Nella preghiera che è inserita nella prefazione della Instauratio magna sta scritto:
*
* Sull’argomento, si cfr.:
Paolo ROSSI, SPERIAMO CON BACONE. L’enciclica papale "Spe salvi" convalida un’immagine diffusa, ma purtroppo inesatta, del Lord Cancelliere. Il quale non ha mai propugnato alcuna fede cieca nel progresso. "Il Sole-24 ore", domenica, 9 dicembre 2007, p. 47. - Per il testo completo della "preghiera", si cfr.: Francesco Bacone, Scritti filosofici, a c. di Paolo Rossi, Utet, Torino 1975, p. 528. Sul tema, in particolare, si cfr.: Paolo Rossi, Bacone e la Bibbia, in - Aspetti della rivoluzione scientifica, Morano editore, Napoli 1971, pp. 51-82.
FRANCESCO BACONE (Wikipedia)
DANTE (E BACONE), ALLE ORIGINI DEL MODERNO!!!
L’APOSTOLO ASTUTO E MENTITORE, SENZA GRAZIA ("CHARIS") E SENZA AMORE ("CHARITAS")! UNA NOTA SULL’OPERAZIONE DI SAN PAOLO:
Il segreto di Saba
di Roberto Mussapi (Avvenire, martedì 22 gennaio 2019)
«Non c’è uomo né donna sotto i cieli/ che possa osare competere/ in conoscenza e sapere con noi due,/ e noi per tutto il giorno abbiamo trovato/ che niente al mondo può fare del mondo/ uno stretto recinto, se non l’amore».
Versi di uno dei massimi poeti, William Butler Yeats. Il lettore ora conosca il titolo della poesia, Salomone a Saba, e i primi due versi: «Salomone cantò a Saba,/ baciandole il volto bruno»: il poeta immagina l’incontro tra il re più sapiente degli Ebrei e la maga, la donna regina di Saba depositaria del sapere antico, magico.
Le parole di Salomone sono quelle di Yeats che intuisce la fusione di magia e sapienza, le introduce con due versi: «Salomone cantò a Saba,/ baciandole gli occhi da araba». Salomone ha trovato la comprensione definitiva dell’essere umano, solo dopo avere baciato gli occhi d’araba di Saba: scopre che l’essenza della vita è fusione tra sapienza (che non è erudizione) e magia (che è senso creaturale, non occultismo): sapienza e magia si baciano e abbracciano, per trovare il segreto e l’ origine di tutto: l’amore. Che crea un impercettibile ai sensi ma reale recinto: senza amore tutto si disperde, anche le parole e i sospiri di chi ama. L’amore crea recinto, confine libero, spazio ordinato e definito, armonia.
Paolo Rossi (1923-2012)
Nel labirinto delle idee
Non leggere manuali ma lavorare sulle fonti direttamente e, soprattutto, lasciare spazio al «copernicanesimo cognitivo»: i ferri del mestiere di un grande storico e filosofo
di Massimo Bucciantini (Il Sole Domenica, 07.12.2014)
In un articolo su Repubblica di metà settembre Simonetta Fiori osservava che oggi più che mai abbiamo bisogno di storici che sappiano «trapanare il muro del tempo». E raccontava come negli Usa diversi commentatori e imprenditori - a cominciare da Bill Gates - stavano ben comprendendo la lezione, cioè che per spiegare questo presente insanguinato, con i suoi nazionalismi e populismi, il ritorno ai califfati e i nuovi razzismi emergenti in larga parte dell’Europa, non bastano i professionisti della comunicazione.
Non è mai troppo tardi, verrebbe da aggiungere. Visto come stanno andando le cose, cominciare a ripensare alla composizione degli staff presidenziali dopo la guerra del Golfo e l’invasione dell’Afghanistan forse non sarebbe un cattivo investimento.
Non è difficile immaginare quanto questa idea della storia come disciplina che sappia reinterpretare il presente avrebbe trovato un assenso incondizionato da parte di uno storico come Paolo Rossi. A patto, ovviamente, di considerarla "scienza" dell’imprevedibile, di un passato pieno di cose nuove e sconosciute, sempre pronta a mettere in dubbio le nostre poche certezze. A patto di non rinchiuderla dentro gabbie o corporazioni accademiche, ovvero di essere consapevoli che «a differenza di quanto accade nelle religioni, nelle storie non ci sono testi assoluti, ma soltanto testi relativi».
Nel 1999, quando uscì il suo saggio Apologia di un mestiere con cui si apriva Un altro presente. Saggi sulla storia della filosofia (il Mulino), non feci caso a una frase che a rileggerla dopo tanto tempo assume ben altro significato e che si lega, per contrasto, alle considerazioni sulla storia come disciplina oggi più che mai necessaria. È un passo in cui Rossi sostiene che i manuali non servono, che sono tempo perso per chi li fa e, soprattutto, per chi li studia. Che per quanto siano ben fatti, allontanano dal senso della profondità, comprimendo fatti e idee dentro a contenitori dove spesso non c’è spazio per il groviglio di domande che contano.
Allora, quindici anni fa, gli esiti del cosiddetto 3+2 nel settore umanistico (e mi riferisco solo a questo ambito, perché nelle discipline scientifiche forse ha funzionato benissimo) non si erano ancora realizzati. Ma i più avvertiti avevano già capito l’impoverimento culturale a cui quella riforma - che prendeva avvio proprio in quell’anno - avrebbe portato. E cioè che per almeno i primi tre anni non si sarebbe fatto altro che impartire una conoscenza superficiale, ovvero si sarebbe fatto finta di insegnare la storia, la filosofia, la letteratura, le scienze umane. In un periodo decisivo per la formazione delle nuove generazioni si sarebbe gabellato per università ciò che università non era. Al massimo una messa a punto di ciò che era stato insegnato negli anni precedenti, con qualche coraggiosa apertura a quelli che una volta si chiamavano corsi monografici. E tutto ciò con la giustificazione che i ragazzi di oggi non sanno niente. Con il bel risultato che dopo tre anni avrebbero continuato a non sapere niente o quasi niente.
