Non possiamo vivere senza menzogna
Ignacio Mendiola: la bugia è un rifugio.
Ci protegge dal mondo
di Armando Torno (Corriere della Sera, 21.07.2008)
Nel 1797 il trentenne Benjamin Constant scrive un trattatello dal titolo Delle reazioni politiche. Viene subito tradotto e ripartito in vari fascicoli da una rivista tedesca. Tra i molti nervi scoperti che l’amico di Madame de Staël si procura il piacere di toccare c’è il tema della menzogna. Da uomo del suo tempo, disilluso quanto brillante, Constant ricorda che i princìpi universali, qualora si dovessero utilizzare per le concretezze della vita, dovrebbero fondarsi su qualcosa di intermedio, insomma su un riferimento capace di concatenarli con la realtà. E, tra le molte frasi, ce n’è una che non poteva passare inosservata: «Dire la verità è un dovere, ma solo nei confronti di chi ha diritto alla verità».
Apparentemente sembra una teoria come molte altre di quel periodo ma, mettendo a punto la cosa, Constant non riesce a trattenersi dal criticare Immanuel Kant e, in particolare, alcune sue riflessioni. Tra le quali c’era la seguente: «Persino di fronte a degli assassini che vi chiedessero se il vostro amico, che loro stanno inseguendo, si sia rifugiato in casa vostra, la menzogna sarebbe un crimine ». Era noto - e lo è ancora ai nostri giorni - che per il sommo pensatore bisogna dire la verità in ogni situazione. Sempre e comunque.
La replica non si fa attendere. Kant risponde, ribattendo punto per punto (come fece Origene contro il pagano Celso), con uno scritto dal titolo Su un presunto diritto di mentire per amore dell’umanità. Per dirla in breve, il tedesco non si muove di un millimetro. Tra le sue parole vale la pena ricordare: «Chi dunque mente, per quanto buone siano le sue intenzioni, ha l’obbligo di assumersi le responsabilità delle conseguenze che ne derivano»; e ancora: «È pertanto un sacro precetto della ragione - precetto che si impone incondizionatamente ed è irriducibile a ogni ordine di convenienza - essere veritieri (onesti) in ogni dichiarazione». Ora, chi volesse conoscere quella polemica e prendere atto dei testi, trova in un delizioso libretto, firmato Kant-Constant e dal titolo Il diritto di mentire, quanto desidera. La curatrice, Sabrina Mori Carmignani, merita una menzione per il saggio introduttivo e la confezione del piccolo volume edito da Passigli.
Pagine che sollevano una questione irrisolta da millenni: già Agostino aveva scritto il De mendacio, dove distingueva e catalogava le bugie, mentre sette secoli prima di lui Eubulide di Mileto (ripreso da Aristotele) elaborò il «Sofisma del mentitore». Che, nella prima formulazione, suonava così: «Se menti dicendo di mentire, nello stesso tempo menti e dici la verità ». Lo hanno ripreso i logici del Novecento.
L’argomento sarebbe una questione oziosa e irrisolta della filosofia se non fosse tornato di grande attualità. O meglio, per dirla con i francesi, «è nel vento». Prova ne è la traduzione italiana, uscita da Tropea, di un brillante saggio di Ignacio Mendiola, Elogio della menzogna. In esso si afferma una verità incontestabile: sulla menzogna sono state dette molte bugie. Gli esempi riportati si sprecano e il sociologo basco ne prende a prestito dal cinema, dalla letteratura e dalle esperienze esistenziali. Che sarebbe l’amore senza la bugia?
Mendiola rivendica il nostro diritto a mentire. Per lui Pinocchio non esiste ma di questo burattino abbiamo bisogno, come del principe azzurro e del lupo cattivo, giacché tra le braccia delle loro menzogne abbiamo trascorso ore serene e sonni beati. Ma lasciamogli la parola: «La menzogna è una protezione contro il mondo, un costrutto che ci salvaguardia dall’inclemenza del nonsenso, un rifugio che deve essere costruito anche da chi ripudia la menzogna, perché nella verità risiede solo l’inesistente occhio di Dio». Non si esprime da credente, ma i suoi argomenti sono perfetti per la vita che dobbiamo sopportare.
Si dovrebbe infine parlare di menzogna culturale, dell’inganno dell’arte e dell’architettura, del fondamentale ruolo della bugia in politica, in economia e nella società della comunicazione di oggi (senza menzogna ci sarebbe la Tv?), ma preferiamo segnalarvi un ultimo libro che indirettamente soffia sull’argomento.
Si tratta della Historia Ecclesiastica di Thomas Hobbes, che ha appena visto la luce presso l’editore parigino Honoré Champion con il testo critico latino, la versione inglese e una formidabile introduzione di 300 pagine di Patricia Springborg dell’ateneo di Sydney (esce con il contributo della Libera Università di Bolzano). Quest’opera, in forma di carme elegiaco, che non ha mai trovato rilievo negli studi su Hobbes, è forse lo scritto più virulento e polemico del filosofo inglese. Alla base c’è la condanna del potere papale, ma i versi sono permeati da una domanda inquietante, espressa sovente in forma di satira: quante menzogne ha avuto bisogno la Chiesa nella storia?
Come si fa a rispondere? Hobbes non ne offre l’elenco. E poi, tutto sommato, per chi ha fede non è particolarmente importante.
Sul tema, in rete enel sito, si cfr.:
FLS
Ricordando Smullyan
Il logico matematico più divertente del mondo
di Piergiorgio Odifreddi *
Un giorno Raymond Smullyan andò alla lavagna per una conferenza e disse: «O io ho una moneta tra le dita, o 2 più 2 fa 5». Poiché stava tenendo la moneta in mano, aveva detto il vero. Ma di colpo la moneta scomparve misteriosamente e Smullyan se ne tornò sornione al proprio posto.
L’uditorio di logici capì immediatamente lo scherzo di cui era stato vittima. Mostrando la moneta, Smullyan aveva dimostrato la verità della propria affermazione basandosi sulla prima alternativa. Ma facendola sparire, diventava vera la seconda alternativa: dunque Smullyan aveva dimostrato che 2 più 2 fa 5.
Strana e paradossale dimostrazione di un’assurdità, che solo un mago poteva permettersi di fare. E Smullyan era effettivamente un mago, che divertiva amici e studenti con una serie di trucchi da prestigiatore, anche se la sua reale professione era la matematica. Più precisamente, la logica matematica, nella quale aveva lasciato il segno nel 1961, mostrando in un famoso libro sulla teoria dei sistemi formali che i teoremi di limitatezza dimostrati da Kurt Gödel e altri negli anni Trenta erano molto più generali di quanto si fosse inizialmente sospettato.
Ma la sua notorietà si estese al grande pubblico con Qual è il titolo di questo libro? (Zanichelli, 1981). Come suggeriva fin dal titolo, il libro conteneva una serie di paradossi e indovinelli che mettevano alla prova l’abilità logica e la pazienza psicologica del lettore. Una serie di questi giochi coinvolgeva l’Isola dei Cavalieri e dei Furfanti (dall’inglese knight, "cavaliere", e knave, che significa sia "fante" che "furfante"), nella quale ciascun abitante o è un cavaliere, e dice sempre la verità, o è un fante, e dice sempre il falso. Se uno incontra un abitante, che domanda deve fargli per sapere se sia un cavaliere o un fante? Naturalmente non basta domandargli se è un cavaliere, perché la risposta sarebbe affermativa in ogni caso: cioè, una verità per un cavaliere e una falsità per un fante. Analogamente, non basta domandargli se è un fante, perché la risposta sarebbe negativa in ogni caso.
