PAPA FRANCESCO
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 8 gennaio 2014 *
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi iniziamo una serie di Catechesi sui Sacramenti, e la prima riguarda il Battesimo. Per una felice coincidenza, domenica prossima ricorre proprio la festa del Battesimo del Signore.
1. Il Battesimo è il sacramento su cui si fonda la nostra stessa fede e che ci innesta come membra vive in Cristo e nella sua Chiesa. Insieme all’Eucaristia e alla Confermazione forma la cosiddetta «Iniziazione cristiana», la quale costituisce come un unico, grande evento sacramentale che ci configura al Signore e fa di noi un segno vivo della sua presenza e del suo amore.
Può nascere in noi una domanda: ma è davvero necessario il Battesimo per vivere da cristiani e seguire Gesù? Non è in fondo un semplice rito, un atto formale della Chiesa per dare il nome al bambino e alla bambina? E’ una domanda che può sorgere. E a tale proposito, è illuminante quanto scrive l’apostolo Paolo: «Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,3-4). Dunque non è una formalità! E’ un atto che tocca in profondità la nostra esistenza. Un bambino battezzato o un bambino non battezzato non è lo stesso. Non è lo stesso una persona battezzata o una persona non battezzata. Noi, con il Battesimo, veniamo immersi in quella sorgente inesauribile di vita che è la morte di Gesù, il più grande atto d’amore di tutta la storia; e grazie a questo amore possiamo vivere una vita nuova, non più in balìa del male, del peccato e della morte, ma nella comunione con Dio e con i fratelli.
2. Molti di noi non hanno il minimo ricordo della celebrazione di questo Sacramento, ed è ovvio, se siamo stati battezzati poco dopo la nascita. Ho fatto questa domanda due o tre volte, qui, in piazza: chi di voi sa la data del proprio Battesimo, alzi la mano. È importante conoscere il giorno nel quale io sono stato immerso proprio in quella corrente di salvezza di Gesù. E mi permetto di darvi un consiglio. Ma, più che un consiglio, un compito per oggi. Oggi, a casa, cercate, domandate la data del Battesimo e così saprete bene il giorno tanto bello del Battesimo. Conoscere la data del nostro Battesimo è conoscere una data felice. Il rischio di non saperlo è di perdere la memoria di quello che il Signore ha fatto in noi, la memoria del dono che abbiamo ricevuto. Allora finiamo per considerarlo solo come un evento che è avvenuto nel passato - e neppure per volontà nostra, ma dei nostri genitori -, per cui non ha più nessuna incidenza sul presente. Dobbiamo risvegliare la memoria del nostro Battesimo. Siamo chiamati a vivere il nostro Battesimo ogni giorno, come realtà attuale nella nostra esistenza. Se riusciamo a seguire Gesù e a rimanere nella Chiesa, pur con i nostri limiti, con le nostre fragilità e i nostri peccati, è proprio per il Sacramento nel quale siamo diventati nuove creature e siamo stati rivestiti di Cristo. È in forza del Battesimo, infatti, che, liberati dal peccato originale, siamo innestati nella relazione di Gesù con Dio Padre; che siamo portatori di una speranza nuova, perché il Battesimo ci da questa speranza nuova: la speranza di andare sulla strada della salvezza, tutta la vita. E questa speranza niente e nessuno può spegnere, perché la speranza non delude. Ricordatevi: la speranza nel Signore non delude mai. Grazie al Battesimo, siamo capaci di perdonare e di amare anche chi ci offende e ci fa del male; che riusciamo a riconoscere negli ultimi e nei poveri il volto del Signore che ci visita e si fa vicino. Il Battesimo ci aiuta a riconoscere nel volto delle persone bisognose, nei sofferenti, anche del nostro prossimo, il volto di Gesù. Tutto ciò è possibile grazie alla forza del Battesimo!
3. Un ultimo elemento, che è importante. E faccio la domanda: una persona può battezzarsi da se stessa? Nessuno può battezzarsi da sé! Nessuno. Possiamo chiederlo, desiderarlo, ma abbiamo sempre bisogno di qualcuno che ci conferisca questo Sacramento nel nome del Signore. Perché il Battesimo è un dono che viene elargito in un contesto di sollecitudine e di condivisione fraterna. Sempre nella storia, uno battezza l’altro, l’altro, l’altro... è una catena. Una catena di Grazia. Ma, io non mi posso battezzare da solo: devo chiedere ad un altro il Battesimo. E’ un atto di fratellanza, un atto di filiazione alla Chiesa. Nella celebrazione del Battesimo possiamo riconoscere i lineamenti più genuini della Chiesa, la quale come una madre continua a generare nuovi figli in Cristo, nella fecondità dello Spirito Santo.
Chiediamo allora di cuore al Signore di poter sperimentare sempre più, nella vita di ogni giorno, questa grazia che abbiamo ricevuto con il Battesimo. Incontrandoci, i nostri fratelli possano incontrare dei veri figli di Dio, veri fratelli e sorelle di Gesù Cristo, veri membri della Chiesa. E non dimenticate il compito di oggi: cercare, domandare la data del proprio Battesimo. Come io conosco la data della mia nascita, devo conoscere anche la data del mio Battesimo, perché è un giorno di festa.
* VEDI: VATICAN.VA - Udienza generale dell’8 gennatio 2014
Cultura e società
LA QUALITÀ DELLA MISERICORDIA IN SHAKESPEARE
La qualità della misericordia nel «Mercante di Venezia»
di Peter Milward *
Poco dopo aver proclamato il 2016 «l’Anno della Misericordia», Papa Francesco fece riferimento alle celebri parole che il più grande drammaturgo del mondo ebbe per la «qualità della misericordia». Sono le parole che Shakespeare mette in bocca a Porzia, l’eroina del Mercante di Venezia. Ella si rivolge all’usuraio ebreo Shylock nella drammatica scena del processo, durante il quale egli cerca di perpetrare legalmente la sua vendetta contro il mercante veneziano Antonio. In cambio di un prestito che il mercante non è riuscito a restituire, l’ebreo vuole ora prelevargli, come pattuito, una libbra di carne dalla zona del cuore. Durante il processo Shylock sottolinea i propri diritti legittimi e arriva a preparare il pugnale per prendersi ciò che gli spetta. Porzia, però, giunta dalla casa di Belmonte sotto le mentite spoglie di un giovane avvocato, ammette, da una parte, le buone ragioni di Shylock e, dall’altra, gli rivolge il famoso elogio della misericordia.
In questo modo Shakespeare prepara il palco per una specie di omelia sulla misericordia. Come sarebbe a dire? Non dovrebbe, un drammaturgo, attenersi a presentare la propria commedia in un teatro, protestano i critici, invece di mettersi a predicare da un pulpito? Certamente. Ma nel caso in cui egli voglia inserire un’omelia all’interno del dramma, chi mai glielo potrà impedire? Comunque sia, Shakespeare ci invita non solo ad ascoltare la sua omelia, ma anche a meditarne il significato.
«La qualità della misericordia non è forzata (strained)», egli esordisce. Ma in che senso interpretare questa strana parola, «forzata»? Qual è il messaggio di Shakespeare? O di Porzia? Quello che l’espressione significa è che nessuno può essere costretto a essere misericordioso: la misericordia deve sgorgare direttamente dal cuore. Deve cadere «come pioggia gentile dal cielo / sulla terra». Eccoci immediatamente proiettati nel mondo della Bibbia: al libro sapienziale del Siracide, che si riferisce proprio alla misericordia (Sir 35,25); al cantico di Mosè nel Deuteronomio, in cui si fa riferimento alla Sapienza (Dt 32,2; cfr anche Is 4,6); e alle parole di Gesù nel Discorso della Montagna, con rinvio all’amore di Dio (Mt 5,45).
Porzia continua così: «È due volte benedetta, / benedice chi la dona e chi la riceve». Sarebbe certo una benedizione per il povero Antonio, se gli fosse rimesso il debito, ma lo sarebbe anche per Shylock per averglielo rimesso. È come dice Gesù, in parole non riportate nei Vangeli, ma citate da san Paolo negli Atti degli Apostoli, dove si dà maggiore importanza al dono: «Si è più beati nel dare che nel ricevere!» (At 20,35).