Scriveva Paolo Rossi: «Per diventare storici è necessario, prima di ogni altra cosa, mettere da parte i manuali (soprattutto di storia della filosofia), e cominciare a lavorare direttamente sulle fonti, leggendo qualche libro esemplare di storia e seguendo il metodo e l’esempio di qualcuno che ha già svolto ricerca». E poi avvertiva che se in filosofia possono esistere filosofi autodidatti, in storia questo non è possibile. «Gli storici insegnano anche un mestiere, così come si insegna a impagliare sedie o a costruire un muro di mattoni o effettuare un intervento di chirurgia». Frasi che meriterebbero di essere mandate a memoria e trasmesse a chi oggi si accinge a fare questo mestiere - insieme ad alcuni dei suoi scritti più celebri come Clavis Universalis e Francesco Bacone: dalla magia alla scienza.
Due, in particolare, sono le cose che subito s’imparano dai suoi libri. La prima è che si possono leggere libri di storia senza annoiarsi e senza che vengano semplificate cose che non possono essere semplificate. Basta aprire un suo libro a caso - oppure tornare a leggere gli articoli frutto della sua lunga collaborazione con la Domenica del Sole 24 Ore - per rendersi conto di quanto la sua scrittura fosse poco italiana. Saggi che iniziano in modo secco e conciso, a volte con elenchi di proposizioni, con interrogativi, con distinzioni schematiche e sintetiche, che hanno il grande merito di mettere il lettore immediatamente a proprio agio e catapultarlo dentro al vivo delle questioni.
La seconda - che aveva imparato da chi questo mestiere lo conosceva bene - è che le categorie di precorrimento e di anticipazione falsano la prospettiva storica e creano fantasmi e immagini fittizie, ostacolando la conoscenza dei contesti entro i quali i fatti accadono. Una convinzione in lui molto forte, a tal punto da farlo entrare spesso in polemica con scienziati ed epistemologi.
Ma una delle peculiarità che più emerge dal suo lavoro è stata quella di averci aiutato a riconoscere nel mondo delle idee le impurezze: la straordinaria mescolanza di attitudini di pensiero che danno luogo a molteplici e spesso contrastanti forme di rappresentazione del reale.
Naturalmente per vederle è necessario coltivare e dare spazio a una posizione che lui chiamava di «copernicanesimo cognitivo», ovvero il rifiuto di qualsiasi idea che fa di noi stessi la misura del mondo. Un’idea regolativa che può essere applicata sia per indagare la pluralità e la coesistenza delle concezioni sulla natura alla fine del Cinquecento sia per comprendere i fondamentalismi e i nazionalismi del XXI secolo. E che al tempo stesso si presenta anche come un’ottima terapia per curare i sintomi di rinascenti filosofie troppo assolute e troppo sicure dei loro fondamenti.
A due anni dalla sua scomparsa uno dei modi per ricordarlo è provare a interrogarci sul significato di quel suo peculiare modo di fare storia delle idee, troppo sbrigativamente appiattito su autori come Arthur Lovejoy che pure lui contribuì a far conoscere in Italia. Ma che sono distanti dalle immagini del mondo che tanto lo appassionavano. Un mondo in cui le idee viaggiano senza protezione per labirinti e selve, per vie nascoste e sotterranee, che si trovano in uno stato sempre precario e di perenne contaminazione, pronte a essere travolte da conflitti mondiali oppure a vivere in una calma solo apparente.
Così, se volessimo tracciare una mappa europea delle origini della modernità, con particolare riferimento alle scienze matematiche, astronomiche e fisiche, ci troveremmo di fronte a una serie impressionante di isole e frontiere, di zone di confine e territori ostili governati da leggi molto diverse tra loro. La scienza moderna è figlia dell’impurezza e nasce dalla concorrenza tra tante individualità che neppure per un minuto pensano di allearsi e combattere insieme la loro battaglia di rinnovamento. È a posteriori che noi vediamo un partito dei moderni, perché è la nostra idea di modernità che sovrapponiamo al corso degli eventi reali.
Non era questo in fondo il senso di una sua ricorrente affermazione, e cioè che la nascita della scienza moderna non è nata nella quiete dei campus? È quello che avremmo desiderato, ma così non è stato. La storia non segue i nostri sogni epistemologici. Possiamo anche usarli per cercare di mettere un po’ d’ordine nel mondo caotico che ci circonda, ma sapendo che sono modelli fittizi, ben lontani dal rappresentare la complessità del reale. «Ai grandi racconti dei filosofi c’è una sola tesi da contrapporre: quella della varietà che è irriducibile all’unità, quella del totale non-senso della riduzione a unità di tutto ciò che accade».
«La ragione curiosa».
Giornata di studi in ricordo di Paolo Rossi
Milano, 20 settembre 2013
Relazioni di Carlo Altini, Davide Balzano, Lina Bolzoni, Roberto Bondì, Matteo Borri, Giuseppe Cacciatore, Giulio Giorello, Stefano Miniati, Laura Nicolì, Yamina Oudai Celso, Emanuele Ronchetti, Maria Pia Vannoni, Andrea Vestrucci.
