Onnipotente ma non misericordioso, trascendente eppure accessibile solo ai ’suoi’ uomini di fiducia, più ’padrino’ che ’padre’: così appare il volto divino ai boss della malavita organizzata che si definiscono credenti pur continuando a spargere sangue.
Il j’accuse del sociologo Augusto Cavadi
Ma non è cristiano il ’dio’ dei mafiosi»
di ALESSANDRA TURRISI (Avvenire, 16.09.2009)
Un Dio onnipotente ma non misericordioso, trascendente ma lontano dall’uomo, inaccessibile se non grazie all’intercessione di dubbie figure di mediatori qualificati: più un padrino che un Padre. Ecco il volto di Dio disegnato dai boss, capaci di sostituirsi a lui senza mai negarlo formalmente, e di proclamarsi cattolici continuando a spargere spietatamente sangue.
Una contraddizione che viene analizzata nel libro Il dio dei mafiosi (San Paolo, pp. 256, euro 18), scritto dal giornalista, sociologo e teologo palermitano, Augusto Cavadi. Un volume che affronta gli aspetti culturali di un fenomeno complesso come la mafia, capace di strumentalizzare i principi fondamentali della teologia cattolica, e suggerisce anche alcune strategie di prevenzione e di contrasto.
Boss che si fanno il segno della croce prima di uccidere, altri trovati con la Bibbia sul comodino. Cosa cercano i mafiosi nella religione cristiana?
«Il cristianesimo è stato declinato, nella storia, in maniere differenti. I mafiosi di Cosa nostra, ’ndrangheta, camorra, Sacra corona unita e stidda conoscono solo la versione che io chiamo ’mediterranea’. A questo universo simbolico attingono per autolegittimarsi: vi cercano un’anima, un’identità culturale, che li giustifichi agli occhi della propria coscienza e dell’opinione pubblica. Non è un caso che tra i riti di iniziazione per un ’uomo d’onore’ vi sia la cosiddetta punciuta, che comporta di bruciare un’immagine sacra su cui è stata versata qualche goccia di sangue del dito del candidato all’ingresso in Cosa Nostra».
La mafia cerca di attingere dalla tradizione cattolica credenze e valori per identificarsi: ma li trova?
«Questo è il punto più delicato. Se i mafiosi cercassero di strumentalizzare il Vangelo, troverebbero poco o nulla per i loro fini. Nella versione ’mediterranea’ trovano invece spunti per confermarsi nella loro ideologia: una visione gerarchica dei rapporti sociali, una morale conformista, un’antropologia maschilista».
Ma lei sta delineando addirittura una «teologia mafiosa» ?
«È esattamente questo il cuore del libro. I rapporti fra cosche mafiose ed esponenti del mondo cattolico sono stati già abbastanza indagati sul piano storico. Mancava, invece, un tentativo di enucleare la teologia mafiosa».
Un concetto che dà i brividi. Come sono i risultati del suo tentativo?
«Un po’ inquietanti. Ho trovato imbarazzanti analogie: a volte accade che anche tra i credenti ci sia chi non prende abbastanza le distanze dalla cultura mafiosa. Non appare sempre irriducibile, inassimilabile, rispetto alle strumentalizzazioni operate dalla cultura mafiosa».
Ma è sicuro che anche le nuove generazioni mafiose cerchino di strumentalizzare l’universo simbolico della fede? Ci sono segnali di segno del tutto diverso.
«In effetti si registrano sempre più frequentemente casi di boss, come Sandro Lo Piccolo e Matteo Messina Denaro, che mostrano i condizionamenti della secolarizzazione nella loro mentalità e nel loro linguaggio. Ma non sono sicuro che questo porterà tanto presto a un divorzio fra codice culturale mafioso e quella che essi ritengono essere espressione della cultura cristiana».
Eppure è un fatto che l’ «anatema» di Giovanni Paolo II e l’uccisione di don Puglisi hanno segnato un salto d’intensità nell’impegno della Chiesa siciliana. Era il 1993...
«Da allora, a mio giudizio, è cambiato molto, ma non ancora abbastanza. È cambiato molto perché anche alcuni credenti addormentati sono stati costretti a svegliarsi da quella che a volte era una illusoria equidistanza fra Stato e mafie. Ma la mafia da cui si prendono le distanze è la mafia che spara, che uccide cristiani integerrimi come Borsellino o Livatino. Temo che con la mafia dei colletti bianchi ci sia, da parte di qualcuno, ancora troppa indulgenza».
Nel suo libro sostiene che la Chiesa deve fare di più per scardinare la transcultura mafiosa. Eppure la Chiesa siciliana è in primissima linea...
«È necessario di seguire modelli come quello di don Pino Puglisi. È morto perché non si limitava alle fiaccolate contro le stragi di mafia, ma prendeva posizione pubblica verso politici filo- mafiosi».
testimonianza
Ecco perché don Puglisi fu un autentico «martire»
Il curatore della causa di beatificazione del sacerdote ucciso spiega come i sicari agiscano contro la Chiesa anche se poi non disdegnano Bibbia e rosario *
La mafia ha ucciso don Pino Puglisi «per colpire l’intera Chiesa italiana e perché, in quanto forma di ateismo pratico, nonostante la parvenza religiosa, è e si mostra avversa alla fede cristiana».
Dunque, don Puglisi è martire anche se ucciso in un Paese cattolico e benché i suoi assassini fossero battezzati. Lo afferma senza lasciare spazio a fraintendimenti il teologo siciliano che da anni segue il processo per la causa di beatificazione del parroco di Brancaccio ucciso della mafia il 15 settembre 1993.
Don Mario Torcivia, estensore materiale della «positio», per la prima volta racconta al grande pubblico perché, secondo le prove testimoniali e documentali e gli atti giuridici raccolti, non ci sono dubbi sul fatto che don Puglisi possa essere considerato un martire, alla stregua dei missionari caduti in terra infedele o dei sacerdoti trucidati durante il Nazismo.
Lo fa in un saggio Il martirio di don Giuseppe Puglisi. Una riflessione teologica (Monti, pp.180, euro 14), da poco in libreria. Il processo super martyrium è in fase avanzata, al vaglio dei cardinali e dei vescovi della Commissione teologica della Congregazione delle cause dei santi. Perché «3 P», come amichevolmente veniva chiamato padre Pino Puglisi, possa essere proclamato beato, è necessario accertare che la pistola di Salvatore Grigoli abbia sparato veramente in odium fidei , ossia in avversione nei confronti della fede.
Torcivia ne è certo e nel libro sottolinea come non solo autorevoli esponenti della Chiesa, ma anche laici, come il pm del processo Lorenzo Matassa, e l’intera comunità civile hanno sempre considerato l’omicidio del parroco palermitano «come un vero martirio, per amore di Dio, di un uomo di Chiesa che non ha esitato a dare la vita per chi ha considerato amici». E bolla senza mezzi termini i mafiosi di ateismo. A poco serve che i boss vengano trovati con Bibbia e rosari tra le mani.
«La mafia - scrive -, al di là dell’apparente religiosità che presenta, è intrinsecamente atea e contraria all’Evangelo di Gesù Cristo». «I mafiosi - aggiunge - possono essere definiti seguaci del cosiddetto ’ateismo pratico’. Non perché abbiano gli strumenti culturali per teorizzare il loro ateismo ma perché di fatto, nella prassi, avvinti da un sistema di disvalori, vivono senza Dio. Anzi, e ciò è ancora più subdolo, vivono un’esistenza nella quale non si nega a parole Dio ma nei fatti sì». «Nei loro comportamenti criminali verso l’uomo e l’ambiente, dimostrano un deciso odio verso Dio e i credenti in Cristo», anzi pretendono di sostituirsi al volere di Dio, pur professandosi cristiani. Se è, quindi, vano cercare un killer di mafia che dichiari esplicitamente di avere ucciso Puglisi perché era sacerdote (odium fidei soggettivo), di fatto don Pino è stato assassinato dalla mafia «in odio alle virtù richieste da una vita coerente con la fede cristiana ( odium fidei oggettivo)». E don Pino era consapevole che questa avrebbe potuto essere la sua fine.
Nella sentenza del processo di primo grado contro mandanti ed esecutori del delitto, è riportata una richiesta di don Pino al parrocchiano Giuseppe Carini, giovane medico all’istituto di Medicina legale di Palermo. «Se dovesse succedere anche a me una cosa del genere, ti prego di trattarmi bene e di non lasciarmi», disse don Puglisi alludendo alla eventuale autopsia cui sarebbe stato sottoposto.
E il «me l’aspettavo» detto con un sorriso al killer, «suggella in modo evidente la consapevolezza che il parroco di Brancaccio aveva dell’imminente martirio». La conseguenza ultima dell’assassinio non è stata solo quella di togliere di mezzo un prete scomodo per la sua opera evangelizzatrice e di promozione umana, «ma riaffermare, con l’odore acre del piombo, la propria assoluta incompatibilità e il proprio profondo odio nei riguardi della fede e del messaggio cristiano».
Alessandra Turrisi (Avvenire, 15.09.2009)
CATTOLICESIMO, BERLUSCONISMO, CRISTIANESIMO: DIO E’ RICCHEZZA ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2008)!!!
QUESTA E’ LA LEGGE DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI E LA CHIESA "CATTOLICA" E’ LA CUSTODE "UNIVERSALE" DELL’ORDINE SIMBOLICO DI "MAMMONA" E DI "MAMMASANTISSIMA" ....
QUESTO MATRIMONIO S’HA DA FARE, DOMANI, E SEMPRE!!!
L’ANNUNCIO A GIUSEPPE, NELLA TRADIZIONALE LETTURA DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA, DI GIANFRANCO RAVASI
FLS
Il segno.
Liberiamo il culto di Maria da mafia e potere criminale
Presentato a Roma il “Dipartimento di analisi, studio e monitoraggio dei fenomeni criminosi e mafiosi”, interferenze che talvolta inquinano anche manifestazioni mariane.
di Igor Traboni (Avvenire, sabato 19 settembre 2020)
È stato presentato ufficialmente ieri a Roma, nel corso della manifestazione “Liberare Maria dalle mafie”, il Dipartimento di analisi, studio e monitoraggio dei fenomeni criminosi e mafiosi, gemmazione della Pontificia Accademia mariana internazionale e la cui creazione è stata sostenuta da papa Francesco. E in apertura dei lavori, ospitati nel salone del Museo delle Civiltà, è stata data lettura proprio del messaggio che nelle settimane scorse il Pontefice ha inviato a padre Stefano Cecchin, presidente dell’Accademia e che "Avvenire" ha ampiamente trattato lo scorso 20 agosto.
«È necessario che lo stile delle manifestazioni mariane - scrive tra l’altro il Pontefice - sia conforme al messaggio del Vangelo e agli insegnamenti della Chiesa. Uno dei criteri per verificare ciò è l’esempio di vita dei partecipanti, i quali sono chiamati a rendere dappertutto una valida testimonianza cristiana», auspicando altresì che i devoti della Vergine assumano «atteggiamenti che escludono una religiosità fuorviata e rispondano invece ad una religiosità rettamente intesa e vissuta».
Concetti che ha ripreso lo stesso padre Cecchin, dopo i saluti e l’intervento di padre Augustin Hernandez Vidales, rettore dell’Università Antonianum che ospiterà il Dipartimento. «La cultura legata a Maria va salvaguardata - ha detto il presidente dell’Accademia mariana - laddove anche il Papa ci dice che la devozione mariana è un patrimonio religioso-culturale da salvaguardare nella sua originaria purezza.
