di Gianni Rodari
C’era una volta un’Acca.
Era una povera Acca da poco: valeva un’acca, e lo
sapeva. Perciò non montava in superbia, restava
al suo posto e sopportava con pazienza le beffe
delle sue
compagne.
Esse le dicevano:
E così, saresti anche tu una lettera dell’alfabeto?
Con quella faccia?
Lo sai o non lo sai che nessuno ti pronuncia?
Lo sapeva, lo sapeva. Ma sapeva anche che all’estero ci
sono paesi, e lingue, in cui l’acca ci fa la sua figura.
" Voglio andare in Germania, - pensava l’Acca,
quand’era- più triste del solito. - Mi hanno detto
che lassù le Acca sono importantissime ".
Un giorno la fecero proprio arrabbiare. E lei, senza
dire né uno né due, mise le sue poche robe in un
fagotto e si mise in viaggio con l’autostop.
Apriti cielo! Quel che successe da un momento
all’altro, a causa di quella fuga, non si può
nemmeno descrivere.
Le chiese, rimaste senz’acca, crollarono come sotto i
bombardamenti. I chioschi, diventati di colpo troppo
leggeri, volarono per aria seminando giornali, birre,
aranciate e granatine in ghiaccio un po’ dappertutto.
In compenso, dal cielo caddero giù i cherubini:
levargli l’acca, era stato come levargli le ali.
Le chiavi non aprivano più, e chi era rimasto
fuori casa dovette rassegnarsi a dormire all’aperto.
Le chitarre perdettero tutte le corde e suonavano
meno delle casseruole.
Non vi dico il Chianti, senz’acca, che sapore
disgustoso. Del resto era impossibile berlo, perché
i bicchieri, diventati " biccieri", schiattavano in
mille pezzi.
Mio zio stava piantando un chiodo nel muro, quando
le Acca sparirono: il "ciodo" si squagliò sotto il
martello peggio che se fosse stato di burro.
La mattina dopo, dalle Alpi al Mar Jonio, non
un solo gallo riuscì a fare chicchirichi’: facevano
tutti ciccirici, e pareva che starnutissero.
Si temette un’epidemia.
Cominciò una gran caccia all’uomo, anzi, scusate,
all’Acca. I posti di frontiera furono avvertiti di
raddoppiare la vigilanza. L’Acca fu scoperta nelle
vicinanze del Brennero, mentre tentava di entrare
clandestinamente in Austria, perché non aveva
passaporto. Ma dovettero pregarla in ginocchio: Resti
con noi, non ci faccia questo torto! Senza di lei, non
riusciremmo a pronunciare bene nemmeno il nome di
Dante Alighieri. Guardi, qui c’è una petizione degli
abitanti di Chiavari, che le offrono una villa al mare.
E questa è una lettera del capo-stazione di
Chiusi-Chianciano, che senza di lei
diventerebbe il capo-stazione di Ciusi-Cianciano:
sarebbe una degradazione
L’Acca era di buon cuore, ve l’ho già detto. È rimasta,
con gran sollievo del verbo chiacchierare e del pronome
chicchessia. Ma bisogna trattarla con rispetto,
altrimenti ci pianterà in asso un’altra volta.
Per me che sono miope, sarebbe gravissimo: con
gli "occiali" senz’acca non ci vedo da qui a lì.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
"DEUS CARITAS EST": LA VERITA’ RECINTATA!!!
GRECIA - Una sede della "Caritas greca". |
FILOSOFIA E PSICOANALISI Per comprendere tutta la "portata" della filastrocca di Gianni Rodari non è male rileggere le considerazioni di Freud sul "significato della successione delle vocali" (1911) che richiama la questione della "vocalizzazione delle quattro consonanti del nome di Dio (JHVH)" e, al contempo, ricordare con Wittgenstein che "L’Io, l’Io è il mistero profondo!"(Quaderni 1914-1916).
Il simbolo Chi-rho con Alfa e Omega, Catacombe di Domitilla, Roma:
Doc.:
A) Testo latino
B) Testo italiano
COSTITUZIONE DOGMATICA SULLA CHIESA
LUMEN GENTIUM (21 novembre 1964):
42. « Dio è amore e chi rimane nell’amore, rimane in Dio e Dio in lui » (1 Gv 4,16). Dio ha diffuso il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu dato (cfr. Rm 5,5); perciò il dono primo e più necessario è la carità, con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di lui. Ma perché la carità, come buon seme, cresca e nidifichi, ogni fedele deve ascoltare volentieri la parola di Dio e con l’aiuto della sua grazia compiere con le opere la sua volontà, partecipare frequentemente ai sacramenti, soprattutto all’eucaristia, e alle azioni liturgiche; applicarsi costantemente alla preghiera, all’abnegazione di se stesso, all’attivo servizio dei fratelli e all’esercizio di tutte le virtù. La carità infatti, quale vincolo della perfezione e compimento della legge (cfr. Col 3,14; Rm 13,10), regola tutti i mezzi di santificazione, dà loro forma e li conduce al loro fine [132]. Perciò il vero discepolo di Cristo è contrassegnato dalla carità verso Dio e verso il prossimo.
* PAOLO VESCOVO
SERVO DEI SERVI DI DIO
UNITAMENTE AI PADRI DEL SACRO CONCILIO
A PERPETUA MEMORIA
FILOSOFIA E PSICOANALISI Per comprendere tutta la "portata" della filastrocca di Gianni Rodari non è male rileggere le considerazioni di Freud sul "significato della successione delle vocali" (1911) che richiama la questione della "vocalizzazione delle quattro consonanti del nome di Dio (JHVH)" e, al contempo, ricordare con Wittgenstein che "L’Io, l’Io è il mistero profondo!"(Quaderni 1914-1916).
FLS
FILOLOGIA ("LOGOS")
E
"MAGNA CHARTA LIBERTATUM":
"IL BUON DIO STA NEL DETTAGLIO" (ABY WARBURG):
IL DIAVOLO FA LE PENTOLE, MA NON I COPERCHI.
"Dio"non imbroglia e non confonde "amore" ("CHARITAS") con "mammona" ("CARITAS").
ANTROPOLOGIA, GEOLOGIA, FILOSOFIA (#KANT2024), E FILOLOGIA (#PARIS2024):
LA FOSSA DELLE MARIANNE E LA TORRE DI BABELE, UN "BINOMIO FANTASTICO" (GIANNI RODARI).
DUE #SEGNAVIA (COME "DUE SOLI") PER RI-COMINCIARE A RI-PENSARE DA #CAPO E A RI-ESPLORARE "L’#UOMO", IL "#MONDO", E "#DIO".
>"SÀPERE AUDE" (Orazio). Un omaggio alla #memoria di Immanuel Kant (1724 - 2024)
A). LA FOSSA DELLE MARIANNE. "La fossa delle Marianne è la più profonda depressione oceanica conosciuta al mondo, localizzata nella zona nord-occidentale dell’Oceano Pacifico a est delle isole Marianne, a 11° 21’ nord di latitudine e 142° 12’ est di longitudine, tra Giappone a nord, Filippine a ovest e Nuova Guinea a sud; il suo punto più profondo, l’abisso Challenger, si trova a 10.994 m sotto il livello del mare. [...]".
B). LA TORRE DI BABELE. "La Torre di Babele: Babilonia tra realtà e mito: [...] La costruzione della Torre di Babele, insieme ai noti e suggestivi riferimenti biblici, ha affascinato l’umanità fin dall’Antichità, essendo divenuta il monumento per eccellenza della città di Babilonia ed espressione del culto del dio Marduk. Il mito della torre di Babele e della sua costruzione, così come è raccontato nel testo biblico, è il soggetto di molte rappresentazioni nel Medioevo, nel Rinascimento, in età moderna ed anche contemporanea e Babilonia e la sua torre sono state spesso considerate un simbolo del mondo antico babilonese. [...]" (Treccani).
NOTE:
Teologia.
Imparare a lasciarsi amare da Dio: il segreto perduto della grazia
Il teologo domenicano Adrien Candiard torna su un tema antico ma dibattuto a suo avviso in modo fuorviante: la grazia è un incontro d’amore. Ma l’essenziale può essere abbagliante...
di Roberto Italo Zanini (Avvenire, martedì 9 aprile 2024)
«Maestro cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?». Un libro che comincia con la domanda del “giovane ricco” (Mt19,16) e finisce con una limpida considerazione sull’essenzialità della grazia di Dio che «è un incontro ed è un incontro d’amore» è certamente provocatorio. Lo stesso autore, il teologo domenicano Adrien Candiard, sottolinea che «tutti i discorsi teologici sulla grazia sviluppati nel corso dei secoli... sono andati fuori strada quando hanno mancato l’essenziale». La lista è lunga e attraversa i millenni fra dotti dibattiti teologici (domenicani-gesuiti), scismi, controriforma, concili, contrapposizioni pastorali e via dicendo. Eppure, quell’essenziale «abbaglia come il sole estivo di Galilea che si avvicina allo zenit», dice l’autore ricordando un recente pellegrinaggio al Monte delle beatitudini. È l’ineguagliabile e spesso misconosciuta originalità della vita cristiana, oggi sperduta nella nebbia di senso e di verità che avvolge le sempre più esigue Chiese d’Occidente.
L’essenziale «abbaglia», ma evidentemente non è facile da cogliere. Il giovane ricco va cercando proprio quello: la vita vera, fatta delle cose che contano, che danno piena soddisfazione, che ci fanno felici e restano per l’eternità. Lui, che è un’anima bella e osserva tutti i comandamenti, lo va a chiedere proprio alla “luce che brilla come il sole”, che prontamente lo ama, ma lui non riesce a restarne illuminato. Come noi e come i discepoli nel racconto evangelico, viene travolto dalla cruda risposta di Gesù: «Se vuoi essere perfetto, vai, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!».
Candiard si dice travolto anch’egli dall’enormità delle parole di Gesù e nel libro pone il quesito che interroga i cristiani fin da san Paolo: ma se, come dice l’Apostolo, è la fiducia nella grazia a donare la vita eterna, perché Gesù, che è sempre accogliente con tutti, domanda al giovane come se la cava coi comandamenti e poi formula una proposta di perfezione così esigente che gli stessi discepoli, sgomenti, si chiedono, ma allora chi può essere salvato? In quest’ottica la replica di Gesù, «impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile», risulta un chiarimento efficace, ma non risponde al quesito sul valore della grazia e su quello delle opere.
Dilemma millenario e scismatico che riemerge ciclicamente e con prepotenza condizionante, al punto che papa Francesco ha più volte sottolineato il pericolo per la Chiesa di oggi di restare ingabbiata in un nuovo pelagianesimo. Perché puntando tutto sulla prassi, sulla dottrina sociale, sulle opere assistenziali, sulle cose da fare, sulla liturgia ridotta a routine, sulle preghiere senz’anima si finisce per perdere il carisma profetico e autenticamente cristiano, che viene dall’apertura totale all’amore di Dio, all’azione dello Spirito.
Ecco allora la provocazione di questo libro, che nell’edizione italiana, (Lev, pagine 109, euro 13) ha un titolo esplicativo e pratico: La grazia è un incontro. E nel sottotitolo specifica: Se Dio ama gratis, perché i comandamenti? Nell’originale francese, invece, il titolo, più simbolico, indica il percorso teologico-spirituale seguito da Candiard per fondare evangelicamente le ragioni della Grazia. Percorso che pone le sue radici nel Discorso della montagna: Sur la Montagne. L’aspérité et la grâce. E sulla Montagna Gesù comincia con le Beatitudini (Mt5, 3-12) che certamente costituiscono un programma esigente, e prosegue con altre “asperità” come: amate i nemici, porgete l’altra guancia, date a chi chiede, non preoccupatevi di quello che mangerete, non potete servire Dio e cercare la ricchezza... Raccomandazioni che a metterle in pratica, specifica il Vangelo, si fa come chi costruisce la propria casa sulla roccia (Mt7,24-27).
Se la parola “beati”, dice Candiard, può agevolmente essere resa con “felici”, le Beatitudini sono il percorso della vera felicità e restarne spiazzati è la prima conseguenza per il lettore attento. Cosa c’entra la felicità con la fame di giustizia, con la persecuzione, col pianto, con la povertà? Tanto più, possiamo aggiungere, che la gioia della risurrezione è pura felicità? Per uscire da questa rischiosa incomprensione, il padre domenicano ci ricorda che per Gesù la felicità non è nel non avere nulla, ma nel possedere il Regno di Dio, nell’abitarlo. Pertanto, «Quello che conviene cercare non è essere poveri, tristi o affamati di giustizia, ma è: essere consolati, saziati, perdonati, essere chiamati figli di Dio, è vedere Dio». Insomma, ciò che genera e dona la vera felicità, la vita vera; ciò che cercava il giovane ricco e che probabilmente cerca nel proprio intimo ognuno di noi, è tutto questo insieme, è il Regno di Dio, la perla preziosa da desiderare più di ogni altro bene al mondo. E il Regno di Dio non è l’Onnipotente che viene a prendere il controllo del mondo, ma è il suo amore incondizionato che si rivela in una povera mangiatoia e si offre sulla croce rigenerando la vita, la felicità eterna. Il Regno di Dio è amore, ed è amore donato, offerto a tutti, gratis, per sempre. Amore capace di renderci figli: divini come lui è divino. Questa è la buona novella. Questa è la grazia, sottolinea Candiard. E per cambiare le nostre vite, secondo il desiderio del giovane ricco, dobbiamo semplicemente desiderare di essere sanati e lasciarci sanare, desiderare di essere amati e lasciarci amare.
Facile? Evidentemente no se Pietro rifiuta, in prima battuta, che il Maestro lavi i suoi piedi (Gv 13,8); se tanta gente si indigna nel vedere Gesù che accetta di farsi profumare i piedi da una prostituta (Lc 7,38); se c’è chi si presenta alla festa di nozze senza essersi lasciato vestire con l’abito nuziale (Mt 22,12); se dopo secoli di dibattito teologico ancora adesso corriamo il rischio di restare irretiti dall’inganno pelagiano di conquistarci il Regno con le nostre forze, pur essendo stati avvertiti da Gesù in persona che non ne abbiamo a sufficienza.
«Nella Chiesa - aggiunge Candiard, che si chiede come mai ci sia tanta difficoltà per i cristiani a parlare di grazia - spendiamo un sacco di energie, di omelie e conferenze a lamentarci di quanto sia difficile obbedire al comandamento di Cristo e quindi amare il prossimo come noi stessi. Ci sforziamo di aggirare la difficoltà a forza di abilità esegetica e di retorica, spiegando che amare non è necessariamente quello che pensiamo, che è già tanto fare del proprio meglio, volere il bene o non fare del male. E non mi spiego come mai, nel frattempo, ci occupiamo molto meno del nostro vero campo di attenzione, cioè lasciarci rivestire dell’abito nuziale, lasciarci amare, accogliere il Regno che ci è dato».
Qui, Candiard affronta con efficace semplicità il tema della preghiera. Perché la preghiera è semplicità; è volgere l’attenzione a Dio che è nel nostro cuore «più intimo a me di me stesso», come dice Agostino (più volte citato da Candiard quale campione della teologia della grazia), lasciandosi aiutare dallo Spirito, anzi, lasciando che lui preghi per noi, come scrive san Paolo nella Lettera ai romani, perché «lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza e intercede per noi con gemiti inesprimibili» (8,26) e «per mezzo dello Spirito gridiamo “Abbà! Padre!”» (8,15). Estremo paradosso, per noi cristiani così poco avvezzi ad aprirci all’amore donato e alle cose autenticamente spirituali, scoprire, come anche Candiard, che Dio prega in noi. Perché, non solo lo Spirito è in noi, ma in noi «prega per farci pregare». Dio è nel nostro cuore che ci aspetta e cosa fa? Prega! E giunge incessantemente col suo Spirito a suscitare la nostra preghiera. Per il teologo domenicano è la Trinità che in noi mostra il suo volto: l’amore che si svela nell’amore. E allora: perché non lasciarsi amare?
LINGUISTICA STORIOGRAFIA E PSICOANALISI:
RIFLETTENDO sul #nodo etimologico di #cuore e #cardine (in connessione con l’ #hamlet-ico tempo di #Shakespeare, "fuori dai cardini"), la memoria ha richiamato l’attenzione su una #immagine (qui, v. allegato) che continua a "#parlare" di un problematico #letargo di secoli (quantomeno a partire da #LorenzoValla, 1440), di uno strano "lapsus" storico e storiografico sul tema dell’#Amore per eccellenza: la #Carità, la #Charitas (gr. "#Xapitas"), e sulla famosa e falsa "donazione di Costantino".
IN PRINCIPIO ERA IL #LOGOS: CHARITAS (AMORE). Questa parola-chiave, la "password" del "regno dei cieli", è diventata nel tempo la Carità - #elemosina, la #Caritas (fatta derivare dal lat. "carus", "caro") e così, persa la "h" (l’#acca), anche in lingua greca (v. allegato) è diventata (addirittura) "#Kapitas" ( "Karitas").
"RIPENSARE #COSTANTINO"? NO! #DANTE2021? NO! RICORDARE L’ANNIVERSARIO DI #NICEA 325, 2025!
OVVIAMENTE, così permanendo e stando le cose in tutte le Università e le Accademie del #PianetaTerra (con la loro forte segnatura culturale di epoca "rinascimentale"), il "sonno dogmatico" continua a tutti i livelli, sul piano non solo etimologico, ma filologico, antropologico, teologico e politico.
MENTE ACCOGLIENTE ANTROPOLOGIA SPIRITOCRITICO:
"AD THEOLOGIAM PROMOVENDA": [...] Rosmini considerava la teologia una espressione sublime di “carità intellettuale” [...] chiedeva che la ragione critica [...] si orientasse all’Idea di Sapienza e [sapesse stringere] interiormente in un “circolo solido” la Verità e la Carità insieme (Ad theologiam promovenda, pf. 7, L’Osservatore Romano, 03 novembre 2023).
Federico La Sala
LA MADRE DEL PARTIGIANO
Sulla neve bianca bianca
c’è una macchia color vermiglio;
è il sangue, il sangue di mio figlio,
morto per la libertà
Quando il sole la neve scioglie
un fiore rosso vedi spuntare:
o tu che passi, non lo strappare,
è il fiore della libertà
Quando scesero i partigiani
a liberare le nostre case,
sui monti azzurri mio figlio rimase
a far la guardia alla libertà.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GIORNATA DELLA TERRA (2023) E MESSAGGIO EVANGELICO (2025). Una nota a margine del documento del Centro Orientamento Pastorale *
*
GIORNATA DELLA TERRA (2023) E MESSAGGIO EVANGELICO (2025).
Pastorale “generativa”? Certissimamente un paradigma interessante per la missione della Chiesa... Ma ad esso, unitamente allo spirito dei profeti, non manca anche e ancora lo spirito delle profetesse, delle sibille!? Non è bene, forse, ri-andare nella Cappella Sistina, guardare in alto, ri-meditare le indicazioni di Michelangelo, e ri-vedere e ri-pensare il “Tondo Doni”, con la sua cornice? Non è bene, dopo 1700 anni da Nicea 325, arrivare al 2025 rinnovando il paradigma e ri-diventare finalmente “bambini”, semplicemente esseri umani, cristiani adulti? Se non ora, quando? (Federico La Sala)
Federico La Sala
FILOLOGIA E ANTROPOLOGIA: NATURA, INTELLIGENZA ASTUTA, E GRATITUDINE ...
Una sollecitazione a pensare al "mondo divenuto favola" (lezione di Esopo, Fedro, e Nietzsche): come la filosofia, la teologia, e la politica mondiale, senza più Grazia (gr.: XAPIS, "CHARIS") e senza più Grazie (gr.: XAPITES, "CHARITES") perde la testa e ricade nel sacco, nella tradizionale "luminosa" caverna dell’ "homo homini lupus est" ... Dov’è l’etica? E dove la carità (gr. XAPITAS, "CHARITAS") della stessa grazia ("charis")?!
MEMORIA (E MUSE): "L’AMORE NON è LO ZIMBELLO DEL TEMPO" (W. Shakespeare, Sonetto 116).
PSICOANALISI E "DISAGIO NELLA CIVILTÀ" (S. FREUD, 1929): "Il sentimento di gratitudine è una delle espressioni più evidenti della capacità di amare. La gratitudine è un fattore essenziale per stabilire il rapporto con l’oggetto buono e per poter apprezzare la bontà degli altri e la propria. (Melanie Klein).
COSMOLOGIA, ANTROPOLOGIA E STORIA.
"L’INFINITO" E "QUESTO" ATTUALE PRESENTE STORICO: UNA LEZIONE DI "GRAMMATICA DELLA FANTASIA".
Note in memoria di Giacomo Leopardi e di Gianni Rodari...
UMANITÀ, UMILIAZIONE, E FILOLOGIA. Come c’è amore (charitas) e "amore" (caritas), patria e "patria", famiglia e "famiglia", c’è anche scuola e "scuola" - e la "scuola" che propone l’umiliazione come "un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità" è proprio di una politica e di una pedagogia che ha perso ogni legame con il messaggio costituzionale ed evangelico.
"L’ ACCA IN FUGA" (Gianni Rodari). La "fatina #muta" è fuggita - e la filologia non lo sa! "La fatina muta potrà servire al lettore per cogliere intuitivamente la realtà complessa di questo strano fenomeno: quello di un suono assente" (Pietro Barbetta, "Chi ricorda la fatina muta?", Doppiozero, 20 novembre 2022) ... ha il #filo di M_Arianna, la Terra-Madre (Eleusis2023 - Demetra).
"QUESTO" PRESENTE STORICO E L’INFINITO SILENZIO. Un’antica esortazione: "Cercate l’antica madre" (Virgilio): riprendere il cammino (Dante2021) e il lavoro di Freud sul gioco del #rocchetto ("Al di là del principio di piacere") e portarsi fuori dall’ecolalico labirinto e dalla edipica #caverna platonica:
A) L’INFINITO - E "QUESTO" ERMO COLLE...:
"Sempre caro mi fu quest’ermo colle / e questa siepe che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude./ Ma sedendo e mirando, interminati/ spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quïete/ io nel pensier mi fingo; ove per poco/ il cor non si spaura. E come il #vento / odo stormir tra queste piante, io quello / infinito silenzio a questa #voce / vo comparando: e mi sovvien l’eterno, /e le morte stagioni, e la presente /e viva, e il suon di lei. Così tra questa/ immensità s’annega il pensier mio: /e il naufragar m’è dolce in questo mare" (Giacomo Leopardi, "L’Infinito").
B) IL PROFETA ELIA E "IL SUSSURRO DI UNA BREZZA LEGGERA" - "IL SUONO DI UN SOTTILE SILENZIO" (Michel Masson):
“Gli disse [Dio a Elia]: ‘Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore’. Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna. Ed ecco, venne a lui una voce che gli diceva: ‘Che cosa fai qui, Elia?’”. (1 RE 19, 11-13).
Omegna. Al Museo Rodari le favole diventano multimediali
Un’esperienza multimediale coinvolgente, immersiva e accessibile a tutti, progettata con un’attenzione particolare per il pubblico infantile ma capace di dialogare anche con un pubblico adulto
di Roberto Cutaia (Avvenire, martedì 15 febbraio 2022)
Quando l’editore Einaudi nel 1973 pubblicò Grammatica della fantasia, di Giovanni Francesco Rodari (1920-1980), detto Gianni, Tullio de Mauro recensendo il libro su Paese Sera, definì lo scrittore con l’aggettivo ’classico’. «Rodari non ha dimenticato le sue buone qualità: la chiarezza, l’intelligenza sorridente, la capacità di far saltare fuori idee da un sasso. Come Cimarosa col suo Maestro di Cappella, come Rilke nelle ’Lettere a un giovane poeta’, come Goethe e Leopardi in certe loro pagine, un artista ha messo in tavola le carte del suo gioco. E ne è nato, elegante e geniale, un classico».
Dopodichè lo stesso Rodari, secondo il suo stile scherzoso e fantasioso, fissò un cartellino sulla propria giacca con la dicitura ’Sono un classico’. E probabilmente ora, in occasione della nascita a Omegna ( Vb) - città natale dello scrittore di fantasia, sulla sponda del Lago d’Orta in Piemonte - del ’Museo Rodari, una fantastica storia’, avrebbe apposto sulla giacca la scritta ’Sono un museo’, spiega Pino Boero, curatore del museo interattivo.
Il percorso del Museo Rodari (sito nella centrale via Carrobbio, 45) è stato studiato per creare un’esperienza multimediale coinvolgente, immersiva e accessibile a tutti, progettato con un’attenzione particolare per il pubblico infantile ma capace di dialogare anche con un pubblico adulto e preparato. Gli exhibit interattivi coniugano elementi fisici con videoproiezioni digitali, componenti meccaniche e software procedurali si mescolano e si intrecciano tra di loro, per disegnare un percorso narrativo inedito sulla vita e la poetica di Rodari. I visitatori sono chiamati a mettersi in gioco in prima persona per attivare i racconti e i meccanismi narrativi delle varie installazioni, senza di loro il museo non avrebbe senso, resterebbe perennemente incompiuto.
In un percorso museale che non espone oggetti ma storie ed esperienze, il vero contenuto da tutelare e salvaguardare sono proprio i visitatori e la loro esperienza di visita. In questo modo il museo si trasforma, diventa un luogo vivo e accessibile, in cui sperimentare nuovi modelli di didattica e di diffusione del patrimonio immateriale, seguendo le orme fantastiche di Rodari. I
l Museo racconta la ’fantastica storia’ dello scrittore, del territorio e del contesto storico con la leggerezza della dimensione virtuale, con il piacere della scoperta di testi che scendono dagli scaffali e immagini che si ricompongono. Il visitatore potrà vedere Rodari intervistato alla televisione e ascoltare ’al telefono’ alcune famose ’favole’ con la possibilità, componendo numeri speciali, di sentirle recitate in diverse lingue. Da Omegna, la città e il paesaggio circostante, che hanno ispirato la fantasia di Rodari, al mondo, dunque, in un viaggio dentro un museo pieno di sorprese per piccoli e grandi. Per info: www.museorodari.it.
CREATIVITÀ. “Qualunque sia la definizione della creatività che adottiamo, essa deve includere l’idea che vale la pena di vivere oppure no a seconda che la creatività faccia parte o meno dell’esperienza individuale della persona. Per essere creativa, una persona deve esistere e avere il senso di esistere, non in maniera consapevole, ma come base di partenza per agire. La creatività, è allora, il fare che emerge dall’essere. Essa indica che colui che è, è vitale. L’impulso può essere silente, ma quando la parola “fare” diventa appropriata, già è presente la creatività (...) la creatività, allora, consiste nel conservare, nel corso della vita, qualcosa che appartiene propriamente all’infanzia: la capacità di creare il mondo” (Donald W. Winnicott).
FLS
FILOLOGIA, TEOLOGIA, E STORIA: LA SANTA EUCARISTIA E LA DIPLOMAZIA DELL’EUCARESTIA.
#ANTROPOLOGIA #TEOLOGIA #STORIA E #FILOLOGIA. "La #politica dell’#eu-#carestia" - #oggi (la @repubblica , #30ottobre2021) - "segnala" un #problema di #dottrina, di #interpretazione, e di #storiografia di #lungadurata... quello della #Grazia ("#Charis"). O no? Buon lavoro. Grazie.
Federico La Sala
L’esito del Sinodo? Si vedrà da quel che dirà sui monaci, non sui divorziati
Oggi chiude il Sinodo sulla famiglia. Cosa ne uscirà? Ne abbiamo parlato con lo storico Alberto Melloni. «Per capire quale posizione avranno scelto i Vescovi, dovremo leggere non cosa dirà il Sinodo sulle unioni omosessuali o sui divorziati, come faranno tutti, ma cosa dirà il Sinodo sui celibi e sui monaci». Ecco perché.
di Sara De Carli (Vita, 24 ottobre 2015)
Perché è necessario ripensare il concetto di matrimonio e di famiglia? E perché lo deve fare proprio la Chiesa dal momento che sulla scena culturale oggi abbiamo comunque già tante altre proposte di unione?
Quando noi oggi parliamo di famiglie e matrimonio, con tutte le varianti e i plurali del caso, non parliamo in realtà di cose tanto diverse. Il matrimonio oggi ha una radice unitaria, quella del matrimonio tridentino, che prevede il consenso tra i due coniugi e due ospiti ingombranti: i fini (essenzialmente il remedium concupiscienzae e il fare figli) e l’autorità. Non si esce da questo modello, tant’è che anche nella discussione più progressista sulla scena, quella sul matrimonio fra persone omosessuali, il punto è sempre ancora l’autorità dello Stato che riconosca il matrimonio e i fini ovvero la questione dei figli e dell’adozione. Se non vogliamo rimanere fermi lì dobbiamo recuperare il fatto che il matrimonio vive nello scarto fondamentale che c’è in ciò che Gesù dice di esso: da un lato ripudia la pena di morte per l’adultera, dall’altro dice “chi sono mia madre e i miei fratelli?”. Gesù annuncia una possibilità per il coniugio e nel tempo stesso ne dice l’irrilevanza. L’annuncio di Gesù è un annuncio che dice che la relazione fra due persone è più grande e al tempo stesso più piccola di quello che ci si può aspettare, che l’amore e il coniugio è infinitamente fragile e infinitamente forte, che nell’amore è possibile vivere già qui l’unione così come la voleva Dio prima dell’inizio del mondo e insieme che la relazione non conta nulla davanti al Regno. Le cose viste da qui assumono tutta un’altra prospettiva.
Partire dalla relazione e dalla fragilità significa contemplare la possibilità del fallimento o la fine dell’amore?
Mi ha colpito che la discussione in preparazione del Sinodo, su divorziati, risposati e omosessuali, ha avuto una declinazione tutta giocata sulla teologia morale, mentre i due veri punti del discorso sono Eucaristia e penitenza. La Chiesa sente di avere l’autorità di unire e di sciogliere ma non quella di comunicare il perdono di Dio a chi ha fatto un’esperienza di matrimonio fallimentare, che non necessariamente è nulla, è solo andata male, come capita nella vita? È un cul-de-sac. Che distinzione è quella fra “coniuge innocente” e “coniuge colpevole”? Se c’è una cosa certa nel matrimonio è questa, che non si possono dividere le responsabilità e le colpe, attribuendole solo a uno o solo all’altro. Le ripeto, è un cul-de-sac se non si riesce a indicare la via della penitenza.
Cioè della misericordia, su cui tanto insiste Papa Francesco?
Sì, tant’è che Papa Francesco, con l’indizione dell’Anno Santo della Misericordia ma anche con il motu proprio Mitis iudex Dominus Iesus ci dice di non essere disposto ad arretrare: non considera la sua posizione sulla famiglia, il matrimonio e la misericordia come una materia politica, ma una questione teologica.
Il Concilio di Trento diceva che la Santa Eucaristia toglie tutti i delitti, anche quelli più gravi. L’Eucarestia non è il certificato di cittadinanza della Chiesa cattolica o di appartenenza a una statualità ecclesiatica: è una medicina, che guarisce tutto. Non c’è una “proprietà” dell’Eucarestia. Dobbiamo ripartire dal sacramento, dal Vangelo, non dalla valutazione dei peccati.
Se si guarda alla condotta morale e al catalogo dei peccati non si può andare lontani da Alfonso de’ Liguori, secondo cui la penitenza per il peccato più grave deve essere piccolissima perché il percorso interiore che hai fatto per arrivare a confessare quel peccato è stata già la tua penitenza. Ma se lo si prende dalla parte dell’annuncio di Gesù, le cose assumono un’altra prospettiva.
Capisco che questo radicale disancoramento è scandalosissimo, anche oggi: pensi - lo scoprì il Cardinale Martini, da biblista - che nel IV secolo i copisti saltarono il capitolo dell’adultera dal Vangelo perché pensarono che fosse “troppo”.
L’ha sorpesa il motu proprio del Papa di riforma dell’iter per ottenere la nullità del matrimonio? Spiazza tutti i giochi di potere dei fronti interni alla Chiesa, in vista del Sinodo, no?
Con questa mossa Papa Francesco ha bruciato le soluzioni facili. Poteva non pubblicare il motu proprio e darlo al Sinodo, così il Sinodo avrebbe potuto dire “Ecco, abbiamo prodotto questo, siamo arrivati a un bel risultato” e fare bella figura davanti al mondo. Lui ha bruciato le tappe, è come se ai Vescovi dicesse: “Cercate ancora, cercate qualcos’altro”. È un alzare l’asticella, oppure un calcio nel sedere: questo lo dimostreranno i Vescovi, che non sono lì per giudicare una proposta, sono lì per lavorare ed essere giudicati. Da un punto di vista canonistico questa semplificazione è una cosa che il cardinale Pompedda chiedeva già negli Anni 90: in molte circostanze i fedeli hanno la perfetta coscienza della nullità del loro matrimonio e questa coscienza non può essere giuridicamente irrilevante per la Chiesa. Vedo però complicazione tutta italiana, che è quella concordataria: l’annullamento infatti annulla gli effetti civili del matrimonio, quindi restano gli obblighi verso i figli ma cessano quelli verso il coniuge. Si rischia di produrre un’ingiustizia, che colpirebbe soprattutto le donne.
Lei si aspetta una rivoluzione dal Sinodo?
Non lo so. Intanto così è troppo breve, sarà come giocare una partita di calcio in 6 minuti anziché in 90: non vince il migliore, vince chi fa gol prima. Se il Sinodo continuerà a ragionare dal punto di vista della teologia morale le strade sono solo due, il rigorismo o il lassismo. Il Sinodo allora sarà un battibecco morale o un virtuosismo canonistico.
L’alternativa vera è partire dall’Eucaristia - che cura tutto - e dall’annuncio del Regno che illumina tutto - il celibato, il matrimonio, il matrimonio naufragato e quello nullo - e illuminando giudica e perdona. Per capire quale posizione avranno scelto i Vescovi, dovremo leggere non cosa dirà il Sinodo sulle unioni omosessuali o sui divorziati, come faranno tutti, ma cosa dirà il Sinodo sui celibi e sui monaci.
Che conseguenze ci sarebbero sul piano sociale, al di fuori del recinto della cattolicità?
Sarebbe tutto diverso, perché se la Chiesa si sgancia dal discorso sui fini e sull’autorità anche la politica avrà un’altra libertà. Oggi se uno è contrario al matrimonio fra omosessuali è per forza omofobo e se è favorevole alle unioni civili è per forza anticattolico. Non ha senso. Prendiamo il patto civile: vogliamo immaginare cosa vuol dire una società in cui una unione civile fallisce senza tutele per la parte debole? O pensiamo che le unioni civili resisteranno più dei matrimoni? No, si squaglieranno tanto quanto i matrimoni, uno su quattro, e in quel momento non conterà nulla il fatto che io abbia giocato l’unica cosa che conta nella vita, il tempo, nella compagnia di un altro? In una società di relazioni squagliate chi avrà la peggio? Le donne, che saranno condannate a una subalternità vecchia come il mondo.
Nel suo libro lei scrive che la Chiesa dovrebbe avere la capacità di dire «che il dono e il perdono sono tutto ciò che consente di vivere un amore senza fine o la fine dell’amore». Come si può pensare il “ricominciare” in un modo più pregnante di una banale “seconda chance”?
La cosa più mirabolante dei divorziati risposati e in quanti chiedono la nullità di un matrimonio è proprio il fatto che una persona che ha fatto un’esperienza umanamente straziante, di fallimento, voglia ancora un rapporto sacramentale e organico con la comunità ecclesiale. La sapienza cristiana ha una chiave per questo. I padri del deserto raccontano di un viandante che va al monastero e chiede “ma voi cosa fate?”. “Cadiamo e ci rialziamo, cadiamo e ci rialziamo”, rispondono quelli. Questa è la chiave della sapienza cristiana. Il cristianesimo non è solo camminare ma è camminare, cadere, rialzarsi, camminare cadere, rialzarsi, camminare. La chiesa avrebbe molto da dire sul perdono, non solo quando uno ha fatto un’esperienza di rottura che si risolve in una nuova relazione, ma nel momento stesso in cui si consuma la rottura. Il perdono non sta alla fine del matrimonio per farne un altro, ma sta dentro al matrimonio. Il matrimonio non è un “tenere duro” nella speranza che non succeda niente: è sapere che qualcosa succederà, ma che si è capaci di perdonare. La Chiesa deve tornare a dire che il fallimento della vita coniugale deriva dalla carenza di perdono e che quando il matrimonio o l’amore finisce c’è bisogno di un surplus di perdono. In quest’ottica il femminicidio, che spesso nasce dall’incapacità di accettare il “torto” dell’abbandono, è anche un problema pastorale.
FLS
UNA QUESTIONE DI SPIRITO. La storia millenaria di un errore secolare... *
Trappole dell’ortografia
«A» con l’acca o senza? Le avventure della lettera «H», la più odiata dagli italiani
Dall’alfabeto fenicio all’Ariosto, la vicenda millenaria del simbolo grafico «H» ricostruita dal ricercatore Fabio Copani e rilanciata dai social
di Redazione Scuola *
La più strana delle lettere dell’alfabeto
«Mamma, ma perché “Mario ha un amico” si scrive con l’acca visto che si pronuncia nello stesso identico modo di “Mario va a scuola”?». Perché è voce del verbo avere. «E allora perché non si scrive habbiamo e havete?». In latino effettivamente si scriveva così, ma si pronunciava anche diversamente, aspirando l’acca. Mentre in italiano la «H» è una lettera strana, una lettera muta.
Si scrive ma non si legge, si vede ma non si sente. Eppure è importantissima. Talmente importante che se non ci fosse si scatenerebbe l’Apocalisse: le chiese senza l’acca crollerebbero come sotto le bombe, i cherubini cadrebbero dal cielo, i bicchieri esploderebbero in mano, i galli invece di cantare starnutirebbero: CICCIRICÌ. E’ quanto immaginava Gianni Rodari in una filastrocca del Libro degli Errori in cui l’Acca - «stufa di non valere un’acca» - fuggiva dall’Italia. Ebbene a restituire l’onore perduto alla più bistrattata delle lettere dell’alfabeto ci ha pensato Fabio Copani, giovane dottore di ricerca in Storia greca, che ha ricostruito la sua lunga e travagliata odissea attraverso il Mediterraneo. Una storia che comincia sulle spiagge fenicie, monta a bordo delle navi dei commercianti libanesi, sbarca in Grecia, di lì a Cuma, e poi a Roma dove indispettisce Catullo e insuperbisce l’Ariosto, per atterrare infine sui manuali di scuola.
La lettera Het nella lingua fenicia
La storia della H è antica quanto quella dell’alfabeto che, come si sa, fu inventato dai fenici. La «het» era l’ottava lettera dell’alfabeto fenicio e si scriveva con un segno a forma di rettangolo con un trattino in mezzo («acca chiusa»). Corrispondeva a un suono per noi sconosciuto che veniva prodotto con un restringimento della cavità orale all’altezza della faringe (i linguisti lo chiamano «spirante faringale»).
Dalle coste libanesi alla Grecia
A partire dal IX secolo a.C. i commercianti libanesi ebbero contatti sempre più frequenti con i greci i quali non restarono insensibili alle loro straordinarie invenzioni tecnologiche, dal vetro all’alfabeto. L’adozione dell’alfabeto fu un processo complesso perché il greco antico era una lingua indoeuropea con suoni diversi dal fenicio che era una lingua semitica. In greco molte parole iniziavano con delle vocali aspirate: quelle parole furono trascritte con il segno «het» davanti che stava a indicare appunto un’aspirazione.
Dalla acca chiusa all’acca aperta
Verso la fine del VII secolo a.C. vi fu una semplificazione dell’antico segno «het»: i due trattini superiore e inferiore vennero tralasciati e la lettera assunse la forma della nostra acca. Si passò così, gradualmente, dalla «acca chiusa» alle «acca aperta».
L’alfabeto di Mileto
In greco antico esistevano però molti dialetti. A Mileto per esempio, e più in generale nella Ionia asiatica corrispondente alla costa centrale della Turchia, i greci parlavano un dialetto privo di aspirazioni (i linguisti lo chiamano «psilotico»). Loro usavano il simbolo «het» fenicio per indicare la vocale «e» lunga.
Nel 403 a.C. la città di Atene decise con un decreto ufficiale di adottare l’alfabeto di Mileto. Fu così che il segno a forma di «acca» si impose quasi ovunque nel mondo greco come simbolo della lettera eta, cioè della «e» lunga, mentre per indicare il suono aspirato entrò in uso lo «spirito aspro» sopra le vocali iniziali.
L’alfabeto dei cumani
Il segno a forma di acca ebbe una sorte diversa nelle colonie greche in Campania, prima fra tutte Cuma, che fu fondata dai greci dell’isola Eubea nell’VIII secolo. Nell’alfabeto dei cumani quel segno continuava a indicare il suono dell’acca aspirata e così passò anche ai romani che adottarono il simbolo nella sua variante aperta proprio per indicare il suono dell’aspirazione all’inizio di molte parole latine (homo, uomo, habere, avere, da cui l’acca che sopravvive ancora in italiano - anche se muta - nelle voci del verbo avere).
Catullo e l’acca del sussiegoso Arrio
Come avvenne il passaggio dalla acca aspirata latina all’acca muta italiana? Il fatto è che nell’Antica Roma i ricchi parlavano in un modo e i poveri in un altro: la lingua colta marcava l’acca all’inizio delle parole, il popolo ignorante invece non pronunciava l’acca. Ne dà testimonianza Catullo in una sua poesia in cui ironizza su un certo Arrio che per darsi un tono piazza l’acca aspirata a sproposito un po’ dappertutto.
Ariosto e l’uomo senz’acca che è senza onore
La lingua parlata italiana ereditò la dizione del latino rustico che non pronunciava il suono aspirato all’inizio della parola. Tuttavia la acca sopravvisse nell’italiano scritto. Fra i suoi paladini più convinti, nel Rinascimento, vi fu Ludovico Ariosto («Chi leva la H all’huomo, e chi la leva all’honore, non è degno di honore»). Alla fine però i nemici dell’acca ebbero la meglio e imposero una grafia semplificata senza il segno «H» all’inizio della parola. A partire dalla fine del Seicento si definì una consuetudine ortografica che salvava l’acca solo nelle prime tre persone singolari e nella terza plurale dell’indicativo presente del verbo avere («ho», «hai», «ha», «hanno»), quelle cioè che si prestavano a confusione con altre parole dal suono uguale ma dal significato diverso («o», «ai», a», «anno»). E qui si chiude la storia millenaria di un errore secolare.
* Corriere della Sera, 9 dicembre 1917 (ripresa parziale - senza immagini).
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Sul tema, cfr.:
FLS
Chiesa e covid /1. De Rita: la Chiesa ha smarrito il gregge durante la pandemia
Parla il sociologo, presidente di «Essere qui», l’associazione che ha pubblicato una ricerca sul rapporto tra i fedeli e vertici ecclesiastici in questo periodo
Il sociologo Giuseppe De Rita
di Riccardo Maccioni (Avvenire, sabato 14 agosto 2021)
L’immagine usata è quella del gregge smarrito. Richiamo evidente alla parabola evangelica, con la differenza che qui a essersi persa non è un’unica pecora che il buon pastore ora cerca lasciando sul monte le altre novantanove. Si tratta invece di rispondere a un disagio più diffuso, al malessere di quella parte di mondo cattolico per niente soddisfatto dalla posizione assunta nell’anno della pandemia dalla Chiesa italiana, di cui sottolinea l’irrilevanza, l’eccessiva sottomissione, l’autoreferenzialità.
Una "denuncia" fotografata e interpretata dall’associazione "Essere qui", nata da un gruppo di amici guidati dal sociologo Giuseppe De Rita con Liliana Cavani vicepresidente e, tra i soci, Gennaro Acquaviva, Ferruccio De Bortoli, Mario Marazziti, Romano Prodi e Andrea Riccardi.
Il risultato è una ricerca confluita nel volume appena pubblicato da Rubettino: "Il gregge smarrito". Chiesa e società nell’anno della pandemia (164 pagine, 15 euro, ebook 8,99). Non un semplice atto d’accusa, spiegano gli autori, semmai uno stress test o, per dirla in termini più consueti, un esame di coscienza, un "discernimento" sia interno alla Chiesa istituzione sia dal punto di vista dei fedeli, necessario per poi poter ripartire con maggiore vigore e consapevolezza del tanto che i cattolici possono offrire nella costruzione del bene comune.
In proposito, secondo la ricerca, la crisi legata al Covid ha fatto emergere alcune criticità latenti nella Chiesa da tempo, come «lo scollamento con la società reale, la distanza tra fedeli e pastori, l’irrilevanza nel pensiero socio-politico».
È risultato evidente, spiega il professor De Rita, «il distacco crescente, forte, che già c’era, tra evangelizzazione e promozione umana. Una separazione che riconduce alla lezione ruiniana, a suo tempo fatta propria da tutta la comunità ecclesiale italiana, secondo cui la Chiesa c’è per evangelizzare, per praticare il Vangelo e non per trasformare la società. Una condizione che durante la pandemia si è rivelata ancora più controproducente, nel senso che il sociale nella realtà ecclesiale non esisteva e quindi non poteva reagire. Si doveva fatalmente ritornare soltanto all’evangelizzazione, per la quale però non c’era più energia pastorale».
Quindi evangelizzazione e promozione umana devono procedere insieme.
Traggono forza l’una dall’altra. Se ne privilegi solo una uno salta tutto. Con la pandemia ce ne siamo accorti. In campo sociale la Chiesa ha manifestato la sua irrilevanza, l’incapacità di discutere con il potere mentre l’evangelizzazione, con le chiese vuote e senza Sacramenti, non è riuscita ad affermarsi.
In qualche modo secondo voi si è creato un fossato tra Chiesa e società.
Durante la discussione del Comitato preparatorio sul titolo da dare al Convegno ecclesiale nazionale del 1976, il segretario generale della Cei, monsignor Enrico Bartoletti impose quello che lui chiamava "l’et et", nel senso che la Chiesa non vive di contrapposizioni, di "aut aut". Non l’una o l’altra ma insieme, "et et" appunto. Una cultura ecclesiale, quella di Bartoletti, che abbiamo dimenticato.
Tra i dati evidenziati dalla vostra ricerca uno colpisce in particolare: per il 39% degli italiani e per il 50% dei praticanti, durante la pandemia la Chiesa ha accettato troppo acriticamente le decisioni del governo.
A molti cattolici è sembrato quasi stravagante che la Chiesa accettasse ogni cosa, non discutesse su nulla, che il Papa chiedesse di obbedire all’ordine delle autorità. Che può anche essere giusto nel rapporto con lo Stato ma non dal punto di vista della dimensione partecipante della Chiesa, che anziché esplodere in campo pubblico si è rannicchiata nel privato. C’è tanta gente che in pieno lockdown ha continuato ad andare a Messa magari in chiese periferiche, da amici preti, e molti fedeli erano arrabbiati perché non si celebravano funerali. Ma questa rabbia, questo disagio, li abbiamo tenuti dentro perché in fondo pensavamo che anche se ci fossimo esposti pubblicamente nessuno ci avrebbe dato retta.
E questo vale per la Chiesa a tutti i livelli?
Anche noi laici non siamo stati capaci di uno scatto d’orgoglio, per dire ad esempio che non si può rinunciare all’Eucaristia. Siamo stati irrilevanti non in termini di potere ma di cultura del sociale, del significato sociale di essere cattolici, di essere Chiesa..
Da questa situazione come si esce, quali soluzioni possono essere praticate?
Il nostro gruppo non avanza proposte, non vuole fare politica ecclesiale, non intende mettersi dentro discussioni e assumersi responsabilità che sono della gerarchia. Noi facciamo delle riflessioni a latere, diciamo quello che vediamo, ci limitiamo a fornire un input, perché dare un output sulla base di poche conoscenze e verifiche sarebbe un’avventura idiota.
Un’indicazione però la date, quella di "cercare la Chiesa fuori dalla Chiesa".
Oggi è il problema più importante. Le faccio l’esempio di due amici morti in casa e che non potendosi celebrare i funerali sono stati messi su un furgone per essere portati al luogo dove sarebbero stati cremati. Il parroco però ha voluto che passassero davanti alla parrocchia ed è uscito per un segno di benedizione. Ma quanti hanno fatto come lui? Credo pochissimi. La pandemia ha dimostrato che gli uomini di Chiesa non hanno saputo fare un passo oltre la soglia.
Vogliamo spiegare cos’è l’associazione Essere qui che ha realizzato la ricerca?
Nasce da un mio testo furibondo scritto durante la pandemia, quando ci è stato comunicato l’interdetto ad andare in chiesa, Una dozzina di pagine che mandai ad alcuni amici suscitando reazioni diverse. Qualcuno ha detto "lasciamo perdere", "stiamo buoni", altri invece hanno pensato che fosse bene andare avanti, realizzare un documento più lungo ed articolato. Ne è venuto fuori un secondo testo, meno fiammeggiante, dopodiché si è pensato di fare un passo ulteriore. E abbiamo realizzato una ricerca basata su mille interviste tra i fedeli italiani, poi accompagnata da un testo di commento. Anche la formazione del gruppo è avvenuta progressivamente, alcuni di quelli che all’inizio erano più arrabbiati li abbiamo persi, mentre è arrivato chi era interessato a un’attività quasi scientifica di analisi e di ricerca demoscopica. Devo dire che ripensandoci mi sorprendo di come tutto sia stato all’insegna della spontaneità totale. È la prima volta che nella Chiesa italiana si forma un gruppo organizzato senza assistenza ecclesiastica, senza timbri, senza decreto del parroco o del vescovo.
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Chiesa e covid /2.
Castellucci: prioritario non perdere il buono nato con l’emergenza (Riccardo Maccioni, Avvenire, sabato 14 agosto 2021
Chiesa e covid /3.
Pagnoncelli: ora i credenti possono fare la differenza nella società (Enrico Lenzi, Avvenire, sabato 14 agosto 2021).
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI MEMBRI DELLA CARITAS ITALIANA NEL 50° DI FONDAZIONE *
Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti, tutti!
Ringrazio il Cardinale Bassetti e il Presidente della Caritas Italiana, Monsignor Redaelli, per le parole che mi hanno rivolto a nome di tutti. Grazie. Siete venuti dall’Italia intera, in rappresentanza delle 218 Caritas diocesane e di Caritas Italiana, e io sono contento di condividere con voi questo Giubileo, il vostro cinquantesimo anno di vita! Siete parte viva della Chiesa, siete «la nostra Caritas», come amava dire San Paolo VI, il Papa che l’ha voluta e impostata. Egli incoraggiò la Conferenza Episcopale Italiana a dotarsi di un organismo pastorale per promuovere la testimonianza della carità nello spirito del Concilio Vaticano II, perché la comunità cristiana fosse soggetto di carità. Confermo il vostro compito: nell’attuale cambiamento d’epoca le sfide e le difficoltà sono tante, sono sempre di più i volti dei poveri e le situazioni complesse sul territorio. Ma - diceva San Paolo VI - «le nostre Caritas si prodigano oltre le forze» (Angelus, 18 gennaio 1976). E questo è vero!
La ricorrenza dei 50 anni è una tappa di cui ringraziare il Signore per il cammino fatto e per rinnovare, con il suo aiuto, lo slancio e gli impegni. A questo proposito vorrei indicarvi tre vie, tre strade su cui proseguire il percorso.
La prima è la via degli ultimi. È da loro che si parte, dai più fragili e indifesi. Da loro. Se non si parte da loro, non si capisce nulla. E mi permetto una confidenza. L’altro giorno ho sentito, su questo, parole vissute dall’esperienza, dalla bocca di don Franco, qui presente. Lui non vuole che si dica “eminenza”, “cardinale Montenegro”: don Franco. E lui mi ha spiegato questo, la via degli ultimi, perché lui ha vissuto tutta la vita questo. In lui, ringrazio tanti uomini e donne che fanno la carità perché l’hanno vissuta così, hanno capito la via degli ultimi. La carità è la misericordia che va in cerca dei più deboli, che si spinge fino alle frontiere più difficili per liberare le persone dalle schiavitù che le opprimono e renderle protagoniste della propria vita. Molte scelte significative, in questi cinque decenni, hanno aiutato le Caritas e le Chiese locali a praticare questa misericordia: dall’obiezione di coscienza al sostegno al volontariato; dall’impegno nella cooperazione con il Sud del pianeta agli interventi in occasione di emergenze in Italia e nel mondo; dall’approccio globale al complesso fenomeno delle migrazioni, con proposte innovative come i corridoi umanitari, all’attivazione di strumenti capaci di avvicinare la realtà, come i Centri di ascolto, gli Osservatori delle povertà e delle risorse. È bello allargare i sentieri della carità, sempre tenendo fisso lo sguardo sugli ultimi di ogni tempo. Allargare sì lo sguardo, ma partendo dagli occhi del povero che ho davanti. Lì si impara. Se noi non siamo capaci di guardare negli occhi i poveri, di guardarli negli occhi, di toccarli con un abbraccio, con la mano, non faremo nulla. È con i loro occhi che occorre guardare la realtà, perché guardando gli occhi dei poveri guardiamo la realtà in un modo differente da quello che viene nella nostra mentalità. La storia non si guarda dalla prospettiva dei vincenti, che la fanno apparire bella e perfetta, ma dalla prospettiva dei poveri, perché è la prospettiva di Gesù. Sono i poveri che mettono il dito nella piaga delle nostre contraddizioni e inquietano la nostra coscienza in modo salutare, invitandoci al cambiamento. E quando il nostro cuore, la nostra coscienza, guardando il povero, i poveri, non si inquieta, fermatevi..., dovremmo fermarci: qualcosa non funziona.
Una seconda via irrinunciabile: la via del Vangelo. Mi riferisco allo stile da avere, che è uno solo, quello appunto del Vangelo. È lo stile dell’amore umile, concreto ma non appariscente, che si propone ma non si impone. È lo stile dell’amore gratuito, che non cerca ricompense. È lo stile della disponibilità e del servizio, a imitazione di Gesù che si è fatto nostro servo. È lo stile descritto da San Paolo, quando dice che la carità «tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1 Cor 13,7). Mi colpisce la parola tutto. Tutto. È detta a noi, a cui piace fare delle distinzioni. Tutto. La carità è inclusiva, non si occupa solo dell’aspetto materiale e nemmeno solo di quello spirituale. La salvezza di Gesù abbraccia l’uomo intero. Abbiamo bisogno di una carità dedicata allo sviluppo integrale della persona: una carità spirituale, materiale, intellettuale. È lo stile integrale che avete sperimentato in grandi calamità, anche attraverso i gemellaggi, bella esperienza di alleanza a tutto campo nella carità tra le Chiese in Italia, in Europa e nel mondo. Ma questo - lo sapete bene - non deve sorgere solo in occasione delle calamità: abbiamo bisogno che le Caritas e le comunità cristiane siano sempre in ricerca per servire tutto l’uomo, perché “l’uomo è la via della Chiesa”, secondo l’espressione sintetica di San Giovanni Paolo II (cfr Lett. enc. Redemptor hominis, 14).
La via del Vangelo ci indica che Gesù è presente in ogni povero. Ci fa bene ricordarlo per liberarci dalla tentazione, sempre ricorrente, dell’autoreferenzialità ecclesiastica ed essere una Chiesa della tenerezza e della vicinanza, dove i poveri sono beati, dove la missione è al centro, dove la gioia nasce dal servizio. Ricordiamo che lo stile di Dio è lo stile della prossimità, della compassione e della tenerezza. Questo è lo stile di Dio. Ci sono due mappe evangeliche che aiutano a non smarrirci nel cammino: le Beatitudini (Mt 5,3-12) e Matteo 25 (vv. 31-46). Nelle Beatitudini la condizione dei poveri si riveste di speranza e la loro consolazione diventa realtà, mentre le parole del Giudizio finale - il protocollo sul quale saremo giudicati - ci fanno trovare Gesù presente nei poveri di ogni tempo. E dalle forti espressioni di giudizio del Signore ricaviamo anche l’invito alla parresia della denuncia. Essa non è mai polemica contro qualcuno, ma profezia per tutti: è proclamare la dignità umana quando è calpestata, è far udire il grido soffocato dei poveri, è dare voce a chi non ne ha.
E la terza via è la via della creatività. La ricca esperienza di questi cinquant’anni non è un bagaglio di cose da ripetere; è la base su cui costruire per declinare in modo costante quella che San Giovanni Paolo II ha chiamato fantasia della carità (cfr Lett. ap. Novo millennio ineunte, 50). Non lasciatevi scoraggiare di fronte ai numeri crescenti di nuovi poveri e di nuove povertà. Ce ne sono tante e crescono! Continuate a coltivare sogni di fraternità e ad essere segni di speranza. Contro il virus del pessimismo, immunizzatevi condividendo la gioia di essere una grande famiglia. In questa atmosfera fraterna lo Spirito Santo, che è creatore e creativo, e anche poeta, suggerirà idee nuove, adatte ai tempi che viviamo.
E ora - dopo questa predica di Quaresima! - vorrei dirvi grazie, grazie: grazie a voi, agli operatori, ai sacerdoti e ai volontari! Grazie anche perché in occasione della pandemia la rete Caritas ha intensificato la sua presenza e ha alleviato la solitudine, la sofferenza e i bisogni di molti. Sono decine di migliaia di volontari, tra cui tanti giovani, inclusi quelli impegnati nel servizio civile, che hanno offerto in questo tempo ascolto e risposte concrete a chi è nel disagio. Proprio ai giovani vorrei che si prestasse attenzione. Sono le vittime più fragili di questa epoca di cambiamento, ma anche i potenziali artefici di un cambiamento d’epoca. Sono loro i protagonisti dell’avvenire. Non sono l’avvenire, sono il presente, ma protagonisti dell’avvenire. Non è mai sprecato il tempo che si dedica ad essi, per tessere insieme, con amicizia, entusiasmo, pazienza, relazioni che superino le culture dell’indifferenza e dell’apparenza. Non bastano i “like” per vivere: c’è bisogno di fraternità, c’è bisogno di gioia vera. La Caritas può essere una palestra di vita per far scoprire a tanti giovani il senso del dono, per far loro assaporare il gusto buono di ritrovare sé stessi dedicando il proprio tempo agli altri. Così facendo la Caritas stessa rimarrà giovane e creativa, manterrà uno sguardo semplice e diretto, che si rivolge senza paura verso l’Alto e verso l’altro, come fanno i bambini. Non dimenticare il modello dei bambini: verso l’Alto e verso l’altro.
Cari amici, ricordatevi, per favore, di queste tre vie e percorretele con gioia: partire dagli ultimi, custodire lo stile del Vangelo, sviluppare la creatività. Vi saluto con una frase dell’Apostolo Paolo, che festeggeremo tra pochi giorni: «L’amore del Cristo ci possiede» (2 Cor 5,14). L’amore del Cristo ci possiede. Vi auguro di lasciarvi possedere da questa carità: sentitevi ogni giorno scelti per amore, sperimentate la carezza misericordiosa del Signore che si posa su di voi e portatela agli altri. Io vi accompagno con la preghiera e vi benedico; e vi chiedo per favore di pregare per me. Grazie!
* Fonte: Vatican.va, 26.06.2021
Pinocchio ridotto a lavoratore e consumatore?
Una rilettura del personaggio di Collodi da parte del brasiliano Rubem Alves: un ragazzino si trasforma in burattino. Un duro attacco alle odierne strutture educative, che tendono a fabbricare bambini su misura
di Roberto Carnero (Avvenire, 16.06.2021).
Molti sono convinti di conoscere"Pinocchio" perché hanno visto il cartone animato di Walt Disney o se va bene, da bambini hanno letto una versione scorciata del romanzo in edizione illustrata. Eppure Le avventure di Pinocchio e un grande classico della letteratura italiana, che andrebbe letto ascuola, come si fa con I promessi sposi e la Divina Commedia. Perché a riprova del suo valore - il romanzo di Collodi è una delle opere italiane più tradotte nel mondo ed è un testo dai significati complessi e stratificati. Collodi, infatti, è stato capace, grazie alla sua vena fantastica, di evocare atmosfere diverse, sperimentando soluzioni narrative assai ricche, con molti episodi che ben figurerebbero in un romanzo picaresco, altri in uno d’avventura, altri ancora in una narrazione "nera", e non è cosa da poco per un libro scritto per i ragazzi. Tra le disavventure del burattino, le sue cadute e risalite, Collodi non rinuncia mai alla dimensione irrazionale e magica del racconto e alla perfetta fusione di fiabesco e quotidiano: quello di Pinocchio è una sorta di viaggio dantesco tra umano e soprannaturale, in cui la fantasia e l’immaginazione si compenetrano alla perfezione con la realtà di un’umanità concreta, perfino dolorosa. Non stupisce perciò che fin dal suo primo apparire sul "Giornale per i bambini" (a puntate, dal 1881 al 1883) questo romanzo sia stato oggetto di numerose interpretazioni e anche di "riscritture": il destino, quest’ultimo, tipico dei grandi classici.
L’ultima in ordine di tempo è un Pinocchio alla rovescia (a cura di Paolo Vittoria, Marletti 1820, pp. 56, curo 7,00) di Rubem Alves (1933-2014), uno dei maggiori scrittori brasiliani del Novecento. Filosofo, storico, poeta, pedagogista, psicanalista e autore di racconti per bambini, con il suo saggio Teologia della speranza umana (in Italia pubblicatonel 1971 da Queríniana) era stato uno degli ispiratori della teologia della liberazione.
Nel 2010,invece, ha riscritto il capolavoro di Collodi "al contrario". Il suo Pinocchio non è più un burattino che diventa bambino, bensì un bambino, di nome Felipe, che si trasforma in burattino. In che modo? Adeguandosi ai meccanismi e agli ingranaggi sociali che, sin dalla scuola, richiedono al singolo di uniformarsi e omologarsi.
Attraverso questa vicenda metaforica e simbolica, Alves lancia un duro atto d’accusa nei confronti delle odierne strutture educative, tutte tese alla standardizzazione dei percorsi formativi, alla certificazione di conoscenze, competenze e abilità, e, se serve, persino alla medicalizzazione, di fronte al disagio di quei ragazzi che, per le loro caratteristiche personali, non riescono a integrarsi in itinerari prestabiliti e uguali e per tutti. Ecco la risposta della maestra al piccolo protagonista: «La scuola non serve a imparare quello che vuoi, ma a imparare quello che devi imparare. Quello che devi imparare è ciò che hanno detto gli uomini intelligenti del Governo. Tutto nel giusto ordine. Una cosa alla volta. Tutti i bambini allo stesso tempo e con la stessa velocità...». E l’idolatria dei programmi,ammanniti ogni anno uguali a sé stessi,senza che siano mai suscettibili di una vera disamina critica.
Così Alves definisce il "disturbo dell’attenzione": «Disturbo dell’attenzione è quando l’attenzione sta nel luogo dove il cuore desidera e non nel luogo dove il maestro comanda». Ma una scuola simile sembra esistere solo «per trasformare i bambini che giocano in adulti che lavorano». Questo di Alves è un breve libretto che dovrebbe essere letto dai docenti, dagli educatori, dagli psicologi, dai genitori. Innanzitutto per una riflessione su che cosa dovrebbe essere la scuola: una macchina burocratica da far funzionare alla perfezione oppure un luogo, unico e straordinario, in cui scoprire i talenti e liberare le energie? E insecondo luogo per comprendere che in ogni vicenda educativa al centro deve essere posto sempre il ragazzo: solo così possiamo evitare di trasformarlo in un burattino.
TRADUZIONE E DISTRUTTIVITA’ SEMANTICA. UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga ... *
Letteratura.
Quando tradurre diventa creatività semantica
In un saggio Arduini interviene su una polemica antica relativa alla trasposizione dei libri in altra lingua. Dalle Scritture al caso Amanda Gorman
di Alberto Fraccacreta (Avvenire, martedì 13 aprile 2021)
La traduzione è un problema? Lo sono i traduttori. È quello che sta succedendo in Europa particolarmente, in Paesi Bassi e Spagna - per la versione del nuovo libro (in uscita a fine marzo) di Amanda Gorman, la ventitrenne poetessa afroamericana resa celebre dalla lettura di The Hill We Climb durante la cerimonia di insediamento del presidente Biden. La polemica si può sintetizzare in questi termini: i bianchi non possono comprendere a fondo (e quindi tradurre) testi afroamericani specificamente dedicati a questioni razziali. Al di là di accese diatribe, certo è che il processo di traduzione non coincide soltanto con un trasferimento di figure e immagini in una lingua differente, ma ha la capacità di entrare nel cuore delle idee e modificarle.
È l’ipotesi affascinante che emerge dal saggio di Stefano Arduini, Con gli occhi dell’altro. Tradurre ( Jaca Book, pagine 216, euro 18), ruotante attorno a dieci nuclei tematici (tra cui ’verità’, ’bellezza’, ’intraducibile’) intessuti di citazioni e rimandi dall’Antico e Nuovo Testamento, con uno sguardo ai Padri della Chiesa e alle versioni dei primi secoli del cristianesimo. «Se la traduzione riscrive le nostre configurazioni di conoscenze - commenta Arduini, ordinario di Linguistica all’università Lcu di Roma -, non può essere intesa come qualcosa che ripete il già detto in modo diverso, ma come un’operazione cognitiva che crea nuovi concetti ». Il tradurre diviene così un’«esperienza intellettuale » a livello estremamente creativo. Esempio lampante è il concetto di altro, transitato attraverso un estenuante tourbillon di variazioni semantiche: i termini greci hèteros e allos, i latini alter e alius, ma anche le nozioni di ospitalità nell’indoeuropeo segnalate da Benveniste e poi riformulate alla luce della filosofia di Ricoeur (la reciprocità e la sollecitudine), Lévinas (l’invocazione), Florenskij (la sophia e la costruzione del soggetto fuori da sé) e Meschonnic (la signifiance).
Tradurre vuol dire mettere in gioco costantemente l’identità e l’alterità, instaurare un’amicizia che pervade l’io nel rapporto col tu. Evitando di annettere a sé una cultura diversa, Arduini scrive: «Dobbiamo stare in silenziosa attesa di fronte all’alterità e in qualche modo rispettarla, accettare quello spazio vuoto». Solo così il traduttore, «figura emblematica della nostra contemporaneità multiculturale», può assolvere al compito di cogliere le diversità e accoglierle. Qui ci soccorre di nuovo Ricoeur col mirag- gio dell’«ospitalità linguistica »: «abitare la lingua dell’altro», guardare le cose con i suoi occhi, nel solco di quell’incontro a cui la traduzione ci educa.
L’indagine si sposta sul Prologo del Vangelo di Giovanni e in particolare su logos, divenuto verbum nella Vulgata. La sostanziale polisemia del sostantivo greco rende ardua un’adeguata trasposizione, ma ciò che più importa è che, sul piano linguistico e teologico, le speculazioni sorte attorno all’incipit giovanneo hanno modificato di fatto il corso della ricezione storica, configurandosi come «nuovi concetti per nuovi mondi».
Lo stesso accade in Esodo 3,14 con la notissima espressione «Io sono colui che sono» (dall’ebraico ehyeh asher ehyeh). Siamo di fronte a un passo nei limiti del traducibile perché la posizione aspettuale del predicato nella lingua d’origine tecnicamente si tratta di un imperfettivo - pone alcune insanabili ambiguità. Ecco le possibili traduzioni: «Io ero quello che ero, Io sarò quello che sarò, Io ero quello che sarò, Io sarò quello che ero». (E tuttavia non ne esce scalfita l’immutabilità di Dio.) Aquila, Filone, Origene e poi Agostino, Girolamo e Tommaso: l’innesto del pensiero greco e latino nel sostrato ebraico fa scintille e la catena di rivolgimenti aggiunge e perde qualcosa, generando però un’identità completamente inedita. Gli slittamenti semantici del termine parresia (dire tutto) sembrano invece riscrivere un’intera ’enciclopedia culturale’: dibattito e libertà di parola nel greco precristiano, apertura del cuore e trasparenza dell’anima in Dio sul versante veterotestamentario, rivelazione di Gesù e presenza dello Spirito in ambito neotestamentario. Ma nei primi secoli dopo Cristo - come suggerisce Michel Foucault - parresia diviene coraggio della verità, coraggio dei martiri nel testimoniare la fede.
Universi concettuali affini o distanti sorgono anche nelle traduzioni dei presocratici e nelle variazioni dell’amore dall’ebraico ’ahavahfino alla diade inconciliabile di eros e agape, quest’ultimo forse non voce indoeuropea ma più probabilmente prestito di area semitica. Sulla scia di Cicerone, Girolamo traduce agape in caritas e attua così un’importante svolta nella conformazione del pensiero occidentale: nasce «qualcosa di nuovo che è stato creato dal movimento del linguaggio». Cognitivista di lunga data, esponente di spicco della traduzione biblica e dei Translation Studies, Arduini ci conduce nelle arcane radici delle lingue antiche (si pensi ai termini che in ebraico indicano bellezza, Jafeh, bello esteriore, e Tôb, lo spazio del bene della Genesi) lasciandoci, con la ’moltiplicazione degli sguardi’ data dal mito di Babele, alle soglie dell’Intraducibile. Il traducibile all’infinito.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
Federico La Sala
#FILOLOGIA #Storiografia #critica.
Un #lapsus e un #refuso di #lungadurata: "Le Fonti. Le lettere di #PaolodiTarso [...] 1 Cor 11, 23-26 (sull’#eucarestia: Mc 14, 22-25/Mt 26, 26-29/Lc 22, 14-20) [...]" (Fernando Bermejo-Rubio, L’invenzione di Gesù di Nazareth, Torino 2021, p. 21)! #Eucaristia, eu-#carestia, e #latinorum. Uscire dal #letargo. O no?!
#CHARIDAD, #EUCARISTIA (EU-#CHARIS-TIA), #PoncioPilato (#PonzioPilato).La #invencion de #JesusdeNazaret. #Historia #ficción #historiografia (#FernandoBermejoRubio): https://www.amazon.it/invenci%C3%B3n-jes%C3%BAs-Nazaret-Fernando-Bermejo/dp/8432319201?asin=B07KSXYNPR&revisionId=e46a8f88&format=1&depth=1
Federico La Sala
Chiave concettuale *
É l’amore in senso cristiano (agape-caritas) che costituisce l’essenza stessa del Dio rivelato da Gesù Cristo (cf. 1 Gv 4, 8). Essa consiste nel donare la propria vita (Gv 15,13). La forma perfetta della carità è il dono di sé di Cristo sulla Croce (Gal 2, 20). La Croce è la "cifra" e il simbolo dell’amore: in essa Gesù compie il duplice comandamento dell’amore di Dio e del → prossimo, ripreso dalla Legge antica (Torah) (cf. Mc 12, 28ss; Dt 6, 5; Lv 19,17). Sulla Croce infatti Gesù ama totalmente Dio Padre, affidandosi nelle sue mani (Lc 23,44) e il prossimo, → perdonando i suoi nemici (Lc 23, 36). L’amore vero o carità consiste nell’amare con → gratuità, anche chi non lo merita, il peccatore, il malvagio, il traditore, il nemico (cf. Lc 6, 32; Rm 5,11). Questo amore divino, unico e trascendente non è "utopico" per gli esseri umani. Esso diventa realtà quando è riversato nel cuore degli uomini mediante la potenza dello Spirito Santo, il Dono del Signore risorto (cf. At 2; Rm 5, 5), che rende capaci di conformarsi all’amore di Cristo. Tale è l’esperienza dei santi e dei martiri (cf. At 7, 59-60). La carità è pertanto una virtù teologale, cioè soprannaturale e pneumatologica. San Paolo la considera il più grande dei doni dello Spirito Santo e la descrive così: "La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine" (cf. 1 Cor 13, 4-8). Essa può essere ritenuta opera della → fede (cf. Gal 5, 6). Avere l’amore è segno di una vita nuova che vince la morte: "Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte" (1 Gv 3, 14).
Tutta la tradizione cristiana l’ha venerata come "regina delle virtù". Essa consiste per S. Agostino nell’amore delle cose che devono essere amate (dilectio rerum amandarum) e dona di anteporre le cose comuni a quelle proprie (caritas communia propriis non propria communibus anteponit). La carità è "ordinata": essa fa amare Dio per se stesso; ispira un retto amore di sé (ricordando la propria dignità filiale); stimola ad amare il prossimo in Dio e il nemico a causa di Dio (caritas est amicum diligere in Deo et inimicum diligere propter Deum, S. Gregorio Magno). La carità ama secondo la misura smisurata di Dio (modo sine modo, S. Bernardo). Per san Tommaso soltanto la carità merita veramente il nome di grazia perché è l’unica che renda "graditi a Dio" (nomen gratiae meretur ex hoc quod gratum Deo facit). Essa ha la facoltà di trasformare l’amante nell’amato perché suscita una sorta di "estasi", un uscire da sé per aderire all’amato (caritatis proprium est transformare amantem in amatum, quia ipsa est quae extasim facit).
La carità è il vincolo di comunione della → Chiesa, e trova nell’Eucaristia il suo sacramento. Mediante la carità lo Spirito riunisce i fedeli in un solo corpo: lo Spirito unifica il corpo con la sua presenza, con la sua forza e con la connessione interna delle membra; produce la carità tra i fedeli e li sprona a viverla. Cosicché se un membro soffre, tutti soffrono insieme con lui; e se un membro viene onorato, ne gioiscono insieme anche gli altri (cf. 1 Cor 12, 26; LG 7, 3). La carità non può essere né confusa né tanto meno sostituita con la nozione non peculiarmente cristiana di → solidarietà. Questa consta dell’ordine umano e sociale della fraternità universale. La carità invece è la relazione di comunione propria della → fraternità cristiana. Essa ha una propulsione universale (fino ad abbracciare i nemici), ma è specialmente arricchita dalla reciprocità nella comunità ecclesiale: "questo è il messaggio che avete udito fin da principio: che ci amiamo gli uni gli altri" (1 Gv 3, 11-12); "Poiché dunque ne abbiamo l’occasione, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede", (Gal 6,10). Insieme alla → evangelizzazione e all’intercessione (Liturgia), la testimonianza della carità rappresenta la precipua forma cristiana di svolgere la missione che Cristo le ha affidato.
* Fonte: Chiave concettuale - Vatican.va
Cei. Alla scuola della Buona Notizia. “Il Nuovo Testamento greco-latino-italiano”
“Il Nuovo Testamento greco-latino-italiano” pubblicato dalla Cei, strumento al servizio della Parola
Nell’opera il testo neotestamentario greco è presentato con a fronte quelli latino e italiano nelle loro edizioni autorevoli più recenti
di Riccardo Maccioni *
Nel segno dello studio, della conoscenza, del dialogo. Soprattutto nel segno della Parola, che diventa preghiera, vita spirituale, servizio, faro della comunità. La pubblicazione de “Il Nuovo Testamento greco latino italiano” non riguarda infatti solo gli specialisti ma, nella ricerca di una sempre maggiore fedeltà alle fonti, si propone anche come sostegno a un cammino di fede maturo.
Per tutti. Dal parroco che prepara l’omelia domenicale, al credente forse un po’ più preparato della media e desideroso di approfondire la Buona Notizia. Il volume (1854 pagine su carta Bibbia avoriata, 80 euro) è pubblicato dalla “Fondazione di religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena” della Conferenza episcopale italiana. A curarlo il cardinale Giuseppe Betori arcivescovo di Firenze e Valdo Bertalot già segretario generale della Società Biblica in Italia.
Un’opera importante che riporta il testo del Nuovo Testamento greco con a fronte quelli latino e italiano nelle loro edizioni autorevoli più recenti: The Greek New Testament-5th Revised edition/GNT (Deutsche Bibelgesellschaft DBG, 2014, con relativo apparato critico-testuale), Nova Vulgata-Bibliorum Sacrorum Editio, Editio typica altera/NV (Libreria Editrice Vaticana 1986 con relative note), La Sacra Bibbia-Versione ufficiale della Conferenza episcopale italiana/Cei 2008 con relative note.
Il nostro lavoro - spiega Bertalot - si caratterizza per alcune significative novità. Sotto il profilo editoriale «rappresenta, fatta eccezione per quella della DBG, l’unica pubblicazione che riporta il testo greco insieme all’intero apparato di critica testuale del GNT frutto di un comitato editoriale internazionale e interconfessionale». Inoltre «è la prima volta che una Conferenza episcopale nazionale presenta ufficialmente il GNT e la propria versione ufficiale della Bibbia arricchita dal testo con valore normativo della Nova Vulgata». C’è poi da sottolineare l’aspetto più prettamente ecumenico del lavoro, nel solco di un percorso iniziato con la stagione conciliare. Una dimensione - prosegue Bertalot - che «investe pienamente la collaborazione fra le diverse confessioni cristiane per lo studio della Bibbia, per la sua traduzione e trasmissione nell’opera missionaria di annuncio della Parola di Dio». Ma c’è un altro aspetto da sottolineare, quantomeno da non sottovalutare, e riguarda il dato per così dire “temporale” della pubblicazione. Il Nuovo Testamento trilingue esce infatti in parallelo alla Lettera apostolica “Scripturae Sacrae affectus” scritta da papa Francesco per il XVI centenario della morte di san Girolamo cui si deve la celebre, fulminante espressione: «Ignoratio Scripturarum ignoratio Christi est». L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo.
Un “monito” ricordato dal cardinale Betori durante la presentazione, il 29 ottobre scorso, dell’opera al Papa, nella speranza «che possa essere uno strumento per far crescere la conoscenza di Cristo, perché, come da lei auspicato, ciascuno diventi capace di aprire il libro sacro e di trarne i frutti inestimabili di sapienza, di speranza e di vita».
IL PADRE NOSTRO (Matteo 6,8-13)
9 Voi dunque pregate cosi: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,
10 venga il tuo regno, sia fatta la tua volonta, come in cielo cosi in terra.
11 Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
12 e rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori,
13 e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.
9 Sic ergo vos orabitis: Pater noster, qui es in caelis, sanctificetur nomen tuum,
10 adveniat regnum tuum, fiat voluntas tua, sicut in caelo, et in terra.
11 Panem nostrum supersubstantialem da nobis hodie;
12 et dimitte nobis debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris;
13 et ne inducas nos in tentationem, sed libera nos a Malo.
PIÙ GRANDE E’ LA CARITÀ
(1 Corinzi 13, 1-6)
Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.
2 E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.
3 E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.
4 La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio,
5 non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto,
6 non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità.
7 Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
Si linguis hominum loquar et angelorum, caritatem autem non habeam, factus sum velut aes sonans aut cymbalum tinniens.
2 Et si habuero prophetiam et noverim mysteria omnia et omnem scientiam, et si habuero omnem fidem, ita ut montes transferam, caritatem autem non habuero, nihil sum.
3 Et si distribuero in cibos omnes facultates meas et si tradidero corpus meum, ut glorier, caritatem autem non habuero, nihil mihi prodest.
4 Caritas patiens est, benigna est caritas, non aemulatur, non agit superbe, non inflatur,
5 non est ambitiosa, non quaerit, quae sua sunt, non irritatur, non cogitat malum,
6 non gaudet super iniquitatem, congaudet autem veritati;
7 omnia suffert, omnia credit, omnia sperat, omnia sustinet.
DA SAPERE Lo scorso 29 ottobre la consegna al Papa
Il “Nuovo Testamento greco latino italiano”, è pubblicato dalla Fondazione di religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena della Conferenza episcopale italiana. Si tratta di un ampio volume (1854 pagine su carta avoriata) che presenta il testo greco con a fronte quello italiano e latino nelle recenti autorevoli edizioni: “The Greek New Testament-5th Revised edition” (Deutsche Bibelgesellschaft o DBG 2014), Nova Vulgata-Bibliorum Sacrorum Editio, Editio typica altera (Libreria editrice vaticana 1986), La Sacra Bibbia versione ufficiale della Cei (Fondazione di religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena 2008)). La pubblicazione si apre con una ricca presentazione di A. Kurschus, praeses della Chiesa evangelica della Westfalia e presidente della DBG, del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della cultura e del cardinale Giuseppe Betori arcivescovo di Firenze, quest’ultimo curatore dell’opera insieme a Valdo Bertalot, già segretario generale della Società Biblica in Italia che firma invece la prefazione.
