani di scuola parlano di preclusione del soggetto da parte del discorso scientifico, classificato come paranoico. La diffidenza nei confronti della scienza anima i movimenti negazionisti. Freud l’aveva capito: un percorso di psicanalisi si fa strada attraverso resistenze. Credeva che fossero le resistenze ad accettare la mitologia edipica; molto più semplicemente e molto più in generale si resiste a un sapere che prescinda da enti a priori, le cause prime, le verità edipiche comprese. Sospendere la verità, vuol dire cadere nell’incertezza e questo non piace molto, anzi per nulla, a molti. L’uomo pretende certezze, non importa quanto false. I preti lo sanno bene, prima e meglio dei filosofi. Le certezze religiose o metafisiche sono più gradite delle congetture scientifiche, che non sono né vere né false, come il moto inerziale.
Mi preme chiarire che non sto parlando da antifreudiano. La mia critica a Freud è troppo pertinente per formularsi all’esterno del pensiero freudiano. Questa nuova traduzione dell’Uomo Mosè dovrebbe bastare a testimoniare la mia amicizia per Freud, il mio modo di “tornare a Freud”. Riconosco che il riferimento al “prima” è una premessa necessaria al freudismo per passare dalla psicologia individuale alla collettiva, da Freud chiamata, a mio parere riduttivamente, “psicologia delle masse”, Massenpsychologie, che è pure il tema prevalente dell’Uomo Mosè nella versione di “massa ebraica”. Freud stesso riconobbe che non è facile passare dall’individuale al collettivo.4 Senza affrontare lo scivoloso argomento della posizione di Freud verso la civiltà,5 qui mi limito ad affermare che il riferimento al “prima” è indispensabile a Freud per tradurre analogicamente la psicologia individuale in collettiva, grazie alla nozione comune ad entrambe di “tempo di latenza” (Latenzzeit). L’intero paragrafo C del terzo saggio sull’Uomo Mosè sviluppa tale analogia.6 Qualche riga più in là aggiunse sconsolato: “Non fu però facile introdurre la rappresentazione dell’inconscio nella psicologia delle masse”.7 Aveva forse intuito che non si può appiattire il collettivo sull’individuale?
E dopo?
Per parlare della verità, sono costretto ad allargare l’orizzonte, passando dalla statistica alla filosofia, in cui mi limiterò a intingere l’alluce. Nella logica del prima, il “prima” è l’assioma e il “dopo” il teorema; in linguaggio freudiano il dopo si chiama nachträglich, in lacanese après-coup: entrambi porgono la verità del prima che prima non si sapeva. L’eziologia gioca nell’intervallo tra il prima e il dopo; la sua verità deve attraversare un tempo di latenza, che meno ontologicamente di Freud preferisco chiamare “tempo di sapere”.8
Aristotele fondò la conoscenza eziologica: verum est scire per causas. In questo apoftegma si annodano i tre termini del gioco epistemologico antico: verità, sapere, causa. Si gioca alle seguenti condizioni: la verità è una, cioè è riassumibile in un concetto, e il sapere la riconosce come causa, applicando il principio di ragion sufficiente, per cui ogni effetto ha una causa. Il pensiero antico non conosce il non concettuale; ignora il “non tutto” di Lacan o le classi proprie di von Neumann, che non sono elementi di un insieme. Ammette solo l’universale “buono”, secondo Hegel, cioè il tutto che è uno. Nel linguaggio di Totem e tabù, il totem è ciò che unifica il clan e ne fa un insieme in funzione del Nome del Padre. In senso più astratto, ciò che unifica il tutto nell’uno è la sua causa, cioè la sua sufficiente ragion d’essere. In effetti, il totem è il capostipite del clan. Siamo in pieno discorso ontologico, dove sapere è sapere le cause, che precedono gli effetti. Il tandem prima/dopo è il veicolo su cui viaggia la verità storica, pedalando sulla verità materiale, nota dicotomia freudiana.
