LA DIVINA COMMEDIA, Un’indicazione di lettura generale e "personale" - per non restare all’Inferno... *
"Io non Enea, io non Paulo sono":
io, Dante Alighieri,
figlio della libera e piena unione
di Bella degli Abati ("Maria")
e di Alighiero II degli Alighieri ("Giuseppe"),
vi racconto e vi testimonio
che
Nel mezzo del cammin di nostra vita
io mi ritrovai ...
è l’Amore che muove il Sole e le altre stelle!
Ho ritrovato l’Origine, me stesso, e l’Umanità
In principio era la parola,
il dialogo, tra gli esseri umani, non il diavolo;
íl dialogo aiutava a superare ogni ostacolo (satana) e ogni inimicizia; non c’erano barriere, muri, e recinzioni diaboliche che
separavano e impedivano gli incontri e le amorose nascite di
esseri umani, liberi e sovrani, che crescevano pacificamente in
virtù e conoscenza, in terre e città belle e fiorenti;
consideriamo, considerate, la nostra semenza,
seguiamo, seguite, il filo del nostro corpo
e delle parole della nostra Lingua,
fatti e fatte non foste, e non fummo, a viver come bruti e come
brute...
siamo, siete, nati e nate in libertà e in umanità,
non rinneghiamo, non rinnegate,
non vendiamo, non vendete,
l’anima della vostra, nostra, Città,
l’anima della vostra, nostra, Terra.
* Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria ..., Edizioni Ripostes, Roma-Salerno 2001, p. 61.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
La nave Argo con l’equipaggio (Lorenzo Costa) |
LA GAIA SCIENZA. Si deve imparare anche l’amore *
Si deve imparare ad amare. Ecco quel che ci accade nella musica: si deve prima imparare a udire una sequenza e una melodia in genere, a enuclearla nell’ascolto e a distinguerla isolandola e delimitandola come se avesse una vita propria; quindi bisogna sforzarci e impiegare la nostra buona volontà per sopportarla, malgrado la sua estraneità, bisogna fare un esercizio di pazienza di fronte al suo sguardo e alla sua espressione, considerare con benevolenza quel che c’è di inusitato in essa - finalmente arriva un momento in cui ne abbiamo preso l’abitudine, in cui l’attendiamo, in cui si ha il presentimento che ne sentiremmo la mancanza, se non ci fosse più; e così essa continuamente dispiega la sua violenta suggestione e il suo incantesimo, finché non si sia diventati i suoi umili ed estasiati amanti, per cui non v’è più niente di meglio da chiedere al mondo se non la melodia e ancora la melodia.
Questo ci accade però non soltanto con la musica: proprio in questo modo abbiamo imparato ad amare tutte le cose che oggi amiamo. In definitiva, siamo sempre ricompensati per la nostra buona volontà, per la nostra pazienza, equità, mitezza d’animo verso una realtà a noi estranea, quando lentamente essa depone il suo velo e si manifesta come una nuova inenarrabile bellezza: è questo il suo ringraziamento per la nostra ospitalità. Anche chi ama se stesso, lo avrà appreso per questa strada: non ce ne sono altre. Si deve imparare anche l’amore.
*
F. Nietzsche, La gaia scienza, IV, fr. 334, tr. it. di F. Masini ("Opere",vol. V, t. II,) Adelphi, Milano 1991.
PSICOANALISI: DANTE E LA DISCESA ALL’INFERNO DI FREUD. "L’Interpretazione dei Sogni" (1900) ha il suo legame con l’Eneide (VII, 312: "Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo") di Virgilio e "L’uomo Mosè e la religione monoteistica"(1938) con il tema dell’«In exitu Isräel de Aegypto» della Divina Commedia (Pg. II, 46-48) di Dante.
COSMOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E DIVINA COMMEDIA: "SIDEREUS NUNCIUS" (GALILEO GALILEI, 1610) E "SAPERE AUDE!"(I. KANT, 1784). Alcuni appunti sul tema dell’antropogenesi (e cristogenesi) nell’opera di Dante...
NELL’ANNO DANTE2021, SU MARTE, "INGENUITY" INIZIA LA SUA ATTIVITA’ E LA SUA MISSIONE ESPLORATIVA:
CON ULISSE, OLTRE: VIRTU’ E CONOSCENZA. Ai suoi tempi, Dante ha esplorato con il suo "oudemico" ingegno l’intero "oceano celeste" (Keplero) e, al ritorno, ha raccontato che, trovandosi nel V cielo, quello del Pianeta Marte, rimase colpito da "una melode/ che mi rapiva, sanza intender l’inno (Pd XIV, 101 e 123).
L’INGEGNO, IL GENERE UMANO ("GATTUNGSWESEN"), E LA "TERRA" DI MARTE:
NELL’ANNO 2023, "Lo scorso 13 aprile il piccolo elicottero marziano Ingenuity ha azionato le sue eliche per la 50esima volta, percorrendo 320 metri in poco più di 2 minuti e mezzo, durante i quali ha infranto anche il precedente record di altezza, salendo fino a 18 metri. Ingenuity, che il 19 aprile ha festeggiato i suoi primi due anni su Marte, fu inizialmente concepito come dimostratore tecnologico, un modo cioè per provare che il volo controllato a motore su un altro pianeta fosse possibile. [...]
Costruito con molti componenti di serie, come processori e fotocamere di smartphone, Ingenuity ha superato di 23 mesi terrestri e 45 voli la durata prevista. Ad oggi, ha volato in totale per oltre 89 minuti e più di 11,6 chilometri. «Abbiamo fatto tanta strada e vogliamo andare ancora più lontano», dice Teddy Tzanetos, responsabile del team della missione al Jpl. «Ma sappiamo fin dall’inizio che il nostro tempo su Marte è limitato e ogni giorno operativo è una benedizione. Che la missione di Ingenuity finisca domani, la prossima settimana o tra qualche mese è qualcosa che nessuno può prevedere al momento. Quello che posso prevedere è che, quando succederà, ci sarà una bella festa». " (cfr. Jacopo Danieli, "Cinquanta voli per l’elicotterino marziano", INAF, 21/04/2023).
EARTHDAY 2023 #Metaphysics #Anthropology #Theology #Cosmology #Koyaanisqatsi #Ubuntu #Earthrise
PSICOANALISI, CRISTIANESIMO, ANTROPOLOGIA E LETTERATURA:
"PSICOLOGIA DELLE MASSE E ANALISI DELL’ IO" (S. FREUD, 1921): DANTE ("Io non Enëa, io non Paulo sono": Inf. II, 32) SA "DOVE METTE CRISTOFORO IL PIEDE" (cfr. Wilhelm Stekel, " Il ’Piccolo Kohn’ ", 1903, tradotto e curato da Michele Lualdi).
"IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS", "CRITICA DELLA RAGION PURA" (KANT), E "IDEALE DELL’IO" (S. FREUD). CON GIASONE (OVIDIO) E CON ASTREA (LA "VIRGO" DI VIRGILIO) E MARIA-BEATRICE (LA "VERGINE" DI SAN BERNARDO), DANTE RIPRENDE IL CAMMINO, dall’ INIZIO (dall’Inferno) ma dal PRINCIPIO (Par. XXXIII: "Vergine Madre, figlia del tuo figlio [...] l’amor che move il sole e l’altre stelle") e racconta come è riuscito a ritrovare "LA DIRITTA VIA" e a capire il senso antropologico di sé: "Io sono l’alfa e l’omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine" (Ap., XXII, 13).
BOCCACCIO E "DIECI FIORINI D’ORO“: UN PROBLEMA DI STORIOGRAFIA E FILOLOGIA.
Se è vero, come Pupi Avati scrive ("Il mio Dante", "Insula europea", 3 febbraio 2020), che «"L’origine delle idee non la si percepisce mai” lo asseriva il Budda e per quello che mi riguarda ho da sempre la sensazione che sia assolutamente vero» .... allora bisogna solo ringraziarlo per la schiettezza e, al contempo, prendere atto che, con il suo film "il mio Dante", si assiste solo all’ennesimo ritornello storiografico che del viaggio di Dante (dell’uomo e del poeta), per "dieci fiorini d’oro", si compra lo spirito fondante ("l’amor che move il sole e le altre stelle") e si finisce per celebrare il desiderio di fama e di gloria di Boccaccio (non di Dante Alighieri): "Insomma Boccaccio voleva davvero che si facesse questo film" (Pupi Avati)!
#Dantedì 2023. Ma non è il caso e il tempo di uscire dal #letargo (Pd. XXXIII, 94) e ricordare che la primavera è già arrivata e che oggi è il 25 marzo?!
LETTERATURA, ANTROPOLOGIA, E PSICOANALISI:
IL "DE AMORE" (Andrea Cappellano), LA "VITA NUOVA" (Dante Alighieri), E IL "DECAMERON" (Giovanni Boccaccio). Una nota su un nodo non sciolto... *
STORIA E STORIOGRAFIA. Sulle ragioni da parte di Boccaccio della costruzione nell’analisi della vita di Dante, forse, concorrono insieme
A) la non comprensione della "Vita Nuova" e della "Commedia" stessa di Dante, che, con l’aiuto di #Virgilio (e di #Beatrice, sollecitata da #Lucia, su intervento di #Maria), cerca di riprendere il filo di tutta la storia dell’#umanità e ri-indicare la "diritta via" per ritrovare il #paradisoterrestre, con la ricostruzione del #presepe (come da indicazione di Francesco d’Assisi),
B) e, al contempo, la volontà di rinchiudere il messaggio di Dante nel suo tempo, quello segnato ancora dall’ amore, entro le coordinate non chiare e non risolte della "sintesi", proposta nel "De amore" di Andrea Cappellano, della letteratura «#cortese»,
C) e, non ultima, una interpretazione della tradizione religiosa diversa dalla radicalità teologico-politica di Dante. Il risultato si vede (ancora) dinanzi agli occhi delll’attuale presente storico: il "De amore" di Cappellano si confonde con l’amore della Divina Commedia e con l’amore del Decameron; e lo sguardo antropologico (prima che politico) dei "due soli" di Dante è ancora addirittura difficile da concepirsi e si confonde ancora "charitas" (amore), con "caritas" (#mammona) e con l’avidità di Eros (#Cupìdo).
#DANTE, #MILTON, E #FREUD. Alla fidanzata Martha, il 7 agosto 1882, Freud scrive che, nel "Paradiso perduto" (John Milton, 1667), «ancora di recente, in un momento in cui non mi sono sentito sicuro del tuo #amore, ho trovato consolazione e conforto».
#EARTHRISE #METAPHYSICS #ANTHROPOLOGY #ELEUSIS2023 #ROMA2024
*
"DIVINA COMMEDIA" FILOLOGIA E "DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (FREUD, 1929).
In onore e in memoria di Gemma Donati e Bella Degli Abati...
Se non si vuol continuare a credere alla tradizionalissima "costruzione" di #Boccaccio su #Dante e la sua famiglia, credo sia opportuno proseguire su questi passi d’indagine #critica (*) e cominciare a pensare che #Gemma, la moglie di Dante, nella #Commedia, sia la figura di #Lucia, e, al contempo, #Beatrice sia la madre di Dante, #Bella degli Abati.
Dopo i #maestridelsospetto (#Marx #Nietzsche e #Freud), come è possibile (#Kant) continuare a pensare, all’altezza del #Dantedi2021, che l’uomo e il poeta Dante tradisca spiritualmente non solo la sua sposa #GemmaDonati ma anche i suoi figli e la sua figlia Antonia, suor #Beatrice?
Non è meglio, forse, uscire dal #letargo e dall’#inferno a rivedere il Sole e le altre stelle... e riflettere un poco su una ipotesi di rilettura della Commedia, avanzata nel 2007? 🌞🌞🙏
* Cfr. Arnaldo Casali, "Gemma, la moglie di Dante", Festival del Medioevo.
#EARTHRISE #METAPHYSICS #ANTHROPOLOGY #ELEUSIS2023 #ROMA2024
Gemma, la moglie di Dante
Dante Alighieri è nel suo studio, intento a correggere il manoscritto della Commedia. “Questo m’è venuto proprio bene - commenta - Lucevan li occhi suoi più che la stella”.
“Sempre a parlare di donne, eh. Ma nessuna, nessuna delle tue poesie parla di me!” sbotta Gemma, entrata nella stanza.
“Ma che c’entra? Tu sei mia moglie!”
“E allora? Sembra sconveniente, per i poeti, scrivere della moglie. Chissà perché invece è del tutto naturale scrivere di un’altra donna. Peraltro moglie anche lei. Di un altro, però...”.
Non è improbabile come potrebbe apparire, questa immaginaria scenata di gelosia ai danni del Sommo Poeta da parte della legittima consorte: l’unica donna di cui Dante Alighieri non parla mai nei suoi scritti, che hanno reso immortali figure femminili come Francesca, Pia, Costanza, Cunizza da Romano, Matelda e persino Piccarda Donati, cugina della stessa Gemma e strappata al monastero per un matrimonio imposto dai parenti.
Gemma Donati era nata a Firenze il 3 marzo 1265, figlia del nobile ser Manetto, ed era coetanea di Dante e un anno più vecchia di Bice Portinari, la donna che le ruberà il posto nella Storia. E certo la povera donna non doveva essere troppo contenta del fatto che tutta Firenze parlasse dell’amore immortale di suo marito per Beatrice.
D’altra parte, di fronte a qualsiasi obiezione il capo famiglia le avrebbe risposto che “le donne non capiscono queste cose. L’amore di cui scrivo è una cosa diversa. Tu sei mia moglie, sei la madre dei miei figli”.
E la moglie non può mai essere la donna che si ama. Basti pensare alle storie di Francia: qualche volta succede che si arriva a sposare la donna che si ama, però poi la storia finisce subito. L’amata può diventare la moglie, ma la moglie non può diventare l’amata. Che cosa sarebbe successo, se Tristano avesse sposato Isotta o se Romeo e Giulietta fossero vissuti felici e contenti?
Certo Dante non avrebbe mai potuto - e probabilmente nemmeno voluto - sposare Beatrice. E anche solo a pensare una cosa del genere, gli sarebbe sembrato di sminuire quell’amore così nobile.
Quanto a Gemma, il 9 gennaio 1277 - quando avevano appena undici anni - era stata promessa a Dante con un atto firmato presso il notaio ser Oberto Baldovini e una dote di 200 fiorini.
I Donati - a cui apparteneva il barone Corso, capo della fazione dei Neri, e Forese, amico di Dante - erano una delle famiglie più influenti di Firenze e storica rivale degli Alighieri. Le nozze erano quindi strategiche per entrambe le casate.
Una decina di anni dopo viene celebrato il matrimonio. La datazione è tutt’altro che sicura: alcuni lo collocano tra il 1283 e il 1285, altri tra il 1290 e il 1295. Dall’unione nascono comunque quattro figli: Iacopo, Pietro, Antonia e Giovanni.
Secondo una teoria piuttosto improbabile di Giovanni Boccaccio, i genitori decidono di far prendere moglie a Dante per consolarlo della morte di Beatrice.
Dante sembra rispondere al più classico stereotipo dell’uomo distrutto: spento, trasandato, con la barba lunga, passa le giornate fissando il vuoto. Quando sembra aver finalmente superato il lutto, racconta l’autore del Decameron, i genitori decidono che è venuto il momento di farlo sposare:
“Rincominciarono a sollecitare lo sconsolato; il quale, come che infino a quella ora avesse a tutte ostinatamente tenute le orecchie chiuse, alquanto le cominciò non solamente ad aprire, ma ad ascoltare volentieri ciò che intorno al suo conforto gli fosse detto. La qual cosa veggendo i suoi parenti, acciò che del tutto non solamente de’ dolori il traessero ma il recassero in allegrezza, ragionarono insieme di volergli dar moglie; acciò che, come la perduta donna gli era stata di tristizia cagione, così di letizia gli fosse la nuovamente acquistata. E, trovata una giovane, quale alla sua condizione era decevole, con quelle ragioni che più loro parvero induttive, la loro intenzione gli scoprirono. E dopo lunga tencione, senza mettere guari di tempo in mezzo, al ragionamento seguì l’effetto: e fu sposato”.
Le conseguenze del matrimonio, però, sono disastrose. D’altra parte, dice Boccaccio, “qual medico s’ingegnerà di cacciare l’aguta febbre col fuoco, o il freddo delle medolla dell’ossa col ghiaccio o con la neve?”.
Secondo il primo dantista il matrimonio per il poeta si rivela una gabbia. Dante non sopporta di dover rendere conto delle sue azioni e dei suoi sentimenti a qualcuno:
“Egli, usato liberamente di ridere, di piagnere, di cantare o di sospirare, secondo che le passioni dolci o amare il pungevano, ora o non osa, o gli conviene non che delle maggiori cose, ma d’ogni picciol sospiro rendere alla donna ragione, mostrando che ’l mosse, donde venne e dove andò; la letizia cagione dell’altrui amore, la tristizia esser del suo odio estimando. Oh fatica inestimabile, avere con così sospettoso animale a vivere, a conversare, e ultimamente a invecchiare o a morire!”.
Insomma Gemma è una donna invadente e indiscreta. In una parola insopportabile, di certo non remissiva e sottomessa e l’insofferenza di Dante è tanta da portare ad una vera e propria separazione dei coniugi:
“Egli, una volta da lei partitosi, che per consolazione de’ suoi affanni gli era stata data, mai né dove ella fosse volle venire, né sofferse che là dove egli fosse ella venisse giammai; con tutto che di più figliuoli egli insieme con lei fosse parente”.
Che le nozze combinate per strategia politica non si fossero rivelate particolarmente esaltanti è probabile. Ma è pur vero che Boccaccio, per sua stessa ammissione, nutre un certo pregiudizio nei confronti del matrimonio, che - a suo avviso - non è roba per intellettuali. -“Lascino i filosofanti lo sposarsi a’ ricchi stolti, a’ signori e a’ lavoratori - commenta infatti subito dopo - e essi con la filosofia si dilettino, molto migliore sposa che alcuna altra”.
D’altra parte è difficile che Boccaccio abbia inventato tutto di sana pianta, visto che per scrivere la biografia aveva effettuato delle vere e proprie interviste a persone che avevano conosciuto personalmente Dante, a cominciare dalla figlia Antonia, monaca a Ravenna; che peraltro, assumendo il nome di suor Beatrice aveva a sua volta dimostrato più venerazione per la musa del padre che per la sua stessa madre.
Se dunque la versione dello scrittore certaldese - pur molto discussa - fosse attendibile, non dovrebbe stupirci vedere Gemma impegnata a chiedere conto al marito del suo amore per Beatrice.
“Se l’avessi amata davvero magari anche nel modo in cui Paolo amava Francesca, l’avresti almeno pensato, di sposarla! Fra te e lei non c’è mai stato altro che un saluto vero? Un saluto suo, peraltro... non si capisce nemmeno se tu rispondevi. Oppure questo è quello che scrivi, e nella realtà le cose sono andate diversamente?”.
“Io non le ho mai sfiorato l’orlo della veste se è questo che vuoi sapere - replica lui, insofferente - nemmeno con il pensiero! E lei è morta da anni, ormai”.
“Lei è morta, lo so - dice Gemma - ma più passa il tempo e più è viva... e se fosse una donna vivente, anche amata da te, non mi darebbe da pensare. I morti sono più forti dei vivi, contro di loro non si può combattere”.
“Lei per me - ribatte Dante - era... un annuncio. Una via d’accesso a un’altra realtà, diversa da questa nostra terrena. Era un’elevazione. -Amandola senza chiedere nulla e senza volere nulla, io mi innalzavo al di là di me stesso. Al di là di questo mondo di vane parvenze. Lei era un’intenzione di Dio fatta visibile. Lei era la più pura immagine vivente di Dio. Tu vivi accanto a me. Lei non ti ha tolto nulla, come tu non potevi togliere nulla a lei. Io ho sposato te”.
“Insomma, io la carne e lei lo spirito”.
“Ecco, sì, qualcosa del genere”.
È pur vero che se della moglie non scrive, con la sua famiglia Dante rimarrà sempre in ottimi rapporti; segno che a prescindere da quanto fosse forte l’intesa tra i due coniugi, una rottura vera non ci fu mai.
Opinione abbastanza diffusa è comunque che Gemma - a differenza dei figli - non abbia seguito il marito nell’esilio. Sarebbe dunque questa la separazione a cui allude Boccaccio.
L’unica certezza è che alla morte di Dante - avvenuta a Ravenna nel 1321 - Gemma era ancora viva, e nel 1329 reclamò presso le autorità fiorentine la parte della sua dote dai beni confiscati al marito.
Trasferitasi dal borgo di San Martino del Vescovo in quello di San Benedetto, Gemma morì tra gli ultimi mesi del 1342 e i primi del 1343: in un atto del 9 gennaio del 1343, infatti, Iacopo Alighieri si dichiara erede della madre.
“Senti un’altra cosa - fa la donna prima di lasciare il marito alle sue pergamene - c’è Nella, la moglie di mio cugino Forese, che è molto offesa con te, lo sapevi sì? In quei sonetti orribili, pieni di oscenità che tu e Forese vi scrivete, devi avere detto qualcosa anche di lei... che Forese a letto non vale niente, che sua moglie ha freddo. Non ho capito nemmeno tutto, di quella roba, ma Nella ha tolto il saluto anche a me”.
“Mai dai, si fa per scherzare - risponde il Sommo Poeta ridendo - Voi donne non le capite queste cose. Tu comunque quelle poesie non le dovresti nemmeno leggere. Mi stupisco di te: non sono cose da donne oneste”.
“Com’è che gli uomini onesti possono scrivere cose che le donne oneste non possono leggere?”.
“Uomini e donne sono fatti da Dio in modo diverso, per diversi destini” conclude il capo famiglia con spocchia e insofferenza, ritornando a lavorare al suo libro. Un libro in cui Beatrice arriverà addirittura a guidarlo in Paradiso, e da cui la moglie resterà completamente esclusa.
Eppure, nel finale del canto quinto del Purgatorio, potrebbe essere nascosto un affettuoso omaggio del poeta a Gemma. Facendo parlare Pia dei Tolomei del suo matrimonio, infatti inerisce - pur se “nascosto” - il nome della moglie.
“Ricorditi di me, che son la Pia: Siena mi fé, disfecemi Maremma: salsi colui che ‘nnanellata pria disposando m’avea con la sua gemma”.
Arnaldo Casali
INFANZIA ANTROPOLOGIA E STORIA:
IL "BALBETTIO" BABELICO, LA DIVINA COMMEDIA, E LA B-ARCA DEL BUON NOE’ (EU-NOE’).
LA "FEMMINA BALBA" (DANTE 2021), EUNOE’ (2022), E LA PRIMAVERA DELLA TERRA-MADRE (ELEUSIS 2023). Brillante coincidenza, chiarissimo Carlo Pulsoni: a Bologna nasce il MUBA, il nuovo "Museo dei bambini e delle bambine"), e "Insula Europea" decide la ripresa della "vecchia" riflessione di Corrado Bologna sul “Balbettio" in poesia, scritta per il volume "Eunoé. Liber amicorum per Giorgio Agamben", apparso presso Quodlibet di Macerata nell’aprile 2022)
«CERCATE L’ANTICA MADRE» (Eleusi 2023). La fomidabile immagine in copertina di Enrico Pulsoni, che dice della ripetizione e dello specchio, a me pare un buon-messaggio: auguralmente, sembra annunciare una sollecitazione epocale sia a portarsi oltre l’infantile stadio dello specchio e la persuasione edipica e narcisistica della "femmina balba" (Dante, Purg. XIX, 7) sia ad uscire dallo stato di minorità (e/o stato di superiorità) balbelica (e/o babelica) - a non restare ancora nella fascinazione di "quell’antica strega" (Purg. XIX, 58) e a portarsi oltre la "preistorica" dialettica del rispecchiamento platonico-hegeliano e paolino-costantiniano. Earthrise!
DANTE E LA TEORIA DEI "TRE SOLI":
"OCEANO CELESTE" (KEPLERO, 1611). Per non buttare il #bambino (Dante Alighieri) con l’acqua sporca ("Dante è di destra"), un invito storiografico a riprendere la navigazione nella #nave di Galileo (quella del "Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano", 1632) e rileggere Giordano Bruno:
FILOLOGIA E FILOSOFIA. Da ricordare che la ’casa’ di Dante Alighieri (la sua opera, la "Monarchia") era la "Casa dei Due soli", e ogni "potere" era non l’accoppiata "platonica" di un servo e di un signore, ma "due in uno" (al contempo, re e sacerdote) alla #luce del Sole - non di un solo Sole (come pretendeva Tommaso Campanella con la sua "Città del Sole" e le varie "monarchie" cosmoteandriche). Dante, a mio parere, è in sintonia con lo spirito di Giordano Bruno e le "TRE CORONE" dello "Spaccio de la Bestia trionfante" e con Keplero che a Galileo Galilei, e al suo "Sidereus Nuncius" (1610). da Praga (1611) quasi grida: "VICISTI, GALILAEE" ("HAI VINTO GALILEO")!
L’ALBA DELLA MERAVIGLIA...
A PRAGA, IL PIACERE DELLA SCOPERTA: ULISSE CON DANTE RICORDA LA "CASA DEI "DUESOLI".
Se l’Odissea è un libro per Nessuno, la Divina Commedia è per Everyman (Ezra Pound), come anche la Monarchia
***
Dante 2021 (#divinacommedia) ed Europa 2023: Praga.
PRAGA. L’altra sera, Alberto Angela ha proposto una visita nella città di Praga e, nel suo percorso per il Il "Piccolo Quartiere" (in ceco, "Malà Strana") e per via Nerudova, ha ricordato che al n. 47 di questa via c’è la "Casa dei #DueSoli". Si sentiva proprio una "strana" aria di casa ... DANTE. Nel corso delle celebrazioni dantesche del 2021, chi ha mai sentito parlare del tema e del problema dei "due Soli", nella Commedia e nella #Monarchia?!
ULISSE. Se è vero, com è vero, che l’#Odissea è "un libro per tutti e per #nessuno", e, quindi, è per tutti e per #Ulisse, non è così anche per la Divina Commedia, che è un libro per Dante ma anche per "#Everyman" (come voleva #EzraPound), allora non ci resta che cercare di capire #chi è quel Dante Alighieri che è uscito dall’inferno, è risalito fin sulla montagna del Purgatorio, è uscito dalla Terra, nell’"oceano celeste" (#Keplero, 1611), e a 702 anni dalla morte (1321) lo ricordiamo ancora?!
#BEATRICE. Chi era un "cretino"? Un "rimbambito" che se ne andava in giro per il mondo con il fantasma della sua "amata" nella sua testa, abbandonando la sua compagna Gemma e i suoi figli, compresa suor Beatrice?!
ITALIA. E gli italiani e le italiane, chi sono? e perché hanno deciso di dedicare il giorno #25marzo proprio a lui, il #Dantedì, a Dante Alighieri?! Non è forse "l’ora che volge al disio" e sollecita a riprendere la navigazione?!
L’#ALBA DELLA #MERAVIGLIA: IL #SORGEREDELLATERRA (https://it.wikipedia.org/wiki/Sorgere_della_Terra). Ricordo che questo anno una delle capitali europee della cultura è Eleusi: #Eleusis2023. E, oggi, l’antica Terra-Madre (#Demetra) splende (ancora) davanti agli occhi (e non solo) degli astronauti e delle astronaute, in tutto il suo meraviglioso brillante colore.
QUESTIONE ANTROPOLOGICO-POLITICA: "DUE SOLI". Non è questo il tempo di rileggere meglio la #Monarchia e cercare di uscire dallo "stato di minorità" (#Kant, 1784) e capire, alla luce della nostra terrestre #Costituzione, che ogni #essereumano ("Everyman") è già sé con sé (due-in-uno) "#papa" e "#imperatore" e che abita già in una "casa" di "due Soli"?! Non è il caso di svegliarsi e riprendere il cammino alla luce del #Sole?
#STORIA #LETTERATURA #FILOLOGIA E #STORIOGRAFIA: #DANTE, #BOCCACCIO, E #PETRARCA.
#Considerazioni #inattuali a margine della novella dei #tre #anelli (#GiovanniBoccaccio) e della scoperta di "un nuovo Livio di Petrarca":
A) IL #PRIMATO DI #ROMA (E DI #PIETRO), #BEATRICE E L’#AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE, E LA #MONARCHIA DI #DANTE:
B) BOCCACCIO CON DANTE. Nel #Decameron, Boccaccio pone il suo cammino sotto la guida di "#Filomena", sotto il segno della #Legge, della #Giustizia e della #Pace - di "#MELCHISEDECH GIUDEO CON UNA NOVELLA DI TRE ANELLA CESSA UN GRAN PERICOLO DAL SALADINO APPARECCHIATOGLI" (terza novella della “prima giornata” ), e, di #SOLONE (nel "Trattatello in laude di Dante").
C) #FRANCESCOPETRARCA FA DI #LAURA LA SUA #BEATRICE E DELLA #ROMA ANTICA (DANTE) LA BASE #POLITICA DEL SUO #SOGNO MODERNIZZATO:
"Nel capitolo intitolato a Tito Livio dei Rerum memorandarum libri (1, 18, 2-3), composti dall’estate del 1343 fino all’inizio del 1345, Petrarca lamentava che solo un’esilissima parte dei 142 libri degli Ab urbe condita era giunta alla sua epoca e rammentava come si fosse messo sulle tracce della seconda decade sollecitato da re Roberto d’Angiò:
Questa sua affannosa ricerca fu vana ma l’insuccesso non comportò una diminuzione d’interesse nei confronti dell’opera che narrava le gesta e la gloria di Roma antica e si prestava a essere utilizzata sia come fonte per la sua produzione storica sia come strumento per la sua rivendicazione politica del primato dell’Urbe presso i contemporanei. [...] (Monica Berte, "Un nuovo Livio di Petrarca: il manoscritto Arch. S. Pietro C. 132 della Biblioteca Apostolica Vaticana", Insula Europea, 24 maggio 2022).
RIPENSANDO A CELESTINO V E A DANTE ALIGHIERI.
Nota a margine dell’attuale presente storico e del pontificato di papa Bendetto XVI...
A 700 anni (più 1, 701 anni) dalla morte (1321) di #DanteAlighieri, tenendo conto degli "ultimi ritocchi al #Paradiso (1319)" [M. Feo] e della consapevolezza dello stesso #Dante di essere "cive di quella Roma onde Cristo è romano" [Purg. XXXII, 102], si può pensare (come alcuni hanno proposto) che sia #Pilato (e non #CelestinoV) la persona del "gran rifiuto", e che il comportamento di Pilato in campo romano possa essere messo in corrispondenza speculare con il comportamento di #Giuda in campo ebraico.
Se questo è accettabilmente vero, e la cosa appare celestinamente convincente seguendo il percorso di Pietro da Morrone prima e dopo della sua elezione a papa, tutto il castello storiografico costruito in sette secoli crolla e apre a nuovi orizzonti e a inediti punti di vista sia sulla lettura del lavoro di Dante, sia della storia della Chiesa e, al contempo, della stessa storia d’Italia.
Alla luce dello spirito di cittadinanza costituzionale di #Dante (e, su questo, ricordare l’amore del presidente della Repubblica italiana, #Carlo #Azeglio #Ciampi, per il cittadino #Dante), non è possibile non pensare immediatamente al #doppio #tradimento, quello della #monarchia del #Regno d’Italia (#Pilato) e della Chiesa Cattolico-costantiniana (#Giuda), nei confronti della intera popolazione italiana di religione ebraica ("Leggi per la difesa della razza", 1938), e, ancora e subito, riesaminare e rilanciare il programma dei #dueSoli in #terra e dell’unico Sole in #cielo (Giordano Bruno, "Lo spaccio della bestia trionfante") e tentare di portarsi "Fuori dall’Occidente" (Asor Rosa, 1992) e aprire gli occhi (#Freud) su tutta la Terra?
Oggi, nel 2023 (appena iniziato) #Eleusi è una delle capitali europee della #cultura, forse, può essere una buona occasione per riattivare la #memoria della Terra-Madre (#Demetra), riabbracciare la "antica madre" (#Virgilio) e, con #Astrea, ripensare il problema antropologicamente, in spirito di #Giustizia.
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
FLS
LA POESIA CHE CAMBIA. COME SI LEGGE DANTE
di Marco Grimaldi (Le parole e le cose, 27 Maggio 2021
1. Le parole e il mondo
Perché leggiamo ancora la Commedia? Prima di tutto perché è un’opera d’arte perfetta, nella quale Dante ha creato un mondo fantastico pienamente verosimile e coerente nel suo funzionamento. La leggiamo inoltre per il realismo. Nella letteratura medievale prima di Dante le descrizioni della natura, degli uomini e delle emozioni erano quasi sempre fondate su schemi fissi ereditati dalla tradizione, ed erano descrizioni spesso molto efficaci. Per questa ragione, oggi abbiamo l’impressione che i poeti prima di Dante guardassero raramente dal vivo la realtà - proprio come gli artisti prima di Giotto. Dante, che conosce a fondo e rielabora la letteratura latina e volgare, è invece un poeta della realtà, un poeta del mondo, di cui oggi ammiriamo soprattutto la straordinaria capacità di osservare le emozioni, le idee, i fenomeni naturali e di tradurli in immagini e parole. Tutto questo Dante lo fa nel momento stesso in cui fonda la tradizione letteraria italiana. Che è poi il motivo per il quale possiamo leggerlo ancora. Perché la sua lingua - quella di un poema che per sette secoli è stato copiato, stampato, commentato, letto migliaia di volte - è ancora la nostra lingua. E queste sono le ragioni principali - e importantissime - che si spiegano di solito a scuola e all’università.
2. Il commento inesauribile
La Commedia ha avuto una diffusione straordinaria, fin da quando il poeta era ancora in vita (il poema circolava, in parte, prima del 1321). Ed è diventata rapidamente un classico anche perché fin dalle primissime fasi della divulgazione è stata accompagnata da commenti e apparati didattici, come era accaduto fino ad allora solo con le grandi opere dell’antichità presenti nel canone delle scuole e delle università medievali. Nessun altro classico della letteratura italiana ha una tradizione di commenti così ampia e precoce. Di fatto, la tradizione dei commenti alla Commedia è continua e ininterrotta. Come ha scritto il poeta russo Osip Mandel’štam: «Il commento (esplicativo) è parte integrante, strutturale, della Commedia». Il poema, in altre parole, non è mai stato e forse non può essere letto senza commento.
La Commedia viene letta dagli intellettuali, dai mercanti, dai religiosi; viene citata e riutilizzata nei trattati, nelle prediche, nei documenti pratici; i suoi versi sono imitati ripetutamente in forme poetiche molto diverse. E il poema arriva molto presto, già nel Trecento, fuori d’Italia: soprattutto in Francia, in Spagna, in Inghilterra. Ciò vuol dire che molte generazioni di italiani, e poi di europei, hanno appreso che cos’è la poesia leggendo Dante; leggendo Dante hanno imparato a guardare la realtà, a giudicare i vivi e i morti; leggendo Dante hanno scoperto che cosa vuol dire amare, peccare, esercitare la virtù; leggendo Dante hanno formato le loro idee sulla Chiesa, sull’Impero, sulla nobiltà, sulle grandi dinastie europee, sulla poesia, sulla teologia, sulla dottrina cristiana. Insomma, in tutta Europa e poi nel mondo, per molte generazioni, la Commedia, assieme soprattutto alle poesie liriche, è stata anche un’enciclopedia del sapere, un manuale di istruzioni per il presente. Anche oggi siamo liberi di usare Dante in questo modo. Ma dobbiamo saperlo leggere, attraverso la tradizione dei commenti. E dobbiamo fare molta attenzione a non superare i limiti dell’attualizzazione. Dante può ancora insegnarci molte cose, ma non è un nostro contemporaneo.
3. La ragione pratica
Leggiamo ancora la Commedia anche perché ha un messaggio profondo che non smette di interessarci. Dante è un poeta cristiano e non è quindi possibile mettere da parte o sottovalutare la componente propriamente religiosa del poema, nel quale ha cantato «con accenti quasi divini gli ideali cristiani dei quali contemplava con tutta l’anima la bellezza e lo splendore, comprendendoli mirabilmente», come scriveva Benedetto XV nell’enciclica del 30 aprile 1921 per il sesto centenario della morte. Ma non è necessario essere cattolici per apprezzare tutta la profondità del messaggio della Commedia. Ancora oggi, infatti, quando molti non credono più nell’esistenza di Dio e pochi in un sistema di pene e di ricompense nell’aldilà, tutti hanno comunque un’idea di che cosa dovrebbe accadere dopo la morte. Il nostro mondo morale continua a fondarsi principalmente su quelli che Kant definiva i postulati della ragion pratica: l’immortalità dell’anima, l’esistenza di Dio e il libero arbitrio. La Commedia mette in scena questi postulati: ci racconta che cosa accade dopo la morte ed è un altissimo elogio del libero arbitrio, della piena responsabilità dell’uomo nella determinazione del proprio destino. E la leggiamo anche perché è un’opera scritta per cambiare la vita degli uomini, come Dante ci dice in maniera molto chiara: il fine del poema è togliere i viventi dallo stato di infelicità in questa vita e guidarli alla felicità. Non è arte per l’arte, è arte per la vita.
4. Teoria dei generi
Eppure, Dante non è nostro contemporaneo. Non lo è perché crede in tutta una serie di cose che non ci appartengono più: crede che la donna sia intellettualmente inferiore all’uomo per natura, che l’omosessualità sia un peccato, che la sete di conoscenza degli uomini debba avere dei limiti. Per questo, ad esempio, non ha fondamento storico l’idea che Dante abbia voluto rivoluzionare il modo di concepire il comportamento della donna. Certo, Beatrice è il personaggio più importante della Commedia; ma dal punto di vista di Dante è anche una donna chiusa nel suo ruolo di genere. Cercare di separare Beatrice dal modo in cui Dante, come tutti gli uomini del suo tempo, concepiva i rapporti di genere, significa non comprendere che l’esaltazione della donna - già tipica della letteratura cortese - era possibile solo all’interno di quei ruoli. Dante non vuole ribaltare il modo di concepire il rapporto tra sesso e genere: vuole esaltare la virtù, l’umiltà e la bellezza di una donna la cui immagine tende a coincidere con quella della Vergine Maria. E in questo non c’è nulla di contemporaneo. Non ha senso tentare di avvicinare Dante alla nostra concezione dei rapporti tra i generi.
5. Vicino e lontano
In questa operazione di distanziamento, tuttavia, non bisogna andare oltre certi limiti. Una volta mi hanno chiesto: “come si fa a spiegare agli studenti che l’amore di cui parlano Dante e Cavalcanti è una cosa completamente diversa da quello che si intende oggi?”. Ora, questa prospettiva è molto cauta, ma è giusta solo in parte. L’amore di cui parlano Dante e Cavalcanti è infatti lo stesso amore che intendiamo oggi. Lo è perché le nostre emozioni, le nostre sensazioni (il brivido che si prova davanti alla persona che si ama, il desiderio di possesso, la gelosia) sono esattamente le stesse che descrive Dante. Per questo è così facile sentirsi coinvolti dal canto di Paolo e Francesca, che parla del momento in cui ci si innamora e dell’impossibilità di resistere al desiderio. Quello che è completamente diverso è il sistema di idee all’interno del quale Dante inserisce quella cosa che chiamiamo amore. Un sistema che condanna duramente, senza appello, Paolo e Francesca. Il personaggio di Dante prova compassione e sviene perché Dante, in quanto autore, intende condurre il lettore a identificarsi il più possibile con il pellegrino, perché i protagonisti dei romanzi cavallereschi svengono di continuo e perché già nelle visioni medievali chi compie il viaggio nell’aldilà (san Paolo, per esempio) si impietosisce per i dannati e viene esortato dalla guida (un angelo, di solito) a condannarli e a passare oltre. Ed è questo sistema di idee che dobbiamo cercare di ricostruire oggi per capire Dante. Ma per capirlo dobbiamo conoscere l’italiano antico, la storia e la filosofia del Medioevo. È la funzione della scuola: non quella di fare leggere Dante a tutti gli studenti, ma di dare a tutti le conoscenze necessarie per poter leggere Dante.
6. Il nostro tempo
Molti si chiedono, e chiedono spesso agli studiosi, se Dante offre soluzioni per i mali del nostro tempo. Io penso che se a volte sembra offrirle - se qualcuno crede di poter trovare in Dante delle soluzioni - nella maggior parte dei casi non sono soluzioni compatibili con la nostra vita di uomini moderni. Pensiamo alle idee politiche, per esempio alle teorie per risolvere il problema della cupidigia. Siamo liberi di considerare Dante un precursore delle critiche al capitale, all’accumulazione finanziaria, all’Europa delle banche. Ma quando lo facciamo dobbiamo sapere che la soluzione politica ed economica di Dante era concentrare tutto il potere e tutta la proprietà nelle mani di un imperatore assoluto che proprio perché possiede tutto non desidera nulla e mette in questo modo un freno ai desideri smodati di tutti gli altri governanti, portando così pace e felicità nel mondo. Questa è la soluzione di Dante, che oggi - credo - piacerebbe a pochi.
7. La poesia che aiuta a vivere
Quello che dovrebbe interessarci di più è il fatto in sé che Dante avesse una soluzione per i mali del suo tempo. Leggendo Dante veniamo infatti a contatto con un’idea di poesia e di letteratura molto diversa da quella oggi più comune. Basta pensare a Bob Dylan, premio Nobel per la Letteratura nel 2016, che quando gli si chiede cosa significano le sue canzoni dichiara di non volere essere dipinto come “un uomo con un messaggio”. Dante la vede in maniera completamente diversa: è esattamente il contrario di Dylan, è un uomo con un messaggio. Anzi: è un poeta con un messaggio. Un poeta che vuole cambiare la realtà, che vuole trasformarla, che ama, odia e si vendica dei nemici scrivendo la Commedia. Dante non canta solo per sé. Canta per gli altri, nel bene e nel male.
8. La storia del nostro peregrinare
La grandezza della Commedia sta quindi nella lingua in cui è scritta (che è ancora la nostra lingua perché Dante è davvero, come abbiamo imparato a scuola, il padre della lingua italiana). Sta nel mondo possibile che Dante ha creato, un mondo nel quale tutto è fantastico (il viaggio di un uomo nell’aldilà, i suoi incontri con le anime, i diavoli, i mostri, gli angeli e alla fine la visione diretta di Dio) eppure tutto è incredibilmente reale, perché Dante è un poeta della realtà che ci fa vedere le emozioni e la natura e che ci spiega la storia e le idee. E la grandezza sta anche nella sua idea di poesia, una poesia che cambia la realtà, che cambia gli uomini, che aiuta a vivere virtuosamente sulla terra.
Ma c’è anche un’altra ragione per cui leggiamo ancora la Commedia: perché è forse in assoluto l’opera letteraria nella quale è più esplicito quel meccanismo per il quale tutti noi tendiamo a riconoscere la nostra storia nelle storie che leggiamo, cercando qualcosa che ci riguardi profondamente e che sia ancora vivo, attuale, presente. È un concetto che esprime molto bene Francesco Petrarca quando nel Secretum racconta come nelle Confessioni di Agostino aveva l’impressione di leggere non la storia degli altri, ma quella del suo proprio peregrinare.
In Dante il meccanismo è più esplicito: quella che sta raccontando è la storia di un singolo uomo che vuole ritrovare sé stesso, che vuole superare il peccato e per farlo deve conoscere ciò che accade nell’aldilà. Ma è anche la storia dell’umanità intera. Dante aveva certamente previsto che sarebbe scattato quel meccanismo di riconoscimento e scrive la Commedia sapendo che tutti i lettori futuri avrebbero ritrovato nel suo viaggio la storia del loro peregrinare. E non perché Dante possa offrire risposte ai problemi del presente, ma perché leggendo la Commedia torniamo a interrogarci sulle domande fondamentali - la libertà, la giustizia, la vita oltre la morte, il senso dell’esistere, l’esistenza di Dio.
9. Una poesia di appartenenza
In una delle più belle poesie di Satura, Montale scrive:
Dicono che la mia
sia una poesia d’inappartenenza.
Ma s’era tua era di qualcuno.
Montale risponde a una critica e per spiegare che la sua non è una poesia senza destinatario si rivolge a un tu - alla donna che ha amato - e dice che, proprio per aver parlato a lei, la sua poesia appartiene a qualcuno, è una poesia che si spinge all’esterno, che non è ripiegata sull’interiorità del poeta. Dante avrebbe potuto rispondere più o meno allo stesso modo - «Ma s’era tua era di qualcuno» - perché tra gli aspetti più straordinari della Commedia c’è che il poema è pensato per lodare una donna che incarna la perfezione cui possono tendere tutti gli uomini e che questa donna occupa un posto centrale in Paradiso. La Commedia appartiene a qualcuno perché appartiene a Beatrice.
Ma Dante avrebbe potuto rispondere anche in un altro modo. Avrebbe potuto dire: «se era mia era di tutti». Perché la Commedia è la storia di Dante e Beatrice, ma è anche la storia di tutti noi, la storia del nostro peregrinare.
Castelvecchi editore © 2021 Lit Edizioni s.a.s
Essere uno a se stessi: la poesia secondo Franco Loi
di REDAZIONE "Storie Sepolte"*
Franco Loi:
Non crediate che sapendo le regolette si scriva la poesia. C’era un falegname, era lì che segava, con una mano, e intanto parlava con noi. Quando abbiamo smesso di parlare, gli chiedo se posso provare io. Ho preso la sega, non riuscivo neanche a metterla nel legno. Perché? Perché, lui mi diceva, un legno non è sempre lo stesso. In quel caso lì, dovevo mettere la sega non dritta, ma così, quasi piatta. E mi ha detto: «Il mestiere ti fa imparare l’arte». Verissimo. E così è la poesia. Vanno bene le regole, e va bene impararle. Però bisogna anche avere l’esperienza. Amare. E la poesia è così, sei tu che devi trovare le regole.
Dante, quando ad un certo punto uno gli dice: «Ma tu non sei quello girava per le strade di Firenze cantando le sue canzoni?» risponde; «I’ mi son un, - io sono uno a me stesso; mi sono uno - che quando amor mi spira, - quando l’amore mi alita, mi muove - noto, - cioè ascolto, prendo nota - e a quel modo ch’ei ditta dentro, vo’ significando». Vado riempiendo di segni. Perché significato vuol dire segno. Segno di lingua o di costume. Ma un segno, è un segno. Ma ci vuole l’amore, e l’essere uno a se stessi.
Franco Loi:
L’ho imparato da bambino. Perché il bambino è sempre attento a se stesso. Il bambino si ascolta. E ogni piccola cosa... per esempio mio figlio, quando si muoveva. Noi quando vogliamo prendere qualcosa, lo prendiamo. Mio figlio... tac, con la mano, da una parte... tac... tac... a tentoni... e quando lo prendeva, rideva. Ma rideva, veramente, di gioia, come se avesse fatto chissà che cosa. Era riuscito a capire la distanza. E questo, noi adesso, invece, viviamo senza notare quello che succede dentro di noi, passiamo per strada, ci passano vicino le persone, vediamo cose, negozi, fiori, alberi... ma cosa succede dentro di noi, quando li vediamo? E li guardiamo, e hanno una rilevanza su di noi o non ce l’hanno? Come mai abbiamo perso il senso della vita? La vita è fatta dell’ascolto della vita. L’attenzione alla vita. E allora si impara guardando le sensazioni.
Confondiamo il buio con la tenebra. La tenebra è qualcosa che va al di là del vedere la luce, la luna o vedere le stelle. È al di là. È l’assoluta mancanza della luminosità minima. Quando siamo bambini, facciamo delle esperienze importanti, che si dimenticano. Perché poi incomincia la scuola, cominciano i rapporti con gli amici, le ragazze... ma l’esperienza delle cose che passano vicino a noi e che suscitano qualcosa vicino a noi... il nostro corpo è sensibile a tutto. I bambini di solito hanno una grande consapevolezza: il bambino si spaventa nella notte. E allora vuole venire nel letto della madre o del padre, perché è accaduto qualcosa che l’ha scosso profondamente. Lui lo sa. Ma poi quando cresciamo impariamo la logica. Serve, la logica; ma serve per muoverci tra i corpi.
Una volta, è successa una cosa importante. La sera, ho preso il mio autobus, sono sceso in piazza Durante, poi ho preso la via Casoretto e sono arrivato davanti alla chiesa. E mi ricordo che quando sono arrivato davanti alla chiesa - in quel periodo leggevo Feuerbach, e poi studiavo Carlo Marx, e quindi ero molto positivista - camminavo, e poi ho detto: forse Dante ha ragione. Non è così semplice. Può darsi che ci siano cose che avvengono, e che non ci danno modo di capirle, né di intenderle, né di avere delle esperienze.
E mentre dicevo queste cose, c’era una bella serata, con una bella luna, con le stelle... tutto questo l’ho descritto in un poema, che si chiama Strolegh. Nessuno ha capito che questo Strolegh deriva dal ricordo di quell’esperienza. Poi dentro c’è tante cose, c’è la rivoluzione francese, le partite di calcio con gli amici... un’infinità di cose. Quando ho voltato l’angolo della chiesa, improvvisamente dico: ma perché il corpo corre? E invece andavo adagissimo. Perché il corpo corre? E dentro, invece, il tempo si fermava.
Quindi avevo tre tempi. Ho detto: adesso saranno le undici e mezza, mezzanotte. E invece dentro il tempo non c’è più. È fermo. Camminavo, e sentivo una gioia straordinaria. Camminavo con questa possibilità - sentivo - di poter toccare la gente che passav dall’altra parte della strada, di poter toccare le stelle con le mani, di poter fare qualsiasi cosa. E allora questo... la baldanza, e dicevo: ma guarda, tre tempi dentro di me, e il fermarsi di un tempo, mi porta gioia.
Allora non è come sembra. L’orologio è una regola. Entriamo all’ospedale, il tempo non passa mai. Stiamo con la ragazza che amiamo, passa una giornata, e sembra che siano passati cinque minuti. Il bambino queste cose le sa già. Spesso sembra che faccia dei capricci. Il bambino vede e vive cose che noi non siamo più abituati a vivere.
Ho passato la piazza, sono arrivato all’angolo di via Teodosio. Quando ho voltato l’angolo, tutto si è rovesciato: dentro sembrava che dentro andassi ad una velocità incredibile. Io correvo, mi sono messo a correre, perché c’era un’ansia che cresceva dentro di me. E però mi pareva di star fermo. Come nel sogno, capita qualche volta, quando si è bambini, c’è la mano che vuol prenderci, noi scappiamo, e invece sembra di stare fermi. È la stessa sensazione.
Sono arrivato davanti al portone di casa mia, ho aperto il portone, e davanti a me, nell’atrio, c’era una barella con su steso mio padre. Il quale, era con gli occhi chiusi e le braccia lungo i fianchi. E ho guardato, ho guardato la lampada che ballava, dondolava. Ho guardato l’ombra, ho riguardato la lampada ho riguardato mio padre, e ho detto: è impossibile. E sono corso in mezzo all’immagine. Era un’immagine.
Però, due anni dopo, mio padre ha avuto la paresi. Abbiamo dovuto chiamare il medico, di Niguarda. Come l’ha visto, ha detto: è un ictus. E l’ha portato subito all’ospedale. E io sono andato via con gli infermieri. Per fargli strada, sono andato avanti; quando stavo per aprire il portone, ho fatto per tirare fuori la chiave - il portone si è aperto. E una signora che veniva a casa tutte le sere alle sei, quella sera chissà perché è tornata a mezzanotte. Era mezzanotte, quando l’abbiamo portato via. Quando ha aperto la porta, sono uscito, mi sono girato - e ho visto la stessa scena. C’era mio padre disteso sulla barella, con le mani lungo i fianchi, gli occhi chiusi, la lampada che dondolava.
Questa ve l’ho raccontata per dirvi che la vita è fatta di cose che conosciamo e cose che non conosciamo. Dice giustamente Einstein: «non si perviene alle leggi universali per via di logica, ma per intuizione». E l’intuizione non la facciamo noi, con la testa. È possibile nel rapporto simpatetico con l’esperienza. Cioè amoroso con l’esperienza. Perché è il rapporto d’amore con l’esperienza che ci fa raggiungere anche ciò che non conosciamo.
E questo è importante. Bisogna stare attenti. Tutte le chiese fanno una logica - teologia, si chiama - su qualcosa che non abbiamo mai visto, né sappiamo niente, che è Dio. Però questo non vuol dire che Dio non esiste. La nostra conoscenza è relativa alla corporeità, ma non sappiamo cosa c’è oltre. Le teologie e le ideologie ci fanno credere che con la logica siamo riusciti a costruirci un’immagine del mondo. Ma il mondo è sempre al di là della logica. Perfino quando si tratta di noi stessi. E allora bisogna stare attenti a noi stessi. Come Dante, che dice “I’ mi son un”, io sono uno a me stesso. [...].
*Fonte: Storie Sepolte, 25 febbraio 2017 (ripresa parziale).
Poesia.
Un affetto e la vita. Pier Paolo Pasolini
di Marco Antonio Bazzocchi (Doppiozero, 31 Ottobre 2015)
Ho un affetto più grande di qualsiasi amore
su cui esporre inutilizzabili deduzioni -
Tutte le esperienze dell’amore
sono infatti rese misteriose da quell’affetto
in cui si ripetono identiche.
Sono legato ad esso
perché me ne impedisce altri.
Ma sono libero perché sono un po’ più libero da me stesso.
La vita perde interesse perché si è ridotta a un teatro
in cui le fasi di questo affetto si svolgono:
e così ho perso l’ebbrezza di avere strade sconosciute
da prendere ogni sera
(al vecchio vento che annuncia cambiamenti di ore e stagioni).
Ma che ebbrezza nel poter dire: "Io non viaggio più".
Tutto è monotono perché in tutto non c’è altro
che un certo luccichio di occhi,
un certo modo di correre un po’ buffo,
un certo modo di dire "Paolo", e un certo modo
di straziare a causa della rassegnazione.
Ma tutto è messo in forse dal terrore che qualcosa cambi.
In ogni amore c’è una fusione tra la persona che si ama
e qualcun altro: ma ciò è naturale. Nell’affetto
ciò sembra invece così innaturale:
la fusione avviene a tali profondità
che non è possibile darne spiegazioni, trarne motivi
per congratularsi, comunque essa sia, della propria sorte.
La tenerezza che tale affetto impone
al profondo, non conduce a fecondare
né a essere fecondati, anche se per gioco;
eppure si soccombe ad esso
con lo stesso senso di precipitare nel vuoto
che si prova gettando il seme, quando si muore
e si diventa padri. Infine (ma quante altre
cose si potrebbero ancora dire!),
benché sembri assurdo, per un simile affetto,
si potrebbe anche dare la vita. Anzi, io credo
che questo affetto altro non sia che un pretesto
per sapere di avere una possibilità - l’unica -
di disfarsi senza dolore di se stessi.
Nella sua penultima raccolta di poesie, Trasumanar e organizzar, Pasolini decide con determinazione di accentuare la distanza ma anche la compresenza tra poesia pubblica e poesia su episodi privati, a volte intimi. Qui, nella sfera privata, compaiono due figure predominanti, Maria Callas e Ninetto Davoli, due presenze fondamentali nella vita dell’autore tra il 1968 e il ‘71. Non è casuale che, insieme, formino una specie di triangolo famigliare, anche se poi il sistema dei rapporti sconfessa qualsiasi immagine di famiglia tradizionale. Pier Paolo, Maria, Ninetto: Pasolini si muove intorno a questi tre nomi, li assume come oggetti di meditazione, si rivela a loro e a se stesso a volte senza nessun filtro letterario (come avviene in questo testo). Eppure spesso, a fianco di strutture discorsive semplicissime, convivono stilemi e immagini criptiche, con altro tasso di letterarietà (soprattutto nelle composizioni per la Callas). Pasolini esce ed entra dal codice poetico, lo infrange e lo riabilita, senza adottare nessun tipo di stabilità riconoscibile.
Nel rapporto con Maria, Pasolini si dichiara un figlio che non ha mai conosciuto, o voluto conoscere, il ruolo paterno. Maria, che è stata abbandonata da Onassis, è una donna adulta ma anche una bambina spaventata dal presente. E proprio perché ha perso un marito-padre adesso cerca in Pasolini, che la ha trasformata nella madre più sanguinosa del mondo antico (Medea), un uomo adulto con cui ricostruire un rapporto (la Callas era nata nel ’23, Pasolini nel ’22, erano coetanei, e anche la loro morte avviene in tempi ravvicinati, il ’75 per lui, il ’77 per lei). Il poeta, che ammira questa donna come una vera Regina, una creatura capace di vivere grandi passioni senza mai abbassare il capo, spiega a Maria che lui non può diventare un vero oggetto d’amore, dal momento che la sua condizione gli impedisce di sapere come si diventa un Padre, cioè come si consuma un rapporto erotico con una donna. Pasolini mette in luce la parte che gli manca, la maturità che gli consentirebbe di poter abitare, insieme a Maria, la Città fondata dal Padre. La città santa è il titolo della sezione del libro dove si trovano quasi tutte le poesie per la Callas. In una di queste, Pasolini le dice «La tua cultura è paterna; e dunque credi che lo siano tutte». Mentre lui, omosessuale, ha conosciuto il mondo con gli occhi della madre, e come tale lo vede. Se Maria pensa che la legge del Padre sia quella a cui bisogna obbedire, Pier Paolo invece sa (per via materna) che «chi obbedisce è destinato a disobbedire». Nell’ultima poesia, la Presenza, Pasolini utilizza un’idea dell’antropologo Ernesto de Martino per spiegare le paure con cui Maria si muove nel mondo: lei vive quelle “crisi della presenza” tipiche del mondo primitivo, quando gli individui di fronte al dolore insostenibile pensano di perdere la coscienza del proprio sé. Maria, «atterrita dal sospetto di non essere più», riesce a recitare da Madre e da Regina, anche se sa di essere una bambina e come tale ha bisogno di un uomo che le faccia da fratello.
La presenza di Ninetto bilancia, nell’insieme del libro, quella della Callas. I testi dedicati a lui fanno parte di una sezione dal titolo Piccoli poemi politici e personali, dove Pasolini scherza con le iniziali del suo nome: P.P.P. Di fronte a Ninetto, che è entrato nella sua vita nel ’64, quando girava Il Vangelo secondo Matteo, Pasolini deve ancora una volta fare i conti con l’idea di virilità e di paternità. Anche in questo caso non vuole assumere una posizione da uomo adulto, non vuole essere Padre, cerca di uscire dalle strettoie di uno stereotipo. Il sentimento di “affetto” viene caricato di valore in contrasto con quello più generico di “amore”. Pasolini ridefinisce i contorni e i rapporti dei due sentimenti: l’amore viene messo a un livello inferiore rispetto all’affetto, ed è l’affetto ad acquisire le caratteristiche attribuite solitamente all’amore: «tutte le esperienze dell’amore/ sono infatti rese misteriose da quell’affetto/ in cui si ripetono identiche».
L’intero componimento diventa così un ragionamento a voce alta con cui l’autore cerca di chiarire- innanzitutto a se stesso - perché l’affetto è superiore a qualsiasi altra forma di amore. E come questo affetto ha modificato radicalmente la condotta di vita di chi sta parlando. Potremmo pensare anche qui, come nei componimenti per Maria, alla ripresa di un tema dalla filosofia di Spinoza (Pasolini fa comparire Spinoza in una scena di Porcile, dove avviene un dialogo tra il filosofo olandese e il giovane Jullian). Deleuze spiega che in Spinoza affectus è la variazione continua della forza di esistere, prodotta sul soggetto dalla sua percezione del mondo e delle idee prodotte dagli aspetti del mondo che incessantemente si modificano. Qui Pasolini rivela come il suo comportamento sia stato modificato dalla presenza di questo affetto, e lo fa attraverso la forma retorica del paradosso: “affetto” lega all’altro ma anche libera, “affetto” rende tutto monotono ma la monotonia diventa un piacere nuovo, “affetto” non fonde le individualità ma crea un legame inspiegabile, e - soprattutto - “affetto” non significa né possedere né essere posseduti, ma anzi può spingere fino al desiderio di liberarsi di ogni cosa materiale, anche della vita.
Pasolini dichiara di sentirsi “legato”, ma il legame comporta in realtà la condizione nuova di essere «un po’ più libero da me stesso». La liberazione consiste in un cambiamento delle abitudini erotiche: Pasolini aveva più volte reso esplicite le modalità con cui avveniva la ricerca di corpi giovani per soddisfare un desiderio che non riesce mai a trovare requie. Adesso, all’ebbrezza della ricerca continua, si sostituisce l’ebbrezza del poter dichiarare la fine della ricerca: «Io non viaggio più», cioè il piacere si è ricondotto a un’unica strada, quella che si conosce, e che sta al posto di tutte le strade possibili che non si conoscono. L’immagine della unicità che ha preso il posto della molteplicità porta con sé quella della monotonia, e anche in questo caso una passione triste rivela il volto di una passione nuova, da cui è permeato ogni aspetto del mondo. È il volto di Ninetto, caratterizzato dai particolari che rimandano alla libera circolazione di energia vitale, gli stessi che Ninetto si porta dietro nel cinema: la luce degli occhi, il movimento irrefrenabile («un po’ buffo»), e soprattutto la virtù popolare della «rassegnazione».
«In ogni amore c’è una fusione tra la persona che si ama / e qualcun altro»: il verso sconfessa, attraverso la forma anomala, la reciprocità dell’amore. Cosa significa «e qualcun altro»? La fusione dovrebbe essere tra la persona che si ama e se stesso. Invece Pasolini sembra insinuare il dubbio che colui che ama, il soggetto che ama, perda la propria identità e diventi, anonimamente «qualcun altro», cioè un sé che si perde nella fusione amorosa, un sé che resta sconosciuto a sé. E poi, per rendere ancora più anomala la sua coscienza dell’affetto, Pasolini dice che nell’affetto, al contrario di quanto avviene nella fusione amorosa, il fenomeno è addirittura «innaturale», si muove in strati così profondi della personalità «che non è possibile darne spiegazioni».
A differenza di chi tenta di condurre l’amore omosessuale nell’ambito della normalità, Pasolini sposta il discorso dell’affetto nell’ambito dell’innaturale e dell’inspiegabile. Il ragionamento, come sempre, non segue la logica che imporrebbe il senso comune, cioè di ricondurre l’anomalo nei limiti della norma. Per Pasolini la norma (la Legge, che è sempre Legge paterna) va conosciuta e consumata fino in fondo, ed è dall’interno della conoscenza che si può aprire una prospettiva di scardinamento della Legge. Ora si tratta di affrontare l’erotismo in sé, l’aspetto concreto del desiderio. Foucault insegnava, quasi negli stessi anni, che l’attenzione per l’amore omosessuale aveva prodotto in Grecia una forma particolare di cura di sé, un sistema molto rigido di comportamenti secondo i quali colui che amava doveva (in quanto uomo adulto) trasmettere forme di sapere al giovane amato, che poteva essere posseduto solo fino a un certo momento della sua maturazione. Pasolini non ha mai rispettato le regole dell’eros classico, pur guardando con attenzione alla figura di Socrate. La sua scelta omosessuale si dirige verso soggetti che non richiedono un investimento culturale, o perlomeno non lo richiedono come condizione preliminare.
E qui, per scoprire fino in fondo le carte, Pasolini elimina qualsiasi opposizione tra colui che possiede e colui che viene posseduto, elimina anche l’ombra di un gioco di ruoli: «La tenerezza che tale affetto impone / al profondo, non conduce né a fecondare / né a essere fecondati, anche se per gioco». Anche questo è un paradosso, un ossimoro che si estende dal linguaggio alle pratiche. Né attivo né passivo, il soggetto di questo affetto resta scoperto proprio perché viene eliminato il concetto di “fecondazione”, cioè l’idea del coito con finalità procreative.
Dentro questo rapporto non c’è (finta) naturalezza, non c’è ipotesi di procreazione. Se il mondo ormai vuole liberare energie sessuali con il fine di creare coppie che producono e che consumano, Pasolini si rifiuta di entrare nel gioco. “Affetto” si muove su un altro piano, cerca altre forme di piacere. «Eppure si soccombe ad esso», corregge Pasolini, utilizzando per la seconda volta il pronome che non si usa per un essere umano ma per oggetti. Un «esso» che, in fine di verso, in realtà nobilita l’oggetto amato, mima le cadenze di un dialetto meridionale (Ninetto era calabrese). Si soccombe dunque anche all’affetto, dal momento che l’affetto non è sublimazione di impulsi erotici. Il verbo risuona da lontano nella memoria di Pasolini, dalle sue traduzioni giovanili di Saffo. Questa caduta nel desiderio erotico viene descritta come un precipitare nel vuoto. Ancora una volta, come nei poemi per Maria, Pasolini utilizza l’immagine del vuoto per indicare una condizione di inadeguatezza: di fronte a una donna che lo desidera, Pasolini dice che lei abita in un vuoto dominato dal Padre, che lui non conosce, ora, per descrivere il piacere che lo spinge verso Ninetto, Pasolini descrive la sensazione di precipitare nel vuoto che accompagna l’atto di gettare il proprio seme, morendo per diventare padri. «Quando si muore e si diventa padri»: così viene descritta la condizione di chi feconda col suo seme e trasmette la vita. Anche se occultato qui, in un angolo, il termine “padre” rispunta fuori, non viene del tutto censurato nel sistema simbolico del componimento. Amare un ragazzo può significare provare affetto? E l’affetto contempla l’erotismo? E se si tratta di erotismo, l’affetto contiene una componente “paterna”?
Sembra che Pasolini si muova senza requie tra questi dubbi, che diventano affermazioni intorno a una nuova forma di vita del soggetto che definisce i contorni di un desiderio fuori dalle regole.
L’erotismo si può ribaltare in morte. Diventar padre significa, metaforicamente, rinunciare a se stessi. E allora l’ultimo passaggio del ragionamento porta alla luce l’esito di questo desiderio: l’affetto è in realtà un pretesto che implica la coscienza di poter scegliere una morte che non prevede il dolore. L’affetto conduce alla liberazione di quel peso ineliminabile che coincide con il proprio sé. «Disfarsi senza dolore di se stessi», questo è l’esito finale del ragionamento intorno all’affetto. Non “morire”, ma mettere un altro al centro del mondo, rinunciare al proprio piacere per un altro. Ecco perché, fin dal titolo, “affetto” è una condizione che sta al pari di “vita”. “Affetto” (questo affetto) ha lo stesso peso di un’intera vita. Pasolini vuole che il componimento arrivi a porre in posizione perfettamente parallela le due idee. Ninetto, che nei film assume spesso la figura di Angelo, Angiolino, il Nunzio, è realmente l’annunciatore di una nuova vita, di una nuova pratica di vita. Come Hermes Mercurio, Ninetto è una divinità dei passaggi. Come il duende di cui parlava Garcia Lorca, è capace di far scaturire una imprevista energia che ridona vita al corpo.
Michelangelo ritratto in uno schizzo a margine di un’antica Divina Commedia: l’incredibile scoperta di James Hall *
06 Settembre 2022 *
Lo storico inglese James Hall lo sostiene con certezza: una vecchia edizione della "Divina Commedia" di Dante Alighieri recherebbe in calce un disegno nascosto che ritrae Michelangelo Buonarotti intento a scolpire. Il prezioso volume è custodito nella Biblioteca Vallicelliana di Roma e risale al XV secolo.
"Lo scultore, finora sconosciuto, può essere identificato con Michelangelo durante o poco dopo il suo trionfale successo nell’intaglio del David (1501-4)", scrive infatti il docente all’University of Southampton, che presenterà la sua ricerca in un volume intitolato "The Artist’s Studio: A Cultural History", che sarà pubblicato dall’editore Thames & Hudson il 21 ottobre in Gran Bretagna.
In un’intervista rilasciata a The Art Newspapers lo studioso ha sottolineato: "Durante una conferenza ho visto brevemente questo disegno straordinario. Mi sono chiesto se avrei potuto includerlo nel mio libro. Dopo alcuni mesi, ho improvvisamente pensato che molti dei pezzi del puzzle sembrano corrispondere a Michelangelo".
“Il disegno mostra un artista al lavoro per scolpire una testa colossale, brandendo un martello. Alle sue spalle si trova una statuetta senza braccia. Il disegno appare nel primo canto dell’Inferno, nel momento in cui Dante decide coraggiosamente di prendere la "via maestra" attraverso l’Inferno. Lo scultore ha abbandonato la statuetta più frivola per scolpire la testa colossale.”
"La testa sembra girarsi sulla spalla, con un sorriso. Credo che debba essere un fauno" spiega Hall, "Mi ricorda molto il fauno che si aggrappa alla gamba del Bacco di Michelangelo (1496-7).
I
noltre, sul soffitto della Sistina, ci sono putti decorativi fissati sull’architettura che fiancheggiano i profeti e le sibille, che sono simili, girando con espressioni sfacciate sui loro volti; sembra molto in quello spirito".
"Le teste hanno uno stile molto classico e questo si adatta anche al passo di Dante in cui, ancora esitante, dice: ’Non sono Enea, né San Paolo’. Quindi Dante sta dicendo che non sono una di queste grandi figure. Ma è quello che diventa quando entra nell’Inferno. Così come Michelangelo quando realizza opere immense che superano l’antichità".
"Si pensava che l’edizione di Dante appartenesse alla famiglia Sangallo, che era composta da architetti e scultori, principalmente di Firenze e Roma. Ma recentemente questa ipotesi è stata messa in discussione perché la grafia delle annotazioni sul libro non sembra corrispondere a quella dei Sangallo", aggiunge Hall intervistato da "The Art Newspaper". "Un artista toscano o anche un dilettante di talento potrebbe aver creato la raffigurazione di Michelangelo", aggiunge Hall.
*Fonte: Il Giornale d’Italia, 06.09.2022
ANTROPOLOGIA FILOSOFIA E PSICOANALISI: A TEATRO, A TEATRO! Per "aprire gli occhi" (Freud) e ricomprendere il senso dell’amore di Platone, rileggere il "Simposio" e riascoltare i poeti: ripartire da Shakespeare!
LA "REPUBBLICA" DI PLATONE: "C’È DEL MARCIO IN DANIMARCA"("AMLETO"). A seguire le indicazioni filologiche (più che i manuali di storia della filosofia, forse, si può meglio comprendere il gioco e il giogo di Platone: appropriarsi di "tutta" la "forza" ("sos-kratos") di una figura del "demos" (popolo), il famoso e saggio "So-crate", e restaurare e ripresentare tutta la forza ("sos-kratos") della vecchia aristocrazia terriera come l’arché, il principio, il fondamento dell’intera società ateniese e... di tutta la Terra.
IL "SIMPOSIO", FONDAMENTO DEL PLATONISMO PER IL POPOLO (Nietzsche): "COME VI PIACE". Per ben orientarsi e comprendere il senso del racconto di Diotima narrato da Socrate sulla figura di Eros, l’amore platonico, vale la pena riflettere su quanto già dice Shakespeare circa quattrocento anni fa:
"HANG UP PHILOSOPHY"("ROMEO E GIULIETTA", III, 3, 57):"L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO" (Sonetto 116). A commento di "queste parole" pronunciate da Rosalinda, la "donna più arguta", Harold Bloom scrive: "Shakespeare non consente a nulla che assomigli alla suprema intelligenza di Rosalinda di interferire con l’autentico rapimento di Giulietta [...] Shakespeare fa in modo che Giulietta pronunci la più nobile dichiarazione d’amore romantico mai scritta in inglese:
Dobbiamo valutare il resto dell’opera in base a questi cinque versi, mirabili per il loro giusto orgoglio e la loro intensità [...] Credo di non essere il solo a sostenere che l’amore condiviso da Romeo e Giulietta sia la passione più sana e costruttiva regalataci dalla letteratura occidentale" (H. Bloom, "Shakespeare. L’invenzione dell’uomo", Rizzoli, Milano 2001, pp.62-63).
La tradizione monastica per rileggere Dante
A 700 anni dalla morte di Dante Alighieri, una nuova prospettiva di approccio alla lettura della Divina Commedia. Ad offrirla è il libro di Giulio d’Onofrio “Per questa selva oscura”, edito da Città Nuova. Una ricerca durata circa dieci anni conduce lo studioso a dimostrare il forte influsso esercitato dalla cultura alto-medievale, patristica e monastica, nell’opera del Divino Poeta.
di Paolo Ondarza *
Città del Vaticano. Un’invocazione nascosta in un antico commento al Pentateuco redatto dal monaco alto-medievale, Bruno di Segni, che fu vescovo della città di Asti ed entrò in contatto con personaggi chiave della cultura dell’XI secolo avrebbe ispirato l’incipit della Divina Commedia. “Ma ora io rendo grazie a Dio onnipotente, che fino a qui mi ha guidato sulla via dritta, come credo, per questa selva oscura assai fitta”, scrive il religioso al termine della faticosa stesura del commento al libro dell’Esodo. Impossibile non riconoscere in queste poche righe una forte analogia con l’incipit della Divina Commedia. Un’assonanza che poche righe più giù ritorna ancora in Bruno di Segni quando definisce la selva “aspra” e “amara”.
La scoperta destinata ad accendere il dibattito culturale è il frutto del lungo ed articolato studio condotto da Giulio d’Onofrio, docente di storia della filosofia medievale all’Università di Salerno, nel libro “Per questa selva oscura”, appena pubblicato da Città Nuova.
“É la testimonianza - spiega l’autore a Vatican News - che Dante utilizza e conosce le fonti che costituivano la base della tradizione monastica”. Una simile premessa, “apre alla possibilità di leggere Dante non come classicamente si fa, ovvero come un aristotelico, dipendente per lo più da Tommaso d’Aquino e Alberto Magno. Senza negare l’influenza di questi autori del XIII secolo, si può quindi affermare che la cultura alto-medievale, patristica e monastica, abbia fortemente influenzato la concezione dantesca in relazione ad un tema molto forte nella Divina Commedia come la purificazione dell’uomo dal male e l’attuazione delle virtù, intesa come realizzazione del progetto che Dio ha pensato quando ha creato l’uomo”.
In estrema sintesi si comprende meglio la missione di Dante: “portare la verità del Vangelo agli uomini che l’hanno dimenticata e mostrare che per tutti c’è la possibilità di essere felici”. La mentalità monastica infatti era tutta “finalizzata alla realizzazione dell’uomo perfetto che attua in sé, ciò che Dio vuole per lui fin dai tempi della creazione”. Questa visione della vita ricalca quella della filosofia antica secondo cui l’uomo è felice quando realizza la propria perfezione dell’anima, entelechia, le capacità e le virtù che ha in sé”.
La conoscenza da parte di Dante di queste idee apre a nuove interpretazioni della sua opera: “É una concezione di tipo platonizzante - prosegue d’Onofrio - che implica la presenza di archetipi, di idee eterne nella mente di Dio. In questo modo possiamo leggere in modo nuovo famosi testi come il sonetto dantesco Tanto gentile e tanto onesta pare: da sempre studiato come ispirato all’amore cortese e all’ideale della donna angelo, se riletto alla luce delle fonti monastiche si comprende che l’ideale di bellezza incarnato da Beatrice è quello dei filosofi greci antichi: perfezione dell’idealità dell’essere umano che realizza in modo perfetto la volontà divina. Beatrice in questo sonetto è infatti anticipazione delle virtù di Maria descritte da Dante nell’ultimo canto del Paradiso”.
“Nella terza cantica inoltre - prosegue d’Onofrio - Il luogo dove sono i santi è la mente di Dio. Dante viene accolto nella mente di Dio per poter raccontare agli uomini come purificarsi dagli errori e raggiungere la beatitudine. É nella mente di Dio che le creature diventano come Dio, perché desiderano ciò che Dio desidera.
Lo studio di D’Onofrio è una testimonianza della fecondità e della ricchezza, ancora da penetrare a fondo, dell’opera di Dante Alighieri, il cui messaggio, a quasi settecento anni dalla morte, è “immensamente attuale”. “Le prospettive aperte da questo studio - aggiunge l’autore - non sono state finora considerate abbastanza. Se ad esempio leggiamo la parola virtute la traduciamo automaticamente come “virtù, perfezionamento etico”, ma nel linguaggio alto medievale essa indica la potenzialità, l’attuarsi di ciò che è nelle capacità dell’uomo e che con una conversione al bene si può attuare”.
“Allo stesso modo va compresa la parola salute: Dante si innamora di Beatrice quando gli concede il saluto. Lei, è mediatrice tra umano e divino, venuta da cielo in terra a miracol mostrare, salutando si fa portatrice di salvezza”.
