Il giorno 11 febbraio 2007 è deceduta, in Roma, all’età di 2007 anni
LA CHIESA CATTOLICA
Il decesso è stato dovuto ad un lungo procedimento di eutanasia.
Ne danno il triste annuncio i parenti tutti: ecumenismo, pluralismo, laicità, fede, carità e tolleranza.
Un prete in lutto - Aldo Antonelli
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
Carissimi,
sono a pezzi e non posso tacere. Vi incollo e vi allego il tumulto delle mie riflessioni.
Fatene quello che volete. Se siete amici di vescovi o cardinali o del papa stesso non fareste male a recapitar loro questo FLORILEGIO. [11 luglio 2007]
DE PROFUNDIS
Tanto tuonò che piovve,
e la pioggia divenne temporale,
e il temporale si tramutò in uragano...
uno tzunami che tutto travolge,
cancellando ogni sentiero
di umano percorso;
oscurando ogni raggio
di umile, divina presenza
con il drappo della autoreferente prepotenza.
Cari amici,
di fronte alle spoglie di una chiesa che fu sono incerto se piangere o imprecare. Le premesse, ormai, c’erano tutte. Dopo anni di epurazione, con teologi silenziati, vescovi rimossi, sacerdoti desacerdotati, seminari e università teologiche “normalizzate”, il risultato non poteva essere che questo: una chiesa narcisisticamente intronizzata su se stessa in nome di una verità militarizzata.
Nel lutto si usa ripercorrere a ritroso il cammino del tempo che fu e rivivere le tappe gioiose di conquiste ormai imbavagliate e purtuttavia, per me, testardamente ancora molto eloquenti.
E’ quello che cerco di fare con voi: dar voce ai ricordi e ai saperi.
Note sparse Sulla Verità
Jean Sulivan, in una bellissima immagine ebbe a dire che la Verità è come un’immensa vetrata caduta a terra in mille pezzi. La gente si precipita, si china, ne prende un frammento e brandendolo come un’arma dichiara: "Ho in mano la Verità". Bisognerebbe, invece, raccogliere tutti i pezzi, saldarli con l’amicizia e, alla fine, la Verità risplenderebbe".
E’ per questo che Urs von Balthasar ebbe a scrivere: "La Verità è sinfonica"!
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"La tua verità? No. Conservala per te...
La verità. Andiamo a cercarla"
(A.Machado)
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Al tempo del Concilio Vaticano II, lo Spirito Santo aveva fatto scrivere dai nostri vescovi che “Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale”
(Gaudium et Spes n. 16)
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“L’ ‘amore della Verità’, che oggettiva, cosifica e trasforma in possesso ciò che dovrebbe invece possederci, è un amore idolatra. L’idolatria è la forma segreta del rifiuto. Questa verità sempre sfuggente, che mi strappa da me stesso, mi lacera: poterla una buona volta richiudere nella sua piccola bara e restarmene tranquillo, vivisezionarla, smerciarla... Vi sono fedeltà che mascherano dei tradimenti" (Gabriel Ringlet: L’evangelo di un libero pensatore; p. 73)
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“Proclamare acriticamente che il cristianesimo è la sola verità, è una dichiarazione di guerra”
(Arturo Paoli su Rocca 19/94 p.52)
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“L’omaggio alla Verità può venire dalla bocca degli innocenti, come dalla bocca dei perversi, con la differenza che, mentre i primi vi legano il cuore adorando, i secondi vi nascondono la loro malizia complottando”
(don Primo Mazzolari)
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“La Verità non si lascia ridurre a un concetto. Essa non è puramente oggettiva, assoluta. Parlare della verità assoluta è veramente una contraddizione in termini. La Verità è sempre relazionale e l’Assoluto (absolutus, non legato) è ciò che non ha relazione”.
(Raimond Pannikar)
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“Una volta credevo che il contrario di una verità fosse l’errore e il contrario di un errore fosse la verità. Oggi una verità può avere per contrario un’altra verità, altrettanto valida, e l’errore un altro errore”.
(Flaiano: Diario degli errori; p.88)
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“La tua verità, Signore, non appartiene a me, né a nessun altro, ma è di tutti coloro che tu inviti apertamente a fruirne. E tu ci ammonisci severamente a non considerarla come nostra proprietà privata, perché non finiamo per esserne privati".
(S.Agostino: Confessioni, XII, 25)
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“In che misura l’amore, sia pure con molte opinioni sbagliate, è da preferirsi al la stessa verità senza amore? Noi si potrebbe anche morire senza conoscere molte verità e tuttavia essere portati in seno ad Abramo. Ma se morissimo senza amore, a cosa sarà servita la nostra conoscenza? Tanto quanto serve al diavolo”
(John Wesley)
Il sogno di una chiesa che fu
Sulla tomba di Raffaele Pettazzoni 1883-1959, studioso non cristiano delle religioni si legge questa epigrafe: “Esaltò nello studio e nella vita il mistero che rivelato ci divide e sofferto ci unisce”
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Nel seminario di Verona in cui negli anni 1964-1968 ho studiato, un prete amico, don Olivo Dragoni, amava ripetere: “La Chiesa che emergeva dal Vaticano II era una Chiesa più attenta a lavare i piedi dell’umanità che non preoccupata di curare le vesti che portava addosso”
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Il Cardinal Etchegaray, non molti anni fa aveva ancora il coraggio di scrivere: “Dobbiamo essere felici di essere differenti. Chi di noi può pretendere di esaurire il messaggio del Vangelo e ridurlo a una sola voce? Ciascuno deve un pò convertirsi al volto dell’altro per correggere ciò che nella propria visione è troppo particolare...Altrimenti il nostro pellegrinaggio diventa crociata, la nostra testimonianza ideologia, il nostro volto una caricatura. Siamo contenti di essere differenti”
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Nel 1991, nonostante tutto, anche Giovanni Paolo II aveva il coraggio di usare altri registi, parlando della Chiesa: “E’ attraverso la pratica di ciò che è buono nelle loro proprie tradizioni religiose e seguendo i dettami della loro coscienza che i membri delle altre religioni rispondono positivamente all’invito di Dio e ricevono la salvezza in Gesù Cristo, anche se non lo riconoscono come salvatore”.