In realtà bisogna ricorrere al pensiero laterale: basta fargli una domanda della quale si conosce già la risposta. Per esempio, basta domandargli se è una mucca: il cavaliere dirà di no, ma il fante dirà invece di sì.
Smullyan spinse al limite questo genere di rompicapi in due libri memorabili: Fare il verso al pappagallo del 1985 (Bompiani, 1990) e Perenne indecisione del 1987. Il primo fornisce un’introduzione alla logica combinatoria. Il secondo è invece un trattamento completo dei teoremi di incompletezza e indecidibilità.
Prima ancora di pubblicare il suo primo libro di paradossi, Smullyan aveva percorso una strada diversa per la divulgazione della logica: quella della cosiddetta "analisi retrograda" degli scacchi, in cui si presenta una scacchiera con alcuni pezzi disposti in un certo modo, e si chiede al lettore di individuare l’unica serie di mosse che ha potuto portare a quella disposizione.
Ma Smullyan si interessava anche di religione e filosofia: nel 1977 uscì Il Tao è silente, professione di fede nel taoismo. Ritornò sul tema nel 2003 con Chi lo sa?, presentato nel sottotitolo come "uno studio della coscienza religiosa".
D’altronde, già dal suo aspetto fisico si sarebbe detto che Smullyan era un immortale taoista o un vecchio saggio: la lunga chioma e la folta barba bianche, oltre allo sguardo penetrante, lo facevano infatti assomigliare a Tagore o al mago Gandalf del Signore degli anelli.
Anche nel campo etico Smullyan ha lasciato un segno, inventando un paradosso che porta il suo nome: "In un’oasi A e B decidono indipendentemente di assassinare C. A mette del veleno nella sua borraccia, B la buca e C muore di sete. Chi è colpevole della sua morte, visto che A ha messo del veleno che lui non ha bevuto, e B ha bucato una borraccia che conteneva acqua avvelenata?".
Come se non bastasse Smullyan era anche un ottimo pianista, e in rete si trovano molti video in cui suona.
Per questo il suo allievo Jason Rosenhouse ha intitolato Quattro vite il libro che gli ha dedicato nel 2014. E per questo sono morti quattro Raymond Smullyan il 6 febbraio di quest’anno, tutti di novantott’anni. Ed è doveroso ricordare "il più divertente logico mai esistito". Così Martin Gardner ha definito Smullyan. E dichiarato dal curatore di Alice nel paese delle meraviglie oltre che dal più celebre divulgatore di matematica del Novecento, è tutto dire.
L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT E L’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN. Bisogna sempre dire la verità? *
IMMANUEL KANT
Bisogna sempre dire la verità?
di Francesca Rigotti (Doppiozero, 19.10.2019)
Appollaiato sul ramo di una pianta il corvo (corvus), uccello dal piumaggio bianco come la neve, osserva il tradimento di Coronide, amata e resa gravida da Apollo, con il giovane Ischi, e corre a riferirlo al capo. Così narrano le Metamorfosi di Ovidio nel libro II (542-547). Mentre vola alla volta del dio di Delfi suo padrone, l’uccello viene raggiunto dalla cornacchia (cornix) che lo mette in guardia più o meno così: «Attento alle mie parole, corvo. Una volta mi capitò di spiare, nascosta sopra un folto olmo (abdita fronde levi densa speculabar ab ulmo), le tre vergini Pàndroso, Erse e Aglauro che Minerva aveva incaricato di sorvegliare - senza aprirla! - una cesta di vimini. Aglauro però viola l’ordine e disfa i nodi, scorgendovi dentro un bambino, Erictonio - nato dalla terra fecondata da Efesto - con accanto un serpente. Corro a riferire l’accaduto a Minerva e che cosa ottengo in cambio della mia fedeltà? Di essere degradata, di perdere il favore della dea e di essere posposta alla notturna civetta, Nictìmene, che divenne l’uccello sacro alla dea».
Nonostante l’avvertimento a non parlare troppo, il corvo riferì dell’incontro di Coronide con Ischi ad Apollo, che non la prese affatto bene. Il dio uccise infatti Coronide con una freccia, salvando però il figlio dal rogo funebre, e punì il corvo, «che si aspettava un premio per aver detto la verità», facendo diventare nero il suo piumaggio. Non cerchiamo per ora di interpretare il senso del fatto che il bambino salvato dalle fiamme e affidato al centauro Chirone divenne Asclepio, il fanciullo destinato ad apportare salute al mondo intero (salutifer orbi ... puer), e soffermiamoci invece sul castigo del corvo e della cornacchia, puniti dagli dei per... aver detto la verità.
Bisogna sempre dire la verità?
Come avrebbe reagito Kant, il rigoroso filosofo di Königsberg, di fronte a questo episodio? Avrebbe approvato o biasimato il comportamento degli uccelli che parlavano troppo? E che dicevano la verità anche se essa non veniva loro richiesta, come è il caso del corvo che si incarica spontaneamente di farlo per il puro piacere di far andare la sua linguaccia. «Lingua fuit danno», la lingua «fu la sua rovina», commenta il poeta. E lo fu anche della cornacchia, benché questa fosse stata esplicitamente incaricata da Minerva della sorveglianza. Ma posso tacere la verità? O bisogna sempre dire la verità, che è il titolo del libro in cui Andrea Tagliapietra, autore anche del recente Filosofia dei cartoni animati edito da Bollati Boringhieri affronta questa tematica? (Immanuel Kant, Bisogna sempre dire la verità?, a cura di Andrea Tagliapietra, Milano, Cortina, 2019). Un fustigatore della menzogna quale Agostino di Ippona ha a questo proposito un consiglio preciso: «Quello che dici, deve essere assolutamente vero; ma non devi per forza dire tutto quello che è vero».
Agostino, commenta Tagliapietra nel saggio introduttivo, pone dunque il nucleo della bugia necessaria in forma di problema: «Se si rifugia presso di te uno che potrebbe scampare alla morte grazie a una tua bugia, non mentirai?» (Contra mendacium, 18 e 5); lo stesso problema che sarà oggetto dello scambio polemico di opinioni etico-filosofiche tra Benjamin Constant e Immanuel Kant. Dove il Kant precritico, spiega sempre Tagliapietra, pare favorevole all’uso della riserva mentale. Diventerà invece intransigente negli anni successivi, quando la menzogna verrà definita da Kant l’autentica bruttura che macchia la natura dell’uomo, «l’avvilimento, anzi l’annientamento della dignità umana». Le bugie violano la fiducia nell’umanità: «La maggiore infrazione del dovere dell’uomo verso se stesso, considerato unicamente come essere morale (riguardo all’umanità che risiede nella sua persona) è l’opposto della sincerità, vale a dire la menzogna» (I. Kant, La metafisica dei costumi, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 287-288).
Bagatelle e crudeltà
Se guardiamo brevemente ad altri contesti, vediamo che la tradizione della cultura antica - seguo sempre Tagliapietra - ammette qualche forma di menzogna nel caso che essa apporti salvezza: si pensi soltanto alla figura di Ulisse, eroe astuto quanto mentitore. Ammessa è anche la menzogna del migliore verso il peggiore, non comunque del peggiore verso il migliore.