«È più potente nei più potenti», Porzia aggiunge, apparentemente riferendosi ai governanti, che appaiono potenti secondo la prospettiva del mondo, per quanto il loro vero potere si manifesti invece in questa «qualità della misericordia». In una straordinaria ricchezza di immagini, ella prosegue così: «Si addice / al re seduto sul trono meglio della corona. / Il suo scettro mostra la forza del potere temporale, / attributo di soggezione e di maestà / in cui dimorano il timore e il terrore per il re».
Abbiamo un re seduto sul trono e con la corona in capo e lo scettro in mano, segno del suo potere di punire la disobbedienza. Ma tutto ciò non è che la superficie dell’apparenza esterna. Come ha detto poco prima il fidanzato di Porzia, Bassanio, prima, cioè, di scegliere (giustamente) lo scrigno di piombo: «Così possano le apparenze esterne essere sempre meno se stesse, / il mondo è sempre ingannato dagli ornamenti». Proprio come si legge nei Salmi: «La sua misericordia è al di sopra di tutte le sue opere».
E così, continua Porzia: «Il potere terreno si mostra più vicino a quello di Dio / quando la misericordia tempera la giustizia». Certamente, infatti, come si legge un po’ ovunque nella Bibbia, e soprattutto nell’Antico Testamento, Dio è giusto; il Nuovo Testamento, però, sottolinea in particolare che Dio è misericordioso come un Padre amorevole.
Proseguendo l’omelia rivolta soprattutto a Shylock, Porzia aggiunge: «Dunque, ebreo, / nonostante tu faccia appello alla giustizia, considera questo: / che nel corso della giustizia / nessuno di noi dovrebbe vedere la salvezza». È questo l’insegnamento presente non solo nel Nuovo Testamento - che Shylock potrebbe effettivamente rifiutare, sebbene egli lo conosca bene quanto l’Antico -, ma anche in diversi Salmi. Ma quello di Shylock è un appello a un tipo diverso di giustizia, non tanto personale quanto legale.
In ogni caso Porzia procede facendo riferimento al Padre Nostro, la preghiera che il Signore propone, nel Discorso della Montagna, sia ai cristiani sia agli ebrei: «Preghiamo per ottenere misericordia, / e quella stessa preghiera insegna a tutti noi a rendere / le azioni di misericordia». Qui, nelle parole di Gesù, ella finisce la sua arringa, portando l’omelia alla conclusione più appropriata.
L’appello alla misericordia in «Misura per misura»
Tutti, o quasi, conoscono il Mercante di Venezia, e tutti hanno presente il personaggio di Shylock, noto come ebreo più che come usuraio. Alcuni addirittura lo identificano con il «mercante» del titolo per via della sua maggior vivacità rispetto alla sua vittima, Antonio. In quanto ebreo, specialmente nella nostra epoca del post-Olocausto, molti lo ritengono una povera vittima e si indignano quando Antonio lo critica. Ma nella scena del processo egli appare come un malvagio, assetato del sangue di Antonio, il quale è ridotto al ruolo di vittima. Ma ecco presentarsi ai giudici Porzia, travestita da avvocato, che implora Shylock di mostrare la «qualità della misericordia» verso il povero Antonio; e il pubblico resta giustamente colpito dal suo appello.
Il famoso discorso, tuttavia, non è tutto ciò che Shakespeare ha da dire sull’ideale della misericordia. Egli ci sottopone dunque un’altra eroina, forse meno conosciuta: si tratta della novizia Isabella, in Misura per misura, posteriore al Mercante di qualche anno. Ella implora misericordia per il fratello Claudio, colpevole - secondo la legge draconiana di Vienna contro i reati di natura sessuale - di fornicazione con la fidanzata Giulietta. L’appello della ragazza è rivolto ad Angelo, un giudice «preciso», il quale è forse meno legalista (in senso veterotestamentario) di quanto non fosse Shylock, ma con lui condivide una certa inclinazione puritana. È vero infatti che nell’Inghilterra elisabettiana i puritani erano chiamati sia «ebrei cristiani» (come Shylock) sia «precisi» (come Angelo).
In ogni modo, che cosa dice Isabella, dopo essere stata convinta da Lucio, amico di Claudio, a uscire dal convento? In risposta all’affermazione di Angelo: «Vostro fratello è caduto nelle mani della legge», che equivale a dire che deve morire, Isabella dice: «Ebbene, tutte le anime esistenti erano cadute, un tempo, / e colui che avrebbe potuto approfittarne / trovò il rimedio». In altre parole, come Porzia, ella sposta lo sguardo dall’Antico al Nuovo Testamento. Sotto l’Antica Alleanza, per i motivi più svariati, la maggioranza degli esseri umani era destinata a morire; nella Nuova Alleanza, grazie alla Parola di Dio fattasi carne, la grazia della salvezza è stata estesa a tutti da Gesù Cristo. Così il rimedio è la redenzione, secondo un gioco di parole che troviamo in non pochi Salmi.
Poi, sempre come Porzia, Isabella incalza Angelo con una domanda: «Come sarebbe / se Colui che è padrone del giudizio / vi giudicasse per come siete?». E così, senza attendere risposta, conclude citando apertamente la misericordia: «O, pensateci, / e la misericordia spirerà allora dentro le vostre labbra / come uomo fatto nuovo». Dopotutto, nelle opere di misericordia esiste un potere nascosto di trasformare l’uomo vecchio in uomo nuovo o, in termini paolini, di passare dal vecchio Adamo (come in 1 Cor 15) al nuovo Adamo.
Dopo qualche momento, Isabella riprende il discorso, mettendo in contrapposizione l’ideale di Dio e la realtà umana di quel giudice tanto sicuro di sé. Dopo essersi appellata al «Cielo misericordioso», ella lo implora così: «Tu che preferisci, con il tuo fulmine acuto e solforoso, / fendere l’infendibile nodosa quercia / piuttosto che il debole mirto. Ma l’uomo, l’uomo superbo, / rivestito di breve autorità, / del tutto ignorante proprio in ciò di cui si sente più sicuro, / la sua vitrea essenza, come uno scimmione arrabbiato / gioca trucchi tanto assurdi all’alto cielo, / tali da far piangere gli angeli che per i nostri capricci / riderebbero fino a farsi mortali».
Potremmo stupirci della sua fervida immaginazione, se non sapessimo che dietro di lei si cela, ovviamente, l’immaginazione di Shakespeare. Isabella non si appella semplicemente alla «qualità della misericordia», ma critica aspramente l’uomo che, per la sua eccessiva insistenza sulla giustizia legale, non riesce a riconoscere il valore di tale qualità.
Ma a questo punto è necessario considerare - e il drammaturgo lo sottolinea - il fatto che esistono due tipi di giustizia. Il primo è quella giustizia legale, tribunalesca, su cui Shylock e Angelo insistono, rispettivamente, contro Porzia e Isabella. Il secondo è una giustizia più personale e umana, che Porzia ritrova tra le leggi di Venezia e a cui si appella anche la stessa Isabella, persino quando scopre che, diversamente da quanto aveva promesso, Angelo ha mandato a morte suo fratello Claudio. Poi si rivolge al duca Vincenzo con un’implorazione ripetuta con insistenza: «Giustizia, giustizia, giustizia!».
Questo nuovo appello, da parte di Isabella, per salvare Angelo è ancora più rilevante, in quanto giunge dopo che ella ha implorato misericordia per il fratello. Esso mostra la compatibilità di due valori apparentemente incompatibili, misericordia e giustizia. Ma l’efficacia dell’appello è dovuta alla colpa segreta di Angelo. Una volta che essa è stata esposta al duca e a tutti gli altri, Isabella passa dall’implorare giustizia all’implorare misericordia persino per Angelo, il che, praticamente, rivela in Isabella un’incarnazione della Divina Misericordia.