A completare il libro anche introduzioni specifiche per ogni lingua del testo, sei diversi indici e quattro carte geografiche sul mondo biblico. Il Nuovo Testamento trilingue è stato consegnato il 29 ottobre scorso al Papa di cui richiama, nella presentazione, la Lettera apostolica “Scripturae Sacrae affectus” dedicata, nel XVI centenario della morte, a san Girolamo, definito dal Pontefice «infaticabile studioso, traduttore, esegeta, profondo conoscitore e appassionato divulgatore della Sacra Scrittura». Un amore alla Bibbia che Francesco sottolinea attraverso l’immagine spesso associata al santo di “Biblioteca di Cristo. Una biblioteca perenne - spiega Francesco - che continua a insegnarci che cosa significhi l’amore di Gesù, «indissociabile dall’incontro con la sua Parola». La distribuzione dell’opera è curata direttamente dalla Libreria Editrice Vaticana (Via della Posta, 00120 Città del Vaticano; email: commerciale.lev@spc.va; sito: https://www.libreriaeditricevaticana.va/it/).
* Avvenire, sabato 9 gennaio 2021 (ripresa parziale, senza immagini).
L’udienza.
Il Papa: diciamo "grazie" e il mondo sarà migliore
Da Francesco l’esortazione a non valutare il 2020 solo attraverso le sofferenze e i limiti causati dalla pandemia. La vicinanza ai terremotati della Croazia e la preghiera per le vittime
di Redazione Internet (Avvenire, mercoledì 30 dicembre 2020)
"Non tralasciamo di ringraziare: se siamo portatori di gratitudine, anche il mondo diventa migliore, magari anche solo di poco, ma è ciò che basta per trasmettergli un po’ di speranza". Lo ha detto papa Francesco nell’udienza generale, l’ultima del 2020, che ha dedicato alla "preghiera di ringraziamento".
"Il mondo ha bisogno di speranza - ha affermato il Pontefice, nella catechesi trasmessa in streaming dalla Biblioteca del Palazzo apostolico -, e con la gratitudine, con questo atteggiamento di dare grazia, noi trasmettiamo un po’ di speranza. Tutto è unito e legato, e ciascuno può fare la sua parte là dove si trova".
Ricordando il racconto evangelico dei dieci lebbrosi che incontrano Gesù, il Papa ha osservato che esso, "per così dire, divide il mondo in due: chi non ringrazia e chi ringrazia; chi prende tutto come gli fosse dovuto, e chi accoglie tutto come dono, come grazia". "Il Catechismo scrive: ’Ogni avvenimento e ogni necessità può diventare motivo di ringraziamento’ (n. 2638) - ha proseguito Francesco -. La preghiera di ringraziamento comincia sempre da qui: dal riconoscersi preceduti dalla grazia".
"Siamo stati pensati prima che imparassimo a pensare; siamo stati amati prima che imparassimo ad amare; siamo stati desiderati prima che nel nostro cuore spuntasse un desiderio. Se guardiamo la vita così, allora il ’grazie’ diventa il motivo conduttore delle nostre giornate. Grazie, e tante volte dimentichiamo, abbiamo paura di dire grazie".
Eucaristia vuol dire ringraziamento
Il Pontefice ha anche ricordato che "per noi cristiani il rendimento di grazie ha dato il nome al Sacramento più essenziale che ci sia: l’Eucaristia. La parola greca, infatti, significa proprio questo: ringraziamento". "I cristiani, come tutti i credenti, benedicono Dio per il dono della vita. Vivere è anzitutto aver ricevuto - ha sottolineato -. Ricevuto la vita. Tutti nasciamo perché qualcuno ha desiderato per noi la vita. E questo è solo il primo di una lunga serie di debiti che contraiamo vivendo. Debiti di riconoscenza".
"Nella nostra esistenza, più di una persona ci ha guardato con occhi puri, gratuitamente - ha aggiunto -. Spesso si tratta di educatori, catechisti, persone che hanno svolto il loro ruolo oltre la misura richiesta dal dovere. E hanno fatto sorgere in noi la gratitudine. Anche l’amicizia è un dono di cui essere sempre grati".
Secondo Francesco, con il "grazie", "che dobbiamo dire continuamente", manifestiamo "la certezza di essere amati"."Questo è il nocciolo - ha affermato -: quando tu ringrazi esprimi la certezza di essere amato, e questo è un passo grande, la certezza di essere amato. È la scoperta dell’amore come forza che regge il mondo. Dante direbbe: l’Amore ’che move il sole e l’altre stelle’". "Cerchiamo di stare sempre nella gioia dell’incontro con Gesù - ha concluso -. Coltiviamo l’allegrezza. Invece il demonio, dopo averci illusi, con qualsiasi tentazione, ci lascia sempre tristi e soli".
Un anno difficile, ma non valutiamo solo le sofferenze
Al momento dei saluti ai fedeli di lingua tedesca, il Papa ha osservato: "Alla fine di questo anno difficile, siamo forse tentati di vedere anzitutto ciò che non era possibile fare e ciò che ci mancava. Ma non dimentichiamo le tante, innumerevoli ragioni per cui ringraziare Dio e i nostri vicini. Vi auguro di cuore la gioia che nasce dalla gratitudine!".
E salutando i fedeli polacchi ha aggiunto: "Avvicinandoci alla fine di quest’anno, non lo valutiamo solo attraverso le sofferenze, le difficoltà e i limiti causati dalla pandemia". "Scorgiamo il bene ricevuto in ogni giorno, come pure la vicinanza e la benevolenza degli uomini, l’amore dei nostri cari e la bontà di tutti coloro che ci circondano. Ringraziamo il Signore per ogni grazia ricevuta e guardiamo con fiducia e con speranza al futuro, affidandoci all’intercessione di San Giuseppe, patrono dell’anno nuovo. Sia per ciascuno di voi e per le vostre famiglie un anno felice e pieno di grazie Divine".
Vicinanza ai terremotati della Croazia
Al termine dell’udienza Francesco ha ricordato: "Ieri un terremoto ha provocato vittime e danni ingenti in Croazia. Esprimo la mia vicinanza ai feriti e a chi è stato colpito dal sisma, e prego in particolare per quanti hanno perso la vita e per i loro familiari. Auspico che le autorità del Paese, aiutate dalla comunità internazionale, possano presto alleviare le sofferenze alla cara popolazione croata".
La grazia della crisi della Chiesa
di Marcello Neri (Il Mulino, 23 dicembre 2020)
Il discorso di papa Francesco alla Curia romana per la presentazione degli auguri di Natale ha avuto quest’anno un clamore relativamente più basso sulla stampa e sui mezzi di informazione rispetto a quelli di anni precedenti. Niente di appetibile per confezionare notizie ad effetto - come nel 2014 quando Francesco elencò una per una le malattie curiali; o nel 2018 dove affrontò di petto la questione dell’abuso del potere; oppure l’anno scorso sulle linee portanti di una riforma della Curia stessa. Lo scarso potenziale polemico del discorso non ne sminuisce però l’importanza per la vita della Chiesa cattolica e la sua solidale presenza in un mondo che nel giro di pochi mesi sembra aver perso la sua tracotante sicurezza, per ritrovarsi vulnerabile e ferito.
Si procede a tentoni e in ordine sparso davanti alla crisi del nostro tempo, forse proprio perché ci ostiniamo a non voler cogliere nella crisi “una grande occasione per convertirci e recuperare autenticità”. Pensare di uscire da una crisi tornando alle condizioni quo ante vuol dire abdicare a ogni possibilità di futuro, indice questo di una condizione umana che non sa più declinare un lessico, anche solo minimale, della speranza.
Invece, la crisi è “una tappa obbligata della storia personale e della storia sociale (...) che causa sempre un senso di trepidazione, angoscia, squilibrio e incertezza nelle scelte da fare (...). La crisi è quel setacciamento che pulisce il chicco di grano dopo la mietitura”. Setacciamento che mette al vaglio la stessa Chiesa, che non è esente da questa doverosa fedeltà alla storia in cui vive.
Proprio per la Chiesa, davanti alla Curia, Francesco rilancia il senso evangelico della crisi. E lo fa senza tacere una disfunzionalità oramai conclamata dell’apparato, giunta al punto tale da mortificare impietosamente anche i tanti slanci di sincera generosità e di buon servizio professionale che pur sempre vi sono al suo interno. Perché oramai l’apparato ecclesiastico sembra essersi asservito a quella che Francesco chiama la logica del conflitto: “vorrei esortarvi a non confondere la crisi con il conflitto: sono due cose diverse. La crisi generalmente ha un esito positivo, mentre il conflitto crea sempre un contrasto, una competizione, un antagonismo apparentemente senza soluzione fra soggetti divisi in amici da amare e nemici da combattere, con la conseguente vittoria di una delle due parti (...). La Chiesa, letta con le categorie del conflitto - destra e sinistra, progressisti e tradizionalisti - frammenta, polarizza, perverte, tradisce la sua vera natura: essa è un corpo perennemente in crisi proprio perché è vivo (...)”.
L’apparato che gioca col conflitto, schierandosi sul fronte delle tante scomposizioni del nostro tempo, impedisce alla Chiesa di fare il suo lavoro - che è quello di immettere un orizzonte di speranza nel tempo della crisi e dei suoi drammi. Tra tutte le istituzioni, proprio la Chiesa dovrebbe avere una famigliarità connaturale con la crisi, perché da sempre essa è “messa in crisi dal Vangelo” che la origina. La logica del conflitto impedisce oggi alla Chiesa di attingere alla sapienza di questo attraversamento millenario della crisi, mettendo invece in campo tutto un armamentario difensivo mediante il quale viene stoltamente ostacolata “l’opera della Grazia”.
Dopo otto anni di pontificato, giunto oramai al suo 84º compleanno, Francesco continua imperterrito a cercare di allineare la Chiesa cattolica sull’asse portante del Vangelo, scontentando a destra e manca - che è poi il prezzo che la liberalità evangelica paga da sempre nel cristianesimo.
Smarcandosi così da quella conflittualità che scuote il corpo della comunità ecclesiale fin dai suoi primi giorni: ogni volta che si dice “io sono di Paolo; io invece sono di Apollo; e io di Cefa; e io di Cristo” (1Cor 1,12) si è sicuramente fuori dal Vangelo di Gesù, e la Chiesa si trasforma in un apparato insopportabilmente scandaloso al cospetto di Dio e degli uomini.
Tradizioni.
Nella ninnananna si condensa la prima teologia
La ninnananna è il convincimento alla fiducia in una presenza affidabile, che assicura al risveglio il ritrovamento di tutti gli affetti: coagula la prima filosofia e la prima teologia della storia
di Giovanni Cesare Pagazzi (Avvenire, martedì 28 luglio 2020)
Si può guardare all’universale usanza della ninnananna con gli occhi altezzosi di chi ha cose ben più serie da studiare, o solo con la simpatia suscitata dalle cose infantili. In realtà essa contribuisce a comporre la prima visione del mondo, offerta a chi da poco è venuto alla luce. È quanto emerge anche dalle ricerche dell’antropologa Gianfranca Ranisio, dell’etnomusicologo Sandro Biagiola e del musicista e teologo Pierangelo Sequeri.
Da tempo immemorabile è avvertita l’esigenza di accompagnare il bambino nel sonno, garantendogli vicinanza corporea e affettiva, inventando un genere letterario e musicale specifico: la ninnananna, appunto. Ritmicità, musicalità, vocalità e corporeità sono i punti fermi di questi componimenti che esaltano il rapporto tra il bambino e l’adulto nel momento più critico del giorno: il sopraggiungere della notte.
In genere si tratta di nenie cantilenanti dal movimento moderato e dal ritmo pari che ben si accompagna al movimento binario del cullare. Il sistema musicale non è temperato, si avvale cioè della sonorità originaria, ben più complessa e ricca rispetto alla classificazione artificiale dei suoni data dal sistema temperato. -L’aspetto fortemente ripetitivo di testo, musica e gesto accende nel bambino il senso di affidabilità e di attendibilità. Infatti qualsiasi evento ripetuto inclina ad attenderlo nuovamente, abituando al suo arrivo, tanto da coglierlo come “attendibile”: lo si può aspettare, poiché arriverà; è affidabile.
Per l’adulto è scontato che domani sorga il sole, camminando passo dopo passo il terreno continui a sostenere il corpo e la persona amata si faccia trovare all’appuntamento fissato. Per il bambino non è così; la fiducia deve essergli accesa da esperienze che affettivamente gli dimostrino l’esistenza di realtà attendibili: come la mamma che arriva tutte le volte che piange, i giocattoli rimasti al loro posto e sempre pronti a far compagnia, il pavimento che esibisce metro dopo metro la sua fedele solidità mentre il piccolo, gattonando, lo tasta. -Senza l’accensione del senso di affidabilità fin dagli inizi della vita, non ci si aspetterebbe niente da nessuno, per l’ottima ragione che niente e nessuno risulterebbe attendibile (e, naturalmente, questo vale anche per Dio). È indicativo che tutto nella ninnananna abbia la forma della ripetizione e che a questo genere di composizione si ricorra all’inizio della notte, per favorire il sonno del piccolo. Il bambino spesso non vuole addormentarsi, rifiuta di andare a letto non per capriccio infantile, ma per paura di essere abbandonato dalla mamma, dal papà, dai giocattoli, dalla casa che l’oscurità della notte si porta via.
La paura del bimbo è spesso evocata dalle ninnananne riferendo di pericoli, minacce, animali mostruosi; in Europa il lupo è il predatore più spaventoso.
Al richiamo del rischio notturno fa comunque da contrappunto l’assicurazione della presenza vigile della mamma che in alcuni casi chiede aiuto a un angelo, un santo, alla Madonna, o Gesù stesso, invocato con riferimenti alla sua infanzia. La garanzia della cura e il coinvolgimento di Dio evidenziano quanto il momento dell’abbandono al sonno da parte del piccolo sia effettivamente drammatico e quanto gli adulti intuiscano e rispettino il dolore del bimbo come ne fossero esperti.
Non per nulla, infatti, il linguaggio musicale, gestuale e testuale delle ninnenanne è molto simile alle oscillazioni ritmiche e cantilenate dei lamenti funebri. Sicché la ninnananna è anche il rimedio agli oscuri presentimenti degli adulti che intuiscono quanto il dormire somigli alla morte.
La ninnananna è il convincimento alla fiducia a motivo di una presenza affidabile che assicura, insieme al risveglio, la permanenza e il ritrovamento di tutti gli affetti. Avanzando la pretesa di dire una parola decisiva sul sonno e sulla notte, la ninnananna coagula la prima filosofia e la prima teologia della storia, capaci di integrare il buio e la morte. Una filosofia e una teologia gestuale, vocale, musicale.
Il bimbo si abbandona al sonno quando è sicuro che non sarà abbandonato; solo a patto che gli risulti affidabile la promessa del ritorno del mattino e, con esso, della mamma, del papà, dei giocattoli e della casa. Esigendo la vicinanza dei genitori al lettino (come il morente desidera avere al capezzale tutti i suoi affetti), il bimbo si lascia andare, sicuro che essi staranno con lui, anche se non visti, per tutta la durata della notte. Il suo sonno risulta dalla veglia di qualcun altro che gli annuncia e prepara il domani.
Vaticano.
Il Papa a Moneyval: impedire ai mercanti di speculare nel tempio dell’umanità
L’incontro con gli esperti del Comitato del Consiglio d’Europa, giunti in Vaticano per la valutazione periodica delle misure contro il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo
di Redazione Internet (Avvenire, giovedì 8 ottobre 2020)
Il Papa ha incontrato il Comitato Moneyval e li ha ringraziati per il loro servizio "a tutela di una finanza pulita, nell’ambito della quale ai ’mercanti’ è impedito di speculare in quel sacro tempio che è l’umanità, secondo il disegno d’amore del Creatore".
"Il lavoro che voi svolgete in relazione a questo duplice obiettivo mi sta particolarmente a cuore", ha detto il Papa sottolineando la necessità di "una finanza che non opprima i più deboli e i bisognosi". "Ritengo necessario ripensare al nostro rapporto col denaro", ha ribadito il Papa.
“Gesù ha scacciato dal tempio i mercanti e ha insegnato che non si può servire Dio e la ricchezza”, ha ricordato Francesco, secondo il quale “quando l’economia perde il suo volto umano, non ci si serve del denaro, ma si serve il denaro. È questa una forma di idolatria contro cui siamo chiamati a reagire, riproponendo l’ordine razionale delle cose che riconduce al bene comune,il denaro deve servire e non governare!”. E proprio per attuare tali principi, ha sottolineato il Papa, “l’Ordinamento vaticano ha intrapreso, anche recentemente, alcune misure sulla trasparenza nella gestione del denaro e per contrastare il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo”. Il 1° giugno scorso, infatti, è stato promulgato un Motu Proprio per una più efficace gestione delle risorse e per favorire la trasparenza, il controllo e la concorrenza nelle procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici, mentre i 19 agosto scorso, una ordinanza del presidente del Governatorato ha sottoposto le organizzazioni di volontariato e le persone giuridiche dello Stato della Città del Vaticano all’obbligo di segnalazione di attività sospette all’Autorità di Informazione Finanziaria.
Le politiche di antiriciclaggio e di contrasto al terrorismo costituiscono "uno strumento per monitorare i flussi finanziari, consentendo di intervenire laddove emergano tali attività irregolari o, addirittura, criminali. Gesù ha scacciato dal tempio i mercanti - ha detto Papa Francesco nell’udienza a Moneyval - e ha insegnato che non si può servire Dio e la ricchezza. Quando, infatti, l’economia perde il suo volto umano, non ci si serve del denaro, ma si serve il denaro. È questa una forma di idolatria contro cui siamo chiamati a reagire, riproponendo l’ordine razionale delle cose che riconduce al bene comune, secondo il quale il denaro deve servire e non governare".
Operare per una “finanza pulita”, nell’ambito della quale “ai mercanti è impedito di speculare in quel sacro tempio che è l’umanità, secondo il disegno d’amore del Creatore”, l’appello finale.
DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?!
Abitare le parole
Impronta.
SEGNAVIA DELLA NOSTRA STORIA
di Nunzio Galantino *
Per coprire il campo semantico della parola “impronta”, oltre al contributo che viene dalla derivazione etimologica, è opportuno porre attenzione al significato del termine χαρακτήρ che rende, in greco, la parola impronta e identificare gli attributi che, di volta in volta, l’accompagnano.
Sul piano etimologico, la parola impronta deriva dal latino imprĭmere (premere sopra, calcare). Χαρακτήρ - dal verbo χαράσσω (incidere, scolpire) - nella cultura greca è un nomen agentis: è cioè più di una traccia lasciata. È invece una persona che ritrae qualcuno o qualcosa. Come nella Bibbia (Ebr 1,3), dove Gesù è χαρακτὴρ τῆς ὑποστάσεως αὐτοῦ, è impronta - nel senso di piena ed esatta rappresentazione - della sostanza di Dio.
A proposito, poi, dell’impronta e degli attributi che l’accompagnano, si parla di impronta fisica lasciata da una parte del corpo o da uno strumento fisico, di impronta digitale cellulare e di impronta genetica. Sempre più spesso sentiamo, inoltre, rivolto a tutti l’invito a ridurre l’impronta ecologica ; una sorta di indicatore che misura la quantità e la qualità del consumo delle risorse naturali prodotte dal pianeta Terra.
In senso generico, l’impronta è un segno tracciato con una pressione su una superficie. In senso figurato, la parola impronta indica una caratteristica che permette di identificare una persona o una sua produzione artistica, letteraria ecc. È vero che, almeno dal punto di vista fisico, non si può non lasciare un’impronta. Ma è anche vero che l’impronta non è solo il frutto inconsapevole di un gesto, di una presenza o di un passaggio.
Il più delle volte, proprio perché espressione di una identità, l’impronta è frutto di una scelta consapevole, attraverso la quale io, di fatto, racconto la mia vita, le priorità che mi guidano e la qualità che scelgo di far ricadere in modo incisivo sulle mie relazioni.
E, proprio perché contengono pezzi di noi e della nostra interiorità, le impronte possono trasmettere un’immagine positiva di noi o comunicarne una negativa. Sono lì, come segnavia della nostra storia personale.
Bisogna avere, di tanto in tanto, il coraggio di prenderle in mano e di fermarci per verificare cosa le impronte di cui disseminiamo la nostra presenza e le nostre relazioni stanno raccontando di noi.
Uno sguardo attento e onesto sulle impronte ci permetterebbe di verificare se, quelle lasciate nel cuore e nella storia delle persone incontrate sul nostro cammino, sono impronte che generano e tramettono vita o piuttosto dolorose cicatrici.
La storia personale e quella relazionale in genere vive di impronte lasciate e di impronte subìte, attraverso uno sguardo, una parola, una carezza o un’emozione provocata. Ma essa è esposta anche a impronte che assomigliano molto di più a ferite. Quelle provocate da rifiuti, sguardi indifferenti o evidenti strumentalizzazioni. Se le prime hanno la capacità di ricomporre pezzi di vita andati in frantumi, le altre, più che impronte, sono cicatrici che rendono sempre più insopportabile la vita.
*Rubrica de Il Sole 24ore, 28/09/2020.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MONSIGNOR RAVASI, MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?!
Federico La Sala
FILOLOGIA E MESSAGGIO EV-ANGELICO. LA BUONA (EU-) CARESTIA ...
EU-CHARISTIA (EUCARISTIA) ancora UGUALE A EU-CARESTIA?! Boh e bah?!
Per riflettere meglio sul tema, forse, può essere utile questa frase del prete di Genova, Paolo Farinella: "La parola «Eucaristia» deriva dal verbo greco «eu-charistèō/rendo grazie» che a sua volta proviene dall’avverbio augurale «eu-...-bene» e «chàirō-rallegrarsi/essere contento»".
Con l’/h/, si respira e si vive bene; senza l’/h/, si respira male e addirittura, senza cibo (nei tempi di una "buona" e "lunga" carestia!), il rischio di spirare e di emettere lo spirito è altissimo! O no?!
Federico La Sala
Anticipazione.
Papa Francesco e Benedetto XVI. Novità, continuità, una sola Chiesa
[Esce oggi per Rizzoli un volume che mette a confronto il Pontefice e il suo predecessore su temi centrali della fede e della vita dell’uomo. Parolin: tra loro continuità teologica e vicinanza intima
di Pietro Parolin (Avvenire, martedì 1 settembre 2020)
Nel solenne discorso di apertura del Concilio Vaticano II, Papa Giovanni XXIII dichiarava che il Concilio «vuole trasmettere integra, non sminuita, non distorta, la dottrina cattolica», proposta «come offerta di un fecondissimo tesoro a tutti quelli che sono dotati di buona volontà. Però noi non dobbiamo soltanto custodire questo prezioso tesoro, come se ci preoccupassimo della sola antichità [...]; occorre che questa dottrina certa e immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione».
È l’interpretazione autentica del Concilio da parte del Pontefice che l’ha indetto, condivisa dal Papa che l’ha concluso, Paolo VI, ed espressa da Papa Benedetto XVI nella formula «novità nella continuità». E la continuità del magistero papale è il solco percorso e portato avanti da Papa Francesco, che nei momenti più solenni del suo pontificato si è sempre richiamato all’esempio dei suoi predecessori. Nel discorso a conclusione del Sinodo per la Famiglia 2015, a poche settimane dall’inaugurazione del Giubileo straordinario della misericordia, Papa Francesco ricordava che «i veri difensori della dottrina non sono quelli che difendono la lettera ma lo spirito; non le idee ma l’uomo; non le formule ma la gratuità dell’amore di Dio e del suo perdono», evocando le «parole stupende» di Paolo VI: «Possiamo quindi pensare che ogni nostro peccato o fuga da Dio accende in Lui una fiamma di più intenso amore, un desiderio di riaverci e reinserirci nel suo piano di salvezza [...]. Dio, in Cristo, si rivela infinitamente buono [...]. Dio è buono. E non soltanto in se stesso; Dio è - diciamolo piangendo - buono per noi. Egli ci ama, cerca, pensa, conosce, ispira e aspetta: Egli sarà - se così può dirsi - felice il giorno in cui noi ci volgiamo indietro e diciamo: “Signore, nella tua bontà, perdonami”. Ecco, dunque, il nostro pentimento diventare la gioia di Dio».
Subito dopo Papa Francesco citava Giovanni Paolo II («la Chiesa vive una vita autentica quando professa e proclama la misericordia [...] e quando accosta gli uomini alle fonti della misericordia del Salvatore, di cui essa è depositaria e dispensatrice») e Benedetto XVI («La misericordia è in realtà il nucleo centrale del messaggio evangelico, è il nome stesso di Dio [...]. Tutto ciò che la Chiesa dice e compie, manifesta la misericordia che Dio nutre per l’uomo. Quando la Chiesa deve richiamare una verità misconosciuta, o un bene tradito, lo fa sempre spinta dall’amore misericordioso, perché gli uomini abbiano vita e l’abbiano in abbondanza», cfr Gv 10,10).
Questa continuità teologica, sempre sottolineata, assume talvolta tratti singolari, quasi profetici. Nel discorso ai parroci e al clero di Roma, tre giorni dopo l’annuncio delle proprie dimissioni, Papa Benedetto XVI ricordava che nelle fasi preparatorie del Concilio Vaticano II, quando era un giovane professore dell’Università di Bonn, era stato incaricato dall’arcivescovo di Colonia, il cardinale Frings, di stendere il progetto per una conferenza intitolata Il Concilio e il mondo del pensiero moderno. Il cardinale Frings aveva talmente apprezzato il progetto che a Genova, in un convegno organizzato dal cardinale Siri, aveva letto il testo esattamente come era stato scritto dal giovane professor Ratzinger. «Poco dopo», racconta Benedetto XVI, «Papa Giovanni lo invita ad andare da lui e il Cardinale era pieno di timore di avere forse detto qualcosa di non corretto, di falso, e di venire citato per un rimprovero, forse anche per togliergli la porpora. Sì, quando il suo segretario lo ha vestito per l’udienza, il cardinale ha detto: “Forse adesso porto per l’ultima volta questo abito”. Poi è entrato, Papa Giovanni gli va incontro, lo abbraccia, e dice: “Grazie, eminenza, lei ha detto le cose che io volevo dire, ma non avevo trovato le parole”». Giovanni XXIII si era riconosciuto nelle parole scritte da un giovane professore tedesco che mezzo secolo dopo sarebbe salito al soglio di Pietro!
Nel caso di Benedetto XVI e Papa Francesco, la naturale continuità del magistero papale ha un tratto unico: la presenza di un Papa emerito in preghiera accanto al suo successore. Nei rari interventi pubblici di questi anni, il Papa emerito non ha mai mancato di sottolineare la peculiarità, lo «stile» del ministero di Papa Francesco: «La sua pratica pastorale» ha dichiarato in un’intervista concessa al gesuita belga Jacques Servais «si esprime proprio nel fatto che egli ci parla continuamente della misericordia di Dio. È la misericordia quello che ci muove verso Dio, mentre la giustizia ci spaventa al suo cospetto. A mio parere ciò mette in risalto che sotto la patina della sicurezza di sé e della propria giustizia l’uomo di oggi nasconde una profonda conoscenza delle sue ferite e della sua indegnità di fronte a Dio. Egli è in attesa della misericordia».
Continuità del magistero e peculiarità dello stile pastorale, dunque; ma tra Benedetto e Francesco esiste in primo luogo una viva comunanza d’affetto. Nella toccante cerimonia per il sessantacinquesimo anniversario dell’ordinazione sacerdotale di Benedetto XVI, Papa Francesco si rivolge al suo predecessore e sottolinea che «proprio vivendo e testimoniando oggi in modo tanto intenso e luminoso quest’unica cosa veramente decisiva - avere lo sguardo e il cuore rivolto a Dio -. Lei, Santità, continua a servire la Chiesa, non smette di contribuire veramente con vigore e sapienza alla sua crescita; e lo fa da quel piccolo monastero Mater Ecclesiae in Vaticano che si rivela in tal modo essere tutt’altro che uno di quegli angolini dimenticati nei quali la cultura dello scarto di oggi tende a relegare le persone quando, con l’età, le loro forze vengono meno. È tutto il contrario. E questo permetta che lo dica con forza il Suo Successore che ha scelto di chiamarsi Francesco! Perché il cammino spirituale di san Francesco iniziò a San Damiano, ma il vero luogo amato, il cuore pulsante dell’Ordine, lì dove lo fondò e dove infine rese la sua vita a Dio fu la Porziuncola, la “piccola porzione”, l’angolino presso la Madre della Chiesa; presso Maria che, per la sua fede così salda e per il suo vivere così interamente dell’amore e nell’amore con il Signore, tutte le generazioni chiameranno beata. Così, la Provvidenza ha voluto che Lei, caro Confratello, giungesse in un luogo per così dire propriamente “francescano”, dal quale promana una tranquillità, una pace, una forza, una fiducia, una maturità, una fede, una dedizione e una fedeltà che mi fanno tanto bene e danno tanta forza a me e a tutta la Chiesa. E mi permetto anche di dire che da Lei viene un sano e gioioso senso dell’umorismo».
La risposta del Papa emerito a Francesco è una straordinaria manifestazione di tenerezza: «La Sua bontà, dal primo momento dell’elezione, in ogni momento della mia vita qui, mi colpisce, mi porta realmente, interiormente. Più che nei Giardini Vaticani, con la loro bellezza, la Sua bontà è il luogo dove abito: mi sento protetto».
Di questa vicinanza intima e profonda è segno durevole questo libro, che presenta fianco a fianco le voci a confronto di Benedetto XVI e Papa Francesco su temi cruciali.
È un «abbecedario del cristianesimo» per riorientarsi sulla fede, la Chiesa, la famiglia, la preghiera, la verità e la giustizia, la misericordia e l’amore. La consonanza spirituale dei due Pontefici e la diversità del loro stile comunicativo moltiplicano le prospettive e arricchiscono l’esperienza dei lettori: non solo i fedeli ma tutte le persone che, in un’epoca di crisi e incertezza, riconoscono nella Chiesa una voce in grado di parlare ai bisogni e alle aspirazioni dell’uomo.
Cardinale segretario di Stato
La prammatica della fantasia
di Stefano Bartezzaghi *
La casa editrice Einaudi è nata nel 1933: nel 1983 festeggiò il suo anniversario con varie iniziative, fra cui la pubblicazione del suo catalogo storico. Il volume uscì con il titolo Cinquant’anni di un editore nella collana Pbe ed era dotato di un apparato iconografico, che riproduceva le immagini di una mostra allestita per la ricorrenza. Erano copertine di libri, documenti storici (come l’informativa che la polizia torinese mandò a Mussolini già il 3 marzo del 1934 in merito alla nuova, e certamente antifascista, casa editrice), ritratti fotografici di autori (da Leone a Carlo Ginzburg, e fra Wittgenstein, Gadda, Benjamin, Beckett anche un indimenticabile Giorgio Manganelli, che esce dalla tenda a strisce di una salumeria di Dogliani, tenendo in mano un goloso pacchettino).
A testimonianza del fatto che gli autori Einaudi non erano tutti crucciati professori o profondi letterati, era esposta anche la riproduzione di una lettera di Gianni Rodari a Giulio Einaudi, scritta con una calligrafia minuta ed esatta su carta intestata del quotidiano Paese Sera, favolosamente (ed enigmisticamente) datata “6-1-61”: befane e sciarade, come per un presagio.
L’occasione della lettera è l’uscita del primo libro einaudiano di Rodari, le Filastrocche in cielo e in terra (L’ago di Garda: C’era una volta un lago, e uno scolaro / un po’ somaro, un po’ mago, /con un piccolo apostrofo / lo trasformò in un ago...).
Rodari la celebra con una certa deferenza, progressivamente volta al comico:
Al momento dell’allestimento della mostra probabilmente non ci si lambiccò molto sulla scelta di questa lettera come esempio di una comunicazione “d’autore” con la casa editrice. Forse è stata una scelta pressoché casuale; certamente è stata una scelta felice.
Già da questa lettera (che è fra le prime, nel tempo) si stabilisce infatti uno dei toni che saranno poi costanti nell’epistolario rodariano con l’Einaudi (la casa con cui Rodari avrebbe pubblicato tutti i suoi libri più importanti), per sfumarsi un poco, ma non del tutto, negli ultimi e più disincantati anni. È il tono autoironico dell’autore di filastrocche inopinatamente accolto in un olimpo editoriale, che se ne propizia la principale divinità esibendo la propria devozione. È tutta una finta, naturalmente: questo tono non fa che prolungare l’opera letteraria dello stesso autore, come un peritesto che rifletta le smorfie e le delizie del testo.
Nelle fantasie di Rodari, il favoloso non è un altro mondo ma è una piega inedita del quotidiano, una piega che la serietà e la compunzione dei cosiddetti adulti usa stirare ed eliminare come fosse una semplice stropicciatura, e che si può al contrario additare, evidenziare e approfondire usando gli strumenti della filastrocca, della rima, dell’associazione casuale, dell’errore linguistico: e allora rivelerà la sua natura profonda di crepaccio. In questo crepaccio il bambino rodariano (rodariano è l’esatto contrario di rotariano, naturalmente) non vorrà precipitare, come accadeva ad Alice. Ci si lascerà scivolare e volerà, perché il crepaccio del favoloso mette in comunicazione non con il basso ma con l’alto. In Rodari, oltre a mongolfiere e arcobaleni, volano treni, torte, automobili a cui si accende il semaforo blu.
La fantasia diventa l’inconscio dell’ideologico: un inconscio aereo, libero di spaziare ma sempre soggetto alla gravitazione. Un inconscio la cui funzione è rivelatoria, e investe i rapporti fra persone e persone e fra persone e istituzioni: ivi comprese la lingua nazionale ed eventualmente la propria casa editrice.
Specialmente nei primi tempi della sua attività di scrittore per l’infanzia, il rapporto con le istituzioni, e i suoi riflessi politici e ideologici, è un problema molto sentito da Rodari. Come responsabile del giornale per ragazzi Il pioniere (l’alternativa Pci ai giornalini cattolici o commerciali) doveva fronteggiare abitudini pedagogiche sempre in odor di catechismo e comunque molto tradizionali. Come membro del Pci doveva scontare diffidenze e deficit culturali enormi. Nella sua biografia (Gianni Rodari, Einaudi 1990), Marcello Argilli ricorda un dibattito con Nilde Jotti, sulle pagine di Rinascita, in merito ai fumetti. Era il 1951: “Decadenza, corruzione, delinquenza dei giovani e dilagare del fumetto sono dunque fatti collegati. ... È logico che il fumetto sia stato lanciato da Hearst, imperialista cinico e fascista”, aveva sentenziato Nilde Jotti.
Rodari intervenne difendendo i fumetti fra mille distinguo e prudenze e auspicando “essenzialmente la nascita di una nuova letteratura per l’infanzia, capace anche con i suoi mezzi organizzativi di condurre una lotta efficace”. La sintesi spettò a Palmiro Togliatti. “Non ci sentiamo di condividere la posizione del Rodari... non metteremo in fumetti la storia del nostro partito o della rivoluzione”. Secondo Togliatti bisognava piuttosto elaborare narrazioni figurate ispirate alle stampe cinesi: “A questo compito dunque ci si cimenti, invece di correre dietro alle forme più corruttrici dell’americanismo”.
Nell’anno successivo, il 1952, Rodari scrisse la prima lettera alla casa editrice Einaudi. Proponeva a Italo Calvino un commento a Pinocchio, il cui “segreto formale” è la “fusione perfetta di realtà e fantasia”, da studiare con “occhio critico esercitato, diciamolo pure, dal marxismo - anche senza metterlo in causa, che sarebbe eccessivo”.
Attraversati gli anni Cinquanta, la preoccupazione ideologica di Rodari si libererà sostanzialmente dal rapporto con un apparato partitico, anche se si ripeteranno occasionalmente certe frasi sintomatiche, come la descrizione del regista Dal Fra: “bravissimo (e anche un bravo compagno)”. Ma non diventerà meno acuta: sarà proprio Calvino, in un bellissimo articolo indetto per un convegno sull’opera di Rodari, che era già morto, a ricordare come Rodari era sempre attento a cogliere le implicazioni ideologiche dei giochi di parole e del linguaggio in genere.
Dopo la prima lettera a Calvino, quando Rodari sarà diventato un autore della casa editrice, incomincerà il flusso di lettere che perlopiù, si può dirlo anche senza fare troppi calcoli statistici, saranno dedicate a questioni editoriali e amministrative: proposte di libri e richieste di danaro. Retrobottega e conti della serva? Nel caso di Rodari non può essere detto mai: nella selezione delle lettere per la presente pubblicazione a volte una lettera stava per essere scartata perché puramente funzionale ma ecco che nel congedo o in una nota laterale un guizzo rodariano la salva dalla routine.
Più in generale, dobbiamo interrogarci. Cosa chiediamo a un epistolario? Ci sono epistolari che sono come opere liriche, con arie e recitativi: una divisione netta fra la comunicazione spicciola e la zona alta, memorabile della scrittura confidenziale. Nelle lettere di Rodari al suo editore e ai suoi editor in molti casi è evidente l’amicizia e la comunanza che il mittente sentiva verso interlocutori come Daniele Ponchiroli o Roberto Cerati o lo stesso Giulio Einaudi (in quest’ultimo caso però con una deferenza non solo mimetica). Ma a volte Rodari non sapeva neanche bene a chi stava scrivendo: aveva sicuramente notato che a una lettera mandata a Einaudi aveva risposto Ponchiroli, della questione sollevata con Guido Davico Bonino si era poi occupato Paolo Fossati. Lui era Rodari, un autore; loro erano persone colte e spiritose ma nel complesso formavano uno staff professionale. L’epistolario doveva tenere assieme la capra della comunicazione personalizzata con i cavoli della comunicazione funzionale e così si impose nella maggior parte delle lettere un andamento quasi da “recitar cantando”, in cui la parte didascalica (copertine, illustrazioni, composizione di un indice, proposizione di un titolo, richiesta di invio di copie a stampa e amici, affari economici) si trovava il più inestricabilmente possibile innervata dal genio personale dell’autore delle lettere. Si accavallano di continuo minute faccende editoriali, progetti solenni, clownerie epistolari.
L’interazione fra autore e editore avviene perciò en travesti: scrivendo a lui in persona o ai suoi collaboratori Rodari si riferisce a Giulio Einaudi chiamandolo “sire”, “eccellenza”, “don”, “monsignore”, “Sua Eminenza”, “cardinale”, “comandante”, “padrone”, e si propone come fedele seguace e a volte, buffonescamente, come scherano e spia editoriale. Una mascherata che ha svariate funzioni: non ultima quella che permette a Rodari di celare il senso di imbarazzo (e alleviare quello di eccessiva franchezza) delle sue continue richieste di pagamento. Non è facile infatti arrivare alle questioni di denaro con la gente dell’editoria, che ha sempre l’aria di stupirsi quando un autore batte cassa invece che parlare per esempio di Proust. Ma nella mascherata i ruoli possono improvvisamente ribaltarsi: la strategia del tapino in soggezione di fronte all’austera istituzione editoriale diventa un modo per raccontarsi e Rodari finisce per trattare i lettori delle sue lettere (adulti funzionari editoriali, spesso scrittori in proprio) come se fossero i piccoli lettori dei suoi libri, bambini, da blandire e divertire, enfatizzando comicamente la propria indigenza e la propria disgrazia:
Qui Rodari applica una tecnica che avrebbe poi teorizzato nella Grammatica della Fantasia: l’accostamento fra due elementi incongrui, il binomio composto da pillola e assegni.
Un altro espediente era quello di parlare in una parodia del linguaggio ufficiale e burocratico:
Un altro esempio paradossale:
La fuga con la cassa è anche il tema di una microfavoletta successiva:
Cosa vuol dire questa favola? È molto bella la costruzione di una spazialità di tipo politico-favoloso: dentro è la prigione del proprio Paese, il massimo della costrizione; fuori è la libertà assoluta.
Ma la morale della favola ricorda altri paradossi. Per esempio quello di Alphonse Allais, l’umorista francese che disse: «la logica porta a tutto. A condizione di uscirne». Nel 1961 nasceva il gruppo dell’Oulipo, che lavorava su certi giochi e certe costrizioni letterarie. Si definivano così: «topi che devono costruire il labirinto da cui si propongono di uscire».
Dentro e fuori: una dimensione primaria che nella vicenda di Rodari si rivelerà sempre pertinente. Grammatica e fantasia continuano a celebrare il loro incontro: nei rapporti di Rodari con l’istituzione scolastica (incominciò come maestro elementare), a quelli con l’ortodossia comunista, a quelli con la lingua italiana, con le sue regole e i luoghi comuni, con la pedagogia e l’ideologia, con il giornalismo, con l’editoria, con la sua stessa scrittura.
Dentro e fuori: quasi mai Rodari, quando scrive, sta soltanto scrivendo. Quasi sempre Rodari, quando scrive, sta scrivendo e sta contemporaneamente giocando a scrivere: e non è proprio la stessa cosa.
I giochi epistolari di Rodari sono innumerevoli. Molti gli equivoci:
Poi abbiamo giochi sulle date, parodie della carta intestata dell’Einaudi, semplici giochi di parole come “Sua Schifenza” in cui si incrociano schifo e Eccellenza, intestazioni deliranti, rimette estemporanee che sbucano come ramarri da un muro, varianti nel nome dell’interlocutore (soprattutto Daniele Ponchiroli, che diventa Ponchiriele, Danieroli, Daniello, Ponchi-cerati in abbinamento con Roberto Cerati), balzi nel registro aulico, disegni a margine. Quando Rodari è contento dei suoi interlocutori manda in casa editrice fogli con disegni veri e propri, come premio. Attorno a un ritaglio di giornale in cui si annuncia la laurea di suor Lanfranca delle Orsoline di Verona, con una tesi su “Gianni Rodari, scrittore per l’infanzia”, lo stesso Rodari disegna la tonaca di una suora a passeggio in un chiostro. Per ragioni oggi inesplicabili allega a una lettera un cartoncino che invitava a un incontro con Argan e altri su “Pittura tardoromana” con commenti autografi a margine: “Hanno parlato, chi sa che cosa hanno detto... / io ci ho l’alibi: a quell’ora me ne stavo al gabinetto” (con rimando, parrebbe, all’Armando di Enzo Iannacci). Dato che l’incontro si teneva alla libreria Feltrinelli di via del Babuino 39 / 40, a Roma, Rodari aggiunge: “Non sta bene, amici cari / star con un piede nel dispari e un piede nel pari”.
Di tutti questi giochi il più curioso è forse quello che incomincia con una lettera a Giulio Einaudi, così datata
Una nota di mano dell’autore, in alto a sinistra, dice: “Si prega di citare Adorno nella risposta”.
Rodari scrive in occasione dell’uscita del Libro degli errori, e finge di esserne un lettore ammirato:
La lettera si chiude con una nota: Allegato: Nulla; e con la firma di Gianni Rodari, sotto la quale aggiunse l’indicazione manoscritta: Capitale interamente sperperato (parodiando l’uso delle aziende di dichiarare nella loro carta intestata il capitale sociale).
Giulio Einaudi evidenziò la parola “sperperato” e aggiunse di suo pugno: “Deve avere soldi?” (evidentemente un’indicazione per la segreteria editoriale). Dopo di che rispose a Rodari, in data 11 novembre 1964 (la data della lettera di Rodari va intesa come 4 novembre, come diremo ancora), adempiendo spiritosamente all’obbligo di citazione adorniana:
La prammatica della fantasia
di Stefano Bartezzaghi *
Il manuale di “Fantastica” (di cui Rodari aveva già incominciato a parlare in una lettera a Giulio Bollati del 23 febbraio 1962) è ovviamente quello che uscirà quasi nove anni dopo, con il titolo di Grammatica della fantasia. Quando il libro sarà pronto, in data 27 novembre 1973, Rodari rimanderà a Einaudi una copia della lettera di quest’ultimo, la decorerà con un disegno autografato (“Cometa del 27 - 11- 73 seguita da un orologio volante), evidenzierà le righe che riguardano il manuale di Fantastica e scriverà in margine al suo corrispondente:
Un ping pong di nove anni, sulla fantasia e i libri, alla presenza fantomatica di Adorno. Rodari si divertiva così: e certamente anche Einaudi.
Ma anche al di là del gioco è notevole che tale ping pong finisca per mettere assieme due libri che sono tra i capolavori dell’intera opera di Rodari, e ne rappresentano due poli: Il libro degli errori e La grammatica della fantasia.
Anche nel titolo la grammatica della fantasia nasce dalle suggestioni dello strutturalismo che in quegli anni veniva proponendo saggi intitolati: Morfologia della fiaba, Sistema della moda, Fenomenologia di Mike Bongiorno. Tutte espressioni composte da un termine scientifico o filosofico e astratto e da un termine invece comune e popolare. Sotto i suoi microscopi l’analista non mette più ali di farfalle o frammenti di roccia vulcanica ma principi azzurri, tailleur e telequiz.
Senza preoccupazioni di rigore scientifico, ma temperando il proprio istinto con buone letture di approfondimento, Rodari aggiunge a questa serie ideale addirittura una grammatica della fantasia, come idea di libro che ricostruisca in un laboratorio i possibili modelli di funzionamento della fiaba. Un laboratorio: ma non nell’accezione scientifica (o alchemica), con camici bianchi e provette e vapori, bensì nell’accezione pedagogica, di stanza attrezzata per laboriose creazioni infantili.
Per questo non si può opporre il Libro degli errori alla Grammatica della fantasia: i due libri compiono lo stesso tragitto, sia pure andando in senso reciprocamente inverso. Uno insegna, l’altro mette in pratica un insegnamento: l’insegnamento che la norma non è mai rigida, ma la sua deviazione non è mai immotivata.
Il punto in cui si incontrano i due libri è appunto il gioco: l’eterna oscillazione fra la grammatica dell’istituzione e la tendenziale anarchia della pratica.
Ma non si evoca quasi mai invano la potenza dell’errore.
L’ultima lettera del presente epistolario, indirizzata da Rodari a Carlo Carena nel gennaio del 1980, annuncia: “oggi ho accompagnato mia moglie in clinica per un’operazione - quando uscirà lei dovrò entrarci io, per colpa di un’arteria occlusa - vede che non ho lo spirito adatto per rifare la prefazione alle Favole al telefono”. Il recitativo di esordio si increspa alla frase successiva: “La programmerò [la prefazione, ndr] per l’edizione tredicesima, anche se doveste interrogarmi con i tavolini”. Poi la lettera prosegue piana, con l’indicazione di alcune modifiche puntuali. Fra queste e il congedo, un’ultima rimetta: “Altro di me non vi saprei narrare / e la flebografia mi vado a fare”.
L’esame clinico che Rodari annunciava a Carena non ebbe un esito fortunato, poiché fece programmare un intervento di media entità. Solo in sala operatoria il chirurgo si accorse di un ulteriore problema fino ad allora inavvertito, la cui rimozione prolungò l’intervento fino a sette ore, tre ore in più di quelle previste. Già provato nel fisico Rodari non riuscì più a ristabilirsi: morì tre giorni dopo l’operazione.
Conosciamo questa vicenda grazie alla documentata biografia di Argilli, il quale scrive letteralmente:“ ... un grosso aneurisma nella zona iliaca, che per la sua collocazione l’ortografia non poteva rilevare".
L’ortografia? Quasi sicuramente l’autore voleva scrivere aortografia, probabilmente lo ha anche scritto e un refuso (come chiamarlo banale?) è sfuggito a tutti i giri di bozze. La grammatica della fantasia, la faccia autoironica della dea Ortografia, aveva acceso il semaforo blu, e aveva liberato nei cieli della favola l’ultimo errore, salutando così con uno scherzo (come lui stesso usava nelle lettere agli amici einaudiani) la memorabile vicenda umana di Gianni Rodari.
*Doppiozero, 17.08.2020 (ripresa parziale, senza immagini).
MONACI “BRASILIANI” NELLA TERRA DELLA “TRECCANI” (MA NON NELLA TERRA D’OTRANTO)! Filologia e civiltà...
di Federico La Sala *
ALLA LUCE DELLA PRESENTE STORICA SITUAZIONE, ricordando il recente intervento del prof. Armando Polito dal titolo “Quando l’Amazzonia era vicina a noi, ma c’è speranza...” e della mia nota su L’EUROPA E LE “REGOLE DEL GIOCO” DELL’OCCIDENTE (Fondazione Terra d’Otranto, 28/29 maggio 2020), sottoscrivo la sua “Lettera aperta a Massimo Bray,titolare del Mibac1″(Fondazione Terra d’Otranto, 26 maggio 2013) e rinnovo la sua costituzionale sollecitazione a non alimentare la già iperbolica diffusione di “fake news” e a correggere l’involontario refuso tecnologico.
PER LA STORIA E LA MEMORIA DELLA TERRA D’OTRANTO, non è più sopportabile che nella scheda relativa a Cesare Maccari ("Dizionario Biografico degli Italiani" - Treccani ) si legga e si continui a leggere che “Nel 1895 [...] fu incaricato da monsignor G. Ricciardi, vescovo di Nardò, di affrescare la cattedrale di S. Maria de Nerito [...] Il programma iconografico, dettato dal committente, era dedicato alla storia della salvezza dell’uomo e agli episodi locali del Trasporto delle reliquie di s. Gregorio Armeno, protettore della città, da parte dei monaci *BRASILIANI* e del Miracolo del crocifisso nero”! O no?!
*
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
Le lacrime sono il vino del godimento
di Enrico Spadaro (Ondaiblea, 09 aprile 2020)
È con sensazioni di triste gioia che sembra avvicinarsi questa Pasqua, in cui quasi tutti i cristiani non possono fisicamente partecipare ai riti della Settimana Santa. Sembra quasi un paradosso, un ossimoro pronunciare queste parole, “triste gioia”: “gioia” nell’imminente resurrezione di Cristo, “triste” perché forse non totalmente vissuta.
Eppure esiste un termine greco, che racchiude un concetto forse maggiormente conosciuto nel mondo cristiano ortodosso, “charmolypi” (χαρμολύπη), che esprime al tempo stesso sentimenti di gioia (hara) e di tristezza (lypi). Si ritrova tale termine negli scritti di San Giovanni Climaco (525/575-603/650), monaco che visse quasi tutta la vita presso il monastero del Sinai. Nella sua dottrina, e in particolare nel suo scritto più celebre, La Scala della divina ascesa, vengono prevalentemente esaltati coloro che dopo aver peccato si pentono, poiché i dolori patiti permettono loro - attraverso il pentimento - di accedere alla vera “gioia” del Paradiso. Questi peccatori redenti sembrano aver provato la morte per poi essere risorti come Cristo, sono stati abbandonati e infine salvati dal Padre. Le lacrime che hanno versato sono così benedette: “Beati i sofferenti, perché essi saranno consolati”. (Matteo 5,4).
Il concetto espresso da San Giovanni Climaco potrebbe rinviare ad un elemento essenziale delle fiabe secondo lo scrittore britannico J.R.R. Tolkien (1892-1973), vale a dire la consolazione del lieto fine, per cui l’autore, nel suo saggio Sulle Fiabe (1939) conia il termine “eucatastrofe”, l’improvviso capovolgimento felice degli eventi, “ed è in quanto tale un evangelium, che fornisce una visione fuggevole della Gioia, quella Gioia oltre le muraglie del mondo, intensa come il dolore”.[1]
Con evangelium, Tolkien, fervente cattolico, non poteva che intendere il Vangelo, considerato come l’unica vera fiaba, e infatti continua il proprio saggio: “la Nascita di Cristo è l’eucatastrofe della storia dell’Uomo. La Resurrezione è l’eucatastrofe della storia dell’Incarnazione. Questa storia comincia e finisce nella gioia.”
L’immensa opera letteraria di Tolkien e soprattutto i due romanzi principali, Lo Hobbit (1937) e Il Signore degli Anelli (1954-55), sono pieni di momenti in cui si verifica un’eucatastrofe, ma forse uno di quelli più evocativi è rappresentato dagli istanti immediatamente successivi la distruzione dell’Unico Anello tra le fiamme del Monte Fato. Frodo e Sam si credono spacciati e svengono, ma vengono salvati dalle grandi aquile e si risvegliano a Gondor con Gandalf al loro capezzale.
Tolkien descrive il momento attraverso le sensazioni di Sam:
E qualche pagina dopo:
Gioia e dolore sembrano fondersi e le lacrime sono la via che porta alla gioia, secondo la teorizzazione tolkieniana dell’eucatastrofe, ma anche secondo il concetto di “charmolypi” di San Giovanni Climaco. Inoltre, occorre sottolineare la data della distruzione dell’Anello, il 25 marzo, che è sì il giorno dell’Annunciazione a Maria, ma nella tradizione medievale era anche il giorno della crocifissione, il Venerdì Santo, un giorno di dolore che anticipava la gioia della Pasqua.
I momenti d’eucatastrofe in Tolkien non saranno forse l’espressione totale di beautitudine, ma potrebbero essere una rappresentazione di gioia e dolore, che preannuncia la “Gioia” finale del Paradiso.
Enrico Spadaro
Note
[1] Tolkien. Il medioevo e il fantastico. Milano, Bompiani, p. 225.
[2] Tolkien. Il Signore degli Anelli. Milano, Bombiani, p. 1136.
[3] Ibid., p. 1139.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PASQUA: BUONA PASQUA DI RESURREZIONE E DI RISURREZIONE.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Pasqua. Aramaico, ebraico, greco, latino... in che lingua Gesù parlò con Pilato?
Oltre l’aramaico, conosceva anche l’ebraico e il greco? E in che lingua avvenne il processo davanti a Pilato? Le ipotesi degli studiosi e l’importanza degli idiomi per l’evangelizzazione
di Mimmo Muolo (Avvenire, martedì 7 aprile 2020).
In che lingua parlava Gesù? E i protagonisti dei grandi eventi che portarono alla sua morte in croce? La questione, da tempo al centro del dibattito tra gli studiosi, può essere assunta proprio nei giorni della Settimana Santa, come filo rosso per comprendere alcune dinamiche fondamentali dell’annuncio della Buona Novella dall’inizio fino a noi.
Le quattro lingue della Palestina
Va detto innanzitutto che al tempo in cui si svolsero gli eventi descritti nei Vangeli quattro erano le lingue parlate in Palestina. Quella ufficiale (ma anche la meno diffusa: usata solo da un ristretto numero di funzionari pubblico) era il latino. Quella religiosa era l’ebraico, parlata nelle sinagoghe, dove si leggevano i testi della Torah, e dai farisei che erano gli ebrei più osservanti. Quella della vita quotidiana era invece l’aramaico, che il popolo aveva adottato dopo il ritorno dall’esilio babilonese (VI sec. a.C.). E infine il greco della koiné, che era un po’ come l’inglese di oggi, parlata ovunque. Ebraico e aramaico erano lingue semitiche, imparentate tra loro come ad esempio l’italiano e il napoletano, dato che l’aramaico (nell’VIII secolo a.C. lingua delle comunicazioni internazionali nella Mesopotamia) era diventata una sorta di dialetto.
Gesù parlava solo l’aramaico?
Tra queste quattro lingue è ormai certo che quella usata da Gesù per la predicazione e per i colloqui con i discepoli fosse l’aramaico. Come ricorda Rinaldo Fabris, nel suo “Gesù il Nazareno” (Cittadella Editrice), sono almeno una ventina i passi dei Vangeli canonici (scritti in greco) in cui vengono citate parole o espressioni aramaiche. Per limitarci a quelle che riguardano la Settimana Santa: “Abba” (Padre), usato da Gesù nel Getsemani; “Eloi Eloi lemà sabachtani” (Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato) cioè le ultime parole di Cristo sulla croce secondo Marco e Matteo; il toponomastico Golgotha (“Luogo del cranio”) per indicare l’altura della crocifissione; e infine l’appellativo “rabbunì” (maestro mio) con cui Maria di Madgala chiama Gesù dopo la risurrezione. E a proposito di vittoria sulla morte, possiamo citare ancora il “talità qum”, (ragazza alzati) con cui Cristo riporta in vita la figlia di Giairo.
Del resto è naturale: cresciuto ed educato in una modesta famiglia della Galilea che abitava a Nazareth, villaggio di poche centinaia di abitanti, Egli certamente aveva come lingua materna l’aramaico occidentale che si parlava nella sua terra. Tra l’altro connotato da accento diverso da quello in uso a Gerusalemme, come attesta il “riconoscimento” di Pietro, nella notte dell’arresto di Gesù (Mt 26,73) proprio a motivo di come parlava.
L’aramaico, scelta di incarnazione
Questo fatto ci dice già una cosa importante. La concretezza dell’incarnazione vale per tutti gli aspetti della vita. Gesù si esprime in un idioma che tutti possono comprendere e poco importa se non è la lingua dei dotti. Anzi proprio questa vicinanza ai “piccoli”, al punto da parlare in “dialetto”, conferma se mai ce ne fosse bisogno la sua “rivoluzione” delle periferie, come direbbe papa Francesco. Il quale, parlando ai genitori dei bambini che stava battezzando nella Cappella Sistina il 7 gennaio 2018, raccomandò: “La trasmissione della fede soltanto può farsi in dialetto, la lingua intima delle coppie. Nel dialetto della famiglia, nel dialetto di papà e mamma, di nonno e nonna”. E non è un caso che un grande santo e teologo come Tommaso d’Aquino abbia predicato il quaresimale del 1273 in dialetto napoletano.
Le ipotesi sull’ebraico e il greco
Ciò che resta ancora incerto è se Gesù sapesse parlare nelle altre lingue. Almeno l’ebraico e il greco. Quanto all’ebraico, bisogna registrare un simpatico siparietto durante la visita di papa Francesco in Medio Oriente nel 2014. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, durante un incontro ufficiale, disse al Pontefice: «Gesù ha vissuto qui, parlava ebraico». «Aramaico», lo corresse Francesco. Al che Netanyahu, immediatamente, precisò: «Parlava aramaico ma conosceva l’ebraico, perché leggeva le Scritture». Al di là dei cordiali sorrisi che chiusero l’episodio, viene da chiedersi: è proprio così?
Secondo Fabris, “sulla base delle scarne informazioni del Vangeli non si è in grado di dare una risposta categorica alla domanda se Gesù sapesse leggere e scrivere”. E anche l’episodio riferito da san Luca, in cui nella sinagoga di Nazareth Egli prende e legge il rotolo del profeta Isaia, “non può essere addotto come prova che egli è in grado di leggere il testo ebraico della Bibbia”. Probabilmente infatti, argomenta lo studioso, quel racconto è il frutto di una rielaborazione dell’evangelista al quale interessa dire che Gesù è il Messia.
Tuttavia questo punto non è pacifico fra gli esegeti. Stefano Tarocchi, biblista e preside emerito della Facoltà Teologica dell’Italia centrale, nota infatti che “diversi altri racconti dei Vangeli favoriscono la teoria secondo cui Gesù era in grado di servirsi anche dell’ebraico quando la situazione lo richiedeva”. Soprattutto le conversazioni e discussioni con capi religiosi ebrei. “Questi dialoghi di solito avvenivano in ebraico anche tra chi aveva come prima lingua l’aramaico. Per essere credibile come interlocutore, con molta probabilità Gesù usava l’ebraico quando era impegnato in discorsi teologici con i farisei, gli scribi e gli altri capi ebrei”.
Quanto al greco, alcuni esegeti hanno ipotizzato che Gesù potesse conoscerlo, dato che vicino a Nazaret c’erano Sepphoris, capitale della tetrarchia di Erode Antipa, e Tiberiade, centro commerciale di una certa importanza, dove i mercanti greci arrivavano facilmente. Ma Fabris esclude un’ipotesi del genere, così come la possibilità che egli abbia conversato o insegnato in greco.
In che lingua parlarono Pilato e Gesù durante il processo?
Più possibilista è invece Tarocchi, citando la conversazione con il centurione romano di Matteo 8,5-13. “Anche Pilato nel processo - afferma - avrebbe usato il greco, non il latino, come ha invece immaginato Mel Gibson in The Passion. Non è nemmeno ipotizzabile che un governatore romano abbia potuto conoscere ed usare l’aramaico”. Tuttavia il dialogo potrebbe essersi svolto con l’intermediazione di un interprete (anche se nei Vangeli non se ne fa menzione), perché quello a Gesù non era certamente l’unico processo che Pilato fece nella sua carriera e la registrazione di un particolare così scontato può essere stata considerata superflua.
L’importanza del greco per l’evangelizzazione
Il greco però sicuramente entra in scena - e pesantemente - dopo la risurrezione. Soprattutto grazie alle lettere di Paolo, che sono i documenti più antichi del Nuovo Testamento, tutto scritto nell’”inglese” dell’epoca.
A questo punto il cambio di priorità, e dunque di paradigma anche linguistico, appare evidente. Alla logica dell’incarnazione si affianca quella dell’universalità del messaggio evangelico, che essendo destinato a tutti gli uomini, ha bisogno di un veicolo comunicativo il più possibile conosciuto. Il greco, appunto, che diviene così la lingua della “fase due” dell’evangelizzazione, dopo il primo annuncio del Nazareno. A quel punto l’idioma originale parlato da da Gesù diventa secondario, quasi ininfluente.
"Siamo Parti, Medi, Elamìti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, stranieri di Roma, Ebrei e prosèliti, Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio", esclameranno i presenti alla predicazione degli Apostoli, il giorno di Pentecoste. La voce di Cristo raggiunge ognuno nel suo linguaggio, secondo la doppia regola dell’incarnazione e dell’universalizzazione del messaggio della salvezza. E non è un caso che la Bibbia sia oggi il libro tradotto nel maggior numero di lingue al mondo.
Coronavirus. Epidemia e teologia, l’ebook di Fazzini
Un istant ebook che individua nella pandemia in cui siamo emersi un fatto “apocalittico”, nel senso etimologico del termine: non un evento da fine del mondo, ma di una rivelazione
di Redazione Agorà (Avvenire, mercoledì 25 marzo 2020)
“Si può fare una teologia del Covid-19? È possibile pensare teologicamente il coronavirus? Che cos’ha da dire la parola umana su Dio di fronte alla pandemia che da alcune settimane stravolge la nostra vita e la storia del mondo?”.
Esordisce con queste domande l’istant ebook Dio in quarantena. Una teologia del coronavirus (Emi, 2020, scaricabile gratuitamente su https://www.emi.it/dio-in-quarantena-un-ebook-gratuito) firmato da Lorenzo Fazzini, giornalista e saggista, direttore dell’Editrice missionaria italiana, disponibile da oggi. Una breve e densa riflessione in cui Fazzini individua nella pandemia in cui siamo immersi un fatto “apocalittico”, nel senso etimologico del termine: non un evento da fine del mondo, ma di una rivelazione che “ci dirà il senso. Il perché. La ragione. Ovvero: eschaton come il tempo ultimo che ci dice il significato. Di noi, degli altri, del mondo, di Dio”.
L’analisi di Fazzini inanella una serie di eventi, da lui appunti interpretati in chiave apocalittica, che hanno segnato l’inizio di terzo millennio: l’11 settembre, lo tsunami asiatico, la crisi finanziaria, l’ecatombe del terremoto di Haiti, il dramma delle migrazioni, l’elezione di papa Francesco dopo le dimissioni di un pontefice. Fino a due segnali convergenti: simbolicamente, la fine della cristianità nel rogo di Notre Dame; la recente certificazione di papa Bergoglio - “non siamo più in un regime di cristianità” - rispetto al cambio di epoca che stiamo vivendo.
Fazzini arricchisce il suo ragionamento di vari spunti letterati, da Cormac McCarthy a Marilynne Robinson, filosofici (Hans Jonas, Paul Ricoeur) e teologici (Dietrich Bonhoeffer e il gesuita australiano Richard Leonard), per concludere che la forza della solidarietà e l’eroismo umano che questi eventi “da fine del mondo” ci offrono, e che il coronavirus sta mettendo sotto i nostri occhi nel sacrificio di medici, infermieri e operatori sanitari, dicono molto della “salvezza ancora possibile” che ci sta davanti.
L’ORAZIONE SULLA DIGNITA’ DELL’UOMO - A UNA DIMENSIONE.
Da Giovanni Pico della Mirandola* a Herbert Marcuse** e ...
CARO ARMANDO, PER IMPARARE "a vivere meglio senza lasciarci condizionare dalla paura della morte, cioè dalla religione, qualunque essa sia", CREDO CHE SIA NECESSARIO riconsiderare il problema di "come nascono i bambini" (a tutti i livelli)! Hai ragione: "Non possiamo permetterci, con le Sibille, Maria Vergine, Cristo come dio, Maometto ed altre favolette l’illusione di un altro Messia"! Ci siamo addormentati nella tradizione cattolico-costantiniana e illuministica acritica (contro Kant), e abbiamo finito per "concepire" noi stessi e noi stesse secondo la bio-logia e l’andro-logia “unidimensionale” dell’omuncolo!
L’«ECCE HOMO» di Ponzio Pilato, al contrario!, ci dice proprio questo - la fine delle "favolette" e di ogni "illusione di un altro Messia". Il discorso è di diritto e di fatto, romanamente universale, vale a dire, antropologico (non limitato all’«omuncolo» di qualche "uomo supremo" o “superuomo”!):
SE SIAMO ANCORA CAPACI DI LEGGERE, COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA LEZIONE DI PONZIO PILATO?! Non è una lezione critica contro i "sovranisti" laici e religiosi di ieri e di oggi?!
Che vogliamo fare? Continuare a riportare noi stessi e noi stesse davanti a Pilato e ripetere da scemi e da sceme la stessa scena, riascoltare il suo "Ecce Homo" e non capire una "H" (acca)?!
P.S. - RICORDANDO ... GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA.
Presentazione volume - Laurentii Valle Sermo de mysterio Eucharistie, a cura di Clementina Marsico, con un saggio di Marco Bracali. Edizione Nazionale delle opere di Lorenzo Valla, II, Opere religiose, 3, Firenze, Polistampa 2019
Lunedì 24 febbraio, alle ore 11.00, verrà presentato il volume Laurentii Valle Sermo de mysterio Eucharistie, a cura di Clementina Marsico, con un saggio di Marco Bracali. Edizione Nazionale delle opere di Lorenzo Valla, II, Opere religiose, 3, Firenze, Polistampa 2019.
Interverranno:
Alberto Melloni, Segretario della Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII
Antonio Manfredi, Scrittore latino della Biblioteca Apostolica Vaticana
Daniele Conti, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento
Sarà presente la curatrice del volume.
L’incontro - aperto a tutti gli interessati - si terrà nella Sala dei Seminari dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento.
“Le fiabe sono il luogo di tutte le ipotesi”: vita e opere di Gianni Rodari, l’eterno bambino
A 100 anni dalla nascita vogliamo celebrare Gianni Rodari, lo scrittore che, con le sue storie rivolte ai bambini di tutto il mondo, ha rivoluzionato la letteratura per ragazzi, dando voce a luoghi e personaggi che neanche si pensava l’avessero, la voce. Facendo (ri)scoprire a diverse generazioni il piacere della lettura
di Martina Marasco *
L’approfondimento sui libri e la vita dell’autore
A volersi impegnare, forse si può trovare un adulto di oggi che non conosca neanche una filastrocca, una poesia o una favola di Gianni Rodari - ma bisogna impegnarsi parecchio.
A 100 anni dalla sua nascita vogliamo celebrare lo scrittore che, con le sue storie rivolte ai bambini di tutto il mondo, ha rivoluzionato la letteratura per ragazzi, dando voce a luoghi e personaggi che neanche si pensava l’avessero la voce, facendo (ri)scoprire a diverse generazioni il piacere della lettura.
Giovanni Rodari nasce il 20 ottobre 1920 a Omegna, in provincia di Verbano-Cusio-Ossola. Resta in Piemonte fino alla morte del padre, nel 1929, quando si trasferisce a Ranco, un paesino in provincia di Varese sulle sponde del Lago Maggiore. Lì si diploma come maestro a soli 17 anni e inizia a insegnare nella scuola elementare del paese. Resta nel varesotto fino al 1943, quando, durante la seconda guerra mondiale, è costretto a prestare servizio presso l’Ospedale Militare di Baggio.
Nonostante abbia iniziato a pubblicare i suoi libri molto più tardi, gli anni a Varese si manifesteranno più volte nel corso della sua poetica. Basti pensare al celebre incipit di Favole al telefono, “C’era una volta il ragionier Bianchi di Varese”, o ai racconti della signorina Bibiana, alla leggenda del lago di Varese o a parecchie delle sue filastrocche - citiamo, tra le tante, il Terzo indovinello: “Un dottore di Cesena andò a letto senza cena. La domanda impertinente è la seguente: aveva fame perché era un dottore o perché a Cesena non c’è il Lago Maggiore?”.
È nel 1944 che comincia ad avvicinarsi al Partito Comunista e a intraprendere il mestiere che lo accompagnerà per gran parte della sua vita: il giornalista. Dopo la Liberazione, infatti, comincia a lavorare dapprima all’Unità con la rubrica La domenica dei piccoli e poi, nel 1950, si trasferisce a Roma dove fonda, insieme a Dina Rinaldi, il giornale per ragazzi il Pioniere.
L’anno successivo Gianni Rodari è scomunicato. Il Vaticano, infatti, contesta duramente il lavoro dello scrittore, dichiarandolo “un ex-seminarista cristiano diventato diabolico” (in relazione al fatto che, prima dell’insegnamento, la madre lo spinse in seminario) e ordina di bruciare nei cortili degli oratori le copie del Pioniere, e i primi libri di Rodari, come Il libro delle filastrocche (1951) o Il romanzo di Cipollino (1951).
Ma per tornare a leggere Rodari, non bisogna aspettare poi molto: Giulio Einaudi, infatti, pubblica intorno alla metà degli anni ‘50 quelli che sono ancora oggi i suoi capolavori: Filastrocche in cielo e in terra, Favole al telefono, Il pianeta degli alberi di Natale, Il libro degli errori: il successo è immediato, e nel 1970 Rodari è insignito del Premio Andersen.
Nel 1973 viene pubblicato il suo capolavoro pedagogico, l’unico saggio indirizzato non ai bambini, ma agli insegnanti, ai genitori e a coloro che avevano a che fare con i più piccoli: Grammatica della Fantasia; introduzione all’arte di inventare storie.
I temi vengono a galla con facilità: il bisogno di un assoluto laicismo all’interno della scuola, l’importante impronta antifascista, gli ideali pacifisti e la centralità dell’espressione del bambino - un aneddoto vuole che i primi editor dei suoi romanzi furono proprio i suoi alunni del varesotto - la libertà di espressione e la morale innecessaria, che lascia al bambino la possibilità di trarre le proprie conclusioni.
Nel 1980 Rodari si fa ricoverare a Roma per un’operazione alla gamba sinistra; quattro giorni dopo, muore a causa collasso cardiaco. Dagli anni ‘80 a oggi i suoi libri sono stati pubblicati in moltissime edizioni, letti e studiati, senza la percezione che le storie narrate siano scritte 70 anni fa.
Forse la potenza dell’autore sta proprio in questo, nella sua capacità di essere attuale dopo tanto tempo, di far emozionare i bambini di oggi e i bambini di ieri nei genitori di oggi, senza risultare obsoleto o fuori luogo, fuori tempo.
Favole al telefono (1962)
“C’era una volta il ragionier Bianchi di Varese. Era un rappresentante di commercio e sei giorni su sette girava l’Italia intera vendendo medicinali. La domenica tornava a casa sua, e il lunedì ripartiva. Ma prima che partisse la sua bambina gli diceva: ‘Mi raccomando, papà: tutte le sere una storia’”.
Così, ogni sera, il ragioniere cercava un telefono a gettoni e chiamava la sua bambina, per raccontarle una storia. Le storie non erano mai troppo lunghe - con quello che costava una telefonata - ma lo erano abbastanza per far addormentare col sorriso tutti i bambini del mondo.
Favole al telefono contiene gioielli di poesia difficili da imitare: uno specchio della sensibilità per cui l’autore è famoso. Un esempio fra tutti, la favola Inventare i numeri.
“Quanto costa questa pasta?”
“Due tirate d’orecchi”.
“Quanto c’è da qui a Milano?”
“Mille chilometri nuovi, un chilometro usato e sette cioccolatini”.
“Quanto pesa una lacrima?”
“Secondo: la lacrima di un bambino capriccioso pesa meno del vento, quella di un bambino affamato pesa più di tutta la Terra”.
Il libro degli errori (1964)
In una lettera a Giulio Bollati, Rodari spiega di aver scritto un libro che raggruppa filastrocche e racconti basati sugli errori di ortografia. L’errore è la materia: l’autore vuole far passare l’errore ideologico nascosto da quello ortografico. C’è un’Itaglia sbaiata nelle antologie scolastiche, e a quindici anni dalla caduta del fascismo i testi sono pieni di realtà da correggere.
L’errore si fa anche portavoce della disubbidienza alle regole, quelle sbagliate, se si vuole davvero cambiare il mondo. Un libro necessario, italianissimo. Dice Rodari: “Gli errori hanno molti richiami regionali: la zeta dei milanesi, le doppie dei meridionali. Un libro molto italiano. Credi che vi possa interessare?”.
Ladro di “erre” può essere un ottimo esempio:
“[...] io non mi meraviglio
che il ponte sia crollato,
perché l’avevano fatto
di cemento “amato”.
Invece doveva essere
“armato”, s’intende,
ma la erre c’è sempre
qualcuno che se la prende.
Il cemento senza erre
(oppure con l’erre moscia)
fa il pilone deboluccio
e l’arcata troppo floscia.
In conclusione, il ponte
è colato a picco,
e il ladro di ‘erre’
è diventato ricco [...]”.
La grammatica della fantasia (1973)
“L’incontro decisivo tra i ragazzi e i libri avviene sui banchi di scuola. Se avviene in una situazione creativa, dove conta la vita e non l’esercizio, ne potrà sorgere quel gusto della lettura col quale non si nasce perché non è un istinto. Se avviene in una situazione burocratica, se il libro sarà mortificato a strumento di esercitazioni (copiature, riassunti, analisi grammaticale eccetera), soffocato dal meccanismo tradizionale: “interrogazione-giudizio”, ne potrà nascere la tecnica nella lettura, ma non il gusto. I ragazzi sapranno leggere, ma leggeranno solo se obbligati”.
Pubblicato nel 1973, La grammatica della fantasia è la summa di una serie di lezioni che Gianni Rodari aveva tenuto, nel 1972, a maestri, genitori, educatori nella città di Reggio Emilia. Unica opera saggistica, come suggerisce il sottotitolo Introduzione all’arte di inventare storie, La grammatica della fantasia si propone di insegnare agli adulti e ai bambini come leggere, scrivere e raccontare storie, imparando a sfruttare il mezzo più importante che abbiamo, ossia la parola, senza dimenticarsi della fantasia, che dovrebbe essere necessaria nell’educazione. Parafrasando le parole dello stesso Rodari, il valore della liberazione che può avere la parola è fondamentale per tutti; non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo.
Le filastrocche
Il libro delle filastrocche (1950), Il treno delle filastrocche (1952), Filastrocche in cielo e in terra (1960), Filastrocche del cavallo parlante (1970), La filastrocca di Pinocchio (1974); postume, Filastrocche lunghe e corte (1981), Il secondo libro delle filastrocche (1985), Filastrocche per tutto l’anno (1986). Le filastrocche di Rodari sanciscono la sua celebrità, vengono lette nelle scuole, fatte imparare a memoria. Ci sono le Favole al rovescio, col lupo che scappa da Cappuccetto Rosso o la Bella Addormentata che non dorme; ci sono pellerossa che vanno a trovare Gesù bambino nel Presepe, scuole in cui, sui banchi, ci sono i grandi e non i piccini, pani così grandi che saziano tutto il mondo, c’è Napoli senza sole, ci sono l’ago, l’ama, Don Chisciotte e persino il Re Sole. Tra le tante, tantissime, ne vogliamo riportare una delle più significative; si intitola Promemoria.
Promemoria
“Ci sono cose da fare ogni giorno:
lavarsi, studiare, giocare,
preparare la tavola,
a mezzogiorno.
Ci sono cose da fare di notte:
chiudere gli occhi, dormire,
avere sogni da sognare,
orecchie per non sentire.
Ci sono cose da non fare mai,
né di giorno né di notte,
né per mare né per terra:
per esempio, la guerra”.
* Il Libraio, 27.01.2020 (ripresa parziale - senza immagini).
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINIANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020).
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A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
SE LA "CARISSIMA" EU-CARESTIA è figlia DELLA CARITA’ ("CARITAS") è e resta SEMPRE una ELEMOSINA, E L’EU-CHARIS-TIA è e resta sempre una CARITA’ ("Caritas") senza GRAZIA ("CHARItaS"):
I divorziati e l’eucarestia.
La lettera del sindaco Sala e le risposte che dà la Chiesa
È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il primo cittadino di Milano lo ha fatto rivelando un’adesione di fede e una ferita
di Luciano Moia (Avvenire, sabato 28 dicembre 2019)
È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il sindaco Beppe Sala lo ha fatto rivelando un’adesione e una ferita. Un atto di coraggio e di chiarezza. Che non può che essere apprezzato da chi, come noi, da anni è impegnato a divulgare e promuovere la svolta pastorale voluta da papa Francesco all’insegna dell’accoglienza e della misericordia. Nella confessione spirituale che ha affidato, la vigilia di Natale, alle pagine de "la Repubblica", il sindaco di Milano rivela «di non poter fare a meno del confronto con il Mistero» e di partecipare regolarmente alla Messa domenicale, ma di sentirsi «a disagio rispetto al momento della Comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento».
Se una persona seria e preparata come Sala, è costretta ad ammettere un disorientamento spirituale per la sua condizione di divorziato risposato, significa che la strada per trasformare in consapevolezza diffusa le indicazioni uscite dal doppio Sinodo sulla famiglia (2014 e 2015) voluto da papa Francesco e poi dall’esortazione apostolica Amoris laetitia, è ancora lunga.
In quel testo il Papa scrive in modo esplicito che nessuno deve sentirsi condannato per sempre e che la Chiesa è chiamata ad offrire a tutti, compresi i divorziati risposati a cui è dedicato un intero capitolo - l’VIII - la possibilità di vivere pienamente il proprio cammino di fede. In questo cammino si può comprendere anche l’aiuto dei sacramenti (nota 351).
Non è un’opinione. È quanto emerso da un cammino sinodale proseguito per oltre tre anni che il Papa ha sancito con la sua parola. Poi, di fronte alle critiche e ai distinguo, Francesco ha voluto che l’interpretazione da lui considerata più efficace, quella dei vescovi della regione di Buenos Aires, fosse inserita nei cosiddetti Acta apostolica sedis - gli atti ufficiali della Santa Sede - a ribadire che indietro non si torna e che tutte le diocesi del mondo devono incamminarsi lungo quella strada.
Milano non fa eccezione. Inutile far riferimento al rito ambrosiano e alle aperture del cardinale Carlo Maria Martini, che su questi aspetti non ci sono state, in quanto scelte che non si potevano e non si possono pretendere da una singola Chiesa locale.
Francesco, come detto, ha ritenuto necessarie due assemblee mondiali dei vescovi per gettare i semi del cambiamento. Una persona divorziata e risposata che desidera riaccostarsi alla Comunione - spiega il Papa - può chiedere l’aiuto di un sacerdote preparato per avviare un serio esame di coscienza sulle proprie scelte esistenziali.