(Giovanni Paolo II: "Dialogo e annuncio" 1991)
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Mentre già qualche anno fa il gesuita francese Albert Longchamp ha paragonato la Chiesa di Wojtyla a quella di Innocenzo III, sette secoli prima: la chiesa crollante del famoso sogno di Francesco di Assisi: “laici imbavagliati, teologi senza tutela, vescovi in libertà vigilata, iniziative locali bloccate, centralismo forsennato. L’atmosfera è pesante, carica di tensioni, colma di risentimento. Il grande slancio spirituale si è spento, frenato dagli interdetti, paralizzato dai giuramenti, polarizzato dal Catechismo”.
Il ritorno delle religioni autoritarie
“Il buon Dio non ha creato la Religione, ha creato il mondo”
(Franz Rosenzweig)
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“Esiste, al centro stesso delle religioni, e in particolare delle religioni monoteiste, un’aggressività, un orgoglio, un esclusivismo che talvolta danno i brividi”
(Gabriel Ringlet; prete belga, rettore dell’Università di Lovanio)
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“Le religioni sono dei sentieri apparentemente distinti, che conducono nello stesso luogo in forza delle loro differenze: sono strumenti di conoscenza validi e insieme incompleti, utili quando aprono al simbolico puro e alla contemplazione della totalità; pericolose quando fanno di se stesse un valore assoluto in senso storico e sociale"
(M. Gallizioli)
Pirandello pone sulla bocca di un suo personaggio queste parole: “Io ho sempre inventato le verità, caro signore, e alla gente è sempre parso che dicessi le bugie”.
Concludo con le parole dello stesso autore con il quale ho iniziato queste citazioni, Jean Sulivan:
“Un giorno ho capito che si poteva mentire dicendo la verità, la peggiore fra le menzogne, quella che è consustanziale alla vita”.
Et de hac re satis, convinto qual sono che nel vero amore si cela la verità, mentre è possibile una verità spogliata dall’amore.
Don Aldo Antonelli
(prete in lutto)
Lettera a Bruno Zanin, una vittima della pedofilia clericale
di Fausto Marinetti *
Caro Bruno Zanin,
grazie per il coraggio di riconoscere di essere un uomo. Non hai paura di te. E neppure "al figlio dell’uomo" fai paura, perché lui, ama ogni figlio d’uomo, qualunque cosa abbia fatto.
Tu non ti riempi la bocca di belle parole come facciamo "noi", uomini di chiesa. Sei quello che sei: "Sì, sì, no, no". Fai parte di quella stirpe, che il Cristo cercava allora come oggi: i pubblicani e le meretrici. E lui ha il coraggio di metterli in prima fila, scandalizzando gli osservanti della legge, i benpensanti, compresi coloro che dicono di "amare la chiesa, perché amano Cristo" (attenzione alla cripto-ipocrisia!). Quelli che antepongono la diplomazia al vangelo, quelli che predicano bene e razzolano male, quelli che impongono agli altri dei pesi che loro non muovono con un dito.
Il tuo coraggio ha dato frutto: altre vittime si sono fatte avanti a raccontare il loro trauma. E’ la riprova della mia ipotesi: se tutte le diocesi mettessero a disposizione un telefono verde, quante altre vittime verrebbero alla luce? Quello che noi vediamo è solo il top dell’iceberg... la "sporcizia" è sotto sotto, ma basta stuzzicarla e viene a galla.
Alcuni hanno rivelato nomi eccellenti, ma sono ancora in "coma emotivo", impigliati nella ragnatela della paura, del tradimento, dell’orrore che li paralizza.
Confessano di non aver neppure la forza di denunciare. Non ne vogliono sapere di andare in tribunale, sarebbe rivivere il Calvario, che stanno tentando di cancellare dalla loro carne. E poi ci sono monsignori intoccabili, una sorta di casta, perché, a volte, si servono delle "opere buone" per coprire i loro delitti. Il brutto è che non sono capaci di gettare la maschera come, invece, fai tu. Ma se è gente che fa professione di fede e di carità; se è gente votata al vangelo, come fa a servire Dio e stuprare i suoi figli? E si fanno chiamare "padri"...
Vedi? Io vengo dal di dentro e conosco certi meccanismi o strategie clericali. Credo che uno dei fattori ai quali imputare questa contraddizione, sia la "troppa verità", che li porta all’arroganza della verità (quella che in passato ha fatto le "sante" crociate, bruciato streghe, condannato Galilei, collaborato con la "conquista" e con la shoà, ecc.). Quanta saggezza nelle parole di Paolo: "Chi sta in piedi non si esalti troppo, perché anche lui può cadere...".
Oh se tutti i Fisichella avessero un po’ di spazio dentro di sé (oltre che per la teologia e il catechismo) per accogliere le vittime! Forse è per la troppa verità di cui sono sazi; forse è per la troppa dottrina, che hanno bisogno di nascondersi dietro agli "operai del bene", che, per fortuna, ci sono ancora tra le loro fila, e spesso tollerati quando non ostacolati, contrariati, ecc.? Tu sai che io sono stato dieci anni con uno perseguitato da loro: Don Zeno, il quale non gliele mandava a dire e, con il suo esempio ha criticato e messo in evidenza certa cultura cattolica che non ha niente a che fare con il vangelo. Non si tratta di virgole, ma di vedere la dignità umana secondo gli occhi e il cuore di Dio. Ti faccio qualche esempio:
1 - La cultura clericale non ha sempre trattato il figlio della ragazza-madre come "figlio del peccato"? E lui ironizzava: "Mai sentito dire che il diavolo abbia fatto dei figli!". Quando veniva accolta in comunità una gestante, ci insegnava che era come un ostensorio della vita e, quindi, dovevamo rispettarla, onorarla e anche venerarla come si venera l’eucarestia.
2 - Nel 1943 all’ombra del Santuario di Pompei trova un istituto con la scritta "Casa dei figli dei carcerati". E lui va in bestia: "Questi bambini non sono i figli dei carcerati, ma i gioielli di Dio Padre, carne battezzata, senza macchia d’origine" (27.2.1943). E quando la comunità verrà sciolta dal braccio secolare, con il beneplacito della S. Sede, circa 700 "figli" sono strappati alle madri e riportati negli istituti, scoppiando dal dolore, dirà: "C’è da meravigliarsi che il clero abbia accettato collegi e orfanotrofi? Un flagello! A Pompei hanno fatto perfino la Casa dei figli dei carcerati. Una scritta a caratteri cubitali. Tu, prete, hai il coraggio di chiamare così coloro, che Dio ha scelto, perché rifiutati dagli uomini? Disprezzati dal mondo è un conto, ma anche dalla Chiesa non è troppo? É lecito commettere di questi guai? Siamo come il sacerdote e il levita della parabola del samaritano. Il Calvario è la storia di Dio nell’umanità e Cristo continua a dire alla Chiesa: Donna, ecco tuo figlio. E alle vittime: Figli, ecco vostra madre".
