EUGENIO MELANDRI RICORDA JOSEPH KI-ZERBO *
L’ultimo ricordo che ho di lui mi riporta nella sua casa a Ouagadougou (Burkina Faso), nel novembre 2005. Tre giorni passati ad ascoltarlo. A cercare di cogliere dalla sua voce, ormai tanto flebile da dover essere amplificata, quel distillato di saggezza che sempre rappresentavano le sue parole e le sue lezioni. Joseph Ki-Zerbo, morto lo scorso 4 dicembre a 84 anni, non e’ stato soltanto il piu’ grande storico africano. Lo studioso burkinabe’ potrebbe essere ricordato per sempre come colui che ha ridato la storia all’Africa. Era soprattutto un uomo saggio, che dagli studi e dai libri, ma anche dalle esperienze, aveva colto l’essenziale, cio’ che veramente conta.
Si incontrava, quando si stava con lui, innanzitutto l’uomo. Figlio della sua terra. Ricordava spesso suo padre. Primo cristiano e primo catechista del Burkina Faso. Morto a oltre cent’anni, il giorno stesso in cui per la prima volta un papa, Giovanni Paolo II, poneva i piedi nel suo paese. Quasi a significare la conclusione naturale di una vita, che si identificava con la presenza stessa del cristianesimo in questo paese dell’Africa occidentale.
"Siete partiti da casa vostra e siete arrivati a casa vostra". Ci accolse cosi’ a casa sua in quel caldo pomeriggio di Ouagadougou. Quell’anno non aveva potuto, per via della salute, venire al convegno dell’associazione Chiama l’Africa ad Ancona. "Se pero’ venite da me, saro’ lieto di passare qualche giornata con voi".
Era cominciato cosi’ quel viaggio, e furono tre giorni intensi di lezione e di ascolto, parola per parola. Sulla sua Africa. Per la quale si era speso, anche politicamente, prima e dopo la decolonizzazione. Gli anni ’60 lo avevano visto impegnato, con altri intellettuali africani e con alcuni politici piu’ lungimiranti, a lavorare per costruire l’unita’ del continente africano. Un suo pallino che mai gli si togliera’ dalla testa.
Soltanto unita l’Africa avrebbe potuto parlare al mondo, diventare interlocutrice degli altri continenti, ci disse in un seminario nel 1999: "In Africa il progetto di regionalizzazione e’ in corso, anche se molto lento, anche perche’ ogni leader africano vorrebbe rimanere il padrone indiscusso. I leader africani sono molto legati alla formula della sovranita’ nazionale. Sanno che di fatto non esiste alcuna sovranita’ nazionale, ma amano illudersi. Come e’ possibile parlare di sovranita’ nazionale laddove la gente muore di fame, non dispone di acqua potabile, laddove i responsabili politici sono alla merce’ delle multinazionali, sempre pronti a cambiare idea a seconda delle bustarelle?". Aveva anche fondato un partito politico e per molti anni era stato deputato.
Ma l’Africa - quante volte glielo abbiamo sentito dire - aveva bisogno di una ventata di democrazia. Dopo ogni elezione in Burkina era solito dire: "Normalmente, nelle democrazie, chi governa ha sempre delle difficolta’ alle elezioni. Perche’ la gente si aspetta sempre qualcosa di piu’. Solo in Africa chi governa, una volta che e’ al potere, ad ogni elezione ha sempre percentuali piu’ grandi. Significa proprio che qualcosa non funziona". Disincantato, quindi, ma nello stesso tempo impegnato. E’ rimasto sulla breccia politica fino a pochi mesi prima della sua morte.
Centralita’ della parola
Ma Joseph Ki-Zerbo e’ stato soprattutto un grande storico. Il piu’ grande storico che l’Africa abbia mai avuto. Di piu’, colui che ha dato una storia all’Africa. Perche’ per la prima volta ha messo in dubbio quell’assunto razzista, tipico degli storici occidentali, secondo cui la storia comincia con la scrittura. Condannando in questo modo i popoli che non hanno tradizione scritta a non avere una storia. "Ritengo che la tradizione orale africana sia una fonte storica valida, credibile e che, come tale, vada difesa. Soprattutto considerando che nella maggior parte dei paesi africani una buona parte della popolazione non sa leggere ne’ scrivere. Ma di piu’: l’oralita’ e’ legata anche a una certa concezione della parola, soprattutto del nome. L’africano riconosce alla parola in genere un impatto ontologico".
E, facendone la storia, ha cercato di capire in profondita’ il perche’ degli accadimenti. Soprattutto per richiamare ciascuno, gli europei innanzitutto, alle proprie responsabilita’. "Fino al XVI secolo, l’Africa poteva validamente paragonarsi agli altri continenti. Poi e’ intervenuta una frattura che si e’ andata progressivamente allargando. La progressiva immissione di strutture politiche ed economiche provenienti dall’esterno ha finito per paralizzare le forze vive e le energie vitali del continente africano". Una frattura che per il continente africano ha significato prima la tratta degli schiavi, poi l’epopea coloniale.
E pensare che l’Africa aveva iniziato prima di tutti gli altri continenti il movimento storico vitale. E’ in Africa che nasce l’homo erectus ed e’ dall’Africa che l’Europa ha ricevuto tante cose: "L’Europa e’ arrivata alla fine e ha potuto beneficiare di tutto quanto l’Africa e l’homo erectus hanno offerto in materia di strumenti e invenzioni. Il fuoco, la parola, la scrittura e molte altre cose sono state offerte all’Europa dagli altri continenti, o perlomeno dall’Africa, su un piatto d’argento".
Ma la storia del continente africano che, prima dell’arrivo degli europei, aveva avuto momenti di grande splendore (sono molto belle le pagine in cui nel suo testo Storia dell’Africa nera, descrive i regni del Mali, del Ghana e di Gao), si scontra con lo schiavismo e la tratta dei neri. Una tratta che trova la sua ragione in un altro genocidio, quello degli indigeni del Nuovo Mondo. L’Africa non ha probabilmente ancora finito di pagare il prezzo della tratta, che ha spopolato e dissanguato il continente. Ma soprattutto la tratta "ha riguardato la parte piu’ vitale, dinamica e inventiva della popolazione. E’ stata una sorta di megaemorragia della popolazione africana che ha dissanguato il continente, lo ha menomato definitivamente fino ai nostri giorni".
Poi e’ arrivata la colonizzazione, che "e’ servita a porre fine alla tratta, ma non ha cambiato la situazione. Gli africani hanno continuato a essere dominati e si e’ arrivati fino a efferati genocidi". Ki-Zerbo ha fatto parte di una commissione dell’Unione africana che si e’ occupata della riparazione dei torti fatti all’Africa negli ultimi quattro secoli. Al riguardo diceva: "Non si tratta di far luce sui danni materiali, ma piuttosto sul grave torto fatto all’Africa con la sistematica violazione dei diritti umani della persona del nero africano. Egli e’ stato trattato in modo tale che in lui e’ stata calpestata, umiliata, sradicata la specie umana. Come si e’ riconosciuto il genocidio e l’Olocausto degli ebrei, cosi’ si deve riconoscere il genocidio e l’Olocausto del popolo africano. La tratta e la colonizzazione hanno lasciato tracce fin nel subconscio dell’uomo africano. Mancanza di fiducia in se stesso, mancanza di rispetto per se stesso. L’immagine che un uomo ha di se’ e’ un elemento essenziale per il suo sviluppo".
Essere prima che avere
Di fronte a questa situazione di stallo, Ki-Zerbo faceva appello agli africani perche’ riscoprissero la loro identita’ e ai popoli ricchi perche’ li agevolassero. "A salvare veramente l’Africa non saranno i fondi e gli aiuti. Salveranno vite umane, permettendo loro di sopravvivere, ma non salveranno la vita dell’Africa. Cio’ che importa non sono i mezzi, ma le condizioni. Bisogna permettere all’Africa di ricostruirsi. Bisogna aiutarla a ricostruirsi. L’Africa deve essere prima che avere".
Impossibile ripercorrere in poche righe il suo pensiero: storico, politico, soprattutto saggio e legato alla propria terra. Ha amato l’Africa e ha insegnato ad amarla a tutti quelli che lo hanno incontrato. Una persona che si e’ spesa in tutti i modi, dallo studio, fino all’impegno politico, per dare corpo al sogno di un’Africa capace di stare nel mondo e di parlare al mondo. Che ha saputo cogliere dalla tradizione della sua gente quegli elementi di saggezza e di novita’ da cui partire per fare un cammino di rinnovamento. Quante volte l’abbiamo sentito citare i proverbi popolari per coglierne un insegnamento.
Un uomo che ha creduto fino in fondo all’unita’ africana. "Un proverbio burkinabe’ dice: ’i legni bruciano solo quando stanno vicini’. Noi ora siamo divisi e nessun paese da solo puo’ farcela ad uscire dalla crisi. Dobbiamo unirci per accendere il fuoco. Solo allora potremo dare un colore nuovo all’arcobaleno".
E tutto questo senza complessi di inferiorita’. Interrogato sul Nepad (Nuova partnership per lo sviluppo dell’Africa, un progetto elaborato nel 2001 da alcuni leader africani), una volta ha risposto: "Non l’ho studiato bene. Ma mi consta che piaccia molto ai paesi ricchi. Un nostro proverbio dice che quando il leone ti sorride non lo fa certo perche’ gli sei simpatico". Adesso che, come hanno scritto i giornali africani, "la grande quercia e’ caduta", occorre fare in modo che il suo lavoro non vada perduto.
Aveva istituito un centro di ricerca culturale, che lungo gli anni ha prodotto moltissimo materiale, la maggior parte del quale non ancora pubblicato. Ci diceva che fra i suoi documenti ci sono ancora migliaia di manoscritti che andrebbero ordinati e catalogati, anche in vista di eventuali pubblicazioni. Per questo, insieme con la sua famiglia e i tanti amici che in ogni parte del mondo lo hanno conosciuto e stimato, stiamo studiando di costituire una fondazione che continui, anche in nome suo, l’impegno per restituire all’Africa quella storia e quella dignita’ che lungo i secoli abbiamo saccheggiato e derubato.
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[Dalla rivista "Nigrizia" di marzo 2007 (disponibile anche nel sito www.nigrizia.it) riprendiamo questo ricordo, aperto dalla seguente nota redazionale:
"L’intellettuale burkinabé, morto lo scorso dicembre, e’ ritenuto il maggiore storico dell’Africa. Nel denunciare le colpe del colonialismo, non e’ mai stato tenero con le classi dirigenti africane. Convinto che il riscatto del continente puo’ venire solo dal recupero dell’identita’ e dalla coesione dei suoi popoli. La famiglia e gli amici vogliono costituire una Fondazione che conservi e continui la sua opera".
Eugenio Melandri, religioso saveriano, giornalista, impegnato nei movimenti di pace, di solidarieta’, contro il razzismo, per la nonviolenza. Tra gli animatori di "Chiama l’Africa". Opere di Eugenio Melandri: segnaliamo almeno I protagonisti, Emi, Bologna 1984.
Joseph Ki-Zerbo (Toma, Alto Volta, 1922 - Ouagadougou, Burkina Faso, 2006) e’ stato uno dei piu’ grandi intellettuali africani del Novecento; impegnato nella lotta anticoloniale, storico, docente, militante politico, organizzatore di esperienze di cultura e democrazia; strenuo lottatore per la pace e i diritti umani di tutti gli esseri umani.
Opere di Joseph Ki-Zerbo: Storia dell’Africa nera, Einaudi, Torino 1977; A quando l’Africa? Conversazioni con Rene’ Holenstein, Emi, Bologna 2005]
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NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 45 del 31 marzo 2007
Notizie minime della nonviolenza in cammino proposte dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VERITA’ E RICONCILIAZIONE. LA SAGGIA INDICAZIONE DEL SUDAFRICA DI MANDELA, DI TUTU, E DI DECLERCK
Una riflessione sul testo "La carità che uccide" di Dambisa Moyo (Rizzoli, 2009)
di Habtè Weldemariam *
È noto che la civiltà Occidentale è permeata dalla cultura degli aiuti, cioè da quella cultura che muove dall’imperativo morale di donare a chi è svantaggiato. Questa cultura, che nei paesi occidentali ha radici cristiane, negli ultimi trent’anni si è incrociata con il mondo dell’intrattenimento: personalità mediatiche, "leggende" del rock, abbracciano con entusiasmo la filosofia degli aiuti, ne fanno propaganda e rimproverano i governi di non fare abbastanza.
Per bacchettare certi iniziative e le politiche di aiuto finora perseguite è uscito il libro-saggio dell’autorevole economista africana, Dambisa Moyo, con l’abrasivo titolo “La carità che uccide. Come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo Mondo", una traduzione dal titolo peraltro non corretto rispetto a quello originale che voleva significare invece un certo modo di intendere gli aiuti: Dead Aid: Why aid is not working and how there is a better way for Africa (perchè l’aiuto non sta funzionando e qual è la strada migliore per l’Africa) .
Si tratta della storia del fallimento delle politiche allo sviluppo postbellico e postcoloniale dei Paesi occidentali nei confronti delle disastrate economie dell’Africa subsahariana. Il titolo originale "Dead Aid" richiama polemicamente il concerto di solidarietà di Geldof e Bono Live Aid del 1985, i quali "hanno solo contribuito alla diffusione di uno stato di perenne dipendenza alimentando corruzione, violenza", il cui obiettivo, sempre secondo l’autrice, non è aumentare la consapevolezza di ciò che provoca la fame e la povertà, ma "lisciare il pelo" all’emotività superficiale che porta all’elemosina. Ma la critica è anche per i miliardi di dollari trasferiti direttamente ai governi dei paesi poveri mediante accordi bilaterali o attraverso istituzioni come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale.
Non è tanto il supporto di cifre, report e quant’altro a rendere il libro davvero assertivo; è la esposizione logica e piana di un ragionamento basato sull’osservazione di sessant’anni di politiche fallimentari che hanno inondato l’Africa di fiumi di denaro - in 50 anni più di un trilione di dollari - creando solo una classe politica inefficiente e priva del senso di responsabilità. Gli aiuti provenienti dai singoli stati occidentali o dalla longa manus del capitalismo occidentale hanno soffocato sul nascere la possibilità di favorire lo sviluppo agricolo o una classe di piccoli e medi imprenditori locali, diventando così gli aiuti stessi la principale causa della tragedia africana.
Infatti, «tra il 1970 e il 1998, quando il livello degli aiuti era al suo livello massimo, il tasso di povertà del continente è passato dal 11 % al 66%. Si tratta di circa 600 milioni di africani, più della metà della popolazione del Continente, costretta a vivere sotto la linea della povertà»(p.88).
Da qui la risposta diretta e tranchant dell’autrice: gli aiuti al "Terzo Mondo", così come li abbiamo sempre intesi, fanno male! E inoltre, un certo modo di intendere la solidarietà non solo rischia di alimentare la cultura dell’accattonaggio, ma anche crea un legame vizioso tra donatore e ricevente favorendo il perpetuarsi di una logica perversa dell’auto-consolazione del donatore e un senso di gratificazione del ricevente nella propria condizione di subordinazione ed inferiorità.
La Moyo mette in luce tutti i punti deboli delle tradizionali politiche di aiuto internazionale esponendo un ragionamento molto articolato: da quando l’Occidente ha iniziato a far confluire fiumi di denaro verso il Continente ha messo in moto un circolo vizioso fatto di dipendenza dagli aiuti, di demotivazione e di uccisione del mercato locale:
La Moyo, come tanti altri africani della sua generazione, si chiede allora senza giri di parole: perché, nonostante questi miliardi, l’Africa è incapace di posare il piede sulla scala economica in modo convincente e che cosa la trattiene dal rendersi capace di unirsi al resto del globo nel XXI secolo? Perché, caso unico al mondo, l’Africa è prigioniera di un ciclo di malfunzionamento? Cosa impedisce al continente di affrancarsi da una condizione di povertà cronica? Soprattutto la Moyo ritorna con insistenza sulla domanda: se gli altri paesi ce l’hanno fatta senza aiuti umanitari perché i paesi africani non possono farcela?