La nostra Accademia, che è l’unica a fregiarsi del titolo di “internazionale” proprio perché raccoglie mariologi di tutto il mondo, ritiene sia importante conoscere per amare e imitare; vogliamo essere un luogo dove il sapere diventa servizio», ha aggiunto padre Cecchin, non prima di aver sottolineato l’importanza dei Santuari («cittadelle della preghiera e capisaldi di pietà mariana» li definisce ancora papa Francesco) e stigmatizzando le notizie di presunte apparizioni che annunciano catastrofi o fine del mondo e che sono pure questi «modi mafiosi di spaventare la gente».
E qui torniamo al nocciolo dell’iniziativa che prende le mosse proprio dalla condanna pronunciata il 21 giugno 2014 da papa Francesco nella diocesi calabrese di Cassano all’Jonio: «Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati!». E prima ancora il 9 maggio 1993 ad Agrigento ci fu il famoso grido di Giovanni Paolo II: «Convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!».
Ecco dunque che il Dipartimento vorrà porsi «a servizio sia della comunità civile che di quella ecclesiale», ha rimarcato padre Gian Matteo Roggio, consigliere della Pontificia Facoltà teologica “Marianum”, dando anche visibilità a quanti già portano avanti questo delicato lavoro, oltre a «creare percorsi di educazione per giovani e adulti», andando ad esempio nelle scuole. Insomma, studio e osservazione ma anche «un agire concreto», come ha chiosato il giornalista di Tv 2000 e presidente dei Web cattolici italiani (Weca) Fabio Bolzetta, che ha introdotto e moderato i lavori.
Il Dipartimento sarà strutturato in 10 aree, ha sottolineato il coordinatore della struttura Fabio Iadeluca, che toccheranno un po’ tutti i temi “sensibili”, compresi terrorismo, ecomafie, caporalato, devianze giovanili. Un primo rapporto è stato già stilato anche grazie all’Osservatorio per le Policy transdisciplinari internazionali, come ha spiegato il suo presidente Stefano Cuzzilla. In chiusura la consegnate delle pergamene di nomina ai membri del Dipartimento, presenti tra gli altri i pastori di Campobasso-Bojano Giancarlo Maria Bregantini, di Oppido Mamertina-Palmi Francesco Milito e don Luigi Ciotti, fondatore di Libera.
Religiosità e criminalità.
Liberare la Madonna dalle mafie. Messaggio di papa Francesco
di Filippo Rizzi ed Enrico Lenzi (Avvenire, giovedì 20 agosto 2020)
La devozione mariana va salvaguardata da una religiosità fuorviata. Nel mirino «gli inchini» delle statue ai boss nelle processioni e la presenza dei clan nelle feste patronali
Liberare la Madonna dalla mafia. È il senso del nuovo intervento che papa Francesco ha voluto fare inviando un messaggio al francescano minore padre Stefano Cecchin presidente della Pontificia accademia mariana internazionale (Pami), che ha deciso di porre il tema «religiosità e criminalità» al centro del proprio lavoro, dando vita a un Dipartimento di analisi, studio e monitoraggio, a cui sono stati chiamati anche esperti esterni, rappresentati da magistrati, esponenti delle forze dell’ordine e della società civile. È a loro che si rivolge il Papa nel messaggio inviato in vista del convegno che la Pami realizzerà il 18 settembre prossimo.
«La devozione mariana è un patrimonio religioso-culturale da salvaguardare nella sua originaria purezza - scrive Francesco nel suo messaggio datato significativamente 15 agosto, festa dell’Assunzione -, liberandolo da sovrastrutture, poteri o condizionamenti che non rispondono ai criteri evangelici di giustizia, libertà, onestà e solidarietà».
Il riferimento, neppure troppo velato, è all’uso che le varie mafie fanno degli eventi religiosi - processioni e feste patronali in particolare - per mostrare la propria presenza sul territorio e anche per creare consenso facendo proprio leva attraverso la fede popolare. Negli anni passati accadeva spesso di leggere degli “inchini” che le statue della Madonna o del santo patrono, facevano verso la casa del boss locale, segno di omaggio e, nello stesso tempo, di riaffermazione del potere in quel territorio. Leggi anche
E il Pontefice, che già in passato ha fatto sentire la propria voce contro il crimine organizzato e le varie mafie, ribadisce con forza come sia «necessario che lo stile delle manifestazioni mariane sia conforme al messaggio del Vangelo e agli insegnamenti della Chiesa».
Ecco allora che uno «dei criteri per verificare ciò, è l’esempio di vita dei partecipanti a tali manifestazioni, i quali sono chiamati a rendere dappertutto una valida testimonianza cristiana mediante una sempre più salda adesione a Cristo e una generosa donazione ai fratelli, specialmente i più poveri». Insomma le comunità locali vigilino sulle feste patronali e soprattutto su coloro che in quelle occasioni si presentano come devoti, nascondendo intenti tutt’altro che devozionali. E ai fedeli, quelli veri, papa Francesco chiede di «assumere atteggiamenti che escludono una religiosità fuorviata e rispondano invece a una religiosità rettamente intesa e vissuta».
Invito che il Pontefice estende anche ai Santuari mariani, affinché «diventino sempre più cittadelle della preghiera, centri di azione del Vangelo, luoghi di conversioni, caposaldi di pietà mariana, a cui guardano con fede quanti sono alla ricerca della verità che salva». Dunque, conclude il Papa, ben venga questo lavoro che la Pontificia accademia mariana internazionale (Pami) intende avviare con la creazione del Dipartimento.
Un passo nuovo, che coinvolge anche le realtà del territorio non solo legate alle parrocchie o alle diocesi. Del resto queste ultime, in particolare nelle regioni con la maggior presenza delle organizzazioni di stampo mafioso, già da tempo sono intervenute con documenti e anche decisioni che hanno portato alla rottura con il passato.
Lo stesso papa Francesco, come abbiamo detto, ha espresso con forza l’impossibilità di far convivere una fede religiosa autentica e l’appartenenza alla mafia. Nella spianata di Sibari, durante la sua visita alla diocesi di Cassano all’Jonio il 21 giugno 2014, papa Bergoglio nell’omelia della Messa arrivò a dire che «coloro che seguono nella loro vita questa strada del male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati».
Concetto ribadito nell’omelia della Messa celebrata poco più di quattro anni dopo (il 15 settembre 2018) a Palermo in ricordo del beato don Pino Puglisi, sacerdote ucciso dalla mafia: «Non si può credere in Dio ed essere mafiosi. Chi è mafioso non vive da cristiano, perché bestemmia con la vita il nome di Dio-amore».
Per questo «ai mafiosi dico: cambiate fratelli e sorelle. Smettete di pensare a voi stessi e ai vostri soldi. Convertitevi al vero Dio di Gesù Cristo, cari fratelli e sorelle. Io dico a voi mafiosi: se non fate questo, la vostra stessa vita andrà persa e sarà la peggiore delle sconfitte».
E se, come disse nella visita a Napoli il 21 marzo 2015, «un cristiano che lascia entrare dentro di sé la corruzione non è cristiano, puzza», papa Francesco richiama tutti i credenti a essere vigilanti contro le distorsioni che della devozione mariana viene fatta. Un compito che richiama le coscienze di tutti all’impegno. E a non voltare le spalle quando si manifestano lungo i borghi della nostra Penisola queste deviate devozioni religiose.
Pami.
Culto mariano, un laboratorio per difendere la devozione dalla criminalità
Teologi, ma anche magistrati e giudici, nel Dipartimento creato nella Pontificia accademia Padre Roggio: studiare le cause delle deviazioni. Il criminologo Iadeluca: riti per odio e omertà
di Filippo Rizzi (Avvenire, giovedì 20 agosto 2020)
Un dipartimento ad hoc all’interno della Pontificia accademia mariana internazionale (Pami) per studiare i fenomeni criminali e mafiosi e così «liberare la figura della Madonna dall’influsso delle organizzazioni malavitose». È quanto è allo studio di questa Istituzione pontificia per evitare di strumentalizzare la figura della Vergine da parte dei boss e dei clan criminali presenti nel nostro Paese: dalla Lombardia alla Calabria. Un centro studi sorto soprattutto sulla scorta dei recenti interventi di papa Francesco a questo riguardo: tra questi in particolare quello pronunciato, il 21 giugno del 2014, dove il Vescovo di Roma nella piana di Sibari in Calabria pronunciò parole inequivocabili: «La Chiesa deve dire di no alla ‘ndrangheta. I mafiosi sono scomunicati».
E il prossimo 18 settembre a Roma la Pami nel corso di un convegno traccerà le linee guida di questo nuovo Dipartimento che coinvolge (una trentina di persone): non solo teologi e mariologi ma anche magistrati (molto di loro della Dda, Direzione distrettuale antimafia), criminologi, avvocati, membri delle Forze dell’Ordine e sindaci di importanti città.
«Persone che ogni giorno - spiega il mariologo padre Gian Matteo Roggio, appartenente alla Congregazione dei missionari di Nostra Signora della Salette e tra i principali ispiratori di questa nuova sezione della Pami - si confrontano con il fenomeno mafioso, lo contrastano all’insegna della cultura della legalità. In un certo senso come recita il documento programmatico di questo nuovo dipartimento siamo chiamati tutti a un autentica “teologia della liberazione” dalle mafie».
Un evento assicurano gli organizzatori che ha anche il sostegno di papa Francesco. «Per il Convegno - racconta padre Roggio - il Papa ha inviato un messaggio chiaro e forte che porta la data del 15 agosto scorso. E caso singolare il documento reca la firma di Francesco dal palazzo del Laterano il luogo adiacente alla Cattedrale di Roma. In questo testo Francesco chiede a chi si professa autenticamente cristiano di salvaguardare la devozione mariana nella sua originaria purezza».
L’auspicio di questa task force di esperti è proprio quella di liberare anche idealmente luoghi simbolo come alcuni Santuari mariani del nostro Meridione - basti pensare - a quello della “Madonna di Polsi” nel cuore dell’Aspromonte dall’uso distorto di devozioni che ne fanno oggi le mafie odierne. «Il rito dell’iniziazione è la liturgia che accompagna l’ingresso del neofita nell’organizzazione.
È simile al “Battesimo” e deve essere considerata una “sorta di rinascita”, ovvero la nascita a nuova vita - spiega il criminologo Fabio Iadeluca -. Nella ’ndrangheta, in modo particolare rispetto a cosa nostra, alla camorra, alla sacra corona unita ed altre forme associative mafiose pugliesi, le forme rituali rappresentano l’essenza stessa dell’organizzazione e ne disciplina la vita dei suoi affiliati».
E aggiunge un dettaglio: «Monitorando questi episodi e intercettazioni ambientali a preoccuparci è stata l’adulterazione delle tradizionali venerazioni alla Madonna o ad importanti santi del Sud, penso in particolare a san Michele Arcangelo che con queste pratiche si trasformano in figure vendicatrici e cariche di odio; si tratta di usanze che servono a tutelare tutta una rete di omertà su cui si reggono queste realtà. Sono quasi sempre riti di iniziazione violenti con l’uso di santini e immagini sacre provenienti dal nostro patrimonio di fede cattolica».
Agli occhi di padre Roggio l’appuntamento di settembre servirà a fare chiarezza su quanto il magistero ecclesiale dice a riguardo. «Non è in discussione quanto da tempi non sospetti la Chiesa - è l’osservazione - si sia pronunciata per dire no a questi fenomeni e ribadire che tutto questo non appartiene alla corretta dottrina e spiritualità. Ma lo sforzo ulteriore che il nostro osservatorio vuole offrire è di andare alle radici culturali e antropologiche che fanno scaturire queste deviazioni religiose». Una sfida dunque di lungo termine.