3- Di fronte a un’Italia alla fame, nel dopoguerra, scrive a Pio XII: "In rerum natura non si sono mai visti i babbi e le mamme benestanti e i figli poveri, affamati, ignudi, senza casa. Si è visto e si vede spesso l’inverso. Noi ecclesiastici, padri per divina elezione, di fronte ai figli siamo quindi contro natura, in peccato, dal quale hanno diritto di difendersi. Vuol cambiare rotta? Io ci sto e chissà quanti ci stanno..." (25.5.1953).
Ma Fisichella crede proprio che basta mascherarsi con le opere buone di madre Teresa per cancellare le migliaia di vittime della pedofilia clericale? Altro che insistere nel dire che si tratta di "casi isolati", di responsabilità personale di alcuni preti che "non dovevano diventare preti"! E quella dei vescovi che li hanno smistati qua e là? E la copertura...
La tua confessione "coram populo" ci invita tutti a gettare la maschera, a riconoscerci semplicemente uomini, a non ritenerci migliori degli altri, perché il nostro vanto è proprio quello di essere della stessa pasta di Adamo, creature fragili e perfettibili. Chi non ha bisogno di farsi perdonare qualche cosa? Perché i prelati non dovrebbero ammetterlo? Per salvare l’immagine? Che cosa è questa benedetta immagine se non, appunto, un’immagine?
Fisichella ha perso un’occasione unica durante la trasmissione di Annozero? Se invece di arrampicarsi sui vetri per difendere a tutti i costi la chiesa, (Cristo non ha bisogno di crociati, vecchi o nuovi), si fosse inginocchiato davanti alla donna stuprata per anni da don Contini, che cosa sarebbe successo? Un’occasione d’oro mancata. Mancanza di coraggio o di fede?
Certo, meglio la diplomazia, l’arte di non perdere la faccia, "l’istituzione va salvata ad ogni costo"! Ma Cristo, altro che faccia...!, non ha perso tutto quanto quando è andato ad "abitare" sul Calvario? Se è vero che vi sta a cuore l’istituzione, perché non prevenire tanto male, tanta aberrazione coltivata nei seminari, tanta cultura sessuofobica, che non vi fa vedere la corporeità, i figli, le donne, ecc. con gli occhi di Dio?
Perché non si ha questo santo coraggio? Perché siamo diventati ecclesio-latri, abbiamo messo la chiesa al posto di Dio? Ma dove esiste nel vangelo il "culto" alla chiesa, al papa, ai principi della Chiesa?
E quanti disastri continua a fare l’idolatria del prete? Cosa non si fa per fargli credere di essere "altro" dal popolo, un diverso, un eletto, un predestinato? Non si è forse elaborata una "dottrina" per metterlo sul piedestallo di Dio stesso?
La teologia distingue tra il sacerdozio di "uomini speciali" e il "sacerdozio comune dei fedeli". Al sacerdote sono affidati poteri essenziali per la salvezza: celebrare l’eucarestia e perdonare in nome di Dio. Il concilio di Trento dichiara: "Se uno dice che nel Nuovo Testamento non c’è traccia visibile del sacerdozio e del potere di consacrare il corpo e il sangue di Cristo e di rimettere i peccati, sia anatema" (n°. 961). Il celibato obbligatorio rinforza la mistica del prete, che lo pone al di sopra dei laici. Quando viene ordinato si unisce a Cristo in tale maniera che è sostanzialmente diverso dagli altri (catechismo, 1581), perché "possiede l’autorità di agire con il potere e nella persona di Cristo stesso" (1548). Viene messo sul pulpito, accanto a Dio, di cui gode onori e privilegi. Il curato d’Ars dice: "Che cosa è un prete? Un uomo che sta al posto di Dio, investito di tutti i suoi poteri. Quando perdona non dice "Dio ti perdoni", ma "Io ti perdono". Se incontrassi un prete e un angelo, prima saluterei il prete poi l’angelo. Questi è amico di Dio, il prete sta al suo posto". S. Teresa baciava dove passava un prete. "Il sacerdote agisce in persona Christi e questo culmina quando consacra il pane e il vino" (Giovanni Paolo II, giovedì santo 2004). La divisione tra preti e laici è di origine divina (can. 207). Ma l’aureola anzitempo gioca brutti scherzi: ti illude di essere costituito in grazia, immune dal peccato, specie da quello banale e volgare del sesso, che spetta ai comuni mortali. Il passaggio dal potere al privilegio, dall’elite alla casta è breve. E così va a finire che il clericalismo distorce, distrugge, avvelena la missione della Chiesa. Se non è la causa di molti problemi, certo li causa per conservare privilegi, potere, prestigio, immagine. Quindi non è ammessa nessuna debolezza, lo scandalo va soppresso, le vittime messe a tacere. Corruzione e abuso inevitabili (cf "Sex, priests & secret codes, R. Sipe, T. Doyle, P. Wall, Los Angeles, 2006).
Se si fa credere al prete di essere "come Dio", è chiaro che questo influisce e condiziona la sua psiche al punto di considerarsi al di sopra della legge umana e inconsciamente si permette delle libertà, che non sono concesse ai comuni mortali.
Non ce n’è abbastanza per riflettere e decidere di cambiare rotta?
* Il dialogo, Sabato, 04 agosto 2007
*Ringraziamo Fausto Marinetti per averci inviato questa sua lettera a Bruno Zanin, una vittima della pedofilia clericale che ha raccontato la sua storia in un libro che fa tremare: "Nessuno dovrà saperlo" dove con raro coraggio ammette, come conseguenza, di essere diventato omosessuale, non pedofilo. Per lui, come per tanti altre vittime della pedofilia dei preti, nessuno muove un dito, neppure le scuse come avviene in America dove le vittime hanno diritto alle pubbliche scuse del vescovo, possono "raccontare" in chiesa il "fattaccio" o scriverlo sul giornale della diocesi. Possono anche giungere ad erigere nella piazza di Davenport, davanti alla casa del vescovo, una macina da mulino con le parole di Cristo: "Chi scandalizza un bambino sarebbe meglio per lui mettersi una macina da mulino al collo e buttarsi nel mare".
Verrà il giorno in cui in piazza S. Pietro, al posto della fontana, si metterà una gigantesca macina da mulino a perpetua memoria delle vittime dei preti?