La risposta, secondo l’autrice, affonda le sue radici appunto negli aiuti: quelli umanitari o di emergenza, attivati e distribuiti in seguito a catastrofi e calamità; quelli distribuiti in loco da organizzazioni non governative (ONG) a istituzioni o persone (1);quelli sistematici, ossia pagamenti effettuati direttamente ai governi, sia tramite trasferimenti da governo a governo ("aiuti bilaterali") sia tramite enti quali la Banca Mondiale (noti come "aiuti multilaterali"). Si tratta della somma complessiva dei prestiti e delle sovvenzioni, che sono poi i miliardi "che hanno ostacolato, soffocato e ritardato lo sviluppo dell’Africa". Ed è di questi miliardi che si occupa il libro.
* RIPRESA PARZIALE. Per proseguire nella lettura integrale del testo, vedi: SCRITTI D’AFRICA, 26 MAGGIO 2011
MAESTRI E COMPAGNI. LUCA KOCCI RICORDA EUGENIO MELANDRI *
Domenica 27 ottobre e’ morto Eugenio Melandri. Quando un anno fa, il 19 ottobre 2018, Eugenio Melandri va a Roma ad incontrare il papa per la messa a Santa Marta e gli riassume brevemente la propria vita di missionario, pacifista e comunista, "Francesco - raccontava lo stesso Melandri - mi prende una mano, me la stringe forte e mi sorride. Poi mi dice: hai fatto bene!".
Melandri e’ ancora sospeso a divinis e non puo’ esercitare il ministero sacerdotale. Il provvedimento gli era stato comminato dal Vaticano trent’anni prima quando, dopo essere stato allontanato dalla direzione di Missione Oggi, il mensile dei saveriani che aveva trasformato in un periodico impegnato sui temi della pace e del disarmo, nel giugno 1989 era stato eletto europarlamentare con Democrazia proletaria, violando il Codice di diritto canonico ("e’ fatto divieto ai chierici di assumere uffici pubblici...", "non abbiano parte attiva nei partiti politici") e venne punito con la sospensione a divinis.
Quell’"hai fatto bene" di Francesco, pero’, non poteva restare senza conseguenze. Cosi’ poche settimane fa - con un ritardo di un paio di decenni - la Congregazione vaticana per il clero annulla la sospensione: Melandri viene riammesso all’esercizio del ministero sacerdotale e incardinato nella diocesi di Bologna guidata dal cardinal Matteo Zuppi. Una "riabilitazione" che, durante il pontificato di Bergoglio, ha riguardato anche altri preti, in passato giudicati troppo di sinistra: sia viventi, come il nicaraguense sandinista Ernesto Cardenal, sia gia’ morti, come Primo Mazzolari e Lorenzo Milani.
La scorsa settimana, il 20 ottobre, Melandri era tornato a celebrare l’eucaristia, insieme ai confratelli amici e "compagni" di una vita ("compagno è una bellissima parola, significa spezzare e condividere il pane", ha detto durante la messa), quella generazione "post-sessantottina" di preti impegnati per la giustizia e la pace dalla seconda meta’ degli anni ’80: Albino Bizzotto (dei Beati i costruttori di pace, con cui nel 1992 ha partecipato alla marcia per la pace a Sarajevo assediata), Tonio Dell’Olio (gia’ coordinatore di Pax Christi, poi responsabile internazionale di Libera, ora alla Pro Civitate Christiana di Assisi), Renato Sacco (coordinatore nazionale di Pax Christi), il vescovo Giorgio Biguzzi, animatore della campagna contro i bambini soldato in Sierra Leone.
Giusto una settimana prima di morire, domenica 27 ottobre, a causa di un tumore, che ha affrontato con forza, condivideva senza reticenze sul suo profilo Facebook tutti i momenti di sofferenza, di speranza e di gioia - come l’incontro con papa Francesco - e senza mai rinunciare ad intervenire sull’attualita’ politica, dalle leggi contro i migranti volute dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, alla recente aggressione turca contro i curdi.
Nato a Brisighella (Ra) nel 1948, nel 1974 Melandri entra nei missionari saveriani. Dal 1980 al 1988 dirige Missione Oggi, dalle cui colonne conduce importanti battaglie contro lo scandalo della cooperazione internazionale e per il disarmo, attirando su di se’ le ire del governo e della Dc che, con la complicita’ del Vaticano e dei vertici dei saveriani, riescono a farlo allontanare dalla rivista. Si impegna in politica (europarlamentare di Dp, poi con Rifondazione comunista), nel sociale (con Dino Frisullo fonda Senzaconfine), per la pace e il disarmo.
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TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 3556 del 2 novembre 2019
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XX)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532,
e-mail: centropacevt@gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/
Nel laboratorio della giustizia.
Incontro con l’Africa, segno per il mondo
di Stefania Falasca (Avvenire, venerdì 6 settembre 2019)
Guardare l’Africa. Attirare l’attenzione verso questo continente nel suo insieme, sulla promessa che rappresenta, sulle sue speranze, le sue lotte e le sue conquiste per uno sviluppo umano integrale, un’equa distribuzione delle risorse e una cultura di pace che inviti a prendersi cura della nostra casa comune. È quello che papa Francesco ha inteso e intende fare anche con questo suo secondo viaggio in tre Paesi dell’Africa sub-sahariana. È quello che in molti non fanno. E non intendono fare. Perché non è comodo. Preferendo sfruttarla, l’Africa. Schiavizzarla, incendiarla e depredarla. Anche se continuare a saccheggiarla ci ripresenta sempre il conto. Salato. In termini umani, politici, sociali e ambientali. Che è proprio quello che ritorna a noi, duri ancora a comprendere che siamo tutti sulla stessa barca.
Proprio per questo oggi per noi vale quanto Francesco ha detto nella prima tappa del suo tour africano, rivolgendosi ieri alle autorità mozambicane: «Il perseguimento del bene comune dev’essere un obiettivo primario. È necessario seguire il percorso che porta al bene comune, favorire la cultura dell’incontro che conduce a cercare obiettivi comuni, valori condivisi, idee che favoriscano il superamento di interessi settoriali, corporativi o di parte, affinché le ricchezze della vostra nazione siano messe al servizio di tutti, specialmente dei più poveri». Si tratta cioè delle basi per un futuro di speranza, di dignità, di pace. Basi "urbi et orbi". E che necessariamente comprendono anche la cura della casa di tutti. «Da questo punto di vista - ha continuato quindi il Papa con un indirizzo valido non solo per il Mozambico - questa è una nazione benedetta, e voi in modo speciale siete invitati a prendervi cura di questa benedizione».
E ha aggiunto poi quanto aveva già espresso in altre latitudini all’inizio del 2018, in Perù, dando di fatto inizio al prossimo Sinodo sull’Amazzonia: «La difesa della terra è anche la difesa della vita, che richiede speciale attenzione quando si constata una tendenza a saccheggiare e depredare, spinta da una bramosia di accumulare che, in genere, non è neppure coltivata da persone che abitano queste terre, né viene motivata dal bene comune del vostro popolo». Dal Papa dunque arriva ancora una volta l’appello a una cultura di pace che implichi uno sviluppo produttivo, sostenibile e inclusivo «in cui ognuno possa sentire che questo Paese è suo, e in cui possa stabilire rapporti di fraternità ed equità con il proprio vicino e con tutto ciò che lo circonda». Del resto la visita apostolica in Mozambico, Madagascar e Mauritius si svolge, come la precedente in Kenya, Uganda e Repubblica Centrafricana, nel solco della Populorum progressio di san Paolo VI, per la quale lo sviluppo di una nazione non si riduce alla semplice crescita economica.
Perché per essere autentico lo sviluppo deve essere integrale, il che vuol dire «volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo». Enciclica oggi più profetica che mai, quella firmata da papa Montini nel 1967. Nella convinzione, sulla scia della Laudato si’, che l’edificazione di un ordine sociale giusto ed equo è strettamente legata a un rinnovato rapporto con l’ambiente, che esige cambiamenti strutturali e personali rispetto a quel paradigma imperante di sviluppo votato al dio denaro che produce scarti e trasforma il mondo in una discarica. In questi Paesi dell’Africa australe la crescita economica è stata evidentemente ostacolata dalla corruzione e dallo sfruttamento rapace delle risorse naturali.
A ciò si aggiunga la piaga dell’esclusione sociale, che penalizza fortemente i ceti meno abbienti. Ma c’è da rilevare che il Mozambico, uscito da una lunga guerra civile, è - come gli altri del continente - un Paese giovanissimo: oltre il 60% della popolazione ha meno di 25 anni e per questo guarda al futuro con speranza, non foss’altro perché le giovani generazioni sono quelle che invocano l’agognato cambiamento all’insegna della concordia e del bene condiviso. Il Papa perciò è attento a segnalare e promuovere tutti quei segni di speranza che pure ci sono, quegli sforzi che si stanno compiendo per la risoluzione dei conflitti, per uno sviluppo sostenibile, per il rispetto e la cura del Creato.
«Per usare un’espressione di san Paolo VI - ha fatto notare il segretario di Stato Pietro Parolin alla vigilia del viaggio -, si può dire che l’Africa è come un laboratorio di sviluppo integrale». Sottolineare proprio questa dimensione di speranza e di sguardo nuovo verso il futuro, a partire dai tanti segni positivi che ci sono all’interno del continente, ribalta così anche l’immagine oscura e reietta che tuttora resiste dell’Africa. Guardandola nelle sue possibilità, nelle sue potenzialità di sviluppo integrale che anche noi dobbiamo ancora realizzare
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SINODO per l’Amazzonia (in Vaticano, dal 6 al 27 ottobre 2019). Il tema è «Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale»
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Scenari.
Il filosofo senegalese Felwine Sarr: «L’Africa si riscatta da sè»
Nel suo ultimo libro "Afrotopia" l’intellettuale senegalese elabora un pensiero sul suo continente, fuori da stereotipi e luoghi comuni
di Simone Paliaga (Avvenire, giovedì 15 novembre 2018)
«Afro-pessimismo e afro-ottimismo sono sogni prodotti da altri», sostiene Felwine Sarr, classe 1972, co-direttore con Achille Mbembe degli “Ateliers de la Pensée” di Dakar e Saint-Louis e di recente nominato dal presidente Emmanuel Macron a capo della commissione per la restituzione delle opere d’arte ai paesi africani. Eppure il pensatore senegalese è molto di più. -Economista, filosofo, musicista e tanto altro, Sarr è uno degli intellettuali africani emergenti. I suoi sforzi provano a pensare l’Africa attraverso se stessa. Il grande continente, per Sarr, non deve essere più solo oggetto di pensiero ma il soggetto che propone da sé, a partire dalle sue tradizioni e culture, un proprio futuro coerente con la storia africana.
Lo si vede bene nel volume Afrotopia (pagine 134, euro 15,00) da poco pubblicato dalle Edizioni dell’Asino che sarà presentato, in occasione di Bookcity, domani alle ore 16.15, dalla traduttrice Livia Apa e da Silvia Riva nella Sala Lauree dell’Università degli Studi di Milano in via del Conservatorio 7.
Come è nata l’urgenza, professor Sarr, di scrivere Afrotopia? E cos’è l’Afrotopia?
«È nato dalla constatazione che i discorsi sull’Africa erano ormai stereotipati, ridotti a ripetere inesorabilmente sempre la stessa antifona. Tutti si erano arrogati il diritto di prescriverle come organizzare i propri spazi politici, economici e sociali. Era come se le più antiche formazioni sociali del mondo, quelle africane, non fossero in grado di pensare al loro destino e dargli una forma. Si riteneva il continente incapace di definire cosa significasse vivere bene insieme e quali equilibri desiderasse articolare negli ordini politici, economici, culturali ed ecologici. Afrotopia riprende in mano la produzione delle proprie categorie di senso, delle proprie metafore del futuro, con l’idea che se pensiamo e immaginiamo dei luoghi altri desiderabili, atopos appunto, possiamo farli accadere nel reale e nella trama della storia».
Come è possibile decolonizzare l’immaginario per riconquistare il potere di reinventare nuove metafore del futuro?
«Bisogna considerare che il mondo non è finito. Che le forme sono eternamente non finite e che il lavoro di reinvenzione del mondo sia una necessità. La democrazia, l’economia moderna, il rapporto con la natura delle società moderne sono in crisi e le forme che diamo alle nostre vite individuali e alle nostre avventure collettive devono essere reinventate. Si tratta quindi di rimuovere gli ostacoli concettuali che ci impediscono di vedere la pluralità di mondi e le potenzialità multiple della storia».
Pensa che l’Africa debba liberarsi dall’idea di sviluppo che detta regole e tempi del suo vivere?
«Lei si riferisce a un concetto che crede che l’unico modo per soddisfare i bisogni e affrontare le sfide sia quello che alcune società hanno sperimentato in qualche momento della loro storia, in uno specifico contesto e in una geografia data? E che quella risposta sia l’unica valida in ogni momento e in ogni luogo? Le modalità di risposta alle sfide poste alle società africane devono essere plurali e dare prova di inventività. Potrebbero, naturalmente, prendere in prestito in modo intelligente ciò che sentono di prendere in prestito, ma in nessun modo devono cadere in un mimetismo cieco perché per affrontare le loro sfide le società africane prima di tutto devono fare affidamento alle proprie grandi risorse culturali».
Lei sostiene che la sovranità culturale, intellettuale, politica è indispensabile per creare nuove metafore per il futuro. Può spiegare questa idea di sovranità?
«La sovranità intellettuale è la capacità di pensare in modo autonomo. E l’autonomia è diversa dalla autarchia. Si tratta di scegliere tra le opzioni offerte dal reale, dal pensiero, dall’esperienza umana, dall’immaginazione, quelle che si ritengono pertinenti per costruire il proprio presente e il proprio futuro».
Quali sono le caratteristiche di un progetto di civiltà proposto dall’Africa?
«Non lo so. In Afrotopia propongo di riaprire il cantiere e ridefinire un progetto di civiltà africano, fondandosi sulle proprie grandi risorse relazionali, culturali e sociali, per operare nuove sintesi in modo da realizzare le sue potenzialità felici perché esse esistono. Ma spetterà a ogni gruppo incastonato nel proprio contesto il compito di dare una forma precisa, politica, sociale, economica al progetto di civiltà che definirà da sé e per sé».
Per farlo occorre ripensare i concetti di culture africane che esprimono «il benessere e la convivenza», come ubuntu, la teranga, imihigo... Come si differenziano dai fondamenti del pensiero filosofico moderno che c’è dietro l’economia classica?
«La teranga più che l’ospitalità come modalità relazionale esprime l’idea di reciprocità presente nel bene donato. Imihigo è un concetto che proviene dalla storia del Ruanda mentre l’ubuntu con l’idea che “noi siamo perché io sono” esprime una concezione del soggetto e dalla sua relazione con il collettivo diversa da quella formulata dal pensiero europeo. Sebbene esistano degli universali, dobbiamo riconoscere ai gruppi la possibilità di elaborare delle innovazioni sociali e un’ingegneria sociale che gli sono proprie uscendo dall’idea che nulla di speciale, specialmente se positivo, accada in Africa, anche se siamo sempre pronti a riconoscere la creazione di innovazioni particolari ovunque».
Questi concetti possono essere efficaci al di fuori dell’Africa?
«Certo, come i concetti di altri paesi operano in Africa». Perché pensa che tutto si muova in una sola direzione?».
Che cosa intende quando parla della contemporaneità di più mondi? Allude alla fine della globalizzazione?
«No, quello che intendo dire è che c’è una non-linearità nelle dinamiche sociali e storiche. Diverse epoche, diverse modalità di essere sono contemporanee nel presente delle società africane. Regimi di produzione d’essere e di sociabilità non sono necessariamente sostituiti da altri ritenuti più moderni o attuali. Essi si sovrappongono nei palinsesti e danno una struttura più densa al tessuto sociale».
Così in cinese si scrive Africa.