«Penso che gli esempi di don Diana e don Puglisi e di come la Chiesa abbia mostrato proprio ai boss - è la riflessione finale - che questi miti sacerdoti erano dei modelli da imitare e non il contrario. Spesso viene usata dalla “cultura mafiosa” la figura della Vergine come un modello di obbedienza passiva di fronte al potere dominante. Essa viene raffigurata come una donna capace “oleograficamente” solo di piangere per la morte di un figlio. Bisogna dire basta a questo uso distorto dell’immagine della Madonna e ricordare attraverso la voce di tutti che ogni atto compiuto nella sua vita terrena e celeste è stato quello di essere in ascolto di tutti e in comunione fraterna con tutti gli uomini di buona volontà proprio come ci mostra il Vangelo quando ci parla di Lei a cominciare dal suo “fiat” all’arcangelo Gabriele».
di don Aldo Antonelli (L’Huffinton Post, 11/07/2014
Guardo la foto e leggo il contesto. Una madonna, intronizzata come regina, incorniciata in una raggiera dorata, portata a spalle da una masnada di giovanotti biancovestiti, nel caos festante di una folla accalcata che non si capisce bene se prega, canta o chicchiericcia. Osservo la foto e mi chiedo quale rapporto può esserci tra questa "Madonna Regnante" e la semplice, umile ragazza di Nazareth di cui narrano i Vangeli. Mi domando come possa essere accaduto che colei che nel Magnificat inneggia al Dio che "depone i potenti dai troni", possa a sua volta sedere su un trono ed essere chiamata "Regina"! Come possa essere beffardamente ricoperta di ori e di argento la Madre di Colui che comandò ai suoi discepoli di non portare con sé né oro, né argento.
Siamo di fronte ad una metamorfosi depravata e deformante, funzionale ad una società auto-referente e lontana anni luce da quell’espressione di fede, coscienza critica della società, che la teologia più attenta vorrebbe evidenziare.
Secondo l’analisi funzionalistica di Emile Durkheim, la religione non è altro che un riflesso della società che venera se stessa. Con questa espressione, dalle connotazioni decisamente provocatorie, il grande sociologo intendeva sottolineare il carattere sociale e civile della religione, intesa come un sistema di riti grazie al quale una società si rinforza e crea legami profondi fra gli individui che la compongono. Secondo il sociologo francese, la religione serve alla società per salvaguardarsi, ma, soprattutto consente all’individuo di sentirsi parte di un’entità collettiva, nella quale assumere un ruolo definito. I riti religiosi, quindi, accompagnano le trasformazioni personali e sociali, permettendo, attraverso la loro capacità di regolamentare il caos e, insieme, di esprimere una forte carica simbolica, di creare, problematizzare e rafforzare le realtà sociali stesse.
Naturalmente, in una società mafiosa la religione diventa la legittimazione morale del sistema-mafia! In una società capitalistica, la religione consacra, facendone degli assoluti, i principi di "proprietà" e di "libertà"! In ambito politico, la religione si fa veicolo di consenso verso pratiche che pur contraddicendo i valori ne sposano la difesa. L’espressione più evidente di questo diabolico potere è offerta dal fenomeno di quelle persone che si definiscono come «atei devoti».
In questa formula, vi è evidente una contraddizione che, però, finisce con lo spiegare meglio il senso e le forme della religione civile. Scrive Marco Gallizioli sul numero 8 dal 2011 della rivista cattolica "Rocca", della Cittadella di Assisi: «Alcuni individui, infatti, pur negando validità trascendente alle religioni, ne sposano le linee etiche e ne ri-conoscono il valore insostituibile nel tessere un abito identitario dai colori netti. In altri termini, le fedi vengono svuotate del loro proprium, e imbalsamate nella loro funzione sociale, perché fungano da moltiplicatori di identità e di etica... Così facendo, la religione rischia di trasformarsi in una lobby di potere, che, grazie alle sue funzioni sociali, può giocare un ruolo decisivo nella politica degli stati, rischiando di mercificare la sua proposta spirituale».
Analisi precisa, puntuale e senza sconti di parte. A mio avviso, tanta strumentalità e, diciamolo pure, tanto abbrutimento è stato possibile anche grazie agli interessi di bottega e/o alle pigrizie di comodo di una chiesa e di un clero più inclini a tradurre la fede nella comoda e compensativa religiosità popolare che impegnati alla difficile e scomoda testimonianza. In questo, grande supporto è dato dalla teologia di palazzo, tutta ideologia e affatto evangelica. Ma qui si apre un altro discorso.
Per ora dobbiamo dire grazie al richiamo forte di papa Francesco e allo scandalo salutare di Oppido Mamertina.
La fede criminale
GLI affiliati alle ‘ndrine rinchiusi nel carcere di Larino hanno deciso di non partecipare più alla messa. Da settimane attuano una sorta di sciopero religioso.
DOPO la scomunica pronunciata da Papa Francesco per i detenuti è inutile - hanno detto al cappellano don Marco - andare a messa - È inutile quando si è stati esclusi dai sacramenti.
di Roberto Saviano (la Repubblica, 07.07.2014)
L’anatema di Bergoglio è giunto potente e inaspettato nelle carceri che ospitano gli uomini di ‘ndrangheta. Gran parte del mondo ha interpretato la scomunica come una mossa teologica, un’operazione morale fatta più per principio che per reale contrasto alle organizzazioni criminali. Un gesto morale considerato importante per dare una nuova direzione alla Chiesa ma che difficilmente avrebbe potuto incidere nei comportamenti dei padrini, degli affiliati, dalla manovalanza mafiosa. Quale danno avrebbe mai recato ad un boss una condanna metafisica che non ha manette, non ha sequestri di beni, non ha ergastoli ma che semplicemente esclude spiritualmente dalla comunità cristiana e dai suoi sacramenti?
Da queste domande era nata la diffidenza di molti che temevano che la presa di posizione del Papa contro i clan fosse inutile. Un gesto bello, nobile, ma innocuo. Ma non è così e la “protesta” dei duecento detenuti affiliati lo dimostra. Intanto è una prima volta, un unico nella storia criminale e non è affatto quello che potrebbe sembrare ad una prima lettura: ossia una semplice conseguenza della scomunica.
Quando si tratta di organizzazioni mafiose ogni azione, ogni parola, ogni gesto non può esser letto nel suo significato più semplice e elementare. Dev’essere inserito nella complessa grammatica simbolica che è la comunicazione dei clan. Questo sciopero della messa non parla ai preti, non parla alla direttrice del carcere, non parla nemmeno al Papa. Questo sciopero non dice: «Il Papa ci ha tolto la patente di cristiani, non possiamo più battere le strade della messa e della comunione ». Perché questo è falso. Papa Francesco nel suo viaggio in Calabria ha fatto un gesto comunicativamente geniale, è andato a trovare i detenuti nel carcere di Castrovillari e ha detto loro «anche io sbaglio, anche io ho bisogno di perdono»: è in questa frase la vera forza della sua dichiarazione di scomunica. Non è contro l’uomo che in carcere appartiene all’organizzazione ma contro l’organizzazione. La scomunica non è all’assassino, all’estorsore, all’affiliato, al sindaco corrotto, al giudice compromesso, al boss, la scomunica è contro chi continua a sostenere l’organizzazione. La scomunica è all’assassinio, all’estorsione, alla tangente, alla corruzione quindi alla prassi mafiosa.
Quella degli affiliati non è quindi una sorta di protesta contro una Chiesa che ha abbandonato in contraddizione con il vangelo («ero carcerato e siete venuti a trovarmi») il conforto ai detenuti. È un manifesto. È una dichiarazione di obbedienza alla ‘ndrangheta, la riconferma del giuramento di fedeltà alla Santa. Questo sciopero è un gesto che deve arrivare all’organizzazione stessa. La scelta di andare a messa nonostante la scomunica avrebbe potuto far apparire gli affiliati sulla strada del tradimento, alla ricerca di quel nuovo percorso di pentimento che Francesco gli ha indicato.
Sottolineano: siamo scomunicati perché ‘ndranghetisti, e nessuna occasione simbolica è lasciata sfuggire dagli uomini dei clan per ribadire soprattutto dalle segrete di un carcere la loro fedeltà. Si sciopera contro la messa in questo caso per dichiararsi ancora uomini d’onore e non lasciare alcun sospetto di allontanamento dalle regole dell’Onorata Società. Quando ci si affilia la “santina” di San Michele Arcangelo viene fatta bruciare tra le mani unite e aperte a forma coppa e le parole pronunciate sono definitive: «In nome di nostro Signore Gesù Cristo giuro dinanzi a questa società di essere fedele con i miei compagni e di rinnegare padre, madre, sorelle e fratelli e se necessario, anche il mio stesso sangue».
La scomunica di Papa Francesco sta diventando un meccanismo in grado di alzare come un grimaldello le inaccessibili blindate che isolano i codici mafiosi dal resto della società civile. Bisogna insistere e agire, isolare quelle parti di chiesa saldate alla cultura mafiosa che ancora resistono, come dimostra quel che è accaduto sempre ieri a Oppido Mamertina, in Calabria, dove la processione ha reso l’omaggio alla casa di don Giuseppe Mazzagatti. Un “inchino” dovuto per non alterare un vecchio boss che ancora tiene (rispetto alle giovani generazioni) al vecchio rito e che - come in molti hanno lasciato trapelare - da decenni finanzia feste patronali e iniziative religiose nel suo territorio.
Nell’Italia della crisi i simboli contano come reale e spessa sostanza, non sono un orpello di facciata. Alla scomunica religiosa deve seguire una scomunica civile assoluta, che permetta l’esclusione del meccanismo mafioso dalle dinamiche quotidiane, economiche, sociali. Un’esclusione vera, radicale, definitiva.
Don Puglisi martire di mafia, un inedito per la Chiesa
di Luca Kocci (il manifesto, 25 maggio 2013)
È la prima volta che una vittima della mafia viene proclamata martire dalla Chiesa cattolica. Don Pino Puglisi, il parroco del quartiere palermitano Brancaccio ucciso il 15 settembre del 1993 dai killer dei fratelli Graviano viene beatificato oggi a Palermo, in una celebrazione presieduta dall’arcivescovo di Palermo, il card. Romeo, e dal suo predecessore, De Giorgi, uno dei tre “inquisitori” scelti a suo tempo da papa Ratzinger per indagare sul Vatileaks.
Al di là del trionfalismo che accompagnerà l’evento (previste 80mila persone), il percorso che ha portato alla beatificazione di Puglisi è stato accidentato, fino quasi ad arenarsi, come racconta anche il postulatore della causa, l’arcivescovo di Catanzaro Vincenzo Bertolone: vi erano «legittimi dubbi» sulla questione dell’assassinio in odium fidei (in odio alla fede), elemento ritenuto imprescindibile dalla Chiesa per poter parlare di martirio cristiano. I «dubbi» erano in realtà vere e proprie perplessità, se non resistenze, da parte curiale e vaticana, non tanto sulla beatificazione in sé quanto sull’opportunità di proclamare Puglisi «martire» di mafia. Perché la Chiesa cattolica deve fare i conti con almeno due profonde contraddizioni che hanno caratterizzato la storia del suo rapporto con Cosa nostra.
La prima è quella dei mafiosi che rivendicano pubblicamente la loro fede religiosa e la loro appartenenza alla Chiesa, spesso senza essere smentiti dai pastori, solitamente piuttosto disinvolti a consegnare o a negare patenti di cattolicità a seconda delle circostanze: dalla simbologia e dalla ritualità del codice mafioso mutuata dalla Chiesa, alle Bibbie trovate nelle case dei mafiosi, fino alla partecipazione dei boss in prima fila alle processioni religiose, utilizzate come occasioni per rafforzare il proprio consenso sociale e quindi il loro potere.