Allegato-programma:
Paolo Rossi, una vita nel segno del tempo
È morto uno dei più importanti studiosi italiani della storia e della filosofia della scienza del dopoguerra. Fu allievo di Garin ma con gli anni si allontanò dalle sue idee e rimise in discussione i modelli interpretativi del Rinascimento
di Michele Ciliberto (l’Unità, 15.01.2012)
Si è spento ieri, all’età di 89 anni, Paolo Rossi il nostro maggior studioso di storia della cultura scientifica. Era nato a Urbino nel 1923. Oggi tra le 14 e le 19 la salma sarà esposta nella sua abitazione fiorentina. La cerimonia funebre avrà luogo domani a Città di Castello (Perugia), città dove ha insegnato al Liceo Classico. «Stava scrivendo ha detto il suo allievo Alessandro Pagnini una raccolta di saggi e memorie già edite con una parte nuova che doveva completare». Allievo di Eugenio Garin a Firenze, insegnò Storia della filosofia all’università di Milano, e dal ’66 a Firenze dove è rimasto sino al 1999, diventando poi professore emerito.
Non credo mi facciano velo la lunga amicizia, e il profondo affetto che mi ha legato alla sua persona, ma credo di poter dire con sufficiente obiettività che Paolo Rossi è stato una delle maggiori personalità della cultura italiana dell’ultimo mezzo secolo. Non solo, voglio precisare, italiana: le sue opere più importanti sono state tradotte in molte lingue ed hanno avuto un effetto assai rilevante nello sviluppo della ricerca in Italia e nel mondo sul pensiero filosofico e scientifico moderno il punto centrale della sua ricerca fino agli ultimi giorni di vita.
Ne sono una testimonianza precisa i numerosi riconoscimenti che ha avuto anche sul piano internazionale: nel 1985 la medaglia George Sartom per la Storia della scienza e da ultimo, nel 2009, il premio Balzan, il massimo riconoscimento per il suo impegno di studioso e di maestro di molte generazioni.
Paolo Rossi era nato ad Urbino nel 1923, figlio di Mario Rossi un valoroso studioso di Dante e aveva studiato a Firenze con Eugenio Garin laureandosi con una tesi sulla filosofia italiana contemporanea; ma si era rapidamente spostato verso il pensiero moderno prima con un lavoro su Giacomo Aconcio, poi con un libro fondamentale tradotto anche in inglese su Francesco Bacone (il suo «autore»), pubblicato nel 1957 dalla Casa Editrice Laterza al quale nel 1960 fece seguito un libro altrettanto fondamentale e come il Bacone tradotto in molte lingue : Clavis Universalis. Arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz.
Quale fosse il suo debito verso il maestro con cui si era formato è dichiarato in modo esplicito fin dalle prime pagine di questo ultimo libro: «Chi abbia familiare la letteratura sul Rinascimento vedrà chiaramente scrive quanto questo libro debba alle ricerche di Eugenio Garin...».
Era una constatazione obiettiva; sia il libro su Bacone che la Clavis si inserivano, con una nota originale, nel profondo ripensamento dell’Umanesimo e del Rinascimento che si realizza in Italia lungo gli anni Cinquanta. Mi limito a citare solamente tre testi assai caratteristici: Testi umanistici sulla retorica (1953); Testi umanistici su l’ermetismo (1955); Umanesimo e simbolismo (1958), tutti e tre promossi dall ’ «Archivio di filosofia», tutti e tre destinati ad aprire nuove piste, poi sviluppate da studiosi di prima grandezza come Frances A. Yates.
Attraverso l’analisi e la discussione di testi essenziali, Garin e la prima generazione dei suoi allievi elaborarono una nuova interpretazione del Rinascimento italiano ed europeo, rimettendo a fuoco in modi nuovi o per la prima volta i rapporti tra logica e retorica; l’incidenza delle problematiche magiche e astrologiche nel Quattro-Cinquecento; il valore e il peso dell’arte della memoria e delle tematiche lulliane nella costruzione delle più importanti filosofie rinascimentali.
Né c’è dubbio che Paolo Rossi sia stato, con Cesare Vasoli, uno dei massimi artefici di questa impresa: la Clavis universalis ora citata fu il risultato alto e originale di un lavoro decennale e di una radicale rimessa in discussione di quelli che erano stati i modelli interpretativi del Rinascimento dalla seconda meta dell’Ottocento e lungo la prima metà del Novecento, destinata a dare frutti decisivi nella concezione della genesi del «mondo moderno» e dei suoi caratteri costitutivi.
IL DISTACCO DAL MAESTRO
Fu proprio su questo punto che si aprì, con gli anni, un distacco ed anche un contrasto assai forte e netto fra Rossi e Garin, destinato a riverberarsi anche nella interpretazione di pensatori di primo piano come Gianbattista Vico. Il punto principale del dissenso fu illuminato con chiarezza dallo stesso Rossi nella Introduzione per la nuova edizione del Bacone nel 1974: «Col passare degli anni scrisse si è fatta in me più forte la convinzione che illuminare la genesi non solo complicata, ma spesso assai torbida di alcune idee “moderne” sia altra cosa dal credere di poter annullare o integralmente risolvere queste idee nella loro genesi».