MAGISTERO ECCLESIASTICO E VANGELO
Se qualche critica è stata rivolta all’ingerenza ecclesiastica nella sfera politica, stranamente nessuna voce si è levata per mettere in discussione il ruolo stesso del magistero, quasi si trattasse di una verità contestabile forse da qualche miscredente ma certo indiscutibile per chi vuole essere un buon cattolico.
di Elio Rindone *
Che si parli di unioni di fatto o di testamento biologico, la Conferenza episcopale italiana ribadisce senza sosta il diritto e il dovere del magistero di illuminare le coscienze dei fedeli riguardo ai valori fondati sulla natura e quindi sottratti a un lecito pluralismo. Reazioni?
Se qualche critica è stata rivolta all’ingerenza ecclesiastica nella sfera politica, stranamente nessuna voce si è levata per mettere in discussione il ruolo stesso del magistero, quasi si trattasse di una verità contestabile forse da qualche miscredente ma certo indiscutibile per chi vuole essere un buon cattolico.
Il fatto è sorprendente perché invece riempiono ormai intere biblioteche gli scritti degli studiosi cattolici che nel corso degli ultimi decenni, grazie ai margini di libertà di cui era possibile fruire nel periodo del concilio Vaticano II, hanno dimostrato l’infondatezza dell’esegesi biblica e dell’ecclesiologia su cui poggiano le rivendicazioni vaticane.
Per constatare, infatti, quanto il sistema ecclesiastico attuale sia lontano dal messaggio biblico originario basterebbe leggere, per esempio, il volume (che riporta un’ampia bibliografia, consultabile da chi fosse interessato al tema) di Xabier Pikaza, Sistema, libertà, chiesa. Istituzioni del Nuovo Testamento, Borla, Roma 2002, (traduzione di Marco Zappella, che ritocco leggermente).
Basandosi su una rigorosa lettura critica dei testi, l’autore - prima professore di Storia delle religioni e Teodicea presso l’Università pontificia di Salamanca e poi professore di Sacra Scrittura all’Università di Cantabria - dimostra che la Scrittura non attribuisce a Gesù l’intenzione di fondare una struttura ecclesiastica caratterizzata: (a) da un ordine sacerdotale modellato su quello ebraico, (b) da una gerarchia istituita per proseguire le funzioni degli apostoli e (c) da un magistero abilitato a insegnare la verità ai fedeli.
a) Nella storia del popolo ebraico, almeno in alcuni periodi, il sacerdozio ha certo avuto un ruolo notevole, e tuttavia “l’identità della religione ebraica e il suo contributo all’insieme della storia non sono legati ai sacerdoti”(p 95). Anzi, il Gesù dei vangeli non solo é estraneo al mondo sacerdotale ma é un suo avversario: Gesù “fu un laico e non volle purificare l’istituzione sacerdotale (come tentarono alcuni separati di Qumran) ma ne proclamò la rovina: Dio non ha bisogno né di templi né di sacerdoti, ma si rivela in modo immediato, messianico, guarendo i malati, perdonando gli esclusi del sistema. [... Perciò] nella chiesa non deve esserci un ordine sacerdotale distinto, proprio di alcuni eletti, nella linea dei sacerdoti e leviti di Israele”(ivi).
I vangeli, in effetti, descrivendo gli inizi della predicazione di Gesù, lo presentano come l’annunciatore del Regno di Dio, un mondo rinnovato nella giustizia e nella fratellanza al di fuori di ogni schema sacrale: “Gesù e i suoi primi seguaci non hanno voluto creare un’altra religione e una società sacra, ma un movimento carismatico del Regno”(p 257). Stando a Marco 3, 31-35, attorno a Gesù si é riunito un gruppo di uomini e donne che vogliono fare la volontà di Dio in un clima di fraternità, liberi dal peso opprimente delle autorità tradizionali: “I seguaci di Gesù sono una famiglia allargata e condividono vita, speranza e comunione personale: cento madri/figli, fratelli/sorelle”(p 173). Stranamente Marco non parla di ‘padri’, e ciò è sintomatico per una società in cui, come in genere in quelle antiche, l’autorità patriarcale era indiscussa: la chiesa attuale, quando esalta la paternità spirituale dei suoi sacerdoti, non sembra rinnegare quella gioiosa comunità paritaria?
Basta rileggere, in effetti, la bella parabola del seminatore (Marco 4, 13-20) per accorgersi che Gesù ha affidato il suo messaggio non a degli specialisti ma a tutti coloro che vogliono accoglierlo con animo aperto e disponibile. Dunque niente scribi o sacerdoti “che amministrano la Parola dall’alto, perché [questa] é di tutti. [...] La Parola é principio di comunione universale, e tutti possono comprenderla, accoglierla, condividerla in libertà, senza intermediari sacrali”(pp 161-162).
E la comunità a cui é rivolta la parola di Gesù è non solo egualitaria ma anche inclusiva. Accoglie i peccatori e non discrimina le donne, sicché una distinzione di funzioni - la parola é degli uomini, il servizio é delle donne - risulta estranea al vangelo. Affermando l’inferiorità della donna, per secoli la chiesa si è adattata alla mentalità del tempo. Ora finalmente la società è cambiata, ma la chiesa è rimasta vergognosamente indietro: “Oggi, a duemila anni di distanza, una cecità di questo tipo é incomprensibile”(pp 191-192).
Una società che mette radicalmente in discussione le gerarchie costituite, che non si comporta “secondo la tradizione degli antichi”(Marco 7,5), declassata a deposito di dottrine opinabili, che segue Gesù anche quando le sue critiche alle autorità religiose diventano sempre più esplicite è qualcosa di rivoluzionario. La rottura con la religiosità ufficiale è assoluta, tanto che Marco (14, 58) attribuisce a Gesù, giunto alla fine della sua avventura, l’idea che la religione incentrata sul culto del tempio non possa essere riformata ma vada semplicemente distrutta: il “messaggio del Regno implicava il rifiuto dell’autorità sacrale del tempio: la comunità sacrificale, diretta come teocrazia o governo di Dio grazie ai sacerdoti, é arrivata alla sua fine. [...] Per volontà di Dio, affinché la salvezza si apra ai poveri, questo sistema sacrale incentrato sul tempio deve finire [...]: va distrutto (cfr. Mc 11,15)”(pp 216-217). Non c’è dubbio che i vangeli, se letti senza pregiudizi, sono libri terribilmente anticlericali: non suggeriscono forse l’idea che anche oggi, perchè possa venire tra gli uomini il regno di Dio, è necessario battersi contro la ricostituzione di una casta sacerdotale che attribuisce a se stessa il monopolio del vangelo?