Sei, in rapidissima sintesi, i punti da non trascurare: quali sforzi sono stati fatti per salvare il precedente matrimonio e ci sono stati tentativi di riconciliazione? La separazione è stata voluta o subita? Che rapporto c’è con il precedente coniuge? Quale comportamento verso i figli? Quali ripercussioni ha avuto la nuova unione sul resto della famiglia? E sulla comunità? Domande spesso laceranti e risposte non codificabili, che possono richiedere anche lunghi tempi di elaborazione e da cui non derivano conseguenze uguali per tutti. Ma anche modalità pastorali efficaci per metterle in pratica.
Trovare e attuare queste buone prassi è faticoso e Sala, con le sue parole, ha dato voce a un disagio e una sofferenza spirituale, ma anche a una speranza, che condivide con tanti altri credenti, divorziati e risposati.
Sala: “La fede mi guida. Ma da divorziato soffro senza la comunione”
La lettera del sindaco di Milano. Riflessione sul rapporto con la religione: “Mi aiuta nell’impegno a favore dei più deboli. Altrimenti la parola di Dio rimane scritta solo nei libri e non nei nostri cuori”
di GIUSEPPE SALA (la Repubblica, 24 dicembre 2019)
Caro direttore, sono un uomo fortunato perché la fede è per me qualcosa di irrinunciabile. È un dono fondamentale che apprezzo ancor di più adesso, dopo i sessant’anni, con tanta vita alle spalle. Ho avuto momenti di stanchezza, ho vissuto dubbi e contraddizioni ma non ho mai smesso di ricercare il Signore. Tra tante vicende della vita sento di non potere fare a meno del confronto con il Mistero e, in definitiva, con me stesso.
Ed è proprio da questa esperienza che conosco i miei limiti. Non mi sono mai sentito così profondo da potermi nutrire solo di fede, di farmi “bastare” l’intima relazione con Dio. Penso spesso che la mia fede non reggerebbe senza la pratica, senza la possibilità di entrare in un luogo di culto, senza la Messa della domenica. Ho bisogno della Messa, di sentire la voce, più o meno ispirata, di un pastore e di misurarmi con Gesù e con il suo Vangelo. Pur nella consapevolezza dell’ineluttabilità del confronto che nasce in me e ritorna in me.
La Messa della domenica è un momento di pace e di verità. Mi fa star bene, mi aiuta a sentire la mia umanità, i miei dolori, la mia essenza. La gratitudine e la precarietà. Sono solo a disagio rispetto al momento della comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento. Amo stare insieme agli altri, condividere quel senso di solitudine e, allo stesso tempo, di comunione che la Messa ti dà. La liturgia ci insegna l’umiltà di essere come (e peggio) degli altri, di condividere la speranza, di far ammenda delle nostre miserie.
Si deve essere popolo anche fuori dalle porte della Chiesa. Tra tante urla, la ricerca della verità e della giustizia è l’impegno che dà senso alla mia fede, quella fede che mi dà l’energia giorno per giorno per rendere concreto il mio cammino sulla via dell’equità, del rispetto e dell’accoglienza soprattutto verso i più deboli e i più abbandonati. Altrimenti la parola di Dio rischia di rimanere scritta solo nei libri e non nei nostri cuori.
Per tutto ciò amo parlare di religione, ma ne aborro l’ostentazione. Sorrido pensando che ne sto scrivendo, ma è come se stessi parlando a me stesso.
USCIRE DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO. Amore (Charitas) o Mammona (Caritas)?! Il "principle of charity", il «principio di carità» ("caritas"!), un assunzione di tipo «imperialistico» (Robert Nozick, "The Nature of Rationality", 1993) *
CAPIRE IL COMPORTAMENTO UMANO
di Antonio Rainone *
Carità o empatia?
Esiste una tematica nella filosofia del linguaggio e nell’epistemologia di W. V. Quine che può apparire per molti versi atipica o sorprendente a chi abbia del celebre filosofo statunitense un’immagine limitata alle sue concezioni fisicalistiche e comportamentistiche, per non dire “scientistiche”, non di rado considerate le più caratteristiche della sua produzione filosofica. Si tratta della tematica dell’empatia, cioè della capacità di avanzare spiegazioni o interpretazioni del comportamento (linguistico e non) di altri soggetti “mettendosi nei loro panni” o “simulandone” la situazione cognitiva o, ancora, assumendone immaginativamente il ruolo.
L’empatia - anche indipendentemente da Quine - ha peraltro suscitato una particolare attenzione nella filosofia della mente degli ultimi trent’anni, dove ha dato vita a un ampio dibattito sul cosiddetto mindreading, incontrandosi inoltre con la teoria neuroscientifica dei cosiddetti neuroni specchio 1. I più recenti lavori sulla filosofia del linguaggio di Quine dedicano una particolare attenzione a tale tematica 2, anche perché Quine, pur accennandovi in Word and Object (1960), ne ha proposto una esplicita teorizzazione solo nella sua produzione più tarda.
A partire dagli anni Settanta, ma più esplicitamente negli anni Novanta, Quine ha considerato il metodo dell’empatia come il metodo fondamentale di traduzione nel celebre Gedankenexperiment della traduzione radicale (ovvero la traduzione di una lingua completamente sconosciuta), ma anche come una capacità naturale ai fini dell’acquisizione del linguaggio e dell’attribuzione di stati mentali intenzionali (ossia percezioni, credenze, desideri ecc.) ad altri. In effetti, l’empatia ha acquisito un rilievo così crescente in Quine che nei suoi due ultimi lavori sistematici, Pursuit of Truth (1992) e From Stimulus to Science (1995), essa appare come un nucleo centrale della sua filosofia del linguaggio e della mente.
È stato del resto lo stesso Quine a sottolineare la rilevanza dell’empatia nella sua filosofia del linguaggio, “retrodatandone”, per così dire, la teorizzazione agli anni Cinquanta. Così Quine si esprime in uno dei suoi ultimi interventi sulla questione:
Il brano qui citato da Quine, ripreso dall’importante The Problem of Meaning in Linguistics (1951b, p. 63) - una notevole anticipazione della problematica della traduzione radicale - non è privo di una certa ambiguità, prestandosi a una duplice lettura. È forse vero che in Word and Object alcune affermazioni di Quine potrebbero essere interpretate come la proposta di un metodo empatico, sostenuto comunque in modo non del tutto esplicito (cfr. Rainone, 1995), ma possono essere avanzati dei dubbi circa la difesa di tale metodo nel saggio del 1951. Se da un lato il concetto di proiezione sembra proporre il metodo dell’empatia nell’attività di traduzione di una lingua completamente sconosciuta da parte di un etnolinguista, dall’altro sembra in effetti riferirsi non tanto al metodo empatico, quanto, piuttosto, a quello che, grazie allo stesso Quine, e in seguito a Donald Davidson (cfr. Davidson, 1984), sarebbe diventato noto come «principio di carità» (principle of charity). Il linguista - asseriva infatti Quine - proietta sé stesso con la sua Weltanschauung nei panni del nativo che usa una lingua sconosciuta, presupponendo (o ipotizzando) così che il suo informatore si conformi ai suoi principi logici e abbia le sue stesse credenze (ritenute vere) riguardo alla realtà (sono questi, grosso modo, i principali tenet del principio di carità, che presuppone una comune natura razionale tra interprete/ traduttore e interpretato/parlante).
In Word and Object Quine avrebbe esplicitamente utilizzato - e teorizzato - il principio di carità riguardo alla traduzione dei connettivi logici e degli enunciati “ovvi”. L’esempio più pertinente, in merito, è rappresentato dal «caso estremo» di qualche nativo che accetti come veri enunciati traducibili nella forma “p e non-p” (per esempio, “piove e non piove”), una forma enunciativa che, violando il principio di non contraddizione, deporrebbe per Quine non a favore dell’irrazionalità dei parlanti - come riteneva Lévy-Bruhl con la sua teoria della «mentalità prelogica» - ma contro la correttezza della traduzione (Quine, 1960, p. 58).
Il medesimo argomento varrebbe inoltre per la traduzione di enunciati ovvi: una risposta negativa da parte del nativo alla domanda (nella lingua nativa) “sta piovendo?” fatta sotto la pioggia costituirebbe una prova di cattiva traduzione nella lingua nativa, non del fatto che il nativo non condivida con il traduttore la credenza in qualcosa di così evidente. In generale, nota Quine in un famoso passo di Word and Object, «quanto più assurde o esotiche sono le credenze attribuite a una persona tanto più sospetti abbiamo il diritto di essere nei confronti delle traduzioni; il mito dei popoli prelogici segna solo il caso estremo» (ivi, p. 68).
Difficilmente, pertanto, la «proiezione» del linguista nei «sandali» del nativo di cui Quine parlava nel saggio del 1951 potrebbe apparire come una forma di metodo empatico, dal momento che essa “imporrebbe” al nativo uno «schema concettuale» (quello del linguista) che, per quanto il linguista può saperne, potrebbe essergli del tutto estraneo. Questo è, in fondo, il problema sottostante a tutto il celebre secondo capitolo di Word and Object 3. Non vi sarebbe alcuna garanzia, infatti, secondo Quine, che i nativi condividano lo stesso schema concettuale (la stessa Weltanschauung) del linguista. Ma il linguista non può, d’altro canto, che fare affidamento sul proprio linguaggio (o schema concettuale), data la scarsa evidenza empirica di cui dispone nel tradurre la lingua sconosciuta. Basarsi sul proprio schema concettuale, proiettandolo sul «linguaggio della giungla», è una necessità pratica, che - asseriva Quine in Word and Object - investirebbe soprattutto l’elaborazione delle «ipotesi analitiche», ovvero le ipotetiche correlazioni tra le emissioni verbali olofrastiche dei nativi e le loro possibili traduzioni mediante cui il linguista deve stabilire quali frammenti di enunciati andranno considerati termini (singolari e generali), quali congiunzioni, quali articoli, quali desinenze per il plurale e quali pronomi, sulla cui base individuare un insieme plausibile di credenze ontologiche ed epistemiche. La scelta delle ipotesi analitiche, infatti, non è altro che un modo di «catapultarsi nel linguaggio della giungla utilizzando i propri modelli linguistici » (ivi, p. 70).
Per ricordare il celebre esempio di Quine, la traduzione del proferimento di “gavagai” con “coniglio” (invece che con alternative bizzarre quali “stadi di coniglio” o “sta conigliando”, per quanto ammissibili sulla base dell’evidenza osservativa) equipara l’emissione verbale nativa a un termine generale del linguaggio del linguista, ma nulla esclude che i nativi possano essere privi di un termine referenziale generale per designare i conigli, anche se il linguista ritiene ciò “caritatevolmente” improbabile.
Utilizzare i modelli del proprio linguaggio per tradurre un linguaggio alieno non equivale quindi ad applicare un metodo empatico di comprensione, trattandosi al massimo di un’ulteriore e più ampia applicazione del principio di carità. L’empatia sembra in realtà qualcosa di diverso dalla carità: a differenza di quest’ultima, l’empatia non presuppone necessariamente una condivisione di significati e stati cognitivi (credenze). Forse l’assunzione di un’analogia di stati cognitivi tra interprete e interpretato - il «ritrovamento dell’io nel tu», secondo la celebre formula di Wilhelm Dilthey (1927, trad. it. p. 293) - può apparire inevitabile ed efficace riguardo alle risposte verbali fenomenologiche direttamente connesse a stimolazioni elementari provenienti da eventi osservativi intersoggettivi del mondo esterno (la pioggia, il colore rosso, il caldo e il freddo ecc.): ci si aspetta infatti che i nativi, che presentano una conformazione neurofisiologica e neuropsicologica analoga alla nostra, non abbiano percezioni di tipo diverso dalle nostre, rispondendo linguisticamente a tali percezioni in modo analogo a come risponderemmo noi; in tal caso l’empatia sembrerebbe indistinguibile dalla carità interpretativa, in quanto fondata sull’assunzione dell’esistenza di meccanismi percettivi comuni ai soggetti coinvolti. Ma difficilmente tale analogia potrebbe essere presupposta allorché si tratti di tradurre il linguaggio o spiegare il comportamento di soggetti appartenenti a una cultura del tutto estranea a quella dell’interprete. In questo caso l’interprete dovrà in qualche modo “entrare”, per così dire, nella “mente” dei soggetti da interpretare per comprendere il loro peculiare punto di vista, le loro credenze sulla realtà e i significati delle loro parole.
In definitiva, la differenza tra carità ed empatia può essere intesa come la differenza tra imporre il proprio punto di vista all’altro e assumere il punto di vista dell’altro. La differenza è particolarmente rilevante nei casi di interpretazione di soggetti appartenenti a “mondi” radicalmente diversi da quello dell’interprete. Se così non fosse, difficilmente gli etnoantropologi avrebbero potuto attribuire credenze animistiche o culti religiosi atipici (come i celebri cargo cults) alle popolazioni studiate (in entrambi i casi si dovrebbe trattare, secondo un’interpretazione caritatevole, di errori di traduzione o interpretazione).
Non dovrebbe costituire motivo di sorpresa, allora, che David K. Lewis, in un saggio dedicato alla problematica davidsoniana dell’«interpretazione radicale», avesse dato una definizione del principio di carità che ingloba, per così dire, anche il procedimento empatico: un soggetto di interpretazione, asseriva Lewis, «dovrebbe credere ciò che crediamo noi, o forse ciò che avremmo creduto noi al suo posto; e dovrebbe desiderare ciò che desideriamo noi, o forse ciò che avremmo desiderato noi al suo posto» (Lewis, 1974, p. 336; corsivi aggiunti). In pratica, secondo questa definizione del principio di carità, si tratterebbe di assumere empaticamente il punto di vista dei soggetti interpretati, tenendo conto delle loro credenze (eventualmente false o strane) e della loro cultura di appartenenza, attribuendo a essi non le credenze e i desideri dell’interprete, ma le credenze e i desideri che l’interprete avrebbe se fosse “nei loro panni”. Si può aggiungere, a tale proposito, che l’empatia rappresenta una sorta di “correttivo” del principio di carità, tenendo conto del punto di vista dell’altro.
Ma forse c’è ancora qualcosa da dire: mentre la carità impone dei vincoli normativi sulla razionalità dei soggetti da interpretare - vincoli a priori basati sui principi logici e sulle norme di razionalità epistemica e pratica dell’interprete, ritenuti universali 4 -, l’empatia sembrerebbe invece un metodo descrittivo ed empirico, essendo subordinata all’acquisizione di un’ampia gamma di informazioni relative alle credenze, alla cultura e alle esperienze passate dei soggetti da interpretare (inutile aggiungere che non c’è accordo su quest’ultimo punto).
4. Si può ricordare, riguardo a questa presunta universalità, che Robert Nozick ha contestato il principio di carità in quanto assunzione di tipo «imperialistico», conferendo tale principio «un peso indebito alla posizione che accade di occupare a noi, alle nostre credenze e alle nostre preferenze» (Nozick, 1993, p. 153). Giustamente, Nozick fa notare che difficilmente questa sarebbe l’assunzione di un antropologo relativamente alle cosiddette società “primitive” (ivi, p. 154).
* Cfr. Antonio Rainone, "Capire il comportamento umano. Azione, razionalità, empatia", Carocci editore, Roma, 2019, pp. 55-59, ripresa parziale.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
’100 Gianni Rodari’, parte la festa per centenario 2020
Mostre, nuove edizioni e Freccia Azzurra introdotta da Marcorè
di Mauretta Capuano *
ROMA. Storie, filastrocche, articoli di approfondimento, materiali scaricabili per insegnanti, poster stampabili, quiz e tanto altro per un anniversario speciale che, proprio per questo, prende il via un anno prima con protagonista assoluta la fantasia. E’ quello per i cent’anni dalla nascita di Gianni Rodari che si festeggiano il 23 ottobre 2020. Ma tra pochi giorni, proprio il 23 ottobre, parte il countdown in vista delle celebrazioni su www.100giannirodari.com, scandito da nuove pubblicazioni e iniziative.
Gli eventi sono nel segno di quello che Rodari - vincitore nel 1970 del Premio Hans Christian Andersen, considerato il Nobel della letteratura per l’infanzia - auspicava: "Tutti gli usi della parola a tutti", non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo. A inaugurare ’100 Gianni Rodari’ (#100giannirodari) sono le Edizioni EL, Einaudi Ragazzi, Emme Edizioni che, in quanto editori unici dell’opera del Maestro della Fantasia - nato a Omegna, sul Lago d’Orta, il 23 ottobre 1920 e morto a Roma il 14 aprile 1980 - hanno messo in cantiere una serie di nuove, preziose edizioni e mostre dei migliori artisti che hanno illustrato i libri dell’autore di ’Grammatica della fantasia’, in allestimento in Italia e all’estero, con partner come la Fiera di Bologna e gli Istituti di cultura italiana nel mondo.
Tra i primi titoli ad arrivare in libreria, il 5 novembre, ’Cento Gianni Rodari - Cento storie e filastrocche - Cento illustratori’ (Einaudi Ragazzi), per i bambini dai 6 anni, che raccoglie cento tavole realizzate da alcuni tra i migliori illustratori al mondo che hanno scelto ognuno la propria favola o filastrocca di Rodari preferita, in omaggio al più grande autore italiano per ragazzi, E poi la strabiliante avventura del trenino più amato d’Italia, ’La Freccia Azzurra’ (Einaudi Ragazzi), con l’inedita introduzione di Neri Marcorè, tra i grandi fan di questa moderna fiaba sull’amicizia e la solidarietà diventata anche un film d’animazione, e le nuove illustrazioni per il centenario di Camilla Pintonato.
Sono da poco arrivati in libreria anche gli albi, dai 4 anni, ’L’omino di niente’ (Emme Edizioni), tratto da ’Favole al telefono’, pubblicato per la prima volta nel 1962, con illustrazioni di Olimpia Zagnoli, e ’Bambini e Bambole’ (Emme Edizioni), la filastrocca tratta da ’Il libro degli errori’, dove troviamo il Rodari politico e poeta, con le nuove illustrazioni di Gaia Stella.
Alla Fiera Internazionale del Libro per Ragazzi di Bologna 2020, che sarà un po’ tutta nel segno di Rodari, la mostra delle "Eccellenze italiane" sarà dedicata ai 21 migliori illustratori italiani di rilevanza internazionale che hanno illustrato Rodari, tra i quali spiccano Bruno Munari, Emanuele Luzzati, fino ai più recenti Manuele Fior, Beatrice Alemagna e le stesse Gaia Stella e Olimpia Zagnoli. La mostra, che ha appena iniziato a fare il giro del mondo grazie agli Istituti di cultura italiana all’estero, ha recentemente fatto tappa a Portland ed entro dicembre sarà a San Francisco.
Nello speciale calendario di ’100 Gianni Rodari’, oltre a questi eventi hanno preso avvio letture, seminari e rappresentazioni teatrali ispirati all’opera del poeta e scrittore che ci ha insegnato che la fantasia rende liberi, su iniziativa di privati, associazioni, enti, festival. Tutti verranno segnalati sul sito che vuol essere un dinamico punto di riferimento. ’100 Gianni Rodari’, spiegano i promotori dell’iniziativa, "è anche un’esortazione: a moltiplicare per 100 la circolazione delle sue storie, a celebrare e diffondere i contenuti rivoluzionari della sua poetica, a formare una nuova generazione di piccoli, appassionati lettori tramite i suoi libri divertenti e profondi: ’Favole al telefono’, ’Filastrocche in cielo e in terra’, ’Fiabe lunghe un sorriso’, ’Il libro degli errori’, ’Le avventure di Cipollino’, ’C’era due volte il Barone Lamberto’".
Insegnante elementare per alcuni anni, Rodari è stato anche giornalista fra l’altro per ’L’Unità’, il ’Pioniere’ e ’Paese Sera’ e ha cominciato a pubblicare i suoi libri per ragazzi a partire dagli anni Cinquanta, ottenendo subito un enorme successo di pubblico e critica con traduzioni in tutto il mondo. Dagli appunti raccolti in una serie di incontri nelle scuole, ha visto la luce, nel 1973, ’Grammatica della fantasia’, diventata immediatamente un punto di riferimento.
* FONTE: ANSA, 09.12.2019
Libri sotto l’albero.
Gianni Rodari e i cento modi di dire il Natale ai più piccoli
Una selezione di titoli da regalare ai bambini, partendo dal grande autore del quale ricorre il centenario della nascita
di Rossana Sisti (Avvenire, sabato 7 dicembre 2019)
Impossibile quest’anno per parlare di strenne non partire dal centenario della nascita di Gianni Rodari. Omaggio d’occasione questo prezioso volume Cento Gianni Rodari (Einaudi Ragazzi, pagine 296, euro 20) che raccoglie cento tavole realizzate da cento tra i migliori illustratori al mondo, ciascuno dei quali ha scelto la propria favola o la filastrocca di Rodari preferita.
Edizione speciale anche per un altro anniversario: i trent’anni dalla prima edizione di Matilde (Salani, pagine 224, euro 15,90), la bambina straordinaria che adora i libri nata dalla fantasia di Roald Dahl, che lui stesso considerava una smaccata propaganda per la lettura. Un successo da 17 milioni di copie in tutto il mondo. Per l’occasione Quentin Blake geniale illustratore di tutti li libri di Dahl ha disegnato una nuova copertina, immaginando Matilde trentenne direttrice nientemeno che della Brithish Library.
Altra delizia per gli occhi, La villa delle meraviglie ( Terre di mezzo, pagine 48, euro 20) un albo scenografico realizzato da Cléa Dieudonné con un formato particolarissimo: due libri appaiati sotto un’unica copertina che si sfogliano contemporaneamente e in cui le pagine si aprono come porte alla vista delle giovane Flora sui saloni delle feste stratosferiche, le cucine, le stanze e le serre della vecchia zia Violetta. Con tanti personaggi da inseguire e dettagli da scoprire.
Dalla penna sempre felice di Michael Morpurgo l’emozionante lettera-testamento di un nonno alla nipotina con cui ha condiviso i lavori dell’orto e del giardino perché si prenda cura come potrà del Pianeta. Nonno Natale ( Jaca Book, pagine 48, euro 14) è uno speciale lungo augurio affinché le generazioni future possano vivere in un mondo più in salute di quello che hanno ricevuto in eredità dai loro padri.
Venato della consueta nostalgia che permea nonostante la vivacità delle tavole la poetica di Jimmy Liao, ecco un altro degli albi strepitosi dell’illustratore taiwanese, La pietra blu (Camelozampa, pagine 148, euro 20), una favola dal sapore ambientalista che racconta il viaggio di una pietra portata via dalla foresta, lavorata e trasformata, mai appagata delle sue forme e sempre tormentata dalla nostalgia di casa. Una metafora dell’appartenenza e delle ferite inferte alla natura. In concomitanza con l’uscita del film trasposizione animata del romanzo di Dino Buzzati, la possibilità anche per i più piccoli di leggere la fiaba della guerra scatenata da Leonzio re degli orsi alla ricerca del figlio Tonio rapito dai cacciatori, ovvero La famosa invasione degli orsi in Sicilia ( Mondadori, pagine 48, euro 16) rivisitata dalle tavole fantastiche di Lorenzo Mattotti.
Tante voci in preghiera da tutto il mondo sono quelle che Silvia Vecchini ha raccolto Nel silenzio azzurro (San Paolo, pagine 120; euro 18), un libro per ragazzi che anche gli adulti apprezzeranno. Voci che chiedono protezione e nutrimento, perdono, esprimono meraviglia, ringraziamento e gratitudine, invocano pace e unità. Tutte con l’uguale tensione di un’umanità in ricerca che vive le stesse speranze sotto lo stesso cielo.
Tra i libri infine da mettere sotto l’albero per i più piccoli non può mancare la storia vera del Natale a Betlemme. Attraverso le tenere illustrazioni di Elena Selivanova Era la notte di Natale (Paoline, pagine 36, euro 12) accompagna i lettori davanti alla stalla dove due sposi arrivati da lontano adagiano il Bimbo destinato a portare speranza nel mondo. E dove, guidati dalla grande stella si radunano pastori, gente comune, re e sapienti.
VERSO "BARI 2020", "NICEA 2025": MESSAGGIO EVANGELICO, FILOLOGIA, ED ECUMENISMO. Quale "carità" (Kapitas o Xapitas, caritas o charitas)?! *
Nicola. Protettore del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente
di Matteo Liut (Avvenire, giovedì 6 dicembre 2018)
La carità è il "miracolo" più grande che nasce dalla fede: prendersi cura degli ultimi, del prossimo in genere, oggi è il messaggio più profetico e rivoluzionario che ci lascia san Nicola. Nato tra il 250 e il 260 a Patara, nella Licia, divenne vescovo di Mira in un tempo di persecuzione e dovette affrontare anche la prigionia: si salvò grazie alla libertà di culto concessa dall’Editto di Costantino nel 313.
Difensore dell’ortodossia, forse partecipò al Concilio di Nicea nel 325. La tradizione gli attribuisce un’attenzione particolare nei confronti dei bisognosi, come le due giovani ragazze che poterono sposarsi solo grazie al dono da parte del vescovo di una dote. Morto attorno all’anno 335, nel 1087 le sue reliquie arrivarono a Bari, dove è venerato come patrono e considerato un protettore anche del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente.
Altri santi. Santa Asella di Roma, vergine (IV sec.); san Pietro Pascasio, vescovo e martire (1227-1300).
Letture. Is 26,1-6; Sal 117; Mt 7,21.24-27.
Ambrosiano. Ger 7,1-11; Sal 106; Zc 8,10-17; Mt 16,1-12.
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Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Commenti a Presicce, il suo patrono Sant’Andrea e la tela del suo martirio, opera del Catalano
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025)
ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI: INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL.
Federico La Sala
Udienza.
Papa Francesco: non c’è evangelizzazione senza Spirito Santo, senza gioia
L’invito del Papa: l’evangelizzazione è lasciarti spingere dallo Spirito Santo, che sia lui a spingerti all’annuncio: con la testimonianza, anche con il martirio, e con la Parola *
"Lo Spirito Santo è il protagonista dell’evangelizzazione". Lo ha ribadito papa Francesco nell’udienza generale, dedicata anche oggi alla catechesi sul libro degli Atti degli Apostoli.
"’Padre, io vado a evangelizzare’ - ha esemplificato il Pontefice a braccio -. ’Sì, cosa fai?’, ’Ah, io annuncio il Vangelo e dico chi è Gesù, cerco di convincere la gente che Gesù è Dio’. ’Caro, questa non è evangelizzazione, se non c’è lo Spirito Santo non c’è evangelizzazione. Questo può essere proselitismo, può essere pubblicità, ma l’evangelizzazione è lasciarti spingere dallo Spirito Santo, che sia lui a spingerti all’annuncio: all’annuncio con la testimonianza, anche con il martirio, e con la Parola".
"Ho detto che protagonista dell’evangelizzazione è lo Spirito Santo - ha quindi ribadito, sempre a braccio -. E qual è il segno che tu, cristiano o cristiana, sei un evangelizzatore? La gioia, anche nel martirio". "Che lo Spirito - ha concluso Francesco - faccia di tutti noi battezzati uomini e donne che annunciano il Vangelo per attirare gli altri non a sé ma a Cristo, che sanno fare spazio all’azione di Dio, che sanno rendere gli altri liberi e responsabili dinanzi al Signore".
"Non basta leggere la Scrittura, occorre comprenderne il senso, trovare il ’succo’ andando oltre la ’scorza’, attingere lo Spirito che anima la lettera".
In uno dei passaggi della catechesi odierna "Come disse Papa Benedetto all’inizio del Sinodo sulla Parola di Dio - ha continuato -, ’l’esegesi, la vera lettura della Sacra Scrittura, non è solamente un fenomeno letterario... È il movimento della mia esistenza’. Entrare nella Parola di Dio è essere disposti a uscire dai propri limiti per incontrare Dio e conformarsi a Cristo che è la Parola vivente del Padre", ha aggiunto Francesco.
* Avvenire, mercoledì 2 ottobre 2019
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SINODO DEI VESCOVI 2008. L’ANNO DELLA PAROLA DI DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?! Fatto sta che la prima enciclica di Papa Benedetto XVI (Deus caritas est, 2006) è per Mammona.
LA GRAZIA DEL DIO DI GESU’ E’ "BENE COMUNE" DELL’INTERA UMANITA’, MA IL VATICANO LA GESTISCE COME SE FOSSE UNA SUA PROPRIETA’.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Scheda editoriale (Carocci editore)
Anselm Schubert
Pasto divino
Storia culinaria dell’eucaristia
«Prendete e mangiate, questo è il mio corpo [...]. Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue». Con queste parole Gesù istituisce la comunione. Oggi, però, sappiamo che l’eucaristia cristiana nasce dagli antichi simposi. Si è discusso a lungo su cosa si mangiasse e si bevesse nella Chiesa delle origini: formaggio, pesce o verdure? Latte, succhi o miele? Oppure soltanto pane? Lievitato o azzimo? Vino rosso o bianco? Solo per l’officiante o anche per i fedeli? In epoca moderna i dubbi non hanno fatto che aumentare: non sarebbe più igienico usare un calice personale? Il vino può essere anche analcolico e la farina senza glutine? E cosa si deve usare nei paesi in cui non si trovano né grano né vino? Vanno bene anche Coca-Cola, noci di cocco e succhi di frutta? Anselm Schubert racconta la storia dell’eucaristia dal primo Cristianesimo a oggi concentrandosi perla prima volta sugli alimenti utilizzati. Ne risulta una brillante ricostruzione che fa vedere con altri occhi il Cristianesimo e il suo rito più solenne.
Saggi
Una storia dell’eucaristia
di Maurizio Gentilini (Almanacco della Scienza, 08. 05.2019)
Le dispute attorno alla forma e ai contenuti della formula liturgica di consacrazione dell’eucaristia, che si richiama ai gesti compiuti da Gesù nell’ultima cena tramandati dal racconto evangelico, hanno attraversato la storia delle chiese cristiane fin dai primi secoli. Poiché “tradurre è sempre tradire”, anche in anni recenti i confronti più accesi tra liturgisti e biblisti, tra teologi e filologi, insistono sul senso da attribuire al passo - dedotto dalla Vulgata - “Pro vobis et pro multis effundetur”, confrontato con l’“uper pollon” del più antico testo greco dei Vangeli. Il sangue di Cristo, “versato per voi e per tutti” nel canone liturgico italiano, è stato versato solo “per molti” (secondo il testo latino) o “per la moltitudine” (secondo il senso dell’espressione greca)?
Al di là delle dispute teologiche, che storia hanno avuto il pane e il vino per diventare forma simbolica e ufficialmente riconosciuta dalla tradizione canonica e rappresentare il corpo e il sangue di Cristo? Lo storico della Chiesa Anselm Schubert, docente all’Università di Erlangen-Norimberga, nel suo libro ’Pasto divino’ racconta la storia dell’eucaristia dal primo Cristianesimo a oggi, concentrandosi per la prima volta sugli alimenti utilizzati. Una ricostruzione laica, approfondita e brillante, che presenta da un punto di vista inedito il rito più solenne del cattolicesimo e di altre confessioni cristiane.
L’autore passa in rassegna gli usi liturgici di molte comunità dei primissimi secoli (anche quelle bollate di eresia) e i riferimenti nei testi canonici e apocrifi, evidenziando come quella eucaristica fosse una cena nel senso letterale della parola, cioè un ritrovo di persone che mangiavano assieme, consumando le specie consacrate al termine del pasto, dopo altre portate. Dal II al IV secolo, dalla Grecia, alla Turchia all’Africa settentrionale, si può rilevare la consuetudine di consacrare di pane e olio, ma anche formaggio, sale, pesce e verdure. Nel 397 il Concilio di Cartagine vietò espressamente ai sacerdoti di consacrare latte e miele finché, di lì a poco, si sarebbe trovata unità nella Chiesa sull’uso del pane e del vino. Nei secoli e millenni successivi la cultura eucaristica e la disciplina liturgica si sarebbero andate consolidando, attraverso però controversie teologiche, scismi e divisioni confessionali. La modernità, la colonizzazione, la presenza missionaria in tutto il mondo e le necessità di inculturazione della fede fecero infatti incontrare gli usi liturgici con le materie prime e i cibi locali, spesso molto diversi dal frumento e dall’uva.
’Pasto divino’, attraverso la storia degli ingredienti della comunione, permette un viaggio nella storia della cultura e dell’alimentazione dell’ecumene (o globale, come diremmo oggi), che sembra sempre più orientata a convergere verso il punto di partenza.
Maurizio Gentilini
titolo: Pasto divino
categoria: Saggi
autore/i: Schubert Anselm
editore: Carocci
pagine: 228
prezzo: € 22.00
CHARIS in Vaticano. Il nostro sogno è fare comunione. Ce lo chiede il Papa
I responsabili del Rinnovamento Carismatico Cattolico si incontrano in Vaticano da oggi fino a sabato 8 giugno per pregare insieme in attesa dell’apertura ufficiale di Charis
di Emanuela Campanile (Vatican News, 06 giugno 2019)
Città del Vaticano Si sono dati appuntamento in Vaticano - Aula Paolo VI - e arrivano da tutto il mondo. Sono più di 550 e sono i responsabili del Rinnovamento Carismatico Cattolico. Vogliono pregare insieme e mettersi all’ascolto dello Spirito Santo in attesa dell’inizio ufficiale di Charis previsto proprio domenica 9 giugno: solennità di Pentecoste. Voluto espressamente da Papa Francesco, Charis (Catholic Charismatic Renewal International Service) segna una nuova tappa per il Rinnovamento Carismatico Cattolico come corrente di grazia nel cuore della Chiesa.
Il Charis
Si tratta di un servizio di comunione tra tutte le realtà del Rinnovamento Carismatico Cattolico che, nel mondo, conta attualmente più di 120 milioni di cattolici che vivono l’esperienza del battesimo nello Spirito in gruppi di preghiera, comunità, scuole di evangelizzazione, reti di comunicazioni e ministeri vari. Quando nella solennità di Pentecoste prenderà ufficialmente il via, l’Iccrs e il Catholic Fraternity cesseranno di esistere.
Rinnovamento come corrente di grazia
"Il nostro sogno è fare ciò che il Papa ci ha chiesto", spiega nell’intervista Jean-Luc Moens, il professore belga nominato moderatore di Charis. "Lui parla del Rinnovamento carismatico come di una corrente di grazia nella Chiesa, riprendendo l’espressione dal cardinale Suenens, il quale voleva sottolineare che il Rinnovamento Carismatico non è un movimento, perché - prosegue il professore - in un movimento c’è un’appartenenza; le persone sono o dentro o fuori. Dunque, c’è una separazione. Una corrente di grazia è un’altra cosa. Il cardinale faceva il paragone con la corrente del Golfo nell’Atlantico che riscalda tutto l’oceano e poi sparisce. Allora, forse posso dire qualcosa di abbastanza strano, ma - conclude - il nostro sogno è quello di sparire quando tutta la Chiesa avrà scoperto il battesimo nello Spirito Santo".
Fontana di Trevi, il Campidoglio toglie le monetine alla Caritas. "Serviranno a manutenzione vasca"
Diventa operativa da aprile, una decisione assunta dal Comune già lo scorso anno e congelata per le proteste. In ballo un milione e mezzo di euro all’anno
di ROSALIA PALERMI (la Repubblica, 12 gennaio 2019)
I rapporti sono tesi, non è un mistero. Più volte la Curia romana ha punzecchiato l’amministrazione, da ultimo lo ha fatto il Vescovo di Roma Sud, Paolo Lojudice, chiamando alle proprie responsabilità la giunta capitolina in materia di decoro. Sullo sfondo una partita che oltreTevere ha creato parecchi malumori e non solo a livello di vertice.
Riguarda le monetine che i turisti lanciano a Fontana di Trevi. Raccolte da Acea, l’azienda che si occupa della manutenzione della Fontana, finivano nelle mani dei volontari Caritas che le destinavano a scopi sociali. Finivano perché tra qualche mese non sarà più così.
Lo prevede una decisione assunta già l’anno scorso dall’amministrazione capitolina guidata da Virginia Raggi e congelata tra le proteste per altri 12 mesi. Arrivati alla fine dell’anno, i burocrati del Campidoglio hanno notificato alla Caritas che il versamento cesserà dal primo di aprile. In sostanza scadrà la proroga della proroga e oltre non si andrà. Raggi conferma la volontà di incassare le monetine e redistribuirle per finanziare opere di manutenzione, sobbarcandosi anche il costo del conteggio finora svolto gratis dai volontari Caritas.
La partita non è di poco conto: ballano un milione e mezzo di euro, stando al bilancio 2018. Una goccia nel mare del disastrato bilancio capitolino che tuttavia saluta il gettito delle monetine come una provvidenziale boccata d’ossigeno. Una mannaia per la Caritas che stima gli venga a cadere il 15 per cento del proprio bilancio, fatto poi di soldi dell’8 per mille e di decisivi finanziamenti pubblici e solo in minima parte privati. Soldi che finiscono nel circuito dell’assistenza: dall’accoglienza dei senzatetto ai pasti e a iniziative benefiche che sopperiscono ai vuoti del welfare.
Insomma, dove non c’è la mano pubblica a garantire un tetto ai clochard e pasti caldi a chi vive per strada c’è la rete della Caritas. E lo si è visto nel pieno dell’emergenza freddo nella capitale con il circuito del volontariato a fronteggiare una situazione che la rete pubblica dell’assessorato al sociale non è stata in grado di affrontare, tra inadeguatezza, pasticci burocratici e una attività organizzativa partita decisamente in ritardo.
Per questa ragione il malumore crescente nei confronti delle scelte dell’amministrazione è esploso anche su Avvenire, il quotidiano della conferenza episcopale, che senza mezzi termini ha riportato in prima pagina quella che era una felpata polemica affidata al fioretto della diplomazia con un eloquente “Le monetine tolte ai poveri”.
Gli storici, questi mentitori. Torna il Luciano di Savinio
di Andrea Santurbano (Alfabeta-2, 02.12.2018)
La verità greca ha tremato un tempo con l’affermazione «io mento», ricorda Michel Foucault nel Pensiero del fuori, riferendosi al noto paradosso del mentitore di Epimenide, secondo cui tutti i cretesi sarebbero bugiardi, compreso il cretese che, nel dir questo, pretende di affermare il vero. Luciano di Samosata, che della civiltà greca ed ellenistica poteva ormai osservare l’epilogo dall’alto del II sec. d. C., può aggiustare il tiro: «giacché non ho a contar niente di vero [...], mi sono rivolto a una bugia, che è molto più ragionevole delle altre, ché almeno dirò questa sola verità, che io dirò la bugia». Quanto mai opportuno, dunque, appare oggi, in epoca di fake news, recuperare un classico impolverato dal tempo, di Luciano appunto, Una storia vera e altre storie scelte da Alberto Savinio, libro apparso per la prima volta nel 1944, da Bompiani, e ora riproposto da Adelphi. E già, non poteva essere che Savinio l’artefice di tale riscoperta, in anni, tra l’altro, che lo vedevano impegnato nella stesura di articoli, poi riuniti in Nuova enciclopedia (opera anch’essa riproposta da Adelphi, lo scorso anno), in cui non manca di esprimersi al riguardo con la sua consueta, funambolica arguzia: «Il difetto maggiore e la profonda immoralità dei regimi assolutistici come di ogni condizione assolutistica, è il principio della ‘verità unica’. Mentre si sa che la verità umana, la verità nostra, la verità ‘vera’ è fatta di vero e di falso: più di falso che di vero».
In realtà, è difficile distinguere a chi appartenga la paternità del volume: se Kafka, come vuole Borges, altro maestro di paradossi, avrebbe prodotto retroattivamente lo scrivano Bartleby, non è fuori luogo affermare che Savinio abbia prodotto retroattivamente questi scritti di Luciano. Ci si trova di fronte, infatti, a una lettura nella lettura: si legge Luciano ma si legge Savinio, che nell’introduzione lascia che sia lo stesso Luciano a raccontare la sua storia - questa sì, presumibilmente vera - alla maniera di un’«intervista impossibile». E non bisogna dimenticare la modernissima traduzione di Luigi Settembrini, realizzata durante la prigionia sull’isola di Santo Stefano (1851-59) per cospirazione contro il regime borbonico (anni in cui - o forse più tardi, ma il discorso non cambia molto - il serio letterato scrisse, probabilmente suggestionato da questa stessa traduzione, la breve favola omoerotica dei Neoplatonici, rinvenuta solo nel 1937, che Croce avrebbe considerato una «caduta» del maestro e di cui invece Giorgio Manganelli accompagnerà con un memorabile scritto la prima edizione nel 1977). Savinio, nella nuova edizione, si premura appena di «rinettare» questa versione di pochissimi arcaismi, considerandola bella, fedele e minuziosa.
Ma si diceva, insomma, di una polifonia di fondo; di un dialogo a tre, neanche troppo tenero, spesso spassoso, in cui Settembrini fa più compuntamente da esegeta al testo, mentre Savinio, teppisticamente, usa le note da contrappunto, per vivaci commenti o per libere divagazioni. Ne è esempio il dialogo Il Menippo o la negromanzia, in cui Savinio apre le danze chiamando in causa Settembrini: «Nota, o lettore, il modo “filologico” col quale è usato qui l’aggettivo indifferente: è a simili finezze che si riconosce l’eccellenza di questa versione dal greco»; Luciano, da parte sua, si lancia in uno dei suoi contundenti attacchi: «manda alla malora i filosofi e i loro sillogismi, ché son tutte sciocchezze; e attendi solo a questo, usare bene del presente, passare ridendo sopra molte cose, non dare importanza a nulla»; al che segue la pungente reazione di Savinio: «Peccato che questo dialogo così spiritoso finisca in una così povera morale. Questo purtroppo è il lato debole degli spiriti liberi: Luciano, Voltaire... Tra libertà di spirito e sciocchezza il passo è breve: troppo spesso gli spiriti liberi fanno il passo oltre il limite»; ma subito dopo Settembrini riporta la calma con una precisazione da par suo: «Livadia, città di Beozia, dov’era il tempio, anzi l’antro di Trofonio».
Proviamo per un attimo anche noi, allora, a riportare tutto sotto controllo. Una storia vera e altre storie si divide in due sezioni: «Dialoghi e saggi» e «Una storia vera e altre opere». Dei dialoghi soprattutto si sa quanto abbiano, e dichiaratamente, influenzato le Operette morali di Leopardi. Ma è tutta la silloge a rappresentare uno scrigno prezioso, a partire dal meraviglioso «trattatello storico-didascalico» Della dea Siria e dalla stessa Una storia vera, viaggio fintamente autobiografico che rivisita tradizione mitologica, storica e odeporica, tra battaglie interplanetarie fra Lunari e Solari (una sorta di Guerre Stellari ante litteram) e mesi vissuti nella pancia di una balena (Collodi, come Savinio suggerisce, doveva aver letto questa storia!). E poi l’incontro vis-à-vis, durante le peripezie marittime, con filosofi e personaggi di quel grande universo della cultura greca, fatta oggetto di ironia, ancorché venata di affetto, perché l’ironia, come puntualizza Savinio nell’introduzione, «- e qui io parlo anche per me e lo dico alle orecchie fini - [...] è una forma di amore indiretto: è l’amore più pudico, l’amore più geloso».
Quel che non smette di sorprendere in un autore come Luciano di Samosata, ancora oggi, sono tuttavia i tanti spunti, quella sorte di immagini dialettiche che continueranno a brillare nei secoli a venire in materia di critica letteraria o di rapporti tra storia e letteratura. Per esempio, in una Storia vera è già chiamata in causa l’«intenzionalità» dell’autore. A domanda specifica, «E perché cominciasti da quel Cantami l’ira?», Omero, fattosi personaggio e già satireggiato in altro passo, risponde: «Perché così mi venne in capo: credi tu che ci pensavo?». Verrebbe addirittura da chiedersi: ma chi scrive, Luciano o Savinio? O ancora, sul finale, giunge la stoccata agli storici, relegati in una specie di girone infernale: «le pene più gravi sono date ai bugiardi e specialmente agli storici che non scrivono la verità, come Ctesia di Cnido, Erodoto, e altri molti».
Ancorché in forma di satira, dunque, è già messo sotto accusa lo statuto di verità della storia, prima di Marc Bloch, e prima dei vari Michel de Certeau, Roger Chartier e Carlo Ginzburg che finiscono col fare i conti con un dilemma evidente: l’esigenza di organizzarsi secondo un ordine diegetico, che muove evidentemente da categorie retoriche e narrative proprie della letteratura, la quale però non è obbligata a stringere compromessi con un’esigenza di veridicità, non farebbe anche della storia un «racconto»? Jacques Rancière non esita addirittura a reclamare un’esigenza opposta, quando afferma che «il reale deve essere reso finzione per poter essere pensato».
Anche in questo caso risulta complice, dunque, il dialogo Luciano-Savinio: provvedendo alla demolizione di rigide frontiere narrative, compreso quell’autobiografismo impastato anch’esso dall’ibridismo dei generi scritturali, che nel secondo (sarà bene ricordare, nato e cresciuto in Grecia) sfocerà in un continuo gioco di rimandi e dissimulazioni, di ricordi e libere associazioni (ri)creative: da Tragedia dell’infanzia a Dico a te, Clio, da Narrate, uomini, la vostra storia a Infanzia di Nivasio Dolcemare.
Discorso a parte meritano infine le illustrazioni di Savinio che impreziosiscono il volume. Quell’animismo metamorfico, suo marchio di fabbrica, che insuffla vita agli oggetti e rapprende gli esseri umani in forme materiche, animali o vegetali, trova nelle mirabolanti narrazioni di Luciano un terreno fertilissimo d’ispirazione. Insomma, nel rileggere questo libro si entra nel vivo di quell’idea di anacronismo suggerita da Georges Didi-Huberman: un palpitare, un metodo, un montaggio vivo e fecondo di tempi diversi, e non quel tremendo peccato inviso agli storici. Gli storici, già, ancora loro.
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3 risposte a “Gli storici, questi mentitori. Torna il Luciano di Savinio”:
CHE BELLA STORIA, QUELLA DEL PAESE DELLA GENTE DALLA DOPPIA TESTA E DALLA LINGUA BIFORCUTA.... *
SE “La verità greca ha tremato un tempo con l’affermazione «io mento»”, COME “ricorda Michel Foucault nel *Pensiero del fuori*, riferendosi al noto paradosso del mentitore di Epimenide, secondo cui tutti i cretesi sarebbero bugiardi, compreso il cretese che, nel dir questo, pretende di affermare il vero”, OGGI NON SOLO “la verità greca”, MA la stessa verità planetaria trema e sollecita a NARRARE ancora e sempre UNA STORIA VERA ....
EPIMENIDE (con questo nome è rimasto nella storia, come persona degna di essere ricordata per la sopravvivenza della stessa isola), indignato contro i suoi stessi concittadini (che evidentemente lo accusavano di chissà quali malefatte), fece il primo passo nella terra della post-verità, e gridò infuriato: “Tutti i cretesi mentono”! Se molti risero, altrettanto molti lo applaudirono.
Qualche anno dopo, sempre in quell’isola, ci furono le elezioni: tra i partiti (quello che la storia non ci ha tramandato) comparve uno strano partito, con il nome “Forza Creta”, e il leader era proprio il vecchio EPIMENIDE!
CONQUISTATO IL POTERE legalmente, IL SUO GRIDO AI pochi CRETESI CHE AVEVANO RISO DELLA SUA “BATTUTA” FU QUASI SIMILE A QUELLO DI BRENNO CONTRO I ROMANI SORPRESI NEL SONNO, ANZI, NEL SONNAMBULISMO: “GUAI AI VINTI”!
SOLO CHE A ROMA CI FURONO LE OCHE CHE SVEGLIARONO UN POCO tutti e tutte E I GALLI FURONO CACCIATI, MA A CRETA ALLA FINE NESSUNO PIU’ OSO’ RIDERE E ... “TUTTI I CRETESI MENTONO” ANCORA!!! A MEMORIA (E A VERGOGNA) ETERNA.
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Sul tema, mi sia consentito, si cfr.:
L’APOLOGIA DEL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO E LA FILOSOFIA ITALIANA
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE..
P.S. - COME LA FANNO “TRAGICA”, questi STORICI. Ecco “come si deve scrivere la storia...” *
“Così dunque deve essere per me lo storico: impavido, incorruttibile, libero, amante della franchezza e della verità, e come dice IL COMICO, capace di chiamare i fichi, fichi, e la barca, barca, di non risparmiare o concedere nulla per odio o per amicizia; non deve avere riguardo, pietà, vergogna, o paura; sia un giudice imparziale, benevolo verso tutti ma non al punto di concedere a nessuno più di quel che gli è dovuto; nelle proprie opere deve essere straniero, senza patria, indipendente da ogni potere, uno che non calcola che cosa ne penserà l’uno o l’altro ma che racconta i fatti così come sono accaduti. [...]”
* Luciano di Samosata, “Come si deve scrivere la storia”.
N.B.! - STORIA, STORIOGRAFIA, E “COMICITÀ”....
Per non sottovalutare l’importanza della indicazione di Luciano sul “come si deve scrivere la storia”, e non pensare che Benedetto Croce (“Perché non possiamo non dirci «cristiani»”, 20 nov. 1942), come Mario Perniola (“Perché non posso non dirmi «cattolico»”: “Del sentire cattolico. la forma culturale di una religione universale”, 2001), si sia “rincristianito per dispetto” ( don Giuseppe De Luca al Ministro dell’Educazione Nazionale Bottai, per un commento su “Critica Fascista” del 1° genn. 1943, al testo di Croce), è bene “guardare la luna” e non “il dito”, e ricordare che
Pur se sia Croce sia Perniola, in cammino sulla strada di Luciano (non di Heidegger), siano rimasti intrappolati nell’orizzonte degli storici “mentitori”, a loro del lavoro di Dante come di Kant e Nietzsche e Freud molto è sfuggito, non per questo bisogna arrendersi alla “tragedia” e a vivere prima della “commedia” - in una “storia” senza “comicità”, nella “preistoria”!
“Dico a Te, Clio”. Narrate, uomini e donne, la vostra storia - comicamente...
SUL TEMA, mi sia lecito, cfr. CROCE “CRISTIANO” , VICO “ATEO”, E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA;
“PERVERSIONI” di Sergio Benvenuto. UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LA’ DELL’EDIPO.
Federico La Sala
«Xenofobia» è parola sbagliata: è «misoxenia».
Quando dire paura non fa vedere l’odio
di Ferdinando Camon (Avvenire, sabato 1 dicembre 2018)
«Ennesimo femminicidio: trovata uccisa con un colpo di pistola alla testa, arrestato l’ex marito»: ma se arrestano l’ex marito, perché lo si chiama ’femminicidio’ e non ’uxoricidio’? L’ex marito l’ammazza in quanto genericamente donna, o in quanto specificamente sua moglie o ex moglie?
Ho scritto su questo giornale che molti casi di femminicidio, quasi tutti, sono in realtà uxoricidi: si punisce con la morte una donna non perché è donna, ma perché è o è stata moglie, compagna, madre dei nostri figli. Non si punisce la sua vita, ma la spartizione della sua vita con la nostra. È troppo usato il termine ’femminicidio’, e troppo poco il termine ’uxoricidio’. Ma molto spesso il termine ’femminicidio’ è sviante.
Com’è sviante il termine ’xenofobia’. Etimologicamente, vuol dire ’paura dello straniero’. Ma molto spesso non è paura, è odio. Non è difesa, è aggressione. L’ultimo caso in cui i giornali usano (a sproposito) il termine xenofobia è di questi giorni, e viene dal profondo nord dell’Inghilterra. Accade in ambito scolastico, tra ragazzi di 15-16 anni. Nativi inglesi picchiano e umiliano un coetaneo siriano. E poi mettono in rete un filmato. I telegiornali riportano qualche sequenza: l’inglese sbarra la strada al compagno siriano, allunga una mano sulla sua faccia, il ragazzo siriano cerca di tirar dritto, tiene gli occhi bassi, l’inglese lo scaraventa a terra, quello è menomato, ha un braccio rotto e ingessato, l’altro gli rovescia una bottiglia d’acqua in faccia, dice ’t’annego’, il siriano non vede l’ora di tirarsi su e sgattaiolare via. Certo, in questa scena c’è paura dello straniero, ma ad aver paura è la vittima, che subisce le angherie per più giorni, senza dire niente in casa. I giornali parlano di bullismo più razzismo. È possibile, ma anche nei casi di razzismo non è corretto parlare di xenofobia, anche quello non è paura, è odio.
L’odio vuole più cose: far male e far scappare. Infatti qui il ragazzo siriano non voleva più tornare a scuola, la sua sì che è paura, ed essendo paura di tutti diventa paura dell’ambiente. Il siriano confessa: «Ormai avevo paura anche ad entrare nei negozi». La paura costante scende nell’inconscio, avvelena i sogni: «Mi svegliavo di notte e piangevo». La paura ininterrotta rende impossibile vivere, fa preferire la morte alla vita. Sembra una scelta irrazionale, e lo è, ma nasce da un calcolo del vantaggio, sceglie un male ritenuto minore (morire) per evitare un male ritenuto maggiore (essere umiliato). Qui è la sorella del ragazzo siriano a cercare la morte, tagliandosi le vene con una scheggia di vetro, che come si sa è più affilata di un coltello. I giornali che ho sott’occhio non mi autorizzano a tirar questa conclusione, ma evidentemente qui c’è la persecuzione non di un ragazzo o due ragazzi e non di una famiglia, ma di una (non trovo altro termine) razza. C’è odio.
Le donne parlano spesso, giustamente, di ’misogenia’ per indicare l’atteggiamento degli uomini che disprezzano, offendono e umiliano le donne: e quel termine non significa ’paura delle donne’, ma ’odio per le donne’.
Così il concetto ’paura dello straniero’, che ha generato il termine ’xenofobia’, andrebbe sostituito dal concetto di ’odio per lo straniero’. Sparirebbe l’idea giustificatoria di autodifesa che è insita nella paura: hanno paura, perciò si difendono. Ma qui in Inghilterra il persecutore si nascondeva davanti alla scuola del perseguitato, lo aspettava, lo aggrediva d’improvviso. Quello che lo spinge è proprio l’odio per lo straniero.
La parola ’misoxenia’ non è in uso, peccato, perché sarebbe utile.
La rabbia e l’orgoglio dei filologi. A proposito di "La filologia al servizio delle nazioni" di Stefano Rapisarda
di Claudio Giunta ("Le parole e le cose", 24.10.2018) *
Chissà se i medici dubitano della medicina, gli ingegneri dell’ingegneria, i parrucchieri della parruccheria con lo stesso zelo con cui gli umanisti di oggi dubitano dell’umanesimo? Probabilmente no: ci saranno sempre tumori da curare, ponti da costruire, capelli da tagliare, sarà sempre abbastanza facile, per loro, rispondere alla domanda «Sì, ma a che cosa servite?». Le discipline umanistiche sono sempre state un po’ meno necessarie, ma c’è la diffusa impressione che il loro credito sia andato diminuendo in fretta negli ultimi decenni, per l’indebolirsi delle culture nazionali, l’impoverimento degli Stati che pagano i professori di ‘umanità’, il prevalere del sapere tecnico-scientifico, internet e le solite altre cose. In questo quadro non roseo, in La filologia al servizio delle nazioni Stefano Rapisarda riflette sulla sorte - anch’essa parrebbe non rosea - di una delle discipline in cui si articola lo studio della letteratura: la filologia, appunto, e la filologia romanza in particolare.
Il libro ha tre parti. Nella prima, Rapisarda constata la crisi degli studi filologici: crisi che non dipende dalla diminuita qualità dei prodotti (anzi, soprattutto in Italia i prodotti di questi studi continuano ad essere eccellenti, e nel novero vanno inclusi quelli dello stesso Rapisarda, che è un medievista insigne) bensì da una sorta di fine del mandato sociale che i filologi un tempo detenevano, non solo nel campo della cultura ma anche in quello, più ristretto, dello studio universitario della letteratura: delle ricerche e dei pareri dei filologi non ci si cura più granché.
Nella seconda parte Rapisarda racconta la storia della filologia romanza negli ultimi due secoli isolando una serie di ‘paradigmi’, cioè di modelli che hanno informato lo studio delle letterature neolatine del Medioevo: un paradigma nazionalistico sviluppatosi soprattutto in Germania e in Francia, vigorosissimo per tutto l’Ottocento e il primo Novecento; un paradigma Curtius, che mira invece al superamento delle moderne frontiere nazionali e cerca l’unità culturale là dove si erano cercati soprattutto i documenti delle distinte identità nazionali; un paradigma della ‘semiotica filologica’, che prova a far dialogare la filologia con lo strutturalismo e le altre scienze umane e sociali (non credo di forzare il pensiero dell’autore se dico che i frutti di questo dialogo gli paiono, come paiono anche a me, praticamente nulli); un paradigma della ‘filologia materiale’, che in vario modo valorizza la materialità dei testimoni manoscritti.
Nella terza parte Rapisarda si domanda «Che fare?», e risponde - più o meno - che la disciplina va reimpostata in chiave davvero comparatistica come Weltphilologie, allargando lo sguardo alle linee di confine, in particolare studiando meglio di come si sia fatto sinora i rapporti tra Europa continentale e Mediterraneo (filologia euro-mediterranea) e i rapporti tra Europa e Oriente (filologia euro-asiatica). Orizzonti tanto vasti non incoraggeranno il dilettantismo? E di fronte alla globalizzazione imposta dall’economia e dai media la missione delle discipline umanistiche, e della filologia in ispecie, non dovrebbe essere proprio quella di distinguere con pazienza, badando alle differenze anziché alle analogie superficiali? Rapisarda oscilla. Da un lato, è un filologo troppo esperto per non vedere che questa neo-Weltphilologie produce spesso studi fragili, velleitari, ideologici in senso deteriore («Atene nera» di Bernal? Davvero?); dall’altro, prova una certa nostalgia per l’Età dell’Impegno, e pur prendendo le distanze dagli eccessi comparatistici, elogia il fatto che anziché di minuzie che non interessano nessuno si parli di cose: «Sotto il profilo probatorio [European Modernity and the Arab Mediterranean di Karla Mallette] è un libro discutibile, e infatti se ne discute e io stesso ne ho discusso. Ma almeno c’è vita, passione, entusiasmo, ardimento intellettuale. Ciò che da molto manca all’algido tecnicismo della filologia europea». Non mi unirei all’elogio.
A unificare le tre parti, infine, un’idea fissa, un motivo ricorrente che è poi anche la tesi fondamentale del libro, e che potremmo definire come un sobrio appello alla militanza: «La filologia non è utile o interessante in assoluto, lo è quando si applica ai temi ideologicamente caldi intorno ai quali è nata [...]. L’auspicio è che le filologie si ridefiniscano intorno ai ‘temi caldi’ di un’epoca, alle passioni politico-ideologiche, ai Grandi Libri sui quali ogni civiltà è costruita, e che esse riannodino i legami con la comunità di cui sono espressione». Vasto programma.
Sono d’accordo su molte delle opinioni che Rapisarda sviluppa nel suo libro, sottoscriverei quasi ogni pagina, anche se quasi nessuna pagina avrei saputo scrivere: perché sono ben lontano dall’avere l’ampiezza d’informazione e di visione che ha lui (ma credo che ben pochi tra gli studiosi in attività sappiano padroneggiare un campo di studi così ampio, che va dai poeti federiciani alla narratologia, dalle ricerche sul folklore alla Postcolonial Theory).
Sono meno d’accordo sulla sua tesi principale, quella che ispira anche il titolo del libro, e cioè che gli studi filologici, per prosperare, abbiano bisogno di ritagliarsi un ruolo nella battaglia delle idee, di diventare armi da adoperare nel conflitto politico. C’è del vero, ovviamente, in questa opinione, c’è storicamente del vero, e Rapisarda lo documenta bene, ma lo stesso si potrebbe dire della storia, della geografia, della linguistica, della storia letteraria, e insomma di ogni disciplina che - semplifico - faccia centro non sull’oggettività delle cose (da quante carte è formato il tal manoscritto?) ma sulla loro interpretazione (in quale lingua è scritto quel dato documento? Quale popolo si è insediato per primo su quel dato territorio?): cioè appunto quasi tutte le discipline umanistiche.
Personalmente (ma credo di poter parlare a nome di molti), il mio interesse per la filologia nasce soprattutto dalla sua avalutatività, cioè dal suo tenersi a dati oggettivi - che ci sono: non è tutto interpretazione - sui quali possono convergere studiosi e lettori di indole disparata: il luogo dell’intesa, non quello del conflitto (e basta vedere che cosa è successo negli ultimi decenni in Catalogna, un caso che Rapisarda infatti menziona un po’ di sfuggita, ma su cui conveniva forse indugiare di più: ecco una situazione nella quale le humanities sono state mobilitate per avallare ipotesi storiche quantomeno peregrine; a me non pare una strada da seguire).
Qui però sta il problema, che è in fondo anche il problema che ha indotto Rapisarda a scrivere questo libro. Ha ancora senso, oggi, reclutare giovani studiosi e metterli a lavorare per anni, per decenni, alla mappa di un mondo culturale (il Medioevo romanzo) che, oltre ad essere in buona misura già stato mappato, appare così lontano dagli interessi odierni, dalla vita odierna? Può durare, è giusto far durare, finanziandola, la disciplina che produce contributi come «Appunti sulle maiuscole del cod. Hamilton 90», «Tradizioni regionali e tassonomie editoriali dei canzonieri antico-francesi», «Sinalefe e dialefe: appunti per una tipologia degli incontri vocalici interverbali nella versificazione occitana» (gli esempi sono di Rapisarda, che è questa rara avis: un filologo spiritoso)?
Mi pare che le ragioni dell’odierna ‘crisi delle humanities’ - e della più seria e fondativa delle humanities, la filologia - vadano cercate meno nella loro contingente irrilevanza per la battaglia delle idee (così Rapisarda) che nella loro radicale estraneità all’aria del tempo presente. L’epoca eroica delle filologie è il secolo che va dalla metà dell’Ottocento alla metà del Novecento. Prima prevale l’empiria. Dopo, nel tempo presente appunto, cominciano ad affiorare i dubbi, le esitazioni di fronte alla domanda «Sì, ma a che serve?». Anche per questo, in questa età argentea, la filologia e la critica sono state anche troppo propense a salire sul carro del vincitore di turno: il marxismo, Bachtin, lo strutturalismo, gli studi postcoloniali eccetera - tutto il nuovo cemento col quale i filologi hanno sperato di puntellare le proprie rovine.
Il libro di Rapisarda è, tra le altre cose, un utile promemoria sulle tante scemenze che gli studiosi di letteratura, e purtroppo anche i filologi, hanno preso sul serio nel tentativo di mostrarsi à la page. Qualcuno continua ancora adesso, imperterrito; ma i più hanno capito: le cose vanno meglio oggi che trenta o quarant’anni fa; anche se parliamo continuamente di crisi, la disciplina è in piena salute.
Perché questo nervosismo, allora? Non è tutto semplice? I filologi devono fare bene il loro mestiere: studiare la storia e la tradizione dei testi, allestirne l’edizione, commentarli con erudizione e intelligenza. Solo che è una semplicità difficile a farsi. Nelle università italiana ci sono ancora molte persone, e molti giovani, che fanno esattamente questo, tenendo vivo un habitus che sembra essersi già perso in quasi tutte le altre nazioni occidentali.
Ma - Rapisarda ha ragione - questo sembra non bastare più: da un lato per la spinta anti-filologica che sempre più forte si avverte all’interno dell’università (parliamo di idee, di diritti, di conflitti, non di varianti manoscritte!); dall’altro per il disinteresse che il vasto mondo che sta al di fuori dell’università sembra nutrire per un sapere umanistico che non sia direttamente spendibile nel dibattito (meglio le scienze sociali di quelle storiche filologiche) o sul mercato culturale (meglio la storia dell’arte, col suo indotto di mostre, della paleografia, che di mostre quasi non ne produce). Perché allora darsi da fare per acquisire un habitus che richiede molto tempo e infinita dedizione, una dedizione tale da escludere quasi qualsiasi altro interesse culturale nonché di vita, se poi la voce di coloro che hanno acquisito questo habitus, i filologi, è così flebile? -Questo poteva non essere un problema un tempo, quando la cultura era un prodotto o un’emanazione della scuola e dell’università; ma è un problema oggi, quando quella cultura non solo è travolta dall’infinita produzione d’idee e di opere d’arte che ignorano il filtro scolastico ma sembra addirittura inadatta a ‘preparare alla vita’, per come la vita è diventata (per non lasciare il discorso nel vago: in tanta concentrazione sui libri del passato, sempre più incombe il rischio di non saper capire quel che succede nel presente, o di voler applicare al presente, sventatamente, i principi di Tucidide o di Dante Alighieri: che è un altro nome della stupidità).
Tutto sommato, perciò, sono un po’ più pessimista di Rapisarda. La politica cambia in fretta, le ideologie anche, e alla stasi di un decennio può seguire un’epoca di conflitti (non è quella che viviamo oggi?), un’epoca che potrà essere, per ipotesi, più congeniale a quella seria, metodica critica del passato che è la filologia. Ma l’aria del tempo sfugge alla volontà degli uomini, si orienta verso ciò che è utile più che verso ciò che è giusto; e dura a lungo. Che fare, dunque, da cultori di discipline umanistiche? Andare contro l’aria del tempo, è ovvio.
* Già pubblicato in una versione più breve sul Domenicale del Sole 24 ore del 21 ottobre 2018
La filologia al servizio delle nazioni. Storia, crisi e prospettive della filologia romanza
di Stefano Rapisarda *
Se un giorno la filologia morisse, la critica morirebbe con lei, la barbarie rinascerebbe, la credulità sarebbe di nuovo padrona del mondo». Così Ernest Renan ne "L’avenir de la science" (1890) tesseva un altissimo elogio della filologia, una delle scienze regine del XIX secolo.
Oggi, al tempo delle fake news e della post-verità, quelle parole ci ricordano che la filologia può essere ancora argine alla barbarie. E ci ricordano che la filologia, quella con aggettivi e quella senza, è intrinsecamente politica. Non è utile o interessante in sé: lo è quando è schierata, militante, "calda", quando tocca interessi, quando serve interessi. Quando è "al servizio" di un Principe o di un partito o di uno Stato o di una visione del mondo.
Ci ricordano insomma che la filologia è anche politica, come sapevano Lorenzo Valla e Baruch Spinoza, Ernest Renan e Ulrich Wilamowitz-Möllendorff, Gaston Paris e Paul Meyer, Eduard Koschwitz e Joseph Bédier, Ernst Robert Curtius e Erich Auerbach, Cesare Segre e Edward Said.
Eppure la filologia, con o senza aggettivi, oggi sa di polvere e di noia. Ciò sollecita varie domande: perché questa antica "scienza del testo" si è ridotta al margine della cultura di oggi? Può tornare al centro dei bisogni intellettuali dell’uomo contemporaneo? Quale tipo di filologia può ancora servire il mondo e servire al mondo?
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SCHEDA - Academia.Edu
Tra presente e passato: l’appello della Conferenza russa dei Rettori
di Stefano Rapisarda ("Insula Europea", 24 Marzo 2022)
Ha trovato una qualche eco sulla stampa italiana l’appello con cui 664 uomini di scienza di nazionalità russa chiedono a Putin di interrompere il conflitto (cito solo il Foglio del 2 e dell’11 marzo 2022, a firma Enrico Bucci). Un’elementare conoscenza della storia della gestione bellica da parte delle istituzioni accademiche dalla Prima guerra mondiale in poi (mi permetto di citare il mio libro Filologi in guerra e in pace, Rubbettino 2020) mi ha subito fatto venire in mente la seguente domanda: è mai possibile che in un contesto come quello russo attuale non siano stati prodotti appelli di uomini di scienza e professori universitari in favore della guerra, sul modello del famigerato “Manifesto dei professori tedeschi” del 1914?
Com’è noto, il 4 ottobre del 1914, a due mesi esatti dall’inizio della Prima guerra mondiale, sul quotidiano «Berliner Tageblatt» venne divulgato l’Aufruf an die Kulturwelt!, il manifesto firmato da novantatre uomini di scienza tedeschi che segnò una svolta epocale nel rapporto tra università, Stato e cultura nel senso più ampio6.
Le firme includevano il Gotha della cultura mondiale nei più svariati ambiti disciplinari, dalla medicina (Emil Adolf von Behring, Nobel 1901; Paul Ehrlich, Nobel 1908), alla fisica (Wilhelm Röntgen, Nobel 1901; Max Planck, futuro Nobel 1918), alla chimica (Emil Fischer, Nobel 1902; Adolf von Baeyer, Nobel 1905), alla storia delle religioni (Adolf von Harnack), alla filologia classica (Ulrich von Wilamowitz-Möllendorff ), alla letteratura (Gerhart Hauptmann, Nobel 1912). I novantatre grandi nomi della cultura accademica tedesca respingevano le accuse di atrocità sulle popolazioni civili compiute dall’esercito nell’invasione del Belgio e vigorosamente ribadivano «al mondo della cultura» l’indissolubile unità di intenti che univa i diversi corpi dello Stato tedesco: la classe accademica, il ceto militare, il popolo e la dinastia imperiale. A esso fece seguito dopo dodici giorni un altro appello, l’Erklärung der Hochschullehrer des Deutschen Reiches, che recava i nomi di oltre quattromila firmatari, sostanzialmente tutto il corpo accademico delle Università di Germania.
L’Aufruf, il cui testo originale si può leggere in Aufrufe und Reden deutscher Professoren im Ersten Weltkrieg, Reclam, Stuttgart [2ª ediz. con Postfazione di H. Wunderer].Böhme, pp. 47-50, venne ristampato da tutti i principali quotidiani di Germania, tradotto in dieci lingue e inviato in migliaia di lettere private ai corrispondenti residenti in nazioni neutrali. Immediatamente letto, commentato, criticato in Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, paesi scandinavi, è uno dei documenti più controversi nella storia della cultura del XX secolo. Questo corpo titolatissimo di scienziati, indubbiamente i migliori del mondo, prende la parola per affermare come la patria, la Germania, fosse oggetto di una campagna di aggressione fondata su pregiudizi e false notizie, e proclama ad alta voce la sua fedeltà alla nazione, al popolo, all’esercito e naturalmente all’imperatore.
L’inizio del testo recitava: “In qualità di rappresentanti della scienza e dell’arte tedesca (Wir als Vertreter deutscher Wissenschaft und Kultur), noi solleviamo dinanzi all’intero mondo della cultura la nostra protesta contro le menzogne e le calunnie con cui i nostri nemici si sforzano di macchiare la purezza della causa della Germania nella grave lotta per l’esistenza che le è stata forzatamente imposta. La bronzea voce degli eventi ha smentito le false voci circolanti di sconfitte tedesche. Di conseguenza, si moltiplicano gli ansiosi tentativi di produrre false dichiarazioni e sospetti. Alziamo la nostra voce contro di essi. Sarà l’araldo della verità. Non è vero che la Germania è colpevole di aver causato questa guerra. Né il popolo, né il governo, né l’imperatore la volevano. Le misure più estreme sono state adottate da parte tedesca per impedirlo. [...] Non è vero che la battaglia contro il nostro cosiddetto militarismo non è una battaglia contro la nostra cultura, come sostengono ipocritamente i nostri nemici. Se non fosse stato per il militarismo tedesco, la cultura tedesca sarebbe stata da tempo spazzata via dalla faccia della terra. Il militarismo emanava da questa cultura per proteggerla in una terra che per secoli è stata devastata da incursioni predatorie come nessun’altra. L’esercito tedesco e il popolo tedesco sono uno. Oggi questa consapevolezza unisce 70 milioni di tedeschi come fratelli al di là delle distinzioni di istruzione, classe e appartenenza di partito (Deutsches Heer und deutsches Volk sind eins. Dieses Bewußtsein verbrüdert heute 70 Millionen Deutsche ohne Unterschied der Bildung, des Standes und der Partei).”
Questa “discesa in campo” senza precedenti determinò appassionate adesioni e furibonde reazioni, svelando così l’inconsistenza di un’illusione che aveva accompagnato la figura dell’uomo di scienza dall’Illuminismo in avanti: che questi fosse un tipo d’uomo votato a un fine superiore, la ricerca della verità “universale”, e non di una verità “nazionale”; e che lo scienziato lavorasse per l’umanità, non per il suo governo e una parte di umanità a lui vicina e con la quale egli condivideva la lingua, il suolo e, come presumeva l’antropologia contemporanea, il sangue.
È da questo momento in poi che comincia a manifestarsi un fenomeno nuovo nella storia della cultura, e anche della politica. Uomini di studio, accademici, scienziati, professori d’università, scendono nell’agone della militanza, si danno alla politica. O meglio, ostentano il loro servizio allo Stato, con adesione totalizzante ai fini specifici e particolari dello Stato di cui essi sono emanazione.
Torniamo al presente e rispondiamo alla domanda posta in apertura. Ebbene, ecco che il 3 marzo 2022, tramite il notiziario di informazione universitaria del quotidiano tedesco “Die Zeit”, salta fuori puntualmente l’omologo contemporaneo del “Manifesto dei 93”. La risonanza sulla stampa internazionale è stata debole; su quella italiana, se non m’inganno, inesistente. Credo sia utile riportarlo qui nella sua interezza dal sito della Conferenza dei Rettori delle Università di Russia, da me tradotto attraverso il tedesco e verificato sull’originale russo da Francesca Tuscano, che cordialmente ringrazio:
Seguono 229 firme di rettori e presidenti o vicepresidenti in rappresentanza di altrettante istituzioni, da Viktor Antonovich Sadovnichy, Presidente dell’Unione Russa dei Rettori, Rettore dell’Università Statale Lomonosov di Mosca, a Yastrebov Oleg Aleksandrovich, Rettore dell’Università dell’Amicizia dei Popoli della Russia, tutti di nomina governativa come erano d’altronde i professori tedeschi dell’Aufruf del 1914.
A un’analisi del discorso, il testo dell’“Obraščenie Rossijskogo Sojuza Rektorov” del 4 marzo 2020 ha risonanze che vanno persino al di là della retorica bellicista tedesca del Secondo Reich. L’Aufruf di Wilamovitz-Mõllendorff si indirizzava agli uomini di scienza del mondo, e dei paesi neutrali in particolare; era comunque, rivolto all’esterno; era un appello internazionale, cosmopolita, Auf die Kulturwelt! senza limitazioni di nazionalità, per quanto ovviamente cercasse di agire sull’opinione pubblica dei neutrali, e soprattutto degli (ancora non belligeranti) Stati Uniti d’America. L’”Obraščenie Rossijskogo Sojuza Rektorov” è invece tutto interno, come se sapesse in partenza di non avere argomenti utilizzabili in una comunità essenzialmente internazionale come quella della ricerca.
Insomma per chi conosce le vicende della cosiddetta ‘guerra dei professori’ che accompagnò la Prima Guerra Mondiale, si tratta di un triste dejà vu che proietta indietro di 100 anni la cooperazione scientifica internazionale, e i cui esiti sono tutto sommato prevedibili per chi conosce la storia: sospensione talvolta definitiva di collaborazioni intellettuali, cessazione di antichi sodalizi, espulsioni da organismi internazionali e nazionali, ritiro di riconoscimenti, affiliazioni, omaggi e premi, e alla fine delle ostilità, in caso di sconfitta, dichiarazioni di: “non sapevo esattamente ciò che firmavo”, “ho dato l’adesione in fiducia senza aver letto il testo”, “non potevo farne a meno data la mia posizione”, pentimento nel caso dei migliori.
La scelta di un papa inquieto
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 11.10.2018)
«L’aborto è come affittare un sicario». E’ un’immagine pesante, non facilmente comprensibile e vagamente diffamatoria quella usata dal Papa. Ma l’aborto viene da lui senz’altro omologato al «disprezzo della vita» quale si esprime nel lungo elenco delle guerre, degli sfruttamenti di ogni genere, di tutti gli abusi per opportunismo. Si tratta di parole gravi che contano, pronunciate da un maestro della comunicazione diretta e coinvolgente come Papa Francesco.
Eppure sulla base della sua esperienza pastorale, il Pontefice dovrebbe sapere che l’aborto non è semplicisticamente riducibile a «un problema per risolvere il quale si fa fuori una vita umana». E’ un’esperienza angosciosa intima .
Soprattutto Bergoglio ignora che «il problema» o «il diritto» all’’interruzione della gravidanza è riconosciuto dalla legge secondo determinate e ben precise condizioni. Essa riguarda «una gravidanza che comporti un serio pericolo per la salute fisica o psichica della donna, in relazione al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o alla previsione di anomalie o malformazioni del concepito. L’accesso all’intervento abortivo è dalla legge garantito in quelle circostanze, cosicché parlare di libertà di aborto è una forzatura che la legge non consente». Così ha scritto qualche giorno fa su questo giornale Vladimiro Zagrebelsky, augurandosi che non si ritorni a contrapposizioni irragionevoli, aggressive e diffamatorie.
Invece ci risiamo, e proprio per bocca del Papa. Adesso ci manca solo l’intervento di Matteo Salvini.
E’ triste dover fare questa battuta. Ma ferme restando le ragioni di principio dell’opposizione del Pontefice e del mondo cattolico all’interruzione della gravidanza, è innegabile che essa risenta del mutamento del clima politico e culturale del Paese. E che ci sia la tentazione di approfittarne per riaprire una questione che sembrava risolta nel rispetto reciproco delle convinzioni etiche.
Questa tentazione è un segnale importante dell’ avanzare di una democrazia illiberale nel nostro Paese. Si fanno prepotenti i segnali di insofferenza della classe politica al governo per ridurre o condizionare gli spazi di libertà di espressione della stampa. In maniera più pasticciata e subdola vengono alterati i diritti costituzionalmente riconosciuti ai richiedenti asilo, ai profughi, ai migranti. A questo proposito però esiste il consenso detto e non detto della popolazione e dello stesso mondo cattolico - con l’eccezione di pochi gruppi che rischiano però di godere di una visibilità mediatica fine a se stessa.
In tema di migrazione, accoglienza e integrazione dei migranti la stessa voce del Papa così forte, insistente, perentoria e persino provocatoria sino ad un anno fa, sembra in qualche modo ridimensionata. Si è fatta più realistica. Spero che questa mia affermazione non venga maliziosamente fraintesa.
Papa Bergoglio si trova in una situazione eccezionalmente difficile dentro e fuori la Chiesa. Nei suoi contatti e comunicazioni esterne talvolta si ha l’impressione che, senza abbandonare la sua tipica giovialità, sia profondamente turbato.
Questo turbamento si esprime anche nel suo schietto linguaggio tradizionale che mette continuamente in guardia qui e ora contro la presenza e l’opera del demonio. In fondo è lui il sicario dell’aborto.
Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito... *
Ottobre.
Il Papa: preghiamo con il rosario per la Chiesa attaccata dal demonio
Papa Francesco chiede a tutti i fedeli di recitare quotidianamente il Rosario nel mese mariano di ottobre. E di concludere con due invocazioni
Papa Francesco ha deciso di invitare tutti i fedeli, di tutto il mondo, a pregare il Rosario ogni giorno, durante l’intero mese mariano di ottobre e a unirsi così in comunione e in penitenza, come popolo di Dio, nel chiedere alla Madonna e a san Michele Arcangelo di proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi. Lo rende noto un comunicato della Santa Sede.
Nei giorni scorsi, prima della sua partenza per i Paesi Baltici - ricorda la Santa Sede - il Papa ha incontrato padre Fréderic Fornos, direttore internazionale della Rete Mondiale di Preghiera per il Papa, e gli ha chiesto di diffondere in tutto il mondo questo suo appello a tutti i fedeli, invitandoli a concludere la recita del Rosario con l’antica invocazione Sub Tuum Praesidium, e con la preghiera a san Michele Arcangelo che ci protegge e aiuta nella lotta contro il male (cfr. Apocalisse12, 7-12).