L’appello parallelo alla giustizia nel «Re Lear»
Abbiamo ora la terza fase della nostra esposizione dell’omelia shakespeariana. Essa ha il suo culmine nel Re Lear, un dramma al tempo stesso commedia, con un finale estremamente lieto nell’atto quarto, e tragedia, con una conclusione tremendamente triste nell’atto quinto. Qui, nella scena «da perforare il fianco», che vede l’incontro dei due anziani protagonisti - Lear, che è impazzito, e Gloucester, che è stato accecato (l’uno per colpa delle figlie ingrate, e l’altro perché ha mal riposto la sua fiducia nel proprio figlio illegittimo, Edmund) -, troviamo che Lear dichiara apertamente la sua intenzione di predicare, e dice a Gloucester: «Attento, ora predicherò per te!». Ed ecco che dice: «Quando nasciamo, piangiamo per esser giunti / su questo gran palco di folli».
Ma non è tutto: il vecchio re si mette anche a fustigare - in parole che, stranamente, ricordano quelle che Isabella ha rivolto ad Angelo - «la grande immagine dell’autorità». È seguendo questa immagine, egli declama, che «attraverso abiti stracciati si vedono vizi piccoli, / vesti e pellicce nascondono ogni cosa. Rivesti il peccato d’oro, / e la forte lancia della giustizia vi si infrange impotente. / Vestilo di stracci, la pagliuzza di un pigmeo è sufficiente a bucarlo». In altre parole, proprio come Isabella, Lear sta reclamando giustizia; come, del resto, ha già fatto durante la tempesta che ha affrontato nella brughiera solitaria.
La conclusione a cui giunge è che «nessuno offende, nessuno. Ho detto nessuno», quasi anticipando un altro re di Britannia shakespeariano, Cymbeline, il quale dirà: «Perdono è la parola per tutto». Che cosa vuol dire Lear quando afferma che nessuno commette delitti? Neppure le sue due figlie ingrate? E allora che ne è stato di quelle «vesti e pellicce» di cui ha parlato poco sopra? E che ne è delle parole di san Paolo, il quale, citando due Salmi, dice: «Non c’è nessun giusto, nemmeno uno» (Rm 3,10)? Inutile dire che ciò che intende Lear, nella sua «metodica» follia, è che chi appare colpevole ed è condannato da un giudice è in realtà relativamente innocente, mentre è chi giudica che dovrebbe subire una condanna.
In altre parole, considerando il mondo del suo tempo, elisabettiano e giacobita, il drammaturgo vede che è un mondo alla rovescia, sottosopra, al contrario. È quanto ha appena affermato Lear: «Magia magia, qual è il giudice, qual è il ladro?». Simili affermazioni potevano venire, da parte di Shakespeare, soltanto se messe in bocca a un folle. Allora, persino coloro contro i quali egli aveva scritto questi versi, e che magari stavano lì a teatro seduti in un posto di onore, avrebbero annuito saggiamente all’udire quel «folle autorizzato a dire qualsiasi cosa».
Epilogo dell’epilogo
Infine, dopo aver considerato la triplice omelia shakespeariana sulla «qualità della misericordia» in tre drammi - Il mercante di Venezia, Misura per Misura e Re Lear - giungiamo ora all’epilogo, che il drammaturgo mette in bocca al protagonista de La Tempesta, Prospero. Egli sembra confessare, per bocca del suo personaggio: «E la mia fine è disperazione, / a meno che non sia consolato dalla preghiera, / che ha un potere tanto perforante da prendere d’assalto / la misericordia stessa, e da liberare tutte le colpe».
Pensiamo all’umiltà di questo grande drammaturgo, il più grande di tutti i tempi, ora, alla fine della carriera teatrale, nel confessare di sentirsi vicino alla disperazione. Cosa che, peraltro, aveva già ammesso nel sonetto 29: «In disgrazia presso la fortuna e gli occhi degli uomini / io, tutto solo, lamento la mia condizione di emarginato». Fu forse una sensazione simile - potremmo chiederci - a indurlo a lasciare inedita più della metà delle proprie opere? Fino a che due colleghi attori, John Heminge e Henry Condell, circa sette anni dopo la sua morte, non misero insieme il First Folio.
Ciò di cui egli ha bisogno, in questa situazione, non è un agente che si dia da fare e gli sbrighi gli affari in modo efficace, ma, semplicemente, la preghiera: sia da parte sua, sia da parte del pubblico, a cui chiede di pregare per lui. A questo punto, come Porzia, egli si volge alla Bibbia, o meglio, al Siracide (libro giudicato apocrifo dalla maggior parte dei protestanti). Lì, proprio dove Shakespeare aveva letto (con Porzia): «Splendida è la misericordia nel momento della tribolazione, / come le nubi apportatrici di pioggia nel tempo della siccità» (Sir 35,26), ora legge (con Prospero): «La preghiera del povero attraversa le nubi, / né si quieta finché non sia arrivata; / non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto / e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità» (Sir 35,21-22a). E allora, nonostante gli encomi che Shakespeare continua a ricevere dal mondo come «Uomo del Millennio», potremmo anche dare ascolto alla sua richiesta e pregare - come fa Orazio con Amleto - per il suo eterno riposo.
* Fonte: "La Civiltà Cattolica", 23 Luglio 2016
NOTA: LA DIAGNOSI SOMIGLIA ALLA GRAZIA.
Una formidabile sintesi sul problema e un brillante segnavia per procedere bene e oltre. Ripartire proprio da quanto "Porzia risponde:
PORZIALMENTE. "La diagnosi #somiglia alla grazia": questa è la #questione (#Shakespeare, "#Amleto"). Da secoli Il #nodo dei "#nodi" (compreso il nodo dei #Borromeo) è proprio questo: PARZIALMENTE.
Federico La Sala
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L’unico segno, la necessaria chiarezza.
Il falso mito dei "due Papi"
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, mercoledì 15 gennaio 2020)
Per quanto suggestivo possa apparire nelle serie televisive e in un film di un certo successo, quello dei "due Papi" è un falso mito, che è necessario smascherare, anche perché viene sempre più spesso rappresentato in certe cronache che fanno specchio a vere o presunte polemiche e manovre, innescate da interventi intorno a temi scottanti per l’oggi della Chiesa e l’avvenire del cristianesimo.
A smentire la possibilità che nella Chiesa odierna vi siano due Papi è lo stesso Benedetto, il pontefice emerito, che ha sempre dichiarato «incondizionata reverenza e obbedienza» all’attuale Vescovo di Roma e ieri ha eliminato ogni equivoco, chiedendo di togliere il proprio nome sia dalla copertina sia dall’introduzione e dalle conclusioni dal volume del cardinal Robert Sarah sul celibato dei preti al quale aveva concesso un proprio saggio (uniche pagine che intende firmare). Questa chiarezza era indispensabile, così il lettore sa e comprende quale sia la posizione di Benedetto XVI e quanto invece non gli appartenga, perché scritto e divulgato da altri.
Finiscono con l’alimentare la falsa mitologia dei due Papi sia quelle rappresentazioni che sottolineano amicizia e continuità fra i due personaggi in questione, senza evidenziare l’obbedienza dell’emerito all’attuale Papa, ma molto più quelle che li contrappongono in maniera subdola e ideologicamente contrassegnata. La riflessione si impone, perché i credenti non vengano disorientati più di quanto non siano dal contesto culturale e sociale in cui vivono.
Il Papa è il segno tangibile e concreto dell’unità della Chiesa, altro ruolo oltre questo non gli compete. In questo senso non può essere che uno e unico. Le epoche, da questo punto di vista certamente buie, in cui sono convissuti contemporaneamente Papi e antipapi, non hanno prodotto nulla di buono per il tessuto ecclesiale e spirituale della comunità credente. E solo quando qualcuno, come Giovanni XXIII (l’antipapa quattrocentesco), ha saputo con umiltà farsi da parte, si è ricostituita l’unità ecclesiale e ha ripreso vigore l’evangelo nel mondo.
Senza questo unico segno di unità, il cristianesimo vivrebbe una frammentazione devastante e la divisione regnerebbe sovrana, laddove al contrario, nella lettera agli Efesini leggiamo che «vi è [e quindi vi deve essere] un corpo solo e un solo Spirito, come pure siete stati chiamati a una sola speranza, quella della vostra vocazione. V’è un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, fra tutti e in tutti» (4, 4-6). Il dualismo non appartiene al cristianesimo cattolico, e quindi neanche alla fede cristiana tout court, è piuttosto frutto dello gnosticismo storico e perenne, che costituisce una costante tentazione per coloro che credono.