Credo che l’autore interpreti davvero il sentire di tanti credenti quando scrive, a proposito di una chiesa di tipo patriarcale, fondata su una gerarchia di maschi celibi, che “molti di noi ritengono che questo sistema ecclesiale sia ormai inutile: si trova vuoto d’acqua, risulta anti-evangelico; ha assolto una funzione, ma ha dato il massimo ed é diventato un fossile; non alimenta più la fede e la contemplazione dei credenti, né serve per animare la vita delle comunità; sopravvivrà per inerzia, per un tempo non molto lungo, e alla fine crollerà da solo, eccetto che cambi e si rinnovi a partire dal vangelo”(p 470, nota 1).
b) Nella comunità primitiva di cui parlano gli Atti degli Apostoli (15, 22-29), poi, le decisioni non sono assunte da una suprema autorità ma scaturiscono dal libero confronto. La chiesa “é un’assemblea partecipativa: Dio parla nel dialogo fraterno. Questo é il modello cristiano di governo, in una chiesa strutturata e in cui sorgono dei problemi. Essa non può risolverli in modo magico, né richiamarsi a un’istanza esteriore (oracolo di Dio, rivelazione privata o decisione particolare di un dignitario). [...] Perciò non può esserci nella chiesa una gerarchia, con poteri particolari”(p 287 e nota 47).
In effetti, secondo Matteo 18, 19-20, Gesù é presente dove due o tre persone sono riunite nel suo nome: “Perciò, il vicario di Cristo non é un’autorità isolata (papa, vescovo, presbitero), ma la stessa comunità riunita, in una sinfonia di preghiera e azione fraterna.”(p 357). Una chiesa in cui la gerarchia, cedendo alla tentazione del potere, si imponesse ai fedeli trasformandoli in ricettori passivi di decisioni che cadono dall’alto sarebbe poco evangelica: anzi, scrive senza mezzi termini Pikaza, una comunità “governata in modo impeccabile da autorità superiori (senza che i suoi membri siano responsabili), diventerebbe satanica”(p 358). Proprio contro questo pericolo mette in guardia Matteo 23, 8-10 esortando i credenti a rifiutare ruoli di potere e titoli onorifici: non è sempre attuale “il rischio di una chiesa che comincia a edificarsi su schemi di autorità gerarchica, perché alcuni all’interno di essa tentano di farsi chiamare padre, rabbino o maestro”(p 359)?
Chi ricorda la dottrina tradizionale, a questo punto farà osservare che la chiesa è fondata sui dodici apostoli e che i vescovi cattolici sono i loro successori. Ora, è vero che Marco 3, 12-14 presenta Gesù che costituisce il gruppo dei Dodici, però questi non sono dignitari ecclesiastici ma uomini del popolo, semplici galilei inviati a predicare il vangelo, mentre “una tradizione posteriore li ha resi garanti del ‘collegio episcopale’, come se fossero stati i primi dodici vescovi della chiesa. Ma essi non lo sono stati, e la loro missione é stata trasmessa non a una gerarchia particolare ma all’insieme della comunità”(p 204).
L’idea di una struttura gerarchica della chiesa fondata sulla successione apostolica non ha una base evangelica ma é una costruzione che comincia ad affermarsi solo alla fine del II secolo: “Al contrario di Ireneo, gli storici attuali sanno che non si può parlare di una successione stretta partendo dagli apostoli (i Dodici) fino ai vescovi propriamente detti [...]: i vescovi monarchici, nel senso posteriore del termine, sono sorti nella chiesa nel corso del secolo II d.C. [...] Nel corso di un intero secolo (a partire dal 50 fino al 150-160 d.C.) Roma non ebbe vescovi (e meno ancora papi) nel senso successivo del termine, mantenendosi e crescendo, tuttavia, come chiesa esemplare, molto ben organizzata, sotto la guida di presbiteri. Essa accettò l’episcopato soltanto due o tre decenni prima di Ireneo”(p 460).
In effetti, è storicamente accertato che le prime comunità cristiane sono state animate da gruppi di anziani o presbiteri, impegnati come Paolo a suscitare e tener viva la fede dei credenti e non a esigere la loro obbedienza. Una visione gerarchica della società non potrebbe richiamarsi a Gesù né a Paolo (cfr. I Cor. 12, 12-27) ma esprimerebbe piuttosto l’impostazione propria della Repubblica platonica o dell’impero romano: sulla scia dell’esperienza di Gesù, “convinto che l’ordine del mondo é stato superato, Paolo espone e difende un anti-ordine di gratuità radicale, dove i più importanti sono i meno onorati [...]. Un mondo al rovescio, questo é sembrato il vangelo ai ‘buoni romani’. [...] Quando la chiesa posteriore si consolida affermando l’unità del corpo a partire da una gerarchia sacra, di tipo episcopale o presbiterale [...] potrà essere platonica o romana, ma non paolina e nemmeno cristiana”(pp 306-307).
Proprio per essere fedeli al vangelo è perciò urgente secondo Pikaza mettere in discussione una struttura ecclesiastica autoritaria: occorre superare “il sistema imperiale (romano), che si é imposto fin dall’antichità e ha trasformato le comunità in una sola chiesa romana, dove tutte le questioni importanti si risolvono a partire da un vertice amministrativo e sacrale che avrebbe ricevuto da Dio il potere adeguato per fare ciò. [...] Quell’impero politico é caduto, ma é stato copiato e ricreato sotto forme sacrali dalla chiesa di Roma [...]. Ebbene, il ciclo di questa chiesa-sistema é terminato e dobbiamo tornare alla verità del vangelo [...]. Osiamo dire che la prassi attuale della chiesa, dove la partecipazione dei credenti é quasi nulla, ci sembra contraria al vangelo e deve finire, oggi meglio che domani”(pp 486-487).
c) Se non é possibile attribuire a Gesù l’istituzione di un ordine sacerdotale e di un’autorità fondata sulla successione apostolica, non ci può essere posto, in una comunità che si richiami a lui, per un magistero che pretenda di insegnare la verità, privando i fedeli del diritto di esprimere le proprie opinioni. La chiesa primitiva conosceva le divergenze di idee e persino Pietro, come ricorda Paolo (Galati 2, 11-14), veniva criticato in pubblico, senza che il dissenso venisse soffocato. Il disaccordo tra Pietro e Paolo mostra che il pluralismo delle scelte é un fatto assolutamente naturale; inaccettabile, al contrario, sarebbe un’uniformità frutto di imposizione autoritaria. Una società viva non può evitare la molteplicità delle esperienze e dei punti di vista, che sono una ricchezza e non un pericolo, e vanno perciò accolti senza spezzare la fraternità.