Dove Pechino estrae materie prime, compra enormi terre ed esporta milioni di contadini. Puntando a farne il suo cortile
di Angelo Ricchiello (l’Espresso, 07.10.2018)
È un colonialismo soft. Ricco di promesse: investimenti, progresso, benessere. Accompagnato da un’immigrazione costante: ingegneri, tecnici, operai specializzati, agronomi.... Ma anche surplus demografico di contadini poveri rimasti ai margini del grande balzo, che Pechino vuole trasferire in massa nella nuova terra promessa. Il numero di immigrati cinesi in Africa superava il milione di unità già nel 2016; ma si tratta di una cifra probabilmente sottostimata, e comunque sette volte aumentata rispetto alle 160 mila unità del 1996. È un lusso migratorio imponente che dal 2012 è continuato senza sosta e che allarma i paesi occidentali abituati a dettare legge sul continente nero.
L’accesso a risorse naturali e agricole, il trasferimento di surplus manifatturiero in nuovi mercati, lo spostamento di manodopera a bassa scolarizzazione, le alleanze militari e le vendite di armi sono solo alcune delle ragioni di un fenomeno che appare inarrestabile se si pensa agli effetti deleteri causati dal sovrappopolamento, dall’inquinamento, dalle diseguaglianze sociali e dalle limitazioni alla libertà da cui scappano ogni anno migliaia di cittadini cinesi.
Una recente ricerca di una società di consulenza svizzera condotta su 353 dirigenti di varie nazionalità sulle ragioni dell’espansione cinese in Africa evidenzia, senza sorprese, che l’accesso alle risorse naturali è la causa principale delle scelte cinesi sul continente africano, seguita dall’entrata in nuovi mercati per trasferire l’enorme surplus di manufatti a basso costo (15 per cento). L’ultima delle motivazioni è il trasferimento di centinaia di milioni di contadini senza lavoro che battono alle porte delle metropoli cinesi per partecipare alla grande crescita in cui è coinvolto il paese da decenni, ragione sottovalutata che cela invece i grandi rischi che corre il potere di Pechino.
Gli investimenti cinesi in Africa non sembrano arrestarsi. Nel dicembre 2015 il presidente Xi Jinping prometteva agli stati africani 60 miliardi di dollari in prestiti e aiuti, ossia nuove opportunità di emigrazione per i cinesi. Nel 2011 il Parlamento cinese discuteva una proposta di trasferimento di 100 milioni di cinesi in Africa. Nello stesso periodo, secondo alcune fonti, funzionari di Pechino elaboravano un piano per inviare nel continente africano 300 milioni di persone per risolvere gli enormi problemi di sovrappopolamento e inquinamento del paese e allo stesso tempo per trasformare l’Africa in una neo-colonia del XXI secolo.
I primi immigrati cinesi storicamente documentati arrivano in Sudafrica con la Compagnia olandese delle Indie Orientali verso la fine del ’600. Un manipolo di detenuti e schiavi giunge in quelle colonie nella prima metà XIX secolo seguito da un piccolo numero di lavoratori e artigiani. Prima una rapida crescita. Poi, negli ultimi tre anni, l’esplosione. Questo l’andamento dell’espansione economica cinese nel mondo.
L’Africa è il terzo Paese di destinazione degli investimenti di Pechino dopo Asia e Europa. E, a stare ai dati del Brookings Institute, nel mondo è la Nigeria, il serbatoio petrolifero africano, il Paese che riceve il maggior numero di risorse cinesi: cinque di quei 60 miliardi che la Cina si impegnò a investire in diverse forme nel 2015 e che ha rinnovato quest’anno per altri tre anni.
Ma con l’aumento dei progetti infrastrutturali sono schizzati in alto anche i debiti contratti dagli africani verso la Cina, legandone indissolubilmente l’avvenire. Se il debito keniota è aumentato di dieci volte in cinque anni quello dell’Angola è addirittura per oltre il 50 per cento in mano cinese. Un modello di sviluppo economico e di espansione globale talmente consolidato che è ormai noto sotto il nome di “trappola del debito”. E mentre gli stessi Stati Uniti hanno consegnato il venti percento del loro debito estero nelle mani di Pechino (1.180 miliardi di dollari) prima che Donald Trump optasse per una drastica politica di riequilibrio degli interscambi a costo di scatenare una guerra mondiale del commercio, nella trappola del debito è già scivolata una buona parte degli oltre 80 Paesi che partecipano alla Bri, l’iniziativa “Belt and Road”. Questo piano cinese di investimenti infrastrutturali lanciato nel 2016 mira a connettere fisicamente ed economicamente una serie di Paesi che si trovano lungo un duplice asse terrestre e marittimo che da Pechino
Così si sono comprati il futuro Zambia, un capo cinese controlla due suoi dipendenti Le moderne migrazioni cinesi in Africa fondano le loro radici nella politica internazionale di Mao Zedong degli anni Cinquanta con uno scopo puramente politico, ossia promuovere la solidarietà anticoloniale e postcoloniale con i paesi africani di recente indipendenza. Ma Mao è storia e le odierne tendenze migratorie cinesi verso l’Africa sono legate alla liberalizzazione dell’emigrazione nel 1985 mirano alla ricerca del profitto e non più alla diffusione di valori di “fratellanza e solidarietà”.
Si tratta perlopiù di migranti provenienti dalla provincia dello Zhejiang - gli stessi che popolano via Paolo Sarpi a Milano, l’Esquilino a Roma e il distretto tessile di Prato - piccoli imprenditori e commercianti che in Africa stabiliscono attività nel commercio al dettaglio di beni prodotti in Cina con pochi capitali e con buoni collegamenti con produttori in Cina grazie ai quali riescono ad aprire centinaia di piccoli negozi, identici l’uno all’altro, dove si vendono manufatti a basso costo, dall’abbigliamento ai piccoli elettrodomestici, dai giocattoli alle biciclette, che in alcuni casi si trasformano in grossi centri all’ingrosso come a Johannesburg e Yaoundé.
La crescita delle comunità commerciali cinesi in Africa crea una domanda di lavoro che richiede e incoraggia altra migrazione dalla Cina, molta della quale entra illegalmente in territorio africano approfittando della corruzione e dell’inefficacia delle agenzie responsabili del controllo delle frontiere e delle immigrazioni, motivi che lasciano pensare che quel milione di cinesi in Africa sia una cifra largamente sottostimata. L’atteggiamento delle popolazioni locali è spesso sospettoso, negativo, nei confronti dei cinesi, definiti come “predatori” e “neocolonialisti” . A complicare la questione, è l’isolamento e la natura chiusa delle comunità e degli immigrati cinesi rispetto alle popolazioni ospitanti che portano la popolazione locale a credere che si tratti di schiavi o prigionieri trasferiti dalla Cina oppure di agenti del Partito comunista cinese.
Anche i rapporti diplomatici tra gli stati africani e il governo cinese svolgono un ruolo importante, poiché mentre i rapporti bilaterali possono essere buoni, gli stretti legami con un particolare governo possono essere visti negativamente dall’opposizione politica e da una parte dei suoi cittadini.
È il caso dello Zimbabwe, dove Pechino si è sempre schierata per l’ex dittatore Mugabe nonostante le sanzioni internazionali per l’espropriazione violenta e senza indennizzi di buona parte delle tenute degli agricoltori bianchi. È il caso del Sudan dove la Cina minaccia di veto il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per bloccare l’adozione di sanzioni politiche per fermare una guerra civile che dura da 40 anni e che porta il paese nella più grave crisi umanitaria del pianeta. O della Guinea, dove il feroce dittatore Camara lancia una campagna di stupri e massacri contro cui le Nazioni Unite chiedono un’azione mentre il China International Fund firma un accordo di 7 miliardi di dollari con il dittatore.
Eppure, la Cina non si occupa solo di dittatori e despoti africani. Il dragone è capace di dialogare anche con economie democratiche e in condizioni economiche relativamente buone come il Botswana, il Sudafrica e Mauritius, per cui è evidente che non sussiste una questione morale o politica finché ci sono prospettive di profitto e tornaconto.
Gli sviluppi demografici dei paesi africani e della Cina si muovono in direzioni opposte. L’Africa è un continente giovane con metà della popolazione sotto i 20 anni che entra gradualmente nella forza lavoro. La fertilità è elevata e la mortalità infantile è diminuita grazie alla diffusione di migliori servizi sanitari e all’istruzione che oggi raggiungono vasti strati della popolazione. La tendenza demografica della Cina risulta oggi molto diversa: solo il 20 per cento della popolazione cinese ha meno di 19 anni. Il calo delle nascite è attribuibile alle note ragioni che hanno innescato lo stesso processo nei paesi industrializzali: l’istruzione, il controllo delle nascite e l’urbanizzazione.
Da anni la Cina gode di una fonte inesauribile di manodopera in tanto che i salari si mantengono bassi per l’enorme disponibilità di contadini e lavoratori a basso costo delle aree rurali, ma l’inversione di tendenza è palese e mette in crisi le stesse aziende. Le imprese cinesi, infatti, sono prossime al giro di boa della competitività e iniziano a perdere terreno nei confronti di altre economie emergenti, così come accaduto nel passato ad altre econo mie asiatiche come il Giappone.
Oltre all’invecchiamento della popolazione e la minore disponibilità di forza lavoro a basso costo, i fattori che spingono le aziende cinesi a migrare verso lidi migliori sono tanti e diversi: dal 2001 il costo della manodopera nelle imprese manifatturiere è aumentato del 12 per cento annuo, un incremento letteralmente vertiginoso, il costo dell’elettricità subisce un andamento analogo nel periodo 2004-2014 crescendo del 66 per cento, come pure il gas naturale che raddoppia al 138 per cento. Ai fattori puramente economici se ne aggiunge uno di primaria importanza, sebbene poco considerato, ovvero la nascita di una giovane classe imprenditrice che comprende le dinamiche internazionali e sa guidare un’impresa.
Le ragioni della migrazione cinese in Africa non sono necessariamente coordinate da un unico regista, seppure autoritario e dirigista. È lecito supporre che migliaia di cittadini cinesi scappino dal proprio paese per sfuggire agli effetti deleteri causati dal sovrappopolamento, dall’inquinamento, dalle diseguaglianze sociali e dalle limitazioni alla libertà, fenomeno migratorio che non deve dispiacere il governo di Pechino che si ritrova così meno bocche da sfamare, meno famiglie da strappare dalla povertà, meno rischi di rivolte, e infine un’economia più sostenibile e più patrocinabile.
La necessità delle aziende cinesi di delocalizzare i propri impianti produttivi a causa degli aumenti dei costi di produzione prossimi ai livelli medi dei paesi industrializzati può trovare soddisfazione in Africa, purché le istituzioni africane riescano a creare condizioni appropriate per trasformare i due miliardi di africani attesi nel 2050 nel più grande mercato del pianeta e, parallelamente, a incentivare le imprese cinesi in Africa a frenare il lusso migratorio dalla Cina e a impiegare le competenze locali per sradicare dal continente la povertà.
La Cina svolge un ruolo ragguardevole nel percorso di sviluppo dei paesi africani e non c’è dubbio che la sua inluenza sul continente continui a crescere parallelamente all’aumento dei flussi commerciali e degli aiuti economici imponendo a migranti di stabilirsi permanentemente sul continente. Nessuno può escludere che l’invasione cinese dell’Europa possa realizzarsi dalle coste dell’Africa mediterranea e non più dalla già dissestata “nuova Via della seta”.
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Così si sono comprati il futuro
di Federica Bianchi (l’Espresso, 07.10.2018)
Prima una rapida crescita. Poi, negli ultimi tre anni, l’esplosione. Questo l’andamento dell’espansione economica cinese nel mondo. L’Africa è il terzo Paese di destinazione degli investimenti di Pechino dopo Asia e Europa. E, a stare ai dati del Brookings Institute, nel mondo è la Nigeria, il serbatoio petrolifero africano, il Paese che riceve il maggior numero di risorse cinesi: cinque di quei 60 miliardi che la Cina si impegnò a investire in diverse forme nel 2015 e che ha rinnovato quest’anno per altri tre anni.
Ma con l’aumento dei progetti infrastrutturali sono schizzati in alto anche i debiti contratti dagli africani verso la Cina, legandone indissolubilmente l’avvenire. Se il debito keniota è aumentato di dieci volte in cinque anni quello dell’Angola è addirittura per oltre il 50 per cento in mano cinese. Un modello di sviluppo economico e di espansione globale talmente consolidato che è ormai noto sotto il nome di “trappola del debito”. E mentre gli stessi Stati Uniti hanno consegnato il venti percento del loro debito estero nelle mani di Pechino (1.180 miliardi di dollari) prima che Donald Trump optasse per una drastica politica di riequilibrio degli interscambi a costo di scatenare una guerra mondiale del commercio, nella trappola del debito è già scivolata una buona parte degli oltre 80 Paesi che partecipano alla Bri, l’iniziativa “Belt and Road”.
Questo piano cinese di investimenti infrastrutturali lanciato nel 2016 mira a connettere fisicamente ed economicamente una serie di Paesi che si trovano lungo un duplice asse terrestre e marittimo che da Pechino porta in Europa passando per l’Asia centrale, l’Africa occidentale, la Grecia, ino ad arrivare a Venezia. L’obiettivo dichiarato dallo stesso presidente Xi Jinping - in una celebre vignetta del sudafricano Zapiro, ritratto mentre spinge un carrello della spesa con dentro il continente africano sotto la dicitura “Takeaway cinese” - è un nuovo modello di governo economico globale che lentamente sostituisca il crescente isolazionismo americano. I cinesi detengono oggi quote proprietarie nei due terzi dei 50 principali porti commerciali mondiali; le banche di Pechino hanno finanziato più centrali elettriche di qualsiasi altro Paese e le sue società di telecomunicazioni stanno costruendo una fitta “strada digitale della seta” composta da una rete di satelliti connessi a una ragnatela di cavi ottici terrestri.
Sono già otto i Paesi del network Bri che hanno un problema di insostenibilità del debito: oltre allo stato di Gibuti, il cui debito è passato dal 50 all’85 per cento in due anni, il Kirghizistan, il Tagikistan, il Laos, le Maldive, la Mongolia, il Montenegro e il Pakistan.
Recentemente però non tutti i progetti stanno andando nella direzione auspicata da Pechino. Con il cambio di governo nei regimi democratici molti investimenti faraonici considerati inutili e dannosi cominciano ad essere cancellati. Pioniera è stata la Malesia che ha rinunciato pubblicamente a quei 20 miliardi cinesi siglati dal primo ministro precedente, cacciato nelle urne. Ora ci sta provando il nuovo governo pakistano di Imran Khan.
Anche l’Europa, target privilegiato dello shopping aziendale cinese, ha deciso, seppur in ritardo, di muoversi, allarmata dalla “piattaforma di cooperazione 16+1”, lanciata da Pechino a luglio in Bulgaria. Si tratta di un piano di cooperazione economica tra 16 paesi dell’Europa orientale - i 9 dell’Unione, i 5 dei Balcani più Macedonia e Albania - che rischia di spaccare in due l’Europa lungo la sua faglia più debole. L’Alto rappresentante Federica Mogherini ha risposto il mese scorso con una contro iniziativa che offre investimenti, stavolta economicamente sostenibili e non dannosi all’ambiente, a un Continente, quello asiatico, bisogno di 1300 miliardi in infrastrutture all’anno. Resta da vedere se si tratta di una timida mossa difensiva o l’inizio di un vero contrattacco.
Quando la Chiesa amava tutti gli uomini esclusi gli africani
Il libro di un prete nigeriano svela il ruolo dei papi nella pratica dello schiavismo fino al 1839 di Rita Monaldi Francesco Sorti (La Stampa 12.11.17
I papi hanno abusato della Bibbia per lucrare sul traffico di schiavi». Queste parole non vengono da qualche autore di thriller trash a base di scandali vaticani, ma da uno storico serio che sul tema vanta una doppia legittimazione. È nigeriano (quindi partie en cause) e soprattutto è un prete cattolico. Si chiama Pius Adiele Onyemechi ed esercita da 20 anni il suo ministero in Germania, nella regione del Baden-Württemberg.