Per passare dalla Bibbia e dalla storia all’oggi, non possiamo dimenticare che il pontificato interrotto di papa Benedetto sia stato il vero gesto rivoluzionario che ha consentito la stagione di papa Francesco, con le sue innovazioni e la sua vivacità, sempre nel solco della tradizione della Chiesa cattolica. Abitare tale gesto, stupefacente e drammatico allo stesso tempo, significa rendersi conto che nella Chiesa vi è un solo Vescovo di Roma, ossia un solo Papa. Parlare di due Papi è insensato, come impegnarsi per contrapporre le due figure più significative dell’attuale contesto cattolico. E c’è da sospettare che dietro operazioni che adottano tale modalità, ci sia chi intende distruggere la Chiesa stessa, attentando alla sua prima nota costitutiva, che - come recitiamo nel Credo - è l’unità. Certo demitizzare i "due Papi" significa andare contro corrente e avere meno audience, ma non per questo ci si può esimere da tale compito.
Ritenere che la tradizione sia da una parte e l’innovazione dall’altra significa non comprendere il senso autentico della tradizione stessa, che è radicalmente innovativa, in quanto non guarda solo al passato, ma si innesta nel presente e si apre al futuro. Questo vale per le strutture costitutive di quella religione che pone a suo fondamento la fede cristiana. In primo luogo il culto e la liturgia, che, ininterrottamente, ma con linguaggio sempre nuovo, fa sì che il mistero si renda presente nell’oggi della sacramentalità. Qui il gesto e le parole fondamentali sono sempre le stesse: il pane che si spezza, l’acqua che si versa, le mani che si impongono, l’unzione con le parole che accompagnano e rendono sacramento il segno. Su questi fondamentali la Chiesa non ha alcun potere, in quanto le sono consegnati dalla rivelazione stessa, ma le modalità celebrative le sono affidate, perché la memoria non sia pura nostalgia e il presente non si rattrappisca in un passato preconfezionato. In secondo luogo la dottrina, che è chiamata a svilupparsi, secondo la feconda indicazione del santo cardinale John Henry Newman.
Uno sviluppo organico ed omogeneo, che, quando non è tale (o non è stato tale) ha prodotto i peggiori mali della Chiesa, ossia l’eresia e lo scisma. In terzo luogo le strutture, chiamate a trasformarsi e modificarsi, nello spirito di quanto disegnato da papa Francesco nel suo ultimo discorso alla Curia romana (21 dicembre 2019). I binari di tale trasformazione sono stati indicati nell’evangelizzazione e nella promozione umana, cardini portanti dell’agire ecclesiale nel presente e nel futuro, su cui devono poggiare e di cui devono nutrirsi le sovrastrutture o impalcature giuridiche e istituzionali.
Il falso mito dei due Papi veniva smascherato dallo stesso Benedetto XVI, quando, in un famoso discorso alla curia romana (22 dicembre 2005), riflettendo sul Concilio Vaticano II, contrapponeva un’ermeneutica della ’discontinuità’, ovvero dell’innovazione per l’innovazione, che avrebbe di fatto offerto il fianco al dualismo, non a quella della ’continuità’, come ci si sarebbe aspettato da un Papa ritenuto conservatore, ma a quella della ’riforma’. Una riforma che non ha nulla a che vedere con la rivoluzione, ma significa sviluppo e vita, apertura al futuro nel necessario e sempre fecondo radicamento nel passato, con attenzione vigile a un presente certamente problematico, ma anche affascinante e provocatorio per la fede.
Teologo, Pontificia Università Lateranense
COSTITUZIONE, MESSAGGIO EVANGELICO, CATTOLICESIMO ROMANO, E FILOLOGIA... *
Sala: “La fede mi guida. Ma da divorziato soffro senza la comunione”
La lettera del sindaco di Milano. Riflessione sul rapporto con la religione: “Mi aiuta nell’impegno a favore dei più deboli. Altrimenti la parola di Dio rimane scritta solo nei libri e non nei nostri cuori”
di GIUSEPPE SALA (la Repubblica, 24 dicembre 2019)
Caro direttore, sono un uomo fortunato perché la fede è per me qualcosa di irrinunciabile. È un dono fondamentale che apprezzo ancor di più adesso, dopo i sessant’anni, con tanta vita alle spalle. Ho avuto momenti di stanchezza, ho vissuto dubbi e contraddizioni ma non ho mai smesso di ricercare il Signore. Tra tante vicende della vita sento di non potere fare a meno del confronto con il Mistero e, in definitiva, con me stesso.
Ed è proprio da questa esperienza che conosco i miei limiti. Non mi sono mai sentito così profondo da potermi nutrire solo di fede, di farmi “bastare” l’intima relazione con Dio. Penso spesso che la mia fede non reggerebbe senza la pratica, senza la possibilità di entrare in un luogo di culto, senza la Messa della domenica. Ho bisogno della Messa, di sentire la voce, più o meno ispirata, di un pastore e di misurarmi con Gesù e con il suo Vangelo. Pur nella consapevolezza dell’ineluttabilità del confronto che nasce in me e ritorna in me.
La Messa della domenica è un momento di pace e di verità. Mi fa star bene, mi aiuta a sentire la mia umanità, i miei dolori, la mia essenza. La gratitudine e la precarietà. Sono solo a disagio rispetto al momento della comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento. Amo stare insieme agli altri, condividere quel senso di solitudine e, allo stesso tempo, di comunione che la Messa ti dà. La liturgia ci insegna l’umiltà di essere come (e peggio) degli altri, di condividere la speranza, di far ammenda delle nostre miserie.
Si deve essere popolo anche fuori dalle porte della Chiesa. Tra tante urla, la ricerca della verità e della giustizia è l’impegno che dà senso alla mia fede, quella fede che mi dà l’energia giorno per giorno per rendere concreto il mio cammino sulla via dell’equità, del rispetto e dell’accoglienza soprattutto verso i più deboli e i più abbandonati. Altrimenti la parola di Dio rischia di rimanere scritta solo nei libri e non nei nostri cuori.
Per tutto ciò amo parlare di religione, ma ne aborro l’ostentazione. Sorrido pensando che ne sto scrivendo, ma è come se stessi parlando a me stesso.
I divorziati e l’eucarestia.
La lettera del sindaco Sala e le risposte che dà la Chiesa
È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il primo cittadino di Milano lo ha fatto rivelando un’adesione di fede e una ferita
di Luciano Moia (Avvenire, sabato 28 dicembre 2019)
È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il sindaco Beppe Sala lo ha fatto rivelando un’adesione e una ferita. Un atto di coraggio e di chiarezza. Che non può che essere apprezzato da chi, come noi, da anni è impegnato a divulgare e promuovere la svolta pastorale voluta da papa Francesco all’insegna dell’accoglienza e della misericordia. Nella confessione spirituale che ha affidato, la vigilia di Natale, alle pagine de "la Repubblica", il sindaco di Milano rivela «di non poter fare a meno del confronto con il Mistero» e di partecipare regolarmente alla Messa domenicale, ma di sentirsi «a disagio rispetto al momento della Comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento».
Se una persona seria e preparata come Sala, è costretta ad ammettere un disorientamento spirituale per la sua condizione di divorziato risposato, significa che la strada per trasformare in consapevolezza diffusa le indicazioni uscite dal doppio Sinodo sulla famiglia (2014 e 2015) voluto da papa Francesco e poi dall’esortazione apostolica Amoris laetitia, è ancora lunga.
In quel testo il Papa scrive in modo esplicito che nessuno deve sentirsi condannato per sempre e che la Chiesa è chiamata ad offrire a tutti, compresi i divorziati risposati a cui è dedicato un intero capitolo - l’VIII - la possibilità di vivere pienamente il proprio cammino di fede. In questo cammino si può comprendere anche l’aiuto dei sacramenti (nota 351).
Non è un’opinione. È quanto emerso da un cammino sinodale proseguito per oltre tre anni che il Papa ha sancito con la sua parola. Poi, di fronte alle critiche e ai distinguo, Francesco ha voluto che l’interpretazione da lui considerata più efficace, quella dei vescovi della regione di Buenos Aires, fosse inserita nei cosiddetti Acta apostolica sedis - gli atti ufficiali della Santa Sede - a ribadire che indietro non si torna e che tutte le diocesi del mondo devono incamminarsi lungo quella strada.