Due millenni dopo Aristotele, Hume fece crollare il castello eziologico dello Stagirita. Il principio di ragion sufficiente è privo di valore trascendentale. È un semplice pretesto euristico basato sull’abitudine a constatare l’associazione tra la causa supposta e il suo effetto reale. Certo, conserva un valore soggettivo, che sarà ripreso da Kant nelle sue categorie, ma non ha valore oggettivo: non è un fatto, anche se serve a stabilire fatti. Per esempio, non serve a dimostrare che i vaccini provocano l’autismo. Serve solo come bias di conferma a stabilire e diffondere fake news: se c’è l’effetto vuol dire che c’è stata la causa; se è bagnato per terra, è perché “verosimilmente” ha piovuto. Wittgenstein chiuse il discorso nell’unico libro pubblicato in vita; stabilì che credere al nesso di causa ed effetto è pura superstizione.9 La psicanalisi direbbe che il discorso eziologico è un delirio con un nocciolo di verità.
Fine di Ur? Non del tutto. Finisce il principio di ragion sufficiente basato sul tempo cronologico del prima/dopo. Resta valida la causazione, Verursachung, al tempo zero, quando l’effetto produce sé stesso, senza dover attendere la causa, perché è causa di sé stesso, causa sui, diceva Spinoza. È il caso dei processi a retroazione positiva o negativa. Per esempio, il ghiacciaio si scioglie perché si scioglie: tanto minore la massa, tanto più facile è che si scaldi e quindi si sciolga. La psiche sarebbe un ghiacciaio, causa di sé stesso? L’ipotesi è interessante, ma per ora non abbiamo sufficienti attrezzi teorici per darne un modello credibile.
Freud ci prova, abbozzando una psicologia della religione. Avverte oscuramente un “prima”: la presenza di quella cosa non concettuale che è l’infinito, ma non lo nomina, come nell’esergo riportato.10 Non siamo lontani da Avvenire di un’illusione di un decennio prima, dove Freud parla di sentimento oceanico alla base del senso religioso, cui lui stesso sarebbe estraneo. Mentiva. Nel romanzo qui tradotto il prima, grandioso, e il dopo, un po’ meno, sono personificati ed esaltati. Sulla scena compaiono ben due padri fondatori: il Mosè egizio, sacerdote del dio Aton, e il Mosè madianita, prete del dio vulcanico Yahwè. Tra i due Mosè Freud infila il parricidio del primo, elemento cardine, nonché sintomatico, della propria personale mitologia edipica, anche se storicamente verosimile. Il monoteismo ebraico sarebbe il ritorno del primo dio rimosso nelle vesti del secondo.
Mitologia a parte, il romanzo freudiano coglie una verità che non è storica ma scientifica: la verità dell’infinito. In proposito la statistica non lascia dubbi: il termine “infinito” (unendlich) non ricorre nel romanzo di Mosè. Proprio per questo sostengo non tanto paradossalmente che il romanzo abbia come protagonista sotto traccia - Freud direbbe rimosso - l’infinito, che si presenta in scena con due maschere: la maschera dell’uno e la maschera del due. L’accoppiamento produce l’infinito con la maschera di Dio. Siamo difronte all’“emergere dell’idea di un unico grande Dio”.11
Freud ha difficoltà a “capire perché debba esserci un dio unico, perché proprio il progresso dall’enoteismo al monoteismo acquisti il significato predominante”.12 Si limita a giustificarlo come psicogenesi di un’idea coatta legata al ritorno del padre nel parricidio rimosso. Cercherò di allargare il discorso con una considerazione matematica elementare, anzi assiomatica.
Prima di dedicarmi al temuto excursus matematico, mi soffermo un attimo per smontare un clamoroso “falso” freudiano, che può ostacolare la comprensione di quanto precede. Mi riferisco all’affermazione, già presente in Totem e tabù e ribadita in L’Uomo Mosè, che in Descent of Man (1872), l’unica opera di Darwin che Freud aveva in biblioteca, Darwin13 abbia esposto il mito dell’orda primitiva (die Urhorde), retta da un “forte stallone” (ein starke Männchen), Lacan direbbe l’uno non castrato, che teneva per sé tutte le donne, un’evidente fantasia di desiderio di Freud. Darwin non amava la mitologia; preferiva ragionare. Non parlò mai né di stalloni né di orde ma di piccole comunità (small communities). Il fatto curioso è che Freud abbia utilizzato proprio questo termine (kleine Gemeinschaften14) per descrivere le organizzazioni sociali dei fratelli espulsi (ausgetrieben) dall’orda paterna. Noi freudiani dobbiamo accontentarci di verità latenti nel delirio di Freud.15
[...]