Per intendere pienamente il pensiero di Dante quindi occorre penetrare ciò che lui ha studiato e comprendere il contesto nel quale si è formato e dal quale ha preso le mosse per compiere l’alta missione, teoretica ed etica, di elevazione e rieducazione dell’umanità, dispersa in una selva oscura.
* Fonte: L’Osservatore Romano, 04 gennaio 2021
NOTA:
DANTE E BEATRICE (BELLA DEGLI ABATI, LA MADRE)
Dopo i maestri del sospetto (Marx Nietzsche e Freud), come è possibile (Kant) continuare a pensare all’altezza del #Dantedi2021 che il Sommo Poeta tradisca spiritualmente la sua sposa Gemma Donati e i suoi figli e la sua figlia Antonia, suor Beatrice? Sogno o son desto?
SANTI E BEATI.
Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Corpus Domini)
di P. Giovanni Lauriola ofm *
La festa del Corpus Domini è la festa del Corpo del Signore, è la festa dell’Eucaristia. Per la presenza reale di Cristo, l’Eucaristia richiama direttamente alla memoria il mistero dell’Incarnazione, che costituisce l’asse portante e centrale della sua stessa realtà sia nella concezione teologica che pastorale. Poiché con il mistero dell’Incarnazione, l’uomo è stato come “divinizzato”, Cristo per assicurare nel tempo questa delicata e speciale identità all’uomo, si è costituito “pane” per alimentarlo spiritualmente lungo l’arco del tempo. L’Eucaristia, pertanto, è fundamentum et forma o fons et culmen della Chiesa, che, così, diventa la “continuazione storica dell’Incarnazione”, con il compito specifico di amministra tutti i beni della Redenzione, operata liberamente dallo stesso Cristo, e consegnato specialmente nel settenario sacramentale.
Pensiero magistralmente espresso e confermato modernamente dal concilio Vaticano II in diversi documenti. I principali. Attraverso questo settenario, i credenti “si uniscono in modo arcano e reale a Cristo sofferente e glorioso... [E specialmente] nella frazione del pane eucaristico, partecipando noi realmente nel Corpo del Signore, siamo elevati alla comunione con Lui e tra di noi... Così noi tutti diventiamo membri di quel Corpo... [di cui] il capo è Cristo... l’immagine dell’invisibile Dio, e in Lui tutto è stato creato” (LG 7). L’“Eucaristia, come centro vertice della storia della salvezza, rende presente quel Cristo, che della salvezza è l’autore” (AG 9). “Nell’Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo...che, mediante la sua Carne... dà vita agli uomini”, confermando “nel suo Sangue la Nuova Alleanza” (PO 5. 4). Per mezzo dell’Eucaristia “i fedeli hanno accesso al Padre per il Figlio, Verbo Incarnato, che ha sofferto ed è stato glorificato, nell’effusione dello Spirito santo, ed arrivano alla comunione con la santissima Trinità” (UR 15); “con il sacramento del pane eucaristico viene rappresentata e realizzata l’unità dei fedeli che costituiscono un solo corpo in Cristo” (LG 3).
Storia
L’origine storica della festa del Corpus Domini risale al 1247, in Belgio, per contrastare le conseguenze della tesi di vescovo Berengario di Tours, che, nel 1047, aveva affermato essere la presenza di Cristo nell’Eucaristia solo simbolica e non reale. La questione, però, rivela un diverso modo di considerare l’Eucaristia. Difatti, prima del XI secolo, l’attenzione era rivolta non tanto sul fatto dell’Eucaristia in sé stessa, quanto di essere offerta per nutrire e santificare l’uomo. Si riconosceva il fine dell’Eucaristia, ossia la presenza reale del Corpo e del Sangue di Cristo, solo indirettamente attraverso gli effetti santificanti nell’uomo che si comunicava. A partire dal XI secolo, invece, l’attenzione si concentra principalmente sul realismo eucaristico, per cui la presenza reale di Cristo diviene il fine principale.
A questa diversa visione di considerare l’Eucaristia, si accompagnò anche una diversa manifestazione della devozione, imperniata direttamente sull’Ostia, per adorarla. Spesso, questo modo devozionale ha portato anche a delle esagerazioni: i fedeli, a volte, andavano da una chiesa all’altra per contemplare l’Ostia, e il sacerdote doveva tenerla in ostensione più del solito, per favorire la devozione; e la stessa contemplazione sostituì, a dirittura, la stessa Comunione eucaristica, tanto da indurre la Chiesa a porre l’obbligo al fedele a ricevere l’Eucaristia almeno una volta all’anno. Precetto valido ancora oggi (Codice di Diritto Canonico, can. 920). Urgeva, quindi, una presa di posizione ufficiale dell’autorità della Chiesa.
Due le occasioni che favorirono l’intervento del Papa. Una, di carattere teologico, venne dalla tesi di Berengario, che, negando la possibilità di separare gli accidenti visibili dalla sostanza, senza negare la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, rifiutava la tesi della conversione di sostanza del pane e del vino nel corpo e sangue del Cristo. Dopo varie condanne contro Berengario (concilio di Parigi 1051, di Tours 1055, di Roma 1059, Poitiers 1075, di Saint Maixeut 1076 e nuovamente a Roma nel 1078), dove, in un concilio convocato in Laterano (1079) dall’amico Ildebrando, diventato nel frattempo Papa Gregorio VII, Berengario firmò un atto di fede, in cui ritrattava completamente le sue concezioni e affermava di credere alla presenza reale di Cristo nell’Eucaristia. Verità definita, poi, nel 1215, dal concilio Laterano IV, come dogma di fede. L’altra occasione, di carattere devozionale, è dovuta alle visioni di suora benedettina Giuliana di Cornillon (1191-1258), che, tra gli anni 1207-1227, raccontò di avere visto una luna splendente, simbolo della Chiesa, turbata da una macchia opaca. Il segno venne interpretato, dagli esperti dell’epoca, come una richiesta di istituzione di una festa liturgica in onore dell’Eucaristia. E, il vescovo di Liegi, Roberto di Thourotte, nel 1246 istituì la festa del Corpus Domini nella sua diocesi; il suo esempio fu imitato da altri vescovi nelle rispettive diocesi.
A questo movimento devozionale, è da aggiungere anche il miracolo di Bolsena nel 1263. Urbano IV, che si trovava a Orvieto, mandò sul luogo il Vescovo di Orvieto, Giacomo, per verificare il fatto. Questi, in compagnia dei teologi Tommaso d’Aquino e di Bonaventura da Bagnoregio, oltre a constatare il miracolo, portò le stesse reliquie al Papa, che le espose in cattedrale alla venerazione del popolo di Orvieto. E così, Urbano IV, l’11 agosto 1264, estese la festa del Corpus Domini alla Chiesa universale con la bolla Transiturus de hoc mundo: (“Quando stava per passare da questo mondo”), in cui dava anche la motivazione: “Sebbene l’Eucaristia ogni giorno venga solennemente celebrata riteniamo giusto che, almeno una volta l’anno, se ne faccia più onorata e solenne memoria. Le altre cose, infatti, di cui facciamo memoria, noi le afferriamo con lo spirito e con la mente, ma non otteniamo per questo la loro reale presenza. Invece, in questa sacramentale commemorazione del Cristo, anche se sotto altra forma, Gesù Cristo è presente con noi nella propria sostanza. Mentre stava, infatti, per ascendere al cielo disse: ‘Ecco io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo’“ (Mt 28, 20).
[...]
L’Eucaristia come fons del culto a Dio
L’Eucaristia è il sacramento per eccellenza, perché contiene ciò che realmente significa, il Verbo Incarnato, il Cristo, il Christus totus. Mentre gli altri sacramenti significano la grazia accidentale conferita a colui che li riceve; l’Eucaristia, invece, significa e realmente contiene la grazia essenziale, cioè lo stesso Cristo, che è la fonte d’ogni grazia, “caput omnis gratiae”.
Poiché Cristo ha voluto restare tra noi in modo permanente, ha scelto anche il segno sacramentale di permanenza nell’Eucaristia. La sua presenza reale aiuta molto il credente a sviluppare la giusta devozione verso di Lui e amarlo in modo degno. Tanto è vero che ogni azione di culto nella Chiesa ha fondamento e perfezione solo in relazione all’Eucaristia. Lo si nota specialmente sia nel sacerdote che celebra con più diligenza i sacramenti, e sia il popolo che assiste con più devozione alla santa Messa. Si potrebbe anche pensare, per assurdo, se nell’Eucaristia non ci fosse la presenza reale di Cristo, tutti altri sacramenti perderebbero di importanza, e sparirebbe, forse, ogni devozione nella Chiesa, e non si potrebbe offrire il culto di adorazione o latria a Dio; dal momento che solo all’Eucaristia è dovuto il culto di latria come a Dio. Le stesse chiese non sarebbero che un luogo freddo e gelido, come un corpo senz’anima, senza cuore e senza sangue, un semplice ammasso ordinato di pietre.
L’Eucaristia e la Chiesa
Il rapporto tra Eucaristia e Chiesa è molto stretto e intenso. E questo specialmente in ordine al sacramento dell’Ordine che produce l’Eucaristia, e l’Eucarestia a sua volta realizza e alimenta la Chiesa, intesa principalmente come Corpo Mistico di Cristo. Scopo preminente del Corpo Mistico di Cristo è l’unità più profonda di tutto il genere umano nella carità più perfetta e nella consumazione dell’unità. Per quanto riguarda la struttura sacramentaria della Chiesa, fondata dallo stesso Cristo per stimolare e sviluppare la crescita spirituale della stessa realtà ecclesiale del Corpo Mistico, un posto privilegiato occupa certamente il “sacerdozio”. Onde la grande cura con cui bisogna trattare l’ordine sacerdotale, che attraverso il suo ministero unisce i fedeli allo stesso capo, che è Cristo. La dignità e la grandezza del sacerdote proviene direttamente dalla sua relazione con l’Eucaristia, nella cui offerta egli agisce sempre in nome di tutta la Chiesa. Per questo si può chiamare coi nomi più belli e di grande spessore teologico: “mediatore tra Dio e la Chiesa”, “ambasciatore della sposa allo sposo”, “vicario di Cristo”.
Culto
L’Eucaristia, come il continuo “presente” storico di Cristo, costituisce veramente il cuore della Chiesa, il culmine e il vertice del culto latreutico a Dio, come Cristo stesso dice: “Che siano tutti una cosa sola, come tu sei in me, o Padre, ed io in te; che essi siano una cosa sola in noi, affinché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu mi desti, io l’ho data loro, perché siano una cosa sola, come noi siamo una cosa sola, io in essi e tu in me, affinché siano perfetti nell’unità” (Gv 17, 21-23).
La festa del Corpus Domini, essendo una delle più popolari della cristianità, viene festeggiata con imponenti processioni. A Roma, la processione è presieduta dallo stesso Papa.
L’uso della processione nella festa del Corpus Domini è stata introdotta da Giovanni XXII, nel 1316.
Normalmente la celebrazione del Corpus Domini si festeggia sessanta giorni dopo la Pasqua, ossia il giovedì dopo la festa della SS. Trinità, nei paesi dove è festa di precetto; dove, invece, non è festa di precetto, si posticipa alla domenica successiva, come in Italia dal 1977.
* Fonte: Santi e Beati (ripresa parziale).
DANTE ALIGHIERI, SHAKESPEARE, E "ROMEO E GIULIETTA". Un problema di filologia, storia della letteratura e ...
ARTE E STORIOGRAFIA. UN QUADRO DI CESARE SACCAGGI, DAL TITOLO "INCIPIT VITA NOVA. DANTE E BEATRICE, 1903", più che richiamare la vita e le opere di Dante Alighieri richiama straniantemente l’immagine di "Romeo e Giulietta", quasi in tonalità per il film di Zeffirelli,1968).
Paradossalmente si potrebbe (quasi) ben pensare che il fraintendimento della situazione familiare di Dante sia stata prodotta inizialmente da un lavoro storiografico poco critico e, in seguito, da continui elementi di rinforzo come lo stesso successo dell’opera "Romeo e Giulietta" di Shakespeare.
DANTE IN INGHILTERRA. Da considerare che il quadro di Cesare Saccaggi (1903) viene dopo il grande lavoro portato avanti da Dante Gabriel Rossetti e dai preraffaelliti.
DANTE2021. Dopo secoli di sonnambulismo e di equivoci interpretativi, non è il caso di svegliarsi dal letargo (Par. XXXIII, 94) e cominciare a pensare semplicemente (come suggerisce lo stesso Dante Alighieri nella Divina Commedia) che la tradizionale e cosiddetta Beatrice Portinari non è affatto la Giulietta di Dante, ma la figura della sua stessa madre Bella degli Abati, morta quando egli era piccolo?!
Virgilio, nel raccontare a Dante dell’incontro con Beatrice, quando dice "E donna mi chiamò beata e bella" (Inf. II, 53), di chi sta parlando? Di Beatrice Portinari?!
Beata e Bella.... le idee straniantemente cominciano a diventare più chiare e luminose: la figlia di Dante, Maria Antonia, diventata suora, sceglie di chiamarsi suor Beatrice. Perché? Non vale la pena, forse, di riprendere a leggere la Comedìa.... finalmente!
Federico La Sala
Riletture.
La processione della Bibbia nella "Commedia"
Fra i commentatori cresce l’interesse per la Sacra Scrittura nella Commedia. Più che “processione mistica”, il canto XXIX è la processione della Bibbia
di Antonio Pitta (Avvenire, domenica 24 aprile 2022)
«Ch’al collo d’un grifon tirato venne». Il passo del Purgatorio (XXIX, 108) è il fulcro dell’ermeneutica biblica per Dante. Senza sottovalutare il debito per la letteratura, fra i commentatori cresce l’interesse per la Sacra Scrittura nella Commedia. Più che “processione mistica”, il canto XXIX è la processione della Bibbia. Si è nello snodo tra il Purgatorio e il Paradiso e Matilde invita Dante a guardare oltre «l’affetto de le vive luci». La processione inizia le “sette liste” dello Spirito Santo menzionate nell’Apocalisse (Ap 1,13-20. La prima parte del corteo vede «ventiquattro seniori»: secondo la tradizione latina ventiquattro sono i libri dell’Antico Testamento, il codice imprescindibile per il Nuovo Testamento. Al centro sono posti i simboli dei quattro evangelisti: Marco (il leone), l’uomo (Matteo), il bue (Luca), e l’aquila (Giovanni). I vangeli circondano «un carro... triunfale». La Chiesa è il carro che occupa la parte centrale della processione: avvolta dalla Scrittura, la Chiesa trova in essa il suo spazio vitale.
Il centro della processione è occupato dal grifone che conduce il carro. Con le due nature - umana (il leone) e divina (l’aquila) - il grifone è Gesù Cristo che, da Risorto, guida la Chiesa e conferisce senso alla Scrittura. Segue la sosta sul tipo di processione: è trionfale come quella di Scipione e di Cesare Augusto. Così è evocato l’incontro finale con il Risorto nella parusia (1Ts 4,17).
Nella seconda parte, il corteo riprende con tre donne: l’amore (il rosso), la speranza (lo smeraldo) e la fede (la neve), citate in 1Ts 1,3. A sua volta, l’amore genera le quattro virtù cardinali (la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza) ereditate dallo stoicismo. La processione avanza lenta verso l’epilogo con Luca, autore anche degli Atti degli apostoli, e Paolo: «due vecchi in abito dispari». Paolo è rappresentato con «la spada lucida e aguta, / tal che di qua dal rio mi fé paura». Pur trovandosi all’altra riva del Lete, il poeta è spaventato dalla spada della parola di Dio. La visione termina con «quattro in umile paruta»: Pietro, Giovanni, Giacomo e Giuda, gli autori delle lettere minori. «Un vecchio solo / venir, dormendo» chiude la processione della Bibbia: è l’autore dell’Apocalisse. A questo punto la processione si ferma davanti a Dante «con le prime insegne».
La processione della Bibbia esprime alcuni contenuti d’inestimabile attualità. Paragonata alla «gran foresta», la Bibbia è riconosciuta per la sua natura letteraria che veicola la sua ispirazione: «La Scrittura condescende / a vostra facultate, e piedi e mano / attribuisce a Dio e altro intende» ( Paradiso, IV, 43-45). Il motivo della condiscendenza rinvia alla concezione patristica della Scrittura e anticipa «l’ammirabile condiscendenza dell’eterna Sapienza» (cfr. la costituzione del Concilio Vaticano II Dei Verbum, 13).
Spesso l’ermeneutica biblica ha visto una scissione nociva con la letteratura, come se l’ispirazione biblica potesse prescindere dall’ispirazione artistica e viceversa. Contro tale frattura, all’inizio del canto XXIX Dante chiede il soccorso delle muse affinché l’aiutino a mettere in versi «forti cose». Quanto più la Bibbia è letta secondo le dinamiche dell’ispirazione artistica, tanto più veicola significati sempre più profondi. L’unità della Scrittura con i quattro sensi caratterizza la processione del carro con il grifone: il senso letterale da cui fluiscono il senso allegorico (la fede), morale (l’amore) e anagogico (la speranza). Tra senso letterale e spirituale c’è un diuturno travaso: il senso letterale senza quello spirituale cade nel letteralismo; il senso spirituale senza il letterale naufraga nello spiritualismo. Soltanto lo Spirito genera il “trascendimento” (cfr. l’esortazione apostolica di Benedetto XVI Verbum Domini, 38) dalla lettera agli altri sensi della Scrittura: è la “trasfigurazione” della Parola (cfr. il motu di Francesco Aperuit illis, 14).
La Chiesa (il carro) e Gesù Cristo (il grifone) catalizzano la processione della Bibbia. Senza la Sacra Scrittura, la Chiesa è un carro impantanato. Soltanto Cristo, morto e risorto, conduce la Chiesa dove, quando e come vuole nella storia umana. Una mirabile inclusione apre e chiude la processione della Bibbia nella Commedia: a «vidi le fiammelle andar davante» corrisponde il carro che si ferma di fronte a Dante con «le prime insegne». Scriveva bene L. Alonso Schöckel: «La Bibbia non è stata scritta per i biblisti, né il Don Chisciotte per gli studiosi di Cervantes, né la Divina Commedia per gli esperti di Dante».
Della superiorità della commedia
Categorie italiane.
di Roberto De Gaetano (Fatamorgana web - n.19, 2022)
Categorie italiane, da poco ripubblicato da Quodlibet in una nuova edizione accresciuta, contiene il saggio più bello di Agamben, Comedìa. Partendo da Dante, Agamben ricostruisce attraverso la distinzione tragedia-commedia il destino della soggettività occidentale, la frattura tra natura e persona dopo la perdita dell’innocenza edenica, e il senso che acquista questa frattura nel passaggio dalla antichità classica al Medioevo.
Commedia e tragedia non definiscono meramente dei generi realizzati per la scena e lo spettacolo, ma individuano due mythos in quanto - aristotelicamente - forme di «imitazione dell’azione», che si distinguono non tanto per la tipologia sociale dei personaggi rappresentati quanto per i temi e le forme connessi agli intrecci. Nella Lettera a Can Grande, Dante scrive: «La tragedia dapprincipio è ammirabile e quieta, e nella fine o esito è rivoltante e terrificante. [...] La commedia comincia dalle difficoltà di un soggetto qualunque, ma la sua materia termina felicemente».
Ora, se ciò che conta è la fine e il suo essere migliore o peggiore dell’inizio, va valutato cosa significa esattamente questo. Nel mythos tragico il finale è espulsivo, e si conclude con la morte reale o simbolica (allontanamento dalla comunità) del personaggio, collocato in posizione isolata ed esposta; nel mythos commedico il finale è integrativo, e si conclude con l’inclusione sociale dei nuovi soggetti, spesso giovani che convolano a nozze dopo aver superato l’ostacolo posto dai vecchi.
Queste due forme generiche sono contrapposte, ma non del tutto. Tant’è che Platone conclude il Simposio dicendoci che «chi è poeta tragico per arte è anche poeta comico». Tragedia e commedia sono dunque distanti ma anche prossime, e possono essere soggette a capovolgimenti improvvisi. Come quando l’elusione tragica si ribalta in riconoscimento commedico (per riprendere il lessico di Stanley Cavell). È quello che accade in Racconto d’inverno di Shakespeare, quando solo il riconoscimento finale del re Leonte toglie la moglie Ermione dalla condizione “pietrificata” in cui la gelosia iniziale l’aveva condotta.
Che cos’è allora che avvicina e allo stesso tempo separa il tragico dal commedico? E qui Agamben tocca il cuore della questione, ritrovandola nella nozione di maschera. Sappiamo come quest’ultima sia legata, anche etimologicamente, alla persona, che è il dispositivo che costituisce il soggetto come scarto dalla natura. Lo scarto è determinato dall’azione intrapresa, indipendentemente dagli effetti che questa determinerà. E ogni azione è imputabile e dunque (potenzialmente) colpevole.
Nel tragico antico la colpa è naturale e la persona è innocente, o colpevole solo sotto un qualche rispetto: Edipo è e non è colpevole. Ma il punto decisivo è che l’eroe tragico non è colpevole “moralmente” e dunque le sue colpe non possono essere emendate. L’eroe è subordinato ad un destino irriscattabile. Con il Cristianesimo le cose cambiano, le colpe diventano personali e dunque emendabili: «Rovesciando il conflitto tra colpa naturale ed innocenza personale nella scissione tra innocenza naturale e colpa personale, la morte di Cristo libera l’uomo dalla tragedia e rende possibile la commedia» (Agamben 2021, p. 30).
Due straordinari film di Clint Eastwood, Mystic River e Gran Torino, mostrano letteralmente la differenza: il primo un tragico antico dove una violenza fondativa, il cui tratto indefinito la iscrive in una sorta di colpevole ordine naturale, segna il destino irriscattabile di tre amici; il secondo un sacrificio cristologico che apre ad un finale commedico: un Eastwood vecchio e malato si farà uccidere per dare nuova possibilità di vita al ragazzo. Tra i due film c’è una sorta di passaggio dalla «coscienza tragica» alla «redenzione cristiana» (Jaspers 1987, p. 24).
Questo passaggio coinvolge profondamente la maschera, la “persona aliena”. Se nel tragico la maschera viene a plasmarsi mimeticamente sul volto tanto da rendersi indiscernibile dal carattere e dal destino che lo segna, tant’è che carattere, destino e maschera coincidono nel nome proprio del personaggio (Edipo), nella commedia la maschera è sfilabile. E la sfilabilità diviene la forma di non-coincidenza tra soggetto e maschera, tra soggetto e destino. Il soggetto è ciò che non ha destino e che non rimane incastrato in una maschera. Il soggetto non coincide con la sua azione, e dunque neanche con l’intreccio. Anzi, come nel caso della commedia dell’arte, le maschere sono continua disponibilità ad entrare in sempre nuovi intrecci e trasformano l’azione imputabile in gesto comico, lazzo. Su questo Agamben interverrà in una potente riflessione sul comico a partire dalla maschera di Pulcinella: «La tragedia: un destino che non si è voluto, ma in cui si cade per un errore nell’azione, che, pertanto deve essere in qualche modo punito. La commedia: un carattere incorreggibile, come il suo errare, che non ha la forma di un’azione, ma di un lazzo» (Agamben 2015, p. 53).
Il transito dalla maschera tragica a quella comica, dall’uso “sconveniente”, cioè totalmente adesivo, che implica la prima, all’uso “conveniente”, cioè distaccato, della seconda, viene pensato per la prima volta in epoca tardo antica: «Tragica, per gli stoici, non è la maschera in sé, ma l’attitudine dell’attore che si identifica con essa» (Agamben 2021, p. 36). L’eroe tragico, identificato dalla sua maschera, a sua volta effetto di un intreccio, implica un attore adesivo, più che mimetico, alla “persona aliena”. L’anti-eroe comico porta con sé un attore che si manifesta, all’opposto, nella forma di uno scarto costante dalla maschera stessa (nella nostra tradizione novecentesca è sufficiente pensare a Totò).
Allora, il passaggio alla commedia per il tramite della personalizzazione della colpa comporta da un lato la socializzazione del processo di emendazione della stessa (la commedia è sempre sociale); dall’altro, liberando la “natura umana” dalle colpe e dalla necessità del destino, la commedia espone il soggetto come facoltà di essere sia questo sia quello; di essere dunque tra questo e quello, tra una maschera e l’altra, tra il soggetto e la maschera.
La commedia manifesta sempre il soggetto come facoltà (libera) e la tragedia come necessità. Da dove la sua superiorità. È la natura umana ad essere costitutivamente comica, perché segnata dall’inappropriabilità totale dell’esperienza da parte del soggetto. Di tale estraneità all’esperienza, la maschera comica è indizio esemplare, la maschera tragica scorciatoia elusiva ed illusoria, tesa alla cancellazione della distanza. Tragico è il destino dell’umano incapace di abitare la leggerezza dello scarto comico tra facoltà ed esperienza. È per questo che l’inoperosità, concetto chiave dell’ultimo Agamben, è da intendersi al fondo come concetto proprio della commedia. Non tanto paralisi contemplativa in uno stato teorico lontano dalla prassi, ma forma vera e propria in cui la prassi destituisce sia la sua effettualità sia la sua imputabilità e il soggetto si sente nella sua libera disponibilità.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi, Nottetempo, Milano 2015.
S. Cavell, Alla ricerca della felicità. La commedia hollywoodiana del rimatrimonio,
Einaudi, Torino 1999.
K. Jaspers, Del tragico, SE, Milano 1987.
Giorgio Agamben, Categorie italiane, Quodlibet, Macerata 2021.
UNA QUESTIONE DI LANA CAPRINA E E IL "SOGNO" DELLA "DIVINA COMMEDIA" ...
Scambiare un montone, un ariete, con un caprone, e identificare capro espiatorio e agnello di Dio (René Girard, "Vedo Satana cadere come la folgore", Milano 2001), come è stato possibile? Accolta l’interpretazione del messaggio evangelico prodotta da Paolo di Tarso e, coerentemente, cancellata la differenza ta capro e agnello, pur con qualche diabolicità, Girard va avanti: "Satana fa del cattivo mimetismo, ciò che spero di non fare io stesso" (op. cit., 199). E, contro ogni speranza, la "caduta" nella profondità della Terra continua! Solo Dante, con Virgilio, riesce a vedere Lucifero a "gambe in sù" (Inf. XXXIV, 90) e, al contempo, a riandare alla sorgente del suo stesso essere, all’amor "che move il sole e le altre stelle" (Pd. XXXIII, 145), nel cerchio della vita.
ARIETE E CAPRICORNO: COSMOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E "PARADISIO TERRESTRE"...
La brillantezza del lavoro di René Girard ha al proprio interno un nodo epocale da sciogliere, quello simbolizzato dal rapporto "Caino e Abele" (Bibbia) e "Romolo e Remo" (Roma): ha tentato di pensare un altro cristianesimo (al di là del sacrificio): è rimasto impigliato nella tradizione paolina e costantiniana (vale a dire, nell’orizzonte di Edipo) e, infine, a non avere alcuna cognizione "della Monarchia Universale [temporalis Monarchie]" di Dante, del suo progetto antropologico-teologico di costruzione di un nuovo "paradiso terrestre" e di una nuova Città, sì da essere "cive / di quella Roma onde Cristo è romano" (Purg. XXXII, 101-102).
Federico La Sala
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E COSTITUZIONE:
RIPENSARE COSTANTINO E LA TEOLOGIA E LA POLITICA DELL’EUROPA.
Un omaggio a Beatrice Maria e Lucia (8 marzo) e a Dante Alighieri (25 marzo - Dantedì)...
USCIRE A RIVEDERE IL CIELO STELLATO. Non avendo sottratto alla teologia e alla logica dell’ Imperatore Costantino l’opera di Dante Alighieri (ridotto dalla Chiesa Cattolica di Giovanni XXII, prima che da Ugo Foscolo, a "ghibellino fuggiasco"), filosofi e storici hanno finito per banalizzare anche il lavoro di Ernst H. Kantorowicz! Si tenga presente, per capire bene e meglio l’uno e l’altro, che l’ultimo capitolo (l’ottavo) dei "Due corpi del re" è intitolato "La regalità antropocentrica: Dante" e, al contempo, che la regalità antropocentrica è da leggersi in senso antropologico (di ogni essere umano, "ecce homo"), non in senso di una andrologia costantiniana (di ogni essere umano-maschio, "ecce vir")!
COSTITUZIONE. La "Monarchia" dei "due Soli" non dice né della dittatura dell’Imperatore né della dittatura del Papa, ma indica che l’uno e l’altro, semplicemente (la cosa più difficile a farsi), dia a "Dio" (l’amor che muove il sole e le altre stelle) ciò che è di "Dio" e ognuno all’altro (entrambi sovrani - memoria di don Milani) ciò che tocca all’uno e all’altro - nel riconoscimento della sovranità di "Dio" stesso, della Legge dei nostri Padri Costituenti e delle nostre Madri Costituenti. Se in principio era la Costituzione (il Logos), "Quis Ut Deus?" ("Chi è come Dio")?!
DISUGUAGLIANZA, INTOLLERANZA, E PACE PERPETUA...
FINE DELLA STORIA: NON COMPRESA LA LEZIONE DI DANTE ALIGHIERI SUI DUE SOLI E DI GIORDANO BRUNO (17 febbraio1600) SULLE TRE CORONE, DUE CORONE IN TERRA E UNA IN CIELO (“Ultima coelo manet)”, SI VA ANCORA AVANTI CON LE REGOLE DEL GIOCO DELLE TRE CARTE (questa è quella che vince, questa quella che perde, ecc...) e l’espulsione (lo spaccio) dal campo da gioco della BESTIA TRIONFANTE continua ad essere rinviata... USCIRE DAL LETARGO. La Regola, il Logos, non è un "Logo"!
CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA COSMOTEANDRIA. Non sapendo affrontare e non volendo risolvere il problema di Jean Jacques Rousseau (Discorso sull’origine della disuguaglianza: "Il primo uomo che, avendo recinto un terreno, ebbe l’idea di proclamare questo è mio, e trovò altri cosí ingenui da credergli, costui è stato il vero fondatore della società civile") come quello di Sigmund Freud (Il disagio della civiltà: "Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comuni tà critiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori"), non ci resta che lavorare ... "PER LA PACEPERPETUA" (KANT, 1795)!!!
FLS
FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, MITO E STORIA.
DANTE 2021: OLTRE LE COLONNE D’ERCOLE, UN PASSO AL DI LÀ DELL’EDIPO. Solo con Virgilio (e con Ovidio) e, soprattutto, con Beatrice (la madre! - Freud docet), Dante poteva e può rinascere (Par. XXXIII, 106-108: "Omai sarà più corta mia favella, /pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante/ che bagni ancor la lingua a la mammella"), uscire dal letargo (Par. XXXIII, 94) e, addirittura, riproporsi - in un’ottica arcadica e messianica (con la sua Divina Commedia) - come "un altro Tifi, un’altra Argo" (Virgilio, Ecl. IV, 34)!
"Ulisse e la sua Odissea... chi non conosce il lungo peregrinare dell’eroe omerico? Ma forse pochi sanno che Ulisse era figlio d’arte: il padre Laerte, infatti, prese parte assieme ai cinquantadue valorosi greci noti col nome di Argonauti, a una mitica impresa che li vedrà solcare i mari fino a Oriente, oltre i confini conosciuti, alla conquista del vello d’oro (la pelle di un ariete dorato che era apparso in soccorso a due giovani Frisso e Elle e li aveva condotti in salvo al di là dei mari, in Colchide).
L’impresa degli Argonauti è una delle più affascinanti del mito greco anche perché il tema del viaggio sulla nave Argo si intreccia non solo con le mille avventure vissute, o la storia d’amore tra Giàsone e Medea, ma anche con temi che in qualche modo hanno a che vedere con la conquista di conoscenze tecnico-scientifiche. Intanto perché Argo è la primissima nave mai costruita, che segna l’inizio della navigazione, per la quale occorrevano conoscenze prima di allora appannaggio esclusivo degli Dei: conoscenze tecniche, geografiche e astronomiche.
La spedizione degli argonauti ai confini orientali del mondo conosciuto si rivela così una spedizione altamente allegorica, in cui si narra di fatto non solo di una missione civilizzatrice ma anche dell’ incontro tra Occidente e Oriente, che aveva già elaborato un sapere astronomico e astrologico; ed è di fatto un’anticipazione di quel che ebbe luogo nella realtà documentata nel III sec. A.C.: il viaggio di Alessandro Magno in India da cui riportò avanzatissime conoscenze matematiche.
Ma ci parla anche di un mito che persiste tutt’oggi: quello del viaggio verso l’ignoto, del desiderio di spingere sempre più avanti le frontiere dello scibile, che tanto caratterizza la ricerca scientifica." (Clara Caverzasio, "La spedizione argonautica, tra mito e scienza", Il Giardino di Albert (ReteDue), 30 maggio 2015)
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STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E ANTROPOLOGIA.
MEMORIA DELLA MONARCHIA DEI #DUESOLI (#DANTE2021) E STORIA DELLA LOTTA "COSMOTEANDRICA" TRA PAPA (guelfi) E IMPERATORE (ghibellini).
RINASCIMENTO E #COSMOLOGIA. Dante all’inferno per Giovanni XXII e Buffalmacco (https://www.artribune.com/arti-visive/archeologia-arte-antica/2022/02/professoressa-normale-dante-alighieri-affresco-pisano-trecento/ ) ....
Oggi, si continua a parlare di Sole-Luna ma si ignora non solo la cosmologia della relatività di Galileo Galilei e Albert Einstein, ma anche la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo (1948), la Costituzione della Repubblica italiana (1948), la "Pacem In Terris" di Giovanni XXIII (1963), ma anche lo stesso sorgere della Terra (https://it.wikipedia.org/wiki/Sorgere_della_Terra), dell’Earthrise (24 dicembre 1968)!
Federico La Sala
DANTE2021
LA MEMORIA DI APOLLO E DELLE MUSE E IL MESSAGGIO SEGRETO DELLA DIVINA COMMEDIA, DEL MUSICO DI LEONARDO, DELLA PRATICA DELLA MUSICA DI GAFFURIO, E DELLA GAIA SCIENZA DI NIETZSCHE...
A) IL MUSICO. "Il messaggio segreto nel quadro di Leonardo: Un messaggio nascosto, per di più in chiave musicale, all’interno di un quadro: “Il Ritratto di Musico” di Leonardo da Vinci. Lo ha svelato lo storico d’arte e ricercatore siciliano Giuseppe Petix alla Fordham University di New York. [...] Petix ci racconta anche: «Il rebus all’interno del cartiglio è stato trovato grazie alle conoscenze musicali che abbiamo del periodo di Leonardo. Un rebus che se decifrato forma il versetto o meglio il rondò “Oh Re fammi lagnar: Sol l’amore mi fa sollazzar”, che in versione prosaica potrebbe essere visto così “Oh dio, permettermi di lamentarmi, concedimi un lamento da uomo, solo l’amore mi rende felice”». Un inno, quindi, una preghiera, una richiesta di aiuto [...] Questa frase ricorda le lamentazioni presenti nei salmi della bibbia, e di preciso il "dio" del quale si parla potrebbe rappresentare l’anima del Davide Biblico [...]" (Laura Pace , i.Italy, November 25, 2019)
C) LA GAIA SCIENZA (IV, fr. 334). "Si deve #imparare anche l’amore. Si deve imparare ad amare. Ecco quel che ci accade nella musica: si deve prima imparare a udire una sequenza e una melodia in genere, a enuclearla nell’ascolto e a distinguerla isolandola e delimitandola come se avesse una vita propria; quindi bisogna sforzarci e impiegare la nostra buona volontà per sopportarla, malgrado la sua estraneità, bisogna fare un esercizio di pazienza di fronte al suo sguardo e alla sua espressione, considerare con benevolenza quel che c’è di inusitato in essa - finalmente arriva un momento in cui ne abbiamo preso l’abitudine, in cui l’attendiamo, [...] finché non si sia diventati i suoi umili ed estasiati amanti, per cui non v’è più niente di meglio da chiedere al mondo se non la melodia e ancora la #melodia.
Questo ci accade però non soltanto con la #musica: proprio in questo modo abbiamo imparato ad amare tutte le cose che oggi amiamo. In definitiva, siamo sempre ricompensati per la nostra buona volontà, per la nostra pazienza, equità, mitezza d’animo verso una realtà a noi estranea, quando lentamente essa depone il suo velo e si manifesta come una nuova inenarrabile bellezza: è questo il suo ringraziamento per la nostra ospitalità. Anche chi ama se stesso, lo avrà appreso per questa strada: non ce ne sono altre. Si deve imparare anche l’amore. (F. Nietzsche).
D) COSMOLOGIA DANTESCA. "L’amor che move il sole e le altre stelle" (Par., XXXIII, 145).
E) DANTE LEONARDO E GAFFURIO: LE TRACCE DI UN PROGRAMMA E DI UNA STRATEGIA CULTURALE CON RADICI PROBABILMENTE GIOACHIMITE E FRANCESCANE...
Il messaggio segreto del Musico di Leonardo e il legame stretto con la Musica delle Sfere ("Theorica Musicae", (1492; "Practica Musicae", 1496) di Franchino Gaffurio (con Apollo, le Grazie, le Muse, il Cielo delle Stelle Fisse e dei Pianeti, e il Serpente) rende possibile una interpretazione e connesione con il viaggio della Divina Commedia: il cammino nel regno dell’Apollo de-caduto (dopo la venuta del nuovo Re, di Cristo), cioè di Lucifero, è finito ed è "ora" che Dante con Virgilio si liberino della loro stessa pelle di serpente e, lasciato Lucifero con" le gambe in sù" (Inf. XXXIV, 90) alle loro spalle, ... mettano i piedi a terra! La strada per il paradiso terrestre e celeste è libera.... sotto il cielo stellato, inizia la "vita nuova"!
F) LA MUSICA DELLE SFERE, LA DIVINA COMMEDIA, E LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA. Nella sua "Mitologia creativa" (Milano 1992), Joseph Campbell, dopo aver premesso che "anche Dante invocò le Muse - all’inizio dell’inferno, nel Canto II - e fu guidato sia attraverso l’Inferno sia sulla cima paradisiaca del Monte del Purgatorio dal pagano Virgilio" (p. 128) e aver analizzato in dettaglio la Figura di «la Musica delle Sfere», "trattada un’opera neoplatonica del quindicesimo secolo, la Pratica musicae di Franchino Gaffurio, pubblicata a Milano nel 1496", scrive che "[...] l’intera Divina Commedia di Dante esprime questa visione pagana di una dimensione spirituale dell’universo", e, al contempo, lo "imbottiglia" (senza resti) nella tradizione cattolico-romana: "[...] Il fatto che, in Dante, il potere di guida dei pagani termini alla sommità del Purgatorio, nel Paradiso Terrestre, si accorda con la formula di san Tommaso secondo cui la ragione può condurre, come fece con gli antichi, fino al vertice delle virtù terrene, ma solo la fede e la grazia soprannaturale (personificata da Beatrice) possono portare oltre la ragione, fino alla sede di Dio". Pur, se con incertezze e difficoltà, continua e finisce paradossalmente col riportare Dante nell’orizzonte della tragedia e dell’antico patto edipico (di "mammasantissima", altro che patriarcale): "Tuttavia, analizzando questo Dio Trinitario che, nella dottrina cristiana delle tre persone divine in un’unica sostanza divina, abbiamo una trasposizione delle tre Grazie e dell’Apollo Iperboreo in un ordine mitologico di maschere escusivamente maschili di Dio, il che si accorda bene con lo spirito patriarcale dell’Antico Testamento, ma sbilancia radicalmente le connotazioni simboliche, e quindi spirituali, non solo del sesso e dei sessi, ma anche dell’intera natura".
Federico La Sala
COSTITUZIONE, ANTROPOLOGIA, E CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA:
DANTE ALIGHIERI, WILLIAM SHAKESPEARE, E JOHN MAYNARD KEYNES.
La questione dei due soli e "il nostro problema economico"...
ANTROPOLOGIA, TEOLOGIA, ECONOMIA, E FILOLOGIA: "HOMO HOMINI DEUS EST"!
IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (NON UN LOGO): DEUS CHARITAS EST (NON "DEUS CARITAS EST")!
IL "NOSTRO" PROBLEMA DI MAMMONA. Non potete servire a Dio (charitas - amore e giustizia) e a mammona (caritas - denaro e ricchezza):
24 Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona. 25 Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? 26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? 27 E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? 28 E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. 29 Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30 Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? 31 Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? 32 Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. 33 Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34 Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena.
Federico La Sala
SPINOZA, UN FIGLIO DEL "DEUS", NON UN FIGLIO DEL "LUPUS", (A FIANCO DI KANT, NON DI HEGEL). *
Questioni teoretiche
Cantiere Spinoza
di Maurizio Morini (Ritiri Filosofici, 16 Gennaio 2022)
Così come per qualsiasi altra occupazione, anche in filosofia sono necessari strumenti adeguati per fare bene il proprio lavoro, tali soprattutto da superare le difficoltà che presto o tardi sempre si dovranno affrontare. In questo senso uno dei suoi strumenti principali è il concetto di definizione, stabilire il quale non è neutrale ed implica delle conseguenze decisive. Chi delle definizioni ha fatto l’essenza del proprio filosofare è stato Spinoza il quale ha costruito l’intero suo edificio proprio grazie al metodo geometrico. Molti però, tra gli stessi filosofi, ne hanno dichiarato l’inutilità o addirittura l’artificiosità. Adorno nelle sue lezioni confessava che, di fronte alle definizioni del filosofo olandese, si trovava «del tutto disorientato, come la mucca di fronte alla porta nuova». Il filosofo della Dialettica dell’Illuminismo finiva poi per dichiarare che in filosofia ci sono dei concetti che non sono passibili di definizione con la conseguenza che la sua ricerca era inutile. Adorno si rifaceva esplicitamente a Kant il quale aveva sostenuto a sua volta una ben precisa critica della definizione così come utilizzata in filosofia. Solo al termine delle sue lezioni, guardando ai risultati della filosofia contemporanea, Adorno (in maniera onesta) sembra spezzare una lancia a favore della definizione e addirittura ritirare la propria tesi.
La definizione in Aristotele e in Kant
Da un punto di vista etimologico, la parola definizione è composta dalla preposizione de e dal nome finis: discorso sul limite. La definizione quindi indica i confini entro i quali è racchiusa l’essenza o il concetto di qualche cosa. Essa pertanto deve cogliere gli aspetti comuni o differenziali di una certa cosa: in altre parole, la definizione si intende secondo il genere e la differenza specifica. Questa impostazione risale ad Aristotele il quale affermava che c’è definizione solo quando il termine significa qualcosa di primario, ovvero quando si parla di cose che non possono essere predicate di altre. Il genere è il primo elemento della definizione (dove per genere si intende il complesso di caratteri di un certo tipo riuniti sotto un certo nome); la differenza specifica invece, ciò invece che caratterizza la cosa che si intende definire rispetto a tutte le altre.
Kant, nella Dottrina trascendentale del metodo, assume un’altra prospettiva, per comprendere la quale è necessario distinguere due usi della ragione: il primo riguarda l’uso della ragione in base a concetti; il secondo l’uso della ragione in base alla costruzione di concetti. Al primo uso viene dato il nome di filosofia; al secondo il nome di matematica. In quest’ultima i concetti sono già determinati a priori dall’intuizione pura, senza che via sia necessario alcun dato empirico; la filosofia invece non può prescindere dall’esperienza in quanto essa sta a fondamento dei concetti. Posto ciò, Kant conclude che la fondatezza della matematica poggia su definizioni, assiomi e dimostrazioni, nei confronti dei quali la filosofia deve fare a meno («come il geometra, usando il suo metodo nella filosofia, non può costruire che castelli in aria, così il filosofo, applicando il proprio nella matematica, non dia luogo che a chiacchiere»). Kant sostiene che in filosofia la definizione non può essere utilizzata proprio perché i concetti empirici, più che essere definiti, andrebbero resi espliciti, chiariti, dichiarati (tutti termini che in tedesco fanno riferimento al termine Aufkärung). Sono fuori strada quindi tutti coloro che utilizzano termini come sostanza, causa, diritto: in altre parole una vera e propria stroncatura della filosofia di Spinoza.
La definizione in Spinoza
Cosa diceva Spinoza in merito? «Se si deve conoscere una cosa attraverso la definizione costituita da genere e differenza - scrive nel Breve Trattato - non possiamo mai perfettamente conoscere il genere supremo, che non ha alcun genere sopra di sé» (KV, I, 9). Piuttosto, bisogna seguire la vera logica, ovvero la divisione della natura in natura naturans e natura naturata.
Ma è in una corrispondenza epistolare, quella intrattenuta con un giovane mercante di Amsterdam, Simone De Vries, che Spinoza chiarisce meglio il suo pensiero. Chiesto su che cosa dovesse intendersi per definizione, egli rispondeva che bisogna distinguere la definizione della cosa in senso reale, in quanto fuori dall’intelletto, e la definizione della cosa in quanto è concepita in senso nominale. Alla prima si chiede di essere vera in quanto ha un oggetto determinato; la seconda si propone invece al solo scopo di ricerca. In altre parole: il primo genere di definizione deve essere necessariamente vero in quanto, se io ad esempio voglio definire l’essenza del tempio di Salomone, devo stabilire una descrizione esatta della cosa (altrimenti si ha una cattiva definizione). Il secondo tipo di definizione implica invece che si esplichi la sua progettualità, non importa che essa sia vera o no: in questo caso la definizione o si concepisce oppure non si concepisce. Chiariamo con un esempio: un conto che io debba definire l’orologio a parete che ho di fronte a me; un’altra è che io debba definire un orologio a parete che devo ancora costruire, in cui ciò che importa è che la sua costruzione non sia autocontraddittoria, tale cioè da renderlo inservibile allo scopo.
Il problema, insiste Spinoza, consiste nel fatto che la definizione tradizionale (quella aristotelica, che distingue genere e differenza specifica) riposa essenzialmente sull’esperienza, la quale però «non ci dà alcuna essenza delle cose», sicché noi dell’esperienza non abbiamo mai bisogno per la definizione. Infatti - si potrebbe dire - come si potrebbe definire una cosa soggetta al continuo divenire? Lo potremmo fare solo fingendo, per esigenze legate a questioni pratiche, come quello di intendersi su ciò di cui si sta discutendo. La prospettiva dunque sembra avvicinarsi a quella kantiana per poi però allontanarsi in modo radicale: se il tedesco sosteneva che l’esperienza è l’unico campo della filosofia (e per questo rinunciava alla definizione), l’olandese sosteneva che, proprio perchè l’esperienza non era l’unico campo della filosofia, la definizione era essenziale.
Un sistema aperto non una cattedrale di ghiaccio
Se il dialogo tra Spinoza e il suo giovane amico non può essere considerato un dialogo tra sordi, non si può non riconoscere però che i due parlano linguaggi diversi. Da esso si ricavano alcune impressioni (vedi le lettere 8, 9 e 10 dell’epistolario), soprattutto in merito all’oggetto della loro discussione, cioè le proposizioni dell’Etica.
La prima è che l’intero dialogo sulla definizione (tema piuttosto acceso nel circolo spinoziano, come ammette De Vries) è fondato sull’intelletto come strumento per accedere alla verità: cosa che oggi è talmente lontana dalla nostra sensibilità filosofica che facciamo difficoltà a seguirlo e a comprenderlo pienamente.
La seconda impressione è che, contro la retorica del “cristallo” e della “cattedrale di ghiaccio”, il sistema di Spinoza (riassunto nell’Etica) si rivela essere un cantiere aperto in cui, oltre alla scelta dei materiali, rimane determinante la capacità di costruire dei costruttori.
Questo conduce ad una terza domanda (da cui nasce l’impressione): le definizioni dell’Etica sono definizioni reali oppure definizioni nominali? Qui l’impressione è che Spinoza mescoli le carte, alternando le une alle altre senza un indice preordinato e dove la risposta sembra lasciata all’intelligenza del lettore, il quale è invitato a prendere parte alla costruzione. Diceva Wolfson che «l’Etica non è una comunicazione al mondo; è la comunicazione di Spinoza con se stesso». Questo non significa che le sue definizioni siano lasciate al relativismo delle interpretazioni o peggio al solipsismo. Tutt’altro: ciò significa che ogni definizione impegna il lettore nella forza del ragionamento, perché solo questo può mostrare la verità o la falsità di un asserto. Nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto Spinoza scrive: «ho dimostrato e ancora tendo a dimostrare il buon ragionamento, ragionando bene».
CANTIERE SPINOZA. ETICA, MATEMATICA, E CRITICA DELLA DIALETTICA...
Se è vero, come è vero, che l’Etica di Spinoza è “un sistema aperto non una cattedrale di ghiaccio” e che è necessario sciogliere l’enigma se “le definizioni dell’Etica sono definizioni reali oppure definizioni nominali” (M. Morini, "Cantiere Spinoza", Ritiri Filosofici, 16.01.2022), non si può ricadere nella stesso passo falso dell’analisi del “Discorso del Re” (M. Morini), e portare l’acqua al mulino non di “Amleto” (Shakespeare), ma a quello di Hobbes!
Una interpretazioni riduttiva della “Critica della Ragion pura” e della concezione kantiana della “definizione”, dalla sez. della “Dottrina trascendentale del metodo”, riconduce direttamente e di nuovo il discorso sotto il “principio di Hobbes” (e nell’orizzonte di Hegel e di T. W. Adorno), nell’orizzonte del “Leviatano” (e, al contempo, della dialettica di Hegel e della “dialettica dell’illuminismo” di Adorno), “secondo cui le azioni del sovrano non possono mai essere accusate di ingiustizia dai sudditi e il sovrano non può né essere messo a morte né essere punito dai suoi sudditi” (M. Morini, “ [1]”, Ritiri Filosofici, 02.01.2022).
“HOMO HOMINI LUPUS EST”?! Pur condividendo l’impressione “che Spinoza mescoli le carte, alternando le une alle altre senza un indice preordinato e dove la risposta sembra lasciata all’intelligenza del lettore, il quale è invitato a prendere parte alla costruzione” (M. Morini, cit.), è assolutamente non condisibile una conclusione dell’analisi accogliendo la dichiarazione del “Figlio del Lupo” (“Wolf-son”) e dire davvero con Wolfson che «l’Etica non è una comunicazione al mondo; è la comunicazione di Spinoza con se stesso»! E’ posssibile asservire la “filosofia” (nel senso di Kant) di Spinoza al calcolo e alla matematica di Platone, di Cartesio, di Hobbes, ed Hegel, e dire che questo “significa che ogni definizione impegna il lettore nella forza del ragionamento, perché solo questo può mostrare la verità o la falsità di un asserto” (M. Morini, cit.)?!
Non è il caso di riprendere il discorso dalla figura del “capo”, dal “discorso del re”, e rimeditare la “filosofia” e la “matematica” di Kant?! Se no, come è possibile distinguere tra “essere e non essere”, definire, ragionare e, al contempo, decidere sul “che fare?”, qui ed ora?! Non è meglio uscire dall’inferno della “fenomenologia dello spirito” di Hegel e, con Dante e Virgilio, uscire dalla caverna (Inf. XXXIV, v. 90) e ammirare il “cielo stellato” di Koenigsberg?
Categoria: Il filosofo e la città
Il Discorso del Re
Con l’Enrico V Shakespeare completa il ritratto del nuovo principe machiavellico (non senza sottolineare le sue contraddizioni) e si prepara per i grandi drammi successivi.
di Maurizio Morini *
Enrico V viene annoverato tra i grandi re d’Inghilterra, colui che ha impresso lo slancio decisivo per la nascita dello Stato moderno inglese. Al centro della sua azione la teoria medievale del doppio corpo del re: quello naturale, soggetto alla morte, e quello mistico che non può morire. Una teoria che garantisce la continuità del sovrano riassunta in uno slogan che avrà fortuna: The king is dead, long live the King.
Nel dramma storico, questa retorica è rappresentata dal coro che, ad ogni atto, anticipando in modo solenne gli eventi, proclama le gesta e le virtù del re. Cosa che garantisce popolarità alla sua azione (Enrico è il sovrano che raccoglie i frutti di una piena legittimità) ma non l’autenticità di fronte al tribunale della storia: dopo ogni intervento del coro, Shakespeare colloca delle scene che, facendo da contrappunto a quanto raccontato, finiscono di fatto per rendere meno credibili gli eventi.
Nel primo atto «la Musa di fuoco che si eleva al cielo più fulgido dell’immaginazione», è frustrata dai sotterfugi dei due vescovi che, per interessi economici, spingono il sovrano alla guerra; nel secondo, il racconto che tutta la gioventù d’Inghilterra è a fuoco e che l’ambizione dell’onore regna esclusiva nell’animo di ogni uomo, è contraddetto con un alterco da osteria; nel terzo, le vele spiegate della Marina inglese a Southampton in direzione della Francia, incontrano i desideri di alcune voci dell’equipaggio di tornare piuttosto in un’osteria a Londra; nel quarto, il regale capitano che passa in rassegna le sue truppe per infondere coraggio, le visita in incognito finendo pure per essere contestato; nel quinto, all’immagine di Enrico che torna trionfante in Inghilterra accolto dalle folle assiepate a Dover, si contrappone la realtà di un sovrano che finisce al capezzale di Caterina di Borgogna per chiederle la mano, riunire i regni e chiudere le ostilità.
Una continua giustapposizione, tipica peraltro del filosofo inglese, tesa a marcare la differenza tra retorica e realtà, ideologia e verità effettuale, dover essere ed essere. Sicché, «ciò che è in questione non è la trasformazione del corpo politico bensì una serie di effetti politici, forse una serie di illusioni, operate attraverso mezzi politici mondani, in particolare attraverso la continua manipolazione retorica di Enrico» (Lake, 2016)
L’irresponsabilità del sovrano e il fucile di legno
Al centro di questa manipolazione si colloca il dialogo che il re conduce in incognito con i suoi soldati e il successivo monologo sull’essenza del potere regale. Enrico V è un re che ha qualità che lo rendono particolarmente popolare, come l’abitudine di visitare i suoi soldati chiamandoli fratelli, amici e compatrioti. Ma si tratta di qualcosa di studiato, una parodia dice lo stesso coro, se il re sente il bisogno di visitare i suoi sudditi, mascherato da semplice soldato, per avere conoscenza dei suoi veri umori. Così, nel dialogo notturno che precede la battaglia, Enrico si aggira nel campo militare esibendo la vecchia giustificazione secondo la quale il re non è altro che un uomo, lamentando di non poter vivere una vita tranquilla. Sembra improvvisamente di assistere al dialogo di Senofonte tra il poeta Simonide e il tiranno Gerone sulla natura della tirannia. Ma, evidentemente, quello del re solitario non è argomento adatto per rincuorare dei soldati che, all’addiaccio, rischiano la propria vita mentre il re se ne sta nelle retrovie o nel caldo del suo palazzo.
Ecco allora che il discorso si sposta sulle cause della guerra. Ma anche in questo caso i soldati rispondono picche. A parte il fatto che il problema delle cause è qualcosa che va oltre quello che essi devono sapere, dimostrandosi più realisti del re nell’attenersi (in quanto sudditi) alla dottrina degli arcana imperii; il punto, come afferma uno di loro, è che «se la causa è ingiusta, l’obbedienza che dobbiamo al re cancella in noi la macchia di qualsiasi colpa». Infatti, prosegue un altro, «se la causa non è onesta, il re stesso sarà chiamato a una grave resa dei conti, quando tutte quelle gambe e braccia e teste tagliate in battaglia si riuniranno il giorno del giudizio (...) Ora, se questi uomini non fanno una buona morte, sarà un brutto affare per il re che li ha portati a quel passo, e disobbedire al quale sarebbe contrario a tutti i giusti doveri della sudditanza».
Ma il re respinge gli argomenti in merito alle responsabilità del sovrano: «Il re non è tenuto a rispondere della fine che fanno i suoi singoli soldati, né il padre del figlio, né il padrone del servitore», in quanto «solo la guerra è il suo ufficiale fustigatore, la guerra è l’esecutore della sua vendetta; sicché gli uomini vengono puniti ora, per la causa del re, perché hanno violato anteriormente le leggi del re. (...) Se dunque muoiono impreparati, il re non è colpevole della loro dannazione». Per cui, conclude Enrico, «l’obbedienza d’ogni suddito appartiene al re, ma l’anima appartiene al suddito».
Da un punto di vista teologico si tratta di un principio ineccepibile che segna tuttavia l’assoluta irresponsabilità dei reggitori dello Stato per le proprie azioni. Viene così anticipato il principio di Hobbes secondo cui le azioni del sovrano non possono mai essere accusate di ingiustizia dai sudditi e il sovrano non può né essere messo a morte né essere punito dai suoi sudditi (Leviatano, cap.XVIII).
I soldati sono quasi convinti dalle argomentazioni retoriche del re. Uno di loro però insiste con il suo scetticismo e finisce per innervosire il re mascherato il quale, rispondendo in modo goffo e ingenuo, non riesce di meglio che suscitare lo scherno dell’interlocutore. Così, una volta usciti, ecco un monologo del re in cui vi è una vera e propria difesa dei sovrani le cui ansie non sono nemmeno da paragonare alla tranquillità dei cittadini: di fatto, protesta Enrico, la pace che egli acquista per il contadino è pagato a prezzo di dolorose veglie notturne. Torna il Gerone di Senofonte ma questa volta con una differenza: il denaro che Enrico offre, volendo ricompensare il soldato per la coraggiosa franchezza della notte, viene rifiutato con uno sdegnato «non so che farmene». -Shakespeare è filosofo per il quale le esigenze dell’individuo vengono prima di quelle dello Stato; non disconosce quest’ultimo (perché sa che i rimproveri di un individuo contro un monarca sono pericolosi «quanto lo sparo di un fucile di legno») ma lo tiene costantemente sotto il controllo critico.
«We few, happy few, band of brothers» uniti dall’azione criminale
Secondo il giudizio di Churchill (ma non solo), la battaglia di Agincourt dell’ottobre del 1415 contro il ben più numeroso esercito francese, è la più eroica delle battaglie combattute dall’Inghilterra nella storia. Tuttavia, ricorda lo statista, quella vittoria (che pure fece di Enrico V il sovrano più celebre d’Europa) fu seguita da una delle più sanguinose guerre civili che l’Inghilterra abbia mai conosciuto e tale da controbilanciare gli apparenti successi. Il tentativo di trasferire all’estero i conflitti interni è risultato fallimentare, addirittura controproducente.
Shakespeare rappresenta questa verità attraverso la drammatizzazione. Nel quarto atto, il re chiama a raccolta i sudditi nel celebre discorso di San Crispino nel quale incoraggia allo scontro imminente attraverso la classica mozione degli affetti. «Noi pochi, pochi e felici eletti, banda di fratelli...» Ma anche in questo caso i fatti che seguono gettano discredito sulle parole. I soldati, piuttosto che combattere per la gloria, cercano non solo di assicurarsi un riscatto in denaro per i futuri prigionieri, ma pianificano la vita civile successiva al ritorno in Patria al pari di criminali dediti al furto. Il sovrano, piuttosto che dare prova di virtù e generosità, ordina di far sgozzare a freddo tutti i prigionieri francesi contravvenendo ad una consolidata regola morale e di diritto internazionale. È a questo punto che un soldato equipara il re ad Alessandro il grande: peccato però che (con abile stratagemma) la persona in questione ha un difetto di pronuncia (scambia la b con la p) e il re viene ribattezzato Alexander the pig, Alessandro il maiale.
Che cosa voleva comunicare Shakespeare con questa strategia drammaturgica? Prendendo a prestito Strauss, diremmo che la sua opera è impregnata di retorica socratica, strumento indispensabile per fronteggiare, da un parte, la minaccia della società e dei governanti, e, dall’altra, mezzo per condurre chi ne è capace alla filosofia. La retorica politica si combatte con la retorica filosofica: la cautela non è mai troppa. Diventa interessante a questo punto sapere o immaginare che cosa abbia potuto pensare il competente pubblico che assisteva ai drammi di Shakespeare e che ne decretò subito il più grande successo.
Lo specchio deformato dei re cristiani e il passaggio a quelli pagani
Enrico si crede lo specchio dei re cristiani. Prima di ogni sua azione, tanto privatamente quanto pubblicamente, egli invoca l’aiuto e la protezione di Dio come mai nessun re che lo aveva preceduto aveva fatto. Ma dopo la rottura dello specchio del principe, avvenuta con la fine del regno di Riccardo II, lo specchio di Enrico è completamente deformato: si tratta di un’altra contraddizione posta nel cuore di un regno per sua natura machiavellico che sa fare uso della religione per i suoi fini e finanche di addossare la colpa della guerra allo stesso clero se l’arcivescovo risponde al re che essa può ricadere sul suo capo. Agire senza portarne la responsabilità è il capolavoro politico più volte ripetuto da Enrico.
L’astro di Inghilterra (Star of England), come lo chiama il coro alla fine dell’opera, esce però presto di scena a causa della morte prematura. Il novello Cesare, come lo aveva definito Shakespeare, lascia spazio al vero Giulio Cesare la cui opera (siamo ormai nel 1599) comincia ad essere scritta proprio nel momento in cui si chiude quella dedicata al mitico quanto controverso sovrano inglese.
* Fonte: Ritiri Filosofici, 2 Gennaio 2022
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NOTA: LA TEORIA MEDIEVALE DEL "DOPPIO CORPO DEL RE", LA "MONARCHIA" DI DANTE, E IL PROGETTO INGLESE DI PRENDERE LA FIACCOLA DELL’IMPERO DALLE MANI DELLA SPAGNA. Appunti per un’analisi dei drammi storici di Shakespeare:
a) Enrico V è un dramma storico di William Shakespeare composto tra il 1598 ed il 1599. Il dramma prende spunto dalle vicende di Enrico V d’Inghilterra, re che si distinse per aver conquistato la Francia ed aver vinto la battaglia di Azincourt. È l’opera conclusiva della tetralogia shakespeariana enrieide (o tetralogia maggiore); iniziata con Riccardo II e proseguita con Enrico IV, parte 1 e Enrico IV, parte 2.
b) La battaglia di Azincourt (o di Agincourt per gli inglesi) si svolse vicino l’omonima località nell’odierno dipartimento del Passo di Calais il 25 ottobre 1415 nell’ambito della guerra dei cent’anni, vedendo contrapporsi le forze del Regno di Francia di Carlo VI contro quelle del Regno d’Inghilterra di Enrico V.
c) Giarrettiera, ordine della(ingl. Order of the Garter) Supremo ordine cavalleresco inglese, istituito da Edoardo III nel 1349. [...] Come lo stesso nome suggerisce, lo stemma dell’Ordine è una giarrettiera che sormonta il motto Honi soit qui mal y pense (fr.: "Sia vituperato chi ne pensa male"), presente inoltre sul rovescio delle sterline in oro (sovereign) della serie 1817-1820 recanti sul dritto l’effigie di re Giorgio III. La Giarrettiera è indossata dai membri dell’Ordine durante le occasioni formali. Il motto Honi soit qui mal y pense è anche scritto sulla polena della nave ammiraglia HMS Victory, protagonista della battaglia di Trafalgar agli ordini di Horatio Nelson. [...] La più antica attestazione scritta dell’Ordine si trova in Tirant lo Blanch, un romanzo cavalleresco scritto in catalano dal valenciano Joanot Martorell che venne pubblicato nella prima edizione nel 1490. Nel romanzo si trova un intero capitolo dedicato alla leggenda della fondazione dell’Ordine. [...] Il primo straniero a essere insignito della Giarrettiera fu il duca di Urbino Federico da Montefeltro nel 1474 [...].
d)STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO... DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica.
e) RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ! FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
ARCHEOLOGIA, FILOSOFIA, LOGICA PSICOANALISI E COSTITUZIONE: "IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS" (non il Logo di una fattoria).
DIO E LE LETTERE DELL’ALFABETO. Questa storiella dello Zohar "nasconde" una grande lezione di logica e matematica, antropologia e teologia (e, a mio parere, offre la chiave per meglio capire il senso stesso del riferimento di Baruch Spinoza al detto Homo Homini Deus Est e il messaggio dell’ impresa di Dante Alighieri).
Quando si comincia a contare, da dove bisogna cominciare, per iniziare bene ed essere gà a metà dell’opera?! Chi è che conta e da dove inizia. Perché (come qui, nella storiella dello Zohar) dalla Bet?
Premesso che le lettere dell’alfabeto ebraico sono anche numeri e, quindi, hanno un valore numerico, è opportuno ricordare che alef vale zero (= 0) e che bet vale uno (= 1); e, quando si comincia a contare, si comincia a contare da uno (= 1), appunto, da bet.
Per non perdere la #bussola e, ancor di più, per non lasciarsi sopraffare dalla narcisismica terremotante tentazione di truccare le carte e il conto, però, occorre tenere ben presente che al "Dio" che conta, in un altro testo decisivo della tradizione biblica (Apocalisse di Giovanni), è attribuita la seguente importantissima frase: "Io sono l’alfa e l’omega" (greco koinè: "ἐγὼ τὸ Α καὶ τὸ Ω"). La precisazione è decisiva...
Amore è più forte di Morte (Ct., 8.6). A ben riflettere sull’apocalittica frase, si apre la porta di una chiara #comprensione sul Chi (= X) lega e sa legare "il principio e la fine" (Apocalisse 21:6, 22:13) e, al contempo, sul buon messaggio stesso della "Divina Commedia": "l’amor che move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145).
L’alfa (il principio) e l’omega (la fine), e la bet ("la prima lettera dell’alfabeto), la lettera che indica ""il verso giusto del cammino"!
Bet, la lettera di Benedizione ....
LA PIETRA FONDAMENTALE E LA PIETRA ANGOLARE: "ECCE HOMO". Ogni Uno (=1), Ognuno (ogni Eva e ogni Adamo, ogni Maria e ogni Giuseppe), Ogni Essere umano (Everyman, così Dante Alighieri per Ezra Pound), è antropologicamente e linguistica-mente la lettera dell’alfabeto, la Bet, la lettera di Benedizione e Bereshìt, la Parola che sta "Nel Principio": "Nel Principio era il Logos". L’amor che move il sole e le altre stelle....
DANTE 2021: ARCHEOLOGIA, ANTROPOLOGIA, FILOSOFIA, E STORIOGRAFIA...
A 700 ANNI DALLA MORTE DI DANTE ALIGHIERI, UN INVITO A RILEGGERE la sua "Monarchia", a cercare di capire meglio le ragioni di "quella Roma onde Cristo è romano" (Purg. XXXII, 102), e rimeditare le "Res Gestae" di Augusto, alla luce dei 2046 anni dalla fondazione di Aosta, avvenuta nel 25 a. C., in coincidenza con il solstizio d’inverno.
AUGUSTO, L’ITALIA, E LE SUE "28 COLONIE":
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
STORIA E STORIOGRAfIA DEL FASCISMO, "UN RINATO SACRO ROMANO IMPERO" (A. GRAMSCI, 1924).
IL MITO DELLA ROMANITÀ, LA MONARCHIA, E IL FASCISMO: MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE.
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Augusto figlio di dio
Appiano di Alessandria avrebbe potuto essere uno dei tanti cittadini dell’Impero romano dimenticati od anche mai conosciuti dai posteri. Se non fosse che, nel corso della sua vita di...
di Marco Sferini (La Sinistra quotidiana, 22 Settembre 2021)
Appiano di Alessandria avrebbe potuto essere uno dei tanti cittadini dell’Impero romano dimenticati od anche mai conosciuti dai posteri. Se non fosse che, nel corso della sua vita di uomo di legge e di procuratore, si interessò di storia - per così dire - “moderna” o “contemporanea“, se lo si vive calato esclusivamente nel suo tempo, astraendosi dal proprio presente. Questa sua passione la mise tutta nella redazione di una narrazione accurata delle Guerre civili: da Mario e Silla fino all’instaurazione del Principato.
In realtà, la sua monumentale opera, ben 24 libri, è arrivata fino a noi più che dimezzata: della “Ῥωμαικά” (“Rhomanikà“) rimangono solo 11 volumi, ma sono sufficienti per riuscire a ritrovare tutta una lunga serie di collegamenti con altri autori e con episodi della storia imperiale dell’Urbe.
Sappiamo che Karl Marx se ne interessò e che, molto probabilmente, soprattutto grazie alla lettura dei testi di Appiano imparò ad apprezzare oltre ogni modo la figura di Spartaco come “der famoseste Kerl“: tradotto dal tedesco, questo giudizio sul generale degli schiavi risulta essere “il tipo più in gamba“. Meglio di Garibaldi, si spinge il Moro nella comparazione con l’attualità che osserva in Europa e nell’Italia dei moti risorgimentali.
Appiano, come bene scrive Luciano Canfora nel suo “Augusto figlio di dio” (Editori Laterza, prima ed. 2015), è uno storico dilettante, ma tremendamente bravo e soprattutto ha accesso ad una vastità di fonti e di informazioni che, ancora oggi, rimangono un enigma per come siano state trovate, scoperte e utilizzate dall’alessandrino. Sembra essere, se non l’unico, almeno uno dei pochi cronachisti dell’antichità a conoscere situazioni così intime, segrete e particolari della corte augustea da mettere in discussione quel poco che sappiamo della sua vita.
La sorpresa di Marx davanti alla bravura di Appiano è nulla in confronto alle tinte di giallo che contornano questo avvocato dei tempi di Traiano, Adriano e Antonino Pio nel momento in cui si accinge a diventare uno scrittore, uno storico e lo fa con a disposizione dettagliatissimi resoconti della vita tanto privata quanto pubblica di Giulio Cesare ma, soprattutto, di Augusto.
L’opera di Canfora sul Princeps, sul rifondatore della Res publica, sul primo imperatore di Roma, è barocca, ricca di pieghe del tempo, di sovrapposizioni e intersezioni tra i personaggi di un passato che si rilegge nel tempo moderno ottocentesco, mentre prende corpo il marxismo, così come nel primo novecento mentre avanza lo spartachismo germanico. Sono pagine di meticolosa disamina della vita di Ottaviano, pur intervallate da viaggi nella quarta dimensione, accanto ad un Virgilio dantescamente ritrovato, seppure un bel po’ di anni dopo la sua morte, che però è - come scrive Marx ad Engels - «un egiziano tutto d’un pezzo».
Chi si dispone alla lettura dell’Augusto di Canfora, sappia fin dall’inizio che non è un libro semplice: necessita una certa conoscenza della romanità, tanto sul piano storico quanto su quello politico. Necessita pure una conoscenza, quanto meno di base, della letteratura latina, di autori come Seneca, Cicerone, Tacito ed anche il più leggero mondo svetoniano dei Cesari.
Non è una biografia né di Augusto e né di Appiano. Paradossalmente, però, riesce ad essere un grande affresco dinamicamente tinteggiato da tante sfumature di un mondo in continua evoluzione, che si riconosce proprio dall’atto fondativo prodotto dalle Guerre civili, dalla dittatura cesariana e dalla pax inaugurata da un Augusto scaltro, cui Appiano riconosce tutti i meriti del grande politico, camaleontico, capace di interpretare simultaneamente il difensore del Senato e della tradizione repubblicana della Roma che aveva cacciato i re ed essere il nuovo sovrano di un impero che viene rinnovato, completamente ristrutturato nella sua amministrazione ed anche nella preservazione della memoria, del sapere, dell’arte e delle lettere.
Augusto, ce lo dice Marco Antonio, ma lo sottolinea pure Canfora, deve un po’ tutto al suo nome: non a quello di nascita (Gaio Ottavio), bensì a quello del suo padre adottivo, il Divus Julius. Ottaviano ne è consapevole e fa di tutto per attribuirselo in ogni occasione, per farsi riconoscere dai Padri coscritti come l’erede di una volontà politica che difende la repubblica dai tentativi di restaurazione oligarchica dei cesaricidi.
In realtà, Luciano Canfora svela tante ambiguità di una storia romana che Appiano tuttavia non cela, non mistifica, non celebra inversamente, revisionisticamente, con quella accondiscendente sudditanza verso il potere, con una piaggeria che ci si aspetterebbe da uno scrittore che, per giunta, è un procuratore imperiale (anche se alcuni storici ritengono che questa carica gli venne assegnata più come titolo onorifico che come investitura vera e propria con pieni poteri).
“Augusto figlio di dio” è molto più di un libro sul primo imperatore di Roma: è un vero e proprio lavoro di ricerca storica, politica, sociale e morale tradotto in una biografia che ha il gusto piacevole del romanzo giallo, la fascinazione del prosa descrittiva di un passato mostrato con le tante similitudini del e nel nostro presente (in particolare, queste fanno riferimento alle caratteristiche più propriamente umane nelle declinazioni politiche, intellettuali e militari). Non ultimo, possiede il disincanto da una esposizione cattedratica che l’autore a volte è tentato di offrire a tutti i lettori nel proporre l’intersezione di tante difficili argomentazioni, ma che riesce sempre a coniugare con la cosciente pragmaticità della fruizione dell’opera da parte di un vasto pubblico dalle conoscenze più varie.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA.
FLS
ARTE, RELIGIONE, E ANTROPOLOGIA. SAN GIUSEPPE, TERESA D’AVILA, E IL CARMELO TERESIANO...
#DIVINACOMMEDIA: #DUESOLI (#DANTE2021)! PER UNA MIGLIORE #LETTURA DELLA FIGURA DEL PADRE NELL’OMBRA #RICORDARSI DEL #RICONOSCIMENTO DI #SANGIUSEPPE PROPOSTO DA #TERESADAVILA E DI #COMENASCONOIBAMBINI
Quel padre nell’ombra
Il più bel dipinto su san Giuseppe rimasto per secoli ignoto
di Claudio Strinati (L’Osservatore Romano, 04 dicembre 2021)
Uomo probo e riservato, padre maturo, amorevole, sollecito. Questo è il san Giuseppe dipinto nella bellissima pala d’ altare della chiesa di Santa Maria Assunta nel piccolo remoto borgo di Serrone, oggi depositata presso il museo capitolare diocesano di Foligno. Un’ opera d’ arte tanto importante in un luogo così appartato! Un grande dipinto ad olio su tela, alto quasi tre metri per due, rimasto ignoto per secoli fino a che, una quarantina d’ anni fa, fu visto e studiato da un manipolo di esperti guidati da Bruno Toscano, uno dei maggiori storici dell’arte del nostro tempo.
Ne rimasero incantati ma si accorsero che non c’erano testimonianze o documenti antichi che parlassero dell’autore. E non c’erano firme sull’opera tranne una lettera G segnata sulla pialla dietro alla figura del tenero Bambino Gesù in piedi. Lettera che può far individuare l’autore in un artista misterioso e pressoché dimenticato, Giovanni Demostene Ensio, aristocratico pittore attivo in area romana per committenti provenzali tra fine Cinquecento e inizio Seicento, aggregato all’ Accademia di San Luca e noto solo per lusinghiere testimonianze documentarie.
Risultò, infatti, evidente, oltre alla meravigliosa bellezza, la mirabile composizione dei colori fatti di materiali preziosi di origine soprattutto minerale, di cui si sa che il maestro Giovanni Demostene Ensio fosse tra i pochissimi in quel tempo a utilizzare, confermando l’ ipotesi di Toscano che aveva immaginato un ignoto pittore di origine francese o fiamminga, operoso in Italia nei primi anni del diciassettesimo secolo.
Il quadro rappresenta la bottega di san Giuseppe che non è qui un semplice artigiano ma un tecnico di primo livello che lavora il legno anche per l’edilizia. Il pittore descrive infatti con cura scientifica, veramente fiamminga, tutti gli strumenti di lavoro, le assi e i piani su cui il maestro ebanista sta lavorando, nonché la poderosa porta di ingresso al laboratorio fabbricata da Giuseppe stesso, appena aperta per far entrare la morbida luce del mattino. Questa rischiara il sorriso sul volto del Bambino Gesù che, sotto gli occhi seri, attenti e scrupolosi del padre sta legando un pezzetto del filo bianco proveniente dal gomitolo utilizzato dalla mamma nel cucito, per fabbricare un giocattolino a forma di croce, chiara premonizione della sua Passione futura. Con amorevole evangelica umiltà, il pittore rappresenta una miriade di cose sparse per il laboratorio, dai trucioli per terra, alla scatola di lavoro della Vergine agli zoccoli abbandonati al suolo. Tutto forgiato da quell’uomo saggio e avveduto. È lui che ha progettato, costruito e attrezzato il grande ambiente compresa la magnifica finestra bifora che si vede in fondo facendolo sembrare una cattedrale piuttosto che un laboratorio. Ed è lui che ha plasmato il clima familiare e morale che genera sia la composta quiete espressa dalla giovane moglie assorta nei suoi pensieri, sia la crescente consapevolezza del divino fanciullo colto nel momento magico della prima scoperta della famiglia intorno a noi e del mondo che si aprirà di fronte.