Non si trattava solo di un discorso di metodo: al fondo, quello che Rossi aveva ormai messo a fuoco e intendeva collocare al centro di tutto il suo lavoro era la differenza strutturale tra «mondo moderno» e «mondo dei maghi» cui apparteneva, ad esempio, un personaggio come Giordano Bruno, denotata da elementi essenziali fra cui spiccavano la dimensione «pubblica» del sapere scientifico moderno rispetto a quella «segreta e iniziatica» del sapere rinascimentale o il principio dell’«eguaglianza delle intelligenze» quale tratto fondamentale della «modernità». E su questa base , Rossi aveva elaborato una nuova «periodizzazione» imperniata sui grandi protagonisti della rivoluzione scientifica moderna da Copernico a Newton.
In altre parole, Rossi negli anni Settanta si era distaccato, una volta per tutte, da quelle tesi che, sulla scia di Cantimori, insistevano sulla «continuità» delle «idee» fra Quattrocento e Settecento sottolineando, per contrasto, la originalità della «ragione» classica moderna e la sua radicale, e insuperabile, differenza con il Rinascimento.
Da queste tesi Rossi non si sarebbe mai più allontanato, anzi le avrebbe sviluppate in lavori che oggi sono dei classici (mi limito a citare I segni del tempo,1979), nel vivo di una ricerca che, risalendo dal passato, prendeva posizione nel presente contrapponendosi in modo frontale alle derive «irrazionalistiche» contemporanee e difendendo, in modo intransigente, l’eredità e le conquiste della «ragione» moderna. Ma e qui sta uno dei suoi tratti più originali Rossi ha svolto questa battaglia tenendo sempre fermo due principi: la consapevolezza che non bisogna ridurre il «passato» al «presente» perché il passato è «un altro presente»; la necessità di confrontarsi con i punti più alti del pensiero contemporaneo da Freud a De Martino senza mai rinchiudersi in una difesa passiva della «tradizione», di qualunque tipo essa sia.
Anzi, se si volesse segnalare il tratto più specifico della sua personalità, si potrebbe individuarlo nella inesausta curiosità, nell’inesauribile interesse per il mondo: quella curiosità, quell’ interesse che lo spingevano a guardare sempre avanti pensando a nuovi lavori, a nuovi libri fino agli ultimi momenti della sua vita bella e gloriosa.
Paolo Rossi. L’apocalisse può attendere.1
L’utopia
La polemica con gli intellettuali «nuovi sciamani»
Contro il neo-catastrofismo di Asor Rosa, Ceronetti, Bodei
di Alberto Melloni (Corriere della Sera, 4.1.2009)
La speranza taglia il nostro tempo in parti diseguali. Da un lato la regione in cui la speranza s’è eclissata, quasi che nulla si potesse attendere dal futuro che non sia il rallentarsi del passo del peggio: ed è la nostra, dove la caduta dei mercati, quasi come in un Ottantanove dell’Occidente, non ha causato né frastuoni né rivoluzioni, ma un mero intasarsi di angosce e meschinità. Dall’altro lato le speranze che scuotono la superficie immobile della storia: quelle che hanno smosso i mondi segregati per obiettivi tanto reali quanto ardui, come quello della fine dell’apartheid o perfino del riscatto impersonato dalla vita, prima ancora che dall’elezione presidenziale, di Barack Obama.
Ma un terzo ambito, forse il più grande, è quello che il bel libro Speranze di Paolo Rossi chiama le «speranze smisurate»: quelle che hanno mobilitato generazioni nell’attesa di una palingenesi sociale e socialista dietro la quale resta una scia di disincanto, spesso degenerato nel cinismo di cui quell’eccitazione non è incolpevole.
Con queste futurologie ideologiche il filosofo fiorentino polemizza con feroce ironia, stigmatizzando coloro che in vista di quelle attese hanno prodotto le profezie a basso prezzo e le escatologie secolarizzate un tempo d’impronta marxiana, oggi più spesso ecologista. Se un tempo l’autoillusione produceva materiali politici, oggi è spesso nell’orizzonte della più artificiale delle idee - la «natura» - che si innesca il perverso congegno della paura: la visione d’un futuro d’inferno - e non è un caso che anche davanti alla prospettiva di un pianeta inondato da ghiacci sciolti si parli di «riscaldamento globale » con una evidente allusione alla cifra termica dell’inferno - è stata infatti puntualmente smentita dagli sviluppi delle conoscenze che hanno relativizzato la fine del mondo. Ma come nella vecchia catechesi (osserva Rossi ricamando sul Pomponazzi) anche questa visione cupa del futuro serve ad educare quello che si ritiene volgo e per questo merita il sarcasmo del dotto studioso.
Al contrario, le speranze ragionevoli che Rossi loda e raccomanda sono quelle che mirano a incidere sul tempo senza bisogno di ricorrere alle paure o all’illusionismo intellettualistico, che resistono alla tentazione di andare ultra vires con mite eroismo. Per questo producono una pragmatica disincantata, che riesce a leggere nel lento e deludente spostarsi degli indici del male (quelli della fame, del sottosviluppo, eccetera) una chiamata alla intensità della propria azione e del proprio rigore, piuttosto che il frammento del grande mosaico dove, ideologumeno dopo ideologumeno, apparirà il sol dell’avvenire.
Per quanto si senta in molte pagine il desiderio di stigmatizzare l’intellighentsia italiana - graffiante con Asor Rosa, Rossi morde la visione sciamanica dell’heideggerismo di Volpi, non risparmia allusioni feroci a Citati e a Ceronetti, a Schiavone e a Zolo, fino a quelle tacite a Severino e a Bodei - Speranze è libro che interroga a fondo ogni esperienza. Anche quella religiosa che sulla qualità delle speranze viene giudicata.
