IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS - NON IL "LOGO" !!! "CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1 Gv., 4. 1-8). «Et nos credidimus Charitati...»!!!!

TEOLOGIA "CATTOLICA", POLITICA, E FILOSOFIA "PAGANA". IL TEOLOGO FRANCESCO BRANCATO CERCA DI "INQUIETARE" I FILOSOFI ITALIANI (Cacciari, Givone, Natoli, Severino, Sgalambro, Vattimo e altri) E DI PORTARLI NELLA RICCA E SFARZOSA CASA DEL "DEUS CARITAS" DI PAPA RATZINGER. Un’intervista di Roberto Righetto - a cura di Federico La Sala

sabato 12 luglio 2008.
 

-  intervista

-  Oltre nichilismo e politeismo, nei pensatori italiani contemporanei c’è una ripresa d’attenzione verso temi religiosi, ma con diverse ambiguità: parla lo studioso Francesco Brancato

Uno sguardo che tocca anche Givone, Rella, Ruggenini, Quinzio. «Molti pongono domande incessanti alla teologia e al pensiero cristiano, che non si possono evitare»

-  Cacciari
-  «Dalla sua filosofia emerge una dimensione tragica dell’esistenza umana: un’inquietudine del pensiero che interroga la fede»

-  Natoli
-  «La sua etica del finito fa continui riferimenti al mondo biblico e alla tradizione ebraico-cristiana, che ritiene ineludibili»

-  Severino
-  «Lo spazio possibile per un discorso intorno al destino ultimo dell’uomo e alla vita eterna appare privo di senso. Impossibile»

-  Sgalambro
-  «Nei suoi libri muove un attacco duro e diretto alla speranza cristiana, ritenuta grossolana e ingannevole»

-  Vattimo «In sostanza, ha ridotto la sua fede originaria in filosofia e pensiero, tanto da giungere a confessare di ’credere di credere’ quale ultima spiaggia»

E il filosofo torna a guardare all’aldilà

di ROBERTO RIGHETTO (Avvenire, 11.07.2008)

In uno scenario etico ove il nichi­lismo pare aver dichiarato la sua sfida totale, quale spazio può con­figurarsi per un nuovo rapporto fra pensiero e cristianesimo? E come in­tuire una soluzione che non vada nel­la direzione della riscoperta del poli­teismo (il nietzschiano «Dioniso con­tro il crocifisso»), che sembra meglio adattarsi al bisogno spirituale di un’e­poca che vuole annullare ogni valore come assoluto? A queste e altre do­mande cerca di rispondere lo studio­so Francesco Brancato in un saggio appena uscito e intitolato Il De no­vissimis dei laici. Le realtà ultime e la riflessione dei filosofi italiani contem­poranei (edizioni Giunti, pagine 480, euro 12,50).

Brancato, docente di Teo­logia della creazione ed escatologia presso lo Studio teologico San Paolo di Catania, esamina alcuni dei prin­cipali filosofi italiani contemporanei. L’abbiamo intervistato.

Secondo lei si può parlare di una ri­presa di attenzione da parte dei filo­sofi italiani verso il tema dell’aldilà e dei Novissimi in particolare?

«Da diverso tempo si è potuta regi­strare un’attenzione tutta particola­re, sebbene critica, dei filosofi laici i­taliani per il messaggio cristiano, ma anche per il mondo biblico e religio­so in genere. Attenzione non perfet­tamente ricambiata da molta teolo­gia nostrana. Per quanto siano stati affrontati diversi temi nel dialogo­confronto tra teologi e filosofi italia­ni, non è stato dato spazio adeguato all’indagine di questo punto essen­ziale della fede cristiana, ovvero il de­stino dell’uomo, del mondo e della storia, la questione escatologica. Leg­gendo invece le principali opere dei filosofi italiani che maggiormente si sono impegnati nella riflessione in­torno a queste questioni, ho sempre più compreso che le domande ulti­me dell’uomo sul proprio personale destino come sul destino del mondo intero, nonché sul senso della propria esistenza finita e sul significato della vita e della morte, sono la spina dor­sale che regge il loro intero pensiero filosofico».

Lei si occupa di pensatori credenti ma soprattutto non credenti: in che senso si può parlare di un ritorno del­le cose ultime nel loro pensiero?