La sua innovativa indagine The Popes, the Catholic Church and the Transatlantic Enslavement of Black Africans 1418-1839 (pp. XVI/590., €98 Olms, 2017), che tra gli storici già suscita discussioni, capovolge il vecchio dogma secondo cui il Papato è stato sostanzialmente estraneo alla più grande strage di tutti i tempi: la tratta degli schiavi. Una tragedia secolare che - come ricorda il grande scrittore danese Thorkild Hansen nella sua classica trilogia sullo schiavismo - ha seminato oltre 80 milioni di morti.
Una sorpresa
Proprio in questi mesi la prestigiosa Accademia delle Scienze di Magonza ha concluso un colossale progetto di ricerca sulla storia della schiavitù durato ben 65 anni, con la collaborazione di studiosi di primo piano come il sociologo di Harvard Orlando Patterson (egli stesso discendente di schiavi) e lo storico dell’antichità Winfried Schmitz. Quasi a suggello è arrivato il libro di don Onyemechi: una radiografia minuziosa del ruolo dei papi nel commercio di schiavi in Africa dal XV al XIX secolo, l’epoca dorata del business schiavistico. Per la prima volta a suon di date, fatti e nomi don Onyemechi punta il dito su responsabilità morali e materiali, avviando un regolamento di conti col passato proprio nel momento in cui la Chiesa di Roma, nella sua tradizione secolare di sostegno ai più deboli, chiama alla solidarietà verso i migranti. Come riassume l’autore, i risultati «fortemente sorprendenti» venuti alla luce «affondano un dito nelle ferite di questo capitolo oscuro della Storia, e nella vita della Chiesa cattolica».
«La Chiesa», spiega il religioso, «ha abusato del passo biblico contenuto nel capitolo 9 della Genesi», in cui si afferma che tutti i popoli della terra discendono dai figli di Noè: Sem, Cam e Iafet. Dopo il diluvio, Cam rivelò ai fratelli di aver visto il padre giacere ubriaco e nudo. Noè maledisse Cam insieme a tutti i suoi discendenti, condannandoli a diventare servi di Sem e Iafet. La Chiesa allora affermò che gli africani sarebbero i discendenti di Cam. Pio IX, ancora nel 1873, inviterà tutti i credenti a pregare affinché sia scongiurata la maledizione di Noè pendente sull’Africa.
Documenti scomparsi
Nel nostro romanzo Imprimatur abbiamo reso noto il caso di Innocenzo XI Odescalchi (1676-1689), che possedeva schiavi, era in affari con mercanti negrieri e vessava i forzati in catene sulle galere pontificie. I documenti che lo provano, pubblicati nel 1887, sono poi misteriosamente scomparsi. Certo, nel Seicento i moderni diritti umani erano di là da venire, ma poi papa Odescalchi è stato beatificato nel 1956, e in predicato per la canonizzazione nel 2002.
Di simili contraddizioni don Onyemechi ne ha scovate a migliaia. Il commercio di schiavi in origine toccava Cina, Russia, Armenia e Persia; mercati internazionali si tenevano a Marsiglia, Pisa, Venezia, Genova, Verdun e Barcellona. Col tempo queste rotte sono tutte scomparse, tranne quelle africane. Come mai? Sarebbe stata la Chiesa a giocare il ruolo decisivo, raccomandando a sovrani e imperatori di «preferire» schiavi africani. Lo fecero vescovi e perfino Papi come Paolo V.
La giustificazione veniva non solo dalla Bibbia ma anche da Aristotele, per il quale alcuni popoli erano semplicemente «schiavi per natura». Una visione poi ripresa da San Tommaso e dall’influente facoltà teologica di Salamanca nel XV e XVI secolo. Padri della Chiesa come Basilio di Cesarea, Sant’Ambrogio, Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo e lo stesso Sant’Agostino invece giustificavano la schiavitù come frutto del peccato originale.
Il Portogallo
A metà del XV secolo il portoghese Niccolò V concesse al suo Paese di origine il diritto di evangelizzare, conquistare e deportare «in schiavitù perenne» gli africani, bollati come nemici della Cristianità insieme ai saraceni (che in verità erano ben più pericolosi e martoriavano, loro sì, i regni cristiani). I successori Callisto III, Sisto IV, Leone X e Alessandro VI non fecero altro che confermare e ampliare i diritti concessi al Portogallo. Altri Pontefici (Paolo III, Gregorio XIV, Urbano VIII, Benedetto XIV) nelle loro Bolle ufficiali si schierarono contro la schiavitù degli Indiani d’America, ma non contro quella degli africani.
Dallo schiavismo la Chiesa ha avuto un concreto ritorno economico. Attivissimi i missionari portoghesi e soprattutto i gesuiti, che compravano gli schiavi per impiegarli nelle loro piantagioni in Brasile e nel Maryland. Oppure li rivendevano con la loro nave negriera «privata», che trasportava la merce umana da Congo, Luanda e São Tomé verso il Brasile.
Don Onyemechi cita il contratto con cui nel 1838 il Provinciale dei Gesuiti del Maryland, Thomas Mulledy, vendette 272 schiavi africani. Prezzo: 115.000 dollari al «pezzo». L’evangelizzazione consisteva per lo più nel battezzare in fretta e furia gli schiavi prima di imbarcarli. Anzi, tutto il meccanismo faceva sì che essi venissero tenuti ben lontani dalla parola di Cristo. I profitti venivano reinvestiti in nuove campagne di aggressione e deportazione.
Riconoscimento tardivo
«Solo nel 1839 la Chiesa ha riconosciuto gli africani come esseri umani al pari di tutti gli altri», ricorda lo storico di origine nigeriana. Lo sancì una Bolla di Gregorio XVI, in verità piuttosto tardiva: i commerci di schiavi erano stati già aboliti da quasi tutti gli Stati tra 1807 e 1818 e gli Inglesi ne avevano preso le distanze sin dalla fine del Settecento. Don Onyemechi ha lavorato su fonti originali nell’Archivio Segreto Vaticano e negli archivi di Lisbona (per decifrare i manoscritti lusitani ha imparato da zero il portoghese) e ha dato un contributo duraturo (realizzato con routine teutonica ogni giorno dalle 3 alle 8 del mattino) alla ricerca della verità storica. A Roma non dovrebbe riuscire sgradito, vista l’attenzione di papa Francesco - anche lui gesuita - per i popoli d’Africa.
Nota aggiunta.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ABRAHAM LINCOLN E GLI STATI UNITI DI AMERICA, OGGI: LA LEZIONE DI STEVEN SPIELBERG.
UBUNTU: "Le persone diventano persone grazie ad altre persone".
"CHI" SIAMO: LA LEZIONE DEL PRESIDENTE MANDELA, AL SUDAFRICA E AL MONDO.
JOSEPH KI-ZERBO: APPUNTI SULLA STORIA DELL’AFRICA E DELL’UMANITA’ *
Spero che dopo che avro’ parlato non saro’ piu’ uno straniero e avro’ dato e ricevuto qualche cosa.
Mi piace considerare l’Africa come un discorso, perche’ questo mi ricorda la forza, l’energia, la ricchezza che sono nella parola creatrice, nel verbo. E se l’Africa e’ come un discorso che e’ stato scritto dai nostri antenati, dobbiamo sapere che la storia non e’ terminata, che il discorso va proseguito.
Ho avuto la fortuna di studiare il latino: Cicerone, Sallustio, Tacito. Eppure mi rendo conto che cio’ che e’ importante non e’ quello che abbiamo imparato in latino, ma cio’ che abbiamo dimenticato in africano. Dobbiamo considerare la storia autoctona, non quella che ci hanno imposto da fuori.
Cio’ che contraddistingue l’uomo dagli altri animali non e’ tanto il presente, quanto le altre due dimensioni della storia, cioe’ il passato e il futuro. La storia, infatti, non e’ soltanto il passato; essa e’ come un motore a tre tempi: il tempo del presente non e’ abbastanza significativo, qualificante, indicatore dell’umanita’. Gli animali sono molto concentrati sul presente. Per esempio il fatto che alcuni quadrupedi abbiano la testa rivolta verso il suolo indica l’importanza che ha per loro il presente del qui ed ora.
Un momento decisivo nella storia dell’umanita’ fu quello in cui l’uomo assunse la posizione eretta, e cio’ e’ avvenuto in Africa. Questa tappa dell’evoluzione e’ considerata come un inizio di liberazione dell’uomo.
Infatti prima di allora l’uomo era costretto a dedicarsi completamente al presente. Ma dal momento in cui ha assunto la posizione eretta ha potuto finalmente utilizzare le sue mani, e attraverso di esse iniziare la sua civilizzazione. Nel frattempo la parte inferiore del cranio ha assunto dimensioni piu’ piccole dando spazio all’encefalo, che si e’ accresciuto, ed egli ha imparato a guardare altrettanto bene davanti e dietro di se’, cioe’ a contemplare il suo passato e a prevedere il suo avvenire.
Gli avvenimenti che conosciamo, confermati dalla recente scoperta in Ciad di un cranio risalente a 7 milioni di anni fa, ci dicono che la storia e’ iniziata in Africa ben prima che in altri continenti.
Non dobbiamo studiare la storia per contemplare il passato, bensi’ per incontrare noi stessi. Il processo evolutivo e’ una parte essenziale della nostra identita’ e se recuperiamo la storia lo facciamo anche per i nostri posteri, per i nostri discendenti, per i nostri nipoti.
Questa storia non e’ di nostra proprieta’, e’ di proprieta’ del mondo. Essa e’ in accordo con la concezione africana della proprieta’, che non e’ fondata soltanto sulla dimensione del presente, ma evoca gli antenati - per esempio con la concezione della terra che appartiene agli avi - e contempla ancora di piu’ i discendenti, i figli, ai quali viene trasmessa.
Io penso che cio’ che ci interessa oggi della storia e’ proprio questa capacita’ di reinvestire il passato nel presente e nell’avvenire. Non per riprodurre la storia in maniera meccanica e robotica, non per dare vita a dei cloni delle societa’ africane di un tempo, ma per fondarci credibilmente sulle nostre proprie radici, senza esserne schiavi. Ho appena terminato di scrivere un saggio dal titolo "Storia critica dell’Africa nera" - inserito nell’opera piu’ vasta "Storia critica dell’umanita’" - il cui scopo e’ quello di determinare i periodi di rottura e i periodi di ascesa della storia africana. Non vogliamo coltivare la recriminazione e l’odio, ma rifondarci e ritrovare la nostra identita’.
Nella storia africana - come in quella europea - ci sono stati dei periodi di ascesa e di sviluppo, cosi’ come periodi di decadenza, a volte infernale. Ma questi periodi di rottura erano i nostri. Per centinaia di migliaia di anni, fino al XV secolo, l’Africa - anche quella sahariana - si e’ evoluta, tanto da essere alla pari con le civilta’ di altri continenti, o addirittura alla loro testa.
Il termine "preistoria", inventato dai miei colleghi europei, non e’ esatto. Io non lo accetto. Esso si basa sul presupposto che fino a che un fatto non e’ riportato per iscritto esso non puo’ essere considerato come un fatto storico, ma preistorico. Io preferisco definirlo protostorico. Dal momento in cui c’e’ l’uomo c’e’ storia. Non c’e’ motivo per considerare preistoria il momento in cui l’umanita’ ha inventato la parola, l’arte, la religione, l’agricoltura. E’ ridicolo. Dovremmo dire che tutti i popoli che ancora oggi sono analfabeti e che non hanno una cultura scritta sono dei popoli preistorici, e questo non ha senso.
In Africa ha dunque avuto inizio la storia dell’umanita’, che e’ poi proseguita nell’antico Egitto, nella cui civilta’ ritroviamo molti elementi religiosi e della struttura sociale propri dell’Africa nera. L’Africa ha continuato a svilupparsi fino al XIV-XV secolo. In questo periodo alcuni grandi imperi africani potevano rivaleggiare con l’Europa.
Le statistiche dimostrano che le capitali dell’impero del Mali e del Ghana erano piu’ popolate di quanto lo fosse Londra nello stesso periodo. Ho condotto personalmente una ricerca sulla densita’ della popolazione scolastica in quei tempi nella regione: tra i cittadini liberi l’insegnamento primario era piu’ diffuso di quanto non lo fosse in Europa nello stesso periodo. Vi invito di approfondire questo argomento nella mia "Storia dell’Africa nera".
Non e’ per non parlare degli orrori, ma in Africa esistevano molti fattori positivi di sviluppo in ogni campo, anche in quello del diritto. Possiamo per esempio citare un motto che esprime uno dei fondamenti del diritto pubblico di quel tempo: non e’ il re che ha la sovranita’, ma e’ la sovranita’ che ha il re. Cio’ significa che ci sono delle norme superiori che si impongono a tutta la comunita’, a cominciare dal principale responsabile, che e’ appunto il sovrano.
C’erano inoltre dei sistemi di riproduzione sociale, per la formazione e la trasformazione delle societa’ ed esistevano dei veri e propri istituti per la formazione specifica, per esempio dei griot, coloro i quali avevano l’incarico di tramandare la memoria storica.
I miei ascoltatori si stupiscono sempre quando racconto che l’inno nazionale del Mali di oggi e’ un antico canto del XIII secolo intonato dalla madre di Sundiata, un ragazzo handicappato. Per riscattare l’onore della madre, derisa dalle altre donne del villaggio, Sundiata si ripropose di drizzarsi e di camminare correttamente e quando riusci’ a farlo, sorreggendosi al bastone che la madre gli aveva donato, ella intono’ un canto, che oggi, dopo sette secoli, e’ ancora importantissimo, tanto da essere l’inno nazionale del Mali. Si tratta di una narrazione in cui il mito si unisce alla storia.
Anche l’Africa dunque ha avuto l’idea di reinvestire il passato nel presente per il futuro. Personalmente ho la sensazione che una delle cause interne del rallentamento dello sviluppo in Africa sia da ricercarsi nella disponibilita’ di spazi immensi; quando all’interno delle societa’ nascevano dei contrasti essi venivano risolti con la partenza di coloro che erano in minoranza. Questa soluzione era favorita dalla certezza che dovunque fossero andati avrebbero trovato una terra e che avrebbero avuto diritto al territorio su cui si fossero insediati. Tutti gli "stranieri" che arrivavano avevano diritto al suolo, poiche’ non esisteva il concetto di "proprieta’ privata". La terra era una proprieta’ collettiva a disposizione degli autoctoni e degli stranieri. Dunque i conflitti non venivano risolti con la guerra, ma in maniera "orizzontale", attraverso l’allontanamento di una parte della comunita’ e delle ragioni del contrasto.
Al contrario, nella Valle del Nilo e nell’antico Egitto lo spazio era limitato; qui le contraddizioni non potevano essere risolte sfruttando le terre circostanti, ma solo attraverso la guerra, o attraverso le innovazioni tecnologiche, o ancora attraverso la riorganizzazione sociale. Si e’ cosi’ passati ad un livello di societa’ superiore a causa dei conflitti e attraverso i conflitti. I conflitti africani interni all’Africa sono sempre stati risolti dagli africani stessi e hanno portato alla configurazione di grandi realta’ sociali e politiche come l’Impero del Mali o l’Impero del Ghana, cosi’ come sono descritti dagli scrittori arabi o dagli stessi scrittori africani del XV, XVI e XVII secolo.
Alcune carte geografiche europee del tempo mostrano l’imperatore del Mali seduto su un trono, con la dicitura "Re del Mali", a testimonianza del fatto che esso veniva considerato alla pari di un qualsiasi altro sovrano.
L’imperatore del Mali e in seguito quello del Ghana andando in pellegrinaggio alla Mecca portavano con se’ tonnellate di oro, tanto da influenzare il prezzo del prezioso metallo in tutta la regione. Il re del Ghana era considerato il "re dell’oro". Si trattava dunque di una regione molto sviluppata dal punto di vista economico, dove si producevano anche merci con valore aggiunto, come tessuti, oggetti metallici, vetro. In alcune importanti citta’, ad esempio della Nigeria, si produceva cosi’ tanto che l’intera regione fu soprannominata la "Bisanzio nera".