La seconda è quella degli uomini di Chiesa che hanno intrattenuto relazioni ambigue, talvolta anche apertamente compiacenti, con i mafiosi: associare la «cosiddetta mafia» alla Chiesa «è una supposizione calunniosa messa in giro dai socialcomunisti» che, per interessi propri, «accusano la Democrazia cristiana di essere appoggiata dalla mafia», scriveva nel 1963 il cardinale di Palermo Ernesto Ruffini, respingendo così l’invito di Paolo VI a prendere iniziative contro la mafia. Meglio Cosa nostra del comunismo era l’idea di Ruffini, anche perché, pensava il cardinale, «trattasi di delinquenza comune e non di associazione a largo raggio».
Dagli anni ’90 le cose hanno iniziato lentamente a cambiare, a partire dall’anatema di papa Wojtyla nella Valle dei templi, nel ’93. E un documento della Cei sul sud d’Italia, del 2010, definisce la mafia struttura di peccato.
Ma silenzi e omissioni restano. E soprattutto resta il dato di una teologia non del tutto evangelica, da cui, se invece lo fosse, i mafiosi si terrebbero a distanza: «Da una Chiesa povera e fraterna i mafiosi si autoescluderebbero da soli e anzi la considererebbero nemica», spiega al manifesto Augusto Cavadi, studioso dei rapporti fra Chiesa e mafia e autore, insieme ad altri, del recentissimo Beato fra i mafiosi. Don Puglisi: storia, metodo e teologia (Il Pozzo di Giacobbe). «Ora con questa beatificazione, la mafia non potrà più essere considerata dai cattolici un elemento del paesaggio con cui convivere ma un sistema di dominio ingiusto. Gerarchie e fedeli dovranno però uscire dalla stralunata equidistanza fra mafiosi (e amici dei mafiosi, politici in primis ) e guardiani della legalità democratica, dovranno scegliere da che parte stare».
E che questa nuova stagione non sia facile lo dimostrano alcune voci raccolte da Cavadi fra i preti: «Il parroco di Brancaccio era un santo e si poteva permettere certi gesti, noi siamo solo poveri preti comuni, da cui non si può pretendere il martirio. Ecco: se passa questa versione, la testimonianza di Puglisi resterà in una nicchia».
«Don Puglisi beato e le nostre omissioni»
di Luigi Ciotti (Corriere della Sera, 25 maggio 2013)
«Era uno che non si era incanalato, che faceva di testa sua»; «Predicava, predicava, prendeva ragazzini e li toglieva dalla strada... Martellava e rompeva le scatole». Queste parole di Gaspare Spatuzza e di Giovanni Drago, mafiosi divenuti collaboratori di giustizia, basterebbero a spiegare, nella loro rozza schiettezza, perché don Pino Puglisi è stato ucciso. Ma sono molto lontane dal dire chi davvero fosse don Pino Puglisi.
Come tutte le persone restie a fare della propria coscienza un luogo di eterna mediazione e contrattazione, Puglisi imprimeva a tutto ciò che faceva il senso della ricerca e del bisogno di verità. Se era un «rompiscatole», era perché le scatole le rompeva innanzitutto a se stesso, perché non si accontentava di «fare», ma voleva fare bene, con rigore, coerenza e serietà. Il primo aspetto che salta agli occhi è quello dell’educatore.
Don Puglisi aveva un talento raro nell’educare. Il che significa che il suo insegnamento era fondato sull’ascolto e sul comportamento, più che sulle parole. Non gli interessava tanto trasmettere nozioni, quanto che le persone diventassero capaci di scegliere con coscienza e responsabilità. Ossia che fossero libere. Che tutto ciò portasse a esiti diversi dall’abbracciare la fede, non era affatto per don Puglisi segno di sconfitta... Molti hanno cercato di dare una definizione all’attività pastorale di don Pino.
Voglio sottolineare come la definizione «prete antimafia» sia sbagliata non solo perché ogni definizione, sia pure attribuita con le migliori intenzioni, impoverisce la complessità di una vita. Ma perché Puglisi aveva capito che il problema non è tanto la mafia come organizzazione criminale (se così fosse basterebbero la magistratura e le forze di polizia) quanto la mafiosità, il mare dentro cui nuota il pesce mafioso.
L’assassinio di don Pino Puglisi ci ricorda che sconfiggeremo le mafie solo quando saremo capaci di fare pulizia attorno e dentro di noi, quando supereremo gli egoismi, i favoritismi, i privilegi e l’inevitabile corruzione che questo modo d’intendere la vita porta con sé. Solo quando avremo il coraggio di riconoscere anche le nostre responsabilità non solo dirette ma indirette, riferibili a quel peccato di omissione che consiste nell’interpretare in modo restrittivo e formale il nostro ruolo di cittadini. In tal senso la beatificazione di don Pino Puglisi è, paradossalmente, una «spina nel fianco» per tutti noi.
Per capire come sia difficile separare la mafia dalla politica ecco la storia di quando Giovanni Paolo II (novembre ’82) è sceso in Sicilia per condannare con un discorso durissimo il fenomeno mafioso che "distrugge la società". Non si sa grazie a quali mani a condurre il Papa Mobile è stato incaricato Angelo Siino, detto Bronson, importantissimo uomo d’onore. Se la mafia si infila nella sicurezza del Vaticano figuriamoci come le riesca facile condizionare la politica della Libertà.
L’autista del papa era il “ministro delle finanze” di cosa nostra
di Elio Camilleri *
Il 21 novembre 1982, in una Palermo tristissima dove “la speranza dei siciliani onesti” era stata uccisa con il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, arrivò Karol Wojtyla. Era la prima vota che arrivava in Sicilia e i cristiani buoni e onesti lo accolsero con gioia e si sentirono meno soli e meno disgraziati. Lui ebbe parole giuste, ferme e piene di coraggio per i malati dell’ospedale civico e per gli operai del Cantiere navale; era andato pure all’università per incontrare il corpo accademico e pure per i prof. trovò le parole giuste. Le cronache raccontano della visita alla comunità greco - ortodossa di Piana degli Albanesi e ai “terremotati” della valle del Belice.
Ma la cronaca è morta, diceva Benedetto Croce, e spira ogni giorno con le pagine del quotidiano che la riporta ed invece la Storia è viva ed essa ci pone alcune domande, ancora oggi, a distanza di tanti anni dal giorno di quella visita. Ma quanto era forte la mafia a Palermo nel !982? E chi comandava a Palermo? I Carabinieri o la Questura. E la Chiesa? E il Cardinale Pappalardo che appena un mese prima aveva pronunciato l’indimenticabile omelia di “Sagunto che brucia” quanto “contava” nell’organizzazione del viaggio del Papa? Chi ha gestito i trasferimenti del Papa, chi ha ritenuto di garantire la sicurezza di Wojtyla, che già il 13 maggio dell’anno precedente era stato raggiunto da due colpi di pistola sparati da Mehmet Ali Ağca? Chi ha scelto, in definitiva, l’autista della “papa mobile”? Chi ha permesso che la persona del Capo della Chiesa Cattolica fosse affidata, per tutto il tempo della visita a uno dei personaggi più importanti di Cosa nostra?. Sembra proprio incredibile, ma è così: l’autista di Karol Wojtyla fu Angelo Siino, detto Bronson, pilota di rally e ministro delle finanze e dei lavori pubblici di Cosa nostra, braccio destro di Bernardo Provenzano e dispensatore, per conto della Cupola, di appalti e tangenti, i primi per gli imprenditori “amici”, le seconde per gli “amici” politici. Naturalmente, Karol Wojtyla di tutte queste storie non ne sapeva niente.
(“Marca elefante non paga pizzo” è il libro di Tommaso Maria Patti che sarà presentato il 9 settembre alle 19,30 presso la libreria Tertulia di Catania. Interverranno Simone Luca, presidente di Addiopizzo, Marisa Acagnino, presidente di sezione al tribunale di Catania e l’autore del libro il quale ha già deciso di devolvere ad Addiopizzo Catania i diritti d’autore del volume. Giorgia Coco leggerà alcuni brani ).
LA CHIESA, LA MAFIA, LA ZONA GRIGIA
di Raffaello Saffioti
DALLA CALABRIA UN CONTRIBUTO ALL’INCONTRO DI ROMA SUL TEMA: “SOTTO LE DUE CUPOLE. CHIESA, RELIGIONE, MAFIA” *
L’incontro che avrà luogo a Roma col titolo “Sotto le due Cupole. Chiesa, religione, mafia” mi dà l’occasione per richiamare e sviluppare il mio recente documento “Le feste religiose nel Sud. Palmi, San Rocco, la Varia. E la chiamano fede”, pubblicato sul sito del periodico “Il dialogo” (www.ildialogo.org) e su quello delle Comunità Cristiane di Base (www.cdb.it).
In quel documento ho esaminato due feste religiose di Palmi, in Calabria, che registrano una straordinaria partecipazione popolare, e manifestano la devozione della città a San Rocco e alla Madonna. Mi sono chiesto quanto queste feste siano segno di autentica fede religiosa, ponendomi dal punto di vista biblico, proponendo una scelta di testi dell’Antico e Nuovo Testamento.
Chiedevo: Palmi, città cattolica? E notavo che di fronte al fenomeno mafioso la città “non vede, non sente, non parla”.
Due anni fa, in occasione del trasferimento del Vescovo Giancarlo Bregantini dalla diocesi di Locri-Gerace alla diocesi di Campobasso, avevo pubblicato un documento col titolo “La Chiesa, il potere, la mafia. Quando il Pastore lascia il suo gregge: il ‘caso’ Bregantini” (www.peacelink.it).
Scrivevo:
“Per chi vive lontano dalla Calabria è difficile capire a fondo come si vive in questa regione, capire pure come funziona il sistema di potere clientelare-mafioso e il ruolo che giocano la Chiesa come istituzione, gli ecclesiastici e i cattolici in genere”.
Raccogliendo le suggestioni e gli stimoli che provengono dal testo che accompagna il programma dell’incontro di Roma, va sottolineato “l’accostamento ‘chiesa e mafia’ ” che “rinvia ad analisi e interrogativi sul ruolo del cattolicesimo italiano”.
Quando diciamo “Chiesa”, di quale Chiesa parliamo?
Per il tema dell’incontro di Roma, credo che ci convenga parlare della Chiesa-istituzione e riproporre il tema del potere della e nella Chiesa-istituzione.
Il tema andrebbe esaminato partendo dal Vangelo e arrivando alla Costituzione Lumen gentium, del Concilio Ecumenico Vaticano II, ripercorrendo il processo storico bimillenario. Qui basta affermare, oltre l’esigenza permanente della riforma della Chiesa (“Ecclesia sempre reformanda est”), l’esigenza attuale ed urgente della riforma della struttura gerarchica della Chiesa-istituzione, per renderla coerente e conforme alla legge evangelica dell’eguaglianza e della fraternità.
Il principio gerarchico va attaccato alla radice, non solo nelle varie organizzazioni laiche, ma anche nella organizzazione della Chiesa. Dove c’è gerarchia, c’è disuguaglianza, dipendenza, violenza, segretezza. E questi sono principi che si ritrovano anche nelle organizzazioni criminali.
La parola “gerarchia” dovrebbe scomparire da ogni vocabolario.