La preghiera, aveva osservato il Pontefice l’11 settembre in un’omelia a Santa Marta, citando il primo libro di Giobbe, è l’arma contro il Grande accusatore che «gira per il mondo cercando come accusare». Solo la preghiera lo può sconfiggere. I mistici russi e i grandi santi di tutte le tradizioni consigliavano, nei momenti di turbolenza spirituale, di proteggersi sotto il manto della Santa Madre di Dio pronunciando l’invocazione Sub Tuum Praesidium.
L’invocazione Sub Tuum Praesidium.
L’invocazione recita così:
Sub tuum praesidium confugimus Sancta Dei Genitrix. Nostras deprecationes ne despicias in necessitatibus, sed a periculis cunctis libera nos semper, Virgo Gloriosa et Benedicta.
[Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio. Non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, ma liberaci da ogni pericolo, o Vergine Gloriosa e Benedetta].
Con questa richiesta di intercessione il Papa chiede ai fedeli di tutto il mondo di pregare perché la Madonna ponga la Chiesa sotto il suo manto protettivo: per preservarla dagli attacchi del maligno, il grande accusatore, e renderla allo stesso tempo sempre più consapevole delle colpe, degli errori, degli abusi commessi nel presente e nel passato e impegnata a combattere senza nessuna esitazione perché il male non prevalga.
La preghiera a san Michele Arcangelo
Il Papa ha chiesto anche che la recita del Santo Rosario durante il mese di ottobre si concluda con la preghiera scritta da Leone XIII, che recita così:
Sancte Michael Archangele, defende nos in proelio; contra nequitiam et insidias diaboli esto praesidium. Imperet illi Deus, supplices deprecamur: tuque, Princeps militiae caelestis, Satanam aliosque spiritus malignos, qui ad perditionem animarum pervagantur in mundo, divina virtute, in infernum detrude. Amen.
[San Michele Arcangelo, difendici nella lotta: sii il nostro aiuto contro la malvagità e le insidie del demonio. Supplichevoli preghiamo che Dio lo domini e Tu, Principe della Milizia Celeste, con il potere che ti viene da Dio, incatena nell’inferno satana e gli spiriti maligni, che si aggirano per il mondo per far perdere le anime. Amen].
* Avvenire, 29.09.2018 (ripresa parziale, senza immagini).
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
AUTOSTRADE PER IL CIELO: CARTE TRUCCATE E "PONTE PERICOLANTE". L’*AMORE* Di MARIA E GIUSEPPE E LA "PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018" :
PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018 *
Dio, nostro Padre,
Siamo fratelli e sorelle in Gesù, tuo Figlio,
Una famiglia unita dallo Spirito del tuo amore.
Benedici ognuno di noi con la gioia dell’amore.
Rendici pazienti e gentili,
Amorevoli e generosi,
Accoglienti con i bisognosi.
Aiutaci a vivere il tuo perdono e la tua pace.
Proteggi tutte le nostre famiglie con il tuo amore,
Specialmente coloro che ti affidiamo ora con la nostra preghiera:
[facciamo un momento di silenzio per pregare per i membri della famiglia e altre
persone che ci stanno a cuore, ricordandoli per nome].
Aumenta la nostra fede,
Rendi forte la nostra speranza,
Conservaci nel tuo amore,
Aiutaci ad essere sempre grati del dono della vita che condividiamo.
Ti chiediamo questo nel nome di Cristo, nostro Signore,
Amen
Maria, madre e guida nostra, prega per noi.
San Giuseppe, padre e protettore nostro, prega per noi.
Santi Gioacchino e Anna, pregate per noi.
San Luigi e Zelia Martin, pregate per noi.
*Fonte: https://www.worldmeeting2018.ie/WMOF/media/downloads/prayerA4-IT.pdf
* L’Incontro mondiale. «Famiglia, sfida globale». Ecco il senso dell’incontro di Dublino. L’arcivescovo Martin, primate della Chiesa d’Irlanda: Amoris Laetitia, messaggio di misericordia nella complessità. Uno spazio dedicato anche al soloroso tema degli abusi (di Luciano Moia, Avvenire, venerdì 17 agosto 2018: https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/famiglia-sfida-globale-ecco-il-senso-di-dublino).
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala (18.08.2018)
PER IL DIALOGO A TUTTI I LIVELLI - GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE...
GESU’, GIUSEPPE, SACRA FAMIGLIA?! RESTITUIRE L’ANELLO DEL PESCATORE A GIUSEPPE... E ANNUNCIARE LA BUONA NOTIZIA!!! PER LA CHIESA CATTOLICA, SAN GIUSEPPE E’ ANCORA UN "GOJ", UNO STRANIERO. La ’buona’ novella di Luigi Pirandello
PER UNA NUOVA TEOLOGIA-POLITICA E PER UNA NUOVA CHIESA. L’INDICAZIONE DI GIOVANNI XXIII E DI GIOVANNI PAOLO II: LA RESTITUZIONE DELL’ANELLO DEL PESCATORE A GIUSEPPE.
MESSAGGIO EVANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER (E DI TUTTI I PAPI).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LA PARABOLA DEi "TALENTI", I "DUE CRISTIANESIMI", E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO.... *
Destinazione sinodo/18.
Dall’ascolto all’incontro. È la gioventù del Papa
di Stefania Falasca (Avvenire, mercoledì 8 agosto 2018)
Una generazione fa, nell’estate del 2013, di fronte alla marea di più di tre milioni di giovani assiepati sulla spiaggia di Copacabana per la Giornata mondiale della gioventù di Rio, papa Francesco era rimasto per un attimo in silenzio spaziando con lo sguardo su quella sconfinata folla di ragazzi sul bordo dell’oceano. Gli parve di vedere «guardando il mare, la spiaggia e tutti voi», disse, quel momento dell’inizio della storia cristiana sulla riva del mare di Galilea quando i primi due, alle quattro del pomeriggio, avevano incontrato Gesù. Gli erano andati dietro attratti da lui. E Gesù a questi due ragazzi - Andrea era sposato, quindi avrà avuto qualche anno di più, ma Giovanni era proprio un ragazzino -, voltandosi aveva domandato: «Che cosa cercate?». E questi non gli risposero ’cerchiamo la verità’, o ’cerchiamo la felicità’, non gli dissero neppure ’cerchiamo il Messia’. Quello che il cuore cercava lo avevano davanti. Allora a quella domanda - «Che cosa cercate?» - risposero chiedendo l’unica cosa che si può domandare: «Maestro dove abiti?», cioè ’dove rimani?’, dove rimani perché possiamo stare con te?
Sono passati cinque anni da quell’esordio vis-à-vis di Papa Francesco con i giovani di tutto il mondo in Brasile, e l’attualità ne resta intatta, anche se è cambiata nel frattempo la generazione dei «nati liquidi», come titola l’opera postuma di Zygmunt Bauman dedicata a queste ultime generazioni considerate sempre più «come bidone dei rifiuti per l’industria dei consumi» e «come un ulteriore fardello sociale», giovani che «hanno smesso di essere inclusi dalla promessa di un futuro migliore», sempre più «parte di una popolazione smaltibile la cui presenza minaccia di richiamare alla mente memorie collettive rimosse della responsabilità adulta». «Vuoti a perdere» a rischio «rottamazione», quelli che escono dalla lucida analisi dell’autore della società liquida, «gli scartati dall’impero del Dio denaro» da parte di chi divora la dignità umana e di cui gli Stati nascondono le stime crescenti dei suicidi. Giovani che sempre più non sanno cosa sia la Chiesa, anzi, che sempre più sono figli e nipoti di generazioni che non sanno più niente della religione.
Ma il dialogo intrapreso da Francesco da quel primo incontro sulla spiaggia di Copacabana si è fatto in questi anni serrato, spesso confidente, nel quale ai sermoni il Papa ha preferito domande e risposte a braccio come espressione di conversazioni dirette, di incontri. «Anche le migliori analisi sul mondo giovanile, pur essendo utili - sono utili -, non sostituiscono la necessità dell’incontro faccia a faccia. Parlano della gioventù d’oggi. Cercate per curiosità in quanti articoli, quante conferenze si parla della gioventù di oggi. Vorrei dirvi una cosa. La gioventù non esiste, esistono i giovani», ha detto di recente Francesco, tanto per essere chiaro. «Esistono le singole storie, i volti, gli sguardi, le illusioni, esistono i giovani... tu, tu.... Parlare della gioventù - ha ripreso in altra occasione - è facile: si fanno astrazioni, percentuali», invece «bisogna interloquire con loro», incontrarli «a tu per tu». Sono ormai decine i colloqui intrapresi non solo nell’ultima Gmg a Cracovia come in ogni viaggio apostolico nel mezzo delle crisi del mondo.
Forse anche da questi dialoghi è nata la decisione di un Sinodo non su ma dei giovani, per andare insieme. Camminando in controtendenza ha aperto le porte. E ha rotto la divisione noi-voi:
«Nella Chiesa - sono convinto - non dev’essere così: chiudere la porta, non sentire. Il Vangelo ce lo chiede: il suo messaggio di prossimità invita a incontrarci e confrontarci, ad accoglierci e amarci sul serio, a camminare insieme e condividere senza paura» ha ribadito anche nell’ultima riunione in vista del Sinodo di ottobre. «Questa riunione presinodale - ha aggiunto - vuol essere segno di qualcosa di grande: la volontà della Chiesa di mettersi in ascolto di tutti i giovani, nessuno escluso.
E questo non per fare politica. Non per un’artificiale ’giovano-filia’, no, non per adeguarsi, ma perché abbiamo bisogno di capire meglio quello che Dio e la storia ci stanno chiedendo. Se mancate voi, ci manca parte dell’accesso a Dio».
E se ha tenuto conto di tutte le realtà, il Papa più volte ha ribadito la volontà di lasciarsi interpellare da loro e di vederli protagonisti: «Siamo insieme parte della Chiesa, anzi, diventiamo costruttori della Chiesa e protagonisti della storia. Ragazzi e ragazze, per favore: non mettetevi nella ’coda’ della storia. Siate protagonisti. Costruite un mondo migliore, un mondo di fratelli, un mondo di giustizia, di amore, di pace, di fraternità, di solidarietà».
Ma perché la richiesta di questo protagonismo? «In tanti momenti della storia della Chiesa, così come in numerosi episodi biblici, Dio ha voluto parlare per mezzo dei più giovani: penso, ad esempio, a Samuele, a Davide e a Daniele. A me piace tanto la storia di Samuele, quando sente la voce di Dio. La Bibbia dice: ’In quel tempo non c’era l’abitudine di sentire la voce di Dio. Era un popolo disorientato’. È stato un giovane ad aprire quella porta. Nei momenti difficili, il Signore fa andare avanti la storia con i giovani. Dicono la verità, non hanno vergogna».
E se nella storia della salvezza il Signore si fida dei giovani, nell’incontro pre-sinodale del 19 marzo il Papa ha anche detto che il Sinodo di ottobre sarà anche un appello rivolto alla Chiesa, perché «riscopra un rinnovato dinamismo giovanile». Così come nell’udienza del gennaio 2017 ai partecipanti a un convegno dell’Ufficio Cei per la pastorale delle vocazioni aveva ripetuto che «sono le nostre testimonianze quelle che attirano i giovani. È la testimonianza: che vedano in voi vivere quello che predicate. Quello che vi ha portato a diventare preti, suore, anche laici che lavorano con forza nella Casa del Signore. E non gente che cerca sicurezza, che chiude le porte, che spaventa gli altri, che parla di cose che non interessano, che annoiano, che non hanno tempo... No. Ci vuole una testimonianza grande!».
Ritorniamo così all’inizio, all’incontro dei primi due discepoli con Gesù. Anche questa dinamica di come si diventa e si rimane cristiani percorre tutto il magistero di Francesco, ed è sempre la stessa - sempre nuova - che attraversa i tempi, le crisi e le generazioni, così che quell’episodio di Giovanni e Andrea raccontato a Copacabana è ripetuto ancora nell’ultimo intervento per il Sinodo di ottobre. E affinché l’assemblea non si trasformi in occupazione momentanea per monsignori forse sarà necessario non lasciarsi andare a una banale sociologia, e assumere invece queste intramontabili provocazioni evangeliche.
Sabato e domenica ci sarà l’incontro del Papa con i giovani delle diverse diocesi d’Italia. In molti sono già in cammino verso Roma per il pellegrinaggio, si parla di 40mila ragazzi. Marta, parte di un gruppo di universitari milanesi, parlando davanti a una pizza insieme agli altri dice che non le interessa niente dei discorsi sui giovani, e che non parte per sentire discorsi ma spinta da un incontro, che l’ha attirata e vuole vedere. Papa Francesco ha fatto sentire più volte come anche duemila anni fa un ragazzo e una ragazza, Giuseppe e Maria, hanno visto Dio con gli occhi e non in una visione mistica. Maria l’ha partorito, Giuseppe e lei lo hanno guardato. È iniziata così la storia cristiana. Sono stati lì a guardare Dio.
Francesco ha messo bene in evidenza come sia la grazia che crea la fede. Per questo la vita cristiana è semplice. La fede è il riconoscimento di questa attrattiva, di un incontro. E la grazia crea la fede non solo quando la fede inizia ma per ogni momento in cui la fede rimane. In ogni momento, non solo all’inizio, l’iniziativa è Sua, dice sant’Agostino. Solo a partire da questo cuore la Chiesa ringiovanisce e attrae. Il prossimo incontro con i giovani a Roma, come anche il Sinodo, può essere l’occasione per chiedere, per ciascuno, che questo avvenga e continui ad accadere.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?!
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
LA PAURA DI PENSARE E LA PARABOLA DEI TALENTI. Perché chiudere la nostra vita in una scatola?
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?
Federico La Sala
Canfora, la filologia è libertà
Il volume curato da Rosa Otranto e Massimo Pinto (Edizioni di Storia e Letteratura)
di Livia Capponi (Corriere della Sera, 29.06.2018)
Come lavoravano gli autori greci e latini? Nel suo lungo e intenso magistero, Luciano Canfora, a cui gli allievi Rosa Otranto e Massimo Pinto dedicano il volume collettivo Storie di testi e tradizione classica, ha insegnato ad affrontare ogni testo a partire dalla sua storia, reinventando la filologia come disciplina in grado di leggere non solo i testi giunti fino a noi, ma anche le cicatrici, i tagli, i contorni invisibili di ciò che è stato modellato da un censore, da un copista, dal gusto di un’epoca.
Diversamente da Isocrate, famoso per la sua lentezza nel comporre, e da Pitagora, che preferiva depositare la sua dottrina nei libri più sicuri, cioè nella memoria degli alunni, Canfora, la cui bibliografia conta 843 opere, è più simile a Demostene, che cesellava ogni rigo o a Fozio, patriarca bizantino che salvò il patrimonio letterario antico, aiutato da un’affezionata cerchia di studenti.
Nei contributi qui raccolti, l’erudizione è messa al servizio di una coinvolgente ricerca della verità, intesa come integrità testuale, storica ed etica. Sono toccati i temi prediletti, come l’analisi critica della democrazia, la storia della tolleranza e della libertà di parola, la schiavitù e i perseguitati politici e religiosi da Atene ai giorni nostri, attraverso lo studio di storiografia, archivi, biblioteche e pubblicistica d’ogni epoca. Il tutto condito da empatia e indipendenza di giudizio, in grado di far rivivere gli antichi con grande vivacità: Cesare è ritratto mentre elabora il primo sistema crittografico per l’intelligence romana; Fozio nell’atto di divorare romanzi d’amore greci (per poi censurarli). Coerentemente con la lezione canforiana, lo studio dei classici diventa motivo di apertura mentale perché aiuta a capire il presente e noi stessi.
TEOLOGIA, ECONOMIA, E STORIA ..... *
Il documento vaticano.
Verso una nuova finanza: il cammino ora è segnato
Il testo della Congregazione per la Dottrina della Fede «Oeconomicae et Pecuniariae Quaestiones» offre spunti per un discernimento etico sul sistema attuale e offre soluzioni per il bene comune
di Stefano Zamagni (Avvenire, martedì 12 giugno 2018)
«Oeconomicae et Pecuniariae Quaestiones» (Opq) è un documento - reso di dominio pubblico il 17 maggio 2018 - originale e intrigante.
Originale per il taglio espositivo e soprattutto perché è la prima volta che la Congregazione per la Dottrina della Fede - la cui competenza copre anche le questioni di natura morale - interviene su una materia di Dottrina Sociale della Chiesa. Il lavoro congiunto tra Congregazione e Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale è già di per sé qualcosa che non può passare inosservato e che lascerà il segno.
Opq è poi un contributo intrigante per il modo e per lo spessore con cui affronta una tematica che, come quella della nuova finanza, è oggi al centro delle preoccupazioni della Chiesa e della società in generale. (Papa Francesco ha approvato il Documento che entra pertanto nel Magistero ordinario). Come recita il sottotitolo («considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario» - corsivo aggiunto), non ci troviamo di fronte ad una sorta di esortazione apostolica o ad un testo di taglio pastorale. Piuttosto, vi si legge un’analisi, scientificamente fondata, delle cause remote dei disordini e dei guasti che l’architettura dell’attuale sistema finanziario va determinando.
Si legge al n. 5: «La recente crisi finanziaria poteva essere l’occasione per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria, neutralizzandone gli aspetti predatori e speculativi (sic!) e valorizzandone il servizio all’economia reale. Sebbene siano stati intrapresi molti sforzi positivi... non c’è stata però una reazione che abbia portato a ripensare quei criteri obsoleti che continuano a governare il mondo».
A scanso di equivoci, è bene precisare che il documento non parla affatto contro la finanza, di cui riconosce la rilevanza e anzi la necessità (e non potrebbe essere diversamente, se si considera che la finanza moderna nasce entro l’alveo del pensiero economico francescano). Esso prende piuttosto posizione nei confronti di una realtà efficacemente descritta dal seguente dato: nel 1980, l’insieme degli attivi finanziari a livello mondiale era pressoché eguale al Pil sempre mondiale; nel 2015 la prima variabile era diventata dodici volte superiore alla seconda.
Il punto centrale dell’argomento sviluppato nel Documento è l’affermazione del principio secondo cui etica e finanza non possano continuare a vivere in sfere separate. Ciò implica il rigetto della tesi del Noma (Non Overlapping Magisteria) per primo formulata in economia nel 1829 da Richard Whateley, cattedratico all’Università di Oxford e vescovo della Chiesa Anglicana.
Secondo questa tesi, la sfera dell’economia va tenuta separata sia dalla sfera dell’etica sia da quella della politica, se si vuole che l’economia ambisca a vedersi riconosciuto lo statuto di disciplina scientifica. E così è stato, almeno fino a tempi recenti, quando si è cominciato a parlare con Amartya Sen e altri, di economia e etica.
I paragrafi 7-12 di Opq si soffermano con grande incisività a descrivere come dall’accettazione del principio del Noma sia derivato l’accoglimento dell’assunto antropologico (di ascendenza Hobbesiana) dell’homo homini lupus, posto a fondamento della figura dell’homo oeconomicus.
Ben diverso è l’assunto antropologico da cui parte il paradigma dell’economia civile - fondato da Antonio Genovesi nel 1753 a Napoli - che, rifiutando esplicitamente il Noma, riconosce che homo homini natura amicus. («L’uomo è per natura amico dell’altro uomo»).
Seconda novità di rilievo del Documento è la rilevanza attribuita al principio della responsabilità adiaforica, di cui quasi mai si fa cenno. Il par. 14 recita: «Ad li là del fatto che molti operatori siano singolarmente animati da buone e rette intenzioni, non è possibile ignorare che oggi l’industria finanziaria, a causa della sua pervasività e della sua inevitabile capacità di condizionare e di dominare l’economia reale, è un luogo dove gli egoismi e le sopraffazioni hanno un potenziale di dannosità della collettività che ha pochi eguali».
È questo un esempio notevole di struttura di peccato, come la chiamò, per primo nella Dottrina Sociale della Chiesa, Giovanni Paolo II nella sua Sollecitudo Rei Socialis (1987). Non è il solo operatore di borsa, o banchiere o uomo d’affari ad essere responsabile delle conseguenze delle azioni che pone in atto. Anche le istituzioni economiche, se costruite su premesse di valore contrarie ad un’etica amica dell’uomo, possono generare danni enormi a prescindere dalle intenzioni di coloro che in esse operano. Per meglio comprendere la ragione di ciò, conviene fissare l’attenzione su tre caratteristiche specifiche della nuova finanza.
La prima è l’impersonalità dei contesti di mercato, la quale oscura il fatto che da qualche parte vi è sempre un qualcuno sull’altro lato dell’affare. La seconda caratteristica è la complessità della nuova finanza che fa sorgere problemi di agentività indiretta: il principale si riconosce moralmente disimpegnato nei confronti delle azioni poste in essere dal suo ’ingegnere finanziario’, cioè dall’esperto cui affida il compito di disegnare un certo prodotto, il quale a sua volta si mette il cuore in pace perché convinto di eseguire un ordine.
Accade così che ognuno svolge il suo ruolo separando la propria azione dal contesto generale, rifiutandosi di accettare che, anche se solo amministrativamente, era parte dell’ingranaggio. Infine, la nuova finanza tende ad attrarre le persone meno attrezzate dal punto di vista etico, persone cioè che non hanno scrupoli morali e soprattutto molto avide. Riusciamo così a comprendere perché il problema non risiede unicamente nella presenza di poche o tante mele marce; ma è sulla stessa cesta delle mele che si deve intervenire.
Il Documento in questione, infine, prende definitiva ed esplicita posizione contro la tesi della doppia moralità - purtroppo diffusa anche tra alcune organizzazioni di tipo finanziario che dichiarano di ispirarsi alla Dottrina Sociale della Chiesa. Per capire di che si tratta conviene partire dal saggio di Albert Carr, ’Is business bluffing ethical?’ pubblicato sulla prestigiosa Harvard Business Review nel 1968. È questo il saggio che, più di ogni altro, ha guidato fino ad oggi la riflessione etica nel mondo degli affari. Vi si legge che l’uomo d’affari di successo deve essere guidato da «un diverso insieme di standars etici», poiché «l’etica degli affari è l’etica del gioco [d’azzardo], diversa dall’etica religiosa». Assimilando il business al gioco del poker, il noto economista americano conclude che «gli unici vincoli di ogni mossa nel business sono la legalità e il profitto.
Se qualcosa non è illegale in senso stretto (sic!) ed è profittevole allora è eticamente obbligante che l’uomo d’affari lo realizzi». I paragrafi dal 22 al 34 di Opq si soffermano sul faciendum: che fare per cercare di invertire la situazione? Parecchie le proposte - tutte realizzabili - che vengono avanzate. Dal sostegno a istituti che praticano la finanza non speculativa, come le Banche di Credito Cooperativo, il microcredito, l’investimento socialmente responsabile, alle tante forme di finanza etica. Dalla chiusura della finanza offshore e dalle forme di cannibalismo economico di chi, con i credit default swaps, specula sul fallimento altrui, alla regolamentazione dello shadow-banking, soggetti finanziari non bancari che agiscono come banche ma operando al di fuori di ogni quadro normativo ufficiale.
L’obiettivo da perseguire è quello di assicurare una effettiva biodiversità bancaria e finanziaria. Di speciale interesse è inoltre la proposta di affiancare ai Cda delle grandi banche Comitati Etici costituiti da persone moralmente integre oltre che competenti - così come già accade nei grandi policlinici. Nell’aprile 2015 la ’Dutch Banking Association’ (l’Associazione di tutte le banche olandesi) stabilì di esigere dai dipendenti delle banche (circa 87.000 persone) il ’Giuramento del Banchiere’, stilato sulla falsariga del giuramento ippocratico per i medici.
Il giuramento consta di otto impegni specifici. Ne indico solamente un paio: «Prometto e giuro di mai abusare delle mia conoscenze»; «Prometto e giuro di svolgere le mie funzioni in modo etico e con cura, adoperandomi di conciliare gli interessi di tutte le parti coinvolte: clienti, azionisti; occupati; società». Si opera dunque a favore di tutte le classi di stakeholder e non solamente di quella degli azionisti. Sarebbe bello se sull’esempio dell’Olanda - un Paese non certo sprovveduto né arretrato in materia finanziaria - anche l’Italia volesse seguirne la traccia.
Delle tre principali strategie con le quale si può cercare di uscire da una crisi di tipo entropico - quale è l’attuale - e cioè quella rivoluzionaria, quella riformista, quella trasformazionale, il Documento Opq sposa, in linea con il Magistero di papa Francesco, la terza. Si tratta di trasformare - non basta riformare - interi blocchi del sistema finanziario che si è venuto formando nell’ultimo quarantennio per riportare la finanza alla sua vocazione originaria: quella di servire il bene comune della civitas che, come ci ricorda Cicerone, è la «città delle anime», a differenza dell’urbs che è la «città delle pietre». È questa la strategia che vale, ad un tempo, a scongiurare il rischio sia di utopiche palingenesi sia del misoneismo, che è l’atteggiamento tipico di chi detesta la novità e osteggia l’emergenza del nuovo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
LA CHIESA DI COSTANTINO, L’AMORE ("CHARITAS") E LA NASCITA DELLA DEMOCRAZIA DEI MODERNI. LA "CHARTA CHARITATIS" (1115), LA "MAGNA CHARTA" (1215) E LA FALSA "CARTA" DELLA "DEUS CARITAS EST" (2006).
LA CATTEDRA DI SAN PIETRO UNA CATTEDRA DI ECONOMIA POLITICA. Tutti a scuola in Vaticano, per aggiornamenti. Materiali per approfondire
STORIA D’ITALIA. INTELLETTUALI E SOCIETA’....
VICO, LA «SCUOLA» DEL GENOVESI, E IL FILO SPEZZATO DEL SETTECENTO RIFORMATORE. Una ’Introduzione’ di Franco Venturi, tutta da rileggere
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE....
"Le donne non possono essere prete": lo stop di Ladaria
Il cardinale prefetto dell’ex Sant’Uffizio: "La dottrina è definitiva, sbagliato creare dubbi tra i fedeli. Cristo conferì il sacramento ai 12 apostoli, tutti uomini"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 maggio 2018)
CITTÀ DEL VATICANO - Si tratta "di una verità appartenente al deposito della fede", nonostante sorgano "ancora in alcuni paesi delle voci che mettono in dubbio la definitività di questa dottrina". A ribadire il "no" del Vaticano all’ipotesi dell’ordinazione presbiterale femminile è il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il neo-cardinale gesuita Luis Ladaria, in un lungo e argomentato articolo pubblicato sull’Osservatore Romano. Intitolato "Il carattere definitivo della dottrina di ’Ordinatio sacerdotalis’", il testo è scritto per fugare "alcuni dubbi" in proposito.
Evidentemente, il ritorno di proposte aperturiste circa le donne-prete avanzate soprattutto in alcuni paesi sudamericani in vista del Sinodo dei vescovi di ottobre dedicato all’Amazzonia, ha allarmato la Santa Sede che attraverso la sua massima autorità gerarchica ha voluto ribadire ciò che anche per Francesco sembra essere assodato: "Sull’ordinazione di donne nella Chiesa l’ultima parola chiara è stata data da Giovanni Paolo II, e questa rimane", ha detto Papa Bergoglio tornando nel novembre del 2016 dal suo viaggio lampo in Svezia.
Durante il Sinodo sull’Amazzonia uno dei temi centrali sarà quello della carenza di preti. Come superare il problema? In proposito, da tempo, si parla dell’opportunità di ordinare i cosiddetti viri probati, uomini sposati di una certa età e di provata fede che possano celebrare messa nelle comunità che, appunto, hanno scarsità di sacerdoti e dove è difficile che un prete possa recarsi con regolarità. Altri uomini di Chiesa fanno altre proposte: propongono, come ad esempio ha recentemente fatto monsignor Erwin Krautler della prelatura territoriale di Xingu in Amazzonia, che oltre ai viri probati si proceda con l’ordinazione delle diaconesse. Mentre altri ancora, invece, hanno parlato direttamente di donne-prete.
Ladaria ricorda che "Cristo ha voluto conferire questo sacramento ai dodici apostoli, tutti uomini, che, a loro volta, lo hanno comunicato ad altri uomini". E che per questo motivo la Chiesa si è riconosciuta "sempre vincolata a questa decisione del Signore", la quale esclude "che il sacerdozio ministeriale possa essere validamente conferito alle donne".
Già Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 22 maggio 1994, disse che "la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa". Mentre la Congregazione per la dottrina della fede, in risposta a un dubbio sull’insegnamento di Ordinatio sacerdotalis, ha ribadito che "si tratta di una verità appartenente al deposito della fede".
Chi vuole le donne-prete argomenta che la dottrina in merito non è stata definita ex cathedra e che, quindi, una decisione posteriore di un futuro Papa o concilio potrebbe rovesciarla. Dice, tuttavia, Ladaria che "seminando questi dubbi si crea grave confusione tra i fedeli" perché, Denzinger-Hünermann alla mano (l’autorevole volume che raccoglie simboli di fede, decisioni conciliari, provvedimenti di sinodi provinciali, dichiarazioni e scritti dottrinali dei Pontefici dalle origini del cristianesimo all’epoca contemporanea) la Chiesa riconosce che l’impossibilità di ordinare delle donne appartiene alla "sostanza del sacramento" dell’ordine. Una sostanza, dunque, che la Chiesa non può cambiare. "Se la Chiesa non può intervenire - dice ancora Ladaria - è perché in quel punto interviene l’amore originario di Dio".
Ladaria parla anche dell’infallibilità e del suo significato. Essa non riguarda solo pronunciamenti solenni di un concilio o del Papa quando parla ex cathedra, "ma anche l’insegnamento ordinario e universale dei vescovi sparsi per il mondo, quando propongono, in comunione tra loro e con il Papa, la dottrina cattolica da tenersi definitivamente". A questa infallibilità si è riferito Giovanni Paolo II in "Ordinatio sacerdotalis?, un testo che Wojtyla scrisse dopo un’ampia consultazione portata avanti a a Roma "con i presidenti delle conferenze episcopali che erano seriamente interessati a tale problematica". "Tutti, senza eccezione - ricorda Ladaria - hanno dichiarato, con piena convinzione, per l’obbedienza della Chiesa al Signore, che essa non possiede la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). Una storia di lunga durata...
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
IL "LOGOS" E LA "CHARITAS". Sul Vaticano, e su Roma, il "Logo" del Grande Mercante. Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
Il motto dello stemma episcopale del Vescovo Ausiliare di Roma, S.E.R. Mons. Angelo De Donatis
Le parole scelte da Don Angelo per il proprio motto episcopale sono tratte dal “De officiis ministrorum” di Sant’Ambrogio laddove dice “Sit inter vos pax, quae superat omnem sensum. Amate vos invicem. Nihil caritate dulcius,nihil pace gratius...”(“Sia tra di voi la pace che supera ogni sentimento. Amatevi gli uni gli altri. Nulla è più dolce dell’amore, nulla più gradevole della pace”) *
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Fonte: http://www.sanmarcoevangelista.it (ripresa parziale).
Federico La Sala
IL DIO MAMMONA ("CARITAS"), IL DENARO, E "IL GATTO CON GLI STIVALI". LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI ... *
PURGATORIO DE L’INFERNO, 10. "Questo è il gatto con gli stivali" *
Questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente
*
Edoardo Sanguineti
La poesia è tratta dalla raccolta Triperuno, dalla sezione Purgatorio de l’Inferno,1964.
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Ritratto critico di Edoardo Sanguineti. Prima parte - Seconda parte - Terza parte (di Angelo Petrella, "Belfagor", 2005 - "Nazione Indiana", 2017).
Federico La Sala
Quella cosa molto seria che si chiama dono.
di Luigino Bruni *
Una delle povertà più grandi del nostro tempo è quella delle domande generative. Siamo inondati di risposte a domande che non facciamo, a ricette per soluzioni di problemi che non avvertiamo come tali, e al contempo siamo dentro una carestia impressionante di domande grandi, capaci di farci intravvedere orizzonti nuovi, di attivare la nostra creatività individuale e collettiva, di spingerci all’azione per cambiare il mondo, e non solo per gestire l’ordinario business.
Una delle domande non fatte, ma che attraversa tacita l’intera nostra civiltà ha a che fare con una delle parole più abusate e umiliante della nostra generazione: il dono. Dovremmo sempre più tornare ad interrogarci, in un tempo dominato dal consumo e dalla ricerca del piacere che fine ha fatto il dono nella nostra vita, soprattutto nella sfera pubblica. E’ infatti il dono che crea la comunità (cum-munus, dono reciproco), veniamo al mondo e qualcuno ci accoglie con gratuità e la vita si rigenera non per i contratti ma per i doni.
E allora chiediamoci: che cosa diventa il dono quando lo trasformiamo in filantropia, quando finisce per svolgere il ruolo di tappabuchi dello stesso capitalismo? Possiamo ancora chiamare dono le donazioni che le multinazionali dell’azzardo fanno alle associazioni che si occupano delle loro vittime? Che cosa sta allora diventando il dono? E che cosa il mercato?
Domande impegnative, questioni che negli ultimi decenni sono uscite troppo velocemente dall’orizzonte della nostra società, dai temi trattati sui giornali e nei media, dagli argomenti insegnati nei corsi di economia e business. Il mercato nasce come elaborazione del dono. Millenni fa abbiamo iniziato a scambiare con il linguaggio del dono, il contratto è nato dal patto, le monete avevano come effige gli dei, e il primo contratto che troviamo nella Bibbia è l’acquisto di Abramo della terra per la tomba della moglie Sara (Genesi).
Se giungiamo alla modernità, vediamo che il capitalismo nasce come riflessione sul rapporto fra dono (grazia, charis) e mercato. La Riforma protestante è stata decisiva per la natura del capitalismo moderno. Nata dalla ferita di un mercato che era penetrato nel cuore del dono (il mercato delle indulgenze), l’umanesimo luterano e calvinista si è caratterizzato per una netta separazione tra l’ambito del mercato e quello del dono, tra l’economia for-profit intesa come il regno degli interessi e dei contratti e quella non-profit vista come il luogo della gratuità.
L’umanesimo latino-cattolico, invece, non ha mai smesso di mescolare dono e contratto, grazia e mercato, profitto e gratuità, e l’economia cooperativa, l’impresa famigliare e la cosiddetta Economia civile sono comprensibili solo all’interno di un umanesimo meticcio, con le sue tipiche ferite e benedizioni - come ho cercato di dimostrare nel mio ultimo saggio Il mercato e il dono. Gli spiriti del capitalismo, Egea Bocconi 2015. Il nostro tempo sta conoscendo un appiattimento delle differenze regionali, del genius loci dei diversi capitalismi, sotto l’incedere di una ideologia che ci sta convincendo che il capitalismo «buono» è uno solo, quello costruito attorno agli incentivi, all’individuo e all’efficienza, i tipici valori dell’umanesimo protestante, relegando così il dono e i suoi valori in una sfera sempre più angusta e irrilevante.
Il dono è una cosa molto seria. E’ diventato quasi impossibile parlare bene oggi del dono, perché lo abbiamo messo in un angolo, e ridotto a ben poca cosa, soprattutto nella sfera pubblica, civile, economica. L’attacco al dono è comunque cosa antica. Abbiamo iniziato a relegarlo in ambiti molto angusti quando, anche per responsabilità di una certa teologia cristiana, tra l’Umanesimo e la modernità abbiamo iniziato a pensare che la giustizia fosse veramente essenziale per la costruzione di una buona società, e che, invece, la carità fosse un di più. La giustizia - abbiamo pensato e scritto - chiede di dare a ciascuno il suo, la carità di andare oltre il proprio. La giustizia è necessaria, la carità è facoltativa. La giustizia è essenziale, la carità volontaria, quindi inessenziale. La giustizia è importante, la carità superflua.
Il passo verso l’inutilità della carità è stato immediato, e così abbiamo immaginato una giustizia possibile senza agape, e una vita in comune buona senza amore civile. Abbiamo pensato che la carità/agape/amore potesse essere utile in alcuni ambiti specialistici - famiglia, le chiese, un certo non-profit, nella gestione delle emergenze umanitarie ... - ma che per la vita ordinaria pubblica ci bastasse la giustizia, che è già cosa molto ardua. I contratti e gli interessi sono necessari, il dono no: ci viene sempre più presentato come qualcosa di carino, il limoncello alla fine di una cena, che se c ’è fa piacere, ma se non c ’è in fondo nessuno se n ’accorge (tranne, nel lungo periodo, i produttori di limoncello). Il dono nella nostra società finisce per pesare per il 5 o l’8 per mille, e dobbiamo anche scontare l’evasione fiscale.
Il primo colpo, quasi mortale, al dono lo abbiamo allora dato quando, ormai da un po’ di anni, abbiamo ridotto la carità all’elemosina, alle donazioni, alla filantropia, alle offerte in chiesa, alle pesche di beneficienza o (molto più recentemente) ai due euro degli SMS umanitari. Abbiamo così, e nel giro di qualche decennio, annullato quell’operazione mirabile che fecero i cristiani dei primi secoli, quando scelsero di tradurre agape (l’amore gratuito) con charitas.
La caritas (senza h ) era, nel tardo latino, una parola economica - è antico il rapporto tra dono e mercato. Era usata dai mercanti per indicare il valore delle cose: un bene era caro se valeva e costava molto, come diciamo ancora oggi. Ai cristiani, in cerca di una parola latina per tradurre l’amore-agape, una parola diversa da amor (troppo vicino all’eros greco), trovarono in caritas una buona soluzione. Ma volevano differenziarla, almeno un po’, dalla parola economica del loro tempo. E così vi aggiunsero quella ‘h’, che era tutt’altro che muta, perché voleva dirci una cosa importante: charitas traduce le due grandi parole greche su cui si stava fondando la chistianitas (ancora questo ch): agape e charis, amore e gratuità, grazia. In quella charitas c’era praticamente quasi tutto: le vite donate dai martiri del loro tempo, gran parte dell’insegnamento delle lettere di Paolo, il kerigma dei vangeli; ma c ’era soprattutto un messaggio: la persona umana è capace di charitas, perché è capace di amare oltre l’eros e oltre la già grande philia (amicizia). È capace di oltrepassare il registro della condizionalità, persino oltre quel bisogno radicale di reciprocità che muove il mondo, e anche le stelle.
Questo era il dono: agape, charis, charitas. Questo non è più il dono nella nostra società. Cose, parole, realtà, che hanno generato, come ingredienti coessenziali, Notre Dame de Paris, il Duomo di Milano, gli affreschi di Signorelli a Orvieto e quelli di Michelangelo a Roma, la cappella Baglioni a Spello, le prime scuole per le ragazze povere a Viterbo, Barbiana, tante Costituzioni democratiche, le casse rurali che ci hanno salvato dalla miseria dei campi e generato il miracolo economico, una casa e un cuore per i disperati di Calcutta. E questo continua ad essere ancora in alcune periferie della nostra civiltà il dono: una energia straordinaria che continua a far nascere, per motivazioni più grandi del denaro, molte istituzioni, associazioni, cooperative, imprese. Che continua a farci alzare al mattino per andare a lavorare, per soffrire molto quando perdiamo il lavoro, perché smettendo di lavorare smettiamo non solo di percepire un reddito, ma non possiamo più donare la nostra vita lavorando, e ci fa gioire molto quando il lavoro lo ritroviamo. Tutto questo è il dono, ma non lo vediamo più. Se vogliamo veramente cominciare a sognare e costruire una nuova civiltà, prima di prevedere gli incentivi, gli sgravi fiscali e la crescita del PIL, dobbiamo tornare a vedere quella cosa molto seria che si chiama dono.
* Cfr. [DOC] 151028_BCC_Quella cosa molto seria che si chiama dono.docx
www.consorziofarsiprossimo.org/il-contenuto-della-chiavetta.../14-bruni?...bruni
* Cfr.INTRODUZIONE a Il mercato e il dono. Gli spiriti del capitalismo
IN MEMORIA DI SANT’AGOSTINO (E IN ONORE DEL LAVORO DELLA FONDAZIONE "TERRA D’OTRANTO").
Lode a Marcello Gaballo per questa bellissima e preziosa nota su "L’affresco di sant’Agostino nella cattedrale di Nardò" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/28/laffresco-di-santagostino-nella-cattedrale-di-nardo/#_ftn1) - e il lavoro di De Giorgi: la sua trascrizione della scritta sul cartiglio (ormai scomparsa) "iuste/et cas/te viv/ere et/ xarita(te)" - contrariamente alla protervia che ha portato allo "sproposito maiuscolo" e alla brutta abitudine instauratasi almeno a partire da Ludovico A, Muratori di una "caritas" latina! - conserva ancora la memoria del legame della tradizione dell’evangelo (non: "vangelo"!) con la lingua greca ("charis", "charites"... "charitas").
FILOLOGIA E FILOSOFIA/TEOLOGIA. Giambattista Vico ("De constantia iurisprudentis", 1721) giustamente e correttamente e onestamente così pensava e scriveva: "Solo la carità cristiana insegna la prassi del Bene metafisico"("Boni metaphysici praxim una charitas christiana docet"). Sapeva che Gesù ("Christo") aveva cacciato i mercanti FUORI dal tempio, e non aveva autorizzato i sacerdoti a vendere a "caro-prezzo" (lat.: "caritas") la "grazia" (gr.: "Xapis", lat.: "Charis") di Dio (lat.: "Charitas")!!! Due padroni: Dio "Charitas" o dio "Caritas"?!, Dio Amore o dio Mammona?! In questo bivio ("X") ancora siamo, oggi - e ancora non sappiamo sciogliere l’incognita (""x")!
Sul tema, mi sia consentito, si cfr. la seguente nota:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori.
MURATORI E RATZINGER. "DEUS CARITAS EST": FINE DEL CRISTIANESIMO. TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
ALLA LUCE DEL lavoro di ARMANDO POLITO e MARCELLO GABALLO SU "SANTA MARIA DI CASOLE E LE SUE SIBILLE" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/24/santa-maria-casole-copertino-le-sue-sibille/), all’affresco di Sant’Agostino (databile forse più precisamente nella seconda metà del sec. XV), mi augurerei una rinnovata e maggiore attenzione non solo a tutta la figura dell’affresco ma, in particolare, all’immagine del bastone-pastorale con i suoi DUE SERPENTI. Essa richiama, con chiarezza, non solo la figura di Mosè ma anche e soprattutto la figura di ERMETE TRISMEGISTO con il suo caducèo (e, con essa, della Sibilla Pizia, di Apollo, e di Delfi).
L’affresco di Sant’Agostino nella cattedrale di Nardò, a mio parere, è un luminosissimo segno "manifesto" della diffusione della concezione umanistico-rinascimentale nella Terra d’Otranto e, insieme, del grande lavoro che porterà infine la Chiesa e Michelangelo a celebrare le Sibille (5) insieme ai Profeti (7) nella Volta della Cappella Sistina: ovvero, dice chiaramente del ruolo "giocato" dalla figura di Agostino nella costruzione dell’ orizzonte ecumenico umanistico e rinascimentale.
Sul tema, si cfr., unitamente al già citato lavoro di A. Polito e M. Gaballo, la mia nota sul
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
NEL LIBRO DI Marcello Gaballo e Armando Polito, "Santa Maria di Casole a Copertino (Lecce) ed altri repertori di Sibille" (Fondazione Terra d’Otranto 2017), è ripreso l’intero capitolo 23 del Libro XVIII del "De civitate Dei" (per eventuali approfondimenti, si cfr. sant’Agostino, "La città di Dio": http://www.augustinus.it/italiano/cdd/index2.htm)
PER MEGLIO CAPIRE il filo che lega l’ecumenismo umanistico-rinascimentale (Niccolò Cusano, "La pace della fede", 1453) con l’ecumenismo del presente attuale (nuovo Concilio di Nicea, 2025) e, insieme, la portata simbolica del particolare PASTORALE di sant’Agostino nell’affresco della Cattedrale di Nardò, mi sia consentito rinviare all’immagine del pastorale del Patriarca di Costantinopoli e all’intervista relativa all’ INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5791).
Federico La Sala
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Amore e responsabilità (Karol J. Wojtyla) - e "caritas" (J. Ratzinger) !!! Fonti cattoliche a confronto...
MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?!
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Chi ha paura di Jorge Mario Bergoglio
di Riccardo Cristiano (Articolo 21, 1 settembre 2017)
Le anticipazioni di un libro intervista che contiene la trascrizione di dodici dialoghi con il sociologo Dominique Wolton (titolo: “Politique et sociétéˮ, edizioni L’Observatoire) riferiscono che Papa Francesco ha detto di essere andato per alcuni mesi da una psicanalista. In queste ore non sono pochi i giornali che riferiscono le condanne preconciliari della psicanalisi. Forse è il bisogno di trovare qualcosa di “inaudito” in quanto ha detto Bergoglio. Eppure a partire da Pio XII, passando attraverso gli apprezzamenti positivi del Vaticano II nei confronti della psicologia del profondo, si è giunti al riconoscimento di Paolo VI - nella Sacerdotalis coelibatus (1967) - della possibile necessità di un aiuto psicanalitico per i sacerdoti in difficoltà. Questa evoluzione è stata facilitata da una schiera di psicoanalisti dichiaratamente cattolici.
C’è un saggio, ad esempio, del professor Bresciani sul debito della Chiesa verso la psicoanalisi e Sigmund Freud nel quale possiamo leggere: “Freud, nonostante proponesse una vera e propria antropologia, militava decisamente per l’alleanza terapeutica con il malato; mettendosi a livello del sofferente si prestava ad un ascolto profondo e ad una partecipazione alla sua vita emotiva. [Un studio del professor] Ancona vede qui un Freud vicino alla pedagogia cristiana più di quanto egli stesso pensasse. Il suo ideale di uomo come colui che è capace di «amare e lavorare», la sua posizione sulla possibilità di sublimazione della sessualità, la conclusione della sua opera di ricerca con l’affermazione che la coscienza «resta la sola luce che nelle tenebre della vita psichica ci illumina e ci guida», erano posizioni passibili di sviluppi meno conflittuali.”
Passa in ombra così l’usuale coraggio di Jorge Mario Bergoglio, che anche in questa “confessione” di essere andato per sei mesi da una psicanalista ebrea, che lo ha molto aiutato, sembra stare in questo: anch’io sono un uomo, e tutti gli uomini hanno bisogno di aiuto. Lo dice lui, noi lo diciamo molto più difficilmente. -L’epoca buia dello scontro tra religione e psicanalisi è andata in soffitta da tempo. Ma siccome siamo in un’epoca che si fa nuovamente buia, intrisa di odio per l’altro, di pregiudizio, fondamentalmente di paura, sono moltissime le affermazioni fatte da Papa Francesco che colpiscono. E che per leggere bene dovremmo avere il suo stesso coraggio, cioè quello di toglierci il paraocchi e leggere per quel che sono. Un invito ad andare oltre gli steccati di oggi, oltre quei confini che ci chiudono in ghetti tanti asfittici quanto rassicuranti.
Leggiamo alcuni altri passaggi fondamentali delle sue riflessioni, partendo dall’ Africa e i migranti.
“[...]L’Europa ha sfruttato l’Africa ... non so se possiamo dirlo! Ma alcune colonizzazioni europee... sì, hanno sfruttato. Ho letto che un capo di stato africano appena eletto come primo atto di governo ha presentato al Parlamento una legge per il rimboschimento del suo paese - ed è stata promulgata. Le potenze economiche del mondo avevano tagliato tutti gli alberi. Rimboschire. La terra è secca per essere stata sfruttata e non c’è più lavoro. La prima cosa da fare, come ho detto alle Nazioni Unite, al Consiglio d’Europa in tutto il mondo, è trovare qui fonti per creare di posti di lavoro, investire. È vero che l’Europa deve investire anche a casa propria. Anche qui esiste un problema di disoccupazione. L’altro motivo per la migrazione è la guerra. Possiamo investire, le persone avranno una fonte di lavoro e non dovranno partire, ma se c’è guerra, dovranno ancora fuggire. Ora chi fa la guerra? Chi dà le armi? Noi.”
Per un uomo come Papa Francesco generalizzare è sempre difficile, ma se proprio deve farlo non generalizza sulle “razze”, ma sulle azioni degli Stati e le loro conseguenze. Per condannare? No, per esortare a invertire tendenza, a non cercare scorciatoie, a non vedere nelle vittime degli esseri inferiori, ma delle vittime.
Passiamo a Laicità e religioni. “Lo stato laico è una cosa sana. C’è una laicità sana. [...] Credo che la Francia - questo è il mio parere personale, non quello ufficiale della Chiesa - dovrebbe “elevareˮ un po’ il livello della laicità, nel senso che deve dire che anche le religioni sono parte della cultura. Come esprimerlo in modo laico? Attraverso l’apertura alla trascendenza. Ognuno può trovare la sua forma di apertura.” Come si vede, come si legge, qui non c’è una pretesa di superiorità del credente, ma la rivendicazione della spiritualità dell’uomo, del suo bisogno “naturale” di trascendenza.
Quarto punto, l’Europa. “Non vedo più Schumann, non vedo più Adenauer... L’Europa, in questo momento, ha paura. Chiude, chiude, chiude... L’Europa ha una storia di integrazione culturale, multiculturale come dice lei, molto forte. I Longobardi, i nostri Longobardi oggi, sono barbari che sono arrivati molto tempo fa... E poi tutto si fonde e abbiamo la nostra cultura. Ma qual è la cultura europea? Come definirei oggi la cultura europea? Sì, ha importanti radici cristiane, è vero. Ma non è sufficiente per definirla. Ci sono tutte le nostre capacità. Queste capacità per integrarsi, per ricevere gli altri. C’è anche la lingua nella cultura. Nella nostra lingua spagnola, il 40% delle parole è arabo. Perché? Perché erano lì per sette secoli. E hanno lasciato il segno... Credo che l’Europa abbia delle radici cristiane, ma non sono le uniche. Ci sono altre che non possono essere negati. Tuttavia, credo che sia stato un errore non citare le “radici cristianeˮ nel documento dell’Unione europea sulla prima Costituzione, e questo è stato anche commesso dai governi. Era un errore non vedere la realtà. Questo non significa che l’Europa debba essere interamente cristiana. Ma è un patrimonio, un patrimonio culturale, che abbiamo ricevuto.”
C’è qualcosa di enorme in queste parole, in questa capacità di ricordarci che quel che è stato vero ieri è vero anche oggi. Non esiste purezza, esiste contaminazione. La purezza è delle pietre, la contaminazione è della vita. Anche se non vogliamo più capirlo qualcuno, per fortuna, ce lo ripete.
L’insistenza sulla morale «sotto la cintura». “Ma noi cattolici, come insegniamo la moralità? Non puoi insegnarla con precetti del tipo: “Non puoi farlo, devi farlo, devi, non devi, puoi, non puoiˮ. La morale è una conseguenza dell’incontro con Gesù Cristo. È una conseguenza della fede, per noi cattolici. E per altri, la moralità è una conseguenza dell’incontro con un ideale, o con Dio, o con se stessi, ma con la parte migliore di se stessi. La morale è sempre una conseguenza... C’è un grande pericolo per i predicatori, quello di cadere nella mediocrità. Condannare solo la morale - la prego di perdonare l’espressione - “sotto la cinturaˮ. Ma degli altri peccati, quali l’odio, l’invidia, l’orgoglio, la vanità, l’uccisione dell’altro, prendere la vita, non se ne parla. Entrare nella mafia, fare accordi clandestini...”
Il Vaticano, se posso dir così, è apparso a lungo strabico: l’etica vista dalla Città del Vaticano sembrava riguardare l’inizio e la fine della vita, la morale limitata alla sfera sessuale... Ora l’etica torna a riguardare tutta la vita, dal momento in cui si concepisce a quando si muore, passando però per tutti i momenti della nostra esistenza: da quando sfruttiamo a quando veniamo sfruttati, da quando siamo vittime a quando facciamo nostra vittima un altro. Poco?
Amoris laetitia e rigidità. “La tentazione è sempre quella dell’uniformità delle regole... Prenda ad esempio l’esortazione apostolica Amoris laetitia. Quando parlo di famiglie in difficoltà, dico: “Dobbiamo accogliere, accompagnare, discernere, integrare...ˮ e poi ciascuno vedrà le porte aperte. Quello che sta realmente accadendo è che le persone sentono dire la gente: “Non possono fare la comunione”, “Non possono farlo”: la tentazione della Chiesa è lì. Ma “noˮ, “noˮ e “noˮ!”
Papa Francesco parla di uniformità delle regole, si potrebbe dire che allora la sua Chiesa non si pensa un giudice eterno ed esterno alla storia. Poco?
«L’aborto rimane un peccato grave». “ L’estensione del potere di assolvere il peccato dell’aborto a tutti i sacerdoti, «attenzione, questo non significa banalizzare l’aborto. L’aborto è grave, è un peccato grave. È l’omicidio di un innocente. Ma se c’è peccato, è necessario facilitare il perdono.” Un papa non poteva fare un esempio più rilevante e drammatico per indicare la portata rivoluzionaria della misericordia. Che non è “cancellare il peccato”, ma rigenerare la vita del peccatore. La misericordia così appare la vera cultura alternativa all’odio e, quindi, al terrorismo.
Reciprocità con i musulmani. “Non accettano il principio della reciprocità. Alcuni paesi del Golfo sono aperti e ci aiutano a costruire chiese. Perché sono aperti? Perché hanno lavoratori filippini, cattolici, indiani... Il problema in Arabia Saudita è che è davvero una questione di mentalità. Con l’Islam, comunque, il dialogo sta andando bene, perché non so se lo sa, ma l’Imam di Al-Azhar è venuto a trovarmi. E ci sarà incontro: vado. Penso che farebbe bene a loro fare uno studio critico sul Corano, come abbiamo fatto con le nostre Scritture. Il metodo storico e critico di interpretazione li farà evolvere.”
E’ questo il punto per me più importante, più forte. Senza nessuna pretesa di superiorità, né religiosa né culturale, Bergoglio indica la strada della salvezza dell’islam, in una parola: ermeneutica. Non esita a far presente ai suoi interlocutori il punto decisivo, il punto “critico”, ma lo fa per il bene dell’islam, dei musulmani. E questo, francamente, è commovente.
*
SUL TEMA, BEL SITO, SI CFR.:
EUROPA ED EVANGELO. LA ’CROCE’ DI CRISTO ("X" = lettera alfabeto greco) NON HA NIENTE A CHE FARE CON IL "CROCIFISSO" DELLA TRADIZIONE COSTANTINIANA E CATTOLICO-ROMANA.
Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è morto.
INDIETRO NON SI TORNA: GIOVANNI PAOLO II, L’ULTIMO PAPA. PER IL DIALOGO A TUTTI I LIVELLI: UT UNUM SINT.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
L’URLO ("HOWL") DI FINNEGANS: "WAKE", "SVEGLIARSI"!
DOMANDE, SAPERE, E POTERE (TEOLOGICO POLITICO PEDAGOGICO E SESSUALE): ...
“FAQ”, “FAKE”, “FUCK”: ATTENZIONE A QUESTE TRE PAROLE ormai di uso comune. Facendo interagire la loro scrittura, la loro pronuncia, e i loro significati, viene alla luce un prezioso invito ad “avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza” (Kant) e a porre “domande su tutto!” (Confucio).
Alle "domande poste frequentemente" (“Frequently Asked Questions, meglio conosciute con la sigla FAQ - pronuncia, in inglese: “F”, “A”, “Q”), CHI risponde (?!), se SA, dà le risposte che sa (fa il suo dovere, e si ferma!), ma, se NON sa e pretende di sapere (come spesso accade - in un abuso di autorità permanente e, ovviamente, di non rispetto di CHI pone le domande), dà solo risposte “false e bugiarde” (FAKE - parola inglese, pronuncia “feik”, che sta a significare "falso", "contraffatto", "alterato". Nel gergo di internet, un fake è un utente che falsifica in modo significativo la propria identità), che cercano solo di ingannare, fregare, fottere in tutti i sensi ( FUCK - parola inglese, pronuncia “fak” - "fach", " faq!": come interiezione equivale all’italiano - cazzo!, come sostantivo: scopata, come verbo: scopare, fottere!).
Non è meglio sapere CHI siamo e cercare di uscire dalla caverna - con Polifemo, Ulisse e compagni (come con il Minotauro, Teseo e Arianna) - senza "fottere" Nessuno e senza mandare Nessuno a farsi “fottere”! O no? La tragedia è finita da tempo!
Federico La Sala
*
A) James Joyce, Finnegans Wake (Libro Primo V-VIII, Oscar Mondadori, Milano 2001, pp. 195-195 bis).:
"He lifts the lifewand and the dumb speak
Quoiquoiquoiquoiquoiquoiquoiq"
"Egli brandisce la bacchetta della vita e i muti parlano
Quoiquoiquoiquoiquoiquoiquoiq" *
Quoì-quoì-quoì-quoì-quoì-quoì-quoì...
Quà-quà-quà-quà-quà-quà-quà-quà-quà...
B) Gesù - nel messaggio evangelico, cfr. Marco 7, 31-37:
Di ritorno dalla regione di Tiro, passò per Sidone, dirigendosi verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.
E gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano.
E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: «Effatà» cioè: «Apriti!».
E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
C) KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
D) A SCUOLA CON JOYCE. LEGGERE E RILEGGERE FINNEGANS WAKE.
E) "CHI" SIAMO: LA LEZIONE DEL PRESIDENTE MANDELA, AL SUDAFRICA E AL MONDO.
Federico La Sala
ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA....
L’evoluzione di un mito che resiste fino al libro di Abécassis e Lacombe
Golem
I segreti del primo umanoide padre di replicanti e di robot
di Marino Niola (la Repubblica, 12.07.2017)
Il primo umanoide della storia è nato cinque secoli fa nel cuore della Praga magica, quando, nell’oscurità sapienziale della Sinagoga Vecchia-Nuova, un Golem prese vita tra le mani del Rabbino Judah Loew, grande cabalista, talmudista e matematico. Che riuscì ad animare quella creatura di fango intonando nenie magiche e incidendo sulla sua fronte le lettere del nome di Dio. Di fatto il sapiente conoscitore delle scritture aveva ricreato la creazione. Il suo colosso d’argilla era una sorta di Adamo senz’anima, asservito al suo creatore e del tutto privo di coscienza. Anche se a furia di perfezionamenti e apprendimenti, finisce per emanciparsi dal suo creatore.
Il mito del gigante dalla forza sovrumana, nato per difendere il popolo d’Israele dai suoi nemici, è arrivato fino a noi ed è diventato di fatto il padre di tutti gli automi che abitano il nostro immaginario. Come racconta la bellissima mostra del Mahj (Museo di Arte e Storia del Giudaismo) di Parigi. Titolo, Golem! Avatar d’une legende d’argile (fino al 16 luglio). I curatori, Paul Salmona e Ada Ackerman hanno messo insieme con scelte espositive di grande suggestione dei pezzi da urlo. Documenti preziosi, testi religiosi, immagini, film, affiches, opere di artisti contemporanei, fumetti, videogiochi e robot per mostrare vita, morte e miracoli di questo archetipo di tutti i mostri. Da Frankenstein alla Cosa, da Hulk a Terminator, dai replicanti ai Pokemon. Tutti figli della creatura leggendaria animata dal grande MaHaRaL di Praga, acronimo di Nostro Maestro Rabbino Loew. -Così i suoi concittadini avevano soprannominato Judah, circondato da un’aura di mistero che il tempo e gli uomini non hanno scalfito. La sua statua, che troneggia davanti al municipio praghese, ha resistito ai regimi, alle bombe, alle intemperie e ai graffitari. Perfino gli uccelli, si dice, evitano di poggiarsi sulla testa del MaHaRaL. Certo è che questo sapiente, amico di Tycho Brahe e Keplero, ha il merito di aver traghettato la figura del Golem dall’antica teologia alla moderna mitologia.
Non senza l’aiuto della letteratura e del cinema. Ad aprire la serie è lo scrittore esoterista austriaco Gustav Meyrink che con il suo romanzo Der Golem, uscito nel 1915, fa del gigante la matrice di tutte le nostre creature artificiali, reali e immaginarie. Con il contributo di un grande illustratore come Hugo Steiner-Prag, che dà al simulacro animato un volto destinato a entrare nell’immaginario globale.
Il resto lo fa il grande schermo che celebra il primo mostro di celluloide con la trilogia di Paul Wegener (1915-20), celebre esponente dell’espressionismo tedesco. Che nella trasposizione cinematografica della leggenda ci crede tanto da metterci la faccia. Sarà lui stesso, infatti, con la sua stazza imponente a vestire i panni dello spaesato Moloch. La meccanica rudimentale della sua camminata, il suo caschetto da sfinge faranno scuola, grazie anche alla fotografia di Karl Freund, collaboratore fisso di Fritz Lang e creatore di Maria, il robot di Metropolis.
Da allora l’androide di argilla diventa il simbolo della creatura che sfugge al controllo del creatore. Della ribellione delle macchine che disobbediscono all’uomo, esattamente come questo ha disobbedito a Dio. Non a caso la prima menzione del termine Golem si trova nel Salmo 139 della Bibbia ed esce dalla bocca di Adamo che si rivolge al Signore definendosi una massa informe. E di fatto si autoproclama primo golem di sempre. Era il parere di quei dottissimi rabbini che nel Medioevo e nel Rinascimento si interrogavano sulla natura e sul ruolo sociale di questi diversamente uomini. Che stando al Talmud era realmente possibile animare usando come tutorial il Sefer Yetsirah, il Libro della creazione, che fornisce istruzioni dettagliate sulle combinazioni alfanumeriche usate da Dio per mettere in moto la macchina del mondo. Una cosmogonia che si fonda sulla magia generativa dei numeri e delle lettere.
E infatti il Golem comincia a vivere grazie alla potenza del termine emet, in ebraico verità. E smette di vivere quando l’iniziale viene cancellata e restano i tre caratteri di met che significa morte. È un principio binario che cifra in un algoritmo il segreto della vita. Non a caso il primo computer prodotto da Israele nel 1965, fu battezzato Golem I e a scegliere il nome fu Gershom Scholem, il grande filosofo, teologo e cabalista amico di Walter Benjamin.
E proprio con la robotica e la cibernetica si conclude la mostra parigina. Corpi aumentati, ibridazioni genetiche, nanotecnologie, transazioni informatiche, avatar. Forme di golemizzazione della realtà. Nel senso che segnano il passaggio dal Golem originario, copia rudimentale e incompleta dell’uomo, a un Golem post-umano che è a tutti gli effetti un uomo ulteriorizzato.
Deve averlo pensato anche Bill Gates quando di recente ha proposto di tassare i robot come se fossero individui. Declinando al presente la domanda che ci pone da sempre il mostro di argilla. Cos’è che definisce la persona? La natura, la forma o la funzione? La stessa domanda che si pone e ci pone anche la carismatica e dilemmatica Lisa Simpson, in un episodio dove il Golem piomba nella famiglia di Homer e Marge.
La risposta è nessuna delle tre. Perché a rendere umani sono la coscienza e i sentimenti. Quelle lacrime nella pioggia che fanno brillare un lampo di umanità nel replicante di Blade Runner. O il balbettio del Golem Josef, protagonista della versione più recente della leggenda. Contenuta nel bellissimo libro L’ombra del Golem, di Éliette Abécassis, splendidamente illustrato da Benjamin Lacombe e appena tradotto in italiano da Camilla Diez (Gallucci, pagg. 184, euro 19,90).
Un avvincente racconto per ragazzi che riscrive la leggenda praghese dalla parte delle bambine. In questo caso, infatti, è Zelmira, la pupilla del MaHaRaL, a far breccia nel cuore del gigante che si è ribellato al suo costruttore e ad arrestare la sua furia distruttiva.
«Golem volere bene a Zelmira ». Sono le ultime parole del mostro prima che Judah lo disattivi chiudendo per sempre quegli occhi che Borges definiva «meno di uomo che di cane e ancor meno di cane che di cosa». Come dire che solo l’amore ha più potere del nome di Dio.
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
La dottrina della Trinità si può spiegare con una parola: amore
di Mons. Marcello Semeraro *
Otto giorni dopo Pentecoste, la Chiesa cattolica celebra la festa della Santissima Trinità. Per la Chiesa, in realtà, ogni liturgia è sempre lode al Padre mediante il suo Figlio Gesù nella comunione dello Spirito e pure invocazione di ogni dono dalla stessa Trinità. Tutto è sinteticamente evocato da quanto si legge nella II lettera di san Paolo ai Corinti e costituisce oramai il saluto abituale con il quale si apre ogni celebrazione liturgica: “La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore del Padre e la comunione dello Spirito Santo”. La sequenza di grazia/amore/comunione non è ispirata da una teoria astratta, bensì dalla storia evocata da quel che leggiamo nel Vangelo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto... perché il mondo sia salvato per mezzo di lui”.
Ecco, questo evento dell’avere “donato” il proprio unico Figlio e, come si legge subito dopo, di avere “mandato” il Figlio nel mondo, insieme con quanto similmente è detto dello Spirito (ad esempio, nella lettera ai Galati 4,6: “Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio”) ... proprio questo è il punto di partenza, la categoria fondamentale della dottrina cristiana della Trinità. Convinzione che nasce da un’esperienza, che è specificità assoluta della fede cristiana così da offrire la possibilità di distinguere ciò che è cristiano, da ciò che non lo è.
La confessione trinitaria è la forma cristiana del monoteismo. A chi domandasse dove sia il tema unificante le tre letture bibliche indicate dal lezionario per la Messa di questa Domenica, dovremmo rispondere che sta nella parola amore!
Consideriamo l’autoidentificazione di Dio a Mosè: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà” (Esodo 34,6). Paolo scrive: “Dio dell’amore”. Abbiamo qui una chiave per intuire qualcosa del mistero della Trinità: nell’amore tutto è unificato. Annotava Pascal: “La moltitudine che non si riduce all’unità è confusione; l’unità che non dipende dalla moltitudine è tirannia” (Pens. 871). In Dio è l’amore a mediare l’unità e la molteplicità. Nella tradizione dell’Oriente cristiano l’icona principe di questo mistero è quella di Rublev, al punto che Pavel Florenski ha potuto esclamare: “Esiste la Trinità di Rublev, dunque Dio esiste”! L’icona evoca la visita ad Abramo di tre pellegrini narrata nel libro della Genesi (cap. 18). Il mistero che da lì traluce è una comunione di amore. In tale prospettiva, alla domanda ‘chi è il cristiano?’ la risposta non potrà che essere la seguente: uno che ha creduto all’amore.
Esattamente in questo senso nella sua prima lettera enciclica Benedetto XVI ha sottolineato che all’inizio dell’essere cristiano non c’è né una grande idea, né una decisione etica, ma l’incontro con una Persona che dà alla vita un nuovo orizzonte e una direzione decisiva.
Papa Ratzinger citava poi il passo del Vangelo: “Dio ha tanto amato il mondo...” e lo commentava così: “Con la centralità dell’amore, la fede cristiana ha accolto quello che era il nucleo della fede d’Israele e al contempo ha dato a questo nucleo una nuova profondità e ampiezza. Gesù ha unito, facendone un unico precetto, il comandamento dell’amore di Dio con quello dell’amore del prossimo contenuto nel Levitico. Siccome Dio ci ha amati per primo, l’amore adesso non è più solo un ‘comandamento’, ma la risposta al dono dell’amore col quale Dio ci viene incontro”. Importante è pure come egli conclude: “In un mondo in cui al nome di Dio viene a volte collegata la vendetta o perfino il dovere dell’odio e della violenza, questo è un messaggio di grande attualità e di significato molto concreto” (Deus caritas est n. 1).
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di Mons. Marcello Semeraro Vescovo di Albano
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
Chiedi al teologo
Non abbandonarci «alla» o «nella» tentazione?
di Luigi Lorenzetti (Famiglia Cristiana, 02/06/2017)
Nella nuova traduzione della Bibbia Cei (2008) la dizione «Non c’indurre in tentazione», è cambiata in «Non abbandonarci alla tentazione». La tentazione mette la libertà-responsabilità della persona di fronte a un bivio: il bene e il male. Ad esempio, aiutare il prossimo o lasciarlo perdere? Per scegliere il bene, è necessario l’aiuto di Dio che, d’altra parte, non lo impone a nessuno. Da qui la consapevolezza d’averne bisogno e di chiederlo fiduciosi nella preghiera. Il significato della nuova dizione è tutto nell’invocazione «Non abbandonarci» alla (traduzione ufficiale) o (il che è lo stesso) nella tentazione. Nell’una come nell’altra versione, è chiara la distinzione tra «essere tentati» e «consentire ». È consolante pensare e credere che Dio è sempre presente alla (o nella) tentazione, così da vincerla, anzi, trasformarla in conferma nella scelta del bene.
Il secondo giorno al Cairo
Il Papa: «L’unico estremismo ammesso per un credente è la carità»
Francesco ha concluso il suo viaggio in Egitto con la Messa con 30mila fedeli cattolici allo stadio militare del Cairo e l’incontro con i religiosi: «Siate luce tra profeti di distruzione»
di Redazione Internet *
Il secondo giorno al Cairo di Papa Francesco è dedicato alla piccola comunità cattolica egiziana (lo 0,30% circa della popolazione). Alle 10 è cominciata la Messa (in latino e arabo) nello stadio militare, davanti a circa 30mila tra fedeli cattolici, pellegrini, ma anche ortodossi e musulmani che lo hanno accolto con canti, striscioni di benvenuto, palloncini bianchi e gialli come i colori della bandiera del Vaticano, e con bandiere dell’Egitto. Ad accoglierlo, il patriarca copto cattolico Ibrahim Isaac Sidrak.
"Dio gradisce solo la fede professata con la vita, perché l`unico estremismo ammesso per i credenti è quello della carità! Qualsiasi altro estremismo non viene da Dio e non piace a Lui!". Così papa Francesco durante l’omelia pronunciata nel corso della celebrazione eucaristica all’Air Defense Stadium de Il Cairo.
"La fede vera - ha aggiunto il Papa - è quella che ci rende più caritatevoli, più misericordiosi, più onesti e più umani; è quella che anima i cuori per portarli ad amare tutti gratuitamente, senza distinzione e senza preferenze; è quella che ci porta a vedere nell`altro non un nemico da sconfiggere, ma un fratello da amare, da servire e da aiutare; è quella che ci porta a diffondere, a difendere e a vivere la cultura dell`incontro, del dialogo, del rispetto e della fratellanza; ci porta al coraggio di perdonare chi ci offende, di dare una mano a chi è caduto; a vestire chi è nudo, a sfamare l`affamato, a visitare il carcerato, ad aiutare l`orfano, a dar da bere all`assetato, a soccorrere l`anziano e il bisognoso. La vera fede è quella che ci porta a proteggere i diritti degli altri, con la stessa forza e con lo stesso entusiasmo con cui difendiamo i nostri. In realtà, più si cresce nella fede e nella conoscenza, più si cresce nell`umiltà e nella consapevolezza di essere piccoli".
"Quante volte l’uomo si auto-paralizza, rifiutando di superare la propria idea di Dio, di un Dio creato a immagine e somiglianza dell’uomo! Quante volte si dispera, rifiutando di credere che l’onnipotenza di Dio non è onnipotenza di forza, di autorità, ma è soltanto onnipotenza di amore, di perdono e di vita! - ha detto il Papa nell’omelia, pronunciata in italiano - I discepoli riconobbero Gesù ’nello spezzare il pane’, nell’Eucaristia. Se noi non ci lasciamo spezzare il velo che offusca i nostri occhi, se non ci lasciamo spezzare l’indurimento del nostro cuore e dei nostri pregiudizi, non potremo mai riconoscere il volto di Dio"
Perciò, ha continuato, «non serve pregare se la nostra preghiera rivolta a Dio non si trasforma in amore rivolto al fratello: non serve tanta religiosità se non è animata da tanta fede e da tanta carità». «È meglio non credere che essere un falso credente, un ipocrita!».
Lo stadio militare è parte del villaggio dello sport dell’aeronautica, costruito e gestito dal ministero della Difesa per celebrare la difesa aerea egiziana durante la guerra del 1970 contro Israele. Un coro, al passaggio della vettura del Papa ha intonato il Laudato Si’, per ricordare la visita di San Francesco d’Assisi che nel settembre del 1219 visitò il sultano d’Egitto Malik al Kamil per un colloquio storico, avvenuto a Damietta, a pochi chilometri di distanza dal Cairo, che fu il primo grande passo nel dialogo interreligioso con il mondo islamico.
Dopo il pranzo alla Nunziatura apostolica del Cairo con i 15 vescovi copto cattolici, papa Francesco si è trasferito in auto al Seminario patriarcale Al-Maadi, nella periferia sud della capitale egiziana, dove ha incontrato il clero, i religiosi, le religiose e i seminaristi - in tutto 1.500 persone-, ultimo appuntamento della sua visita di due giorni in Egitto.
"Sono felice di salutare in voi, sacerdoti, consacrati e consacrate del piccolo gregge cattolico in Egitto, il lievito che Dio prepara per questa Terra benedetta, perché, insieme ai nostri fratelli ortodossi,cresca in essa il suo Regno". "Non abbiate paura del peso del quotidiano, del peso delle circostanze difficili che alcuni di voi devono attraversare". "In mezzo a tanti motivi di scoraggiamento e tra tanti profeti di distruzione e di condanna, in mezzo a tante voci negative e disperate, voi siate una forza positiva, siate luce e sale di questa società; siate il locomotore che traina il treno in avanti, diritto verso la mèta; siate seminatori di speranza, costruttori di ponti e operatori di dialogo e di concordia", ha detto il Papa.
Secondo il Papa, "il Buon pastore ha il dovere di guidare il gregge", e "non può farsi trascinare dalla delusione e dal pessimismo". Inoltre, "è facile accusare sempre gli altri, per le mancanze dei superiori, per le condizioni ecclesiastiche o sociali, per le scarse possibilità", ma il consacrato è colui che "trasforma ogni ostacolo in opportunità, e non ogni difficoltà in scusa!". Francesco ha puntato il dito anche contro il "pericolo serio" del consacrato che "invece di aiutare i piccoli a crescere e a gioire per i successi dei fratelli e delle sorelle, si lascia dominare dall’invidia e diventa uno che ferisce gli altri col pettegolezzo": "L’invidia - ha detto - è un cancro che rovina qualsiasi corpo in poco tempo", e "il pettegolezzo ne è il mezzo e l’arma".
Il Papa ha messo in guardia sacerdoti, religiosi, seminaristi egiziani dal "faraonismo" in cui può cadere chi sceglie l’ordinazione o la consacrazione. Il Papa ha parlato della "tentazione del faraonismo... siamo in Egitto!, cioè dell`indurire il cuore e del chiuderlo al Signore e ai fratelli", la tentazione dell`individualismo" e "la tentazione del camminare senza bussola e senza mèta". "Senza avere un`identità chiara e solida - ha poi specificato - il consacrato cammina senza orientamento e invece di guidare gli altri li disperde".
"L`Egitto ha contribuito ad arricchire la Chiesa con il tesoro inestimabile della vita monastica", ha concluso il Papa salutando sacerdoti, religiosi e seminaristi egiziani. "Vi esorto, pertanto, ad attingere dall`esempio di San Paolo l`eremita, di Sant`Antonio, dei Santi Padri del deserto, dei numerosi monaci, che con la loro vita e il loro esempio hanno aperto le porte del cielo a tanti fratelli e sorelle, e così anche voi potete essere luce e sale, motivo cioè di salvezza per voi stessi e per tutti gli altri, credenti e non, e specialmente per gli ultimi, i bisognosi, gli abbandonati e gli scartati".
Prima di congedarsi al Cairo, ancora un breve incontro con il presidente sl Sisi nella sala d’onore dell’aeroporto. Al din lillah wa al watan lilgiamià, la fede è per Dio, la Patria è per tutti.
* Avvenire, sabato 29 aprile 2017 (ripresa parziale).
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Gaffe della Casa Bianca su Theresa May, diventa pornostar
Nei suoi comunicati, l’ufficio stampa ha dimenticato di mettere la ’h’
di Redazione ANSA *
Nuova gaffe dell’amministrazione Trump in politica estera. Dopo aver confuso il ministro degli Esteri australiano Julie Bishop per il premier Malcolm Turnbull, l’ufficio stampa della Casa Bianca ha ’dimenticato’ la ’h’ nel nome della premier britannica Theresa May. Risultato: in due documenti l’inquilina di Downing Street è diventata la nota star del soft-porn Teresa May.
L’errore, poi corretto, è stato ripetuto due volte nel comunicato di ieri con il quale la Casa Bianca annunciava l’agenda odierna degli incontri Trump-May e una volta in un comunicato dell’ufficio del vice presidente. "Nel pomeriggio il presidente parteciperà ad un incontro bilaterale con il primo ministro del Regno Unito, Teresa May", recitava la nota dell’ufficio stampa della Casa Bianca.
E qualche riga dopo la ’h’ era di nuovo sparita nel previsto "pranzo di lavoro con Teresa May...". Ancora una volta, nella nota dell’ufficio di Mike Pence il nome di battesimo di May è diventato quello della star di un video per la canzone ’Smack My Bitch Up’ del gruppo The Prodigy. "E’ per questo che Donald Trump era eccitato di incontrarla?", commenta ironico il tabloid britannico Mail online riferendosi al previsto colloquio di oggi tra il neo presidente e la premier britannica a Washington. Sempre ieri, ricorda il Mail online, in un altro comunicato la Casa Bianca ha definito il ministro degli Esteri australiano Julie Bishop il ’primo ministro degli Esteri’ del Paese.
Carta di responsabilità e impegno
Scelte evangeliche per un cammino di liberazione
Siamo sacerdoti, religiosi e religiose impegnati da anni con le nostre comunità e i nostri gruppi a far incontrare le fatiche degli uomini con la tenerezza di Dio,
ci sentiamo sollecitati dal Magistero e dall’azione di Papa Francesco a favore degli ultimi e degli emarginati, ci poniamo sulla scia dell’impegno sottoscritto nel “Patto delle catacombe” da numerosi vescovi partecipanti al Concilio Vaticano II,
ci ritroviamo alla fine di un percorso di riflessione e di preghiera che dura da molti mesi, nel Monastero San Magno di Fondi, luogo di antica spiritualità benedettina olivetana e di un’attuale presenza di Fraternità e preghiera,
consapevoli che il momento attuale, portatore di grandi e profondi mutamenti, chiedendo la fatica della conversione, genera un diffuso clima di sospetto e spesso di chiusura e di indifferenza di fronte alla vita,
provocati dall’evangelista Luca che parlandoci di Maria nel viaggio verso Elisabetta scrive, secondo una traduzione più fedele del termine greco anastàsa, “risorta, Maria in piedi”, indicandola dunque come la prima tra i risorti e prima del Risorto stesso,
con lo stile di Maria, da figli del Risorto,
insieme alle nostre comunità ci impegniamo
a non tacere dinanzi alle ingiustizie e ad ogni tipo di illegalità,
a camminare al fianco delle vittime innocenti delle mafie e di quanti subiscono violenze e sopraffazioni, condividendo il loro dolore e la loro richiesta di giustizia e di verità,
a contrastare ogni forma di corruzione perché cancro della civiltà e della democrazia,
a leggere la Storia e la strada con lo sguardo dei contemplativi,
ad evitare qualunque forma di religiosità ritualistica e alienante che deturpa il volto paterno di Dio,
a vivere ogni manifestazione di pietà popolare nella logica della semplicità e della radicalità evangelica affinché non si trasformino in esaltazione di personaggi potenti e boss mafiosi, e in mortificazione di poveri ed ultimi,
ad accompagnare il cammino di coloro che intendono pentirsi del male compiuto distinguendo il peccato dal peccatore,
a realizzare luoghi nei quali trovino accoglienza uomini e donne senza nessun pregiudizio di tipo religioso, etnico e sociale,
a vivere la misericordia come risposta ad ogni tipo di violenza e come accoglienza agli ultimi, ai poveri, agli emarginati e ai migranti,
a promuovere e ad affermare i principi di una cultura di ecologia integrale,
a sentirci parte integrante dell’ambiente perché ogni aggressione ad esso venga vissuto come una ferita inferta a ciascuno di noi,
a denunciare ogni tipo di connivenza anche istituzionale che favorisce il degrado ambientale agevolando gli affari delle ecomafie,
a vivere nella libertà ogni tipo di rapporto con la politica per non cadere nelle maglie di facili strumentalizzazioni,
a promuovere l’affermazione di un’informazione che cerchi sempre la verità e tuteli gli ultimi,
a liberarci e a liberare da una concezione economicistica della terra, dell’ambiente, del lavoro e delle relazioni umane,
a denunciare quella finanza che uccide i poveri e crea disuguaglianze sociali su scala planetaria,
a lavorare nell’educazione ad una finanza etica e giusta, e ad un’economia di pace
a vivere il rapporto con il denaro nella logica della trasparenza e della competenza perché non si alimentino favoritismi né si assicurino privilegi,
ad orientare le risorse economiche sempre verso il bene comune e mai verso interessi di pochi individui o di singoli gruppi, anteponendo il primato della destinazione universale dei beni ai principi della proprietà privata,
ad accompagnare i passi dei giovani scommettendo ulteriormente sulle sfide educative e sostenendo percorsi concreti che generino un lavoro che aiuti più a cooperare che a competere,
a tutelare i principi costitutivi della nostra Carta costituzionale,
a difendere la sacralità della laicità,
a promuovere percorsi virtuosi e responsabili di cittadinanza attiva.