In termini freudiani, non esiste Mosè al di fuori del monoteismo. In altri termini, il monoteismo è condizione necessaria per l’esistenza di Mosè. Ossia, la verità del monoteismo è che, se c’è un solo Dio, c’è il suo profeta. Non vale il viceversa - se c’è il suo profeta, c’è il suo Dio - come vorrebbe farci credere Freud. L’assioma potenza, che non ho sfruttato a fondo, getta luce all’attaccamento sintomatico di Freud al problema monoteistico. Chiaramente a Freud non interessava il problema teologico se esistesse un dio unico o multiplo. A Freud interessava dimostrare che il suo popolo fosse unico come unico era il suo dio. Questo è anche il tratto sintomatico della freudiana Massenpsychologie: la massa è una e unica, perché identificata a un ben preciso Führer. Che altro fu Mosè? Il Führer dell’esodo degli ebrei dall’Egitto. Nel caso specifico dell’ebreo Freud un Führer reale causò il suo esodo da Vienna. La storia è fatta di simmetrie, di corsi e ricorsi equivalenti anche se diversi.
Il quarto assioma è il vero è proprio assioma dell’infinito in atto, che si può formulare semplicemente così: esiste un insieme infinito,22 posto che un insieme sia infinito se non è finito. Bourbaki fa notare che tuttora non si sa derivare l’assioma dell’infinito dagli altri assiomi, come l’assioma della parallela (un tipico assioma dell’infinito) dagli altri assiomi euclidei. Tuttavia si danno diversi modelli di infinito: i numeri interi sono infiniti numerabili, i numeri reali sono infiniti non numerabili, e non sono i soli modelli di infinito. Esiste un’interessante congettura di Cantor, si potrebbe dire un nuovo assioma insiemistico, come tale riconosciuto solo negli anni Sessanta del secolo scorso: tra l’infinito numerabile degli interi e l’infinito non numerabile dei reali non esistono infiniti intermedi, come tra 0 e 1 non esistono altri numeri interi.
Mi fermo qui perché ho la sensazione che la verità matematica dell’infinito non giovi alla “causa” del monoteismo, che si avvantaggia di più con la verità storica, derivata dalla materiale. La matematica, infatti, non è il discorso né dell’uno23 né del prima, in particolare non è un discorso sulle cause. Euclide precedette Galilei di 18 secoli nella sospensione delle cause. Il triangolo rettangolo non causa il teorema di Pitagora, che è la conseguenza logica dell’unicità dell’angolo retto (IV postulato) e della parallela a una retta per un punto (V postulato).
Perciò lascio la parola a Freud nella sua introduzione al Mosè del 9 agosto 1934, che non fu pubblicata, perché ben ci prepara alla lettura del suo romanzo. Dopo tutto l’uomo di Ur, l’uomo del prima/dopo, il nonno che imparò qualcosa dal nipotino che con un rocchetto attaccato a un filo giocava al fort/da, è homo in fabula. La sua storia è contraddittoria: da una parte assume l’assenza di tempo nell’inconscio, dall’altra basa sul tempo eziologico tutta la sua metapsicologia. Il romanzo fu il suo trucco per dominare la contraddizione, innestando la sincronia simbolica dei Mosè nella diacronia reale degli ebrei. Un’ammirevole performance, immaginaria, purtroppo inimitabile.
*Fonte: http://www.psychiatryonline.it/node/9124 (ripresa parziale - senza note).
"Legami danneggiati", Michael Eigen
"Quando pensiamo a legami danneggiati, pensiamo a vincoli reciproci, all’attaccamento madre-bambino, alle connessioni con se stessi, con l’altro, con l’universo. Nessuno sfugge al danneggiamento di questi legami o della propria capacità di instaurarne" (p.11). "C’è nella terapia un aspetto ’osmotico’ che non deve essere trascurato. Le persone sono sensibili e avvertono l’impatto reciproco ma spesso non sanno che farne. Il terapeuta è una sorta di specialista nel lasciare entrare l’altro, sentirne l’impatto, percepire le immagini e i pensieri cui il contatto con l’altro dà origine. Il paziente percepisce non solo il terapeuta, ma anche l’effetto che egli stesso esercita sul terapeuta. Cosa ne fa il terapeuta di questo impatto? Fino a che punto può lascarlo crescere? Dove lo porterà? ... Dove cominciano gli scambi emotivi?" (p. 5).