La cultura cristiana poi, continua Tagliapietra, trova mille scappatelle per una bagatella come il peccatuccio della bugia di scusa o peccatillum, da cui deriva il termine bagatella, e questo persino nel caso di pensatori austeri quali, abbiamo visto, Agostino, che ribadisce il principio aristotelico dell’intenzione ma poi assolve la menzogna in caso di pericolo di vita della vittima. Più blanda la posizione di Tommaso d’Aquino, sempre pronto a giustificare chi adotta il male minore per evitare il male maggiore.
Per l’incrollabile Kant invece il comandamento «non devi mentire», fondato sulla sovranità autonoma del soggetto, la quale non ammette eccezioni, è il fondamento dell’etica filosofica. Se si segue il precetto che esorta ad agire in modo da considerare l’umanità, sia nella propria persona sia nella persona di ogni altro, come fine e mai come mezzo, non si deve mentire nemmeno se in quel caso si nuocerà ad altri o si metterà in pericolo la vita di qualcuno o lo si consegnerà al suo assassino. Pensiamo alla terribile scena iniziale di Bastardi senza gloria (Unglorious Bastards, USA-Germania 2009) di Quentin Tarantino, in cui il colonnello nazista interroga il contadino francese, chiedendogli se dia rifugio ai nemici dello stato, la famiglia ebrea dei Dreyfus. Tutti desideriamo che il contadino menta e invece M. La Padite dice la verità e denuncia la famiglia ebrea per proteggere la propria.
Occorre aggiungere che la posizione di Kant era stata preceduta - aggiungo - da Spinoza che nella sua Etica assai chiaramente si pronuncia contro l’uso dell’inganno, il dolus malus (IV, LXXII), tra cui la menzogna, anche nel caso in cui ciò possa salvare una persona dall’imminente pericolo di morte.
Ci sono princìpi e princìpi
Questa verità crudele, questa perversa «macchina logico-veritativa del linguaggio» di Kant ma anche, ribadiamo, di Spinoza, viene respinta da Benjamin Constant in un saggio del 1797, riportato nella racolta di Tagliapietra, allorché il giovane polemista francese osa attaccare l’anziano filosofo tedesco con l’argomento del diverso peso dei princìpi morali: ci sono i princìpi primari, assoluti e universali, e i princìpi cosiddetti intermedi, che fanno discendere i princìpi primi fino a noi, adeguandoli alle nostre situazioni e ai nostri interessi. In questo modo, conclude Constant, il principio morale per il quale dire la verità è un dovere, «se fosse preso in modo assoluto e isolato, renderebbe impossibile ogni tipo di società. Ma ... nessun uomo ha diritto a una verità che nuoce ad altri».
La verità crudele è ricusata anche da Tagliapietra in nome della pietà verso la vittima silenziosa cui nuoce la verità delatoria. Sulla scia di Agamben sostiene infatti Tagliapietra che «la verità ... non è una mera informazione esatta ... ma anche un prendere posizione per ciò che si dice, un esserci in ciò che si afferma». Se confrontata con la fiducia, la verità diventa ai suoi occhi «una forma di vita che non si esaurisce nella sola dimensione dichiarativa del linguaggio» (66-67). Come viene respinta - la posizione di Kant - da molti autori e dalla maggior parte delle persone che adducono argomenti di buon senso e di empatia con le vittime. Dopo il colpo inferto al Kant gnoseologico dal newrealismo, ecco comunque un rinnovato attacco al Kant etico, troppo rigoroso per i nostri tempi edonistici e happycratici.
Verità crudele e nuda
Verità crudele, insostenibile, abbagliante, svelata fino alla nudità. Al repertorio di questa immagine nel pensiero filosofico è dedicato un volumetto postumo che raccoglie gli scritti inediti sul tema a opera del filosofo metaforologo Hans Blumenberg (H. Blumenberg, Die nackte Wahrheit [La verità nuda], a cura di Rüdiger Zill, Berlin, Suhrkamp, 2019).
La verità è orribile - oltre che crudele -. Fortunatamente l’arte ci permette di non affondare con la verità stessa. È Nietzsche che, impostando l’antagonismo tra la noia della scienza e la vitalità dell’arte, sentenzia che arte e cultura velano l’orrore della verità, e che l’illusione può mascherare la conoscenza che uccide l’azione. Variabile è comunque, commenta Blumenberg, il valore culturale della nudità della verità; in Kafka è la crudele mancanza di ogni sorta di corazza, guscio, protezione, casa, e la consegna a condizioni di vita estranea. E del resto, chi potrebbe sostenere la vista della verità - ecco Descartes che interviene, nelle Meditazioni - se Dio ce la presentasse tutta nuda? Eppure l’illuminismo rivendica proprio il diritto alla verità nuda per la quale ogni rivestimento e travestimento è ingiustizia. Mentre il diritto alla verità asciutta, secca (dry truth) di John Locke invoca un linguaggio filosofico univoco dove però le metafore sono considerate indispensabili, non per ornare e abbellire, ma proprio per chiarire e spiegare.
Fino ad arrivare a Kant e ricongiungerci, questa volta attraverso la metafora, alla sua idea di verità, che è lecito illustrare con analogie e metafore purché la cosa in sé sia chiaramente distinguibile dal necessario velo che la ricopre e la protegge. Se poi il velo ostacola la visione della verità, non impedisce però l’ascolto della legge morale, per quanto rigorosa e persino, come sappiamo, crudele.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ASTUZIA DEL LUPO E I SETTE CAPRETTI. "APRITE, APRITE": SONO IL VOSTRO "PAPI"!!!
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN!!!
Federico La Sala
UNA RISPOSTA A "SPECIALE C17":
IL POPULISMO DELLA POST-VERITA’, EPIMENIDE, E LA LEZIONE ITALO-AMERICANA. In memoria di Italo Calvino *
Siamo nella post-verità da sempre, a quanto pare!
SIAMO PROPRIO CONCIATI MALE, MALISSIMO!
Dopo ventanni di berlusconismo stiamo ancora a commentare i giochini di mentitori istituzionalizzati. E a riflettere sulle "spine del C17 - spine nel fianco di un pingue potere" (https://www.alfabeta2.it/2017/01/21/c17-spine-nel-fianco-un-pingue-potere/).
DOPO IL 1917, E DOPO IL 1922, ANCORA NON SAPPIAMO NULLA DELLA "MORTE NERA" (cfr.: Massimo Palma,"Waler Benjamin, l’inquilino in nero", cfr.: https://www.alfabeta2.it/2017/01/11/walter-benjamin-linquilino-nero/) E DELLA MISTICA FASCISTA (cfr.: mia nota a "Infanzia salentina", pagine del lavoro di Nicola Fanizza, "Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini" - https://www.nazioneindiana.com/2017/01/21/infanzia-salentina/).
Tanto tempo fa, in un’isola del Mediterraneo, un tale chiamato EPIMENIDE (con questo nome è rimasto nella storia, come persona degna di essere ricordata per la sopravvivenza della stessa isola), indignato contro i suoi stessi concittadini (che evidentemente lo accusavano di chissà quali malefatte), fece il primo passo nella terra della post-verità, gridò infuriato: "Tutti i cretesi mentono"! Se molti risero, altrettanto molti lo applaudirono.
Qualche anno dopo, sempre in quell’isola, ci furono le elezioni: tra i partiti (quello che la storia non ci ha tramandato) comparve uno strano partito, con il nome "Forza Creta", e il leader era proprio il vecchio EPIMENIDE!
CONQUISTATO IL POTERE LEGALMENTE, IL SUO GRIDO AI CRETESI CHE AVEVANO RISO DELLA SUA "BATTUTA" FU QUASI SIMILE A QUELLO DI BRENNO CONTRO I ROMANI SORPRESI NEL SONNO, ANZI, NEL SONNAMBULISMO: "GUAI AI VINTI"!