Quando i primi portoghesi arrivarono in Congo, essi rimasero talmente impressionati al cospetto del re che lo salutarono e gli resero omaggio come se si trattasse del proprio re.
Sono solito dire che l’incontro tra Africa ed Europa fu un incontro storicamente mancato, perche’ le cose potevano andare ben diversamente. Quando il re congolese Alfonso chiese dei tecnici europei per l’educazione, le infrastrutture, le costruzioni, ci si e’ rifiutati di inviarglieli. Lui desiderava importare dall’Europa cio’ che avrebbe potuto migliorare la situazione del suo regno, ma gli e’ stato rifiutato qualsiasi aiuto, perche’ in quel periodo iniziava la tratta degli schiavi.
Re Alfonso si era convertito al Cristianesimo ed era molto rispettoso dei principi della religione cattolica, che faceva osservare anche con la forza; aveva favorito la distruzione degli oggetti di culto e delle scritture legate alle tradizioni degli antenati. Ma malgrado tutto egli non si e’ meritato la fiducia di coloro che lo avevano convertito, al punto che essi tentarono di ucciderlo durante la celebrazione di una messa pasquale, perche’ i negrieri lo volevano.
Lo stesso Vasco De Gama commise molte atrocita’, organizzo’ e diresse non pochi massacri, alla pari dei conquistatori del continente americano, perche’ voleva a tutti i costi impedire agli arabi di dominare l’Oceano Indiano.
L’Africa non ha potuto costruire la sua storia beneficiando di un dialogo autentico con l’Europa, un dialogo che favorisse una vera civilizzazione. I progressi civili tecnici e materiali dell’Europa erano nettamente superiori, e l’Europa ne ha approfittato per molto tempo, al pari di quanto ha fatto con altri continenti.
L’Europa ha ricevuto molto da ogni parte del mondo: dall’Africa; dal Medio Oriente, che ha rappresentato l’anello di congiunzione tra la cultura greco-romana e l’Europa occidentale (molti testi greci arrivarono infatti in occidente proprio grazie agli arabi); dall’Estremo Oriente, con i cinesi, dai quali hanno preso la polvere da sparo. Questa e altre invenzioni sono state portate in Europa, dove gli europei vi hanno aggiunto la loro creativita’. Cosi’ si e’ arrivati all’invenzione delle armi da fuoco, che in Africa hanno fatto la differenza, anche se il continente era gia ridotto alla sottomissione a causa della schiavitu’.
I quattro secoli di tratta degli schiavi hanno letteralmente bloccato l’Africa, ma hanno fatto meno danni di quanti ne ha fatti un secolo di colonizzazione, sia perche’ a quel punto gli europei disponevano di mezzi tecnicamente troppo superiori, sia perche’ si tratto’ di una vera e propria sostituzione della civilizzazione africana da parte di quella europea, in tutti i campi, religioso, politico, culturale.
La tratta degli schiavi rappresento’ una profonda ferita nel corpo dell’Africa, ma il condizionamento fu piu’ marginale, e il sistema africano resto’ strutturato secondo la propria tradizione.
Durante la colonizzazione invece l’Africa smise di vivere e di produrre per se stessa, e il concetto di sviluppo endogeno fu completamente abolito. Ha servito gli altri invece di servire se stessa, in vista di un cambiamento o di un’evoluzione, che avrebbero potuto compiersi, nel bene o nel male, e che le furono impediti, almeno fino alle lotte di liberazione, negli anni Sessanta. Le indipendenze furono in buona parte delle false "liberazioni"; il neocolonialismo ha infatti sostituito il colonialismo, e ancora oggi non possiamo dire che il colonialismo e’ stato sradicato in Africa.
Non voglio terminare in un’ottica afropessimista. L’Europa ha portato molti elementi positivi: la scienza, la religione, la coscientizzazione, le lingue, attraverso le quali possiamo attingere all’enorme ricchezza culturale e intellettuale a livello mondiale. Tutto questo pesa in modo positivo sul piatto della bilancia. Ma quello che noi avvertiamo ancora oggi e’ che per la massa della popolazione - non per i privilegiati che hanno potuto emergere, per gli intellettuali, come me, che hanno potuto beneficiare di questa eredita’ positiva - ma per la stragrande maggioranza della gente, la bilancia continua a pendere dalla parte negativa.
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-LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA.
Supplemento domenicale de "La nonviolenza e’ in cammino".
Numero 105 del primo aprile 2007
[Riproponiamo questo testo gia’ apparso nel n. 358 de "La nonviolenza e’ in cammino": apparsi su "Chiama l’Africa news" del 13 settembre 2002 questi "Appunti sulla storia dell’Africa e dell’umanita’" sono ricavati dall’incontro con Joseph Ki-Zerbo svoltosi a Roma l’11 settembre 2002]
JOSEPH KI-ZERBO: CI HANNO RUBATO L’INDIPENDENZA *
E’ l’Africa della fame. Delle guerre infinite. Del debito. Dei bambini soldato. Dello sfruttamento dei minori. Della maledizione dei diamanti e dell’oro. Di multinazionali senza scrupoli. Delle medicine che mancano. Dei dirigenti politici legati solo al potere. Dell’informazione negata. Ma e’ anche l’Africa della speranza, del sogno per un domani migliore.
E’ l’Africa per cui, oggi, tanti intellettuali, politici e missionari continuano a sostenere che l’unica soluzione al problema sia una nuova colonizzazione. Joseph Ki-Zerbo, storico del Burkina Faso, sposta il tiro e dice senza mezzi termini: "Altro che nuova colonizzazione, qui ci hanno rubato l’indipendenza".
Per parlare dell’Africa bisogna conoscerla. Bisogna esserci nati. Bisogna conoscerne a fondo i problemi e la loro origine.
Ecco che, allora, quando si incontrano persone come Ki-Zerbo, non si puo’ rimanere insensibili al suo modo di raccontare i problemi dell’Africa. Un continente senza segreti. Almeno per uno come lui.
"Solidarieta’ internazionale": Tutti dicono che l’Africa ha grandi problemi. soprattutto di convivenza; c’e’ stata la guerra dei Grandi Laghi, quella tra Etiopia ed Eritrea, c’e’ la situazione del Sudan, c’e’ la guerra civile in Sierra Leone; perche’ succedono tutte queste cose?
Joseph Ki-Zerbo: Ritengo che in primo luogo sia per via di una situazione che e’ stata gestita male sin dall’inizio. Tutto cio’ che accade oggi era prevedibile. Si puo’ dire che la decolonizzazione e’ stata fatta male o per niente. Il peccato originale risale al momento dell’indipendenza africana. Ci si e’ accontentati delle apparenze dell’indipendenza, ovvero dei segni esterni come lo sviluppo macroeconomico, la democrazia tramite le istituzioni, le assemblee, le elezioni e i partiti multipli. I problemi dell’Africa non sono stati posti in profondita’ in modo sostanziale. E non e’ sorprendente raccogliere questi frutto oggi. Dunque, non bisogna credere che tutto cio’ accade per caso e, soprattutto, non bisogna trasferire le colpe attuali alle presunte incapacita’ congenite degli africani, della "razza" e di non so quali inattitudini fondamentali. Penso ai conflitti e penso alla pace. La pace e’ qualcosa di fondamentale che ha un ruolo su tutti gli altri aspetti, dallo sviluppo alla democrazia.
"Solidarieta’ internazionale": Quando ci fu l’indipendenza negli anni ’60, c’erano in Africa grandi uomini come Lumumba, Kenyatta, Nyerere; cosa e’ successo? Perche’ la presenza di questi personaggi non ha significato un’evoluzione positiva della democrazia?
Joseph Ki-Zerbo: Molto spesso gli uomini piu’ grandi sono stati contrastati. Non li hanno lasciati agire nella loro ricerca dell’unita’, che ritengo sia un’altra condizione fondamentale per lo sviluppo africano.
"Solidarieta’ internazionale": Perche’ l’unita’ non e’ riuscita?
Joseph Ki-Zerbo: Faccio un riferimento storico. Prima del referendum del settembre 1958 che doveva sancire, in Guinea, la scelta tra l’indipendenza immediata e la nascita di una comunita’ franco-africana, De Gaulle disse ai cittadini queste precise parole: "se volete l’indipendenza prendetevela, la Francia non fara’ nessuna opposizione". Ebbene, quando gli abitanti della Guinea hanno scelto l’indipendenza, la Francia ha reagito e li ha puniti. Come? Togliendo tutta l’assistenza tecnica francese da un giorno all’altro. Tutti gli insegnanti, tutti gli ingegneri, i medici, gli amministratori. Tutto.
"Solidarieta’ internazionale": Cosa significava?
Joseph Ki-Zerbo: Che si voleva uccidere l’indipendenza. Cio’ ci fa capire che non c’era sincerita’ ma ipocrisia. E, come oggi, c’e’ l’ipocrisia nell’aiuto, anche umanitario. Io stesso, insieme ad altri tecnici africani, siamo andati in Guinea per sostituire le persone tolte. Per fare questo ho dovuto abbandonare la mia carriera di insegnante a Dakar. Ci avevano chiesto aiuto per dimostrare che l’Africa poteva camminare con le proprie gambe e si meritava l’indipendenza. Ma dietro c’era una grande inganno. Al momento di lasciare le nostre terre - lasciare per rimanere - gli europei avevano smantellato le strutture federali che avevano installato durante la colonizzazione. Erano le uniche strutture che avrebbero permesso ai Paesi africani di essere vivibili, validi e credibili.
"Solidarieta’ internazionale": Perche’ gli europei hanno distrutto cio’ che ritenevano necessario mentre loro stessi stavano li’?
Joseph Ki-Zerbo: Porto ad esempio un fatto che ho vissuto in prima persona. Ho assistito, nel 1964, alla distruzione del muro che simboleggiava la frontiera tra il Ghana e l’Alto Volta. Distruggere questo muro significava abolire le barriere. Per tutta risposta, i francesi hanno minacciato che non volevano questa unione tra due stati africani. Era loro interesse dividere i popoli. Se prendiamo la mappa dell’Africa, vediamo che ci sono tanti popoli cosi’ tanto mescolati e senza barriere. Perche’? I popoli sono sempre vissuti cosi’ gli uni con gli altri. Con molti matrimoni misti, con molte guerre e conflitti ma c’era un equilibrio permanente che ha consentito di attraversare i secoli. Ci sono state guerre, ovviamente, ma non erano distruttive come quelle di oggi con le armi che ci sono adesso. Non solo i kalashnikov ma armi piu’ terribili, comprese le bombe anti-persona. Oggi mancano sia l’equilibrio che l’unita’.
"Solidarieta’ internazionale": Che senso ha lo Stato in Africa?
Joseph Ki-Zerbo: No, non ci sono ancora dei veri e propri stati. In qualche posto ci sono degli inizi, delle approssimazioni di stato. Per stato va inteso un bene comune superiore. Lo stato ha bisogno di un certo spazio, di una certa capacita’ di sostenersi materialmente e fisicamente. Si parla sempre di stato nazionale; lo stato non e’ una struttura puramente fisica che si puo’ impiantare con tranquillita’ dall’Europa all’Africa come un organo. C’erano degli stati tradizionali in Africa che hanno attraversato i secoli. Ad esempio, lo stato Moussi nel Burkina Faso, che e’ presente dal XV secolo con continuita’. E se oggi lo stato nel Burkina Faso dovesse sparire, posso garantire che lo stato Moussi continuera’ a vivere. Il grosso problema in Africa e’ la presenza dello stato illegittimo, dello stato che non e’ bene comune. Un bene comune che e’ diventato rapidamente il bene dei poteri forti. Ci sono delle direzioni di stati africani che sono delle vere e proprie organizzazioni mafiose: vendono armi per raccogliere diamanti, oro e droga. Lo stato legittimo e’ il bene del popolo. Chi e’ il popolo? E’ l’etnia, e’ la nazione, la micronazione.
"Solidarieta’ internazionale": Qual e’ il concetto di etnia in Africa?
Joseph Ki-Zerbo: E’ un concetto manipolato dagli europei. I colonizzatori hanno costruito delle etnie per i loro interessi laddove non esistevano etnie. Basta pensare che il Ruanda e il Burundi, prima della colonizzazione, erano due stati-nazione in preparazione. Quando c’era una guerra tra il Burundi e il Ruanda, i tutsi e gli hutu ruandesi lottavano insieme contro i tutsi e gli hutu burundesi. Quindi, questi due stati-nazione in preparazione trascendevano dal riferimento alle etnie. Invece, gli europei hanno seminato il seme per aizzare gli hutu contro i tutsi che avevano convissuto per ben quattro secoli, dimostrando di poter essere stabili tra loro. Nel loro equilibrio e’ stato trapiantato il paradigma della gerarchia delle razze. I belgi sono venuti con questo concetto: prima ci sono i bianchi, dopo i tutsi, poi gli hutu e i batwa. Cio’ ha fatto prendere una coscienza infelice tra gli hutu e un complesso di superiorita’ tra i tutsi, i quali erano gli unici scelti per ricoprire incarichi di vescovi, ufficiali nell’esercito e amministratori. Ecco il punto. Penso che le realizzazioni pre-coloniali, che avevano i loro difetti, sono state distrutte o messe da parte. I colonizzatori hanno voluto ricostruire da zero facendo tabula rasa, come se l’Africa non avesse realizzato nulla prima. Adesso e’ tardi. Perche’ a un capo di stato che ha imparato ad essere onorato come un dio e’ difficile fargli cambiare idea.
"Solidarieta’ internazionale": Qualcuno dice che tutte le ricchezze, i diamanti, l’oro, ecc., siano una maledizione per l’Africa...
Joseph Ki-Zerbo: Si’, tutto dipende dall’uso che se ne fa. Le risorse naturali sono delle risorse ma non delle ricchezze. La ricchezza e’ gia’ un riferimento all’essere umano. Non ci sono ricchezze di per se’. Il problema si pone quando tutte le risorse naturali vengono accaparrate da un’unica persona e vanno considerate quindi delle ricchezze personali. Ho sempre detto che bisogna trasformare le risorse naturali in ricchezza nazionale.
"Solidarieta’ internazionale": Allora il problema e’ trasformare la risorsa in ricchezza?
Joseph Ki-Zerbo: Si’. Ma vede, ad esempio, e’ cio’ che diciamo spesso durante le conferenze: e’ il Consiglio di sicurezza che ha nominato un comitato per fare un rapporto sulle armi nella Sierra Leone, nella Liberia, e abbiamo trovato tracce delle azioni di Compaore’. Quando si vedono cose del genere bisogna fare qualcosa ma l’Unione Europea continua ad agire inosenso contrario. Appena un militare prende il potere non si riconosce lo stato, ma non appena ci sono alcuni mesi di stabilita’ lo stesso stato viene riconosciuto. E’ una commedia. Non si dovrebbero accettare queste cose, ma oggi Compaore’ viene messo quasi sullo stesso piano di Nelson Mandela. E’ assurdo. Si parla di risorse e di ricchezze quando Compaore’ riceve armi provenienti dall’Europa centrale e da trafficanti francesi o americani. Armi che poi vengono convogliate in Liberia e in Sierra Leone e in cambio si ricevono diamanti. Cittadini del Burkina Faso, mandati a combattere in Liberia a fianco di Charles Taylor, hanno scritto in un volantino diffuso a Ougadougou: abbiamo lottato la’ e ci hanno promesso denaro in cambio ma non abbiamo riscosso il nostro stipendio; abbiamo incontrato Taylor e ci ha detto di aver rispettato il contratto dando i diamanti a Compaore’. Ebbene, non posso garantire che sia la verita’ totale ma, come si dice, non c’e’ fumo senza arrosto. Purtoppo, e’ la trasformazione delle risorse in armi per la distruzione del popolo, della nazione e dello stato. Prima va definito lo sviluppo. E prima ancora bisogna porre il problema dell’identita’. Chi siamo? Non abbiamo risposta a questa domanda. Se fosse stata posta all’inizio, forse si poteva fare qualcosa. Se lo sviluppo e’ endogeno si vedrebbe bene che non si puo’ sviluppare senza un minimo di spazio. Nel mondo, oggi, non si puo’ fare un’economia industriale senza un minimo di spazio, di popolazione. Dieci milioni di cittadini del Burkina Faso corrispondono a 100.000 italiani in termini di potere di acquisto. Con 100.000 persone e’ conveniente edificare un’industria? Per questo le nostre industrie funzionano al venti per cento. In piu’ va detto che una grande multinazionale produce piu’ di dieci-quindici paesi africani. Le multinazionali, in Africa, stanno rappresentando il potere. Ad esempio, il direttore generale della Elf a Brazaville conta piu’ di un console.