Certi che questi impegni già caratterizzano ogni credente radicato nel Vangelo e che tanti altri fratelli e sorelle, sacerdoti, religiosi e laici vogliano sottoscriverli insieme a noi, sentiamo la responsabilità di ribadire insieme le nostre scelte, e con le nostre comunità, come Maria, vogliamo impegnarci a riconoscere e ad essere strumenti dell’azione misericordiosa e capovolgente di Dio che “rovescia i potenti dai troni e rimanda a mani vuote i ricchi” (Lc 1,52-53), perché anche noi come il profeta Geremia nello scrutare questi orizzonti incerti, con gli occhi pieni di speranza vogliamo sussurrare al mondo: “vedo un ramo di mandorlo” (Ger 1,11).
Fondi, Monastero San Magno
8 settembre 2016
Festa della Natività della Beata Vergine Maria
Luigi Ciotti, Francesco Fiorillo, Marcello Cozzi, Giorgio De Checchi, Ennio Stamile, Giuseppe Fiorillo, Sandra Rosina, Giancarlo Loriggio,
Pierluigi Di Piazza, Mario Vatta, Aldo Antonelli, Pasquale Mascaro, Giorgio Moriconi, Alfredo Micalusi, Pino Demasi, Salvatore Larocca, Luigi Tellatin, Tonio Dell’Olio, Luca Facco, Marco Galletti, Gabriele Pipinato, Giuseppe Gobbo, Tommaso Scicchitano, Giorgio Pisano, Livio Gaio, Narciso Del Poz, Pasquale Aceto, Giovanni D’Andrea, Domenico Francavilla, Mimmo Nasone, Luigi Pellegrino, Tonino Palmese.
L’appello: "Quel che serve è un vero rilancio del latino come palestra per le generazioni future, tenendo in conto anche le sue enormi potenzialità come piattaforma di intercomprensione fra le lingue romanze, gigantesco serbatoio linguistico da cui pescano anche le lingue germaniche e slave, apparato concettuale che favorisce la comunicazione fra le culture"
di SALVATORE SETTIS (la Repubblica, 10 agosto 2016)
La lingua più parlata del mondo? È il latino. Non quel che resta del latino ecclesiastico, né quello dei pochi filologi classici ancora in grado di scriverlo, né dei certami ciceroniani, stranamente popolari. Ma il latino che parliamo ogni giorno, con le sue trasformazioni storiche: quello delle lingue neolatine, o romanze. Lo spagnolo come lingua materna è da solo, con 500 milioni di parlanti, secondo al mondo soltanto al cinese. Se vi aggiungiamo il portoghese (230 milioni), il francese (100), l’italiano (65) e il romeno (35), si arriva a 930 milioni di “parlanti latino”.
Senza contare le numerose lingue minori (come il ladino). Poco meno dei “parlanti cinese”, che però si suddividono anch’essi in numerose lingue diverse, non sempre mutuamente intellegibili se parlate, ma unificate concettualmente da una scrittura ideografica che non rispecchia direttamente la pronuncia. E il latino ha una presenza capillare anche fuori dell’ambito propriamente romanzo: in inglese (terza lingua materna più parlata al mondo, con 350 milioni) il 58% del lessico deriva dal latino o da lingue neolatine, specialmente francese. Lo stesso è vero di tutte le lingue europee, dal tedesco al russo: forse nessuna lingua più del latino ha mostrato forza di penetrazione e tendenza a radicarsi in sistemi linguistici di altra origine. Inoltre, anche numerose parole di matrice greca (come “filosofia”) o etrusca (come “persona”) si sono diffuse universalmente, ma passando attraverso il latino.
Fra cinese e latino c’è un abisso, ma anche qualcosa in comune: “cinese”, infatti, è la piattaforma di intercomprensione fra tutte le lingue della famiglia sinica, “latino” può essere la piattaforma di intercomprensione fra tutte le lingue romanze. Se usassimo una scrittura ideografica come i cinesi, potremmo leggere il portoghese e il romeno anche senza averli mai studiati. Ma davvero l’italiano è così simile al latino? Proviamo a leggere qualche verso: «Te saluto, alma dea, dea generosa, / O gloria nostra, o veneta regina! / In procelloso turbine funesto / Tu regnasti secura: mille membra / Intrepida prostrasti in pugna acerba». La metrica è italiana, ma il testo “funziona” perfettamente sia come italiano che come latino. Autore di questo poemetto in lode di Venezia fu Mattia Butturini (1752-1817), amico di Ugo Foscolo e professore di greco a Pavia. E continua: «Per te miser non fui, per te non gemo, / Vivo in pace per te: Regna, o beata, / Regna in prospera sorte, in pompa augusta, / In perpetuo splendore, in aurea sede! / Tu severa, tu placida, tu pia, / Tu benigna, me salva, ama, conserva». Perfetto italiano, perfetto latino, come in altri poemi simultaneamente bilingui, a cominciare da quello di Gabriello Chiabrera nel tardo Cinquecento.
L’ottusa lotta contro il latino e contro il liceo classico, che riemerge periodicamente con la complicità di ministri maldestri e sprovveduti, non tiene conto di questo aspetto assolutamente centrale. È vero, nella scuola sopravvive un approccio piattamente grammaticale, che nello studio del latino vede solo una sorta di astratta educazione alla precisione del pensiero, a prescindere da tutto il resto. Ma tradurre tale critica in un ripudio del latino sarebbe « un gesto violento e arrogante, un attentato alla bellezza del mondo e alla grandezza dell’intelletto umano » , come scrive Nicola Gardini in un libro bello e intenso (Viva il latino. Storia e bellezza di una lingua inutile, Garzanti). Quel che serve è un vero rilancio del latino come palestra per le generazioni future, tenendo in conto anche le sue enormi potenzialità come piattaforma di intercomprensione fra le lingue romanze, gigantesco serbatoio linguistico da cui pescano anche le lingue germaniche e slave, apparato concettuale che favorisce la comunicazione fra le culture. Ha ragione Gardini, «grazie al latino una parola italiana vale almeno il doppio».
Ma non è tutto. Le parole non sono nulla se non le vediamo agire nel loro contesto, nei testi latini da Cicerone a Newton. Lo spessore ( il valore) delle parole latine, trasmigrate in altre lingue, si può apprezzare se siamo in grado non solo di snocciolare elenchi di parole o sfogliare vocabolari, ma di leggere e comprendere Virgilio e Sant’Agostino, le lettere di Petrarca e la cosmografia di Keplero. Trama narrativa, struttura della frase, tecnica dell’argomentare danno alle parole e alle frasi quella forza che aiuta a riconoscerne la traccia in Dante, in Shakespeare, Cervantes, Goethe. Quando leggiamo un testo, scrive Gardini, « non si tratterà propriamente del latino di Cicerone né del latino di Virgilio, ma piuttosto di quel che il latino compie e ottiene quando esce dallo stilo di Cicerone o dallo stilo di Virgilio » , in termini di « capacità lessicale, correttezza sintattica e convenienza ritmica » .
Questo doppio registro del latino, in orizzontale ( lettura dei testi e rimando ai contesti) e in verticale (come piattaforma di intercomprensione fra lingue oggi parlate) ha un altro vantaggio. Funziona come macchina della memoria, ci ricorda che quel che leggiamo del latino classico è un’infima parte di quel che fu allora scritto. E che, nonostante questo, abbiamo preteso per secoli di continuare, sulla scena del mondo, la storia di Roma. Non per niente quelli che noi chiamiamo “ bizantini” chiamarono se stessi sempre rhomaioi, “ romani”, e il più intimo carattere della grecità, conservatosi anche sotto la dominazione ottomana, si esprime in neogreco con la parola rhomaiosyne, “ romanità”; eppure intanto a Istanbul i sultani, dopo aver spodestato l’ultimo imperatore romano, mantennero dal 1453 al 1922 il titolo di Kayser- i- Rum, “ Cesare di Roma”. “ Cesare”, cioè imperatore; come il Kaiser a Vienna o a Berlino, lo Czar a Mosca o Pietroburgo.
Altro esempio, il diritto: i sistemi di civil law sono fondati sul diritto romano ( spesso, ma non sempre, attraverso il codice napoleonico), e oltre all’Europa continentale, inclusa la Russia, coprono l’America Latina e vari Paesi in Asia e Africa. Ma anche i sistemi di common law, pur di origine inglese, esprimono in latino molti termini- chiave, a partire dal principio fondamentale stare decisis ( conformarsi alle sentenze già emesse); perciò anche nei film americani sentiamo parlare di subpoena, affidavit, persona non grata; per non dire di habeas corpus.
Il latino come dispositivo della memoria culturale, come versatile interfaccia multilingue, come ponte o viadotto verso altre culture. Il latino come lingua viva, perché vive nelle lingue che parliamo. Questo, e non un’impalcatura di precetti, dovrebbe saper trasmettere la nostra scuola. “ Nostra”, cioè quanto meno europea. Questa Europa delle tecnologie saprà inventare una nuova didattica del latino che contribuisca all’intercomprensione culturale? E l’Italia, dove il latino è nato, avrà in merito qualcosa da dire?
di Antonio Gramsci (Eddyburg, 11 Agosto 2016)
Non si impara il latino e il greco per parlare queste lingue, per fare i camerieri o gli interpreti o che so io. Si imparano per conoscere la civiltà dei due popoli, la cui vita si pone come base della cultura mondiale. La lingua latina o greca si impara secondo grammatica, un po’ meccanicamente: ma c’è molta esagerazione nell’accusa di meccanicità e aridità. Si ha che fare con dei ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza fisica, di concentrazione psichica in determinati oggetti. Uno studioso di trenta-quarant’anni sarebbe capace di stare a tavolino sedici ore filate, se da bambino non avesse «coattivamente», per «coercizione meccanica» assunto le abitudini psicofisiche conformi? Se si vogliono allevare anche degli studiosi, occorre incominciare da lì e occorre premere su tutti per avere quelle migliaia, o centinaia, o anche solo dozzine di studiosi di gran nerbo, di cui ogni civiltà ha bisogno.
Il latino non si studia per imparare il latino, si studia per abituare i ragazzi a studiare, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere ma che continuamente si ricompone in vita. Naturalmente io non credo che il latino e il greco abbiano delle qualità taumaturgiche intrinseche: dico che in un dato ambiente, in una data cultura, con una data tradizione, lo studio così graduato dava quei determinati effetti. Si può sostituire il latino e il greco e li si sostituirà utilmente, ma occorrerà sapere disporre didatticamente la nuova materia o la nuova serie di materie, in modo da ottenere risultati equivalenti di educazione generale dell’uomo, partendo dal ragazzetto fino all’età della scelta professionale. In questo periodo lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere disinteressato, cioè non avere scopi pratici immediati o troppo immediatamente mediati: deve essere formativo, anche se «istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete.
Nella scuola moderna mi pare stia avvenendo un processo di progressiva degenerazione: la scuola di tipo professionale, cioè preoccupata di un immediato interesse pratico, prende il sopravvento sulla scuola “formativa” immediatamente disinteressata. La cosa più paradossale è che questo tipo di scuola appare e viene predicata come “democratica”, mentre invece essa è proprio destinata a perpetuare le differenze sociali. Il carattere sociale della scuola è dato dal fatto che ogni strato sociale ha un proprio tipo di scuola destinato a perpetuare in quello strato una determinata funzione tradizionale.
Se si vuole spezzare questa trama, occorre dunque non moltiplicare e graduare i tipi di scuola professionale, ma creare un tipo unico di scuola preparatoria (elementare-media) che conduca il giovane fino alla soglia della scelta professionale, formandolo nel frattempo come uomo capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige. Il moltiplicarsi di tipi di scuole professionali tende dunque a eternare le differenze tradizionali, ma siccome, in esse, tende anche a creare nuove stratificazioni interne, ecco che nasce l’impressione della tendenza democratica. Ma la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un manovale diventi operaio qualificato, ma che ogni “cittadino” può diventare “governante” e che la società lo pone sia pure astrattamente nelle condizioni generali di poterlo diventare.
Anche lo studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervoso-muscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media tende a rallentare la disciplina dello studio, a domandare facilitazioni. Molti pensano addirittura che la difficoltà sia artificiale, perchè sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale. È una quistione complessa. Certo il ragazzo di una famiglia tradizionalmente di intellettuali supera più facilmente il processo di adattamento psicofisico: egli già entrando la prima volta in classe ha parecchi punti di vantaggio sugli altri scolari, ha un’ambientazione già acquisita per le abitudini famigliari. Così il figlio di un operaio di città soffre meno entrando in fabbrica di un ragazzo di contadini o di un contadino già sviluppato per la vita dei campi.
Ecco perchè molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un trucco a loro danno; vedono il signore compiere con scioltezza e con apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un trucco. In una nuova situazione politica, queste quistioni diventeranno asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. Se si vorrà creare un nuovo corpo di intellettuali, fino alle più alte cime, da uno strato sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini psico-fisiche adeguate, si dovranno superare difficoltà inaudite.
Tradurre per capire
di Remo Bodei (Il Sole-24 Ore, Domenica, 08.05.2016)
«Tutto è destinato a perire, castelli e città, re e papi, solo i libri hanno il privilegium perennitatis: Saturno divora i propri figli, le civiltà sarebbero perdute, se Dio non avesse dato agli uomini i librorum remedia». Così sosteneva Riccardo di Bury, cancelliere di Edoardo III d’Inghilterra negli anni Trenta e Quaranta del Trecento. E John Florio, autore del primo dizionario Italiano-Inglese e traduttore dei Saggi di Montaigne, ricorda di aver sentito dire da Giordano Bruno che ogni scienza ha origine dalle traduzioni.
Di questi episodi e di sobrie riflessioni è costellato il breve e affascinante libro di Tullio Gregory, che, con la consueta competenza (esercitata anche nei decenni in cui è stato direttore del Lessico intellettuale europeo) mostra come la translatio linguarum, il vertere, il transferre e l’interpretari siano alla base di ogni civiltà e, specificamente della nostra, quella mediterranea, «fatta di innesti continui, di matrimoni esogamici, di un assiduo intrecciarsi e scambio di esperienze, modelli e valori fra civiltà diverse, ove ogni cultura nasce sull’eredità di altre culture, fatte proprie, trascritte, tradotte, interpretate in nuovi contesti e linguaggi».
Da questo punto di vista, fenomeni epocali, quali il sorgere o il diffondersi dell’ebraismo o del cristianesimo sarebbero impensabili senza la traduzione in greco della Bibbia da parte dei Settanta nell’Alessandria del III secolo a.C. e le stesse parole di Gesù, pronunciate in aramaico, non si sarebbero diffuse nel mondo se non fossero state rese in greco e in latino: «È la traduzione che prolunga nel tempo e nello spazio la vitalità di un testo, assicura e rinnova una tradizione». Ed è la traduzione che sostanzia la translatio studiorum, per cui ogni versione di un’opera dall’originale a un’altra lingua contribuisce al «passaggio di civiltà e cultura da uno ad altro contesto politico, geografico e linguistico, per salvare eredità che si sarebbero altrimenti perdute».
Conosciamo tutti, per sommi capi, la trafila degli eventi che dalle rive del Nilo e dalle coste della Fenicia porta alla migrazione della scrittura, delle scienze, della sapienza e delle tecniche dapprima in Grecia e a Roma. Allo stesso modo ci è noto come il salvataggio della cultura antica passi attraverso gli scriptoria medioevali, dove gli amanuensi ricopiavano i libri. Sono state anche ricostruite le complesse vicende che hanno portato le opere filosofiche, matematiche, mediche e fisiche dal mondo greco a quello arabo.
Fu l’imperatore Giustiniano, istigato dai cristiani e dalla moglie Teodora, a decretare nel 529 la chiusura delle scuole di Atene, costringendo un consistente gruppo di filosofi a trasferirsi nell’Impero persiano presso il re Cosroè III. Quando, poi, la Persia venne conquistata dagli arabi, i discepoli dei filosofi che erano fuggiti assieme ai loro volumi iniziarono - dall’815 stabilmente nella «Casa della sapienza» di Baghdad - a tradurre in arabo dal greco e dal siriaco queste opere, che fecondarono il pensiero di Al-Kindî, Al Farabî, Averroè e Avicenna per poi, attraverso un’altra grande operazione di traduzione collettiva a Toledo e altrove, dare luogo alle ritraduzioni latine (si pensi che di Platone si conosceva in precedenza solo un brano del Timeo e di Aristotele, sostanzialmente, solo le Categorie e il De interpretatione).
La filosofia moderna si fonda linguisticamente sulla continua translatio dei termini forgiati in questo periodo e sulla ripresa e innovazione dei loro significati. Di tutte queste metamorfosi il volume di Gregory offre il necessario inquadramento.Spesso dimentichiamo che il destino dei libri che giungono fino a noi - oltre che di chi li pubblicava, li distribuiva e li leggeva - è soggetto a una selezione dovuta al caso, all’intenzione o ai ritrovamenti insperati (quale il codice del De rerum natura di Lucrezio che Poggio Bracciolini rinvenne nel 1417 in un monastero tedesco).
È, tuttavia, la volontà censoria a incidere maggiormente sulla loro conservazione e trasmissione, decretandone la sorte di «sommersi e salvati». Il fanatismo, l’Index librorum prohibitorum (formalmente abolito dalla Chiesa cattolica solo nel 1966), e i roghi, anche di intere biblioteche, hanno segnato la storia umana e non solo quella dell’Occidente: si comincia, a quanto ci consta, da quelli avvenuti nella Cina di Qin Shi Huan, il 212 a.C., fino alla Bücherverbrennung nazista del maggio del 1933 a Berlino. Per fortuna, i libri sfuggono talvolta a questa sorte, come accadde con «l’avventuroso trasferimento della biblioteca dell’Istituto Warburg da Amburgo a Londra con due battelli che approdarono nel dicembre 1933 sulle rive del Tamigi».
Se dunque la translatio linguarum ha nell’ambito delle civiltà della specie il ruolo dominante qui descritto, allora la risposta di Gregory al mito della Torre di Babele non può essere che un’orgogliosa rivendicazione della nostra condotta: «Se la condanna alla pluralità delle lingue è una conseguenza del tentativo degli uomini, dopo il diluvio, di costruire una loro città con una torre che raggiungesse il cielo, la traduzione - ove manchi il miracolo della Pentecoste - è la risposta umana alla condanna di Yahvè».
La difesa del crocifisso non aiuta l’inclusione
di Tomaso Montanari (la Repubblica, 31.03.2016)
DA cristiano, prima ancora che da cittadino, sono stato profondamente colpito da un passaggio dell’incalzante meditazione con cui papa Francesco ha chiuso la Via Crucis del Venerdì Santo. Con una scelta davvero molto forte, il pontefice ha incluso tra i peccati devastanti di un’umanità che torna a crocifiggere Cristo (stragi, terrorismo, vendita di armi, pedofilia, corruzione, distruzione dell’ambiente...) anche un’opinione: «O Croce di Cristo - ha detto Francesco - ti vediamo ancora oggi in coloro che vogliono toglierti dai luoghi pubblici ed escluderti dalla vita pubblica, nel nome di qualche paganità laicista, o addirittura in nome dell’uguaglianza che tu stesso ci hai insegnato».
Se non è mai facile, per un cristiano, dissentire dal papa, lo è ancora di meno di fronte a questo papa: così evidentemente profetico, ed evangelico. D’altra parte, è difficile non interrogarsi sulle conseguenze di questa fortissima - per quanto implicita - riaffermazione della necessità di una società cristiana, e addirittura di uno Stato cristiano.
Perché, naturalmente, la presenza del crocifisso nelle aule pubbliche italiane è regolata dallo Stato, per legge. Per le scuole essa fu prescritta dalla legge Casati (promulgata nel Regno di Sardegna nel 1859, e poi estesa all’Italia unita), e poi fu duramente ribadita (a colpi di circolari, decreti e ordinanze) durante il fascismo.
Dopo che la revisione del Concordato del 1984 aveva esplicitamente recepito la svolta costituzionale per cui il cattolicesimo non è più religione di Stato, è sorto un forte dibattito pubblico (ripercorribile in Sergio Luzzatto, Il crocifisso di Stato, Einaudi 2011) sull’opportunità di rimuovere i crocifissi dalle aule statali.
I vari tentativi di intraprendere, a questo fine, la via giudiziaria si sono fermati di fronte a una sentenza della Corte di Strasburgo del marzo 2011, che - ribaltando una sua altra sentenza - ha stabilito che il crocifisso non è, in Italia, un simbolo religioso attivo, ma un elemento culturale e identitario “passivo”, e come tale incapace di agire sulla coscienza degli alunni. Mentre, in Italia, la Conferenza episcopale esultava, il rabbino capo di Roma, Riccardo di Segni, osservò che «dire che il crocifisso è simbolo culturale è, a mio parere, mancargli di rispetto».
Da cristiano formatosi sui testi di don Lorenzo Milani - che tolse il crocifisso dall’aula della sua scuola - mi trovai perfettamente d’accordo con quel giudizio: perché profondamente convinto della non passività del crocifisso.
Da cittadino dell’Europa dilaniata dalle bombe di Parigi e Bruxelles mi chiedo oggi se non abbiamo nuove ragioni per essere in disaccordo con quella sentenza - e con il papa. Combattiamo la mostruosità di un sedicente Stato Islamico: dove ad essere mostruosa è la pretesa di essere uno Stato, ma anche quella di essere islamico. Ed è l’unione delle due cose, cioè la mescolanza tra Stato e religione, a ripugnarci profondamente.
Non è forse questo un buon motivo per essere più radicalmente fedeli alle nostre convinzioni, quelle su cui si basa questa ripugnanza? Non è forse il momento in cui i cristiani d’occidente ribadiscano con forza che la laicità dello Stato, la neutralità religiosa dello spazio pubblico e un rispetto incondizionato per le minoranze religiose non sono altrettante “paganità laiciste”, ma valori non sradicabili dalla nostra identità di cittadini?
Lungi dall’essere un cedimento, una simile scelta sarebbe la più ferma delle risposte: non accettiamo il ruolo dei crociati. Da cristiano credo che Gesù ci abbia insegnato l’uguaglianza più radicale. Ma da cittadino italiano credo nell’articolo 3 della Costituzione, che ci invita a rimuovere gli ostacoli che impediscono un’uguaglianza sostanziale. E credo che, facendo questa distinzione, si obbedisca anche al precetto evangelico che obbliga «a dare a Cesare, quel che è di Cesare». Come scriveva Mario Gozzini nel 1988, “la fede cristiana non ha bisogno di orpelli statali per essere testimoniata come fermento che rende più umano il tessuto sociale”.
Naturalmente questo non significa affatto ridurre la fede ad una dimensione privata: «Che la religione nelle società democratiche e laiche debba avere una rilevanza pubblica, per me è del tutto pacifico» (così Luigi Manconi nel suo recentissimo, e bellissimo, Corpo e anima. Se vi viene voglia di fare politica, Minimum fax 2016). Ma la rilevanza pubblica è ben altra cosa dall’imposizione attraverso le leggi dello Stato: ed è precisamente in questo che i criteri e i valori in cui ci riconosciamo sono diversi da quelli di chi sta seminando la morte nelle strade dell’Europa.
Nelle classi dei miei figli (scuola primaria pubblica, centro di Firenze) ci sono diversi bambini musulmani: che non hanno una moschea in cui pregare (finora il Comune e la Curia hanno remato contro), ma ogni mattina trovano un crocifisso nella loro aula scolastica. Se vogliamo lavorare all’Italia in cui questi bambini saranno tutti egualmente cittadini, dobbiamo lasciarci alle spalle il retaggio non certo del cristianesimo, ma della legge Casati.
Il modo più carico di futuro per reagire al terrore è costruire una società più inclusiva: una comunità civile che sappia essere davvero di tutti. Un’Italia in cui chi è arrivato all’ultima ora abbia gli stessi diritti di chi c’è fin dall’inizio: come dice la Costituzione (e come dice il Vangelo).
Ma davvero la famiglia della dottrina ecclesiastica corrisponde al disegno di Dio?
di Vito Mancuso (la Repubblica, 23.01.2016)
CONTRARIAMENTE a molte altre volte, il Papa non ha sorpreso nessuno con il discorso di ieri al Tribunale della Rota Romana, un testo del tutto secondo copione, il medesimo che non solo Benedetto XVI e Giovanni Paolo II ma anche tutti gli altri 263 Papi avrebbero potuto tenere.
FRANCESCO ha detto che «non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione », perché la famiglia tradizionale (cioè quella «fondata sul matrimonio indissolubile, unitivo e procreativo ») appartiene «al sogno di Dio e della sua Chiesa per la salvezza dell’umanità». Vi è quindi un modello canonico di famiglia, rispetto al quale tutte le altre forme di unione affettiva e permanente sono livelli più o meno intensi di quanto il Papa ha definito «uno stato oggettivo di errore». È per questo che solo la famiglia della dottrina ecclesiastica merita il nome di famiglia, mentre a tutte le altre spetta il termine meno intenso di «unione».
Ma è proprio vero che la famiglia della dottrina ecclesiastica corrisponde al disegno di Dio? Oppure è anch’essa una determinata espressione sociale, nata in un certo momento della storia e quindi in un altro momento destinata a tramontare, come sta avvenendo proprio ai nostri giorni all’interno delle società occidentali?
Penso che il referendum della cattolicissima Irlanda con cui è stata mutata la costituzione per permettere a persone dello stesso sesso di contrarre matrimonio sia una lezione imprescindibile per il cattolicesimo, della quale però a Roma ancora si fatica a prendere atto.
In realtà che la famiglia evolva e cambi lo mostra già il linguaggio. Il termine “famiglia” deriva dal latino familia e sembra quindi dotato di una stabilità più che millenaria, ma se si consulta il dizionario si vede che il termine latino, ben lungi dall’essere ristretto al modello di famiglia della dottrina cattolica, esprime una gamma di significati ben più ampia: «Complesso degli schiavi, servitù; truppa, masnada; compagnia di comici; l’intera casa che comprende membri liberi e schiavi; stirpe, schiatta, gente».
Lo stesso vale per il greco del Nuovo Testamento, la lingua della rivelazione divina per il cristianesimo, che conosce un significato del tutto simile al latino in quanto usa al riguardo il termine oikia, che significa in primo luogo “casa” (da qui deriva anche il termine “parrocchia”, formato da oikia + la preposizione parà che significa “presso”). Anche nell’ebraico biblico casa e famiglia sono sinonimi, dire “casa di Davide” è lo stesso di “famiglia di Davide”: si rimanda cioè al casato, comprendendo mogli, figli, schiavi, concubine, beni mobili e immobili.
Quindi le lingue della rivelazione di Dio non conoscono il termine famiglia nel senso usato dalla dottrina cattolica tradizionale e ribadito ieri dal Papa. Non è un po’ strano? La stranezza aumenta se si apre la Bibbia. È vero che in essa si legge che «l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno un’unica carne» (Genesi 2,24), ma se si analizzano le esistenze concrete degli uomini scelti da Dio quali veicoli della sua rivelazione si vede uno scenario molto diverso con altre forme di famiglia: Abramo ebbe 3 mogli (Sara, Agar e Keturà), Giacobbe 2, Esaù 3, Davide 8, Salomone 700. A parte Salomone, che in effetti eccedette, non c’è una sola parola di biasimo della Bibbia a loro riguardo.
Che dire? La parola di Dio è contro il disegno di Dio? Oppure si tratta di testi che vanno interpretati storicamente? Ma se vanno interpretati storicamente i testi biblici, come non affermare che va interpretato storicamente anche il modello di famiglia della dottrina ecclesiastica?
Ciò dovrebbe indurre, a mio avviso, a evitare affermazioni quali «stato oggettivo di errore». La vita quotidiana nella sua concretezza insegna che vi sono unioni ben poco tradizionali di esseri umani nelle quali l’armonia, il rispetto, l’amore sono visibili da tutti, e viceversa unioni con tanto di sacramento cattolico nelle quali la vita è un inferno.
Siamo quindi davvero sicuri che la dottrina cattolica tradizionale sulla famiglia sia coerente con l’affermazione tanto cara a papa Francesco secondo cui «il nome di Dio è misericordia»?
Io ovviamente mi posso sbagliare, ma mi sento di poter affermare che Dio non pensa la famiglia, meno che mai quella del Codice di diritto canonico. Pensa piuttosto la relazione armoniosa alla quale chiama tutti gli esseri umani, perché il senso dello stare al mondo è esattamente la relazione armoniosa, che si esplicita in diversi modi e che trova il suo compimento nell’amore. Ogni singolo è chiamato all’amore: questo è il senso della vita umana secondo il nucleo della rivelazione cristiana. Sicché nessuno deve poter essere escluso dalla possibilità di un amore pieno, totale, anche pubblicamente riconosciuto. Ed è precisamente per questo che ci si sposa: perché il proprio amore, da fatto semplicemente privato, acquisti una dimensione pubblica, politica, in quanto riconosciuto dalla polis. Questo amore è definibile come integrale, in quanto integra la dimensione soggettiva con la dimensione pubblica e oggettiva dell’esistenza umana.
La nascita di alcuni esseri umani con un’inestirpabile inclinazione sessuale verso persone del proprio sesso è un fatto, non piccolo peraltro: essi devono strutturalmente rimanere esclusi dalla possibilità dell’amore integrale? In realtà l’aspirazione all’amore integrale deve essere riconosciuto come diritto inalienabile di ogni essere umano acquisito alla nascita. L’amore integrale è un diritto nativo, primigenio, radicale, riguarda cioè la radice stessa dell’essere umano, e nessuno ne può essere privato. Spesso nel passato non pochi lo sono stati, e ancora oggi in molte parti del mondo non di rado continuano a esserlo. Oggi però il tempo è compiuto per sostenere nel modo più esplicito che tutti hanno il diritto di realizzarsi nell’amore integrale, eteroaffettivi e omoaffettivi senza distinzione.
La maturità di una società si misura sulla possibilità data a ciascun cittadino di realizzare il diritto nativo all’amore integrale, ma io credo che anche la maturità della comunità cristiana si misuri sulla capacità di accoglienza di tutti i figli di Dio così come sono venuti al mondo, nessuno escluso.
Che cosa vuol dire che «il nome di Dio è misericordia» per chi nasce omosessuale? È abbastanza facile dire che Dio è misericordia quando ci si trova al cospetto di casi elaborati da secoli di esperienza. Più difficile quando ci si trova al cospetto della richiesta di riconoscimento della piena dignità da parte di chi per secoli ha dovuto reprimere la propria identità. Qui la misericordia la si può esercitare solo modificando la propria visione del mondo, ovvero infrangendo il tabù della dottrina. Ma è qui che si misura la verità evangelica, qui si vede se vale di più il sabato o l’uomo. Qui papa Francesco si gioca buona parte del valore profetico del suo pontificato.
VATICANO, COPYRIGHT, E CARO-PREZZO ("CARITAS"): "IN PRINCIPIO ERA LA PAROLA" A PAGAMENTO!!!
LA "LUCE DEL MONDO" SONO "IO"!!! CHE SUCCESSO, QUANTI SOLDI CON I DIRITTI DI AUTORE!!! --- IL NOME DI DIO E’ MISERICORDIA. Il titolo del libro-intervista di Papa Francesco con il vaticanista Andrea Tornielli (EDIZIONI PIEMME - GRUPPO MONDADORI)
Non sappiamo più raccontare le favole
Un saggio americano: solo gli inglesi riescono a inventarle. Non hanno paura del lato oscuro
di Massimo Gramellini (La Stampa, 08/01/2016)
La rivista letteraria The Atlantic, americana, ha condotto un’inchiesta dettagliata ed è giunta alla conclusione che in quest’epoca di ansie assortite e lettori bisognosi di cure affabulatorie, soltanto gli inglesi siano ancora capaci di popolare l’immaginario dei bambini di ogni nazione ed età. Alla notizia che l’Inghilterra, magari con l’aggiunta dell’Irlanda, detenga l’esclusiva delle favole qualcuno storcerà il naso e opporrà le sue eccezioni, però è un fatto che il più formidabile parto fantastico degli ultimi decenni è stato il maghetto Harry Potter, britannico, la cui saga si inserisce in un filone avviato dai personaggi di Tolkien e C.S Lewis, britannici anch’essi. Sarà il rapporto più stretto con la natura e con i miti fondativi pagani, l’assenza di una religione troppo moralista e inibente, la passione diffusa per i saperi esoterici, ma gli inglesi (e gli irlandesi) sembrano avere conservato un seme di conoscenze antichissime e la capacità di diffonderle attraverso un codice di immagini e archetipi che non parla all’emisfero razionale del cervello, ma si rivolge direttamente al subconscio di tutti gli esseri umani.
Uno dei momenti più emozionanti della mia vita è stata la scoperta che, accanto al significato letterale, le favole ne celavano un altro simbolico. Uno dei momenti più tristi è stato accorgermi che di questa scoperta non importava niente quasi a nessuno. Eppure mi vengono ancora i brividi quando penso agli artisti illuminati che dalla notte dei tempi hanno rivestito i segreti dell’esistenza e persino le future rivelazioni della fisica quantistica con le metafore dei racconti per l’infanzia. Quando penso che la Bella e la Bestia è la storia dello spirito che si riconcilia con la materia. Che la spada nella roccia è un simbolo fallico e la sua estrazione da parte del giovane Artù un rito di iniziazione sessuale. Che il bacio del principe azzurro alla bella addormentata è la metafora di quel risveglio consapevole che sta alla base di ogni antica tradizione spirituale. Che la rinuncia al simbolo del potere - sia esso l’anello elfico che Frodo va a gettare nel vulcano di Mordor o la bacchetta di sambuco che Harry Potter decide di spezzare dopo averla vinta a lord Voldemort nel duello finale - è l’atto supremo di distacco che completa l’evoluzione interiore dell’eroe.
Non è importante comprenderli con la mente, certi significati reconditi. L’emozione della favola li porta egualmente là dove devono andare: al di sotto della corteccia dell’Ego, nel regno della coscienza che Jung chiamava il Sé. La lettura delle favole procede su due livelli. Il subconscio infatti non comprende le parole. Il suo alfabeto è fatto di immagini e suoni. Mentre il piccolo lettore ascolta le avventure di principi e principesse, da qualche parte dentro di lui si forma l’immagine simbolica su cui potrà fare affidamento per il resto della vita. Quando, smarrita la sbornia di “realtà” tipica dell’età dello sviluppo, sentirà il bisogno di attingere a una conoscenza eterna per lenire le proprie paure e sviluppare i propri talenti.
Tutto questo gli inglesi non lo hanno dimenticato. E hanno avuto la forza di ricordarlo al mondo. Non è solo questione di lingua. Anche gli americani scrivono in inglese, ma le loro trame per l’infanzia esprimono un intento educativo, e dunque pragmatico, che smorza sul nascere lo sbrigliarsi della fantasia. Huck Finn è un capolavoro e Mark Twain un genio, ma si tratta di un capolavoro e di un genio intrisi di realtà. Persino la metafisica Moby Dick di Melville è appesantita da decine di pagine francamente noiose sulle varie tipologie di balene, quasi che lo scrittore avesse voluto rimarcare la base scientifica della sua straordinaria creazione. La cultura nordamericana ha compresso l’irrazionale fin dalle origini, assieme ai nativi indiani che ne sarebbero stati i naturali cantori. La concretezza etica della società fondata dai Padri Pellegrini ha spinto i compositori di favole a interpretarle non come una vacanza del pensiero, ma come il rivestimento zuccheroso di una medicina fatta di regole morali da impartire sotto forma di apologo con morale incorporata.
E gli italiani? Avendo copiato gli americani praticamente in tutto, non potevamo che seguirli anche in questa strage della fantasia immolata sull’altare della cosiddetta realtà. Pinocchio è un gigante della narrativa universale, eppure fu ignorato per un certo periodo persino dai suoi contemporanei. Le biografie di Collodi pubblicate dai giornali dopo la sua morte liquidano il burattino in poche righe. L’autore stesso non ebbe piena consapevolezza della sua opera, che toccò a Benedetto Croce sdoganare almeno dal punto di vista letterario. Collodi era un massone e non c’è pagina di Pinocchio che non contenga un riferimento alchemico (a cominciare dal nome del protagonista che si rifà alla ghiandola pineale, il “terzo occhio” di cui ogni tradizione esoterica si ripropone l’attivazione). Ma non ha lasciato eredi. Oggi si scrivono favole anche molto poetiche, intasate soprattutto di animali che parlano e ragionano come gli umani, ma manca la magia della spiritualità che in un Paese cattolico come il nostro viene ancora associata esclusivamente alla religione. Mentre il misticismo pagano che è alla base delle fantasie immortali degli inglesi si nutre di boschi, di orfani e di lettori che abbiano voglia di lasciarsi lambire dalla loro ombra a costo di perdervisi.
fuoritempio
Dal potere alla comunione
di Francesco Gesualdi *
Io non so se i magi siano realmente esistiti, né se siano mai andati a rendere omaggio a Gesù bambino inseguendo una stella. Né mi scandalizzerei se si trattasse di un’invenzione ai fini narrativi, una sorta di leggenda che ha cominciato a strutturarsi da esempi e immagini usati dai primi testimoni per rendere più comprensibile il loro messaggio.
Del resto chiunque si prefigga di trasmettere messaggi nuovi, di quelli che rompono con l’impostazione mentale dominante, sperimenta la necessità di ricorrere ad allegorie, metafore, accostamenti per trovare dei modi per farsi intendere.
E può succedere che certe rappresentazioni colpiscano così tanto l’immaginario collettivo da imporsi come fatti avvenuti. Forse nascono così le leggende, i fatti epici che finiscono per entrare se non nella storia, nella cultura e nelle visioni dei popoli.
Ma se la mitologia può servire a darci carica, bisogna stare attenti a non farne il centro dell’attenzione, altrimenti può impedirci di cogliere l’essenziale, come succede quando ci si concentra sul dito invece che sulla luna.
Come in molti altri episodi del Vangelo, anche nel racconto dell’Epifania l’essenziale che vi scorgo è il sovvertimento dell’ordine costituito nei suoi principi fondanti. Di mira in questo caso è il sapere, il suo ruolo, la sua legittimità.
Ai miei occhi, i magi che si prostrano davanti al bambino Gesù rappresentano la potenza del sapere che si inchina di fronte alla grandiosità dell’etica. È il riconoscimento che il sapere non può vivere senza la guida dell’etica, che ha bisogno del suo sostegno per capire che strada imboccare.
Mi rendo conto che il discorso si fa scivoloso perché assume un sapore oscurantista.
Ma l’etica a cui sto pensando non è quella delle ideologie, bensì l’etica dell’equità, della sostenibilità, della dignità umana, su cui Gesù ha così tanto insistito.
In un momento in cui la scienza è dominata dal potere industriale e le multinazionali pretendono di impossessarsi della natura, di manipolarla e brevettarla per arrogarsi il diritto di vendita esclusiva delle sementi, affamando milioni di contadini e spingendo l’agricoltura sempre di più verso la chimica, dovremo decidere se continuare a dare briglia sciolta a questo uso del sapere o se porgli dei limiti.
Allo stesso modo dovremo interrogarci sulla liceità di miliardi di euro investiti in farmaci contro le rughe, mentre non si investe nella prevenzione della malaria e altre malattie endemiche del Sud del mondo, solo perché i soldi si fanno vendendo prodotti di bellezza ai vecchi ricchi piuttosto che salvando le vite di giovani poveri.
Potremmo continuare col sapere usato ai fini bellici, ma senza scomodare la guerra, penso che ne abbiamo abbastanza per affermare che il sapere è vera ricchezza solo se è concepito come un bene comune da mettere al servizio dell’umanità per l’elevazione di tutti.
E mentre è poco fecondo se coltivato solo per l’erudizione personale, è sicuramente nocivo quando è usato come strumento di sopraffazione e violenza.
Non a caso la prima decisione che i magi dovettero prendere, dopo la visita a Gesù, fu se condividere le loro informazioni con Erode. E conosciute le intenzioni decisero per il no.
Da sempre il sapere è espressione di potere. Don Milani l’aveva capito così bene che si mise a fare scuola ai poveri nella convinzione che liberandoli dalla schiavitù dell’ignoranza li avrebbe messi in condizione di riscattarsi.
Ma a Barbiana eravamo costantemente stimolati a non usare il sapere per la carriera personale, bensì per la liberazione di tutti. Il motto era: «Uscirne da soli è l’avarizia, uscirne tutti insieme è la politica».
L’informazione stessa rischia di diventare una forma di consumismo se non si trasforma in azione. A che serve conoscere tutte le miserie del mondo se poi non ci trasformiamo in soggetti di cambiamento?
Mi piace pensare ai magi che andandosene dalla stalla di Betlemme vissero il sapere come una delle forme più alte di comunione.
* “discepolo” di don Milani, è fondatore del Centro Nuovo Modello di Sviluppo (www.cnms.it), ha da poco pubblicato “Risorsa umana. L’economia della pietra scartata”, San Paolo (v. Adista Documenti n. 26/15; il volume è acquistabile presso Adista)
* ADISTA, 12 DICEMBRE 2015 - Anno XLIX - n. 6300
di Franco Cardini (il manifesto, 27 Novembre 2015)
«Più che le persone, mi fanno paura le zanzare»; «Io voglio andare. Se non mi ci portate voi, datemi un paracadute». Sono solo un paio di battute, colte “al volo” - è il caso di dirlo - sull’aereo che il 25 scorso portava papa Francesco a Nairobi, capitale del Kenya e prima tappa del viaggio di cinque giorni che lo sta vedendo impegnato nel continente dalle risorse del suolo e del sottosuolo più ricche al mondo e dalle popolazioni più miserabili della terra. Come tale gigantesco, incrollabile, insostenibile paradosso sia possibile, e come tutti lo accettiamo senza fiatare, è forse la spina avvelenata che sta contagiando il mondo: che lo sta portando verso una catena di guerre, di violenze e di disastri sia ecologici sia sociali che potrebbe anche rivelarsi di proporzioni mai viste.
Perché dev’esser chiaro che questa è la posta in gioco. E che, tra i grandi leaders mondiali, questo gesuita italoargentino che al suo paese qualcuno accusa di essere «un gaucho peronista irresponsabile» è l’unico ad affrontarla direttamente e a chiamare le cose con il loro nome: come ha fatto nell’enciclica Laudato si’. I rischi sono molti ed evidenti: per lui, per chi gli sta vicino, per le folle che accorrono a salutarlo. Lui lo sa bene.
E sa bene che, quando il pericolo è relativo e non incombe, lo si può anche evitare; ma quando è lì, ci è addosso, minaccia di sopraffarci, allora non c’è nulla da fare: va affrontato a muso duro. E lui, dietro certi suoi disarmanti sorrisi, la grinta del duro ce l’ha eccome.
In un raid mozzafiato, rifiutando papamobili corazzate e giubbotti antiproiettile, questo ciclone quasi ottantenne sta visitando un bel pezzo di Africa centroccidentale: il Kenya dove i cattolici sono quasi 9 milioni, l’Uganda dove superano i 14, la Repubblica Centroafricana dove sono invece piuttosto pochi mentre forti sono le comunità cristiano-evangeliche e musulmana, che lui visiterà tra domenica e lunedì.
Senza per nulla minimizzare le tappe a Nairobi in Kenia e a Kampala in Uganda, è proprio a Bangui, capitale della Repubblica Centroafricana, che avranno luogo gli incontri più significativi: anzitutto al visita al campo profughi, quindi la messa nella cattedrale e l’apertura della prima Porta Santa di quel Giubileo della Misericordia che - il papa ci tiene - non dovrà avere Roma come centro e mèta bensì svolgersi fondamentalmente in quelle periferie che egli ama e nelle quali vede le chiavi per il destino del mondo di domani. Quindi il papa visiterà la grande moschea della capitale.
Se non ci saranno intoppi gravi, è evidente che questo è solo il principio. Non potrà non esserci un’altra visita, specie nei paesi dove i fedeli cattolici sono ancora più numerosi: 31 milioni nella Repubblica Democratica del Congo, 20 in Nigeria. Va ricordato che in Africa i cattolici sono 200 milioni, vale a dire il 17% della popolazione cattolica del mondo; nel clero, i preti africani stanno ormai diventando sempre più numerosi e a loro viene sovente affidata l’evangelizzazione e la pastorale rivolta agli europei. Ecco perché Francesco sostiene che la risorsa più preziosa dell’Africa non sono né il petrolio, né l’oro, né i diamanti, né l’uranio, né il coltan, bensì gli uomini. Eppure da questo continente sfruttato e distrutto soprattutto a causa della scellerata complicità tra le lobbies multinazionali che lo dissanguano sfruttandolo e i corrotti governi locali che tengono loro il sacco ricevendone laute prebende mentre la guerra infuria e le bande terroristiche impazzano, la gente è costretta a fuggire. Derubati in casa loro e quindi cacciati. Inaudito, ignobile, intollerabile.
In Africa c’è anche una grave minaccia terroristica: il papa lo sa bene e non sottovaluta in pericolo. Non ci sono prove effettive che gruppi come Boko Haram o come le molte milizie attive in area somala da dove irradiano la loro violenza siano strutturalmente legate all’IS del califfo al-Baghdadi. Egli agisce forse solo in franchising, apponendo il suo trade mark agli attentati e alle azioni violente che riescono e dando così l’impressione di una potenza intercontinentale che non possiede. Ciò non diminuisce però di un grammo la pericolosità dei guerriglieri islamisti. In Uganda agisce, ai confini con il Ruanda e il Congo, la Adf-Nalu (“Forze democratiche alleate - Esercito Nazionale di Liberazione dell’Uhanda”), che ormai ha assunto un inquietante colore confessionale da quando a guidarlo c’è Jamil Mukulu, un ex cristiano convertito alla setta musulmana taqlib.
Quel ch’è accaduto il 20 scorso nel Radisson Hotel di Bamako nel Mali, è ancora troppo recente per essere già stato dimenticato: dei clienti uccisi una volta appurato semplicemente che non conoscevano il Corano. Qualche giorno fa i rappresentanti dell’Unione europea, riuniti a Malta, hanno stanziato un po’ meno di 2 miliardi di euro per sostenere lo sviluppo economico africano e rimpatriare i migranti irregolari: una goccia nell’oceano, che per giunta - come assicura padre Mussie Zerai, dell’autorevole agenzia Habeshia - finirà quasi del tutto nelle tasche di governanti e di politicanti locali. Eppure l’equilibrio sociopolitico del mondo discende dalla necessità di una ridistribuzione delle ricchezze nel continente africano.
Il papa lo sa; e sa benissimo altresì che il terrorismo è imprevedibile e che - se non si coordinano bene intelligence e infiltrazione per distruggerne le centrali - i quasi 36.000 uomini del servizio sociale non possono far quasi nulla per tutelare la sicurezza da nessuno. Lo ha detto chiaro e tondo: «Il terrorismo si alimenta di paura e povertà». Ma no, i soliti esperti tuttologi abituali ospiti dei talk-show durante i quali discettano su tutto, dalla questione femminile alla Juventus, gli hanno dato sulla voce giudicando la sua tesi “semplicistica” e “superficiale”, ribadendo con sussiego che alla base del terrorismo c’è l’ideologia distorta dei fondamentalismi. Ma sfugge a questi competenti per autolegittimazione che in una dottrina nella quale la fede viene degradata a base politica di un nuovo imperialismo vi sono sì i teorici che sanno quel che fanno, ma la massa di manovra agisce in quanto esasperata dalle sue condizioni economiche e incapace di disporre di un linguaggio sociale che non faccia riferimento al bagaglio religioso.
Ma alla base di tutto v’è una miseria che dilaga in Asia, in Africa, in America latina , che tocca a differenti livelli il 90% della popolazione del globo (e tra loro più poveri, quelli che vivono sotto la soglia di sopravvivenza fissata dalla Banca Mondiale, i fatidici due dollari al giorno, sono 700 milioni) e che è aggravata dall’informazione.
Non esiste povero e isolato centro che non sia raggiunto dalla Tv o dalla rete informatica. Ora, i miserabili che pensavano alla loro condizione economica come “naturale”, sanno e vedono; gli africani ai quali le multinazionali fanno pagare perfino l’acqua potabile sanno che là, “in Occidente”, c’è chi nuota in piscine private olimpioniche la cui capacità sarebbe tale da soddisfare le esigenze idriche giornaliere di migliaia di persone. E non ci stanno più. Ora, tra loro molti non trovano di meglio del jihadismo islamista per reagire; se piegheremo quella forza eversiva, non illudiamoci. Ne nasceranno altre: in quanto esse costituiscono le risposte distorte, scorrette, crudeli, disperate, a una situazione intollerabile.
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I corvi del Vaticano
di don Aldo Antonelli (L’HUFFINGTONPOST, 03/11/2015)
Alla faccia dei corvi! Li si vede in prima pagina dei giornali, beatamente sorridenti: lui tutto divino (anzi "opusdeista"), lei tutta bellezza (anzi tutta "ghermezza"). In genere i corvi li si immaginano brutti, neri e cattivi, più vicini all’inferno che al paradiso, più familiari del demonio che di Dio. Ma no! In Vaticano non si può. In Vaticano tutto deve essere sublimato; tutto deve essere coniugato nelle modalità estetiche della bellezza artistica e in quelle etiche della pietà mistica.
Per chiarezza sto parlando della foto che appare in prima pagina di Repubblica, dove c’è un Lui e una Lei. Lui è lo spagnolo Monsignor Lucio Angel Vallejo Balda, 54 anni, segretario Cosea, la commissione istituita dal papa nel 2013 per vagliare la gestione finanziaria della Santa Sede, seguace ma non membro dell’Opus Dei. Lei è l’italiana Francesca Immacolata Chaouqui, 32 anni, unico membro laico del Cosea, ex lobbista per Ernst & Young. Dalle stelle alle stalle, angeli degradati in corvi. Ed è bene che sia così; è il risvolto positivo dello scandalo. Nel vangelo (Matteo 18,7) si leggono le parole di Gesù: "Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che vengano scandali, ma guai all’uomo a causa del quale viene lo scandalo". Forse, per non restare prigionieri del piccolo cortocircuito nel quale vengono triturati personaggi il cui unico torto è quello di svelare i segreti scandalosi, sarebbe opportuno che ci si chiedesse se non sia più vergognoso, e quindi da vituperare e punire, chi pone in essere lo scandalo e non chi lo rivela....
Il problema non è il "mettere a tacere", il "sopire", il "nascondere", lo "stendere il pietoso velo". Bensì il rimuovere, l’estirpare la malattia. Il Vaticano, cha ai molti sembra essere la "città di Dio" in terra, si rivela, purtroppo, uno zoo infernale al cui interno «ci sono anche pappagalli, corvi, gufi e uno scarso numero di pecore», come dice Alberto Melloni su La Repubblica di oggi (3 novembre 2015). Con parole più dure, un amico, Rosario, in un suo messaggio mi scrive:
Si tratta, per lo più, di collaboratori incapaci e insieme arrivisti, interessati a tornaconti personali, senza Fede né Ideali: carrieristi , massoni e piduisti. Noi, per formazione e per esperienza, sappiamo che se vogliamo trovare innocenza e schiettezza, dobbiamo fissare lo sguardo su altre sponde. Fuori dei centri di potere, in quelle periferie dove nascono i sogni e donde vengono le lotte di riscatto e dalle quali viene anche papa Francesco. Da quella periferia ci è venuta, a noi coinquilini del "centro", la bella figura di san Romero e di Monsignor Casaldaliga, il Vescovo degli Indios, il quale, a proposito di Vaticano, non molto tempo fa scriveva:
Il coming out di monsignor Krzysztof Charamsa, alla vigilia del Sinodo sulla famiglia, riporta l’attenzione su una pastorale possibile "per" e "con" le persone omosessuali. Ma qual è l’effettiva condizione in cui si trovano gay e lesbiche nella Chiesa cattolica?
di PASQUALE QUARANTA *
ROMA - Per una pastorale inclusiva - concepita non solo "per" ma anche "insieme" alle persone omosessuali - bisogna augurarsi che il Sinodo in corso porti a una svolta. Perché nella storia della Chiesa giudizi assoluti, e spesso infondati, hanno a lungo ferito gay e lesbiche, in particolare i credenti. Una prova è arrivata dal coming out di monsignor Charamsa che ha sollevato il tema dell’omofobia in Vaticano.
Quando si tratta delle persone omosessuali, le parole “rispetto”, “accoglienza”, “dialogo” spesso non hanno trovato spazio nella Chiesa cattolica, come riconosciuto in queste ore in un’intervista a Repubblica dallo stesso cardinale Dionigi Tettamanzi, che ha parlato di "forme di discriminazione" subìte dalla persone omosessuali. Il dialogo, se vuole essere onesto, non può prescindere dall’ammissione di giudizi che tante volte hanno paralizzato le persone (si pensi alle cosiddette "terapie riparative", al tentativo di convincere gay e lesbiche a farsi “curare” le loro “ferite”).
Un noto e importante documento vaticano insegna che “l’attività omosessuale impedisce la propria realizzazione e felicità perché è contraria alla sapienza creatrice di Dio” (Congregazione per la dottrina della fede, Lettera sulla cura pastorale delle persone omosessuali). Questo giudizio deriva dall’enciclica Humanae Vitae, secondo la quale esiste una “connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo”.
Da alcuni decenni, com’è noto, questa dottrina tradizionale è ampiamente disattesa e apertamente contestata, perfino in alcuni ambienti della Chiesa. Il sesso solitario, l’uso degli anticoncezionali, l’atto omosessuale non vengono più considerati in se stessi un male, perché si ritiene che la dottrina tradizionale non tenga adeguatamente conto di tutti gli aspetti della natura umana, oggi conosciuti grazie anche alle scienze umane, e perché si ritiene che le ragioni addotte a sostegno della dottrina tradizionale non siano più solidamente fondate.
È vero che mai come oggi - con il Sinodo iniziato da pochi giorni - il tema è al centro della discussione nel mondo cattolico ma la condizione delle persone omosessuali nella Chiesa resta complicata.
Da una parte, i documenti e i testi vaticani insegnano che l’omosessualità ostacola gravemente un corretto relazionarsi con donne e uomini, che l’omosessualità è collegata a una immaturità psicologica, che la condizione omosessuale è disordinata, che gli atti omosessuali impediscono di realizzarsi e di essere felici, che l’amore delle persone omosessuali è contrario alla volontà di Dio, che le coppie gay e lesbiche legalmente riconosciute sono un pericolo per l’umanità.
Dall’altra, i risultati sicuri delle scienze umane mostrano che l’omosessualità non impedisce corrette e sane relazioni umane e che il riconoscimento legale delle coppie gay e lesbiche giova alla società; le coppie omosessuali e le loro famiglie sperimentano che il loro amore li rende felici e che l’omosessualità è per loro una delle opportunità della loro vita e non un problema; varie ricerche filosofiche, bibliche, teologiche mostrano che non ci sono ragioni stringenti per seguire la teoria secondo cui la condizione omosessuale è disordinata e l’amore delle coppie gay e lesbiche è contrario alla volontà di Dio.
Di fatto, le persone omosessuali non possono prendere la parola - argomentando sulla base dei risultati sicuri delle scienze umane, dell’esperienza loro e delle loro famiglie, delle ricerche filosofiche, bibliche e teologiche - per mostrare che le loro ragioni sono le ragioni della Chiesa e non un loro capriccio, per chiedere di riesaminare quei giudizi discutibili, pena l’accusa di fare del male a se stesse e alla Chiesa.
Un’accusa che, tanto più per chi occupa un posto di rilievo nella gerarchia ecclesiastica, si traduce nel silenzio obbligato o nell’espulsione (come nel caso di monsignor Charamsa). La logica che genera l’accusa è chiara: poiché tali giudizi sono verità insegnate dall’autorità garante del bene della Chiesa, mostrare che sono infondati o discutibili, addirittura il solo chiedere di riesaminarli costituisce un rifiuto della verità, una disobbedienza all’autorità, un attentato al bene della Chiesa.
Che fare dunque in questo contesto? Il 3 ottobre si è svolta a Roma una conferenza internazionale di cattolici omosessuali intitolata “Le strade dell’amore”. Ne hanno parlato in pochi. La novità emersa dalle testimonianze di persone provenienti da 13 Paesi diversi è che nelle Chiese cristiane gay e lesbiche credenti sono protagonisti di una grande novità: dicono apertamente con le parole e con i fatti che tra esperienza omosessuale e vita cristiana non esiste alcuna inconciliabilità. Si tratta di una rivoluzione d’amore e in quanto tale non violenta. Perché la comunità non può accoglierla con gioia? Perché la celebrazione di questo amore non può avere la dignità di matrimonio?
* la Repubblica, 08.10.2015 (ripresa parziale).
L’ex monsignore gay: «Così mi sono rivelato So che Dio mi accetta»
Il libro di Charamsa e la scelta di fare coming out
di Elena Tebano (Corriere della Sera, 28.06.2016)
«Racconterò tutto in un libro» aveva detto Krzysztof Charamsa, teologo gay del Sant’Uffizio, all’indomani del coming out sul Corriere della Sera che a ottobre gli è costato l’abito talare e la carica di ufficiale della Congregazione per la Dottrina della fede. Quel libro, La prima pietra. Io, prete gay, e la mia ribellione all’ipocrisia della Chiesa , arriva giovedì sugli scaffali delle librerie italiane, edito da Rizzoli. «Un’autobiografia che sarà forse accusata di essere incentrata soltanto sull’esperienza della sessualità» la descrive ora dalle sue stesse pagine l’ex monsignore polacco 44enne.
Ma chi si aspetti aneddoti e particolari rischia di rimanere deluso. C’è un accenno all’incontro con Eduard Planas, l’uomo catalano con cui oggi condivide la vita a Barcellona e che è stato fondamentale per il suo coming out. «Lui - racconta - sapeva tutto quello che possono sapere gli amanti di una notte» e nient’altro: non che l’uomo che stringeva tra le braccia era un prete. «Però io non volevo più nascondermi. Ma perché desideravo svelarmi? - si chiede -. Non volevo perderlo, mi ero innamorato. E quella notte avevo visto Dio che mi amava, mi abbracciava, mi accettava».
C’è la descrizione del percorso che lì l’ha portato, a partire dalla sua prima storia con un uomo iniziata quando già aveva preso i voti: «Un prete italiano: si era innamorato di me e fece il suo coming out». Dichiarazione d’amore dapprima respinta da Charamsa con «paroloni su come ciascuno di noi porti dentro di sé le proprie difficoltà e sul fatto che tutto vada dominato con la forza della ragione». Per poi tornare sui suoi passi un mese dopo: «Questo uomo mi ha aperto a me stesso, ha innescato il processo della mia uscita dalla gabbia imposta dalla Chiesa, è stata la scintilla di cui avevo bisogno» scrive adesso l’ex monsignore di quella storia («la mia prima relazione omosessuale»).
Ma c’è più di ogni altra cosa la testimonianza di un doloroso percorso intellettuale e spirituale per giungere ad accettare la propria omosessualità, che l’ha portato a una frattura insanabile con quella Chiesa in cui nutriva una fede incrollabile perché incrollabile era (ed è) la sua fede in Dio. Proprio perché il suo amore e la sua dedizione verso la Chiesa erano totali, ora è fortissima la rabbia per quello che Charamsa percepisce come un tradimento e come la «scoperta» che l’istituzione alla quale ha dedicato la vita era incompatibile con un aspetto centrale della sua persona. Anche per questo
La prima pietra contiene parole durissime nei confronti della Chiesa e del suo clero, che non possono non ferire chi nutre un sentimento cattolico. «Questo libro - dichiara - è anche “la” biografia di una Chiesa, che domina le persone, le sottomette, inculca loro il senso di colpa e promette la salvezza. “Se pubblicamente rinuncerai alla tua sessualità, ti salverai”. Da cosa vorrebbe salvarmi? Dalla felicità di vivere, dalla serenità, dall’accettazione di me stesso, dalla tolleranza, dagli artisti gay, dai baci di Michelangelo?» chiede.
Il suo diventa così un atto di accusa senza appello contro la dottrina cattolica della sessualità (etero e gay) e contro le gerarchie ecclesiastiche. Charamsa ne descrive gli atteggiamenti, compreso quello che definisce «l’odio verso papa Francesco» diffuso «nel Sant’uffizio», in termini tanto sconvolgenti quanto impossibili da verificare per il lettore. Fino a raccontare anche - dall’interno e con un mea culpa - la sua mancata denuncia di un prete che avrebbe abusato di un suo parente quando questi era adolescente.
Lo fa con toni inaccettabili per chi si riconosce nella Chiesa di Roma. Convinto di essere dalla parte (giusta) di Dio, che non ci possa essere conciliazione e che i molti - secondo le sue stime - omosessuali «buoni preti, dovrebbero abbandonare l’istituzione che si permette continuamente di offenderli». Forse è il suo limite più grande, perché gli impedisce di parlare a quella Chiesa di cui è comunque ancora figlio. E a cui molti fedeli chiedono oggi di confrontarsi con questi temi.
UNA LEZIONE DI JOYCE (da "FINNEGANS WAKE").
OBBEDIENZA CIECA: TUTTI, PRETI, VESCOVI, E CARDINALI AGGIOGATI ALLA "PAROLA" DI PAPA RATZINGER ("DEUS CARITAS EST", 2006). Materiali per riflettere (federico la sala)
Quando si poteva ridere degli Dei
I travestimenti di Dioniso, i tradimenti di Afrodite, i riti e le commedie.
Così gli antichi si prendevano gioco del divino
di Maurizio Bettini (la Repubblica, 23.09.2015)
Esistono religioni in cui ridere della divinità è possibile anche da parte di coloro che, contemporaneamente, questa stessa divinità la venerano: e ciò è considerato perfettamente “naturale”. Solo la nostra lunga, ben più che millenaria assuefazione ai quadri mentali delle religioni monoteistiche, fa sì che la possibilità di ridere della divinità ci sembri incompatibile con la pratica religiosa - tanto che, per poterlo fare, si deve necessariamente essere dei non credenti, persone che alla religione guardano da fuori.
Tutto al contrario, esistono religioni in cui ridere degli dèi è stata ed ancora è pratica comune. È quello che accadeva, per esempio, presso i Krachi, una popolazione della zona del Volta, in Africa, oggi parte dello stato del Ghana, nei cui racconti trovano posto una divinità che si allontana dagli uomini perché ogni mattino una vecchia la colpisce col pestello; o addirittura taglia un pezzetto del suo corpo per metterlo nella zuppa. A questo proposito Italo Calvino si domandava se «già in origine le religioni di questi popoli» non fossero «imbevute di realismo e di autoironia».
Ma anche senza uscire dal nostro ristretto orizzonte geografico, ossia l’Europa, basterà ricordare che anche la cultura antica, quella propria dei Greci e dei Romani, ammetteva tranquillamente la possibilità di ridere della divinità. Il fatto è che troppo spesso noi giudichiamo naturali, ossia propri della natura umana, abitudini e comportamenti che sono invece costruzioni culturali: tant’è vero che basta voltare pagina, nel libro delle culture, per scoprire che altri, diversi da noi, hanno avuto e hanno comportamenti diversi da quelli che noi riteniamo imposti direttamente dalla natura. Ed è questo il caso di quelle culture, come le antiche, in cui si poteva ridere degli dèi.
Siamo ad Atene, nel 405 a.C., in piena guerra del Peloponneso, un periodo particolarmente drammatico per la città. Per l’esattezza ci troviamo fra i mesi di gennaio e febbraio, giorni in cui si celebravano le Lenee, una festa dedicata a Dioniso (con l’epiteto di Leneo) in cui si svolgevano importanti agoni teatrali.
È questo il momento in cui Aristofane mette in scena le Rane , una delle sue commedie più celebri. La trama è la seguente. Accompagnato da un servo, Xanthias, il dio Dioniso decide di scendere all’Ade per riportare in vita il poeta Euripide, di cui è un ammiratore. Si tratta di un viaggio non privo di rischi, ragion per cui il dio decide di assumere l’identità dell’unico personaggio che, da vivo, è stato capace non solo di scendere all’Ade, ma anche di uscirne: ossia Eracle. Dioniso indossa dunque la pelle di leone, tipica dell’eroe, ne impugna la celebre clava, e così travestito si mette in cammino. La prima tappa è costituita, per l’appunto, da una visita a Eracle. Il quale però, vedendo Dioniso con indosso i suoi tipici attributi, non può far a meno di notare che, da sotto la gloriosa leonté , spunta il bordo di una tunica gialla, tipicamente femminile; e che la terribile clava si accompagna a una calzatura dal tacco alto, anch’essa femminile. «Non riesco a non ridere», commenta Eracle vedendo Dioniso combinato così. E con queste parole siamo già entrati nel nostro tema: ridere degli dèi.
Non si tratta però solo di Aristofane: l’uso di ridere degli dèi in Grecia è presente già a partire da Omero. Molti ricorderanno la celebre scena, narrata nell’Odissea, in cui Ares fa all’amore con Afrodite, che è presentata come sposa di Efesto. Ma il fabbro divino si è accorto del tradimento, per questo imprigiona i due amanti in una rete infrangibile - di quelle che solo lui sa costruire - e li espone al ludibrio delle altre divinità (Odissea 8, vv. 306 e ss.): «Padre Zeus e voi altri beati dèi eterni, venite a vedere l’azione ridicola e intollerabile, come sempre mi oltraggia Afrodite figlia di Zeus, me che sono zoppo, e invece ama Ares inviso e funesto, perché lui è bello e veloce, mentre io sono storpio». Ares e Afrodite, goffi amanti esposti al ludibrio degli altri dèi, sono personaggi ridicoli. Ridono gli dèi di questa scena, ma insieme agli dèi dell’Olimpo ridono anche i lettori dell’ Odissea.
È un fatto che il politeismo antico accetta una pratica - ridere della divinità - che stupisce (quando non indigna) noi uomini di oggi, islamici, cristiani o anche laici che della divinità, anche se le siamo estranei, abbiamo comunque ereditato l’immagine che per secoli e secoli ne hanno dato le religioni monoteiste.
Ora, se si guarda bene come funziona le religione antica, si vede che anche con il dio si possono stabilire prati-camente tutte le relazioni che sono attive anche fra gli uomini. Con la divinità si può comunicare attraverso la preghiera; l’offerta di frutti o il sacrificio di animali - ossia doni di carattere molto concreto - costituiscono una forma di omaggio ma anche di scambio, servono a stabilire amicizie e alleanze con la divinità; ancora, gli dèi antichi non sono solo tanti e molteplici, ma sono divinità presenti, lo sono nei templi della città, in quelli sparsi sul territorio, nelle case dei cittadini, che li onorano con il culto domestico, le loro immagini sono ovunque e di ogni forma. «Tutto è pieno di dèi», diceva Talete, la loro presenza fra i mortali è diffusa è continua.
Neppure la natura degli dèi, se ci si pensa bene, è radicalmente diversa da quella degli uomini: a differenza di questi essi sono esseri immortali, è vero, ma entrambe le stirpi, quella divina e quella umana, hanno comunque una stessa origine, tutte e due provengono da Gaia, la Terra. Gli dèi antichi sono non solo vicini agli uomini, sono soprattutto “partner” dei mortali, esseri potenti e immortali che però, a dispetto di ciò, possono anche porsi “in relazione” con gli umani sotto molteplici punti di vista. Ecco perché si può anche ridere di loro: allo stesso modo in cui si può averli in casa propria, proporre loro scambi offrendo frutti o animali, combatterli, amarli, sognarli. Perché ridere non è diverso da tutto il resto: prendersi gioco di qualcuno fa parte dell’intero bouquet di relazioni che gli uomini stabiliscono fra loro.
A questo punto non ci resta che concludere con un breve parallelo fra il modo in cui gli antichi hanno rappresentato i loro dèi e quello in cui le religioni dette monoteistiche si rappresentano invece la propria divinità.
Lasciamo da parte il cristianesimo, che si è costruito sul racconto di un Dio che si è fatto uomo per essere ucciso e così redimere i peccati del mondo: una religione come questa, che si fonda sulla passione e la morte del figlio di Dio, si oppone costituzionalmente alla possibilità di ridere.
Quanto al Dio ebraico e islamico - ma questo vale anche per colui che i Cristiani chiamano Dio Padre - a differenza delle divinità antiche questa non solo è unica, maè soprattutto lontana : è un dio che, in quanto costituisce l’origine di tutto ciò che esiste, ed è egli stesso il Tutto - increato ed eterno, infinito, assoluto - per lo stesso motivo è anche remoto, inafferrabile negli spazi siderali che costituiscono solo una particella della sua immensità. Con Lui non si interagisce offrendogli doni concreti, ma gli si rivolgono solo offerte metaforiche e spirituali. Di lui non esistono immagini, la sua è una presenza tanto totale quanto astratta, anzi, astratta proprio perché totale. L’unica relazione che con lui si può avere è di totale sottomissione, di piena accettazione ai suoi voleri, l’esecuzione della sua volontà in un progetto che è addirittura cosmico e, come tale, va ben oltre ciò che riguarda la minima presenza dei singoli uomini. Come si potrebbe ridere di una divinità come questa?
EUCARISTIA = EUCARESTIA, COSI’ ANCORA PER GLI ESPERTI DI WIKIPEDIA E CATHOPEDIA:
A. "Per i cristiani l’eucaristia o eucarestia è il sacramento istituito da Gesù durante l’Ultima Cena, alla vigilia della sua passione e morte. Il termine deriva dal greco εὐχαρίστω (eucharisto: "rendo grazie"). Il Nuovo Testamento narra l’istituzione dell’eucaristia in quattro fonti: Matteo 26,26-28; Marco 14,22-24; Luca 22,19-20; 1 Corinzi 11,23-25" (WIKIPEDIA).
B. "L’Eucaristia o Eucarestia (traslitterazione del greco εὐχαριστία, eucharistía, "rendimento di grazie") è il Sacramento con il quale, dopo il Battesimo e la Cresima, culmina l’iniziazione cristiana" (CATHOPEDIA).
Vaticano, Papa: Testimoniare unità e carità verso tutti *
"La missione di annunciare Cristo risorto non è un compito individuale, ma è da vivere in modo comunitario, testimoniando l’unità fra di noi e la carità verso tutti". Così papa Francesco, durante l’omelia in occasione della messa in piazza San Pietro per la canonizzazione di quattro suore, di cui due palestinesi. "Questo - ha sottolineato Bergoglio - hanno fatto le quattro sante oggi proclamate. Il loro luminoso esempio interpella anche la nostra vita cristiana: come io sono testimone di Cristo risorto? Come rimango in Lui, come dimoro nel suo amore? Sono capace di ’seminare’ in famiglia, nell’ambiente di lavoro, nella mia comunità, il seme di quella unità che Lui ci ha donato partecipandola a noi dalla vita trinitaria?".
* iL MESSAGGERO, 17.05.2015
Pedofilia e Vaticano: “segreto” sulle carte di don Mauro Inzoli *
“DELUDE PROFONDAMENTE la scelta del Vaticano di non trasmettere alla Procura di Cremona gli atti inerenti i casi di abusi su minori che hanno visto protagonista don Mauro Inzoli e accertati dalle stesse autorità ecclesiastiche. La decisione della Santa Sede di apporre ai carteggi richiesti dalla giustizia italiana il sub secreto pontificio, una sorta di segreto di Stato, è una contraddizione rispetto al nuovo corso che aveva annunciato lo stesso Papa Francesco”: lo afferma Franco Bordo, il deputato di Sinistra ecologia libertà, autore a Crema di un esposto che ha avviato l’inchiesta giudiziaria nei confronti del sacerdote.
“Auspichiamo - prosegue l’esponente di Sel - che ci sia un ripensamento al riguardo e che si sia trattato di una decisione burocratica e non di una cosciente e precisa scelta politica da parte delle autorità vaticane, che non sarebbe compresa e accettata dai cittadini italiani. I tempi dell’omertà su temi del genere sono finiti e oggi ancor più di ieri il silenzio non è accettabile né comprensibile. Confidiamo ora che comunque le indagini proseguano e siamo fiduciosi che la magistratura italiana riesca ad accertare anche autonomamente i fatti”.
* il Fatto, 04.03.2015
Papa Francesco nelle Filippine: "Non si uccide in nome di Dio, ma non ridicolizzare fede"
Bergoglio saluta lo Sri Lanka e sbarca a Manila. "Preoccupato per incolumità fedeli"
di Redazione ANSA *
COLOMBO (SRI LANKA) Non si uccide in nome di Dio ma non si ridicolizza la fede altrui. E’ il messaggio del Papa che, dall’aereo che lo sta portando dallo Sri Lanka alle Filippine, incalzato dai cronisti, torna a parlare del terrore dei giorni scorsi a Parigi. "Essere miti, umili non aggressivi" - è il messaggio del Papa - è "miglior modo per rispondere" a minacce di attentati. Il Papa è "preoccupato per l’incolumità dei fedeli", per sé ha paura ma anche "una sana incoscienza" e ha paura del dolore fisico. "La libertà di religione" - ha detto ancora Francesco - è essenziale, e "non si uccide in nome di Dio". La "libertà di espressione è un diritto, ma anche un dovere". Neppure "si offende la religione", ma in questo caso "non si reagisce con violenza".
Libera espressione sì, "ma se il mio amico Gasbarri dice una parolaccia sulla mia mamma, si aspetti un pugno". Così il Papa, in volo verso Manila, ha spiegato il "limite" alla libertà di espressione: la fede non sia ridicolizzata. Non si "giocattolizza la religione degli altri".
Gli organizzatori hanno calcolato in due milioni le persone che hanno accolto il Papa al suo arrivo a Manila, sia in aeroporto che lungo le strade. Lo ha detto il portavoce padre Federico Lombardi.
"Forse è una mancanza di rispetto - ha risposto il Papa a una domanda sui kamikaze e sui bimbi usati come kamikaze - ma credo che in ogni attacco suicida c’è qualcosa di squilibrio mentale e umano, c’è qualcosa che non va nelle persone, nel senso che danno alla propria vita e a quella degli altri. Sì, il kamikaze dà la propria vita, ma non la dà bene, i missionari per esempio danno la propria vita ma per costruire, quando si dà la vita per distruggere c’è qualcosa che non va".
Saluto allo Sri Lanka - "Dio benedica e protegga lo Sri Lanka". Con questo tweet Papa Francesco ha salutato il Paese asiatico per proseguire il suo viaggio che lo ha visto sbarcare a Manila nelle Filippine. Una volta sceso dalla scaletta è stato il presidente del Paese, Aquino III, ad accoglierlo.
All’aeroporto di Manila un’accoglienza calorosa con centinaia di giovani che cantano e ballano. Folla sterminata ad accogliere Francesco anche nelle zone subito fuori dall’aeroporto, inquadrate dalle immagini del Ctv, il Centro televisivo vaticano.
Molti i sacerdoti e i vescovi, tra i quali l’arcivescovo di Manila, il cardinal Luis Antonio Tagle. Si sono salutati con un forte abbraccio e grandi sorrisi. Tira un forte vento e appena il Papa si è affacciato dal portellone dell’aereo è volata la papalina. Anche a Manila, come era già accaduto all’aeroporto di Colombo in Sri Lanka, due bambini hanno offerto al Papa un omaggio floreale, con fiori banchi e gialli, i colori del Vaticano.
Papa in Sri Lanka: nel cuore del conflitto etnico,"pace"
di Giovanna Chirri
Non è facile imparare a perdonare, e perdonarsi, dopo aver visto, subito o anche compiuto tanta violenza, come quella che per decenni ha opposto tamil e cingalesi. Prima condizione è non dimenticare il "sangue sparso". Ma soprattutto bisogna lavorare per una "riconciliazione più grande, in cui il balsamo del perdono e della misericordia possa portare tutti alla guarigione". Papa Francesco ha nuovamente indicato la strada della verità, dell’ammissione degli errori, e della reciproca riconciliazione come via per far passare lo Sri Lanka dalla assenza di guerra a una pace vera.
Lo ha fatto nel santuario di Madhu, nella zona di Mannar, a nord del Paese, nelle province dove i tamil avevano cominciato a concentrarsi a partire dagli anni Sessanta. Lì dal 2007 al 2009 si è svolta la fase più cruenta del conflitto, con l’esercito governativo che ha annientato le "tigri", ma ha poi militarizzato la regione, violando una serie di diritti umani dei civili, come documentano Ong, una commissione di inchiesta e vari rapporti dello Osservatorio internazionale sui diritti umani.
Madhu è un luogo frequentato non solo da cristiani, e simbolico per questi ultimi giacché dalla sua origine ha assistito tra l’altro nel 1544 alla persecuzione anticristiana da parte del re di Jaffna, alla persecuzione, nel Sei-Settecento, dei calvinisti olandesi contro i cattolici e, da ultimo è stato, dal 1990 campo profughi per gli sfollati del conflitto, zona demilitarizzata ma comunque coinvolta in combattimenti furiosi.
Nel santuario, riaperto al culto nel 2010, papa Francesco è giunto nel pomeriggio, in elicottero da Colombo, ed è stato accolto da una folla grande, capace di passare dalla festa alla preghiera, grazie al modo composto e sincero di accogliere l’ospite con danze e ghirlande di fiori, ai canti sacri. Anche dolenti e come pensosi, simili a quelli che la notte scorsa hanno accompagnato centinaia di migliaia di fedeli lungo il litorale dell’Oceano Indiano, per raggiungere il luogo della canonizzazione del primo santo di qui, Giuseppe Vaz.
A Madhu il compito di salutare papa Francesco è stato assolto da mons. Joseph Rayappu, il vescovo di Mannar che ha sempre difeso i diritti dei tamil e ha anche reso testimonianza davanti alla Commissione per la riconciliazione nazionale. I due giorni nell’ex Ceylon, - ieri con l’appello ai leader religiosi a non essere "equivoci" contro le violenze in nome di Dio, e oggi con la reiterazione dell’appello a "riconciliazione, giustizia e pace", - sono quasi una scuola per l’uomo contemporaneo, chiunque egli chiami Dio, per costruire una vera fratellanza, che cambi la vita dei popoli e delle persone. Un modo di essere uomini, e perciò capaci di curare le ferite più purulente, che il Papa considera l’unico possibile per pacificare il mondo.