Leggendo queste eleganti pagine, viene infatti da chiedersi cosa sia accaduto alla speranza teologale: non a caso Rossi chiude facendo sua una frase di Benedetto XVI che alla speranza ha dedicato la sua prima enciclica. Ma si tratta di una finta chiusa: perché la questione di come le speranze secolarizzate (con correlativa secolarizzazione di inferni, paradisi, uomini nuovi e terre promesse) abbiano ammutolito la speranza della redenzione rimane aperta. E su come la si interroga il modo in cui Rossi scuote la filosofia, è una lezione.
Paolo Rossi. L’apocalisse può attendere.2
La scienza
Le sfide della modernità oltre tutte le certezze
Ottimisti e pessimisti assoluti così uguali sotto la maschera
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 4.1.2009)
«Una nuvola in cielo: prima sembra un coccodrillo, poi la faccia di una bella ragazza », scherza Paolo Rossi ogni volta che qualcuno pretende di aver compreso il fine (o la fine) della storia. E si disegna sul volto dello studioso - uno dei maggiori rappresentanti della «storia delle idee» - un sorriso tra il malizioso e lo scettico. Cita una poesia di Montale: «La storia... si sposta di binario e la sua direzione non è nell’orario» - come quel bizzarro treno che Topolino ha preso nel corso di una delle sue avventure irlandesi; ma un cartellone lo aveva avvisato, sul tabellone quel treno era segnato con «Partenza: ora» e «Arrivo: forse» (per la cronaca, si tratta di La scarpa magica, del 1953). Come dire che l’inizio è sempre adesso e il destino non è mai compiuto.
Nel 2006 Rossi ha pubblicato (presso Raffaello Cortina) un elegante affresco del Rinascimento visto come Il tempo dei maghi, ove ancora si è convinti che... recitare la giusta formula permetta di cambiare il corso degli eventi. Oggi ci ammonisce che quel tempo non è finito - almeno non per tutti. Abbondano personalità di spicco che, per esempio, lamentano il dominio della tecnica, annunciano la guerra tra le civiltà o rilanciano il tramonto dell’Occidente. Sono dei maghi, se si tratta di politici; si accontentano del ruolo di profeti, se sono degli intellettuali.
Rossi invita a sospettare di entrambe le categorie (e, se possibile, di farne addirittura a meno): si trova in ottima compagnia, quella di Primo Levi, che invitava ad accontentarsi di verità ben più modeste, «quelle che si conquistano faticosamente con lo studio, la discussione e il ragionamento, e che possono essere verificate o dimostrate ». Ai tempi eroici dell’Urss c’era chi celebrava l’onnipotenza del marxismo con queste parole: «Perché credi che Lenin giaccia a Mosca perfettamente intatto? Attende la scienza, vuole risorgere dai morti». Intanto Stalin «liquidava» (anche) quel tipo di intellettuali.
Nel suo recentissimo Speranze (il Mulino) Rossi non risparmia ottimisti e pessimisti assoluti, così diversi in superficie, così uguali sotto la maschera. Non attende alcuna redenzione, nemmeno dalla scienza. Questa resta un’attività pubblica e controllabile in cui nessuno ha il monopolio della verità né tantomeno quello dell’autorità. È un’impresa che apre nuove libertà, ma obbliga a inedite responsabilità - come i dibattiti sulla portata delle biotecnologie e la questione dell’accanimento terapeutico stanno a dimostrare. Ed è quasi impossibile prevedere le conseguenze di lungo periodo di questa o quella umana «invenzione ». È dunque inutile aspettarsi «un nuovo cielo e una nuova terra», come recita l’Apocalisse di Giovanni: accontentiamoci di sondare con i nostri telescopi il cielo che già abbiamo e di non devastare la terra che abitiamo. Ma senza fanatismi: Rossi non ama né scientisti a oltranza né ecologisti selvaggi.
Per concludere: Rossi formula la «modesta proposta» di sostituire alle speranze «smisurate » quelle «ragionevoli»; ne dà più di un esempio e quello che io apprezzo di più riguarda la vicenda che ha portato alla cessazione della lotta armata nella cosiddetta Irlanda del Nord occupata dall’esercito britannico. Persone che per decenni erano state sui lati opposti della barricata (repubblicani indipendentisti contro unionisti filoinglesi) si sono trovate fianco a fianco nello stesso governo. La stampa internazionale ha parlato persino di un «miracolo»; ma ho l’impressione che né Paolo né io crediamo ai miracoli.
Siamo invece disposti a scommettere su quel «faticoso lavoro» di cui parlava Primo Levi.
l’Unità, 17.10.2008
Anatema del Papa contro gli scienziati: attratti da facili guadagni
Ricerca, Ratzinger condanna «l’arroganza di sostituirsi a Dio».
E poi mette in guardia sulla «speculazione sfrenata»
di Roberto Monteforte
La scienza non è in grado di elaborare una sua etica. Deve confrontarsi con la filosofia e con la teologia per evitare che «proceda da sola in un sentiero tortuoso e non privo di rischi» e non cadere «nelle sue patologie». Lo afferma Benedetto XVI ricevendo in udienza i partecipanti al congresso sull’enciclica «Fides e Ratio» organizzato dalla Pontificia università Lateranense. Per il Papa questo non significa affatto limitare la ricerca scientifica o impedire alla tecnica di produrre «strumenti di sviluppo», quanto piuttosto di «mantenere vigile il senso di responsabilità che la ragione e la fede possiedono nei confronti della scienza» e - aggiunge - perché questa «permanga nel solco del suo servizio all’uomo».