Il volto di Giuseppe immerso nell’ombra è nitidamente percepibile. E in questo modo rifulge il padre putativo della tradizione che significa la funzione paterna svincolata dal fattore biologico primario che compete esclusivamente alla madre.
Quasi che il pittore volesse farci vedere, attraverso tale umanissima rappresentazione di san Giuseppe, come questo principio, insondabile e apparentemente discriminante, non valga solo per lui, ma valga in realtà per tutti gli esseri umani anche se i nostri figli non sono figli di Dio.
Ma il pittore ci dice che invece è proprio così. Tutti, maschi o femmine o quant’altro, siamo, in quanto embrioni, feti e persone, figli di Dio perché il corpo generato dalla madre funziona a seguito dell’esito della fecondazione dell’ovulo da parte dello spermatozoo ma la vita in sé che possiamo chiamare l’ anima scaturisce da qualcos’ altro che possiamo chiamare il divino.
di Claudio Strinati
Segretario Generale dell’ Accademia Nazionale di san Luca
NOTA:
ARTE, RELIGIONE,E ANTROPOLOGIA.
SAN GIUSEPPE, TERESA D’AVILA, E IL CARMELO TERESIANO... *
"[...] è bene ricordare che, il culto del santo nel Carmelo entra già dalle origini dell’Ordine. La devozione a san Giuseppe, a livello personale e locale, si viveva fin dalla venuta dei carmelitani in Europa, anche se la festa del santo Patriarca, a livello di Ordine, non appare sino alla seconda metà del XV secolo.
Tale devozione nel Carmelo teresiano, va essenzialmente unita a santa Teresa. È uno dei legati più ricchi e caratteristici che la Santa lasciò ai suoi figli. Non si comprende il Carmelo teresiano senza san Giuseppe, senza l’esperienza giuseppina della Santa. Per la Santa Madre, i conventi che fonda, a immagine del primo (Avila 1562), sono ‘case’ di san Giuseppe. Per questo procura che la maggior parte di essi porti il nome e titolo di san Giuseppe.
Dei diciassette, fondati dalla Santa, undici stanno sotto il titolo di san Giuseppe. Se non tutte le fondazioni della Santa Madre portano quel titolo, non ce n’è nessuna dove non ci sia un’immagine del Santo che presieda e protegga la comunità. È un’ulteriore manifestazione, più della sua devozione ed esperienza giuseppina, il diffondere nei conventi le immagini del santo, la maggior parte delle quali ancora si conserva.
È da notare, a questo riguardo, il dato che portava con sé in tutte le fondazioni, una statua di san Giuseppe, che riceveva il titolo di “Patrocinio di san Giuseppe” [...]" (Antonio Faita, "Un inedito di Giuseppe Sarno: san Giuseppe con Gesù Bambino presso la chiesa teresiana di Gallipoli", Fondazione Terra d’Otranto, 19.03.2020).
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. “De Domo David. 49 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò, Fondazione Terra d’Otranto, 10.11.2019).
Federico La Sala
#DIVINACOMMEDIA (#DANTE2021)!
IL CARDINALE #CUSANO CERCA DI PENSARE L’#INCARNAZIONE MA FA UN PASSO AVANTI E #TRE INDIETRO, VERSO LA #DIALETTTICA COSMOTEANDRICA DELL’#ASSOLUTO DI #HEGEL *
Le tre eresie di Cusano
di Maurizio Morini (Ritiri Filosofici, 21 Novembre 2021)
«Quando entra nel campo del potere-che-è, ossia nel campo dove il potere è in atto, l’intelletto va a caccia di un cibo estremamente nutriente». Con questa promessa, Cusano inizia la descrizione del secondo campo nel quale cercare la sapienza. La linea argomentativa è quella per cui ciò che non può essere, non è: quod esse potest non est. Ne discende una scoperta che Cusano definisce non di poco conto: e cioè che il non essere non è una creatura. In termini parmenidei si direbbe che il nulla non è pensabile e che la domanda “perché l’essere e non il nulla” non ha nemmeno senso perché il nulla non può mai essere. Di fatto, come dirà in altre opere, esiste solo ciò che può essere in quanto ciò che è impossibile non si realizza. Come conseguenza, noi vediamo l’attualità assoluta in virtù della quale le cose che sono in atto sono ciò che esse sono: hinc actualitatem conspicimus. Tutte queste affermazioni implicano uno scontro con le posizioni della tradizione filosofica aristotelico-tomistica.
Nel Possest la coincidenza di possibilità e necessità
Aristotele aveva stabilito il principio secondo cui l’atto è anteriore alla potenza. La potenza infatti, in quanto principio del divenire, non è sufficiente a realizzare il divenire in quanto è necessario che ci sia una causa che trasformi la potenza in atto. Ma questa causa, che Aristotele definisce come causa efficiente, deve necessariamente essere già in atto.
Cusano non accoglie lo schema aristotelico dell’anteriorità dell’atto sulla potenza in quanto né l’attualità né la possibilità possono avere una precedenza: se l’attualità precedesse la possibilità, allora essa non sarebbe più attualità (che attualità sarebbe infatti quella che si risolvesse in una non attualità?); se la possibilità precedesse l’attualità si avrebbe invece un regresso all’infinito (perché ogni attualità richiederebbe sempre una possibilità che la porta all’atto e via di seguito).
La conseguenza di questo ragionamento è quella di ammettere la coincidenza di possibilità e necessità. Tale coincidenza ha bisogno di un nome e Cusano inventa il neologismo possest, termine che nasce dalla composizione di due termini, posse-est, traducibile con l’espressione il poter essere che è. Con questo termine egli indica la coincidenza, nell’assoluto, del poter essere con l’essere in atto. Tutte le cose, nella realtà indicata da questo termine, sono complicate, perché tutto ciò che esiste, per esistere, deve poter esistere, e dunque deve esistere in quello che è il potere allo stato puro. Ma in questo potere assoluto, che è un potere che è, nel quale l’essere coincide con il potere e la possibilità con l’attualità, devono essere incluse (cioè complicate nel linguaggio cusaniano) tutte le cose. Nel termine possest il Cardinale conia un termine che esprime la congiunzione della potenza di divenire e della potenza divenuta. Poter essere è dunque poter essere in atto, per cui siccome questo poter essere è considerato in atto, si dice che questo poter essere è un posse. Si tratta di una conclusione talmente forte che, prima di proseguire, Cusano la nasconde dietro tre affermazioni che, con l’apparenza di essere devote, contengono altrettante eresie le quali, ad altri pensatori, in altri tempi e in altri modi, sono costate la libertà e la vita.
Un Dio glorioso che non compie miracoli
Quello che noi consideriamo come Dio nella nostra tradizione, afferma Cusano, non è altro che la coincidenza dell’atto puro e della potenza pura. Nonostante egli chiami questa coincidenza Dio glorioso, l’affermazione si risolve in una vera e propria eresia rispetto al pensiero ortodosso, perché la potenza pura era da sempre stata considerata il prodotto dell’atto: ad esempio, come applicazione di questo schema, la prima cosa che Dio produce è la materia la quale, nella tradizione scolastica, non ha niente a che vedere con Dio, il quale era considerato piuttosto come una sostanza costituita da un’essenza diversa da quella che possiede la sostanza materia. Cusano cancella un simile quadro teorico perché quello che era un effetto, la materia, lo inserisce nella causa, che egli chiama Dio, considerata simultaneamente come un soggetto di contrari.
Il risultato di questo ragionamento produce una seconda eresia consistente nel rifiuto del concetto di eminenza. Con questo termine la tradizione aveva designato un modo di esistenza in cui, ciò che si dà attualmente nel mondo, è presente in modo diverso nell’idea di Dio. Questo significa che la creatura è contenuta nella mente del creatore in modo qualitativamente diverso rispetto a quello della creatura: in Dio (ad esempio) anche il mio gatto esiste, ma non esiste così come esiste in sé o come esiste nella mia mente: esiste in un modo diverso (diversità intesa come perfezione) in quanto la sua vera natura non è attingibile dalla nostra conoscenza.
Come conseguenza di questo approccio teorico della Scolastica, la potenza di Dio poteva essere concepita contemporaneamente in due modi: potenza assoluta e potenza ordinata. In quanto Dio è Dio, la potenza di Dio è assoluta; se invece si considera la potenza di Dio espressa nel mondo, la potenza ordinata, questa potenza non è assoluta, perché si ritiene che il mondo non sia tutto ciò che Dio poteva creare e che esso sia una tra le creature di Dio. Nel caso del gatto, esso esiste ed è stato creato; ma il gatto non solo non poteva non essere stato creato ma esistono nella mente di Dio tutta una serie di gatti che, trattenuti nella sua mente, non sono stati creati. Si ritiene cioè che non tutto ciò che è nell’intelletto di Dio è stato da lui creato: la sua volontà infatti avrebbe fatto da filtro rispetto all’infinità delle idee che sono in Dio, idee che solo in parte si sono tradotte nel mondo.
Anche in questo caso Cusano liquida la tradizione perché il concetto di Dio coincide con la possibilità attuata in cui non vi è più alcun residuo di possibilità da esplicare. Se la creazione deriva dalla natura di Dio (e non dalla volontà), se questa natura è infinita, anche l’effetto è infinito, e quindi dobbiamo dire che nel mondo c’è la piena e totale espressione della potenza di Dio. Dire ciò significa anche abolire il principio dei miracoli, ovvero che Dio non può, a partire dalla sua volontà, porre in essere qualcosa che prima era nella sua mente.
La materia è parte di Dio
La coincidenza di possibilità e necessità provoca un mutamento anche nel concetto di materia e ciò dà luogo alla terza eresia, sicuramente quella più scandalosa. Nella Dotta ignoranza, Cusano aveva già spiegato che il concetto della possibilità coincideva con quello della materia. Il problema è che la tradizione aristotelica era giunta a quel concetto nella modalità del non sapere, pensandola come possibilità eretta come principio assoluto e che coesisteva con lo stesso Dio (il quale era pensato in termini puramente spirituali). I platonici chiamarono la possibilità assoluta mancanza, in quanto essa manca di ogni forma. Gli aristotelici la definivano “quasi niente”, perché la materia aveva soltanto in minimo grado le qualità della sostanza. Di conseguenza, essi sostenevano che le forme sono presenti nella materia solo allo stato di possibilità. concludendo poi con la tesi che nella possibilità è presente la totalità delle cose. Cusano stabilisce invece che è impossibile che vi sia una possibilità assoluta, non congiunta cioè con l’atto, perché altrimenti bisognerebbe ammettere conseguenze assurde, come riconoscere un’infinità che parte dalla mancanza: cosa del tutto contraria a Dio perché semmai, in lui, l’infinità non può che partire da un’abbondanza.
Nasce il modello della causalità immanente
Come osserva un interlocutore del cardinale, si deve dire che Dio è in tutte le cose in modo tale da non poter essere altro quello che è. Questa, dice Cusano, è una dottrina da sostenere nel modo più fermo perché la coincidenza nell’assoluto di potenza ed atto consente di spiegare altrimenti la sua dottrina della complicatio. Dio infatti è tutte le cose in modo tale da non essere una di esse più di quanto non sia un’altra. Dio è sole ma non secondo il modo di essere del sole, il quale non è tutto ciò che può essere. Se questa prospettiva si può definire panteistica, non si deve dimenticare il modo esatto in cui essa si qualifica. Nel potere-che-è sono complicate tutte le cose e nessun grado di conoscenza riesce a coglierlo. Ma, soprattutto, «il potere, considerato in senso assoluto, è ogni potere. Pertanto se io vedessi che ogni potere è in atto non resterebbe più nulla. Se infatti restasse qualcosa, si tratterebbe pur sempre di qualcosa che potrebbe essere, per cui non resterebbe se prima non fosse già stata compresa nel potere». La conseguenza di questo discorso è che qualcosa, per essere qualcosa, deve avere la potenza di essere ciò che è e quindi, se non c’è il poter essere, non esiste nulla. Così come non si porta un’onda fuori del mare, è necessario che tutte le cose che sono, siano esistite da sempre nell’eternità: ciò che è stato creato è sempre esistito nel poter essere. Tutte le cose che sono e che si muovono, sono e si muovono nel possest.
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SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA"
Federico La Sala
#STORIA #ARTE #ARTERAPIA #FILOSOFIA #FILOLOGIA:
IL #QUADRO E LA #CORNICE DEL #TONDO DONI.
UNA #QUESTIONE DI #ANTROPOLOGIA E DI #PRESEPE ...
Ad #Arte? Se nella #cornice del #TondoDoni, "sono raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti" (Galleria degli Uffizi), e non quelle di #due profeti e di due #sibille, cosa si può capire dei #due soli di #Dante e del racconto della #Cappella Sistina?:
Michelangelo dipinse questa #SacraFamiglia per #AgnoloDoni, mercante fiorentino il cui prestigioso matrimonio nel 1504 con Maddalena Strozzi avvenne in un periodo cruciale per l’arte a #Firenze di inizio secolo. La compresenza in città di #Leonardo, #Michelangelo e #Raffaello apportò uno scatto di crescita al già vivace ambiente fiorentino, che nel primo decennio del secolo visse una stagione di altissimo fervore culturale.
(...) La #cornice del #tondo, probabilmente su disegno di Michelangelo è stata intagliata da Francesco del Tasso, esponente della più alta tradizione dell’intaglio ligneo fiorentino. Vi sono raffigurate la #testa di #Cristo e quelle di #quattro #profeti, circondate da grottesche e racemi, in cui sono nascoste, in alto a sinistra, delle mezze lune, insegne araldiche della famiglia Strozzi.
Federico La Sala
Dante, la prima Divina commedia tradotta in cinese arriva dall’Accademia della Crusca
Autore Agostino Biagi, un toscano trapiantato a Genova. A donarla la nipote, la deputata Mara Carocci
di Vittorio Coletti (la Repubblica, 21 Ottobre 2021)
È probabile che la novità più singolare e forse davvero unica di un anno dantesco ricco di edizioni, approfondimenti e letture, ma (inevitabilmente) non di inediti, arrivi da Genova. Nei prossimi giorni, infatti, saranno presentate ufficialmente nell’Accademia della Crusca di Firenze diverse e parallele traduzioni in cinese della Divina Commedia, in gran parte elaborate a Genova e ora donate all’Accademia, con un gesto di pura liberalità, dall’on. Mara Carocci, ex parlamentare del Pd, che le ha rinvenute nelle carte di famiglia alla morte della madre. Quella che sembra davvero essere la prima traduzione integrale in cinese e in versi del Poema dantesco, è opera, singolarmente, non di un cinese, come ci si potrebbe aspettare e in genere sempre avviene (chi traduce è perlopiù madrelingua nell’idioma d’arrivo), ma di un italiano, di un toscano trapiantato a Genova, dove ha vissuto a lungo ed è morto nel 1957: Agostino Biagi, di cui la Carocci è pronipote.
Agostino Biagi era nato a Cantagallo, sull’Appennino tosco-emiliano nel 1882. Entrato giovanissimo nell’ordine dei Francescani era andato missionario in Cina, dove aveva imparato il cinese e conseguito il titolo per insegnarlo. Tornato in Italia ed entrato in polemica con la Chiesa di Roma, si era convertito alle confessioni protestanti ed era diventato pastore evangelico ad Avellino e poi a Genova, dove è rimasto sino alla morte. Antifascista della prima ora, picchiato per le sue idee politiche filocomuniste, “attenzionato” per esse dalle questure di mezza Italia, ha vissuto stentatamente insegnando cinese ed altre lingue in varie scuole della Penisola.
La sua biblioteca, che ora, insieme con le traduzioni della Commedia, l’on. Carocci ha donato alla Crusca, testimonia la varietà dei suoi studi e traduzioni in e dal cinese, la sua precoce intuizione del ruolo di leader mondiale che la Cina avrebbe poi assunto in ogni campo, la sua attenzione per i più svariati aspetti della cultura di quel Paese e un ininterrotto studio della sua lingua, attestato da abbozzi di grammatiche (una ha anche circolato come dispensa) e di vocabolari di cinese per italiani.
Dal passato ritorna un fantasma umile e colto, un uomo di fede religiosa e politica ben in anticipo sui tempi del cattocomunismo (anche se per lui sarebbe più appropriato parlare di cristiano-comunismo), un intellettuale di grande curiosità, un linguista capace di maneggiare lingue diverse e tra di loro lontanissime (oltre al cinese, insegnò anche tedesco e inglese).
Commuove pensare ad Agostino Biagi, che vive nella semipovertà del suo ruolo di pastore qui, vicino a noi, con la moglie che cerca senza fortuna un editore per la traduzione della Commedia in modo da raggranellare qualche soldo per curare la sua lunga malattia, con la sua inesauribile passione per la Cina e il cinese, con il suo tenace impegno civile.
Gli studiosi, cui la Crusca metterà subito a disposizione le carte Biagi, diranno del valore letterario di queste traduzioni. Ma i sinologi che già hanno potuto dare una prima occhiata si sono detti meravigliati per la loro varietà metrica, la qualità grafica della scrittura ideogrammatica, la precisione dei disegni che le accompagnano.
Fin da ora, queste traduzioni in versi (ma ce n’è anche una che parafrasa in prosa la Commedia) lasciano intravedere un’impresa lunga e paziente, che ha cercato di portare Dante in Cina prima di chiunque altro.
In vita Agostino Biagi non c’è riuscito, complice le difficoltà prima politiche e poi economiche della sua situazione. Ora, la pronipote, donando la sua opera alla Crusca, la propone all’attenzione e alla considerazione che essa e il suo autore meritano e l’Italia e Genova aggiungono un’altra figura al loro già nutrito albo di uomini illustri.
DANTE2021: ANTROPOLOGIA, DIVINA COMMEDIA, E MUSICOTERAPIA... *
La vita è una Commedia
di Alessandro D’Avenia (Corriere della Sera, 13 settembr 2021).
Vi manca il respiro? Vi sentite in esilio? Leggete Dante ad alta voce. Nella mia scuola ideale la Commedia si legge integralmente ogni anno. È il regalo che vorrei fare a Dante per i 700 anni (martedì) dalla sua «presunta» morte, lui che è più vivo di me tanto da poter dire che non sono io a leggere lui ma lui a leggere me, perché dopo sette secoli continua a dirmi che il cuore dell’uomo è inferno, purgatorio e paradiso, che poi significa che all’inferno, in purgatorio o in paradiso non ci si va, ma ci si è.
Chi non ascolta Dante ha meno occasione di esser felice, perché, come lui stesso scrive della Commedia: «Il fine generale dell’opera è distogliere coloro che vivono in questa vita da uno stato di miseria e condurli ad uno stato di felicità». In «questa» vita, dice.
Ecco allora la mia proposta. Un anno scolastico (ma vale anche per chi a scuola non va) dura 200 giorni, i canti sono 100. Basta leggerne uno ogni due giorni alla prima ora, qualunque sia l’insegnante coinvolto (in media un canto è lungo 140 versi e richiede 10 minuti di lettura ad alta voce): 10 minuti ogni due giorni per ascoltare Dante (15 ore).
Non vi preoccupate delle note a pie’ di pagina ma di quelle musicali: Dante ha scritto «canti» che ci guariscono dai nostri «disincanti». La poesia prima di essere capita va respirata, perché tocca, come la musica, l’emisfero del cervello che accoglie le emozioni che permettono alla mente di accendersi e svilupparsi mentre apprende: «Nutre la mente soltanto ciò che la rallegra», scriveva Agostino, anticipando di secoli le scoperte della neuroscienza.
La Commedia va ascoltata prima che capita, come il Requiem di Mozart o Yesterday: li viviamo prima di capire le parole, perché dicono una verità carnale, che abbraccia (comprendere in latino significava abbracciare) tutto l’essere, non solo la mente.
I nostri bisnonni sapevano a memoria la Commedia anche se analfabeti: la comprendevano anche senza note a pie’ di pagina. Se ne lasciavano impregnare (comprendere significava anche rimanere incinta) come da una musica che dava senso a caos e fatica. Perché? È scritta in endecasillabi, il verso cardine della poesia italiana grazie ai suoi accenti musicali. Nel mezzo del cammin di nostra vita: tutti lo sanno a memoria (potere del ritmo).
L’endecasillabo ha reso l’italiano una lingua elegante con una vocazione al canto e alla musica (come la precisione del tedesco ha per vocazione la filosofia). Dobbiamo restituire all’endecasillabo il suo potere magico, la capacità di «reincantare» il quotidiano. E di endecasillabi è piena la vita di tutti i giorni: dai proverbi («Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare») ai divieti («È vietato parlare al conducente») passando per i titoli di giornale («Che cosa abbiamo perso con la Dad?»).
Questo dna musicale dà a noi italiani la respirazione giusta, perché l’endecasillabo asseconda perfettamente il ritmo naturale della respirazione (come fosse una forma di meditazione). Provate a leggere con calma (e magari imparare a memoria) i versi di Dante, anche senza capirli, ma seguendone il ritmo: non proverete affaticamento, anzi a poco a poco vi rilasserete. Sono i benefici di una respirazione accurata, liberata dalle tensioni continue della prosa quotidiana, come avviene in una preghiera.
Se leggete Dante così, dopo qualche canto, anche se ancora non «capite», dentro di voi «comprendete»: «accadono» suoni, parole, pensieri, sentimenti... come avviene con la musica che Dante stesso, nel Paradiso, definisce un «rapimento» che precede il capire le parole: «E come giga e arpa, in tempra tesa/ di molte corde, fa dolce tintinno/ a tal da cui la nota non è intesa,/ così da’ lumi che lì m’apparinno/ s’accogliea per la croce una melode/ che mi rapiva, sanza intender l’inno». Vi sentirete rapiti e pacificati, anche se non sapete ancora chi è Manfredi o che cosa rappresenta la lupa. Queste domande le soddisferete dopo (per questo con Franco Nembrini e Gabriele Dell’Otto abbiamo da poco pubblicato una Commedia che mira a far «vivere» Dante).
Leggere la Commedia a voce alta (o ascoltarla: io lo faccio andando in giro) è un esercizio di gioia per l’ospitalità che la nostra lingua madre ha da offrire. Dante, che era disperato, scelse di mettere il volgare in musica, perché tutti, con lui, trovassimo casa in una lingua in cui poteva (vorrei fosse ancora possibile) inventare verbi come «intuarsi» per indicare l’unione con l’amata. Ingiustamente esiliato cominciò a scrivere i suoi «canti» dopo aver perso tutto: famiglia, averi, città e dignità... Dovette elemosinare riparo, e intanto «cantava» per ritrovare il respiro e la pace. Era un morto in vita ma, in 100 canti, riebbe la vita in vita (e dopo anche in morte). E lo fa anche in noi: ci apre una via al paradiso proprio quando siamo smarriti. Respirate, cantate - ripete - la vita è una Commedia.
*
NOTA:
DANTE2021: ANTROPOLOGIA, DIVINA COMMEDIA, E MUSICOTERAPIA.
"Chi non ascolta Dante ha meno occasione di esser felice, perché, come lui stesso scrive della #Commedia: «Il fine generale dell’opera è distogliere coloro che vivono in questa vita da uno stato di miseria e condurli ad uno stato di felicità»" (Alessandro D’Avenia,"La vita è una Commedia", Corriere della Sera, 13 sett. 2021).
Questa indicazione, a mio parere , è da intendere dalle stalle alle stelle, e dalle stelle alle stalle: il fine generale dell’opera "è allontanare i viventi in questa vita dallo stato di miseria e condurli allo stato di felicità" (Ep. XIII, 15) è un progetto teologico-politico e antropologico, carico di Messaggio Evangelico e Costituzione, è quello di aprire le porte del manicomio, uscire dall’inferno (vedere Lucifero "con le gambe in sù": Inf. XXXIV, 90), dall’orizzonte della tragedia e rendere praticabile a tutti e a tutte (individuare e individuazione) la via al purgatorio, al paradiso terrestre, e al paradiso celeste. O no?!
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA FILOLOGIA E DIVINA COMMEDIA: AL DI LÀ DELLA COSMOTEANDRIA
RINASCERE. Beatrice chiede al "gran viro" San Pietro di esaminare Dante (suo figlio!) sulla fede (Par. XXIV, 34-45: " Ed ella: «O luce etterna del gran viro /a cui Nostro Segnor lasciò le chiavi, /ch’ei portò giù, di questo gaudio miro, /tenta costui di punti lievi e gravi, / come ti piace, intorno de la fede,/ per la qual tu su per lo mare andavi. // S’elli ama bene e bene spera e crede, /non t’è occulto, perché ‘l viso hai quivi /dov’ogne cosa dipinta si vede;/ ma perché questo regno ha fatto civi /per la verace fede, a gloriarla, /di lei parlare è ben ch’a lui arrivi»").
San Pietro chiede: «Di’, buon Cristiano, fatti manifesto: /fede che è?» (52-53). Dante , illuminato dalla Grazia (58: «La Grazia che mi dà ch’io mi confessi»), accetta le parole di San Paolo, risponde: "«Come ’l verace stilo/ ne scrisse, padre, del tuo caro frate/ che mise teco Roma nel buon filo, /fede è sustanza di cose sperate /e argomento de le non parventi; /e questa pare a me sua quiditate»" (61-66), e va oltre!
Con la luce della Grazia (Amore), egli ha ben chiaro che la sua sua strada non è quella né di Enea né di San Paolo, che dell’ "Ecce Homo", della figura di Cristo ha fatto un "vir-o", anzi un superuomo ("Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio": 1 Cor. 11, 1-3), e prosegue!!!
Il viaggio continua, fino a capire che è "l’amor che move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145): "La gloria di Colui che tutto move/ per l’universo penetra, e risplende/ in una parte più e meno altrove. /Nel ciel che più della sua luce prende / fu’ io, e vidi cose che ridire /né sa né può chi di là sù discende: / perché appressando sé al suo Disire, / nostro intelletto si profonda tanto/ che dietro la memoria non può ire" (Par. I, 1-9). E a ri-nascere: aggrappato al "vello" di Lucifero (e... dello stesso San Paolo), con l’aiuto di Virgilio (e Maria e Beatrice e Lucia, Dante ce l’ha fatta! Il suo cammino non sì è interrotto! Dopo 700 anni, come direbbe Raffaella Carrà (in memoria), egli è qui! O no?!
Dante2021: Dante Alighieri non "cantò i mosaici" dei "faraoni" ...
Federico La Sala
Verso Paradiso /
La gloria di Colui che tutto move
di Giuseppe Fornari (Doppiozero, 09 Giugno 2021)
L’attacco di Dante nella sua terza cantica è gerarchico fin dal primo verso, e non potrebbe esserci esordio meno congeniale alla mentalità degli odierni lettori del Paradiso. Il medioevo è dominato dalla nozione di gerarchia, in senso teologico e angelologico, ontologico e cosmologico, assiologico e morale, fino all’ordinamento sociale che della gerarchia celeste dovrebbe essere lo specchio, partendo dalle due massime autorità cristiane che ne costituiscono il vertice in terra, la Chiesa e l’Impero. Il problema per noi è che il nostro mondo si è formato insorgendo contro questa gerarchizzazione della realtà, ricondotta a ragioni oppressive che la modernità si è fatta un dovere di demistificare e distruggere in nome di un’orizzontalità liberatoria, di un immanentismo in cui non esiste nulla di sovraordinato all’umano. Sulla base di queste premesse, il Paradiso dantesco sembra fatto apposta per suscitare i fraintendimenti del pubblico di oltre sette secoli dopo.
Certo, noi sappiamo che la mentalità medievale è gerarchica, e siamo pronti a ricondurre questo dato storico agli aspetti estetici della terza cantica, che possiamo ammirare già nell’incipit, col suo vivido luminismo che scende dall’alto come in una cattedrale gotica (citiamo da Dante Alighieri, La commedìa, a cura di A. Lanza, De Rubeis, Anzio 1996):
La gloria di Colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.
Nel ciel che più della sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende:
perché appressando sé al suo Disire,
nostro intelletto si profonda tanto
che dietro la memoria non può ire.
Tutto torna nelle nostre sistemazioni manualistiche, dal Dio Motore Immobile aristotelico che muove non mosso e che debitamente si cristianizza grazie all’onnipresente tomismo, per arrivare alla distinzione qualitativa tra le varie parti dell’universo, che si lasciano permeare dalla luce superiore, superna, a seconda della maggiore o minore partecipazione alla realtà materiale che si interpone come filtro tra loro e lo splendore divino, con le ricadute morali e retributive che questo comporta. Ogni cosa sembra andare al suo posto, a condizione che gli elementi di questa ricostruzione convenzionale appaiano statici, fermi, quando al contrario nell’universo di Dante ogni elemento si muove e nulla sta immobile, a partire dalla «gloria di Colui che tutto move». In realtà, è impossibile intendere codesta gloria se non ci mettiamo anche noi in movimento e non assecondiamo il movimento di «Colui che tutto move», che non è il Motore Immobile di Aristotele in quanto non si limita ad essere trascendente ma è piuttosto sovra-trascendente, cioè dotato del potere eccedente e non calcolabile di trascendere la sua stessa trascendenza e di scendere tra le proprie creature mettendosi e mettendole in movimento. Altrimenti come potrebbe penetrare e risplendere nella sua gloria in mezzo alle sue creature? È vero che Dante sembra parlarci dell’antica metafora biblica di Dio come monarca che si fa glorificare dai suoi cortigiani, ma anche qui la metafora originaria va spogliata di ogni rapporto di adulazione o di servilismo. Non è questo il Dio la cui gloria «penetra e risplende».
Osserviamo la perspicuità dei verbi simmetrici e complementari usati da Dante. La gloria divina «penetra» non perché scenda con la forza, con la degnazione del Signore che accetta di scendere tra i suoi sudditi e in primis tra i suoi cortigiani. Il Dio di Dante penetra e raggiunge tutte le sue creature perché ne conosce il segreto e lo sollecita e accende con la sua luce, una luce che non ha nulla di inconcepibile, perché altro non è che l’Amore. A questo punto la Gloria, che manifesta il suo potere di entrare nell’intimo di ogni sua creatura in quanto è l’unica gloria dell’Amore, «risplende», cioè appare nel suo pieno fulgore e per un’unica ragione, perché il suo splendore si riflette nelle sue creature e suscita la loro risposta. L’atto di ri-splendere è uno splendore raddoppiato nella risposta che fa scaturire, e sono le creature in cui la gloria di Dio è penetrata a raddoppiare questo splendore, che quindi implica la piena partecipazione delle creature alla gloria del Creatore attraverso l’amore che lega entrambi e che è questa medesima Gloria. Ogni immagine superficialmente monarchica crolla. Ma, allora, che ne è della gerarchia da cui eravamo partiti?
Chiediamoci perché Dante ci tiene a precisare di non poter ripetere le «cose» da lui “viste”. Il cielo in cui è stato non è un cielo fisico, poiché si smaterializza in una Luce che è manifestazione diretta della Trascendenza. Siamo al di là della materia, dello spazio e del tempo. Il viaggio di Dante è un’esperienza mistica, e come tale ha trasceso i vincoli materiali e spazio-temporali della nostra vita terrena. Non è quindi questione di passare da un luogo all’altro, bensì da una dimensione all’altra, o meglio da una situazione trascendente ogni dimensione alla nostra situazione dimensionale, nella quale soltanto il racconto del Paradiso può svolgersi. Tuttavia, le considerazioni metafisiche non bastano a comprendere le «cose» che Dante non sa «ridire». Egli non è in grado di farlo non solo perché sta parlando di un’esperienza che eccede ogni dimensione linguistica ed enunciativa, ma perché ha partecipato del regno medesimo dell’eccedenza, della sovra-trascendenza che trascende se stessa e “scende” da se stessa effondendosi per ogni dove, rendendo possibile “ogni dove”. Le «cose» sono un indizio di molteplicità, che fa pensare alla molteplicità infinita delle creature, ma questa molteplicità va considerata dal punto di vista del loro Creatore, nella sua costituzione originaria e originante che non sarebbe capace di questa molteplicità illimitata se non ne albergasse in sé il principio generatore, l’articolazione una e molteplice corrispondente alla Trinità cristiana su cui si chiuderà la cantica e l’intera Commedia.
L’aspetto esperienziale e ontologicamente sorgivo di ciò di cui Dante ci parla corrisponde alla sovra-trascendenza dell’Amore. La precisazione sul non saper né poter ridire le cose esperite durante il viaggio ultraterreno sta a significare che Dante non è in grado di dire a parole l’Amore, perché l’Amore o lo si prova o altrimenti non risulta dicibile, per la letterale ragione che non c’è nulla da dire. Capiamo che “discendere” non significa scendere da un mitico luogo denominato Empireo, bensì non riuscire a “scendere” nel modo giusto, non riuscire a “tra-scendere”, venendo meno di conseguenza alla realtà dell’esperienza d’amore, alla piena realtà dell’Amore. Basta quindi mettersi nella giusta posizione esistenziale di chi prova l’amore per «ridire», ossia per ripetere nello spazio simbolico e comunicativo della narrazione ciò che altrimenti sarebbe impossibile dire, e che nondimeno c’è già tutt’intero nella situazione amorosa in cui il dire sgorga spontaneamente da ciò che si prova, dalla condizione affettiva e ontologica in cui ci si colloca. Il dire si dice di nuovo perché c’è da sempre, perché c’è fin dal principio, dato che in principio era il Verbo, il Logos. Solo a questa condizione il Verbo divino si manifesta e passa dall’ineffabile all’effabile, attuando quella Mediazione perpetua d’Amore che è il segreto medesimo della Trinità.
Possiamo peraltro toccare i misteri della Trinità se non ci accontentiamo di ciò che noi comunemente intendiamo per amore. Se ci limitiamo a una lettura di tipo affettivo, pur necessaria per affrontare il massimo teorizzatore dell’Amor Cortese, ci troviamo a stringere un pugno, più che di foglie secche, di gusci vuoti, senza aver fatto in tempo a cibarci del loro contenuto, del loro gheriglio. L’indicazione su quale possa essere questo “gheriglio” ci viene data in aenigmate, giacché Dante si rifiuta di servire la verità già pronta, prima che diventi parte integrante della nostra esperienza.
Egli sa che nella nostra esperienza ci sono i semi della verità, ma sa che per raggiungerli dobbiamo romperne il guscio, metafora che esprime un’azione traumatica, una soluzione di continuità, un movimento di sottrazione. La risposta ci viene nascostamente data sotto le sembianze classiche dell’invocazione al «buono Appollo». Citazione colta conforme al registro elevato della terza cantica, anche se esposta alla trappola dell’autoreferenzialità letteraria, evocata dall’idea di ispirazione poetica.
Dei riferimenti danteschi al paganesimo non è importante però il senso letterale, bensì il suo movimento generatore, che in questo caso riguarda il passaggio da un’ispirazione ancora basata su convenzioni usitate, su generi riconoscibili, a un’ispirazione che non ha più esempio perché “direttamente” divina. Bisognerebbe compiere un salto dalla normale trascendenza divina, che simbolicamente c’era già nelle Muse, a una trascendenza ulteriore, a una sovra-trascendenza che non si può limitare all’aspetto effusivo, affettivo, perché nella realtà sublunare, dove il «meno» prevale sul «più», il sentimento non basta. Ma come arrivare, ontologicamente e storicamente, alla sovra-trascendenza? L’invocazione apollinea ce lo spiega:
Entra nel petto mio, e spira tùe
sì come quando Marsïa traesti
della vagina delle membra sue.
O divina virtù, se mi ti presti
tanto, che l’ombra del beato regno
segnata nel mio capo io manifesti,
venir vedrâmi al tuo diletto legno
e coronarmi allor di quelle foglie
che la materia e tu me n’ fara’ degno! (19-27)
Viene menzionato il mito più crudo riguardante Apollo, quello del satiro Marsia che sfida il dio in una gara poetico-musicale e che, dopo esserne stato sconfitto, ne viene sadicamente scorticato. È vero che Dante, a differenza delle sue fonti, non si compiace di particolari orrorosi e che l’intervento del dio sembra avvenire d’un colpo, con l’elegante «traesti» che fa uscire Marsia come un frutto maturo dalla «vagina delle membra sue». Eppure, l’eleganza del procedimento finisce per sottolinearne il significato, che dobbiamo prendere estremamente sul serio nel suo contenuto.
La nostra consapevolezza storico-religiosa ci dice che l’episodio, nella sua crudeltà assolutamente inspiegata, deve trarre la sua origine da riti di tipo sacrificale, divenuti così tradizionali da non essere più comprensibili, per cui il mito della gara con Apollo ne è divenuto la spiegazione eziologica. A suo tempo Frazer ha documentato che la storia di Marsia è la traccia di sacrifici umani realmente compiuti appendendone le vittime a un albero dove venivano scuoiate o fatte a pezzi. Dietro questo misterioso supplizio possiamo recuperare una fase originaria in cui Apollo e Marsia erano una stessa figura, dapprima sacrificata e poi venerata come divinità, mentre l’elemento poetico-musicale corrisponde all’accompagnamento del rito, poi trasformato in motivo eziologico. Apollo non può rispondere a Marsia per la secca ragione che è lo stesso Marsia visto sub specie divina. Ma che rapporti possono avere queste analisi moderne con Dante?
Nella protasi del Paradiso il mito di Apollo e Marsia viene utilizzato in senso allegorico, secondo l’habitus medievale di utilizzare ciò che si sapeva della mitologia classica per indicare delle verità riconoscibili al pubblico. Tuttavia, il genio dantesco impiega questi materiali costruttivi di provenienza pagana interrogandosi sulla loro ragione di partenza e sulle loro caratteristiche interne, con un metodo definibile come storico, anche se non in senso nostro. La storia è per Dante l’esplicarsi di una serie di potenze, che scaturiscono dall’unica potenza di Dio per declinarla in un senso o nell’altro a seconda delle scelte compiute, il che apre lo spazio a una storia interamente umana dato che l’uomo è il soggetto per eccellenza dotato di tale potere di scelta. Ciò nulla toglie alle potenze divine o demoniache, ma conferisce loro un centro di azione e di significato, con l’importantissima fase intermedia antica in cui le forze divine e demoniache appaiono agli uomini ancora mescolate assieme, in attesa di essere definitivamente distinte grazie alla rivelazione. Siamo quindi agli inizi di quel processo di storicizzazione che proseguirà nel proto-umanesimo di Boccaccio e Petrarca e darà vita al movimento umanistico.
Il contesto ci dice che la dura metafora mitica serve a designare la rigenerazione paradisiaca del Dante-personaggio rappresentativo dell’intera umanità, senza che questo però cancelli il movimento di sottrazione sacrificale che ne ha reso possibile lo slancio ascensionale. Dante allude alla dura storia che l’umanità ha dovuto attraversare per giungere alla rivelazione di Cristo, senonché tale storia include anche quella più individuale del Dante uomo, visti i riferimenti professionali alla poesia che lo investono in quanto autore. È quindi Dante in persona che si sta assimilando a Marsia, l’audace cantore che osò sfidare il dio e ne venne esemplarmente punito, e la punizione per Dante consiste nell’esser costretto a fuoriuscir da se stesso, nell’andar fuori da tutto ciò che di terreno l’aveva fino a quel momento protetto, a cominciare dal suo enorme talento, ma che ora, davanti all’improba impresa di «ridire» l’indicibile, si dimostra inadeguato. È Dante che accetta di farsi scorticare vivo da Apollo, e viene spontaneo pensare all’ennesima metafora poetica, un tantino dura, certo, ma non siamo nel medioevo, epoca di tinte forti e di forti passioni, e chi più forte e passionale del nostro sommo Poeta? Per andare avanti dobbiamo liberarci di queste banalità. Siamo all’inizio di una cantica dedicata al «beato regno», che è il regno di Dio dei Vangeli, il beato regno da cui viene Beatrice, il regno apportatore di beatitudine di Gesù Cristo. Non può dunque trattarsi di una semplice metafora poetico-letteraria, ma di una metafora racchiudente in sé le significazioni storico-religiose che sta a noi comprendere e dipanare. Stranamente dominante appare l’immagine del «tuo diletto legno», che si riferisce all’albero sacro ad Apollo, l’alloro, non senza risonanze con l’albero a cui viene appeso Marsia, e se questo alloro apollineo si limitasse ad avere il significato più ovvio, suonerebbe di una povertà desolante, di una prevedibilità sconcertante all’inizio di una cantica dove si dichiara ripetutamente che non c’è parola umana che possa bastare. In realtà, è dal simbolo stesso della gloria poetica che Dante vuol essere dolorosamente liberato. Egli non è venuto a fare il “poeta laureato”, precisamente perché la gloria poetica l’ha desiderata come nessun altro, a fronte di un destino di amarezze, di incomprensioni, di esilio.
Dante è pronto a farsi scorticare vivo in tutte le sue (legittime) pretese, in tutto il suo (non illegittimo) orgoglio. Ma chi è quel celeste campione capace di costringerlo a tanto? Uno solo: Gesù, il cui diletto legno - anticipato dall’albero a cui fu appeso Marsia - altro non è che la Croce; Gesù che Dante fa chiamare più avanti a san Tommaso il «nostro Diletto» (XIII, 111), e che più oltre viene descritto come volontariamente lasciatosi inchiodare al «legno» (XIX, 105). È la Croce l’albero che renderà l’autore degno di scrivere la terza cantica e solo la Croce lo renderà degno dell’argomento trattato e di colui che ne costituisce l’unico centro. Questi e non altri sono gli allori a cui aspira il cristiano Dante, gli allori che fioriscono sulla Croce, e che sono spuntati sulla sua personale croce, messa a frutto e trascesa nella gloria non semplicemente poetica bensì sovra-trascendente della terza cantica. L’unico Parnaso di Dante è il Calvario. Inutile leggerlo se non abbiamo un nostro personale calvario da invocare per esprimere la sovra-trascendenza dell’Amore, la sovra-poesia della trascendenza incarnata d’Amore.
È a questo punto che si innesca il simbolismo igneo e luminoso che dominerà tutta la cantica. Basta una scintilla ad accenderlo: «Poca favilla gran fiamma seconda» (34), ed è l’intero universo ad accendersi non appena la Croce vi si inserisce come incrocio di unione, come sottrazione di Dio che rende l’esistenza del Creato possibile:
Surge ai mortali da diverse foci
la lucerna del mondo; ma da quella
che quattro cerchi giugne con tre croci
con miglior corso e con migliore stella
esce congiunta, e la mondana cera
più a suo modo tempera e suggella. (37-42)
Il riferimento astronomico all’equinozio di primavera è scientifico e, appunto per questo, intriso di simbolismo teologico: i quattro cerchi dello zodiaco, dell’equatore, del coluro equinoziale e dell’orizzonte, congiunti insieme nell’equinozio di primavera in cui si collocava tradizionalmente il concepimento di Cristo, producono tre croci che sono la riproduzione astrale delle tre croci del Golgota, e tale incrocio naturale e miracoloso produce una meravigliosa astrologia cruciforme in cui sono il dolore e la sconfitta a mettere in moto la macchina dell’universo e a imprimerle «miglior corso» e «migliore stella», trasmettendo finalmente alla «mondana cera» la propria forma, il proprio suggello, che propriamente parlando non è una forma, non è un sigillo, quanto la possibilità e volontà di ricevere in sé ogni forma e ogni sigillo. Ad essere come duttile cera è la misericordia di Dio che si adatta ad ogni situazione, ad ogni evenienza delle sue creature per ricongiungerle a sé. Attraverso la croce, attraverso le croci, il congiungimento di Dio con la creazione è reale e completo, ma non ha nulla di esteriore e di celebrativo, poiché è visibile solo a chi vi partecipa, a chi lo prova.
Questa è «la gloria di Colui che tutto move», una gloria che «penetra e risplende» perché prima entra con dolore nelle nostre vite e poi le riscatta in una luce sovra-trascendente, la sola che ci faccia ascendere lungo le sfere trasparenti e luminose del Paradiso di Dante.
In cammino con Dante/20.
Raab e Cunizza, due donne generose nell’amore
Il IX canto del Paradiso ha come protagoniste la prostituta biblica che salvò Giosuè e la sorella di Ezzelino nota al suo tempo per i mariti e gli amanti: e Dante anticipa lo stupore di trovarle lassù
di Carlo Ossola ( Avvenire, domenica 1 agosto 2021)
Si direbbe che Dante, nella Commedia, abbia scelto di attestare il canone biblico femminile ricordato da Adam Scoto: «Eva, Sara, Rebecca, Lia, Rachel, Bala, Zelpha, Thamar, Raab, Debbora, Ruth, Anna, Bethsabee, Esther, Iudith, Elisabeth» (De tripartito tabernaculo, pars II, cap. VI, in PL, 198, 693B). Esse sono quasi tutte menzionate, spesso in Paradiso (o nel Paradiso Terrestre) e con ruoli eminenti: Lia e Rachele su tutte; nell’Empireo, al più alto grado, seggono Eva la progenitrice e Maria la rigeneratrice; e subito sotto, elette a far corona a Beatrice: «Ne l’ordine che fanno i terzi sedi, / siede Rachel di sotto da costei [Eva] / con Bëatrice, sì come tu vedi. / Sarra e Rebecca, Iudit e colei [Ruth] / che fu bisava al cantor che per doglia / del fallo disse: “Miserere mei”» (Par XXXII, 7-12).
Un rilievo speciale è dato, nel cielo di Venere, a Raab, la prostituta che diede ospitalità agli inviati di Giosuè, li nascose e li salvò dai nemici: «In seguito Giosuè, figlio di Nun, di nascosto inviò da Sittim due spie, ingiungendo: “Andate, osservate il territorio e Gerico”. Essi andarono ed entrarono in casa di una donna, una prostituta chiamata Raab, dove passarono la notte. Ma fu riferito al re di Gerico: “Ecco alcuni degli Israeliti sono venuti qui questa notte per esplorare il paese”. Allora il re di Gerico mandò a dire a Raab: “Fa’ uscire gli uomini che sono venuti da te e sono entrati in casa tua, perché sono venuti per esplorare tutto il paese”. Allora la donna prese i due uomini e, dopo averli nascosti, rispose: “Sì, sono venuti da me quegli uomini, ma non sapevo di dove fossero. Ma quando stava per chiudersi la porta della città al cader della notte, essi uscirono e non so dove siano andati. Inseguiteli subito e li raggiungerete”. Essa invece li aveva fatti salire sulla terrazza e li aveva nascosti fra gli steli di lino che vi aveva accatastato» (Giosuè, 2, 1-6).
In un Breviarium in Psalmos (attribuito a sant’Agostino e a san Girolamo; cfr. PL, 26, 1085A) si legge addirittura - tanta è la forza dell’exemplum biblico: «Ergo anima nostra illa Raab, illa meretrix, potest concipere, et parere Salvatorem» (Psalmus LXXXVI). Anche la nostra anima, prostituta essa stessa, avvinghiata al peccato, può dar ricetto e generare il Salvatore! È certamente questo il caso più evidente dell’efficacia delle opere, la sollecitudine dell’accoglienza già ricordata nel Vangelo (Mt 25, 34-40) e ribadita da san Paolo nella lettera agli Ebrei: «Per fede Raab, la prostituta, non perì con gl’increduli, avendo accolto con benevolenza gli esploratori» (11, 31); e ripetuta da Beda e da molti altri: «Denique Raab meretrix, nonne ex operibus iustificata est, suscipiens nuntios?» (“E infine Raab, la prostituta, non fu forse giustificata e salva per le sue opere, lei che accolse gli esploratori?”; Allegorica expositio in Samuelem, in PL, 91, 650C): secondo, del resto, il detto evangelico: «Non chiunque dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli » (Mt 7, 21). E Beatrice stessa per Dante non è forse nel poema - con splendida definizione - «opra di fede»? (Purg XVIII, 48).
Dopo tanti affanni, e desolazioni, e cautele e astuzie, finalmente Raab «si tranquilla» in Paradiso: il termine, accostato a “scintilla”, è una delle rime più affascinanti di tutta la Commedia, come ben vide il Tommaseo: «E non a caso, credo io, dice che la donna di Gerico in quel pianeta alla fine si tranquilla scintillando come raggio di sole in acqua limpida [113-115], si tranquilla dall’irrequieto dibattere delle fiamme e degli amori suoi vaghi» (DDP, ad locum). Non diversa è la storia - che precede nel canto IX del Paradiso - di Cunizza da Romano, figlia di Ezzelino II, morta a Firenze dopo il 1279, donna dai molti amori e di tanti pentimenti, della quale può valere il ritratto in versi che ci lascia Ezra Pound: «e sesta figlia Madonna Cunizza / dapprima sposa a Riccardo di San Bonifacio / e poi da Sordello sottratta al marito. / E con lui giacque in Treviso / finché lui non ne venne cacciato. / E lei scappò con Bonio che era un soldato / pazza d’amore / e andò da un posto all’altro / spassandosela assai / spendendo e spandendo / finché Bonio fu ucciso una domenica / e lei passò a un signore di Braganza / e infine mise su casa in Verona» (I Cantos, XXIX, trad., per questo passo, di Giovanni Giudici).
Più volte presente nei Cantos (VI, LXXIV, LXXVI, LXXVIII), Cunizza è, per Pound, l’esempio stesso di una gratuità totalmente spesa nell’amore, un amore così pieno che non lascia - nella letizia - traccia di rimorso: «Cunizza fui chiamata, e qui refulgo / perché mi vinse il lume d’esta stella; / ma lietamente a me medesma indulgo / la cagion di mia sorte, e non mi noia; / che parria forse forte al vostro volgo» (Par IX, 3236). Quell’«indulgere a sé» è davvero “forte” ma risponde, osserva nel suo commento Benvenuto da Imola, a un impulso naturale: «essa dice bene, dacché gli ignoranti si sorprendono che una famosa prostituta sia beata, non considerando che questo vizio è naturale, e comune e quasi necessario nei giovani». Egli fa eco, qui, a Boccaccio, che negli stessi termini si era espresso, nelle sue Esposizioni, quanto agli amori di Paolo e Francesca: «Sono adunque dannati in questo cerchio, come assai fu dichiarato leggendo la lettera, i lussuriosi; intorno al vizio de’ quali è da sapere che la lussuria è vizio naturale, al quale la natura incita ciascuno animale» (commento al canto V dell’Inferno). E con più profonda verità di fede il Tommaseo: «indulgo: perdono a me il mio fallire che mi fu perdonato».
Così infine Giovanni Giudici, che da Pound eredita, volle intitolare la sua “satura drammatica” del Paradiso Perché mi vinse il lume d’esta stella (1991), aggiungendo, ai versi di questi, il proprio toccante e sommesso congedo: «Perché di tanta pena / L’amore sia narrato / La quasi santità / Del nostro unico peccato».
#EDUCAZIONE CIVICA
#EDUCAZIONE SESSUALE.
#Memoria della
#Legge di #Apollo
(#Eschilo):
«non è la madre la #generatrice di quello che è chiamato suo figlio;
ella è la nutrice del germe in lei inseminato.
Il #generatore è colui che la feconda».
Dante e Guido, chiave per la Commedia
A colloquio con Enrico Malato sul saggio dedicato al Canto X dell’Inferno: «Svela i motivi per cui vari passaggi del poema fanno riferimento a Cavalcanti, amico ma non troppo».
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, mercoledì 17 giugno 2020)
La prima ’anticipazione per estratto’, dedicata al canto I dell’Inferno, risale al 2007. Alla vigilia del settimo centenario della morte di Dante (1265-1321), Enrico Malato si sofferma ora su un altro canto dell’Inferno, il X. L’orizzonte complessivo è sempre quello della Necod, la ’Nuova edizione commentata delle opere di Dante’ che lo stesso Malato - professore emerito di Letteratura italiana alla Federico II di Napoli e presidente del Centro Pio Rajna - ha avviato nel 2012 presso la casa editrice Salerno. Otto i tomi già pubblicati, al quale se ne aggiungerà un nono in autunno. A coronare il progetto sarà poi la Commedia, di cui si annuncia un’edizione basata sullo storico testo stabilito da Giorgio Petrocchi, ma riveduto in centinaia di luoghi, con introduzioni di varianti e rettifiche di punteggiatura, accompagnato da un commento di forte originalità metodologica. Sono i criteri già seguiti, sia pure in modo sintetico, nella Divina Commedia ’tascabile’ curata nel 2018 da Malato per i ’Diamanti’.
Adesso è la volta del saggio dedicato a Il canto X dell’Inferno (Salerno, pagine 56, euro 12), al quale Malato riconosce una funzione cruciale. Ma è la complessità del rapporto tra i vivi e i morti a colpire, una volta di più, il lettore di Dante. «Una sentenza di Cicerone asserisce che la vita dei morti è riposta nel ricordo dei vivi; ma anche i vivi si nutrono del ricordo dei morti - afferma Malato -. In questa dialettica si trovano le ragioni profonde della fortuna della Divina Commedia. Che naturalmente trova altre motivazioni, nell’opera in sé, nel fascino della sua poesia, nei modi suggestivi della scrittura, nell’imponenza della costruzione.
Perché questo canto è così importante?
È uno snodo fondamentale, un architrave dell’intero poema. Nel canto X dell’Inferno Dante fa i conti con Guido Cavalcanti, il «primo amico» della giovinezza, dedicatario della Vita nuova, col quale è insorto in seguito un dissidio che ha portato forse a una frattura, certo a una contrapposizione che filtra fin nella Commedia. Tutto ciò è rimasto oscuro all’esegesi tradizionale. Che ancora nel ’900 avanzato discettava di quanto i due fossero amici per la pelle, Dante e Guido.
In questo canto Guido è fatto comparire surrettiziamente sulla scena infernale, non di persona, perché ancora vivo al momento del viaggio, ma evocato dal padre Cavalcante, dannato, che sviene alla malintesa notizia della sua morte. Ciò che provoca il collasso è però il pensiero che Guido, se morto prima di aver maturato la consapevolezza del peccato ed essersene pentito, possa essere a sua volta dannato. Così Dante fa dichiarare al padre l’errore del figlio.
Ma il protagonista del canto non è Farinata degli Uberti?
Sì, tradizionalmente è ’il canto di Farinata’: e in quanto tale, dall’esaltazione del condottiero che salvò Firenze dalla distruzione decretata dai nemici vincitori, ha tratto il simbolo dell’amor di patria e della passione politica. Che Dante e Farinata ebbero comune e assai viva, benché apparentemente contrapposta (uno guelfo, l’altro ghibellino), ma in realtà meno distanti di quanto potesse apparire. Il nuovo commento mette in rilievo un aspetto non adeguatamente approfondito nella lettura storica, che poi si rivela di straordinaria portata. Al ’gigante’ Farinata viene infatti affiancata una figura esibita come minore, Cavalcante, che in realtà è solo una controfigura del figlio Guido, punto focale del canto e per molti riflessi, dell’intera Commedia.
Che cosa divideva Dante e Guido?
Partiti da posizioni più o meno comuni, più o meno coerenti con i principii dell’amor cortese, pervengono a concezioni diverse e addirittura opposte: per Dante l’amore è una forza virtuosa, beatifica, che eleva a Dio e porta alla salvezza dell’anima; per Guido è, al contrario, forza tormentosa, impetuosa, ’mortifera’. La divergenza investe l’ideologia di sostegno del fedele su un principio fondamentale del credo cristiano, dominante nella coscienza del XIV secolo. E diventa scontro aperto. Alla teorizzazione di Dante, nella canzone Donne ch’avete intelletto d’amore, poi nucleo della Vita nuova, Guido oppone, in contestazione, la sofisticatissima Donna me prega per ch’eo voglio dire. Il dissidio esplode pubblicamente. Poi Guido muore. Ma Dante non rinuncia alla replica di puntuale confutazione, trasferita nella Commedia e diluita in tutto il poema.
La rispondenza tra i testi è fittissima.
La Commedia è una ’rete mirabile’ di echi, riprese, intrecci di testi antichi e contemporanei di ogni genere, di cui nel commento è data ampia documentazione. Ma qui conviene mettere l’accento sulla continuità degli echi in replica a Guido, anch’essi sparsi in forma più o meno accentuata in tutte le cantiche. Per dare appena un’idea, basti rilevare che nel canto V dell’Inferno c’è l’episodio, costruito con la forza dell’exemplum medievale, di Francesca e Paolo che, per aver creduto nei principii dell’amor cortese asseverati da Guido, si trovano dannati all’Inferno.
Mentre nel Purgatorio, dopo che Virgilio avrà corretto la definizione di Francesca («Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende, Amor ch’a nullo amato amar perdona») in chiave cristiana («Amore acceso di virtù sempre altro accese»), verrà l’incontro con Stazio, che per aver conosciuto e praticato quei principii ebbe salva l’anima pur essendo pagano.
I dannati possono vedere il futuro ma ignorano il presente: come mai?
Il concetto fondamentale è che la vita è un dono di Dio, concesso all’uomo perché lo impieghi al meglio, con la promessa della beatitudine dopo la morte. Chi non sa meritarla, anche dannato non perde la memoria e la nostalgia di quel bene perduto, con una sofferenza che si rinnova e si esalta osservando ciò che ancora avviene nella vita dei viventi, in quello che non senza precisa ragione è definito «il dolce mondo». Questa facoltà viene meno nel presente: il momento in cui può intervenire il pentimento, e con esso il recupero della grazia di Dio e la salvezza dalla dannazione, evento la cui visione non può essere concessa ai dannati. Perciò è preclusa a Cavalcante, lasciando volutamente oscuro il destino di Guido. Dante, come acutamente aveva intuito Contini, non esprime un giudizio di condanna, ma lascia abilmente aperta la possibilità che, senza un atto di pentimento, l’altro poeta sia infine dannato.
In cammino con Dante/18.
La cattedrale dell’arte vince l’oblìo
Il fascino perenne del Purgatorio è anche nel continuo trapassare la barriera della morte grazie all’immaginazione poetica che congiunge i tempi umani all’eterno
di Carlo Ossola (Avvenire, domenica 18 luglio 2021)
Il Purgatorio è la cantica delle arti, a cominciare dal musico Casella (canto II) che intona la canzone del Convivio: «Amor che ne la mente mi ragiona», sino al poeta Bonagiunta che nuovamente rende omaggio a Dante poeta: «Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore / trasse le nove rime, cominciando / ’Donne ch’avete intelletto d’amore» (XXIV, 49-51), per compiersi nell’elogio di Guido Guinizzelli e di Arnaut Daniel al canto XXVI.
A ben vedere - a parte Brunetto Latini, condannato tra i sodomiti - gli amici e sodali di Dante son tutti a purificarsi nel Purgatorio, quasi le arti fossero - come additava don Giuseppe De Luca - quell’«imbastitura in bianco» che ancora non è abito di salvezza ma già ne annuncia la forma: «per me i poeti sono i maestri, non delle verità da credere, ma delle verità con cui credere. Più di ogni altro artista, il poeta si getta vivente nel suo fuoco, e dentro vi arde senza lasciar traccia d’estraneo né scoria» (G. De Luca, La poesia, paradiso artificiale, 1955; poi in “Archivio italiano per la storia della pietà”, X, 1997).
L’arte è quell’ordinata forma che il divino dipintore dà all’intero creato: «Quei che dipinge lì, non ha chi ’l guidi; / ma esso guida, e da lui si rammenta / quella virtù ch’è forma per li nidi» ( Par., XVIII, 109-111); e che l’artefice umano imitando manifesta come “sorriso” e “miniatura” dell’eterna bellezza: «“Oh!”, diss’io lui, “non se’ tu Oderisi, / l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte / ch’alluminar chiamata è in Parisi?”. // “Frate”, diss’elli, “più ridon le carte / che pennelleggia Franco Bolognese; / l’onore è tutto or suo, e mio in parte”» (Purg., XI, 79-84).
La forma stessa delle cornici che cingono la montagna del Purgatorio, con gli exempla di vizi e di virtù scolpiti a monito e incitamento, è parte di questo processo: nel canto XII Dante posa i propri piedi come su lastre sepolcrali della storia e del mito (quasi percorresse la navata di un’antica cattedrale) e vi vede scolpiti, in tredici terzine mirabili, figurazioni di superbia punita: da Lucifero a Nembrot, ai piedi della torre di Babele, da Niobe a Roboamo. L’arte “fa segno”, rappresentando addita: «Mostrava ancor lo duro pavimento /... Mostrava la ruina e ’l crudo scempio / ... Vedeva Troia in cenere e in caverne». La sua conclusione arriva a quella perfetta fusione di rappresentazione e verità: «Morti li morti e i vivi parean vivi: / non vide mei di me chi vide il vero» (XII, 67-68), che già il poeta aveva illustrato, con ammirato stupore, nel canto X, appena entrato nella prima cornice del Purgatorio: «Là sù non eran mossi i piè nostri anco, / quand’io conobbi quella ripa intorno / che dritto di salita aveva manco, / esser di marmo candido e addorno / d’intagli sì, che non pur Policleto, / ma la natura lì avrebbe scorno» (X, 28 33). Vi è - come nelle vetrate delle cattedrali medievali - incisa tutta la storia della salvezza, a iniziare dall’Ave dell’Annunciazione: «L’angel che venne in terra col decreto / de la molt’anni lagrimata pace, / ch’aperse il ciel del suo lungo divieto, / dinanzi a noi pareva sì verace / quivi intagliato in un atto soave, / che non sembiava imagine che tace. / Giurato si saria ch’el dicesse “Ave!”» (X, 34-40).
Dante fa qui dell’arte lo «spazio dei tempi» (Friedrich Ohly, La cattedrale come spazio dei tempi. Il Duomo di Siena, 1979), il tramite tra la vita e la memoria quale ancora ci offrirà Marcel Proust: «Essi [gli uomini del Medioevo] entravano nella chiesa, vi prendevano quel posto che avrebbero conservato dopo la morte e dal quale essi potevano continuare, come in vita, a seguire il divino sacrificio, sia che - sporgendosi dalla loro sepoltura di marmo - volgessero lievemente la testa dal lato dell’Evangelo o da quello dell’Epistola, [...] sia che nel fondale delle vetrate, nei loro mantelli di porpora, o dell’azzurro oltremare che trattiene il sole, riempissero di colore i suoi raggi trasparenti, [...]; nel loro splendore, nella palpabile irrealtà, restano i donatori che avevano meritato la concessione d’una preghiera perpetua» (La morte delle cattedrali).
Non diversamente contempla Dante la storia raffigurata al vivo, che l’arte trasforma in presenza da una lontana storia biblica: «I’ mossi i piè del loco dov’io stava, / per avvisar da presso un’altra istoria, / che di dietro a Micòl mi biancheggiava » (X, 70-72). Il fascino inobliabile del Purgatorio è tanto nel commercio di intercessione e suffragio che lega le anime dei vivi a quelle dei defunti, quanto nel continuo trapassare la barriera della morte e dell’oblio che l’arte intraprende unendo i tempi umani all’eterno: «Intorno a lui [“i’ dico di Traiano imperadore”] parea calcato e pieno / di cavalieri, e l’aguglie ne l’oro / sovr’essi in vista al vento si movieno» (X, 79-81).
Il dialogo con Forese Donati dunque (canto XXIII), con Bonagiunta (XXIV), con Guinizzelli (XXVI) dilata il potere “vivificante” della poesia; più che stabilire priorità e successioni di fama e di prestigio - che pure Dante puntigliosamente annota - giova osservare quel prorompere palpitante di vita che dà carne e affetti a quelle ombre: «sì lasciò trapassar la santa greggia / Forese, e dietro meno sen veniva, / dicendo: “Quando fia ch’io ti riveggia?”» (XXIV, 73-75), riportandole sul proscenio terreno, tra voli incantati di geometrie celesti: «Come li augei che vernan lungo ’l Nilo, / alcuna volta in aere fanno schiera, / poi volan più a fretta e vanno in filo, // così tutta la gente che lì era, / volgendo ’l viso, raffrettò suo passo, / e per magrezza e per voler leggera» (XXIV, 64-69). -Non diversamente, nel presentare al canto XXVI, Guido Guinizzelli e Arnaut Daniel (e nel porre in bocca a quest’ultimo tre terzine in provenzale che saranno care a T.S. Eliot), non tanto conta la certificazione del canone esibita dal primo: «“O frate”, disse, “questi ch’io ti cerno / col dito”, e additò un spirto innanzi, / “fu miglior fabbro del parlar materno. // Versi d’amore e prose di romanzi / soverchiò tutti [...]”» (XXVI, 115-119); bensì quel ravvivarsi, nel crogiolo dell’analogia, del mondo delle ombre e del creato, essendo ogni parvenza nell’unico grembo del Vivente: «Poi, forse per dar luogo altrui secondo / che presso avea, disparve per lo foco, / come per l’acqua il pesce andando al fondo» (XXVI, 133-135).
È, direbbe Eugenio d’Ors, quella «naturalezza del sovrannaturale» che Dante riserva ai suoi più cari; come qui l’immagine tornerà parimenti in Paradiso per segnalare l’allontanarsi, silente e dolce, di un’altra figura familiare, quella di Piccarda Donati: «Così parlommi, e poi cominciò “Ave, / Maria” cantando, e cantando vanio / come per acqua cupa cosa grave» (Par., III, 121-123). Identico raccoglimento, di limpidi affetti, è a noi richiesto come lettori, per ben seguire la poesia di Dante: «Voialtri pochi che drizzaste il collo / per tempo al pan de li angeli, del quale / vivesi qui ma non sen vien satollo, / metter potete ben per l’alto sale / vostro navigio, servando mio solco / dinanzi a l’acqua che ritorna equale» (Par., II, 10-15).
DANTE: ATTACCO A GUIDO CAVALCANTI ’SCOPERTO’ NELLA ’COMMEDIA’ NEL CANTO XVIII DEL PURGATORIO L’AMICO VIENE DEFINITO ’’CIECO’’
Roma, 31 lug. [1997] (Adnkronos) - C’e’ un duro attacco a Guido Cavalcanti nella ’’Divina Commedia’’, finora passato inosservato. Dante Alighieri avrebbe definito ’’cieco’’ il suo migliore amico, il piu’ grande poeta dello Stil Novo, in uno dei passi piu’ ambigui e misteriosi del Purgatorio. Lo ha ’’scoperto’’ lo storico della letteratura italiana Enrico Malato dell’universita’ di Viterbo, autore di un recente saggio nel quale ha ricostruito l’evoluzione dell’amicizia tra i due massimi poeti del Duecento, fino alla traumatica rottura.
Accanto alle due citazioni di Guido (nel decimo canto dell’Inferno e nell’undicesimo canto del Purgatorio), lo studioso ne ha individuata una terza in cui il nome di Cavalcanti non e’ esplicitamente formulato ma sembra ’’assolutamente evidente’’ il riferimento a lui. La polemica allusione si troverebbe nel diciottesimo canto del Purgatorio, dove il Sommo Poeta parla dell’’’error de’ ciechi che si fanno duci’’. Malato contesta l’interpretazione accettata finora dai critici e presente in tutti i commenti della ’’Commedia’’, secondo la quale questi versi sarebbero un’accusa contro i falsi maestri che si fanno condottieri.
Per lo studioso, che sull’argomento sta preparando un nuovo saggio di prossima pubblicazione, e’ ’’inverosimile un generico riferimento ai falsi maestri che avrebbero diffuso false dottrine, mentre un’attenta lettura dell’intero canto fa apparire che l’unico cieco, cioe’ privo della luce della verita’, che abbia preteso di insegnare cio’ che egli stesso non era in grado di vedere, non puo’ essere altri che Guido Cavalcanti: bersaglio innominato della contestazione di Dante’’. (segue).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI.
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO.
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA E TEOLOGIA. IL PROBLEMA DEL "DE DOMO DAVID" E DEL "COME NASCONO I BAMBINI", OGGI... *
DE DOMO DAVID. Gesù "Venne a Nàzaret, dove era cresciuto (..) Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?»
La fedeltà e il riscatto /16.
E il respiro divenne bambino
di Luigino Bruni *
«Così Boaz prese in moglie Rut. Egli si unì a lei e il Signore le accordò di concepire: ella partorì un figlio. E le donne dicevano a Noemi: "Benedetto il Signore, il quale oggi non ti ha fatto mancare uno che esercitasse il diritto di riscatto. Il suo nome sarà ricordato in Israele! Egli sarà il tuo consolatore e il sostegno della tua vecchiaia, perché lo ha partorito tua nuora, che ti ama e che vale per te più di sette figli"» (Rut 4,13-15). Tornano in scena le donne di Betlemme, come coro in una tragedia greca. Il libro di Rut è molte cose, tutte belle, ma bellissime sono le donne. Prima di iniziarne il commento sapevo che Rut era un libro al femminile; non pensavo però lo fosse così intensamente. Una grande sorpresa, ma anche un modo per onorare le donne che in questo tempo di pandemia hanno sorretto, con la loro cura, il mondo. Le donne donano, ancora una volta, parole meravigliose a Noemi, e a noi. L’ambiente della benedizione è ancora la reciprocità: Rut mette al mondo un bambino, le donne dicono che quel bambino riscatterà Noemi, amata da Rut, che per lei vale come molti figli. Una danza d’amore stupenda, una circolazione di hesed, di agape e di philia. Reciprocità diretta e indiretta, autentica protagonista del libro.
In un libro tutto centrato attorno alla grande figura-istituzione del goèl, il riscattatore-redentore, alla fine scopriamo che il goèl non è solo Boaz: l’altro goèl è il bambino. Quel bambino riscatterà le due donne, e sarà il loro consolatore, il loro hiphil, colui che, letteralmente, "fa tornare il respiro", colui che "ridona il fiato", il rianimatore.
È molto bella questa definizione del bambino di Rut come goèl e come rianimatore. Ogni giorno assistiamo nelle nostre famiglie all’arrivo di bambini che nascendo ridanno fiato a una madre, a un padre, a una nonna. Coppie stanche, famiglie sfiatate, ricominciano a respirare col bambino che nasce. Ogni bambino non porta con sé soltanto il fagotto di provvidenza, porta anche ossigeno per ricominciare a respirare, o per respirare tutti meglio. I bambini allungano la vita non solo perché fanno affacciare la nostra esistenza al di là di essa, ma perché estendono il nostro respirare, ci danno una gioia e una voglia di vivere che non avremo senza quel dono. I bambini forzano il nostro destino e ci donano giorni di vita extra, che decidiamo di vivere solo per poter rivedere un figlio o una nipote ancora domani. Ci insegnano a contare i nostri giorni con un’altra sapienza del cuore.
Il bambino di Rut è il riscattare di Noemi, è il suo secondo goèl. Boaz, il primo goèl, poteva riscattare solo il terreno e garantire una sussistenza materiale a Rut e a sua suocera; ma il libro ci ha continuamente detto che il vero riscatto di Rut e Noemi era un figlio. Questo riscatto non può essere garantito con atti giuridici e neanche con il matrimonio.
È solo e soltanto dono. Perché ogni bambino è dono, e non c’è dono più puro e grande di un figlio. Ogni figlio è qualcosa di più di un fatto naturale e necessario. Siccome nella natura esiste anche la sterilità, per l’arrivo di un figlio la natura non basta. E anche se la nostra cultura ha perso il senso religioso della generatività, un bambino che arriva è la gioia più grande perché porta iscritta in sé questa dimensione essenziale di libertà e di dono. Se un giorno il senso religioso dovesse scomparire dalla faccia della terra, potrà sempre rinascere insieme a un bambino.
«Noemi prese il bambino, se lo pose nel seno e gli fece da nutrice. Le vicine gli cercavano un nome e dicevano: "È nato un figlio a Noemi!"» (4,16-17). Il padre, Boaz esce di scena subito dopo aver svolto il suo compito - il midrash Leqah lo fa morire il giorno dopo le nozze ("Le leggende degli ebrei", vol. VI). -Il nome e lo svezzamento del bambino diventano una faccenda interamente femminile, anche perché lo sono davvero. Il monopolio femminile dei primi anni di vita dei bambini e delle bambine è stata una delle leggi auree non scritte delle civiltà. Fino alla generazione dei miei genitori gli uomini erano ospiti temporanei e provvisori dell’educazione primaria dei loro bambini. Si affacciavano ogni tanto sull’uscio, poi si ritraevano subito per mancanza di tatto e di competenze. In quel mondo i bambini erano i tesori delle donne (mamme, nonne, zie, sorelle), tesori fugaci e passeggeri, spesso le uniche gioie in vite difficili e ingiuste.
È nato un figlio a Noemi: il figlio era nato a Rut, ma ieri più di oggi ogni figlio che nasce a una figlia è anche figlio della madre di lei. Pochi amori sono più grandi di quello di una nonna per un/a nipote, impossibile da comparare a quello dei genitori, e se fossimo capaci di calcolarlo non lo scopriremmo minore, solo diverso. Ce ne accorgiamo, per contrasto drammatico, quando entra in campo la sofferenza per un nipote: quella dei nonni è una sofferenza aumentata, quella per il nipote moltiplicata per quella dei suoi genitori, un prodotto che sfiora l’infinito.
Inoltre, come unica volta nella Bibbia, il figlio viene attribuito a una donna e non a un uomo (per esempio: «A Set nacque un figlio, che chiamò Enos»: Gn 4,26). E Noemi non è più l’amara e la vuota, Dio l’ha riempita con un bambino. Lei diventa nutrice del bambino che a sua volta le darà respiro nella sua vecchiaia: ancora una faccenda di reciprocità. Le donne scelgono addirittura il nome per il bambino, anche qui unico caso nella Bibbia, perché non sono le vicine di casa né le donne del paese a scegliere il nome di un bambino. Qui invece le donne danno il nome al figlio di Rut-Noemi, forse per dirci qualcosa che le altre donne della Bibbia ci avrebbero detto se avessero potuto prendere più spesso la parola: un figlio non è un bene privato, è bene comune, è figlio di tutte, ed è l’intero villaggio a crescerlo. Nel presepe ci sono anche tutte queste donne di Betlemme, anche se non potevano saperlo.
«E lo chiamarono Obed. Egli fu il padre di Iesse, padre di Davide» (4,17). Ecco il nome che mancava al nostro mosaico, Davide, il nome più amato di tutti i nomi, che echeggia nell’aria fin dall’inizio della storia. E grazie a questo nome, che da solo racchiude tutta la Bibbia, capiamo un senso profondo del libro di Rut. La storia di Noemi, Rut e Boaz è il ponte che lega le storie della preistoria alla storia di Israele, Abramo e patriarchi con la monarchia, Davide con la tribù di Giuda e Gerusalemme. Quando Davide fa la sua comparsa nella storia di Israele (nel primo libro di Samuele), non viene menzionata la sua genealogia, arriva a Betlemme dal nulla. Il libro di Rut completa il filo d’oro della salvezza, spiega la trama della provvidenza. E così il libro di Rut riscatta la triste storia di Giuda, quell’incesto con Tamar, da cui nacque Peres, l’avo di Boaz, il nonno di Davide: «Questa è la discendenza di Peres: Peres generò Chesron, Chesron generò Ram, Ram generò Amminadàb, Amminadàb generò Nacson, Nacson generò Salmon, Salmon generò Boaz, Booz generò Obed, Obed generò Iesse e Iesse generò Davide» (4,18-22).
Tutto questo per dirci qualcosa di importante sulla logica della Bibbia, e della vita. Il tempo nella Bibbia si muove nelle due direzioni dell’asse. Per capire il senso pieno di un evento bisogna andare avanti e indietro nel tempo. Ciò che lo spiega non è solo quanto è accaduto prima, perché essenziale è anche quanto è accaduto dopo. Il matrimonio tra Boaz e Rut non illumina soltanto la persona e la storia di Davide (che verrà dopo), spiega anche la storia di Giuda e Tamar (avvenuta prima). Dà senso ai dolori e alle gioie che l’hanno preceduto e seguito.
Gesù di Nazareth non spiega solo il senso della storia di Giuda, Tamar, Rut e Davide, ma Giuda, Rut e Davide spiegano Gesù: ci fanno capire che nella sua carne e nel suo messaggio c’erano anche l’incesto di Giuda e l’omicidio di Davide, insieme alla grazia e alla fedeltà di Rut. E quindi che l’umanità di Cristo è vera anche perché raccoglie i peccati e le virtù disseminate lungo la sua genealogia. Ma se è così, allora nel suo corpo risorto ci sono anche Giuda, Davide, Rut, Noemi e tutte le donne di Betlemme, riscattati da un altro goèl.