SOLO CHE A ROMA CI FURONO LE OCHE CHE SVEGLIARONO UN POCO TUTTI E I GALLI FURONO CACCIATI, MA A CRETA ALLA FINE NESSUNO PIU’ OSO’ RIDERE E ... "TUTTI I CRETESI MENTONO" ANCORA!!! A MEMORIA (E A VERGOGNA) ETERNA.
Federico La Sala
Chi grida al fascista
di FRANCESCO MERLO (la Repubblica, 17 marzo 2016)
TORNANO le parole fascista, comunista, stalinista... non solo come "vecchi soprannomi per anziani" ma anche come gli stilemi di un’usurata comicità italiana che non fa più ridere, di un sottosopra logico che è diventato triste. "I leghisti di Roma sono tutti ex fascisti" ha ieri denunziato l’indomabile comandante partigiano Silvio Berlusconi in difesa del fido Bertolaso che, come un eroe della Resistenza, dovrà ora affrontare la Decima Mas di Salvini, le legioni della Meloni, i manipoli della deputata ex missina Barbara Saltamartini, la quale, com’è ovvio, tiene il coltello tra i denti alla maniera del feroce Ettore Muti.
E, a fare pendant, intervistato sul Corriere da Aldo Cazzullo, Massimo D’Alema aveva dato dello stalinista a Matteo Renzi e di nuovo la parola aveva fatto cortocircuito con la sua storia. Perché anche "stalinista" non è un insulto qualsiasi, come per esempio populista o sleale o autoritario, ma è una grammatica politica, un codice etico, è la cassetta degli attrezzi che Massimo D’Alema ha giustamente relegato nella propria soffitta ideologica, la vecchia antropologia che modellò il suo carattere di duro e formò la sua selvatica personalità.
Ma veniamo a noi, che alla parola "fascisti" ancora ci armiamo di vigilanza democratica. Ieri mattina, ascoltando l’intervista che gli faceva Maurizio Belpietro, noi abbiamo cercato di capire chi sono i camerati, i cuori neri che fanno vibrare di indignazione liberale l’antifascista Berlusconi. Di sicuro non ce l’ha con Gasparri, Alemanno, Storace, Matteoli e con tutti quegli altri ex fascisti che lui ha fatto, nel corso degli anni, ministri, sindaci, presidenti di regioni, quelli che stavano nel Fuan e nel Fronte della Gioventù e lui ha messo a sedere al tavolo delle presidenze, nelle partecipate, nel sottogoverno, ha chiamato ad esercitare il potere, ha promosso classe dirigente del Paese, sino a nominare ministro della Difesa il futurista Ignazio La Russa, che sembrava l’incarnazione della caricatura del gerarca, con i suoi completi militari, le collezioni di soldatini, i voli dannunziani sopra Kabul... Insomma Berlusconi non può certo avercela con tutti gli ex giovani camerati che - Giovinezza Giovinezza - nel giorno in cui la destra berlusconiana fece eleggere Alemanno sindaco di Roma, lo salutarono sui gradini del Campidoglio con il saluto romano e il grido Eia eia alalà.
È vero che quando non lo soddisfacevano li chiamava ingrati, soprattutto Gianfranco Fini "il quale - disse nel 2009 all’agenzia Ansa - senza di me starebbe ancora dove stavano tutti loro sino al 1994" e voleva dire nelle fogne dello slogan ("fascisti carogne/ tornate nelle fogne"). Per la verità già un anno prima Berlusconi lo aveva tirato fuori dal sottosuolo della Storia. Non era ancora sceso in campo, quando Fini il fascista si candidò proprio a sindaco di Roma contro Rutelli. Ebbene, al cronista che gli domandava per chi avesse votato, l’imprenditore a sorpresa rispose: "Certamente Gianfranco Fini". Fu un lampo, un’epifania, probabilmente il suo scandalo più bello, un merito che la storia di sicuro gli riconoscerà: avere dato alla destra italiana lo ius soli nella democrazia. Fini fu battuto ma raggiunse il 47 per cento e mai sconfitta fu più vincente di quella. Berlusconi infatti lo aveva smacchiato. Con il paradosso però che, da quel momento, più Fini si allontanava dalla destra e più Berlusconi si spostava a destra. E più Fini si sfascistizzava e più, agli occhi di Berlusconi, ritornava fascista, come vuole il vecchio adagio secondo cui bisogna fare il giro del mondo per ritrovare la propria casa.
Ecco, appunto, Berlusconi in un’intercettazione con Lavitola lamentarsi che Fini gli bocciava uno dei suoi tanti lodi perché, secondo lui, subiva le lusinghe della sinistra: "non me l’approvano i fascisti, Fini non ci sta". E la cronaca racconta che non solo Berlusconi pagò 600 milioni per far nascere Fratelli d’Italia, ma che anche La Destra di Storace aveva avuto la sua concreta benedizione: "Ah, quando c’era la buonanima" disse mostrando a Storace il volume dell’editore Dino con il faccione del Duce sbalzato in oro. E Storace, che era a capo di una delegazione di fascisti sociali e dunque poveri: "Beato lei che ce l’ha, noi no, perché costa troppo".
Berlusconi fascista? Berlusconi antifascista? Nessuno meglio di noi, che lo abbiamo studiato per 20 anni, sa che Berlusconi non è stato niente, o se preferite è stato tutto e il contrario di tutto. Ci fu quello che difese Mussolini perché "non ha mai ammazzato nessuno e mandava la gente in vacanza al confino", e ci fu quell’altro che il 25 aprile del 2009 si annodò un fazzoletto rosso al collo e tenne un comizio ricordando la sua eroica mamma antinazista. Ci fu un Berlusconi che scelse la giornata della memoria per raccontare barzellette sugli ebrei e ce ne fu uno che, in tv, annunziò che sarebbe andato ad incontrare il papà dei fratelli Cervi senza neppure sentire Bertinotti che gli ripeteva: "guardi che papa Cervi è morto".
Nell’Italia del trasformismo, Berlusconi non è certo l’unico ad avere adattato le convinzioni alle convenienze, ma davvero oggi ha solo un suono acido la parola fascista usata dal vecchio sdoganatore dei fascisti. Allo stesso modo suona acida la parola stalinista usata dall’ultimo nipotino degli stalinisti. Sono solo parole morte che appartengono alla storia, un po’ come Orazi e Curiazi, turchi e mori, achei e troiani. Tanto più che Bertolaso, forse forse, in queste elezioni romane, è quello che della fascisteria parodiata - da affrontare con Ugo Tognazzi e non certo con Ferruccio Parri - esibisce di più i connotati: la virilità, gli attributi, la stessa spavalderia che mostrava sulle macerie dell’Aquila quando si vestiva da guerrigliero geologico, da capitano coraggioso. Cos’altro poteva dire alla Meloni incinta se non "vai a fare la mamma "? Spiace solo che, nelle polemiche, lo abbiano davvero trattato come se fosse l’uomo italiano medio, il rappresentante del maschio italiano, promuovendo lui e offendendo tutti gli altri.
Le parole impazziscono un attimo prima degli uomini. Ma non fanno tabula rasa. Remember è il titolo di un intelligente film tedesco che Berlusconi e D’Alema dovrebbero andare a vedere insieme, per ritrovare quel tanto che hanno in comune. Racconta di un vecchio che ha perso la memoria e va a caccia di nazisti. Senza ricordare che il nazista era lui.