«Credo che l’attenzione alle questio­ni cosiddette ultime da parte della fi­losofia non si sia mai affievolita del tutto. Alcuni filosofi italiani contem­poranei, e qui mi riferisco in partico­lare ad autori come Severino, Sga­lambro, Vattimo, Cacciari, Givone, Natoli, per non dimenticare Rella e Ruggenini, hanno puntato la loro at­tenzione su queste problematiche, accostandosi in maniera critica - in alcuni casi in maniera piuttosto vio­lenta - , alla prospettiva offerta dal cri­stianesimo e dalla teologia cattolica. Diversi filosofi, infatti, e qui penso in particolare a Severino e Sgalambro, nella loro filosofia hanno voluto de­nunciare l’inconsistenza e le aporie insanabili insite, a loro modo di ve­dere, nel messaggio escatologico del cristianesimo e in sostanza nel cri­stianesimo stesso. Sgalambro, in par­ticolare, i cui libri possono attirare l’at­tenzione più per la violenza del lin­guaggio e delle immagini che per la profondità delle riflessioni, muove un attacco diretto e duro alla speranza cristiana ritenuta grossolana e in­gannevole, una sorta di speranza da vermi, inoculata nel cuore e nella mente di persone deboli impaurite di fronte all’inesorabile e insensato a­vanzare della morte e della distruzio­ne del tutto. C’è dunque una mag­giore ripresa di attenzione da parte dei filosofi italiani verso quelle che la teologia definirebbe ’realtà ultime’, ma al fine - qui ho in mente special­mente Natoli - di riscrivere l’attesa e­scatologica cristiana in chiave intra­mondana, operando un serrato pro­gramma di secolarizzazione degli ul­timi articoli del Simbolo di fede. In molti di loro, piuttosto che un vero avvicinamento alle cose ultime, si re­gistra il tentativo, non del tutto cela­to, di sostituire alla speranza cristia­na il sentimento greco della vita, la vi­sione pagana del mondo e della sto­ria, per una sana riconciliazione con il mondo e con la finitudine dell’uo­mo, la sua mortalità. In realtà la mag­gior parte di loro ha voluto costruire il proprio pensiero in espressa rea­zione all’escatologia cristiana».

Lei ha accennato ad Emanuele Se­verino, il quale si mostra piuttosto o­stile verso il mondo delle fedi...

«L’attenzione di Severino verso il mes­saggio cristiano non è generica o e­strinseca, ma investe il contenuto stesso dell’annuncio e tutta la sua es­senzialità. Per lui la scelta del diveni­re provoca nell’umanità occidentale un sentimento di angoscia di fronte al niente, di fronte alla morte. Tutto dunque è eterno. Solo in superficie si crede che le cose vengano dal nulla e che nel nulla alla fine precipitino. Lo si crede perché nel profondo si è con­vinti che quel breve segmento di lu­ce che è la vita è esso stesso nulla. È questa la natura vera del nichilismo. È l’omicidio primario, l’uccisione del­l’essere. Da queste brevi, ma credo anche indicative affermazioni, si comprendono le ragioni per cui lo spazio per un possibile discorso in­torno al destino ultimo dell’uomo e del mondo, intorno alla vita eterna e alla speranza escatologica, sia prati­camente privo di senso e, dal mio punto di vista, assolutamente im­possibile ».

E veniamo a Salvatore Natoli, il filo­sofo cui lei sembra mostrare più in­teresse, sia per il suo costante riferi­mento al pensiero cristiano sia per le domande radicali che sembra por­re nelle sue riflessioni...

«Salvatore Natoli è uno dei filosofi i­taliani che si è maggiormente impe­gnato nella riflessione intorno a que­ste questioni. Egli fa ricorso a catego­rie il più delle volte mutuate preva­lentemente dal mondo biblico e dal­la tradizione ebraico-cristiana, come anche il fatto che egli si intrattenga con attenzione nell’analisi di testi del­la Scrittura e della tradizione patristi­ca e teologica, non disdegnando in alcuni casi neppure la familiarità con la testimonianza dei grandi mistici cristiani. Nella sua filosofia propone una saggia riconciliazione con la vi­ta, anche se profondamente pagana; una saggezza, cioè, che si misura sul­l’esperienza presente e che si con­centra sul presente, facendo a meno di un futuro assoluto, escatologico, e soprattutto di una meta ultima, con­clusiva, di un salvatore atteso. Natoli ammette che qualunque cosa si pen­si del cristianesimo, un confronto con esso non è eludibile sul piano della storia e della cultura, in quanto sen­za il cristianesimo potremmo capire ben poco di ciò che siamo. L’etica del finito secondo Natoli è propria del­l’uomo quale essere finito chiamato a venire a capo della finitezza di vol­ta in volta. Sta qui la radice e la so­stanza del neopaganesimo di Natoli il quale rinuncia al salto della fede e alle prospettive che la speranza cri­stiana dischiude, per rivolgere il pro­prio sguardo verso la naturalità - non certo la creaturalità - del finito e quin­di la felicità di questa vita. Nessuna prospettiva verso l’Altro, dunque, ma solamente verso l’altro fatto ’ogget­to’ della custodia. È questo l’aspetto del cristianesimo che Natoli accoglie e fa proprio: il Gesù del discorso del­la montagna, ma non il Cristo risor­to. Ciò non meraviglia affatto, poiché è stato lo stesso Natoli che a più ri­prese ha affermato con estrema one­stà, in tutti i passaggi possibili delle sue opere, che il non credente si sen­te tanto più interrogato dal cristiane­simo quanto più esso appare nella sua radicalità e paradossalità».