Quando i primi cristiani fecero la coraggiosa e felicissima scelta di tenere legato l’Antico al Nuovo Testamento, allungarono, nei due sensi, l’asse dei goèl della storia della salvezza, la serie dei riscattatori e dei riscattati, moltiplicarono il dono del respiro dei bambini. Ma se guardiamo il mondo con occhi di Bibbia, ci accorgiamo che ogni volta che un bambino viene generato, con la sua storia spiegherà la storia dei suoi avi e illuminerà quella dei suoi discendenti. Quante volte la laurea di una nipote e la fedeltà di una nonna si spiegano e illuminano a vicenda? E qualche volta per capire veramente un grande dolore o una grande gioia bisogna aspettare i mille anni e oltre che separano i campi di orzo di Boaz dalla grotta di Maria. Nella lingua con cui sono scritte le frasi decisive della nostra vita il verbo è posto alla fine.
* Avvenire, sabato 17 luglio 2021 (ripresa parziale)
*Sul tema, nel sito, si cfr.:
COME NASCONO I BAMBINI: EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
FLS
"IL GIOCO DELLA PALLA", SECONDO LA LOGICA "ANDROLOGICA" DEL CATTOLICESIMO-COSTANTINIANO...:
#DANTE2021
E
#ANTROPOLOGIA (#HOMO LUDENS):
IL #GIOCO DELLA #PALLA
(#De ludo globi) DI
#NICCOLO’ CUSANO
riguarda «un gioco scoperto da poco che tutti comprendono facilmente e giocano volentieri»
E
LA #DOCTA IGNORANTIA
#FILOLOGIA
E
#STORIA.
#PILATO
(#Ecce Homo
gr.: «idou ho #anthropos»),
#SAN PAOLO
(1Cor. 11, 3: "di ogni #uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’#uomo [gr. ἀνήρ]"),
#GIUSEPPE FLAVIO
("Egli era il #Cristo")
#DivinaCommedia.
#Antropologia
#teologia e
#Costituzione:
"Ben puoi veder [...]
Soleva #Roma, che ’l buon mondo feo,/
#due soli aver, che l’una e l’altra strada/
facean vedere, e del mondo e di Deo [...] /
se non mi credi, pon mente a la spiga,/
ch’ogn’erba si conosce per lo seme.
"(Purgatorio XVI, 103-113).
#Parola Di Dante
...viro
(Paradiso XXIV, 34)
***
#Beatrice chiede al #proboviro
#SanPietro di verificare
se #Dante ha capito la differenza tra
l’#Ecce Homo dell’#antropologia
(#PonzioPilato: gr. «idou ho #anthropos»)
e
il #vir dell’#andrologia di
#SanPaolo
(#capo della #donna è l’#uomo [gr. ἀνήρ]: 1 Cor 11,1-3).
#Dante2021.
#Cosmicomiche - non cosmitragiche!
aveva perfettamente #ragione.
"Divina commedia"
si trova nella fascia degli asteroidi
fra #Marte e #Giove,
a 381 milioni di chilometri dal
#Sole.
L’AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE
(#Dante).
*
#Storia dell’#astronomia:
"La conoscenza degli effetti e la ignoranza delle cause produsse l’#astrologia"
(#Giacomo Leopardi).
*
#SapereAude! (#Kant):
#Ingenuity
(Pianeta #Marte, 2021).
*
"IAM REDIT ET #VIRGO"
(#Virgilio).
Nell’approssimarsi dell’#alba, un’ottima sollecitazione:
riascoltare la lezione di
#Stazio
su #come nascono i bambini (Purg. XXV, 34-78)
e
riprendere le ricerche dall’#
Anatomia
di #Giovanni Valverde.
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE. «Restituite a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio».. *
Sulla questione del ddl Zan.
Laici perché cristiani non privilegi ma libertà
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, venerdì 25 giugno 2021)
Perché ribadire l’ovvio in situazioni critiche? Forse per il fatto che lo dimentichiamo, come tralasciamo il buon senso e il radicamento nelle istituzioni. Il premier ieri non ha detto nulla di nuovo, ma, come dice Qoelet, non è mai superfluo rammentare che «non c’è nulla di nuovo sotto il sole!» (1, 9). In tal senso ribadisco quanto già espresso in diversi interventi.
Una sana laicità è la nostra bussola. E la laicità l’Occidente la deve al messaggio evangelico: «Restituite a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (Mc 12,17). Un loghion pronunciato da Gesù stesso, che mi piace interpretare nel senso di restituire a Cesare quel che è suo per dare a Dio ciò che gli appartiene, cioè tutto. Si tratta di «restituire» e qui entra in gioco la categoria giuridica del «risentimento», questione centrale nella ’Filosofia del diritto’ del beato Antonio Rosmini, il cui soggetto è la persona, «diritto sussistente».
E qui trova ampio spazio la legittimità di voler vedere riconosciuti i propri diritti da parte di minoranze per lungo tempo oppresse ed emarginate, spesso violentate. Poiché da cittadino italiano ritengo che sia la ’persona’ il principio architettonico della nostra Costituzione, non posso non scorgere in essa e nelle istituzioni che ha generato gli anticorpi più idonei per allontanare ogni possibile lesione dei diritti fondamentali. Nel nostro caso si tratta della libertà di pensiero e di educazione, il cui soggetto fondamentale non è lo Stato, ma la famiglia, al cui servizio vanno poste le istituzioni statali. E anche qui è in gioco qualcosa di decisivo. Gli anticorpi della nostra democrazia nei confronti di possibili devianze li avevo già messi in campo nella lettera al direttore di ’Avvenire’, pubblicata mercoledì 23 giugno: il Parlamento prima e poi, eventualmente, la Corte costituzionale verificheranno e si pronunzieranno circa la costituzionalità, come garanzia di libertà, della legge ancora in progetto sull’omotransfobia e per questo l’impegno dei laici è fondamentale. Né in questo processo si può cedere al ricatto della fretta, che non è mai buona consigliera e fa sì che la gatta generi dei gattini ciechi. Il campanello di allarme suonato dalla Chiesa cattolica, per mezzo del Vaticano, all’interlocutore italiano, se lo si legge senza paraocchi ideologici, significa una sola cosa: «Cesare non è Dio», e ne siamo felici... quindi si evocano l’umano e la persona come soggetto fondamentale del diritto.
Una riflessione che ha bisogno di tempo, di spazi e di libertà interiore, piuttosto che di strategici giochi elettoralistici. Nel suo discorso al Senato, ieri il premier ha ribadito la laicità dello Stato, ovviamente non confessionale, ma è tale proprio perché non è istituzione divina. Egli ha anche orientato verso il rispetto degli accordi internazionali, fra cui il Concordato. Illuminante ed estremamente lucido, a tal proposito, l’intervento del cardinale segretario di Stato vaticano Pietro Parolin: «Ho apprezzato il richiamo fatto dal presidente del Consiglio al rispetto dei princìpi costituzionali e agli impegni internazionali. In questo ambito vige un principio fondamentale, quello per cui pacta sunt servanda. È su questo sfondo che con la Nota Verbale ci siamo limitati a richiamare il testo delle disposizioni principali dell’Accordo con lo Stato italiano, che potrebbero essere intaccate. Lo abbiamo fatto in un rapporto di leale collaborazione e oserei dire di amicizia che ha caratterizzato e caratterizza le nostre relazioni. Faccio anche notare che fino ad ora il tema concordatario non era stato considerato in modo esplicito nel dibattito sulla legge. La Nota Verbale ha voluto richiamare l’attenzione su questo punto, che non può essere dimenticato».
Né può sfuggire il fatto che Draghi, al pari di Parolin, abbia posto l’accento su una «laicità» che non significa ’neutralità’ o ’indifferenza’ nei confronti dell’esperienza religiosa e credente. E abbia insistito sull’attenzione alla plura-lità, attraverso cui tale vissuto si esprime in un Paese come il nostro, che è per tradizione ospitale e inclusivo di differenti culture e appartenenze, fra le quali, oltre quella tradizionalmente cattolica, si rendono sempre più consistenti quella islamica e quella del cristianesimo orientale. Anche in questo sta la nostra mediterraneità. E di tutto questo lo «Stato laico», di cui ha parlato il premier, non potrà non tener conto. Infatti, richiamando la sentenza della Corte costituzionale 203/1989, ha ribadito, come se ne fossimo ignoranti, o peggio lo fossero i parlamentari presenti, che laicità non significa «indifferenza dello Stato dinnanzi alle religioni, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale».
Il Governo sta giustamente alla finestra, mentre il Parlamento (ora il Senato) sta valutando e ci auguriamo che sia illuminato anche dalla profezia ecclesiale cattolica, nel frattempo noi pensiamo all’uomo, al suo ruolo nel cosmo e nella storia e al suo destino ultimo, che non può non interpellare anche il presente. In questo senso, come ancora il beato Rosmini insegna, la Chiesa non chiede privilegi, ma «libertà» e le sue piaghe provengono dall’aver in altre situazioni troppo ceduto a compromessi dettati da scelte di potere, che non possono appartenere a chi vuole seguire Gesù di Nazareth.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi". Il lavoro di Emilio Gentile, recensito da Riccardo Chiaberge
PER L’ITALIA, "DUE SOLI". Per una nuova laicità, un nuovo cristianesimo!!! Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!! Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni", ma soprattutto la Legge del "Dio" di Mosè di Elia e di Gesù, del "Dio" dei nostri "Padri" e delle nostre "Madri". L’Amore che muove il Sole e le altre stelle ... e la fine del cattolicesimo costantiniano!!!
Federico La Sala
#Costituzione e #antropologia:
al di là della #zoppia #cecità e
#contraffazione della
#Trinità evangelica,
la #Monarchia trinitaria dei
#dueSoli di
#DanteAlighieri,
#oggi
RIPENSARE E RIORGANIZZARE "LI NOSTRI AFFETTI": PICCARDA DONATI "CON OCCHI RIDENTI" PARLA A DANTE E ALLA MADRE BELLA ("BEATRICE") E ILLUMINA IL SUO LEGAME CON GEMMA DONATI ("LUCIA")
A #Dante ("se la mente tua ben sé riguarda"), #PiccardaDonati #ricorda il suo legame ("non mi ti celerà l’esser più #bella") non solo con Corso e #ForeseDonati ma soprattutto con #GemmaDonati (#Lucia) e con #Beatrice ("#beata sono in la spera più tarda"):
Federico La Sala
Urgenze
Non strumentalizziamo Dante, no alla retorica del pater patriae
di Annalisa Barletta *
Dante profeta della nazione? Semmai sfuggì ad ogni fissità politica, linguistico-culturale di natura identitaria, integralista, limitanea. Non si commettano gli errori del passato, in vari momenti della notte della Repubblica il Poeta fu usato strumentalmente... Dante, invece, ci obbliga a dialogare con l’Altro, con il diverso per spazio e tempo...
«Dante è l’unità del Paese, Dante è la lingua italiana, Dante è l’idea stessa d’Italia», così il ministro per i Beni e le Attività Culturali, Dario Franceschini, annunciò il 17 gennaio del 2020 l’istituzione del Dantedì, fissato nel giorno del 25 marzo, quando Dante, a principio della settimana santa di quel lontanissimo anno giubilare del 1300 avrebbe collocato l’inizio del suo viaggio oltremondano. L’enfasi retorica del ministro sembra ricondurci anacronisticamente verso altre stagioni della storia dell’Italia, risorgimentale e fascista, verso altri periodi della notte della Repubblica, ovvero negli anni del Terrorismo, in cui il nome e l’opera del poeta furono usati strumentalmente per imprimere, legittimare, rafforzare l’idea di nazione, di identità culturale. Ancora oggi si ripropone un Dante negli allori vaticinanti di un poeta contemporaneo che offrirebbe risposte ad una società glocal in crisi di identità. Se da una parte la spinta omologante e sovranazionale della globalizzazione lo ha ridotto ad una icona pop, politicamente, culturalmente e moralmente depotenziata e spendibile per ogni causa pubblicitaria-memetica, dall’altra ha alimentato in controrisposta addomesticazione e accaparramenti del Poeta da parte di nicchie di resistenza populistica e rivendicazioni identitarie.
Il mondo per patria
Dunque, Dante fu davvero il profeta della nazione? Davvero egli rivolse il suo messaggio esclusivamente alla comunità dei parlanti la lingua del sì, davvero concepì tale strumento culturale come divisivo e nazionalistico? In realtà sfuggì ad ogni fissità politica, linguistico-culturale di natura identitaria, integralista, limitanea. Significativo il passo del De vulgari eloqeuntiae nel quale egli, con lucida e moderna consapevolezza relativistica, derivante dalla sua cultura enciclopedica, tomistica, universalistica ebbe a sostenere che:
La ricerca linguistica
Tendenza ibridante al sincretismo culturale e approccio problematico, definitorio con la realtà e il sapere furono i due aspetti della sua attività intellettuale che investirono l’intera produzione letteraria e l’intima evoluzione della sua Weltanshaung. Come ha evidenziato Pier Vincenzo Mengaldo, il carattere peculiare dell’opera del poeta fu «la forte discontinuità, la ricchezza di contraddizioni interne; esperienze letterarie, nel giro di pochi anni, disparatissime e violentemente antinomiche [...]; opere lasciate in tronco; palinodie; atteggiamenti e teorie a contrasto in testi contemporanei e gemelli [...] e talvolta all’interno del medesimo testo (ivi compresa la Commedia).» (P.V. Mengaldo, Introduzione al De vulgari eloquentiae).
Erede di una imponente e autorevole tradizione classica e medievale, che aveva trovato la sua massima espressione nelle forme cristallizzate della lingua latina, ma al contempo consapevole dei cambiamenti storico-culturali in atto, egli si interrogò per tutto il corso della vita su questioni di natura etica, culturale, estetica, sociologica e politica approdando a soluzioni differenti con il progredire e l’affinarsi della sua ricerca, sempre pronto a storicizzarsi e a smentirsi: sin dagli esordi lirici si interrogò sulla forma e la legittimità del volgare come lingua poetica, sui contenuti poetabili e sulla natura sociale e valoriale del pubblico cui destinare i risultati della sua creazione. La ricerca linguistica del poeta, iniziata con le riflessioni elaborate nel De vulgari eloquentiae e conclusasi con l’esperienza della scrittura comica, lo condusse alla consapevolezza della storicità della lingua, del suo essere prodotto umano, e come tutte le cose umane, “identità” compresa, mutevole e transeunte tanto da affermare nel Convivio che: «se coloro che partiron d’esta vita già sono mille anni tornassero a le loro cittadi, crederebbero la loro cittade essere occupata da gente strana, per la lingua da loro discordante».
Se nel De Vulgari eloquentiae egli si espresse circa la natura del linguaggio nei termini di una certa «forma locutionis a Deo cum anima prima concreata», ovvero di una lingua adamitica, pura ed incorruttibile, prodotta direttamente da Dio nella sua componente logico-sintattica (constructio vocabulorum), radicale (rerum vocabula) e morfologica (constructionis prolatio) poi precipitata nella confusione delle lingue babeliche, nel Canto XXVI del Paradiso egli arrivò ad includere, per bocca di Adamo, nella nozione di arbitrarietà e storicità del segno linguistico anche il primiloquium edenico:
In questo modo riscattava il pluralismo linguistico dalla colpa babelica con una retratactio che sottraeva alla lingua adamitica il sacro privilegio dell’inalterabilità e la consegnava, al pari delle altre lingue post-babeliche, al principio della mutevolezza dei linguaggi; attraverso questi versi, quindi, egli arrivò «ad autogiustificare il paradosso del poema sacro in una lingua peritura» (G. Contini, Un’idea di Dante). Per plasmare la multiforme e polisemica materia oltremondana, «al quale ha posto mano e cielo e terra» (Pd XXV v. 2) , e aderire con spregiudicata coerenza alla plasticità della Divina Mimesis, Dante fa ricorso ad uno sperimentalismo morfosintattico, fonetico e lessicale che Contini identifica nelle categorie di “plurilinguismo” o “multilinguismo”, espressione dell’engagement letterario, del suo approccio democratico alle potenzialità mimetiche e al contempo soterico-allegoriche della lingua. La locutio vulgaris che egli utilizza nella Commedia è la stessa in qua et muliercule comunicant (Epistola XIII) umile e dimessa, ma anche elegiaca nonché tragica che agisce con fine caritatevole, liberale ed universalistico in pro del mondo che mal vive (Pg XXXII). Il ricorso all’espressionismo plurilinguistico e la definizione democratica del pubblico cui il messaggio di salvezza è destinato, fu il frutto ancora una volta di un cambiamento di prospettiva, di un graduale allontanamento dalle posizioni espresse nel De vulgari eloquentiae prima e nel Convivio poi, opere in cui egli aveva individuato, forte dell’autorità aristotelica che imponeva l’osservanza della separazione degli stili, nelle forme del volgare illustre il mezzo atto a trasmettere ad un pubblico selezionato e nobile solo contenuti di natura tragico-filosofica.
No a un nazionalismo anacronistico
Dal punto di vista politico, infine, si tenne lontano dall’aderire faziosamente a istanze guelfo-municipalistiche, in nome di un cieco asservimento alla causa della lupa, vessillo di una società di parvenus spregiudicata e fratricida di cui egli stesso cadde vittima; mantenne una condotta anzi, così imparziale da indurlo, colpito dalla condanna all’esilio, a prendere anche le distanze dalla «compagnia malvagia e scempia» (Pg XVII v. 62), ovvero da quei Bianchi che tentarono un rientro armato in città di cui lo stesso Dante aveva presagito il fallimento, risolvendosi a far «parte per se stesso» (Pd XVII vv. 67-69). Dall’osservatorio privilegiato dell’exsul immeritus ebbe modo di assistere al moltiplicarsi di egoismi ed appetiti particolaristici, controversie tra opposte fazioni cittadine, lotte territoriali tra casate nobiliari, ambizioni espansionistiche del Papato ai danni dell’Impero che, nella totale noncuranza dell’Imperatore avevano ridotto l’Italia, «lo giardino de lo ‘mperio» (Pg VI v. 105), un tempo «signora di province» (Pg VI v. 78), alla stregua di un «bordello» (Pg VI v. 78). La soluzione che egli propose, nella riflessione politica della Monarchia e della Commedia, non poteva restare circoscritta entro i confini di un nazionalismo anacronistico ma assunse il respiro ampio ed universalistico proprio di quell’antico Impero romano che aveva fatto dell’integrazione socio-culturale la forza della sua provvidenziale stabilità.
Una lezione di alterità e universalità
Un «Libro che sorvola i secoli» sostiene Sermonti nel commento al VII canto del Purgatorio, in quanto si fa portavoce delle istanze di riscatto dalla provvisorietà umana insite nella veemenza etica e demiurgica della parola letteraria; ma che «odora tuttavia di tempo, del suo tempo, della storia della cronaca del suo tempo» pertanto continua Sermonti «noi non siamo contemporanei di Dante; ma per passione politica e severità morale ci ingiunge la responsabilità non da poco di essere [...] nostri contemporanei». In un’età postmoderna sottoposta ad un processo di erosione, disgregazione e polverizzazione identitaria, di fronte al quale si reagisce trincerandosi entro il rassicurante spazio di esperienze culturali passate assimilate con un approccio orizzontale ed ideologico privo di profondità temporale, la lezione che proviene da Dante è una lezione di alterità ed universalità al contempo; egli ci obbliga a dialogare con l’Altro, con il diverso per spazio e tempo, ovvero con il testo del Commedia, mediante un rigore ed una tensione critica che è la premessa necessaria per l’edificazione di un nuovo umanesimo globale.
* Fonte: Lucia-Libri, 27 maggio 2021 (ripresa parziale - senza immagine).
Riletture
La magnifica inattualità della "Commedia"
Si fa un gran parlare di Dante mettendo l’accento sulla sua attualità, che è però distante dalla visione della vita, della morale civile e del rapporto creatura-Creatore che è nella sua opera
di Gianni Oliva (Avvenire, domenica 23 maggio 2021)
È sotto gli occhi di tutti che l’anno dantesco, il 2021 (700 anni dalla morte di Dante), vada a gonfie vele. Le manifestazioni erano già cominciate l’anno precedente con l’istituzione da parte del ministero dei Beni culturali del Dantedì, una ricorrenza fissa, come il giorno della memoria, che ha indubbiamente il suo valore promozionale. Già dagli ultimi giorni del 2020 è andato crescendo il clamore per la ’riscoperta’ (ahimé) di Dante nei salotti televisivi, ove si avvicendano dantisti dell’ultima ora col loro libro sotto braccio. Si tratta nella maggior parte di profili e di ricostruzioni biografiche non sempre di prima mano allestite per l’occasione o di adattamenti della Commedia in forma di narrazione, come se l’opera si risolvesse in un’affascinante avventura dagli Inferi «a riveder le stelle», magari alludendo alla pandemia in corso da cui tutti vorremmo uscire al più presto. Libri destinati a non lasciare traccia, adatti semmai a tamponare l’occasione della ricorrenza o a trasformarsi, nei casi peggiori, in regali di Natale, con soddisfazione degli editori e degli scaltri autori. In ogni caso c’è da chiedersi se tutto ciò sia un bene o un male.
Potremmo dire che è comunque un bene se come conseguenza ha l’avvicinamento del grande pubblico alla poesia dantesca, anche a rischio dell’estrema semplificazione e di una conoscenza approssimativa, se non distorta. Qualche anno fa venivano criticate dagli addetti ai lavori le istrioniche letture di Benigni ma certamente per la divulgazione di Dante hanno fatto molto di più quelle performances delle pur prestigiose (a volte noiose) lecturae Dantis delle accademie (nelle quali riconosco di essere stato molte volte coinvolto di persona).
Cento anni fa, nel 1921, altro anno deputato per il centenario dantesco, Giovanni Papini, in un libro intitolato Dante vivo, non si faceva scrupoli di prendere di mira i dantisti, i dantomani, gli sterili chiosatori del poema (Marinetti a sua volta parlava di un «verminaio di glossatori»), i quali, presi dalle loro minuzie interpretative (le cosiddette cruces dantesche), erano accusati di perdere di vista l’anima di Dante, insomma, la sostanza profonda del suo messaggio. Il dantismo celebrativo di oggi rischia di sortire forse gli stessi effetti perché il tema primario sembra essere quello dell’attualità del grande poeta.
Ci si chiede sempre: ma Dante è attuale? Come se gli autori possano essere scelti in base al tasso di attualità della loro opera ignorando la connessione stretta col loro tempo. Certo, come tutti i grandi classici, Dante contiene messaggi che riguardano il comportamento degli uomini e per questo è come Omero, come Shakespeare, autori in cui si riflettono le verità universali. Attenzione però. Alcune di queste verità, indubbiamente le più importanti, sono di natura spirituale e dunque connesse con un sapere teologico profondissimo e complicato con cui oggi si è persa dimestichezza. Va detto a scanso di equivoci che Dante è un poeta difficile e come tale richiede rispetto.
Etienne Gilson diceva che quando ci si accosta a Dante è necessario dismettere gli abiti laici. Un’epoca utilitaristica come la nostra, fondata sul tessuto finanziario e sull’economia è davvero in grado di recepire senza difficoltà un discorso ’anagogico’ che prevede il ricongiungimento della creatura col Creatore? Il viaggio di Dante non è un’escursione più o meno avventurosa nei regni dell’oltremondo, tra diavoli e gerarchie angeliche, in compagnia di personaggi alcuni dei quali indimenticabili protagonisti del suo universo. Affermare questo significa ignorare il realismo figurale, il significato delle scritture su cui Dante tanto insiste.
L’anagogia nel suo significato etimologico (dal greco anagoghè), ossia viaggio dal tempo all’eterno indica il fine ultimo dell’uomo che, in quanto creatura, tende a ricongiungersi con il Creatore. L’epoca attuale ricava da Dante quello che vuole e che più gli aggrada ( Quidquid recipitur, ad modum recipientis recipitur: Qualunque cosa venga ricevuta, viene ricevuta secondo le possibilità di chi la riceve), senza curarsi molto della verità sostanziale. Si vuol dire che i problemi che Dante pone sono molto più complessi di quello che sembra; sono molto più lontani dalle posizioni morali che convengono alla società evoluta dei tempi nostri. Il mondo dantesco, a livello politico, ideologico, culturale, è ben altro dal nostro e penetrarvi per conoscerlo richiede pazienza, attitudine all’ascolto e allo studio. Tutto si può fare e, volendo, anche senza essere degli specialisti, è possibile affrontare lo studio di Dante con cognizione di causa, rimuovendo però atteggiamenti frettolosi e superficiali. Magari un corso di lezioni tenute a un pubblico volenteroso (e davvero curioso) forse sortirebbe migliore effetto, qualora, al di là delle convenienze, si insistesse su un principio fondamentale: che la Commedia non è uno svago, ma è la coscienza e la consonanza della sorte umana, è il poema che ricorda agli uomini che la vita è assidua meditazione della morte e infinita malinconia di beni sperati e smarriti, prova incessante di passione e di pentimento, di violenze e rinunce, di verità e d’ignoranza.
#NiccoloCusano,
per indicare la #via alla
"#Visione di Dio" (1454),
si serve di
un quadro dell’artista Rogier Van der Wayden,
allievo di Robert #Campin,
autore del #TritticodiMerode
Con #Virgilio e #Beatrice (#dueSoli),
#NiccoloCusano,
con l’aiuto del solo #Apollo
(«Non è la madre che genera chi è chiamato figlio, ma solo nutrice è del seme gettato in lei»)
non esce dall’orbita
della #tragedia
(#Eschilo).
OLTRE LA #COSMOTEANDRIA DELLA #DOTTAIGNORANZA,
UNA #FENOMENOLOGIADELLOSPIRITO DI #DUESOLI:
UNA #COSMOLOGIA GALILEIANA (LEZIONE DI #KEPLERO!).
La #DivinaCommedia, un «Libro che sorvola i secoli»
#COSMOTEANDRIA E #ANTROPOLOGIA.
Paragonato con #Dante,
#NiccoloCusano
non trova la #dirittavia
sia filosofica (per il suo legame con #Socrate e #Platone)
sia religiosa (per aver scelto il primato dell’#uomosupremo, del #papa)
e... condivide
#filologia «(gr. «idou ho #anthropos»)
e
#principiodicarità:
#Ascensione «per uno», «per molti» o «per tutti»?!
#DanteAlighieri non narra come stato è possibile uscire dall’#inferno
e
#giungere in #purgatorio e in #paradiso?!
Verso Paradiso
Dante: dal ghiaccio infernale al «caldo amore»
di Gianni Vacchelli (Doppiozero, 28 Aprile 2021)
Dobbiamo ancora diventare contemporanei del Paradiso di Dante! Sembra paradossale, ma è così: infatti il Paradiso è complessivamente la cantica meno “ricevuta” e conosciuta a livello popolare, come anche scolastico, in una piuttosto standardizzata classifica che passa dall’entusiasmo per l’Inferno, alla tiepidezza per il Purgatorio fino ad un certo distacco dal viaggio paradisiaco. Ma anche nella ricezione di molti grandi scrittori, il Paradiso “latita”. Si pensi a Pasolini, a Primo Levi, a Edoardo Sanguineti, dove, pure in modi diversi, è il Dante infernale al centro, senza dimenticare il Dante “petroso” di molto Montale. Anche “dantisti” stranieri di altissima levatura come Joyce e Beckett privilegiano, per tante ragioni, soprattutto le prime due cantiche o un approccio soprattutto parodico alla Borges. Naturalmente ci sono eccezioni: certi passi eliotiani dei Quattro Quartetti, alcuni Cantos poundiani, la luce flagrante dell’ultimo Luzi, il cimento di Giovanni Giudici per mettere in scena la terza cantica. Al di là di questo del tutto incompleto censimento, la luce, l’ardore, la «mente innamorata» che intridono il Paradiso attendono ancora di essere pienamente gustati e vissuti. Anche per questo è preziosa la sfida di Marco Martinelli e di Ermanna Montanari, anime del Teatro delle Albe di Ravenna, di condurre a termine per l’anno prossimo la traversata teatrale della Commedia e di restituire «scintille» del genio paradisiaco a tutti, dotti e semplici, nello spirito che li ha guidati già con Inferno e Purgatorio: restando cioè fedeli a parti scelte del testo, ma dall’altra proponendo una lettura attualizzante e “militante”, come faceva il Poeta stesso, sempre teso ad interpellare i testi antichi, come ombra portata sulle domande e le esigenze del presente.
I motivi della difficile ricezione paradisiaca sono complessi e vari. Ne accenno qui solo alcuni “storici” e legati allo “spirito del nostro tempo”: non si entra nel Paradiso senza una qualche considerazione della mistica, che però è realtà misconosciuta e minoritaria, anche nella tradizione cristiana. In più la modernità secentesca ha costruito la sua antropologia sul cogito cartesiano e sulla matematizzazione della realtà. Sia chiaro: la mistica di Dante non è irrazionale, e mai svaluta il logos. L’uomo però non è solo Virgilio, ma anche Beatrice e Bernardo. Da ultimo il nostro tempo, nel suo mainstream, è lontanissimo da questa idea di un uomo capax Dei. Il capitalocene odierno lavora piuttosto su un tragico riduzionismo antropologico, quello di un homo miserabilis se non miserrimus, consumens, cosificato e mercificato. Marcuse parlava di uomo ad una dimensione. Forse sempre più dobbiamo denunciare gli esiti di fatto nichilistici e distruttivi di questa figurazione di mondo, che non è solo un sistema economico, ma un’intera rimappatura della vita all’insegna del denaro e del mercato totalizzato: vita che, non a caso, è appunto «smarrita».
Per arrivare a gustare qualcosa del Paradiso, partirò da due “immagini”, una infernale e una purgatoriale, per poi immergerci nel «gran mar de l’essere» del terzo regno.
Quando giungiamo nel fondo dell’abisso, nell’anus mundi, ci troviamo dentro un paesaggio spaventoso e insieme di incredibile potenza simbolica:
Già era, e con paura il metto in metro,
là dove l’ombre tutte eran coperte,
e trasparien come festuca in vetro.
Altre sono a giacere; altre stanno erte,
quella col capo e quella con le piante;
altra, com’arco, il volto a’ piè rinverte (If XXXIV, 10-15)
Il cuore dell’Inferno non è fuoco, ma ghiaccio, ghiaccio del Cocito e soprattutto ghiaccio dell’odio, dell’incompiutezza, della disumanizzazione, della morte relazionale, del desiderio spento, dell’uomo fallito come «compagnevole animale». Criogenato lì dentro, ecco ciò che resta dell’umano, ridotto a «festuca» (pagliuzza), a pezzo, a “impetrata” e muta insignificanza, mentre la grande macchina sacrificale luciferina tutto sussume e raggela, impersonalmente. L’immaginazione creatrice dantesca dice una deriva antropologica spesso realizzata in momenti bui della storia, specie in certi abissi del “secolo breve” e in alcuni scorci pure molto inquietanti del XXI secolo.
Ma usciamo «a riveder le stelle», ed entriamo nel sentire purgatoriale, che è un’altra figurazione dell’uomo, come di Dio e del cosmo:
Dolce color d’oriental zaffiro,
che s’accoglieva nel sereno aspetto
del mezzo, puro infino al primo giro,
a li occhi miei ricominciò diletto,
tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta
che m’avea contristati li occhi e ’l petto.
Lo bel pianeto che d’amar conforta
faceva tutto rider l’oriente,
velando i Pesci ch’erano in sua scorta (Pg I, 13-21)
Tutto rinasce e risorge qui, in un risveglio interiore, naturale e spirituale, che ridà «diletto» agli occhi, esodo dall’«aura morta» per un soffio di altra qualità. Si intravede la stella Venere che invita ad amare. Inizia il disgelo del cammino che permetterà il recupero di un «libero, dritto e sano [...] arbitrio» (Pg XXVII, 140). La sclerocardia infernale si sfa, come Dante canta splendidamente nel rincontro difficile ma intensissimo con Beatrice: «lo gel che m’era intorno al cor ristretto, / spirito e acqua fessi, e con angoscia /de la bocca e de li occhi uscì del petto» (Pg XXX, 97-99). L’uomo torna umano e lo diventa, in una relazione sempre più intensa con tutte le dimensioni della realtà.
Adesso forse possiamo meglio esperire “lo spirito del Paradiso” e alcune sue straordinarie immagini: la prima relativa alle vicissitudini di Traiano e la seconda con Piccarda protagonista.
L’ anima gloriosa [Traiano] onde si parla,
tornata ne la carne, in che fu poco,
credette in lui che potea aiutarla;
credendo s’accese in tanto foco
di vero amor, ch’a la morte seconda
degna di venire a questo gioco (Pd XX,112-117)
Con quelle altr’ ombre pria sorrise un poco;
da indi mi rispuose tanto lieta,
ch’arder parea d’amor nel primo foco (Pd III, 67-69).
(Corsivi di G. V.)
Ecco com’è nuova la poesia paradisiaca, ecco come è mutato lo stato di coscienza, non più infernale, petrosamente ghiacciato, non più neppure di purgatoriale disgelo “primaverile” e venusiano, ecco com’è diversa l’antropologia della terza cantica, e lo sguardo che pone su tutta la realtà. Questa energia danzante di ardore, di «caldo amor(e)» (Pd XII, 79; XX, 95), di luce, di bellezza, di gioco, di verità, questa «gloria di colui che tutto move», questo «amor che move il sole e l’altre stelle», pervade, in modi più o meno fulgenti, tutta l’atmosfera paradisiaca. Raggia dai beati, da Beatrice e avvolge Dante stesso, nel finale della cantica uomo di luce (Pd XXX, 46ss.).
Non solo la poesia del Paradiso non è esangue, statica, ma piuttosto fiammante, infuocata di eros e agape insieme, dove la carne è sì spiritualizzata, ma mai perduta, piuttosto assunta e portata a compimento, in trasfigurata ma possibile realtà: Traiano tutto «s’accese di tanto foco / di vero amor», Piccarda «arder parea d’amor nel primo foco», e puoi leggere il mirabile endecasillabo sentendo Piccarda rilucere nella potenza amante dello Spirito Santo, «primo foco» increato che tutto pervade, infondendo viriditas, direbbe Ildegarda di Bingen, ma anche nella bellezza e nell’emozione del primo innamoramento. Amore divino e umano nel Paradiso finalmente non si contrappongono più, ma sono interrelazionati: il primo alimenta il secondo, il secondo lo manifesta qui, nella compagnia degli uomini, delle donne e della creazione.
L’incompletezza raggelante dell’Inferno, il cammino di liberazione purgatoriale si compiono nell’eterno «gioco» paradisiaco, una esperienza piena della vita, traboccante e abbondante fin dai versi celeberrimi dell’incipit:
La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove (Pd I, 1-3)
Quella cantata qui infatti è l’esperienza della Vita, della «nostra vita», della Vita grande, che non muore, di cui siamo «vasi», epifanie, diafanie, cristofanie, se ci accorgiamo, ci risvegliamo, ci mettiamo in viaggio, per ritornare alla nostra origine, alla nostra vera natura, che per il Poeta è cristica. Non solo al centro della croce luminosa del cielo di Marte, ma ovunque nel poema lampeggia il mistero divino-umano cristico, che tutti attira a sé, credenti e non credenti, cristiani e uomini di altre religioni (che non devono naturalmente chiamarlo con questo nome):
Qui vince la memoria mia lo ’ngegno;
ché quella croce lampeggiava Cristo,
sì ch’io non so trovare essempro degno (Pd XIV, 103-105)
Ancora, con il grande teologo indocatalano Raimon Panikkar, potremmo dire che esperiamo nel Paradiso la vita e la mistica cosmoteandrica, dove il mistero di infinitudine che alcuni chiamano Dio (theos), ma che pure ha altri nomi, la dimensione umana e di coscienza (anèr) e quella cosmica, materiale, della natura (kosmos) rifulgono intrecciati insieme, certo gerarchicamente, in ordine sacro, ma non l’uno senza l’altro. È anche questo il mistero triadico e trinitario che pervade tutta la Commedia e che nella terza cantica si rivela nel suo splendore vivente.
Quella del Paradiso non è «vita bestiale», «cieca vita», nè vita solo biologica, «nuda vita», per dirla con Agamben, ma è «vera vita» (Pd XXXII, 59), «intera vita» (Pd VII, 104), da cantare così:
Oh gioia! oh ineffabile allegrezza!
oh vita intègra d’amore e di pace!
oh sanza brama sicura ricchezza! (Pd XXVII, 7-9).
Questa pienezza non è riservata a pochi gnostici ma, potenzialmente, all’umanità tutta, che Dante rappresenta in quanto everyman, fin dall’incipit del poema. Egli è sicuramente se stesso, ma pure tutti noi. Naturalmente tutto comincia per grazia, per dono, ma richiede pure impegno e sforzo, per discendere agli inferi personali e collettivi, risalire nella liberazione-trasformazione purgatoriale, e alla fine entrare in questo misterioso stato unitivo, aduale, di pienezza, dove la divinizzazione dell’uomo dice in primis la sua incarnazione umana feconda, amante, conoscente e virtuosa.
Per quanto il linguaggio di Dante sia maggioritariamente cristico (più che cristiano), ma pure aperto a tutte le sapienze a lui conosciute (quella pagana in primis), la mistica paradisaca non è appannaggio di una religione o di una confessione. «Le religioni non hanno il monopolio del religioso», ricordava spesso ancora Panikkar. Quello di Dante è soprattutto un magnifico invito al viaggio. Entra nel mistero che ti inabita e che tutto pervade. Coltiva la tua vita interiore, fai esperienza della sapienza. Questa mistica è una sorta di “diritto umano” di nuova generazione. E di essa abbiamo più che mai bisogno oggi, in tempi di evidente selva oscura, dove serve un «mi ritrovai» di cambiamento e di nuova immaginazione.
Dante sembra anche ricordarci che faville mistiche sono presenti in molte esperienze umane: nell’innamoramento, nell’estasi di fronte alla natura e al suo misterioso ordine, cantati in Paradiso I, e forse in certi istanti vissuti nell’infanzia, da ritrovare adesso con nuova e cosciente innocenza. Così anche il Poeta alla fine del viaggio diventa evangelicamente bambino ed entra nel regno, non solo dopo la morte, ma ora, in questo momento, sub specie tempiternitatis:
Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella (Pd XXXIII, 106-108)
Questi attimi escronici, ma pure radicati nel tempo, queste epifanie, questi ricordi di sé, questi moments of being raccontano anche la gioia rara ma possibile dell’intimità profonda: «s’io m’intuassi, come tu t’inmii (Pd IX, 81), cioè se io fossi capace di entrare in te, di “intuarmi” come tu entri in me, ti “inmii”, dice il Poeta con continua invenzione neologistica.
Anche il rapporto d’amore uomo-donna, paradigma simbolico di ogni altra relazione innamorata, trova nel Paradiso il suo inveramento. La mistica dantesca non è celibataria, ma laica e secolare, e non a caso il trasumanar del Poeta è vissuto guardando negli occhi l’amata Beatrice, per poi levarsi con lei, tutta donna, tutta iniziatrice, tutta dea e tutta simbolo, di cielo in cielo, chagallianamente:
Beatrice tutta ne l’etterne rote
fissa con li occhi stava; e io in lei
le luci fissi, di là sù rimote.
Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
qual si fé Glauco nel gustar de l’erba
che ’l fé consorto in mar de li altri dèi.
Trasumanar significar per verba
non si poria; però l’essemplo basti
a cui esperienza grazia serba (Pd I, 64-72).
Impossibile commentare la ricchezza di questi versi, che si nutrono della Trasfigurazione taborica del Cristo, rivissuta in Beatrice, “crista personale” del Poeta, ma fanno ricorso pure al mito classico, vaso anch’esso di luccicanze del mistero. E necessaria è l’esperienza, vissuta nella grazia e nel cammino col corpo, che nella mistica dantesca è dimensione in trasformazione ma definitiva.
Ancora: mai la spiritualità dantesca è fuga mundi o intimismo, quanto piuttosto una mistica critico-politica in forma di poesia. Il nesso interiore e quello civile per noi sono infranti, sconnessi, ed è quasi un “nonpensabile” questa circolazione costitutiva invece della poesia dantesca. Il diventare sempre più reali, umani e pieni significa per Dante mai disperdere la dimensione del bene comune, della polis, della giustizia. La felicità dantesca riabita la natura umana nella sua rettitudine originaria, come racconta nei canti del Paradiso Terrestre, ma è sempre anche una felicità politica, che tiene insieme, per così dire, il Giardino e il Regno. Ecco perché, se la superbia apparentemente resta il peccato più grave, invero fin dal I canto dell’Inferno Dante, con grande acutezza e audacia, denuncia come più mortifero il regno della lupa, assato sulla cupiditas e sull’accumulo. E queste aspre invettive impazzano pure in molti canti del Paradiso:
Se mala cupidigia altro vi grida,
uomini siate, e non pecore matte (Pd V, 79-80)
La tua città, che di colui è pianta
che pria volse le spalle al suo fattore
e di cui è la ’nvidia tanto pianta,
produce e spande il maladetto fiore
c’ha disviate le pecore e li agni,
però che fatto ha lupo del pastore (Pd IX, 127ss)
[...] La cieca / cupidigia che v’ammalia
simili fatti v’ha al fantolino
che muor per fame e caccia via la
balia» (Pd XXX, 133-141)
La mala pianta della cupiditas-accumulo attecchisce ovunque, nell’animo umano in primis, e poi nelle istituzioni stesse: nella Chiesa, nell’Impero, nei comuni ecc. Ma Dante intravvede anche la nascita di un protocapitalismo finanziario e manifatturiero, l’affermarsi di un nuovo paradigma che andrà verso l’economicizzazione della realtà, il culto del denaro (il «maladetto fiore»), la cui devastante pericolosità - per i popoli, per l’equa distribuzione dei beni primi e necessari, per la natura, per l’anima e l’interiorità stessa - oggi vediamo dispiegata al suo concetto.
Anche per questo quindi facciamo fatica a comprendere la poesia del Paradiso, ma pure ne abbiamo sete e ci è più che mai necessaria. Proprio perché la spiritualità dantesca è piena di amore, di ardore e di desiderio forse essa aspetta idealmente soprattutto le nuove generazioni, più capaci di ripensare in modo inedito e meno iniquo il mondo.
Dopo che varcando il Teatro Rasi si era precipitati nella città dolente, dopo che si era imparato il “noi” nella cantica dell’ascendere insieme per le strade di Ravenna, e di Matera, ci sarebbe stata una nuova chiamata pubblica e, insieme, si sarebbe dovuti arrivare al Paradiso nel 2021. Come fare, costretti alla distanza? Come celebrare Dante nell’anno del settimo centenario della morte del poeta? Teatro delle Albe e doppiozero hanno immaginato lo spazio della scrittura come spazio di un’attesa condivisa, un racconto-diario scritto da Marco Martinelli e racconti-sapere di studiosi e amici del Sommo, fili differenti per “dialogare con l’ago” e tessere visioni. Oggi il primo di questi quattro contributi. Il Cantiere Dante di Marco Martinelli e Ermanna Montanari è una produzione Ravenna Festival/Teatro Alighieri in collaborazione con Teatro delle Albe/Ravenna Teatro.
#DANTE2021 #DivinaCommedia, #oggi. Nel #Cielo di #Marte, #Dante in #Paradiso (Pd XIV-XV): problemi di #genealogia e di #rinascita - la visione della #croce (#albero di Jesse) e l’incontro con #Cacciaguida:
Albero di Jesse *
L’albero di Jesse (o Iesse) è un motivo frequente nell’arte cristiana tra l’XI e il XV secolo: rappresenta una schematizzazione dell’albero genealogico di Gesù a partire da Jesse, padre del re Davide, il quale è di particolare importanza nelle tre religioni abramitiche, l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam.
Origine
Il tema iconografico trae spunto da un famoso annuncio messianico contenuto nel capitolo 11 del libro del profeta Isaia (11,1.10) [1] da cui ha origine il suo nome greco [2]. Gli artisti combinarono la frase con la genealogia di Gesù come appare nel vangelo secondo Matteo [3] o secondo il Vangelo di Luca (3, 23-38)[4], genealogie che tuttavia presentano vistose differenze.
La più antica rappresentazione conosciuta dell’albero di Jesse è datata 1086, e compare nel Codice Vissegradesi, vangelo dell’incoronazione di Vratislao II di Boemia[5].
Iconografia
Jesse viene solitamente rappresentato coricato, semi-coricato o nell’iconografia meno antica seduto[6][7]. Nell’arte romanica, solitamente, egli è rappresentato coricato all’aperto mentre in quella gotica appare più spesso dentro ad un letto riccamente adornato, come nelle vetrate della chiesa di Saint-Étienne a Beauvais che datano al 1520.
Spesso Jesse appare addormentato, la testa appoggiata su una mano. Questa posizione è, a volte, associata ad un sogno profetico concernente la discendenza del dormiente. Dal suo fianco o dal suo ventre o anche dal dorso[7] o più raramente dalla sua bocca, s’innalza un albero i cui rami sorreggono gli antenati di Gesù, in particolare Davide riconoscibile per la sua arpa, fino a Maria. Le vetrate della cattedrale di Chartres rappresentano, dal basso in alto Davide, Salomone, Roboamo, Abias ed infine Maria. Ogni artista, a seconda del testo che ha utilizzato, del proprio gusto e dello spazio che ha a disposizione, aggiunge altri personaggi dell’Antico Testamento, spesso i profeti che gli esegeti del Medioevo pensavano avessero annunciato la venuta di Cristo (sono quattordici sulle vetrate di Chartres). Alla sommità si trova Gesù, a volte in croce, a volte bambino, sulle ginocchia della madre.
Nel XIII secolo, l’albero si sviluppa verticalmente, ed è solo nel XV che comincia a ramificarsi lateralmente[6]. Ancora presente nell’iconografia cristiana del XV sec., il motivo declina nel XVI per scomparire con la Controriforma[6].
Esistono naturalmente anche altre forme di rappresentazione della genealogia di Gesù, che non utilizzano l’albero di Jesse, il più famoso è quello dipinto nelle lunette della Cappella Sistina da Michelangelo tratto dal Vangelo secondo Matteo[8].
I supporti
L’albero di Jesse è stato un motivo popolare in tutte le arti: si trovano esempi nei manoscritti miniati, le stampe, le vetrate, la scultura monumentale, gli affreschi, le tappezzerie o nei ricami[6].
Manoscritti
Il motivo appare in parecchie bibbie romane, ad esempio nella Bibbia di Lambeth, sotto forma di una B maiuscola decorata all’inizio del Libro di Isaia o del vangelo di Matteo. La bibbia di San Benigno, del XII secolo, una delle più antiche che ci sono pervenute, mostra Jesse e le sette colombe rappresentanti i sette doni dello Spirito Santo[9]. La bibbia dei Cappuccini (ultimo quarto del XII sec.) conservata nella Bibliothèque nationale de France ne è un altro esempio, l’albero di Jessi decora la L maiuscula del Liber generationis nel vangelo di Matteo[10].
Poiché il re Davide era considerato l’autore dei Salmi, i salteri erano sovente illustrati con un albero di Jesse, soprattutto i manoscritti inglesi, dove l’albero di Jesse s’arrotola attorno alla B maiuscola del testo latino Beatus Vir all’inizio del primo salmo. Uno dei primi esempi è il salterio di Huntingfield, della fine del XII secolo. La British Library possiede un bellissimo salterio del XIV sec., detto di Gorleston. In questi due esemplari Jesse è allungato ai piedi della lettera B. Si potrebbero citare ancora il salterio di Macclesfield (Fitzmuseum, Cambridge) ed il Salterio e le Ore del duca di Bedford [11].
Alcuni manoscritti consacrano una pagina intera al motivo, aggiungendovi personaggi, per esempio la sacerdotessa di Apollo Sibilla Cumana del salterio d’Ingeburg (inizio del XII sec.). Presso Colonia, in un lezionario di prima del 1164 si descrive un Jesse insolito, morto in una tomba o bara, da cui l’albero cresce[12].
Una prestigiosa rappresentazione dell’Albero di Jesse si trova nella cappella Roano (voluta dall’Arcivescovo Giovanni Roano), detta cappella del Crocifisso, sita all’interno del Duomo di Monreale in Sicilia.
Evoluzione
L’albero di Jesse, contaminato dalla popolarità del tema della parentela santa si modifica fino a diventare, a partire dal X secolo, il modello da cui deriveranno le successive rappresentazioni degli alberi genealogici[13] e in particolare per sintetizzare figurativamente la genealogia delle famiglie reali[14].
Per Tilde Giani Gallino l’albero di Jesse dell’abbazia di Saint-Denis rappresenta, dissimulato, un fallo di dimensioni sproporzionate. Questa rappresentazione è risultato dell’inconscia compensazione del suo ideatore, l’abate Sugerio, che - sfavorito dalla natura, causa imbecille corpusculum - proiettò, tramite quello che per lui era simbolo di forza e autorità, la sua «volontà di potenza».[15][16]
L’immagine dell’albero che nasce direttamente dal fianco di Jesse, affermatasi nei secoli XI-XII, ha una sconcertante analogia con la scena in cui si vede Brahmā seduto su un loto che esce dal ventre di Viṣṇu, secondo i testi sacri Veda. Nell’arte romanica i personaggi sono collocati direttamente sui rami e non nei calici dei fiori come avverrà dopo un paio di secoli, analogamente a quanto rappresentato nelle sculture buddhiste in Birmania, Cambogia, Cina ed altre parti dell’Estremo Oriente. Queste immagini si ritrovano a Worms, Issoudun (cappella dell’Ospedale), Rouen (cattedrale), Sens (cattedrale).[17]
* Fonte: Wikipedia (ripresa parziale, senza immagini e senza note).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI"... DANTE "corre" fortissimo, supera i secoli, e oltrepassa HEGEL - Ratzinger e Habermas!!! MARX, come VIRGILIO, gli fa strada e lo segue. Contro il disfattismo, un’indicazione e un’ipotesi di ri-lettura.
FLS
Marte, un successo il volo del drone-elicottero Ingenuity
La prima immagine, in bianco e nero
di Redazione ANSA *
E’ stato un successo il volo su Marte del drone-elicottero Ingenuity della Nasa: è la prima dimostrazione della possibilità del volo controllato su un pianeta diverso dalla Terra e apre nuovi scenari per il futuro dell’esplorazione marziana.
Nella notte gli ingegneri del Jet Propulsion Laboratory (Jpl) della Nasa avevano inviato i comandi per il volo al drone-elicottero per le 9,31 italiane di oggi e più di tre ore più tardi i dati sono arrivati a Terra.
Il centro di controllo ha ricevuto anche la prima immagine, in bianco e nero. L’ha scattata lo stesso drone, catturando la sua ombra sul suolo marziano durante il volo di circa 40 secondi nel quale si è sollevato di tre metri. L’immagine è stata scattata dalla telecamera di bordo che in modo autonomo ha tracciato il suolo durante il volo. Anche il rover Perseverance ha ripreso il volo di Ingenuity, in un breve video inviato al centro di controllo della missione.
Il segnale è stato trasmesso da Ingenuity al rover Perseverance, che il 3 aprile scorso aveva rilasciato il drone sulla superficie marziana, dopo averlo portato con sé nel lungo viaggio dalla Terra; dal rover il segnale è stato trasmesso alla sonda della missione Mars 2020 che si trova nell’orbita marziana, che poi lo ha inviato sulla Terra.
Il volo di Ingenuity è avvenuto in modo completamente automatico. Come previsto è durato circa 40 secondi e il drone si è sollevato di circa tre metri, per atterrare sulle sue quattro zampe. Quindi il veicolo si è messo a riposo per ricaricare le batterie.
Altri voli in programma
“Questo è solo il primo grande volo", ha detto la responsabile della missione di Ingenuity, MiMi Aung, paragonando la portata del primo volo di un drone-elicottero su un altro pianeta a quella del primo volo dei fratelli Wright. Un’analogia che la Nasa ha sottolineato da subito, considerando che a bordo del drone c’è un piccolo frammento di tela dell’ala dell’aereo dei fratelli Wright.
Ulteriori dati e nuove immagini del primo volo di Ingenuity sono attesi nell’arco dei prossimi tre giorni marziani, ognuno dei quali dura circa 40 minuti in più rispetto al giorno terrestre. Sulla base di questo materiale, rileva la Nasa, si prevede di organizzare un secondo volo sperimentale non prima del 22 aprile. Se il drone elicottero supererà anche questo secondo test, il gruppo di lavoro responsabile della missione metterà a punto le caratteristiche ottimali per ulteriori voli.
* ANSA, 20 aprile 2021 (ripresa parziale).
LA LINGUA D’AMORE E LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI"... *
Divina Commedia. La singolare «invidia» di Dante per Paolo e Francesca
La popolarità del Canto V dell’Inferno si deve anche a come Alighieri si rapporta ai due amanti fedifraghi, quasi ne invidiasse la sorte: uniti per sempre, seppure nella dannazione
di Carlo Ossola (Avvenire, domenica 18 aprile 2021)
Il canto V dell’Inferno è il più celebre e più commentato di tutta la Commedia: il solo Boccaccio vi dedica (tra Esposizione litterale ed Esposizione allegorica) ben 64 pagine del suo commento (le pp. 280-344 dell’edizione Padoan citata qui a fianco). L’Inferno come luogo di dannazione stenta, per arte e per amore, a impossessarsi del poema. Nel canto IV campeggia il «nobile castello» degli «spiriti magni»: Elettra, Ettore, Enea, Camilla, Marzia, Socrate, Platone, Diogene, Anassagora, Talete, Eraclito, Dioscoride, Orfeo, Tolomeo, Ippocrate, Avicenna, Galeno, Averroè «che ’l gran comento feo»; e soprattutto la «bella scola» dei grandi poeti con i quali Dante s’accompagna, «sesto tra cotanto senno»: Omero, «poeta sovrano», Orazio, Ovidio, Lucano e lo stesso Virgilio. Siamo ancora nei chiarori della fama che si prolungano anche nel V canto, ove l’episodio d’amore di Paolo e Francesca è comprensibile solo come imitazione del modello di Ginevra e Lancillotto nel Lancelot du Lac (romanzo francese del ciclo della Tavola Rotonda): «Noi leggiavamo un giorno per diletto /di Lancialotto come amor lo strinse; / soli eravamo e sanza alcun sospetto», in una sorta di contemplazione dell’idolo che comporta l’imitazione ad litteram.
È un peccare non per mancanza, ma per eccesso d’amore, che però è all’umana creatura naturale: «Né creator né creatura mai / - cominciò el - figliuol, fu sanza amore » (Purg., XVII, 91-92); solo si pecca «o per troppo o per poco di vigore » (ivi, v. 96). E tali saranno poi le conclusioni del Boccaccio: «dico che, per ciò che il peccato della carne è naturale, quantunque abominevole e dannevole sia e cagione di molti mali, nondimeno, per la oportunità di quello e perché pur talvolta se n’aumenta la generazione umana, pare che meno che gli altri tutti offenda Idio; e per questo nel secondo cerchio dello ’nferno, il quale è più dal centro della terra che alcuno altro rimoto e più vicino a Dio, vuole l’autore questo peccato esser punito».
In effetti, il loro amore sembra appartenere all’ordo naturae: il canto sviluppa infatti un affascinante parallelismo: leggiamo al v. 4o: «E come li stornei ne portan l’ali », incipit di una triplice comparazione ornitologica (seguono: «E come i gru van cantando lor lai», v. 46, e «Quali colombe dal disio chiamate», v. 82) che viene a formare una perfetta simmetria con la triplice invocazione d’amore che ritma la confessione di Francesca: «Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende», v. 100; «Amor ch’a nullo amato amar perdona», v.103; «Amor condusse noi ad una morte», v. 106).
Borges, in modo analogo, coglie l’estraneità di Francesca all’ordo damnationis: unica, tra le anime infere, a dichiarar a Dante il proprio anelito a pregar per lui, se le fosse concesso: «Lì ci sono [...] uomini illustri. Dante ne vede due che non conosce, meno illustri e che appartengono al mondo contemporaneo: Paolo e Francesca. Sa come sono morti i due adulteri, li chiama ed essi accorrono. Dante ci dice: ’Quali colombe dal disio chiamate’. Siamo di fronte a due reprobi, e Dante li paragona a due colombe chiamate dal desiderio, perché la sensualità deve essere la parte essenziale della scena. Si avvicinano a lui e Francesca, che è l’unica a parlare [...], lo ringrazia di averli chiamati e dice queste patetiche parole: ’Se fosse amico il re de l’universo, [dice ’re de l’universo’ non potendo dire Dio essendo questo nome interdetto all’Inferno e in Purgatorio] / noi pregheremmo lui per la tua pace / poi c’hai pietà del nostro mal perverso’ (vv. 91-93).
Francesca racconta la sua storia e lo fa due volte. La prima, la racconta con discrezione, pur sottolineando di essere ancora innamorata di Paolo. Il pentimento è vietato all’Inferno, sa di aver peccato e segue fedele il suo peccato, dal che le viene una grandezza eroica» (La Divina Commedia, in Sette notti, cit., p. 21).
Ma Borges che suggerisce, altrove, paradossalmente, che la Commedia sia stata scritta solo perché Dante possa ritrovare in sogno colei, Beatrice, che in vita non poté mai stringere a sé ( El encuentro en un sueño, da Nueve ensayos dantescos, 1982), insinua anche una ragione supplementare a quel finale venir meno di Dante di fronte ai due amanti: «C’è dell’altro che Dante non dice, e che aleggia in tutto l’episodio e forse ne costituisce la forza. Con infinita pietà, Dante ci rivela il destino dei due amanti, e sentiamo che egli invidia questo destino. Paolo e Francesca sono all’Inferno, egli si salverà, ma loro si sono amati ed egli non è riuscito ad avere l’amore della donna che ama, Beatrice. [...] Invece questi due reprobi sono uniti, non possono parlarsi, girano nell’ ’aere perso’ [v.89] senza speranza alcuna, senza neppure, ci dice Dante, la speranza che le loro sofferenze cessino, ma restano uniti. Francesca dice noi: parla per tutti e due, un altro modo, questo, di stare uniti. Sono uniti per l’eternità, condividono l’Inferno e ciò agli occhi di Dante deve essere stato una specie di Paradiso. L’emozione, sappiamo, sopraffà Dante, che cade come un corpo morto. Ognuno si definisce per sempre in un solo istante della sua vita, il momento in cui l’uomo si incontra per sempre con se stesso» ( La Divina Commedia). E non sarà forse così, e proprio nel «fiore / di tanta plenitudine volante » ( Paradiso, XXXI, 19-20), che Dante, ancora una volta, perderà la sua Beatrice?: «Uno intendëa, e altro mi rispuose: / credea veder Beatrice e vidi un sene / vestito con le genti glorïose. / [...] / E ’Ov’è ella?’ sùbito diss’io. / Ond’elli: ’A terminar lo tuo disiro / mosse Beatrice me del loco mio’» ( Paradiso, XXXI, 58-66). A terminar lo tuo disiro!: nella più pura lontananza, e prima ancora del compimento: «Così orai; e quella, sì lontana / come parea, sorrise e riguardommi; / poi si tornò a l’etterna fontana» ( Paradiso, XXXI, 91-93; e cfr. Borges, La última sonrisa de Beatriz, in Nueve ensayos dantescos, cit.). E qui invece, e per sempre: «questi, che mai da me non fia diviso, / la bocca mi basciò tutto tremante » (vv. 135-136). In fondo, sì, tutta la Commedia potrebbe essere pensata come un’infinita palinodia di quel solo verso, nella vita di Dante incompiuto: «Amor, ch’a nullo amato amar perdona » (v. 103).
Bene lo intese, ancora una volta, Jorge Luis Borges che ha riscritto quell’incontro in una delle più belle liriche del mito di Francesca e di tutto il XX secolo: «Lasciano in un canto il libro, perché sanno / che sono i personaggi di quel libro. / (Lo saranno di un altro, il più grande, / ma non se ne curano). / Sono, adesso, Paolo e Francesca, / e non due amici che condividono / il sapore d’una favola. / Si guardano meravigliati, senza crederlo. / Le loro mani non si sfiorano. / Hanno trovato l’unico tesoro, / hanno scoperto l’altro. / Non stanno tradendo Malatesta, / poiché il tradire suppone un terzo / ma essi, ora, sono unici al mondo. / Sono Paolo e Francesca / e insieme la regina e il suo amante / e tutti gli amanti che sono vissuti / dopo il primo Adamo e la sua Eva / nei pascoli del Paradiso. / Un libro, un sogno loro rivela / ch’essi sono le forme di un sogno che fu sognato / in terra di Bretagna. / Un altro libro concederà agli uomini, / sogni anch’essi, / di sognarli» ( J.L. Borges, Inferno, V, 29, da La cifra, 1981).
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO (2007).
FLS
Le parolacce di Dante e quelle di Marx
Intervista. Federico Sanguineti, docente di filologia dantesca autore della prima lettura autenticamente marxista della Commedia
di Beatrice Andreose (il manifesto, Alias, 17.04.2021)
È un testo filologicamente ineccepibile ma soprattutto è la prima lettura sociologica integralmente marxista quella che Federico Sanguineti, docente di Filologia italiana e Filologia dantesca all’Università di Salerno, ci regala nel suo ultimo volume Le parolacce di Dante (Tempesta editore, prefazione di Moni Ovadia). Una lettura della Divina Commedia che affronta a chiare lettere, nei quattordici brevi capitoli, l’uso da parte del poeta di parolacce come «merda», «puttana», «bordello» in continuità con quelle vergate nella Bibbia dove si incontrano di frequente termini come «stercora sua» o «puttana». È inevitabile poi che alle parolacce del poeta si aggiungano nei secoli successivi quelle dei copisti tantoché per il filologo il vertice poetico della nostra letteratura consiste in «un mix di parole e parolacce». Nell’inferno, a cui è destinata la società corrotta e borghese, le parolacce sono dominanti. Non così in Paradiso dove la proprietà privata è abolita e dove Beatrice, donna in carne e ossa, assegna a Dante un’altra voce. L’unico dantista citato nel volumetto è Karl Marx che ama e conosce Dante e, a sua volta, in una lettera indirizzata ad Engels il 2 aprile 1851 etichetta col termine «merda» l’intera economia politica.
Marx dantista e Dante «materialista storico» antelitteram, in che senso?
Marx cita Dante a ogni piè sospinto, e lo pone in epigrafe anche nel primo libro del Capitale. A lui non sfugge che il poeta fiorentino manda all’inferno la nascente società borghese, denunciandone il carattere diabolico, infernale, patologico. Il viaggio dantesco, attraverso la società corrotta dell’inferno, la società in transizione del purgatorio e l’arrivo in paradiso (la società giusta dove la proprietà privata è abolita), prefigura il percorso indicato da Marx, il passaggio dal modo di produzione capitalistico, attraverso il socialismo (dittatura del proletariato), fino al comunismo. Come non vedere che Beatrice, che sulla cima del Purgatorio si presenta in modo dittatoriale, come «ammiraglio», e impone a Dante di vergognarsi, lo prepara così, rovesciando gli stereotipi di genere, al comunismo del paradiso?
Merda e bordello, parolacce in discreta quantità nella Divina Commedia. Una appartenenza postuma alla classe sociale più povera o uno sberleffo iconoclasta del poeta? Certo che dal tuo libro chi ne esce un po’ maluccio è il Petrarca avvezzo a frequentare il Francesco carrarese e che, come il suo signore, detesta qualsiasi contaminazione con i proletari.
Dunque, con ordine. Merda è parola che Marx usa per definire l’economia politica borghese. La stessa parola che ricorre più volte nella Bibbia e in Dante. Dante si rifà al salmo 113, ‘In exitu Israel de Aegypto’ (che è il paradigma ebraico della liberazione) e ai vangeli e agli atti degli apostoli, che sono libri di regole economiche e di amore (secondo la definizione di Alex Zanotelli). Gli apostoli, Dante e Marx hanno comunque un solo obiettivo: l’abolizione della proprietà privata, ossia la realizzazione di un paradiso in terra, un mondo dove le parolacce sono un ricordo del passato. Quanto a bordello, questa è semplicemente l’Italia, un paese storicamente occupato da forze militari straniere, già prima di Dante (Longobardi e Carlo Magno), dopo Dante (Francia o Spagna), fino ad oggi (le basi americane). Quanto a Petrarca, di fronte a Dante, poveretto, è patetico: lui, intellettuale aristocratico, ama una Laura borghese (che non parla mai). Dante ha un altro modello di donna: una Beatrice loquacissima, che dà a Dante diritto di cittadinanza («e sarai meco sanza fine cive») e infrange l’obbligo imposto da San Paolo alle donne, quello di non aver voce in capitolo, di non poter insegnare.
A proposito di genere, tu scrivi anche e soprattutto di donne il cui ruolo nella letteratura viene finalmente disvelato. A partire da quella straordinaria Cristina da Pizzano, emigrata in Francia da piccola, intellettuale che vive del suo lavoro ed autrice, a soli cento anni dalla morte di Dante, di un’opera che rovescia al femminile la cornice dantesca. Beatrice, inoltre, non risulta più essere la donna «gentile» che ci hanno insegnato a scuola ma una donna in carne ed ossa. Un ribaltamento radicale.
Le undici sillabe più straordinarie di Dante sono «Guardaci ben, se ben sè ‘n Beatrice». Qui il poeta è invitato a rendersi conto di trovarsi in Paradiso, cioè di essere, alla lettera, «in Beatrice», compenetrato in lei. In nuce è già presente l’idea dell’”«inleiarsi» che sarà con formidabili parasintetici neologismi, ripresa nella terza cantica. Queste undici sillabe sono insopportabili al gusto borghese e quindi manomesse dai copisti e filologi i quali le leggono «Guardati ben! Ben sembri Beatrice (errore congiuntivo di una famiglia di codici). Per fortuna la lezione genuina è conservata dal ramo beta della tradizione: Urbinate 366, Urbinate 365, Florio ed Estense. Nel paradiso terrestre Dante è in Beatrice. Al funereo colpo di fulmine , di un amore « che ratto s’apprende», perché irresistibile(«a nullo amato amar perdona»), ovvero il top per l’estetica borghese, urge contrapporre il punto di vista opposto, quello vitale di Dante che celebra il piacere.
C’è un punto specifico nella Commedia o in altre sue opere in cui Dante pre «figura» una società comunista?
Tutto il Paradiso è una società giusta, dove non c’è più proprietà privata. Lo spiega molto bene una studiosa americana, Joan Ferrante (Columbia University), in un suo libro, The Political Vision of the Divine Comedy, mai tradotto in italiano.
Poiché le anime brillano di più man mano che si avvicinano a dio, che ruolo gioca questo ultimo nella società giusta?
In paradiso ognuna e ognuno si avvicina a realizzare se stesso umanamente, secondo i propri bisogni. Nella misura in cui ciò accade, si intensifica il piacere, si gode di più, Beatrice brilla di più: è la «dolce vita», un piacere indescrivibile. E in paradiso la gerarchia è apparente. In realtà, spiega Beatrice a Dante, non c’è gerarchia. E non c’è patriarcato: Dio non è padre, neppure nella preghiera conclusiva a Maria: «Vergine madre, figlia del tuo figlio». In Petrarca, nella poesia che chiude il Canzoniere, Dio padre ritorna invece in piena regola.
Ritorniamo alle parolacce, i copisti nel corso dei secoli hanno spesso modificato il testo originario. Lo chiedeva la controriforma ma anche prima il testo di Dante viene spesso disatteso. Ora è conosciuto come il sommo poeta. Strano destino il suo.
Immediatamente dopo la morte di Dante, il suo Poema è diventato un bestseller. I borghesi fiorentini hanno fiutato l’affare e hanno prodotto centinaia di copie manoscritte per un pubblico borghese. Quest’ultimo, ancora oggi, si identifica coi personaggi dell’inferno censurando tutto il resto (salvo questa o quella terzina «poetica») come «non poesia» o «struttura», cioè come elementi secondari liquidabili come «teologici» e «medievali». Ma, a parte il fatto che il medioevo non è mai esistito (è una categoria ideologica eurocentrica), ed è esistito invece il modo di produzione feudale, occorre dire che Dante non è un teologo della conservazione, ma un teologo della liberazione al pari di Gioacchino da Fiore, dunque un teologo (come Tommaso Campanella) che anticipa Marx.
"Esodo", il libro del servizio e della democrazia
di Jean-Louis Ska (Avvenire, 15.04.2021).
Dalla servitù al servizio: è così che Georges Auzou intitolava il suo breve commento al libro dell’Esodo, pubblicato in francese nel 1961 con le edizioni Orante. Ë difficile trovare un titolo più adatto a questo libro fondamentale per la fede d’Israele e per quella dei cristiani, il secondo libro del Pentateuco dopo quello della Genesi. In effetti, questo titolo ha l’enorme vantaggio di descrivere il passaggio da una situazione dolorosa, ossia dalla schiavitù, a una situazione più soddisfacente, cioè al servizio. In secondo luogo, questo titolo gioca sulla stessa radice linguistica, poiché «servitù» e «servizio» sono due parole correlate, due modi cli «servire».
Ora, anche il libro dell’Esodo gioca su tutte le sfumature di uno stesso verbo, il verbo «servire». Che in ebraico può significare «essere schiavi», «essere al servizio di», «lavorare» e finalmente «rendere un culto». Anche il sostantivo «servizio» possiede tutte queste sfumature: «servitù», «schiavitù», «servizio», «lavoro», «fatica», «culto»`e «liturgia».
Infine, il titolo scelto da Georges Auzou fissa in due parole l’essenziale di quello che avviene nel libro dell’Esodo: nel deserto, il popolo di Israele passa dalla servitù in Egitto al servizio del suo Dio, il Signore. Occorre notare che Israele non passa solo dalla servitù alla libertà, ma anche che questa libertà si traduce immediatamente in un «servizio», che gli dona il suo senso e il suo scopo. La libertà di Israele è una libertà «per». Uno dei messaggi del libro è inoltre quello che Israele sarà libero solo se è fedele a quel Dio che gli ha donato la sua libertä [...]
Il libro dell’Esodo è quindi un libro fondatore. Infatti, il popolo di Israele vi trova gli elementi essenziali della sua identità e della sua esistenza, l’equivalente di un territorio e di una monarchia o di un potere organizzatore. Il suo Dio sarà certamente il suo solo e vero sovrano, il solo degno di esserlo. Israele ne farà l’esperienza, talora anche a sue spese. La presenza di questo Signore si manifesta in realtà concrete: la Legge dï Mosè e il santuario. La Legge di Mosè definisce le vere frontiere del popolo, quelle del suo comportamento, poiché determina subito chi può far parte o deve essere escluso dal popolo di Dio. Come dice molto bene il poeta tedesco di origine ebraica Heinrich Heine, la Legge (in ebraico: la Torah) è per Israele una «patria portatile». Il santuario e le istituzioni del culto sono presenti per ricordare a Israele chi è il suo unico e vero sovrano, il solo che merita di essere onorato, perché Israele deve a lui la propria esistenza di popolo libero. Esodo, legge, alleanza e culto risalgono tutti a un personaggio, Mosè, unico mediatore tra Dio e il popolo. È a lui che il popolo d’Israele fa risalire tutte le istituzioni che considera indispensabili per la propria identità e sopravvivenza [..] Tutto ciò dovrebbe convincerci dell’attualità di questo libro che stabilisce un legame indissolubile tra l’esperienza di Dio e quella della libertà.
San Paolo lo ribadirà: ‹Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù» (Gal 5,1).
Il libro dell’Esodo stabilisce un legame indissolubile anche tra l’esperienza della libertà e le esigenze del diritto. Quando Israele esce dall’Egitto, non sostituisce la tirannia del faraone con un’altra e ancora meno conl’anarchia. Israele si libera dalla tirannia imboccando la via del diritto e della Legge, che, stando al racconto dell’Esodo, è il vero mezzo per preservare e promuovere la libertà.
Citiamo nuovamente san Paolo «Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri» (Gal 5,13).
Dio libera il suo popolo per il servizio, un servizio libero e generoso, un servizio vicendevole che significa anche la costruzione di una società giusta ed equa, fondata sul rispetto del diritto. Anche le nostre democrazie attuali, talora senza saperlo, hanno ereditato questa esperienza. Come, infatti, fa notare il filosofo Baruch Spinoza (1632-1677), Mosè non prende il posto del faraone, ma lo sostituisce con la Legge, «come in una democrazia».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SOVRANITÀ E OBBEDIENZA. "DICO": DI CHI, DI QUALE LEGGE - A CHI, A QUALE LEGGE OBBEDIRE?!! ... Al Faraone e alla sua legge o a Mosè e alla Legge che egli stesso segue?! Abramo, chi ascoltò: Baal, il dio dei sacrifici e della morte, o Amore, il dio dei viventi?! Un’analisi di Giovanni Filoramo
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
FLS
Dante700: lettura perpetua Divina Commedia in 14 lingue
Grazie a studenti stranieri del campus universitario di Ravenna
di Redazione Ansa (RAVENNA, 15 aprile 2021)
(ANSA) - RAVENNA, 15 APR - La lettura perpetua della Divina Commedia diventa internazionale, in 14 lingue, grazie agli studenti universitari stranieri: il primo appuntamento è previsto sabato 17 aprile alle 18, salutato come di consueto dai 13 rintocchi della campana di Dante, con il XV canto dell’Inferno, letto prima in russo da Alexandra Kobets, poi in italiano da Chiara Casagrande. Gli appuntamenti successivi si svolgeranno da luglio, in inglese, francese, tedesco, portoghese, ma anche in hindi, turco, cinese, arabo, vietnamita, urdu, taiwanese, serbo e kyrgyz.
L’incontro di sabato sarà fruibile dal pubblico sia dal vivo, nel rispetto dei protocolli Covid-19, sia in diretta streaming sulla pagina facebook Ravenna per Dante. La comunità di Ravenna, nonostante le restrizioni rese necessarie dall’emergenza sanitaria, continua a vivere e a costruire la celebrazione del VII centenario della morte di Dante Alighieri per il quale la città romagnola fu "ultimo rifugio".
Tra le azioni portate avanti vi è la lettura perpetua della Commedia davanti alla tomba di Dante - unico monumento a non essere mai stato chiuso - ogni giorno in un progetto dal titolo "L’ora che volge il disio". L’iniziativa prevede che dal 13 settembre 2020 nei pressi della tomba di Dante venga letto quotidianamente un canto della Divina Commedia, per sempre. Ora questa lettura diventerà anche internazionale grazie al contributo degli studenti stranieri che frequentano il campus universitario di Ravenna. (ANSA).
In cammino con Dante/3.
Modello, mito, padre: chi è davvero Virgilio per Dante?
Non è solo Maestro ma anche “dolce padre”, consolazione e sprone, modello e mito per il Sommo Poeta: è l’“auctor”, colui che fa crescere il personaggio e ne è propriamente il “nutritore”
di Carlo Ossola (Avvenire, domenica 4 aprile 2021)
Delle guide che accompagnano e illuminano Dante nel viaggio di conoscenza e di salvezza, Virgilio ha il ruolo più esteso: è scorta di Dante per due cantiche sino alla cima del Purgatorio ove, nel Paradiso Terrestre, si rivela Beatrice. Non è solo Maestro ma anche “dolce padre”, consolazione e sprone, modello e mito. Appare sin dal canto I dell’Inferno, come uscito da un millenario silenzio: «dinanzi a li occhi mi si fu offerto / chi per lungo silenzio parea fioco» (vv. 62-63), lieto a sua volta di acquistare voce e vita di fronte a un uomo che «rovinava in basso loco ». La sua autopresentazione è solenne, e subito intessuta dei caratteri che saranno proprii di tutta la Commedia, la naturalezza del latino, la coscienza dell’unità profonda della penisola italiana nell’eredità di Roma: «[...] li parenti miei furon lombardi, / mantovani per patria ambedui. / Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi, / e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto / nel tempo de li dei falsi e bugiardi» (vv.68-72). Dante lo elegge come magister, al posto di Aristotele, come era uso nella tradizione medievale, e Dante dichiarava ad apertura del suo Convivio; nell’Eneide infatti viene cantato il destino provvidenziale della fondazione di Roma, «di quella Roma onde Cristo è romano» (Purg., XXXII, 102), poiché la Roma di Pietro, e non più Gerusalemme, è la sede della cristianità.
L’Eneide è dunque pensata come annuncio e preparazione della “nuova Roma” della fede: «Poeta fui, e cantai di quel giusto / figliuol d’Anchise che venne di Troia»: Virgilio si presenta come cantore di “quel giusto”, poiché giustizia è - dal Convivio al De Monarchia alla Commedia - il fondamento di ogni degno ordinamento terreno. Lo conferma, in uno dei passi più belli sul pensiero di Dante, il filosofo Étienne Gilson: «Se esiste una visione unificante della sua opera, essa non si identifica né in una qualche filosofia né in una causa politica, neppure in una teologia. La si troverà piuttosto nella coscienza, così personale, ch’egli ebbe della virtù della giustizia e delle fedeltà che essa impone» ( Dante e la filosofia). Il poeta si presenta, a sua volta, come discepolo fedele: «O dei li altri poeti onore e lume, / vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore / che m’ha fatto cercar lo tuo volume. / Tu’ se’ lo mio maestro e ’l mio autore» (I, 82-85).