“Quali sono le strutture gerarchiche di un sistema autoritario e quali le tecniche per annientare la personalità di un individuo? Quali rapporti si creano tra oppressori e oppressi?”
Queste domande vengono poste dal libro I sommersi e i salvati, di Primo Levi (Einaudi, 1986).
“Un saggio imprescindibile per capire il Novecento e ricostruire un’antropologia dell’uomo contemporaneo” (dalla quarta di copertina).
“Il capitolo centrale, il più importante del libro è quello intitolato La zona grigia”, come dice lo stesso Levi.
Una breve citazione.
“Dove esiste un potere esercitato da pochi, o da uno solo, contro i molti, il privilegio nasce e prolifera, anche contro il volere del potere stesso; ma è normale che il potere, invece, lo tolleri o lo incoraggi. Limitiamoci al Lager, che però (anche nella sua versione sovietica) può ben servire da ‘laboratorio’: la classe ibrida dei prigionieri-funzionari ne costituisce l’ossatura, ed insieme il lineamento più inquietante. E’ una zona grigia dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna terribilmente complicata, ed alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare.
... Questo modo di agire è noto alle associazioni criminali di tutti i tempi e luoghi, è praticato da sempre dalla mafia, e tra l’altro è il solo che spieghi gli eccessi, altrimenti indecifrabili, del terrorismo italiano degli anni ‘70” (pp. 29, 30).
Chi fa parte della zona grigia?
La Chiesa cattolica ne fa parte?
Il tema posto da Primo Levi si sta divulgando. Esso, mentre le varie analisi del fenomeno mafioso finora tentate si sono rivelate inadeguate e insufficienti, aiuta a decifrare e comprendere sempre meglio quel fenomeno, per il quale si può dire quello che è stato detto per la mafia calabrese, che “prima ancora di essere un’organizzazione criminale, è diventata ormai un fenomeno sociale e culturale”.
E’ dalla zona grigia che la mafia trae la sua forza ed è in essa che si trovano collusioni, connivenze e complicità di ogni tipo.
Francesco Tassone, direttore della rivista “Quaderni del Sud-Quaderni Calabresi”, dopo una intimidazione mafiosa alla famiglia dell’ingegnere Antonio D’Agostino, di Vibo Valentia, ha scritto:
“Non basta denunciare il sistema mafioso (...), e neppure costruire luoghi di aggregazione sociale e posti di lavoro, senza contemporaneamente rompere di fatto, oltre moralmente, con quel sistema, senza iattanza ma in modo visibile, marcando nel concreto della situazione la differenza. Evitando di far parte, come avviene per la gran parte di essi (avvocati, sacerdoti, medici, ingegneri, insegnanti - non parliamo dei sindacalisti e degli altri ruoli direttivi) dell’establishement locale e delle sue regole di (buon) comportamento” (Dalla lettera a Comunità Libere, Gioiosa Ionica e a Libera, Vibo Valentia, in “Quaderni del Sud-Quaderni Calabresi”, 104/106, giugno/dicembre 2008, pp. 139-140).
Quindi, per combattere la mafia, ormai lo sappiamo, non basta la repressione con l’azione della magistratura e delle forze dell’ordine, e non bastano le denunce, neanche quelle di documenti solenni e autorevoli della Gerarchia ecclesiastica.
In questi ultimi mesi alcuni vescovi del Sud hanno espresso posizioni nuove, molto coraggiose. Su “Famiglia Cristiana” (n. 11 del 14 marzo 2010), tre vescovi hanno commentato il documento della CEI sul Mezzogiorno.
Il Vescovo di Agrigento, monsignor Francesco Montenegro:
“Ci siamo occupati del sacro e non della fede ... sosteniamo un’idea di Chiesa intrecciata attorno alle devozioni, che possono consolare, che non incidono e non cambiano i comportamenti”. “Proporrò di abolire ogni festa religiosa nei paesi dove si contano gli omicidi. Il sacro non basta per ritenersi a posto, se poi nessuno denuncia, e la cultura mafiosa è l’unica ammessa”.
Il Vescovo di Mazara del Vallo, monsignor Domenico Mogavero:
“ Ogni comunità scelga un argomento in relazione alla situazione del proprio territorio e agisca: pizzo, usura, corruzione della politica, mafia devota che offre soldi per le feste popolari”.
Il Vescovo di Acerra, monsignor Antonio Riboldi:
“I cristiani al Sud devono svegliarsi. (...) Bisogna tagliare i ponti, anche quelli tra le nostre chiese e la cultura mafiosa, che spesso dimostra di essere devota”.
Grande è il ruolo e grande è la responsabilità della Chiesa cattolica. Un fatto di cronaca che fa riflettere (dal quotidiano “calabria ora” del 21 agosto 2010, p. 12):
“Abolite due soste, la statua non passa da casa dei clan”.
“Sotto osservazione delle forze dell’ordine, la processione che tutti gli anni si svolge il 16 agosto a Palmi in onore a San Rocco. L’ufficio di Polizia palmese, infatti, avrebbe ‘consigliato’ al Comitato organizzatore, di evitare due delle fermate previste durante il lungo tragitto che compie la statua del santo per le vie della città”.
Le due fermate sconsigliate avrebbero dovuto aver luogo davanti la casa di due note cosche cittadine. “L’invito della polizia è stato accolto dagli organizzatori che, dopo più di 50 anni, hanno mantenuto intatto il percorso della processione, ma hanno abolito le due soste considerate dalle forze dell’ordine ‘inopportune’ ”.
Quelle due soste, “segno di ‘riverenza’ verso le potenti famiglie di mafia”, dovevano essere sconsigliate dalla Polizia, o dal Vescovo e dal Parroco?
Palmi, 15 settembre 2010
Raffaello Saffioti
rsaffi@libero.it
* Il Dialogo, Domenica 19 Settembre,2010 Ore: 05:04
Tavola rotonda dal titolo "Sotto le due Cupole. Chiesa, religione, mafia" *
Intervengono: Augusto Cavadi (teologo), Don Luigi Ciotti (presidente e fondatore Associazione Libera), Alessandra Dino (sociologa) e Giuseppe Leotta (magistrato).
Dal sito di Radio Radicale
Mafia e preti, un libro di Isaia Sales racconta come siano «vicini»
di Massimiliano Amato (l’Unità, 4 marzo 2010)
«Non si smette mai di essere preti. Né mafiosi», ripeteva spesso Giovanni Falcone, sottolineando come lo specifico criminale che da un secolo e mezzo marchia a fuoco la vita, l’economia e la società di quattro regioni italiane sia in realtà una religione, che dal cattolicesimo prende in prestito i riti, il linguaggio, l’espressività liturgica. E tuttavia, il legame non è fatto solo di simboli: Cosa Nostra si richiama ai Beati Paoli, la camorra alla Guarduna, confraternita esistente a Toledo sin dal XV secolo, la ‘ndrangheta ai tre arcangeli della tradizione. No, c’è di più, qualcosa che va oltre la sintassi dell’esteriorità, nel rapporto, mai investigato a sufficienza, tra Chiesa e grandi organizzazioni criminali.
Nel suo documentatissimo «I preti e i mafiosi», Isaia Sales, tra i più lucidi studiosi dei fenomeni mafiosi, docente di Storia della criminalità organizzata nel Mezzogiorno d’Italia al Suor Orsola Benincasa di Napoli, mette subito le cose in chiaro. Innanzitutto, sostiene Sales, c’è una gravissima condotta omissiva, addebitabile ad un «giusnaturalismo di sangue», che la cultura cattolica mutua da quella mafiosa (e viceversa: l’esistenza di altre Giustizie oltre a quella dei Tribunali) in opposizione al positivismo del diritto statuale. La Chiesa, è la tesi di fondo del libro, non ha mai alzato un argine - né dottrinale, né teologico, né morale - contro il proliferare delle mafie. Ne ha anzi tollerato (quando non fiancheggiato) il radicamento, concimandolo talvolta con una sconcertante sintonia valoriale: le comuni posizioni in materia di morale sessuale, o in politica, dove l’anticomunismo è consustanziale.
La carica antistatuale della Chiesa e quella delle organizzazioni criminali hanno finito spesso col convergere. Al punto che dal martirologio cristiano sono espunti gli eroismi, in nome della fede e di un credo fondato sull’anti-violenza (l’esatto opposto, in teoria, dell’ethos mafioso), di decine di preti uccisi dalle mafie, di cui poco o punto si sa. Solo recentemente, con i sacrifici di don Pino Puglisi, fatto ammazzare come un cane a Brancaccio dai fratelli Graviano, e di don Peppe Diana, eliminato a Casal di Principe dai sicari di Sandokan, è emersa una coscienza nuova, tuttavia confinata a pochi casi isolati di preti - coraggio. Le eccezioni. E così, nel paese degli atei devoti, l’archetipo mafioso è quello del fervido credente criminale efferato, che si fa il segno della croce prima di ordinare un omicidio o di premere il grilletto: i covi dei superlatitanti sono sempre zeppi di immagini e testi sacri, dalla Bibbia al Vangelo, i boss vengono maritati in chiesa, confessati, comunicati e, se muoiono nel loro letto, ricevono l’estrema unzione.
La parte più suggestiva del saggio è quella in cui Sales ipotizza, non senza riferimenti «alti», una sorta di «complementarietà» tra il fenomeno mafioso e l’affermazione di alcuni precetti cristiani: dalla teoria della Confessione di Sant’Alfonso, a quella del criminale pecorella smarrita, un filo sottile tiene insieme il comportamento deviante e l’esigenza cattolica della «redenzione», in cui il valore della dissociazione prevale su quello del pentimento. Anche in questo caso, i due antiStato s’incontrano.
Monsignor Mariano Crociata ha illustrato il documento che i vescovi riuniti ad Assisi
sono chiamati oggi pomeriggio ad approvare. "Occorre l’impegno di tutti"
Cei: "I mafiosi sono fuori dalla Chiesa
non c’è bisogno di scomuniche esplicite"
"Esagerato parlare di declino della democrazia. Ci sono difficiltà ma anche molte potenzialità"
ASSISI - I mafiosi e coloro che fanno parte della criminalità organizzata sono automaticamente esclusi dalla Chiesa cattolica, non c’è bisogno di scomuniche esplicite. Lo ha detto il segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata, in una conferenza stampa ad Assisi, rispondendo ad una domanda sul documento Chiesa e Mezzogiorno, anche in relazione alle recenti inchieste che hanno coinvolto uomini politici.
I presuli, riuniti nella loro sessantesima assemblea generale nella città di San Francesco, sono chiamati oggi pomeriggio ad approvare. "E’ evidente - spiega - che il tema della criminalità organizzata è ben presente nel documento; una realtà drammatica ma non disperata e non invincibile".
Per quanto riguarda i mafiosi o gli affiliati alle organizzazioni criminali, il segretario della Cei ricorda quanto già disse Giovanni Paolo II in una visita ad Agrigento nel 1993 sul giudizio di Dio che si sarebbe abbattuto sui criminali. "Non c’è bisogno - ha aggiunto Crociata - di comminare esplicite scomuniche perché chi vive nelle organizzazioni criminali è fuori dalla comunione anche se si ammanta di religiosità".
"Piuttosto - ha aggiunto il segretario Cei - non si risolve questo dramma sociale che si estende a tutta l’Italia, e non solo al Sud, solo richiamando l’esclusione dalla Chiesa, ma si risolve con un impegno di tutti, della istituzioni, della magistratura".