Vede pericoli Ratzinger che non crede alla possibilità da parte della comunità scientifica di darsi un suo autonomo codice deontologico. Evoca il rischio che la scienza moderna anziché seguire il benessere dell’umanità, persegua «il facile guadagno o, peggio ancora, l’arroganza di sostituirsi al Creatore». Definisce la tentazione di «produrre» la natura oltre che a studiarne le verità più profonde, «una forma di hybris (arroganza) che «può assumere caratteristiche pericolose per la stessa umanità». Parole che suonano come un vero affondo contro l’autonomia della scienza, come sfiducia verso la sua capacità di darsi autonomi riferimenti etici e di resistere alle pressioni del mercato. Una sortita che ha provocato le reazioni di figure eminenti della comunità scientifica. Critica è stata quella dell’astrofisica Margherita Hack per la quale le parole del Papa sono «fuori dal mondo». «Gli scienziati - ha detto - sono persone come tutte le altre. Tra di essi, quindi, c’è chi pensa solo ai soldi e chi invece dedica tutta la sua vita al progresso dell’umanità». «Considerato che la maggior parte degli scienziati, soprattutto quelli italiani, lavorano il più delle volte in condizioni di estrema precarietà, le dichiarazioni del Papa sono davvero fuori dal mondo». «I principi etici - ha aggiunto - non sono solo dei credenti. Il principio etico “non fare agli altri ciò che non vorresti che gli altri facciano a te” riguarda i credenti come i laici e gli atei». Hanno, invece, apprezzato le parole del Papa il fisico Antonino Zichichi e il presidente dell’Istituto superiore di Sanità, Enrico Garaci.
Quello sulla scienza non è stato l’unico richiamo ieri del Papa. Nel suo messaggio inviato alla Fao in occasione della giornata mondiale dell’alimentazione, Benedetto XVI ha lanciato un monito fortissimo contro la «speculazione sfrenata» che tocca i meccanismi dei prezzi e dei consumi e che finisce per colpire gli «ultimi». «Basta agli egoismi degli Stati» ha aggiunto osservando come, malgrado vi siano mezzi e risorse sufficienti per soddisfare le crescenti necessità di tutti, «nel mondo, invece, ci sono sempre più affamati». Nonostante la crisi economica mondiale - questo il suo invito - «occorre promuovere un nuovo modo di intendere la cooperazione internazionale, basato sul rispetto della dignità della persona», perché l’indirizzo economico deve essere orientato «verso la condivisione dei beni, verso il loro uso durevole e la giusta ripartizione dei benefici che ne derivano».
ll Papa alla Sapienza
Lo scontro tra la scienza e la fede
di Enzo Mazzi (il manifesto, 16 gennaio 2008)
Lo scontro fra la scienza e la fede che si sta dispiegando sotto i nostri occhi increduli in momenti nodali dell’attuale vicenda umana, religiosa e politica, ripropone in termini formalmente nuovi ma sostanzialmente identici la dura competizione che si è scatenata all’alba della modernità fra la «fede ormai impallidita» e la scienza che stava nascendo.
Ci sembra di tornare indietro di cinquecento anni quando il potere ecclesiastico e quello scientifico entrarono in feroce concorrenza per l’egemonia sul mondo nuovo. E fra i due contendenti fu schiacciata quella corrente dell’umanesimo, presente sia nella Chiesa che nel mondo scientifico, che era intrisa di amore per la natura.
Impedendole di svilupparsi e di indirizzare la nascente razionalità scientifica verso esiti meno distruttivi. La storica Anna Foa, nel suo Giordano Bruno, si domanda se gli inquisitori non fossero partecipi ben più di Bruno (e di Galileo), in quell’inizio del secolo XVII, di una mentalità ’moderna’, e non rientrassero ormai nell’ambito di un pensiero razionalistico e ’geometrico’ che non offriva più spazio né credito alla cultura naturalista del Rinascimento. Benedetto XVI ripropone nei suoi pronunciamenti quella sciagurata spartizione che ha avuto esiti così disastrosi. E lo farà, c’è da scommettere, anche alla Sapienza: a voi il dominio materiale sulla natura, alla Chiesa il dominio assoluto etico e spirituale. Chi fa le spese di una tale spartizione sono i Bruno, i Galilei e le streghe di oggi. Come il Sabba fu lo strumento inquisitorio della caccia alle streghe così oggi si usa l’aborto per accendere nuovamente i roghi delle donne. Un passo avanti si è fatto: è sparito il rogo fisico. Ci si contenta di riproporre la condanna penale dell’aborto e la moratoria. Ma il risultato culturale e politico è sempre lo stesso: l’annullamento della soggettività femminile come soluzione finale per il dominio moderno sulla natura. Le persecuzioni delle streghe non furono un fenomeno medioevale.
Il culmine dei pogrom è tra il 1560 e il 1630, quindi all’inizio dell’epoca moderna. Gli ultimi processi contro le streghe ebbero luogo nel 1775 in Germania, nel 1782 in Svizzera e nel 1793 in Polonia. Le «streghe» vennero lacerate tra la Chiesa, che voleva tener salda la «fede ormai impallidita» come bastione di resistenza, e la «ragione che stava fiorendo» e che portava al dominio sulla natura. La fede impallidita e la ragione fiorente, in feroce competizione per l’egemonia sul mondo nuovo che stava nascendo, si allearono per togliersi di mezzo la donna, radicale ostacolo alla cultura del dominio. I medici, ad esempio, contribuirono sistematicamente con la loro consulenza specifica al controllo del grado di tollerabilità delle torture delle streghe. Lo fecero per danaro ma anche per strategia politica e di potere. Il nuovo soggetto «illuminato» doveva costituirsi in opposizione alla natura interiore ed esteriore e non in sintonia con esse. L’immagine magica del mondo, che aveva potuto resistere nei secoli nonostante la cristianizzazione, venne eliminata all’irruzione del periodo manifatturiero, con il trionfo della scienza moderna sulla teologia.