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L’era della compiacenza
L’inganno della cultura al servizio del potere
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 03.11.2012)
NELLE società libere, la cultura è una funzione sociale, per così dire, democratica. Giustamente si dice che la cultura ha una funzione politica, ma questo vale in senso ampio, come servizio alla vita della pòlis, non nel senso stretto di “politica dei politici”. La cultura è una delle tre “funzioni sociali” sulle quali si reggono le nostre società: economia, politica e, per l’appunto, cultura.
Tutti i bisogni sociali sono ascrivibili a uno degli elementi di quella triade, elementi che, variamente configurati, intrecciati, coordinati o messi in gerarchia connotano il modo d’essere e di reggersi delle nostre società. La dottrina delle tre funzioni, che ha radici antichissime, deve tener conto degli odierni postulati della libertà e dell’uguaglianza. Libertà significa mobilità sociale, dunque la possibilità di passare da una funzione all’altra. L’uguaglianza, a sua volta, esclude che alle tre funzioni possano corrispondere categorie sociali separate, com’era invece nelle società antiche. Il cittadino è potenzialmente attivo nel campo economico, politico e culturale; può passare dall’uno all’altro, all’altro ancora, e può perfino svolgerne più d’una contemporaneamente.
La caduta delle barriere rigide, non esclude affatto, tuttavia, che ciascuna funzione mantenga il suo profilo differenziato; che chi si dedica e quando si dedica a una di esse, operando negli ambiti e nelle istituzioni corrispondenti, sia tenuto a un codice di comportamento specifico, vincolato ai dettami di una vocazione particolare. La confusione dei comportamenti determina situazioni percepite come improprie, inammissibili, corrotte.
Le commistioni sono la spia della perdurante vitalità nella nostra coscienza civile di quell’antichissima visione tripartita delle funzioni sociali, in quanto non siano accettate ma siano squalificate come incompatibilità o conflitti d’interesse dagli effetti inquinanti. Non è forse questo uno dei temi politici dominanti nel nostro Paese, dove le connivenze tra finanza e politica, nel silenzio, nei balbettamenti o con la copertura e la connivenza della cultura, hanno avvelenato i pozzi da cui ciascuna di esse dovrebbe attingere le proprie specifiche, non contaminate, risorse?
La cultura, i suoi attori, i beni di cui essi dispongono, vivono, per così dire, assediati. La loro forza materiale è nulla, ma la forza spirituale può essere grande. Si comprende allora che le altre funzioni sociali, l’economia e la politica, la lusinghino per ottenerne i favori, la insidino. Dall’altra parte, poiché la cultura non produce né ricchezza né potere, si spiega la forza d’attrazione che economia e politica esercitano su chi opera nel campo della cultura. Qui, nascono i tradimenti.
C’è un’evidente asimmetria: le seduzioni sono a senso unico. Non si è mai visto che la cultura abbia seriamente tratto a sé uomini dell’economia e della politica, distraendoli dalla ricchezza e dal potere. Non esistono “stati di cultura”, se non nell’immaginario regno platonico dei filosofi. Invece, esistono “Stati di politica”, dove il momento politico pretende il monopolio della legittimità; ed esistono Stati di economia, dove è il momento economico, travestito da tecnico, a pretendere il monopolio della legittimità.
Né l’uno né l’altro, tuttavia, potrebbero esistere senza la legittimazione, la copertura, offerta dalla cultura. Ma, quale cultura? Poiché la ricerca del potere e della ricchezza, come prodotti della libertà e dell’uguaglianza, ha di per sé effetti distruttivi della compagine sociale, la cultura che si limita a seguire pedissequamente gli interessi di chi opera in quegli altri ambiti moltiplica la distruzione e contraddice il suo compito di “terzo” unificatore.
Il mondo della cultura ha il diritto al rispetto della sua autonomia e gli uomini di cultura hanno il dovere di difenderla. Esempi? Non c’è rispetto, quando i beni culturali e i beni ambientali, che sono “culturali” anch’essi, sono usati e abusati, ceduti, cementificati, per ottenere consenso da spendere nella competizione per il potere. I “beni culturali”, conformemente alla loro natura e funzione, hanno da essere collocati in una sfera immunizzata dalla politica.
Se esiste un ministero che si occupa di cultura, questo non dovrebbe essere concepito come appannaggio di partiti in funzione di non si sa quali “politiche culturali”, che non spetta loro progettare e mettere in opera. Ma, devono anche essere immuni dagli interessi commerciali. Non c’è rispetto quando sono sfruttati in campagne commerciali, per promuovere marchi e pubblicizzare prodotti. Possono, certamente, procurare e produrre denaro.
La cultura - per parafrasare un’espressione triviale - non si mangia, ma può dare da mangiare a molti e in molti modi, soprattutto quando, com’è auspicabile, si rivolge al pubblico dei grandi numeri. Ma, deve trattarsi, per così dire, di una conseguenza, o di un effetto collaterale e indotto, non dell’obiettivo primario, prevalente sul rispetto della cultura. La quale non esiste per dar da mangiare ai corpi, ma per alimentare le forze spirituali dell’auto-coscienza individuale e collettiva.
Non c’è rispetto per la cultura quando il Ministero, questa volta dell’istruzione, formula programmi scolastici come quello noto “delle tre I” (inglese, internet, impresa) che esprimono un’idea puramente aziendalistico- esecutiva della scuola, idea resa concreta nella programmazione degli studi nei dove una volta si studiava il diritto costituzionale e pubblico e ora si studiano i contratti con la pubblica amministrazione, le opportunità di finanziamento delle imprese, la disciplina degli investimenti finanziari, e altre cose di questa natura (Gazz. Uff. 30.3. 2012, Supplemento), cose utili ma in ambito diverso. Dall’altra parte, non c’è rispetto per la cultura da parte di chi, per primo, dovrebbe difenderne l’autonomia.
Come ho già detto la nostra epoca è sempre più ricca di consiglieri e consulenti e sempre meno d’intellettuali. Quella del consigliere sarebbe una sorta di versione odierna “dell’intellettuale organico” gramsciano che si collegava alle forze storiche della società per conquistare “l’egemonia” e per svolgere così un compito certo ambiguo, ma indubbiamente grandioso. Il consigliere di oggi vive tra ministeri, enti, istituti, fondazioni, aziende, e si lega al piccolo o grande potente, offrendo i suoi servigi intellettuali e ottenendo in cambio protezione e favori.
La stessa cosa può ripetersi per i consulenti che offrono le proprie conoscenze alle imprese, per testarne, certificarne, magnificarne e pubblicizzarne i prodotti; per testimoniare la qualità del ciclo produttivo, la sua non-nocività, la sostenibilità dell’impatto ambientale, e altre prestazioni di questo genere. Naturalmente, consiglieri e consulenti non sono affatto cosa cattiva, ma solo quando non sono spinti dalla smania di “proporsi” e per questo, inevitabilmente, accettano d’essere reclutati e d’entrare “nell’organico” di questo o quel potente. L’uomo di cultura diventa allora uomo di compiacenza, sebbene spesso voglia illudere se stesso d’essere lui a usare il potente come mezzo per realizzacorsi re le proprie idee, mentre è sempre il contrario: sono le sue idee a essere usate come mezzo per gli interessi del potente.