Il termine “autore” non significa soltanto il modello del «bello stilo che m’ha fatto onore» (sì che Dante si presenta a sua volta come autore di un poema epico), ma è anche auctor, colui che nutre e fa crescere il personaggio: ne è propriamente “il nutritore”. Dante si pone come “creato” di Virgilio, nuovo “pius Aeneas”, del quale nel Convivio aveva tracciato l’alta missione: «Per che Virgilio, d’Enea parlando, in sua maggiore loda pietoso lo chiama. E non è pietade quella che crede la volgar gente, cioè dolersi de l’altrui male, anzi è questo uno suo speziale effetto, che si chiama misericordia ed è passione; ma pietade non è passione, anzi è una nobile disposizione d’animo, apparecchiata di ricevere amore, misericordia e altre caritative passioni» (lib. II, X, 5-6). E non è solo magnanimità umana, ma grandezza del destino di una Roma eterna: «Onde non da forza fu principalmente preso per la romana gente, ma da divina provedenza, che è sopra ogni ragione. E in ciò s’accorda Virgilio nel primo de lo Eneida, quando dice, in persona di Dio parlando: “A costoro - cioè a li Romani - né termine di cose né di tempo pongo; a loro ho dato imperio sanza fine”» (lib. IV, IV, 11).
Di questa Roma eterna, perché cristiana ormai, Dante si farà cantore. Sebbene quella del “famoso saggio” (I, 89) sia la funzione principale, e Virgilio additi a Dante, giunti al Limbo, la “bella scola” di cui fa parte: Omero, Orazio, Ovidio, Lucano, sì che - aggiunge con orgoglio Dante - «io fui sesto tra cotanto senno» (IV, 102); nel poema tuttavia Virgilio è davvero “compagno” maggiore di Dante, in tutto: con prontezza raccoglie una manata di terra e la butta in gola all’avido Cerbero: «E ’l duca mio distese le sue spanne, / prese la terra, e con piene le pugna / la gittò dentro a le bramose canne» ( VI, 25-27). Giunti nella palude che circonda la città di Dite (Inf., canto IX), Virgilio mette energicamente le proprie mani sopra quelle di Dante, per chiudergli gli occhi, affinché non abbia ad esser accecato dallo sguardo della Gorgone; esorta e sprona, difende Dante e lo punge, gli indica persino le anime con cui il viator deve parlare, e delle quali non s’era accorto: «Ed el mi disse: “Volgiti! Che fai? / Vedi là Farinata che s’è dritto: /da la cintola in su tutto ’l vedrai”» (X, 31-33).
Più cresce la gravità delle colpe e delle pene, più la dolente tristezza dei due viandanti li pareggia in un’unica angoscia: «Passo passo andavam sanza sermone, / guardando e ascoltando li ammalati, / che non potean levar le lor persone» (XXIX, 7072). Di fronte ai giganti posti a guardia del pozzo ultimo della Caina, Virgilio prende per mano Dante (XXXI, 28); stringe Dante a sé, alla presa di Anteo: «poi fece sì ch’un fascio era elli e io» (XXXI, 135), come prima l’aveva avvinto con le braccia, per scendere in groppa a Gerione a Malebolge (XVII, 1-27 e 91-111).
Ma il Virgilio più autentico è quello che, in Purgatorio, dispiega tutta la pietas e tutta la nobiltà della ragione, di cui è emblema: non solo deterge la caligine infernale (“sudiciume”) dal volto di Dante, ma via via si fa il suo araldo: da quando dice solennemente a Catone: «libertà va cercando, ch’è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta» (I, 71-72) a quando coronerà Dante, libero ormai dalla colpa, e pronto a vedere Beatrice: «Non aspettar mio dir più né mio cenno; / libero, dritto e sano è tuo arbitrio / [...] / per ch’io te sovra te corono e mitrio » (XXVII, 139-140).
Dante cresce, ma Virgilio non scema: l’incontro con il conterraneo mantovano Sordello, al canto VI, e soprattutto con Stazio al canto XXI, sono tra i momenti più alti del poema, qui paragonata la scena addirittura all’incontro di Cristo con i discepoli di Emmaus: «Ed ecco, sì come ne scrive Luca / che Cristo apparve a’ due ch’erano in via, / giù surto fuor de la sepulcral buca, / ci apparve un’ombra, e dietro noi venìa» (vv. 7-10).
Ed è proprio Stazio a tessere il più alto, malinconico e inobliabile, elogio di Virgilio: «Facesti come quei che va di notte, / che porta il lume dietro e sé non giova» (XXII, 67 68). Egli è stato il lanternarius, il lampadoforo del nuovo Annuncio: «quando dicesti: “Secol si rinova; / torna giustizia e primo tempo umano”» (vv. 70-71). E allo svelarsi di Beatrice, Virgilio è come “mamma” alla quale corre il “fantolin” impaurito da tanta apparizione: Virgilio, madre e padre del pellegrino, così come, per i secoli cristiani sin da Agostino, era stato il sommo sapiente: «Quanto sia importante questo problema lo dichiara il nobilissimo verso di Virgilio: Fortunato chi è riuscito a conoscere le ragioni delle cose [ Georg., II, 489]» ( La Città di Dio, lib. VII, 9).
#DANTE2021
STORIA DELL’ARTE E TEOLOGIA:
LA PRIMA “CENA” DI “CAINO” (DOPO AVER UCCISO IL PASTORE “ABELE”) E L’INIZIO DELLA “BUONA-CARESTIA”(“EU-CARESTIA”)!
NELL’OSSERVARE “L’Ultima Cena raffigurata sulla parete di fondo del refettorio dell’ex convento dei francescani di Veglie” (sec. XVI/XVII ca.) E NEL RIFLETTERE SUL FATTO CHE “è tra le più canoniche rappresentazioni del momento in cui Cristo istituì la santissima Eucarestia” (Riccardo Viganò, "Fondazione Terra d’Otranto"), c’è da interrogarsi bene e a fondo su chi (teologi ed artisti) abbia potuto concepire e dare forma con straodinaria chiarezza e potenza a questa “cena”(vedere la figura: “Portata centrale, saliere e frutti”) e, insieme, riflettere ancora e meglio sui tempi lunghi e sui tempi brevi della storia di questa interpretazione tragica del messaggio evangelico - a tutti i livelli, dal punto di vista filosofico, teologico, filologico, artistico, sociologico. O no?
NOTARE BENE E RICORDARE. Siamo a 700 anni dalla morte dell’autore della “COMMEDIA”, della “DIVINA COMMEDIA”, e della sua “MONARCHIA”!
SAPERE AUDE! (I. KANT). Sul tema, per svegliarsi dal famoso “sonno dogmatico”, mi sia lecito, si cfr. l’intervento di Armando Polito, “Ubi maior minor cessat”(Fondazione Terra d’Otranto, 24.02.2021) e, ancora, una mia ipotesi di ri-lettura della vita e dell’opera di Dante Alighieri.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Con Wojtyla (2000), oltre. Guarire la nostra Terra. Verità e riconciliazione
FLS
L’ATLANTE DEL "PARADISO IN TERRA", BOLOGNA, DANTE, E LA "MEMORIA" DI ABY WARBURG.... *
Riletture.
"Divina Commedia", il viaggio della speranza
L’itinerario di Dante si conclude sulle più alte vette. Le miserie lasciate nella desolata pianura degli uomini non sono state dimenticate, ma ormai sono viste con occhi nuovi
Giuliano Vigini (Avvenire, domenica 28 marzo 2021)
Dall’esilio terreno alla patria celeste, la Divina Commedia è tutta un’epifania di speranza. Inizialmente è l’angosciante anelito di Dante di uscire dalla «selva oscura» (Inf. I,1) in cui si era smarrito; poi, la forte tensione per raggiungere il colle della «divina foresta» (Purg. XXVIII, 2); infine, dopo il doloroso distacco da Virgilio e la comparsa di Beatrice, la consolante certezza di esser entrato nel regno «che solo amore e luce ha per confine» (Par. XXVIII, 53.54).
Dall’umana necessità di sperare - bene supremo che i dannati dell’Inferno hanno definitivamente perduto ( Inf. III,9) - si passa dunque, procedendo nell’ascesa, alla speranza come virtù teologale, che si affianca alle due sorelle maggiori - come avrebbe detto Péguy -, la fede e la carità, per camminare insieme verso Dio.
Sono le tre “donne” che nel canto XXIX, 121-129 del Purgatorio danzano in cerchio sul lato destro del carro, ciascuna risplendente di un proprio colore (bianca la fede, verde smeraldo la speranza, rossa la carità). La fede è la radice della speranza (Par. XXIV, 73-75), perché se l’uomo non arriva a «conoscere» il Suo nome (Sal 9,11; 91,14), cioè a professare la fede nel Signore («Sperino in te»; «Sperent in te», Par. XXV, 73, 98), la sua speranza cammina al buio, senza mai trovare la via maestra della verità di sé stesso e della sua sospirata felicità. La carità è l’altra virtù essenziale, che dà forma e compimento alla fede, perché, quanto più si esercita la carità, fondandola in Dio e nel suo amore, tanto più ci si avvicina all’«amore perfetto» (1Gv 4,12) che in modo perfetto unisce anche le altre virtù.
Beatrice è per Dante il volto della speranza. È lei che, mossa dall’amore («amor mi mosse», Inf. II, 72), lo guida e lo spinge in avanti verso quell’Amore di cui già gode; è lei che, innalzata da creatura umana a figura della teologia e a rappresentante della sapienza divina, è scesa dal cielo per aiutarlo a salire verso il Bene sommo che è Dio.
Di grado in grado, Beatrice non emana più soltanto il dolce profumo della donna bella e virtuosa amata da Dante in gioventù; lei gli porta il profumo stesso di Dio, dei santi e dei beati, dei maestri e dei testimoni della fede (da Tommaso a Bonaventura, da Francesco a Domenico a Bernardo) che sono con lei in paradiso.
Sotto la guida di Beatrice, con davanti i suoi occhi luminosi e il suo radioso sorriso, la speranza di Dante si fa via via realtà concreta; non è un’illusione destinata a perdersi e a svanire; la speranza è sempre davanti a lui come orizzonte verso il quale alzare lo sguardo e camminare.
Quando raggiunge questo orizzonte, la speranza ha compiuto il suo ultimo tragitto e si trasforma in un’epifania di luce, nell’inebriante realtà della gloria di Dio e della gloria di Cristo, che da sole tutto illuminano. Lì anche Dante può contemplare il mistero trinitario (il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo) e volgere la sua devota preghiera a Maria, la «vergine madre », «umile e alta più che creatura », «termine fisso d’etterno consiglio» ( Par. XXXIII, 1-3). Il viaggio di Dante si conclude sulle più alte vette. Le miserie lasciate nella desolata pianura degli uomini non sono state dimenticate, ma il mondo di lassù gli fa ormai vedere con occhi nuovi anche le realtà di quaggiù.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ATLANTE DEL "PARADISO IN TERRA", BOLOGNA, DANTE, E LA "MEMORIA" DI ABY WARBURG.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Lector in fabula: in cammino con Dante... *
In cammino con Dante/2.
Quell’ansia del Poeta per noi lettori
Fin dal primo verso del grande poema ci considera coinvolti in un pellegrinaggio verso la felicità e la grazia. Così di volta in volta diventiamo suoi discepoli, accompagnatori e testimoni
di Carlo Ossola (Avvenire, domenica 28 marzo 2021)
Può mai essere un lettore, uno di noi, personaggio della Divina Commedia? Possiamo mai trovarci nel poema a dialogare con Dante? È ben vero che Ezra Pound ha osservato che: «In un senso ulteriore [la Commedia] è il viaggio dell’intelletto di Dante attraverso quegli stati d’animo in cui gli uomini, di ogni sorta e condizione, permangono prima della loro morte; inoltre Dante, o intelletto di Dante, può significare ’Ognuno’ [Everyman], cioè ’Umanità’, per cui il suo viaggio diviene il simbolo della lotta dell’umanità nell’ascesa fuor dall’ignoranza verso la chiara luce della filosofia» (Dante, in Lo spirito romanzo, 1910); ma è altrettanto vero che Dante ha scelto gelosamente le sue guide, tutte di alta responsabilità (il poeta Virgilio, l’amata Beatrice, il campione della Vergine, san Bernardo).
Ove mai potrà esserci posto per noi nel poema? Eppure c’è, e sin dal primo verso: «Nel mezzo del cammin di nostra vita »: quel ’nostra’ è la vita di Dante e di ognuno di noi, pellegrini con lui nella selva della tentazione, nel cammino di redenzione.
Da quel primo verso del poema il lettore non è più spettatore ma parte del dramma che viene messo in scena. Gli indirizzi, le apostrofi, i richiami al lettore sono molteplici (sedici in tutta la Commedia: 5 nell’Inferno, 7 nel Purgatorio, 4 nel Paradiso), e toccano tutti e quattro i gradi della ’lettura’, così com’era concepita dalla tradizione medievale: lectio, meditatio, oratio, contemplatio. Il patto di lettura, prima di tutto, e i limiti che l’autore detta: «Nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo» (Inf., XXXIV, 23); la medita- zione, poi, continua, che la lettera del testo richiede: «Pensa, lettor, se io mi sconfortai» (Inf., VIII, 94), «Pensa, lettor, s’io mi maravigliava» (Purg., XXXI, 124), «Pensa, lettor, se quel che qui s’inizia / non procedesse...» (Par., V, 109-110); l’orazione attenta che è richiesta - e l’intercessione necessaria - per accedere alla conoscenza del vero: «Leva dunque, lettore, a l’alte rote / meco la vista...» (Par., X, 7-8), «Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto / di tua lezione...» (Inf., XX, 19-20); la contemplazione infine, che è frutto e dono di quel lungo esercizio: «Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero» (Purg., VIII, 19).
Come Dante è discipulus che ha costante bisogno di guide: prima Virgilio (sino al Paradiso terrestre), poi Beatrice (sino al XXXI del Paradiso), poi san Bernardo, per gli ultimi tre canti del poema; così il lettore deve apprendere come scolaro: «Or ti riman, lettor, sovra ’l tuo banco, / dietro pensando a ciò che si preliba, / s’esser vuoi lieto assai prima che stanco» (Par., X, 22-24), nella stessa attitudine che Dante per sé adotta: «come discente ch’a dottor seconda » (Par., XXV, 64).
Nello stesso tempo, divenire lettore della Divina Commedia è esercizio che richiede pazienza e almeno quattro letture che permettano di cogliere i quattro sensi del poema, che Dante trae dalla tradizione esegetica biblica e che spiega nella Epistola a Cangrande della Scala, suo protettore, spiegandogli i sensi crescenti del versetto: «In exitu Israel de Aegypto».
Il senso letterale è vero nella sua storicità (noi sappiamo che il popolo eletto uscì dall’Egitto sotto la guida di Mosè); così va inteso, egualmente, quello allegorico: la nostra emancipazione dal peccato per la Redenzione elargita dal sacrificio di Cristo; e non meno quello tropologico (la conversione di ogni anima credente dal lutto e miseria del peccato allo stato di grazia); e infine quello anagogico: l’uscita finale di ogni credente e di tutta la Chiesa dalla «servitù di questa terrena corruzione alla libertà dell’eterna grazia » (Ep. XIII, 21).
Dante segue qui la celebre Scala Paradisi: «Cercate leggendo e troverete meditando. Bussate pregando e vi sarà aperto contemplando. La lettura porge come un cibo sostanzioso alla bocca; la meditazione lo sminuzza e lo mastica; l’orazione gli dà sapore; la contemplazione è quella dolcezza che allieta e sazia». Ma Dante è personaggio complice con il suo lettore; lo chiama spesso a testimone di esperienze che considera comuni: «Ricorditi, lettor, se mai ne l’alpe / ti colse nebbia per la qual vedessi / non altrimenti che per pelle talpe».
È l’imperioso incipit del canto XVII del Purgatorio, e Dante vuole il lettore vicino quasi per fargli constatare qualcosa che questi può aver vissuto: la nebbia che avvolge d’improvviso chi salga verso una cima. Francesco Torraca osserva, a proposito di questo celebre paragone: «Ricorditi, lettor: entra speditamente in materia il poeta, supponendo che il lettore possa aver, qualche volta, osservato un fatto capitato a lui, forse più d’una volta, nell’alpe, ne’ monti, che separano la Toscana dalla Romagna (Inf., XIV, 30 n.) o in quelli della Lunigiana (Inf., XXXII, 29 n.)».
Ecco, il lettore non può stare indietro: l’apostrofe di Dante è quasi intimata proprio per accertarsi che il lettore lo segua, che stia al passo della propria ansia di salire e di raggiungere la vetta: Osip Mandel’štam nel suo saggio Conversazione su Dante, 1933, ha osservato che Dante è sempre in marcia, sempre in ascesa, e che anche la sosta è appena un movimento sospeso. Il lettore ugualmente non può concedersi tregua: è ’in cordata’ con Dante e non può cedere.
Più ancora, il poeta prende talvolta il lettore a testimone, arriva a sfogarsi e a giurare davanti a lui: «ma qui tacer nol posso; e per le note / di questa comedìa, lettor, ti giuro, /...» (Inf., XVI, 127-128). Dante giura sul proprio poema per avvalorare ciò che vide («venir notando una figura in suso »).
Su questo verso l’Ottimo Commento, XIV secolo, ci propone una chiosa acuta: è davanti al proprio lettore che Dante, per la prima volta, pronuncia il nome del proprio poema, Comedia: «Considera qui, lettore, che l’Autore fa suo giuro per li versi di questa Commedia, ove sono da notare due cose: l’una, il nome di questo libro, lo quale qui l’Autore medesimo impone; l’altra, che l’Autore desidera, che questa sua opera sia gradita infra le genti per lungo tempo». La teoria moderna del Lettore come teste e garanzia del libro trova in Dante il suo primo e saldo fondamento: davvero Lector in fabula.
Terzine eponime
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA" di Federico La Sala (in un "quaderno" della Rivista "Il dialogo"), con prefazione di Riccardo Pozzo.
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
FLS
STORIA E FILOLOGIA. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO... *
Vita di Dante. Una biografia possibile contro il politicamente corretto
di Giorgio Inglese (MicroMega, 27 Marzo 2021)
Ho accolto con vivo compiacimento la proposta di far tradurre in cinese il mio libro “Vita di Dante. Una biografia possibile”, anche perché la traduzione è stata affidata a una studiosa esperta come la dottoressa Yuze
Questo settimo centenario della morte di Dante Alighieri è anche il primo centenario della traduzione cinese di alcuni canti dell’Inferno per opera di Qian Daosun, che aveva studiato italiano proprio all’Università di Roma. La millenaria cultura cinese non poteva restare indifferente alla straordinaria ricchezza fantastica e alla forza emotiva della Commedia: oggi sono disponibili varie traduzioni cinesi dell’intero poema e delle altre opere di Dante. Gli studi sulla biografia del Poeta (il lettore cinese ha già a disposizione fonti rilevantissime, come il Trattatello in lode di Dante di Giovanni Boccaccio e la Vita di Dante dell’umanista Leonardo Bruni), sulla società e la cultura del suo tempo concorrono alla comprensione storica dei suoi testi.
Quando leggiamo, ad esempio, il quinto canto dell’Inferno siamo toccati dalla espressione, così viva e penetrante, della passione d’amore. Ma non dobbiamo ignorare un dato essenziale di storia della cultura. A partire dalle grandi corti feudali francesi e provenzali, dagli inizi del secolo XII si diffonde in mezza Europa, attraverso la poesia, un’idea dell’eros come altissima affermazione di personalità, per gli uomini come per le donne.
Questa idea apre una lacerante contraddizione nella coscienza morale di estrazione cristiana. Una figura come quella di Francesca, colta dal Poeta nella sua caratteristica passionale e tuttavia condannata a una eterna punizione, rappresenta al vivo tale contraddizione. Siffatta “crisi” del giudizio morale si è tradotta, in Dante, in una più raffinata capacità di ricognizione psicologica della dimensione erotica, del tormentoso e irrealizzabile desiderio di fusione fra gli amanti, che ha trovato espressione nel dolente e vano connubio fra le ombre di Francesca e Paolo.
E che diremo di Ulisse? Ci emozioniamo dinanzi al “piccolo” equipaggio di uomini vecchi e affaticati, che pure si lancia nell’estrema avventura, per contemplare stelle mai viste risplendenti su un oceano senza fine, su un emisfero disabitato.
Ma anche dietro questa figura si riconosce un evento capitale di storia del pensiero: la riscoperta, verso la fine del sec. XII, della filosofia di Aristotele, un potentissimo sistema concettuale che obbligò i teologi cristiani a un drammatico confronto e a un arduo tentativo di conciliazione. Alcuni pensatori, come Sigieri di Brabante (pure collocato da Dante fra i beati cultori della Sapienza), si spinsero fino all’enunciazione di certe “verità di ragione” non integrabili alla “verità di fede”.
Il naufragio dell’Ulisse dantesco è simbolo dei limiti imposti alla ragione umana quando non sia assistita dalla fede, ma è anche la rappresentazione di una realtà più profonda, e positiva. Il cristiano Dante non poteva non identificare la perfezione del sapere con la beatitudine oltremondana, ma la sua sensibilità e la sua fantasia realistica gli permisero di cogliere e rappresentare, nella sconfitta di Ulisse, quel desiderio di conoscenza che nell’uomo è sempre vivo e vitale proprio perché non giunge mai a una “perfezione” che coinciderebbe con l’immobilità e la morte.
Contro ogni superficiale rilevazione di un eventuale “rispecchiamento” della realtà sociale, Marx invita a studiare le creazioni dell’arte e della letteratura «partendo dalle contraddizioni della vita materiale, dal conflitto in atto tra le forze sociali di produzione e i rapporti di produzione» (Per la critica dell’economia politica. Introduzione, 1859). Come ogni “classico”, l’opera di Dante rappresenta le contraddizioni di una fase storica. Le prime energiche formazioni di economia mercantile in città come Firenze, appaiono al Poeta quali manifestazioni diaboliche. Allo stesso modo, il tramonto di un ordine politico aristocratico, che ha il suo vertice nell’Imperatore, gli si presenta - rovesciato - in termini apocalittici, come preparazione di un definitivo e risolutivo intervento della divina Provvidenza.
La rappresentazione ideologica della “fine di un mondo” come “fine del mondo” ha permesso a Dante di concepire la realtà nella forma di un giudizio universale, cioè di assumere come proprio oggetto tutte le passioni dell’uomo, tutta la sua storia e tutto il cosmo in cui abita. Su questa base, egli ha potuto esprimere una rappresentazione artistica che per ampiezza e ricchezza ha un paragone (nell’ambito della letteratura europea) solo nell’opera di Shakespeare: la cui fresca, libera e multiforme poesia sorge piuttosto (volendo inseguire il paragone) sulla rappresentazione ideologica della “nascita di un mondo” - l’Inghilterra mercantile - come nuova “nascita del mondo”.
L’assunto che ogni creazione dell’arte e della letteratura è radicalmente caratteristica di una cultura storicamente determinata va oggi ribadito di fronte alle suggestioni provenienti, in particolare, dalle università nord-americane. In quegli ambienti, lo studio dei classici è minacciato da una persecutoria polemica moralistica, condotta in nome della “correttezza politica”, descritta molto bene nel romanzo tragico-grottesco di Philip Roth, La macchia umana. Per proteggere, in particolare, Dante da tali aggressioni, alcuni critici statunitensi ritengono di renderlo più “digeribile” alienandolo dalla morale del suo tempo, e presentandolo come tollerante verso l’omosessualità, verso gli ebrei o verso l’Islam; come “femminista”, portatore di tesi “rivoluzionarie”, “scomode” e “anticonformiste”, ovviamente rimosse e normalizzate dal conformismo cattolico e dal secolare commento. L’operazione è artificiosa, priva di fondamento filologico, antiscientifica e comunque di corto respiro.
I classici non si “difendono” evocandone una pretestuosa attualità, ma riconoscendone l’autentica e preziosa universalità.
Scrive Marx: «Non è difficile intendere che l’arte e l’epos dei Greci sono legati a certe forme dell’evoluzione sociale. Il problema è che per noi essi continuano a suscitare un godimento estetico [...] Un uomo non può tornare fanciullo, perché altrimenti diviene puerile. Ma non gode forse dell’ingenuità del fanciullo, e non deve esso stesso a riprodurre a un più alto livello la verità del fanciullo? E il carattere proprio di questa verità naturale non rivive forse in ogni epoca nella natura del fanciullo? E perché mai la fanciullezza storica dell’umanità, nel suo sviluppo più bello, non dovrebbe esercitare un eterno fascino come fase che più non ritorna?» (Introduzione alla critica dell’economia politica, 1857).
Nella prospettiva del materialismo, non c’è universalità fuori della storia, e non c’è nulla nella storia umana che non sia “universale”, ossia disponibile all’interesse e alla partecipazione di ogni intelletto umano, in qualsiasi tempo e luogo. Se «l’uomo è soprattutto creazione storica» (A. Gramsci, Socialismo e cultura, 1916), la conoscenza della storia altro non è che un viaggio nella nostra memoria profonda, alla scoperta di “come siamo diventati quello che siamo”. Ma perché questo “viaggio” non si risolva in un sogno ingannevole è indispensabile che i monumenti e i documenti del passato siano riconosciuti, per quanto è possibile, nella loro «verità effettuale»: ed è questo il compito della filologia.
Giorgio Inglese è ordinario di Letteratura italiana all’Università di Roma La Sapienza. E’ specialista di letteratura italiana medievale e moderna, e in particolare ha realizzato l’edizione del Principe di Machiavelli e ora, nel quadro della edizione nazionale, una nuova edizione della Commedia di Dante. Ha studiato con Alberto Asor Rosa e Gennaro Sasso e ha fatto parte dell’esperienza della rivista “Laboratorio Politico”. È stata appena pubblicato una sua raccolta di Studi danteschi per Carocci.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Oltre i limiti del viaggio di Ulisse - oltre la tragedia.... *
In cammino con Dante/1.
Così Dante porta sé stesso in Commedia
Inizia il cammino dell’italianista Carlo Ossola attraverso i personaggi delle tre cantiche che ci accompagnerà in questo anno del 700° dantesco. Partendo dall’autore, certo non mero scriba
di Carlo Ossola **
«Conosciamo Dante profondamente grazie a un fatto rilevato da Paul Groussac [ Tolosa, 1848 Buenos Aires, 1929]: che la Commedia è scritta in prima persona. [...] Bisogna ricordare che, prima di Dante, sant’Agostino aveva scritto le Confessioni. Ma queste confessioni, appunto in virtù della splendida retorica, non sono così vicine a noi come lo è Dante, poiché la retorica splendida dello scrittore africano si interpone tra quello che egli vuole dire e quello che noi percepiamo’ ( J.L. Borges, Sette Notti, I: La Divina Commedia).
L’osservazione di Borges è acuta: il viaggio di Dante è così possente che lo pensiamo autore soltanto, come se l’io del viator fosse solo l’ombra dello scriba; non occupa dei propri tormenti le pagine come il Rousseau delle Confessioni; anzi, il poema si legge come se Dante avesse fatto passare le Confessioni di sant’Agostino attraverso il vaglio d’eternità della Città di Dio.
Egli visita infatti le città di Dio (Inferno, Purgatorio, Paradiso terrestre, Paradiso) e ad esse si commisura, fragile e smarrito nella selva della tentazione. Egli si rivela poco a poco nel poema: conosciamo dapprima la sua paura di fronte alle fiere; sviene al racconto del dramma d’amore di Paolo e Francesca («E caddi come corpo morto cade», Inf., V, 142); gli salgono le lacrime al vedere la pena che flagella Ciacco (Inf., VI), la «sozza mistura / de l’ombre e de la pioggia»; da quel dialogo apprendiamo che Dante è originario di una città toscana, come conferma l’apostrofe, poco dopo, di Farinata degli Uberti: «“O Tosco che per la città del foco / vivo ten vai così parlando onesto”» (Inf., X, 22-23).
Al canto XV, si dichiara ch’egli è stato allievo di Brunetto Latini il quale gli raccomanda il suo Tesoro (v. 119). Ad ogni conversazione, Dante autore lascia trapelare un tratto dell’identità del personaggio, e specialmente nel Purgatorio negli incontri che più lo rivelano, nella sua quotidianità - di sorriso e di malinconia - come nel dialogo con Belacqua (canto IV), o nella complicità poetica con Casella, che gli intona la prima citazione dall’opera di Dante, Amor che ne la mente mi ragiona, canzone che apre il III libro del Convivio (II, 112 ss.).
Solo al culmine della montagna, purificato dai peccati, ma non ancora deterso da essi, nel Paradiso terrestre è rivelato da Beatrice il suo nome; l’incontro tanto agognato diviene, nell’apostrofe di Beatrice, severo discorso di dura condanna: «Dante, perché Virgilio se ne vada, / non pianger anco, non piangere ancora; / ché pianger ti conven per altra spada» (Purg., XXX, 55-57).
Dal punto di vista dell’autore (e anche del lettore) è facile allegorizzare: il viator è appena stato assolto dalla ragione, promosso nella sua pienezza umana, come gli assicura Virgilio: «libero, dritto e sano è tuo arbitrio / [...] per ch’io te sovra te corono e mitrio» (Purg., XXVII, 140142); ed ora è messo a prova dalla teologia, alla quale deve ascendere.
Ma Dante personaggio patisce: coronato e, subito dopo, condannato; ha forse ragione Borges quando osserva: «Infinitamente ebbe vita Beatrice per Dante. E Dante assai poco, o nulla, per Beatrice. Noi tutti tendiamo, per pietà, per venerazione, a dimenticare questa disdicevole discordanza, inobliabile per Dante» (Nove saggi danteschi)?
In effetti, in più luoghi del poema Dante autore giudica del viaggio di Dante personaggio, non meno di quante il personaggio confessi, di fronte all’ardua prova, il proprio limite: «Ma io, perché venirvi? O chi ’l concede? / Io non Enëa, io non Paulo sono; / ma degno a ciò né io né altri ’l crede. / Per che, se del venire io m’abbandono, / temo che la venuta non sia folle» ( Inf., II, 3135). Varcate le «gelate croste» di Lucifero e dell’Inferno, giunti i viatores di fronte alla montagna del Purgatorio, la voce dell’autore a sua volta esclama: «Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone» (Purg., III, 34-36).
Tra la «venuta ... folle» e il «Matto è chi spera» c’è stato il «folle volo» di Ulisse, definizione di una frontiera invarcabile del conoscere; per questo Dante conclude: «State contenti, umana gente, al quia» (Purg., III, 37); giudizio che Dante, personaggio ancora e non meno autore, ribadirà al sommo del Paradiso: «sì ch’io vedea di là da Gade il varco / folle d’Ulisse» (Par., XXVII, 82-83).
Dante pur tuttavia cresce - ascendendo di cielo in cielo - nella consapevolezza dell’infinità dei mondi e del mistero che lo attende e lo assorbe: la sua consacrazione più alta avrà luogo nell’incontro con Adamo ove, se seguiamo parte dei codici più antichi, quelli esemplati dal Boccaccio (in particolare il Chigiano L VI 213) nonché le stesse Esposizioni del Boccaccio alla Commedia, e infine la maggior parte degli incunaboli, il nome di Dante viene nuovamente pronunciato, dal primo padre dell’umanità, che autorizza il nuovo testimone della discendenza redenta: «L’altra persona, alla quale nominar si fa, è Adamo, nostro primo padre, al quale fu conceduto da Dio di nominare tutte le cose create; e perché si crede lui averle degnamente nominate, volle Dante, essendo da lui nominato, mostrare che degnamente quel nome imposto gli fosse, con la testimonianza di Adamo; la qual cosa fa nel canto XXVI del Paradiso, là dove Adamo gli dice: “Dante, la voglia tua discerno meglio”» (Boccaccio, Esposizioni, Accessus).
Questo crescere è un modellarsi all’umiltà: intanto quella del discipulus che, per tutto il viaggio, si affida a una guida: prima Virgilio (sino al Paradiso terrestre), poi Beatrice (sino al XXXI del Paradiso), poi san Bernardo, per gli ultimi tre canti; ma è altresì un ridivenire “fantolin”, “fantin” (Par., XXX, 82-87), perché soltanto chi si fa piccolo può - come conclude il paragone dantesco - “immegliarsi”, secondo il detto evangelico: «nisi [...] efficiamini sicut parvuli non intrabitis in regnum cælorum» (Matth., 18, 3).
Il crescere di Dante personaggio, ben oltre i limiti del viaggio di Ulisse, non è un affrancarsi che potenzia, un esercizio superoministico; ma un accogliere più luce e più mistero, un rimpicciolire perché la Gloria meglio “penetri e risplenda” (Par., I,2); è il divino splendore che deve crescere in noi, del quale il poema non sarà che favilla: «e fa la lingua mia tanto possente, / ch’una favilla sol de la tua gloria / possa lasciare a la futura gente» (Par., XXXIII, 70-72). Qui finalmente Dante personaggio e Dante autore vengono a coincidere: «povertà [di vita] e sapere e poesia, quale alleanza assicuratrice di giustizia!» (G. Ungaretti, Tra feltro e feltro, 1965).
** Fonte: Avvenire, domenica 21 marzo 2021 (ripresa parziale).
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA" di Federico La Sala (in un "quaderno" della Rivista "Il dialogo"), con prefazione di Riccardo Pozzo [2007].
#Dantedi
#26marzo
CON IL #QUINTODELLINFERNO (http://lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2758)
#Dante
si porta oltre l’orizzonte
della #caduta,
della #tragedia,
di #Edipo,
e
di #Costantino!
LETTERA APOSTOLICA
CANDOR LUCIS AETERNAE
DEL SANTO PADRE FRANCESCO
NEL VII CENTENARIO DELLA MORTE DI DANTE ALIGHIERI *
Splendore della Luce eterna, il Verbo di Dio prese carne dalla Vergine Maria quando Ella rispose “eccomi” all’annuncio dell’Angelo (cfr Lc 1,38). Il giorno in cui la Liturgia celebra questo ineffabile Mistero è anche particolarmente significativo per la vicenda storica e letteraria del sommo poeta Dante Alighieri, profeta di speranza e testimone della sete di infinito insita nel cuore dell’uomo. In questa ricorrenza, pertanto, desidero unirmi anch’io al numeroso coro di quanti vogliono onorare la sua memoria nel VII Centenario della morte.
Il 25 marzo, infatti, a Firenze iniziava l’anno secondo il computo ab Incarnatione. Tale data, vicina all’equinozio di primavera e nella prospettiva pasquale, era associata sia alla creazione del mondo sia alla redenzione operata da Cristo sulla croce, inizio della nuova creazione. Essa, pertanto, nella luce del Verbo incarnato, invita a contemplare il disegno d’amore che è il cuore stesso e la fonte ispiratrice dell’opera più celebre del Poeta, la Divina Commedia, nella cui ultima cantica l’evento dell’Incarnazione viene ricordato da San Bernardo con questi celebri versi: «Nel ventre tuo si raccese l’amore, / per lo cui caldo ne l’etterna pace / così è germinato questo fiore» (Par. XXXIII, 7-9).*
Già nel Purgatorio Dante rappresentava, scolpita su una balza rocciosa, la scena dell’Annunciazione (X, 34-37.40-45).
Non può dunque mancare, in questa circostanza, la voce della Chiesa che si associa all’unanime commemorazione dell’uomo e del poeta Dante Alighieri. Molto meglio di tanti altri, egli ha saputo esprimere, con la bellezza della poesia, la profondità del mistero di Dio e dell’amore. Il suo poema, altissima espressione del genio umano, è frutto di un’ispirazione nuova e profonda, di cui il Poeta è consapevole quando ne parla come del «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» (Par. XXV, 1-2).
Con questa Lettera Apostolica desidero unire la mia voce a quelle dei miei Predecessori che hanno onorato e celebrato il Poeta, particolarmente in occasione degli anniversari della nascita o della morte, così da proporlo nuovamente all’attenzione della Chiesa, all’universalità dei fedeli, agli studiosi di letteratura, ai teologi, agli artisti. Ricorderò brevemente questi interventi, focalizzando l’attenzione sui Pontefici dell’ultimo secolo e sui loro documenti di maggior rilievo. [...]
In questo particolare momento storico, segnato da molte ombre, da situazioni che degradano l’umanità, da una mancanza di fiducia e di prospettive per il futuro, la figura di Dante, profeta di speranza e testimone del desiderio umano di felicità, può ancora donarci parole ed esempi che danno slancio al nostro cammino. Può aiutarci ad avanzare con serenità e coraggio nel pellegrinaggio della vita e della fede che tutti siamo chiamati a compiere, finché il nostro cuore non avrà trovato la vera pace e la vera gioia, finché non arriveremo alla meta ultima di tutta l’umanità, «l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Par. XXXIII, 145).
Dal Vaticano, 25 marzo, Solennità dell’Annunciazione del Signore, dell’anno 2021, nono del mio pontificato.
Francesco
* PER IL TESTO INTEGRALE, CFR. -> VATICAN.VA.
Dante Alighieri: uno scrittore medioevale del Novecento
La storia della fortuna critica della Commedia è la dimostrazione che si può considerare Dante uno scrittore essenzialmente “moderno”, forse l’unico capace di penetrare il senso profondo delle tragedie del nostro Novecento.
di Corrado Bologna (La ricerca, 27 Giugno 2012)
Una ferita, una sola, la mia amata maestra mi inflisse, alle scuole elementari: e il modo ancor m’offende (anche se più tardi capii che si trattava di una ferita iniziatica, dal valore terapeutico). Avrò avuto nove o dieci anni, incominciavo a cibarmi e a dissetarmi con i libri; e un bel giorno entrai in classe felice, entusiasta, sventolando un libretto dalla copertina rigida color crema, di cui ricordo il titolo (Dante, mistico pellegrino), ma non l’autore. Si trattava della parafrasi della Commedia, scoperta negli scaffali di casa, per me ben presto troppo magri, e bevuta con passione trascinante. Non sapevo nulla di Dante, ovviamente, e neppure della Commedia, che per me non era ancora “divina”.
Però, in maniera confusa, intuivo che quel libro antico e difficile, aspro, strano, doveva contenere messaggi grandi e profondi. La storia di quel viaggio all’altro mondo mi sembrava complicata, anche assurda, con la sua marea di personaggi, di luoghi, di figure, d’idee; ma ero affascinato dall’altezza d’ingegno dello scrittore, dalla sua invenzione sconfinata e dal rigore di diamante che scandiva il cammino del testo. Incredibilmente la maestra, dalla quale mi aspettavo approvazione, s’infuriò: non ammetteva che io avessi letto e ora esaltassi il mio innocente, ma per lei trasgressivo e blasfemo, Dante in prosa.
Non capii, allora, le ragioni e il senso della contestazione, e rimasi malissimo. Anni più tardi, leggendo infine Dante in poesia, incominciai a rendermi conto della difficoltà e del fascino sconfinato di quelle rime, di quei ritmi, di quelle strutture complesse, necessarie, non eliminabili, non parafrasabili. Intuii a poco a poco che quel che contava e non poteva ridursi a “racconto”, a “parafrasi”, appunto, erano proprio le forme, la forma del contenuto pulsante nell’intreccio ininterrotto dell’energia prosodica e di quella semantica fluenti nella versificazione.
Capii, leggendo e rileggendo, che l’alterità di Dante, la sua assoluta inattualità, sono rappresentate perfettamente dalle straordinarie strutture formali del suo capolavoro, gotiche e scolastiche, cattedrali di parole e di ritmi. Anni dopo mi imbattei nel saggio di Croce su Dante, che negando il valore “poetico” della “struttura” (la terzina, le tre cantiche di trentatrè canti più uno introduttivo, la perfezione centenaria, gli innumerevoli richiami interni da magnifica mnemotecnica spirituale) cancellava il senso di quell’immenso esercizio di passione e d’intelligenza struttiva. Lo rifiutai con fermezza, da adolescente che s’innamora delle avventure intellettuali sublimi e respinge la tentazione di razionalizzare secondo categorie astratte, preferendo lo sciame allo schema.
D’altra parte erano gli anni dello strutturalismo e della semiologia, e la Commedia sembrava fatta apposta per svolgere sofisticati esercizi di lettura su quello stupefacente poliedro di parole e d’immagini dagli equilibri cristallini, imperniati su richiami a distanza, su un tappeto significativo d’intertestualità e d’intratestualità, dal profondo valore ideologico e poetologico. Poi furono i maestri della filologia e della storia a riprendere per me, con me, in direzione construens, il lavoro avviato dalla mia maestra sul piano destruens. A sedurmi fu allora la forza, la profondità, l’innovatività della presenza di Dante nel Novecento.
Studiando la tradizione e la fortuna dei classici vidi con chiarezza che, dopo le Prose della volgar lingua di Bembo, già intorno alla metà del Cinquecento, il sole dantesco si eclissa, scompare dall’orizzonte culturale. La gloriosa, vivida presenza che riverberandosi in infiniti echi di memoria poetica nel Canzoniere petrarchesco, nel Decameron, nell’Orlando Furioso, aveva dominato la cultura e la lingua dei grandi libri italiani ed europei, d’improvviso diventava tenebra, vuoto.
La scoperta per me fu progressiva, ma tremenda. Non mi davo ragione che il Seicento e il Settecento fossero stati “secoli senza Dante”: come avevano potuto sopravvivere, quelle età, senza la Commedia? Nella sua edizione critica Giorgio Petrocchi non ricordava neppure una stampa del poema nel secolo di Caravaggio e di Borromini, e solo quattro in quello di Parini e di Voltaire (l’ultima, nel 1795, era stata impressa a Parma dal grandissimo Bodoni). A fronte di decine e decine di edizioni dei Rerum vulgarium fragmenta, che per secoli impressero un segno radicale alla lirica, l’uscita di scena della Commedia costituisce una perdita immensa: un intero universo figurale si dissolve, quasi irreparabilmente.
Certo, i grandi non dimenticheranno mai Dante, anche in questo lunghissimo periodo caliginoso. Le angosce notturne di Renzo fuggitivo da Milano nella foresta che costeggia l’Adda, nel capitolo XVII dei Promessi Sposi, nell’“orrore indefinito” di quel gelo che lascia balenare fra gli alberi “figure strane, deformi, mostruose”, deriva certo dalla viva memoria del XIII canto dell’Inferno, con il suo “bosco” ombroso (“di color fosco”) e atrocemente metamorfico (“Uomini fummo, e or siam fatti sterpi”). L’ispirazione dell’Infinito leopardiano s’intreccia senza dubbio con la meditazione sul Paradiso dantesco, fino al riverbero figurale del “gran mare dell’essere” (Par., I 113 ), “quel mare al qual tutto si move” (Par., III 86), nel “naufragar m’è dolce in questo mare”. E come trascurare il riflesso sonoro, cromatico, nel Passero solitario, di uno fra gli incipit più geniali e commoventi della Commedia, quello dell’VIII canto del Purgatorio (“...e ’ntenerisce il core” / “...sì ch’a mirarla intenerisce il core”).
Però il Dante dell’Ottocento è tutto legato alle immaginette infernali di Francesco De Sanctis, al suo teatrino di personaggi, di luoghi, di emozioni. E la critica dantesca di tutto il secolo romantico alternerà questo artificioso sentimentalismo al più secco accertamento di dettagli, in un pulviscolo aneddotico senza punti di vista complessivi. A ripensarla per intero, con poche eccezioni, la critica dantesca del XIX secolo è impressionistica, positivistica, lontana dal centro ideale e ideologico del poema, dalla sua smisurata esattezza e complessità.
Dante, di fatto, è uno scrittore medioevale del Novecento. La natura autentica della Commedia, che è insieme il Libro dell’Universo e la ricapitolazione e riscrittura di una civiltà millenaria, dopo tanto silenzio la scoprono i poeti e gli artisti, ancor prima e più a fondo dei filologi: anche se accanto agli artisti fioriscono presto i grandi critici, l’edizione di Giorgio Petrocchi, le Rime di Gianfranco Contini e poi di Domenico De Robertis, le ricerche filosofiche di Bruno Nardi, i grandi commenti scolastici che “hanno fatto gli italiani” (e non solo loro), Sapegno, Bosco, Singleton, Chiavacci Leonardi, il mio amatissimo Attilio Momigliano.
I primi due poeti ermeneuti di Dante sono distanti nello spazio e nelle posizioni di poetica e di estetica: Giovanni Pascoli ed Ezra Pound. Sotto il velame (1900) e La mirabile visione (1902) di Pascoli e The Spirit of Romance di Pound (1910) rivelano lo spessore e la profondità dell’allegorismo dantesco, riconoscendone l’origine medioevale, soprattutto teologica e filosofica.
A poco a poco il “naturalismo” di tanti paragoni, la “spontaneità realistica” di tante immagini, lasciano tralucere, appunto “sotto il velame”, la severa ricchezza allegoristica in linea con quella di Ugo e soprattutto di Riccardo di san Vittore, che brillano, prima impensati, insieme con i più evidenti Tommaso, Bonaventura, Bernardo, nei saggi sulla Commedia di Pascoli e di Pound. E con loro appaiono sulla superficie il “pensiero poetante” di Cavalcanti, l’agostinismo capace di attenuare le posizioni rigidamente aristoteliche che Dante assunse dal tomismo, ma soprattutto la mirabile potenza creatrice della metafora nell’ispirazione della Commedia. La densità dei saggi danteschi di Pound e di Eliot, inventores della poesia novecentesca, matura e si deposita in una riflessione profonda, radicale, sulla tradizione dello “spirito romanzo”, che essi avrebbero fatto riecheggiare nella sperimentazione di tanta avanguardia, fino al Gruppo ’63 di Giuliani e Sanguineti, sapienti rielaboratori della letteratura medioevale.
Né a caso Giuliani aprì l’antologia I Novissimi con l’evocazione del sovvertitore Pound ma anche, insieme con lui, dei rigorosi filologi e linguisti romanzi Väänänen e Norberg. Quanti trovatori provenzali, quanto Cavalcanti, quanto Dante nelle avanguardie del Novecento! Mi conquistò il cuore e la mente la meraviglia metaforica da moderno allegorista (il passo di danza, l’alveare, la fiamma e il cristallo dalle 13.000 facce-versi) con cui la bellissima Conversazione su Dante di Osip Mandel’štam, amico dei formalisti e dei futuristi, coglieva, negli anni Trenta, la formidabile e inattuale modernità del poema, offrendone una delle immagini più strazianti del nostro tempo. Ma fu anche, a conquistarmi alla forza di Dante poeta moderno, lo splendido sorriso metaletterario dei Nueve ensayos dantescos di Borges, con quell’idea geniale che la Commedia Dante l’abbia scritta per propiziare un nuovo “incontro in un sogno”, in Paradiso, con la perduta Beatrice, dunque per riconquistare l’ala svettante di un suo sorriso.
“Dante si può leggere solo al futuro”, scriveva Mandel’štam: è il futuro presente, la latitudine di un meridiano ideale che segna un “Nord del futuro”, e che si riverbera nella poesia di Paul Celan.
È vero, Dante va coniugato al futuro. Siamo noi quel futuro. Il nostro presente è in qualche misura il futuro che il suo pensiero contiene, e attraverso Dante possiamo riconoscere nelle migliori realtà del tempo che viviamo quello che parafrasando un magnifico titolo di Carlo Ossola chiamerò “l’avvenire delle nostre origini”. Nella lingua del pappo e del dindi si stratifica e si sublima l’intera tradizione antica, che si fa germe di speranza, seme di pensiero e di emozione: Omero che si nutre al seno delle Muse; Virgilio che Stazio riconosce come “mamma” e “nutrice”; ma anche Leopardi che torna alla poesia con il Risorgimento e A Silvia, uscendo da un periodo di aridità d’ispirazione proprio attraverso lostudio di Dante; e l’immagine bellissima di Andrea Zanzotto, il quale nella prosa con cui conclude la raccolta delle liriche di Filò, scritte per il Casanova di Fellini, nel 1976, della lingua poetica dichiara che noi “non sap[piamo] di dove venga”, perché arriva da sola, come un’epifania materna, arcaica: “Viene, monta come il latte”; “à inte ’l [s]o saór / un s’cip del lat de la Eva”, “nel suo sapore sapiente c’è un gocciolo del latte di Eva”. Il poema dantesco, dice Osip Mandel’štam,
Così, nel Discorso su Dante (1933), forse il saggio dantesco più profondo e originale di tutto il Novecento, Mandel’štam volge in straordinarie immagini metaforiche, che Dante avrebbe amato, la struttura cosmica della Commedia. In faccia alla morte, nel gulag di Stalin, questo poeta-glossatore di genio traduceva in russo per i suoi compagni di sventura Dante, Petrarca e l’Ariosto: per leggerli aveva imparato l’italiano, “la più dadaistica delle lingue romanze”, innamorandosi, attraverso la Commedia, della “puerilità della fonetica italiana”, del suo “bellissimo infantilismo”, della sua “affinità con un melodico balbettio, con un dadaismo originario”.
Lo stesso gesto straziato e ineludibile, anacronistico e umano, compirà pochi anni più tardi, ad Auschwitz, l’ebreo italiano Primo Levi, mentre in fila per la zuppa di cavolo nero si preoccuperà non di far sopravvivere grazie a quel miserabile cibo il suo povero corpo già spossato, ma di riscattare l’umanità della vita con l’atto umanistico di riportare alla luce dalla memoria profonda della mente brandelli del canto di Ulisse, il XXVI dell’Inferno, per tradurlo in francese a Pikolo, balbettando a una a una le sillabe strappate all’oblio con fatica e dolore:
“Nella squallida attesa del niente”, là dove l’essere dell’individuo è ridotto al puro stato di sopravvivenza biologica, la soglia dell’umanità è degradata perché sono degradate e svilite sia la vita, sia la morte. Su quella soglia rimane unicamente (sono parole di Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone) “la larva che la nostra memoria non riesce a seppellire, l’incongedabile col quale dobbiamo deciderci a fare i conti”. Il senso profondo di Se questo è un uomo è che “il nome uomo si applica innanzi tutto al nonuomo”, e che “testimone integrale dell’uomo è colui la cui umanità è stata integralmente distrutta”: “L’uomo è colui che può sopravvivere all’uomo”.
Questa soglia ultima del Lager, ma talvolta anche della vita nelle sue fasi più dolorose e disperate, è un dispositivo di disumanizzazione, “una gran macchina per ridurci a bestie”: e “noi bestie non dobbiamo diventare”. Nel luogo fisico e mentale in cui la soglia dell’esistenza è esilissima, “per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà” (a parlare è ancora Primo Levi). La Commedia sembra porsi come il baluardo di questa soglia, come il teatro della memoria che contiene, ripensa, ricanta in poesia altissima, l’intero universo, tutta la storia umana, tutti i libri scritti e letti, tutti i personaggi che hanno meritato di essere ricordati o invece di essere dimenticati, tutte le utopie e le speranze dell’umanità.
Dante Alighieri: uno scrittore medioevale del Novecento
La storia della fortuna critica della Commedia è la dimostrazione che si può considerare Dante uno scrittore essenzialmente “moderno”, forse l’unico capace di penetrare il senso profondo delle tragedie del nostro Novecento.
di Corrado Bologna (La ricerca, 27 Giugno 2012)
In quel luogo estremo l’umanità riconosce la propria finitudine, la propria irreparabile debolezza. Dante è stato il più acuto interprete di questa frale natura.
Nel XXX canto del Purgatorio, nell’istante in cui incontra nuovamente Beatrice dopo una siderale assenza (dalla metà della Vita nova in poi è assente nell’opera dantesca), Dante perde Virgilio, che è già ammutolito dall’ultimo verso del canto XXVII, in cui ha incoronato la nuova maturità umana e poetica dell’allievo. Lo svanire di Virgilio è la scomparsa della madre per il bimbo spaventato (“volsimi a la sinistra col respitto / col quale il fantolin corre a la mamma / quando ha paura o quando elli è afflitto”: Purg., XXX 37-45).
In tutta la Commedia Dante ha paura, trema, cerca una mamma. Non ha alcun pudore di dirci: come voi, ho paura; però seguìtemi, e ci riscatteremo insieme.
In vetta al Paradiso, nel momento in cui sta rappresentando le più alte, difficili, ineffabili verità, Dante torna ad essere un bambino piccolissimo, allattato al seno materno: “Omai sarà più corta mia favella, / pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante / che bagni ancor la lingua a la mammella” (Par., XXXIII 106-108). Mandel’štam, da poeta, per primo ha sentito che in questo cadere, in questo esser vinto dalla paura (“...esta selva selvaggia e aspra e forte / che nel pensier rinova la paura!”), risiede la natura più umana di Dante, la sua forza, il suo coraggio di condividere con tutti gli uomini il più fragile degli affetti, e io credo anche il più moderno: la tenerezza, limite emozionale della vita.
L’infante e il balbuziente, chi inciampa nelle parole e chi non sa ancora trovarle, sono per Mandel’štam, e per noi tutti dietro a lui, l’emblema di una ricerca che non si appaga nell’illusione del sublime e della sua conquista, ma accetta le difficoltà e i rischi, la perdita e l’annientamento:
La memoria, la scrittura, così come la cura di un oblio che aiuti a ricostruire senza dimenticare, una difficile quanto necessaria ars oblivionis che selezioni e orienti “l’uomo a sopravvivere all’uomo”, divengono una necessità della vita, le restituiscono il dinamismo e la forza fluttuante che strappa dall’oblio e dalla stasi. “La cultura, memoria iniziatrice, che restituisce iniziativa e movimento”: così Ernst Robert Curtius concludeva, citando il poeta Vjačeslav Ivanov vissuto in Russia ai tempi di Mandel’štam e morto in Italia, nell’Epilogo di Letteratura europea e Medio Evo latino, dopo un grande capitolo su Dante.
“Nella odierna situazione spirituale”, scriveva Curtius nel 1948 (ma credo che potremo ribadire l’idea anche nella situazione spirituale dei nostri giorni), “non v’è alcuna esigenza che appaia tanto imperiosa come quella di ristabilire la “memoria”. [...] Il dimenticare è, in taluni casi, altrettanto necessario del ricordare. Occorre saper dimenticare molte cose, se si vuole custodire ciò che è essenziale”.
Si può dimenticare tutto, ma non Dante. La domanda fondamentale, di fronte al gesto di Mandel’štam e di Levi, che con la rete slabbrata della memoria, per sospendere nell’oblio il presente assurdo del campo di concentramento, combattono per richiamare alla vita i versi della Commedia, è dunque: come e perché questo libro immenso e di altissimo ingegno, in cui forma e contenuto si rispecchiano in una perfezione di struttura e d’idea, sembra naturalmente instaurare, più di qualsiasi altro, soprattutto una relazione diretta con la vita e con la morte, con le loro radici affondate nel destino umano, nel punto più profondo della nostra esistenza?
La Commedia, ora che ne abbiamo scoperto e accettato l’inattualità di libro medioevale, ci appare il più moderno dei libri, il più novecentesco. Ci sembra che abbia immagazzinato e metabolizzato tutti i libri che lo hanno preceduto, tutta la tradizione, per offrircela rinnovata. E soprattutto ci pare che contenga, più di qualsiasi altro libro, un’idea di perfezione esatta e dinamica, di compiutezza logica e di geometrica quadratura delle passioni, ma anche di salvezza e di felicità per l’uomo: per ogni singolo uomo e per tutta l’umanità.
Ormai possiamo leggere la Commedia come il cielo stellato in cui proiettiamo i nostri sogni. Fatichiamo a decrittare i disegni che noi stessi vi abbiamo riconosciuto e deposto, ma come bambini a bocca aperta leggiamo questo libro pieno di stelle, che al modo dei sogni si manifestano chiedendo comprensione, invitandoci a capirli al nostro risveglio. Quei sogni, quelle stelle, quel libro, sono stati creati per risvegliarci.
Corrado Bologna. Professore Ordinario di Letterature romanze medioevali e moderne presso la Scuola Normale Superiore di Pisa..
Giovedì la Lettera apostolica del Papa
Ravasi: «Dante, profeta di speranza»
Il cardinale illustra l’attualità anche religiosa dell’autore della Commedia. La Candor Lucis æternæ di Francesco, dedicata al Poeta, esce il 25 marzo, giorno di inizio del viaggio raccontato nel poema
di Gian Guido Vecchi *
«Dante è davvero un profeta di speranza, come lo considera Papa Francesco. Nel tempo della pandemia viviamo un periodo di dolore, paura, sconforto. Anche Dante ha vissuto un periodo così e ci ha mostrato come la grande poesia e la fede possano fiorire anche in un terreno devastato».
Il cardinale Gianfranco Ravasi sorride, «la Divina Commedia è un viaggio, un grande cammino che comincia il 25 marzo», e proprio giovedì sarà pubblicata la Lettera Apostolica Candor Lucis æternæ di Papa Francesco, dedicata a Dante Alighieri: il riferimento è al «candore de la etterna luce» che Dante, nel terzo trattato del Convivio, cita dal Libro della Sapienza.
Nella tradizione della Chiesa, il 25 marzo è il giorno dell’Annunciazione e anche della morte di Gesù, la data prossima all’equinozio di primavera che la dantistica indica (ma c’è chi opta per il Venerdì Santo del 1300, cioè l’8 aprile) come giorno d’inizio della Commedia. Il testo del Papa, come le iniziative programmate dal pontificio Consiglio della Cultura guidato dal cardinale Ravasi, mostra tutta l’attenzione della Santa Sede per Dante, nel settecentesimo anniversario di morte.
Eminenza, che cosa ci racconta, oggi, questo viaggio?
«Ciò che regge il cammino di Dante, il nostro cammino, è la speranza. Il viaggio comincia dall’Inferno, nel realismo del sottosuolo, nel fango della storia, la terra come «l’aiuola che ci fa tanto feroci» vista dall’alto del Paradiso, al canto XXII. Ma non è che finisca con il dolore irrimediabile di cerchi, gironi e bolge. Nel Purgatorio c’è la rappresentazione simbolica del passaggio dal peccato alla catarsi alla liberazione, dell’intreccio tra grazia divina e libertà umana. Ad esempio, quando nel canto terzo mette in scena la figura di Manfredi, che era stato trafitto da due colpi di spada...».
«...mentre che la speranza ha fior del verde».
«Proprio così. Manfredi, figlio illegittimo di Federico II, era stato scomunicato. E mentre sta morendo si rivolge a “quei che volontier perdona”, a Dio. Sono versi fondamentali: “Orribil furon li peccati miei;/ ma la bontà infinita ha sì gran braccia/ che prende ciò che si rivolge a lei”. Questa è la parabola del figliol prodigo: fino all’ultimo il Padre ti tende le “gran braccia”. Dante, oltre che poeta sommo, è un grande cristiano. Ed è di casa in Vaticano...».
In che senso?
«Nella Stanza della Segnatura, Raffaello lo rappresenta due volte. Nella cosiddetta Disputa del Santissimo Sacramento, sintesi della dottrina trinitaria, appare tra Agostino e Tommaso d’Aquino, come un teologo che annuncia la verità divina. La seconda immagine, col suo profilo segaligno, lo raffigura sul Parnaso come poeta, con Omero e Virgilio: la via pulchritudinis, la bellezza che parla anche a chi non crede. Interessante l’ interpretazione duplice: Dio gli ha dato il dono della poesia e lo ha incaricato di dire la verità. Il bello e il vero uniti».
Francesco è il terzo Papa a scrivere un testo ufficiale così importante su Dante.
«Sì, il primo fu Benedetto XV: nel 1921 compose un’enciclica, In Praeclara Summorum. Ma il Papa che in assoluto ha cantato più Dante è Paolo VI, che nel 1965 gli dedicò la Lettera Apostolica Altissimi cantus, un testo bellissimo. Da un lato scriveva “Dante è nostro”, non come trofeo ma per affermarne l’universalità e dire che vi si scoprono i tesori del pensiero e del sentimento cristiano. Dall’altra ammetteva: “Né rincresce ricordare che la voce di Dante si alzò sferzante e severa contro più d’un Pontefice romano, ed ebbe aspre rampogne per istituzioni ecclesiastiche e per persone che della Chiesa furono ministri e rappresentanti”».
In effetti nella «Commedia» abbondano i Papi all’inferno: nella terza bolgia dei simoniaci, ficcato a testa in giù in un pozzo occupato da svariati predecessori, Niccolò III si illude che Bonifacio VIII sia arrivato in anticipo e annuncia Clemente V...
«Sì, ci mette pure Papi ancora vivi! Del resto, negli anni del Concilio ero a Roma e ricordo che Paolo VI volle regalare a tutti i padri riuniti nelle Assise un’edizione della Divina Commedia...».
Sulla corruzione della Curia e della Chiesa è durissimo: «A la puttana e a la nova belva», scrive nel canto XXXII del Purgatorio. Forse non è un caso che i Papi ne abbiano scritto solo dopo la fine del potere temporale: imbarazzava la Chiesa?
«Probabilmente sì. Certo lo si celebrava: a chiamare Raffaello fu Giulio II, che magari Dante avrebbe messo, pure lui, all’inferno! Però lo si teneva un po’ a distanza. Era difficile elaborare la critica generale sulla corruzione della Chiesa: per questo fu molto significativo il dono di Paolo VI ai padri conciliari».
Dante è bellissimo da leggere, ma non facile...
«Michelangelo diceva di lui: “Simil uom né maggior non nacque mai”. Dispiega un’infinità di temi teologici, filosofici, astronomici, storici... Ci sarebbe un’infinità di cose da dire. Si pensi alla centralità delle figure femminili, Maria, Beatrice, Lucia...O alla visione della Trinità, al termine del Paradiso, che al centro “mi parve pinta de la nostra effige”: la nostra immagine, l’immagine del Cristo, il senso dell’essere nel volto umano...Chi non ha almeno una conoscenza essenziale della teologia non riesce a percorrere appieno questo viaggio. Inviterei la cultura contemporanea a non considerare la teologia come una cosa marginale, vecchia, decotta...».
Accade questo?
«Purtroppo sì. E invece qui vediamo la potenza di un pensiero che si fa poesia. In Dante si mostra quanto il pensiero cristiano sia importante nella cultura laica. Ed è drammatico il fatto che si tenda a insegnarlo in maniera superficiale, nelle scuole. Magari puoi scrivere note esplicative ma devi far capire la passione che animava Dante: un credente fervido e indefettibile. Non ti fa decollare dalla realtà: c’è l’inferno, tutti i vizi e le tragedie della storia le ha rappresentate. E poi c’è la forza della trasfigurazione, il “trasumanar” della redenzione cristiana. Lui è vissuto di quello».
Cosa dice Dante alla Chiesa, ancora oggi?
«L’autenticità del messaggio, senza compromessi mondani. E il coraggio della sincerità, anche nell’autocritica. -È la parresía che ci indica Francesco, segno di libertà interiore e di conversione».
Un poeta lo si celebra leggendolo. Che cosa direbbe per invitare a farlo?
«Le parole che confessava Jorge Luis Borges, grande poeta argentino che Francesco ha conosciuto, a proposito della Divina Commedia: “Nessuno ha il diritto di privarsi di questa felicità”».
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Controparola/
Donne al futuro
di Francesca Rigotti (Doppiozero, 20 marzo 2021)
Da quando ho scoperto che nella grammatica esistono termini marcati e termini non marcati - me li ha spiegati un illustre linguista amico di tastiera - non dico che non dormo di notte ma quasi. I termini non marcatI, se ho capito bene, sono dominanti e includenti: per esempio il termine «giorno», che comprende il giorno e la notte; notte invece è un termine marcato, giacché designa soltanto il tempo dell’oscurità. Non marcato è uomo (ci avviciniamo al tema) in quanto comprende se stesso e anche la donna, la quale invece, guardacaso, è marcata quale «soltanto» donna.
Dovevo ripensare a questa disparità grammaticale nel leggere Donne al futuro, raccolta di saggi di donne che parlano «soltanto» di altre donne, uscito per il Mulino a cura delle amiche di Controparola. Si tratta di un gruppo di scrittrici e giornaliste, nato nel 1992 per iniziativa di Dacia Maraini, che ha pubblicato diversi libri sulle donne tra i quali Donne del Risorgimento, Donne nella Grande Guerra, nella Repubblica, nel Sessantotto e ora al futuro. Sono Paola Cioni, Eliana Di Caro, Paola Gaglianone, Dina Lauricella, Lia Levi, Dacia Maraini, Cristiana Palazzoni, Maria Serena Palieri, Valeria Papitto, Linda Laura Sabbadini, Francesca Sancin, Cristiana di San Marzano, Mirella Serri, cui si deve Donne al futuro (il Mulino, Bologna 2021). Sempre e soltanto donne. O donne sole, si potrebbe anche dire, che è un’espressione un po’ deprimente ma anche molto divertente, a leggerla con ironia, e con la quale si intendono donne in compagnia di altre donne ma non di uomini. Mentre la dicitura per soli uomini sta per luoghi e/o attività in cui le donne non possono entrare e a cui non devono partecipare (e così è intitolata l’eccellente analisi statistica Per soli uomini. Il maschilismo dei dati, dalla ricerca scientifica al design, appena pubblicata da Codice Edizioni e condotta dalla giornalista Emanuela Griglié e del collega Guido Romeo).
Le donne al futuro di questo libro, soltanto donne marcate nella loro donnità, sono di fatto figure straordinarie, proiettate, come dice il titolo, al futuro o declinate al futuro, visto che siamo partiti dalla grammatica (che innocentemente mi costringe qui a scrivere al maschile benché io sia donna che scrive di donne che scrivono di donne. La lingua sarà anche colpevole ma non nel modo semplificato e a tratti oltraggioso che le attribuiscono le interpretazioni corrive, come spiega puntualmente l’amico linguista il cui nome adesso svelo, Nunzio La Fauci, ma la dice lunga). Donne giovani che lavorano per fabbricare il futuro con l’arte e la musica, l’architettura e l’astrofisica; con l’impegno civile e umanitario (donnitario?), con la ricerca medica, l’economia, la pratica sportiva e l’insegnamento.
Le elenco qui tutte in fila in ordine alfabetico: Alice Pasquini (AliCè), Paola Antonelli, Marica Branchesi, Francesca Bria, Ilaria Capua, Silvia Colasanti, Ilaria Cucchi, Emma Dante, Sara Gama, Rita Giaretta, Giuseppina Multari, Eliana La Ferrara, Laila Abi Ahmed e Isabella Mancini, Barbara Riccardi, Fulvia Signani e le altre, Beatrice Vio. Un ricordo è dedicato alla cittadina del mondo Agitu Ideo Gudeta, uccisa nel dicembre scorso in Trentino, dove si era trasferita e portava avanti la sua attività di imprenditrice.
Non potendo parlare di tutte ho scelto di citarne una sola, l’unica tra l’altro che mi era del tutto ignota, lo confesso e chiedo venia: Sara Gama. Sara Gama, classe 1989, madre triestina e padre congolese, capitana della Nazionale azzurra femminile di calcio nonché vicepresidente dell’Assocalciatori (termine non marcato che comprende anche le calciatrici mentre le calciatrici, marcate dall’essere soltanto donne, non comprendono i calciatori).
Sara Gama, ho scoperto, non soltanto gioca al calcio femminile da quando era una bambinetta ma rivendica anche, per quel calcio di donne, assicurazione sanitaria, previdenze, stipendio e soprattutto dignità. Studentessa liceale, studentessa universitaria - sulla storia del calcio femminile in Europa ha anche scritto la tesi - Sara Gama, che nell’immagine di copertina sembra, coi suoi bei capelli ricci, l’Italia turrita, nel discorso del 4 luglio 2019 al Quirinale, di fronte al presidente Mattarella, ha ricordato l’articolo 3 della Costituzione che sancisce la dignità di tutti i cittadini «senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
E questo grazie alle donne della Costituzione, le madri costituient, che contro l’opinione di alcuni padri della costituzione insistettero affinché nell’art. 3 venisse inserita la specificazione «di sesso», perché senza quella la conquista della parità sarebbe stata ancor più difficile di quanto già lo sia.
COME NASCONO I BAMBINI? LA “RISPOSTA” DELLA TRADIZIONE CATTOLICA NELLA RAPPRESENTAZIONE ARTISTICA...
SOLLECITANDO CON QUESTA “RIPRESA” UNA LODEVOLE E RINNOVATA ATTENZIONE AL TEMA DELLA “ANNUNCIAZIONE” NELLA RAPPRESENTAZIONE ARTISTICA E RICORDANDO CHE L’EVENTO “rappresenta il momento in cui l’arcangelo Gabriele annuncia a Maria il concepimento di Gesù e la sua incarnazione [...] il 25 marzo, precisamente nove mesi prima della Natività di Cristo”, e, che “Iconograficamente la composizione vede protagonisti la Vergine, la colomba dello Spirito Santo e l’angelo annunciante”, FORSE, è UTILE riconsiderare come nel “corso dei secoli è cambiato il modo di rappresentare il tema” E ANCORA, se si vuole, cominciare a riesaminare con attenzione proprio il “mosaico dell’Annunciazione” di Pietro Cavallini (del 1291 - vedi, sopra: la seconda figura dell’articolo) e, poi,proseguire con le opere specifiche degli artisti “fiamminghi quali Van der Weyden, Campin, i quali dipingono la Vergine colta nella sua quotidianità domestica all’arrivo dell’angelo Gabriele” - e osservare con attenzione, IN PARTICOLARE, l’immagine del pannello centrale della “ANNUNCIAZIONE” (https://it.wikipedia.org/wiki/Robert_Campin#/media/File:Robert_Campin_011.jpg) del “Trittico di Mérode” (1427) di Robert Campin (https://it.wikipedia.org/wiki/Robert_Campin).
Proseguendo e, non dimenticando di riflettere anche sulla rilevanza per gli artisti del lavoro del cardinale Gabriele Paleotti sulle immagini sacre (“Discorso intorno alle immagini sacre e profane”, del 1582), è opportuno arrivare all’attuale presente storico (il prossimo 25 marzo è anche il giorno della prima Giornata dedicata all’opera e alla memoria di Dante - il “Dantedì”) e ricordare quanto “poco fa”, proprio all’inizio del Terzo Millennio dopo Cristo, il CARDINALE CASTRILLON HOYOS (proprio come un artista del 1200 o del 1400) dichiarò alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio” (la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35).
Forse, in questo “Anno speciale di San Giuseppe” indetto da papa Francesco (cfr. “DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” .. https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/10/de-domo-david-39-autori-per-i-400-anni-della-confraternita-di-san-giuseppe-di-nardo/#comment-262319), sarà possibile sapere come nascono i bambini e le bambine e sarà possibile avere un’altra rappresentazione artistica della nostra stessa nascita?! Con Dante, non c’è affatto da dubitare: “L’amore muove il sole e le altre stelle” - e anche la Terra!
Buon lavoro...
#FILOLOGIA e #ARCHEOLOGIA. L’Uomo-#Sapienza di #Ruysbroec ("nel cuore di ogni uomo un #Ecco, cioè #Vedi, guarda"), il corteo "andrologico" dei #Magi (https://it.wikipedia.org/wiki/Cappella_dei_Magi), e l’«uomo» di #PonzioPilato («#Eccehomo»: gr. «idou ho #anthropos»), oggi... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5195 ...
in dialogo con il testo di Giorgiomaria Cornelio, Verumtamen in imagine pertransit homo, "Nazione Indiana".
FLS
Dante: alla ricerca di un dilettoso monte
La Divina Commedia è espressione di un’unità integrale, di per sé poco affine alla sensibilità moderna. Tuttavia, nel coraggio a perlustrare percorsi alternativi e nella propensione a navigare in spazi aperti, Dante conserva una sua definitiva attualità.
di Oreste Tolone ("Dialoghi", 01.03.2021)
Nel ricordo di alcuni importanti filosofi e letterati del Novecento Dante e la sua Commedia vengono associati, di frequente, alla voce e al movimento, al viaggio e al bisogno quasi fisico di pronunciare ad alta voce le sue parole. Come se in questo modo assumessero il loro vero contorno e ci convincessero della loro immane architettura. Così Thomas Stearns Eliot, il quale per alcuni anni fu in grado di recitare a se stesso «buona parte di questo o di quel canto stando a letto o durante un viaggio in treno», o Jorge Luis Borges, che lesse «i tre volumi, durante quei lenti viaggi in tranvai». Walter Benjamin, a proposito di Stefan George e della sua mirabile traduzione, rammenta di come un giorno fosse rimasto affascinato dal V canto dell’Inferno, «la voce che me lo lesse una chiara mattina in un atelier di Monaco ha continuato a risuonare per anni dentro di me», mentre il vivido ricordo della poetessa Anna Achmatova riferisce di un Osip Mandel’štam alle prese con una lingua «assurda», e un poeta a cui farà costantemente appello nel suo ultimo periodo di confino: «Da pochissimo aveva imparato la lingua italiana. Recitava la Divina Commedia giorno e notte».
In queste brevi testimonianze Dante e la sua poesia ci appaiono come compagni di viaggio, che ci scortano, in treno o in tranvai certo, ma soprattutto nel lungo percorso dell’esistenza, ribadendo immagini e verità che non temono di apparire anacronistiche, e che anzi, ripetute ad alta voce, reiterano la forza quasi dimostrativa della visione. Nonostante o forse per via della velocità dei treni su cui oggi sfrecciamo, la poesia di Dante trasmette, ostinatamente, l’impressione di essere una visione intuitiva suprema, una rivelazione originaria, nella quale il poeta sembra parlare afflante numine, sotto l’influenza del nume. In questo senso tutti i versi davvero straordinari vanno declamati ad alta voce - non si lasciano leggere in silenzio o bisbigliare - poiché il verso «non dimentica di essere stato un’arte orale, prima di essere una scrittura scritta». Tuttavia, questo vale in particolar modo per Dante, la cui Commedia sembra «farci apprendere con i sensi», conservando i tratti di una verità sensibile.
A maggior ragione se, come ritiene Borges, la Commedia sembra essere un libro, un’opera collettiva, nella quale la visione passionale dell’arcaico (il pathos) e la parola annunciata (il logos) appaiono indivisibili: un’opera più simile a quella di Omero che di Valéry.
Che questo possa fare, dunque, di Dante più un poeta classico che moderno, della trasparenza e dell’ordine più che del caotico e del creativo, è quanto si evince dalle riflessioni del filosofo e teologo italo-tedesco Romano Guardini. Egli, nelle sue belle lezioni universitarie dedicate al poeta a partire dagli anni Trenta, ribadisce qualcosa del genere, ricordandoci come cercheremmo invano, nell’opera di Dante, l’introspezione psicologica dei personaggi moderni: non il processo creativo concentrato sul soggetto, non l’opera d’arte autonoma che ruota intorno all’esperienza creatrice e arbitraria dell’artista. La scissione moderna tra soggetto e oggetto, interiorità ed esteriorità, significato e parola - più propria dell’indole nordeuropea - in Dante sembra affievolirsi. In lui sembra prevalga una fiducia originaria nella capacità del corpo di esprimere adeguatamente l’interiorità più profonda, la dote della parola di svelare le intenzioni più intime, la possibilità di esporsi al pubblico senza che questo comporti il tradimento di ciò che è autentico.
Come nota Guardini:
Nella Commedia di Dante tutti hanno il desiderio di parlare, tutti i personaggi che egli incontra nel corso della sua peregrinazione vogliono prendere parola - tranne che nel regno del male irreversibile, la Caina, dove regna il silenzio più totale. Ciò che è profondo affiora in superficie, senza essere superficiale, ciò che è intimo e segreto viene reso pubblico senza per questo essere svilito; l’immagine conserva i tratti dell’icona e la parola conserva la forza originaria del significato. La parola pronunciata, il paesaggio scorto assumono nella Commedia il peso della verità, e in questo processo di rivelazione la razionalità sembra fare tutt’uno con i sensi.
Questa fiducia nella risoluzione delle contese, nella profonda integrità del tutto, che in Dante assume dimensioni cosmologiche, urta però contro il disincanto contemporaneo, che ha edificato il proprio successo sulla divisione degli ambiti, sulla lucidità della ragione scientifica. L’importanza del procedimento allegorico e della fantasmagoria; l’idea di un «pensiero sensibile», frutto di un umano e maturo equilibrio di intelligenza e sensualità, nel quale anche l’apprensione coi sensi conserva una sua segreta e misteriosa validità; l’esigenza di un’opera d’arte totale, unitaria e armonica, in cui ogni cosa, ogni emozione trova la sua giusta collocazione: tutto questo rende Dante forse più consono e affine ai grandi sistemi ottocenteschi, che all’attuale disseminazione, alla proliferazione delle istanze individuali. Per questo, secondo Nietzsche, «non potrà mai più rifiorire quella specie d’arte che, come la Divina Commedia, i quadri di Raffaello, gli affreschi di Michelangelo e le cattedrali gotiche, presuppone un significato non solo cosmico, ma anche metafisico degli oggetti dell’arte».