Lei pare dimostrare una simpatia an­che maggiore verso il cosiddetto ’pensiero tragico’, rappresentato so­prattutto da Luigi Pareyson e poi da Sergio Givone e Massimo Cacciari: anche le opere di questi filosofi sono intrise di cristianesimo...

«Sergio Givone, specialmente nel suo denso e avvincente racconto Favole delle cose ultime, conduce il lettore attraverso quelle che egli stesso defi­nisce ’stazioni e trame da cui si leva­no domande sulle cose ultime’. Do­mande sulla verità, sulla morte, sulla colpa, su Dio e il ma­le, sull’eterno, sul senso e sul nonsen­so, sul giudizio fina­le. Domande sulle cose che, come de­nuncia lo stesso Gi­vone, sembrano far­si sempre più estra­nee al discorso filo­sofico e ’trovare un estremo rifugio nel­lo specchio di un passato prossimo già diventato favola’. Da parte sua Cacciari pare cogliere tutta la drammaticità della domanda di Cri­sto nel Vangelo di Luca: ’Quando tor­nerà il Figlio dell’Uomo troverà fede sulla terra?’; vale a dire, troverà quel­la stessa luce e vita che egli è? A que­sta domanda è appesa l’intera rifles­sione filosofica di Cacciari, la sua ’e­scatologia’: la sua è una filosofia da cui emerge la dimensione tragica e a­gonica dell’esistenza dell’uomo, sem­pre più ricco di domande e sempre più povero di risposte. Una mancan­za che tuttavia non frena il bisogno di sapere insito nell’uomo stesso, per cui la filosofia, in particolare quella di Cacciari, si comprende come inquie­tudine del pensare, nella misura in cui, però, il pensare è rivolgersi alle questioni fondamentali dell’uomo, a­gli interrogativi legati alla sua vita e alla sua morte».

Lei poi accomuna in una sezione due intellettuali piuttosto lontani, Vatti­mo e Quinzio: forse perché entram­bi debole’?

«Sono sì due filosofi molto distanti tra di loro, ma tuttavia, ciascuno a suo modo, nella loro irriducibile distanza, hanno parlato di un ’eschaton pos­sibile’, o perché reso presente e spe­rimentabile nell’agape fraterna, nel­la pietas per il più debole e per l’e­scluso, o perché tenacemente invo­cato e impazientemente atteso; o per­ché ’letto’ tra le pieghe della storia, o perché chiamato ancora, nonostan­te la sua scandalosa assenza. Non ci sono molti legami tra questi due di­versissimi filosofi, questo è proprio vero. Se infatti Vattimo, in sostanza, ha ridotto la sua fede originaria in filo­sofia e pensiero, tanto da giungere a confessare di ’credere di credere’ quale ultima spiaggia della sua ricer­ca, Quinzio ha costantemente ricon­dotto la sua filosofia alla fede, una fe­de crocifissa e trafitta dallo scandalo dell’inaudito ritardo della venuta fi­nale di Cristo. Le domande che Quin­zio si è poste e con coraggio ha posto anche alla riflessione credente e alla Chiesa, ma prima ancora alla stessa testimonianza della Scrittura, non ri­guardano tanto l’attualità ecclesiale, la sua morale o la sua liturgia, quan­to piuttosto il contenuto profondo del messaggio rivelato: perché Gesù non è tornato? Perché nonostante la re­denzione da lui operata continuiamo a subire ingiustizie e a soccombere sotto i colpi del male? Perché conti­nuiamo a morire anche dopo la re­surrezione di Gesù dai morti? Perché i morti non risorgono? Egli avrebbe voluto concludere il suo cammino in­tellettuale e umano con l’affermazio­ne secondo cui la fede è puramente illusoria, ma ha sentito di non poter­lo fare perché ha compreso che in mezzo alla confusione e alle con­traddizioni della storia, ’qualcosa ha senso’ e questo senso, la croce di Cri­sto, è il giudizio sul mondo che deve essere distrutto per far spazio a Dio e al Suo regno di giustizia e di pace. La Chiesa deve annunciare tutto ciò, senza lasciarsi sopraffare da ciò che Quinzio ama definire ’superbi sba­digli’ che non sono altro se non il se­gno più estremo della sua stanchez­za e della sua stessa morte. In lui pre­vale tuttavia la speranza sull’ango­scia ».