La società del nostro tempo, dove le conoscenze sono sempre più approfondite e settorializzate; dove nessuno padroneggia anche solo la minima parte dei problemi dalla cui soluzione dipende la vita collettiva; dove il più sapiente nel suo campo è perfettamente ignorante nei campi altrui; dove quindi è inevitabile delegare ad altri la conoscenza che ciascuno di noi, da solo, non può avere: in questa società, massimo è il bisogno di fiducia reciproca. Se non ci si potesse fidare gli uni degli altri e, in primo luogo, di coloro che per professione si dedicano a professioni intellettuali, se l’integrità delle loro “prestazioni” fosse inficiata dal sospetto di compromissione con interessi politici o economici, la cultura, come indispensabile luogo “terzo” di convergenza e convivenza, sarebbe un corpo morto. Il dileggio degli intellettuali non sarebbe immotivato.
P2 e la memoria che non c’è
di Maurizio Chierici *
A volte il giornalista deve fare il postino lasciando ai lettori l’impegno di testimoniare la loro realtà. «La generazione di chi tace e nasconde non può essere una generazione innocente», scrive Giovanni Battista Righetto, Genova: è una delle 43 lettere che raccontano la delusione che avvilisce i protagonisti biologicamente nuovi nella vita del paese. Si sentono chiusi in un limbo artificiale: i nostri ultimi quarantanni affogano nei segreti che non tutelano la sicurezza dello stato, solo la vanità di un certo tipo di personaggi di una politica che vuol dire affari. «Votiamo senza sapere chi sono e con quali virtù si presentano».
«Chi è nato attorno agli anni 80 deve fare i salti mortali per scoprire in quale modo si cominciava a disegnare la società della quale oggi paghiamo i conti», Sandra Losio, Brescia. «Le giovani generazioni non hanno soldi e tempo per recuperare certe notizie», G.R., Cremona. «Mio nipote di 17 anni ripete che se non avesse avuto la sottoscritta, né lui, né i suoi amici delle periferie romane avrebbero saputo e non avrebbero capito cosa è successo a Genova durante il G8, 2001». Doriana Goraci sfuma la rabbia in riflessioni di malinconia: «Non si vive il presente con coscienza individuale e collettiva se non si sa cosa è successo nel passato prossimo». «Le colpe di chi ha messo il lucchetto all’informazione non sono forse tanto gravi, ma impedire che cronache e storia ci spieghino da dove veniamo, suscita sospetti insopportabili», Gualtiero Riccio, Napoli. «Si sono riaccese le luci ed ho guardato il mio ragazzo con la perplessità di chi ha capito quasi niente. Anche lui non aveva capito, ma un po’ sapeva. E mi ha spiegato qualcosa. Sono d’accordo con la proposta di commentare a scuola, ore di storia, ’ Il divo ’, film su Andreotti e i misteri d’Italia. Nessuno ci ha mai detto chi manovrava le stragi e anche delle stragi sappiamo per caso. Niente di chi ha giocato col rapimento Moro, per non parlare di protagonisti a noi sconosciuti come Michele Sindona, Licio Gelli, ombre di un passato che condiziona il nostro futuro», Mirella Galeotti, Massa Carrara.
Il risentimento è il filo che lega meraviglia e curiosità di coloro che si dichiarano «ragazzi» dopo aver compiuto trent’anni. Bisogna dire la verità: lettere che sono la reazione corale (inattesa) alla cronaca dei bisbigli raccolti fra gli spettatori under quaranta davanti al film di Paolo Sorrentino. «L’hanno premiato a Cannes, vuol dire che i francesi sapevano. Perché noi no ?», avvocato Renzo Giudici, Milano. «Sono figlio di un funzionario di banca in pensione e certe cose mio padre le racconta da anni con l’ostinazione dell’anziano che non vuole dimenticare. Conserva libri e ritagli. Ogni volta che Silvio Berlusconi appare sui giornali nell’elenco dei più ricchi del mondo, ripete le stesse parole: so come è nata questa ricchezza. Nessuna informazione speciale: sa solo ciò che un funzionario di banca poteva sapere. Dal 1975, quando a Roma comincia l’impero Fininvest, al 1981, quando la P2 di Gelli viene scoperta, il sistema creditizio italiano ha messo a disposizione di Berlusconi fidi per quasi 200 miliardi di lire ed erano anni nei quali imprenditori e commercianti sudavano sette camice per strappare prestiti da ridere. Mio padre spiega il privilegio con l’appartenenza di Berlusconi alla loggia segreta P2. La Banca Nazionale del Lavoro si era impegnata a mantenere nell’ombra proprietari e soci della società che nasce da quasi niente. Direttore generale della Banca era Alberto Ferrari, amministratore delegato Gianfranco Graziadei, responsabile servizio titoli Mario Diana: tutti fratelli P2. Dopo la scoperta della lista di Gelli, anche il collegio sindacale del Monte dei Paschi di Siena si preoccupa: “l’esposizione di rischio del gruppo Berlusconi ha dimensioni eccezionali grazie ad un atteggiamento molto referenziato”. Non credo sia un caso che un’inchiesta del Ministero del Tesoro concluda: “Pur mancando alcune prove di una formale iscrizione, riteniamo il direttore generale della Banca, Giovanni Cresti, legato all’associazione segreta denominata Loggia P2. Appare più che probabile la sua concreta disponibilità alle sollecitazioni rivoltegli dal fondatore e Venerabile maestro della Loggia Licio Gelli col quale intrattiene rapporti amichevoli”. Io so queste cose da quando andavo all’università, ma come posso a spiegare ai miei due figli cos’è, cos’ha fatto e chi militava nella P2 ? Nessuno ne parla, a scuola e in Tv... ».