Per secoli, invece, si é seguita la via opposta: la chiesa romana ha cominciato ad attribuire a se stessa un ruolo magisteriale sempre più invadente e nel 1870 é arrivata a proclamarsi addirittura infallibile. Ma la pretesa, accentuatasi negli ultimi decenni, di dire su ogni questione una parola definitiva e vincolante, pur non contestata esplicitamente, é avvertita con crescente fastidio da molti credenti: “l’immensa maggioranza dei documenti della curia vaticana (a partire da molte encicliche) non é necessaria o é divenuta controproducente, perché dà l’impressione che soltanto quelli della curia sappiano pensare e dire ciò che é cristiano, usurpando un compito che é proprio delle comunità”(p 509).
Nel mondo occidentale, infatti, l’uomo ha oggi acquisito la consapevolezza della propria dignità di persona adulta, responsabile delle proprie idee e delle proprie scelte, mentre la chiesa romana continua a trattare i credenti come eterni minorenni, incapaci di trovare da sé il modo di vivere il vangelo e perciò sempre bisognosi di essere guidati dall’autorità: sembra fidarsi poco “dei suoi fedeli, inclusi i suoi ministri. Essa dovrebbe lasciare da parte le proprie certezze, il proprio desiderio di esprimere un’opinione in ognuno dei campi in discussione, [... invece non fa che imporre leggi a uomini e donne] come se pensasse che essi (soprattutto le donne) sono minorenni e che deve aiutarli, affinché trovino la sicurezza che da sé non troverebbero”(p 477).
Ancora una volta sul modello dello stato platonico, in cui i sapienti guidano gli inferiori, noi cattolici, scrive Pikaza, “abbiamo costruito una religione impositiva, ricordando agli altri quello che devono fare (evidentemente per il loro bene). Il vangelo ha proclamato che amiamo i nemici, cioè i diversi, [...] affinché così possano vivere a modo loro, come diversi [...]. Invece molte volte ci siamo sentiti padroni della verità e abbiamo voluto esigere da loro che siano come noi decidiamo (e non come essi vogliono).”(p 476).
Sarebbe dunque auspicabile un cambiamento di mentalità che, in consonanza con il vangelo, attribuisse alle guide della comunità il compito non di soffocare il pluralismo ma di far convivere le differenze. Solo in questa prospettiva sarebbe accettabile il ministero petrino, se si concepisse cioè “il compito di Pietro (= del papa), come segno di fedeltà e apertura creativa, in dialogo con le diverse tendenze ecclesiali: non un compito di uniformità, né di imposizione sulle chiese, autonome e diverse, ma di comunione e libertà tra tutte queste”(p 539).
Se tale é il senso del ruolo che Matteo 16, 18 assegna a Pietro come fondamento della comunità cristiana, é chiaro che “la chiesa romana come piccolo stato, con il suo potere e la sua pompa, i suoi ambasciatori (nunzi), la sua amministrazione e gerarchia sacrale (dai monsignori ai cardinali), risulta contraria al vangelo”(p 513). Essa si regge ancora per il sostegno che riceve da forze politiche, che a loro volta se ne servono per i loro giochi di potere, ma non è più credibile quando pretende di imporsi col suo centralismo organizzativo e col suo magistero universale ai cattolici sparsi in tutto il mondo
Se l’attuale struttura della chiesa non ha dunque un fondamento evangelico, come si spiega il fatto che, almeno in Italia, sia ancora comunemente accettato il suo ruolo magisteriale? Senza dimenticare il potere che deriva alla Conferenza episcopale italiana dal generoso finanziamento accordato dal sistema dell’8 per mille e dall’alleanza con le forze politiche più reazionarie del nostro Paese, mi pare che la risposta possibile sia una sola: la formazione religiosa degli italiani, praticanti o meno, é spesso ferma alle nozioni apprese alle lezioni di catechismo o alle prediche del parroco. Di conseguenza, non abituati alla libera ricerca teologica, neanche i credenti più impegnati sono di solito in condizione di mettere in dubbio una struttura ecclesiastica che è frutto solo di contingenze storiche!
La Congregazione per la Dottrina della Fede, inoltre, ormai da diversi anni ha ricominciato a lavorare a pieno ritmo per ridurre al silenzio le voci critiche, e i risultati sono innegabili: la fede del popolo cristiano, tornato a una supina obbedienza all’autorità sotto la guida dei ripetitori del verbo vaticano, si nutre ormai solo di devozione a padre Pio, pellegrinaggi ai santuari mariani e megaraduni pontifici. Impedita la divulgazione delle tesi, da tempo acquisite a livello degli specialisti, che mettono in discussione il potere della gerarchia, aumenta ovviamente il conformismo e diminuisce il numero dei credenti che utilizzano i contributi degli studiosi più qualificati per riscoprire l’autentico messaggio evangelico e liberare così la propria fede da incrostazioni plurisecolari. È a motivo dell’autoritarismo vaticano, dunque, che non viene messa in discussione l’idea che spetti al magistero il compito di illuminare il gregge dei fedeli: idea, questa, pericolosa non solo per l’autonomia della politica ma anche per l’autenticità della fede.
L’impegno per liberare il messaggio evangelico dalla gabbia in cui lo rinchiude l’autorità ecclesiastica credo che sia perciò, soprattutto per i credenti, una delle urgenze dell’attuale momento storico. Impegno doppiamente necessario: occorre, infatti, difendere la laicità dello stato e al contempo evitare che il vangelo appaia come un relitto del passato, adatto a un popolo di minorenni. Una radicale riforma della struttura ecclesiastica è ormai inderogabile, e non può certo prodursi, come opportunamente scrive Pikaza, su iniziativa di chi oggi detiene il potere ma solo ad opera di cristiani maturi che vivono liberamente la loro fede senza preoccuparsi dei diktat vaticani: “non m’attendo che i cambiamenti vengano dalla ‘cupola’ clericale, ma dalla radice del vangelo, a partire dal ricordo di Gesù e delle prime comunità cristiane, secondo la fede del popolo”(p 479).