"Per Freud era senso comune che le cure materne mirino ad alleviare il malessere del bambino. Ferenczi descrive la madre che smussa la pulsione di morte e riconcilia il bambino con la vita. Bion raccoglie questo filo e sviluppa il concetto kleiniano di identificazione proiettiva come mezzo per costruire il senso di contatto" (p.47). "La capacità di sognare è alleata della capacità di provare sentimenti ed elaborarli" (p.48). "Una relazione che sopravvive alle vicissitudini è affine all’oggetto di Winnicott (1989) che sopravvive alla distruzione, o al sé di Bion (1970) che si muove tra frammentazione e sicurezza" (p.71).
"Ricerca e proiezione vanno insieme. La ricerca dell’altro è parte integrante della personalità che proietta (Bion, 1922, p.56). Ricerca e proiettare costituiscono una sorta d’impulso a comunicare il sé e toccare la realtà. Ci si protende nello spazio esterno per trovare lo spazio interno di un’altra persona. L’immagine dei segnali inviati nello spazio nella speranza che il messaggio sia raccolto da altri esseri viventi si applica bene a quanto avviene ogni secondo fra di noi con rapidità vertiginosa. Cerchiamo di comunicare la nostra capacità di comunicare e, allo stesso tempo, tentiamo di comunicare noi stessi" (p. 80).
* Cfr. Michael Eigen, "Legami danneggiati", Astrolabio Ubaldini Edizioni, 2007.
PIAGET CRITICATO DA VYGOTSKY *
I) Gli esperimenti condotti da Vygotsky condussero lo scienziato russo a risultati opposti a quelli ottenuti da Piaget. Secondo Vygotsky, Piaget è andato a cercare nell’analogia con la logica formale e matematica (contemporanea) la possibilità di dare un fondamento razionale alla psicologia. Egli si è rivolto alla logica formale perché con essa credeva di poter stabilire definitivamente il concetto di invarianza dell’oggetto, per eliminare così le rappresentazioni illusorie del soggetto. Non a caso la maggior parte delle sue ricerche si riferisce alla ricostruzione delle tappe evolutive del principio di conservazione (o invarianza) della quantità-sostanza-peso-volume degli oggetti. La matematica infatti possiede il più forte apparato di descrizione delle invarianti. Di qui il formalismo di Piaget: il suo pensiero è genetico solo in senso cronologico non ontologico, è classificatorio-combinatorio-meccanico, non concettuale-dialettico.
II) Secondo Piaget il legame che unisce tutte le caratteristiche specifiche della logica infantile è l’egocentrismo, che sarebbe una posizione intermedia tra il pensiero autistico e quello controllato (adulto). Il pensiero del bambino sarebbe originariamente autistico e solo con la pressione sociale diventerebbe realistico: questo perché ciò che interessa al bambino è la soddisfazione di piaceri, in antitesi al principio di realtà. Piaget avrebbe preso da Freud: a) l’idea che il principio del piacere preceda quello di realtà; b) l’idea che il piacere sia una forza vitale indipendente.
Vygotsky invece afferma che lo sforzo per ottenere la soddisfazione di un bisogno e lo sforzo per adattarsi alla realtà non sono separabili né opponibili, altrimenti c’è patologia.
III) Piaget sostiene che il gioco (immaginazione) è la legge suprema dell’egocentrismo fino a 7-8 anni. Vygotsky invece sostiene che la funzione primaria del linguaggio -nei bambini e negli adulti- è la comunicazione. Il primo linguaggio è quello sociale (globale e plurifunzionale); in seguito le funzioni si differenziano, cioè si egocentrizzano, permettendo allo sviluppo del pensiero e del linguaggio d’interiorizzarsi. In altre parole, ad una certa età il linguaggio diventa anche egocentrico, ma resta sociale, poiché l’egocentrismo rappresenta soltanto un’interiorizzazione di forme di comportamenti sociali. Nell’adulto c’è il linguaggio interiore (linguaggio egocentrico in profondità), che si sviluppa all’inizio dell’età scolare.
Vygotsky poté costatare che di fronte alle difficoltà il coefficiente del linguaggio egocentrico raddoppiava, ma proprio perché con esso il bambino realizzava un processo di presa di coscienza che lo portava, in un modo o nell’altro, a cercare una soluzione del problema.