Come al mattino, nella messa con più di cinquecentomila persone lungo l’oceano, anche nel pomeriggio nel piccolo santuario bianco su cui svettano le bandiere blu dello Sri Lanka, davanti a circa 300mila persone, il Papa oggi ha parlato attraverso la preghiera, - presenti un gruppo di famiglie sia tamil che cingalesi duramente provate dalle ostilità - tenendo anche in mano per diversi minuti la statuetta della Vergine di Madhu.
Ciò non toglie che la sintonia provata nei confronti del neopresidente Sirisena - eletto a sorpresa anche dalle minoranze e da tutti gli srilankesi stanchi anche dei metodi arroganti del predecessore Rajapaksa e della incuranza di questi per i problemi di una vera pacificazione - possa sostenere anche la azione della Chiesa srilankese e della diplomazia del Papa, per questi obiettivi, che accomunano il piccolo e per molti lontano Sri Lanka ai grandi e ai piccoli di ogni angolo del pianeta. Papa Francesco neppure oggi ha rinunciato ai fuori programma, e ha visitato il monaco buddista Banagala Upatissa, che lo aveva invitato ieri, e ha incontrato i vescovi del Paese, ai quali ieri aveva cancellato un incontro conviviale.
* ANSA 15 gennaio 2015 17:44 (ripresa parziale).
Papa: ’Ecco le 15 malattie della Curia’
’Primo sentirsi immortale. Cimiteri pieni di chi si sentiva tale’
di Redazione (ANSA 22 dicembre 2014)
Ecco le malattie che il Papa, nella udienza alla curia per gli auguri di Natale, ha elencato e analizzato invitando alla riflessione, alla penitenza e alla confessione, in questi giorni che separano dal Natale.
La prima é la "malattia del sentirsi immortali, immuni da difetti, trascurando i controlli" un corpo che non fa "autocritica, non aggiorna e non cerca di migliorarsi, è un corpo infermo". Il Papa ha suggerito una "ordinaria visita ai cimiteri, dove vediamo i nomi di tante persone che si consideravano immuni e indispensabili". Questa malattia, ha commentato il Papa, "deriva spesso dalla patologia del potere, dal narcisismo che guarda la propria immagine e non vede il volto di Dio impresso" negli altri, sopratutto "i più deboli". "Antidoto a questa epidemia - ha suggerito il Pontefice - è la grazia di sentirci peccatori, e il dire ’siamo servi inutili’".
La secondo è la "malattia del martalismo, che viene da Marta, la malattia della eccessiva operosità", di coloro che "si immergono nel lavoro trascurando inevitabilmente la parte migliore, il sedersi ai piedi di Gesù". "Trascurare il necessario riposo - ha ammonito - porta allo stress e alla agitazione" un "tempo di riposo da trascorrere con i familiari è necessario", come necessario è "rispettare le ferie come momenti di ricarica spirituale e fisica", ricordando quanto dice il libro del biblico del Quelet, ’c’è un tempo per ogni cosa’".
La terza: "malattia dell’impietrimento mentale e spirituale", "il cuore di pietra e duro collo di coloro che strada facendo perdono serenità interiore audacia e si nascondono sotto le carte diventando macchine di pratiche e non uomini di Dio", "è pericoloso perdere la sensibilità umana, ed è la malattia di coloro che perdono i sentimenti di Gesù, il cuore col tempo si indurisce e diventa incapace di amare incondizionatamente il padre e il prossimo, essere cristiani infatti - ha ricordato il Papa - significa avere gli stessi sentimenti di distacco, donazione e generosità di Gesù".
La quarta è la "malattia della eccessiva pianificazione e funzionalismo, quando l’apostolo - ha osservato papa Bergoglio - pianifica tutto minuziosamente e crede che le cose progrediscono diventando così un contabile e un commercialista: preparare tutto e bene è necessario, ma senza voler mai richiudere e pilotare la libertà dello Spirito che è più generosa di ogni pianificazione". "Si cade in questa malattia - ha denunciato papa Francesco - perché è più comodo adagiarsi nella proprie posizioni immutate", voler "regolare e addomesticare lo Spirito Santo che è freschezza fantasia, novità".
La successiva malattia in agguato per ogni chiesa, curia e gruppo di fedeli elencata dal Papa, la quinta, é la "malattia del mal coordinamento: quando i membri perdono coordinamento tra loro" la curia diventa "un’orchestra che produce chiasso, perché le sue membra non collaborano e non vivono lo Spirito di grazia". Qui il Papa ha esemplificato parlando tra l’altro della "testa che dice al braccio ’comando io’".
La sesta é la "malattia dell’alzheimer spirituale, la dimenticanza della storia della salvezza, della storia personale con il Signore, del primo amore: si tratta - ha spiegato papa Francesco - di un declino progressivo delle facoltà spirituali" che "in un tempo più o meno lungo" rende la persona o il gruppo "incapace di un’attività autonoma, in uno stato di assoluta dipendenza dalle sue vedute spesso immaginarie: lo vediamo - ha rimarcato - in coloro che hanno perso la memoria del loro incontro con il Signore, dipendono dal loro presente, dalle loro passioni, capricci e manie, che costruiscono intorno a sé dei muri e delle abitudini e diventando sempre di più schiavi degli idoli che hanno scolpito con le loro stesse mani".
La settima é "la malattia della vanità e vanagloria" di chi vede solo "l’apparenza, i colori delle vesti e le insegne di onorificienza come vero obiettivo della vita, dimenticando le parole di san Paolo", e qui il Papa ha citato l’invito paolino a non considerare gli altri secondo il proprio interesse. "Questa malattia - ha denunciato il Pontefice davanti alla curia - ci porta ad essere uomini e donne falsi e a vivere un falso misticismo e un falso pietismo san paolo ’nemici della croce di cristo’ perché si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi".
L’ottava è la "malattia della schizofrenia esistenziale: avere una doppia vita frutto della ipocrisia del mediocre" e "del progressivo vuoto spirituale che lauree o titoli accademici non possono colmare, coloro che abbandonando il servizio pastorale si limitano a pratiche burocratiche, vivono in un loro mondo parallelo dove mettono da parte ciò che insegnano agli altri e iniziano una vita dissoluta". "La conversione per questa gravissima malattia - ha rimarcato il Papa dopo una frazione di silenzio - è urgente indispensabile".
La nona malattia è quella "di chiacchiere, mormorazioni pettegolezzi, ne ho parlato tante volte - ha ricordato - ma non è mai abbastanza: è grave, inizia magari per fare due chiacchiere, e si impadronisce della persona facendola diventare seminatrice di zizzania come Satana". Questa malattia è "delle persone vigliacche, che non avendo il coraggio di parlare direttamente, parlano dietro le spalle", e anche a questo proposito il Papa ha citato san Paolo con il suo invito a agire senza mormorare, ed essere irreprensibili e puri. "Guardiamoci - ha ancora esortato papa Francesco - dal terrorismo delle chiacchiere".
La decima è "la malattia di divinizzare i capi, di coloro che corteggiano i superiori sperando di ottenere la benevolenza. Sono vittime di carrierismo e opportunismo, onorano le persone e non Dio, sono persone meschine, infelici, ispirate solo dal proprio fatale egoismo. Questa malattia - ha osservato papa Bergoglio - potrebbe anche colpire i superiori quando corteggiano loro collaboratori per averne lealtà e dipendenza. Ma il risultato finale - ha sottolineato con forza - è una vera complicità".
L’undicesima: "la malattia dell’indifferenza verso gli altri, quando ognuno pensa solo a se stesso e perde la sincerità dei rapporti umani, quando si viene a conoscenza di qualcosa e la si tiene per sé invece di condividerla positivamente con gli atri, quando per gelosia o scaltrezza si prova gioia nel vedere altro cadere invece di incoraggiarlo e rialzarlo".
La dodicesima è "la malattia della faccia funerea, delle persone burbere e arcigne che ritengono che per essere seri occorra dipingere il volto di malinconia e trattare gli altri, soprattutto quelli ritenuti inferiori, con rigidezza e arroganza". La "severità teatrale e pessimismo sterile sono spesso sintomo di insicurezza di sé" ha detto il Papa, che ha invitato a "sforzarsi di essere una persona entusiasta e allegra che trasmette gioia: un cuore pieno di Dio è felice e contagia con la gioia attorno a sé; non perdiamo quello spirito gioioso, pieno di humour e persino autoironico che ci rende persone anche nella situazioni difficili. Quanto bene ci fa una buona dose di santo umorismo e ci farà bene recitare spesso la preghiera di Thomas Moore: io la prego tutti i giorni, mi fa bene".
La tredicesima malattia, ha spiegato Bergoglio, è quella "dell’accumulare, di chi cerca di riempire un vuoto esistenziale accumulando beni materiali, non per necessità ma solo per sentirsi sicuro". Il Papa ha ribadito che "il sudario non ha tasche", cioè che morendo non ci si porta dietro niente "e - ha sottolineato - tutti i tesori terreni, anche se sono regali, non riempiranno quel vuoto". "A queste persone - ha aggiunto il pontefice - il Signore ripete ’tu dici sono ricco, non ho bisogno di niente, ma non sai di essere un povero cieco’. L’accumulo appesantisce solamente e rallenta il cammino inesorabilmente". Ha quindi raccontato un aneddoto: "Un tempo - ha ricordato - i gesuiti spagnoli descrivevano la Compagnia di Gesù come la ’cavalleria leggera della Chiesa; ebbene, un giovane gesuita che doveva traslocare e stava sistemando il suo bagaglio, tanti regali, oggetti, si sente dire da un vecchio gesuita saggio, ’questa sarebbe la cavalleria leggera della Chiesa?’ I nostri traslochi".
Quattordicesima malattia quella "dei circoli chiusi, dove la appartenenza al gruppetto diventa più forte di quella al corpo e a Cristo stesso. Anche questa inizia sempre da buone intenzioni, ma con il passare del tempo schiavizza diventando un cancro" che causa tanto male e scandali, specialmente ai nostri fratelli più piccoli. La autodistruzione o il fuoco amico dei commilitoni è il pericolo più subdolo": ’ogni Regno bene diviso in se stesso va in rovina’".
Infine, "l’ultima malattia - ha detto Bergoglio alla curia romana - è quella del profitto mondano, degli esibizionismi, quando l’apostolo trasforma il suo servizio in potere e il suo potere in merce per ottenere profitti mondani, o per ottenere più potere". E’ la malattia "delle persone che cercano insaziabilmente di moltiplicare poteri e per questo capaci di calunniare, diffamare e screditare gli altri, persino su giornali e riviste, naturalmente per esibirsi e mostrarsi più capaci degli altri. Fa male al corpo - ha sottolineato il Pontefice - perché porta a usare qualsiasi scopo, spesso in nome della giustizia e della trasparenza". E a questo punto il Papa ha raccontato del prete che chiamava i giornalisti per spiattellargli i difetti dei confratelli, e lo ha chiamato "poverino".
“La Chiesa rispetta le coppie omosessuali sì alle leggi sui diritti”
di Paolo Rodari (la Repubblica, 16.10.2014)
CITTÀ DEL VATICANO «Gli omosessuali sono persone come le altre e vanno rispettate. Sono uomini come tutti noi. La Chiesa cattolica non accetta il matrimonio fra omosessuali, lo sappiamo, ma se ci sono dei contratti che gli Stati intendono riconoscere senza però che si arrivi a parlare di vero matrimonio, contratti insomma per far sì che gli omosessuali vivano insieme e abbiano certi diritti, è giusto rispettarli. Si tratta di leggi che permettono agli omosessuali di essere nella società ciò che desiderano. Ogni omosessuale, infatti, ha il diritto ad avere un suo proprio status nella società».
Il cardinale Godfried Danneels, 81 anni, grande elettore di Jorge Mario Bergoglio allo scorso conclave, viene sovente incasellato con superficialità dai media fra i porporati cosiddetti progressisti. Ma, in realtà, l’arcivescovo emerito di Mechelen-Bruxelles ed ex primate del Belgio, altro non è che un sacerdote in costante ricerca di Dio, del Suo perpetuo manifestarsi nella povertà dell’uomo: «Apparuit humanitas Dei nostri (È apparsa l’umanità del nostro Dio)» è, non a caso, il suo motto episcopale. A pochi passi dal Vaticano, nel Pontificio Collegio Belga, Danneels ci accoglie col sorriso per parlare apertamente di un Sinodo che sta facendo propria l’idea di una Chiesa che non ha paura di avere misericordia verso tutti, non ha paura di accogliere e di assumere su di sé le molteplici ferite degli uomini.
Eminenza, c’è nella “Relatio post disceptationem” proclamata dal cardinale Péter Erdõ la volontà concreta di andare incontro alle ferite dell’uomo?
«Ci sono passaggi che davvero sono espressione di una grande misericordia per le difficoltà di tante coppie. Non si dice in nessuna parte del testo che il matrimonio non sia indissolubile, piuttosto si ricorda la necessità di avere uno sguardo di amore e bontà per tante coppie che sono nella difficoltà e nella necessità».
Cosa pensa circa la possibilità di dare, almeno in certi casi, l’eucaristia ai divorziati e rinecessità sposati?
«Il punto è come conciliare la dottrina della Chiesa, perché Gesù dice chiaramente che il matrimonio è indissolubile, con la misericordia che occorre necessariamente avere con tutti i separati. Non so dove arriverà il Sinodo, dove la Chiesa in comunione con tutti vorrà arrivare. Le posizioni sono diverse. Io ritengo che la strada della concessione dei sacramenti in certi casi e dopo un percorso penitenziale sia quello più giusto. Vorrei che ci sia una seconda possibilità per queste persone, senza ovviamente ledere l’indissolubilità del matrimonio».
Lei più volte ha parlato della di una Chiesa che sappia ascoltare tutti senza imporsi a nessuno, di una Chiesa che sappia ascoltare l’uomo senza lederne la libertà.
«La Chiesa può dire ciò che pensa nella società, può esprimere il proprio pensieri, ma non deve imporsi. Possiamo e dobbiamo dire la nostra su molte decisioni che lo Stato prende e sulle quali come Chiesa non siamo d’accordo, ma poi dobbiamo accettare ogni decisione. Siamo un piccolo gregge. Non dobbiamo mai imporci. Come dissi una volta a 30 Giorni, è un dato di fatto che non c’è più una Civitas cristiana, che il modello medievale di Civitas cristiana non vale per il momento attuale.
Forse qualcuno non se n’è ancora accorto, ma i cristiani vivono nel mondo “tamquam scintillae in arundineto”, come scintille sparse in un campo. Viviamo nella diaspora. Ma la diaspora è la condizione normale del cristianesimo nel mondo. L’eccezione è l’altra, la società completamente cristianizzata.
Il modo ordinario di essere nel mondo dei cristiani è quello descritto già nella Lettera a Diogneto, del secondo secolo. I cristiani “non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia”. Vivono “nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni terra straniera è patria loro, e ogni patria è straniera”. È così che siamo cittadini della nuova società secolarizzata».
Qual è la caratteristica di novità più importante di papa Francesco?
«Francesco ha portato una grande umanità nella Chiesa. Egli si mostra come è. Non fa teatro. È un uomo profondamente umano. Lo conobbi al conclave del 2005. Sapevo com’era quindi prima dell’elezione, anche se tutti i giorni mi sorprende. Ogni mattina mi sveglio e mi chiedo: che cosa farà oggi? E fa sempre bene».
Si aspettava l’elezione?
«Tutti lo volevamo. Nel 2005 era chiaro che la maggioranza era per Joseph Ratzinger. Nel 2013 era chiaro che si era per Bergoglio».
IL GIORNO PIU’ BELLO DELLA STORIA
di Gianni Rodari *
«S’io fossi un fornaio
Vorrei cuocere un pane
Così grande da sfamare
Tutta, tutta la gente
Che non ha da mangiare
Un pane più grande del sole
Dorato profumato
Come le viole
Un pane così
Verrebbero a mangiarlo
Dall’India e dal Chilì
I poveri, i bambini
i vecchietti e gli uccellini
Sarà una data da studiare a memoria:
un giorno senza fame!
Il più bel giorno di tutta la storia».
Il Papa “benedice” gli esorcisti
di Paolo Rodari (la Repubblica, 03.07.2014)
CITTÀ DEL VATICANO. Nel tempo di Francesco, Papa della Chiesa ospedale da campo che cura le ferite dell’umanità, il Vaticano offre un importante riconoscimento agli esorcisti, sacerdoti dediti non a caso a quel ministero che recentemente l’esorcista Sante Babolin ha definito, nel suo L’esorcismo ( Edizioni Messaggero Padova), «della consolazione». La consolazione dovuta a uomini e donne con disagi dell’anima più o meno gravi: alcuni, pochissimi, la Chiesa ritiene siano davvero posseduti dal maligno. Altri, la maggior parte, necessitano soltanto di affetto e cure mediche.
È di ieri la notizia diffusa dall’ Osservatore Romano che l’organizzazione internazionale degli esorcisti (Aie), fondata in Italia negli anni Ottanta da padre Gabriele Amorth, esorcista della Società di San Paolo, ha uno statuto giuridico. Il decreto, datato 13 giugno 2014, è della Congregazione per il clero. Per l’Aie il riconoscimento non è da poco. Per anni padre Amorth ha chiesto aiuto in Vaticano: troppi vescovi, a suo dire, non nominano esorcisti lasciando molte persone senza l’aiuto necessario. Col decreto, la Santa Sede riconosce l’operato dell’associazione e, in generale, l’intero esorcistato. Non a caso, è padre Francesco Bamonte, presidente dell’Aie, ad augurarsi che «altri sacerdoti si rendano conto di questa drammatica realtà, spesso ignorata o sottovalutata ». Infatti, anche «l’esorcismo è una forma di carità, beneficio di persone che soffrono; esso rientra, senza dubbio, tra le opere di misericordia corporale e spirituale».
Oggi l’Aie conta circa 250 esorcisti di diverse nazioni, ma sono molti di più i sacerdoti che trovano consigli e aiuto in essa. Francesco non ha mai parlato pubblicamente degli esorcismi. Più volte, però, soprattutto nelle omelie del mattino a Santa Marta, ha parlato del demonio. Anche recentemente quando ha detto: «Qualcuno di voi, forse, non so, può dire: “Ma, Padre, che antico è lei: parlare del diavolo nel ventunesimo secolo”. Ma, guardate che il diavolo c’è! Il diavolo c’è. Anche nel ventunesimo secolo! E non dobbiamo essere ingenui, eh? Dobbiamo imparare dal Vangelo come si fa la lotta contro di lui». Parole che testimoniano come per Francesco il diavolo non sia un mito né una metafora, ma un protagonista della storia.
Per la Chiesa la lotta contro il diavolo è anzitutto personale. Ma l’esorcista, nei casi più gravi, aiuta. Come ha riferito recentemente il sito d’informazione Terre d’America , era lo stesso Bergoglio quando era arcivescovo di Buenos Aires a inviare alcune persone da un suo esorcista di fiducia, Carlos Alberto Mancuso. Dice lo stesso Mancuso: «Venivano da me con il rosario che lui, Bergoglio, aveva dato loro perché pregassero»
Fuoritempio
Una grazia senza “misura”
di Andrea Grillo *
Vi è, nella liturgia della parola
di questa domenica, un sottile
gioco di “percentuali”. La
parola, che pure scende
“come la pioggia” sulla terra,
ritorna con frutto solo con molta
fatica. L’annuncio del Regno
è facilmente soffocato, lasciato
seccare, rovinato, perduto.
Ma dove viene accolto,
recepito e rielaborato, allora
“dà molto frutto”.
La correlazione
fondamentale che qui
viene prospettata è quella
tra dono di grazia e risposta
della libertà.
Le percentuali, dicevo. Ogni moralismo nasce immediatamente dalla illusione che ogni terreno sia, facilmente, produttivo di frutti. Questa prospettiva nega un punto essenziale della tradizione cristiana, ossia che la grazia di Dio entra in rapporto con la libertà dell’essere umano.
Il dono è sovrabbondante, ma la cosa difficile è saperlo accogliere adeguatamente. Dove però la difficoltà viene superata, il controdono è sovrabbondante a sua volta. Potremmo dire che vi è una doppia forma di capovolgimento: dal molto al poco e dal poco al molto.
D’altra parte, tutto il brano evangelico, anche dove commenta il “parlare in parabole”, gioca ancora su questi passaggi di “quantità”: “a chi ha poco, sarà tolto quel poco che ha e a chi ha molto sarà dato molto”. Le analogie sulla quantità sono però discorsi sulla qualità. Ci insegnano la “qualità fine” del rapporto con il Dio che parla.
La prima lettura anticipa la verità del Vangelo, in forma compiuta, potremmo dire ne presenta il senso facendo economia del dramma. È la pioggia che “dà il seme a chi semina e il pane a chi mangia”, è la parola che “opera e compie” quanto desiderato.
Allo stesso modo la risposta della Chiesa, nel Salmo, è anch’essa “pienezza del Regno”, “recezione compiuta”: è il “terreno buono”, ricco di messi e di greggi; è la forma definitiva del mondo, è giardino, è “paradiso”.
Ma in Paolo appare tutto il dramma della creazione, minacciata dalla caducità e dalla schiavitù della corruzione. L’orizzonte della pienezza è la speranza in ciò “che non si vede”, cui guarda una storia segnata dalla finitezza e dalla morte. Le doglie del parto sono la condizione anche di coloro che hanno ricevuto le “primizie dello Spirito” e che aspettano la redenzione dei corpi.
Questo è il quadro nel quale si inserisce la parola del Vangelo. Tutta orientata, dunque, all’ascolto della Parola come condizione della pienezza. Il “terreno buono” non sta alla fine, ma all’inizio. Non è la eventualità ultima, ma la destinazione prima.
La spiegazione della parabola è, da questo punto di vista, del tutto illuminante. Si potrebbe dire che è una “contestualizzazione drammatica del testo di Isaia”. È una profezia che acquista lucidità. Non è la storia del peccato che ostacola la grazia, ma piuttosto la storia della grazia che si realizza nonostante e oltre il peccato.
Ciò, evidentemente, non esclude una lucida analisi del peccato. Ma sottintende, senza semplicismi, che ad un “peccato originale” va premessa, e riconosciuta, una grazia più originale, una grazia prima, un primato di grazia.
Le primizie dello Spirito, che la lettera ai Romani ricorda, sono proprio il dono di questa coscienza diversa, che non idealizza astrattamente la grazia, ma nemmeno enfatizza ossessivamente il peccato.
La “buona notizia” ristabilisce il primato del dono della Parola. Il dono è esigente, ma non impegna il soggetto in un giudizio moralistico, bensì nella riconosiderazione della contingenza della propria risposta, condizionata da molti fattori negativi, ma illuminata dall’alto da questa luce, cui ogni essere umano è originariamente destinato.
Su questa “universale destinazione a recepire il dono della parola” il cristianesimo gioca la propria carta più decisiva.
Ma per nutrire di sostanza questa opzione radicale deve farsi capace di una considerazione realistica e pudica della complessità con cui ogni essere umano risponde, nella propria storia di libertà, a questo dono di grazia.
* liturgista laico, docente di Teologia Sacramentaria presso la Facoltà Teologica del Pontificio Ateneo S. Anselmo di Roma e di Teologia presso l’Istituto di Liturgia Pastorale di Padova, nonché dell’Istituto Teologico Marchigiano di Ancona. Il suo ultimo libro è “Indissolubile? Contributo al dibattito sui divorziati risposati” (Cittadella, 2014, pp. 90, euro 9,80)
* ADISTA 21 GIUGNO 2014 - Anno XLVIII - n. 6234
Che ne sarebbe della Chiesa se fallisse Francesco
di Vito Mancuso (la Repubblica, 14.03.2014)
E se papa Francesco fallisse? Non ci sono dubbi che dietro le aperture riformiste del cardinal Kasper e di altri cardinali ci sia proprio il Papa, ma che cosa avverrebbe se le riforme auspicate non andassero in porto e le attese di una nuova primavera si rivelassero solo illusioni?
Nella relazione al Concistoro straordinario sulla famiglia Kasper ha affermato che «dobbiamo essere onesti e ammettere che tra la dottrina della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia e le convinzioni vissute di molti cristiani si è creato un abisso». Quanto affermato per la famiglia vale a mio avviso per molti altri ambiti della dottrina cattolica, anzi io penso che valga per il concetto stesso di dottrina, intesa come sistema di verità stabilite che il credente è tenuto a professare e su cui vigila la Congregazione per la Dottrina della Fede, che prima del 1965 si chiamava Sacra Congregazione del Sant’Uffizio e prima del 1908 si chiamava Sacra Congregazione della Romana e Universale Inquisizione.
Elencare i molti elementi che rendono l’insegnamento della Chiesa “lontano dalla realtà e dalla vita” non è difficile.
Oltre alla dottrina sul matrimonio vi sono la regolazione delle nascite con il clamoroso fallimento pratico e teorico dell’Humanae Vitae di Paolo VI, l’identità sessuale e l’omosessualità al cui riguardo occorre cessare di parlare di malattia come ancora spesso si fa, il ginepraio della bioetica da cui non si esce continuando a ripetere solo dei no soprattutto sulla fecondazione assistita, il destino degli embrioni congelati, la diagnosi degli embrioni prima dell’impianto, il principio di autodeterminazione a livello di testamento biologico.
Vi sono poi i problemi ecclesiologici che già nel 1987 Hans Küng definiva “noiose vecchie questioni”, cioè la scarsità delle vocazioni sacerdotali e religiose, il celibato del clero, i criteri di nomina dei vescovi, la collegialità come metodo di governo, la questione laicale, la questione femminile, la riforma della curia romana, il rispetto dei diritti umani all’interno della Chiesa (di cui “la tratta delle novizie” denunciata dal Papa è solo un aspetto), la libertà di ricerca in ambito teologico.
Qui non accenno neppure ai molti problemi teologici, sia in sede di teologia fondamentale sia in sede di teologia sistematica, che mostrano tutta la fragilità della tanto celebrata dottrina, se non per dire il problema vero e proprio concerne l’identità del messaggio cristiano, al cui riguardo ci si deve chiedere: qual è oggi la buona notizia di ciò che viene detto vangelo? Penso che questo sia il nodo decisivo e che per scioglierlo occorre alzare la mente e ragionare per secoli. Se si impara a farlo, si vedrà più lontano, si capirà “che cosa lo Spirito dice alle chiese” e ci sarà meno paura e meno pessimismo.
Occorre saper vedere infatti non solo quello che muore, ma anche quello che nasce, perché a qualcosa che muore si lega sempre qualcosa che nasce. Che cosa muore? Sant’Agostino diceva che egli non avrebbe potuto credere al vangelo se non l’avesse spinto l’autorità della chiesa cattolica (Contra ep. Man. 5,6: “Ego vero evangelio non crederem, nisi me catholicae ecclesiae commoveret auctoritas”), fondando così il modello della fede che fa del cristiano un ecclesiastico, cioè un membro di una struttura di cui deve accettare la dottrina.
Oggi questo modello sta morendo, l’epoca della fede dogmatico-ecclesiastica che implica l’accettazione di una dottrina e di un’autorità è ormai alla fine perché il metodo sperimentale della scienza è entrato anche nella vita spirituale dove ora il soggetto vuole sperimentare in prima persona, e con ciò la fede di seconda mano mediata dall’autorità ecclesiastica è superata.
Al suo posto sta nascendo un cristianesimo non-dogmatico che dall’esteriorità dottrinale passa all’interiorità esistenziale, che all’autorità istituzionale preferisce l’autenticità personale. Il passaggio da Benedetto XVI a Francesco è una manifestazione di questo movimento epocale, così come lo sono i risultati del sondaggio mondiale commissionato dal Vaticano che mostrano una grande distanza tra la dottrina ufficiale e la fede realmente vissuta.
Ne viene che se il cristianesimo vuole tornare a essere percepito come una buona notizia che risana e rallegra l’esistenza, e insieme come verità di quel processo che chiamiamo generalmente mondo, si deve sottoporre a riforma. La dottrina sulla famiglia è solo il primo inevitabile passo. Se non lo fa, l’esito è segnato dalle parole di un giovane riportate nelle Conversazioni notturne a Gerusalemme di Carlo Maria Martini: “Non so che farmene della fede. Non ho nulla in contrario, ma cosa dovrebbe darmi la Chiesa?”. È il pensiero della gran parte dei giovani europei.
Qualcuno teme che questa riforma possa inquinare l’identità cristiana. Ma per il cristianesimo la rilevanza è parte costituiva dell’identità, non qualcosa che viene dopo. Un’identità irrilevante non può essere un’identità cristiana, tanto meno cattolica cioè universale. “Voi siete il sale della terra” (Mt 5,13), “voi siete la luce del mondo” (Mt 5,14): l’identità cristiana è da subito relazionale, è essere-per, prende senso solo nella relazione, così come il sale ha senso solo in relazione ai cibi o il lievito alla farina (Mt 13,33: “Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata”). Ne consegue che se viene meno la relazione, viene meno l’identità. Il cristianesimo vive della logica della relazione con l’alterità e tale logica lo spinge inevitabilmente verso la riforma, obbedirle non è una concessione al relativismo, è semplicemente un dovere verso il Vangelo.
Ma se papa Francesco non ce la farà? Se non riuscirà a sanare lo Ior, a rendere il governo della Chiesa cattolica più conforme al volere del Vaticano II, a incidere sul rapporto con la politica italiana facendo cessare per sempre la compravendita di favori tra cardinali e ministri troppo sensibili agli interessi della Chiesa, a mettere ordine tra i vescovi e i superiori degli ordini religiosi richiamando tutti a uno stile di vita sobrio e conforme ai valori evangelici, a dare il giusto spazio alle donne a livello di condivisione del potere aprendo al diaconato e al cardinalato femminili, a riformare la morale sessuale, a impostare su basi nuove il reclutamento e la formazione del clero, a dare finalmente più libertà alla ricerca teologica? Se papa Francesco fallisse in tutto ciò?
Ha scritto qualche giorno fa un non credente come Eugenio Scalfari che grazie a Francesco “Roma è ridiventata la capitale del mondo... Roma, la città di papa Francesco, è il centro del mondo”. Scalfari parlava ovviamente della leadership spirituale, di cui l’occidente ha un immenso bisogno per continuare a credere nei grandi ideali dell’umanità, tradizionalmente definiti come bene, giustizia, uguaglianza, solidarietà, fratellanza.
In un mondo dove tutto è potere e calcolo, la figura genuina di questo papa ci fa comprendere che non tutto in noi è potere e calcolo, che c’è ancora spazio per la gratuità, l’amore sincero, la volontà di bene per il bene. Il suo fallimento sarebbe la fine della luce che si è accesa nell’esistenza di tutti gli esseri umani non ancora rassegnati al cinismo e alla crudeltà della lotta per l’esistenza, e con Roma che tornerebbe a essere periferia del mondo sarebbe la fine per gli ideali della spiritualità in occidente. Se lo ricordino i cardinali, i monsignori e i teologi che stanno facendo di tutto per bloccare e far fallire l’azione riformatrice di papa Francesco.
AGAPE e il DEUS CHARITAS o AGAPE e il DEUS CARITAS?! Note sul tema:
Il festival emiliano esplora il sentimento. Anticipiamo l’intervento di Vincenzo Paglia
Tre nomi per chiamare l’amore (e l’ultima parola non è di Eros)
Al vertice di tutto sta l’«agàpe», il suo modello è Gesù
di Vincenzo Paglia sacerdote, consulente spirituale della comunità di Sant’Egidio, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia
(Corriere della Sera, 15.09.13
In un mondo segnato così profondamente dalla paura e dalla solitudine, e lacerato da conflitti bellici o di civiltà, l’amore resta l’unica via per immaginare un nuovo futuro. Si potrebbe dire: è il tempo dell’«agàpe», il tempo dell’amore per gli altri e non solo per se stessi. Appunto, un amore «agapico». Agàpe, una parola greca, fu scelta dagli autori del Nuovo Testamento per descrivere l’amore di Gesù. In quel tempo non era quasi per nulla usata poiché la cultura greca per dire l’amore preferiva i termini eros e philia.
Gli autori sacri con il termine agape introducevano una nuova e impensata concezione dell’amore: un amore che non si nutre della mancanza dell’altro (eros) e che nemmeno semplicemente si rallegra della presenza dell’altro (philia), ma un amore, appena concepibile dalla ragione umana, che trova il suo modello culminante in Gesù: un amore per gli altri totalmente disinteressato, gratuito, perfino ingiustificato, perché continua ad agire - ed è il meno che si possa dire - al di fuori d’ogni reciprocità.
È davvero un amore fuori regola, fuori norma. L’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani afferma: «A stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore per noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi»( Rm 5, 7-8).
Con il termine agàpe si esprime quindi un amore impensabile per la ragione se Dio stesso non lo avesse rivelato. L’agàpe è infatti l’essere stesso di Dio. Quindi è l’essere stesso Dio a spingerlo a uscire da sé per scendere in mezzo agli uomini.
L’incarnazione è un mistero centrale nella fede cristiana. Essa si differenzia da tutte le altre fedi perché, più che una religione che divinizza l’uomo, è la religione di un Dio che per amore si fa uomo. Non solo, quest’uomo accetta anche di essere crocifisso, e per amore. Nella «croce» appare il culmine dell’amore con la sua vittoria definitiva sull’egoismo.
Semiòn Frank, filosofo russo, scrive: «L’idea di un Dio disceso nel mondo, che soffre volontariamente e prende parte alle sofferenze umane e cosmiche, l’idea di un Dio-uomo che soffre, è la sola teodicea possibile, la sola "giustificazione" convincente di Dio». Qui vi è tutta l’originalità dell’agàpe, tutta la sua paradossalità, e soprattutto la sua forza irresistibile: l’agàpe è la risorsa più forte per edificare un mondo nuovo liberato dalla legge inesorabile dell’amore per sé. (...)
L’agàpe, culmine dell’amore, non elimina l’eros e la philia, non le accantona, se così posso dire, semmai le purifica dalle ambiguità e le esalta per una loro dinamica positiva. Nella cultura greca, eros era concepito come un dio senza volto, una sorta di divinità originaria, un principio di vita potente che strappa dalla vita quotidiana producendo una discontinuità inimmaginata nella vita di chi ne viene coinvolto. La discontinuità si presenta improvvisa, non è né progettata né voluta, e spinge con prepotenza l’amante ad annullarsi nell’amato, sia nella prospettiva esaltante della luce che nell’altra, anch’essa ugualmente esaltante, della morte.
In ogni caso, al di là degli esiti, eros è una energia originaria che strappa via dalla casa abituale, dalla vita ordinaria. Non a caso Platone, nel Simposio, lo definisce a-oikos, senza casa. Il grande pericolo che eros fa correre è perciò quello di essere strappati via da ogni sede, da ogni dimora, da ogni casa, senza un approdo che sia stabile.
Da un punto di vista non teologico cristiano, eros è pura avventura, come lo rappresentano le grandi figure, i grandi miti della contemporaneità: l’Ulisse dantesco, il Faust, il Don Giovanni, sono tutte figure che mollano gli ormeggi, perché che nessuna casa può contenerli. Ma eros da solo, senza un orizzonte, non basta. In sintesi, potremmo dire, che tutti abbiamo pulsioni d’amore, tutti sentiamo spinte ad amare o sentimenti d’amore che ci muovono, ma - è papa Ratzinger a scriverlo nell’enciclica Deus caritas est - «i sentimenti vanno e vengono. Il sentimento può essere una meravigliosa scintilla iniziale, ma non è la totalità dell’amore».
La philia - che traduciamo normalmente con «amicizia» - esprime un’altra dimensione ancora dell’amore. Ordinariamente viene pensata come una forma attenuata dell’amore, un sentimento più debole, meno impegnativo, meno esigente, casto per di più, segno di una innegabile limitatezza!
Molto meno cantata dell’amore, la philia è tuttavia non meno protagonista nella vicenda umana. Un bell’esempio di philia lo rileviamo nella triplice domanda d’amore di Gesù a Pietro dopo la risurrezione, quando lo interroga sull’amore. Gesù chiede al discepolo: «Mi ami?» (phileis me?). Qui non è l’eros che parla, ma un sentimento che chiede una compartecipazione stretta, duratura, perenne. È come se gli chiedesse: «Sei veramente mio, mi appartieni, ci co-apparteniamo?» Nella philia i due - e questa è la differenza fondamentale con eros - rimangono tali, non vi è una dinamica identitaria, non si risolvono in uno. I philoi sono inseparabili, ma tale appartenenza non impedisce loro di sussistere come tali nella propria identità. Anzi, sussistono perché «stanno bene insieme». Semmai, il rischio in tale dinamica è l’appagamento nella coappartenenza, una sorta di piacevole ma rischiosa chiusura.
Ed ecco l’agàpe che supera ambedue, senza tuttavia escluderle. In effetti, con la parola agàpe si entra nella logica di stampo trinitario ove non c’è l’annullamento nell’altro e neppure la coappartenenza. C’è di più: la generazione di un altro nel circolo dell’amore.
La raffigurazione emblematica dell’agàpe è l’icona della Trinità di Rublev, con i tre angeli attorno alla mensa. Agàpe è la relazione Padre-Figlio, così come Gesù la testimonia, che implica come terzo elemento quella relatio non adventitia di cui parla Agostino. La relazione tra le prime due persone, infatti, distinte e tuttavia filoi nel modo più profondo ed essenziale, obbliga a pensare la Relazione stessa come una terza figura. L’agàpe comporta una trascendenza tra i due che è appunto la «Relazione» stessa nella sua eternità, nella sua necessità. L’agàpe è interna a questa dialettica dei due e insieme li trascende entrambi. Amante e amato si trascendono in un terzo: che è la loro «relazione». Questa è agape nel linguaggio neotestamentario e nella teologia cristiana. Il suo nome è Spirito Santo e la sua azione è sconvolgente.
Il papa, i non credenti e la risposta di Agostino
di Vito Mancuso (la Repubblica, 13 settembre 2013)
Qual è la differenza essenziale tra credenti e non-credenti? Il cardinal Martini, ricordato da Cacciari quale precorritore dello stile dialogico espresso dalla straordinaria lettera di Papa Francesco a Scalfari, amava ripetere la frase di Bobbio: “La vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa”.
Il che significa che ciò che più unisce gli esseri umani è il metodo, la modalità di disporsi di fronte alla vita e alle sue manifestazioni. Tale modalità può avvenire o con una certezza che sa a priori tutto e quindi non ha bisogno di pensare (è il dogmatismo, che si ritrova sia tra i credenti sia tra gli atei), oppure con un’apertura della mente e del cuore che vuole sempre custodire la peculiarità della situazione e quindi ha bisogno di pensare (è la laicità, che si ritrova sia tra gli atei sia tra i credenti).
Gli articoli di Scalfari e soprattutto la risposta di papa Francesco esemplare per apertura, coraggio e profondità, sono stati una lezione di laicità, una specie di “discorso sul metodo” su come incamminarsi veramente senza riserve mentali lungo i sentieri del dialogo alla ricerca del bene comune e della verità sempre più grande, cosa di cui l’Italia, e in particolare la Chiesa italiana hanno un enorme bisogno.
Rimane però che, per quanto si possa essere accomunati dalla volontà di dialogo e dallo stile rispettoso nel praticarlo, la differenza tra credenti e non-credenti non viene per questo cancellata, né deve esserlo. Un piatto irenismo conduce solo alla celebre “notte in cui tutte le vacche sono nere”, per citare l’espressione di Hegel che gli costò l’amicizia di Schelling, conduce cioè all’estinzione del pensiero, il quale per vivere ha bisogno delle differenze, delle distinzioni, talora anche dei contrasti.
È quindi particolarmente importante rispondere alla domanda sulla vera differenza tra credenti e non credenti, capire cioè quale sia la posta in gioco nella distinzione tra fede e ateismo. Pur consapevole che sono molti e diversi i modi di viverli, penso tuttavia che la loro differenza essenziale emerga dalle battute conclusive della replica di Scalfari al Papa: “Quelle che chiamiamo tenebre sono soltanto l’origine animale della nostra specie. Più volte ho scritto che noi siamo una scimmia pensante. Guai quando incliniamo troppo verso la bestia da cui proveniamo, ma non saremo mai angeli perché non è nostra la natura angelica, ove mai esista”.
“Scimmia pensante... bestia da cui proveniamo”: queste espressioni segnalano a mio avviso in modo chiaro la differenza decisiva tra fede e non-fede. Per Scalfari noi proveniamo da una “bestia” e quindi siamo sostanzialmente natura animale, per quanto dotata di pensiero; per i credenti, anche per quelli che come me accettano serenamente il dato scientifico dell’evoluzione, la nostra origine passa sì attraverso l’evolversi delle specie animali ma proviene da un Pensiero, e va verso un Pensiero, che è Bene, Armonia,Amore.
La differenza peculiare quindi non è tanto l’accettare o meno la divinità di Gesù, quanto piuttosto, più in profondità, la potenzialità divina dell’uomo. La confessione della divinità di Gesù è certo importante, ma non è la questione decisiva, prova ne sia che nei primi tempi del cristianesimo vi furono cristiani che guardavano a Gesù come a un semplice uomo in seguito “adottato” da Dio per la sua particolare santità, una prospettiva giudaico-cristiana che sempre ha percorso il cristianesimo e che anche ai nostri giorni è rappresentata tra biblisti, teologi e semplici fedeli, e di cui è possibile rintracciare qualche esempio persino nel Nuovo Testamento (si veda Romani 1,4).
Peraltro il dialogo con l’ebraismo, così elogiato da papa Francesco, passa proprio da questo nodo, dalla possibilità cioè di pensare l’umanità di Gesù quale luogo della rivelazione divina senza ledere con ciò l’unicità e la trascendenza di Dio. Naturalmente tanto meno la differenza essenziale tra credenti e non-credenti passa dall’accettare la Chiesa, efficacemente descritta dal Papa come “comunità di fede”: nessun dubbio che la Chiesa sia importante, ma quanti uomini di Chiesa del passato e del presente si potrebbero elencare che non hanno molto a che fare con la fede in Dio, e quanti uomini estranei alla Chiesa che invece hanno molto a che fare con Dio.
Il punto decisivo quindi non sono né Cristo né la Chiesa, ma è la natura dell’uomo: se orientata ontologicamente al bene oppure no, se creata a immagine del Sommo Bene oppure no, se proveniente dalla luce oppure no, ma solo dal fondo oscuro di una natura informe e ambigua, chiamata da Scalfari “bestia”.
Un passo di sant’Agostino aiuta bene a comprendere la posta in gioco nella fede in Dio. Dopo aver dichiarato di amare Dio, egli si chiede: “Quid autem amo, cum te amo?”, “Ma che cosa amo quando amo te?” (Confessioni X,6,8). Si tratta di una domanda quantomai necessaria, perché Dio nessuno lo ha mai visto e quindi nessuno può amarlo del consueto amore umano che, come tutto ciò che è umano, procede dall’esperienza dei sensi.
Nel rispondere Agostino pone dapprima una serie di negazioni per evitare ogni identificazione dell’amore per Dio con una realtà sensibile, e tra esse neppure nomina la Chiesa e la Bibbia, che appaiono così avere il loro giusto senso solo se prima si sa che cosa si ama quando si ama Dio, mentre in caso contrario diventano idolatria, idolatria della lettera (la Bibbia) o idolatria del sociale (la Chiesa), il pericolo protestante e il pericolo cattolico.
Poi Agostino espone il suo pensiero dicendo che il vero oggetto dell’amore per Dio è “la luce dell’uomo interiore che è in me, là dove splende alla mia anima ciò che non è costretto dallo spazio, e risuona ciò che non è incalzato dal tempo”. Dicendo di amare Dio, si ama la luce dell’uomo interiore che è in noi, quella dimensione che ci pone al di là dello spazio e del tempo, e che così ci permette di compiere e insieme di superare noi stessi, perché ci assegna un punto di prospettiva da cui ci possiamo vedere come dall’alto, e così distaccarci e liberarci dalle oscurità dell’ego, da quella bestia di cui parla Scalfari che certamente fa parte della condizione umana ma che, nella prospettiva di fede, non è né l’origine da cui veniamo né il fine verso cui andiamo.
Occorrerebbe chiedersi in conclusione quale pensiero sull’uomo sia più necessario al nostro tempo alle prese come mai prima d’ora con la questione antropologica. Ovviamente da credente io ritengo che la posizione della fede in Dio, che lega l’origine dell’uomo alla luce del Bene, sia complessivamente più capace di orientare la coscienza verso la giustizia e la solidarietà fattiva.
Se infatti, come scrive papa Francesco, la qualità morale di un essere umano “sta nell’obbedire alla propria coscienza”, un conto sarà ritenere che tale coscienza è orientata da sempre al bene perché da esso proviene, un altro conto sarà rintracciare nella coscienza una diversa origine da cui scaturiscono diversi orientamenti.
Se non veniamo da un’origine che in sé è bene e giustizia, se il bene e la giustizia cioè non sono da sempre la nostra più vera dimora, perché mai il bene e la giustizia dovrebbero costituire per la nostra condotta morale un imperativo categorico? In ogni caso sarà nell’assumere tale questione con spirito laico, ascoltando le ragioni altrui e argomentando le proprie, che può prendere corpo quell’invito a “fare un tratto di strada insieme” rivolto a Scalfari da papa Francesco nello spirito del più autentico umanesimo cristiano, e accolto con favore da Scalfari nello spirito del più autentico umanesimo laico.
INAUGURAZIONE DI UN NUOVO MONUMENTO A SAN MICHELE ARCANGELO, PRESSO IL PALAZZO DEL GOVERNATORATO, E CONSACRAZIONE DELLO STATO DELLA CITTÀ DEL VATICANO A SAN GIUSEPPE E A SAN MICHELE ARCANGELO *
• DISCORSO DEL SANTO PADRE • DISCORSO DELL’EM.MO CARD. GIOVANNI LAJOLO
Questa mattina alle ore 8.45, nei Giardini Vaticani, presso il Palazzo del Governatorato, hanno avuto luogo alla presenza del Santo Padre Francesco l’inaugurazione di un nuovo monumento a San Michele Arcangelo e la consacrazione dello Stato della Città del Vaticano a San Giuseppe e a San Michele Arcangelo.
Poco prima dell’inizio della cerimonia era giunto sul luogo il Papa emerito, Benedetto XVI, invitato dal Papa Francesco, salutato con grande affetto dai presenti e dal personale del Governatorato.
Il Papa Francesco, giunto subito dopo, e il Papa emerito si sono abbracciati con affetto e sono rimasti vicini per tutta la cerimonia, prendendo posto su due poltrone collocate davanti al monumento.
Dopo un breve saluto del Card. Giuseppe Bertello, Presidente del Governatorato, è intervenuto il Card. Giovanni Lajolo, Presidente emerito del Governatorato, che ha illustrato il significato del nuovo monumento e della fontana dedicata a San Giuseppe, collocata sull’altro lato del Palazzo del Governatorato e già inaugurata qualche tempo fa.
Poi ha preso la parola il Santo Padre Francesco che ha rivolto ai presenti il discorso che viene pubblicato qui di seguito. Successivamente il Santo Padre Francesco, indossata la stola, ha recitato due preghiere di consacrazione, la prima a San Giuseppe e la seconda a San Michele Arcangelo, ha asperso il nuovo monumento e infine ha impartito la Benedizione a tutta l’assemblea.
Fra i presenti le Autorità della Segreteria di Stato e del Governatorato, gli Artisti autori del nuovo monumento (Giuseppe Antonio Lomuscio) e della fontana di San Giuseppe (Franco Murer) e i benefattori che ne hanno sostenuto la realizzazione, altri invitati e il personale del Governatorato. La cerimonia è terminata intorno alle 9.15.
Pubblichiamo di seguito il discorso del Santo Padre e il discorso del Card. Giovanni Lajolo:
• DISCORSO DEL SANTO PADRE
Santità,
Signori Cardinali, Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
Illustri Signori e Signore!
Ci siamo dati appuntamento qui nei Giardini Vaticani per inaugurare un monumento a San Michele Arcangelo, patrono dello Stato della Città del Vaticano. Si tratta di un’iniziativa già progettata da tempo, con l’approvazione del Papa Benedetto XVI, al quale va sempre il nostro affetto e la nostra riconoscenza e al quale vogliamo esprimere la nostra grande gioia per averLo qui presente oggi in mezzo a noi. Grazie di vero cuore!
Sono grato alla Presidenza del Governatorato, in particolare al Cardinale Giuseppe Bertello, per le sue cordiali parole, alle Direzioni e alle maestranze coinvolte per questa realizzazione. Ringrazio il Cardinale Giovanni Lajolo, Presidente emerito del Governatorato, anche per la presentazione che ci ha fatto dei lavori svolti e dei risultati raggiunti. Una parola di apprezzamento va allo scultore, il Sig. Giuseppe Antonio Lomuscio, e al benefattore, il Sig. Claudio Chiais, che sono qui presenti. Grazie!
Nei Giardini Vaticani ci sono diverse opere artistiche; questa, che oggi si aggiunge, assume però un posto di particolare rilievo, sia per la collocazione, sia per il significato che esprime. Infatti non è solo un’opera celebrativa, ma un invito alla riflessione e alla preghiera, che si inserisce bene nell’Anno della fede.
Michele - che significa: "Chi è come Dio?" - è il campione del primato di Dio, della sua trascendenza e potenza. Michele lotta per ristabilire la giustizia divina; difende il Popolo di Dio dai suoi nemici e soprattutto dal nemico per eccellenza, il diavolo. E san Michele vince perché in Lui è Dio che agisce. Questa scultura ci richiama allora che il male è vinto, l’accusatore è smascherato, la sua testa schiacciata, perché la salvezza si è compiuta una volta per sempre nel sangue di Cristo. Anche se il diavolo tenta sempre di scalfire il volto dell’Arcangelo e il volto dell’uomo, Dio è più forte; è sua la vittoria e la sua salvezza è offerta ad ogni uomo. Nel cammino e nelle prove della vita non siamo soli, siamo accompagnati e sostenuti dagli Angeli di Dio, che offrono, per così dire, le loro ali per aiutarci a superare tanti pericoli, per poter volare alto rispetto a quelle realtà che possono appesantire la nostra vita o trascinarci in basso. Nel consacrare lo Stato Città del Vaticano a San Michele Arcangelo, gli chiediamo che ci difenda dal Maligno e che lo getti fuori.
Cari fratelli e sorelle, noi consacriamo lo Stato Città del Vaticano anche a San Giuseppe, il custode di Gesù, il custode della Santa Famiglia. La sua presenza ci renda ancora più forti e coraggiosi nel fare spazio a Dio nella nostra vita per vincere sempre il male con il bene. A Lui chiediamo che ci custodisca, si prenda cura di noi, perché la vita della Grazia cresca ogni giorno di più in ciascuno di noi.
• DISCORSO DELL’EM.MO CARD. GIOVANNI LAJOLO
Santità,
siamo tutti molto lieti che Vostra Santità abbia voluto inaugurare questo monumento a San Michele Arcangelo, Protettore della Chiesa universale, Patrono dello Stato della Città del Vaticano.
Con Vostra Santità desidero ringraziare Sua Eminenza il Cardinale Giuseppe Bertello, Presidente del Governatorato, che mi chiese di continuare a seguire l’ opera, progettata e iniziata sotto la mia presidenza, e mi ha dato ora cortesemente la parola.
Era nostra comune intenzione di presentare l’opera a Papa Benedetto XVI il 19 aprile scorso, giorno anniversario della sua elezione. L’evento dell’ 11 febbraio scorso ha però sconvolto i nostri piani. Oggi, ottenuta la conferma dell’approvazione da parte di Vostra Santità, il monumento viene finalmente inaugurato. Ponendosi quasi a cavallo di due Pontificati, esso può ben esser preso a simbolo della continuità della protezione divina della Chiesa e dello Stato della Città del Vaticano. L’Arcangelo Michele ci viene presentato dalla Bibbia, nel libro di Daniele, come speciale protettore del Popolo di Dio (cfr. Dan 10.13-21; 12,1), e nel libro dell’Apocalisse, come il capo delle schiere celesti, che sconfigge Satana con tutte le forze opposte al Regno di Dio (cfr. Ap 12,7). San Michele Arcangelo ha la missione propria di essere strumento di Dio a difesa del suo popolo, della Chiesa, contro tutte le forze del male.
L’artista che ha realizzato l’opera che Vostra Santità oggi inaugura, Giuseppe Antonio Lomuscio, ha la sua sede a Trani, una città poco distante dal celebre Santuario di S. Michele al monte Gargano. Egli è qui presente con il suo Arcivescovo, Sua Eccellenza Mons. Giovanni Battista Picchierri, e con i propri familiari. L’idea e la forma dell’opera sono state concepite dal Lomuscio alla luce della fede. I criteri estetici che l’hanno guidato riflettono una concezione dell’arte come riflesso della bellezza di cui Dio ha ricolmato il creato e in particolare quella creatura da lui creata a sua immagine e somiglianza, la creatura umana, la più vicina, nella scala degli esseri, allo splendore delle creature angeliche. Per questo l’Arcangelo Michele è qui raffigurato prendendo a prestito i tratti eroici di una figura umana, mentre Satana, da lui sconfitto, è rappresentato con una figura della medesima forma, ma rovesciata e deturpata, come conseguenza del peccato.
E’ mio gradito dovere ricordare che quest’opera non ha gravato sul bilancio né del Governatorato né della Santa Sede grazie al Sig.Claudio Chiais, di Roma, che ha sostenuto gli oneri del monumento e della sua messa in opera. Con lui desidero ringraziare di fronte a Vostra Santità anche il Prof. Antonio Paolucci, Direttore dei Musei Vaticani, che ha presieduto la commissione giudicatrice del concorso e ha offerto preziosi suggerimenti per la finitura dell’opera; e l’Ing. Pier Carlo Cuscianna, Direttore dei Servizi Tecnici del Governatorato, i suoi collaboratori e le maestranze per l’impegno profuso nel predisporre ed eseguire a regola d’arte quanto opportuno
Vorrei terminare attirando l’attenzione su di un particolare, per il quale desidero esprimere proprio a Lei ,Santo Padre, particolare gratitudine. Vostra Santità ha infatti deciso che l’opera sia ornata di un duplice stemma: con il Suo anche quello di Papa Benedetto XVI, a cui l’opera doveva essere offerta il 19 aprile scorso. A lui va in questo momento il nostro pensiero, sempre ricolmo di gratitudine e ammirazione.
Alla base del piedestallo sta la scritta: Benedictus PP. XVI ANNO VIII *** Franciscus PP. ANNO I ** Michaeli Archangelo ** Populi Dei Defensori Vaticanae Civitatis Patrono.
Grazie, Santità! S. Michele Arcangelo faccia sempre valere la sua potente protezione per la persona di Vostra Santità e per la Chiesa in tutto il mondo: affinché si compia - come proclama "la gran voce dal cielo" dell’ Apocalisse - "la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e del suo Cristo" (Ap 12, l0).
Per papa Francesco Dio ama gli uomini “come una madre”
di Paolo Rodari (la Repubblica, 10 giugno 2013)
La «compassione» che Dio prova per «la miseria umana» è paragonabile alla reazione di una madre «di fronte al dolore dei figli». «Così ci ama Dio», ha detto Papa Francesco ieri mattina alla recita dell’Angelus, ci ama «come una madre».
Parole che molto ricordano la discussa uscita di Giovanni Paolo I, al secolo Albino Luciani - il Pontefice che non a caso molto ricorda per modi e stile Jorge Mario Bergoglio -, all’Angelus del 10 settembre 1978, quando parlando a braccio disse che Dio «è papà, più ancora è madre».
E anche Giovanni Paolo II, più tardi in almeno un paio di occasioni, parlò della paternità di Dio che «riassume in sé anche le caratteristiche che solitamente si attribuiscono all’amore materno» (udienza del 20 gennaio 1999) e ha attribuito a Dio «mani di padre e di madre nello stesso tempo » (udienza dell’8 settembre 1999).
Quando Luciani, primo fra i successori di Pietro, accomunò l’archetipo femminile all’assolutezza divina, la curia romana non reagì bene. Gelo e imbarazzo calò sul successore di Paolo VI che di lì a poco, dopo soli trentatré giorni al soglio di Pietro, sarebbe scomparso. Forse in Vaticano temevano ripercussioni nella logica dei poteri e delle posizioni gerarchiche.
Eppure già i profeti dell’Antico Testamento usarono parlare dell’amore materno di Dio: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il frutto delle sue viscere?» chiede il profeta Isaia. E ancora: «Come una madre consola il figlio, così io vi consolerò».
Fu poi Martin Lutero, nel sermone Christus, gallina nostra, a richiamare l’attenzione su una «scandalosa» identificazione. Quella di Gesù che nel Vangelo di Matteo definisce se stesso «una chioccia che riunisce i pulcini sotto le ali». Del resto, il volto «femminile» di Dio si è incarnato proprio nel «discepolato di eguali» inaugurato dalla predicazione di Gesù, in forza della quale, come si legge in Galati, «non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù».
Benedetto XVI, invece, è stato più prudente. Nel suo best seller Gesù di Nazaret scrive che il titolo di madre non spetta a Dio che è solo e assolutamente padre. «Madre non è un titolo di Dio, non è un appellativo con cui rivolgersi a Dio. Noi preghiamo così come Gesù, sullo sfondo della Sacra Scrittura, ci ha insegnato a pregare, non come ci viene in mente o come ci piace. Solo così preghiamo nel modo giusto».
Grammatica della libertà
40 anni fa Rodari scrisse le regole della fantasia
Il motto dell’autore era «Tutti gli usi della parola a tutti»
Un valore di liberazione che è la lezione più attuale e importante ancora oggi
di Giovanni Nucci (l’Unità, 13.05.2013)
SCRIVEVA TULLIO DE MAURO NEL 1974 RIGUARDO ALLA «GRAMMATICA DELLA FANTASIA»: «COME CIMAROSA COL SUO MAESTRO DI CAPPELLA COME RILKE nelle Lettere ad un giovane poeta, come Goethe e Leopardi in certe loro pagine, un’artista ha messo in tavola le carte del suo gioco. E ne è nato, elegante e geniale, un classico».
Quello che sembra suggerirci è che questo libretto vada oltre il suo oggetto, la contingenza del suo tempo, del suo scopo dichiarato, dei suoi primi ed immediati lettori.
Su queste pagine potremo, in effetti, scrivere di Rodari una volta al mese, quindi praticamente una su due, il che è abbastanza imbarazzante: Rodari ha pubblicato circa cinquanta libri, si andrebbe avanti per quasi quattro anni, dopo di che si potrebbe ricominciare da capo trovando ogni volta una nuova meraviglia in quei libri, un motivo di incalzante attualità per poterne parlarne. Diventerebbe, così, la rubrica di un solo autore, condotta da un critico che legge e rilegge sempre gli stessi cinquanta libri. Sarebbe, in effetti, meraviglioso: tanto da assomigliare ad un racconto di Borges o (peggio, molto peggio!) di Gianni Rodari.
Ora, per quanto possiamo tranquillamente considerare i racconti e le poesie, e le filastrocche di Rodari universali, impermeabili al tempo e alla geografia, non dovrebbe essere altrettanto facile farlo per la Grammatica della fantasia che però (com’è, come non è) uscita giusto quarant’anni fa, sta lì imperterrita e ancora oggi ispira e aiuta gli scrittori e i poeti per ragazzi, così come gli accademici, i critici, i giornalisti, gli insegnanti, i librai, i promotori della lettura, i bibliotecari, gli editori, gli animatori, i maestri e i genitori. Già loro (si potrebbe dire) fanno una buona fetta della popolazione utile ed intellettualmente attiva, ma (si potrebbe obiettare) cosa dovrebbe interessare questo libro ad un sottosegretario, al capitano di un bastimento, ad un vigile urbano (a parte l’evidente motivo d’essere essi stessi molto probabilmente protagonisti d’una buona cifra di altri libri di Rodari)?
Per rispondere prendiamo volentieri in prestito delle righe a riguardo di Marzia Corraini: «Mi limito, ed è assolutamente sufficiente, a osservare l’importanza di questo titolo (...). C’è una grammatica della fantasia. Ci sono regole o semplici modalità e stimoli per indicare una via. C’è la fantasia e la grande capacità di inventare partendo dal noto. E proprio qui sta la grandezza di Rodari, nel fa vedere come “usare la testa” liberamente per procedere verso la conoscenza attraverso piccoli progressi, prima sulla strada tracciata, poi tresgredendo, mettendo assieme opposti e lontani, immaginando sintesi e soluzioni non previste. Rodari certo, e con lui Munari e anche Alighiero Boetti, Toti Scialoja. Geniali autori e pensatori che ci hanno insegnato (...) che esiste anche una modalità da proporre, da segnalare, da indicare perché ognuno di noi possa utilizzare con originalità la propria fantasia o meglio il proprio “pensiero”».
IL VALORE ASSOLUTO DELL’ARTE
C’è, per tornare a De Mauro, un valore assoluto dell’arte, che non è detto siamo capaci di cogliere, e che va al di là del valore che presupponiamo di poterle attribuire. A volte quel valore si trasferisce alle opere che ne parlano, dell’arte. Volendolo cercare di esplicitarlo relativamente alla Grammatica della Fantasia di Rodari, citiamo ciò che ne dice lui stesso: «Io spero che il libretto possa essere ugualmente utile a chi crede nella necessità che l’immaginazione abbia il suo posto nell’educazione; a chi ha fiducia nella creatività infantile; a chi sa quale valore di liberazione possano avere la parole. “Tutti gli usi della parola a tutti” mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo».
Ed ecco che l’attualità del suo pensiero, del Rodari filosofo che in questo libro si esprime al meglio, viene subito fuori: non dobbiamo scordarci, oggi più che mai, il valore di liberazione che può avere la parola: proprio quando la libertà sulle parole sembrerebbe essere assoluta, e le sta invece sempre di più impoverendo di potere e di importanza. Perché se le parole sono strumento di liberazione, occorre salvaguardarle con la massima attenzione. «Tutte le parole a tutti quanti». Quindi.
La dimensione segreta dello scrittore rivelata da un libro:
Marcello Argilli, «Gianni Rodari. Una biografia», Einaudi, Torino 1990. Rodari è lo scrittore per bambini più noto nel mondo, l’unico che tutti gli alunni italiani conoscono, e tutti gli insegnanti nominano. Eppure dell’uomo Rodari, della sua personalità e della sua vita privata, del suo impegno si sa pochissimo.
In questo libro, che per la prima volta ne tratteggia la psicologia, le abitudini, gli interessi culturali, emerge il Rodari bambino e adolescente, il giovane provinciale che si impegna nella politica e nel giornalismo, per diventare, appena trentenne, il poeta e lo scrittore che rinnova la nostra letteratura infantile.
A questo filo biografico si accompagna una rivisitazione della sua opera per ragazzi, e il racconto, pur senza pretese sistematiche, illumina ampie zone della biografia dello scrittore, con una attenzione particolare alla novità dei suoi libri, alle difficoltà che questi inizialmente incontrarono, alla loro immensa fortuna e all’evoluzione poetica rodariana. -Questo appassionante lavoro di recupero viene svolto da un amico trentennale di Rodari, Marcello Argilli, che con lui ha lavorato, avendo in comune le stesse fondamentali matrici culturali. L’autore non solo ha fornito di Rodari una personale testimonianza diretta, ma ha raccolto un’importante quantità di documenti, di lettere, di preziosi testi inediti.
Di cosa parleranno i due Pontefici
di Vittorio Messori (Corriere della Sera, 23 marzo 2013)
L’incontro di oggi a Castel Gandolfo tra il Papa regnante, Francesco, e quello emerito, Benedetto XVI, è del tutto inedito. Joseph Ratzinger si asterrà dai consigli a Jorge Mario Bergoglio, limitandosi semmai a richiamare l’attenzione su questioni restate irrisolte. Si parla di una sorta di promemoria riservato, preparato da Benedetto XVI per chi, dopo di lui, avrebbe portato il pesante fardello di Pietro.
In queste settimane vi è stato grande uso (e talvolta abuso) degli aggettivi «storico» ed «epocale». Ma l’evento di oggi merita un po’ di enfasi: l’incontro - e in un clima che sarà certamente di grande, solidale fraternità - tra il Papa regnante e quello emerito è del tutto inedito.
Come è stato ripetuto più e più volte, di questi tempi, non sono mancati esempi antichi di «rinuncia papale», ma in secoli turbinosi, come episodi da inquadrare nella lotta tra papi e antipapi. Il solo precedente assimilabile a ciò che ha avuto inizio l’11 febbraio scorso è quello di Celestino V. Il quale non ebbe certo abbracci dal suo successore in effetti, Bonifacio VIII si preoccupò di neutralizzare il dimissionario, temendo che revocasse l’abdicazione. Il risultato finale - dopo fughe per terra e per mare - fu che il già papa Pietro da Morrone finirà, a 86 anni, i suoi giorni, in una cella non di un monastero ma di una fortezza dove era tenuto rinchiuso. Nulla a che fare, insomma, con l’incontro previsto per oggi a Castel Gandolfo.
Probabilmente non ne sapremo nulla se non, chissà quando, dai diari postumi di Joseph Ratzinger o di Jorge Mario Bergoglio. Eppure assistere a quell’appuntamento senza precedenti sarebbe tra i desideri più vivi non solo di ogni cronista ma anche di ogni storico della Chiesa.
L’arcivescovo di Buenos Aires è stato creato cardinale nel Concistoro del 2001, dunque da Giovanni Paolo II. Ma è certo che sulla sua elezione ha pesato l’indicazione dell’allora Prefetto per la Fede: Ratzinger aveva molto apprezzato che Bergoglio fosse stato tra i pochi gesuiti sudamericani a non approvare le prospettive dei teologi della liberazione. Anzi, che fosse stato bersaglio di critiche e accuse, per questo, dai confratelli.
L’incontro attuale, dunque, non sarà tra un «conservatore» e un «progressista» - come vorrebbe la grossolana lettura ideologica - ma tra due servitori della Chiesa consapevoli che c’è differenza tra carità cristiana e lotta di classe, tra omelia religiosa e comizio politico, tra sacerdote di Cristo e guerrigliero. Non sarà neppure un incontro tra un «giovane» e un «vecchio»: Bergoglio ha quasi la stessa età del suo predecessore quando fu eletto.
Conoscendo la delicatezza dell’uomo Ratzinger, c’è da credere che si asterrà dai consigli, limitandosi semmai a richiamare l’attenzione su questioni restate irrisolte. Si parla di una sorta di promemoria riservato, preparato da Benedetto XVI per chi, dopo di lui, avrebbe portato il pesante fardello di Pietro. Può darsi, ma c’è da supporre che pure in questo caso l’intenzione sia stata informativa e non, come dire?, pedagogica, quasi che il nuovo Pontefice avesse bisogno di essere guidato.
Il Papa ora emerito lo ha detto con chiarezza, prima del congedo: sua intenzione è «sparire dalla vista del mondo», continuare a servire la Chiesa con la preghiera e non con una, seppur discreta, collaborazione al governo della Chiesa.
Certo, resta pur sempre la domanda che molti si sono fatti: restare nel «recinto vaticano» non rende più difficile un simile proposito di nascondimento?
Devo dire che pur non attendendo, almeno per ora, la decisione della «rinuncia», più volte avevo riflettuto su quale avrebbe potuto essere il rifugio di un eventuale Benedetto XVI costretto dall’età e dal peso dei problemi a lasciare il suo servizio. Mi era istintivo pensare innanzitutto a un ritorno nella sua Baviera, dove - in posti magnifici, spesso in foreste circondate da alte montagne - sopravvivono abbazie ancora abitate da monaci benedettini. Ma l’età e la salute fragile dell’uomo non consigliavano certo un severo clima alpestre.
Il Sud italiano, allora? Mi veniva di pensare alla Calabria, alla Certosa di Serra San Bruno, dove tra l’altro giace il corpo venerato dello stesso fondatore dell’Ordine, san Bruno, appunto. Benedetto XVI si è tra l’altro recato in pellegrinaggio in quel luogo sacro.
Ma una Certosa non è il luogo indicato per un anziano, bisognoso - soprattutto in una prospettiva futura - di assistenza costante. I monaci vivono isolati, in una casetta che da una parte dà sul grande chiostro e dall’altra sull’orto-giardino che coltivano essi stessi. La piccola infermeria non può certo bastare.
Se mi avessero chiesto di indicare un luogo per il possibile nascondimento del Papa divenuto emerito, non avrei esitato, puntando il dito sulla Provenza, dipartimento della Vaucluse, ai piedi del Mont Ventoux: per l’esattezza, nella località detta Le Barroux. Qui non solo la temperatura è ideale e il paesaggio incantevole ma qui, dal 1970, è sorta una abbazia talmente cara a Joseph Ratzinger che, da cardinale, spesso vi soggiornava qualche giorno, ora in incognito ora in visita ufficiale.
In effetti il fondatore, dom Gérard, non accettando che anche i benedettini, dopo il Concilio, dovessero abbandonare il latino per la liturgia, aveva lasciato il suo monastero per crearne uno che continuasse la Tradizione e tornasse al severo rispetto della Regola. Qui il canto Gregoriano è eseguito con tale perfezione che le registrazioni su cd sono apprezzate in tutto il mondo e molti sono i giovani che si aggregano come novizi, attratti dall’austerità della vita. Avendo io pure frequentato quel luogo di straordinario fascino, seppi dai Superiori che, prima il cardinale e poi anche il Papa, aveva confidato che quello avrebbe potuto essere il luogo per il suo rifugio finale.
E invece, ecco un provvisorio Castel Gandolfo e, forse definitivi, i giardini del Vaticano. Il Papa emerito ha fatto capire che anche questa vicinanza fisica alla tomba di Pietro è un segno che non lascia di certo la Chiesa, che continua a lavorare per essa col servizio della preghiera.
Problemi di convivenza, ha fatto anche capire, non ve ne saranno, vista la sua vita ritirata. Il problema sembra secondario ma non lo è, come ben sa chi conosce l’ambiente ecclesiale, con le sue sfumature. È chiaro che da parte di papa Francesco vi sarà totale accoglienza, quale che sia la scelta del suo predecessore, ma è probabile che nell’incontro privatissimo di oggi si parlerà anche di questo aspetto inedito in una Chiesa che, in due millenni, credeva di avere tutto sperimentato. Tutto ma non il singolare «condominio», nel chilometro quadrato scarso della Città del Vaticano, di un pontefice emerito e di uno regnante.
Il kolossal dell’addio che ricorda la «Dolce vita»
di Alberto Crespi (l’Unità, 1 marzo 2013)
I l Papa ha trasformato il suo addio in un kolossal, forse perché nessuno pensi che potrebbe invece trattarsi di un thriller. Le immagini dell’elicottero che ha sorvolato Roma prima di dirigersi verso Castel Gandolfo hanno stuzzicato la memoria di qualunque cinefilo: siamo usciti da Habemus Papam , il film che sta andando in scena in Vaticano da svariati giorni, e siamo entrati in altri due film, uno sublime e l’altro orrendo. Il pensiero è volato ad Angeli edemoni , uno dei film più brutti di tutti i tempi ispirato a un romanzo demente (sì, demente: dire demenziale sarebbe fargli un complimento) di Dan Brown.
Nel finale di quel thriller religioso, un elicottero si alza in volo sopra il Vaticano per poi esplodere in una deflagrazione atomica: Tom Hanks cade nel Tevere dall’altezza di qualche chilometro e si limita a rialzarsi spolverandosi la giacca, manco fosse Wyle E. Coyote.
Sublime, invece, è il ricordo di La dolce vita, un film che all’epoca passò al vaglio delle alte sfere vaticane ottenendo finalmente il placet del cardinale Siri e, indirettamente, di Giovanni XXIII.
Lo sconvolgente affresco creato dalla fantasia di Federico Fellini si apriva con un elicottero che sorvolava gli acquedotti dell’Appia portando appesa ad un cavo l’enorme statua di un Cristo benedicente. Dai pratoni della Caffarella - proveniente, si potrebbe dire, dai Castelli e quindi da Castel Gandolfo... - l’elicottero sorvola il quartiere Don Bosco e arriva sopra San Pietro.
È una sorta di epifania sacra, subito «laicizzata» dalle ragazze in bikini che, da un terrazzo, salutano il Cristo e chiedono dove lo stiano portando. «Dal Papa», è la risposta di Mastroianni, cronista d’assalto che assieme al complice fotografo Paparazzo sta «coprendo» l’evento viaggiando su un altro elicottero al seguito. Fellini aveva già capito tutto. Ci vorrebbe davvero il suo occhio, così visionario e perspicace, per capire qualcosa dei giorni turbolenti che l’Italia sta vivendo.
Un Papa che si dimette mentre un ex Gesù condiziona la vita politica del Paese è una fantasia grottesca che anche Fellini avrebbe faticato ad immaginare; ma forse solo lui riuscirebbe a raccontarla, in un altro affresco che potrebbe non avere più nulla di dolce.
Vi state chiedendo chi sia l’ex Gesù di cui sopra? Era proprio Beppe Grillo in uno dei due film importanti che ha interpretato come attore: Cercasi Gesù di Luigi Comencini, dove alla fine faceva addirittura un miracolo (l’altro era Scemo di guerra di Dino Risi, e non faremo facili battute). Anche Cercasi Gesù sta andando ininterrottamente in scena in questi giorni, con i cronisti che inseguono vanamente Grillo e Bersani che prima lo chiama in causa come un «normale» avversario politico, e poi si accinge ad attenderlo invano in Parlamento dove magari non si farà nemmeno vedere. Farà i miracoli in contumacia.
Visto che ieri Grillo ha messo sul suo blog il manifesto di 47 morto che parla con la faccia di Bersani al posto di quella di Totò, qualcuno potrebbe «postargli» a tradimento qualche scena di quei due film: nonostante fosse diretto da due grandissimi registi, come attore il guru non era davvero granché.
Il Papa ha tutta un’altra classe. Per essere eletti a quel soglio, bisogna essere attori consumati. L’arte della messinscena con la quale Benedetto XVI ha gestito il proprio addio è degna di Cecil B. De Mille o di Steven Spielberg. Il fatto che l’elicottero, prima di puntare sui Castelli, abbia sorvolato tutta Roma è stato un «coup de theatre» fantastico e, al tempo stesso, un gesto toccante. È come se il Papa avesse voluto riempirsi per un’ultima volta gli occhi con tutta quella bellezza che stava lasciando.
Naturalmente Roma - come ogni città - ha anche angoli molto brutti, ma da un elicottero si percepisce solo la sua conformazione scenografica, i colli e i monumenti, i tentacoli di case che si allungano fra i giardini e i pratoni che arrivano quasi fino in centro. Anche chi non è credente, e considera il Papa solo un uomo di potere, non può cancellare un brivido di fronte a questo gran finale.
Fra poco inizierà un altro grande film, il primo conclave moderno con l’ex pontefice ancora vivo ad assistere, sia pure a distanza. Cercasi Papa . O Cercasi Papa 2 , visto che uno ci sarebbe già..
Gli ultimi istanti del pontificato di Benedetto XVI
di Stéphanie Le Bars
in “Le Monde” del 2 marzo 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Il 28 febbraio resterà nella storia della Chiesa cattolica come una giornata sobria di gesti, ma ricca di simboli e forte quanto a emozioni. Per la prima volta, un papa ha lasciato la sua carica, in diretta, alla televisione. Alle 17h38, dal balcone della residenza estiva di Castel Gandolfo, a 25 km da Roma, il papa, ormai “emerito” ha salutato i fedeli riuniti sulla piazza.
“Come sapete, questa giornata è diversa dalle altre. A partire dalle 20h, ha ricordato, sarò semplicemente un pellegrino che inizia l’ultima tappa del suo viaggio su questa terra.” Poi, senza soffermarsi oltre, è rientrato negli appartamenti, dove passerà i prossimi due mesi.
Alcuni minuti prima, l’elicottero dell’esercito italiano che assicurava il suo trasferimento era partito dai giardini del Vaticano al suono delle campane della basilica di San Pietro e delle chiese di Roma. Il papa si era appena congedato dai suoi collaboratori. I suoi appartamenti sono ormai sigillati, in attesa dell’arrivo del successore.
Nonostante il carattere senza precedenti di questa giornata dal protocollo sconosciuto, Benedetto XVI non ha lasciato nulla al caso. Alle 17, il suo accout Twitter,@pontifex, aveva fatto partire il suo ultimo messaggio: “Grazie per il vostro amore e il vostro sostegno. Possiate sempre sperimentare la gioia di mettere Cristo al centro della vostra vita!”.
Durante un incontro altrettanto inedito, alla fine della mattinata, Benedetto XVI aveva salutato personalmente i 140 cardinali già presenti a Roma per partecipare ai dibattiti precedenti al conclave.
In una breve allocuzione aveva, come il giorno prima davanti ai fedeli, riespresso “la sua gioia” di aver condiviso questi otto anni di pontificato con i credenti. Ricordando ancora una volta “i momenti di luce e i momenti in cui c’era qualche nuvola in cielo”, il papa aveva invitato i cardinali ad agire “come un’orchestra in cui le diversità concorrono nel realizzare l’armonia”. Mentre nel corso del suo pontificato aveva spesso denunciato “le divisioni e le rivalità” in seno alla Chiesa e tra i suoi più alti responsabili, Benedetto XVI li ha ora incoraggiati a “restare uniti nella preghiera al fine di servire la Chiesa e tutta l’umanità”.
coabitazione inedita
Poi, di fronte alle preoccupazioni suscitate dalla coabitazione inedita tra un papa in carica ed un papa emerito, ha assicurato ai cardinali presenti: “Tra voi, c’è il futuro papa a cui prometto rispetto ed obbedienza incondizionate.”
I cardinali cominceranno le loro riunioni informali lunedì per “far conoscenza” e per parlare delle sfide che la Chiesa deve affrontare. In particolare dovrebbero occuparsi delle conclusioni, fino ad ora segrete, dell’inchiesta condotta da tre cardinali in seguito alle disfunzioni rivelate dalla pubblicazione di documenti confidenziali (Vatileaks). La data di apertura del conclave dovrebbe essere annunciata lunedì.
di Christian Terras*
in “Le Monde” del 15 febbraio 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Che il papa dia le dimissioni a causa dell’età, è già un fatto eccezionale! Ma che aggiunga a questa motivazione quella di un mondo che avanza troppo rapidamente per lui è una cosa da sottolineare. A questo punto, come interpreterà il suo atto, il suo successore? Per governare la barca di Pietro in un mondo ricco di cambiamenti, occorre un pontefice che li accolga o che li rifiuti? Alcuni riterranno che a questa alternativa manca la prospettiva di un’accoglienza critica della postmodernità. Perché, di fatto, le dimissioni di Benedetto XVI illuminano di nuova luce la crisi attraversata dalla Chiesa.
Dopo il grande discorso d’addio di Gesù, i suoi discepoli sanno di essere nel mondo senza essere del mondo, ma non hanno ancora finito di discernere il modo in cui possono essere testimoni del Vangelo. Ma da quando la religione non struttura più la realtà sociale, siamo messi di fronte ad una situazione inedita nella storia dell’umanità: quest’ultima può vivere come se Dio non esistesse!
Benedetto XVI ha lottato contro questa scomparsa di Dio come fondamento della verità dell’umano. Avrebbe lottato fino all’esaurimento? Stando così le cose, le sue dimissioni non sarebbero il segno di un fallimento di questa battaglia persa in anticipo?
Il prossimo papa potrebbe chiarire in quale modo la mentalità contemporanea ci permette di scoprire un nuovo volto di Dio, in fedeltà con l’itinerario di Cristo. Per il papa attuale, solo la sottomissione a Dio, e quindi alla sua Chiesa che ne interpreta le volontà, permette di scoprirla. Ma non è possibile immaginare diversamente la relazione con la trascendenza?