"Solidarieta’ internazionale": Quindi il minimo di spazio significa che bisogna superare gli stati che ci sono adesso...
Joseph Ki-Zerbo: Non distruggere gli stati ma federarli. Aiutarli a capire che bisogna negoziare insieme, ossia avere un piano federale di sviluppo e comprendere che occorre una divisione intra-africana del lavoro industriale, agricolo e di ricerca scientifica. Su quest’ultimo aspetto gli africani non possono inventare nulla. E’ sulla divisione del lavoro che si puo’ fare molto nel rapporto con l’esterno, L’Africa deve essere in grado di individuare quale spazio potra’ prendere sul mercato mondiale, ma dopo aver fatto una divisione interna del lavoro economico, seguendo i vantaggi comparativi di ogni singolo paese. C’e’ lavoro per tutti in Africa ma occorre dividerlo per essere efficaci e competitivi.
"Solidarieta’ internazionale": Quindi per prima cosa c’e’ il minimo di spazio come condizione per lo sviluppo?
Joseph Ki-Zerbo: Si’. Poi c’e’ il minimo di conoscenza e di sapere. Cito un dato allarmante: in Burkina Faso c’e’ il settanta per cento di analfabeti. Si dice che la vera risorsa e’ la conoscenza. Tanto per capire, quelli che usufruiscono dei diamanti sono coloro che detengono la conoscenza. Quando si parla di minimo di conoscenza, bisogna spiegare questo concetto e spiegarlo nei particolari. Il minimo di conoscenza e’ usare la lingua africana per l’alfabetizzazione.
"Solidarieta’ internazionale": Ma le lingue africane sono numerose...
Joseph Ki-Zerbo: Non e’ una questione di numero, l’importante e’ l’apprendimento. Prendete ogni lingua a parte. In questa specifica lingua c’e’ abbastanza gente che puo’ insegnare agli altri a leggere e scrivere. Perche’ si usa il francese? Con quale diritto nel mio paese si usa il francese per insegnare a leggere e scrivere?
"Solidarieta’ internazionale": Si’, ma in uno stesso paese ci sono piu’ lingue e quindi e’ difficile esprimersi gli uni con gli altri...
Joseph Ki-Zerbo: Anche in Europa ci sono paesi con piu’ lingue. Comunque, voglio sottolineare che non sono contro il francese. Racconto una mia esperienza. Dirigevo l’educazione nazionale nel mio paese e abbiamo voluto introdurre le lingue africane all’inizio di un programma di educazione. Due, tre anni, come fanno gli anglofoni nel Ghana e nella Nigeria. In questi paesi c’e’ piu’ alfabetizzazione rispetto a quelli francofoni perche’ la gente comunica con le lingue africane. Nella lettura e nella scrittura ci sono tre elementi: suono, segno e senso. Se venite con il francese nel mio paese, dove nessuno parla questa lingua, e volete insegnare alla gente a leggere e scrivere, bisogna affrontare tre difficolta’, appunto. Ad esempio, per la parola "padre", la gente non conosce ne’ il suono, ne’ il segno, ne’ il senso. Nella lingua locale padre si dice "di"; si conosce il suono e il senso, rimane da imparare solo il segno. E’ tutto piu’ rapido. Apprendere le cose in questo modo non esclude lo studio del francese. I bambini riescono ad imparare due-tre lingue in fretta ma cosi’ vengono costretti a una lingua estranea. Risultato: poca gente apprende il francese e tutti gli altri non sanno ne’ leggere ne’ scrivere. Anche nella mia famiglia ci sono persone analfabete. Non e’ possibile. Se avessimo usato la lingua africana la situazione sarebbe diversa. I nostri fratelli del Ghana stanno meglio di noi e si svilupperanno piu’ in fretta.
"Solidarieta’ internazionale": Qual e’ la sua lingua?
Joseph Ki-Zerbo: Si chiama il San ma a me hanno vietato di impararla. Cosi’ parlo bene il francese ma quando parlo nella mia regione mi vergogno del mio livello di conoscenza, elementare, della lingua materna.
"Solidarieta’ internazionale": Ha parlato di Compaore’ e di tutte quelle attivita’ legate alle armi e ai dimanti, e ha detto che l’Unione Europea fa come se niente fosse. Allora, a partire dai nostri politici, cosa deve fare l’Unione?
Joseph Ki-Zerbo: C’e’ un approccio repressivo e uno positivo. Il primo e’ quello di essere inflessibili sulla questione dei diritti umani. Quando le tv dicono che ci sono popoli interi che vengono presi in ostaggio dai signori della guerra, bisogna essere categorici e dire che il diritto di ingerenza e’ stato applicato male. Bisogna studiare un po’ meglio questo diritto di ingerenza, cioe’ la controparte della non assistenza ai popoli. Spesso, quando si danno sanzioni non si e’ giusti e non si punisce allo stesso modo. E’ certo che gli Stati Uniti applicano le sanzioni in modo iniquo e unilaterale. Con Israele, ad esempio, non si agisce come si e’ fatto con l’Iraq.
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[Dal sito www.cipsi.it riprendiamo la seguente intervista a Joseph Ki-Zerbo a cura di Eugenio Melandri e Alessandro Cerreoni apparsa nella rivista del Cipsi "Solidarieta’ internazionale" (mancano ulteriori indicazioni).
Eugenio Melandri, religioso saveriano, giornalista, gia’ parlamentare europeo, impegnato nei movimenti di pace, di solidarieta’, contro il razzismo, per la nonviolenza; e’ tra i principali animatori di "Chiama l’Africa". Opere di Eugenio Melandri: segnaliamo almeno I protagonisti, Emi, Bologna 1984. Un ricordo di Ki-Zerbo scritto da Eugenio Melandri e’ nel n.
45 di queste "Minime".
Alessandro Cerreoni, giornalista d’impegno civile, si occupa di difesa dell’ambiente, diritti umani e dei popoli, solidarieta’ internazionale]
* LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA.
Supplemento domenicale de "La nonviolenza e’ in cammino". Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it Numero 105 del primo aprile 2007
Cresciuto nel contesto rurale del suo villaggio natale, nella parte settentrionale del paese, è figlio di Alfred Ki-Zerbo (da alcuni considerato il primo cristiano dell’Alto Volta) e Thérèse Folo Ki. Lo stesso Joseph afferma che l’ambiente contadino, nel quale ha trascorso i primi undici anni della sua infanzia, ha influenzato profondamente la sua personalità. La sua radice africana, la sua concezione di grande famiglia ed il suo rapporto con la natura affondano le origini proprio in quel periodo.
Allievo di alcune scuole delle missioni cattoliche nella regione: prima a Toma (tra il 1933 ed il 1940), poi a Pabré, a Faladié nel Mali ed infine presso il seminario di Koumi dove riceve un’educazione di livello superiore. Finito tale periodo di formazione, si reca a Dakar dove, contemporaneamente all’insegnamento, si dedica a diversi mestieri come buona parte degli emigranti nella città: è impiegato presso le ferrovie e lavora per il settimanale cattolico Afrique Nouvelle. Consegue la maturità all’età di 27 anni e, grazie all’elevato punteggio, ottiene una borsa di studio a Parigi dove si reca, nel 1949, per studiare storia presso la Sorbona e presso l’Institut d’Etudes Politiques. Al termine degli studi sostiene un concorso che opera una selezione di insegnanti per le scuole di grado superiore francesi.
Ki-Zerbo, ancora studente, avvia la propria attività politica: cofondatore e presidente dell’Associazione degli studenti dell’Alto Volta in Francia (1950-1956) prima, poi dell’Associazione degli studenti cattolici, africani, antillesi e malgasci. In questo periodo matura il suo pensiero combattivo e anticolonialista: nel 1954 pubblica un’articolo, intitolato Cercasi nazionalisti, nella rivista cattolica Tam-Tam. In quell’epoca conosce intellettuali quali lo storico senegalese Cheikh Anta Diop e Abdoulaye Wade, esponente di spicco della politica e futuro capo dello stato (dal 2000) del Senegal.
A Bamako conosce Jacqueline Coulibaly, figlia di un noto sindacalista del Mali e sua futura sposa. Il suo impegno sindacalista risale a questo periodo. É professore di storia a Orleans e a Parigi prima di insegnare presso un liceo di Dakar. Nel 1957 Ki-Zerbo fonda il Movimento di liberazione nazionale (MLN) presentando il manifesto a Kwame Nkrumah, il primo presidente del Ghana. Il programma politico del MLN è conciso e chiaro: indipendenza immediata, creazione degli Stati Uniti d’Africa e socialismo. Di questo periodo l’impegno del Movimento in una campagna d’opposione al referendum di Charles de Gaulle, condotta nei principali paesi dell’Africa occidentale. Tra questi solo in Guinea-Conakry prevale il no al referendum e si impone l’indipendenza immediata. L’allora presidente Sékou Touré chiama Ki-Zerbo con moglie e collaboratori in Guinea-Conakry per organizzare la sostituzione degli insegnanti francesi richiamati in patria.
Nel 1960 Joseph Ki-Zerbo rientra in Alto Volta giustificando la sua dipartita al presidente Touré con motivazioni inerenti alla necessità di dover proseguire nella lotta indipendentista in altre aree della regione. Si ferma per qualche anno ad insegnare ad Ouagadougou in quanto primo insegnante per scuole secondarie del paese. Nel 1965 viene nominato direttore generale dell’Educazione, della Gioventù e dello Sport. In seguito riveste ruolo di docente alla università della capitale del Paese. Cofondatore e segretario generale del Consiglio africano e malgascio per l’insegnamento superiore (CAMES), ne è membro dal 1967 al 1979. Ki-Zerbo pubblica diversi scritti inerenti la cultura e la storia africana; in tali publicazione espone il suo pensiero e le sue idee sociali. Nel 1963 redige un manuale di didattico di storia e nel 1972 pubblica il celebre Histoire de l’Afrique noire, des origines à nos jours, opera di riferimento sulla storia africana in cui espone concetti rinnovati ed in antitesi con la descrizione riduttiva, discriminante e razzista in auge al tempo nella cultura europea.
Ki-Zerbo sostiene e comprova, nella sua opera, che l’Africa avesse raggiunto un elevato sviluppo sociale, politico e culturale prima del declino del continente determinato in buona parte anche dalla tratta degli schiavi prima dal colonialismo poi. L’impegno politico di Ki-Zerbo prosegue: l’MLN trova e recluta adesioni tra i sindacati, gli insegnanti ed i contadini in particolare creando, di fatto, un fronte popolare di opposizione al regime di Maurice Yaméogo che aveva vietato i partiti politici. Il 3 gennaio 1966 il presidente Yaméogo cade grazie all’MLN. Ki-Zerbo si presenta alle elezioni legislative del 1970 ed il suo partito ottiene alcuni seggi. Nel 1974 un colpo di stato militare vanifica tali progressi democratici.
Tra il 1972 ed il 1978 Ki-Zerbo è membro del consiglio dell’UNESCO e lavora, per conto della stessa organizzazione, alla storia dell’Africa in otto volumi intitolata Histoire générale de l’Afrique. Nel 1980 fonda il Centro studi per lo sviluppo africano (CEDA) e sulla base di una attenta analisi critica dell’imperialismo conia il concetto di sviluppo endogeno.
Tra il 1983 ed il 1992, trascorre un periodo in esilio, in quanto maggiore oppositore del governo rivoluzionario di Thomas Sankara insediatosi nel 1983. L’anno successivo l’Alto Volta diventa Burkina Faso, Ki-Zerbo e moglie vengono condannati a due anni di detenzione per frode fiscale e la loro biblioteca incendiata. Nel periodo di esilio fonda il Centro di ricerca per lo sviluppo endogeno (CRDE), insegna e presta opera come ricercatore presso l’Istituto fondamentale dell’Africa nera (IFAN) a Dakar.
Nel 1992 Ki-Zerbo e moglie rientrano in Burkina Faso, il cui sistema politico intanto è mutato, e fonda il Partito per la democrazia e il progresso (PDP) che, alle elezioni del 1997, ottiene il 10,1% dei voti diventando il maggiore partito di opposizione con Ki-Zerbo deputato. Nello stesso anno ottiene il premio Nobel alternativo (Right Livelihood Award). Nel 1998, tuttavia, egli rassegna le dimisssioni da deputato a seguito dell’omicidio del giornalista Norbert Zongo.
Nel 2000 riceve il permio Kadhafi e, l’anno successivo, la laurea honoris causa dall’università di Padova.
Joseph Ki-Zerbo, storico e politico, ma soprattutto intellettuale africano che ha coniugato scienza e azione politica, non si è limitato a proseguire la carriera scientifica, ma, attento osservatore degli avvenimenti, ha preso posizione per mutare l’ordine delle cose in Africa.
Joseph Ki-Zerbo muore il 4 dicembre 2006 nel Ouagadougou, il capitale di Burkina Faso.
Bibliografia
Storia dell’africa nera: un continente tra la preistoria e il futuro, Einaudi, Torino: 1977 (ed or. fr. Histoire de l’afrique noire. D’hier à demain, Hatier, Paris: 1972)
A quando l’Africa? Conversazioni con René Holenstein, Editrice Missionaria italiana (EMI), Bologna: 2005 (ed or. fr. Á quand l’Afrique? Entretien avec René Holenstein, Édition de l’Aube, La Tour d’Aigues: 2003)
INTERVISTA Parla lo studioso ivoriano Serge Bilé: «Per raccontare il mondo subsahariano è necessario uno sguardo non occidentale»
Africa nera, una storia da riscrivere
«Gli storici africani sono di grande livello ma gli archivi non sono stati restaurati e i nostri governi non investono in questo settore. Bisognerebbe occuparsi meno di temi come lo schiavismo per riuscire a guardare oltre»
di Chiara Zappa (Avvenire, 30.06.2007)
Gli africani devono cominciare a riscrivere la storia. Quella dell’Africa, ma anche quella globale. Solo così potranno «decostruire l’immagine negativa legata ad antichi pregiudizi e proporre un nuovo punto di vista con cui guardare gli eventi, passati e presenti». Proprio per questo Serge Bilé, giornalista e documentarista ivoriano, si è occupato di argomenti come la detenzione di cittadini neri nei campi nazisti o la schiavitù in Sud America, ma anche il contributo degli africani al martirologio cristiano. Bilé interviene in questi giorni a Torino al primo Festival della Cultura contemporanea africana, nel corso del quale verrà presentato, tra l’altro, proprio il film Neri nei campi nazisti, diretto dallo stesso autore e tratto dal volume omonimo pubblicato in Italia da Einaudi.
Esiste oggi, nel tempo degli influssi globali, una cultura che possa essere definita in modo specifico "africana"?
«Direi che abbiamo due realtà diverse legate alla cultura africana: da una parte ci sono quegli scrittori, registi, giornalisti e intellettuali che sono nati e lavorano in Africa e che hanno una sensibilità particolare legata alla loro appartenenza. Dall’altra, però, abbiamo tutti quegli esponenti di origine africana che per vicende diverse si sono formati e vivono in Europa. Questa generazione di intellettuali sta provando a leggere l’attualità, che sia legata all’Africa o al resto del mondo, con un occhio particolare, e ha cominciato ad occuparsi del passato mettendo in luce nuovi fenomeni della storia europea che sono sempre stati interpretati in modo unilaterale, o addirittura sono rimasti completamente in ombra. Si tratta di una nuova tendenza culturale che si sta sviluppando diversamente in vari Paesi Europei, come la Francia ma anche l’Italia, e che riveste un interesse notevole».