Politica. "La nostra prospettiva non è quella apocalittica: dobbiamo tutti valorizzare le risorse del Paese, sottolineare e fare emergere questi aspetti positivi, guardando con onestà alle difficoltà. Ma non serve a nulla guardare ad esse unilateralmente", afferma monsignor Mariano Crociata. "Parlare di declino della democrazia - spiega il presule - mi sembra esagerato, nel senso che la nostra situazione presenta difficoltà ma ci sono molte potenzialità di ordine materiale e valori morali e culturali: il punto non è emettere pronunciamenti senza appello sulla situazione. Questo non è utile, non va a vantaggio del Paese nè è rispondente alla realtà".
* la Repubblica, 10 novembre 2009
Letta sull’Osservatore «Profonda osmosi tra Chiesa e Stato» *
Tra Chiesa e Stato in Italia c’è una «profonda e feconda osmosi», «una situazione del tutto eccezionale» da cui l’Italia «sta imparando progressivamente a trarre la massima utilità»: lo scrive il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, nella presentazione del libro «I viaggi di Benedetto XVI in Italia», curato da Pierluca Azzaro e pubblicato dalla Libreria editrice vaticana in collaborazione con l’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, anticipata ieri dall’Osservatore romano. Ancora un articolo del gentiluomo di «Sua Santità» ospitato dal quotidiano della Santa Sede ricco di riconoscimenti verso il pontificato. «Oggi si può affermare con soddisfazione scrive Letta che nella città di Roma convivono pacificamente e collaborano fruttuosamente lo Stato Italiano e la Sede apostolica».
Criminalità
Il libro di uno psicoterapeuta svela la logica mafiosa
I segreti della mente di Cosa Nostra
Dalla «famiglia» al training dell’affiliato: le relazioni in un mondo di potere e di paura
Le vere priorità
La psicologia della mafia tende soprattutto alla conquista del comando.
Il guadagno è secondario
di Angelo de’ Micheli (Corriere della Sera/Salute, 25.10.2009)
Nei giorni scorsi si è molto parlato di mafia, di ’papelli’, di patti e di pretese, di ipotesi di trattative di non belligeranza tra mafia e Stato. Tutto ciò ha riportato l’attenzione sul complesso fenomeno mafioso e sulla logica che sostiene e regola i comportamenti mafiosi. E non deve stupire che si possa parlare di ’logica’ e anche di psicologia della mafia. Ne parliamo con il professor Girolamo Lo Verso, ordinario di psicoterapia all’Università di Palermo, che da 16 anni studia il fenomeno mafioso e che sul tema ha pubblicato quattro libri, il più recente dei quali si intitola ’Territori in controluce, ricerche psicologiche sul fenomeno mafioso’, edito da Franco Angeli.
«La psicologia in ambito mafioso - spiega Lo Verso - studia non solo l’identità del mafioso, ma anche il suo sistema emotivo e relazionale. Lo fa, per esempio, conducendo colloqui con persone mafiose o che con queste hanno avuto contatti, come giudici, per esempio, o come amministratori e commercianti » . «Ad usare la psicologia per capire la mafia fu per primo il giudice Giovanni Falcone; si potrebbe dire che Falcone abbia inventato un metodo ’psicologico-clinico’, perché cercava di comprendere il fenomeno cogliendolo dall’interno, dal punto di vista dei suoi protagonisti - prosegue l’esperto -. Lo stesso abbiamo fatto noi, intervistando collaboratori di giustizia, giudici antimafia, avvocati, poliziotti, psicoterapeuti siciliani, calabresi e napoletani che hanno seguito nel tempo componenti di famiglie mafiose o casi di persone in odore di mafia. E abbiamo approfondito il tema analizzando il testo dei colloqui fatti da persone mafiose e le perizie psichiatriche condotte su di loro, nonché in momenti di elaborazione dei problemi con gruppi di cittadini di comuni ad alta densità mafiosa, con lo scopo di attivare degli interventi psico sociali.
«La nostra ricerca ci ha portato, così, ad alcune conclusioni. Per esempio, che Cosa Nostra, tramite l’idea di ’famiglia’ in senso allargato, che si prende cura dei suoi affiliati, costruisce dalla nascita i suoi adepti, sia uomini che future mogli di mafiosi. Lo fa con una forte trasmissione di ’valori’, arrivando a quello che si potrebbe definire un concepimento fondamentalista del bambino come futuro mafioso, sottoponendolo via via a un training che comincia dalla prima adolescenza e che si sviluppa in lunghe fasi di ’carriera’. Una carriera che comprende gli omicidi. Tutto ciò, serve per costruire un perfetto killer- robot agli ordini dell’organizzazione » .
«Cosa Nostra - aggiunge Lo Verso - ha altresì strumentalizzato vecchi codici siciliani, quali la famiglia e l’onore, al fine di costruire una perfetta azienda criminale. Cosa Nostra è la famiglia e così, infatti, si definisce. Nella n’drangheta, invece, famiglia d’origine e mafiosa coincidono » . C’è, quindi, una realtà pseudofamiliare che sostituisce quella sociale?
«Molto di più - dice l’esperto -. Dalle nostre ricerche emerge che la mafia ha come unico vero obiettivo il potere - ’cummanari è megghiu di futtiri’, comandare è meglio che fare sesso, è il detto -, e solo secondariamente il denaro. Per la relazione affettiva e la sessualità c’è, invece, totale disinteresse. In sostanza, si tratta di un mondo che vive di paura, e che comanda attraverso la paura, prima ancora che con la violenza. Basti pensare all’approccio per intimidire i commercianti a cui chiedere il pizzo. Cosa Nostra non è solo un’organizzazione criminale, è una sorta di ’stato’ che impone il suo controllo, le sue leggi. E che tratta con pezzi dello Stato e con poteri politici».
Chi ha fatto parte di questa realtà può modificare la sua prospettiva di vita?
«E’ molto difficile. Non è possibile, per esempio, fare una psicoterapia approfondita ed analitica in un mondo addestrato all’omertà, con individui che non riescono a realizzare un’introspezione vera nemmeno quando entrano in crisi. Noi abbiamo lavorato soprattutto come supporto psicoterapeutico ai familiari di collaboratori di giustizia, ai familiari di latitanti, e con persone nelle cui famiglie erano presenti elementi non mafiosi » .
Che cosa dobbiamo aspettarci?
«E’ importante rendersi conto che la mafia è ormai un problema di tutti, a livello nazionale e internazionale- conclude Lo Verso -. E’ come avere a che fare con una grande ragnatela, costruita per di più con una trama consolidata da anni. Una trama ancorata nell’assenza di una struttura sociale organizzata e improntata alla illegalità. Questi vuoti hanno permesso di creare nel corso di numerosi decenni una gerarchia di valori e di relazioni alternative tutt’ora forti e, perciò, ancora oggi difficili da sradicare».
Retroscena di un funerale e «relativismo» della Cei
di Paolo Farinella, prete
Oggi alle 11.40
Genova 21-09-2009. - Ricevo una comunicazione riservata da persona proveniente da «dentro» il sistema militare dei «corpi speciali» che mi ha fatto rabbrividire. A motivo del mio lavoro (terapia di sostegno), avevo intuito che molte cose non quadrassero, ma questa rivelazione mi ha sconcertato. Il berretto al bambino di due anni e la corsa dell’altro bambino alla bara del padre con la mano che si copre il volto (foto giornali perché non ho visto i funerali né ascoltato tg e rg) non sono frutto di spontaneità o gesti di mamme che cercano di proteggere i figli con «qualcosa» del padre (berretto e abbraccio).
Al contrario, sembra che tutto sia stato centellinato dall’équipe di sostegno psicologico che in questi giorni circondano i familiari con un cordone sanitario strettissimo. Mi dice il militare interlocutore che lo scopo di questo gruppo di sostegno non è aiutare le famiglie ad elaborare la morte e il lutto, ma impedire che facciano scenate o mettano in atto comportamento lesivi dell’onore dell’esercito. La mia fonte asserisce che buona parte di questo personale non è specializzata in psicologia, ma è un corpo speciale che un obiettivo preciso: la gestione dei giorni successivi alla morte e il contenimento o meglio l’annullamento della rabbia, della contestazione e della disperazione conseguenti che potrebbero portare a comportamenti di indignazione verso l’esercito e le istituzioni.
Le tecniche quindi mirano ad adeguare il pensiero delle famiglie allo «status di eroe» del congiunto perché appaia «coerente» con la «nobiltà della missione» del morto che diventa anche la «missione della famiglia». Sarebbe una tragedia per l’immagine militare se mogli, madri, figli e fidanzate si mettessero a gridare contro l’esercito e il governo che li ha mandati a farsi ammazzare.
In questa logica si capisce la retorica dell’«eroe», l’insulsaggine del servizio alla Patria, il sacrificio per la Pace nel mondo e anche la lotta al terrorismo. Tutti sanno tutto e giocano a fare i burattini. Se le informazioni che ho ricevuto sono vere, e non posso dubitare della serietà della fonte, i funerali dei sei militari uccisi e tutta l’opera dei pupi presente a San Paolo, è stata un’operazione terribile, ancora peggiore degli attacchi dei talebani. Tutto è gestito per deviare il Paese, le Coscienze e la Verità. E’ una strategia scientificamente codificata.
Il vescovo militare (generale di corpo di armata) non ha risparmiato parole grosse di encomio e di osanna al servizio che i militari fanno alla Pace e alla Democrazia. Una sviolinata che neppure La Russa è capace di fare. A lui si è unito il cardinale Angelo Bagnasco che ha detto:
«Non è esagerato parlare di strage, tanto più assurda se si pensa ai compiti assolti dalla forza internazionale che opera in quel Paese e allo stile da tutti apprezzato con cui si muove in particolare il contingente italiano. Non è un caso che questo lutto, com’era successo per la strage di Nassiriya, abbia toccato il cuore dei nostri connazionali, commossi dalla testimonianza di altruismo e di dedizione di questi giovani quasi tutti figli delle generose terre del nostro Sud. E per questo il nostro popolo si è stretto alle famiglie dei colpiti con una partecipazione corale al loro immane dolore. Anche noi ci uniamo ai sentimenti prontamente espressi dal Santo Padre» (21-09-2009).
Mi dispiace per il signor cardinale, ma non posso associarmi a questa mistificazione collettiva. Enrico Peyretti mi dice che durante l’Eucaristia, pane spezzato per la fame del mondo, è risuonato l’urlo di guerra dei parà: «Folgore!» quasi una schioppettata nel cuore del Sacramento. Credo che si possa dire che la Messa è stata la cornice vacua di una parata militare con i propri riti.
Oggi (21-09-2009), infine, il cardinale Bagnasco ha parlato anche della questione morale e della legge sugli immigrati senza mai nominare e né l’uno e né l’altra. Nessun cenno esplicito alla legge sul reato di clandestinità: si intravede tra le righe un leggero senso di disapprovazione. Figuriamoci se chiamava per nome il Papi Priapeo. Si è limitato a fare una predica generalizzata, valida per tutti e, quindi per nessuno, come giustamente interpreta «Il Giornale» di famiglia.. Tutto va bene, madama la marchesa? Ma, sì! Diamoci una botta e via! «Domani è un altro giorno« diceva Rossella O’Hara o Tarcisio Bertone? Non ricordo bene.
* Il Dialogo,, Martedì 22 Settembre,2009 Ore: 11:59
AFGHANISTAN: CHE FARE?! RICORDAR-SI SEMPLICEMENTE CHE SIAMO ITALIANI E ITALIANE!!!