Suo becchino fu però la chiesa, cosa che comportò l’assassinio delle donne, nel senso più vero dell’espressione. La cifra di un milione di roghi non è esagerata. Sia l’umanità medioevale che impallidiva e resisteva sia la «nuova» umanità dell’epoca industrializzata era maschile. Scrive queste cose, ed è sintomatico, la teologa tedesca Hedwin Meyer Wilmes docente di teologia femminista all’università cattolica di Nimega - Olanda, sulla rivista teologica internazionale Concilium 1/98. La competizione storica delineata sopra per l’egemonia sulla modernità prosegue oggi. Le modalità sono diverse, ma resta una competizione fra culture maschili che si alleano per togliersi di mezzo l’ostacolo comune e cioè la soggettività femminile. Dopo quattro secoli di rimozione, il naturalismo riemerge in forme nuove. Esso non è da confondere con la negazione dell’evoluzione in nome di una visione mitica della natura né con l’espandersi del mercato ai bisogni della psiche attraverso mode pseudo-religiose. È piuttosto emersione di soggettività dal basso e riscatto di culture represse. In qualche modo un ritorno della cultura delle streghe e dei maghi del Rinascimento e anche un riscatto delle culture indigene. Non va dimenticato infatti che nei secoli XVI e XVII, insieme al genocidio delle streghe e dei maghi si realizza il genocidio dei popoli indigeni delle Americhe e in Asia dei popoli di cultura sciamanica ad opera della colonizzazione russa.
È ormai consolidata nella esperienza e nella riflessione del femminismo la convinzione che la ridefinizione della relazione uomo-donna come reciprocità, al posto della storica dipendenza gerarchica, fa tutt’uno con la medesima ridefinizione del rapporto fra classi-popoli-culture dominanti e dominati e con la pacificazione fra umanità e natura, tanto che ormai si parla di «ecofemminismo». Si intitola significativamente Gaia e Dio. Una teologia ecofemminista per la guarigione della terra una recente opera di Rosemary Radford Ruether, teologa nord-americana di grande prestigio, in cui risuona il tema caro a Bruno e anche a Galileo della immedesimazione fra la uomo, natura e Dio.
La critica verso la divaricazione progressiva fra modernità e natura e il bisogno di nuovo naturalismo non è solo della teologia femminista, ma ora sembra l’approdo della stessa teologia della liberazione. «Tremate, tremate, le streghe son tornate», uno degli slogan più significativi del femminismo, è stato preso sul serio dai poteri che si contendono l’egemonia del mondo globalizzato. Ed è ripartita la caccia da parte sia di quel mondo scientifico che è legato a filo doppio alla nuova religione del danaro, sia di quel mondo della fede che punta con forza al ritorno del sacro e osteggia in ogni modo il processo storico di liberazione da ogni alienazione. Opporsi a questa orrida pratica repressiva verso la donna e verso la liberazione è parte della ricerca e della lotta per un «nuovo mondo possibile».
Papa: "Non voglio imporre la fede"
Solidarietà bipartisan, critiche all’ateneo *
La sala stampa vaticana diffonde il testo del discorso che Benedetto XVI avrebbe dovuto tenere domani a La Sapienza.
Fonte: la Repubblica, 16.01.2008
"SPE SALVI"
De Benedicti enciclica seconda
di Mario Mariotti *
Io continuo a chiedermi come faccia qualcuno, e mi riferisco a Benedetto XVI, a dire che gran parte del male del mondo sia stato e sia originato dall’ateismo e dal marxismo. Partendo dalle Crociate, passando per il genocidio dei popoli nativi delle Americhe, transitando per le torture e gli arrosti alla Giordano Bruno, proseguendo per il colonialismo, imperialismo delle grandi potenze europee, continuando a procedere per le guerre mondiali e l’olocausto, e arrivando alla blasfema rapina messa in atto dai Paesi ricchi e cristiani del Nord, rapina che ha come risvolto miseria e fame per immense moltitudini di persone ingannate e sfruttate, e la morte, ogni giorno, per migliaia di piccini per mancanza di uno spicciolo. Ebbene tutta questa incommensurabile caterva di “opere pie” è stata messa in atto da soggetti dalle più che certificate radici cristiane, che ripetevano e ripetono continuamente o “Dio lo vuole”, o “per volontà di Dio” o “Dio è con noi”. Nonostante lo sterminato numero di vittime del capitalismo reale, che ha vissuto e che vive associato ed in piena armonia con il cristianesimo reale, oggi che l’impero del male si è dato fallito, e quindi manca il soggetto che divora i preti e frati a tre al paio, il male continuano ad essere ateismo e marxismo, illuminismo e socialismo, ed il relativismo etico generato da loro.
Può reggere la spiegazione che questa enorme falsificazione della realtà sia originata dalla cultura di uno che pensa di avere la Verità a sua disposizione, e che è convinto che chi esprime del negativo non è un cristiano anche se pensa di esserlo? Se questo fosse vero, anche il negativo operato dai comunisti non sarebbe imputabile al comunismo, ma a coloro che credevano di esserlo senza esserlo. Ma non è così: settanta anni di comunismo meritano una condanna eterna, duemila anni di cristianesimo vanno solo redarguiti per qualche marginale deviazione...