Infine, come bilancio, quali oppor­tunità può trarre il pensiero cristia­no dalle provocazioni di questi filo­sofi non credenti?

«Ciò che accomuna i diversi filosofi, alcuni dei quali comunque si sono professati o si pro­fessano credenti, è la diffusa consapevo­lezza dell’insupera­bile finitezza dell’uo­mo e del pensiero u­mano. Partendo da qui essi sono giunti, ciascuno seguendo una propria direzio­ne, a guardare all’uo­mo nella sua realtà di essere finito e tutta­via di mistero inson­dabile, realmente presente nel suo mondo e nel suo tempo, ma non per questo schiacciato nel suo ’qui ed ora’. La teologia deve sempre più imparare ad accostarsi con più umiltà e minore presunzio­ne all’uomo concreto e alle sue do­mande fondamentali, senza cadere nel rischio di fornirgli soluzioni a­stratte e surrettizie, scontate e sorde al suo grido di dolore e di sofferenza. Dal confronto con questi autori in particolare, probabilmente la teologia giungerà alla convinzione che la pro­spettiva della finitezza non è l’unica possibile: piuttosto che una barriera insuperabile, essa può essere letta co­me un confine e una ’soglia’ che lo apre all’infinito. Se saprà fare questo, per citare una felice espressione di Jo­seph Ratzinger, allora riuscirà anco­ra a ’inquietare’ il cuore di chi conti­nua a dire con sempre maggiore in­sistenza che ’forse non è vero...’, con la possibilità reale che ’forse è vero’, è proprio vero che in Cristo risorto è stata offerta all’uomo una ’speranza affidabile’».


Sul tema, nel sito, si cfr.:

UN CODICE ETICO PER LA TEOLOGIA. DA LUCIANO DI SAMOSATA UNA ULTERIORE SOLLECITAZIONE A PAPA BENEDETTO XVI, A RETTIFICARE I NOMI

-  LA SAPIENZA E IL MESSAGGIO EVANGELICO. FRANCESCO BACONE E SAN PAOLO PRENDONO LE DISTANZE DALLE ENCICLICHE DI PAPA BENEDETTO XVI.
-  La scienza (anche quella teologica) gonfia: la fede e la speranza fondata nel Dio-Amore ("Charitas") non è la fede e la speranza fondata nel Dio-Denaro ("Deus caritas est"). Una "preghiera comune" firmata da Bacone

LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI...

DOMANDE AGLI STORICI (CATTOLICI E NON) DI DAVID BIDUSSA. DOPO 14 ANNI DI BERLUSCONISMO SOSTENUTO DAL VATICANO, DALLA CEI E DAGLI ORGANI DI STAMPA CATTOLICA, SIAMO ARRIVATI ALLE IMPRONTE AI ROM. NON E’ IL CASO DI SVEGLIARSI DAL SONNO DOGMATICO E RISPONDERE "SENZA FARE LE SPALLUCCE"?!

-  Il magistero del "Latinorum" e di "Mammona" ("Deus caritas est", 2006) non è il magistero né di Atene, né di Gerusalemme né di Roma, e non di Amore ("Charitas")!!!
-  NELLA CHIESA C’E’ TROPPO EDONISMO. IL PAPA NON SA PIU’ COSA FARE. E NIETZSCHE RIDE!!!
-  Tolta la "E" da "VANGELO" e la "H" da "CARITAS", e perso il "ben" ("eu-") del "demonismo", il Vaticano è approdato all’apologia del demonismo e del tragicismo!!!

-  ADAMO ED EVA, MARIA E GIUSEPPE UGUALI DAVANTI A DIO: L’ALLEANZA DI FUOCO. SI’ ALLE DONNE VESCOVO: LA CHIESA ANGLICANA SORPASSA LA CHIESA "CATTOLICA".
-  Il cattolicismo "andropologico" romano è finito

-  Ragione ("Logos") e Amore ("Charitas"). Per la critica dell’economia politica ..... e della teologia "mammonica" ("Deus caritas est", 2006)
-  L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana"


Rispondere all'articolo

Forum