Ciononostante, Dante ha ancora la forza di proporsi a noi come colui che si pone alla ricerca di percorsi alternativi, che quando le fiere sbarrano la strada e l’unica alternativa valida sembra quella di retrocedere, imbocca sentieri più che interrotti, inimmaginabili.
Come ci ricorda Massimo Cacciari, «egli ci insegna, che anche laddove i limiti ci sembrano insuperabili [...] bisogna trovare la forza di scoprire spazi immensi», di prefigurarsi strade che ci permettano di accedere al nostro dilettoso monte, pur attraversando oscure selve o inerpicandosi su montagne scoscese. Sia quando a richiederlo sia la nostra vita personale, sia quando a trovarsi nel guado sia la storia. In questo caso il coraggio di una visione non assorbita dal presente e la disponibilità a viaggiare lungo sentieri poco battuti potrebbero risultare indispensabili alla prefigurazione di un altro mondo: a modificare il corso della storia.
“Il Sommo italiano” di Fulvio Conti*
Prof. Fulvio Conti, Lei è autore del libro Il Sommo italiano edito da Carocci: cosa rappresenta, per l’identità del nostro Paese, il Divin Poeta? *
Per rispondere a questa domanda basta guardare a cosa si sta preparando in Italia per celebrare nel 2021 il settecentesimo anniversario della scomparsa del poeta. Ci sarà un’autentica alluvione d’iniziative dal taglio più diverso, da quelle più squisitamente culturali a quelle pensate per il largo pubblico: dirette televisive con la recitazione di canti danteschi, letture in piazza della Divina Commedia, film, spettacoli, performance di varia natura. E tutto per un poeta vissuto a cavallo fra Duecento e Trecento.
Niente di simile si è visto in occasione dei recenti centenari di Leonardo o Raffaello, per fare solo un paio di esempi. Dante è parte essenziale della nostra identità nazionale, tutti conoscono a memoria almeno qualcuno dei suoi versi più celebri, li hanno sentiti recitare, magari storpiati, dai genitori o dai nonni. E in quei versi sentono di trovare ancora oggi qualcosa che parla alle loro coscienze, che le fa vibrare di forti passioni: orgoglio, coraggio, rabbia, indignazione. E poi Dante è universalmente riconosciuto come simbolo d’italianità, vorrei dire come simbolo della parte migliore di ciò che significa sentirsi italiani.
Così, quando il 25 marzo del 2020 è andato in scena il numero zero del Dantedì, nel pieno della prima ondata della pandemia, con i camion dell’esercito che trasportavano decine e decine di vittime, per molti è venuto naturale rivolgersi al Sommo Poeta, recitando i suoi canti da un balcone all’altro. E cercando ancora una volta in lui quel legame identitario che serviva per mantenere unito e coeso il Paese impegnato nello sforzo supremo della lotta al Covid-19. Non mi sembra che ci siano state esperienze paragonabili in altri paesi: gli inglesi, i tedeschi o gli spagnoli non hanno fatto appello a Shakespeare, Goethe o Cervantes per cercarvi ciò che gli italiani hanno chiesto a Dante.
In che modo Dante ha incarnato la passionalità e la forte contrapposizione politica che caratterizzano la storia del nostro paese?
Durante la sua stessa esistenza Dante è stato uomo di parte, ha partecipato alle lotte politiche del suo tempo, ha persino impugnato le armi nella battaglia di Campaldino del 1289. Ha lasciato di sé l’immagine di un intellettuale impegnato, disposto a ricoprire incarichi politici nella sua Firenze, pronto a prendere posizione nelle disfide che caratterizzavano la vita cittadina. E questa immagine di scrittore pugnace, pronto all’invettiva sferzante, attraverso la sua opera letteraria è giunta fino a noi.
Fin dal primo Ottocento Dante, scalzando ogni altro riferimento identitario, è assurto a simbolo principe dell’idea di nazione che si andava formando intorno al collante della lingua italiana. E per un certo periodo, diciamo almeno fino al 1848, ha rappresentato un polo di attrazione ecumenico, capace di mettere d’accordo liberali e democratici, laici e cattolici, unitari e federalisti.
Poi, con il passo indietro di Pio IX e l’epilogo delle battaglie risorgimentali che ha visto lo Stato della Chiesa sul fronte opposto rispetto a quello patriottico, il poeta è tornato a interpretare il «ghibellin fuggiasco» di foscoliana memoria. Gli esponenti della sinistra laica e anticlericale lo hanno brandito come emblema della lotta per il completamento dell’unità d’Italia con Roma capitale e, dopo Porta Pia, come simbolo dello Stato laico che non doveva cedere di fronte alle pretese d’ingerenza della Chiesa. I monumenti a lui dedicati in varie città d’Italia - sui quali mi soffermo in alcuni capitoli del libro - finirono con l’assumere lo stesso significato di quelli a Giordano Bruno o a Savonarola. Esprimevano un connubio di italianità e di laicità. I cattolici tornarono a impossessarsi di Dante durante la prima guerra mondiale, quando si compì del resto la nazionalizzazione delle masse cattoliche italiane. E soprattutto lo fecero in occasione del centenario del 1921, con la creazione di una miriade di comitati, la straordinaria mobilitazione di conferenzieri di grido (da padre Semeria a Filippo Crispolti, dall’ex presidente dell’Opera dei Congressi Giovanni Grosoli a Egilberto Martire), e in special modo con la celebre enciclica In praeclara summorum di papa Benedetto XV.
Sempre nel 1921 Dante fu issato sui vessilli dei fascisti e di D’Annunzio, costringendo i comunisti raccolti intorno alla rivista «L’Ordine nuovo» di Gramsci a denunciare le «deformazioni ideologiche» che si facevano del poeta e a scrivere, con scarsa consapevolezza dei sentimenti che scuotevano l’opinione pubblica: «Dante è in esilio, è morto». E non è privo di significato che nell’aprile 1945, quando la Repubblica di Salò era prossima al crollo, Alessandro Pavolini, uno dei gerarchi rimasti più fedeli al duce, abbia addirittura coltivato l’idea folle di dissotterrare le ossa di Dante per portarle nel «Ridotto alpino repubblicano» della Valtellina e farne il nume tutelare dell’estremo sacrificio delle camicie nere.
Questi eccessi di strumentalizzazione politica si sarebbero attenuati nel secondo dopoguerra, senza peraltro mai far del tutto cessare l’idea di utilizzare Dante, come documento nell’ultimo capitolo del libro, per veicolare messaggi ideali fra i più diversi (come riferimento di coesione nazionale nella lotta contro il terrorismo o come testimonial della lotta per la difesa dell’ambiente e contro i treni ad alta velocità).
Che nesso esiste tra le declinazioni che il mito di Dante ha avuto dal Settecento a oggi e l’evoluzione del sentimento patriottico italiano?
Sul finire del Settecento Dante venne anzitutto riscoperto come grande poeta, degno di stare sullo stesso gradino in cui si trovavano Petrarca, Ariosto e Tasso, contrariamente a quanto aveva sostenuto la critica nei secoli passati che ne aveva messo in discussione le qualità poetiche. Contemporaneamente cominciò la popolarizzazione del culto dantesco che ebbe un suo momento rivelatore nel 1798, quando Vincenzo Monti, inviato dalla Repubblica Cisalpina come commissario della provincia di Romagna, s’incaricò di promuovere un pubblico omaggio a Dante. In tale occasione egli fu dichiarato cittadino di Ravenna e la Commedia portata in trionfo fino al sepolcro, dove il busto del poeta fu incoronato d’alloro. Monti tenne la propria orazione di fronte alla folla plaudente, rivendicando i meriti di Dante come creatore della lingua italiana e proponendo arditi accostamenti fra la sua biografia e quella del poeta. Quella cerimonia segnò l’inizio, di fatto, delle celebrazioni del poeta come padre della patria.
Da allora il culto di Dante come simbolo patriottico non ha conosciuto soluzione di continuità. È cresciuto in modo esponenziale durante il Risorgimento e l’età liberale, al punto che il fascismo si è limitato di fatto a dare definitiva consacrazione al mito del poeta che era stato costruito in precedenza. La cesura - è questa la tesi che sostengo nel libro - si è prodotta dopo la caduta del fascismo, quando si è continuato a guardare a Dante come supremo simbolo della patria, ma senza quella connotazione di esasperato nazionalismo che gli si era attribuito nel secolo precedente. Anzi, cercando finalmente di proporre il poeta come simbolo universale, come un orgoglio italiano conosciuto, tradotto e amato in tutto il mondo.
Quale immagine avevano di Dante i romantici?
Agli occhi dei romantici Dante incarnò il poeta civile, il politico militante, l’intellettuale engagé che aveva pagato con l’esilio la difesa ad oltranza dei propri ideali. Era un modello che si prestava a un immediato riuso e consumo, nel quale molti letterati e patrioti italiani di primo Ottocento, specie sul coté neoghibellino, non faticarono a riconoscersi: da Foscolo a Mazzini, da Leopardi a Settembrini. Furono loro, più di altri, a contribuire alla costruzione del mito di Dante come profetico anticipatore di quell’Italia che si accingeva a risorgere, e a stabilire una stretta correlazione fra esemplarità di vita ed esemplarità di poesia.
Foscolo in particolare, dopo aver consegnato Dante ai versi immortali dei Sepolcri, si applicò in maniera sistematica allo studio e all’interpretazione del poeta fiorentino negli anni da lui trascorsi in Inghilterra, fra il 1816 e il 1827.
In alcuni importanti scritti del periodo inglese Foscolo finì col dettare le coordinate di un’interpretazione laicista e anti-neoguelfa di Dante che in lui avrebbe sempre riconosciuto l’autentico capostipite. Ma soprattutto egli fece sì che l’identità profetica di Dante e la sua istanza di riforma spirituale della Chiesa si configurassero come riferimento valoriale di alcune correnti politiche e culturali che proprio in quel periodo stavano cominciando la battaglia per l’unità nazionale. Non è un caso che il primo testo letterario scritto da Mazzini, appena ventiduenne, s’intitolasse Dell’amor patrio di Dante. Inviato all’«Antologia» di Vieusseux e rimasto inedito, fu conservato da Tommaseo e da lui pubblicato anonimo nel 1837 nella rivista torinese «Il Subalpino».
Un contributo assai rilevante all’irradiamento del culto dantesco venne poi da alcuni autori le cui opere ebbero vasta circolazione al di là dei ristretti cenacoli intellettuali e incontrarono il gradimento di un pubblico più largo. -Mi riferisco in primo luogo a Madame de Staël e a lord Byron. Nel suo Corinne ou l’Italie pubblicato nel 1807 Madame de Staël celebrò Dante come «l’Omero dei tempi moderni, poeta sacro dei nostri misteri religiosi, eroe del pensiero». Quanto a Byron fu l’autore di un poemetto, The Prophecy of Dante, che egli cominciò a comporre nel giugno 1819, pochi giorni dopo il suo arrivo a Ravenna dove avrebbe soggiornato per oltre due anni. Pubblicato nel 1821, fu subito tradotto in italiano e poi ristampato o parafrasato più volte, divenendo un testo di culto per la generazione risorgimentale e un’opera paradigmatica dell’uso politico che essa fece di Dante.
Quali celebrazioni accompagnarono il sesto centenario della nascita di Dante nel 1865?
Quella andata in scena nel 1865 a Firenze, da pochi mesi scelta come nuova capitale, fu la prima grande festa nazionale del Regno. Il momento clou fu l’inaugurazione del monumento a Dante di Enrico Pazzi in piazza Santa Croce che avvenne il 14 maggio alla presenza del re Vittorio Emanuele II. La cerimonia fu quanto mai solenne e si stima che vi assistettero circa trentamila persone. Fu preceduta da un imponente corteo che si snodò per le vie cittadine, al quale parteciparono i rappresentanti di centinaia di municipi, consigli provinciali, accademie e scuole di vario genere, società operaie di mutuo soccorso. I labari delle città di Venezia e Roma sfilarono listati a lutto per sottolineare che esse erano «irredente», non facevano ancora parte del giovane Stato italiano. Ci furono poi spettacoli teatrali e musicali, declamazioni poetiche, regate e cuccagne in Arno, divertimenti equestri alle Cascine, una tombola in piazza dell’Indipendenza a beneficio degli asili di carità e la sera luminarie ed esecuzioni di canti e cori. Insomma, una festa popolare da tutti i punti di vista.
Ma iniziative e festeggiamenti analoghi si ebbero in varie città italiane, a cominciare da Ravenna, dove proprio nel 1865, durante i lavori di risistemazione dell’area adiacente alla tomba, fu rinvenuta in modo fortuito una cassetta con i resti mortali di Dante. La notizia dell’eccezionale ritrovamento fece il giro del mondo e trasformò ancor di più il sepolcro ravennate nella meta di veri e propri pellegrinaggi, che conferirono al culto dantesco un’aura di religiosa sacralità. Sempre nel 1865 furono inaugurati busti, targhe e statue un po’ ovunque. Particolarmente importanti furono i monumenti inaugurati in due città venete che si trovavano ancora sotto il dominio austriaco: quello di Verona, nella centralissima piazza dei Signori, e quello del Prato della Valle a Padova. Il primo, per timore di proteste e rappresaglie, fu scoperto in orario insolito, all’alba del 14 maggio 1865.
Come si espresse la “dantomania” dell’età liberale?
La “dantomania” dell’età liberale si espresse in linea di sostanziale continuità con i festeggiamenti del 1865. Ormai il mito del poeta profeta della patria era costruito: nei decenni compresi fra l’Unità e la Grande guerra si trattò di consolidarlo anche attraverso la creazione di specifiche istituzioni e associazioni, come le società e le cattedre dantesche, le «Lecturae Dantis», le sale Dante, e così via. Dante e Alighiero furono tra i nomi più gettonati per i nuovi nati, e si progettarono iniziative editoriali destinate sia ai bibliofili e ai collezionisti (come la Divina Commedia in miniatura, il famoso «Dantino»), sia al consumo popolare (come le scatole di fiammiferi con le illustrazioni di Gustave Doré o alcune raccolte di cartoline).
Altre statue di Dante andarono a ornare alcune città italiane, fra le quali Mantova, Napoli e soprattutto Trento, all’epoca ancora sotto dominio austriaco. Il monumento inaugurato a Trento nel 1896 divenne uno dei simboli del movimento irredentista, che fece di Dante la propria icona e scelse la tomba di Ravenna come luogo dove mettere in scena cerimonie di alto valore emotivo e propagandistico.
Nel libro racconto alcuni di questi veri e propri pellegrinaggi politici, che talvolta dettero luogo a inattesi conflitti fra nazionalisti e repubblicani, con questi ultimi convinti estimatori di Dante ma fieramente avversi all’uso che se ne voleva fare in chiave di sostegno alla monarchia sabauda. Finché cominciarono a levarsi, da sponde diverse, le prime voci critiche sul «monoteismo dantesco» che aveva travolto la cultura e la politica italiane: da un lato, per esempio, Benedetto Croce, dall’altro Marinetti, che arrivò a definire la Divina Commedia «un immondo verminaio di glossatori».
All’inizio del Novecento furono prodotte anche le prime opere cinematografiche tratte dalla Commedia. L’Inferno del 1911, costato due anni di lavoro e la cifra enorme per l’epoca di centomila lire, fu il primo lungometraggio del cinema italiano.
Quale culto riservò a Dante l’Italia fascista?
Ho già detto che il fascismo, dopo il successo delle celebrazioni dantesche del 1921, non dovette inventare niente di particolare per fare del poeta uno dei simboli del nazionalismo italiano. Certo, fin dalla «marcia» su Ravenna nel 1921 degli squadristi di Bologna e Ferrara, guidati da Grandi e Balbo, fu subito chiaro che il futuro regime avrebbe racchiuso l’autore della Commedia nel recinto dei propri riferimenti imprescindibili.
Da qui la decisione da parte di Mussolini di istituire una speciale festa in onore di Dante, la «Sagra dantesca», prescrivendo annuali pellegrinaggi alla tomba del poeta in occasione della ricorrenza della morte, il 14 settembre. Oppure si pensi a omaggi architettonici, come la Tribuna dantesca della Biblioteca Nazionale di Firenze inaugurata nel 1929, oppure il visionario progetto del Danteum, una specie di tempio dedicato al culto di Dante che gli architetti Giuseppe Terragni e Pietro Lingeri, esponenti di punta del movimento razionalista, cercarono di realizzare senza successo nella zona dei Fori Imperiali, di fronte alla basilica di Massenzio.
Al periodo fra le due guerre risale anche una nuova ricognizione, dopo quella del 1865, delle spoglie mortali di Dante. A eseguirla furono chiamati due fra i maggiori antropologi dell’epoca: il professor Giuseppe Sergi dell’Università di Roma e il professor Fabio Frassetto dell’Università di Bologna, i quali fra le altre cose, portando un contributo alle teorie razziali del regime, arrivarono alla conclusione che Dante poteva dirsi «italiano di sangue e di stirpe».
Come è mutato oggi, nell’era di Internet e della globalizzazione, il sentimento nazionale nei confronti del suo maggior poeta?
Anche a questa domanda ho in parte già risposto. Gli italiani di ogni età continuano ad adorare Dante, a riconoscersi in lui e nei suoi versi, a trovare nel poeta un riferimento etico e spirituale di incredibile attualità. È qualcosa che ha pochissimi riscontri con altri autori e in altri contesti nazionali. Ma ciò che appare entusiasmante - e a me è sembrato interessante da studiare e da raccontare - è il successo travolgente che Dante ha incontrato negli ultimi decenni in ogni parte del mondo. È ormai diventato un’icona pop, un brand di immediata riconoscibilità che funziona ovunque. Da qui l’uso nel cinema, nella pubblicità, nei fumetti, nelle più svariate rappresentazioni artistiche, dal Giappone alle Americhe. E le innumerevoli iniziative previste in tutto il mondo in questo 2021, nonostante il dramma della pandemia, ce ne offrono diretta conferma.
Fulvio Conti insegna Storia contemporanea presso l’Università di Firenze, dove presiede la Scuola di Scienze Politiche «Cesare Alfieri». Membro del Consiglio universitario nazionale, è stato professeur invité in varie università francesi, fra cui le parigine ENS, EHESS, Sciences Po. Coordina (con M. Ridolfi) la direzione della rivista Memoria e Ricerca e fa parte del comitato di direzione di Archivio storico italiano.
Fra i suoi libri recenti: La politica nell’età contemporanea. I nuovi indirizzi della ricerca storica (a cura con M. Baioni, Carocci 2017); Italia immaginata. Sentimenti, memorie e politica fra Otto e Novecento (Pacini 2017); I fratelli e i profani. La massoneria nello spazio pubblico (Pacini, 2020).
* Fonte: LETTURE.org
Andare in Paradiso in carne e ossa, bello e possibile?
di Giovanni Cesare Pagazzi (Avvenire, domenica 21 febbraio 2021)
A Dante non sembra vero. La domanda che lo tormenta dall’Inferno, ora, in Paradiso, può esser rivolta alle anime dei sapienti, ricevendone sicura risposta. Toccato dalla pena eterna dei golosi, prostrati nel fango, percossi da un miscuglio di grandine, acqua e neve sporca, il poeta chiede a Virgilio circa la sorte di questi spiriti, dopo il giudizio finale, quando si ricongiungeranno con la loro carne: il tormento diminuirà? Rimarrà invariato? Crescerà? La risposta del latino è pungente: «Ritorna a tua scienza’! Stando a lui, Dante ha già la competenza sufficiente per rispondere da sé. Infatti, la teologia scolastica, ben conosciuta dal fiorentino, afferma che ’quanto la cosa è più perfetta / più senta il bene, e così la doglienza»: la percezione del piacere e del dolore è un criterio per stabilire la gerarchia di quanto esiste.
Insomma: vista la sua insensibilità, un sasso è meno compiuto rispetto a un albero; gli animali sono più raffinati dei vegetali giacché più sensibili; uomini e donne sono i più pregiati perché nessuno percepisce il piacere e il dolore come loro. In breve: quando le anime dei dannati si riuniranno ai corpi, la pena si acutizzerà, dato che, a motivo del corpo, la loro sensibilità sarà più completa (Inferno VI, 100-111).
Ciò significa che la carne porta a compimento l’anima (alla faccia di chi ritiene il pensiero medioevale oscurantista e disincarnato!). Il rimprovero di Virgilio evidenzia il lapsus di Dante che, pur esperto, istruito credente, sul più bello dimentica l’alfabeto e la poesia della sua stessa fede. In Purgatorio, Dante dimostra d’aver appreso benissimo la lezione. Infatti descrivendo il canto degli angeli, non trova immagine migliore di questa terzina mozzafiato: «Quali i beati al novissimo bando /surgeran presti ognun di sua caverna /la revestita voce alleluiando»(Purgatorio XXX, 13-15).
La sublime musicalità degli angeli è audacemente paragonata all’’Alleluia!’ cantato dai risorti con voce finalmente rivestita di carne, quando, nell’ultimo giorno, allo squillo della tromba, svelti usciranno dalle fosse. Senza la carne, le anime non sanno cantare l’Alleluia della vittoria; ovvero sono incapaci di esultare a squarciagola per la rivincita sulla morte. Eppure, manca qualcosa.
Infatti, in Paradiso, in mezzo a due cerchi concentrici di anime di sapienti, la domanda posta nell’Inferno riaffiora. Anzi si moltiplica e appuntisce, trasformandosi in una batteria di quesiti. A quegli spiriti luminosissimi e fiammeggianti di gioia, Dante per bocca di Beatrice chiede: «Con la risurrezione dei corpi, quando la carne si riunirà alle anime, queste saranno ancora così splendenti? La materia non offuscherà la visione di Dio? Appesantite dal corpo, godranno ancora questa gioia raggiante?» (cfr. Paradiso XIV, 10-18).
È Salomone, il più sapiente tra i nati di donna, a prendere la parola, spiegando che, quando i corpi si riuniranno alle anime, queste non subiranno decremento alcuno della loro gioia e potenza; al contrario godranno ancora più, perché ancor meglio vedranno Dio. In altre parole: fino alla risurrezione dei corpi, persino ai santi manca qualcosa: proprio quella carne che li abiliterà alla gioia davvero compiuta. Alle parole del figlio di Davide, i due cerchi di anime s’infiammano di felicità, e gridano ’Amen!’, desiderando riavere al più presto i loro corpi. Ma ecco il colpo di genio del Poeta: quel desiderio delle anime non è solo per se stesse, ma è anche per i loro genitori che quei corpi hanno generato, nutrito, vestito, aiutato a crescere. È anche per rispetto di chi quei corpi ha amato, accarezzato, baciato, goduto, curato, sepolto.
La risurrezione del corpo non è solo la perfezione dell’anima, ma anche un atto di giustizia del Creatore verso gli affetti che hanno consolato quei corpi. La risurrezione della carne è un debito che Dio sente di avere verso chi ha amato quei corpi. Come potrebbe Dio esser giusto se non restituisse a un uomo il corpo della sua donna, a un padre e una madre i corpi dei loro figli, a ciascuno i corpi dei loro fratelli, sorelle e amici?
A questo punto, meglio lasciare la parola a Dante: «Tanto mi parver sùbiti e accorti /e l’uno e l’altro coro a dicer ’Amme!’ /che ben mostrar disio de’ corpi morti; /forse non pur per lor, ma per le mamme, /per li padri e per li altri che fuor cari / anzi che fosser sempiterne fiamme». (Paradiso XIV, 61-66». Qualcuno potrebbe dire: «Troppo bello per essere vero!». Eppure, esattamente perché è così bello, è difficile che non sia vero.
Se dopo 700 anni
#Beatrice appare come un «manichino senza corpo»,
forse,
non è il caso di
osare un’altra ipotesi di lettura
della #DivinaCommedia e della #vita di #Dante?
FLS
ECOLOGIA DELLA PAROLA: MESSAGGIO EVANGELICO ("AGAPE - CHARITAS") E FILOLOGIA...
Chiave concettuale *
É l’amore in senso cristiano (agape-caritas) che costituisce l’essenza stessa del Dio rivelato da Gesù Cristo (cf. 1 Gv 4, 8). Essa consiste nel donare la propria vita (Gv 15,13). La forma perfetta della carità è il dono di sé di Cristo sulla Croce (Gal 2, 20). La Croce è la "cifra" e il simbolo dell’amore: in essa Gesù compie il duplice comandamento dell’amore di Dio e del → prossimo, ripreso dalla Legge antica (Torah) (cf. Mc 12, 28ss; Dt 6, 5; Lv 19,17). Sulla Croce infatti Gesù ama totalmente Dio Padre, affidandosi nelle sue mani (Lc 23,44) e il prossimo, → perdonando i suoi nemici (Lc 23, 36). L’amore vero o carità consiste nell’amare con → gratuità, anche chi non lo merita, il peccatore, il malvagio, il traditore, il nemico (cf. Lc 6, 32; Rm 5,11). Questo amore divino, unico e trascendente non è "utopico" per gli esseri umani. Esso diventa realtà quando è riversato nel cuore degli uomini mediante la potenza dello Spirito Santo, il Dono del Signore risorto (cf. At 2; Rm 5, 5), che rende capaci di conformarsi all’amore di Cristo. Tale è l’esperienza dei santi e dei martiri (cf. At 7, 59-60). La carità è pertanto una virtù teologale, cioè soprannaturale e pneumatologica. San Paolo la considera il più grande dei doni dello Spirito Santo e la descrive così: "La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine" (cf. 1 Cor 13, 4-8). Essa può essere ritenuta opera della → fede (cf. Gal 5, 6). Avere l’amore è segno di una vita nuova che vince la morte: "Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte" (1 Gv 3, 14).
Tutta la tradizione cristiana l’ha venerata come "regina delle virtù". Essa consiste per S. Agostino nell’amore delle cose che devono essere amate (dilectio rerum amandarum) e dona di anteporre le cose comuni a quelle proprie (caritas communia propriis non propria communibus anteponit). La carità è "ordinata": essa fa amare Dio per se stesso; ispira un retto amore di sé (ricordando la propria dignità filiale); stimola ad amare il prossimo in Dio e il nemico a causa di Dio (caritas est amicum diligere in Deo et inimicum diligere propter Deum, S. Gregorio Magno). La carità ama secondo la misura smisurata di Dio (modo sine modo, S. Bernardo). Per san Tommaso soltanto la carità merita veramente il nome di grazia perché è l’unica che renda "graditi a Dio" (nomen gratiae meretur ex hoc quod gratum Deo facit). Essa ha la facoltà di trasformare l’amante nell’amato perché suscita una sorta di "estasi", un uscire da sé per aderire all’amato (caritatis proprium est transformare amantem in amatum, quia ipsa est quae extasim facit).
La carità è il vincolo di comunione della → Chiesa, e trova nell’Eucaristia il suo sacramento. Mediante la carità lo Spirito riunisce i fedeli in un solo corpo: lo Spirito unifica il corpo con la sua presenza, con la sua forza e con la connessione interna delle membra; produce la carità tra i fedeli e li sprona a viverla. Cosicché se un membro soffre, tutti soffrono insieme con lui; e se un membro viene onorato, ne gioiscono insieme anche gli altri (cf. 1 Cor 12, 26; LG 7, 3). La carità non può essere né confusa né tanto meno sostituita con la nozione non peculiarmente cristiana di → solidarietà. Questa consta dell’ordine umano e sociale della fraternità universale. La carità invece è la relazione di comunione propria della → fraternità cristiana. Essa ha una propulsione universale (fino ad abbracciare i nemici), ma è specialmente arricchita dalla reciprocità nella comunità ecclesiale: "questo è il messaggio che avete udito fin da principio: che ci amiamo gli uni gli altri" (1 Gv 3, 11-12); "Poiché dunque ne abbiamo l’occasione, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede", (Gal 6,10). Insieme alla → evangelizzazione e all’intercessione (Liturgia), la testimonianza della carità rappresenta la precipua forma cristiana di svolgere la missione che Cristo le ha affidato.
* Fonte: Chiave concettuale - Vatican.va
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
FLS
CON MICHELANGELO a scuola da DANTE:
#Antropologia, #teologia, #filologia e #immaginazione #cosmoteandrica! #DANTE2021 A che #gioco giochiamo?!: «Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?» (Matteo 18,1-5).
ANTROPOLOGIA E FILOSOFIA: SPIRITO CRITICO E AMORE CONOSCITIVO *:
"Per letiziar là sù fulgor s’acquista,
sì come riso qui; ma giù s’abbuia
l’ombra di fuor, come la mente è trista
«Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia»,
diss’io, «beato spirto, sì che nulla
voglia di sé a te puot’esser fuia.
Dunque la voce tua, che ‘l ciel trastulla
sempre col canto di quei fuochi pii
che di sei ali facen la coculla,
perché non satisface a’ miei disii?
Già non attendere’ io tua dimanda,
s’io m’intuassi, come tu t’inmii».
Dante Alighieri, Paradiso IX, 70-81.
* Sul tema, nel sito, cfr.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA"
FLS
Pasolini e Dante. La “divina mimesis” e la politica della rappresentazione
di Emanuela Patti (Le parole e le cose, 2412.2015)
I
Mimesi. “Il punto d’avvio non può essere che il concetto di mimesi”, scriveva Daniele Giglioli qualche settimana fa in apertura di un suo contributo su Réné Girard pubblicato su LPLC. E questo è anche il punto di partenza del rapporto tra Pasolini e Dante, fortemente incentrato sui temi della rappresentazione e dell’imitazione. Nella riflessione pasoliniana sulla “realtà rappresentata” (mimesis), Dante ha avuto di fatto un ruolo di primo piano. Negli anni Cinquanta la sua influenza ha preso la forma di un certo “realismo dantesco” nella narrativa e poesia pasoliniana, a partire dall’esempio di oggettività, sperimentalismo e plurilingualismo di Dante diffuso da un saggio di Gianfranco Contini del 1951, “Preliminari sulla lingua del Petrarca”. In particolare, il plurilinguismo sarebbe diventato per lui un modello per ripensare la rappresentazione dell’altro (delle classi subalterne e della loro realtà) a livello sociologico, in relazione alla “questione della lingua” e del “nazional-popolare”.
Nei primi anni Sessanta, invece, Dante è diventato fonte di ispirazione di un certo “realismo figurale” nel cinema pasoliniano a partire dai concetti di figura e “contaminazione degli stili” di Erich Auerbach - come emerge chiaramente nella fase “nazional-popolare” del suo cinema che va da Accattone (1961) a Il Vangelo secondo Matteo (1964). In questi film la contaminazione degli stili, tradotta in ibridazione di pittura, musica, letteratura ed immagini in movimento, ha consentito associazioni semiotiche piuttosto radicali tra cultura alta e cultura bassa e, nello specifico, tra la figura di Cristo e quella del sottoproletariato.
Sulla base di queste premesse, l’ipotesi di questo libro è che Pasolini abbia trovato in Dante - e più precisamente in alcune interpretazioni critiche della sua opera (in particolare quelle di Contini ed Auerbach) - un modello con cui rispondere, in ambito artistico, ad una domanda estetico-politica di grande rilevanza per il suo tempo: la rappresentazione dell’altro, il popolo. Che cosa significa “popolare” in poesia, narrativa, cinema? E qual è il ruolo dell’intellettuale/poeta che vuole rappresentare il popolo in modo realistico?
In questo discorso, è chiaramente cruciale per Pasolini la connessione tra l’esempio di Dante e quello di Cristo, in quanto entrambi rappresentano, come ricorda Auerbach, gli esempi, per eccellenza, di radicale contaminazione tra cultura “alta” e cultura “bassa”, tra la parola e la carne. Attraverso la tradizione cristiana a lui disponibile, Dante riesce a raggiungere questa integrazione tramite il doppio ruolo di auctor/actor che gli consente di combinare la funzione intellettuale con l’illusione di un reale viaggio fisico attraverso l’inferno, il purgatorio e il paradiso. Ed è proprio questo modello di “poeta della realtà” ad offrire a Pasolini, almeno negli anni Cinquanta, un esempio, sul piano linguistico ed autoriale, di integrazione delle due funzioni, in pieno clima ideologico post-crociano.
Eppure, per Pasolini, come l’autore scriverà nel 1965 in “La volontà di Dante “a” essere poeta”, il realismo di Dante rimane un mistero. L’incarnazione, vera ambizione del suo realismo, gli parrà ad un certo punto problematica in letteratura. L’originalità con cui Pasolini ha affrontato l’argomento della “realtà rappresentata” in relazione alle classi subalterne ha comunque avuto il merito di mettere in evidenza il divario esistente tra il cuore idealistico del discorso etico-politico delle culture realiste del suo tempo e il livello dialettico, materiale dell’esperienza artistica.
Nel contesto del periodo considerato, la riscrittura pasoliniana della Divina Commedia, La Divina Mimesis, il cui corpus principale è stato scritto tra gli anni 1963 e 1965 - con un momento di brusca interruzione proprio dopo le celebrazioni per i 700 anni di Dante nel 1965 - si colloca in un momento di svolta nella carriera pasoliniana e costituisce la sua fondamentale riflessione sul ruolo autoriale, misurato, appunto, sull’imitazione di Dante. La riscrittura pasoliniana della Divina Commedia non prenderà mai forma compiuta e resterà nel cassetto per anni, con poche ma importanti aggiunte di note o frammenti. Eppure, Pasolini decise di consegnare all’editore quest’opera, proprio nel suo stato incompiuto e frammentario, pochi giorni prima di essere ucciso nel novembre del 1975. La Divina Mimesis verrà pubblicata postuma qualche settimana dopo ed è una delle più significative dichiarazioni poetiche che l’autore ci ha lasciato.
Per mettere in luce le relazioni che questo testo frammentario ed incompleto stabilisce con l’attività poetica, narrativa e saggistica di Pasolini negli anni Cinquanta, il suo primo cinema e il dibattito sulla “nuova questione della lingua” ed il nazional-popolare, la rappresentazione di Dante in Pasolini viene qui affrontata come un fenomeno complesso e stratificato di appropriazione creativa che va interrogato a diversi livelli. Innanzitutto, le interpretazioni critiche di Dante nel dopoguerra italiano: quale modello di Dante è stato diffuso nelle letture di Contini e Auerbach? E poi, in che modo Pasolini si è appropriato di queste letture e come è stato usato il modello di Dante per ripensare la rappresentazione delle classi subalterne in relazione ad altri modelli culturali come quello gramsciano?
II
Realismi. Va subito detto che le forme di “realismo” del dopoguerra - tipicamente associate all’impegno ideologico del neorealismo o del realismo socialista di raccontare le condizioni di vita del popolo o dei socialmente esclusi nell’ambito del progetto nazional-popolare - risultavano a Pasolini insufficienti e con non poche contraddizioni. Innanzitutto, queste spesso rivelavano una mancanza di “reale” esperienza dell’altro da parte dell’artista borghese, con la conseguenza di restituire rappresentazioni stereotipate e poco autentiche. -Nel volume resta infatti sottesa la questione - recentemente discussa anche nel libro di David Forgacs, Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’unità a oggi (2015) - che riguarda i limiti di alfabetizzazione e di potere delle classi subalterne nell’auto-rappresentarsi in letteratura, condizione alla base dell’impegno di molti intellettuali, normalmente appartenenti ad una classe più alta, di “parlare per loro”. Questo è un punto che Pasolini solleva già nel 1952 anche per la poesia dialettale, mettendo in evidenza il falso binomio tra realismo e dialetto (vedi Poesia dialettale del Novecento), quella che Fortini chiamava la “coltivazione artificiale dei dialetti”.
In secondo luogo, non venivano messe in discussione le strutture linguistiche che veicolavano contenuti della realtà finendo per utilizzare una lingua tipicamente borghese per rappresentare il popolo. Lo sperimentalismo linguistico non era nell’agenda del realismo. Un’altra contraddizione emergente nella riflessione pasoliniana sul realismo riguarda i limiti del medium letterario che può solo sviluppare forme di approssimazione all’esperienza emozionale e fisica di una determinata realtà. Come imitare la lingua e i comportamenti degli altri è stato di fatto il principio guida della sua sperimentazione narrativa attraverso vari media artistici, in particolare nel passaggio dalla letteratura al cinema. È costante in Pasolini il desiderio di annullare la virtualità delle rappresentazioni egemoniche, nel suo tentativo di trasformare la parola, letteralmente, in carne.
III
1951. Realismo dantesco. La lezione di Gianfranco Contini fu per Pasolini determinante. Attraverso la sua interpretazione di Dante, Contini implicitamente offriva agli scrittori del dopoguerra un modello linguistico-letterario post-crociano. Nel suo saggio, “Preliminari sulla lingua del Petrarca” (1951), contrapponeva il monolinguismo petrarchesco al plurilinguismo dantesco: al primo Contini faceva corrispondere lo stile linguistico puro, assoluto e selettivo; al secondo, lo stile ibrido, sperimentale ed aperto alle contaminazioni di stile, genere e lingua. In linea con i valori ideologici di quegli anni, questo rispondeva all’esigenza di un approccio autoriale basato su un rapporto dialettico nei confronti della realtà. Pasolini fu particolarmente ricettivo verso questa lettura, non ultimo per lo speciale rapporto che lo legava a Contini - vale la pena ricordare che quest’ultimo fu il primo a riconoscerlo come “autore” scrivendo la sua recensione della prima raccolta poetica di Pasolini, Poesie a Casarsa (1942).
Non a caso, Dante e le sue tecniche poetiche e narrative - lo sperimentalismo, la contaminazione dei linguaggi - sarebbero state conciliate da Pasolini con la vocazione ideologica di rappresentazione delle classi subalterne. Va infatti precisato che l’Italia di quegli anni presentava uno scenario di bilinguismo non troppo diverso da quello di Dante. L’italiano era principalmente la lingua letteraria dell’élite, mentre la maggior parte degli italiani parlava i dialetti. Esisteva sicuramente un’affinità tra l’Italia di Pasolini e quella dei tempi di Dante: simile era il divario tra lingua istituzionale “alta” del potere, della scienza e della religione (latino) e la varietà plebea del volgare.
Come Dante, Pasolini partecipava ad entrambi i mondi linguistici. Sia per Dante che per Pasolini era dunque fondamentale la questione di come tradurre il plurilinguismo in letteratura. Per gli scrittori del dopoguerra si poneva infatti la questione di come realizzare una cultura nazional-popolare, o meglio popolare-nazionale, in altre parole, in che modo fare entrare il popolo nella scena della rappresentazione letteraria, dunque identitaria del Paese. Lo scrittore impegnato si trovava quindi a svolgere una funzione di ponte tra intellettuali e popolo che aveva come obiettivo proprio la rappresentazione. Non troppo distanti erano le parole di Gramsci quando parlava di “rappresentanza” nei Quaderni del carcere:
Se è vero, come scriveva Gramsci, che in Italia il divario tra letteratura nazionale e realtà sociale era enorme in Italia, tuttavia il pensatore sardo non forniva indicazioni sul come colmare questo divario in letteratura. Partendo da queste riflessioni, Pasolini prese a cuore proprio la questione del come. Come può uno scrittore borghese, socialmente e psicologicamente diverso dai suoi personaggi e dalla loro realtà, rappresentarli senza imporre egemonicamente la propria lingua, dunque visione del mondo?
Il paradigma continiano che opponeva plurilinguismo dantesco a monolinguismo petrarchesco offriva una risposta stilistica e venne sviluppato in due direzioni principali nell’opera pasoliniana: (1) un’espansione della lingua poetica verso il reale che ha portato allo sperimentalismo linguistico in poesia (in particolare, Le ceneri di Gramsci); e (2) un approccio mimetico verso la lingua dell’altro che ha portato, specialmente in narrativa, a ciò che Pasolini chiamò la “regressione nel parlante” (una sorta di uso performativo del linguaggio, messo in atto per evitare rappresentazioni aprioristiche delle classi subalterne).
Su questi due pilastri Pasolini ha sviluppato la sua filosofia del linguaggio in alcune delle sue principali opere poetiche, narrative e saggistiche degli anni Cinquanta come Le ceneri di Gramsci, Ragazzi di vita e l’attività di Officina. In quest’ottica, il plurilinguismo di Dante è stato assunto da Pasolini come il miglior modello letterario di performatività attraverso il quale colmare il divario tra la teoria e pratica del “realismo” negli anni Cinquanta. Vale dunque la pena sottolineare che da Ragazzi di vita a Le ceneri di Gramsci, da La Mortaccia a La Divina Mimesis, per Pasolini attraversare l’Inferno non significava fare esperienza del peggior destino possibile, ma anzi provare empatia verso gli altri e, attraverso l’empatia, dare voce alla vita degli altri.
Per quanto si tratti di un’esperienza virtuale, quella che Pasolini ha definito come l’opera più realistica della letteratura italiana, La Divina Commedia, di fatto evoca intensamente l’esperienza umana nella sua straordinaria diversità. È in affinità con queste considerazioni che Pasolini formula progressivamente il suo concetto di “regressione nel parlante” e di “intellettuale mimetico”, presenti già in alcuni scritti dei primi anni Cinquanta, ma emersi più esplicitamente solo nei saggi sulla lingua e su Dante del 1965. Sentire il popolo per capirlo, scriveva ancora Gramsci qualche riga prima nella citazione sopra riportata. Non è forse questo il messaggio che compare tra le righe de Le ceneri di Gramsci, scritto in una lingua che fortemente richiama quello sperimentalismo linguistico dantesco? E che cos’è La Divina Mimesis se non il racconto impossibile di un viaggio agli Inferi? [...]
CONTINUAZIONE NEL POST SUCCESSIVO
“Pasolini e Dante. La “divina mimesis” e la politica della rappresentazione”
di Emanuela Patti (Le parole le cose, 2412.2015)
[...]
IV
Realismo figurale. Se la ricezione del plurilinguismo di Dante ha avuto luogo in un momento storico-culturale in cui Pasolini credeva che la cultura potesse essere rinnovata attraverso la letteratura, la sua appropriazione della “contaminazione degli stili” - un concetto chiave della lettura di Auerbach della Divina Commedia - è stato il pretesto per guardare oltre la letteratura. Nel 1956 Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur veniva finalmente tradotto in italiano [Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale] e pubblicato da Einaudi, e solo alcuni mesi dopo troviamo già i primi riferimenti alla sua terminologia e l’uso di espressioni come sermo humilis, sermo piscatorius, e, appunto, “contaminazione degli stili”. Il saggio “La confusione degli stili” (1957) di Pasolini, per esempio, risulta già un tentativo di applicare la nozione di Auerbach alla tradizione letteraria italiana per verificarne il grado di contaminazione culturale. Ma è soprattutto nel cinema che Pasolini ottiene i migliori risultati di appropriazione del realismo figurale di Auerbach. Uno dei primi e più significativi riferimenti si trova nella ‘Nota su Le notti’ (1957), scritto dopo la sua collaborazione con Fellini a Le notti di Cabiria: “Fellini mi raccontava, trascinandomi in quella campagna perduta in un miele di suprema dolcezza stagionale, la trama delle Notti. Io, gattino peruviano accanto al gattone siamese, ascoltavo con in tasca Auerbach”.
I concetti di “contaminazione degli stili” e di “realismo figurale” sono quanto Pasolini trova di più utile per concepire il suo stile cinematografico in quelle sue prime esperienze accanto a Fellini. Nel suo cosiddetto cinema “nazional-popolare”, Pasolini di fatto traduce la contaminazione degli stili in una forma di ibridazione di media artistici (pittura, musica, letteratura e cinema), usando il concetto di figura per creare interconnessioni semiotiche tra i protagonisti dei suoi film (Accattone, Ettore, Stracci, e Gesù Cristo) e la figura Christi.
La contaminazione degli stili viene infatti usata come strategia estetica per redifinire i confini gerarchici della rappresentazione sociale. Nello specifico, il primo cinema pasoliniano risulta come un’approssimazione figurale progressiva alla figura di Cristo, prima solo suggerita attraverso associazioni simboliche musicali (per esempio, attraverso la musica di Bach), pittura (si pensi al Cristo morto di Mantegna o alla Deposizione di Pontormo), e sculture (la figura dell’angelo e la croce in Accattone), fino alla totale identificazione con Cristo in persona ne Il Vangelo secondo Matteo.
Non solo Cristo è la parola che si fa carne, ma anche il soggetto ‘sacrificale’ per eccellenza. Ed è proprio in questa combinazione di rappresentazioni figurali della realtà altamente intellettuali e rappresentazioni fisiche, più immediate di corpi, che Pasolini raggiunge un realismo creaturale di grande portata. Salvare, attraverso la morte, i suoi “poveri Cristi” da una società che minacciava la scomparsa della loro differenza culturale all’inizio degli anni Sessanta segna quel passaggio fondamentale, nella carriera di Pasolini, dalla fiducia in un “buon Inferno” di diversità linguistica e culturale, quello delle borgate degli anni Cinquanta, alla speranza di una salvezza al di fuori dell’“universo orrendo” nei primi anni Sessanta e poi la definitiva perdita di ogni fede al realizzarsi dei due Paradisi, quello capitalistico/consumistico e quello comunista - che in entrambi i casi rappresentavano per Pasolini, come scrive ne La Divina Mimesis, due forme di omologazione linguistica e culturale, la Lingua dell’Odio. A quest’altezza, per Pasolini, sacralità è sinonimo di esclusione: auto-esclusione come salvezza dall’omologazione culturale. Giorgio Agamben, non a caso personaggio de Il Vangelo, ne avrebbe scritto in Homo Sacer.
V
1965. Centenario dantesco. In occasione dei 700 anni dalla nascita di Dante, Pasolini aveva rilasciato un’intervista radio la cui trascrizione è rimasta inedita fino al 1999 e poi finalmente pubblicata nell’edizione Meridiani Mondadori dei Saggi sulla letteratura e sull’arte. Questo testo, “Dante e i poeti contemporanei”, aiuta a ricostruire quelle interconnessioni, rimaste invisibili per oltre quarant’anni, tra La Divina Mimesis, la sua attività poetica, narrativa e saggistica degli anni Cinquanta (in particolare, le antologie Poesia dialettale del Novecento, La poesia popolare italiana, Ragazzi di vita, Le Ceneri di Gramsci, il lavoro di Officina, “In morte del realismo”), il suo cinema “nazional-popolare” (Accattone, Mamma Roma, La ricotta, Il Vangelo secondo Matteo) e gli scritti coevi sulla lingua.
Tutti questi documenti hanno in comune un continuo dialogo con Dante sulla rappresentazione, attraverso il quale, come anticipato sopra, Pasolini ha tentato di dare nuovo significato alla nozione di “plurilinguismo” prima, e “contaminazione degli stili”, poi, due concetti dai confini spesso evanescenti, alla base del suo progetto di radicale contaminazione tra “cultura alta” e “cultura bassa”. Dichiarava Pasolini in quell’occasione:
Il testo critico a cui Pasolini fa riferimento è “Preliminari sulla lingua del Petrarca” (1951); il gruppo di addetti ai lavori - la cosiddetta “compagnia picciola” - erano gli scrittori gravitanti intorno ad Officina, nonché Sanguineti e Fortini; ed è evidente, dalle parole di Pasolini, che Dante era stato preso come modello linguistico, stilistico, ma anche ideologico di un certo modo di fare letteratura sperimentale, decisamente in opposizione all’“istituzione letteraria” (la “Letteratura”). Lo sguardo di Pasolini è tuttavia retrospettivo: come afferma in conclusione, quell’idea di realismo è superata e con essa una certa lettura dantesca.
Sempre in occasione del centenario dantesco, Pasolini era stato invitato da Anna Banti, direttrice insieme al marito Roberto Longhi della rivista Paragone, a contribuire ad un numero speciale in occasione del centenario. Pasolini avrebbe inviato un articolo, “La volontà di Dante “a” essere poeta” (1965), che metteva infatti in discussione proprio quell’interpretazione di Dante che tanto formativa era stata per lui negli anni Cinquanta, come dichiarato nell’intervista radio sopra riportata.
In sintesi, svelando per la prima volta l’archeologia di quel modello formativo, Pasolini rileggeva il plurilinguismo dantesco mettendo fondamentalmente in discussione i limiti del medium letterario e il ruolo dell’auctor. Inutile dire che il saggio avrebbe fatto infuriare dantisti e filologi della portata di Cesare Segre e Cesare Garboli, che leggevano il testo pasoliniano come un’incursione militante nella critica accademica, un intervento intellettuale inappropriato e fuori luogo - “una danza astratta sulla superficie di qualche “auctoritas” con le carte in regola” (Segre) -, e persino irritante. Scriveva infatti Garboli: “questo tipo di critica oracolare, divineggiante, eccitatissima, rabdomatica, tutta sui nervi, sempre affannata dalla smania di arrivare in tempo, eternamente sul punto di scoprire l’America, magari prendendo per nuove rive territori marcatissimi su mappe correnti, mobilita tutta la mia più profonda repulsione”.
Pasolini rispose alle critiche ricevute e, di fatto, la polemica si estese per diversi articoli pubblicati su Paragone, ma, come emerge dalla scena del convegno del “1° Convegno internazionale di Dentisti Dantisti” di Uccellacci e uccellini (1966), ne era rimasto profondamente toccato. La sua riscrittura della Divina Commedia venne di fatto interrotta nel 1965 - le aggiunte successive hanno lo scopo di giustificare formalmente quella serie di frammenti in risposta alla polemica con il Gruppo ’63 (“Per una “Nota all’editore”, 1966), all’uscita di Letteratura italiana dell’Otto-Novecento di Contini (1974) e infine dare forma definitiva al progetto incompiuto con la Prefazione (1975).
Oggi risulta chiaro che Segre e Garboli, e come loro molti altri critici, non potevano cogliere in pieno il senso dell’appropriazione di Dante nell’opera pasoliniana, non fosse altro perché La Divina Mimesis giaceva ancora in un cassetto e i riferimenti al realismo dantesco figuravano sparsi qua e là in vari documenti artistici e saggistici degli anni Cinquanta. Risulta invece chiaro oggi che “La volontà di Dante “a” essere poeta” non era che un frammento di un grande intertesto.
VI
1975. “La Divina Mimesis”. Molteplici connotazioni racchiude la parola “mimesi” nel rapporto Dante-Pasolini, ma il concetto emerge finalmente in modo inequivocabile nel titolo dell’opera pasoliana più dantesca, La Divina Mimesis (1975), dove la parola “mimesis” del titolo richiama la doppia accezione di “imitazione della Commedia” e di “imitazione della realtà, degli altri”. Il senso che Pasolini attribuiva a La Divina Mimesis è tuttavia ancora più specifico. “Divina mimesis”, imitazione divina, indicava quella vocazione poetica di diversità linguistica e culturale che aveva animato il progetto ideologico dell’autore per tutti gli anni Cinquanta e che Pasolini vedeva gravemente compromesso a causa di quella che chiamava l’“omologazione culturale e linguistica” dei primi anni Sessanta.
“Divina mimesis” corrispondeva ad un mito poetico associato alla figura materna, equiparabile al paradiso, scrive l’autore nella Nota 2 (1964) posta in appendice della sua riscrittura della Commedia: ““La Divina Mimesis” o “Mammona” (o “Paradiso”) si presenta miticamente come l’ultima opera scritta nell’italiano non-nazionale, l’italiano che serba viventi ed allineate in una reale contemporaneità tutte le stratificazioni diacroniche della storia”. Questo ed altri frammenti de La Divina Mimesis sono chiaramente in dialogo con Nuove questioni linguistiche (1964), il saggio pasoliniano che aveva avviato il dibattito sulla “nuova questione della lingua”, presentato alla conferenza dell’Associazione Culturale Italiana a Torino il 27 novembre 1964. Se, come argomentava Pasolini in quell’intervento, la lingua nazionale che si era formata in quegli anni era una lingua creata dall’alto, dai mass-media e dal potere economico, diametralmente opposto era invece il progetto linguistico-culturale a cui Pasolini aveva fortemente creduto nel decennio precedente, ovvero quello di una lingua “lievitante dagli strati bassi”, mimetica del mondo popolare, della realtà quotidiana. Almeno nelle prime intenzioni, dunque, La Divina Mimesis avrebbe dovuto seguire la linea di Ragazzi di vita (1955), come lasciava intendere anche il racconto La Mortaccia (1959), un primo abbozzo di riscrittura della discesa infernale di Dante, impersonato da una prostituta che si avventurava per le borgate romane.
Eppure, la riscrittura pasoliniana non si presenta come l’“ultima opera scritta nell’italiano non-nazionale”. I frammenti che Pasolini ha dato alle stampe “come un “documento”” si limitano a raccogliere testimonianze ed intenzioni di un progetto lasciato volutamente incompiuto. Nel suo stato documentaristico, La Divina Mimesis rappresenta piuttosto la morte del realismo dantesco - una morte che Pasolini aveva già ufficialmente anticipato in quel celebre componimento letto alla presentazione dei finalisti del Premio Strega nel 1960, “In morte del realismo” - e il passaggio ad un nuovo ideale mimetico in poesia e nel cinema. “Bisogna cambiare strada”, diceva il Pasolini ‘60/Virgilio al Pasolini ‘50/Dante pellegrino, alla fine del I Canto de La Divina Mimesis.
“Non ho da scegliere [...] vengo con te”.
Emanuela Patti - Pasolini after Dante. The «Divine Mimesis» and the Politics of Representation.
Scritto da Cristina Savettieri. *
[ Legenda, Oxford 2016 ]
Il libro di Emanuela Patti sul Dante di Pasolini è, sul piano del metodo, uno studio esemplare: poggia, infatti, su un’idea di ricezione che non ha niente a che vedere con modelli di relazione unidirezionali, basati sul principio dell’influenza dimostrabile attraverso indagini intertestuali, e collauda una pratica di lettura dei fenomeni culturali fatta di triangolazioni. Partendo da un assunto fondamentale di Stuart Hall, uno dei padri dei cultural studies, Patti lavora sul «circuit of culture» del campo letterario italiano tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, scegliendo come specola di osservazione l’opera di Pasolini e la sua complessa relazione con il modello linguistico, poetico e ideologico di Dante. Questo significa che quella che abbiamo davanti non soltanto è una monografia su Pasolini ma diventa anche una accuratissima ricostruzione archeologica degli usi del realismo nella cultura italiana del secondo dopoguerra e dell’impatto che la ricezione di Dante ebbe su essa. Pasolini è un attore primario di questo contesto e seguirne la traiettoria illumina alcuni elementi fondamentali di quel torno cruciale di anni tra i Cinquanta e i Sessanta: la questione della lingua e quella dell’impegno, la mediazione tra cultura alta e cultura popolare, la rappresentazione dei subalterni.
La tesi principale di Patti, argomentata con un solido sostegno di fonti, è che Pasolini modelli le proprie posizioni sul realismo a partire da un incontro “mediato” con Dante: se nei primi anni Cinquanta è il Dante di Contini - e in particolare dello storico saggio Preliminari sulla lingua del Petrarca (1951) - a modellare le riflessioni di Pasolini sulla rappresentazione dell’altro e il suo cruciale incontro con Gramsci, alla fine del decennio sarà la lettura di Mimesis e dei saggi danteschi di Auerbach a spingere Pasolini verso una pratica artistica intermediale. I concetti chiave di queste due fasi sono il plurilinguismo, che combinandosi al magistero gramsciano ispira le antologie di Poesia dialettale e di Poesia popolare e la composizione di Ragazzi di vita (1955), e il realismo figurale fondato sull’appropriazione del principio della Stilmischung, che nutrirà invece la ricerca di ibridazione intermediale della produzione cinematografica da Accattone (1961) al Vangelo secondo Matteo (1964). Patti non soltanto mostra come le auctoritates di Contini e Auerbach filtrino l’avvicinamento di Pasolini al modello dantesco, ma spiega anche in dettaglio come questi “filtri” reagiscano al paradigma gramsciano e producano esiti distinti da quelli di altri attori nel campo. Questo andamento per triangolazioni, fatto di costruzione diacronica e affondi sincronici, produce acquisizioni illuminanti.
La Divina Mimesis è infine letta da Patti come punto di massimo avvicinamento a Dante e, contemporaneamente, come gesto di radicale e consapevole allontanamento. Per certi versi, infatti, nell’opera scritta a strati tra il ’63 e il ’65 - con un ulteriore ripresa nel ’67 e poi, per un’ultima volta, nel ’74-75 - i due dantismi di Pasolini trovano un punto di sintesi: La Divina Mimesis è, infatti, una profonda riflessione sul plurilinguismo ma anche un esperimento di ibridismo intermediale condotto secondo il principio della Stilmischung. Al tempo stesso, questa è l’opera in cui proprio l’utopia del plurilinguismo come mezzo di rappresentazione dell’altro entra in crisi.
Patti individua nei primi anni Sessanta il momento in cui Pasolini si congeda dal modello intellettuale degli anni Cinquanta e dal suo ideale di realismo “inclusivo”. Il merito principale del libro è di osservare questo snodo cruciale in maniera stratigrafica, restituendo, attraverso un’analisi puntuale dei testi come parte del «circuit of culture», tutto il travaglio poetico e ideologico che segna la svolta performativa di Pasolini autore ormai scisso: quella, cioè, in cui si consuma il passaggio da una politica della rappresentazione a una «politics of self-representation», come felicemente Patti la definisce.
*Fonte: Allegoria
MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA.... *
Siamo fili dell’unico arazzo dell’essere
di Ermes Ronchi (Avvenire, giovedì 31 dicembre 2020)
II Domenica dopo Natale
Un Vangelo che toglie il fiato, che impedisce piccoli pensieri e spalanca su di noi le porte dell’infinito e dell’eterno. Giovanni non inizia raccontando un episodio, ma componendo un poema, un volo d’aquila che proietta Gesù di Nazaret verso i confini del cosmo e del tempo.
In principio era il Verbo... e il Verbo era Dio. In principio: prima parola della Bibbia. Non solo un lontano cominciamento temporale, ma architettura profonda delle cose, forma e senso delle creature: «Nel principio e nel profondo, nel tempo e fuori del tempo, tu, o Verbo di Dio, sei e sarai anima e vita di ciò che esiste» (G. Vannucci).
Un avvio di Vangelo grandioso che poi plana fra le tende dello sterminato accampamento umano: e venne ad abitare in mezzo a noi. Poi Giovanni apre di nuovo le ali e si lancia verso l’origine delle cose che sono: tutto è stato fatto per mezzo di Lui. Nulla di nulla, senza di lui.
«In principio», «tutto», «nulla», «Dio», parole assolute, che ci mettono in rapporto con la totalità e con l’eternità, con Dio e con tutte le creature del cosmo, tutti connessi insieme, nell’unico meraviglioso arazzo dell’essere. Senza di lui, nulla di nulla. Non solo gli esseri umani, ma il filo d’erba e la pietra e il passero intirizzito sul ramo, tutto riceve senso ed è plasmato da lui, suo messaggio e sua carezza, sua lettera d’amore.
In lui era la vita. Cristo non è venuto a portarci un sistema di pensiero o una nuova teoria religiosa, ci ha comunicato vita, e ha acceso in noi il desiderio di ulteriore più grande vita: «Sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). E la vita era la luce degli uomini.
Cerchi luce? Contempla la vita: è una grande parabola intrisa d’ombra e di luce, imbevuta di Dio. Il Vangelo ci insegna a sorprendere perfino nelle pozzanghere della vita il riflesso del cielo, a intuire gli ultimi tempi già in un piccolo germoglio di fico a primavera.
Cerchi luce? Ama la vita, amala come l’ama Dio, con i suoi turbini e le sue tempeste, ma anche con il suo sole e le sue primule appena nate. Sii amico e abbine cura, perché è la tenda immensa del Verbo, le vene per le quali scorre nel mondo.
A quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio. L’abbiamo sentito dire così tante volte, che non ci pensiamo più. Ma cosa significhi l’ha spiegato benissimo papa Francesco nell’omelia di Natale: «Dio viene nel mondo come figlio per renderci figli. Oggi Dio ci meraviglia. Dice a ciascuno di noi: tu sei una meraviglia».
Non sei inadeguato, non sei sbagliato; no, sei figlio di Dio. Sentirsi figlio vuol dire sentire la sua voce che ti sussurra nel cuore: “tu sei una meraviglia”! Figlio diventi quando spingi gli altri alla vita, come fa Dio. E la domanda ultima sarà: dopo di te, dove sei passato, è rimasta più vita o meno vita?
(Letture: Siracide 24,1-4.12-16; Salmo 147; Efesini 1,3-6.15-18; Giovanni 1,1-18)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PIANETA TERRA. Tracce per una svolta antropologica...
MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA: "LA VOCE DELLA SPOLETTA È NOSTRA" ("The Voice of the Shuttle is Ours").
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
FLS
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E MEMORIA ANTROPOLOGICA.
USCIRE DALL’ORIZZZONTE DELLA BIBLICA "CADUTA" ...
DANTE - 2021 E LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI": RISALIRE LA CORRENTE E RITROVARE I PROPRI "GENITORI". Al di là di Caino, la nuova Eva - Maria e Giuseppe, il nuovo Adamo , e Gesù è figlio dell’ amore [charitas] che move il Sole e le altre stelle (Pd. XXXIII, v. 145).
Federico La Sala
LA "MONARCHIA" DI DANTE, IL GIUSTO AMORE, E IL VATICANO ... *
«QUELLA ROMA ONDE CRISTO È ROMANO»: LA RICEZIONE DI DANTE NEL MAGISTERO PONTIFICIO CONTEMPORANEO
di VALENTINA MERLA *
In un clima di polemica tra cattolici e non cattolici, negli anni dell’Unità d’Italia, in cui i patrioti italiani avevano studiato la concezione politica dell’Alighieri incasellandola sotto l’egida del ghibellinismo anticlericale, Leone XIII sceglie la strada del dialogo con la società, progettando una riforma della cultura cattolica sulla base del tomismo. La sua ricezione di Dante è possibile proprio alla luce del tomismo: Leone XIII è, in effetti, secondo una definizione di padre Semeria, un’«anima dantesca», soprattutto per la significativa consonanza tra il suo pensiero sociale e la Monarchia (era stato proprio il suo intervento ad assolvere il trattato dantesco dall’accusa di eterodossia, escludendolo dall’indice dei Libri Proibiti). Infatti, come Dante, anche papa Pecci partecipa al dibattito sui rapporti tra Stato e Chiesa, riflettendo “laicamente” sul potere politico e sostenendo la reciproca indipendenza delle due istituzioni.
Alla morte dell’anziano pontefice sale al soglio pontificio Pio X, attento riorganizzatore del Catechismo della Chiesa Cattolica e sostenitore di una nuova concezione pastorale, che considera ogni strumento culturale, anche il testo dantesco, funzionale all’esigenza catechetica. Il pontefice incentiva, dunque, le iniziative in preparazione alla commemorazione del VI centenario dantesco, tra le quali una è particolarmente vicina ai suoi orientamenti pastorali. Si tratta di un lavoro di sinossi e comparazione tra il testo del catechismo del pontefice e la scrittura dantesca, che, in questo modo, viene frammentata al duplice scopo di supportare le affermazioni del catechismo e di dimostrare la perfetta aderenza del poeta al cattolicesimo. L’opera, firmata con lo pseudonimo d Minimo Sacerdote in Cristo, si intitola Il più bel ricordo del VI centenario di Dante, ossia Catechismo della Dottrina Cristiana pubblicato per ordine di sua Santità Pio X, meditato e studiato con Dante.
Una linea spartiacque nella rivalutazione dell’Alighieri da parte del magistero pontificio si ha con l’enciclica In praeclara summorum (1921), scritta da Benedetto XV per commemorare il VI centenario della morte del sommo poeta, che viene per la prima volta apostrofato come figlio prediletto della fede cattolica. Sulla scia del predecessore, sebbene in modi differenti, si colloca il riuso che dell’opera dantesca fa Pio XI, riportando nei suoi documenti ufficiali un ricco corredo di citazioni.
Ciò emerge maggiormente quando riflette sulla romanità della Chiesa, poiché papa Ratti risolve definitivamente la “questione romana”, affermando la necessità della reciproca collaborazione tra potere spirituale e potere politico.
Di questa collaborazione si fa simbolo la città di Roma (residenza del Papato e antica capitale dell’Impero di Roma), che assurge a figura della città di Dio, secondo la più canonica esegesi di Pg XXXII 102, verso prediletto dal pontefice e più volte citato. Con Pio XI Dante si presta per la prima volta, in modo significativo, ad essere rispolverato e letto criticamente. In effetti papa Ratti consacra la Commedia come un’opera di fede e se ne avvale come auctoritas a supporto delle argomentazioni dei suoi discorsi.
Ad imitare il suo esempio è Pio XII, in cui si nota una fitta trama di allusioni desunte dall’Alighieri soprattutto nei discorsi rivolti alla Pontificia Accademia delle Scienze (di cui era membro onorario). Queste prolusioni finiscono inevitabilmente per riflettere sulla vastità dell’universo, sede e immagine di Dio attraverso l’utilizzo della fonte dantesca.
Diversa è la fruizione di Dante da parte di Angelo Roncalli, il cui nome si lega inequivocabilmente al Concilio Vaticano II e all’esigenza di un rinnovato dialogo con il mondo intero, sicché anche la sua ricezione del poeta di Firenze si può ascrivere a questo desiderio di un più agevole confronto con la contemporaneità. Anche se in realtà, nel corpus degli scritti del pontefice, sia in quelli ufficiali che in quelli destinati alla scrittura privata, non se ne conserva una memoria significativa.
Vero e proprio punto di svolta nella lunga vicenda della ricezione dantesca è la lettera apostolica Altissimi cantus, che Paolo VI divulga il 7 dicembre 1965 in occasione del VII centenario della nascita di Dante. In essa il pontefice non esita ad appellare il sommo poeta con l’epiteto di teologo perché ha saputo comunicare le verità di fede servendosi della bellezza del verso. È, quella di papa Montini, una forte presa di posizione che innalza l’Alighieri al ruolo di maestro delle cose di Dio. Non a caso le citazioni del poema abbondano quando affronta temi particolarmente rilevanti, come l’amore di Dio; oppure quando parla del giubileo; numerosi sono poi i documenti che riflettono sul significato simbolico della città di Roma (in cui, a sostegno delle argomentazioni, viene citato If II 22-24 e Pg XXXII 102, evidenziando il significato provvidenziale che il poeta attribuisce all’Urbe).
Albino Luciani è ricordato dalla storia per il suo brevissimo pontificato, ma pur nella esiguità dei documenti del suo magistero, la fonte dantesca non passa sotto silenzio: l’Alighieri, infatti, è uno degli autori più citati dal papa bellunese. La prima interessante presenza si nota nella raccolta, pubblicata nel 1976, sotto il titolo di Illustrissimi. Lettere del Patriarca, in cui non mancano riferimenti danteschi espliciti, tra i quali i più interessanti si ravvisano nella lettera indirizzata a Casella, amico di Dante e personaggio della Commedia. -Tra i documenti che precedono l’elezione al soglio di Pietro, il più interessante è il messaggio quaresimale del 31 gennaio 1978, che risulta essere un vero e proprio microsaggio sul Purgatorio, perché il suo esordio trae spunto proprio da questa cantica.
Durante il periodo del pontificato, Giovanni Paolo I, sceglie di citare Dante nell’udienza generale del 20 settembre 1978, richiamando alla memoria l’esame teologico sulla speranza che il poeta affronta nel paradiso (Pd XXV).
Se per Paolo VI e per i suoi predecessori la scrittura dantesca assume una notevole rilevanza come auctoritas, nei discorsi di Giovanni Paolo II la vastissima gamma di citazioni, oltre che emergere nelle più svariate occasioni, predomina nelle riflessioni che hanno per argomento l’arte e il ruolo dell’artista.
Nel caso del pontefice polacco tale preponderanza assume un particolare rilievo perché, prima dell’elezione papale, Wojtyla è stato drammaturgo e poeta.
Il riuso di Dante si intravede non solo nei documenti ufficiali del magistero wojtyliano, ma anche nella sua produzione letteraria, in cui, al di là delle tracce intertestuali (irrisorie a mio parere), è possibile un accostamento a Dante, considerando non solo la concezione del ruolo del poeta e della poesia, ma anche lo sviluppo di alcuni nuclei tematici, ad esempio: il legame con le terra natia; la ricerca problematica di Dio; l’attenzione alla storia contemporanea considerata nella prospettiva escatologica; l’incontro con l’uomo, la concezione dell’io autoriale come “poeta visionario”. Si possono notare anche confluenze dal punto di vista stilistico come, ad esempio, l’insistenza sulle sfere semantiche dell’acqua, del fuoco, della luce, del viaggio, e ciò soprattutto nell’ultimo lavoro poetico, risalente al 2003: il Trittico romano.
Interessanti sono anche i documenti ad argomento prettamente dantesco. Tra questi, molto significativa è la lettera indirizzata a Mieczyslaw Kotlarczyk, datata 27 maggio 1964 e risalente al periodo in cui Karol Wojtyla era vescovo di Cracovia. Come già nel magistero dei suoi predecessori, anche nei documenti di Giovanni Paolo II le presenze dantesche non sono sporadiche e casuali: numerosissime sono quelle mariane, (desunte essenzialmente da Pd XXIII 73-74, Pd XXIII 88-89 e Pd XXXII 85-87, da Pd XXXIII 1-18). Tra le citazioni ricorrenti si annovera quella riferita all’Ulisse dantesco (If XXVI 118-120) e quella che descrive la scelta ascetica di san Pier Damiani (Pd XXI 117).
La Commedia non è ignorata neanche da papa Ratzinger. È esemplare in tal senso il messaggio per l’incontro promosso dal Pontificio Consiglio Cor Unum, il 23 gennaio 2003 in cui il pontefice, sin dall’esordio, afferma di aver attinto da Dante lo stimolo per elaborare l’intera prolusione. La fonte dantesca è, inoltre, ridondante nei discorsi mariani: è come se i luoghi topici della mariologia dantesca avessero delineato in modo talmente ineguagliabile il profilo di santità della Madre divina, da pretendere di essere richiamati alla memoria, proprio per la loro ineguagliabile bellezza.
* Scheda: Cineca Iris (Università di Foggia, Tesi di dottorato - 24-giugno-2014).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO.
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
FLS
LA "MONARCHIA" DI DANTE, IL GIUSTO AMORE, E IL VATICANO CON IL SUO TRADIZIONALE SOFISMA DELLA "FALLACIA ACCIDENTIS". LOGICA E REALTÀ .... *
Quando la logica va in vacanza
di Edoardo Camassa **
Il termine “fallacia” può essere inteso in almeno due modi. In senso lato designa una qualsiasi idea, opinione o credenza sbagliata; per esempio che le donne non sappiano guidare o che rompere uno specchio porti sette anni di disgrazie. Come si vede, stando a questa prima accezione del termine, le fallacie si fondano sugli stereotipi, sulla superstizione o comunque su detti e proverbi popolari, e perciò non ambiscono in nessun modo a risultare convincenti. Ma le cose cambiano se ci spostiamo dal linguaggio comune al linguaggio filosofico-scientifico.
In senso stretto, infatti, “fallacia” indica un’argomentazione o un ragionamento che sono logicamente viziati ma psicologicamente persuasivi; ciò può avvenire in modo consapevole e deliberato, quando vengono prodotti con l’intenzione di ingannare, e allora parleremo di sofismi, o inconsapevolmente, quando vengono prodotti senza volontà di inganno, e allora parleremo di paralogismi. In estrema sintesi, nella prospettiva della logica dell’argomentazione la fallacia è un ragionamento che ricorda un qualche tipo d’inferenza, ma che se sottoposto a un esame rigoroso si rivela scorretto[1].
Tra gli innumerevoli esempi possibili di fallacie intese in questa seconda accezione ce n’è uno su cui vale la pena di soffermarsi, se non altro perché compare in quello che è in assoluto il primo trattato sistematico sui ragionamenti viziati - il De sophisticis elenchis di Aristotele - e ha il pregio di essere estremamente chiaro[2]. Si tratta della fallacia d’accidente converso, un tipo di generalizzazione indebita che nasce dal considerare ciò che vale sotto un determinato aspetto (παρὰ τὸ πῄ, traducibile nei termini della logica medievale con secundum quid) come se valesse in assoluto, in sé e per sé (ἁπλῶς, corrispondente al latino simpliciter). In base a questo indebito procedimento generalizzante, dal fatto che un indiano è nero ma ha i denti bianchi si passa a concludere, erroneamente, che questo indiano è al contempo bianco e nero (Soph. el., 167a 7-9)[3]. Nel presente lavoro mi occuperò di fallacie intendendole in questo secondo senso, ossia nell’accezione ristretta; mi occuperò cioè di “fallacie logiche”. Più nel dettaglio, mi concentrerò su una particolare classe di ragionamenti scorretti: quella delle argomentazioni viziate che realizzano il loro potenziale comico.
[...]
Per sgombrare il campo da ogni possibile equivoco, occorre però aggiungere subito che qui mi soffermerò sulle fallacie comiche per come appaiono nella letteratura.
[...]
Per provare a esplicitare gli scopi delle fallacie comiche nella letteratura conviene rifarsi ancora una volta a Freud, e nello specifico all’analisi di ciò che egli chiama «storielle con una facciata logica» (o «motti concettuali sofistici»). Secondo Freud, se questo tipo di barzellette mostra una parvenza logica così robusta da rivelarsi come tale solo in seguito a un esame più attento è appunto perché lo scherzo tradisce qualcosa di serio, cela una logica ancor più profonda[4]. Orlando, che dal libro freudiano sul Witz ha tentato di estrapolare una teoria generale del comico letterario, scrive a ragione che i motti con una facciata logica sono «di una logica sofistica, esagerata, che dissimula anziché ostentarla l’erroneità dei propri ragionamenti secondo il livello della coscienza, e con ciò stesso ostenta fingendo di dissimularla la validità dei ragionamenti stessi secondo un’altra logica di fondo»[5].
È proprio questa dialettica di erroneità e validità, di illogicità e logicità che caratterizza le fallacie comiche rinvenibili nelle opere letterarie. Vale perciò la pena di approfondirne l’esame e di articolarne i momenti costitutivi. In prima battuta il lettore (mi riferisco al lettore modello) prende per buono il ragionamento incongruo; in altre parole si lascia persuadere dalla sua coerenza apparente. Il pensiero critico e la valutazione razionale subentrano in lui solo in un secondo momento, così da rendergli la fallacia palese, riconoscibile, e con ciò stesso da muoverlo al riso. Ma non è tutto: il lettore è infine portato a riconsiderare l’argomentazione comica e a intuire che quel che gli pareva erroneo così erroneo non è, dal momento che fa luce su verità paradossali ma profonde a cui la logica ordinaria non può né vuole accedere[6]. Da questa angolatura, assurdo non è più tanto e solo il ragionamento fallace, ma anche e soprattutto qualcos’altro di più generale. Se si vuole, il sistema di pensiero corrente e le sue leggi ritenute inattaccabili.
Un esempio chiarirà meglio cosa intendo: «L’unico modo per liberarsi di una tentazione è quello di cedervi»[7]. Tra tutte le massime che in The Picture of Dorian Gray (1890) Wilde mette in bocca a Lord Henry Wotton, irresistibile campione di freddure, questa è forse la più celebre. Essa di primo acchito sembra sensata, convincente. Tuttavia, a un esame più approfondito, l’aforisma rivela tutta la sua inconsistenza argomentativa. A rigor di logica, oltre a quella suggerita da Lord Wotton, vi sarebbe infatti un’altra e ben più valida soluzione per liberarsi di una tentazione: quella di metterla a tacere, di ignorarla e in definitiva di reprimerla. Come si vede, ci troviamo qui a ridere di una fallacia facilmente individuabile, che è nota come evidenza soppressa (o unilateralità) e che consiste nel dimenticare per strada alcune informazioni in grado di invalidare la tesi proposta. Benché tutto questo sia esatto, va pur detto che la massima sopra citata non si esaurisce nell’errore logico e nel comico puro. Nonostante l’incongruenza, e anzi proprio in virtù di questa, Wilde mira a farci intravedere qualcosa di serio: che tutto sommato non c’è davvero altro modo per liberarsi di una tentazione se non quello di cedervi. Per convincersene, basta leggere come il discorso di Lord Wotton continua: «Resistetele, e la vostra anima si ammalerà di bramosia per le cose che si è proibite da sola, di desiderio per ciò che le sue leggi mostruose (monstrous laws) hanno reso mostruoso e illegittimo (monstrous and unlawful)»[8]. Qui Wilde vagamente anticipa una idea che da lì a poco la psicanalisi cercherà di fondare su basi scientifiche. Per quanto proviamo a domarlo, il desiderio - mostruoso e proibito, sì, ma solo nell’ottica della ragione dispiegata - non si lascerà mai ammansire e combatterà con tutte le proprie forze per emergere. Con buona pace della mentalità borghese-puritana, additata come il “vero” bersaglio comico del ragionamento.