EMERGENZA
La «sfida educativa»
Serve nuova alleanza
di Sergio Belardinelli(Avvenire, 17 Settembre 2009)
Da anni, come è noto, la Chiesa richiama l’attenzione sull’"emergenza educativa", come una delle sfide antropologiche più impegnative del nostro tempo. In questo contesto va collocato il «Rapporto-proposta sull’educazione» elaborato dal Comitato per il Progetto culturale della Conferenza episcopale italiana, presieduto dal cardinale Camillo Ruini, e pubblicato da Laterza con un titolo significativo: La sfida educativa.
«Consideriamo l’educazione - scrive nella prefazione il cardinale Camillo Ruini - un processo umano globale e primordiale, nel quale entrano in gioco e sono determinanti soprattutto le strutture portanti - potremmo dire i fondamentali - dell’esistenza dell’uomo e della donna: quindi la relazionalità e specialmente il bisogno d’amore, la conoscenza, con l’attitudine a capire e a valutare, la libertà, che richiede anch’essa di essere fatta crescere ed educata, in un rapporto costante con la credibilità e l’autorevolezza di coloro che hanno il compito di educare».
Il semplice fatto di nascere uomini implica dunque che abbiamo bisogno d’educazione. È solo grazie all’educazione che diamo un senso alla nostra vita, trovando buone ragioni per amarla e per soddisfare veramente i nostri desideri di libertà e di felicità. Di qui la riflessione affascinante e nel contempo decisiva che, con questo «Rapporto-proposta sull’educazione», il Comitato per il Progetto culturale dei vescovi italiani offre all’attenzione dell’opinione pubblica del nostro Paese. Lo fa con la consapevolezza di chi ha alle spalle una pratica educativa secolare, ma anche con grande apertura, ben sapendo che il fine dell’educazione non è quello di creare buoni cittadini, o buoni cattolici, o altro ancora, ma uomini veri, uomini che sappiano intraprendere la propria strada in un mondo che altri ci hanno lasciato, che possiamo anche voler cambiare, ma nel quale dobbiamo sentirci in primo luogo a casa. Sentirci a casa nel mondo, appassionarci alla vita: questo è in ultimo il fine dell’educazione.
Una certa pedagogia dominante in questi ultimi quarant’anni ha ridotto progressivamente l’educazione a mera socializzazione, nonché a trasmissione tecnica di saperi e di particolari "abilità". In questo modo ci siamo come dimenticati della vera posta che è in gioco nell’educazione: un ideale di umanità, un ideale antropologico, tutta una tradizione, una storia, che ci interpellano e di cui dobbiamo farci carico, ognuno con la nostra libertà. Anziché puntare su un percorso formativo della persona, ci siamo come affidati a una pedagogia che ha prodotto soltanto metodologismo, neutralità delle nozioni e dei valori insegnati, disinteresse psicologico e relativismo ideologico, ma nessuna vera formazione.
Forse non è casuale che in questo processo siano andati in crisi sia il significato della tradizione, sia la figura del "maestro" chiamato ad attualizzarla con intelligenza, partecipazione e passione. Quanto ai nostri figli, essi non solo non sanno più nulla di storia, ma non conoscono più nemmeno il passato delle loro famiglie, il nome dei loro nonni. È venuto meno insomma il senso di appartenenza a una catena generazionale e, con esso, il carattere "generativo" dell’educazione, che rappresenta un po’ la chiave di volta del presente "Rapporto-proposta".
Solo l’esperienza suscita esperienze, ci rende cioè capaci di fare esperienza per nostro conto. Sta qui la libertà, il legame strettissimo che sussiste tra educazione e libertà. Contrariamente a quanto pensano i fautori del "pensiero debole", la libertà è l’esito di un paziente, faticoso percorso di scoprimento di sé, del proprio bene, che non ha nulla a che fare con le chiacchiere sulla spontaneità di fare ciò che ci piace e cose simili. Per essere liberi, occorre soprattutto sapere perché vogliamo fare una determinata cosa. E l’educazione è la strada maestra attraverso la quale impariamo questa libertà. Con le parole di Benedetto XVI, potremmo anche dire che «il rapporto educativo è anzitutto l’incontro di due libertà e l’educazione ben riuscita è formazione al retto uso della libertà».
Questo nesso tra educazione e libertà schiude un’altra importante dimensione del "Rapporto-proposta" che qui presentiamo: la dimensione "pubblica" dell’educazione. Nelle pagine introduttive viene detto che l’educazione rappresenta «il bene pubblico per eccellenza», il luogo privilegiato «dove si gioca il destino dell’intera comunità nazionale». Altro che dibattiti tra scuola "statale" e scuola "privata", spesso senza sapere nemmeno di che cosa veramente si parla. L’educazione è sempre "pubblica", poiché è implicata e tocca l’umanità di tutte le relazioni sociali. In essa, lo ripeto, ne va di ciò che ci costituisce come uomini: il senso che attribuiamo alla nostra vita e alla nostra libertà, i legami con coloro che ci hanno generato biologicamente e quelli con coloro che ci hanno generato culturalmente, i legami con la nostra famiglia e quelli con la nostra comunità, con coloro che sono venuti prima e con coloro che verranno dopo.
Una società che non si cura dell’educazione è una società che non ha a cuore l’umanità delle sue relazioni e, in quanto tale, è destinata prima o poi a dissolversi anche come società. Per questo trovo assai importane l’esortazione che viene da questo "Rapporto-proposta", affinché la nostra comunità si impegni in quella che viene definita «una sorta di alleanza per l’educazione», che sappia coinvolgere «il maggior numero possibile di interlocutori, nei diversi luoghi in cui sappiamo che l’istanza educativa è cruciale». «Ci muove - dicono i membri del Comitato per il Progetto culturale dei vescovi italiani - la speranza di suscitare un dibattito, che abbia il punto di vista dei cattolici come uno dei suoi riferimenti e che sappia incontrare l’interesse di un pubblico il più ampio possibile». Vista la posta in gioco, c’è da augurarsi davvero che questa speranza diventi la speranza di tutta la società civile del nostro Paese.
IL LIBRO
Stimolo alla riflessione, prefazione di Ruini
Sarà disponibile da oggi nelle librerie «La sfida educativa» il volume curato dal Comitato per il Progetto culturale della Cei (Editori Laterza, pp. 224, 14 euro), con la prefazione del cardinale Camillo Ruini. Il rapporto vuole sollecitare una riflessione sullo stato dell’educazione e, più in generale, sulla realtà esistenziale e socioculturale d’oggi, alla luce dell’antropologia e dell’esperienza cristiane.
L’obiettivo è quello di promuovere una consapevolezza che possa dar luogo a un’alleanza per l’educazione in grado di coinvolgere tutti i soggetti interessati, dalla famiglia alla scuola, al mondo del lavoro, a quello dei media. Il Progetto culturale, dal 1997, è la modalità che la Chiesa italiana ha individuato per far emergere il contenuto culturale della fede cristiana. All’interno della segreteria generale della Cei è costituito un Servizio nazionale con compiti di promozione e di raccordo tra diocesi, centri culturali cattolici, associazioni e movimenti, ordini religiosi, Facoltà teologiche, riviste e intellettuali di matrice cattolica. Dal 2008 opera anche un Comitato per il progetto culturale, istituito dal Consiglio episcopale permanente.
Sergio Belardinelli
Avvenire, 17 Settembre 2009
Il coraggio di educare
Obiettivi per tornare dall’esilio
Cresce ogni giorno di più il consenso diffuso, sia in ambito ecclesiale che in quello civile, circa la rilevanza dell’attuale emergenza educativa, che appena pochi giorni fa, nel corso della sua visita pastorale a Viterbo, Benedetto XVI definiva ineludibile e prioritaria, «grande sfida per ogni comunità cristiana e per l’intera società». Se però si alzano numerose le voci che denunciano la crisi che attanaglia la riflessione e l’opera educativa, non è frequente che si giunga anche a individuarne le cause e a prospettare delle linee di intervento per una inversione di rotta.
Il rapporto-proposta del Comitato per il progetto culturale "La sfida educativa", da oggi nelle librerie di tutt’Italia, ha il pregio di non limitarsi alla segnalazione della debolezza educativa che caratterizza la società odierna, comprese molte comunità cristiane, ma si spinge ad additarne le cause principali e suggerisce gli obiettivi da perseguire per tornare dall’esilio educativo in cui sembra essersi confinata la civiltà occidentale.
Davanti a un certo smarrimento delle motivazioni fondamentali dell’educazione, il Comitato per il progetto culturale evidenzia la necessità di ritrovare il "baricentro" dell’esperienza formativa, ossia una vera sapienza antropologica e una visione non riduttiva del fatto educativo. «Con il termine educazione - rammenta Benedetto XVI nella Caritas in veritate - non ci si riferisce solo all’istruzione o alla formazione al lavoro, entrambe cause importanti di sviluppo, ma alla formazione completa della persona». A questo proposito, prosegue il Papa, «va sottolineato un aspetto problematico: per educare bisogna sapere chi è la persona umana, conoscerne la natura. L’affermarsi di una visione relativistica di tale natura pone seri problemi all’educazione, soprattutto all’educazione morale, pregiudicandone l’estensione a livello universale». Tra le povertà del nostro tempo, va annoverata anche la dimenticanza dell’irriducibilità della persona umana, quotidianamente attraversata dalla questione del senso del vivere e del morire, e del suo costitutivo essere relazione con il mondo, con gli altri, con l’infinito.
Educare, dunque, è accompagnare ciascun individuo, lungo tutta la sua esistenza, nel cammino che lo porta a diventare persona e ad assumere quella "forma" per cui l’uomo è autenticamente uomo. Tornando alle parole di Benedetto XVI a Viterbo, l’educazione «è proprio un processo di Effatà, di aprire gli orecchi, il nodo della lingua e anche gli occhi». Ciò non potrà avvenire, però, senza l’opera paziente e qualificata di educatori credibili e autorevoli, capaci di "generare" in un contesto di fiducia, di libertà e di verità. Non ha torto chi sottolinea come l’attuale crisi educativa riguardi primariamente la generazione adulta, cui spetta mostrare con la vita ciò che realmente vale e trasmettere un’eredità viva, da scoprire e rinnovare con responsabilità. Ugualmente essenziale, infatti, è da considerare il legame con la tradizione in cui siamo innestati, che lungi dal ridursi a mera conservazione del passato e dall’imprigionare le risorse più nuove e originali, rende possibile indirizzare proficuamente l’aspirazione di ogni uomo a una pienezza di vita e di felicità. Come attesta con chiarezza la rivelazione cristiana, essere uomo equivale ad essere figlio.
È una proposta umanizzante quella che affiora dalle pagine de "La sfida educativa", i cui capitoli spaziano dalla vita familiare al senso delle istituzioni scolastiche, senza tralasciare il compito educativo della Chiesa e i numerosi fattori in gioco: l’inarrestabile flusso comunicativo, i bisogni e i desideri espressi nel lavoro e nel consumo, i nuovi luoghi in cui si costruisce la persona. Con la stesura del rapporto-proposta sull’educazione, il progetto culturale della Chiesa italiana si conferma attento alle dinamiche vive della società italiana ed essenziale sia per una maturazione culturale della fede, sia per quell’allargamento degli orizzonti della razionalità che Benedetto XVI non cessa di invocare.
«Solo dall’educazione viene la bussola per potersi orientare dentro il pluralismo parossistico della società», ha osservato nel suo intervento al Convegno ecclesiale di Verona il professor Lorenzo Ornaghi, rettore dell’Università Cattolica. Occorre perciò - ci ricorda oggi il rapporto-proposta del progetto culturale - il coraggio di tornare a educare l’intelligenza e il desiderio verso il bene, il vero, il bello.