Fonte: ITALIA LAICA, 9-7-2007
anatemi
Cento anni di modernismo nelle libertà perdute della Chiesa
Nel luglio del 1907, Pio X stigmatizzava la corrente religiosa di Murri e Bonaiuti. Due mesi più tardi, l’enciclica «Pascendi Dominici gregis» condannerà ancora il movimento definito «sintesi di tutte le eresie»
di Alfonso Botti *
È passato un secolo da quando, nel luglio del 1907, con il decreto Lamentabili sane exitu Pio X condannava la corrente riformatrice religiosa da qualche anno divenuta nota con il nome di modernismo. Due mesi dopo, l’8 settembre, la condanna era reiterata con l’enciclica Pascendi Dominici gregis che stigmatizzava il modernismo come «sintesi di tutte le eresie». Si è soliti identificare il punto algido della controversia modernista con la pubblicazione di L’Évangile et l’Eglise (1902) dell’abate Loisy: il «piccolo libro» dalla copertina rossa in cui l’esegeta francese forniva una lettura tutta escatologica del regno predicato da Gesù, negando che egli avesse inteso fondare la Chiesa. A cui faceva seguire, l’anno dopo, Autour d’un petit livre nel quale esplicitava e ribadiva le proprie posizioni.
Un fenomeno europeo
Il modernismo si sviluppò tra il clero, gli intellettuali cattolici e i semplici credenti di base dagli ultimi anni del pontificato di Leone XIII alla condanna di papa Sarto. Poi cercò di organizzarsi come movimento per resistere e sopravvivere, ma fu sopraffatto. La controversia a cui diede vita produsse la crisi più importante nella Chiesa dopo la Riforma protestante e senza termini di paragone neppure con i sommovimenti prodotti dal giansenismo. Il fenomeno ebbe dimensioni a carattere europeo. Europea la statura dei suoi principali esponenti che mantenevano profondi e articolati rapporti con la cultura del Vecchio continente. Se ne trova conferma scorrendo l’elenco dei corrispondenti del pastore protestante francese Paul Sabatier, le cui carte sono conservate presso il Centro studi per la storia del modernismo di Urbino, fondato all’inizio degli anni Settanta da Lorenzo Bedeschi.
I più significativi rappresentanti della corrente furono, in Francia, oltre ai già citati Loisy e Sabatier, Bremond, Hébert, Houtin, Laberthonnière, il filosofo Le Roy; in Italia, Romolo Murri (il fondatore della prima democrazia cristiana), Buonaiuti, Minocchi, Fracassini, Semeria, Gallarati Scotti e lo scrittore Antonio Fogazzaro; in Gran Bretagna, l’ex gesuita Tyrrell, miss Petre e il barone d’origine austriaca von Hügel; in Germania i professori Schell, Schnitzer, Koch, Engert e Funk. In Spagna, a parte il limitato interesse verso il modernismo di alcuni religiosi e del sacerdote galiziano José Amor Ruibal, gli intellettuali che più si avvicinarono alla sensibilità modernista furono Leopoldo Alas, noto con lo pesudonimo di Clarín, suo fratello Genaro, il Pérez Galdós del romanzo Nazarín e, più di tutti, Unamuno.
Tra scienza e fede
L’assenza di modernisti in carne e ossa fu surrogata da Ortega y Gasset nel 1908 con la creazione del personaggio di Rubín de Cendoya nella recensione che dedicò all’edizione spagnola del Santo di Fogazzaro. Anni dopo, nel 1936, lo stesso fece lo scrittore basco Pío Baroja, con il personaggio di Javier Olarán, nel romanzo El cura de Monleón. Furono molte le riforme del cattolicesimo e della Chiesa auspicate dai modernisti. I temi più tipici delle loro ricerche storiche e religiose si possono riassumere nella formula della spinta verso la conciliazione tra la scienza e la fede cristiana. Un risultato che cercarono di perseguire muovendosi su differenti piani: con l’impiego del metodo storico-critico nell’esegesi biblica, nella storia della Chiesa e dei dogmi, nell’apologetica e l’agiografia; con la critica del tomismo come filosofia cristiana e del concetto stesso di «filosofia cristiana» al posto della quale si adoperarono a favore della libera ricerca filosofica, guardando con simpatia al pensiero di Blondel, Bergson e al pragmatismo statunitense; con l’accettazione dell’evoluzionismo darwinano per spiegare l’origine dell’uomo contro il tradizionale creazionismo del magistero ecclesiastico; prestando attenzione agli aspetti psicologici dell’esperienza religiosa sotto l’influenza di William James; con la netta opzione per la democratizzazione della Chiesa e della società, che assunse venature socialiste nel caso del Buonaiuti degli anni della rivista «Nova et vetera».
L’origine del sospetto
In definitiva i modernisti vollero togliere le incrostazioni confessionali che si erano depositate nel corso dei secoli attorno all’Evangelo e al messaggio cristiano per recuperarne l’autentico significato in vista del più proficuo dialogo con il mondo moderno. Fu una tendenza intellettuale, ma non elitaria, che trovava le proprie radici nel cattolicesino liberale francese e italiano, nel Reformkatholizismus tedesco, nell’americanismo (condannato dalla Chiesa nel 1899 con la Lettera Testem benevolentiae), nel positivismo e nel nuovo protagonismo delle masse dell’Europa di quegli anni. La Chiesa ebbe paura e condannò la corrrente riformatrice. Costruì anzi con «il modernista» il proprio nemico interno. I modernisti dovettero scegliere tra deporre l’abito talare, la sospensione a divinis e il mesto ritorno all’ovile. Alcuni continuarono a pubblicare i risultati delle proprie ricerche coperti da pseudonimi.
Quelli che non obbedirono o che vennero scoperti furono scomunicati (Loisy, Buonaiuti, Murri). Per questo motivo la crisi modernista si frantumò in tante crisi personali, di coscienza, esistenziali. Le pubblicazioni moderniste e anche alcuni romanzi furono inseriti nell’Indice dei libri proibiti. Molte riviste cessarono le pubblicazioni. Nacque una cultura del sospetto contro ogni attività di ricerca nelle scienze religiose che non risparmiò neppure il futuro Giovanni XXIII. La grande mobilitazione antimodernista favorì i settori più intransigenti e integralisti della Chiesa e del cattolicesimo. Per meglio combattere la «eresia» modernista, un ecclesiastico prossimo a Pio X, monsignor Benigni, fondò nel 1909 Sodalitium Pianum o Società San Pio V (nota anche come Sapinière), un’organizzazione di spionaggio clericale, che contò sulla collaborazione di schiere di delatori, infiltrati e persino di cifrari segreti. A partire dal settembre del 1910 si introdusse l’obbligo del giuramento antimodernista per entrare nei seminari e nelle Università pontificie (Motu proprio Sacrorum antistitum).