Ma non è forse questo, l’applicazione di due logiche diverse, una esemplare manifestazione di relativismo etico, portata avanti da “sua Santità?”
Ma andiamo avanti: ecco l’enorme valore del cristianesimo, in quanto il Signore porta speranza, e il contenuto di questa speranza, è il futuro incontro dell’uomo con Dio. Speranza di un futuro positivo per l’uomo nell’al di là; potere della casta sacerdotale di aprirne o tenerne chiusa la porta; benedizione, o silenzio di profezia, sui tre cancri, capitalismo privato, mercato e competizione, che generano e mantengono l’inferno nell’al di qua, per lo sterminato popolo dei non-garantiti del pianeta.
Va tutto bene, eccetto un minimo particolare: tu, caro Benedetto, saresti il vicario di Uno, il Signore, che è venuto dall’al di là nell’al di qua, che si è incarnato in mezzo a noi, con lo scopo della sua trasformazione storica secondo Amore. Per questo, caro Benedetto, quando vorrai incominciare a conoscere Colui di cui ti senti vicario, non sarà mai troppo presto.
Devi stare a sapere che l’evento Incarnazione include il messaggio, che ha come destinatario l’uomo, che annuncia che l’Amore è possibile, che deve essere possibile non nell’alto dei cieli, ma in questo nostro tormentato mondo, mondo tormentato dalle religioni e non dagli atei, che non esistono, perché tutti hanno un qualche Dio e, in genere ognuno è il Dio di se stesso. Devi stare a sapere che il positivo del mondo non passa per il miracolo, ma per il “si” dell’uomo, e che il Signore non è affatto un salvatore, ma il Modello dei giudizi, delle scelte e dei comportamenti che salvano gli uomini stessi, attraverso la pratica dell’amore e della condivisione da parte di loro stessi.
Dovresti poi darti una regolata prima di pontificare che il capitalismo, qualora non moderato e senza regole, potrebbe includere “qualche effetto negativo”. Stai dicendo che Mammona, qualora riesca a dominare il proprio appetito (ipotesi del tutto virtuale), è compatibile con Nostro Signore. Stai attento che quest’ultimo non ti faccia causa. L’illuminismo poi, cioè la valorizzazione della ragione, viene dallo Spirito ed è nello Spirito, perché essa ragione è il dono-strumento indispensabile all’uomo per rendere efficace l’incarnazione dell’Amore fra gli uomini. Senza la razionalità e il metodo scientifico, non saremmo riusciti a debellare tante malattie, e il nostro amore per i malati resterebbe impotente.
Fede e scienza sono complementari, e il nostro compito è l’incarnazione scientifica dell’Amore, per togliere sofferenza e saziare ogni vivente.
Se pensiamo alla fine che stava per fare Galileo, ci rendiamo conto della cecità blasfema della religione sulla natura e sulla presenza dello Spirito. Il marxismo e il socialismo, a loro volta, con il loro impegno per realizzare un mondo egualitario, senza più servi né padroni, non nell’a di là, ma nell’al di qua, hanno dimostrato e continuano a dimostrare di aver raccolto il messaggio evangelico della necessità della Incarnazione molto più di S. R. Chiesa, che è sempre andata d’accordo con i Beniti, gli Adolfi e i Bush di turno, coltivando nei fedeli quella speranza nell’al di là che li lascia ostaggi della rapina e dello sfruttamento nell’al di qua, mentre sempre nell’al di qua, i pastori ricavano prestigio, benessere e potere.
E poi, a proposito della preoccupazione per il relativismo etico della cultura dilagante, non hai paura che uno di questo giorni arrivi qualcuno che ti premi proprio in questa materia? Vuoi portare Ogino-Knaus nell’inferno della favela, e ti preoccupi delle cellule staminali, in un modo che lascia crepare ogni giorno migliaia di cellule compiute, cioè bambini, per mancanza di cibo; con l’8 per mille ed altri privilegi la casta e tu stesso vivete nelle garanzie del socialismo reale, lasciando allo scoperto del capitalismo e del mercato le pecorelle che sganciano i balzelli.
Tu proclami beati i poveri della reggia, benedici le Ferrari, coi proletari ivi contenuti; metti insieme dei veri e propri concistori quando crepa un ricco, o un potente, o un vip e lasci dei poveri Cristi fuori dalla porta; ti presenti alle folle bardato in un modo che fa apparire come stile romanico-francescano la magnificenza disgustosa e indegna delle chiese ortodosse.
Non sono forse tutte queste, delle manifestazioni di relativismo etico, dell’enorme distanza fra il dover-essere e l’essere, di una incoerenza che purtroppo, continua a rimanere nascosta a quel popolo di fedeli-credenti che ti perdona tutto, per il millantato credito del potere delle chiavi, cosa della quale dovrai rendere conto, dato che presumi di sostituirti a Dio stesso? Anche il Signore nutriva la speranza quando si è lasciato assassinare dei sacerdoti del suo tempio: che i suoi seguaci si convertissero dalla religione alla Incarnazione. Tu e la casta l’avete fatto fallire, nascondendo il messaggio della necessità strutturale di tradurre l’Amore in condivisione. Allora il male continuano ad essere l’ateismo e il marxismo, mentre i cristiani virtuali partecipano alla fenomenologia del capitalismo, del mercato e della competizione, che porta i ricchi ad essere sempre più ricchi e lascia ai poveri la speranza che l’a di là sia per loro, meno schifoso di questo nostro al di qua, dove Tempio ed Impero persistono nell’innalzare i ricchi e nel rimandare i poveri a mani vuote.
Mario Mariotti
8 dicembre 2007