Angelo Bagnasco
Educazione e media: Ruini rilancia il modello-egemonia
L’ex presidente della Cei propone un nuovo patto e trova sponde nel ministro Gelmini. Che ha fornito ampie assicurazioni, dall’ora di religione ai crocifissi nelle classi
di Roberto Monteforte (l’Unità, 23.09.2009)
Una società sempre più lacerata, che ha abdicato al suo compito di indicare modelli e sistemi di valore, in particolare ai giovani, viene meno ad un suo preciso dovere. Un futuro incerto, segnato dalla precarietà: questa è la dura prospettiva per le nuove generazioni. Con questo, con l’emergenza educativa, occorre misurarsi. La Chiesa lancia la sua sfida-provocazione rivolta al mondo cattolico, ma soprattutto a quello laico.
Se ne fa portavoce il cardinale Camillo Ruini, presidente emerito dei vescovi italiani e responsabile del Progetto culturale della Cei che ieri ha presentato il volume «La sfida educativa» edito da Laterza che raccoglie approfondimenti e proposte sulle agenzie educative classiche: scuola, famiglia, comunità cristiana, ma anche sul lavoro, l’impresa, i mass media, lo spettacolo, il tempo libero, lo sport. Tutte realtà che concorrono alla formazione della persona. «L’educazione è una urgenza, o meglio, è una emergenza» scandisce Ruini. «L’educazione per sua natura impone sfide a lungo termine spiegaattorno all’educazione deve trovarsi una convergenza che superi il variare delle persone, delle idee, degli interessi. Il nostro rapporto vuole essere un invito aggiunge a muoverci nella direzione di una alleanza educativa di lungo termine».
Così la Chiesa si propone come luogo di confronto per una società divisa e lacerata, riproponendo una sua centralità. È la strategia che ha segnato l’«era Ruini» e che ieri ha trovato sponde robuste. Ha colto a volo l’occasione il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini per rilanciare il tema dell’identità culturale del nostro paese, contraddistinta dai valori cattolici, con cui devono rapportarsi i giovani figli di immigrati. È da lì che passa l’integrazione per il ministro che ha rassicurato: nulla cambierà sull’ora di religione e sul crocifisso nelle aule. Le sollecitazioni sulla funzione formativa ed educativa dei media contenute nella proposta della Cei sono state raccolte dal presidente della Rai, Paolo Galimberti, che ha riconosciuto la difficoltà a proporre una televisione di qualità. Al confronto ha partecipato anche la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia. ❖
“Quest’articolo è illuminante, anzi, oserei dire, dovrebbe aprire la strada ad una nuova Cultura dell’antimafia, quella vera e della Parola o del Verbo relativisticamente parlando.. , che va a monte della "Faccenda"..!
Togliete ai mafiosi la religione e gli rimarra solo la cicoria..!”
Namastè Augusto Cavadi..
http://danieleandaloro.blogspot.com/
Il giorno 11 settembre 2009, ho spedito la seguente lettera che adesso rendo pubblica. Paolo Farinella, prete
Sig. Cardinale Tarcisio Bertone
Segretario di Stato
16120 Città del Vaticano - Roma
e p. c.
Sig. Card. Angelo Bagnasco
Arcivescovo di Genova
P.za Matteotti, 4
16123 Genova
Sig. Cardinale,
apprendo dalla stampa che il giorno 7 ottobre 2009, memoria liturgica della Madonna del Rosario, lei ha intenzione di inaugurare la mostra dall’emblematico titolo «Il potere e la grazia» insieme al presidente «pro tempore» del consiglio dei ministri italiano, Sig. Silvio Berlusconi che non posso chiamare «onorevole» perché di «onorevole» nella sua vita pubblico-privata, nella sua politica e nel suo sistema di menzogne non vi è nulla, nemmeno una traccia.
Se la notizia di questo «rendez-vous» al vertice fosse vera, è giusto che sappia che lei agli occhi della stragrande maggioranza della Chiesa italiana e del mondo si renderebbe complice e si assumerebbe la responsabilità di molti abbandoni «dalla» Chiesa da parte di credenti che ormai sono stufi che la politica della diplomazia sovrasti e affossi la testimonianza limpida del vangelo. Lei sicuramente sa, come lo sa ogni parroco che vive sulla breccia dei marciapiedi, che quest’anno vi è stata una emorragia nei confronti dell’8xmille che moltissimi cattolici anche praticanti hanno devoluto ad altre istituzioni pur di toglierlo alla Chiesa cattolica per le sue ingerenze e connivenze con un governo legittimo, ma ad altissimo tasso di illegalità e immoralità. Questo argomento credo che vi interessi non poco sia come Vaticano che come Cei.
Dopo tutto quello che è successo, le testimonianze, le registrazioni, le inchieste, lo spergiuro pubblico in televisione sulla testa dei suoi figli, gli immigrati morti in mare che il governo ha sulla coscienza; dopo la legge infame che dichiara «reato» lo «stato personale», cioè la condizione esistenziale di «immigrato» divenuto formalmente «clandestino» in forza della legge Bossi/Fini che lo stesso governo ha voluto e varato; dopo tutto questo e altro che potrà leggere nella mia accusa lettera d ripudio all’interessato, lei non può far finta che nulla sia successo e farsi vedere in pubblico con Berlusconi o qualcuno dei suoi scherani.
Noi cattolici credenti e praticanti che portiamo la fatica diuturna della fede e della testimonianza in mezzo ad un mondo indifferente e a non credenti che scrutano la Chiesa e il suo personale con attenzione per scoprire i segnali di una «religione pura e senza macchia» che «non si lascia contaminare da questo mondo» (Gc 1,27), assistiamo allibiti e scandalizzati di fronte ai salti acrobatici che lei sta facendo per riprendere i rapporti con il presidente del consiglio e il suo governo da dove sono stati interrotti, passando sopra ad ogni insulto alla morale cattolica e alla dottrina sociale, di cui ogni giorni vi fate alfieri a parole «per gli altri».
Se parlate di morale pubblica e di etica politica, dovete essere coerenti con i vostri stessi principi che spesso esigete dagli altri che non hanno il potere immondo di Silvio Berlusconi, il quale si crede il Messia e «solutus omnibus legibus», visto che concepisce se stesso come sultano e l’Italia il suo sultanato personale. Egli pensa di potere comprare tutto: i tribunali, le sentenze, la compiacenza di prosseneti e lenoni che gli procurano donnine a pagamento per sollazzarlo con orge (e forse anche droga) di cui egli continua a vantarsi pubblicamente fino a dichiarare con spudoratezza che «il popolo italiano vuole essere come lui». Egli crede di potere comprare anche il Vaticano, offrendo leggi e favori a richiesta. Valuti lei se le lenticchie fuori stagione valgano una Messa.
Sig. Segretario di Stato, lei è libero di incontrare chi vuole, ma non può farlo in rappresentanza della Chiesa perché come gran parte dei credenti stanno ripudiando Berlusconi, così possono ripudiare anche lei se gli offre la sponda di salvataggio contro la trasparenza della fede evangelica. Lei deve sapere che serpeggia nella Chiesa uno scisma ormai non tanto sotterraneo che sta emergendo di giorno in giorno e bisogna stare attenti che non diventi movimento o peggio ancora separazione, anche perché molti vescovi stanno zitti, ma in cuor loro meditano e in privato imprecano. Non prenda a cuor leggero quello che le dico. Il mio vescovo, cardinale Angelo Bagnasco e anche lei che mi ha conosciuto personalmente e bene, sapete che non dico bugie e non parlo mai per sentito dire e di ogni mia affermazione o gesto mi assumo sempre la responsabilità pubblica.
Il popolo si chiede cosa ha da spartire uno come l’attuale presidente del consiglio con la «grazia» e che cosa lei in quanto prete pubblico ha da dire ad un uomo che ha buttato nella spazzatura tutti i principi etici che voi affermate: l’onesta, la verità, la legalità, la famiglia, la prostituzione, la donna, la droga, la menzogna, lo spergiuro, ecc. Se lei appare pubblicamente con «quest’uomo» che ormai sporca ogni cosa che dice e fa, lei inevitabilmente finisce per avallare i suoi comportamenti immorali e immondi dei quali non solo non si è pentito, ma continua a vantarsene ad ogni occasione propizia. In nome di Dio e del suo popolo semplice non contamini la «grazia» con l’immondizia del «potere» che uccide la Chiesa e condanna i suoi rappresentanti. Almeno per una volta, come Segretario di Stato, sia prete, solo prete, intimamente prete e disdica ogni appuntamento con un trafficante senza morale e senza dignità che la sta usando solo per affermare che i suoi rapporti con il Vaticano e con il papa «sono eccellenti». Dichiari pubblicamente che finché il presidente del consiglio non risponde al Paese del suo operato, il papa, lei e la Cei non potete riceverlo. Chieda scusa pubblicamente, si penta e poi, come Nicodemo, vada di notte a confessarsi da chi vuole, senza tv al seguito.
Se vuole conoscere il rapporto tra «potere e grazia» , come si è codificato in Italia nel quindicennio del berlusconimo-leghismo e che a mio parere sta nel Crocifisso, si legga il mio libro «Il Crocifisso tra potere e grazia. Dio e la civiltà occidentale», Il segno dei Gabrielli Editore, San Pietro in Cariano (VR) 2007. A lei non sarà difficile procurarselo tramite le vicina Libreria Vaticana.
Per sua scienza e coscienza le accludo la «Lettera di ripudio» che ho inviato al presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, e che tante adesioni sta raccogliendo nel mondo credente e non credente. Il Vaticano, attraverso di lei sta facendo lo stesso errore che fece nel 1929, quando riconobbe lo Stato fascista di Mussolini, liberandolo dalla morsa dell’isolamento in cui tutti gli Stati democratici e con un minimo di dignità etica lo avevano confinato.
Con i Patti Lateranensi e il Concordato, Mussolini ebbe partita vinta e portò l’Italia alla rovina e la Chiesa allo sfascio. Oggi sta accadendo lo stesso scempio: il mondo internazionale (economico e politico) ha scaricato Berlusconi, la sua politica e la sua pazzia (lo ha detto la moglie) perché ormai impresentabile; Dio non voglia che ancora una volta il Vaticano, per meri interessi materiali, si schieri dalla parte sbagliata, immorale e indecente. Se lei riabilita Berlusconi, come ha già fatto Gian Maria Vian, direttore dell’Osservatore Romano con l’intervista al Corriere della Sera, nella Chiesa di Dio lei perde il diritto di parlare di vangelo, etica e moralità.
Se Berlusconi riesce a comprare anche il Vaticano con uno scambio di leggi, favori e denaro, sappia che non potrà mai comprare le nostre coscienze di credenti che ogni giorno pregano Dio per la salvezza della «povera Italia» e per la conversione delle gerarchie ecclesiastiche che spesso sono di scandalo e non di esempio al popolo dei battezzati. Noi ci opporremo e faremo sentire le nostri voci e il nostro dissenso perché non vogliamo essere complici di mercimonio , perché nessuno, nemmeno il papa, né il suo Segretario di Stato possono «servire due padroni» e fare affari con «mammona iniquitatis» (Mt 6,24) .Ognuno è libero di scegliersi gli amici e le comparse che crede, ma poi deve essere coerente nella verità fino in fondo, fino allo spasimo e deve accettare anche la disobbedienza di coscienza dei cattolici feriali.
Preoccupato e amareggiato, la saluto sinceramente.
Genova, 11 settembre 2009
Paolo Farinella, prete
VIVA A PAOLO FARINELLA....E VIVA A MARIA....LA MISS ITALIA
COSA HANNO IN COMUNE...PAOLO E MARIA? (LA VERITA’)