Tormentone di ogni lettera: i ragazzi vogliono controllare quale tipo di credito stiamo affidando alla loro memoria. Non si rassegnano a diventare discariche che accolgono ( più o meno clandestinamente) i rifiuti tossici della storia fatti passare per immondizie innocenti. «Sono un ragazzo di 29 anni», scrive da Milano Edmondo Bottini, laureato di primo livello in ingegneria elettronica. «Voglio fare qualche considerazione sulla generazione alla quale si nega la memoria. Il problema è serio. Nasce, prima di tutto, da un problema scolastico. La storia di questo paese si studia nelle scuole - quando va bene - fino alla seconda guerra mondiale. Chi volesse sapere cosa è successo dopo, l’unica possibilità è iscriversi a un corso di laurea in Storia, (ndr: rispettosamente evocata con la S maiuscola). La stragrande maggioranza dei cittadini italiani non ha un’idea chiara di cosa si parli quando vengono citate strategia della tensione, Ordine nuovo, Brigate Rosse, piazza Fontana. Non parlo di analfabeti; parlo di laureati come me. Abbiamo seguito un percorso ordinario di studi nelle scuole pubbliche. Personalmente sto provando a ricostruire tutta la parte che manca alla mia cultura. Non è facile, come sembra. In televisione certe informazioni non si trovano (ndr: ed è facile capire perché). Fin qui poco male, c’é internet. Il problema è che se un ragazzo della mia età vuole leggere la Relazione della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulle Stragi, non può, come sarebbe ovvio, andare sul sito del Parlamento Italiano». Negli Stati Uniti tutti possono sapere tutto. Nessun mistero copre gli ordini partiti dagli uffici del segretario di stato Kissinger sul come eliminare Allende. Succedeva tredici anni dopo Piazza Fontana e Piazza Fontana reste avvolta nelle nebbie che i processi non hanno svaporato. Negli Usa basta un clic. Ecco il rapporto sulle torture di Abu Ghraib e Guantamano. L’ Italia é davvero lontana: «Non si può scaricare niente semplicemente perché il sito non esiste», continua l’ingegnere di Milano. «Comincia un lavoro di ricerca on line per scoprire in altri siti il documento che può far capire tante cose a noi che non c’eravamo». Miracolosamente lo trova, non in uno spazio istituzionale: «http://clarence.dada.net\contes società\memoria stragi». Il gruppo Rcs ne possiede il 46,54 per cento. Lo stesso discorso per la Commissione d’Inchiesta sulla P2, presieduta da Tina Anselmi. Nessuna distribuzione ufficiale. Restiamo nel privato: «http://w.w.w.strano.net\stragi\relimp2\index. html». Superata l’iniziale diffidenza nei confronti di siti sulla cui gestione, creazione, proprietà nulla o poco si sa, è finalmente possibile leggere due documenti che dovrebbero essere parte integrante dell’insegnamento scolastico». Irraggiungibile l’Anselmi nella sua campagna di Treviso, chiedo a Giovanni Pellegrino, che ha presieduto per due legislature la raccolta di documenti e testimonianze sulle stragi dal dopoguerra al 2001, come mai il risultato del lungo scavo non sia allargato nell’internet dei ragazzi. Lasciato il Senato, Pellegrino presiede l’Amministrazione Provinciale di Lecce. Per l’editore Piero Manni ha sintetizzato conclusioni ed analisi nel libro «Strage di Stato». Alla vigilia del governo del Berlusconi, ultima seduta della Commissione, Pellegrino crea un ufficio (approvato all’unanimità dalla Commissione) con l’incarico di inserire tutti i documenti «in un supporto informatico». Insomma, internet. L’ufficio è ancora aperto, un funzionario dovrebbe esserne responsabile, ma il sito non c’é. Dal 2001 nessuno ha fatto niente. Perché ? «Bisognerebbe chiederlo al segretario generale del Senato. È un problema grave. La commissione bicamerale aveva acquisito gli atti di altre commissioni, dalla P2 al caso Moro. Inchiesta organica. Raccoglie la storia sotterranea di un’Italia che nessuno conosce. Il senatore Paolo Guzzanti, Forza Italia, ottiene certi documenti per l’ inchiesta della commissione Mitrokhin, ma tutto finisce secretato, perlomeno non aperto ai giovani ricercatori di internet». Dal ’96 al 2002 le commissioni di Pellegrino avevano accumulato e analizzando informazioni con la consulenza di Elisabetta Cesqui, pubblico ministero nel processo a Gelli e ad altri piduisti. Ma i documenti non escono da chissà quali sotterranei. «Mentre dovrebbero essere accessibili nelle sedi istituzionali preposte», insiste Edmondo Bottini, l’ingegnere di Milano, «visto che tali commissioni vengono pagate dai cittadini ai quali devono spiegare cosa è successo negli anni in cui persone innocenti sono morte andando in treno, o in banca, oppure manifestando pacificamente nelle strade. Non parliamo poi della relazione della Commissione Moro. On line utopia. Qui a Milano, i verbali sono disponibili solo alla biblioteca Sormani e solo per consultazioni. Ogni commissione delinea realtà complesse e non è facile capire. Non sono ancora riuscito a trovare il filo che cercavo: identificare un percorso storico dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi».
Il postino non ha facoltà di rispondere può dare solo qualche informazione. Chi cerca può rivolgersi a. Sergio Flamigni, vecchio senatore Pci: ha fatto parte delle Commissioni P2, Caso Moro e Antimafia. Ha scritto per l’edizioni Kaos libri che danno ordine alle carte delle inchieste. Da anni allarga le informazioni con testimonianze conservate in un Centro di Documentazione trasformato in una fondazione disponibile su internet: info@archivioflamigni.org.
All’università di Padova, scienze delle comunicazioni, insegna Raffaele Fiengo, sindacalista storico del Corriere della Sera. Ha regalato all’archivio della facoltà i documenti della commissione P2: raccontano come Gelli sia riuscito a mettere le mani sul grande giornale imponendo un’informazione che fa vergogna rileggere. Il Corriere è rinato con la direzione di Alberto Cavallai, ma impossibile dimenticare la ferita della quale nessuno ha voglia di parlare. Ecco perché restano anni nascosti.
mchierici2@libero.it
* l’Unità, Pubblicato il: 21.07.08, Modificato il: 21.07.08 alle ore 8.13
La Costituzione ai tempi della democrazia autoritaria
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 22.07.2008).
La Costituzione fatica nel compito di creare concordia. Quando una Costituzione genera discordia, è segno di qualcosa di nuovo e profondo che ha creato uno scarto. È il momento in cui le strade della legittimità e della legalità (la prima, adeguatezza ad aspettative concrete; la seconda, conformità a norme astratte) si divaricano. Di legalità si vive, quando corrisponde alla legittimità. Ma, altrimenti, si può anche morire. Alla fine è pur sempre la legittimità a prevalere su una legalità ridotta a fantasma senz’anima.
La difesa della Costituzione non può perciò limitarsi alla pur necessaria denuncia delle violazioni e dei tentativi di modificarla stravolgendola. Una cosa è l’incostituzionalità, contrastabile richiamandosi alla legalità costituzionale. Ma, cosa diversa è l’anticostituzionalità, cioè il tentativo di passare da una Costituzione a un’altra. Contro l’anticostituzionalità, il richiamo alla legalità è uno strumento spuntato, perché proprio la legalità è messa in questione. Che cos’è, dunque, la controversia sulla Costituzione: una questione di legalità o di legittimità? Dobbiamo poter rispondere, per metterci sul giusto terreno ed evitare vacue parole. Per farlo, occorre guardare alla psicologia sociale e alle sue aspettative costituzionali. Questa è un’epoca in cui, manifestamente, le relazioni tra le persone si fanno incerte e il primo moto è di diffidenza, difesa, chiusura. Questo è un dato. Alla politica, che pur si disprezza, si chiede attenzione ai propri interessi, alla propria identità, alla propria sicurezza, alla propria privata libertà. L’ossessione per "il proprio" ha, come corrispettivo, l’indifferenza e, dove occorre, l’ostilità per "l’altrui".
In termini morali, quest’atteggiamento implica una pretesa di plusvalenza. In termini politici, comporta la semplificazione dei problemi, che si guardano da un lato solo, il nostro. In termini costituzionali, si traduce in privilegi e discriminazioni.
Esempi? "A casa nostra" vogliamo comandare noi: espressione pregnante, che sottintende un titolo di proprietà tutt’altro che ovvio. Detto diversamente: ci sono persone che, pur vivendo accanto a noi, sono come "in casa altrui", nella diaspora, senza diritti ma solo con concessioni, revocabili secondo convenienza. Gli immigrati pongono problemi? Li risolviamo con quote d’ingresso determinate dalle nostre esigenze sociali ed economiche e, per quanto eccede, ne facciamo dei "clandestini", trattandoli da delinquenti. Non pensiamo che anche noi, gli "aventi diritto", portiamo una responsabilità delle persone che muoiono in mare o nascoste nelle stive, indotte da questa nostra legislazione ad agire, per l’appunto, da clandestini. La criminalità si annida nelle comunità che vivono ai margini della nostra società (oggi, i rom e i sinti; domani, chissà). Allora, spianiamo per intanto i campi dove vivono e pigiamone i pollici, grandi e piccoli, perché lascino un’impronta. Basta non guardare la loro sofferenza e la loro dignità. Certo, i mendicanti seduti o sdraiati sui marciapiedi ostacolano il passaggio. Noi, che non abbiamo bisogno di elemosinare, vietiamo loro di farsi vedere in giro. Basta non pensare alla vergogna che aggiungiamo al bisogno. L’indigenza si diffonde? Istituiamo l’elemosina di Stato. Si crea così una frattura sociale, tipo Ancien Régime? Basta non accorgersene. I diritti si rovesciano in strumenti di esclusione quando, per garantire i nostri, non guardiamo il lato che riguarda gli altri. In una società di uguali, il lato sarebbe uno solo: il mio è anche il tuo. Ma in una società di disuguali, l’unilateralità è la premessa dell’ingiustizia, della discriminazione, dell’altrui disumanizzazione. Quando si prende questa china, non si sa dove si finisce. Perfino a teorizzare la tortura, in nome della sicurezza.