Qual è il ruolo di queste "culture africane" all’interno del contesto internazionale?
«Viviamo in un mondo senza più regole, dove tutto è misurato in relazione al potere d’acquisto. Eppur e è sempre più evidente che esiste un tipo di ricchezza umana che non è economica, ma che la cultura occidentale non sembra in grado di comprendere. In Africa, sebbene il continente sia oggettivamente vittima di una serie di mali, esiste invece una diffusa modalità particolare, che io definisco appunto umana, di guardare le cose. C’è una forza positiva che a volte sorpassa in modo incredibile il contesto tragico. Mi vengono in mente quelle persone che, magari a causa della loro opposizione alle dittature, passano anni in prigione e poi, quando tornano in libertà, sono di nuovo pronte a impegnarsi e a credere in un progetto per un futuro migliore».
C’è allora una responsabilità specifica degli intellettuali africani in ordine all’emancipazione del loro stesso popolo?
«Una responsabilità straordinaria. Per secoli abbiamo subìto che la nostra storia fosse scritta da altri, e questo ha voluto dire anche lasciare spazio a falsi miti, pregiudizi, forme diverse di razzismo. È ora che facciamo sentire la nostra voce, per decostruire l’immagine negativa e distorta che è stata data dei nostri popoli e delle vicende che li hanno riguardati e li riguardano e anche per dimostrare quanto essi abbiano dato. E il mezzo per far questo è avere un nostro sguardo sugli eventi e soprattutto cercare storie che dimostrino la fondatezza di tale sguardo. Proprio da questo spirito sono mosse le mie ricerche, ad esempio, sul ruolo dei cittadini africani nel contesto della Seconda guerra mondiale».
Su molti fatti storici legati all’Africa, e in particolare al colonialismo, gli studi più noti a livello internazionale si devono però ad autori europei o nordamericani: questo denota una carenza da parte della ricerca africana? O forse la mancanza di spazi e opportunità per esprimersi?
«In Africa abbiamo avuto e abbiamo storici di altissimo livello, ma è vero che spesso sono in difficoltà, o addirittura impossibilitati, a fare il proprio lavoro. Esistono archivi ricchi di materiale legato ad e sempio ai grandi imperi africani, ma mancano perfino i mezzi materiali per restaurare gli archivi. Per fare storia servono anche cospicue risorse economiche, e gli stessi governi africani non investono a sufficienza in questo settore. C’è poi un altro elemento: in questi decenni buona parte delle ricerche e degli studi portati avanti da autori di origine africana si sono concentrati sullo schiavismo e sulle sue conseguenze per le società nere. Temi senza dubbio importanti, ma il problema è che abbiamo dimenticato tutto il resto. Oggi, quindi, dobbiamo essere capaci di andare oltre».
wole soyinka
Tentativi di rimarginare le ferite aperte dell’Africa
«Le religioni africane non sono mai state aggressive e non appartiene loro l’idea di jihad o di crociata. Eppure hanno condizionato persino le religioni "forti" come il cattolicesimo. E un’altra lezione proviene dall’universo spirituale africano: il riconoscimento che gli dei sono il frutto della creazione umana»
di Giuliano Battiston *
Raccontano le cronache che quando, nel 1960, in occasione delle celebrazioni per l’indipendenza della Nigeria, il giovane Wole Soyinka venne chiamato a mettere in scena A Dance of the Forests - un’opera scritta per «avvertire del pericolo di sostituire una dominazione esterna con una interna» - il suo lavoro sollevò un tale fuoco incrociato di critiche da rasentare l’ecumenismo: le autorità nigeriane si risentirono per i riferimenti agli abusi di potere e alla corruzione dei politici; gli intellettuali legati alla ricchissima tradizione teatrale locale lamentarono un uso spregiudicato delle tecniche drammaturgiche europee a discapito di quelle autoctone, mentre i «marxisti» denunciarono il carattere oscuro ed elitario dell’opera. Al di là delle critiche, però, tutti si resero conto di avere a che fare con un autore davvero straordinario, capace di attingere in maniera disinvolta ma pienamente consapevole a serbatoi stilistici, tematici e compositivi di tradizioni culturali diverse e di tirarne fuori opere tanto incisive e originali da mettere in crisi consolidate - e in molti casi inservibili - categorie interpretative e di genere, così come di individuare e tracciare percorsi artistici inediti.
Da allora, il drammaturgo nigeriano ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra i quali il premio Nobel per la letteratura nel 1986, ma a dispetto del prestigio e della fama di cui gode nel mondo, sembra ancora rifuggire ostinatamente ogni tentativo di «canonizzazione», alimentando la sua visione artistica, al di là di ogni filiazione esclusiva, con i codici espressivi e gli strumenti culturali che ritiene più opportuni, muovendosi in un andirivieni fertile e inesausto tra scrittura saggistica, autobiografica, poetica e drammaturgica, e svincolandosi dalla morsa di quanti, in particolare nel mondo anglosassone, vorrebbero riconoscere nel suo caratteristico eclettismo e nella capacità di attraversare confini disciplinari un’anticipazione dell’ibridazione postmoderna. Soprattutto, continua da un lato a provocare il risentimento dei politici nigeriani, impegnandosi in prima persona nella faticosa costruzione di un’autentica democrazia nel suo paese, libera dal dispotismo autocratico delle élite politiche e dalle corporation multinazionali eredi del colonialismo; e dall’altro a mettere in guardia contro i pericoli dell’uso politicamente opportunistico dello «zelotismo» religioso e contro il «monologo isolazionista» e isterico di quelle grandi potenze che, sfornando pericolosi «mantra politici», accecano il mondo e ci conducono in un asfissiante «clima di paura».
Invitato dagli organizzatori di Mediterranea, il Festival Intercontinentale della Letteratura e delle Arti che quest’anno è ispirato al tema I mille volti della pace - e che si concluderà il prossimo 21 luglio - abbiamo incontrato Wole Soyinka a Roma, per discutere con lui del suo lavoro.
Secondo alcuni interpreti, la sua riscrittura-adattamento delle «Baccanti» di Euripide, costruita attraverso una contaminazione sincretistica tra costellazioni culturali diverse, quella Yoruba, quella classica e la stessa tradizione cristiana, rappresenta un esempio paradigmatico del suo intero lavoro. Ritiene corretta l’interpretazione di quanti individuano proprio nel sincretismo l’elemento principale della sua attitudine estetica?
Innanzitutto occorre precisare cosa intendiamo con la parola contaminazione, che in inglese è connotata in senso negativo. Se assumiamo, come mi sembra faccia lei, che significhi qualcosa di molto simile a ciò che si intende con sincretismo, allora direi che in un certo senso la vista stessa è un’esperienza «contaminata», sincretica, anche quando si vive internamente, senza incontrare mai una «cultura» diversa o un altro sistema di valori. Intendo dire che anche dall’interno della nostra vita ci troviamo costantemente a misurare e riadattare il nostro mondo alla luce dell’incontro con gli altri esseri umani. Da questo punto di vista, dunque, esiste un elemento di sincretismo anche nel mio lavoro, ma non direi che questa attitudine rappresenti il principio fondante della mia visione estetica. Anzi, direi che sono del tutto in disaccordo con questa interpretazione.
Il suo lavoro è fortemente influenzato dalla cultura Yoruba, ma questo ancoraggio alla «tradizione» sembra essere usato non per affermare un’identità culturale esclusiva, quanto, piuttosto, per dimostrare la permeabilità tra culture diverse, in altri termini come uno strumento per indagarne potenzialità simboliche e risorse mitologiche comuni. È così?
Gran parte della questione di cui parliamo può essere compresa e spiegata tornando indietro alle esperienze della mia infanzia, e in particolare al mio primo contatto con la letteratura Yoruba, vale a dire la lettura del romanzo di D.O. Fagunwa Ogboju Ode Ninu Igbo Irunmale, che ho tradotto in seguito come The Forest of a Thousand Demons. Il mio primo significativo contatto con la letteratura inglese invece è passato per la Medea di Euripide, dalla cui lettura, che feci quando ero ancora molto piccolo, emersero subito delle similitudini con alcune caratteristiche di Ogboju Ode Ninu Igbo Irunmale, e mi riferisco all’incontro e allo scontro di passioni radicali, ai tradimenti e alle vendette. In seguito, quando ho avuto modo di approfondire la conoscenza della letteratura, sono arrivato a riconoscere che l’umanità è comune, e che questo sfondo comune può essere rintracciato anche tra le divinità. Scoprii infatti delle forti similitudini tra il pantheon Yoruba e quello greco, e da questa scoperta è derivato il mio interesse per le religioni comparate, che mi ha portato a studiare il mondo indù e differenti metodi di meditazione e di contemplazione. Grazie a tutto questo mi sono convinto che, a prescindere da alcuni diversi modi di esprimere i fenomeni, come la relazione dell’uomo con gli elementi soprannaturali, a parte dunque alcuni dettagli di tipo culturale, l’attitudine degli individui verso le divinità è la stessa a ogni latitudine. Avendo avuto chiaro in mente, sin dalla mia prima infanzia, l’esistenza di questa correlazione e similitudine, ho usato elementi del mondo Yoruba per sottolineare il melting pot delle caratteristiche umane.
Questa attenzione agli elementi che attraversano culture diverse sembra costituire una delle ragioni per le quali lei ha sempre criticato quanti sostenevano la Negritudine, un movimento - da lei descritto come una forma di «neo-tarzanismo» - che secondo la sua analisi tenderebbe alla cristallizzazione identitaria. Quali sono le ragioni della sua contrarietà?
Oggi ritengo che la Negritudine abbia rappresentato un movimento in un certo senso inevitabile, e non è affatto sorprendente che sia maturato nel mondo francofono piuttosto che in quello anglofono. Che sia emerso anche nel mondo lusitano, nelle colonie portoghesi, dipende dal fatto che i portoghesi avevano lo stesso approccio coloniale dei francesi, i quali ritenevano che, dopo una opportuna colonizzazione culturale, dalle colonie africane sarebbero potuti uscire dei piccoli «francesi» ben educati, mentre gli inglesi sono stati sempre convinti che gli africani non avrebbero mai potuto aspirare alla cultura britannica. In questo senso, se l’attitudine alla liberazione culturale era molto forte nei paesi francofoni, in quelli anglofoni invece era forte l’orientamento verso la liberazione di tipo politico. Comunque, nella formulazione della Negritudine, la cui agenda si riferiva innanzitutto a una liberazione e a un rinascimento culturale, il concetto di Negritudine venne esasperato e diventò semplicistico, finendo con l’avallare l’idea della differenza tra la razionalità europea e l’emotività degli africani. Nel corso del tempo le diverse posizioni, compresa la mia, sono ovviamente mutate, ma mi sembra che siamo arrivati molto vicini a comprendere la Negritudine come un fenomeno storico che ha espresso elementi già esistenti in Africa: i veri africani, coloro che non sono stati «de-culturati», privati della loro cultura, sapevano esattamente chi fossero, quali fossero i loro valori, possedevano il proprio modo di attribuire significato alla realtà, avevano i loro regni, i loro scienziati e la loro tecnologia, per quanto rudimentale potesse essere. L’idea che la Negritudine proponesse qualcosa di veramente nuovo è difficile da accettare.
Nel corso delle Reith lectures tenute nel 2004 - raccolte e pubblicate poi con il titolo «Clima di paura» - lei ha sostenuto che le religioni africane, che non hanno interesse a fare proselitismo, possono offrire al mondo una lezione molto importante. Cosa dovremmo imparare dalla spiritualità africana?
Per esempio la pace. Le religioni africane, infatti, non sono mai state aggressive, non hanno mai fatto guerre di religione, e non appartiene loro l’idea di jihad o di crociata. Sono religioni lontane da tutte queste ambizioni, proprie di mentalità antiumane. A dispetto di questo, sono state capaci di condizionare e influenzare persino le religioni «forti» come il cattolicesimo. L’altra lezione che proviene dall’universo spirituale africano è il riconoscimento che gli dei sono il frutto della creazione umana, una lezione ben presente anche nella cultura Yoruba, in cui si usa dire che «se non ci fossero gli uomini, non ci sarebbero gli dei». Si tratta, evidentemente, di un principio ovvio, eppure è un principio che molte altre religioni non riescono ad accettare, prive come sono dell’umiltà necessaria a riconoscere che sono un semplice frutto degli esseri umani.
Una lezione che potrebbe anche essere intesa, per usare le sue parole, come una sollecitazione a «contrastare il pericolo del monologo con il potenziale creativo del dialogo». Lei attribuisce un potere catartico al dialogo? E, se è così, ritiene che sia sufficiente il dialogo per rimarginare quella che, adottando il titolo di un suo bel libro, potremmo chiamare la «Ferita aperta» del continente africano?
Innanzitutto occorre essere molto precisi nel chiarire cosa sia il vero dialogo, dal momento che esiste la tendenza a presentare il monologo come un dialogo: molti di quelli che dicono «siamo disposti al dialogo, stiamo parlando con te», finiscono con l’imporre la propria volontà. È un atteggiamento caratteristico, per esempio, delle religioni monoteistiche. Il dialogo genuino, invece, è terapeutico, è catartico. Affinché ci sia un dialogo vero, però, occorre aprirsi all’altro, e permettere che altre persone riconoscano delle possibilità nel proprio punto di vista; in altri termini, occorre tradurre posizioni radicalmente appassionate in principi razionali, e dunque negoziabili.
Lei ha scritto che «l’essenza della dignità si manifesta attraverso le relazioni di un essere umano con un altro», e che la «dignità è semplicemente un’altra faccia della libertà». Questo vuol dire che anche la libertà può essere raggiunta solo in una dimensione relazionale?
Sì: la dignità è sempre in relazione a qualcosa d’altro. Non avrebbe alcun senso che io, seduto nella mia stanza dinanzi a uno specchio, chiedessi conto della mia dignità. Sarebbe un atto di puro narcisismo, quel narcisismo che sfortunatamente affligge molti tra i nostri politici. La dignità, dunque, può essere compresa e riconosciuta solo nel rapporto tra due esseri umani, nell’intrinseco rispetto per il valore proprio dell’altro. In un rapporto del genere ognuno libera se stesso, e in questi termini possiamo parlare di un senso di liberazione, perché non solo non si esige dall’altro qualcosa che gli appartiene, ma si riesce a esprimere se stessi proprio attraverso l’altro, nella disposizione che abbiamo nei suoi confronti. Solo in questi termini si può parlare della dignità come dell’altra faccia della libertà e come auto-liberazione.
Critica e impegno fra poesia e teatro
Una foresta di generi
Nato nel 1934 ad Abekouta, una cittadina della Nigeria sud-occidentale, dopo aver frequentato l’università di Ibadan, Akinwande Oluwole «Wole» Soyinka si trasferisce in Inghilterra, dove studia drammaturgia. Conseguita la laurea nel 1957, lavora come sceneggiatore, interprete e regista presso il prestigioso Royal Court Theatre di Londra. Tornato in patria si dedica all’insegnamento, alla scrittura e al teatro, senza mai smettere di criticare la corruzione e la brutalità dell’élite politica del paese. Nel 1967, durante la guerra civile nigeriana, viene arrestato con l’accusa di sostenere i ribelli secessionisti del Biafra. Dopo aver trascorso due anni in prigione, Soyinka viene rilasciato e decide di vivere in esilio volontario in Francia.
Premio Nobel per la Letteratura nel 1986, membro di prestigiose associazioni letterarie internazionali e già presidente del Parlamento internazionale degli scrittori, Soyinka è poeta, narratore, drammaturgo e saggista. Fra le traduzioni italiane dei suoi testi, si ricordano, per Jaca Book, i volumi autobiografici «L’uomo è morto» (1986), «Akè. Gli anni dell’infanzia» (1984-1995) e «Isarà: intorno a mio padre» (1996), oltre ai romanzi, «Gli interpreti» (1979) e «Stagione di anomia» (1981). Tra i suoi lavori di saggistica e critica letteraria si segnalano le raccolte «Mito e letteratura nell’orizzonte culturale africano» (Jaca Book, 1995) e «Clima di paura» (Codice, 2005).