Quanto detto può essere riformulato e arricchito combinando la terminologia di Freud con quella del suo erede cileno Matte Blanco: le fallacie comiche della letteratura sono - un po’ come i sogni, i lapsus e i sintomi psiconevrotici, benché calcolate e coscienti - «formazioni intermedie e di compromesso»[9], frutti di un «sistema logico-antilogico»[10]. Esse ci spingono da un lato a ridere con superiore distacco di assurdità che a tutta prima paiono il risultato di una disattenzione, di un disimpegno mentale, e dall’altro a sentire in modo partecipe che il pensiero consueto in fondo non è altro che uno tra i molti tipi di pensiero possibili e immaginabili. Credo che D’Angeli e Paduano vogliano suggerire qualcosa del genere quando scrivono che nel riso diretto ai danni di chi pronuncia ragionamenti aberranti si maschera il timore che la sua logica altrettanto strutturata e resistente costituisca un grave rischio per la presunta inattaccabilità del sistema di pensiero corrente: le sue leggi, date senza verifica per completamente affidabili, se messe sotto la lente di un simile sguardo straniante, si rivelano discutibili e quindi incerte, e coinvolgono nel dubbio l’intero sistema logico[11].
Ricapitolando, le fallacie comiche in letteratura hanno un intento duplice e ambiguo: punire col riso le argomentazioni che si discostano dalla logica ordinaria e, contemporaneamente, rimarcare i limiti e i vincoli delle certezze comuni. Da ciò si ricava che nella finzione letteraria i ragionamenti ridicoli si presentano come un salvacondotto grazie a cui formidabili deviazioni dalla logica e dal pensiero razionale riescono a trapelare in modo socialmente fruibile. Lo scopo di questo lavoro è appunto mettere in luce, attraverso un congruo numero di esempi, in quali modi la letteratura può trasgredire la logica consueta e dare risalto alle verità paradossali e profonde che emergono proprio in virtù del sovvertimento della logica.
** Fonte: Le parole e le cose, 3 dicembre 2020 (ripresa parziale - senza note)
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NOTA
LOGICA E REALTÀ: LE FALLACIE “COMICHE” NELLA LETTERATURA DELLA TRAGEDIA.
E le fallacie tragiche nella letteratura della “Commedia” e della “Monarchia” di Dante Alighieri...
SE “le fallacie comiche in letteratura hanno un intento duplice e ambiguo: punire col riso le argomentazioni che si discostano dalla logica ordinaria e, contemporaneamente, rimarcare i limiti e i vincoli delle certezze comuni [....]”, alla fin fine, confermano il sentimento tragico della vita in cui si collocano. O no?
Se è così, non è meglio capovolgere il senso del cammino e mettere in luce le fallacie “tragiche” nella “Commedia”, e nella “Monarchia”, come da lezione di Dante?! O no?!
UNA "GALLERIA DI PAPI", LA "DONAZIONE DI COSTANTINO", E "IL GRANDE ROMANZO DEI PAPI" ... *
“Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro” di Riccardo Ferrigato. Intervista ...
di Letture*
Dott. Riccardo Ferrigato, Lei è autore del libro Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro edito da Newton Compton: in che modo la storia dell’umanità si è intrecciata con quella millenaria di una delle più influenti istituzioni che l’umanità abbia creato, il papato?
Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro, Riccardo FerrigatoFare riferimento alla “storia dell’umanità” è forse eccessivo, ma di certo il papato è stato elemento di notevole influenza per la storia europea e, in maniera più limitata e differenziata, per quella di alcune aree extraeuropee in cui il cattolicesimo ha avuto una significativa diffusione. In che modo lo ha fatto? Secondo registri completamente differenti, cioè mutando, modificandosi, adeguandosi ai tempi: non credo sia possibile che un’istituzione sopravviva altrimenti per un così lungo periodo.
Il vescovo di Roma ha maturato nei secoli, per gradi, un ruolo preminente all’interno della Chiesa - ruolo che, almeno nel primo millennio della sua storia, era tutt’altro che incontestato - e contemporaneamente ha giocato un ruolo politico in continuo divenire, con fasi di crescita e altre di declino, guadagnando il proprio spazio di manovra tra imperi, regni e repubbliche. Difficile sintetizzare in poche righe la parabola di questo percorso, ma direi così: finché il potere politico di un re o un imperatore ha avuto bisogno di giustificare la propria autorità attraverso il trascendente, il papa è stato un riferimento indispensabile. Questo, in realtà, ha determinato spesso la sottomissione della cattedra di Pietro ai bisogni di questa o quella corona, ma anche la crescita, lasciando persino spazio al sogno, mai realizzato, di mettere il vicario di Cristo al vertice dell’intero occidente.
In che modo da un modesto pescatore di Galilea si è giunti a fare del vescovo di Roma un monarca?
Il pescatore di Galilea, Pietro, primo tra gli apostoli di Gesù di Nazaret, non immaginava una chiesa strutturata in maniera verticista, probabilmente non pensava a figure assimilabili a quelle dei vescovi e lontanissima da lui era l’idea di una singola persona a capo di tutti i cristiani. Da ebreo qual era, immaginava piuttosto i fedeli riuniti secondo le modalità con cui la religione del suo popolo si organizzava da sempre, in piccole comunità collegate ma indipendenti, pronte all’imminente parusia, la venuta di Gesù alla fine dei tempi. Figuriamoci se può mai aver immaginato un vescovo che diviene monarca, cioè che assume su di sé anche un potere temporale!
In estrema sintesi, questo è stato possibile grazie a tre passaggi. Il primo è stato frutto dell’azione di Costantino, che ha dato alla chiesa una struttura affine a quella del potere imperiale, affiancando alle strutture di governo civile quelle ecclesiastiche. In secondo luogo, con la caduta dell’impero romano d’Occidente, la chiesa ha rafforzato la propria funzione politica, con i vescovi, a Roma e altrove, che divennero custodi - si pensi a Leone e Gregorio Magno - dei propri territori di influenza. Infine, l’alleanza con i Franchi di Pipino il Breve: nell’VIII secolo questo sovrano in cerca di una sacra investitura (Pipino non era re per diritto di nascita) conquistò al papa i territori di quello che divenne lo Stato della Chiesa. Di fatto Pipino e Stefano II, il papa dell’epoca, si legittimarono sul trono a vicenda.
Come è stato possibile che santi e martiri abbiano condiviso il medesimo scranno dei dissoluti papi del Rinascimento?
I papi sono stati 266 e questa gran massa di uomini rappresenta un completo campionario dell’animo umano: ogni passione - ma anche ogni vizio, ogni virtù - è stata incarnata. D’altra parte la cattedra di Pietro è un luogo di potere e il potere ha un effetto determinante sugli esseri umani, ne porta alla luce e ne inasprisce i tratti dell’animo.
La maggior parte degli uomini e delle donne possono permettersi di trascorrere una vita all’insegna di una tranquilla mediocritas: né troppo buoni né troppo malvagi, non ci è richiesto di dimostrare grande coraggio o eccezionali doti. Per un sovrano è diverso: nessuna via di mezzo per chi porta la corona, egli sarà vile o temperante, magnanimo o malvagio, perché il potere nelle sue mani è determinante per la vita o la morte di comunità intere.
Nel caso specifico del pontefice, poi, la tensione tra il potere politico e quello spirituale ha determinato spesso una vera iattura. Di norma ci riferiamo ai papi dissoluti del Rinascimento come a coloro che hanno umiliato la cattedra di Pietro - concubinari, nepotisti, festaioli, rivestiti di pietre e tessuti preziosi - ma alcuni di loro, con trame e strategie raffinate, hanno salvato la Chiesa del loro tempo. Al contrario, sant’uomini e personaggi di specchiata moralità, poiché sprovvisti di astuzia politica, hanno talvolta determinato la rovina dell’istituzione di cui erano a capo. Essere insieme re e sommi sacerdoti è come essere servi di due padroni e raccapezzarcisi non è semplice. Per questo Paolo VI poté dichiarare che era stata la Divina provvidenza, nel 1870, a togliere al papa l’incombenza di una corona da sovrano.
Quali sono state le figure di pontefici che maggiormente hanno inciso sulla storia del papato? La lista sarebbe lunghissima e, alla fine, non potrebbe risultare esaustiva. Tante e tali sono le rivoluzioni in questa storia di venti secoli, e tanti i frangenti sui quali un pontefice risulta determinante, che classifiche del genere sono davvero impossibili. In tempi recenti, però, non c’è alcun dubbio: la vera rivoluzione è stata quella di Giovanni XXIII e Paolo VI, grazie al coraggio del primo - quello di inaugurare un concilio, un vero concilio, aperto alla discussione e senza esiti predeterminati - e alla tenacia del secondo, che quell’assemblea ha condotto felicemente in porto. Un esito tutt’altro che scontato. Si tratta di una vicenda esemplare di come due pastori profondamente diversi per temperamento, per estrazione sociale, per esperienze pregresse, uniti quasi solo dalle comuni radici lombarde, abbiano governato la Chiesa con stili diversi, ma siano stati capaci di guardare nella medesima direzione. Purtroppo, però, il modello di una Chiesa maggiormente assembleare si è dovuto poi scontrare con un pontificato, quello di Giovanni Paolo II, fortemente accentratore. La Chiesa è così: si muove lentamente e, anche se talvolta subisce accelerazioni improvvise, la resistenza al cambiamento - la resilienza delle sue strutture secolari - rimane uno dei suoi caratteri distintivi.
Come è destinata a cambiare nel futuro, a Suo avviso, questa istituzione?
Previsioni di questo genere sono destinate a rivelarsi sempre inaccurate e, nel caso della Chiesa cattolica, è particolarmente difficile districarsi tra le tante correnti che spingono la barca di Pietro in diverse direzioni. Inoltre, la Chiesa è una struttura gerarchica, verticista, dove ogni cambio di pontefice può generare rivolgimenti prima impensati, tanto quanto le reazioni conseguenti. Bergoglio ha dato un’impronta, in questi anni, ma nessuno garantisce che il successore vorrà seguire il suo stesso percorso.
Su almeno un punto, però, la direzione è chiara poiché si tratta di un cambiamento ormai duraturo e inarrestabile: la Chiesa sta divenendo sempre più “cattolica”, vale a dire universale. Paesi un tempo marginali oggi guadagnano di importanza; cattedre vescovili prima considerate irrilevanti oggi si fanno centrali, mentre da decenni si parla di un’Europa scristianizzata. La Chiesa, da questo punto di vista, sta mutando lentamente ma inesorabilmente e anche il papato ne risentirà. Se si vuole un metro di giudizio, basti pensare a coloro che oggi entrerebbero in un immaginario conclave. Gli arcivescovi di città come Milano o Parigi rimarrebbero nei loro palazzi, dato che non sono cardinali; lo sono invece quelli di Kigali, in Ruanda, o di Bangui nella Repubblica centrafricana. E questi sono solo alcuni dei tanti che potrei riportare.
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Fonte: Letture.org
NOTE:
A) - [LA "GALLERIA DEI PAPI"]: CELEBRANDOSI #OGGI [10.11.2020] LA FIGURA DI PAPA #LEONEMAGNO (https://it.wikipedia.org/wiki/Incontro_di_Leone_Magno_con_Attila ), SUL FILO DELLA #MEMORIA DI #RAFFAELLO E #GIULIOII, è BENE RICORDARE DI FARE QUANTO PRIMA UNA VISITA ALLA #GALLERIADEIPAPI DI #PALAZZOALTIERI AD #ORIOLOROMANO...
B) - #Rinascimento e #filologia:"#Erasmo non ha ancora scritto il suo #Elogiodellafollia [pubblicato nel 1511], #Lutero non ha ancora affisso le sue #tesi" [rese pubbliche nel 1517], #AntonioFerrariis, il #Galateo, dona nel 1510 a #GiulioII un esemplare greco della #DonazionediCostantino.
C) - #DANTE2021 #RINASCIMENTO #OGGI. Svegliarsi dal #sonnodogmatico, accogliere l’analisi di #LorenzoValla (https://it.wikipedia.org/wiki/Donazione_di_Costantino) e l’indicazione antropologico-politica dei #DueSoli
Federico La Sala
“M”: (DANTE, D’ANNUNZIO, E) MUSSOLINI. SULL’UTILITA’ E IL DANNO DELL’ARALDICA PER LA VITA...*
LA BONIFICA DELL’AGRO PONTINO E LO STEMMA DELLA CITTA’ DI APRILIA (25 aprile 1936). A BEN RIFLETTERE, SE SI CONSIDERA che “Il primo bozzetto acquerellato dello stemma del nuovo centro dell’Agro Pontino fu predisposto da Araldo di Crollalanza, presidente dell’O.N.C. (Opera Nazionale Combattenti), e erede di una famiglia di insigni araldisti che contribuirono tra la fine del XIX sec. e l’inizio del XX a un aggiornamento in Italia della scienza del blasone” e, ancora, che “un velato riferimento al nome del fondatore della Città sembra non mancare nello stemma. Esso è dato dalla disposizione delle rondini che non sembra affatto casuale. Infatti le rondini tracciano idealmente una lettera M maiuscola considerate insieme all’andamento perpendicolare dei fianchi dello scudo [...] Tale stratagemma del richiamo al nome di Mussolini era più esplicito nella prima versione dello stemma di Pontinia [...]. Un richiamo del genere si trovava anche nell’originario stemma di Sabaudia, nel quale campeggiava un’aquila caricata da uno scudo sabaudo e posata su tre monti che, per numero e disposizione, accennavano ad una lettera M” (cfr. don Antonio Pompili, “Lo stemma”, Comune di Aprilia, NON E’ IMPENSABILE CHE nel “gioco” dell’immagine elaborata da Araldo di Crollalanza sia presente una volontà di alludere a Dante (alla “M”, all’Aquila, del canto XVIII del Paradiso) e al contempo di inviare un “messaggio” al “primo duce”, a D’Annunzio (e al suo “Dantes Adriacus”).
* Nota a margine dell’articolo di Aurelio Musi, "Un caso letterario: M, l’uomo della Provvidenza", "L’identità di Clio", 5 Ottobre 2020.
Federico La Sala
DUE SOLI.
La Costituzione, la "Monarchia" di Dante, e la indicazione di Papa Francesco...
Pagare il tributo a Cesare «è un dovere»! Con la precisazione evangelica sulla necessità di pagare le tasse allo Stato (secondo la Costituzione della Repubblica italiana), Papa Francesco apre la strada a Dante -2021 e, insieme, a una comprensione più precisa e contestualizzata della "misteriosa" figura che "fece per viltade il gran rifiuto".
Federico La Sala
Uscire dal letargo (Dante), dall’orizzonte di Edipo (Freud)!
Dopo sette secoli dalla morte di Dante Alighieri non è forse giunta, infine, l’ora di chiarirsi le idee sulla "bella e beata" (Inf. 53), Beatrice, e sulla relazione evangelica del Figlio con la Madre ?! :
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE : UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA".
Federico La Sala
Inclusa est flamma, Ravenna omaggia Dante
Focus su celebrazioni del 1921, VI centenario morte del poeta
di Marzia Apice (Ansa, 27 agosto 2020)
RAVENNA, 27 AGO - I celebri sacchi di Gabriele D’Annunzio pieni di foglie di alloro e decorati da Adolfo De Carolis col motto "Inclusa est flamma" ("la fiamma è all’interno") in omaggio a Dante, a stabilire un parallelo tra la fiamma che ardeva sulla tomba del sommo poeta e la fiamma perenne che veniva custodita presso il santuario di Apollo a Delfi; il modello in bronzo del monumento di Dante a Trento, realizzato da Cesare Zocchi nel 1896; le opere del triestino Carlo Wostry (1865-1943), dal titolo Dante nella pineta e I funerali di Dante. E poi alcune firme, di personaggi illustri e comuni cittadini, lasciate come testimonianza durante la visita al sepolcro di Dante, tra cui gli autografi di papa Pio IX, che trascrisse dei versi danteschi ma non lasciò firma, e di quell’anonima signora fiorentina che chiese perdono al poeta per espiare la colpa di Firenze, quando, cinque o sei secoli prima, venne decretato il suo esilio dalla città natale.
Sono alcuni dei pregiati e originalissimi
pezzi - tra libri, manifesti, fotografie, dipinti, manoscritti e oggetti d’arte - che impreziosiscono la mostra "Inclusa est flamma. Ravenna 1921: il Secentenario della morte di Dante", a cura di Benedetto Gugliotta e organizzata dal Comune di Ravenna, dal MAR - Museo d’Arte della città di Ravenna e dalla Biblioteca Classense per celebrare i 700 anni dalla morte del sommo poeta.
La mostra, in apertura l’11 settembre alle 17 presso la Biblioteca Classense e prima delle tre che compongono il progetto espositivo "Dante. Gli occhi e la mente" (in programma da settembre 2020 fino a luglio 2021 presso il MAR, la chiesa di San Romualdo e la Classense), è a ingresso libero e resterà allestita fino al 10 gennaio: un’occasione non solo per rendere omaggio all’incommensurabile valore dell’opera dantesca, ma anche per ricordare una pagina della storia ufficiale (nazionale e ravennate), a sua volta legata a tante piccole storie particolari, ancora poco conosciute.
L’esposizione si configura come un accurato percorso di documentazione storica, che ha il suo fulcro nella rievocazione delle celebrazioni nazionali per il VI centenario dantesco del 1921, inaugurate l’anno prima proprio alla Biblioteca Classense alla presenza dell’allora Ministro della Pubblica Istruzione Benedetto Croce. -Come documenta la mostra, le celebrazioni del 1921 vennero precedute da altri momenti importanti: nel 1908 furono organizzate per esempio dalla Società Dantesca Italiana le "Feste dantesche", nel corso delle quali si ritrovarono a Ravenna rappresentanti di città e territori allora sotto la sovranità dell’Impero asburgico. Proprio in quell’occasione nacque la Cerimonia dell’olio, con la città di Firenze che offre l’olio destinato ad ardere nella tomba di Dante, sempre come atto simbolico per riparare alla decisione di mandare in esilio il poeta.
L’esposizione offre anche la possibilità di vedere riuniti per la prima volta insieme due esemplari (uno della Biblioteca Classense, l’altro della storica Casa editrice Olschki) della pregiata edizione celebrativa per i 50 anni dell’Unità d’Italia e a tiratura limitata (solo 306 esemplari) della Divina Commedia, accanto al manoscritto autografo del proemio, scritto da Gabriele D’Annunzio. Infine, tra i pezzi più importanti, anche il manifesto ufficiale del Secentenario, di grande formato (cm 200x150) recentemente restaurato ed esposto a Ravenna per la prima volta dopo il 1921, ottenuto grazie alla collaborazione con l’Archivio Chini di Lido di Camaiore (LU), custode della memoria di Galileo Chini (1873-1956), grande interprete italiano dello stile Liberty.
Nota:
STORIA, STORIOGRAFIA, E IMMAGINARIO: DANTE 1921.
D’Annunzio imbarca sulla sua Nave, la tragedia adriatica ("tragoedia adriaca") del 1905 (e film nel 1921), anche Dante Alighieri, con la sua Divina Commedia - Dantes Adriacus!
Federico La Sala
Interpretare la «Commedia»
Dante era anche un profeta?
di Claudio Giunta (Il Sole-24 Ore, Domenica, 12 luglio 2020)
«Dante, io credo, aveva avuto esperienze che egli riteneva di una certa importanza». Dopo tanto leggere e meditare, questa frase sempliciotta di un amatore, non di uno studioso, T.S. Eliot, finisce per essere quella che ancora definisce meglio, cioè con minor coefficiente di arbitrio, la singolare personalità artistica di Dante Alighieri.
Quali furono queste esperienze «di una certa importanza»? Ci fu l’innamoramento per una ragazza morta giovane, Beatrice Portinari, un innamoramento che Dante trasfigurò in una vicenda di miracolo e di redenzione; ci fu la condanna all’esilio, e vent’anni di contumacia con i pericoli e la miseria che questa portava con sé, dal 1301 alla morte nel 1321; e ci fu... Qui le cose si complicano, perché la terza esperienza è quella che si trova raccontata nella Commedia, e mentre le prime due sono state certamente reali, radicate nella biografia, questa è un’opera dell’immaginazione, benché il protagonista si chiami Dante e presenti la sua avventura ultraterrena non come un sogno ma come un avvenimento verificatosi nel mezzo del cammino della sua vita.
Non basta: all’interno di quest’opera d’immaginazione che si presenta come referto di un’esperienza reale Dante dissemina una serie di profezie che riguardano sia il destino del mondo dopo l’anno 1300, quando il viaggio ultraterreno ha luogo, sia il suo proprio destino. Non basta ancora: queste profezie appartengono in parte alla categoria che si definisce post eventum, vale a dire che il poeta annuncia o meglio fa annunciare a un suo personaggio, adoperando un verbo al futuro, eventi che si sono già verificati nel lasso di tempo che intercorre tra la data del viaggio di Dante e la scrittura del poema (per esempio: «Dopo lunga tencione / verranno al sangue e la parte selvaggia / caccerà l’altra con molta offensione»: questa resa dei conti tra Bianchi e Neri, vaticinata da Ciacco, ha già avuto luogo quando Dante scrive); ma in parte sono profezie reali, affidate a un futuro che Dante può solo immaginare, o meglio sperare, come quella relativa al riscatto della Chiesa dalla cattività avignonese e alla prossima vendetta di un «cinquecento diece e cinque», cioè di un imperatore, che Dante fa pronunciare a Beatrice nell’ultimo canto del Purgatorio.
A questo aspetto cruciale e complesso della Commedia, la sua dimensione profetica, è dedicato questo bel volume curato da Giuseppe Ledda. Il tema ha alcuni snodi quasi obbligatori, e tra l’altro, dal lato storico, il rapporto tra il profetismo dantesco e la predicazione di Gioacchino da Fiore, con i suoi riflessi sul pensiero di francescani spirituali (Pietro di Giovanni Olivi, Ubertino da Casale) che a Dante poterono essere familiari; dal lato storiografico, la verifica delle tesi di Bruno Nardi, il cui saggio Dante profeta, pubblicato nei primi anni Quaranta, ha riaperto la moderna discussione critica sull’argomento.
Il saggio di Sergio Cristaldi che apre il volume è una guida eccellente sotto entrambi gli aspetti (e in realtà molto di più perché la questione del profetismo viene calata da Cristaldi in una storia dell’interpretazione della Commedia dal Trecento ai giorni nostri dalla quale può imparare qualcosa anche il lettore esperto: tanto è vero che anche il riepilogo di cose note può riuscire illuminante, se il punto di vista dal quale si guarda è originale).
I saggi successivi si possono riunire in due famiglie, a seconda che studino la questione sotto il profilo generale, storico (Anna Rodolfi, che illustra i trattati profetologici del secolo XIII, con particolare riguardo per Tommaso d’Aquino), o approfondiscano il tale o talaltro aspetto del profetismo dantesco, con proposte inedite sulle possibili fonti (la Vita Mariae di Giacomo da Vitry, studiata da Francesco Santi), approfondimenti su intertesti già esplorati ma ancora potenzialmente ricchi di spunti (Niccolò Maldina e Paola Nasti sulla Bibbia, Giuseppe Ledda sui classici latini, Luca Azzetta sull’Epistola a Cangrande).
Il libro è pieno di dati e riflessioni interessanti, ed è un libro che parla di Dante - precisazione che può sembrare superflua, ma che superflua non è dal momento che gli studi danteschi degli ultimi anni, o decenni, sono spesso studi intorno a più che studi su: se ne esce dottissimi, ma sulle idee o sui versi di Dante non si è imparato granché. Qui no; e, tra tante questioni sottili che vi si discutono (a volte anche troppo sottili, a volte contro i dantisti bisognerebbe ritorcere Dante «Per apparer ciascun s’ingegna e face / sue invenzioni; e quelle son trascorse / da’ predicanti e ’l Vangelo si tace»), ne indico una che tanto sottile non è, e alla quale - lo dico con un po’ di vergogna - non avevo mai veramente pensato, o solo distrattamente: che, nella Commedia, Beatrice o Cacciaguida profetizzino si spiega, perché l’una e l’altro vedono il futuro nel «punto / a cui tutti li tempi son presenti» (Pd XVII 17-18); ma il dannato Ciacco? Il dannato Farinata? Perché mai, con quale giustificazione Dante fa loro dono della facoltà di prevedere il futuro? Rimando il lettore interessato al saggio di Anna Rodolfi (e naturalmente non conta, non conta mai, che la spiegazione sia del tutto convincente, conta aver posto bene il problema).
Che fine ha fatto Creusa? Un’esegesi drammatica
Speciale "Classical reception". In un affresco di Palazzo Ratta attribuito a Ludovico Carracci, al tradizionale gruppo di Enea in fuga da Troia si aggiunge la figura della moglie dell’eroe, rapita mentre dà l’ultimo saluto ad Ascanio. Così l’artista bolognese «colmava» il silenzio di Virgilio
di Ermanna Panizon (il manifesto, Alias, 09.08.2020).
Un uomo lascia la propria città in fiamme portando sulle spalle il padre e tenendo per mano il figlio. Immagine emblematica di pietas filiale, simbolo della rinascita di una nazione, il gruppo di figure composto da Enea, Anchise e Ascanio in fuga da Troia appartiene alla cultura figurativa europea; se volessimo tracciare la storia di questo tema attraversando le epoche, non dovremmo temere cesure nel nostro racconto: lo troviamo dipinto sui vasi greci a figure nere, modellato sulle lucerne in terracotta romane, delineato dal fine pennello dei miniatori medievali. Artisti eccelsi del Rinascimento e dell’età barocca, come Michelangelo e Bernini, hanno raffigurato la famiglia troiana in cammino, attirati dall’opportunità di cimentarsi con una composizione di figure complessa (difficili le pose dei personaggi e articolato il rapporto che li lega), varia (un giovane, un anziano, un bambino) e drammatica. Grazie alla sua forza iconica, quell’immagine dei tre profughi che vengono dall’est approdando infine in Italia è spontaneamente evocata dalla nostra memoria ogni volta che ci imbattiamo nelle fotografie delle famiglie che ai giorni nostri scappano a piedi dalle città bombardate del Vicino Oriente e si rivolgono all’Europa per avere rifugio.
Per quanto la Fuga di Enea sia il tema figurativo più diffuso tra quelli ispirati all’Eneide - un testo la cui fortuna non ha mai subito interruzioni -, molti artisti nel rappresentare questa storia si discostano dal testo di Virgilio e variano fra loro soprattutto nel modo in cui raffigurano il destino del quarto membro della famiglia troiana: Creusa, la prima moglie di Enea. -Un caso che merita speciale attenzione è l’affresco di Ludovico Carracci in Palazzo Ratta a Bologna, per almeno due ragioni: perché è un tesoro nascosto, come tanti in Italia, che versa in uno stato di conservazione precario; e perché il grande artista bolognese che ha ideato la composizione si è fatto qui portavoce di una lunga storia di esegesi del testo virigiliano e, allo stesso tempo, ha dato forma a questa tradizione secondo la sua personale sensibilità.
Solo di recente un affresco staccato, che si conserva in una sala di Palazzo Ratta a Bologna, è stato identificato con la Fuga di Ludovico Carracci di cui parlano le fonti seicentesche, un dipinto che decorava il camino di un’altra sala dello stesso palazzo e che si credeva perduto. Si tratta di un’opera della prima maturità dell’artista (databile al 1586) che già ne rivela il talento narrativo e la finezza nell’indagare le emozioni dei personaggi. La scena dipinta, che dobbiamo immaginare illuminata in controluce dai bagliori del fuoco acceso nel camino, è tra le più drammatiche versioni di questo tema: mentre Enea cammina a grandi falcate portando il padre su una spalla, il piccolo Ascanio e la madre si scambiano disperati un estremo saluto, perché Creusa è trascinata via da un uomo armato.
Non si è persa, è stata rapita
Qui apparentemente Ludovico ha risposto con la propria fantasia a una questione che il racconto di Virgilio lascia in effetti aperta: cosa accade ad Ascanio e Creusa quella notte, dal momento in cui escono di casa fino a quando Enea, giunto al punto di incontro concordato con gli altri fuggiaschi, si accorge dell’assenza della moglie? Il poeta può evitare di nominare Creusa nelle fasi centrali della fuga - narrata in prima persona dall’eroe a Didone durante il banchetto che fa da cornice al II libro del poema - e segnalare a un certo punto la sua sparizione, lasciando al lettore il compito di immaginare quando e come essa sia avvenuta. Ma l’artista figurativo, se vuole introdurre nella storia dipinta la parte della vicenda che riguarda la prima moglie di Enea, deve mostrare la figura di Creusa e ciò che le accade. Spesso i pittori hanno rappresentato la donna in cammino vicino ai famigliari; alle volte, per alludere alla sua scomparsa, Creusa è raffigurata qualche passo indietro rispetto agli altri, come se già stesse per perdere le tracce del marito. Ludovico propone una soluzione diversa: Creusa non si è persa, è stata rapita.
Anche se siamo di fronte a una variante piuttosto rara, altre opere figurative precedenti e successive all’affresco di Carracci mostrano la moglie di Enea presa di forza da un soldato. Una di esse, in particolare, offre la chiave per comprendere questa versione del racconto: è un piatto di maiolica urbinate di metà Cinquecento dipinto su disegno di Battista Franco. Da un lato mostra la famiglia di Enea in cammino e Creusa rapita, dall’altro reca l’iscrizione ‘I Coribanti a Enea rapir Creusa’.
Ma cosa c’entrano i Coribanti, ovvero i seguaci della dea Cibele? Per capirlo bisogna ritornare al testo del poema. Il racconto di quella fatidica notte non svela cosa sia successo a Creusa. Enea ricorda che, accortosi dell’assenza della moglie, ripercorre i suoi passi dentro le mura di Troia, finché il fantasma della donna gli appare per dissuaderlo a continuare la ricerca: per lui, dice l’imago di Creusa, il destino ha in serbo una nuova compagna e una nuova terra, mentre lei stessa non andrà schiava a un principe acheo «sed me magna deum genetrix his detinet oris (mi trattiene in queste regioni la grande Madre degli Dei)».
C’è chi, come Boccaccio, legge in queste parole una perifrasi per indicare la morte: la Madre degli Dei (ovvero la terra) mi trattiene in queste regioni (ovvero sono qui morta e sepolta). Non tutti gli interpreti del testo concordano con questa lettura, perché il verso è in effetti ambiguo. Sembra che il poeta abbia lasciato volontariamente indefinito il destino di Creusa.
L’aporia del testo virgiliano nel tempo si è trasformata, come sempre accade, in sorgente di dotte interpretazioni e nuovi racconti. Alcuni commenti di età umanistica, tra i quali quello di Cristoforo Landino, spiegavano così le parole di Creusa: la dea Cibele (nota anche come la Grande Madre), impietosita dal triste destino della donna, mandò i suoi ministri, i Coribanti, a rapirla perché restasse in Frigia come sua sacerdotessa.
Ecco dunque spiegata l’iconografia del dipinto di Ludovico. È la risposta a una questione lasciata aperta nel racconto di Virgilio, che ha sollecitato l’ingegno di generazioni di lettori attenti. L’esegesi ha offerto una risposta possibile, che una volta incontrata e immaginata dall’artista, come un seme germoglia in un nuovo racconto. L’artista infatti, per la natura stessa del suo linguaggio, non può accettare ambiguità nel testo che intende tradurre in immagini: non può cioè trascurare di decidere quale emozione attribuire alle figure che tratteggia, né come vestirle, né come muoverle nello spazio. Se vuole dipingere Creusa, deve anche stabilirne il destino.
Pittore degli affetti
Ora, nessuna delle opzioni che si presentavano a Ludovico Carracci in merito a questo particolare problema, si accordava meglio alla sua sensibilità di quella effettivamente scelta per Palazzo Ratta. Ludovico è un pittore degli affetti, sensibile a tutta la scala delle emozioni umane e specialmente portato a indagare e rendere in immagine le sfumature dell’animo femminile. -L’artista qui non si è accontentato di illustrare ciò che qualche colto lettore dell’Eneide (il cugino Agostino?) gli avrà suggerito in merito alla fine di Creusa, ma ha a sua volta ragionato sugli eventi traendone una visione del tutto originale. È frutto della fantasia del pittore l’idea del commiato straziante tra Ascanio e Creusa: come potrebbe in effetti un bambino perdere di vista la madre in una situazione di così grave pericolo, sembra aver pensato Ludovico, e come potrebbe una madre accettare di staccarsi dal proprio figlio piccolo? L’inconsapevolezza di Enea, che guarda l’osservatore negli occhi e continua a marciare, senza avvedersi di ciò che accade al suo fianco, intensifica il carattere drammatico della scena.
Vediamo qui all’opera non un mero illustratore ma un interprete del testo virgiliano, che ha impiegato i mezzi espressivi proprii della sua arte come strumenti di esegesi del racconto. Si auspica perciò che un dipinto di tale bellezza e importanza culturale sia presto sottoposto alle operazioni di restauro necessarie a restituirgli, per quanto possibile, il suo aspetto originale.
“Vita di Dante. Una biografia possibile” di Giorgio Inglese
Intervista di Letture*
Prof. Giorgio Inglese, Lei è autore del libro Vita di Dante. Una biografia possibile edito da Carocci: cosa sappiamo davvero di Dante Alighieri?
Il confronto fra i documenti d’archivio, le testimonianze e le pagine autobiografiche ci consegna un profilo sommario ma, nelle sue linee fondamentali, abbastanza sicuro. Sono note e certe le date di nascita (1265) e morte (1321), l’elezione al collegio dei priori del comune fiorentino (15 giugno-15 agosto 1300), l’inizio dell’esilio (1301/1302), le tappe principali del suo peregrinare: Verona (1303-1304), la Lunigiana (1306-1308 e forse 1314-15), il Casentino (1309-1310), Verona (1316-19) e infine Ravenna - dove il Poeta è sepolto. Il canone delle sue opere è solidamente costituito, con la sola eccezione di due poemetti, il Fiore e il Detto d’amore, e di un Accessus alla Commedia (accluso a una epistola a Cangrande della Scala) la cui attribuzione è controversa.
Quali sono le principali fonti documentarie intorno alla vita del sommo poeta?
Possediamo una ventina di documenti d’archivio in cui compare il nome di Dante, la maggior parte dei quali relativa alla sua attività nei consigli del comune fiorentino nel periodo 1295-1301. Sono anche attestati il suo matrimonio con Gemma Donati, stabilito nel 1277 e perfezionato con la maggiore età; la condanna a morte che lo colpì nel 1302; la partecipazione attiva al fuoruscitismo armato nel medesimo anno; il servizio presso i signori Malaspina, in Lunigiana nel 1306; l’esclusione dalle amnistie del 1311 e del 1315.
Quale fu la cronologia della stesura della Commedia?
Nelle sue Esposizioni del poema dantesco, databili al 1373-74, il Boccaccio riferisce la testimonianza di un presunto nipote del Poeta, Andrea Poggi (scomparso parecchio tempo prima, fra il 1322 e il 1334), secondo il quale i primi sette canti dell’Inferno, composti nel 1300-1301, sarebbero stati ritrovati ritrovati anni dopo fra le carte domestiche dell’esule e fatti pervenire al Poeta in Lunigiana, alla corte di Moroello Malaspina (quindi, nel 1306 o 1307): solo per la preghiera del marchese, Dante avrebbe allora ripreso la stesura dell’opera. Tuttavia lo stesso Boccaccio muove un’obiezione decisiva alla plausibilità del racconto, quando fa notare che il sesto canto contiene inequivocabili accenni a fatti del 1301-1302. Anche ammesso che i sette canti fossero stati scritti prima dell’esilio, sarebbero stati modificati dopo quella data, in una misura ovviamente indefinibile.
Nell’ordine contenutistico e concettuale delle opere di Dante, è invece probabile che l’ideazione e la stesura del poema coincida con l’interruzione del Convivio, tra l’estate del 1308 e i primi mesi del 1309, e sia sostanzialmente collegata alle aspettative di rinnovamento etico-politico generate dalla elezione di Enrico di Lussemburgo a Imperatore (6 gennaio 1309).Il fatto più recente esplicitamente riferito nella prima cantica è la morte dell’usuraio Gianni dei Becchi, prima metà del 1310 (canto XVII, vv. 72-73). Ma la “profezia” della eterna dannazione di papa Clemente V (canto XIX vv. 79-87) presuppone verosimilmente la morte di questi (20 aprile 1314), o almeno l’infelice conclusione dell’avventura imperiale di Enrico (morto in terra toscana il 24 agosto 1313), che Dante imputava anche alla slealtà del papa. In ogni caso, la prima cantica non può essere stata “chiusa” dal Poeta se non in una fase di raccoglimento letterario, successiva a quella dell’impegno politico e dottrinario (la Monarchia) a fianco di Enrico.
Quanto al Purgatorio, è probabile che Dante lo abbia tenuto aperto sul suo scrittoio fino all’estate del 1315, dato che poté inserirvi (XXIII, vv. 106-111) la “profezia” della battaglia di Montecatini (24 agosto), in cui l’esercito guelfo, messo in campo da Firenze e dagli angioini, fu sanguinosamente battuto da Uguccione della Faggiola. La composizione del Paradiso dovrebbe distribuirsi fra Verona (i primi venti canti, che includono l’alto elogio dell’ospite Cangrande della Scala) e Ravenna (gli ultimi tredici canti, che, racconta Boccaccio, furono trovati dopo la morte del Poeta, fra le sue carte, dal figlio Iacopo).
Quali vicende attribuite all’Alighieri sono in realtà leggendarie?
La tradizione pseudo-biografica riferita da Boccaccio registra due eventi che, se fossero testimoniati attendibilmente (e non lo sono), avrebbero un rilievo notevole: un viaggio di studi a Parigi, presso la Sorbona; una prima stesura del poema, avviata in latino e quasi subito abbandonata: un’epistola attribuita al monaco Ilàro ne riporterebbe i primi due versi (esametri) e mezzo.
Nel Suo testo, Ella disegna un profilo biografico di Dante basato sulle sue note autobiografiche: quali informazioni è possibile desumere direttamente dalle opere dantesche?
L’esile disegno che si ritrae dai dati documentari e da qualche testimonianza (come quelle, preziosissime, raccolte da Leonardo Bruni) prende sostanza storica e patetica grazie alle frequenti allusioni autobiografiche contenute nelle opere (sarebbe anzi più adeguato parlare di “dimensione” autobiografica che caratterizza l’opera di Dante, soprattutto Vita nova e Commedia, ma anche i trattati). Una vicenda importantissima come quella dell’amore per Beatrice è, ad esempio, del tutto priva di riscontri documentari (si sa solo che a Firenze, nel 1288, viveva effettivamente una Bice di Folco Portinari, moglie di Simone dei Bardi).
* Fonte: Letture.org
RICORDANDO IL “MISTICO” WITTGENSTEIN (“L’Io è il mistero profondo”, “e non dell’io in senso psicologico”, Quaderni 1914-1916) E LA MADRE-LINGUA CHE VERRA’...
Una nota a margine di "Letteratura e mistica" *
“[...] 3. Una sponda sicura per sostenermi in quest’operazione la trovo in una recente monografia di Massimo Stella, Madreparola (Mimesis, Milano 2017), nella quale l’autore si preoccupa di osservare le “risorgenze” della Musa fra modernismo europeo e antichità classica: scrive Stella: “[...] la Musa, come sappiamo, è illetterata; è orale, gestuale, corporea. Non sa e dunque non rispetta le regole convenzionali della lingua [...]. La sua è poesia, parole non langue [...] tantomeno conosce il gioco meticoloso della scrittura” (p. 42). Osservare le metamorfosi della Musa da un punto di vista storico-letterario significa andare al centro del problema della generazione poetica, guardandolo da una distanza prospettica insieme antica e nuovissima (e in questo, Madreparola si dà come strumento preciso e acuminato, uno di quei rari testi che, costruendo un nuovo paradigma, necessariamente obbliga il lettore a un generale ripensamento del letterario): problema dell’indagine è quindi rintracciare l’origine della letteratura come forma di memoria collettiva” (Francesca Caraceni, “Letteratura e mistica” , Nazione Indiana, 9 luglio 2020).
SOLO “UNA SPONDA SICURA”, QUELLA DELLA “PAROLE”, NON BASTA. Se la Musa “non rispetta le regole convenzionali della lingua [...] è poesia, parole non langue [...] tantomeno conosce il gioco meticoloso della scrittura”, COME PUO’ PORTARE ALLA SPONDA DELLA “LANGUE”, “al centro del problema della generazione poetica” e, al contempo, ” rintracciare l’origine della letteratura come forma di memoria collettiva”?! Non è, forse, meglio ri-tornare sugli storici passi fatti fino al corrente antropocene, ri-seguire le indicazioni dei “profeti” e delle “sibille” e, ri-evitando gli edipici scogli di Scilla e Cariddi, portarci con l’Ulisse di Dante e Joyce, nell’oceano cosmico (Keplero) di una creatività antropologica all’altezza del pianeta Terra? “Sàpere aude!” O no?!
*
Uscire dal letargo "teologico" e "filologico" e dalla notte «in cui tutte le vacche sono nere»! La mistica dell’Amore (Deus charitas est), o quella di "Mammasantissima" e di "Mammona" ("Deus caritas est")?! *
Spiritualità.
Mistica cristiana: le nozze di eros e caritas
I Meridiani pubblicano il primo di tre volumi dedicati alla mistica cristiana. L’incontro con Dio supera ogni limite, fisico e linguistico, e si configura come esperienza sensibile di un amore totale
di Rosita Copioli (Avvenire, mercoledì 1 luglio 2020)
La Mistica Cristiana (Mondadori, I Meridiani, pagine. LXXXVIII+1624, euro 70,00), è il primo dei tre volumi di una vastissima opera - estesa dalle origini ai nostri giorni - ideata dieci anni fa e curata da Francesco Zambon, su ’impulso’ di Pietro Citati. Questo libro, curato da Zambon con Marco Rizzi, Sabino Chialà, Boghos Levon Zekiyan, comprende la mistica tardogreca e bizantina, siriaca, armena, latina e italiana medievale; il secondo volume presenterà la mistica tedesca e fiamminga, francese, italiana moderna; il terzo la mistica iberica (spagnola, portoghese e catalana), inglese e americana, russa, svedese. Nessun progetto ha avuto la medesima ampiezza, né pari cura filologica e critica: nemmeno i Mistici occidentali curati da Elémire Zolla; e altre pregevoli sillogi sono parziali.
Le radici sono ebraiche - nel Cantico dei Cantici, il testo più ardente e complesso dell’amore umano e divino - e greche: nel Fedro e nel Simposio di Platone, dove la ricerca della conoscenza diviene quella del bene e del bello, l’intelletto sale verso il divino: la mente si unisce allo slancio erotico, la mania che porta all’estasi: invasa da una luce alla quale tenderà tutta la tradizione occidentale fino al Rinascimento, e oltre: da Plotino, per il quale la contemplazione è superiore all’azione poiché permette la visione del vero, a Proclo; da Apuleio a Tasso, i poeti barocchi, i romantici, Yeats, Ungaretti, Luzi, Milosz.
La potenza della vista interiore è previsione e profezia. Lo afferma già Esiodo, e poi Saffo e Platone, seguiti da sant’Agostino e Dante: il poeta sprofonda nella memoria bevendo l’acqua di vita di Oceano, e lascia che il soffio del dio spiri dentro di lui, investendolo del suo nume sconvolgente. «Entra nel petto mio, e spira tue / sì come quando Marsia traesti / de la vagina de le membra sue». È il solo modo per riceverne il barlume, per glorificarlo: «O divina virtù, se mi ti presti / tanto che l’ombra del beato regno / segnata nel mio capo io manifesti».
Il mistico ricapitola ogni passaggio del Verbo incarnato e dello Spirito Santo che permette - osano i più temerari - di diventare Dio, trascinando con sé l’intera creazione. La trasfigurazione, la passione, la morte sulla croce di Gesù, il suo corpo martoriato sono lo strumento-specchio per rivivere Gesù in anima-spirito-corpo, oltrepassando i ’sensi spirituali’. Francesco nutre nelle viscere il sole - Cristo. Dalle mani e dai piedi spuntano chiodi di carne, sul costato si apre la ferita di Cristo.
Angela da Foligno aderisce al Crocifisso con i sensi dell’eros totale: «Tu sei me e io sono te». La mente di Iacopone da Todi, «En Cristo trasformata, è quasi Cristo, /cun Deo conionta tutta sta devina». Chi osa tanto, non teme la sintassi, scardina ogni figura e senso. Se fa miracoli, sfida la gravità e si innalza dal suolo, come Doucelina di Digne, altri aboliscono gli intermediari con Dio nel linguaggio, come Caterina Fieschi: «Il mio Mi è Dio, io non conosco altro Mi che esso Dio mio».
I mistici non hanno paura di niente, né del pudore, né di “ardiri” che il volgo deride: come i patriarchi della Bibbia, variano la metafora del latte della sapienza, con una passione tenerissima. Nel II secolo in Siria, un’Ode di Salomone, e Clemente Alessandrino suggono i seni del Padre e le dolci mammelle di sposa di Gesù; nel X secolo Gregorio di Narek, autore di inni inarrivabili al Cristo glorioso, invoca «comunione che distilla latte»: siamo in Armenia, dove la teologia del sacerdozio di tutti i fedeli - i corpi sono templi e altari - renderà possibile il sacrificio dell’intero popolo: il “Martirio armeno”. Misakh Metzarents (1886-1908) ne è l’ultimo fiore: «Nella notte discende ancora il ruscello di luce, / una goccia di latte della tua santità divenuta un mare; / e vedi, o Madre di Dio, ecco sto diventando bambino».
Come diceva san Tommaso d’Aquino, la mistica è la Cognitio Dei experimentalis, che Jean Gerson esplica: «Theologia mistica est cognitio experimentalis habita de Deo per amoris unitivi complexum». Ma è la più abissale delle imprese gnoseologiche e amorose. Per la “teognosia” dell’ombra, che deriva da Plotino e si distanzia da seguaci di Gesù come Giovanni e Paolo, e Agostino, mai giungeremo a conoscere Dio. La sua trascendenza rispetto a ciò che è, e all’essere stesso, è superessentialis: Dio non può essere conosciuto, descritto, visto, nemmeno dagli angeli e dai santi. Di Dio non si può parlare né in forma positiva, né in forma negativa. Ma la forma negativa si avvicina di più al suo mistero. Lo si contempla tra luce e tenebra.
Scrive Zambon: «Anche nella vita beata, al termine del reditus di tutta la creazione nel seno del Verbo, Dio sarà conoscibile solo attraverso delle mediazioni, delle teofanie (in greco, “manifestazioni, immagini di Dio”)». La teofania segue i gradi della contemplazione, della deificazione (theosis), e coincide con l’unione mistica. Ricorre alle immagini, al loro fantasma, alla fantasia: l’“alta fantasia” di Dante. La docta ignorantia fa apparire Chi è superiore alla Luce come tenebra, caligine, nube: nella “notte oscura” di Giovanni della Croce.
Una rivoluzione accade in pieno XII secolo: Guglielmo di Saint-Thierry, Bernardo di Clairvaux, Aelredo di Rievaulx, Ivo, e Riccardo di San Vittore (di cui Zambon ha curato sapientemente i Trattati d’amore cristiani del XII secolo per Valla Mondadori) mostrano a quale fuoco di trasformazione può accendersi l’intelletto d’amore che guida fino a Dio, intrecciando eros platonico e caritas paolina. Come in Ildegarda di Bingen, il grande impeto d’amore dà le ali. Culminano la poesia della fin’amor dei trovatori, le storie di Tristano e Isotta, il romanzo cortese.
Con Beatrice davanti alla candida rosa dei beati, Bernardo invita Dante a fissare Dio, nel movimento rapidissimo che imprime al creato e a noi: la metamorfosi dell’anima in Dio, l’excessus mentis, avviene per opera divina in un solo istante: «ma già volgeva il mio disio e ’l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa, / l’amor che move il sole e l’altre stelle». Riccardo di San Vittore è il più ardito. Amore terreno e carità hanno la stessa fonte, ma la carità non è mite. Ha la stessa struttura, manifestazioni e gradi della passione violenta. I Quattro gradi della violenta carità gridano in Iacopone da Todi: «Amor de caritate, perché m’ài ssì feruto? / Lo cor tutt’ho partuto, et arde per amore».
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus !!! O, meglio, che progetto!!!
Federico La Sala
Il poeta e l’interprete: storia di una passione dantesca
di Valentina Pagnanini (Il Chiasmo/Treccani, 29 giugno 2020)
Ufficialmente è stato al servizio del governo cinese, prima interprete, poi diplomatico, infine console, appassionato di scacchi nonché grande conoscitore della lingua e cultura cinese, coinvolto in iniziative militari segrete: l’effettiva professione di Eugenio Volpicelli ancora oggi resta un mistero.
È stato uno dei più grandi sinologi italiani, tra i primi ad aver diffuso la Divina Commedia in Oriente, coltivando la passione per Dante oltre l’attività diplomatica. È grazie a lui se nell’Ottocento in Cina iniziarono a circolare le prime traduzioni del poema dantesco, l’opera più rappresentativa della cultura italiana in Asia. A far luce su alcuni periodi oscuri della sua vita interviene il saggio di Eric Salerno, Dante in Cina: la rocambolesca storia della Commedia nell’Estremo Oriente, nel quale si ripercorrono i viaggi, le missioni diplomatiche e gli incontri politici di Volpicelli e della moglie Iside. Quello tra i due coniugi è stato un sodalizio affettivo e ideologico. Eugenio e Iside si sono sposati a Milano il 14 febbraio 1891, insieme hanno condiviso l’amore per Dante e per la patria, le missioni diplomatiche e i segreti di stato, nonché i viaggi, da Milano a Hong Kong, a Nagasaki e Macao.
L’interesse per Dante sorge in lui in giovane età. La formazione di Volpicelli è affidata all’Istituto Orientale di Napoli, un unicum organizzato sul modello del Collegio dei cinesi, che costituisce la base per la sua attività diplomatica. Qui egli studia con profitto la letteratura italiana e le lingue orientali, per primo ottiene «una borsa di studio offerta dall’Istituto asiatico. E agli esami finali del 1881 si posizionò ancora una volta in testa a lla classifica. Dieci decimi in persiano e arabo, lingua questa che fu incaricato di insegnare» riporta Eric Salerno. In quello stesso anno, appena diplomato, egli decide di abbandonare Napoli e di seguire il richiamo dell’Est.
Volpicelli si interessava ai complotti della diplomazia e alle strategie politiche, praticava l’arte della guerra sfidando gli alti ufficiali a scacchi e wei ch’i, un gioco molto praticato in Giappone come esercizio di tattica militare, «istruttivo nell’arte della guerra». Si appassiona a tal punto da pubblicare due articoli su di essi per il Journal of the North China Branch of the Royal Asiatic Society di Singapore. «L’oggetto del gioco di wei ch’i può apparire molto facile, eppure sarà sufficientemente difficile portarlo a termine. Si tratta di occupare più spazio possibile sul tavolo e di impedire all’avversario di fare lo stesso» scrive nel 1892 e continua: «l’interesse del gioco non è concentrato in un posto come con gli scacchi, intorno al re, ma è sparpagliato ovunque sul tavolo, in quanto ogni singolo posto ha un effetto ugualmente importante nel risultato del gioco e conta nel totale finale che rappresenta la posizione delle due parti alla fine della lotta». Per concludere il gioco, «tradotto in termini militari, più che dare scacco matto al re bisognava puntare alla conquista del territorio». In ventotto pagine di spiegazioni e illustrazioni Volpicelli forniva le prime istruzioni di gioco del wei ch’i in una lingua europea, l’inglese. Se in Cina «lo veneravano come esperto degli scacchi cinesi», in Italia «lo idolatravano come uno dei primi ad aver compreso e descritto la struttura della lingua cinese, tra i simboli e le tonalità più diverse».
Egli arriva in Cina sul finire del diciannovesimo secolo e trova un paese profondamente diverso rispetto ai suoi studi, in piena crisi e in balia di conflitti interni ed esterni. Il suo primo incarico inizia nel 1882 ad Amoy, l’attuale Xiamen, porto strategico per le esportazioni di tè nel corso del Novecento. Qui, Volpicelli risiede per un lungo periodo, alternando visite alla capitale e ad altre città d’interesse coloniale, e racconta con orgoglio di una sua impresa compiuta in quegli anni che gli valse un importante impiego. Egli riuscì a circumnavigare a nuoto l’isola di Kulangsu - chiamata anche l’isola dei pianoforti per la più elevata presenza dello strumento musicale - prova della sua intraprendenza e coraggio, nonché di virtù. L’episodio fu seguito dall’assegnazione di un nuovo mandato: si richiedeva la sua presenza come interprete nella missione imperiale cinese volta a ottenere un armistizio con la Francia per il comando del Tonchino. Volpicelli prese parte alla missione, coordinata dalle dogane dell’impero, e diede prova delle sue abilità dialettiche. «Ebbe diritto, in segno della gratitudine cinese, all’ordine del Doppio Dragone» nota Eric Salerno, Parigi invece «insignì Volpicelli della commenda del Dragone dell’Annam, creata ad hoc per chi aveva fornito assistenza durante le operazioni navali in quel settore del Sudest asiatico».
La sua fama era giunta ben presto anche in Italia, il suo volto si stagliava in primo piano sulle copertine delle riviste italiane, le sue imprese erano motivo di orgoglio e onore per il governo italiano. L’8 novembre 1885 è dedicata a lui la copertina Un mandarino italiano in Cina del settimanale L’illustrazione italiana dove appare un’immagine di Volpicelli, fotografato con un casco coloniale in testa, corredata dalla didascalia: «L’italiano Volpicelli e i plenipotenziari per la pace in Cina». L’articolo menzionava le missioni diplomatiche nel Tonchino e in Corea, alle quali aveva partecipato Volpicelli come interprete e mediatore degli interessi italiani, ottenendo per i suoi servizi una commenda cinese:
La carriera di Volpicelli però non fu sempre costellata da riconoscimenti e onorificenze. Ci furono anche momenti bui, periodi di sospetti, critiche e accuse che coinvolsero Volpicelli in intrighi diplomatici. In Gran Bretagna c’era molta attenzione al modo in cui circolavano le informazioni e venivano diffuse le notizie, soprattutto nell’ambiente diplomatico. Volpicelli, d’altro canto, si interessava a questioni appartenenti non soltanto alla sua sfera di competenza, ma dava suggerimenti anche in altri ambiti, come nel campo militare, consigliando con perizia strategie e nuove mosse, tattiche da esperto giocatore di scacchi e wei ch’i. Fu proprio questa sua curiosità a procurargli degli inconvenienti politici. Se nel 1885 Eugenio Volpicelli era ritenuto degno di una delle più alte onorificenze cinesi e stimato in tutta Europa, trent’anni dopo, nel 1914 per l’esattezza, il suo operato non era più ben visto in Occidente e fu in breve tempo allontanato dalla sfera pubblica. Abbandonati gli incarichi ufficiali, egli si dedica alla lettura e alla scoperta dell’opera di un grande poeta e scrittore, viaggiatore esiliato come lui dai pubblici offici: Dante Alighieri.
Come sottolinea il filosofo Aijaz Ahmad in Orientalismo e dopo (2009), «Dante è la figura centrale attraverso cui si possono gettare dei ponti fra l’Antichità e la modernità», questo perché, secondo la definizione dell’orientalista Edward W. Said, «la forza poetica di Dante contribuisce a intensificare e generalizzare questa prospettiva [Orientalista] dalla quale l’Oriente è contemplato». Volpicelli avrebbe condiviso la passione per il poeta fiorentino con suo cugino Francesco Torraca, celebre commentatore della Divina Commedia, che nei primi anni del Novecento era professore di letteratura comparata all’Università Federico II di Napoli. La passione per il sommo poeta lo accompagnò sin dagli inizi, già a Napoli da studente era solito frequentare salotti rinomati nei quali veniva letto Dante.
Oltre l’attività di «interprete, diplomatico, storico e forse qualcos’altro, [Eugenio] si servì di una penna brillante per raccontare momenti importanti della sua avventu ra in Oriente e per spiegare ad altri diplomatici, ministri, re e principi, e poi alla gente comune, la realtà di quel mondo», di quella stessa penna si servì anche, e soprattutto, per tradurre Dante e farlo conoscere al pubblico cinese. «L’autore della Commedia fu sempre nel cuore e nella mente del nostro console generale» racconta Salerno.
L’amore per Dante era nato in Volpicelli da studi e ricerche, letture appassionate e ancora ricerche, Eugenio si era interessato alla vita del poeta in alcuni anni così simile alla sua, una carriera trascorsa al servizio del potere pubblico oscurata da false accuse di corruzione, l’allontanamento dalla propria patria più o meno forzato, la passione per i viaggi e le infinite peregrinazioni. Dante scrive: «Voi credete forse che siamo esperti d’esto loco; ma noi siam peregrin come voi siete», e anche Volpicelli, in definitiva, fu un pellegrino. Confrontando l’Alighieri e il Volpicelli, si notano molti punti di contatto tra le due esperienze biografiche: due uomini politici, il letterato e l’interprete, entrambi orfani fin da giovani, ma con una vasta rete di amicizie, i loro anni migliori spesi tra l’otium litterarum e il negotium. Dal 1319 al 1321 anche Dante era stato ambasciatore, a Venezia, al servizio del signore di Ravenna Guido da Polenta. Comune anche l’interesse per le strutture della lingua, italiana per il poeta, cinese per il console, e per i numerosi dialetti coesistenti, alla ricerca di una lingua comune.
Nel 1942, è Anna Silvia Bonsignore, giornalista per L’Ambrosiano milanese di Umberto Notari, che nell’elzeviro Sull’italiano creato mandarino racconta all’Italia della passione dantesca di Volpicelli e segnala anche un suo viaggio in Cina alla ricerca di Dante. Volpicelli riscontra delle «similarità tra la carriera di Dante e quella del grande saggio cinese Confucio», al punto tale da intraprendere una traduzione della Commedia in lingua cinese. Egli aveva ritrovato nei testi filosofici cinesi echi del poema dantesco, che si traducevano in raffigurazioni, simboli e descrizioni strettamente legati alla Commedia. Si legge da un originale autobiografico del diplomatico:
Esattamente un secolo fa, in Cina, Eugenio Volpicelli rivelava al mondo la sua passione per l’opera dantesca, celebrando l’amore di Dante per Beatrice proprio nel ventottesimo anniversario del suo matrimonio, simbolo del duplice legame, affettivo e letterario, che lo univa indissolubilmente al sommo poeta.
Per saperne di più:
Si consiglia la lettura del saggio di Eric Salerno da cui sono tratte le citazioni dell’articolo: Eric Salerno, Dante in Cina: la rocambolesca storia della Commedia nell’Estremo Oriente, Il Saggiatore, Milano, 2018. Per approfondire il processo di divulgazione della Divina Commedia in Oriente si propone la lettura dei contributi di Federico Masini: Una “Divina Commedia” cantonese, in Mondo Cinese, n.73, a. 1991, pp. 27-48 e La Divina Commedia in lingua cinese a Ravenna, in Mondo Cinese, n.98, a. 1994; sui rapporti storico-letterari tra l’Italia e la Cina, si suggerisce il volume di Giuliano Bertuccioli, Federico Masini, Italia e Cina, Laterza, Bari, 1996. Sull’orientalismo si propongono i testi: E. W. Said, Orientalismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1991; A. Ahmad, Orientalismo e dopo, in M. Mellino (a cura di), Post-orientalismo, Meltemi, Roma, 2009.
Celebrazioni. Nel 2021 cadono i 700 anni della morte del poeta. Oltre 300 i progetti programmati in Italia e nel mondo, con al centro la «Commedia»
L’Alleluja eterno di Dante
di Carlo Ossola (Il Sole-24 Ore, Domenica, 19.04.2020).
Abbiamo appena celebrato i 500 anni dalla scomparsa di Raffaello (6 aprile), e già s’annunciano i 700 anni dalla morte di Dante (1321), preceduti dall’aver posto in calendario l’annuale “giorno di Dante” al 25 marzo, giorno dell’Annunciazione, e inizio a Firenze, all’epoca di Dante, dell’anno civile.
Il tempo pasquale è propizio a ricordare che l’iter della Divina Commedia si svolge, nella finzione del poema, nella settimana santa del 1300, anno del Giubileo. È dunque, eminentemente, un poema di Resurrezione e Dante stesso, al sommo del Purgatorio, descrive in una luminosa terzina il gaudio a venire dei risorti: «Quali i beati al novissimo bando / surgeran presti ognun di sua caverna, / la revestita voce alleluiando » (XXX, 13-15).
Nel nome del realismo, il secolo XIX, e in particolare Francesco De Sanctis, ha celebrato la cruda materia dell’Inferno, riscattato in amore e dignità dai canti di Paolo e Francesca e di Ulisse. I grandi scrittori del Novecento hanno preferito il Purgatorio, il «dolce color d’orïental zaffiro», così caro a Borges (Sette notti), o il Paradiso dell’esilio dolorosamente rimeditato da Mandel’štam: «Dall’alto di scale inumane / Davanti a palazzi tutti spigoli, / Alighieri poteva cantare / più intensamente la sua Firenze / con la labbra riarse» (Quaderni di Voronej, 1935-1937); o quello tellurico, e cosmico, descritto da Saint-John Perse, il poeta di Anabase e di Exil, nel commentare l’incipit del canto II: «O voi che siete in piccioletta barca, / desiderosi d’ascoltar, seguiti / dietro al mio legno che cantando varca», così chiosando: «Non si era più intesa una voce siffatta dall’antichità latina. Ed ecco che questo canto non è più reminiscenza, ma creazione reale, e come un canto d’alveare che sciama verso l’Ovest, con il suo popolo di Sibille. [...] Poesia, ora dei grandi, cammino d’esilio e d’alleanza, lievito dei popoli forti, e levarsi degli astri presso gli umili» (Per Dante, 1965). Sì, Dante non è più, o solo, «reminiscenza» (anche se andrebbe sempre studiato a memoria), ma è futuro, per il XXI secolo: «È assurdo leggere i canti di Dante senza attrarli verso l’attualità. Essi sono fatti per questo. Sono dei proiettili lanciati per cogliere l’avvenire. Esigono un commento in futurum » (Mandel’štam, Conversazione su Dante).
Le celebrazioni del prossimo anno hanno suscitato un grande fervore: al Comitato nazionale per le Celebrazioni dantesche, istituito dal ministro Dario Franceschini, sono pervenuti oltre 300 progetti, da tutta Italia, dall’Europa, dall’America latina, dagli Stati Uniti; iniziative che toccano tutte le arti, la musica, il teatro d’opera e di parola, i Musei, gli Archivi, le città di Dante, le Accademie, le Università, le scuole.
Dante è veramente, come voleva Ezra Pound, everyman, ciascuno di noi; nello scorcio del XX secolo la voce di Carmelo Bene, di Vittorio Sermonti, di Vittorio Gassman, e soprattutto di Roberto Benigni, ha portato la Commedia sullo schermo televisivo e nelle piazze; Dante è davvero “popolare”: ci si può compiacere, ove questo non significhi recitarlo per via un giorno all’anno e perderne la lettura - lettura integrale del poema - nelle scuole.
In questo senso Dante è specchio fedele del nostro tempo: la maggior parte dei progetti presentati riportano Dante allo spettacolo, alla scena; o a una miriade di convegni a venire, propri dell’opificio accademico. Dante non è tuttavia un poeta della festa, ma dell’esilio, dei destini ultimi dell’umanità: Dante non si compiace mai dell’indugio (tranne un istante con Casella), corre al “fine ultimo”, con ansia e con sete: «[nel poema] le immagini si separano e si danno addio. È duro ascendere le balze dei suoi versi, colmi di addii» (ancora Mandel’štam).
Dante è un poeta in futurum: attenderà, finita questa pandemia, noi, al chiuso ora, guidandoci con la mansueta dolcezza dei suoi versi: «Come le pecorelle escon del chiuso / a una, a due, a tre, e l’altre stanno / timidette atterrando l’occhio e ’l muso; // e ciò che fa la prima, e l’altre fanno, / addossandosi a lei, s’ella s’arresta, / semplici e quete, e lo ’mperché non sanno; // sì vid’io muovere a venir la testa / di quella mandra fortunata allotta, / pudica in faccia e ne l’andare onesta» (Purgatorio, III, 79-87).
È un poema infinito, e che tuttavia si chiude: « A l’alta fantasia qui mancò possa; / ma già volgeva il mio disio e ’l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa, // l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Paradiso, XXXIII, 142-145; il compito del poeta termina; a colui che ha fatto il cammino di Croazia per vedere il volto di Cristo impresso nel velo della Veronica, la Grazia concede che desiderio e volontà infine si appaghino e si riducano a un solo ordine universale, come splendidamente annota il Tommaseo: «Fantasia: La visione delle cose celesti rende inutile la fantasia, che fa luogo al puro intelletto. Volgeva: Dio volgeva con libero equabile tranquillo moto, soddisfatti, il mio desiderio e l’amore».
Si chiude infine la lunga battaglia della tentazione, del contendere del Bene e del Male, in quel velle redento, che era stato avvolto nei vincoli e nelle insidie del Maligno, secondo le Confessioni di Agostino: «Velle meum tenebat inimicus» (VIII, 10).
Il poema va letto nell’asprezza di questo ruvido certame: due cantiche su tre (Inferno e Purgatorio) parlano di pene: eterne o redimibili; il Paradiso terrestre è vuoto; anche nel Paradiso Dante è costantemente interrogato (sulla fede, speranza, carità), rivelato dall’avo il destino d’esilio, lontanando infine nella gloria anche Beatrice. Ma quel velle placato è pur la fine del trionfo del Dies irae: «Dies irae, dies illa, / Solvet seclum in favilla,/ Teste David cum Sybilla», poiché ora la Sibilla e le sue sentenze si sciolgono per sempre: «Così la neve al sol si disigilla; / così al vento ne le foglie levi / si perdea la sentenza di Sibilla» (Paradiso, XXXIII, 64-66).
Solo alcuni grandi scrittori del Novecento hanno inteso questo “petroso” agone del poema; vorrei ricordare su tutti Flannery O’Connor che al culmine del suo Diario di preghiera si affisa su quella soglia, di grazia e di tormento, che è l’ingresso del Purgatorio, descritto da Dante con crudo espressionismo: «Là venimmo: e lo scaglion primaio / bianco marmo era sì pulito e terso, / ch’io mi specchiai in esso qual io paio. // Era il secondo tinto più che perso, / d’una petrina ruvida e arsiccia, / crepata per lo lungo e per lo traverso» (IX, 94-99).
Flannery O’Connor non sceglie il primo gradone, lo specchiarsi di una coscienza lacrimata e detersa; si inginocchia, con Dante, sul secondo, nel triturarsi della contritio smarrita di fronte alla parete, come di sangue, che «sopra s’ammassiccia». Della Commedia soltanto questo la urge, questa carcerazione che scarnifica: «Chiedi / umilmente che ’l serrame scioglia» (ivi, 107-108). Per poi confessare, vera lettrice di Dante e della sua scarna oltranza: «Io vorrei essere una mistica, e anche subito. Nonostante ciò, caro Dio, concedimi un posto, per piccolo che sia, e fa che io lo rispetti. Se fossi quella cui compete di lavare ogni giorno il secondo gradone, fammelo sapere, e fa che io lo lavi con un cuore traboccante d’amore» (Diario di preghiera, nota del 25 settembre [1946]).
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Carlo Ossola presiede il Comitato nazionale per le celebrazioni di Dante, 2021, ed attende (con Luca Fiorentini, Pasquale Porro, Jean-Pierre Ferrini, Stéphanie Vermot) all’edizione bilingue «Pléiade» della Divina Commedia
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LE INIZIATIVE E LA NUOVA EDIZIONE COMMENTATA DEGLI SCRITTI
«Lectura Dantis» a Roma. Per il settimo centenario della morte di Dante (settembre 2021) si stanno progettando iniziative, spettacoli (a Pompei), mostre, convegni (anche online). Prosegue la nuova edizione commentata degli scritti del poeta per l’Editrice Salerno: in autunno uscirà il volume VII/2 con le Opere già attribuite a Dante; in primavera ’21 è previsto il Convivio e l’Inferno per novembre ’21. L’edizione dei Commenti danteschi, sempre da Salerno, vedrà quello alla Commedia di Pietro Alighieri (autunno ’20) e di Bernardino Daniello (primavera ’21). Sul sito casadidanteinro ma.it (in foto, la casa a Roma) ci sono le registrazioni degli incontri avvenuti e i programmi futuri della «Lectura Dantis» romana che, ora fermata dal virus, si svolge la domenica alle 11: mai interrotta dal secondo dopoguerra. Inoltre ricordiamo di Giulio Ferroni, L’Italia di Dante. Viaggio nel paese della Commedia (La nave di Teseo, 2019): è un repertorio con tutti i luoghi del poema.
L’ORAZIONE SULLA DIGNITA’ DELL’UOMO - A UNA DIMENSIONE.
Da Giovanni Pico della Mirandola* a Herbert Marcuse** e ...
CARO ARMANDO, PER IMPARARE "a vivere meglio senza lasciarci condizionare dalla paura della morte, cioè dalla religione, qualunque essa sia", CREDO CHE SIA NECESSARIO riconsiderare il problema di "come nascono i bambini" (a tutti i livelli)! Hai ragione: "Non possiamo permetterci, con le Sibille, Maria Vergine, Cristo come dio, Maometto ed altre favolette l’illusione di un altro Messia"! Ci siamo addormentati nella tradizione cattolico-costantiniana e illuministica acritica (contro Kant), e abbiamo finito per "concepire" noi stessi e noi stesse secondo la bio-logia e l’andro-logia “unidimensionale” dell’omuncolo!
L’«ECCE HOMO» di Ponzio Pilato, al contrario!, ci dice proprio questo - la fine delle "favolette" e di ogni "illusione di un altro Messia". Il discorso è di diritto e di fatto, romanamente universale, vale a dire, antropologico (non limitato all’«omuncolo» di qualche "uomo supremo" o “superuomo”!):
SE SIAMO ANCORA CAPACI DI LEGGERE, COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA LEZIONE DI PONZIO PILATO?! Non è una lezione critica contro i "sovranisti" laici e religiosi di ieri e di oggi?!
Che vogliamo fare? Continuare a riportare noi stessi e noi stesse davanti a Pilato e ripetere da scemi e da sceme la stessa scena, riascoltare il suo "Ecce Homo" e non capire una "H" (acca)?!
P.S. - RICORDANDO ... GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA.
CULTURA, CDM ISTITUISCE 25 MARZO GIORNATA DI DANTE
Franceschini: Dante rappresenta unità nazionale, ogni anno scuole saranno protagoniste del Dantedì
Il consiglio dei ministri, su proposta del ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo, Dario Franceschini ha approvato la direttiva che istituisce per il 25 marzo la giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri.
“Ogni anno, il 25 marzo, data che gli studiosi riconoscono come inizio del viaggio nell’ aldilà della Divina Commedia, si celebrerà il Dantedì. Una giornata per ricordare in tutta Italia e nel mondo il genio di Dante con moltissime iniziative che vedranno un forte coinvolgimento delle scuole, degli studenti e delle istituzioni culturali. A un anno dalle celebrazioni dei 700 anni dalla morte di Dante - ha aggiunto Franceschini - sono già tanti i progetti al vaglio del Comitato per le celebrazioni presieduto dal prof. Carlo Ossola. Dante - ha concluso Franceschini - ricorda molte cose che ci tengono insieme: Dante è l’unità del Paese, Dante è la lingua italiana, Dante è l’idea stessa di Italia”.
La proposta della giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri oltre ad essere oggetto di diversi atti parlamentari aveva raccolto l’adesione di intellettuali e studiosi e di prestigiose istituzioni culturali dall’ Accademia della Crusca, alla Società Dantesca, alla Società Dante Alighieri, all’ Associazione degli Italianisti alla Società italiana per lo studio del pensiero medievale.
Ufficio Stampa MiBACT
PER I 700 ANNI DALLA MORTE DI DANTE.... *
Dante, l’appello di Franceschini alle imprese
"Poste finanzia, altri li seguano". La Rai rilanci all’estero
(ANSA) - ROMA, 10 GEN - "Grazie a Poste Italiane, che hanno offerto il loro sostegno per le celebrazioni, nel 2021, dei 700 anni dalla morte di Dante", ma "vorrei che quello di Poste fosse un esempio per le altre imprese italiane che non si possono sottrarre a fare qualcosa per Dante". Il ministro di Cultura e Turismo Dario Franceschini presenta a Roma, insieme con il presidente del Comitato per i 700 anni dalla morte di Dante, Carlo Ossola e con la presidente Maria Bianca Farina e l’ad Matteo Del Fante di Poste Italiane un progetto di valorizzazione che coinvolgerà decine di comuni italiani (70 al momento ma potrebbero diventare di più) e approfitta per lanciare un appello al mondo delle imprese: "Dante è di tutti - dice - tutte le nostre imprese quando vanno all’estero hanno dietro il supporto dell’Italia e Dante per noi italiani è identitario.
Tutti dovrebbero fare qualcosa". E aggiunge: "Vorrei vedere Dante sui treni, sui voli Alitalia, dappertutto". Non solo: "Vorrei che la Rai , so che ci sono ragionamenti aperti in questo senso, producesse cose da far circolare non solo in Italia ma nel mondo". Un appello, quello del ministro Pd, rivolto in ultima analisi al Paese a tutto tondo: "Dante è di tutti, è identitario, coinvolge, è stato anche uno dei primi ad aver parlato di Europa. - sottolinea il capo delegazione Pd al governo - Celebrare i 700 anni dalla sua morte è lavorare per l’unità e il nostro Paese ha molto bisogno di unità. E’ anche orgoglio e il Paese ha bisogno di orgoglio". (ANSA).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DELLA LINGUA E DELLA POLITICA D’ITALIA. DANTE: L’UNIVERSALE MONARCHIA DEL RETTO AMORE ("charitas"). Per una rilettura del "De Vulgari Eloquentia" e della "Monarchia"
Federico La Sala
USCIRE DALLA CAVERNA E DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE COSMO-TE-ANDRICA PLATONICA. Materiali sul tema... *
Veder le stelle con gli occhi di Dante
Fisici, cosmologi, poeti, scrittori, teologi e mistici sono da sempre affascinati dalla “scienza stellare” dantesca: lo ricorda l’inglesista Tracy Daugherty in un nuovo saggio
di Gianni Vacchelli (Avvenire, mercoledì 18 dicembre 2019)
Dante ci sorprende sempre e ci spiazza, anche quando crediamo di averlo incasellato, almeno su un aspetto. Così potremmo pensare che la sua astronomia sia realmente irricevibile e superata. Ad esempio per il grande poeta Thomas Eliot, anche acuto dantista, come tutti sappiamo, «non è essenziale che la quasi inintelligibile astronomia di Dante sia capita ». Eppure non è così. E se forse l’accademia riserva in genere una rispettosa ma un po’ distaccata attenzione alla “scienza stellare” dantesca, fisici, cosmologi, oltre che poeti, scrittori, teologi e mistici ne sono da sempre affascinati. Soprattutto oggi gli uomini di scienza. Ce lo ricorda anche l’americano Tracy Daugherty, professore emerito di Inglese all’Oregon State University, nonché romanziere, nel suo recente e interessante saggio Dante and the Early Astronomer [Dante e la Prima Astronoma] ( Yale University Press).
In verità il libro di Daugherty, come si evince anche dal sottotitolo “Scienza, avventura e una donna vittoriana che aprì i cieli”, è sì dedicato a Dante ma insieme all’astronoma Mary Acworth Evershed (conosciuta pure come M.A. Orr, col cognome da nubile, prima di sposare John Evershed, importante astronomo lui stesso).