La Chiesa ci mostra un Dio nascosto nella carne del mondo che le autorità religiose rifiutano di vedere! Dio non è più in competizione con l’umanità. La sua alterità penetra il nostro desiderio, il suo infinito vive nella nostra finitezza. Gesù ci ha insegnato a scoprirlo nei più piccoli, che sono i suoi fratelli.
La questione della verità è quindi intimamente legata a quella della solidarietà. Se Dio si fa solidale, è per insegnarci un altro modo di vivere con gli altri.
L’imitazione di Cristo ci proibisce quindi di assomigliare agli scribi che impongono agli altri i fardelli di una legge falsamente divina. Se il pontefice romano vuole assomigliare a Gesù dovrà, come lui, essere accogliente e dialogante, soprattutto con coloro che sono rifiutati. Non si tratta di carità compassionevole, ma di una lotta con coloro che rifiutano le strutture economiche e politiche inique.
Ma che la verità si trova in un dialogo solidale implica anche un nuovo modo di governare. I vescovi, tra cui quello di Roma, non possono più pretendere di sapere per e al posto degli altri. Sono al contrario invitati a cercare un Dio sempre più grande che sfugge ai nostri ragionamenti.
La Chiesa istituzionale adotta ancora nella maggior parte dei casi il comportamento dei farisei, nel meglio e nel peggio. Come loro, corre il rischio allontanarsi da coloro che credono, pensano e vivono diversamente da come prevedono le sue definizioni.
Certo, la Chiesa ha fatto, dal Vaticano II, degli sforzi di dialogo, ma a livello pastorale. La teologia non ne è stato toccata. Il catechismo resta lo stesso e le voci discordanti all’interno della Chiesa faticano a farsi sentire. E il cardinale Ratzinger è stato l’artigiano di una “stretta” sui teologi, privando la chiesa di una ricerca indispensabile, in particolare in dialogo con le scienze umane.
Questo modo di governare è diventato insopportabile per i nostri contemporanei per i quali l’autonomia è ineliminabile. È anche in contraddizione con la testimonianza del Nuovo Testamento.
Dall’accoglienza della Samaritana o dell’adultera a quella del buon ladrone sulla croce, Gesù ha spezzato i confini delle leggi disumane. Ogni incontro è stato l’occasione per dire un Dio che libera. Ha aiutato i suoi discepoli a trasgredire delle tradizioni percepite come divine mentre erano solo umane.
La Chiesa è ancora invitata a proseguire questo lavoro di decostruzione. Del resto Luca negli Atti non nasconde i conflitti che portarono la Chiesa ed abbandonare certe prescrizioni, inventando nuovi ministeri e precisando le esigenze della fede. Questi racconti devono ispirare l’agire pontificio.
In materia di morale familiare, ad esempio, è indispensabile un vero dialogo all’interno della Chiesa con le coppie divorziate risposate o le persone omosessuali, nonché il tener conto delle problematiche del genere. Le donne non potranno più essere ancora a lungo messe da parte e impiegate in compiti subalterni.
È anche urgente che il ministero petrino sia messo in tensione con la figura di Paolo: Pietro non ebbe ragione senza l’apostolo dei gentili. Tra i vescovi deve circolare una parola libera su tutti i problemi cruciali del nostro mondo. Non sono semplici cinghie di trasmissione della curia romana.
Inoltre, è altrettanto urgente uno scambio franco e onesto con le Chiese sorelle, soprattutto con i protestanti. È una condizione perché il vangelo si radichi in tutte le culture. Il papa non potrà neppure trascurare l’opinione dei fedeli. Ascoltare come rendono conto del loro modo di vivere, permetterà alla Chiesa di sfuggire alla logica caricaturale del bianco e nero, cercando il senso in tutte le zone grige delle nostre esistenze, per parlare come il defunto cardinal Martini.
In questo senso, ciò di cui la Chiesa ha bisogno non è tanto un nuovo concilio di vescovi, quanto una riforma fondamentale sui temi istituzionali e dottrinali. Essa potrà così essere testimone della pertinenza del cristianesimo nella nostra postmodernità e dire Dio diversamente in un nuovo modo di fare Chiesa, in un dialogo aperto con il mondo, per tentare di raccoglierne le sfide.
*redattore capo di “Golias Hebdo” e di “Golias Magazine”
«Dio diventi neutro: basta con il maschile»
Berlino, lite sul sesso di Dio
La ministra: «Sia neutro»
di Paolo Lepri (Corriere della Sera, 22.12.2012)
-*** «Dio deve diventare neutro: basta indicarlo con il maschile». Il ministro per la Famiglia tedesco, Kristina Schröder, cristiano-democratica, nota per le battaglie contro il femminismo, in un’intervista ha detto di trovarsi in imbarazzo con la sua piccola Lotte, un anno e mezzo, parlando di Dio.
BERLINO - Qual è il «sesso di Dio» spiegato ai bambini? Non si tratta di un dibattito teologico-grammaticale che potrebbe escludere quel 16 per cento della popolazione mondiale che secondo un recente studio del «Pew Forum on Religion and Public Life» si professa non credente.
È qualcosa di più, e riguarda tutti coloro che hanno figli piccoli, perché il problema del «genere» nell’educazione infantile è ormai all’ordine del giorno in molti Paesi europei. Lo dimostra la proposta del governo francese di inserire nel libretto di famiglia la dizione «genitore 1» e «genitore 2» al posto del padre e della madre, e il riaffacciarsi in Svezia del pronome neutro per sostituire il «lui» e il «lei» nell’asilo.
In Germania, è stato il ministro per la Famiglia, Kristina Schröder, cristiano-democratica, nota per le sue battaglie contro il «femminismo storico», a fare discutere tutti. In questo caso, si è iniziato a parlare di religione, ma il vero scontro è sulla figura dell’uomo e della donna nell’immaginario dei bambini.
In un’intervista al settimanale Die Zeit, Kristina Schröder ha detto di trovarsi in imbarazzo con la sua Lotte (un anno e mezzo) parlando di Dio al maschile, come avviene nella lingua tedesca, e ha aggiunto che sarebbe meglio usare l’articolo «das», con cui si precedono i nomi di genere neutro. «Ciascuno - ha detto - dovrebbe decidere per conto proprio». Una riflessione, questa, che è stata accompagnata da critiche al «sessismo» delle fiabe e della letteratura per bambini in cui «raramente si trovano figure positive di donne».
Le parole della Schröder sono state accolte con una raffica di proteste. Christine Haderthauer, ministro per gli Affari sociali della Baviera, le ha definite una «sciocchezza intellettualistica». Un altro esponente cristiano-sociale, il parlamentare Stefan Müller, ha osservato che «Dio appare a noi come il Padre di Cristo e così dovrebbe rimanere». Secondo un eminente teologo cattolico, padre Wilhelm Imkamp, l’idea di rendere neutro il Padreterno è «stupida, insolente e testimonianza di opportunismo».
L’unico a gettare acqua sul fuoco è stato Klaus-Peter Willsch, parlamentare della Cdu nell’Assia (il Land dove Kristina Schröder sarà capolista nelle elezioni del prossimo autunno), suggerendo che «per chi cerca una figura di genere neutro, c’è Gesù Bambino». Alla parola Christkind, infatti, si accompagna «das». «Per chi crede in Dio l’articolo è indifferente», ha risposto il portavoce della cancelliera, Steffen Seibert, durante il consueto briefing del governo.
Secondo un collaboratore di Kristina Schröder, Benedetto XVI «ha scritto che Dio non è né uomo né donna» e quindi «i critici del ministro non dovrebbero essere più "papali" del Papa». E lei, la diretta interessata? Ha ricordato alla Bild che si stava riferendo ad una bambina e non ai tanti adulti «inciampati» sulle sue parole. Ma non è detto che tutto finisca qui.
DIO E’ VALORE! Sul Vaticano, in Piazza san Pietro, sventola il "Logo" del Grande Mercante: "Deus caritas est" (Benedetto XVI, 2006)!!! Il papa teologo, ha gettato via la "pietra" su cui posava l’intera Costruzione ...
SE DIO SI E’ FATTO PAROLA, IO NON POSSO GIOCARE CON LE PAROLE ... IL CATECHISTA NON USA MAI PAROLE EQUIVOCHE: PARLARE DI CARITÀ SIGNIFICA PARLARE DI GRAZIA
Bertone va all’attacco “C’è chi vuole dividere il Papa dai cardinali”
di Marco Ansaldo (la Repubblica, 19 giugno 2012)
«Io sono al centro della mischia». È pienamente consapevole, il cardinale Tarcisio Bertone, di costituire il nucleo della vicenda Vatileaks, il caso dei documenti segreti diffusi sui media che, in buona parte, accusano la sua gestione nella Segreteria di Stato vaticana. E, al ritorno dal viaggio di cinque giorni compiuto in Polonia, il capo del governo della Santa Sede ha deciso di passare al contrattacco. Lo ha fatto con una difesa apparente, che ha però tutto il sapore di una controffensiva, e segue le interviste rilasciate all’Osservatore Romano dal sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Angelo Becciu, e dal predecessore di Bertone, il cardinale decano Angelo Sodano. L’attuale numero del governo vaticano è ora sceso in campo in prima persona, con un lungo colloquio - fatto a voce, e non trattato in forma scritta come in altri casi - con il direttore del settimanale Famiglia Cristiana, don Antonio Sciortino.
Non ci sono divisioni in seno alla Chiesa, sostiene Bertone, né fra il Pontefice e i suoi collaboratori, né fra i cardinali. «C’è un tentativo accanito e ripetuto di separare, di creare divisione fra il Santo Padre e i suoi collaboratori. E tra gli stessi collaboratori - aggiunge il braccio destro del Papa - mi sembra che si vogliano colpire coloro che si dedicano con maggior passione e anche con maggiore fatica personale al bene della Chiesa e della comunità. Questo ha in sé qualcosa di iniquo». Aggiunge il Segretario di Stato: «Ci riuniamo sistematicamente, abbiamo uno straordinario clima di comunione, che è l’esatto opposto di quanto viene rappresentato dai mass media». E qui arriva il suo affondo: «Molti giornalisti giocano a fare l’imitazione di Dan Brown. Si continua a inventare favole o a riproporre leggende».
Un attacco contro la stampa italiana. «Ci troviamo in un contesto italiano, che viene propalato a raggio universale, dove la risonanza è molto attutita. Anzi, all’estero si fatica a comprendere la veemenza di certi giornali italiani ». Da segnalare, tuttavia, che della vicenda Vati-leaks parlano da mesi giornali tedeschi, settimanali asiatici, tv arabe, emittenti argentine, quotidiani norvegesi, media statunitensi. E che, per fare un solo esempio, la lettera di monsignor Carlo Maria Viganò, al tempo segretario generale del Governatorato vaticano, indirizzata al Papa il 27 marzo 2011, con la denuncia di episodi di «corruzione e prevaricazione», non è un’invenzione della stampa, ma una missiva scritta all’interno delle Sacre Mura, che i media hanno controllato e reso nota.
I toni di Bertone appaiono in parte apocalittici. «La verità è che c’è una volontà di divisione che viene dal maligno». E ancora: «Il Papa ha parlato recentemente di calunnia. Forse occorrerebbe fare una catechesi su questo vizio, per recuperare il senso della ricerca della verità». Ma ci sono anche ammissioni di responsabilità: «Ci troviamo in un momento faticoso. Nessuno di noi intende nascondere le ombre e i difetti della Chiesa». E sul maggiordomo del Pontefice, arrestato con l’accusa di aver diffuso i documenti: «Il Papa stesso ci ha chiesto più volte, in maniera accorata, una spiegazione sulle motivazioni del gesto di Paolo Gabriele, da lui amato come un figlio. Questo tradimento della fiducia è stato il fatto più doloroso». E infine: «La pubblicazione di una molteplicità di lettere e documenti inviati al Santo Padre da persone che hanno diritto alla privacy costituisce un atto immorale di inaudita gravità. E un vulnus a un diritto riconosciuto esplicitamente dalla Costituzione italiana».
Nel consueto briefing il portavoce papale, padre Federico Lombardi, ha dichiarato che la ricostruzione compiuta dal quotidiano Il Fatto, secondo cui l’organismo europeo Moneyval si appresta a bocciare in alcuni punti l’azione del Vaticano per adeguarsi alla normativa sulla trasparenza finanziaria non è «accurata». Per il giornale la Santa Sede rischierebbe di avere note insoddisfacenti per 8 delle 16 “raccomandazioni fondamentali” in materia di riciclaggio.
Lombardi ha poi reso noto che la commissione di tre cardinali incaricata da Benedetto XVI di indagare sul caso Vati-leaks ha sentito finora 23 persone, al ritmo di 4-5 la settimana. Ci sono «Superiori e impiegati vaticani, chierici e laici», l’ex maggiordomo, e persone che non lavorano in Vaticano. Lombardi ha sottolineato che l’essere ascoltati non significa affatto essere sospettati. Si spiegano così le voci che accreditano, fra le audizioni, quelle di tre eminenti porporati per ottenere delle indicazioni: i cardinali Camillo Ruini, Giovanni Battista Re e Giuseppe Versaldi.
____________________________________________________________________________________________ DIALOGO MUTI RAVASI
La scala che unisce cielo e terra
«Se noi continueremo a commettere ingiustizie, Dio ci lascerà senza la musica». Con questa suggestiva frase di Cassiodoro ieri sera il cardinale Gianfranco Ravasi ha chiuso il "Dialogo su fede e musica" (ultimo appuntamento degli incontri su "L’uomo, l’assoluto e l’arte") che lo ha visto a colloquio col maestro Riccardo Muti nell’eccezionale contesto della Basilica di Santa Maria in Ara Coeli. Un incontro che si è intessuto intorno alla capacità della musica di favorire l’incontro col sacro, e quindi sulla necessità di tornare a fare della buona musica in chiesa, soprattutto nelle liturgie.
Cassiodoro, ha raccontato il cardinale, «nel sesto secolo realizza un’università cristiana sui suoi terreni in Calabria e la chiama "il Vivaio". Nel primo libro del regolamento istitutivo inserisce quella frase riferendosi ai passi biblici dei Profeti e dell’Apocalisse che descrivono il momento del grande giudizio divino, sottolineando che Dio fa tacere tutto, compreso il canto dello sposo e della sposa». Una metafora della società umana e del suo difficile rapporto con Dio: «Se noi continueremo a commettere ingiustizie, Dio ci lascerà senza la musica».
La questione della musica nelle chiese è stata sollevata proprio da Muti, a conclusione di una prima fase del "dialogo" con Ravasi che si è a lungo soffermato sulla musica di Verdi e sul dilemma tante volte dibattuto se fosse ateo o credente. A questo riguardo Muti ha sostenuto che difficilmente si può pensare a Verdi come a un agnostico se si ascoltano i finali del "Requiem" del "Don Carlos", della "Forza del destino" o del "Rigoletto". «Sono opere che tendono a Dio. Come può una persona che non crede scrivere un finale in cui si canta "Libera me Domine de morte aeterna in die ille"? Non so nemmeno come certi direttori contemporanei che dicono di essere atei possano interpretare un simile momento di musica senza porsi una domanda. Non è possibile». Per questo, ha aggiunto, è necessario che «nelle chiese torni musica realmente capace di essere strumento per pregare».
Per far questo, secondo Ravasi, bisogna tornare a costruire una nuova sensibilità musicale, partendo già nei seminari, «così che i preti non si accontentino delle comuni offerte. Il ricorso a musica semplice troppo spesso diventa banale. A Dio non possiamo dare certe cose. Servono musicisti di alto livello. Perché l’ascolto è l’altro volto della parola. È un esercizio faticoso. Quando dobbiamo dire che una realtà è incomprensibile, diciamo che è assurda, che viene da "sordo"». In questo senso certa musica contemporanea non è capace di far aprire le orecchie alla Parola divina, è incapace di far salire a Dio come il "Te Deum" di Verdi.
E Muti tiene a sottolineare che il problema non è nella semplicità o nella difficoltà della musica, il distinguo è nella capacità della musica di farci fare l’esperienza di Dio. «La chitarra rende la musica semplice e forse più comprensibile, ma la vera musica non ha bisogno di comprensione, la vera musica è rapimento. Lo dice con grande efficacia Dante nel Paradiso quando di fronte alla visione celeste in cui gli spiriti beati si dispongono in forma di croce sente una musica che non intende ma che lo rapisce. Ciò che conta non è la tecnica della musica.
Mozart diceva che la musica più profonda è quella che giace fra le note. È lì che si trova la verità. È il rapimento verso l’alto che conquista nella musica». Per questo, ha sostenuto il cardinale, «dobbiamo tornare a fare buona musica nelle chiese tenendo presente che, come diceva il filosofo Jean Guitton, la liturgia è costituita di due momenti in perfetto connubio fra loro, uno in cui c’è il mistero divino che si rende presente e che ha bisogno di musica rispettosa, l’altro in cui c’è la rappresentazione, la partecipazione di tutti. Ecco, abbiamo bisogno di musicisti che ci consentano di vivere questo dualismo con un nuovo linguaggio... Elie Wiesel spiega la musica attraverso la visione di Giacobbe nel sogno in cui scende una scala dal cielo, sulla quale salgono e scendono angeli. Giacobbe si sveglia e riparte. E Wiesel dice che gli angeli quella scala si sono dimenticati di ritirarla ed è la scala musicale, capace di unire la terra al cielo».
Roberto I. Zanini
EVANGELO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ...
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
di Gianfranco Ravasi (Il Sole 24 Ore - Domenica, 20 maggio 2012)
La critica a un’informazione spesso approssimativa, superficiale, prevenuta e fin ostile per ragioni di principio, non deve quindi esimere la comunità ecclesiale da una ferma autocritica nei confronti dei propri limiti. Le evidenti incomprensioni che allignano nella società non devono produrre un rassegnato vittimismo e neppure un’altezzosa noncuranza del fenomeno. Anche se l’odierna esasperazione della comunicazione, la sua accelerazione ed estensione costituiscono una novità, nella sua sostanza, un fenomeno costante che risale alle origini stesse della cristianità. Quella che appare ai nostri occhi come la primavera della Chiesa (e che per molti versi lo era) fu una stagione tutt’altro che idilliaca, sottoposta a gelate, a tempeste, a devastazioni. E questo non solo a livello di vita ecclesiale: emblematiche sono le divisioni accese che frantumavano la Chiesa di Corinto, fieramente denunciate da san Paolo (1 Corinzi 1, 10-16).
La crisi si manifestava anche a livello di comunicazione, e l’apostolo lo conferma a più riprese puntando l’indice contro una serie di deviazioni dottrinali e morali che si ramificavano attraverso l’oralità, il medium allora dominante, «turbando e sovvertendo» (Galati 1, 7), «provocando divisioni e ostacoli contro l’insegnamento appreso» (Romani 16, 17), «incantando gli stolti» cristiani della Galazia (Galati 3, 1). Il fascino della stravaganza e dell’eccesso attirava già allora, al punto che san Paolo polemizza con alcune comunità cristiane nelle quali «ci si circonda di maestri secondo i propri capricci, rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi dietro alle favole» (2 Timoteo 4, 3- 4). Anzi, la forza «performativa», cioè efficacemente incisiva, della comunicazione - soprattutto nei confronti delle persone più indifese - è rappresentata senza reticenze nel suo versante negativo al l’interno della stessa lettera indirizzata da san Paolo al collaboratore Timoteo: «Vi sono alcuni che entrano nelle case e circuiscono certe donnette cariche di peccati e in balia di passioni di ogni genere, sempre pronte a imparare, ma che non riescono mai a giungere alla conoscenza della verità» (3, 6-7). In quel contesto di comunicazione viziata, già allora non si esitava ad adottare la pura e semplice falsificazione a livello di massa: nella comunità cristiana di Tessalonica circolano persino
dice l’apostolo - «alcune lettere fatte passare come nostre», tali da «confondere la mente e allarmare» (2 Tessalonicesi 2, 2), tanto è vero che san Paolo si vede costretto ad apporre ai suoi scritti - dettati, com’era prassi, a uno scriba - una specie di autenticazione: «Il saluto è di mia mano, di Paolo. Questo è il segno autografo di ogni mia lettera; io scrivo così» (2 Tessalonicesi 3, 17); «vedete con che grossi caratteri vi scrivo di mia mano» (Galati 6, 11). L’«adulterazione» del messaggio secondo forme ingannevoli era una vera e propria piaga che attecchiva in varie Chiese delle origini (2 Corinzi 4, 2). Il monito è, perciò, costante: «Fate attenzione che nessuno faccia di voi sua preda con la filosofia e con vuoti raggiri... Nessuno vi inganni con parole vuote» (Colossesi 2, 8; Efesini 5, 6).
La comunicazione malata, le incomprensioni e le degenerazioni sono quindi un dato permanente e forse scontato non solo nel confronto con l’esterno, ma anche all’interno stesso della Chiesa. A questo punto vorrei apporre al nostro itinerario molto variegato, e forse anche un po’ disperso e dispersivo, una nota conclusiva, che vuole avere un sapore «controcorrente». Dopo aver trattato tanto di parole, di informazione, di comunicazione, vorrei infatti far entrare in scena l’antipodo, ossia il silenzio.
In uno dei suoi Shorts il poeta inglese Wystan H. Auden confessava: «Bisognosi anzitutto / di silenzio e di calore, / produciamo / freddo e chiasso brutali». Il filosofo Friedrich W. Nietzsche osservava che «è difficile vivere con gli uomini perché è assai difficile farli stare in silenzio». Il vaniloquio filtrato dai cellulari, il flusso incessante delle notizie, il chattare senza tregua e senza contenuti veri, ma spesso solo in una marea di fatuità e vacuità, il fiume limaccioso delle volgarità o quello fangoso delle falsità fanno venire talvolta il desiderio che, per questa società della comunicazione di massa superinflazionata, si compia quanto si annuncia nel libro dell’Apocalisse: «Si fece silenzio nel cielo per circa mezz’ora» (Apocalisse 8, 1).
È come se nell’etere risuonasse un poderoso: «Zitti!», così da bloccare ogni sproloquio per almeno mezz’ora. La parola autentica e incisiva, in verità, nasce dal silenzio, ossia dalla riflessione e dal l’interiorità, e per il fedele dalla preghiera e dalla meditazione. In mezzo al brusio incessante della comunicazione informatica, alla chiacchiera e all’immaginario televisivo e giornalistico, al rumore assordante della pubblicità, il cristiano (ma non solo) deve sempre saper ritagliare uno spazio di silenzio «bianco», che sia - come accade a questo colore che è la sintesi dello spettro cromatico - la somma di parole profonde, e che non è il mero silenzio «nero», cioè l’assenza di suono.
Il Dio dell’Oreb si svela a Elia non nelle folgori, nel vento tempestoso e nel terremoto bensì in una qôl demamah daqqah, in «una voce di silenzio sottile» (1 Re 19, 12). Anche la sapienza greca pitagorica ammoniva che «il sapiente non rompe il silenzio se non per dire qualcosa di più importante del silenzio». È solo per questa via che sboccia la parola assennata e sensata. Solo così si compie la scelta di campo sottesa a un famoso detto rabbinico: «Lo stupido dice quello che sa; il sapiente sa quello che dice».
I corvi e i gendarmi
di Aldo Maria Valli (Europa, 29 maggio 2012)
Chi frequenta i palazzi vaticani sa che là dentro ci sono tante persone stanche del misto di affarismo, carrierismo e ipocrisia dominante in quel mondo a causa di gruppi di potere.
Sono persone che non accettano più questo andazzo, e se fino a ieri esprimevano delusione in colloqui privati, ora alcune di loro hanno deciso di agire, consegnando alla stampa le prove di ciò che sostengono: documenti attraverso i quali si può vedere che la curia romana, proprio ai suoi vertici, si occupa di questioni di potere, piccolo o grande che sia, quasi ventiquattro ore su ventiquattro. Non solo. Chi si occupa di questi problemi molto spesso, all’esterno, si presenta come moralizzatore e fustigatore di costumi altrui. Una situazione che provoca grande disagio in coloro che ancora hanno un briciolo di onestà intellettuale e di amore per la Chiesa.
L’idea di far uscire le carte si presenta come un’extrema ratio. Non essendo riusciti altri tentativi di cambiamento, si cerca così di forzare l’istituzione. A mali estremi, estremi rimedi. I corvi sanno che l’operazione è pericolosa, perché il rischio di essere screditati è alto, così come notevole è la possibilità che l’istituzione risponda facendo passare i cospiratori per avversari della Chiesa. Ma i corvi hanno deciso di rischiare. Nell’epoca della comunicazione, sono le notizie le vere armi. Ciò che per secoli non è riuscito con altri sistemi può riuscire oggi attraverso l’informazione.
L’operato dei corvi può essere criticato sotto diversi aspetti. Quando si agisce nell’ombra, senza mostrare il volto, è molto facile vanificare tutto il proprio operato. Ma chi ha deciso di passare all’azione ha calcolato anche questo pericolo. Era necessario scatenare una bufera mediatica.
Gli obiettivi dei corvi sono di ordine morale e organizzativo, e le due questioni sono strettamente collegate. Il Vaticano si è sporcato le mani, e con le mani anche la coscienza, perché fa troppa politica nel senso più ampio e meno nobile del termine: si dedica a questioni che nulla hanno a che vedere con l’annuncio del Vangelo.
Come si può ben vedere dalla carte pubblicate nel libro del giornalista Nuzzi, i vertici della curia romana trascorrono gran parte del loro tempo immersi in problemi del tutto estranei al mandato che Gesù ha affidato a Pietro e ai suoi. Si parla di tutto, soprattutto di soldi, meno che del Vangelo. Qualcuno dice: ma è così in tutti i centri di potere e non si vede perché solo la curia romana debba essere attaccata per questo.
È un ragionamento che non regge. Perché la curia romana, anche se lo è da secoli, non deve essere un centro di potere. Al di là del nodo più immediato, come la successione al cardinale Bertone o allo stesso pontefice, la questione ha una portata ben più ampia. Si tratta di decidere cosa dev’essere la Santa Sede (e definirla “santa” oggi più che mai provoca un amaro sorriso) e cosa dev’essere quella struttura al suo servizio che è lo stato della Città del Vaticano.
La linea dei corvi, o per lo meno dei più lungimiranti fra loro, è chiara: Santa sede e Città del Vaticano hanno bisogno di una radicale cura dimagrante all’insegna della sobrietà e dell’essenzialità. Meno uffici e meno strutture vuol dire meno tentazioni e meno occasioni di compromissione con gli affari economici e il potere politico. Il papa è un sovrano assoluto e può tutto. Potrebbe denunciare tutto ciò che vede e sa, ma è anche un pastore e ha il dovere di tenere unito il gregge. Il suo timore è che lo scandalo sarebbe troppo grande e che il gregge potrebbe subirne conseguenze devastanti. I corvi pensano invece che non ci sia più spazio per attese e compromessi: occorre una radicale operazione di pulizia e di trasparenza, e si deve incominciare dalla segreteria di Stato, ganglio vitale di tutta la macchina.
Le domande sono di portata radicale. Perché il papa deve essere capo di stato? Perché il Vaticano deve avere una banca? Perché il successore del pescatore Pietro deve essere al centro di un sistema di potere? In Vaticano sono ore drammatiche. Mentre il povero Paoletto è in carcere, pesce piccolo catturato senza troppe difficoltà, diversi schieramenti si affrontano e si osservano. Perché anche tra i corvi non tutti sono puri di cuore e c’è chi vuole utilizzare la situazione per altre trame di potere. Finora la Santa sede sta reagendo nel modo più sbagliato. Con i gendarmi e il silenzio.
Lo si è visto domenica in piazza San Pietro. Quando è arrivata la marcia per Emanuela Orlandi, persone insospettabili si aggiravano per osservare e fotografare. Come se i partecipanti alla manifestazione fossero malfattori da schedare. E il papa, che avrebbe potuto dire una parola come padre su una sua giovane cittadina scomparsa nel nulla e una famiglia distrutta dal dolore, è rimasto zitto nel giorno dedicato allo Spirito santo. Quando dalla folla si è levato qualche fischio e qualcuno ha gridato “vergogna” abbiamo misurato l’intensità del dramma in corso.
In Vaticano non hanno ancora capito che nell’era dell’informazione non possono continuare ad agire in base all’ideologia del segreto e dell’opportunità. La credibilità sta venendo meno, ed è questo il bene più importante che la curia dovrebbe coltivare. I corvi saranno utilizzati, lo stiamo già vedendo, anche da chi vuole il male e non il bene della Chiesa. Questo è forse il pericolo più grande. Ecco perché la curia è folle se pensa di poter continuare a reagire utilizzando da un lato i gendarmi e dall’altro il segreto. Non è bastata la lezione della pedofilia? Non si è visto che il discredito aumenta a dismisura se non si è primi a denunciare e a sollevare il velo dell’ipocrisia?
Bianchi e Cacciari rilanciano la sfida evangelica: ama il prossimo tuo
di Giuseppe Cantarano (l’Unità, 17.05.2012)
MA PERCHÉ DOVREMMO AMARE IL NOSTRO PROSSIMO? NON HA FORSE CESSATO DI ESISTERE - COME CI HA SPIEGATO LO PSICANALISTA LUIGI ZOJA ( LA MORTE DEL PROSSIMO, EINAUDI, PP. 128, EURO 10,00 ) dopo la novecentesca «morte di Dio»? E poi, chi mai sarebbe il prossimo che dovremmo amare? Nostro fratello? L’Abele di cui Caino si rifiutò di essere il custode? Oppure lo straniero? Quello che si presenta con il volto scavato del povero? O con i vestiti sudici del migrante che ci chiede ospitalità?
Il priore di Bose, Enzo Bianchi, e Massimo Cacciari hanno provato a rispondere a questi interrogativi. Commentando il mandatum novum ( Ama il prossimo tuo, il Mulino, pagine 141, euro 12,00 ). Che recita: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e tutta la tua anima e tutte le tue forze e tutta la tua mente, e amerai il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10,27 ). Un comandamento la cui effettiva applicabilità risulta da sempre molto difficile.
Ebbene, il prossimo che dovremmo amare - ci ricordano Bianchi e Cacciari - non è solo colui che ci sta vicino. Il nostro fratello, l’amico. Ma l’altro, chi è lontano, lo straniero. È questo l’inaudito insegnamento evangelico. Ma c’è di più. Perché le «scandalose» parole di Gesù non ci invitano soltanto ad amare chi ci è vicino e lo straniero. Ma addirittura chi ci è ostile. Cioè il nostro nemico: «Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni» (Mt 5,44 ).
LA PARABOLA DEL SAMARITANO
Nel prossimo, insomma, dobbiamo sempre vedere anche il nemico. Non solo perché l’inimicizia abita dentro ciascuno di noi. Ma perché ciascuno di noi pur nella comune Paternità celeste è inassimilabile all’altro. Come nella parabola del samaritano. Che soccorre l’uomo che trova mezzo morto ai bordi della strada. Facendosi lui stesso prossimo a quel sofferente. Ma poi se ne va. Torna sui suoi passi. Procede verso la sua strada.
Enzo Bianchi e Massimo Cacciari proponendoci questa forma di prossimità che deve mantenersi sempre straniera ci rilanciano la «rivoluzionaria» sfida evangelica. La sola in grado di liberarci da ogni egoistico possesso. Anche dal possesso più geloso, quello della nostra psyché. Per diventare - come San Francesco - davvero poveri. Poiché la povertà francescana - l’Altissima pauperitas - non è soltanto svuotarsi di qualche bene materiale. Il vero povero - scrive Cacciari ( Doppio ritratto. San Francesco in Dante e Giotto, Adelphi, pp. 86, euro 7,00 ) non si svuota solo per accogliere il Signore. Ma per accogliere l’altro, in tutti i suoi volti: «Farsi poveri significa liberarsi per poter perfettamente amare».
AMA IL PROSSIMO TUO, Enzo Bianchi e Massimo Cacciari pagine 141 euro 12,00 Il Mulino
Il Santo Padre nomina fr. Enzo Bianchi come esperto al Sinodo dei Vescovi *
Il Santo Padre Papa Benedetto XVI ha nominato quale esperto al Sinodo dei Vescovi su La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana (ottobre 2012) il priore fr. Enzo Bianchi. Il Papa Benedetto XVI aveva già nominato il priore quale esperto al Sinodo dei Vescovi su La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa (ottobre 2008).
Il priore e la comunità ringraziano il Papa per questo suo gesto di fiducia e di affetto.
* http://www.monasterodibose.it/content/view/4619/135/lang,it/
CL, cerchio magico intorno a papa Ratzinger
Nonostante scandali e “amici” arrestati l’organizzazione domina in Vaticano
di Marco Lillo (il Fatto, 05.05.2012)
Dopo 30 anni di assenza, un pontefice torna al Meeting di Cl a Rimini. Papa Ratzinger terrà un discorso alla grande kermesse di Comunione e Liberazione che quest’anno avrà come tema il rapporto tra l’uomo e l’infinito. Non è solo una voce ma un impegno preso nero su bianco da Benedetto XVI e dal segretario di Stato Tarcisio Bertone in un carteggio inedito che pubblichiamo. In un giorno d’estate compreso tra il 19 e il 25 agosto nei padiglioni della fiera il pontefice tedesco abbraccerà decine di migliaia di seguaci e simpatizzanti del movimento fondato da don Luigi Giussani nel 1954 e guidato dopo la morte del “Don” nel 2005 da don Julian Carron.
L’ULTIMO PAPA a partecipare al meeting è stato Giovanni Paolo II nel 1982. E proprio alla ricorrenza del trentennale si richiama la presidente del Meeting, Emilia Guarnieri, per chiedere a Benedetto XVI di tornare. La professoressa Guarnieri scrive il 23 novembre 2011 al segretario di Stato Tarcisio Bertone: “Il 1982 fu l’anno della storica visita al meeting del Beato Giovanni Paolo II. Il medesimo anno vide anche il riconoscimento pontificio della Fraternità di Comunione e Liberazione. Il2012pertantorappresenta per noi un duplice e significativo trentennale ed un contesto estremamente suggestivo per accogliere il Santo Padre”. La professoressa, nella sua lettera a Bertone ricordava un incontro del 19 giugno a San Marino, nel quale il Papa le disse: “È molto tempo che non ci vediamo! Lei lavora ancora per il Meeting? ” in memoria delle antiche partecipazioni dei primi anni novanta dell’allora cardinale Joseph Ratzinger alla kermesse. E la lettera si concludeva con una preghiera a Bertone: “Affido alla Sua paternità e alla Sua benevolenza questo invito”.
Il segretario di Stato non si è risparmiato e nel volgere di due settimane ha ottenuto il sì del Pontefice. Il 9 dicembre del 2011 Tarcisio Bertone scrive al segretario del Papa don Georg Ganswein perché annoti l’impegno: “Con la presente Ti informo che nell’Udienza a me concessa il 5 dicembre 2011, il Santo Padre ha preso visione della lettera del 23 novembre 2011 della professoressa Emilia Guarnieri, Presidente del Meeting di Rimini. Considerando i due anniversari che cadono nel 2012, il Santo Padre ha espresso il suo favore per una breve visita e un suo intervento al Meeting di Rimini in data da stabilire”.
In fondo però quella che si sta preparando da mesi è solo la consacrazione di un legame che sempre di più sta diventando un elemento caratterizzante di questo e forse persino del prossimo pontificato, se troveranno conferma le voci dell’investitura dell’arcivescovo di Milano di provenienza ciellina, Angelo Scola. Proprio il Fatto ha pubblicato nel febbraio scorso un documento anonimo nel quale si annunciava la fine del papato di Ratzinger entro novembre 2012. Un annuncio di morte reinterpretato da alcuni osservatori come una previsione certa di “dimissioni” del Papa per far posto al suo successore preferito, cioè proprio Angelo Scola.
UNA SOLUZIONE “anomala” ma possibile, secondo l’interpretazione dottrinaria che lo stesso Ratzinger avrebbe avallato in un’intervista. Vera o falsa che fosse, la profezia della staffetta tra Ratzinger e Scola ha portato allo scoperto il peso crescente di Cl negli equilibri vaticani. Non è un mistero che siano cielline le quattro signore cinquantenni che dormono nell’appartamento papale e sono ammesse a pranzare e cenare con il Pontefice tanto da formare la cosiddetta famiglia papale. Per l’esattezza sono aderenti ai Memores Domini, associazione laicale i cui membri vivono i consigli evangelici di povertà, castità perfetta e obbedienza sotto l’egida di Comunione e Liberazione. Anche l’arcivescovo di Milano Angelo Scola condivide la quotidianità con alcune signore aderenti ai Memores.
Il legame tra Cl e Scola è molto stretto. Il Fatto ha rintracciato una lettera del marzo 2011 al Nunzio Apostolico in Italia Giuseppe Bertello dal leader di Cl don Julian Carron. In questa lettera Carron suggerisce di nominare Scola anche per la sua sensibilità all’area politica di centrodestra. “Rispondo alla Sua richiesta permettendomi di offrirle”, scrive Carron “in tutta franchezza e confidenza”, ben consapevole della responsabilità che mi assumo di fronte a Dio e al Santo Padre, alcune considerazioni sullo stato della Chiesa ambrosiana”. La diagnosi del leader di Cl è spietata: “Il primo dato di rilievo è la crisi profonda della fede del popolo di Dio... perdura la grave crisi delle vocazioni... la presenza dei movimenti è tollerata, ma essi vengono sempre considerati più come un problema che come una risorsa”.
Poi Carron arriva al dunque: “dal punto di vista poi della presenza civile della Chiesa non si può non rilevare una certa unilateralità di interventi sulla giustizia sociale, a scapito di altri temi fondamentali della Dottrina sociale, e un certo sottile ma sistematico ‘neocollateralismo’, soprattutto della Curia, verso una sola parte politica (il centrosinistra) trascurando, se non avversando, i tentativi di cattolici impegnati in politica, anche con altissime responsabilità nel governo locale, in altri schieramenti”. Il nome di Formigoni non c’è ma chiunque intravede dietro queste righe la figura del governatore. “Questa unilateralità di fatto... finisce per rendere poco incisivo il contributo educativo della Chiesa al bene comune, all’unità del popolo e alla convivenza pacifica”.
Per tutte queste ragioni, conclude Carron: “l’unica candidatura che mi sento in coscienza di presentare all’attenzione del Santo Padre è quella dell’attuale Patriarca di Venezia, Card. Angelo Scola. Tengo a precisare che con questa indicazione non intendo privilegiare il legame di amicizia e la vicinanza del Patriarca al movimento di Comunione e Liberazione, ma sottolineare il profilo di una personalità di grande prestigio e esperienza... ”.
L’arcivescovo di Milano, con la raccomandazione di Cl, oggi è dato per favorito a prendere il posto di Benedetto XVI. È questo il paradosso di Cl: proprio nell’anno della sua massima potenza e della annunciata benedizione del Papa con la sua visita al Meeting, esplodono gli scandali e le indagini della magistratura.
Dopo gli arresti di due ciellini amici di Formigoni come Antonio Simone e Pierangelo Daccò e la pubblicazione delle fotografie dei resort a cinque stelle dove il presidente della Lombardia è stato in vacanza persino don Julian Carron ha scritto a Repubblica: “Sono stato invaso da un dolore indicibile dal vedere cosa abbiamo fatto della grazia che abbiamo ricevuto. Se il movimento di Comunione e Liberazione è continuamente identificato con l’attrattiva del potere, dei soldi, di stili di vita che nulla hanno a che vedere con quello che abbiamo incontrato, qualche pretesto dobbiamo aver dato”. Una lettera che finora non ha fatto cambiare idea sul suo viaggio a Rimini a Benedetto XVI.
Se la feroce religione del denaro divora il futuro
di Giorgio Agamben (la Repubblica, 16.02.2012)
Per capire che cosa significa la parola "futuro", bisogna prima capire che cosa significa un’altra parola, che non siamo più abituati a usare se non nella sfera religiosa: la parola "fede". Senza fede o fiducia, non è possibile futuro, c’è futuro solo se possiamo sperare o credere in qualcosa.
Già, ma che cos’è la fede? David Flüsser, un grande studioso di scienza delle religioni - esiste anche una disciplina con questo strano nome - stava appunto lavorando sulla parola pistis, che è il termine greco che Gesù e gli apostoli usavano per "fede". Quel giorno si trovava per caso in una piazza di Atene e a un certo punto, alzando gli occhi, vide scritto a caratteri cubitali davanti a sé Trapeza tes pisteos. Stupefatto per la coincidenza, guardò meglio e dopo pochi secondi si rese conto di trovarsi semplicemente davanti a una banca: trapeza tes pisteos significa in greco "banco di credito".
Ecco qual era il senso della parola pistis, che stava cercando da mesi di capire: pistis, " fede" è semplicemente il credito di cui godiamo presso Dio e di cui la parola di Dio gode presso di noi, dal momento che le crediamo. Per questi Paolo può dire in una famosa definizione che "la fede è sostanza di cose sperate": essa è ciò che dà realtà a ciò che non esiste ancora, ma in cui crediamo e abbiamo fiducia, in cui abbiamo messo in gioco il nostro credito e la nostra parola. Qualcosa come un futuro esiste nella misura in cui la nostra fede riesce a dare sostanza, cioè realtà alle nostre speranze.
Ma la nostra, si sa, è un’epoca di scarsa fede o, come diceva Nicola Chiaromonte, di malafede, cioè di fede mantenuta a forza e senza convinzione. Quindi un’epoca senza futuro e senza speranze - o di futuri vuoti e di false speranze. Ma, in quest’epoca troppo vecchia per credere veramente in qualcosa e troppo furba per essere veramente disperata, che ne è del nostro credito, che ne è del nostro futuro?
Perché, a ben guardare, c’è ancora una sfera che gira tutta intorno al perno del credito, una sfera in cui è andata a finire tutta la nostra pistis, tutta la nostra fede. Questa sfera è il denaro e la banca - la trapeza tes pisteos - è il suo tempio. Il denaro non è che un credito e su molte banconote (sulla sterlina, sul dollaro, anche se non - chissà perché, forse questo avrebbe dovuto insospettirci - sull’euro), c’è ancora scritto che la banca centrale promette di garantire in qualche modo quel credito.
La cosiddetta "crisi" che stiamo attraversando - ma ciò che si chiama "crisi", questo è ormai chiaro, non è che il modo normale in cui funziona il capitalismo del nostro tempo - è cominciata con una serie sconsiderata di operazioni sul credito, su crediti che venivano scontati e rivenduti decine di volte prima di poter essere realizzati. Ciò significa, in altre parole, che il capitalismo finanziario - e le banche che ne sono l’organo principale - funziona giocando sul credito - cioè sulla fede - degli uomini.
Ma ciò significa, anche, che l’ipotesi di Walter Benjamin, secondo la quale il capitalismo è, in verità, una religione e la più feroce e implacabile che sia mai esistita, perché non conosce redenzione né tregua, va presa alla lettera. La Banca - coi suoi grigi funzionari ed esperti - ha preso il posto della Chiesa e dei suoi preti e, governando il credito, manipola e gestisce la fede - la scarsa, incerta fiducia - che il nostro tempo ha ancora in se stesso. E lo fa nel modo più irresponsabile e privo di scrupoli, cercando di lucrare denaro dalla fiducia e dalle speranze degli esseri umani, stabilendo il credito di cui ciascuno può godere e il prezzo che deve pagare per esso (persino il credito degli Stati, che hanno docilmente abdicato alla loro sovranità).
In questo modo, governando il credito, governa non solo il mondo, ma anche il futuro degli uomini, un futuro che la crisi fa sempre più corto e a scadenza. E se oggi la politica non sembra più possibile, ciò è perché il potere finanziario ha di fatto sequestrato tutta la fede e tutto il futuro, tutto il tempo e tutte le attese.
Finché dura questa situazione, finché la nostra società che si crede laica resterà asservita alla più oscura e irrazionale delle religioni, sarà bene che ciascuno si riprenda il suo credito e il suo futuro dalle mani di questi tetri, screditati pseudosacerdoti, banchieri, professori e funzionari delle varie agenzie di rating.
E forse la prima cosa da fare è di smettere di guardare soltanto al futuro, come essi esortano a fare, per rivolgere invece lo sguardo al passato. Soltanto comprendendo che cosa è avvenuto e soprattutto cercando di capire come è potuto avvenire sarà possibile, forse, ritrovare la propria libertà. L’archeologia - non la futurologia - è la sola via di accesso al presente.
È ora di liberare la Chiesa dal viscido dominio del clericalismo
di Kevin Hegarty*
in “www.irishtimes.com” del 10 aprile 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
I cattolici liberal sono giunti alle loro opinioni circa l’insegnamento della chiesa sulla contraccezione, sui preti sposati, sulle donne prete, e sull’omosessualità come risultato di una onesta e seria riflessione.
Il pittore Tony O’Malley era solito creare un’opera d’arte ogni Venerdì santo. Quando è giunta la notizia, durante la Settimana santa, della censura del Vaticano nei confronti di Fr. Tony Flannery e della rivista dei Redentoristi “Reality”, ho desiderato poter dipingere un quadro che esprimesse la mia tristezza.
Il discorso di papa Benedetto nella messa del Giovedì santo a Roma hanno portato al massimo la mia depressione. In risposta ad un appello alla disobbedienza di preti e laici austriaci sul celibato e sulle donne prete, ha asserito che essi sfidavano “precise decisioni del magistero della chiesa”.
I capi della Chiesa spesso parlano del diritto di libertà di espressione, molto recentemente lo ha fatto lo stesso papa nella sua visita a Cuba. Le recenti mosse vaticane hanno l’intento di creare un clima di paura tra il clero più aperto. Per riprendere un commento espresso alcuni anni fa dallo scrittore inglese AN Wilson, la Congregazione per la dottrina della fede ha “i mezzi per obbligarti a non parlare”.
Conosco molto bene Tony Flannery. Ha donato 40 anni di sincero servizio come prete, soprattutto come predicatore di missioni in tutta l’Irlanda. È un oratore che trascina e suscita empatia e un liturgista innovatore. I suoi articoli su “Reality”, basati sul suo impegno per gli ideali del Concilio Vaticano II e la sua vasta conoscenza della Chiesa irlandese erano spesso scritti per far pensare. È uno dei fondatori della “Association of Catholic Priests”, istituita nel settembre 2010, e fa parte del gruppo dirigente. L’associazione si è dotata di un forum per il dibattito ed una voce indipendente per i preti irlandesi.
Tra le sue conquiste c’è il suo intervento nel caso di Fr. Kevin Reynolds, che fu gravemente diffamato nel maggio scorso nel programma Prime Time Investigates.
Mi aspetto che Fr. Reynolds ammetta che senza questo aiuto starebbe ancora languendo in un limbo dal quale non avrebbe mai potuto emergere.
Forse non sorprende che il Vaticano abbia fatto la mossa di censurare Fr. Flannery. Il Concilio Vaticano II prometteva una Chiesa aperta e dialogica, desiderosa di impegnarsi con il mondo secolare. Dal 1980 a Roma c’è stato un ritiro dalle sue riforme.
Papa Benedetto ha un’opinione negativa dello spirito del Concilio. L’anno scorso ha mandato un gruppo di visitatori apostolici per esaminare la Chiesa irlandese sulla scia dello scandalo degli abusi sessuali. Nel riassunto del loro rapporto pubblicato recentemente, i visitatori danno una sferzata ai cattolici aperti. Hanno scritto che un numero significativo di cattolici irlandesi aveva opinioni in contrasto con “l’insegnamento del magistero”.
Dovrebbero essere loro assegnati pieni voti per il loro potere di osservazione. I molti cattolici liberal in Irlanda sperano in una Chiesa che sia aperta a preti sposati e donne, ad un ripensamento sul problema della contraccezione rispetto a quanto si esorta nella Humanae Vitae, e ad un capovolgimento dell’assoluta mancanza di sensibilità dell’insegnamento sull’omosessualità.
Siamo giunti a queste posizioni come risultato di una onesta e seria riflessione. Non cerchiamo il cambiamento per il gusto del cambiamento. Crediamo che queste riforme aiuterebbero a far emergere una Chiesa più umana, attenta e stimolante, una Chiesa liberata dal viscido dominio del clericalismo.
E queste opinioni sostenute sinceramente non sono affatto in contrasto con la dottrina fondamentale della Chiesa, come hanno sostenuto i visitatori nel loro rapporto. Questa dottrina parla, ad esempio, dell’umanità e della divinità di Cristo, della resurrezione e dei sacramenti.
Non conosco alcun prete in Irlanda che pubblicamente dissenta da questi elementi di fede.C’è la tendenza di commentatori conservatori ad affermare che i preti più aperti siano una minoranza di vecchi scontenti che hanno trasformato le loro interpretazioni errate del Concilio Vaticano II in una specie di santo decreto.
Per loro noi siamo dei naufraghi che tengono sfrontatamente in alto le sbrindellate bandiere degli anni 60. Non ne saranno contenti, ma devo disilluderli.
L’evidenza aneddotica, unita ai risultati di un gran numero di indagini fatte da professionisti, indicano che la maggioranza dei cattolici irlandesi sostiene cambiamenti radicali nel ministero e nell’insegnamento morale della Chiesa.
Per parafrasare Gerry Adams in un contesto differente, non stiamo andando via. Il Vaticano è stato una “casa fredda” per i cattolici aperti negli anni recenti. Il minimo che ci aspettiamo è il rispetto per la nostra libertà di parola e di coscienza.
Una riforma della Chiesa che escluda questi diritti è una forma di repressione. Sembra che Papa Benedetto pensi che “una minoranza creativa” di cattolici conservatori trasformi la Chiesa in Europa. A me questo sembra un garbato eufemismo per un’assemblea di sosia di Rick Santorum.
*Fr. Kevin Hegarty è un prete della parrocchia di Kilmore-Erris a Co Mayo, e giornalista di Mayo News.
UOMINI E DONNE, PROFETI E SIBILLE, OGGI: STORIA DELLE IDEE E DELLE IMMAGINI. A CONTURSI TERME (SALERNO), IN EREDITA’, L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE .....
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE. Sul tema, la prefazione di Fulvio Papi e parte della premessa del lavoro di Federico La Sala
Donne e ministeri da segno dei tempi a indice di autenticità
di Lilia Sebastiani
in “Viandanti” (www.viandanti.org) del 10 marzo 2012
Nell’enciclica ‘conciliare’ Pacem in terris di Giovanni XXIII (1963) al n.22 l’ingresso crescente delle donne nella vita pubblica veniva annoverato tra i segni dei tempi, insieme alla crescita delle classi lavoratrici (n.21) e alla fine del colonialismo (n.23).
Ricordare l’enciclica è doveroso, per il valore storico di questo semplice e cauto riconoscimento: infatti è la prima volta che un documento magisteriale rileva la cosiddetta promozione della donna senza deplorarla - anzi come un fatto positivo. I segni dei tempi sono ancora al centro della nostra attenzione, ma per quanto riguarda le donne la questione cruciale e non ignorabile è ormai quella del loro accesso al ministero nella Chiesa, a tutti i ministeri.
Venerande esclusioni
Certo il problema dei ministeri non è l’unico connesso con lo status della donna nella Chiesa, ma senza dubbio è fondamentale; guardando al futuro, è decisivo. Non solo e non tanto in se stesso, ma per la sua natura di segno.
In questo momento nella Chiesa la donna è ancora esclusa dai ministeri ecclesialmente riconosciuti: non solo da quelli ordinati (l’Ordine sacro, cioè, nei suoi tre gradi: episcopato, presbiterato, diaconato) ma anche da quelli istituiti, il lettorato e l’accolitato. Questi ultimi, chiamati un tempo “ordini minori” e considerati solo tappe di passaggio obbligatorie per accedere all’ordinazione, furono reintrodotti nel 1972 da Paolo VI (Ministeria quaedam) come “ministeri istituiti” - per distinguerli da quelli ordinati, mantenendo però l’elemento della stabilità e del riconoscimento ecclesiale - e furono aperti anche a laici non incamminati verso l’Ordine; tuttavia si specificava chiaramente che tali ministeri erano riservati agli uomini, “secondo la veneranda tradizione della chiesa latina”.
Un po’ più recente l’istituzione dei “ministri straordinari dell’Eucaristia”: con prerogative non molto diverse da quelle degli accoliti, questi possono essere anche donne. E di fatto sono più spesso donne che uomini. Un passo avanti, forse? Certo però la dichiarata ‘straordinarietà’ sembra messa lì a ricordare che si tratta di un’eccezione, di una supplenza..., di qualcosa che normalmente non dovrebbe esserci.
A parte i servizi non liturgici ma fondamentali, come la catechesi dei fanciulli, quasi interamente femminile, e le varie attività organizzative e caritative della parrocchia, le letture nella Messa vengono proclamate più spesso da donne che da uomini; ma si tratta sempre e comunque di un ministero di fatto, che in teoria sarebbe da autorizzare caso per caso, anche se poi, di solito, l’autorizzazione viene presunta.
Il Concilio e l’incompiuta apertura
Il problema dell’accesso femminile ai ministeri è diventato di attualità nella Chiesa nell’immediato post-concilio, nel fervore di dibattito che caratterizzò quell’epoca feconda e rimpianta della storia della Chiesa. Il Vaticano II aveva mostrato una notevole apertura sulle questioni che maggiormente sembravano concernere il problema della donna in generale e della donna nella Chiesa in particolare. Sulle questioni più specifiche e sul problema dei ministeri i documenti conciliari erano generici fino alla reticenza, ma senza chiusure di principio. Ciò autorizzava a sperare nel superamento, non proprio immediato ma neppure troppo lontano, di certe innegabili contraddizioni che persistevano sul piano disciplinare. Inoltre altre chiese cristiane avevano cominciato da qualche anno, certo non senza resistenze anche aspre, a riconsiderare e a superare gradualmente il problema dell’esclusione (a nostra conoscenza, la chiesa luterana svedese fu la prima ad ammettere donne al pastorato, nel 1958).
Una chiusura fragile
Nel decennio che seguì il Concilio, il dibattito in proposito fu intenso. La Chiesa ufficiale mantenne però una posizione di cautela e di sostanziale chiusura sempre più netta, che culminò - volendo chiudere la questione una volta per sempre - nella dichiarazione vaticana Inter insigniores, che è della fine del 1976, ma resa pubblica nel 1977.
In questo documento l’esclusione delle donne dal ministero ordinato veniva ribadita con caratteri di definitività vagamente ‘infallibilista’, ma anche con un significativo mutamento di argomentazione, che ci sembra importante poiché dimostra che l’esclusione è un fatto storico-sociologico in divenire e non un fatto teologico-sacramentale. Non si dice più, come affermava Tommaso d’Aquino, che la donna è per natura inferiore all’uomo e quindi esclusa per volere divino da ogni funzione implicante autorità; si richiama invece l’ininterrotta tradizione della Chiesa (che è evidente, ma è anche evidentissimo portato della storia e delle culture) e soprattutto la maschilità dell’uomo Gesù di Nazaret, da cui deriverebbe la congruenza simbolica della maschilità del prete che, presiedendo l’assemblea, agisce in persona Christi.
Quest’ultimo argomento fragile e sconveniente è stato lasciato cadere, infatti, nei pronunciamenti successivi: questi si rifanno solo alla tradizione della Chiesa e a quella che viene indicata come l’esplicita volontà di Gesù manifestata dalla sua prassi.
Anche questo argomento non funziona. Gesù, che non mostra alcun interesse di tipo ‘istituzionale’, alle donne accorda, con naturalezza, una piena parità nel gruppo dei suoi seguaci. Sembra insieme scorretto e pleonastico dire che “non ha ordinato nessuna donna”, dal momento che, semplicemente, non ha ordinato nessuno. Non vi è sacerdozio nella sua comunità, ma servizio e testimonianza, diakonìa non formalizzata - eppure rispondente a una chiamata precisa - che, prima di essere attività, è opzione fondamentale, stile di vita, sull’esempio di Gesù stesso “venuto per servire”.
Nel Nuovo Testamento di sacerdozio si può parlare solo in riferimento al sacerdozio universale dei fedeli (cfr 1 Pt 2,9; Ap 1,6), negli ultimi decenni tanto rispettato a parole quanto sfuggente e ininfluente nel concreto del vissuto ecclesiale; oppure in riferimento all’unico sacerdote della Nuova Alleanza - sacerdote nel senso di mediatore fra Dio e gli esseri umani -, Gesù di Nazaret (cfr Ebr 9), il quale nella società religiosa era un laico, oltretutto in rapporti abbastanza conflittuali con il sacerdozio del suo tempo.
Un’esclusione che interpella tutti
Vi sono due fatti, molto modesti ma significativi, che aiutano a tenere viva la speranza. Il primo, che i pronunciamenti dell’autorità ecclesiastica volti a chiudere ‘definitivamente’ la questione sono diventati abbastanza ricorrenti, il che dimostra che non è poi tanto facile chiuderla. Il dibattito è aperto e procede. Il secondo, che l’argomentazione teologica sembra cambiata ancora: felicemente sepolto l’infelicissimo argomento della coerenza simbolica, già pilastro dell’Inter insigniores, si richiama solo la prassi ininterrotta della chiesa romana e sempre più spesso si sente riconoscere, anche dalle voci più autorevoli, che contro l’ordinazione delle donne non ci si può appellare a ragioni biblico-teologiche.
No, non si tratta di banali rivendicazioni. L’esclusione interpella tutti: nessuna/nessun credente adulto può disinteressarsi di questo problema chiave finché le donne nella chiesa non avranno di fatto le stesse possibilità degli uomini, la stessa dignità di rappresentanza.
E’ necessario ricordare che vi sono donne cattoliche di alto valore e seriamente impegnate - tra loro anche alcune teologhe - che a una domanda precisa sul problema dei ministeri istituiti rispondono o risponderebbero più o meno così: no grazie, il sacerdozio così com’è proprio non ci interessa. E’ un atteggiamento che merita rispetto: almeno in quanto manifesta il timore che insistere troppo sul tema dell’ordinazione induca ad accentuare l’importanza dei ministri ordinati nella Chiesa (mentre sarebbe urgente semmai ridurre quell’importanza, insomma ‘declericalizzare’).
Ma dobbiamo ricordare che il “sacerdozio così com’è”, nella storia e nella mentalità corrente, si fonda proprio sulla ‘separazione’, sullo spirito di casta, sul sospetto previo e sul rifiuto nei confronti della donna, che nella chiesa di Roma si esprime in una doppia modalità: l’esclusione delle donne dalle funzioni di culto, di governo e di magistero, è parallela all’obbligo istituzionale di essere “senza donna” per coloro che le esercitano. Il divieto per le donne di essere ministri ordinati el’obbligo per i ministri ordinati di restare celibi sembrano due problemi ben distinti, mentre sono congiunti alla radice. E ormai sappiamo che potranno giungere a soluzione solo insieme.
Segno dei tempi, certo. Segno di trasformazione, segno contraddittorio, segno incompleto, proprio come il tempo in cui viviamo. Per quanto riguarda la chiesa cattolica, però, non solo segno, ma indice di autenticità. Non temiamo di dire che sulla questione dei ministeri, che solo a uno sguardo superficiale o ideologico può apparire circoscritta, si gioca il futuro della chiesa.
Lilia Sebastiani
Teologa
La Chiesa ripensi se stessa
di Mauro Pizzighini
in “Settimana” (Attualità pastorale) n. 11 del 18 marzo 2012
«Abbiamo sempre pensato che questo fosse vero; abbiamo sempre pensato che la nostra condizione di donne e di uomini credenti ci rendesse concittadini nella storia di tutti e familiari con il mistero. Abbiamo sempre pensato che la nostra fede ci facesse responsabili nei confronti della vita di ogni creatura e dei difficili parti storici, sociali, economici, culturali e spirituali che la comunità umana vive da sempre. Abbiamo sempre pensato anche che, proprio perché siamo familiari di Dio, non siamo esenti dal vivere sulla nostra pelle le fatiche che ogni popolo fa per poter essere popolo degno e libero. Ma oramai da molto tempo ci sembra che questo non sia tanto vero, e soprattutto, con tristezza diciamo che forse nessuno ci chiede ed esige questa familiarità con il mistero e questa solidarietà con la storia. La struttura ecclesiale infatti sembra più preoccupata a guidarci che a farci partecipare e soprattutto a farci crescere».
Questa affermazione provocatoria è contenuta nella lettera "aperta", pubblicata su Adista e rivolta alla Chiesa italiana, scaturita dopo l’incontro tra alcuni teologi e teologhe che si è tenuto svolto nella comunità delle Piagge di Firenze, lo scorso 20 gennaio.
ripensare le strutture ecclesiali
Il testo della missiva parte e si fonda sul versetto della Lettera agli Efesini (2,19): «Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio» La lettera è sottoscritta da sette persone: la teologa domenicana Antonietta Potente, Benito Fusco, frate dei Servi di Maria, e i sacerdoti Alessandro Santoro, Pasquale Gentili, Pier Luigi Piazza, Paolo Tofani, Andrea Bigalli. Essi espongono alla Chiesa italiana, con la passione forte che li caratterizza, il loro stato d’inquietudine, i desideri e le aspettative. Con una nota di amarezza: «Ci sentiamo trattati come persone immature, come se non fossimo responsabili delle nostre comunità, ma solo destinatari chiamati ad obbedire a ciò che pochi decidono ed esprimono per noi».
Il gruppo dei sette accusa la Chiesa nel contesto culturale e sociale di oggi di essere «lontana da questa fatica quotidiana dell’umanità. E che, quando si fa presente, lo fa solo attraverso analisi, sentenze e a volte giudizi, che non ascoltano e non rispettano le ricerche e i tentativi che comunque la società fa per essere più autentica e giusta». Rincarano ancora di più la dose, quando fanno notare che «l’esempio che abbiamo dalla Chiesa ufficiale è, la maggior parte delle volte, quello di pretendere riconoscimenti e di difendere propri interessi, immischiandosi in politica solo per salvaguardare i propri privilegi».
I firmatari vorrebbero che «la Chiesa ripensasse le sue strutture di comunità, e soprattutto la propria struttura gerarchica e i suoi rapporti con la società» e che «si rifiutasse ogni privilegio economico», in modo tale che «l’economia delle strutture ecclesiali non fosse complice della finanza e delle banche che speculano con il denaro a scapito del sudore e del sangue di individui e intere comunità, praticando un indebito sfruttamento, non solo delle risorse umane, ma anche di quelle naturali». Domanda finale: «Perché ci viene chiesto di essere credenti che devono obbedire e difendere la verità e non ci dicono invece che la Verità è più grande di noi e per questo va ricercata costantemente, ovunque e con tutti?».
un nuovo “credo” ecclesiale?
Questa lettera richiama quella che, sempre alla Chiesa italiana, avevano inviato alcuni preti del Triveneto, in occasione del Natale 2011 in forma di "Credo", nella quale si invocavano "cambiamenti radicali" all’interno della stessa Chiesa: dal celibato facoltativo al ministero ordinato per le donne, dalla povertà della Chiesa alla prassi democratica del confronto, dalla revisione dell’insegnamento della religione a scuola a un’opzione etica di fondo piuttosto che ai "valori non negoziabili". Al di là delle forme estreme contenute in queste richieste, non si possono ignorarealcune "sfide" che dal basso questi presbiteri lanciano alla gerarchia per una "riforma radicale" nella Chiesa.
Il punto di partenza dei preti firmatari rimane il Vangelo: quando la Chiesa «da esso si allontana al punto di smentirlo o tradirlo in maniera sistematica, diventa un’istituzione di potere fra le altre, con l’aggravante e la copertura di pretendere il suggello divino di custode della verità». In particolare, «quando la Chiesa riceve dal potere - economico, politico e militare - finanziamenti, vantaggi, privilegi e onori perde la forza profetica di denunciare con libertà la corruzione, l’illegalità, l’ingiustizia, l’immoralità, le guerre, il razzismo», con la drammatica conseguenza che «il potere si sente in questo modo legittimato, difeso, compiaciuto, incoraggiato e sostenuto».
Anche il rapporto tra magistero e teologia, secondo i firmatari, va "rivisitato". Se il magistero «svolge il servizio di custodire e annunciare la fede», la teologia deve favorire «l’approfondimento delle grandi questioni», approfondimento che diventa "significativo" solo «quando è libero nell’elaborazione e nella proposta». L’esempio "eloquente" è quello della teologia della liberazione: in questo contesto essi avvertono «con particolare urgenza la necessità di privilegiare la testimonianza e la coerenza rispetto all’ortodossia e alla disciplina: sempre e prima di tutto obbedienti al Vangelo». C’è la necessità di una maggiore "democrazia" nella Chiesa, la cui rinuncia «riduce e spesso vanifica la comunione». Il testo propone il "metodo del dialogo" soprattutto in riferimento ai «valori non negoziabili», ovvero «famiglia, matrimonio, concepimento, conclusione della vita». Se tali questioni non devono «mai diventare oggetto di trattativa ideologico-politica», occorre però riaffermare «l’opzione etica di fondo, che accoglie le sofferenze e le speranze di tutti, che si lascia provocare dalla complessità della vita, con il fine costante di contribuire all’accoglienza, al sostegno, all’incoraggiamento, alla serenità e al bene delle persone».
Oltre alla proposta "forte" che il ministero presbiterale «possa essere svolto con pari dignità da uomini celibi e sposati e da donne prete», i preti del Nord-Est auspicano la convocazione di un sinodo mondiale su tali questioni e incontri nelle comunità parrocchiali e nelle diocesi «per ricostruire una vera e propria teologia dell’affettività e della sessualità, esaminando serenamente alla luce del Vangelo, e con il contributo delle donne e degli uomini di scienza e di esperienza, le diverse situazioni e implicanze».
Infine, i firmatari auspicano che la Chiesa sia «povera, umile, sobria, essenziale, libera da ogni avidità riguardo al possesso dei beni», utilizzando «sempre con trasparenza il denaro, i beni, le strutture, rendendo conto pubblicamente di tutto». Essi si dicono convinti che la Chiesa si debba «aprire all’incontro, al dialogo, alla conoscenza, alla preghiera» e condividere «con uomini e donne di altre fedi religiose e con tutti gli uomini di buona volontà, la responsabilità per la giustizia, la pace, la salvaguardia del creato». Infine, chiedono una Chiesa «che può ispirare l’impegno politico, ma mai compromessa con il potere», tutelando la "laicità dello stato".
Due lettere "dal basso" che vengono da uomini e donne di Chiesa; "sogni" lanciati dentro un confronto ecclesiale da parte di persone che non sentono solo l’esigenza dell’annuncio del Vangelo. Modalità che in Italia è sostanzialmente marginale, ma che altrove (Germania, Austria, Belgio ecc...) ha assunto misure e consensi assai maggiori. Suggerimenti e riflessioni certo discutibili e radicali, finalizzati tuttavia a rendere la Chiesa più credibile.
“Ciascuno è la vera chiesa”
intervista ad Ermanno Olmi
a cura di Arianna Prevedello (“settimana” - attualità pastorale, 4 marzo 2012)
“Cinema, specchio della vita” è il titolo di una serie di iniziative della diocesi di Padova che, attraverso la "settima arte", mette a confronto registi, presbiteri e operatori pastorali su tematiche di forte attualità per la comunità ecclesiale. Ecco un estratto del primo incontro avvenuto il 13 febbraio. Successivamente alla proiezione de Il villaggio di cartone i presbiteri diocesani hanno intensamente dialogato con il regista Ermanno Olmi.
Maestro Olmi, lei è uno sposo da tanti anni, eppure con questo film ha saputo raccogliere il sentimento interiore di moltissimi sacerdoti. Dove ha trovato ispirazione?
Non si sa mai da che parte arrivi l’ispirazione. È come quel vento dello Spirito che non si sa da dove viene e dove vada. Pensate quando, alla fine di alcuni appuntamenti di tipo culturale, ci accorgiamo di aver ascoltato cose interessanti fuori dalla nostra aspettativa.
Quando Picasso disse «vorrei dipingere come i bambini», intendeva dire che i bambini non hanno la consapevolezza necessaria ad amministrare la loro potenzialità comunicativa. Sentono l’esigenza di comunicare senza preoccuparsi della forma. Dovremmo arrivare all’età della libertà, come per esempio la mia, attrezzati in questo senso e pretendendo di essere ascoltati con l’innocenza dei bambini. Quindi, l’ispirazione non sai da dove arriva. Arriva, e senti che lì ci sono domande che ti poni e tenti di dare alcune risposte, ma non è mai "la" risposta. Il modo di pronunciare una frase cambia il senso di ciò che vuoi comunicare. Pur essendo rigidamente confezionata in un testo, la frase cambia di significato a seconda di come tu cambi. Lo stesso Vangelo cambia a seconda di come noi cambiamo. Nel momento in cui non lo leggiamo più perché pensiamo di conoscerlo o di poterlo ripetere a memoria, quello è il momento del fallimento. È come se, amando una persona, dicessimo «adesso non ho più parole d’amore». Quando senti che non hai più parole, vuol dire che hai perduto quell’amore.
La religione si basa come intima convinzione su alcuni principi che abbiamo ascoltato, condiviso e che ora manteniamo vivi. È davvero così se ogni giorno, leggendo una frase di quella religione, sentiamo che quella frase cambia significato. Altrimenti è un fatto puramente amministrativo e, se fossi il Padre eterno, mi incavolerei, perché ha dato la possibilità di vivere la realtà come la più bella opportunità di scoperta delle grandi manifestazioni che abbiamo sotto gli occhi. Altrimenti le religioni rischiano di essere delle gabbie mortificanti.
Perché un film come il suo è scomparso subito dalle sale?
Il problema non è che questo film è scomparso dalle sale, ma che capita a questo film e a molti altri film più belli del mio, come il Faust, Leone d’Oro a Venezia, o Una separazione, Orso d’Oro a Berlino. In realtà, nell’ultima stagione ci sono state produzioni italiane che hanno incassato bene e che rispetto ma sono tutti film di genere "spensierato".
Le persone cercano rifugio in occasioni - e lo capisco - che non danno il tempo di soffermarsi sulla gravità di problemi che dovremo arrivare ad affrontare. Prima di tutto la chiesa! Nel vedere ogni giorno la realtà che abbiamo intorno, per alcune cose pensiamo di poter rispondere, per altre veniamo interrogati e non abbiamo risposte. Un’infinità di interrogativi irrisolti, e allora io chiamo il Maestro. Se tu, Cristo, fossi al mio posto, cosa faresti? Secondo voi, Cristo si preoccuperebbe del cattolicesimo o di quella religione del perdono per relazionarci agli altri, per renderci disponibili agli altri. Se io guardo il suo percorso, ogni giorno c’è sempre un insegnamento che mi riguarda.
Il cattolicesimo - come apparato - oggi è diventato forse troppo ingombrante. So che qualcuno non è d’accordo con me... e va bene. Non pretendo questo, ma mi domando qual è il cristianesimo di oggi. Tante volte dico ai cattolici: «ricordatevi che siete anche cristiani».
Qual è oggi il modello di Cristo? Cristo ha chiamato Pietro e gli ha detto «chi dici che io sia?». Chi diciamo che sia questo Cristo? Un orpello appeso ai punti apicali delle volte delle chiese? O è quell’altro chenon osa entrare in chiesa perché non ha i panni adatti?
La chiesa di questo film è chiesa quando si è svuotata dagli orpelli, quando qualcuno che non è cristiano ha bisogno di aiuto. Gli devo chiedere «sei cristiano? cattolico? Allora entra, se no stai fuori...». Cristo dice «Tu che sei Pietro, tu sei pietra». Tu! Ciascuno di noi è la vera chiesa. C’è qualcosa che mi fa dire in questo momento: «Cristiani svegliamoci! È il nostro momento». È il momento di presentarci agli altri dicendo all’altro «Ecco il volto di Cristo!».
Quando rincasiamo, possiamo dire alla sera: oggi ho visto Cristo? Oppure, ho visto il ragioniere, l’architetto, il neretto all’angolo della strada? Quale volto di Cristo abbiamo visto in ogni giorno della nostra vita?
Ecco perché non rispondo a chi si preoccupa se sono o meno cristiano, io non mi preoccupo se loro lo sono. Mi basta guardarti, sei una creatura di Dio. E poi, quando ci innamoriamo, è il massimo. E l’estasi dell’umanità. Anche quel prete nel film che guarda gli occhi di una fanciulla. E perché no? Quanti preti innamorati infelici! Io credo che l’innamoramento sia una chiamata, certo che poi dobbiamo comportarci di conseguenza. Rispetto all’innamoramento, c’è un passaggio difficile da accettare: quando il prete dice al Cristo della piccola Pietà «sei troppo lontano nel tempo perché io possa amarti come dovrei». Ma che cosa, allora, si riconosce di quel piccolo Cristo? Anche Cristo ha conosciuto la solitudine dell’ultimo istante. Dio, che è venuto e ha parlato a profeti e ad angeli, non ha parlato a Cristo nel silenzio dell’ultimo respiro. Come mai? Avrebbe - credo - intaccata la santa, la sacra eroicità della donazione. Dobbiamo accettare la solitudine dell’ultimo respiro.
Nel film il prete sintetizza tante epoche, stagioni e passaggi della vita. Alla fine cos’è diventato quel prete?
All’inizio il prete rimpiange il fatto che non sarà più quel prete lì, perché gli manca lo strumento della sua pratica sacerdotale. Quando non c’è più un fedele, lui fa quella predica alle panche vuote, si confida con esse. Dice «quante volte qui alla domenica, quando la chiesa era piena di fedeli... eppure ogni tanto avevo il dubbio!». Guai ad avere le certezze assolute. Ti siedi comodamente su queste certezze e rinunci alla tua vita come continua curiosità della riscoperta. Se qualcuno mi dice che crede in Dio, prega Dio, ama Dio in maniera così graniticamente definitiva, ho l’impressione che non conosca il termine amore. L’amore è una lotta continua, un travaglio che non ci dà tregua.
All’inizio il prete si accontentava di avere la chiesa piena di fedeli. Nel momento in cui essa diventa vuota, scopre che cosa significa essere prete. Anche grazie alle circostanze che è costretto a vivere con un gruppo di pellegrini erranti che sostano nella sua chiesa mettendo in piedi quel villaggio di cartone di chi è continuamente in cammino e che non è affatto di cartone. Di cartone sono i muri di cemento armato. Anche Cristo ci dice «non ho nemmeno una pietra su cui poggiare il capo».
Tutte cose di cui il prete non si poneva più una domanda, ma era fermamente convinto della giustezza delle risposte. Finalmente avverte l’idea del porsi la domanda. Quale volto di Cristo ho incontrato?
Tutti i giorni la medesima domanda, perché infinite sono le risposte. La risposta che il prete dà al sacrestano: «mi sono fatto prete per fare del bene. Ho capito che il bene è più della fede».
Perché il bene è più della fede? Lo dico in maniera grezza: quando recitiamo le nostre preghiere, abbiamo la sensazione di compiere un atto di fede; poco dopo usciamo ed abbassiamo lo sguardo senza guardare in faccia l’umanità. Allora la fede è fare del bene o è dire "ho fede"? Si riesce perfino a pregare pensando ad altro. Il prete a quel nero che lo ringrazia per averli accolti dice «anch’io sto tornando alla casa del Padre». Questo è l’atto di fede. Sapere che il Padre è lì che mi aspetta. Siamo tutti dei "figliol prodigo". L’importante è capirlo e tornare a lui.
Aspettando Francesco I
di Giovanni Colombo (“Il Margine”, febbraio 2012)
"Attonito sbigottimento" disse nel settembre scorso il Cardinal Bagnasco, Presidente dei vescovi italiani, di fronte alle ultime convulsioni del governo Berlusconi. "Attonito sbigottimento" vien da ripetere di fronte alle ultime vicende vaticane.
L’ inizio di febbraio è stato micidiale. Prima la pubblicazione delle lettere di fuoco scritte dall’attuale nunzio apostolico negli Stati Uniti, Mons. Carlo Maria Viganò, quand’ era segretario generale del Governatorato (l’ ente che gestisce lo Stato della Città del Vaticano), al Papa e al Cardinal Bertone, contenenti accuse di corruzione negli appalti e di malagestione dei soldi, affidata a banchieri che "fanno di più il loro interesse che i nostri" e che "hanno mandato in fumo in una sola operazione finanziaria nel dicembre 2009 due milioni e mezzo di dollari". Mons. Viganò si aspettava di diventare Cardinale e presidente del Governatorato e invece è stato mandato in America. La Santa Sede si è difesa con un lungo e dettagliato comunicato: "il Governatorato non è in balìa di forze oscure".
Poi le notizie riguardanti lo Ior, il forziere del Vaticano. Sta proseguendo con il coinvolgimento di 4 preti - l’ inchiesta della Procura di Roma sul trasferimento di 23 milioni, attraverso il Credito Artigiano, alla JP Morgan Frankfurt e alla Banca del Fucino. Secondo i giudici il trasferimento è avvenuto in violazione della normativa antiriciclaggio. Pare inoltre che, a seguito di questa inchiesta, lo Ior abbia deciso di spostare gran parte delle proprie attività finanziarie dalla banche italiane a quelle tedesche. Sempre lo Ior continuerebbe ad opporre resistenza all’ AIF (Autorità di informazione finanziaria, presieduta dal Cardinal Nicora) sulla piena applicazione delle nuove norme vaticane in tema di trasparenza.
Infine la fuga di notizie dalla Segreteria di Stato che ha reso pubblico un memorandum anonimo, presentato dal Cardinale colombiano, Darìo Castrìllon Hoyos, circa le confidenze che avrebbe fatto un altro Cardinale, Paolo Romeo, arcivescovo di Palermo, durante un viaggio in Cina del novembre scorso. Nel testo si legge che "Benedetto XVI avrebbe solo altri 12 mesi da vivere" e che "si starebbe occupando in segreto del suo successore: il Cardinale Scola". La gendarmeria vaticana sta indagando per scovare la "talpa".
L’ attonito sbigottimento fa tornare alla mente il testo scritto nel 2005 dall’ allora Cardinal Joseph
Ratzinger per la via crucis del Giovedì Santo. Nona stazione, Gesù cade per la terza volta:
" ... Ma non dobbiamo pensare anche a quanto Cristo debba soffrire nella sua stessa Chiesa? ...
Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di lui! Quante volte la
sua Parola viene distorta e abusata! Quanta poca fede c’è in tante teorie, quante parole vuote!
Quanta sporcizia c’ è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero
appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza!"
Parole dure come pietre, che forse hanno contribuito a spingerlo verso il soglio di Pietro. Ma adesso cosa sta succedendo? Siamo sempre lì, alla nona stazione, o la via crucis è andata avanti? In termini più mondani: stiamo assistendo ad una delle solite partite di potere, giocate con stile cattivo, dalle fazioni opposte d’ Oltretevere, di cui la storia della Chiesa è piena fino alla nausea, oppure questi episodi dicono qualcosa di più: la frana di un impianto ecclesiastico millenario, in moto da anni e anni, ma che ora ha preso la discesa con velocità sempre più crescente? Motus in fine velocior. Il 18 febbraio scorso mia moglie ed io abbiamo deciso di andare a vedere di persona com’ è la situazione. Siamo scesi a Roma per partecipare al concistoro. Fra i 22 nuovi cardinali c’ è pure lui, il prete che ha celebrato le nostre nozze e battezzato i nostri figli. Quindi non potevano assolutamente mancare al grande appuntamento.
Alle 9.30 attraversiamo Piazza San Pietro dove l’ 8 dicembre 1965 Paolo VI, chiudendo il Concilio Vaticano II, disse che quello che conta è l’homo integer, l’ uomo completo, quello che cammina eretto. Eretti entriamo nella Basilica di San Pietro dove l’ 11 ottobre di 50 anni fa Giovanni XXIII l’ aprì, il Concilio, con il celebre discorso Gaudet Mater Ecclesia, in cui criticò i profeti di sventura.