Milano non fa eccezione. Inutile far riferimento al rito ambrosiano e alle aperture del cardinale Carlo Maria Martini, che su questi aspetti non ci sono state, in quanto scelte che non si potevano e non si possono pretendere da una singola Chiesa locale.
Francesco, come detto, ha ritenuto necessarie due assemblee mondiali dei vescovi per gettare i semi del cambiamento. Una persona divorziata e risposata che desidera riaccostarsi alla Comunione - spiega il Papa - può chiedere l’aiuto di un sacerdote preparato per avviare un serio esame di coscienza sulle proprie scelte esistenziali.
Sei, in rapidissima sintesi, i punti da non trascurare: quali sforzi sono stati fatti per salvare il precedente matrimonio e ci sono stati tentativi di riconciliazione? La separazione è stata voluta o subita? Che rapporto c’è con il precedente coniuge? Quale comportamento verso i figli? Quali ripercussioni ha avuto la nuova unione sul resto della famiglia? E sulla comunità? Domande spesso laceranti e risposte non codificabili, che possono richiedere anche lunghi tempi di elaborazione e da cui non derivano conseguenze uguali per tutti. Ma anche modalità pastorali efficaci per metterle in pratica.
Trovare e attuare queste buone prassi è faticoso e Sala, con le sue parole, ha dato voce a un disagio e una sofferenza spirituale, ma anche a una speranza, che condivide con tanti altri credenti, divorziati e risposati.
*SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
FLS
DALLA FIABA, UNA LEZIONE DI PENSIERO COSTITUZIONALE ... *
I seduttori e i maestri: due voci ben diverse
di Ermes Ronchi (Avvenire, giovedì 9 maggio 2019)
IV Domenica di Pasqua
Anno C
Le mie pecore ascoltano la mia voce. Non i comandi, la voce. Quella che attraversa le distanze, inconfondibile; che racconta una relazione, rivela una intimità, fa emergere una presenza in te. La voce giunge all’orecchio del cuore prima delle cose che dice. È l’esperienza con cui il bambino piccolo, quando sente la voce della madre, la riconosce, si emoziona, tende le braccia e il cuore verso di lei, ed è già felice ben prima di arrivare a comprendere il significato delle parole.
La voce è il canto amoroso dell’essere: «Una voce! L’amato mio! Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline» (Ct 2,8). E prima ancora di giungere, l’amato chiede a sua volta il canto della voce dell’amata: «La tua voce fammi sentire» (Ct 2,14)... Quando Maria, entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta, la sua voce fa danzare il grembo: «Ecco appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo» (Lc 1,44). Tra la voce del pastore buono e i suoi agnelli corre questa relazione fidente, amorevole, feconda. Infatti perché le pecore dovrebbero ascoltare la sua voce?
Due generi di persone si disputano il nostro ascolto: i seduttori, quelli che promettono piaceri, e i maestri veri, quelli che danno ali e fecondità alla vita. Gesù risponde offrendo la più grande delle motivazioni: perché io do loro la vita eterna. Ascolterò la sua voce non per ossequio od obbedienza, non per seduzione o paura, ma perché come una madre, lui mi fa vivere. Io do loro la vita.
Il pastore buono mette al centro della religione non quello che io faccio per lui, ma quello che lui fa per me. Al cuore del cristianesimo non è posto il mio comportamento o la mia etica, ma l’azione di Dio. La vita cristiana non si fonda sul dovere, ma sul dono: vita autentica, vita per sempre, vita di Dio riversata dentro di me, prima ancora che io faccia niente. Prima ancora che io dica sì, lui ha seminato germi vitali, semi di luce che possono guidare me, disorientato nella vita, al paese della vita. La mia fede cristiana è incremento, accrescimento, intensificazione d’umano e di cose che meritano di non morire.
Gesù lo dice con una immagine di lotta, di combattiva tenerezza: Nessuno le strapperà dalla mia mano. Una parola assoluta: nessuno. Subito raddoppiata, come se avessimo dei dubbi: nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io sono vita indissolubile dalle mani di Dio. Legame che non si strappa, nodo che non si scioglie. L’eternità è un posto fra le mani di Dio. Siamo passeri che hanno il nido nelle sue mani. E nella sua voce, che scalda il freddo della solitudine.
(Letture: Atti 13,14.43-52; Salmo 99; Apocalisse 7,9.14-17; Giovanni 10,27-30)
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ASTUZIA DEL LUPO E I SETTE CAPRETTI. "APRITE, APRITE": SONO IL VOSTRO "PAPI"!!! LA PAROLA "ITALIA", LA "PASSWORD", CONSEGNATA A UN PARTITO (1994-2011).
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
Nel libro del giornalista de L’Espresso Emiliano Fittipaldi, i documenti che raccontano gli ultimi scandali finanziari vaticani
“I soldi della carità spesi dai monsignori e quelli dei bambini per l’attico di Bertone”
di Emiliano Fittipaldi (la Repubblica, 03.11.2015)
RICCHEZZE sterminate, proprietà immobiliari per quattro miliardi di euro, offerte per la beneficenza che non vengono spese per i più poveri ma ammucchiate in conti e investimenti, o per esigenze dei monsignori di curia.
E ancora: fondazioni vaticane dedicate ai bambini malati che investono centinaia di migliaia di euro per ristrutturare la casa di cardinali importanti, imprenditori indagati in Italia che - nonostante l’annunciata pulizia della banca vaticana - ancora nascondono i loro soldi allo Ior, investimenti milionari (da parte del Bambin Gesù, ospedale finanziato dallo Stato italiano e che ha in cassaforte un fondo segreto da 427 milioni di euro) su aziende petrolifere e chimiche Usa come la Exxon e la Dow Chemical.
Nel libro “Avarizia” del giornalista de “L’Espresso” Emiliano Fittipaldi, in uscita per Feltrinelli giovedì 5 novembre, si raccontano decine di scandali finanziari vaticani, grazie allo studio di una documentazione riservatissima e a un lungo lavoro di inchiesta giornalistica. Ecco alcuni stralci.
LAVORI NEL MEGA ATTICO
Partiamo dal Bambin Gesù. O meglio da una fondazione controllata, nata nel 2008 per raccogliere denaro per i piccoli pazienti. Gli investigatori della società di revisione PricewaterhouseCoopers (PwC) nella bozza del rapporto consegnata al Vaticano il 21 marzo 2014 dedicano alla onlus italiana con sede in Vaticano alcuni passaggi della loro due diligence. Nel focus si evidenzia l’affitto di un elicottero, nel febbraio 2012, per la bellezza di 23 mila e 800 euro. Pagati sull’unghia dalla fondazione Bambin Gesù «a una società di charter per trasportare monsignor Bertone dal Vaticano alla Basilicata per alcune attività di marketing svolte per conto dell’ospedale». Ma c’è un’altra spesa della fondazione non pubblicata sul rapporto PwC che rischia di imbarazzare il Papa e il Vaticano.
Quella che riguarda il pagamento dei lavori della nuova casa di Bertone a palazzo San Carlo. La fondazione, definita da PwC come «un veicolo per la raccolta di fondi volti a sostenere l’assistenza, la ricerca e le attività umanitarie del Bambin Gesù» ha saldato le fatture dei lavori per un totale di circa 200mila euro, pagati all’azienda Castelli Real Estate dell’imprenditore Gianantonio Bandera. «Gentile dottor Fittipaldi, alle sue domande» precisa Bertone, «rispondo che il sottoscritto ha versato al medesimo governatorato la somma richiesta come mio contributo ai lavori di ristrutturazione. Non ho nulla a che vedere con altre vicende ».
Profiti, fino al 2015 presidente sia del Bambin Gesù che del consiglio direttivo dell’omonima fondazione conferma invece la spesa autorizzata a favore dell’appartamento di Bertone, già finito nella bufera per la sua ampia metratura. La parcella, spiega Profiti, sarebbe stata giustificata dal fatto che la casa del cardinale sarebbe stata poi messa a disposizione della fondazione stessa per finalità “istituzionali”: «È vero: con i soldi stanziati da noi è stata ristrutturata una parte della casa di Bertone. Cercando di ottenere in cambio la disponibilità di potere mettere a disposizione l’appartamento ».