Ma questa è anche un’epoca di restrizione delle cerchie della socievolezza. Il nostro benessere è insidiato dagli altri: dunque rifugiamoci tra di noi, amici nella condivisione dei medesimi interessi. Al riparo dalle insidie del mondo, pensiamo di trovare la nostra sicurezza. L’esistenza in grande appare insensata, anzi insidiosa: la parola umanità suona vuota, le unità politiche create dalla storia dei popoli si disgregano in piccole comunità sospettose l’una verso l’altra; l’Europa segna il passo. Le riduzioni di scala della socievolezza riguardano ogni ambito della vita di relazione e, a mano a mano che procedono, creano nuove inimicizie in una spirale che distrugge l’interesse generale e i suoi postulati di legalità, imparzialità, disinteresse personale. La legge uguale per tutti è sostituita dalla ricerca di immunità e impunità. Ciò che denominiamo "familismo" crea cricche politiche e partitiche, economiche e finanziarie, culturali e accademiche, spesso intrecciate tra loro, dove si organizzano e si chiudono relazioni sociali e di potere protette, per trasmetterle da padri a figli e nipoti, da boss a boss, da amico ad amico e ad amico dell’amico, secondo la legge dell’affiliazione. Sul piano morale, quest’atteggiamento valorizza come virtù l’appartenenza e l’affidabilità, a scapito della libertà. Sul piano politico, si traduce in distruzione dello spirito pubblico e nella sostituzione degli interessi generali con accordi opachi tra "famiglie". Sul piano costituzionale, si risolve nella distruzione della repubblica di cui parla l’art. 1 della Costituzione, da intendersi nel senso ciceroniano di una comunione basata sul legittimo consenso circa l’utilità comune.
Della diffidenza e della chiusura, conseguenza naturale è la perdita di futuro, come bene collettivo. Si procede alla cieca e, non sapendoci dare una meta che meriti sacrifici, cresciamo in particolarismi e aggressività. Le visioni del futuro, che una volta assumevano le vesti di ideologie, sono state distrutte e, con esse, sono andati perduti anche gli ideali che contenevano. Sono stati sostituiti da mere forze divenute fini a se stesse, come la tecnica alleata all’economia di mercato, mossa dai bilanci delle imprese: forze paragonate al carro di Dschagannath che, secondo una tradizione hindu, trasporta la figura del dio Krishna e, muovendosi da sé senza meta, travolge la gente che, in preda a terrore, cerca inutilmente di guidarlo, rallentarlo, arrestarlo. In termini morali, la perdita di futuro contiene un’autorizzazione in bianco alla consumazione nell’immediato di tutte le possibilità, senza accantonamenti per l’avvenire. In termini politici, comporta una concezione dell’azione pubblica come sequenza di misure emergenziali. In termini costituzionali, distrugge ciò che, propriamente, è politica e la sostituisce con una gestione d’affari a rendita immediata.
* * *
Tutto ciò, invero, è un insieme di constatazioni piuttosto banali che, oltretutto, non rispecchiano l’intera realtà costituzionale, per nostra fortuna fatta anche d’altro. Ma, per quanto in queste constatazioni c’è di vero, non sarà altrettanto banale collegarlo con la Costituzione e le sue difficoltà. Quelle tre nevrosi da insicurezza - visione parziale delle cose; disgregazione degli ambiti di vita comune; assenza di futuro - hanno un unico significato: la corrosione del legame sociale. Non siamo solo noi a trovarci alle prese con questa difficoltà, ma noi specialmente. Una domanda classica nella sociologia politica è: che cosa tiene insieme la società? Oggi la domanda si è spostata, e ci si chiede addirittura se di società, cioè di relazioni primarie spontanee, non imposte forzosamente, si possa ancora parlare. In effetti, poiché convivere pur bisogna, vale una relazione inversa: a legame sociale calante, costrizione crescente.
Non è forse questa la nostra china costituzionale? Una china su cui troviamo, da un lato, per esempio, indifferenza per l’universalità dei diritti, per la separazione dei poteri, per il rispetto delle procedure e dei tempi delle decisioni, per i controlli, per la dialettica parlamentare, per la legalità, per l’indipendenza della funzione giudiziaria: indifferenza, in breve, per ciò qualifica come "liberale" una democrazia; sostegno, dall’altro, alle misure energiche, alla concentrazione e alla personalizzazione del potere, alla democrazia d’investitura, all’antiparlamentarismo, al fare per il fare, al decidere per il decidere: in breve, a ciò che qualifica invece come "autoritaria" la democrazia.
La sintesi potrebbe essere la frase pronunciata da un deputato socialista, all’epoca delle nazionalizzazioni decise dal governo Mitterand e osteggiate dall’opposizione di destra, che aveva promosso un ricorso al Conseil constitutionnel (più o meno, la nostra Corte costituzionale): «Voi avete giuridicamente torto, perché noi abbiamo politicamente ragione». In altri termini, il vostro richiamo alla Costituzione vale nulla, perché noi abbiamo i voti. Quella frase fece grande scandalo, chi l’aveva pronunciata dovette rimangiarsela. Ma si esprime lo stesso concetto dicendo: la gente ha votato, ben sapendo chi votava, e questo basta; la forza del consenso rende nulla la forza del diritto; chi obbietta in nome della Costituzione è un patetico azzeccagarbugli che con codici e codicilli crede di fermare la marcia della nuova legittimità costituzionale.
La Costituzione non ammette questo modo di ragionare. Non c’è consenso che possa giustificare la violazione delle "forme" e dei "limiti" ch’essa stabilisce (art. 1). Ma questa è legalità costituzionale. Pensare di sostenere una legalità traballante nella sua legittimità, invocando soltanto la legalità, è come volersi trarre dalle sabbie mobili aggrappandosi ai propri capelli. Chi vuol difendere la Costituzione deve accettare la sfida della legittimità e saper mostrare, anche attraverso i propri comportamenti, che la Costituzione non è un involucro ormai privo di valida sostanza, non è l’espressione o la copertura di un mondo senza futuro. Occorre far breccia in convinzioni collettive, là dove domina indifferenza, sfiducia, rassegnazione: i sentimenti qualunquistici, naturalmente orientati a esiti autoritari, di cui s’è detto. Se la crisi costituzionale è innanzitutto crisi di disfacimento sociale, è da qui che occorre ripartire. Si difende la Costituzione anche, e soprattutto, con politiche rivolte a promuovere solidarietà e sicurezza, legalità e trasparenza, istruzione e cultura, fiducia e progetto: in una parola, legame sociale. Se non andiamo alla radice, per colmarlo, dello scarto tra legalità e legittimità, ci possiamo attendere uno svolgimento tragico del conflitto tra una legalità illegittima e una legittimità illegale: tragico nel senso più proprio e classico della parola. Ci si dovrà ritornare.