Alle 10.30 gli squilli di tromba danno inizio alla cerimonia e la mia mente s’ eleva ad Deum, pardon inizia a svolazzare per la navata e a farsi una serie di domande.
Perché sono tutti maschi?
Metà della Basilica è occupata dal Collegio cardinalizio e da molti vescovi. Son tutti maschi. Non è una novità. Ma si può continuare a vivere così? Si può continuare a tenere lontane le donne? Ormai, a cinquant’ anni, posso confermarlo per esperienza: gli uomini hanno paura delle donne. Non so quando inizi il timore, forse inizia proprio all’ inizio, appena ci si accorge che si è rotta per sempre la fusione originaria con la propria madre. Questa paura accompagna noi uomini tutti i giorni e crediamo di scacciarla coi giochi di seduzione o mostrandoci forti nelle guerre e nel lavoro. Ma non la superiamo mai realmente e così ci condanniamo a non conoscere quasi nulla di noi stessi, a non gustare quasi niente della vita e di Dio. Perché sono molto vicini: la donna, la vita e Dio. Le Chiese, tutte le Chiese, essendo fatte da uomini, cercano di addomesticare le donne - e la vita e Dio - definendo bene le posizioni. Uomo è colui che ha la presidenza, che sta sopra, al suo posto d’uomo, che vi sta con gravità, con serietà, ben al caldo della sua paura. Donna è colei che sta sotto, anzi non sta da nessuna parte, non occupa altro posto se non quello, sempre mobile e marginale, del servizio e della cura. Questa differenza è stata praticata per millenni ma può essere superata in un istante. Basta un movimento, un semplice movimento fuori dal posto, dalle gerarchie imposte dalla legge o dal costume, senza più l’ ossessione di cadere e di diventare nessuno. E finalmente s’ avvia la relazione, quella relazione sempre negata ( o praticata di nascosto in qualche breve momento subito interrotto), in cui non si capisce più chi sta sopra e chi sta sotto ma in cui si capisce molto bene quello che sta avvenendo: l’ aiuto reciproco a conoscersi e a vivere in pace e in Dio. La Chiesa di Roma, a differenze di altre Chiese, fa riferimento al Cristo e vuole rimanere fedele al Cristo, lo sta ripetendo anche adesso il Papa durante l’ omelia: ma nessuno più del Cristo ha fatto saltare le posizioni e ha rivolto il suo viso verso le donne, come ci si china sull’ acqua di un fiume per attingervi forza e volontà di proseguire il cammino. Le donne nel Vangelo sono altrettanto numerose degli uccelli. Sono là all’ inizio e sono là alla fine. Sono le apostole della resurrezione. E come mai non se ne vede neanche una tra questi marmi?
Perché son tutti vecchi?
Anche questa non è una novità. Sono i vecchi quelli che guidano la Chiesa. La vecchiaia è sinonimo di saggezza. Ma proprio in tema di saggezza, quanta ce n’è in quel proverbio indiano che parla dei quattro stadi nella vita di un uomo! Nel primo stadio si impara. Nel secondo si insegna e si servono gli altri, mettendo a frutto quello che si è imparato. Nel terzo si va nel bosco, a far silenzio e meditare su quant’ è successo. Nel quarto si impara a mendicare. Lasciamo stare per un momento quest’ ultima fase. La mendicità, il dipendere dagli altri, se da una parte è il sommo della vita ascetica, dall’ altra è l’ infimo che non vorremmo mai sperimentare (ma che spesso viene, e al quale bisogna prepararsi per tempo). Fermiamoci ai primi tre. In quale stadio si dovrebbero trovare queste neo berrette rosse e la stragrande maggioranza degli altri celebranti? Direi nel terzo. E lo stadio buono per il ritiro nel bosco, dove riordinare i ricordi e ripensare con gratitudine a tutte le cose ricevute e a tutte le persone incontrate. La fase in cui tornare a rileggere la Bibbia con calma, senza lo stress di dover preparare la predica perfetta. La fase in cui mettersi a disposizione per il colloquio con l’altro: noi siamo colloquio e il colloquio è l’ esperienza umana-divina per eccellenza. Invece in molti hanno ancora incarichi assai importanti, da secondo stadio, che non mollano, come se il mollare fosse il segno di una qualche infedeltà. Alcuni addirittura dimostrano un attaccamento al proprio posto e un dinamismo tale nell’ interpretare il proprio ruolo da far invidia a un quarantenne.
Ma se il calendario segna i settanta e passa è tempo di vivere un sereno distacco dalle scene di questo mondo. Non serve più a niente aspirare ad ulteriori livelli di carriera. Ora la prossima ascensione, per la quale prepararsi a puntino, è unicamente verso il Cielo. Non possiamo fare qualcosa di più per seguire la saggezza del proverbio indiano? In termini mondani: la responsabilità, la dirigenza dai 45 ai 65 anni, poi ministra Fornero permettendo - in pensione. In termini ecclesiastici, idem: l’ episcopato, con ruoli di governo, dai 45 ai 65 anni, poi nel bosco. E per quanto riguarda i cardinali... ma son proprio necessari? Il Concilio Vaticano II non dedica loro neppure una riga. E allora noi cosa ci facciamo qui?
Perché son (quasi) tutti grassi?
Li guardo, i cardinales, guardo i loro corpi. E il corpo a mostrare, è il corpo a parlare più di un’ enciclica. E il corpo la nostra guida costante, troppo spesso lo dimentichiamo e non lo ascoltiamo anche là dove le decisioni non riguardano azioni banali ma scelte decisive per il nostro destino. Ritrosie, silenzi, malattie, mancamenti, entusiasmi, vibrazioni: sono tutti i segni di una saggezza più profonda delle nostre ragioni consapevoli, diceva Nietzsche e confermano i dottori olistici. Con tutta probabilità questi Cardinali sono cresciuti con un’ altra impostazione, in cui il corpo è soltanto un asino, un mezzo di trasporto. Francesco d’ Assisi lo chiamava proprio così: fratello asino . Ma conviene sempre ascoltarlo, l’ asino, o meglio l’ asina, come nel caso di Baalam. Nella pagina biblica l’ asina parla. Racconta la visione dell’ angelo, per tre volte la volontà di Dio d’ impedire a Baalam il compimento del suo infame disegno. E alla fine Baalam comprende e rinuncia. Chissà cosa starà dicendo ora l asina su cui stanno seduti questi principi della Chiesa. Forse parole del genere: sono grassa perché sto ferma tutto il giorno nelle sacre stanze. Sono grassa perché accumulo senza bruciare. Sono grassa perché non ti sei mai occupato di me. Anche se ormai son vecchia, non ho perso la voglia di andare, quando vado sputo veleni e incamero pensieri, bevo il doppio e mangio la metà, sperimento un lavacro rigeneratore. Dài, facciamo come nostro padre Abramo, che non ebbe paura di accogliere l’ invito: Lekh lekhà, vattene. Partiamo come lui, verso l’ inedito. E preghiamo che sia lunga la via, colma d’ avventure, colma di conoscenze.
Perché sono vestiti così?
Certo che camminare vestiti in questa maniera non è mica facile. Premetto che non ho nessuna competenza di paramenti liturgici. So per esperienza umana che il vestito è importante. Lo sanno tutti gli innamorati. Mi son fatto bello, per andare bello da un bello , dice Socrate nel Simposio. Io devo assomigliare a chi amo. Faccio il maggior numero possibile di cose come l’ altro, di più voglio essere l’ altro, voglio che lui sia me, uniti, rinchiusi nel medesimo sacco di pelli. Il vestito non è altro che l’ involucro che esprime il mio immaginario amoroso. Do per scontato che anche il vestito del papa e dei cardinali siamo vestiti d’ amore per il nostro Dio e non strumenti per darsi importanza agli occhi del mondo. Ma non basterebbe in questo caso una bella veste bianca di bucato? Questi paramenti pesanti sembrano il retaggio di una visione di Dio potente e avvolgente, fin troppo potente, fin troppo avvolgente, tanto da ridurre il corpo dei suoi seguaci in prigionia. Il corpo di questi cardinali è fasciato, appesantito dalle vesti, sacrificato. Forse per qualcuno va bene così, non avverte il problema, anzi potrebbe rispondere irritato: "Queste vesti sono belle, belle anche se pesanti, perché bello, bello anche se pesante, è il nostro Dio" . Ma in generale il discorso non dovrebbe prendere una piega diversa? Se è il nostro Dio è vento sottile e sua salvezza la nostra liberazione, non dovrebbero saltare le cinture e scomparire le sottane?
L’ attuale vestiario non solo appare fin troppo debitore delle usanze rinascimentali e barocche ma soprattutto sembra trasmettere un visione distorta del rapporto con l’ Amato. Può esser utile domandarsi com’ erano vestiti gli apostoli. Non andavano in giro mezzi nudi? E Gesù? Non mise né la pianeta, né la casula, nè il camice, né la berretta, né l’ anello d’ oro. Nel momento decisivo si mise un grembiule.
Perché non risparmiamo sulla luce?
Stamattina affari doro per l’ Enel. C’ è tanta, troppa luce, dentro la Basilica sembra acceso un sole artificiale. E perché invece di essere contento mi viene da dire alla Conrad "nessuna gioia nello splendore del sole" ? Non è che il problema di questa Chiesa è di volere, con la sua dottrina e la con la sua presenza, una visibilità totale? I contorni devono essere sempre ben definiti, altrimenti potrebbero intrufolarsi pensieri eretici e immagini pericolose. Si pensa di trasmettere più nitidamente i significati e di realizzare la comunicazione perfetta della verità non lasciando nessun intervallo tra gli spazi. Però se tutto viene occupato da quello che arriva dall’ esterno, ciò che risiede all’ interno è costretto a rimanere inespresso. In linguaggio psicoanalitico: repressione. Diventiamo prigionieri dei riflettori, alla mercé degli occhi. Gli occhi possono diventare entità persecutorie. Non a caso gli dei crudeli hanno gli occhi sempre aperti senza palpebre: non li chiudono mai, non dormono mai. Ma coloro che vedono sono ciechi e solo i ciechi possono vedere... Le meditazioni vanno fatte al buio, così con il favore delle tenebre posso apparire timidamente le creature che popolano le nostre foreste e i nostri mari. Le cerimonie hanno bisogno di nuvole e nebbie, che gentilmente velino le alogene. L’ hanno già detto in tanti nel corso della storia, anche tanti santi e tanti papi, eppure fatichiamo a crederci. La verità è sempre al di là del visibile. Scorre sotterranea, dimora nell’ oscurità coperta dalla nebbia, circondata dal silenzio. Spegniamo dunque la luce e chiudiamo gli occhi e mettiamoci in attesa. "Ascolta, mio cuore...ascolta l’ ininterrotto messaggio che dal silenzio si crea. Ecco fruscia qualcosa ... e viene a te" (Rilke).
Il Papa sta bene?
Vedendolo dal vivo direi di sì. Lo trasportano in pedana. La sua faccia è un po’ stanca. Però è lucido e presente. La predica lo dimostra. E lo conferma la sua agenda, che prevede, per il prossimo 23 marzo, la partenza per il viaggio apostolico in Messico e a Cuba, poi, a giugno, la presenza a Milano per il VII Forum mondiale delle famiglie e, a settembre, la visita in Libano. E se qualche malvagio volesse ucciderlo, secondo la "profezia" del memorandum? Le misure di protezione sono altissime e dovrebbero dare garanzia assoluta.
Certo, Benedetto XVI compirà tra poco 85 anni, ha cinque bypass al cuore, ha sulle spalle sette anni di pontificato, quindi è arrivato alla sera del suo lungo giorno. E la sera è fatta per pregare (vedi quanto detto sopra per i vecchi). Se a questo punto il Papa diventasse preghiera mollando tutto il resto? Quello che doveva scrivere come teologo l’ ha scritto, quello che doveva dire come pastore l’ ha detto. Silenzio, il Papa prega! Pensate che messaggio spiazzante per questo mondo che si agita con il suo fare sconclusionato. E non ci sarebbe modo migliore per spiegare ai nostri figli che significhi davvero "non di solo pane vive l’ uomo". Col pane campiamo. Ma è di ben altro che viviamo. Noi viviamo di quel Vento che ci fa costantemente rinascere.
Mi piacerebbe vedere il Papa esposto senza sosta al Vento a invocare il rinascimento. "Devi rinascere dall’ alto", è una delle più belle parole dette da Gesù nel Vangelo. L’ invito, rivolto a Nicodemo, vale in ogni epoca sia per i singoli sia per la Chiesa intera. Questa Chiesa superaccessoriata e pesante come il marmo è chiamata a perdere potere, sicurezze, abitudini per rinascere leggera, con il volto migliore.
Arriverà Francesco I ?
Sì. Dopo tanta preghiera del Papa e, modestamente, anche di noi laici, si può star sicuri che arriverà. Sarà lui il volto migliore. Non conosciamo ancora il colore, se bianco o nero (per il giallo stanno lavorando in tanti, c’è un proliferare di viaggi di ecclesiastici in Cina, ma la questione pechinese ha tempi troppo lunghi perché si risolva prima dell’ avvento desiderato). Però conosciamo già il nome. Si chiamerà Francesco. Sarà Francesco I.
Il giorno dopo l’ elezione, affiderà all’ Unesco, quali siti artistici e turistici, i Palazzi Vaticani, metterà in vendita Castelgandolfo, chiuderà lo Ior affidando i soldi alla Banca popolare etica. Abiterà per lunghi mesi a Assisi e scenderà a Roma - in treno - per celebrare i riti principali nella "vera" cattedrale del vescovo di Roma, quella di San Giovanni in Laterano. Molte cerimonie le farà all’ aperto, sul Monte Subasio o su culmini di colline dove non s’ innalza alcun tempio. Inviterà a sedersi rispettosamente sull’ erba. A prendersi le mani tra sconosciuti per storie personali ma ben noti per comune origine. Ad adorare in spirito e verità.
Ridurrà la struttura istituzionale al minimo, con una drastica diminuzione del terziario ecclesiastico (il Concilio Vaticano II voleva snellire la Corte papale ma da allora l’ Annuario pontifico ha triplicato le sue pagine). Toglierà il celibato obbligatorio: più piacere, meno ipocrisie. Ordinerà le donne, ma le donne lo vorranno? Non è per nulla scontata la loro disponibilità, dovrà riconquistarle. Darà le dimissioni a 80 anni. Abolirà definitivamente icardinales. D’ ora in poi i grandi elettori del Papa saranno i rappresentanti delle conferenze episcopali. Scriverà un’ unica enciclica dal titolo: In nuditate, Domine. In essa chiederà perdono di tutte le volte che il cattolicesimo è stato potere persecutorio su coscienze coartate, finzione autoritaria e violenta della verità, pretesa di non errare smentita incessantemente dai fatti. Nel testo elencherà i dogmi, le norme morali e i canoni del Codice di diritto canonico da gettare nel biondo Tevere. Tolto il fasullo, tolto l’inutile, Gesù di Nazareth tornerà ad affascinare. Sarà di nuovo possibile incontrarlo e seguirlo. Nudus nudum Christum sequi.
Finisce la cerimonia, finiscono le domande. Sono sette, sette come i colli di Roma, sette come i vizi capitali, sette come le opere di misericordia spirituale che sommate a quelle di misericordia corporale fanno 14 come l’ora in cui riusciamo finalmente ad abbracciare il neo-porporato. Felicitazioni vivissime. L’ affetto ha il sopravvento e cancella ogni altra elucubrazione. Volete sapere chi è? No che non parlo, non faccio la talpa, io. E non voglio stroncargli la carriera accomunandolo con un extra-vagante come me. Però, a pensarci bene, più in alto di così dove può arrivare? Non insistete, il cognome non ve lo dico. Ma provate a chiamarlo Francesco e vi risponderà.
Gratuità nel ministero
di Luisito Bianchi
in “Il Regno” - Attualità - n. 20 del 15 novembre 2006
Se la sapienza ama giocare con gli uomini (cf. Pr 8,31), può darsi che anche il giorno scelto dal potere religioso in Italia per decretare l’entrata in vigore di una legge concordataria faccia parte di tale gioco. Come può essere capitato per il 25 gennaio 1987.
Dicono che da mille anni questa data è consacrata alla memoria liturgica della Conversione di san Paolo. Ma conversio ad quid? Sappiamo che cosa avvenne sulla via che portava a Damasco. E fu in quel bagliore accecante che l’intransigente difensore della legge rimase per sempre travolto dalla piena della gratuità che proveniva dal corpo di Gesù, crocifisso e risorto, unica salvezza.
Accadde in quel momento il definitivo convergere di Paolo (la conversione appunto) sulla gratuità della salvezza, che viene non dalla legge ma da Gesù, come dono assoluto, senza contraccambio. Per tutta la sua vita, Paolo altro non fece che raccontare questa gratuità, operare perché altri si convertissero a questo Evangelo che è la buona notizia della salvezza come dono gratuito, non soggetto a pentimento. E tutto questo spinto dalla «necessità», cui è impossibile sottrarsi, di trasmettere quanto è stato ricevuto, una tradizione fondata sul ricevere e dare gratuitamente.
Da qui la sua assoluta intransigente gratuità nel trasmettere l’accaduto che gli rivelò la gratuità di Dio, al punto da preferire la morte (cf. 1Cor 9, 15) piuttosto che avvalersi perfino della facoltà di sedersi a mensa (eppure «l’operaio è degno del suo nutrimento», come da Mt 10,10) riconosciuta al rabbi nella cultura ebraica, perché non fosse sottoposto il suo annuncio di gratuità («economia della gratuità» di Ef 3,2ss) anche solo al sospetto d’una strumentalizzazione per risolvere il problema del vivere. Di qui la necessità di lavorare con le proprie mani per trarne il sostentamento ed essere assolutamente gratuito nella predicazione.
«Lavorai giorno e notte» dice in diversi luoghi delle sue lettere, e non tanto iperbolicamente se teniamo conto delle cinque motivazioni del lavoro stesso, come riporta il discorso di Paolo agli anziani di Efeso (cf. At 20,33ss), fra le quali il sostentamento anche dei suoi collaboratori che non avevano la possibilità di lavorare per provvedervi da soli, sempre in viaggio a tenere i contatti fra le giovani Chiese e lo stesso Paolo. Anche loro, quindi, essendo suoi collaboratori, non dovevano far dipendere il loro sostentamento dal Vangelo. Quando poi Paolo, infermo o in prigione, non potrà sostentarsi col lavoro, solo allora accetterà l’aiuto dalla Chiesa di Filippi, ma non perché apostolo (anche da altre Chiese avrebbe dovuto pertanto accettarlo) bensì per amicizia (si ricordi la dolce violenza che gli fece Lidia in At 16,15, dove il verbo scelto da Luca per indicare l’irresistibile pressione di Lidia è lo stesso che usa per i due discepoli di Emmaus quando insistono perché lo sconosciuto entri in casa!).
Lavoro in primo luogo e amicizia poi sono, per Paolo, le due difese della gratuità dell’annuncio. Si raggiunge, così, attraverso l’esperienza di Damasco, il cuore della missione, come l’aveva indicato lo stesso Gesù: «gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8).
All’inizio, dunque, delle Chiese d’Occidente (non si dimentichi che anche Barnaba, a detta dello stesso Paolo - cf. 1Cor 9,6 - era del medesimo sentire) sta questa scelta di gratuità assoluta che viene indicata come esempio da imitare (cf. At 20,35; 1Ts 1,6-7; Fil 3,17; e, soprattutto, 2Ts 3,9). Come mai, allora, si arrivò a dichiarare impossibile la gratuità dell’annuncio dopo poco meno di 20 secoli di storia di tale gratuità, scaturita impetuosa dal cuore di Cristo, fatta da Paolo un tutt’uno con la propria vita, e continuata come fiume più o meno abbondante, fluente o in secca, ma sempre presente, per lunghi anni magari alla maniera d’un fiume carsico, che all’improvviso riappare con freschissime acque? Giacché, volere o no, è un fatto innegabile che dal 25 gennaio 1987 il sacerdote, nel momento in cui è ordinato (ordo ad) alla celebrazione della Parola e dell’eucaristiaentra necessariamente nell’istituto del sostentamento del clero e gli viene quindi praticamente chiusa e sigillata la porta alla gratuità in quanto è sottoposto al gesto del do ut des che è il contrario del gesto gratuito, indipendentemente dall’uso che può fare di tale retribuzione.
Questi sono fatti oggettivi, dai quali è facilissimo scivolare via. Che l’illazione poi che ne traggo sia altrettanto oggettiva, bisognerebbe che lo si chiedesse a san Paolo. «Io non Enea, io non Paulo sono: me degno a ciò né io né altri ’l crede» (D. Alighieri, Divina Commedia, Inferno, II, 32-33). Non so se ci sia stato o ci sia un vescovo che, accettando quanto avvenne il 25 gennaio 1987, abbia pensato alla possibilità che qualche prete, avendo già gustato la gioia liberante della gratuità che fu di Paolo e del filone che ne discende e attraversa tutta la storia della Chiesa, si trovasse sconcertato e perdesse la ragione del vivere dopo che, praticamente, i suoi vescovi gli avevano dichiarato illusoria, senza fondamento, la gioia liberante che durava da due decenni e che lo faceva sentire immerso nella tradizione della sua Chiesa, non ai margini. È vero che la storia di un prete fra migliaia è solo una storia; ed è pur sempre vero che la morte di uno vale la salvezza di tutti. Ma qui entra in gioco quella gioia liberante che è un bene di tutti, che tutti dovrebbero avere la possibilità di sperimentare, i miei confratelli intendo.
La mia storia non interessa, io fui un graziato perché continuai a beneficiare di tale gioia: e sono altri vent’anni che debbo aggiungere a quelli di prima. E tuttavia non sarei onesto se dovessi tacere l’interrogativo che mi posi quando mi fu chiaro che in quel 25 gennaio 1987 l’istituzione ecclesiastica aveva fatto una ben altra conversio di quella di Paolo. E l’interrogativo è questo: se nel 1950, anno in cui fui ordinato prete, al posto del «non datevi pensiero (...) di quello che mangerete (...) guardate i gigli» (Lc 12,22.27) o dell’invio sine baculo, sine pera, sine calceamentis (cf. Lc 10,4), mi si fosse imposta una congrua retribuzione mensile, sarei diventato prete? Non so. Forse sì, forse sarei stato addirittura contento di queste viscere materne della mia Chiesa che si preoccupava, al mio posto, di quello che avrei mangiato; o forse no se qualcuno, col cuore di don Mazzolari, m’avesse parlato della gioia liberante della gratuità del ministero seguendo le orme di san Paolo, e non solo della povertà.
Anche in questo momento mi torna l’interrogativo, e anche ora do la stessa risposta del primo momento: la mia storia non è fondata sui «se», ma mi assicura che da cinquantasei anni sono prete e che da quarant’anni gusto la gioia liberante dell’essere gratuito nell’annunciare il gratuito. Come si può calcolare da questi numeri, io sono giunto ormai al termine della mia corsa. E se ho un testimone da trasmettere alla nuova staffetta che sta per iniziare la sua corsa per tradere a sua volta, eccolo: guardate alla radice dei termini che, nel Nuovo Testamento, indicano gratuità e gioia; è la stessa, char: char-is per gratuità, charà per gioia.
Chissà se posso, senza suscitare diffidenze o malintesi, ma lo dico ugualmente (tanto nessuno può strapparmi questa radice che dà senso ai miei quattro palmi di terra): Fratelli vescovi, introducete fra le materie di studio dell’ultimo anno di teologia la storia della gratuità nel ministero nei venti secoli della Chiesa, e fate voi stessi l’esame finale con la domanda sul significato che racchiude la festa del 25 gennaio, Conversione di san Paolo. Ad quid? chiedete ai vostri giovani candidati, o anche vecchi. E dalla loro risposta capirete se dovete chiudere l’esame con una seconda domanda: «E tu?».
Posso sognare che qualcuno risponderà: sì, eccellenza, proprio ad modum sancti Pauli, e che voi avrete la magnanimità di dargli fiducia e studierete con lui il modo di sostentarsi nell’immane libertà e gioia di non far dipendere il sostentamento dall’annuncio evangelico?
Posso sognare che questa utopia (il non-luogo) diventi una charis-topia (il luogo della gratuità) per qualcuno? Ma fosse anche nessuno, che sia però nella libertà di scegliere, avendo ben presenti i rischi dell’una e dell’altra risposta. È tutt’altra cosa scegliere liberamente l’assegno mensile che il doverlo «subire» ope legis.
L’importante è che anche in circostanze simili, uno, nessuno o centomila si diano onore e gloria all’Unico che nel suo stesso corpo crocifisso e risorto ha fatto dell’u-topia una charis-topia, come unica salvezza. Non è una conclusione consolatoria. Non c’è consolazione né nel ricevere né nel non ricevere l’assegno mensile per il fatto che si è preti. La sola consolazione è il potermi affidare, nel buio, a questo corpo che siede sul trono della gratuità, egli stesso il solo gratuito, «per ricevere misericordia (...) ed essere aiutati nel momento opportuno» (Eb 4, 16).
Non ho comunque difficoltà ad ammettere che queste «parolette brevi» (Paradiso, I, 95) abbiano tutta l’aria d’un monologo, con i fantasmi che tale termine suscita, più che di una dimostrazione attraverso venti secoli di storia della gratuità ministeriale, e, per giunta, un monologo partigiano. Luisito Bianchi*
* Don Luisito Bianchi è noto per la sua esperienza di prete operaio prima e di scrittore poi (La messa dell’uomo disarmato, Come un atomo sulla bilancia, Monologo partigiano sulla gratuità ecc.).
(...) La statua si presentava poggiata sul fondale con la base del piedistallo, lievemente inclinato, con il viso rivolto verso la città. Attorno qualche residuo di rete, ma tutto sommato in buone condizioni. Purtroppo gli manca il braccio con cui reggeva il bastone, di cui al momento non si ha traccia. L’ipotesi più accreditata della rimozione a fine dicembre, da parte di un peschereccio che effettuava in maniera fraudolenta la pesca a strascico sottocosta, ha trovato ieri la conferma.
BENEDETTO XVI
La preghiera di Gesù nell’Ultima Cena *
Cari fratelli e sorelle,
nel nostro cammino di riflessione sulla preghiera di Gesù, presentata nei Vangeli, vorrei meditare oggi sul momento, particolarmente solenne, della sua preghiera nell’Ultima Cena.
[...] le tradizioni neotestamentarie dell’istituzione dell’Eucaristia (cfr 1 Cor 11,23-25; Lc 22, 14-20; Mc 14,22-25; Mt 26,26-29), indicando la preghiera che introduce i gesti e le parole di Gesù sul pane e sul vino, usano due verbi paralleli e complementari. Paolo e Luca parlano di eucaristia/ringraziamento: «prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro» (Lc 22,19). Marco e Matteo, invece, sottolineano l’aspetto di eulogia/benedizione: «prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro» (Mc 14,22). Ambedue i termini greci eucaristeìn e eulogeìn rimandano alla berakha ebraica, cioè alla grande preghiera di ringraziamento e di benedizione della tradizione d’Israele che inaugurava i grandi conviti. Le due diverse parole greche indicano le due direzioni intrinseche e complementari di questa preghiera. La berakha, infatti, è anzitutto ringraziamento e lode che sale a Dio per il dono ricevuto: nell’Ultima Cena di Gesù, si tratta del pane - lavorato dal frumento che Dio fa germogliare e crescere dalla terra - e del vino prodotto dal frutto maturato sulle viti. Questa preghiera di lode e ringraziamento, che si innalza verso Dio, ritorna come benedizione, che scende da Dio sul dono e lo arricchisce. Il ringraziare, lodare Dio diventa così benedizione, e l’offerta donata a Dio ritorna all’uomo benedetta dall’Onnipotente. Le parole dell’istituzione dell’Eucaristia si collocano in questo contesto di preghiera; in esse la lode e la benedizione della berakha diventano benedizione e trasformazione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Gesù [...]
Con la creazione di 22 nuovi cardinali, Benedetto XVI imprime il suo marchio al conclave che eleggerà il suo successore
di Stéphanie Le Bars
in “Le Monde” dell’8 gennaio 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Il papa ha annunciato, venerdì 6 gennaio, la creazione di 22 nuovi cardinali, di cui 18, che hanno meno di 80 anni, potrebbero eleggere il suo successore in caso di conclave. Al termine di questo quarto concistoro del suo pontificato, Benedetto XV avrà nominato 63 cardinali in grado di votare, ossia la maggioranza dei membri del collegio. Al di là dell’aspetto simbolico, il papa imprime così il suo marchio all’orientamento del prossimo conclave.
Le creazioni, che saranno ufficialmente confermate il 18 febbraio, portano a 214 i membri del Sacro collegio, di cui 125 elettori con meno di 80 anni, età limite per partecipare al voto. Tra i nuovi cardinali, si contano sedici prelati europei, due americani, un canadese, un brasiliano, un indiano e un cinese di Hong Kong. Nessuno è originario dell’Africa o dell’America Latina, proprio in un periodo in cui la Chiesa cattolica conosce la sua massima vitalità in quelle regioni del mondo. Anche il numero di cardinali francesi resta invariato, con quattro rappresentanti: Mons. André Vingt-Trois, Mons. Jean-Louis Tauran, Mons. Jean-Pierre Ricard e Mons. Philippe Barbarin.
Invece, la parte degli italiani, tradizionalmente preponderante all’interno del collegio, si rafforza. La nomina di sette cardinali italiani porta a 30 il numero di prelati della penisola. Questa proporzione, anch’essa tradizionalmente criticata, potrebbe rafforzare le probabilità di elezione di un italiano come successore del papa tedesco. Oltre ad una prossimità di alcuni di questi vescovi con il numero due del Vaticano, l’italiano Tarcisio Bertone, queste nomine si spiegano con l’accesso automatico degli alti responsabili della curia a questa onorificienza.
Nel gioco dei pronostici a cui si dedicano i vaticanisti ogni volta che Benedetto XVI, che avrà 85 anni in aprile, si mostra un po’ meno in forma, il nome dell’arcivescovo di Milano, Angelo Scola, torna così regolarmente come “possibile papabile”. Mons. Scola è considerato ideologicamente molto vicino all’attuale papa, e il nome di questo prelato di 70 anni era già circolato durante il precedente conclave nel 2005.
Al termine del concistoro di febbraio, gli europei resteranno inoltre in maggioranza, con 67 rappresentanti, che siederanno accanto ai 22 sud-americani - di cui sei brasiliani e quattro messicani -, 15 nord-americani, 11 africani, 9 asiatici e un oceaniano.
Questo annuncio apre un anno che sarà segnato da un viaggio del papa in Messico e a Cuba, alla fine di marzo, ed un possibile viaggio in Libano per consegnare ai vescovi del Medio-Oriente le conclusioni del sinodo sulla situazione dei cristiani d’Oriente, che si è svolto nel 2010.
Il 2012 è anche quello del cinquantesimo anniversario dell’apertura del concilio Vaticano II, l’11 ottobre 1962. Questo avvenimento darà luogo a molte manifestazioni, pubblicazioni e riflessioni sull’applicazione degli insegnamenti venuti dal concilio e sarà accompagnato dal lancio dell’ “Anno della fede”. Destinato a “ravvivare” la fede dei fedeli, sbarcherà con il sinodo sulla “nuova evangelizzazione, preoccupazione centrale di Benedetto XVI.
Preoccupato nel vedere i paesi di tradizione cristiana staccarsi dalle loro radici, il papa ha di nuovo evocato, venerdì, una “civiltà occidentale” che “sembra aver perso l’orientamento, e naviga a vista”, aggiungendo: “La Chiesa, grazie alla parola di Dio, vede attraverso questa nebbia”.
Calabria. A Paola sulle orme di san Francesco. "Il suo motto CHA: charitas".
SAN FRANCESCO DA PAOLA : INIZIANO LE CELEBRAZIONI DEL PATRONO DELLA CALABRIA.
Il dipinto è particolare, perchè la figura del Santo, rappresentato come un vecchio in abiti francescani, è contornato da dieci scene che raffigurano altrettanti fatti prodigiosi a lui attribuiti. Nella mano tiene un bastone al quale si appoggia pesantemente, sormontato da quello che diverrà il suo motto CHA: charitas. Secondo la tradizione, un angelo, forse l’arcangelo Michele, gli apparve mentre pregava, tenendo fra le mani uno scudo luminoso su cui si leggeva la parola Charitas e porgendoglielo disse: “Questo sarà lo stemma del tuo Ordine” (...).
Un papato immobile. La solitudine di Benedetto XVI
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 08.10 2011)
Le polemiche sull’affare Williamson (il vescovo lefebvriano negazionista cui Benedetto XVI toglie nel 2009 la scomunica insieme ad altri tre presuli scismatici) mette in discussione esplicitamente il modo con cui Benedetto XVI governa la Chiesa. Gli osservatori denunciano una curia allo sbando, un papa chiuso nel suo palazzo e costretto a fronteggiare una bufera che l’Osservatore Romano definisce senza esempi in tempi recenti.
Sono giorni in cui un veterano di curia confida off record: “Benché sia stato in Vaticano per più di un ventennio in qualità di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Ratzinger non conosce affatto la curia. Ieri era chiuso nella sua stanza nel Sant’Uffizio, oggi è chiuso nel suo studio di pontefice. Lui è un teologo, non è uomo di governo. Passa metà della giornata a occuparsi dei problemi della Chiesa e l’altra metà concentrato sulle sue ricerche su Gesù”. Certo esistono intorno a lui i fedelissimi. In testa il cardinale segretario di Stato, Bertone. Ma la fedeltà non basta.
Le avvisaglie che qualcosa non funziona sul ponte di comando in Vaticano si sono intraviste presto. Se il conflitto con il mondo islamico esploso a Regensburg poteva essere ancora considerato un incidente dai più indulgenti, le cose cambiano nel 2007: allorchè va in scena a Varsavia la nomina senza precedenti - e poi la precipitosa revoca - di un vescovo informatore dei servizi segreti comunisti, l’opinione pubblica avverte l’assenza di una leadership sicura. Commentano sull’Herald Tribune gli inviati Craig S. Smith e Ian Fisher: “Sebbene la sua grande esperienza in dottrina e teologia sia indiscussa, qualche critico afferma che (a papa Benedetto) manchi una piena padronanza dell’abilità politica necessaria ad un’organizzazione così vasta e complessa come la Chiesa cattolica... C’è chi suggerisce che il papa non sia ben coadiuvato dai suoi consiglieri oppure abbia la tendenza a prendere importanti decisioni principalmente di testa sua”.
Benedetto XVI studia attentamente i dossier, che gli vengono sottoposti, però il suo modo di lavorare è tendenzialmente solitario. I contatti con i suoi collaboratori si concentrano prevalentemente nelle cosiddette “udienze di tabella”, i regolari incontri settimanali con il segretario di Stato, il Sostituto, il ministro degli esteri, i prefetti delle Congregazioni per la dottrina della fede e dei vescovi. Solo due volte l’anno si tiene la riunione collegiale dei responsabili di tutte le congregazioni. Come se il capo di stato o di governo di una potenza internazionale riunisse il consiglio dei ministri unicamente ogni sei mesi. Giovanni Paolo II riceveva singolarmente ogni due anni gli ambasciatori papali per avere il polso della situazione internazionale. Benedetto XVI concede loro un’udienza di protocollo in occasione del trasferimento ad una nuova sede.
Nessuna guida politica
Benedetto XVI non utilizza nemmeno i pranzi di lavoro, strumento di cui approfittava largamente Giovanni Paolo II. “Wojtyla governava ascoltando”, commenta lo storico Andrea Riccardi leader della comunità di sant’Egidio, e “non mangiava mai da solo”.
Così si è creato in Vaticano un clima, la cui caratteristica dominante è di “non disturbare il manovratore”. Sostiene un cardinale del Nordeuropa che Benedetto XVI “è timido, ma si impunta nel difendere le proprie idee”. Quindi è difficile fargliele cambiare. Il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, non può o non riesce a ovviare a questo complesso di fattori. Sin dal momento della sua nomina è stato considerato dalla curia un outsider e tale continua ad essere percepito. In curia lo si ritiene responsabile di non avere mano politica (nel senso tecnico del termine) nella conduzione del governo della Santa Sede. Molti curiali hanno nostalgia del pugno di ferro dell’ex segretario di Stato Sodano e rimpiangono l’era wojtyliana in cui “c’era una linea, una visione, orgoglio di fare e parole d’ordine precise”.
Bertone è giudicato con perplessità per avere coinvolto eccessivamente il suo ruolo nei giochi della politica italiana. È ricordata la sua partecipazione ad una cena, organizzata l’8 luglio 2010 da Bruno Vespa. La presenza del cardinale finisce per avallare un favore del conduttore televisivo all’ospite principe della serata, il premier Silvio Berlusconi che tenta di convincere il commensale Pier Ferdinando Casini, leader dell’ Udc, ad entrare nel suo governo. Sapere che il massimo collaboratore del pontefice accetta (finisce) per fare da cornice ad un tete a tete squisitamente politico, suscita parecchi malumori in curia.
Il teologo che non ascolta
A Benedetto XVI si riconosce un’intelligenza particolarmente acuta, uno stile di vita austero, una vasta formazione teologica, un rifiuto di qualsiasi familismo di cordata. L’osservazione, che gli viene rivolta, è di affrontare i problemi esclusivamente secondo un’impostazione teologica. Un problema essenziale, che mette a nudo le difficoltà del governo centrale della Chiesa, riguarda l’insufficiente dibattito sulle decisioni da prendere. Rispetto alle dimensioni della comunità cattolica mondiale e allo scenario internazionale, in cui opera la Santa Sede, la discussione è praticamente asfittica. Più di un cardinale sostiene l’urgenza di lasciare che i “vescovi parlino liberamente, ascoltando cosa dicono”. Un’altra critica riguarda l’instaurarsi di un clima di eccessiva apologia del pontefice.
Lo storico Giovanni Miccoli rileva: “È come se non ci fosse chi tiene in mano il timone del governo. Papa Ratzinger scrive libri, documenti, discorsi, si concentra sul rapporto tra fede e ragione”. Il sociologo cattolico Franco Garelli soggiunge: “Si avverte una debolezza del governo istituzionale. Spesso più del consenso prevale l’ossequio”.
Teoricamente Ratzinger ha avuto presente fin dall’inizio l’esigenza di non vincolare la Chiesa nel terzo millennio al modello assolutistico. “Una Chiesa dalle dimensioni mondiali, ed in questa situazione del pianeta, non può essere governata in modo monarchico”, garantì cinque mesi prima di essere eletto. Non è stato così. In sei anni si sono tenute soltanto tre riunioni plenarie del collegio cardinalizio.
Una cattolicità divisa
Il papa ottantaquattrenne viaggia, pubblica documenti, fa i suoi interventi, ma al di là di queste attività molti fedeli percepiscono una situazione di immobilismo. Nel frattempo si approfondisce all’interno della comunità cattolica la frattura fra due grandi tendenze. Coloro che si arroccano nella riaffermazione dell’ “identità cattolica” e coloro che si aspettano una Chiesa capace di misurarsi con le tematiche nuove. Ai vertici ecclesiastici si finge di non vedere la realtà di una cattolicità divisa, dove si moltiplicano fedeli, che in tema di fede, morale, dottrina e rapporto con la società contemporanea hanno approcci lontani dal magistero pontificio. Dopo una prima fiammata di consensi, l’attrazione per papa Ratzinger è scesa. Il calo è iniziato al terzo anno di pontificato. L’Italia, con la sua copertura giornalistica quasi quotidiana, resta un caso a parte. Nell’arena internazionale Ratzinger continua ad essere percepito come personalità di alto profilo che colpisce le élites culturali. Però è diminuita la risonanza planetaria del papato.
È soprattutto la concezione del rapporto tra Chiesa e società ad aprire interrogativi sull’attuale pontificato. Questo mondo così multiforme nelle sue credenze, così secolarizzato, così irriducibile al vecchio schema di “una fede - un popolo - un’autorità di Chiesa”, e al tempo stesso così vitale nelle sue pulsioni religiose, appare alla Chiesa ratzingeriana sotto la maschera del nemico.
Benedetto XVI intravvede nello scenario contemporaneo una “multiforme azione tesa a scardinare le radici cristiane della civiltà occidentale”. A volte la situazione attuale gli sembra simile - e lo dice apertamente - al tramonto dell’impero romano. Un programma di governo Ratzinger non lo ha maipresentato. Con gli anni questa impostazione - l’aver spostato l’accento dalla progettualità alla predicazione - pesa. Papa Wojtyla ha creato il suo progetto strada facendo. Paolo VI si era posto la missione di portare a termine il concilio Vaticano II e completarlo con i documenti e le istituzioni necessari. Pio XII, dopo la seconda guerra mondiale, aveva il chiaro obiettivo di riorganizzare la “società cristiana”, modernizzandola nelle sue forme d’azione. Benedetto XVI, al fondo, è rimasto un pensatore più che un uomo di governo.
Eco contro Ratzinger: ’Non e’ grande filosofo’
’Posizioni contro il relativismo grossolane, formazione filosofica debole’ *
BERLINO - "Non credo che Ratzinger sia un grande filosofo, né un grande teologo, anche se generalmente viene rappresentato come tale". Lo ha detto l’intellettuale, linguista e scrittore Umberto Eco in un’intervista al quotidiano tedesco Berliner Zeitung.
"Le sue polemiche, la sua lotta contro il relativismo sono, a mio avviso, semplicemente molto grossolane - ha commentato Eco riferendosi ancora a Benedetto XVI -, nemmeno uno studente della scuola dell’obbligo le formulerebbe come lui. La sua formazione filosofica è estremamente debole".
Per argomentare il suo giudizio Eco fa riferimento proprio alla questione del relativismo in una risposta diretta al suo intervistatore: "In sei mesi potrei organizzarle un seminario sul tema. E può starne certo: alla fine presenterei almeno 20 posizioni filosofiche differenti sul relativismo.
Metterle tutte insieme come fa papa Benedetto, come se ci fosse una posizione unitaria è, per me, estremamente naif".
Davvero è tutta colpa di Rodari e don Milani?
di Giorgio Pecorini (il manifesto, 6 marzo 2011)
«Don Milani, che mascalzone!» proclamava su Repubblica del 30 giugno 1992 Sebastiano Vassalli. L’ottimo scrittore (51 anni allora) ricordava d’esser stato insegnante da giovane ma soprattutto fondava la propria sentenza sul giudizio che un professore e preside e ispettore ministeriale in pensione, Roberto Berardi, aveva espresso nel libriccino «Lettera a una professoressa: un mito degli anni Sessanta», edito da Shakespeare and Company.
Mascalzone il Milani, spiegava Vassalli, perché «maestro improvvisato e sbagliato manesco e autoritario». E autore con quella "Lettera" di «un libro bandiera più adatto a essere impugnato e mostrato nei cortei che a essere letto e meditato un atto di calcolata falsificazione della realtà e di violenta demagogia». Un libro, gli garantiva Berardi, inteso «con altre forze disgregatrici ad abbassare il livello della scuola dell’obbligo a danno dei ceti più indifesi, e a creare disordine anche nelle scuole superiori» mirando a obiettivi «ben più ideologici (in senso contestativo) che scolastici».
Passano 19 anni ed ecco Cesare Segre proclamare il 24 febbraio sul Corriere della Sera che lo sfascio della cultura e della scuola italiane «è conseguenza anche della pedagogia di don Milani e Gianni Rodari», responsabile di una «didattica facile che ha cancellato la capacità di studiare».
L’illustre accademico fonda la propria sentenza nell’ultimo libro di Paola Mastrocola, appena pubblicato da Guanda: «Saggio sulla libertà di non studiare». E tanto gli piace che recensendolo vi si identifica fino a condividerne, addirittura radicalizzandola, la diagnosi sul come e perché in Italia lo studio sia «compromesso e svuotato»: «Il suo bersaglio polemico è la didattica di don Milani e di Rodari, che comunque diedero un appoggio, autorevolissimo, a tendenze già in atto. Don Milani predicò contro il babau del nozionismo svalutando il concetto di nozione come conoscenza» sino a frenare l’aspirazione dei propri allievi alla liberazione dai «lavori contadini» per tenerli vincolati al territorio e bloccare in loro «qualunque aspirazione al miglioramento mentale ma anche economico».
Quanto a Gianni Rodari, Mastrocola scopre e Segre conferma, «promuoveva la trasformazione dell’insegnamento in gioco, la vittoria della fiaba sulla razionalità e sulla storia. L’aula scolastica si trasformava in palcoscenico o in laboratorio, e gli scolari, distolti dallo studio, mettevano allegramente in gara la loro pretesa inventività». È così che entrambi spingono i nostri poveri ragazzi «ad aderire all’internazionale dell’ignoranza».
E qui chi abbia anche soltanto un minimo di conoscenza diretta e onesta di quel che Milani e Rodari hanno fatto detto e scritto nelle loro vite non sa se più indignarsi o dolersi. Ma è davvero possibile che persone acculturate, investite di così alta responsabilità sociale quale l’insegnamento, non possano leggere senza pregiudizi e paraocchi? Non riescano a vedere le diverse, anche contradditorie realtà dell’esistenza fuori dall’aula in cui lavorano?
Verrebbe voglia di domandare che cosa sanno davvero e che cosa pensano delle ricerche e delle sperimentazioni del Movimento di cooperazione educativa e del lavoro di insegnanti tipo Mario Lodi, Bruno Ciari, Margherita Zoebeli in cui s’incarnano quelle «tendenze già in atto» che Segre denuncia oggi come rovina del nostro sistema educativo e che nel ’92 Berardi chiamava «forze disgregatrici».
Mi contento di trascrivere, a nostro personale conforto, due frasi brevi: «La scuola - spiega Milani nella "Lettera ai giudici" - siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. È l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare il loro senso della legalità, dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il loro senso politico».
E Rodari, recensendo "Lettera a una professoressa" quasi con le stesse parole di Pasolini in una famosa intervista: «Un libro urtante, senza peli sulla lingua, spara a zero in tutte le direzioni, non risparmia nessuno. Di una sincerità a volte brutale, di una ingenerosità scostante. Con tutto ciò il più bel libro che sia mai stato scritto sulla scuola italiana. Da quel libro abbiamo tutti da imparare: maestri, genitori, professori, giornalisti, uomini politici».
Mi torna alla mente, a questo punto, l’immagine suggeritami 19 anni fa dell’accoppiata Berardi-Vassallo: quella dei ciechi del famoso quadro di Bruegel che tenendosi permano finiscono insieme nel precipizio. A loro si attaccano ora Mastrocola e Segre: il trenino s’allunga in un bunga-bunga pedagogico!
Il responsabile della Caritas Internationalis “dovrebbe rafforzare l’identità cattolica della carità”
di Robert Mickens
in “The Tablet” del 26 febbraio 2011 (trad. di Maria Teresa Pontara Pederiva - www.finesettimana.org)
Il Vaticano ha reso noto di aver impedito la nomina per un secondo mandato a Lesley-Anne Knight al timone della più grande organizzazione ecclesiale per la promozione dello sviluppo, perché vuole un nuovo leader in grado di rafforzare l’identità cattolica dell’organizzazione e di stabilire rapporti di lavoro più cordiali con la Santa Sede.
Le ragioni di Roma per negare il consenso al reincarico alla dott. ssa Knigth a segretario generale della sede centrale a Roma della Caritas Internationalis (CI) sono riportate in una Lettera inviata dal Segretario di Stato Vaticano, card. Tarcisio Bertone, a tutte le Conferenze Episcopali del mondo e vista questa settimana da The Tablet.
“Nel corso dei prossimi quattro anni una particolare attenzione dovrà essere riservata all’armonizzazione della dimensione teologica della Caritas Internationalis ... in riferimento al suo ruolo di organizzazione che opera sulla scena internazionale”, si afferma nella lettera di tre pagine, datata 15 febbraio 2011. Si aggiunge poi che il prossimo Segretario generale della CI dovrà anche necessariamente migliorare i rapporti con gli altri organismi ecclesiali e con i Dicasteri della Curia Romana che abbiamo un qualche “interesse” per le attività della Caritas.
La Lettera - che è stata anche inviata a tutti i vescovi responsabili delle 165 Caritas nazionali che compongono la federazione della Caritas - indica inoltre che il lavoro di sostegno che la Caritas svolge dovrà essere coordinato meglio “in stretta collaborazione con la Santa Sede, che è la specifica sede competente al riguardo”.
Espressioni simili sono state riprese martedì scorso dal capo dell’Ufficio per la carità del papa che ha il compito di sovrintendere alla Caritas Internationalis. “Possiamo anche essere competenti a livello organizzativo, ma siamo carenti in quanto a determinate qualità di coordinamento del lavoro e di rafforzamento dell’identità cattolica”, ha detto il card. Robert Sarah, presidente del Pontificio Consiglio “Cor Unum”, quando viene interrogato da The Tablet sui motivi per i quali il Vaticano ha negato il reincarico alla dott.ssa Knigth. “Sono convinto che ognuno abbia i suoi limiti”, ha affermato nel corso della conferenza stampa di presentazione del Messaggio di Benedetto XVI per la Quaresima. In un’intervista, pubblicata lunedì scorso, il cardinale ha detto che “Cor Unm” e la Segreteria di Stato erano “in attesa di un nuovo segretario generale della Caritas Internationalis che dovrà affrontare le nuove sfide interne” e tra queste ha citato la caratteristica di identità cattolica e “la cooperazione con la Santa Sede”.
Tuttavia, il card. Sarah ha elogiato la dott.ssa Knight - di nazionalità britannica e prima donna a ricoprire la carica di segretario generale della Caritas Internationalis - per aver reso la confederazione Caritas più agile e professionale. Il card. Bertone, nella sua lettera, le ha anche riconosciuto il merito di “aver conseguito risultati significativi e di aver agito con una professionalità ragguardevole”. Il Segretario di Stato insiste sul fatto che la negazione per un secondo mandato non significa “in alcun modo mettere in dubbio i suoi meriti o diminuire l’apprezzamento per il servizio reso”.
Ma la decisione del Vaticano di bloccare la candidatura per la ri-elezione della dott.ssa Kight ha provocato proteste in seno alla Confederazione, secondo quanto riferisce il suo immediato predecessore. Duncan McLaren, scozzese - che era segretario generale CI dal 1999 al 2007, ha affermato questa settimana che il Vaticano potrebbe bloccare solo quei candidati che non siano in buoni rapporti con la Chiesa. In un articolo inserito lunedì scorso sul sito web australiano della rivista dei gesuiti “Eureka Street” si è interrogato così: “Se la Knight era in buoni rapporti con la Chiesa quattro anni fa, cosa è cambiato nel frattempo?”. (traduzione di Maria Teresa Pontara Pederiva)
UNO SPIRITO NUOVO, A PARTIRE DALLA PAROLA:
I cattolici escano dal silenzio: solo così volteremo pagina
di Massimo Toschi (l’Unità, 22 gennaio 2011)
In attesa del Consiglio permanente della Cei, che si aprirà lunedì prossimo, anche i vescovi hanno cominciato a parlare. Monsignor Forte e monsignor Bregantini hanno detto parole coraggiose e lungimiranti. Avvenire domanda buoni esempi. Il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone ha parlato di moralità giustizia e legalità, dicendo di condividere il turbamento del presidente Napolitano.
Toni e sfumature diverse, ma certo lo scandalo è grande. Siamo giunti al capolinea del berlusconismo, che non solo ha governato la politica italiana, ma ha lasciato segni profondi nella società italiana. E anche la Chiesa e i credenti non possono sottrarsi a un bilancio delle loro scelte rispetto a questa lunga e drammatica stagione. Non basta più un giudizio solo sull’oggi, perché c’è un filo nero che unisce questo tempo, in cui il Paese si è sfinito moralmente, a fronte di una politica che ha perso autorità, autorevolezza e credibilità, sedotta anch’essa dal grande seduttore.
Nel 1994, all’inizio di questa stagione, Giuseppe Dossetti, in un discorso sulla notte delle persone e delle comunità indicava le cause profonde della notte del Paese: «Anzitutto una porzione troppo scarsa di battezzati consapevoli del loro battesimo rispetto alla maggioranza inconsapevole. Ancora l’insufficienza delle comunità che dovrebbero formarli; lo sviamento e la perdita di senso dei cattolici impegnati in politica, che non possono adempiere il loro compito di riordinare le realtà temporali in modo conforme all’evangelo per la mancanza di vero spirito di disinteresse e soprattutto di una cultura modernamente adeguata; e quindi una attribuzione di plusvalore a una presenza per se stessa, anziché ad una vera ed efficace opera di mediazione; e infine l’immaturità del rapporto laici/clero, il quale clero non tanto deve guidare dall’esterno il laicato, ma proporsi il compito di formazione delle coscienze (...) a un cristianesimo profondo e autentico e quindi a una alta eticità privata e pubblica. Ebbene, se queste erano e sono tuttora le cause profonde della nostra notte, non si può sperare che si possa uscirne solo con rimedi politici, o peggio rinunziando a un giudizio severo nei confronti dell’attuale governo in cambio di un atteggiamento rispettoso verso la chiesa o di una qualche concessione accattivante in questo o quel campo (per esempio la politica familiare o la politica scolastica. Evidentemente i cattolici sono oggi posti di fronte a una scelta, che non può che essere che globale e innegoziabile, perché scelta non di azione di governo, ma di un aut/aut istituzionale».
Dopo diciassette anni, i credenti e la Chiesa devono prendere atto che nessuna di queste cause è stata rimossa attraverso una rigorosa azione di formazione evangelica e di meditazione della Costituzione. Al contrario si è rafforzata la linea di una presenza per se stessa disponibile all’accordo con il Cesare amico. Nel 2007 il cardinale Ruini, sulla questione dei Dico, non solo non discusse la legge ma innalzò un muro nei confronti del governo Prodi, nella convinzione che il centrodestra sarebbe stato assolutamente generoso, divenendo così l’interlocutore privilegiato della politica ecclesiastica per il Paese. In questo quadro, i principi non negoziabili avrebbero trovato perfetta applicazione. Finalmente un governo sodale a cui chiedere aiuto per la cristianizzazione della società italiana. E questo connubio non casto venne celebrato in piazza San Giovanni al Family Day.
In questo modo si negava la coerenza del Vangelo, perché diventavano difensori della unità delle famiglia leader politici che esibivano più famiglie. Abbiamo ascoltato vescovi, che per non dispiacere il principe, contestualizzavano le bestemmie o davano pubblicamente i sacramenti, in modo da distruggere la conversione evangelica. E si ha l’impressione che tutto questo non sia avvenuto gratis. Oggi non può bastare un aggettivo o una parola forte.
La Chiesa italiana davanti al Paese deve chiedere perdono per non aver ascoltato l’appello del 1994 di don Dossetti, e per non aver intrapreso la via stretta del Vangelo e della Costituzione, diventando corresponsabile del degrado morale, che rischia di travolgere tutto e tutti. Questa è la condizione perché dalla penitenzasi generi la conversione.
Questo è il passaggio, perché la Chiesa italiana possa testimoniare di nuovo il magistero di amore e di verità che il Paese cerca. Non ci sono astute scorciatoie politiciste.
Se la Chiesa italiana fa penitenza, si converte, e apre ogni giorno il libro santo del Vangelo, avrà anche il dono della parresia, il dire tutto il Vangelo, anche nel tempo della vergogna e della menzogna, generando credenti capaci di donare la vita in primo luogo ai più piccoli e deboli di questo Paese.
Se la Chiesa difenderà il libro laico della Costituzione, l’unico vero progetto culturale elaborato dai cattolici italiani nel tempo della Repubblica, il Paese diventerà più forte e migliore, con una cittadinanza esemplare e non adultera.
Se la Chiesa difenderà il libro laico della Costituzione, l’unico vero progetto culturale elaborato dai cattolici italiani nel tempo della Repubblica, il Paese diventerà più forte e migliore, con una cittadinanza esemplare e non adultera.
Come si può divenire colpevoli di adulterio spirituale? In senso spirituale, l’adulterio denota infedeltà a Geova da parte di chi è unito a lui da un patto. L’Israele naturale sotto il patto della Legge fu perciò colpevole di adulterio spirituale a motivo delle pratiche della falsa religione, alcune delle quali includevano riti di adorazione del sesso e la trasgressione del settimo comandamento. Per ragioni simili Gesù denunciò la generazione adultera degli ebrei suoi contemporanei. Anche oggi, se i cristiani che sono dedicati a Geova e sotto il nuovo patto si contaminassero con l’attuale sistema di cose, commetterebbero adulterio spirituale. - Gc 4:4.
"Adultere, non sapete che l’amicizia del mondo è inimicizia con Dio? Chi perciò vuol essere amico del mondo si costituisce nemico di Dio".
In effetti devo dire che oggi 24 Gennaio 2011 la cei ha’ preso in pugno la situazione...nomi non si sono fatti ed e’ per questo che chi ha’ intendimeto sa’ di gia’ a chi i nomi che non si sono fatti si applicavano.
Qui’ nel lontano Canada oggi il giornale diceva che L’Italia e’ divisa in due opinioni; questo vuol dire che con 24.000 mila baci basteranno una seconda volta a cambiare la situazione....se ricordate 24.000 erano i voti dall’estero e cosi sara’ amen.
Vergognatevi, così nasce l’etica
quelle riflessioni da Leopardi a Marx
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 22 gennaio 2011)
L’indignazione è un moto dell’animo nutrito dal senso di vergogna, un’emozione fondamentale nella fenomenologia dell’etica sociale. Come altre emozioni, la vergogna è "generativa di comportamento" in quanto mette in moto sentimenti, come l’indignazione e la colpa, che agiscono direttamente sulla volontà: per alleviarli si è portati a giustificare la proprie azioni e infine a reagire. Se l’emozione della vergogna è in se stessa non razionale, la serie di sentimenti e azioni che alimenta sono dunque di tipo strategico: le forme con le quali l’individuo che si vergogna agisce sono propositi razionali volti a rimediare il misfatto che ha generato vergogna. Per esempio Papa Benedetto XVI ha commentato i numerosi casi di pedofilia nel clero cattolico con queste parole: "Proviamo profonda vergogna e faremo tutto il possibile perché ciò non accada più in futuro".
Per questa sua capacità generativa di comportamento, l’emozione della vergogna è stata messa da Giambattista Vico alle origini della società: se "la natura di tutte le cose sta nel loro cominciamento", allora la natura della storia umana sta nella vergogna primaria, quella di Adamo ed Eva di fronte alla nudità che scoprirono di avere non appena violarono il patto di obbedienza con il loro creatore. Nella Genesi come nel Pentateuco, la vergogna e la colpa figurano alle origini della responsabilità morale. Il rossore che sale sulle guance di chi prova vergogna è il segno della socialità di questa emozione, del bisogno di riconoscimento da parte degli altri e nello stesso tempo del controllo che quel riconoscimento opera sulle nostre azioni: chi prova vergogna non riesce a sostenere lo sguardo altrui e abbassa gli occhi a terra. Questa dimostrazione di vergogna è correlata e complementare alla reazione di indignazione che la conoscenza di un comportamento vergognoso induce.
Pertanto, la vergogna ha una fenomenologia doppia: la persona colpevole può provare il desiderio di nascondersi (così nasce il senso di umiliazione); chi assiste può reagire con sdegno. È per questa doppia valenza che poeti e filosofi hanno attribuito alla vergogna un ruolo liberatorio, non solo per l’individuo ma anche per la collettività.
Non provare vergogna, e per converso non provare indignazione, sono da questo punto di vista il segno di una realtà impermeabile all’ethos perché indifferente, e di un atteggiamento di apatico realismo. Una persona che non si vergogna non sente di dover reagire o cambiare comportamento. Per questo scrittori e filosofi si sono spesi per svegliare le coscienze dormienti, educare il senso di indignazione, smuovere l’emozione della vergogna. E quest’opera della cultura dimostra come la vergogna sia segno della civiltà. La forza di questa emozione è naturale ma la forma che prende dipende dall’ethos di una società. Per esempio, ciò che il comportamento sessuale prescrive o censura non è identico in tutte le società, gli "oggetti" della vergogna e quindi dell’indignazione sono contestuali e socialmente situati; ma il meccanismo che li governa è universale nella sua fenomenologia. Universale nel senso che, per riprendere la Bibbia e Vico, le radici della responsabilità morale (e quindi della punibilità) stanno nella capacità che gli individui hanno di sentire la vergogna e la colpa. Su questa base si sviluppa l’azione educativa e culturale.
Nel 1823, Giacomo Leopardi annotava nello Zibaldone: "Niuna cosa nella società è giudicata, né infatti riesce più vergognosa, del vergognarsi". Convinto della funzione attiva ovvero pratica del "vergognarsi", Leopardi aveva immortalato la deprimente condizione dell’Italia nel Canto Sopra il monumento di Dante, come a voler muovere i lettori: "Volgiti indietro, e guarda, o patria mia/quella schiera infinita d’immortali/E piangi e di te stessa ti disdegna/Che senza sdegno omai la doglia è stolta/Volgiti e ti vergogna e ti riscuoti/E ti punga una volta/Pensier degli avi nostri e de’ nepoti ."(...)
Provare vergogna sembra quindi essere di sprone, sembra indurre a reagire, come ha scritto Silvana Patriarca. Quante volte si sente ripetere (e si dice) "mi vergogno di essere italiano/a"? Innumerevoli volte, soprattutto negli ultimi anni. Dirlo, ripeterlo instancabilmente segnala la speranza che dalla capacità di sentire vergogna nasca l’indignazione, e di qui la decisione di reagire, di cambiare.
Su questa catena di fenomeni lo stesso Marx - notoriamente contrario all’uso di emozioni e sentimenti nella spiegazione dei fenomeni sociali - vergò parole straordinarie a proposito delle politiche illiberali del governo prussiano, commentando che, senza cadere in un vuoto patriottismo, sarebbe stato auspicabile che i tedeschi avessero provato vergogna, e aggiungeva: "Non è la vergogna che fa le rivoluzioni", tuttavia "la vergogna è già una rivoluzione in qualche modo... se un’intera nazione esperimenta davvero il senso di vergogna è come un leone accovacciato pronto a balzare".
Trent’anni dalla morte
Gianni Rodari, mago di Natale
di Antonia Arslan *
«Il pellerossa con le piume in testa com’è finito tra le statuine del presepe?» si chiedeva Rodari in una delle sue fiabe in rima che hanno fatto il giro delle scuole del mondo, fin da quando il ’favoloso Gianni’ 50 anni esatti fa, con Filastrocche in cielo e in terra, fu lanciato da Giulio Einaudi tra gli autori grandi per i lettori piccoli, insieme con Italo Calvino. Tanto che scherzosamente lo scrittore scrisse all’editore: «Ho ricevuto i calzoni lunghi: se ha dei nemici, disponga di me».
Dieci anni dopo, le Favole al telefono lo consacrarono nella nuova collana degli ’Struzzi’ con copertina di Munari: «A 600 lire, anche i fumatori di trinciato forte potranno ora comprare le mie favole. Il coraggio di infilare il mio nome tra Lee Masters e Brecht io non l’avrei mai avuto». Ora quelle storie sono tra I libri della fantasia raccolti in edizione da classico, con una nota di Pino Boero e i disegni originali munariani, come il celebre uccellino disegnato su una lettera del titolo o quegli schizzi e ghirigori che si fanno proprio quando si è al telefono. Ma il trentennale della morte del creatore di Cipollino (quanti bambini hanno ricevuto questo soprannome da quel simpatico personaggio) non è editorialmente rilevante solo per il tomo complessivo che lo celebra come un classico, quanto per un’operazione finora mai tentata con uno scrittore italiano.
L’ultimo atto sono le Storie e filastrocche di Natale appena uscite, con «il pellerossa nel presepe»: in precedenza però mai comprese nella bibliografia dell’inventore della Grammatica della fantasia .Infatti il gruppo editoriale triestino ’Einaudi Ragazzi, E.Elle ed Emme Edizioni’, che fa capo a Orietta Fatucci, acquisiti tutti i diritti d’autore presso altri editori, ha avviato il rilancio dello scrittore con una strategia degna d’attenzione. Eccola: va bene Munari, che non invecchia mai, ma nell’idea rodariana che «la fiaba è il luogo di tutte le ipotesi», è stata scelta un’attualizzazione del paratesto dei vari racconti: collana, formato, illustrazioni, capitoli, titoli... Non soltanto con nuovi artisti (come Altan, oltre a Giulia Orecchia, Nicoletta Costa, Valeria Petrone e altri che illustrano una seconda grande raccolta intitolata Le storie della fantasia ), ma anche con cambi di formato, addirittura trasformando i brevi capitoli delle Favole al telefono in singoli libri a sé.
Chissà se Rodari avrebbe approvato? Crediamo di sì. Dunque, per ogni storia, altrettanti albi di grande formato (tra gli ultimi La strada che non andava in nessun posto con disegni di Fulvio Testa) oppure libriccini (come L’omino della pioggia: con diverse uscite ed edizioni per ogni singola storia o opera siamo di fronte a uno spin off editoriale in piena regola, con al centro la forza della parola, come in C’era due volte il barone Lamberto, ironica testimonianza del sentimento di morte che Gianni, ormai malato, cercò di esorcizzare proprio in quel suo ultimo romanzo. Qui la parola (il nome del protagonista) pronunciata di continuo non lo fa più morire: metafora della stessa letteratura che salva.
Dopotutto la forza della scrittura, umana e sociale, è in effetti il segreto delle parole di Rodari, che invita i suoi piccoli (e grandi) lettori a «mai lasciarsi spaventare dalla parola ’fine’». E nel volume uscito per le feste, illustrato da Alistar, torna il suo Mago di Natale, che non ha che auguri da regalare: «Di auguri ne ho tanti, scegliete quelli che volete, prendeteli tutti quanti».
* Avvenire, 24 dicembre 2010
Sulle piste di sabbia. Folate di vento negli occhi e nei capelli. Ovvero la paura della libertà
di Angelo Casati ("mosaico di pace”, ottobre 2010)
Sento rinascermi in cuore di tanto in tanto e ancora non è spenta - eppure di anni se ne sono srotolati da allora, più di dieci - la nostalgia di un’estate in Giordania, nostalgia delle piste di sabbia del deserto. Piste infinite, inafferrabili, a smarrimento di occhi e folate di vento. Negli occhi e nei capelli. E fu desiderio una sera di fissare in righe quella straniante emozione, con gli occhi che già andavano ai giorni futuri:
Sulle piste di sabbia.
E mi sveglierò
su strade grigie
e griderò inascoltato
l’assenza.
Orfano
della magia del deserto
delle sabbie rosate
delle rocce
ubriache di colore.
E sognerò
folate di vento
di libertà
e sabbia nei capelli
spazi senza recinti
e l’eco dopo millenni
di messaggi segreti
i-ncisi da beduini
su rocce di basalto.
A segnalare
ai nomadi del futuro
piste segrete
d’indipendenza
nell’infuocato deserto.
Nostalgia di spazi e di libertà, che si fa ferita per restrizione, ora che le case, come fossero picchetti, fanno barriera da un lato e dall’altro della strada e negano sconfinamento alla sete degli occhi, cancellando l’oltre, impoverendo visioni. Mi odo camminare nel segno della restrizione e del contenimento. Quasi fosse scritto divieto, divieto a una sete che chiamo sete di libertà.
tra menzogna e verità
E sento, soffro sulla pelle a incisione la ferita della menzogna, la menzogna circa la libertà. Soffro lo svilimento, l’estenuazione, la sconsacrazione di una parola che è sacra, fatta oggetto di prostituzione. Scrivono libertà su ogni dove, perfino sul nome dei partiti, antichi e nuovi, proprio là dove è trasalimento di paura a ogni sussulto pur minimo di indipendenza, là dove è in sospetto il libero pensare e il libero comunicare.
C’è dunque nelle stanze alte del potere, anche se non confessata, una paura della libertà. Che non è
solo di oggi. Chi di noi ha più anni sulle spalle ricorda come non raramente si giustificasse
l’imposizione di regole dall’alto o una cieca obbedienza con il fatto che il popolo, la gente semplice
si diceva - è lontana dall’essere matura e dunque va indirizzata. Conseguenza fu la crescita di
uomini e donne dipendenti, che pensavano di essere virtuosi, affidando la navigazione della
coscienza e dell’intelligenza ad altri. La libertà fa paura a chi sogna un potere assoluto.
Meglio avere vassalli obbedienti, accoliti del nulla, esecutori plaudenti, meglio una massa pilotabile e acclamante che un popolo maturo di pensanti e resistenti. E, confessiamolo, non sempre abbiamo avuto e abbiamo occhi e vigilanza per questo esproprio strisciante della libertà. Le lusinghe del potere sono altamente seduttive. A tal punto la loro fascinazione che a volte neppure ci si accorge che per un pugno di vantaggi si è sul punto di vendere la libertà. Con esiti di raccapriccio, perché un popolo della dipendenza non può che prefigurare panorami di disgusto.
Non è forse vero che nei giorni di fame, di sete, di stanchezza nel deserto era accaduto agli israeliti, sfuggiti al giogo del faraone, di rimpiangere le pentole della carne e le cipolle d’Egitto? Come se vendere la libertà non costituisse baratto di cecità e di mostruosa insipienza.
La lusinga accompagnò nei secoli futuri il popolo di Dio, che si illuse, succede anche oggi, che rimedio ai problemi cruciali del tempo fosse l’entrata in scena dell’uomo forte, l’uomo della provvidenza. Così gli israeliti pretesero da Dio un re. Ma non erano forse usciti i loro padri dall’Egitto, per sfuggire a una sottomissione? Alla sottomissione a un re, il faraone, che si era fatto come Dio, Dio in terra?
Ebbene Dio rispettò la decisione, ma attraverso le parole del vecchio Samuele mostrò quali
sarebbero stati i costi di questa scelta, svelando ciò che sarebbe avvenuto in futuro.
Il futuro della
concentrazione del potere in uno solo sarebbe stato l’abuso e lo sfruttamento. Li mise
sull’avviso: il re, il capo assoluto, avrebbe preso i loro figli per l’esercito; avrebbe preso le loro figlie
per il suo harem; avrebbe preso i loro campi, le loro vigne, i loro oliveti più belli, e li avrebbe dati ai
suoi ministri, avrebbe preso mano d’opera e bestiame, li avrebbe adoperati per i lavori in casa sua e
dei suoi cortigiani.
Sembra di leggere una pagina dei nostri tempi, una descrizione impietosa dei meccanismi e degli esiti di un potere che si arroga il diritto di essere assoluto, assoluto e insindacabile, e piega tutto e tutti ai suoi interessi. La Bibbia conosce questa facile perversione del potere, ed è estremamente critica. La lusinga, dobbiamo riconoscerlo, accompagnò e ancora oggi accompagna, il popolo dei credenti.
Voci di Padri antichi, voci di vigilanti, già nei primi secoli, mettevano in guardia dall’esproprio
strisciante e sottile della libertà ad opera di atei devoti. Una delle voci lucide, quella di Ilario di
Poitiers, scriveva:
"Combattiamo contro un persecutore insidioso, un nemico che lusinga: non ci
flagella la schiena, ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni per la vita ma ci arricchisce
per la morte; non ci sospinge col carcere verso la libertà ma ci riempie di incarichi nella sua
reggia per la servitù: non spossa i nostri fianchi ma si impadronisce del cuore; non taglia la testacon la spada ma uccide l’anima con il denaro; non minaccia di bruciare pubblicamente, ma accende la geenna privatamente. Non combatte per non essere vinto, ma lusinga per dominare; confessa il Cristo per rinnegarlo; favorisce l’unità per impedire la pace; reprime le eresie per sopprimere i cristiani; carica di onori i sacerdoti [...] costruisce le chiese per distruggere la fede. Ti porta in giro a parole, con la bocca [...]".
Così Ilario di Poitiers, grande padre della Chiesa. Parole che ci chiamano con forza alla vigilanza, non solo fuori ma anche dentro le Chiese. Non è forse vero che troppo disinvoltamente e presuntuosamente ci definiamo donne e uomini liberi? Ricordate quel gruppo di dirigenti Giudei che a Gesù obiettano: "Come puoi dire: sarete liberi? Noi non siamo schiavi di nessuno".
Anni fa mi capitò di leggere, tra gli aforismi di Luigi Erba, uno che registrava con sottile disincanto la situazione della nostra libertà, scriveva: "Si parla di società permissiva e si inventa un’illusione. In realtà si vive in una selva di divieti e di costrizioni. Molte libertà si conquistano solo con i privilegi e i privilegi si ottengono con la violenza. I privilegi sono di pochi potenti e, a discendere, dei loro portatori d’acqua con le orecchie. Un gran numero di formiche, lavorano per pochi e le poche cicale pretendono che le formiche cantino per intrattenerle". Un pessimismo forse in eccesso, ma non totalmente ingiustificato.
Può succedere purtroppo che perfino all’interno degli spazi ecclesiali a volte la sensazione sia di vivere in un regime di libertà vigilata. Succede quando la libertà viene evocata più per mettere in guardia dalle sue possibili derive che per annunciarne la bellezza e la forza, bellezza e forza di un messaggio che trascina, fa alzare il capo e sprigiona vento di insurrezione, di indipendenza dai mille faraoni che pretendono sudditi devoti. Ci accomuna una vocazione, quella ad essere donne e uomini liberi. Sì, una vocazione. Di tutti. Come dirà Paolo nella lettera ai Galati: "Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà" (Gal 5,13).E ancora: "Cristo ci ha liberati per una vita di libertà" (Gal 5,1).
e la nostra immagine?
Mi chiedo se quando entriamo negli spazi del vivere quotidiano, nel confronto con le donne e gli uomini del nostro tempo, l’immagine che diamo sia quella della libertà dello Spirito o quella di coloro che sono preoccupati di porre paletti o di disegnare recinti. Diamo una notizia buona?
Mi suonano lontane, quanto lontane, le parole che Paolo VI - e volevano essere parole profetiche
pronunciò in un’udienza generale, il 9 luglio 19 69 . Diceva: "Il nostro tempo di cui il Concilio si
fa interprete e guida, reclama libertà. Avremo un periodo nella vita della Chiesa, perciò nella vita di
ogni figlio della Chiesa, di maggiore libertà, cioè di minori obbligazioni legali e minori inibizioni
interiori. Sarà ridotta la disciplina formale, abolita ogni arbitraria intolleranza, ogni assolutismo,
sarà semplificata la legge positiva, temperato l’esercizio dell’autorità, sarà promosso il senso di
quella libertà cristiana che tanto interessò la prima generazione cristiana, quando si seppe esonerata
dalla legge mosaica e dalle sue complicate prescrizioni rituali".
Commentava Enzo Bianchi: "Sono parole di un Papa, del Papa che ha chiuso il Concilio. Oggi ci paiono distanti e quasi non più ripetibili senza destare sospetti, nella nuova situazione ecclesiale che si è delineata. Sono parole di cui occorre fare memoria". Da fissare a memoria con le parole di Paolo: "Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù" (Gal 5 ,1). Da niente e da nessuno. E sia vento di libertà sui nostri volti smunti
Troppi attacchi al papa
così a Benedetto XVI manca uno spin doctor
di Marco Ansaldo (la Repubblica, 23 agosto 2010)
Quando il Papa è in viaggio all’estero, c’è un momento molto importante della giornata, addirittura centrale da un punto di vista mediatico. Si svolge immancabilmente all’alba, quando nella stanza d’albergo dove alloggia l’assistente del direttore della Sala stampa vaticana, il burbero ed efficientissimo Victor van Brantegem, avviene la distribuzione dei testi che il Santo Padre leggerà quel giorno.
Così fu anche la mattina del 12 settembre 2006, a Ratisbona, primo viaggio di Joseph Ratzinger nella sua Baviera come Benedetto XVI. Ma quella volta accadde qualcosa. Una volta pronunciata la sua lezione all’università, le agenzie di stampa rilanciarono il discorso puntando soprattutto su una citazione di Manuele II Paleologo, dalla quale poteva evincersi il messaggio che per il Papa cattolico l’Islam è una religione violenta, votata alla guerra santa. Una frase che estrapolata dal suo contesto ampio e articolato, 12 pagine fitte, scosse profondamente il mondo islamico che reagì indignato alla vigilia del viaggio seguente di Benedetto nella Turchia di fede musulmana. Eppure, otto ore prima che il testo venisse pronunciato, gli stessi giornalisti leggendolo mentre facevano colazione capirono che quella sola frase poteva dare adito a pericolosi fraintendimenti e risultare potenzialmente esplosiva. Segnalarono subito la cosa all’ufficio stampa papale, insistendo, ma nulla venne cambiato. E puntualmente una bufera internazionale si abbatté violenta e durissima sul Vaticano, con tanto di richieste di scuse al Pontefice da parte di alti esponenti religiosi islamici, sopite infine dalla geniale intuizione della preghiera comune del Papa di Roma con il Mufti di Istanbul nella Moschea Blu. Ma com’è possibile che a Ratisbona nessuno dello staff papale avesse avuto la prontezza di avvisare Benedetto dei rischi?
Un libro illuminante in proposito affronta non solo l’interessante ricostruzione di quell’incidente, ma tutta una serie di infortuni clamorosi e crisi mediatiche in cui il Vaticano si è trovato impigliato, soprattutto in quest’ultimo anno difficile per il Papa tedesco. Lo hanno scritto due fra i più preparati vaticanisti italiani, Paolo Rodari e Andrea Tornielli (Attacco a Ratzinger, editore Piemme). Ratisbona infatti fu solo il primo caso, a cui ne seguirono molti. Quello della nomina del vescovo polacco Wielgus, in odore di spionaggio; della scomunica revocata al prelato negazionista Williamson; delle parole in Africa sui preservativi destinati ad aumentare il problema dell’Aids; della difficile gestione dello scandalo sulla pedofilia nella Chiesa; fino all’inedito scontro fra cardinali, con l’attacco della rampante eminenza austriaca Schoenborn all’ex segretario di Stato vaticano Sodano.
Tutti questi infortuni destinati a intaccare gravemente l’immagine dell’istituzione cattolica e di chi la guida, sostengono i due autori, potrebbero invece essere sapientemente depotenziati da parte della Santa Sede. Basterebbe un accurato controllo preventivo e la possibilità successiva di applicarlo, come l’incidente di Ratisbona ha dimostrato e pure i casi seguenti, che Rodari e Tornielli analizzano uno per uno nelle loro complesse sfaccettature e nei brutali effetti successivi. La loro deflagrazione rivela piuttosto che la Gerarchia difetta - anche se ciò può sembrare strano - di una vera strategia comunicativa. Manca una regìa complessiva. E ci si limita, dopo, a tamponare le falle, a spegnere gli incendi, a disinnescare bombe già esplose. Le mansioni affidate all’attuale direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, uomo di grandissima preparazione e abnegazione, e la sua stessa confidenza e accessibilità al Papa appaiono diverse da quelle del suo predecessore, Joaquim Navarro Valls, che con Karol Wojtyla aveva non solo un rapporto di consigliere, ma agiva come un vero e proprio spin doctor.
Una questione a cui la Santa Sede dovrà prestare molta attenzione. Perché come ha efficacemente spiegato ai due vaticanisti un autorevole porporato interno ai sacri palazzi, gli attacchi a Ratzinger si sono moltiplicati. «Attacchi di ogni tipo. Una volta si dice che il Papa si è espresso male, un’altra volta si parla di errore di comunicazione, un’altra ancora di un problema di coordinamento tra gli uffici curiali, un’altra di inadeguatezza di certi collaboratori. Vuole sapere la mia impressione? Non c’è una squadra che lo sostiene adeguatamente, che previene l’accadere di certi problemi, che riflette su come rispondere in modo efficace. Che cerca di far passare, di espandere l’autentico suo messaggio, spesso distorto. Così la domanda più frequente è diventata questa: a quando la prossima crisi?»