BENEFICENZA ZERO
Se analisi della Ernst e Young evidenziano che vendendo benzina, sigarette e vestiti a costi ribassati rispetto all’Italia il Vaticano guadagna ogni anno 60 milioni (i clienti dei negozi dovrebbero essere circa 5mila, ossia residenti e dipendenti della Santa Sede, ma a Roma sono state distribuite ben 41mila tessere a vip, raccomandati e amici degli amici), leggendo le carte è evidente che i denari in Vaticano si trovano dappertutto. E, quando ce ne sono tanti, è facile che non manchino nemmeno gli sprechi. Un cruccio, per Francesco, che vorrebbe limitarli il più possibile, bloccando rigagnoli infruttuosi per deviarli su attività evangeliche.
Una delle voci più interessanti analizzate dai revisori di Kpmg è quella relativa all’Obolo di San Pietro. Il Vaticano lo definisce, letteralmente, un «aiuto economico che i fedeli offrono al Santo Padre, come segno di adesione alla sollecitudine del successore di Pietro per le molteplici necessità della Chiesa universale e per le opere di carità in favore dei più bisognosi». La carità dei fedeli (esiste anche un conto Iban dedicato) è andata a gonfiare un fondo che non compare nel bilancio della Santa Sede, e che nel 2013 ha toccato i 378 milioni di euro.
«Tutte le entità menzionate nella Pastor Bonus sono incluse nel perimetro di consolidamento», riassumono i commissari della dissolta commissione pontificia commentando le analisi di Kpmg, «ma non tutti i fondi esistenti in queste entità, prevalentemente denaro liquido e titoli, sono riportati nel bilancio di esercizio. Tra gli attivi non consolidati i fondi esclusi dal bilancio consolidato ammontano a nonmeno di 471 milioni di euro; di questi, 378 corrispondono all’Obolo di San Pietro.
Questi fondi sono depositati su conti bancari presso lo Ior, l’Apsa e altre banche». Un paragrafo del rapporto Moneyval fa luce anche sulla reale destinazione finale dei denari raccolti: «Nel 2010 gli esborsi erano costituiti principalmente da spese ordinarie e straordinarie dei dicasteri e delle istituzioni della curia romana» e non in opere di carità. Stesse evidenze nella gestione dell’8 per 1000.
CASE E AFFARI
Un documento della Commissione referente, scritto in inglese e in italiano e destinato a George Pell, capo della nuova segreteria per l’Economia voluta da Francesco, sintetizza per la prima volta il valore reale di tutti i beni immobiliari di proprietà di istituzioni vaticane.
Leggiamolo: «Sulla base delle informazioni messe a disposizione di Cosea, ci sono 26 istituzioni relazionate alla Santa Sede che possiedono beni immobiliari per un valore contabile totale di un miliardo di euro al 31.12.2012. Una valutazione di mercato indicativa dimostra una stima del valore totale dei beni di quattro volte più grande rispetto al valore contabile, o quattro miliardi di euro».
Già: quattro miliardi tondi tondi. Nel report sono indicate anche le istituzioni papali «con le proprietà più importanti a valore di mercato». Cioè l’Apsa (con un patrimonio da 2,7 miliardi), la congregazione Propaganda Fide (450 milioni di euro, in passato libri e giornali hanno sempre dato stime ancora più alte), la Casa sollievo della sofferenza (grazie alle donazioni l’ospedale di Padre Pio ha un portafoglio di 37 palazzi valutato 190 milioni) e il Fondo pensioni dei dipendenti, che possiede immobili per 160 milioni di euro.
Non è tutto. In un altro report confidenziale della Cosea datato 7 gennaio 2014 si specifica che quasi sempre «gli immobili sono registrati o al costo di acquisizione o al costo di donazione, e molti edifici istituzionali sono valutati a 1 euro. Dunque c’è da aspettarsi che il valore di mercato del real estate vaticano sia molto più grande».
I DEPOSITI DI NOMI ECCELLENTI
Mentre “Avarizia” va in stampa allo Ior galleggiano poco più di cento conti sospetti, tra cui una decina intestati a nomi eccellenti che potrebbero creare più di un disagio a Santa Romana Chiesa. In qualche caso si tratta di eredità di clienti laici ancora da liquidare (a bilancio la somma è messa a 17 milioni), ma altri depositi appartengono a professionisti e imprenditori. «Questi depositi sono stati bloccati», ha giurato il capo dell’Aif Brülhart.
A Bankitalia, che ha firmato un accordo di collaborazione con l’Uif, sono però rimasti di sasso quando la procura di Roma ha spedito oltre le mura un’altra rogatoria internazionale, chiedendo conto e ragione di eventuali beni posseduti da Angelo Proietti.
Un costruttore titolare della società Edil Ars, diventato celebre perché la sua ditta ha ristrutturato gratis la casa in cui ha abitato per anni l’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Ebbene, Proietti è uno dei fornitori storici del Vaticano e della curia romana per cui ha eseguito decine di lavori e interventi, e i pm - da mesi alla ricerca del suo patrimonio - sono certi che parte dei suoi guadagni siano nascosti ancora oggi allo Ior.
Anche questa vicenda, se le ipotesi investigative dei magistrati italiani si rivelassero corrette, dimostrerebbe che la Santa Sede scambia informazioni con procure e autorità antiriciclaggio di Roma solo col contagocce. Lo Ior non conferma e non smentisce l’esistenza del conto di Proietti. «Non è possibile parlare di casi concreti, si violerebbero il segreto di ufficio e il segreto istruttorio, ma se Proietti aveva un conto presso lo Ior, e questo conto è “non conforme” alla legislazione antiriciclaggio vaticana e alle nuove politiche Ior, ciò che si può affermare è che esso è stato sottoposto alla procedura».
di Giannino Piana (Rocca, 15 marzo 2014)
Sono molti gli interventi di papa Francesco che riguardano l’etica; e questo non solo nei documenti uf ficiali - si pensi in particolare alla Evangelii gaudium - ma anche (e soprattutto) nelle udienze pubbliche del mercoledì e nelle omelie quotidia ne di Santa Marta.
Un cumulo di riflessio ni che, a distanza di non ancora un anno dall’inizio del suo pontificato, delineano un quadro piuttosto preciso del pensiero del papa attorno ad alcune tematiche mo rali e, più in generale, circa gli indirizzi di fondo dell’etica cristiana.
Non è certo possibile condensare, nel breve spazio di un articolo, l’insieme variegato di proposte che papa Francesco ha offerto (e continua ad offrire), ma non è difficile in travedere dietro all’insieme dei suoi interven ti un disegno innovativo dai contorni ben definiti, che manifesta la volontà di far usci re l’etica cristiana dalla visione angusta che l’ha per troppo tempo contrassegnata e di restituirle un autentico respiro evangelico.
il rifiuto di un’etica ossessiva e ideologica
A sorprendere, accostando i testi papali, è anzitutto l’insistenza con cui viene ribadita la necessità di andare oltre una precettistica dilatata ed ossessiva, relativa soprattutto ad alcuni ambiti della vita morale - quello del la sessualità in primis - per fare spazio alla radicalità e alla bellezza del messaggio mo rale cristiano.
Si tratta, in altri termini, di abbandonare una prospettiva negativa e le galistica, che riduce l’etica a una serie infi nita di divieti o a una lunga lista di peccati, per dare corso a una prospettiva positiva, che coincide con l’annuncio di ciò che con corre alla vera realizzazione umana e mette l’uomo nella condizione di attingere la feli cità. O, ancor più, si tratta di concepire l’eti ca cristiana come risposta alla chiamata del l’amore infinito di Dio, che chiede di essere ricambiato mediante il dono di se stessi nel servizio ai fratelli.