Nel 1907 morirono nella Chiesa le inquietudini e il dubbio, la libertà di ricerca e la possibilità stessa del pluralismo teologico. I cattolici avrebbero dovuto aspettare quasi mezzo secolo e il Concilio Vaticano II per recuperare i livelli di libertà ecclesiale che il modernismo aveva fatto intravedere.
Non a caso proprio negli anni della primavera conciliare prese avvio lo studio del modernismo con le ricerche di Ranchetti, Scoppola, Bedeschi e, su tutti, Poulat, per dire solo dei principali. Di contro, il 1907, segnò il trionfo del clericalismo. La condanna e la repressione antimodernista favorirono i settori più ultramontani e integralisti sul piano religioso e quelli più illiberali e antidemocratici sul piano politico.
Vuoti di cultura
A ben guardare, però, e con la prospettiva che il tempo consente, occorre riconoscere che la Chiesa non respinse la modernità in toto. Il modernismo rappresentava infatti solo una delle vie o opzioni della modernizzazione cattolica. Nel suo complesso Curia romana e gerarchie ne scelsero un’altra.
Iniziò proprio allora, infatti, il cammino verso la modernità compatibile, la modernità «buona», dei mezzi, ma non dei contenuti, attraverso una complessa operazione di filtro e aggiustamento del tradizionale progetto di cristianità. Un progetto dal quale non si è scostato né il papa polacco né, a quanto è dato vedere, quello tedesco, che alla messa in latino di Pio V ha dato facoltà di tornare.
Senza la condanna del 1907, la storia del cattolicesimo e della Chiesa in Europa avrebbe probabilmente seguito un altro percorso. Senz’altro meno tardiva la sconfessione dell’Action française, che giunse solo nel 1926; senz’altro maggiori resistenze alla penetrazione del fascismo avrebbe offerto il mondo cattolico italiano e più difficili la sacralizzazione della Guerra civile spagnola e la stretta alleanza di quel cattolicesimo con il franchismo. La condanna lasciò indifferente la cultura laica e socialista che vi trovò conferme circa l’irriducibile antinomia tra religione, scienza e modernità. Contentò invece quella liberale moderata e conservatrice, che di un mondo cattolico disciplinato aveva bisogno.
A essa inconsapevolmente si ispirano «atei devoti» e «teocon» dei nostri giorni, ignari delle repliche farsesche della storia. Che nel dibattito culturale e politico degli ultimi tempi su scienza e religione, bioetica e darwinismo, laicità dello Stato e neoclericalismo sino rimasti del tutto assenti riferimenti sia al modernismo, sia al clericomoderatismo, la dice lunga sul vuoto di cultura storica su cui galleggia il paese.
* il manifesto, 13.07.2007
Un movimento fra studi e convegni
Una lunga attesa I cattolici avrebbero dovuto aspettare quasi mezzo secolo e il Concilio Vaticano II per recuperare i livelli di libertà ecclesiale che il modernismo aveva fatto intravedere
di A. B. (il manifesto, 13.7.2007)
Senza prendere in considerazione la prima fase di lavori - per lo più a opera degli stessi protagonisti - e le monografie sui singoli esponenti, gli studi di carattere storico (altri naturalmente ve ne sono dal taglio filosofico e teologico) dai quali, per vari motivi, non si può prescindere per avere una panoramica completa del modernismo sono i testi di Émile Poulat, Intégrisme et catholicisme intégral. Un réseau secret international (Casterman, 1969) e Storia, dogma e critica nella crisi modernista (Morcelliana, 1967) e i saggi di Michele Ranchetti, Cultura e riforma religiosa nella storia del modernismo (Einaudi, 1963), di Piero Scoppola, Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia (Il Mulino, 1963) e di Lorenzo Bedeschi, La Curia romana durante la crisi modernista (Guanda, 1966) e Lineamenti dell’antimodernismo (Guanda, 1968).
E ancora, vanno citati diversi altri autori. Come Alexander Vidler, The variety of Catholic Modernists (Cambridge University Press, 1970), Thomas Michael Loome, Liberal catholicism reform and Catholicism modernism (Matthias-Grünewald-Verlag, 1979), Maurilio Guasco, Modernismo. I fatti, le idee, i personaggi (San Paolo, 1995), Otto Weiss, Der modernismus in Deutschland. Ein Beitrag zur Theologiegeschichte (Regensburg, 1995), Pierre Colin, L’audace et le soupçon. La crise du modernisme dans le catholicisme français (Desclée de Brouwer, 1997), Roberta Fossati, Élites femminili e nuovi modelli religiosi nell’Italia tra Otto e Novecento (Quattroventi, 1997), Étienne Fouilloux, Une Église en quête de liberté. La pensée catholique française entre modernisme et Vatican II¸1914-1962 (Desclée de Brouwer, 1998), Giovanni Vian, La riforma della Chiesa per la restaurazione cristiana della società. Le visite apostoliche delle diocesi e dei seminari d’Italia promosse durante il pontificato di Pio X. 1903-1914 (Herder, 1998) e infine la raccolta di saggi Il modernismo tra cristianità e secolarizzazione (Quattroventi, 2000). Tra le iniziative editoriali più recenti si segnalano inoltre il volume della collana di scienze religiose dell’École des Hautes Études, Alfred Loisy cent ans après (Brepols, 2007), Spiritualità e utopia: la rivista «Coenobium» (1906-1919), a cura di Fabrizio Panzera e Daniela Saresella (Cisalpino, 2007) e il primo numero del 2007 del bimestrale «Humanitas» dedicato al Modernismo in Europa, a cura di Maurilio Guasco.
Per quanto riguarda gli appuntamenti di studio, due saranno quest’anno in Italia i principali convegni: il Seminario internazionale sulla «Pascendi cent’anni dopo», promosso dalla Fondazione Romolo Murri di Urbino il 12 e 13 ottobre, con la partecipazione, tra gli altri, di Claus Arnold, Rocco Cerrato, e il convegno coordinato da Michele Nicoletti e Otto Weiss, su Il modernismo in Italia e in Germania, a Trento dal 22 al 26 ottobre, su iniziativa del locale Istituto italo-tedesco. Per la primavera del 2008, infine, un convegno sulle principali riviste moderniste è stato annunciato all’Università statale di Milano.