E’ noto il suo esempio: mentre un bambino di 5 anni stava disegnando un tram, gli si ruppe la matita. Accortosi ch’era del tutto inservibile, decise di usare gli acquerelli, disegnando un tram rotto dopo un incidente; egli continuava di tanto in tanto a parlare con se stesso circa il cambiamento del suo disegno. In pratica il linguaggio egocentrico fungeva da mediatore fra quello vocale (se vogliamo "autistico") e quello "interiore" (quello che dà "senso" alle cose).
Qual è la differenza, sotto questo aspetto, fra l’adulto e il bambino? Secondo Vygotsky, il linguaggio egocentrico del bambino è stato così interiorizzato dall’adulto che nell’adulto stesso non si manifesta più come tale. Piaget direbbe che non si manifesta più perché è scomparso; in realtà esso è stato solo "interiorizzato".
L’egocentrismo quindi è quella molla che permette di non essere soffocati dal conformismo sociale, per sua natura ripetitivo. Piaget invece pensava che il bambino diventasse adulto nel momento stesso in cui usciva dal piacere egocentrico per entrare nel dovere sociale.
IV) Secondo Vygotsky il pensiero autistico è un risultato del pensiero realistico di Piaget, poiché questi pretende che il pensiero realistico - sganciato da bisogni-interessi-desideri - sia "puro", capace di ricercare la verità per se stessa. Secondo Vygotsky il pensiero realistico di Piaget si trasforma in autistico perché presume di soddisfare con la fantasia i bisogni frustrati della vita (la logica staccata dalla vita porta all’irrazionalismo).
Va considerata superata la tesi che vede il pensiero egocentrico come un legame genetico tra quello autistico e quello logico-controllato. Nelle sue prime pubblicazioni, Piaget spostava addirittura fino all’età di 7-8 anni la presenza del pensiero egocentrico dominato dall’esperienza del gioco.
V) In Piaget l’apprendimento del bambino avviene utilizzando i risultati dello sviluppo senza modificarlo. Piaget vuole studiare l’apprendimento a prescindere dalle esperienze e conoscenze (cultura) del bambino. Ecco perché egli pone dei quesiti ai quali il bambino non è in grado di rispondere: p.es. "perché il sole non cade?". Piaget vuol costringere il bambino a lavorare su problemi del tutto nuovi, illudendosi di poter studiare le tendenze del suo pensiero in forma pura.
VI) Piaget si è preoccupato di descrivere le operazioni mentali, ma non si è preoccupato di delineare una didattica che modifichi la situazione in cui si svolge l’apprendimento.
VII) Piaget non prende in considerazione i fattori culturali che condizionano le risposte del bambino (cioè le acquisizioni anteriori, ovvero l’appartenenza a un gruppo, ceto sociale...). Gli interessa soltanto descrivere le differenze del comportamento mentale del bambino, a seconda delle età, rispetto al comportamento mentale dell’adulto. Ciononostante può essere considerata acquisita la sua ripartizione degli stadi conoscitivi: intelligenza senso-motoria, esperienze concrete, operazioni formali.
* Cfr. "LA TEORIA DI PIAGET SULLO SVILUPPO MENTALE DEL BAMBINO" ("Homolaicus" - ripresa parziale - seconda parte).
NOTA A MARGINE DI UNA FOTO Di JEAN PIAGET NEL SUO STUDIO (1979) RIPRESA NEL PROFILO "IL MESSIA DEI LIBRI" (FACEBOOK, 20 APRILE 2024) *:
#EPISTEMOLOGIA, #GENESI, #BIGBANG, #ANTROPOLOGIA E #COSMOLOGIA. Enza Sim ... geniale commento! Condivido: "Penso che [Piaget] col dito indichi il #thermos" (e che, come #Newton, con la famosa "mela", abbia avuto una ’illuminazione’) In principio era il #calore "thermico" del "big bang": alla #luce della #fotografia (1979), si può ben #osare #pensare (#Kant204) che la #ricerca di Piaget fosse ben intesa a rendere pensabile una "epistemologia #genetica" che chiarisse il tema stesso del biblico "Genesi", che fosse antropologicamente e filosoficamente una "epistemologia geneSica" e, finalmente, rendesse possibile l’#analisi della #bellezza di tutte le cose, prodotte dall’#amore cosmogonico che "move il #Sole e le altre stelle" (#DanteAlighieri, Par. XXXIII, 145).
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