«Quando la predicazione è fedele al Vange lo - scrive al riguardo papa Francesco - si manifesta con chiarezza la centralità di alcune verità e risulta chiaro che la predica zione morale cristiana non è un’etica stoica, è più che un’ascesi, non è una mera filosofia pratica né un catalogo di precetti e di errori. Il Vangelo invita prima di tutto a rispondere al Dio che ci ama e ci salva, riconoscendolo negli altri e uscendo da se stessi per cercare il bene di tutti... Se tale invito non risplende con forza e attrattiva, l’edificio morale della Chiesa corre il rischio di diventare un castello di carte, e questo è il nostro peggior pericolo. Poiché allora non sarà propriamen te il Vangelo ciò che si annuncia, ma alcuni accenti dottrinali e morali che procedono da determinate opzioni ideologiche. Il messaggio correrà il rischio di perdere la sua freschezza e di non avere più ’il profumo del Vangelo’» (Evangelii gaudium, n. 39).
Ma c’è di più: papa Francesco non si accon tenta di segnalare un orientamento fonda mentale; si spinge anche ad indicare la via da percorrere per dare ad esso attuazione.
Egli non nega l’esigenza di un’etica norma tiva, incentrata sulla formulazione cioè di alcuni precetti, i quali - come affermava Tommaso d’Aquino - hanno il compito di aiutare il credente a dare concreta incarna zione alle istanze scaturenti dalla legge in teriore dello Spirito e di verificare la confor mità ad esse dell’agire, ma rileva con forza la necessità di un loro uso parsimonioso per evitare di incorrere in una schiavitù, che contrasta con l’annuncio della libertà evan gelica. «Ci sono norme e precetti ecclesiali - sono ancora parole del papa - che possono essere stati molto efficaci in altre epoche, ma che non hanno più la stessa forza edu cativa come canali di vita.
S. Tommaso d’Aquino sottolineava che i precetti dati da Cristo e dagli Apostoli al popolo di Dio ’sono pochissimi’. Citando Sant’Agostino, notava che i precetti aggiunti dalla Chiesa posterior mente si devono esigere con moderazione `per non appesantire la vita dei fedeli’ e tra sformare la nostra religione in una schiavi tù, quando ’la misericordia di Dio ha voluto che fosse libera’.
Questo avvertimento, fatto diversi secoli fa, ha una tremenda attualità. Dovrebbe essere uno dei criteri da conside rare al momento di pensare una riforma della Chiesa e della sua predicazione che permetta realmente di giungere a tutti» (Evangelii gaudium, n. 43).
ideale di perfezione e misericordia
La proposta morale di papa Francesco non è tuttavia indulgente o permissiva; egli non esita a richiamare l’attenzione sull’ideale di perfezione evangelico, che esige l’adozione di stili di vita rigorosi ispirati alla logica delle beatitudini e dei «ma io vi dico» del discorso della montagna. Il richiamo ai te sti di Matteo e di Luca che espongono tale programma è assai frequente nella sua pre dicazione.
Alla sublimità della chiamata ricevuta dall’alto deve corrispondere una risposta generosa e radicale. La povertà, la mitezza, l’umiltà, la gratuità, la tenerezza, il servizio, la magnanimità e il perdono dei nemici sono altrettanti atteggiamenti sui quali il papa ritorna spesso nelle omelie quotidiane (un magistero semplice e feriale, ma largamente incisivo), non solo per ché devono connotare il modo di essere del cristiano, ma anche perché rispondono ad istanze di liberazione umana che vanno offerte a tutti.
Per questo egli stigmatizza una serie di comportamenti che alterano i rapporti umani, creando situazioni di conflitto: dal la ricchezza e dalla cupidigia del danaro alla ricerca smodata del benessere materiale; dall’ipocrisia alla gelosia e all’invidia; dalle chiacchiere malevole alla calunnia fino alla collera e all’insulto; e la rassegna potrebbe continuare.
Ma soprattutto non manca di denunciare le radici profonde di tali com portamenti, che hanno la loro sede ultima nella superbia e nell’adesione allo spirito mondano - significativa è in proposito la formula ricorrente di «mondanità spiritua le» - nonché nella corsa al consumismo e alle mode, che alimentano sentimenti di rivalità e generano condizioni di oppressio ne per molti.
Il cuore attorno a cui ruota in positivo l’in tero edificio della morale cristiana è dun que per papa Francesco il comandamento nuovo, la carità, che ha il suo fondamento nella essenza stessa del mistero di Dio - il Dio Trinità che, secondo la definizione di Giovanni, non ha l’amore ma è Amore - e il suo paradigma comportamentale nella per sona di Gesù di Nazaret, il quale è venuto al mondo per servire e dare la vita.
L’insi stenza con cui ritorna nella riflessione del pontefice il riferimento a questo motivo ispiratore, che non ha il carattere di un sem plice precetto ma costituisce la chiave in terpretativa dell’intera condotta cristiana, sta a significare come ciò che conta nella valutazione del comportamento morale è la capacità del soggetto di uscire dalle stret toie dell’egoismo e dell’autoreferenzialità per fare di sé e della propria vita dono ai fratelli: «Chi cerca la propria vita, la perde rà; chi perde la propria vita, la troverà».
L’etica di papa Francesco è allora un’etica delle intenzioni profonde, del cuore o dello spirito, dell’opzione fondamentale; un’eti ca che, lungi dal rinunciare al radicalismo evangelico, lo propone con forza, senza al cuna esitazione, confidando nella capacità trasformativa della grazia e nell’opera rin novatrice del perdono.
Non è certo assente dalla lettura che il pontefice fa della realtà - anzi è da lui costantemente richiamata - la consapevolezza della debolezza e della precarietà della condizione umana: non solo per il limite connaturale allo stato di creaturalità, ma anche per la presenza del peccato, che esercita un forte condiziona mento sulle decisioni dell’uomo.
Di qui l’attenzione a non misurare soltanto i risultati conseguiti, ma a premiare lo sfor zo di chi si impegna a vincere il male e la sollecitazione ad andare costantemente avanti, facendo della propria esistenza un cammino di conversione permanente.
Di qui soprattutto l’annuncio, ripetuto con insistenza, di affidamento alla misericor dia di Dio, la cui porta è sempre aperta al l’accoglienza di chi riconosce la propria povertà e non esita ad abbandonarsi al l’azione dello Spirito. Affidamento reso possibile dall’incontro con una chiesa, che rinuncia all’esercizio del solo giudizio e si fa portatrice soprattutto dell’amore mise ricordioso del Padre.
«La Chiesa - scrive papa Francesco - deve essere il luogo della misericordia gratuita, dove tutti possano sentirsi accolti, amati, perdonati e incorag giati a vivere secondo la vita buona del Van gelo... Dobbiamo dare al nostro cammino il ritmo salutare della prossimità, con uno sguardo rispettoso e pieno di compassio ne, ma che nel medesimo tempo sani, liberi e incoraggi a maturare nella vita cristia na» (Evangelii gaudium, n. 184).
il primato dell’etica sociale
Se infine dal piano del metodo e dell’impo
stazione di fondo si passa a quello dei contenuti ciò che risulta
immediatamente evi
dente è il primato che papa Francesco as
segna alle questioni dell’etica sociale e
po
litica, lasciando in secondo piano temati
che più strettamente connesse con l’etica della persona e delle
relazioni intersogget
tive - dalla sessualità alla famiglia alla vita
che hanno occupato uno spazio assai
con
sistente negli interventi dei pontefici pre
cedenti. Vi è, anzi, talvolta persino la ten
denza negli interventi
del papa attuale a
stemperarne l’importanza, rilevando la pre
senza di un’ossessività patologica laddove
si
ritorna con troppa frequenza a parlarne.
La ragione di questa scelta va anzitutto addebitata alla provenienza geografica del Pontefice: l’appartenenza al continente la tino-americano, cioè ad un’area del mon do caratterizzata dalla presenza di gravi for me di povertà e di pesanti disuguaglianze sociali, ha senz’altro esercitato (ed eserci ta) un peso determinante sui suoi orienta menti etici.