* il manifesto, 15.07.2007
E Sartre inventò la «négritude»
Fu lo scrittore e filosofo esistenzialista a utilizzare per primo l’espressione nel saggio «Orfeo nero» del 1948. Era rivolta agli autori africani francofoni come Léopold Senghor. Ma fu poi contestata dal nigeriano Wole Soyinka, perché giudicata eurocentrica
DI ROBERTO MUSSAPI (Avvenire, 12.12.2009)
«La tigre non ha la tigritudine, balza»: è un’affermazione lapidaria di Wole Soyinka, il famoso scrittore nigeriano, premio Nobel per letteratura nel 1986. Soyinka non è solo famoso nel mondo per la sua accesa, onesta e coraggiosissima difesa dell’uomo ( rischiò più volte la vita in Nigeria per la sua opposizione alla dittatura), ma perché unisce alla produzione teatrale e narrativa, un’attività straordinaria di saggista e pensatore. In Mito, letteratura e mondo africano ( edito in Italia da Jaca Book) disegna il pensiero del continente nel calderone animistico e nei rapporti d’origine con la tragedia greca. In quel contesto di manifestazione di un mondo, Soyinka risponde polemicamente al concetto di negritudine, che suona meglio in francese perché in francese è nata la parola e in francese ha avuto vita, négritude.
Che la parola vada pronunciata in francese lo prova il fatto che solo ora, nel 2009, esce in Italia la traduzione del saggio che la coniò, Orfeo nero, di Jean Paul Sartre, pubblicato ora da Christian Marinotti Edizioni, uscì nel 1948 in Francia, come introduzione all’antologia della nuova poesia nera africana francofona, a cura di Léopold Senghor. Orfeo nero è uno scritto capitale nella storia dell’Occidente contemporaneo, e occupa uno spazio centrale nella cultura africana. Impressionante il fatto che in Italia non fosse mai stato tradotto, come se lo scritto di Sartre fosse una questione tra francesi e africani colonizzati dai francesi, e non un nodo fondamentale della modernità.
Di fronte alla realtà delle colonie Sartre smonta la posizione dell’uomo bianco che ha sempre guardato il resto del mondo come un suo oggetto e dominio. Parte dal nero che è stato guardato e ora ci guarda: il regno del mistero e della poesia è nero, scrive il filosofo francese, la parte nera è una componente essenziale dell’essere umano. Hegel aveva descritto l’africano come prova vivente di un uomo incapace di evoluzione, e questa era l’opinione filosofica dominante.
Nelle poesie raccolte da Senghor, Sartre scopre la dimensione nera che va oltre i tentativi francesi - di tipo surrealista - di uscita dal razionalismo occidentale: è una sorta di sensualità dionisiaca quella che muove il nero, sensuale, appunto, quando il bianco è razionale, vibrante quando questi è meditabondo.
Una contrapposizione forte che nasce per rivendicare la dimensione dell’altro, la négritude , appunto. Che diviene grido di battaglia dei poeti neri di lingua francese, un emblema di diversità, di identità « selvaggia » contrapposta alla civiltà bianca del pensiero razionale. A questo punto il lettore avrà compreso la citazione della frase di Soyinka, scrittore nigeriano di lingua inglese, di una generazione successiva a quella di Senghor: per lui e per altri grandissimi scrittori africani oggi settantenni, la négritude , nata con le migliori intenzioni, è comunque l’invenzione di un bianco, di un occidentale, francese per giunta, che quindi non può ragionare che per categorie astratte. Ed è un’invenzione illuministica che sottende una visione eurocentrica: perché il negro (ora si dice il nero) non è solo danza e sensualità e musica contrapposte alla ragione e alla logica e all’architettura. No, elementi sensuali, dionisiaci, sono presenti e spesso fertili nell’uomo bianco, e il mondo dell’uomo nero non è un buio e fantastico paese delle meraviglie, ma una realtà immaginaria come quella di Platone.
La critica alla négritude, rappresenta una più radicale affermazione di naturalezza: la tigre, non crudele, ma semplicemente splendida e se stessa. Ma senza questa grande invenzione sartriana, con tutti i suoi limiti, gli europei sarebbero molto più ignoranti di quanto già siano, e un fenomeno come il free jazz americano degli anni Sessanta non sarebbe mai nato. Orfeo non è nero, ma senza nero non esisterebbe Orfeo
Jean Paul Sartre
ORFEO NERO
Christian Marinotti Edizioni Pagine 84. Euro 10,00
Un brano della traduzione del celebre saggio del filosofo francese
Il problema della razza e l’Orfeo nero di Sartre
Separati dalle lingue, dalla politica e dalla storia dei loro colonizzatori, i neri hanno in comune una memoria collettiva
di Jean-Paul Sartre (la Repubblica, 15.12.2009)
Pubblichiamo alcune pagine di "Orfeo nero", il famoso saggio del 1948 di ripubblicato da Marinotti
Nei secoli della schiavitù il nero ha bevuto il calice dell’amarezza fino alla feccia; e la schiavitù è un fatto passato che né i nostri autori né i loro padri hanno conosciuto direttamente. Ma resta sempre un enorme incubo dal quale neppure i più giovani sanno se si sono completamente risvegliati. Da un capo all’altro della terra i neri, separati dalle lingue, dalla politica e dalla storia dei loro colonizzatori, hanno in comune una memoria collettiva (...)
Così quando il nero si volge alla sua esperienza fondamentale, questa si rivela a un tratto a due dimensioni: si tratta, contemporaneamente, di una comprensione intuitiva della condizione umana e della memoria ancora vivida di un passato storico. (...)
Il nero, grazie al semplice approfondimento della sua memoria di antico schiavo, afferma che il dolore è il destino degli uomini e che proprio per questo il dolore non ne è meno immeritato. Egli rigetta con orrore il marasma cristiano, il piacere triste, l’umiltà masochista e tutti gli inviti tendenziosi alla rassegnazione; vive l’assurdità della sofferenza nella sua purezza, nella sua ingiustizia e nella sua gratuità e vi scopre questa verità misconosciuta o mascherata dal cristianesimo: la sofferenza ha in se stessa il suo proprio rifiuto; è essenzialmente il rifiuto di soffrire, è il volto in ombra della negatività, si apre alla rivolta e alla libertà. (...)
Strana e decisiva svolta: la razza si è trasformata in storicità, il Presente nero esplode e si inserisce nel tempo, la Negritudine si inserisce con il suo Passato e il suo Futuro nella Storia Universale, non è più uno stato neppure un atteggiamento esistenziale, è un Divenire; il contributo nero all’evoluzione dell’Umanità non è più un sapore, un gusto, un ritmo, una autenticità, un insieme di istinti primitivi: è un’impresa datata, una costruzione paziente, un futuro. È in nome delle qualità etniche che il nero, proprio adesso, rivendica il suo posto al sole; ora è sulla sua missione che fonda il suo diritto alla vita; e questa missione, proprio come quella del proletariato, gli viene dalla sua situazione storica: perché egli, più di ogni altro, ha sofferto dello sfruttamento capitalistico, più di ogni altro, ha appreso il senso della rivolta e l’amore della libertà. Ed essendo il più oppresso, egli persegue necessariamente la liberazione di tutti, quando lavora per la propria libertà.
Ma possiamo, dopo tutto ciò, credere ancora all’omogeneità interiore della negritudine? E come dire cosa essa sia? Ora è una innocenza perduta, che è esistita solo in un lontano passato, e ora una presenza che si realizzerà solo nell’ambito della Città futura. Ora si contrae in un attimo di fusione panteistica con la Natura ed ora si estende fino a coincidere con l’intera storia dell’Umanità; ora è un atteggiamento esistenziale ed ora sembra un obiettivo delle tradizioni nero-africane. La si riscopre? La si crea?
Per il nero autentico si tratta di vedere se il suo comportamento deriva dalla sua essenza come le conseguenze derivano da un principio, oppure si è negri allo stesso modo in cui il fedele di una religione è credente, ossia nel timore e nel tremore, nell’angoscia, nel rimorso continuo di non essere mai abbastanza ciò che si vorrebbe essere? Si tratta di un dato di fatto o di valore? Dell’oggetto di una intuizione empirica o di un concetto morale? Si tratta di una conquista della riflessione o se la riflessione l’avvelena? Se essa non mai autentica che nell’irriflesso e nell’immediato? Si tratta della spiegazione sistematica dell’anima nera o di un Archetipo platonico al quale ci si può avvicinare indefinitamente senza però mai raggiungerlo? E’ per i neri, come il nostro buon senso di ingegneri, la cosa al mondo meglio distribuita? O discende in alcuni come una grazia e sceglie essa sola i suoi eletti?
Certamente si risponderà che la negritudine è tutto questo e molte ben altre cose ancora.
© 2009 Christian Marinotti Edizioni (traduzione e cura di Santo Arcoleo)
Il paradigma di Lumumba
Storie. 55 anni fa veniva assassinato in Congo il primo capo di governo eletto democraticamente nel paese da poco indipendente, leader del panafricanismo e dell’Africa post-coloniale. Un delitto impunito - esecutori materiali i ribelli katanghesi, organizzatore Mobutu, logistica belga e statunitense -, emblema di tutti i massacri perpetrati quotidianamente sul corpo vivo di questa terra bella e terribile.
di Raffaele K Salinari (il manifesto, 27.01.2016)
Nel gennaio di cinquantacinque anni fa, nel 1961, veniva assassinato Patrice Lumumba, il leader dell’Africa post coloniale che credeva in un «Congo unito all’interno di un’Africa unita».
Il Belgio, l’allora potenza coloniale, aveva “ereditato” questo enorme paese di più di due milioni e mezzo di chilometri quadrati dalle mani insanguinate del suo storico proprietario, Re Leopoldo II, che lo aveva rivendicato come proprietà privata durante la Conferenza di Berlino del 1883 in cui gli europei si erano spartiti l’Africa.
Il regno belga ne prevedeva l’indipendenza solo verso il duemila ed invece, spinto dall’onda lunga della decolonizzazione e dei movimenti di liberazione pan africani, anche il Congo si sollevò e, nel giugno del 1960, Re Baldovino dovette dichiararne l’indipendenza.
Decolonizzare il simbolico
Il giovane Lumumba, allora segretario generale del Movimento nazionale congolese di liberazione vinse le prime elezioni libere e democratiche venendo di conseguenza nominato capo del governo. La sua mossa politica fu quella far aderire la Repubblica del Congo al movimento dei «non allineati», sancendo così l’indisponibilità a far parte dell’equilibrio bipolare che la guerra fredda imponeva a tutti i nuovi stati.
Il suo discorso sulla «decolonizzazione del simbolico», mediato da Frantz Fanon, resta uno dei caposaldi del panafricanismo del secolo scorso. Queste posizioni sarebbero già state sufficienti a determinare le manovre che l’Occidente avevano predisposto per innescare la terribile guerra civile che, puntualmente, dopo qualche mese dall’insediamento di Lumumba, portò alla secessione del Katanga, la regione mineraria a sud del paese, ed anche alla ribellione del Kivu, quella al confine con Ruanda e Burundi.
I ribelli katanghesi, sostenuti dai servizi segreti di Stati uniti e Belgio, dopo mesi di attacchi ferocissimi in tutto il Paese e nella capitale Kinshasa, sequestrarono Lumumba in fuga verso il sud e lo uccisero; si saprà solo qualche anno dopo che il suo cadavere venne prima smembrato e poi sciolto nell’acido.
Ma la sua vicenda politica assume, prima del tragico epilogo, un respiro di livello internazionale: come capo di un Governo legittimo, infatti, Lumumba aveva chiamato in suo aiuto, primo leader nella storia africana, le Nazioni unite, per cercare di risolvere il conflitto secondo le nuove regole internazionali post belliche.
Nella guerra civile congolese interviene dunque personalmente l’allora segretario dell’Onu Dag Hammarskjold che capisce la posta in gioco: la crisi del Congo era il primo vero banco di prova per un sistema Onu che avesse voluto realmente esercitare il suo ruolo di «governo del mondo». Proprio per questo, nel settembre 1961, l’aereo che lo portava in Congo per dirigere di persona la prima missione di pace delle Nazioni unite nell’Africa post coloniale (una vera missione di pace) viene sabotato dalla Cia e precipita. Il segretario generale muore, l’Onu si ritira, e così viene meno la possibilità che questo organismo multilaterale divenisse realmente ciò che doveva essere.
Dopo qualche mese di drammatica guerra civile, a cui partecipa anche Che Guevara, ucciso Lumumba e di conseguenza passato il pericolo di un Congo non allineato o, peggio, nelle mani dei sovietici, un tenente di nome Joseph Desiré Mobutu, già nominato capo dell’esercito da Lumumba, ma organizzatore del suo stesso assassinio su logistica belgo-americana, viene nominato capo dello Stato ed inaugura una dittatura cleptocratica e senza spazi democratici che morirà con lui dopo ben trent’anni dopo, lasciando il Paese in condizioni di estrema povertà e fragilità da tutti i punti di vista.
Il “giardino” di Leopoldo II
Fin dai tempi di Lumumba, infatti, ed ancora prima di Leopoldo II e del suo “giardino personale”, questa terra doveva essere solo una “estensione geografica” a disposizione degli interessi occidentali, senza riguardo alcuno alle opinioni dei suoi legittimi abitanti.
Ai tempi di Leopoldo II la “missione civilizzatrice” copriva il commercio dell’avorio, dell’oro e del legno pregiato, ne rende testimonianza il romanzo Cuore di tenebra di Conrad. Ai tempi della seconda guerra mondiale, invece, nel mirino dell’Occidente vi era qualcosa di ancora più importante (l’uranio delle bombe di Hiroshima e Nagasaki viene dal Katanga). E poi, durante la lunga dittatura di Mobutu, era essenziale continuare ad assicurare alle compagnie minerarie lo sfruttamento dello “scandalo geologico” che rappresentano le sue enormi quantità di rame e diamanti e, più di recente, il coltan.
Perfino il successore di Mobutu, l’ex lumumbista Laurent Desiré Kabila, ripulito dagli americani dopo la morte del vecchio dittatore e sostenuto dai ruandesi del genocidario Paul Kagame (attuale presidente del Ruanda), quando ha cercato di rivedere i contratti di sfruttamento minerario ispirandosi alla sua antica visione socialisteggiante, è stato assassinato dal suo stesso figlio adottivo, l’attuale presidente del Congo Joseph Kabila.
Le vene aperte dell’Africa
Negli ultimi tempi, con la confusa gestione geopolitica della guerra civile permanente nell’est del paese, retaggio di quella prima guerra scatenata contro Lumumba dagli interessi Occidentali, si completa il quadro dell’asservimento di questa terra agli interessi delle “pompe aspiranti” occidentale, cinese, indiana, che continuano a prelevare dalle sue vene aperte il sangue che ci serve, mentre il Congo ed i congolesi letteralmente muoiono, o di fame, o di guerra o di Aids. Le organizzazioni umanitarie calcolano che ci sono circa quattro milioni di rifugiati interni ed un milione di vittime della guerra civile. Se Foucault fosse vivo ne farebbe sicuramente un esempio della sua definizione di biopolitica e potere sovrano: «Non più esercitare la morte e concedere la vita ma sostenere la vita e lasciar morire».
Oggi, dunque, guardando in questa prospettiva l’assassinio di Lumumba, possiamo ben dire come esso sia solo un emblema, una immagine paradigmatica che racchiude in sé tutte le altre, tutti gli altri assassinii che, quotidianamente vengono perpetuati sul corpo vivo di questa terra bella e terribile.
Eppure, eppure, la forza della vita scorre ancora dentro il corpo martoriato del Congo, anche se il nostro sguardo spento non vede nell’Africa che morte e sfruttamento, lo sguardo fiero di Lumumba nella sua ultima immagine guarda ancora lontano, oltre il «cuore della tenebra».