Ma, al di là delle motivazioni sociologiche, la ragione più importante (e più profonda) di tale scelta è di natura teo logica o meglio ecclesiologica: fin dagli inizi del suo ministero papa Francesco ha voluto dare alla sua azione una chiara impronta riformatrice, contrassegnata dalla pro posta di «una chiesa povera per i poveri», riprendendo in questo un filone significa tivo di riflessione che, in occasione del Concilio, un gruppo consistente (sebbene minoritario) di Padri aveva sviluppato, ma che aveva trovato scarso sbocco nei testi ufficiali. L’adesione a questo modello di chiesa, sul quale il papa torna con insisten za, spiega il taglio non ideologico ma pie namente evangelico, e per questo radicale (è sintomatico che vi sia stato negli Usa chi è giunto impropriamente ad accusarlo di marxismo), delle prese di posizione in cam po sociale.
Molte sono le questioni esaminate, a tale proposito, da papa Francesco; esse spazia no dal piano delle opzioni individuali a quello degli interventi di carattere struttu rale.
Non manca infatti la denuncia esplicita di comportamenti soggettivi devianti, frequenti peraltro nel nostro paese, come il clientelismo, l’evasione fiscale (e l’elusio ne), l’omertà nei confronti delle varie for me di mafia, e molto altro.
Ma il pontefice prende soprattutto in considerazione alcu ne tematiche di ordine strutturale nelle quali le ingiustizie e le sperequazioni sono particolarmente evidenti: dalla situazione del mercato del lavoro, dove si va dalla drammatica riduzione dei posti - si pensi al livello allarmante raggiunto dalla disoc cupazione in Italia (e, più in generale, in Europa) - e dalla persistenza di quello che il papa definisce come «lavoro schiavo», cioè con salario indecoroso e con l’assenza della salvaguardia dei diritti fondamentali del lavoratore - alla denuncia della crisi ambientale, dove accanto alle responsabi lità strutturali, legate al modello di svilup po tuttora dominante, esistono le respon sabilità dei singoli dovute al consumo in controllato delle risorse; fino alla esplicita condanna dei focolai di guerra e alla pro clamazione del bene della pace.
alcune condizioni
Le condizioni, che il papa spesso richia ma come necessarie, sono, da un lato, la produzione di una cultura dell’incontro e del dialogo, che favorisca lo sviluppo di relazioni improntate alla reciproca cono scenza e al rispetto delle differenze, non ché volte alla ricerca della giustizia e del l’equità e, dall’altro, l’acquisizione di stili di vita, ispirati a valori come l’austerità, la sobrietà, la riduzione dei bisogni, l’uso parsimonioso delle risorse e l’attenzione agli sprechi come via per restituire valore ai beni relazionali e migliorare la qualità della vita.
Si tratta, secondo papa Bergo glio, di avere il coraggio di andare contro corrente, di non avere paura di affrontare situazioni nuove con spirito nuovo, uscen do dalle postazioni consolidate, dalle ap parenti sicurezze acquisite e ricercando ciò che davvero conta per il bene di tutti.
L’etica che il papa privilegia è, in definitiva, un’etica della missione, impegnata a dilatare creativamente gli spazi della libertà e del la solidarietà umana e finalizzata ad offrire a coloro che vivono in situazioni difficili, sia di ordine materiale che spirituale, un vero sostegno fraterno.
Di qui l’invito a uscire allo scoperto, accettando anche il rischio di sba gliare, per porsi incondizionatamente al ser vizio di quanti attendono dai credenti e dal la chiesa un segno di speranza per il futuro «Più della paura di sbagliare - afferma papa Francesco - spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasfor mano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripe te senza sosta: Voi stessi date loro da man giare’ (Mc 6, 37)» (Evangelii Gaudium, n. 49).
Il falso battesimo rottamato
Con l’ultima tesi sul vero battesimo, che implica una scelta, una coscienza, una libertà, il Rottamatore massimo, il sig. Bergoglio, continua la rottamazione della chiesa vaticana, della tradizione cattolica e di tutti i papi fino a lui.
Quindi il falso battesimo, cioè quello che abbiamo conosciuto e subito finora, obbligatorio, coatto e impartito a infanti privi di coscienza e libertà, nonché a intere popolazioni animiste o pagane o altrimenti religiose -vedi per es. i romani cominciando da Teodosio, i Sassoni, gli indigeni polacchi, i popoli soggetti al “cuius regio eius religio”, quelli sudamericani etc.- viene logicamente obliterato, considerato nullo.
Ora in Italia la minoranza che si crede cattolica dovrà essere ribattezzata. Quella che non è cattolica, benché battezzata, finalmente non ha più bisogno di sbattezzo. Grazie.
Augusto Vegezzi
Bergoglio fa il papa, nella scia di Ratzinger: «l’aborto è orrore»
di Luca Kocci (il manifesto, 14 gennaio 2014)
Famiglia, aborto, guerre e migranti: è stato un discorso a tutto campo quello che ieri papa Francesco ha rivolto agli ambasciatori presso la Santa sede, ricevuti in Vaticano per la tradizionale udienza di inizio anno. Sono appuntamenti importanti quelli con il corpo diplomatico perché i pontefici, parlando agli ambasciatori, si rivolgono direttamente agli Stati, affrontando questioni di natura politica e indicando l’agenda dei temi che Oltretevere si ritengono più importanti.
Bergoglio ha rispettato la consuetudine, chiedendo «politiche appropriate che sostengano, favoriscano e consolidino la famiglia». «Aumenta il numero delle famiglie divise e lacerate, non solo per la fragile coscienza del senso di appartenenza che contraddistingue il mondo attuale - ha incalzato - ma anche per le condizioni difficili in cui molte di esse sono costrette a vivere, fino al punto di mancare degli stessi mezzi di sussistenza». Per questo sono «necessarie» politiche a favore della famiglia» e dei «giovani», affinché possano «trovare lavoro» e «fondare un focolare domestico». E in un passaggio successivo ha avvertito che «desta orrore il solo pensiero che vi siano bambini che non potranno mai vedere la luce, vittime dell’aborto».
Un discorso dai toni in parte simili a quello già rivolto agli ambasciatori a marzo, pochi giorni dopo l’elezione papale: allora aveva parlato di «dittatura del relativismo», espressione ripresa direttamente dal vocabolario di Ratzinger. Segno quindi che quando si parla ai governi le parole sono più incalzanti.
Trova ulteriore conferma pertanto la linea seguita da Bergoglio in questi mesi: minore insistenza ma nessun cedimento sul piano dottrinale - famiglia e aborto sono due dei «principi non negoziabili» su cui martellava Benedetto XVI -, maggiore disponibilità e apertura sul piano pastorale.
Va in questa direzione quanto accaduto domenica, quando fra i 32 bambini battezzati dal papa nella
Cappella Sistina c’era anche la figlia di una coppia sposata solo con rito civile: nessuna infrazione
al diritto canonico (il battesimo può essere chiesto da genitori anche non sposati), ma un gesto
simbolico e inedito nei confronti di una situazione che per la Chiesa resta «irregolare», impensabile
e infatti mai accaduto - da parte di Wojtyla e Ratzinger.
Bergoglio ha parlato anche dei conflitti in corso. Ha elencato pressoché tutte le situazioni di scontro armato e di tensione, dal Medio Oriente (Libano, Egitto, Iraq, Israele e Palestina) all’Africa (Repubblica centroafricana, Mali, Sudan, Corno d’Africa e Grandi Laghi), fino alla Corea, soffermandosi in particolare sulla Siria, anche in vista della conferenza di Ginevra 2: «Occorre una rinnovata volontà politica comune per porre fine al conflitto».
Sul fronte ecclesiale interno, domenica è stata la giornata in cui Bergoglio ha annunciato il suo primo concistoro (22 febbraio), in cui verranno creati 19 nuovi cardinali, di cui 16 “elettori”, ovvero con meno di 80 anni: 6 europei (4 italiani, ma esclusi i ruiniani Nosiglia, di Torino, Moraglia, di Venezia, e altri “big”, come Fisichella e Paglia, della Comunità di Sant’Egidio), 5 americani (4 dell’America latina), 3 africani e 2 asiatici. Un ulteriore passo verso l’internazionalizzazione del collegio cardinalizio.
Fra i 3 ultraottantenni c’è mons. Capovilla, storico segretario di Giovanni XXIII. Nomina dal valore solo simbolico ma assai significativa, che «avviene con almeno 30 anni di ritardo e dopo che l’ex- segretario di papa Giovanni è stato tenuto ai margini nella Chiesa», commenta Noi Siamo Chiesa.