Mary è una donna inglese, nata nel 1867. Amava la poesia e il cielo stellato, e un viaggio in Italia all’età di 20 anni, a Firenze e a Ravenna, fu fondativo per la sua ricerca: decise così di studiare attentamente tutti i riferimenti astronomici nella Commedia di Dante, che arriverà a leggere in italiano. E nel 1913 Mary, con il cognome di Orr, pubblicò il suo importante studio Dante and the Early Astronomers, troppo presto dimenticato e che sarebbe utile riscoprire e tradurre in italiano. Nonostante il modello tolemaico di Dante fosse totalmente superato, Mary ammirò «la fedeltà dantesca agli insegnamenti dell’astronomia come l’aveva imparata dai suoi maestri», «la fantastica precisione dentro una struttura chiara» nel descrivere i fenomeni celesti. Per lei «il Poeta possedeva l’istinto e le attitudini di un ricercatore scientifico: una mente irrequieta, un abito di attenta osservazione».
Studiosa dei crateri lunari e delle macchie del sole, che «Dante aveva riconosciuto tre secoli prima che venissero scientificamente rilevate», Mary rimase affascinata anche da come Galileo, che stava aprendo all’umanità una nuova immagine di universo, rimanesse fedele alla retorica, all’immaginazione, ai ritmi danteschi. Le sue descrizioni del sole nelle Lettere sulle macchie solari echeggiavano le discussioni astronomiche di Beatrice in Paradiso II, sulle macchie lunari. Per la Evershed «Galileo considerò sempre Dante un pari, e la sua maestria artistica un modello... per lui la Commedia non era un cimitero di teorie astronomiche scartate, ma un prologo poetico a future scoperte». Allo stesso modo anche lei «seguì le tracce dell’universo di Dante, afferrò l’uso da parte di Galileo dell’arte di Dante per far avanzare le sue nozioni scientifiche e partecipò alla rivoluzione mentale che espanse l’esistenza e la conoscenza nel modo in cui Einstein - e Dante - predissero che sarebbe accaduto».
E in effetti il libro di Daugherty accenna in più parti ad una seconda e in qualche modo diversa linea di ricezione delle idee astronomiche del Poeta. Se la Evershed, con Galileo prima di lei, ha ammirato la coerenza e l’accuratezza “scientifica” del dettato dantesco, pur nel paradigma tolemaico non più accettabile, oggi molti «scrittori come il matematico Mark A. Peterson, lo storico della scienza Edward Grant e lo storico William Egginton hanno sostenuto in modo persuasivo che le concezioni medievali di Dante sulla forma dell’universo sembrano agli astronomi contemporanei sorprendentemente preveggenti». Dante insomma avrebbe «inventato un nuovo spazio topologico, la 3-sfera, o ipersfera», come scrive il citato Peterson in una sua analisi del 1979. In qualunque caso, una cosa è certa: la rappresentazione grafica del cosmo dantesco, ancora largamente accettata e quasi onnipresente su tutte le antologie scolastiche, con la terra al centro, i nove cieli intorno e l’Empireo sopra tutti, per lo più rappresentato come una sorta di “buffo cappellino” all’intero universo dantesco, è inaccettabile, testo di Dante alla mano.
Basta rileggere due complessi ma splendidi passi paradisiaci. In Paradiso XXVII, 106ss., Dante spiega la natura del Primo Mobile, la prima e più esterna delle sfere cosmiche ruotanti attorno alla Terra in base al modello geocentrico dell’universo, da cui trarrebbero origine il moto e il tempo. E scrive: «Luce e amor d’un cerchio lui comprende, / sì come questo li altri; e quel precinto / colui che ’l cinge solamente intende» (Pd XVVII, 112-114). Qui il Poeta sembrerebbe descrivere l’Empireo come un’ultima realtà capace di cingere il Primo Mobile e tutti gli altri cieli a seguire. Eppure nel canto successivo, Paradiso XXVIII, 16ss., avviene qualcosa di straordinario: Dante vede al centro dell’universo non la terra bensì un punto luminosissimo, il cui splendore non può essere sostenuto da occhi umani: «un punto vidi che raggiava lume / acuto sì, che ’l viso ch’elli affoca / chiuder conviensi per lo forte acume» (Pd XXVIII, 16-18). Il mistero divino è adesso centro dell’universo, «da quel punto / depende il cielo e tutta la natura» (vv.41-42), ed è come se il Poeta scorgesse «un altro universo», rovesciato e fatto, ugualmente, di nove cerchi concentrici, sede delle gerarchie angeliche ruotanti intorno a Dio.
È a partire da questi passi danteschi che il fisico rumeno Roman Patapievici, nel suo prezioso e oggi introvabile libretto Gli occhi di Beatrice ( Bruno Mondadori 2006), scrive: «L’immagine allo specchio è simile a quella reale, solo che è invertita. Il mondo invisibile diventa allora un calco rovesciato del mondo visibile: l’Empireo è Dio-centrico mentre la Terra è diavolo-centrica... l’invisibile obbedisce a norme opposte rispetto al visibile. Per spiegare queste simmetrie non resta che concepire l’universo visibile (con al centro la Terra) e l’Empireo (con al centro Dio) come due sfere che hanno in comune la superficie, cioè il “Primo Mobile”: il che equivale appunto a una ipersfera, oggetto della geometria di Riemann adottato da Einstein per descrivere l’universo nella relatività generale ». Su questa intuizione tornano recentemente anche due fisici italiani, Marco Bersanelli, nel suo Il grande spettacolo del cielo (Sperling & Kupfer 2016) e Carlo Rovelli in Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza ( Corriere della Sera 2018), che loda la «straordinaria intelligenza, anche matematico-scientifica» di Dante.
Questa ipotesi in verità ha una storia lunga e viene fatta risalire al matematico svizzero Andreas Speiser, che ne scrisse nel 1925, ripreso appunto poi da Mark Peterson, dall’astrofisico svizzero Bruno Binggeli e infine da Patapievici. Per altro già nel 1922 Pavel Florenskji in un breve e densissimo scritto, Gli immaginari in geometria, aveva sostenuto, a partire dalla “piroetta” effettuata dal Dante-personaggio in If XXXIV al centro della terra, che la concezione dello spazio della Commedia è abbordabile solo con il sostegno teorico della relatività einsteiniana e della geometria non-euclidea. Per concludere sorprendentemente: «Squarciando il tempo, dunque, la Divina Commedia finisce inaspettatamente per trovarsi non indietro, ma avanti rispetto alla scienza nostra contemporanea ».
Eppure forse il punto è un altro, anche se le riletture della fisica e della matematica contemporanee sono importanti, e certo da approfondire in uno studio esaustivo. Perché Dante ragiona da un mythos diverso dal nostro e le sue “preveggenze” gli vengono da una visione mistica dell’esistente. Ecco allora che il mistero divino sarà insieme imprendibile sfera e centro concentrico della realtà, contenente e contenuto, trascendente e immanente, come recitava un folgorante aforisma del medievale Libro dei XXIV filosofi: «Dio è una sfera infinita, il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo».
La fisica contemporanea vi intravede un’iper-sfera. Sia. Per Dante la posta in gioco però è forse ancora più complessa: non solo ravvisare in tutto ciò il mistero divino, ma comprendere come la trinità Dio(Mistero)-Uomo-Cosmo sia in una relazione costitutiva e rappresenti tutta la realtà: non Dio, l’Uomo o il Cosmo da soli.
Potremmo ricordarci allora l’intuizione cosmoteandrica (cosmo-dio-mondo) del filosofo e teologo indocatalano Raimon Panikkar, che parlava anche di teofisica, «non tanto come “fisica di Dio”, ma come “del Dio della Fisica”, del Dio creatore del mondo, dove il mondo non è sentito in quanto autonomo, indipendente e diviso da Dio, ma costitutivamente connesso a Lui». L’ardore di Dante è stato quello di provare a tenere insieme queste dimensioni della realtà - misteriosa, umana e materiale - con tutti i saperi che aveva a disposizione, anche fallaci, limitati, scientificamente. È questo che ci attende oggi: mantenere viva e prolungare la tensione dantesca, aggiornandola all’altezza dei tempi. E le potenti preveggenze del Poeta sembrano guidarci, perché «poca favilla gran fiamma seconda».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’INCARNAZIONE AL DI LA’ DELL’ IMMAGINAZIONE "TE-ANDRICA" DEL CATTOLICESIMO-COSTANTINIANO: DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. Ipotesi di rilettura della "Divina Commedia".
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FLS
RIPARTIRE DA GRECCIO, DAL PRESEPE ... *
Papa. Francesco: «Domenica sarò a Greccio, vi invierò una lettera sul Presepe»
Domenica primo dicembre con l’avvio del tempo dell’Avvento il Papa invierà una lettera per far capire il significato del Presepe, da Greccio dove san Francesco diede vita al primo presepe vivente
di I.Sol. (Avvenire, mercoledì 27 novembre 2019)
"Domenica prossima inizierà il tempo liturgico dell’Avvento. Mi recherò a Greccio, per pregare nel posto" dove San Francesco realizzò il primo presepe "per inviare a tutto il popolo credente una lettera per capire il significato del presepio".
È l’annuncio di Papa Francesco al termine dell’udienza generale.
A GRECCIO IL PRIMO PRESEPE VIVENTE DELLA STORIA
Correva l’anno 1223 quando san Francesco d’Assisi scelse l’umile paese montano del alto Lazio di Greccio, affacciato sulla vasta conca reatina, per rievocare la nascita del Salvatore. La tradizione vuole che a far nascere nel mondo la prima idea di presepe vivente fosse sorta su intuizione del Poverello di Assisi con l’aiuto del nobile signore di Greccio Giovanni Velita. Secondo le agiografie, durante la Messa, sarebbe apparso nella culla un bambino in carne ed ossa, che Francesco prese in braccio. Da questo episodio ebbe origine la tradizione del presepe.
La testimonianza di tutto questo ci arriva da un antica fonte come la "Legenda di san Francesco": «Come il beato Francesco, in memoria del Natale di Cristo, ordinò che si apprestasse il presepe, che si portasse il fieno, che si conducessero il bue e l’asino; e predicò sulla natività del Re povero». A simboleggiare ancora oggi questo episodio singolare e della vita del Poverello è il dipinto attribuito a Giotto "Il presepe di Greccio" (realizzato tra il 1295 e il 1299) che è la tredicesima delle ventotto scene del ciclo di affreschi delle "Storie di san Francesco" presenti nella Basilica superiore di Assisi.
Da allora, la tradizione si diffuse nel resto d’Italia e negli altri Paesi cristiani. Oggi, i presepi viventi sono organizzati pressoché in tutto il mondo occidentale cristiano, non solo cattolico, ma anche da parte di fedeli di altre Chiese.
Nella città laziale di Greccio ando a sorpresa anche papa Francesco nel gennaio 2016 proprio per visitare il luogo dove per la prima volta venne realizzato un presepe e per pregare al Santuario che custodisce la memoria di quel Natale 1223, in cui san Francesco volle «vedere con gli occhi del corpo» la povertà del Bambino di Betlemme.
IL VIDEO DELLA VISITA NEL 2016 DEL PAPA A GRECCIO
Video
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"DUE SOLI": COME MARIA, COSI’ GIUSEPPE!!!
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
MIO NONNO ERA UN RE
di Michele Feo *
Il filosofo Emanuele Severino parla spesso in interviste e ricordi autobiografici del fratello Giuseppe morto in guerra, dicendo che fu studente alla Scuola Normale Superiore di Pisa e lì ascoltò le lezioni di Giovanni Gentile; lo ripete con dovizia di particolari novellistici nel «Corriere della sera» del 31 dicembre 2018.
Ma il nome di Giuseppe è assente in tutti gli elenchi a stampa degli allievi della scuola pisana, da quello curato nell’immediato dopoguerra dal filologo e segretario della Scuola Alessandro Perosa all’ultimo del 1999. Poiché l’esempio del fratello sembra essere stato determinante per la scelta di vita di Emanuele, par di capire che la collocazione formativa di Giuseppe a Pisa, all’ombra di Gentile, debba riverberare su Emanuele un po’ di quella gloria.
Sempre, anche il figlio della lavandaia e del tavernaro, quando ha asceso la scala sociale, si crea antenati nobili; le povere ma belle donzellette alla fine della favola si scoprono figlie di regine e il tribuno popolare Cola di Rienzo rivelò di essere il risultato di una bassa avventura dell’imperatore nei quartieri bassi di Roma.
Corollario: o i repertori pisani devono essere emendati o il filosofo si è distratto e anche lui si è lasciato catturare dal mito delle origini favolose.
Michele Feo
NOTA:
"DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE". Una storia di lunga durata
MIO NONNO ERA IL IL PAPÀ DI ADAMO ED EVA...
“Se vogliamo andare avanti non è a Parmenide che dobbiamo pensare. Ma, se si vuole, a Talete. Egli sapeva che l’azzurro circondava la Terra. Che vuol dire questo? E’ presto detto (e poi chiudo). La chiave ce la fornisce l’altra recente polemica innescata da Paolo Rossi, e, in particolare, la risposta di [Emanuele] Severino alla provocazione dello stesso Rossi. La questione è quella della nascita. Chiariamo.
Con la sua costanza e con la sua testardaggine, Rossi - lo storico-segugio (Severino parla di cagnolini) - è riuscito a mettere alle strette il Leone, e, l’ha fatto uscire dalla foresta pietrificata o, che è lo stesso, dal campo (Essere=Verità) di Parmenide. Perseguitato per «vent’anni», Severino non ce l’ha fatta più e ha ceduto. E, costretto a scoprire le sue carte, ha dovuto ammetterlo: non è nato ad Elea (Parmenide) e nemmeno a «Como» (Heidegger). «Io sono nato - ha dichiarato Severino - a Brescia. Me lo ha detto mia madre e mio padre: è scritto sui documenti». Il giogo del Destino della Necessità è stato spezzato: HIC SUNT LEONES - a Brescia!. Era ora: Emanuele è solo un poco Severino, ma è con noi - come noi, semplici mortali.
Fuor di metafora: questo è il problema: La croce dei filosofi, per eccellenza. Ce n’è voluto per riportare a galla dalle profondità del mare dell’essere (altro che pantano o pozzanghera, entro cui era stato buttato da Parmenide e dai suoi edipici figli - i platonici di tutti i tempi) Talete: qual è il principio di tutte le cose? Questi sono i problemi: così nasce la filosofia [...] (cfr. Federico La Sala, "Per una nuova cultura all’altezza del Pianeta Azzurro", «La Critica Sociologica», n. 93, 1990, pp. 111-115; in: “Della Terra, il brillante colore”, Pref. di Fulvio Papi, Edizioni Nuove Scritture, Milano 2013, pp. 98-99, senza note).
Federico La Sala
Teatro
Come Dante salvò Primo Levi dall’inferno: Roberto Herlitzka e il ‘Canto di Ulisse’
In scena il 31 agosto al Festival di Todi, ’Il Canto di Ulisse’ è liberamente ispirato ai testi ’Se Questo è un Uomo’ e ’L’Ultimo Natale di Guerra’ di Primo Levi.
di Giuseppe Cassarà (GdS Globalist, 30 agosto 2019)
L’aggettivo che maggiormente ricorre in riferimento alla scrittura di Primo Levi è ‘lucida’. Lucida è la sua testimonianza del Lager, lucida la sua mente che non si è persa, ma ha lottato per trovare le parole in grado di raccontare un Male tanto cieco. Della sua scrittura, lo stesso Levi parlava in questi termini: “ho sempre teso a un trapasso dall’oscuro al chiaro, come (mi pare che lo abbia detto Pirandello, non ricordo più dove) potrebbe fare una pompa-filtro, che aspira acqua torbida e la espelle decantata: magari sterile”.
Nel Lager, dove la parola è castrata, ridotta a un rantolo, Primo Levi una mattina si dirige verso il refettorio accompagnato da un prigioniero di lingua francese. Per passare il tempo, per rimanere umani, Levi tenta di spiegare al compagno l’amata Divina Commedia. Sceglie un canto, il XXVI, in cui Dante incontra una lingua di fiamma che avvolge e tormenta lo spirito di Ulisse. I versi sfuggono alla mente di Levi, ma la memoria gli restituisce una terzina, la più nota del canto e una delle più citate di tutta la Commedia:
Ulisse canta, Dante ascolta, Levi racconta: la terzina per il prigioniero è “come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono”.
Il Canto di Ulisse è il titolo dello spettacolo diretto da Teresa Pedroni, in scena il 31 agosto in occasione del Todi Festival 2019. Un testo liberamente ispirato al capolavoro di Levi Se Questo è un Uomo e alla sua raccolta di racconti postumi L’Ultimo Natale di Guerra, fortemente voluto dal direttore artistico Eugenio Guarducci e interpretato dal Maestro Roberto Herlitzka, nei panni di un Primo Levi che racconta momenti del suo vissuto tragico nel Lager con una grande limpidezza unita a fughe dell’immaginazione, quando la fantasia si libera per lenire il peso della realtà.
Maestro, vorrei partire proprio da quella terzina, una delle poche che Levi ricorda con chiarezza, quella che gli restituisce, anche solo per un attimo, la sua umanità. A chi, oggi, potrebbero essere rivolte quelle parole?
Senza dubbio a chi soffre come Levi e i suoi compagni stavano soffrendo. Penso a quelle anime disperate che attraversano il mare per cercare una vita migliore, per esempio. Anche se, a dire il vero, consigliare loro di ‘seguir virtute e canoscenza’ può sembrare un po’ una beffa: l’unica cosa che conta, tutto ciò a cui ti aggrappi in situazioni del genere, è sopravvivere. Ma è per questo che le parole di Levi sono una sfida. Dante, e Levi, non scelgono Ulisse a caso: quando pronuncia quelle parole, l’eroe dell’Odissea si trova in un momento in cui il pericolo di morte è più reale che mai. Ulisse, come Levi, dice quelle parole ai suoi compagni, li sprona a ricordare la propria umanità, a proiettarsi oltre la paura. Ed è un monito che rivolge anche e soprattutto a sé stesso.
Mi ha sempre colpito che Levi, quando scriveva ‘Se Questo è un Uomo’, parlava delle vittime, non dei carnefici. I ‘bruti’ danteschi sono i prigionieri, i ‘sommersi’ nel Lager. Se queste parole sono un monito per tutta l’umanità, quali sono le nostre prigioni, oggi?
Guardi, non penso che oggi, almeno nel nostro mondo occidentale, si possa parlare di ‘prigioni’: nel mondo accadono cose orribili ma credo che nulla possa essere paragonabile a ciò che è stato il nazismo. Il nazismo non aveva la morte come mezzo, la morte era il fine del Lager. Una morte prima spirituale e solo dopo fisica. Il Lager tendeva all’annullamento della persona come essere umano, mirava a ridurre l’uomo in ‘bruto’. Le motivazioni che stanno dietro al male moderno sono più terrene, sono legate all’avidità, alla brama di potere. Quindi non penso che si possa fare un paragone tra il Lager nazista, tra l’esperienza di Primo Levi, e il tempo moderno. Ma è proprio questo che rende la voce di Levi essenziale: è la voce della memoria, dello sforzo sovrumano di un uomo che è rimasto tale nonostante fosse prigioniero in un luogo che voleva schiacciare la sua umanità. E lo ha fatto, per tornare a Dante, attraverso la sua sensibilità di artista, di scrittore. Nell’inferno, ciò che lo ha salvato è stata la poesia.
In un’intervista del tempo, Primo Levi parlava del Lager come dell’“unico momento in technicolor in una vita altrimenti in bianco e nero”. In che momento della sua vita troviamo il Primo Levi da lei interpretato nello spettacolo?
È un Primo Levi che sta cercando, come fece Ulisse davanti alla montagna del Purgatorio, di riscattare prima di tutto la propria coscienza. Penso sia questo il valore più grande della testimonianza di Levi. Altre voci, come la sua, hanno raccontato il Lager ma Levi con la sua scrittura ha riscattato l’umanità, ha permesso a chi è venuto dopo il nazismo di trarre le conseguenze di ciò che è stato. Ulisse racconta a Dante, e Levi racconta a noi, per trasmettere prima di tutto la memoria, l’esperienza di chi, di fronte alla più grande paura che l’uomo può provare, la paura della morte, dell’annullamento, scopre l’essenza più profonda della propria umanità.
Lo spettacolo, oltre che da ‘Se Questo è un Uomo’, è ispirato anche a una raccolta di racconti postumi, ‘L’Ultimo Natale di Guerra’. Sono racconti piuttosto diversi dal Levi più noto, dove la fantasia, l’immaginazione quasi infantile prendono alle volte il sopravvento sulla lucidità dello scrittore. Potremmo dire, quindi, ‘virtute, canoscenza’ ma anche poesia, immaginazione?
Certo che sì, anche se senza dubbio è una strada che può imboccare solo chi è dotato di grande creatività. Levi era già scrittore prima del Lager, anche se è chiaro che la sua vita di artista è stata irrimediabilmente segnata da ciò che ha vissuto ad Auschwitz. Ma Levi era un uomo capace di vivere di fantasia, di immaginazione. Come Ulisse, in fondo: solo chi può immaginare di espandere l’orizzonte del proprio mondo, di mettere sé stesso oltre le Colonne d’Ercole, può sfuggire alla morte dello spirito attraverso la poesia. Ed è quello che ha fatto Levi.
Il Canto di Ulisse, presentato dalla Compagnia ‘Diritto e Rovescio’, andrà in scena il 31 agosto presso il Teatro Comunale di Todi. Accanto al Maestro Herlitzka, troveremo Stefano Santospago e i musicisti Alessandro Di Carlo al clarinetto e Alberto Caponi al violino.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PRIMO LEVI. Quando Levi morì (11 aprile 1987), Claudio Magris scrisse un articolo che cominciava così: «È morto un autore le cui opere ce le troveremo di fronte al momento del Giudizio Universale».
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA"
Federico La Sala
LETTERATURA EUROPEA*, IMMAGINARIO PLATONICO, E IMMAGINAZIONE “EDENICA”. Nella speranza, e con l’augurio, che il dono del Sessantotto non risulti esser stato sprecato ...
Note a margine di "Volevamo la Luna" di Andrea Cortellessa (Alfabeta-2, 21 luglio 2019):
SULLA BASE DELLE INDICAZIONI DEL “TELESCOPIO” (DI LEOPARDI) E DEL “PALOMAR” (DI CALVINO), FORSE, E’ MEGLIO RI-DISCENDERE “SOTTO COVERTA DI ALCUN GRAN NAVILIO” E RIPRENDERE LA “NAVIGAZIONE” CON GALILEO ...
«Rinserratevi con qualche amico nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio, e quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti: siavi anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vada versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca che sia posto a basso; e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza. (..)
Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia mentre il vascello sta fermo non debbano succedere così: fate muovere la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur di moto uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti; né da alcuno di quelli potrete comprendere se la nave cammina, o pure sta ferma.» (Galileo Galilei, “Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano”, 1632 - Salviati, giornata II);
.... E CON NOE’ - IL CORVO E LA COLOMBA (“PALOMA”):
“E in capo a quaranta giorni, Noè aprì la finestra che avea fatta nell’arca,
7 e mandò fuori il corvo, il quale uscì, andando e tornando, finché le acque furono asciugate sulla terra.
8 Poi mandò fuori la colomba, per vedere se le acque fossero diminuite sulla superficie della terra.
9 Ma la colomba non trovò dove posar la pianta del suo piede, e tornò a lui nell’arca, perché c’eran delle acque sulla superficie di tutta la terra; ed egli stese la mano, la prese, e la portò con sé dentro l’arca.
10 E aspettò altri sette giorni, poi mandò di nuovo la colomba fuori dell’arca.
11 E la colomba tornò a lui, verso sera; ed ecco, essa aveva nel becco una foglia fresca d’ulivo; onde Noè capì che le acque erano scemate sopra la terra” (“Genesi”: 8, 6-11 );
* ... E CON DANTE ( ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica).
P. S. - LE RADICI DELLA TERRA SONO “COSMICOMICHE”! Un’ipotesi di ri-lettura della DIVINA COMMEDIA, e un omaggio a Ennio Flaiano e a Italo Calvino (cfr. LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI “DUE SOLI”).
Federico La Sala
Giorgio Agamben “Il regno e il giardino”
di Antonio Lucci (Doppiozero, 14 Giugno 2019)
Michel Foucault, nel suo breve saggio (uscito nel 1984) sui “Luoghi altri”, definì il giardino “un’eterotopia felice”: una definizione forse anche troppo positiva, ma comunque indicativa del fatto che il giardino, per il filosofo francese, rappresentava la realizzazione di una serie di caratteristiche utopiche in un luogo reale, assumendo caratteri spaziali e simbolici fortissimi. Del carattere di luogo simbolico, che dà da pensare, proprio del giardino sembra che i filosofi siano da sempre stati ben coscienti: dal giardino in cui si ritiravano (secondo il motto “vivi nascostamente”) gli epicurei, a quello che consigliava - come ricorda nell’epigrafe al suo ultimo libro anche Giorgio Agamben - di coltivare Voltaire alla fine del suo Candide, passando per il giardino di Herrenhausen ad Hannover, in cui non solo Leibniz amava passeggiare e filosofare, ma che egli stesso contribuì a progettare grazie alle sue conoscenze di matematica e di ingegneria, per fare solo qualche esempio.
Si potrebbe addirittura arrivare a dire che, per comprendere come le società antiche hanno immaginato la propria versione ideale - il proprio paradiso - bisogna guardare al modo in cui esse hanno pensato i propri giardini: il giardino ad Atene era un luogo per la discussione e l’agone scientifico, che corrispondeva agli ideali di democrazia e di paideia propri della cultura greca, mentre il giardino cristiano era hortus conclusus, un luogo in cui le mura proteggevano e al contempo separavano l’uomo dall’esterno, dandogli la sua precisa posizione nel mondo (un mondo in cui la percezione delle barriere, sia fisiche che sociali e culturali, era un tassello psicostorico fondamentale). Il giardino barocco era una sorta di “panottico esterno”, in cui le vie rigidamente disegnate, le piante piegate in forme bizzarre dalla mano umana e l’universale visibilità dall’istanza centrale costituita dal palazzo corrispondevano alla società assolutistica di cui era espressione, quello inglese, invece, con il suo avvicinarsi alla naturalità di una selva, rispecchiava in qualche maniera gli ideali di una società che aveva abolito la monarchia assoluta e cominciava a credere che l’uomo non dovesse essere necessariamente, per natura, indirizzato in maniera univoca nei suoi spostamenti nel mondo.
Non a caso, la parola “paradiso” significa, originariamente, “giardino”: è questo il punto di partenza dell’ultimo libro di Giorgio Agamben. Il filosofo romano rinuncia a un’analisi dei rapporti tra le concrete forme storiche del giardino e i diversi regimi immaginari e ideali politici che le hanno prodotte, per concentrarsi invece su uno specifico giardino: quello dell’Eden.
Tutto Il regno e il giardino, infatti, è una serrata analisi di come, in particolare nella letteratura teologica tardoantica e medievale, il giardino dell’Eden - il paradiso terrestre - sia stato un importante operatore teoretico, usato da autori centrali del canone teologico cristiano - come ad esempio Agostino - al fine di descrivere che cos’è, nella sua struttura più profonda, la natura umana. “Giardino” (o meglio, “Paradiso”) - ci dice Agamben - è il nome che tanto affascinanti quanto spesso dimenticati autori del periodo protocristiano (come Efrem Siro e Sant’Ambrogio) hanno dato alla natura umana, in particolare a quella prima del peccato. Come è noto, a causa del peccato siamo stati banditi dall’Eden, dal Paradiso terrestre: secondo Agamben è proprio questo bando il punto centrale, quando si parla dell’Eden.
Non tanto che esso esista, o il fatto che noi vi abbiamo dimorato (pare, secondo la tradizione teologica, non più di sei ore), quanto il nostro esserne stati cacciati: «Non il paradiso, ma la sua perdita costituisce il mitologema originario della cultura occidentale, una sorta di traumatismo originario che ha segnato profondamente la cultura cristiana e moderna, condannando al fallimento ogni ricerca della felicità sulla terra» (p. 19). Agamben vede nella concezione di Sant’Agostino del peccato originale l’origine della tradizione che si affermerà nel cristianesimo successivo, per cui noi tutti erediteremmo la colpa di Adamo per via fisiologica, e quindi indipendentemente dalle nostre azioni: noi tutti siamo da sempre condannati all’esilio dal Giardino, e questo per colpe non nostre, così come per colpe non nostre siamo condannati al peccato e alla morte. Su questa concezione si basa anche l’idea di una natura umana corrotta per sempre, in tutte le generazioni a venire, da un’azione unica, operata da un singolo: «L’uomo è il vivente che può corrompere la sua natura, ma non risanarla, consegnandosi così a una storia e a un’economia della salvezza, in cui la grazia divina dispensata dalla Chiesa attraverso i suoi sacramenti diventa essenziale» (p. 32). (Se anche Agamben non prende in considerazione qui il tema, si potrebbe allargare il discorso ponendo la domanda relativa a quali conseguenze sulla concezione della colpa e del debito quest’idea agostiniana abbia avuto nella storia del pensiero occidentale). Partendo da quest’idea agostiniana (e anselmiana) Agamben analizza l’affascinante ipotesi connessa con l’idea di una natura umana irrimediabilmente corrotta: quella che - fatta eccezione per le sei ore in cui l’uomo vi abitò felicemente - il Paradiso terrestre sia un giardino vuoto, silenzioso ...e fondamentalmente inutile.
Contro quest’idea Agamben analizza il semidimenticato Scoto Eriugena, che - contro Agostino - legge allegoricamente la narrazione della Genesi biblica, interpretando l’Eden come una figurazione della natura umana prima della sua corruzione. La tesi di Eriugena è il doppio specularmente opposto rispetto alla teoria agostiniana del peccato originale ereditario ed eternamente corruttore della natura umana: quest’ultima è stata creata secondo Eriugena da Dio incorrotta e incorruttibile, come lo è il Paradiso terrestre, e solo il peccato è corruzione, ma corruzione legata all’atto e non alla natura dell’agente. L’uomo, col peccato, è uscito dalla propria vera natura, quella assegnatagli da Dio, perché ne ha abusato: in termini metaforici è uscito dal Paradiso, o meglio, non vi è mai stato.
Quindi, non esisterebbe, per Eriugena, una natura corrotta: la natura è da sempre salva, solo che noi ne siamo fin dall’inizio usciti.
Le dispute dei teologi sul Paradiso terrestre, in ultima istanza, ci dice Agamben, sono delle dispute mirate ad articolare il rapporto tra natura e grazia quali dispositivi teorici reciprocamente connessi tramite l’operatore logico del peccato (diversamente interpretato a seconda della direzione che si vuole dare al rapporto tra queste due istanze), e che definiscono la posizione dell’uomo sia nel mondo, che nell’aldilà.
Uno dei capitoli più interessanti del libro è sicuramente quello dedicato alla Divina Commedia di Dante. Agamben decide (non risparmiando alcune righe ferocemente critiche verso la tradizione dantista) di leggere la narrazione dantesca dell’Eden al di fuori e contro il canone interpretativo tomistico e in generale teologico medievale, in quanto vede in esso un «significato immediatamente politico» (p. 68), che fa del Paradiso terrestre una «figura della beatitudine terrena» (p. 71), a cui «Dante - che rappresenta l’umanità - può acceder[e] senza alcun impedimento» (p. 75). Il rapporto tra beatitudine di questo mondo e Giardino viene ripreso anche nell’ultimo capitolo del suo libro da Agamben, che analizza - partendo da Francisco Suárez - la questione di una possibile “politica del Giardino”, ossia l’esperimento mentale per cui - se non avessimo peccato con Adamo - saremmo potuti restare nell’Eden, dovendo poi sviluppare un qualche tipo di organizzazione sociale.
Agamben rileva come le descrizioni di questa possibile “società politica edenica” nei teologi medievali siano assolutamente carenti, derivandone la conclusione che «il paradiso terrestre non costituisce in alcun modo per i teologi un paradigma politico» (p. 106). Da qui ne segue una discussione, tanto teologicamente avvincente quanto complessa da seguire per i non addetti ai lavori, sulle tensioni chiliastiche del cristianesimo, vale a dire sulle interpretazioni date del passo dell’apocalisse per cui Cristo, tornato alla fine dei tempi, regnerà per mille anni con i giusti su questo mondo prima del giudizio finale. La questione è vicina a quella del giardino terrestre, a volte interpretato, nel corso della storia, come allegoria e a volte interpretato come luogo fisico, presente da qualche parte sulla Terra. Ed entrambe le questioni rimandano a quella - per Agamben sempre centrale - della felicità: è possibile, intravedibile, intravista in alcune epoche della storia del pensiero una felicità vissuta, una felicità della vita, di questa vita in questo mondo?
Il libro di Agamben si chiude con questa domanda, quella sulla dantesca «beatitudine di questa vita» (p. 120), una domanda consegnata al lettore di questo bel saggio, da intendere come un ulteriore tassello nel tentativo agambeniano di portare alla luce le categorie centrali del pensiero occidentale, di cui - sicuramente - il giardino è una delle più importanti, e forse sottovalutate.
Teatro.
Ravenna: tutta la città a scuola con Dante
Un’imponente «chiamata pubblica» per riportare alla luce la struttura drammaturgica della «Commedia»: è la formula del Teatro delle Albe che quest’anno porta gli spettatori a esplorare il Purgatorio
di Alessandro Zaccuri, inviato a Ravenna (Avvenire, mercoledì 3 luglio 2019)
Il Purgatorio, scrive Marco Martinelli, è la cantica degli artisti. Di quelli attivi all’epoca di Dante, come il miniaturista Oderisi da Gubbio, e di quelli ancora là da venire, come Joseph Beuys o Vladimir Majakovskij. Separati da qualche secolo di storia terrena, ma meravigliosamente riuniti nella visione oltremondana dalla «chiamata pubblica per la Divina Commedia » che il Teatro delle Albe realizza all’interno del Ravenna Festival.
Un progetto avviato nel 2017 con l’Inferno e destinato a concludersi con il Paradiso nel 2021, settimo centenario della morte di Dante. Il 2019 è invece l’anno del Purgatorio, che non è soltanto la cantica nella quale gli artisti sono più presenti, ma anche quella che gli artisti più amano, come dimostra per esempio la predilezione espressa da T.S. Eliot.
Il Purgatorio è una montagna, lo sappiamo. Nello stesso tempo, però, è una scuola. A sostenerlo è di nuovo Montanari in Nel nome di Dante, il libro che accompagna e integra l’avventura della «chiamata pubblica». Teatro di strada e teatro di popolo, ridefinizione della città come palcoscenico urbano e rivendicazione della natura politica del coro, «un uno che non cancella i molti », secondo la formula che si legge in Acusma, il saggio - edito da Quodlibet - che Enrico Pitozzi ha dedicato al «teatro sonoro» di Ermanna Montanari, moglie di Martinelli e sua compagna di scena dalla metà degli anni Settanta.
Insieme, Ermanna e Marco fanno il Teatro delle Albe, ma non ne rappresentano l’interezza. Per rendersene costo basta venire a Ravenna, dove in queste settimane si svolge la liturgia comunitaria del Purgatorio. È, almeno in parte, lo stesso spettacolo già allestito tra maggio e giugno a Matera, ma nel caso di un oggetto teatrale come questo il cambio di ambientazione implica un ripensamento profondo delle scelte drammaturgiche. Non nell’impianto generale, quanto nell’ambientazione degli episodi e più ancora nella modulazione del paesaggio sonoro, che del Teatro delle Albe rappresenta forse l’elemento più caratteristico. C’è la voce di Ermanna Montanari, che nel tempo è diventata uno strumento a sé, nel quale l’eco della parlata romagnola si sublima nella pronuncia esatta della lingua (Miniature campianesi, il suo libro di memorie pubblicato da Oblomov, è ricco di indizi in questo senso). E c’è il coro, quell’uno-molti che le Albe riescono a suscitare ovunque si spostino, dall’Africa a Neww York, nella periferia di Scampia così come qui, a Ravenna, davanti alla tomba solenne di Dante, che del cimento purgatoriale segna l’inizio.
Alla «chiamata pubblica» hanno risposto un migliaio di ravennati di ogni età e condizione sociale, tra cui moltissimi bambini. Si distribuiscono in gruppi di trecento per animare, sera dopo sera, questa che non è affatto una drammatizzazione della Commedia, ma la rivelazione della natura drammaturgica che segretamente sostiene il «poema sacro». Si comincia con la proclamazione corale del primo canto, con Ermanna Montanari che scandisce «Per correr miglior acqua alza le vele» e il coro che le risponde ripetendo il verso con la medesima intonazione, in un effetto che amplifica e interiorizza ogni parola.
Dante, in apparenza, non si vede, ma solo perché in queste due ore ipnotiche e serrate ciascuno degli spettatori diventa Dante. Non si mette alla sua scuola, per tornare a una delle immagini centrali dell’allestimento, ma va con lui alla scuola del Purgatorio, che è poi una non-scuola : luogo di condivisione e di esperienza, non di trasmissione meccanica del sapere.
Dante siamo noi, in cammino per le strade di Ravenna, e il nostro Virgilio sono Ermanna e Marco. Entrambi vestiti di bianco, sempre pronti a dirigere il coro e a dialogare con le figure che di volta in volta prendono vita dalle pagine della Commedia. Il venerando Catone di Gianni Plazzi e il dolente Manfredi di Roberto Magnani, il penitente Adriano V di Alessandro Argnani e l’immobile Ugo Capeto di Luigi Dadina, il Bonconte di Massimilano Rassu, che non smette di rievocare il miracolo della salvezza dovuta a una «lacrimetta», e la Sapia di Laura Redaelli, anche lei instancabile nel mettere in guardia dalle insidie dell’invidia. Si tratta spesso di apparizioni improvvise e discrete, come quella dello scolaretto che da un balcone di via di Roma impersona l’angelo del silenzio.
Ma non mancano le grandi costruzioni corali. Su una scala di servizio dell’Istituto musicale Verdi si dispongono le donne uccise dalla violenza: a guidare le loro voci è la Pia dei Tolomei di Mirella Mastronardi, che per prima intona lo struggente «Ricordati di me». Una visione di forte resa emotiva, il cui corrispettivo è la massa degli iracondi che lo spettatore incontra nel Purgatorio vero e proprio, insediato per l’occasione nel cortile della Casa di riposo Garibaldi. Questa volta è il Marco Lombardo di Alessandro Renda a prendere la parola con la perorazione sul libero arbitrio che Dante ha voluto incastonare alla metà esatta del poema, come a denunciarne la struttura nascosta.
E la non-scuola? È organizzata in due classi, la cui frequenza è obbligatoria per accedere al Paradiso terrestre nel quale quattro ragazze, con le stesse trecce e la stessa giacca cerata di Greta Thunberg, sanciscono l’avvenuta purificazione di noi penitenti. Prima ci si siede tra i banchi per assistere alla lezione dell’Oderisi di Matteo Gatta, a sua volta abbigliato come Beuys, artista mistico e stravagnate. Poi vengono i «vermi e farfalle», che sui banchi salgono volentieri per proclamare i versi non solo di Dante, ma anche di Walt Whitman, John Donne, Etty Hillesum. E di Majakovskij, certo, che il Purgatorio lo ha descritto benissimo a modo suo: «Dite ai pompieri / che su un cuore in fiamme / ci si arrampica con le carezze».
Speciale
La voce-corpo / Esercizio di memoria per Edipo
di Daniele Vergni (Alfabeta-2, 23 Giugno 2019)
Sabato 13 aprile, all’interno degli eventi organizzati per la mostra Il corpo della voce, è andato in scena presso il Palazzo delle Esposizioni di Roma Edipo Re, esercizio di memoria per quattro voci femminili di Chiara Guidi. Nella sala 9 del Palazzo (completamente sold out) quattro attrici donano le loro voci a quartetti di personaggi che hanno come fulcro Edipo. La sintesi dello schema vocale dei personaggi lo troviamo sullo sfondo: l’albero della vita di kabbalistica memoria con le sue dieci Sephiroth rinominate per l’occasione e con Edipo che sostituisce tutti i gradi principali, dal divino all’umano (Edipo sostituisce Kether, Tiferot, Yesod e Malakuth).
Il testo di Sofocle viene ricreato e trattato come partitura vocale. Le quattro attrici, al microfono, cambiano personaggi durante il decorso dello spettacolo. Sono i personaggi vocali qui ad intersecarsi e scambiarsi, sorreggersi ed interrogarsi, proseguendo uno nell’altro. E da queste voci - assieme a quelle del coro di cittadini che nei tre giorni precedenti lo spettacolo hanno studiato con Chiara Guidi - prende forma l’intero spettacolo. L’esercizio di memoria sulle parole di Sofocle diviene scomposizione che mira prima di tutto al portato fonico, alla dischiusura di un nuovo e antico senso, quello che con Giorgio Agamben potremmo chiamare un experimentus vocis, quello in cui «nell’istante dell’enunciazione [...] il linguaggio non si riferisce a nessuna realtà lessicale né al testo dell’enunciato, ma unicamente al proprio aver luogo»1. Così questo flusso sonoro - in cui s’innestano suoni e texture create da Scott Gibbons - cui è mancata un’adeguata amplificazione - ci trascina davanti al mito.
Anni fa, seguendo un laboratorio di Chiara Guidi, appuntai alcune sue parole: “la voce è nascosta e può lavorare un testo per far emergere tutto quello che non dice, poiché la voce è puro voler dire che non spiega, non intrattiene, ma scava nel corpo provenendo da un organismo complesso, corpo e ambiente”. Questo Edipo Re è la messa in pratica di questa idea.
L’esercizio a cui allude il sottotitolo è quello delle memorie vocali dove si agita sempre qualcosa di nascosto, torsioni e slittamenti che contraddistinguono anzitutto un processo che più che compiersi si dipana tra i personaggi vocali e quindi incide direttamente sulla composizione del linguaggio. È qui che trovano senso i fonemi, le singole lettere, le vocali allungate che sorreggono sentenze e difese. Tutta la narrazione si articola in questi movimenti che ci restituiscono l’idea di una drammaturgia vocale.
Non si tratta più allora di rappresentare un testo ma di incrinarlo per portarne alla luce la potenzialità data dall’incontro tra le voci. Proprio da questo incontro Edipo scopre il suo destino e davvero è già tutto compiuto?
Il segreto della voce riecheggia nella Sala 9 del Palazzo delle Esposizioni e ci lascia un dubbio riguardante l’immaginazione. La persistenza del suono è più effimera di qualsiasi lampo d’immagine ed è qui il nodo di una drammaturgia vocale.
L’immaginazione indirizzata da questo sciame di voci ci restituisce il quadro completo ma il colore sulla tela svanisce e ciò di cui abbiamo fatto esperienza ci richiede uno sforzo maggiore, un decisivo ricorso alla memoria acustica che si alimenta dell’immaginazione, come Edipo che «solo con la voce [...] scopre la verità del proprio destino: l’essere figlio immaginario di suo padre»2.
Ad un secondo livello di lettura, questo aver luogo della voce nell’Edipo Re di Chiara Guidi ci mostra la formazione di un soggetto disancorato, appunto “figlio immaginario di suo padre”, slegato da quella legge del padre che crea individualità. Edipo non è individuo ma soggetto a-centrico, e questa de-centratura viene messa in risalto dal trattamento vocale che Chiara Guidi realizza con la sua partitura: «più che opporsi alla scrittura, come avviene nell’ambito degli studi sull’oralità, la voce si oppone perciò [...] al linguaggio, ai suoi canoni disciplinati, al gendarme della grammatica e della sintassi»3.
Sono le esigenze delle voci a riorganizzare il testo mettendo sotto scacco il linguaggio, così le valenze sonore prendono il sopravvento donando quel piacere ritmico4 in cui Edipo si disperde. Questa disindividualizzazione sembra appartenere a quel divenire-donna indicato da Gilles Deleuze, un’alterità continua nei propri confronti: «Donna è un modo d’essere trans-individuale in perenne divenire. E divenire-donna significa concatenare quanto eccede la dimensione individuale»5. Così Edipo si chiede nel finale della partitura“Dove rapida vola via ora la mia voce?” e solo quando il fato si è compiuto Edipo può rispondere, “Amico, seppure nell’ombra, riconosco la tua voce!”6.
EDIPO RE DI SOFOCLE | ESERCIZIO DI MEMORIA PER QUATTRO VOCI FEMMINILI
da un’idea di Chiara Guidi in dialogo con Vito Matera
suoni originali Scott Gibbons
scene luci e costumi Vito Matera
con Angela Burico, Chiara Guidi, Anna Laura Penna, Chiara Savoi
coro poetico composto da settanta cittadini
produzione Societas
1 G. Agamben, Che cos’è la filosofia?, Quodlibet, Macerata 2016, p. 45.
2 Dalle note redatte da Chiara Guidi per lo spettacolo.
3 A. Cavarero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Felitrinelli, Milano 2003, p. 146.
4 Ivi, p. 149.
5 G. De Fazio, Etica delle composizioni. Sul divenire-donna e le linee di fuga della corporeità, in «La Delouziana», n. 2/2015, p. 51. Disponibile al link http://www.ladeleuziana.org/wp-content/uploads/2015/12/De-Fazio.pdf
6 Partitura dell’Edipo Re, esercizio di memoria per quattro voci femminili di Chiara Guidi, p. 49.
“700 - Viva Dante”. Scelto il logo per celebrare i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri*
“700 Viva Dante - Ravenna 1321-2021” sarà questo il logo delle prossime celebrazioni dantesche, l’anniversario dei 700 anni dalla morte del Sommo Poeta. Un 7 e il simbolo dell’infinito, “Viva Dante” che in molti hanno letto come “Viva Ravenna”.
È stata quindi l’agenzia di comunicazione Matilde Studio di Cesena a vincere il concorso pubblico indetto dal Comune di Ravenna per trovare l’immagine che rappresenterà la città nel prossimo anno. Un concorso, a dire il vero, che in questi mesi ha ricevuto diverse critiche, dall’opposizione, ma anche dall’Associazione Italiana Design della Comunicazione.
A molti non è piaciuta l’idea di lasciare ai ravennati una scelta così complessa e strategica.
Di convinzione opposta, invece, il Comune, che ora ha il proprio logo sotto il quale racchiudere tutte le prossime celebrazioni dantesche, scelto da una decisione popolare
* https://www.ravennawebtv.it/ 30 Aprile 2019
"Viva Dante": i cittadini hanno scelto il logo per le celebrazioni del 2021
Con il nome scelto “Viva Dante” si è voluto sottolineare come il poeta, ancora oggi, rappresenti un punto di riferimento vivo per la città
di Redazione ("Ravenna Today", 30 aprile 2019)
"Viva Dante": il logo e il naming ideati da Matilde Studio di Cesena per rappresentare il settimo centenario della morte di Dante Alighieri sono quelli che hanno maggiormente convinto il pubblico del teatro Rasi, protagonista lunedì sera della procedura partecipata che ha costituito la fase finale della selezione con la quale l’Amministrazione comunale ha scelto di individuare l’identità visiva che rappresenti il settimo centenario dantesco del 2021 a Ravenna. Per la proposta di Matilde Studio hanno votato 176 persone su 291. Al secondo posto si è classificato il progetto proposto da Social Design srl (Firenze); al terzo quello di Menabò group (Forlì).
Il logo-naming vincitore
"Il logo presentato è composto di tre elementi: marchio, logotipo e payoff - spiegano dallo studio vincitore - Il marchio rappresenta il numero settecento, stilizzato utilizzando un motivo a tessere. La forma è completata dalla silhouette di Dante ripreso dall’iconico ritratto di Botticelli con alcune variazioni relative soprattutto alla corona d’alloro tesa a dare maggior risalto al profilo in monocromia. Come dettaglio ulteriore il marchio contiene, creata dalla sovrapposizione dei due cerchi, la forma dell’infinito, allo scopo di simboleggiare l’eternità divina espressa nel Paradiso e la memoria perpetua celebrata dai Ravennati nel culto del poeta. Lo schema policromo riprende le tonalità utilizzate nei mosaici ravennati che, pare, abbiano ispirato lo stesso Dante nell’elaborazione di alcune immagini letterarie del Paradiso. In generale l’utilizzo di un marchio composito, creato da tante tessere e molteplici colori vuole anche essere il simbolo di una celebrazione formata da tante voci, esperienze, sensibilità particolari che cooperano alla celebrazione. Per quanto riguarda il nome scelto “Viva Dante” si è voluto sottolineare come il poeta, ancora oggi, rappresenti un punto di riferimento vivo per la città sia in termini di valori che di ispirazione artistica. Si è giocato quindi con la contrapposizione tra la celebrazione della morte e la consapevolezza di un’esperienza che vive, eternamente. Il nome, pur essendo in italiano, utilizza parole utilizzate spesso anche in ambito internazionale rendendo, assieme al payoff, il logo perfettamente fruibile anche da un pubblico estero mantenendo un imprescindibile carattere italiano. Il payoff condensa, sempre tenendo conto della fruibilità linguistica, il posizionamento temporale e geografico delle celebrazioni, evidenziando inoltre il ruolo di Ravenna nella vicenda umana di Dante".
I cittadini, nell’ambito della chiamata pubblica organizzata dal Teatro delle Albe - Ravenna Teatro per la rappresentazione del Purgatorio, sono stati invitati a scegliere l’immagine e la frase a loro parere più significativi e capaci di trasmettere l’insieme dei valori, delle attività e degli spazi che concorrono al programma delle celebrazioni dantesche nel 2020 e 2021. La partecipazione era comunque aperta anche ai cittadini non partecipanti alla chiamata pubblica per la rappresentazione del Purgatorio. Nel corso della serata i tre loghi e i relativi naming, precedentemente scelti, tra 29 proposte pervenute, da una giuria di qualità costituita da cinque esperti, sono stati illustrati al pubblico dagli ideatori per meglio far comprendere il messaggio che intendevano legare alla città, a Dante e ai valori universali e plurali della sua opera. Le 29 proposte sono arrivate da diverse parti d’Italia e anche dall’estero: Ravenna, Riccione, Bellaria, Mirandola, Bologna, Firenze, Russi, Lugo, San Giovanni in Marignano, Messina, Milano, Forlì, Rimini, Mosca, Faenza, Slovenia, Cesena, Caltagirone, Roma, Cagliari, Bagnacavallo, Siviglia.
Conclusa la presentazione si è passati alla votazione, presentando un documento di riconoscimento, tramite una scheda da introdurre in un’urna. Il voto si è concluso alle 22 e si è poi svolto lo scrutinio, pubblico, al termine del quale è stato annunciato il vincitore. La proposta vincitrice sarà premiata con un premio di quattromila euro. Il secondo e il terzo classificato riceveranno rispettivamente un premio di duemila euro e di mille. Il Comune di Ravenna affiderà il servizio di ideazione e progettazione di una declinazione esecutiva dell’immagine coordinata all’ideatore del progetto classificato al primo posto. Nella prima fase della selezione la giuria ha esaminato i progetti nel rispetto del loro anonimato, in base ai seguenti criteri: caratteristiche concettuali, estetiche, espressive; efficacia comunicativa e qualità della proposta in ordine alla relazione tra Ravenna e Dante; funzionalità e applicabilità ai diversi utilizzi e contesti istituzionali.
La giuria era così composta: Giulio Ceppi, Giulio Blasi, semiologo, amministratore delegato di Horizons Unlimited, società che gestisce il servizio MLOL in 4.500 biblioteche italiane e straniere, si occupa di editoria multimediale. Marianna Panebarco, general manager Panebarco &c sas, esperta di comunicazione digitale. Presidente CNA Giovani imprenditori Emilia-Romagna. Membro di presidenza Cna Giovani imprenditori nazionale. Membro del Comitato Dantesco Ravennate. Mimmo Berterame, amministratore delegato di Gusto italian design studio che realizza consulenze professionali nella progettazione e nella pianificazione di campagne su scala nazionale ed internazionale, con new e classic media. Maurizio Tarantino, dirigente Unità operativa Politiche e attività culturali, direttore dell’Istituzione Biblioteca Classense e Istituzione Museo d’arte della città.
La polemica
Dure le critiche della capogruppo della Pigna Veronica Verlicchi: "Con la scusa della “partecipazione popolare” la dirigenza e l’assessorato alla cultura continuano a sviare la responsabilità delle scelte che sono chiamati a fare, e per le quali sono ben pagati, scaricandola sul pubblico. Ma é evidente che questo non é un modello applicabile sempre e comunque e che in talune occasioni di particolare rilevanza, come quella delle celebrazioni dantesche, sarebbe più opportuno un intervento tecnico e di qualità. Parola che é palesemente sconosciuta ai componenti della Giunta di Michele de Pascale, che nell’esercitare le proprie deleghe perpetrano scelte scellerate e totalmente contrarie agli interessi dei cittadini. Il risultato: il primo passo dell’organizzazione delle celebrazioni dantesche ravennati é stato un passo falso. Ci si dovrà tristemente ridurre a sperare che Firenze e Verona, le altre città coinvolte nei festeggiamenti, facciano di peggio?".
Accademici e ministri, fissate il giorno del «Dante pride»
È giunto il momento di mettersi d’accordo e fissare d’imperio una Giornata da dedicare al Sommo Poeta: «Vuolsi così colà dove si puote...».
di Paolo Di Stefano (Corriere della Sera, 23.04.2019)
Lo confesso. Questo è un articolo che ho scritto più volte (inascoltato) da quando siamo a cavallo tra un anniversario dantesco e l’altro: tra il 2015 (750 anni dalla nascita) e il 2021 (700 anni dalla morte). Lo confesso, ma ci sono casi in cui repetita juvant («et secant», scherzava il mio professore di latino). Ieri, 23 aprile, era la Giornata mondiale del libro, istituita il 7 ottobre 1926 per celebrare la nascita del padre del romanzo europeo, lo spagnolo Miguel de Cervantes. Dal 1930 si passò al 23 aprile in omaggio a Shakespeare e a Garcilaso de la Vega, che morirono lo stesso giorno di Cervantes nel 1616. Quel giorno, San Jordi, patrono di Barcellona, i librai catalani regalano una rosa per ogni libro acquistato.
È una festa a cui Inge Feltrinelli ha partecipato tante volte impazzando allegramente per le ramblas con il suo amico Manolo, Manuel Vázquez Montalbán. Ma questa è una semplice variante sul tema. La ripetizione sta nell’insistere perché anche Dante abbia una sua Giornata sul calendario, così come Cervantes, Shakespeare e Joyce, che a Dublino (e nel mondo) dal 1950 viene festeggiato ogni 16 giugno. Santificato San Remo, beatificati i nostri mille festival quotidiani, metabolizzato agevolmente il Black Friday, dopo sette secoli sembra giunto il momento di uno scatto d’orgoglio tutto italiano: per le università, per le accademie (Crusca, Lincei eccetera), per la benemerita Società Dante Alighieri, per la gloriosa Società Dantesca, per i dantisti e i dantologi, per gli infaticabili Istituti di Cultura, per gli illuminati ministri della cultura, dell’interno, degli esteri, della difesa, delle infrastrutture, dei trasporti...
È giunto il momento di mettersi d’accordo e fissare d’imperio una Giornata da dedicare al Sommo Poeta: «Vuolsi così colà dove si puote...». Un Dantedì o se preferite un “Dante Pride” per le strade, nelle piazze, nei teatri, nelle chiese, nelle scuole: ovunque, in Italia, in Europa, nel mondo, e se possibile (sarebbe un segno di eterna gratitudine) anche nell’aldilà. -All’anno prossimo.
NEL REGNO DI EDIPO: "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE", L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO. Come nascono i bambini e le bambine... *
Appello di una femminista alle donne cristiane che sono contro il Congresso mondiale delle famiglie
di Luisa Muraro (Libreria delle donne, 29 Marzo 2019)
Care amiche, vorrei sottoscrivere il vostro Appello contro il Congresso delle famiglie a Verona. Sono d’accordo con quello che dite, in primo luogo che la famiglia non è un’entità naturale ma un’istituzione culturale, che quasi sempre mostra una forte impronta patriarcale.
A me e a voi, suppongo, è chiaro che prima della famiglia, comunque intesa, c’è la diade formata da una donna e dalla creatura che lei ha concepito e portato al mondo. È un rapporto molto speciale, che precede i dualismi tipici della cultura maschile: la donna che accetta di entrare nella relazione materna, alla sua creatura dà la vita e insegna a parlare, le due cose insieme. Ed è un “insieme” che si tende, come un ponte insostituibile, sopra l’abisso della schizofrenia umana.
Vorrei ma non posso sottoscrivere il vostro Appello perché, nella difesa delle nuove forme familiari, non c’è una critica di quelle che si costituiscono da coppie che, sfortunatamente o naturalmente sterili, invece di adottare, si fanno fare la creatura a pagamento.
Da donne cristiane, mi aspettavo una calorosa difesa dell’adozione e un’energica richiesta della sua estensione a persone e coppie finora escluse dalla legge. Ma, ancor più, essendo voi donne, mi aspettavo una difesa della relazione materna libera e responsabile così come oggi è diventata possibile. Invece, parlate solo di genitorialità, usate cioè una parola tipica del linguaggio neutro-maschile. E a voi che parlate del corpo femminile come luogo di spiritualità incarnata, chiedo: che famiglia è mai quella che nasce con il programma esplicito, messo nero su bianco, di cancellare la relazione materna che si sviluppa con la gestazione in un intimo scambio biologico e affettivo?
Voi, a differenza di tanti cattolici, leggete la Bibbia e sapete che la cosiddetta gravidanza per altri, ossia la donna che partorisce senza diventare madre, corrisponde pari pari ad antiche usanze del patriarcato, usanze che sembravano superate. Le ultime pagine del Contratto sessuale di Carole Pateman, parlano proprio di questo sostanziale arretramento. Detto alla buona, ci sono “nuove” famiglie che di nuovo hanno solo la tecnologia.
A proposito: che cosa pensano di tutto questo gli uomini vicini a voi, i vostri compagni di fede e d’impegno politico? Perché non compaiono nel vostro Appello? Mi è venuto un sospetto, di ritrovarmi davanti a quel noto comportamento maschile che è di nascondersi dietro a una o più donne quando si vuol far passare pubblicamente qualcosa che è contro le donne. Devo portare degli esempi? Ma, se questo non fosse vero, scusatemi.
(www.libreriadelledonne.it, 28 marzo 2019)
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
Cultura e civiltà. L’ordine simbolico della madre.....
NEL REGNO DI EDIPO. L’ordine simbolico di "mammasantissima"
"L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": L’ALLEANZA CATTOLICO-"EDIPICA" DEL FIGLIO CON LA MADRE!!!
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
"DUE SOLI" IN TERRA, E UN SOLO SOLE IN CIELO: "TRE SOLI".... *
Storia.
Il sogno di Napoleone: l’archivio dell’impero
Bonaparte aveva capito che, controllando la memoria dei popoli, li si teneva in pugno e si poteva scrivere la storia come prova della legittimità del proprio potere
di Edoardo Castagna (Avvenire, giovedì 11 aprile 2019)
Del saccheggio napoleonico di opere d’arte, con i lunghi strascichi relativi alle restituzioni o alle mancate restituzioni, molto si è scritto. Assai meno del saccheggio di uomini, della “carne da cannone” razziata come e più di quadri e statue in ogni angolo d’Europa, per finire seppellita tra le colline boeme o nelle steppe di Russia. Tutti iscritti all’anagrafe della storia come “francesi” sebbene in gran parte francesi non fossero affatto, come lo stesso Napoleone si premurò poi di rimarcare. Ma le appartenenze nazionali, così come le tradizioni storiche e le memorie collettive, si costruiscono. Ed è per questo che tra i tanti saccheggi napoleonici uno, perseguito con particolare tenacia, si concentrò sugli archivi delle varie capitali via via occupate e inglobate nell’Impero.
Vicenda meno nota di altre, ben ricostruita da Maria Pia Donato nel suo L’archivio del mondo. Quando Napoleone confiscò la storia (Laterza, pagine 170, euro 19,00). La sua versione dell’eterno sogno della biblioteca universale si declinò utilitaristicamente verso la condensazione sotto un unico controllo di quella che avrebbe dovuto essere la fonte primaria sia per la scrittura della storia nei secoli a venire, sia per la costruzione di una tradizione e di un’identità comune a tutta l’Europa posta sotto lo scettro di Napoleone, in ideale rimando all’unità medievale dei “due soli” a cui esplicitamente tale operazione si ispirò. Furono infatti la conquista, nel 1809, degli archivi del Sacro Romano Impero e del Papato a mettere in moto la macchina accentratrice dell’archivio dell’Impero.
Come in tante altre occasioni, la storia seguiva la propria strada indipendentemente dalla volontà degli uomini, tanto che l’idea di centralizzare gli archivi europei, sottolinea la Donato, seguì e non precedette l’inizio della sua realizzazione: il suo Napoleone è perfettamente tolstojano, in balìa di quegli stessi eventi epocali che si illude di governare. Stando al trattato con l’Austria nel 1809, avrebbero dovuto passare sotto controllo francese soltanto gli atti relativi ai territori ceduti agli occupanti: i quali invece, con militaresca ruvidità, prelevarono in blocco le carte conservate a Vienna, quali che fossero e di ogni epoca. Furono riempite oltre 2.500 casse, caricate sui carri e spedite a Parigi.
Simile fu la brutalità con la quale si procedette al- l’acquisizione degli archivi di Roma, il cui sequestro in realtà fu, almeno inizialmente, funzionale alla volontà di Napoleone di mettere sotto pressione il Papa: tanto che nel 1813, quando l’imperatore credette di averla spuntata su Pio VII, ordinò la restituzione delle carte. Per rimangiarsela, naturalmente, quando mutò nuovamente idea sul conto del Pontefice. Nel frattempo però, e anche in contraddizione con i tatticismi politici del momento, maturava in lui e nei suoi collaboratori «l’idea di creare un sito centrale della memoria per l’impero, anzi una grandiosa raccolta delle testimonianze scritte della civiltà», nota la Donato; via via furono acquisiti gli archivi olandesi, spagnoli, piemontesi, belgi, della galassia di staterelli tedeschi.
A sovrintendere al tutto fu l’archivista capo Pierre-Claude-François Daunou: ex prete, ex illuminista, ex fervente repubblicano, infine comodamente adagiato nell’ordine bonapartista (al quale peraltro sarebbe sopravvissuto). Nella sua opera trasfuse, al pari di quella contemporanea e simmetrica dei curatori del Louvre, del Jardin des plantes o della Biblioteca nazionale di Parigi, l’ideale e l’ambizione enciclopedici degli Idéologues illuministi. «Fu elaborata sul campo - nota la Donato - la dottrina che Édouard Pommier ha chiamato “la teoria del rimpatrio”, ossia l’idea che solo nella Francia rigenerata le opere delle scienze e delle arti avrebbero potuto sprigionare il loro potenziale di conoscenza ed emancipazione».
Daunou aveva ben servito Napoleone compilando un Saggio storico sul potere temporale dei papi tutto teso a mostrare le malefatte plurisecolari del Papato e le buone ragioni di un imperatore nel volerlo ridurre alla sua mercé; il Saggio venne ripetutamente riveduto e ampliato proprio grazie alle nuove fonti archivistiche divenute disponibili. Ma Daunou non era un mero cortigiano, anzi: nella sua opera di gran maestro dell’archivio napoleonico diede indubbie prove di capacità organizzative, di intelligenza pratica (fu l’inventore di quelle “schede”, uniformi per formato e ordine delle informazioni, divenute poi di uso universale fino all’avvento della digitalizzazione) e anche di un po’ di visionarietà.
Non ci fu il tempo di costruire l’immenso palazzo che avrebbe dovuto ospitare i Grandi Archivi, ma quello per affermarne la centralità storica sì: non solo, prosegue la Donato, «furono l’invenzione simbolica di un impero in cerca di radici», ma offrivano anche l’occasione di coltivare la storia pragmatica che era stata degli Idéologues. L’archivio serviva (anche) a scrivere la storia», e per questo esserne i controllori significava essere i controllori della memoria dei popoli. Nelle carte degli archivi si trovano i mattoni fondamentali per erigere quei monumenti umani collettivi che sono le identità naziona-li: una lezione, questa, che gli Stati- nazione che sarebbero sorti dopo il tramonto dell’età napoleonica, e che rientrarono in possesso dei rispettivi archivi, avrebbero ben messo a frutto.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA" -Nel 200° anniversario della pubblicazione della "Fenomenologia dello Spirito" di Hegel (1807)
Federico La Sala
IL "DIO DI AMORE" DI (OVIDIO E) BRUNETTO LATINI E "L’AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE" DI DANTE.... *
Su Brunetto Latini, “Poesie”, a cura di Stefano Carrai
di Claudio Giunta (Domenicale del Sole 24 ore, 20 marzo 2016)
Il Tesoretto di Brunetto Latini non è certamente quel misconosciuto «capolavoro della letteratura allegorica» che diceva Jauss (ma come mai lo abbiamo preso sul serio?), ma è un modo eccellente per avvicinarsi alla poesia dei primi secoli; e questa nuova edizione a cura di Stefano Carrai è un modo eccellente per avvicinarsi al Tesoretto.
Si tratta di un poemetto, 2944 versi in tutto, scritto da Brunetto Latini al principio degli anni Settanta del Duecento. È uno strano ibrido. Comincia come un racconto di viaggio (il poeta-protagonista si trova a Roncisvalle, e qui incontra uno studente bolognese che gli comunica la sconfitta dei guelfi a Montaperti), prosegue come un trattato didascalico (la Natura personificata illustra al poeta l’ordinamento del cielo e della terra), poi come un trattato morale (il poeta incontra in successione le virtù, il dio d’Amore, il poeta Ovidio), e finisce con una bizzarra ‘Penitenza’, circa 500 versi in cui Brunetto riflette sulla caducità delle cose umane ed esorta un amico a cambiare vita come lui l’ha cambiata («che sai che sén tenuti», scrive, «un poco mondanetti»); dopodiché il racconto riprende e il protagonista si trova sul monte Olimpo, dove incontra il grande Tolomeo, «maestro di storlomia». Qui il testo s’interrompe di colpo.
Al di là però del contenuto, né originale né profondo, e al di là dello stile, senza veneri (anche perché imprigionato in una gabbia metrica da filastrocca: coppie di settenari a rima baciata), il Tesoretto è un testo interessantissimo perché è davvero un repertorio di topoi immaginativi, un campione di medievalità: c’è il viaggio nella foresta, c’è un mondo fantastico all’interno del quale il personaggio-poeta può dialogare via via con la Natura, con Ovidio o con Tolomeo, ci sono le ipostasi delle virtù e delle percezioni, che pescano dall’identico immaginario da cui hanno pescato gli sceneggiatori di Inside Out (Desianza=Joy, Paura=Fear): «Desïanza ... sforza malamente / d’aver presentemente / la cosa disïata / ed è sì disvïata / che non cura d’onore / né morte né romore, / se non che la Paura / la tira ciascun’ora, / sì che non osa gire / né solo un motto dire».
Il commento di Carrai è un commento esatto e intelligente. Sembra poco, ma è tantissimo, perché i commenti alla poesia (e soprattutto alla poesia antica) sono spesso un po’ stupidi. Chi ha studiato per anni un autore o un testo non si rassegna facilmente a farsi da parte, cioè a tacere una volta chiarito ciò che nel testo c’è da chiarire, ed eventualmente a far riflettere il lettore su ciò che il testo può dire sul suo autore o sulla mentalità dell’epoca in cui venne scritto: non si rassegna, gli viene, come diceva il dottor Johnson, «la fregola di dire qualcosa anche quando non c’è nulla da dire», o peggio - e la cosa è specialmente frequente nel campo della medievistica - gli viene la fregola di trovare verità nascoste, di sciogliere gli enigmi, il che porta spesso a postulare enigmi là dove non ce ne sono, onde una ridda di ipotesi e contro-ipotesi da stancare un causidico. E poi, a riempire le pagine, valanghe di ‘riscontri intertestuali’, come se importasse qualcosa che il poeta X ha preso quella parola dal poeta Y o dal poeta Z. Carrai invece non scaraventa sul lettore tutto il contenuto delle sue schede, spiega il testo dove occorre, e dove non riesce a spiegare prospetta delle ipotesi d’interpretazione, appoggiandosi - per consentire o per dissentire - a chi del Tesoretto si è occupato prima di lui.
Al Tesoretto Carrai fa seguire, com’è consuetudine, il Favolello, che è un altro breve poemetto in settenari baciati, più pedestre nel contenuto (è uno scialbo trattatello sull’amicizia), ma interessante soprattutto perché cita come amici-destinatari due rimatori contemporanei, Rustico Filippi e Palamidesse di Bellindote. E al Favolello segue, nel volume (che appunto per questo s’intitola Poesie: è l’opera omnia in volgare italiano di Brunetto), l’unica canzone di Brunetto che ci venga tramandata dai manoscritti, S’eo son distretto, strana poesia d’amore e devozione che alcuni hanno interpretato come un documento dell’omosessualità dell’autore (con ovvi riflessi sull’interpretazione di Inferno XV) e altri, direi più plausibilmente, come canto nostalgico per la patria, Firenze, dal quale il guelfo Brunetto viene bandito dopo Montaperti.
Manca, e avrebbe invece dovuto esserci, la canzone responsiva di Bondie Dietaiuti (così, nel Medioevo, si dissolvevano le tenzoni poetiche: gli scribi copiavano i corpora personali degli autori obliterando i testi missivi e responsivi dei loro corrispondenti, che in questo modo si disperdevano; ma in un’edizione moderna non si vede perché le tenzoni non debbano essere date nella loro integrità).
Il discorso sul Tesoretto e sul Favolello non è chiuso. Sono testi facili solo all’apparenza, specie a causa delle contorsioni che il metro e lo schema delle rime impongono all’autore. Di certi hapax resta poco chiaro, nonostante lo sforzo degli interpreti, il significato. Altri termini sono ambigui (per esempio non parafraserei con ‘verità’, con Contini e Carrai, il drittura di Favolello 7 «e fàllati drittura»: ‘giustizia’, che è il senso che drittura ha usualmente, mi pare più aderente al contesto). E certi passi dovranno forse essere riconsiderati in una futura edizione critica. Per esempio, ai vv. 1275-79 tutti gli editori postulano un (credo inattestato altrove) ablativo assoluto: «E vidi ne la corte, / là dentro, fra le porte, / quattro donne reali / che corte principali / tenean ragione ed uso». Dove «corte principali» vorrebbe dire ‘nella prima corte’. Ma dato che le «donne» di cui si parla sono virtù, e che principales è l’aggettivo che nel Medioevo spesso si predica delle virtù, in genere le cardinali, ci si deve domandare se la lezione corretta non sia piuttosto, con minimo emendamento, «come principali», cioè ‘come signore, regine di quella corte di giustizia’ (e sarebbe un altro errore d’archetipo, da aggiungere a quelli registrati da Pozzi e Contini nei Poeti del Duecento).
Forse potremmo chiudere, invece, il discorso sui rapporti tra Brunetto e Dante, salvo che non saltino fuori nuovi testi che permettano di riconsiderare sotto nuova luce la questione. Questione che è nota ad ogni studente liceale: Dante mette Brunetto all’Inferno, tra i sodomiti, ma non dice nulla della sua colpa (il che sorprende fino a un certo punto, dato che non sempre Dante lo fa), né di questa colpa si parla nelle fonti che non dipendono da Dante (il che non sorprende per niente: ci si aspetta che l’omicidio o la simonia lascino traccia nelle cronache, non necessariamente le inclinazioni sessuali).
Sodomia va allora inteso figuratamente, come ‘peccato contro la propria lingua materna’ (perché Brunetto, fiorentino, ha scritto il suo Tresor in francese)? Oppure come peccato politico (perché Brunetto non avrebbe «riconosciuto la sacra autorità dell’Impero»)? Mi sembra che la soluzione proposta da Zanato e ora da Carrai resti la più sensata: dato che Brunetto ci appare in compagnia di «Prisciano, Francesco Accursio e Andrea de’ Mozzi, [cioè] del gruppo di intellettuali, perlopiù pedagoghi ed ecclesiastici, che si sono resi colpevoli di pratiche omosessuali», non c’è ragione di pensare che lui non si sia macchiato dello stesso - non metaforico - peccato.
Non andrei oltre; né speculerei, per le ragioni che ho già accennato, sulla ‘memoria’ della poesia brunettiana nel canto XV. Il poeta Brunetto non aveva niente da insegnare a Dante, perché il peggior Dante (per esempio quello un po’ lezioso di Inferno IV: «Venimmo al piè d’un nobile castello, / sette volte cerchiato d’alte mura, / difeso intorno d’un bel fiumicello...») è migliore del migliore Brunetto. E l’idea che quando Dante mette in scena un altro poeta si serva - attraverso accorte allusioni - delle parole che quel poeta ha adoperato nelle sue opere mi sembra davvero un’idea tutta nostra, un’idea da filologi moderni, che mettiamo a forza nella testa di scrittori molto meno sottili di noi.
E questo vale anche per la testimonianza che molti (anche Carrai) considerano più probante: l’avvio del canto XV, «Ora cen porta l’un de’ duri margini...», nel quale si condenserebbero «gli echi di mosse identiche del Tesoretto, vv. 1183-84 “Or va mastro Burnetto / per un sentiero stretto”, e 2181-82 “Or si ne va il maestro / per lo camino a destro”». Ma direi di no: è una formula di transizione che si trova molte volte nella poesia narrativa francese, per esempio nel Girart de Rossillon («Ere s’en vait Girarz egal solel / per un estreit sender...» (l’identica immagine del sentiero stretto che si trova in Brunetto Latini), nella chanson de toile Gaiete et Oriour («Or s’an vat Oriour stinte et marrie»), nel Macaire franco-veneto, «Ora se voit sor un corant destrer». Langue, insomma, non parole, come nella poesia medievale capita non dico sempre, ma quasi.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". DANTE "corre" fortissimo, supera i secoli, e oltrepassa HEGEL.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Il Gruppo "Amici di Dante" - Associazione culturale di Conegliano da alcuni anni ha istituito e festeggia la Giornata di Dante l’ultimo giovedì di Maggio nell’ambito del proprio Maggio Dantesco, con una conferenza specifica e letture/recite di canti della Divina Commedia accompagnate da musiche. Cfr. i siti
https://centrodantesco.it/agenda/maggio-dantesco-a-conegliano-2/
http://www.trevisotoday.it/eventi/maggio-dantesco-conegliano-26-aprile-2019.html
https://www.time-to-lose.it/conegliano/maggio-dantesco-conegliano-2019.html
Pertanto aderisco con entusiasmo all’istituzione nazionale o mondiale della Giornata di Dante, raccomandando che essa abbia una denominazione italiana ("Giornata di Dante" meglio che "Dantedì") e non inglese ("Dante day", "Dante Pride").
Carmelo Ciccia, dantista (http://www.treccani.it/enciclopedia/carmelo-ciccia/)
presidente del Gruppo "Amici di Dante" di Conegliano (TV)
DANTE, OGGI. PER UNA NUOVA "BUSSOLA TEOLOGICA" .... *
Classici.
Più fede nella politica, la lezione di Dante
La vicenda biografica e intellettuale del grande fiorentino si rivela di grande attualità ancora oggi, specie per quanto riguarda l’impegno dei credenti a favore del bene comune
di Gabriella M.Di Paola Dollorenzo (Avvenire, 17 febbraio 2019)
L’intervista al cardinale Gualtiero Bassetti (Avvenire, 9 dicembre 2018) ha riportato la nostra attenzione «sull’impegno concreto e responsabile dei cattolici in politica». Già nell’inchiesta del mensile Jesus sul «tempo del rammendo » (ottobre 2018), il presidente della Cei aveva rimarcato l’urgenza di ricostruire una presenza laicale che guardasse alla politica come a un’avventura positiva, nella necessità di una classe dirigente in grado di opporre alla sfiducia popolare un forte senso di concretezza e di responsabilità. Queste virtù o, per meglio dire, questi talenti ci permettono di richiamare la coerenza del pensiero politico di Dante così come ebbe a svilupparsi, sia negli anni di politica attiva sia dopo l’esilio e parallelamente allo svolgersi del suo pensiero teologico nella Commedia. Considerare l’architettura del suo pensiero, il rapporto tra teoria e prassi, l’utilizzo anzi l’interazione delle fonti (Sacre Scritture, autori grecolatini, testi arabi) può essere utile per individuare l’archetipo del cristiano impegnato nella realtà politica del proprio tempo, con l’ambizione di tradurre l’imitatio Christi nel concreto operare all’interno della res publica.
La vicenda umana del Poeta incardinato nella realtà politica del suo tempo, specialmente negli anni che vanno dalla morte di Beatrice (1290) alla condanna all’esilio (1302), ci permette di riflettere sul rapporto teologia- politica, così come fu duramente ma appassionatamente vissuto, in «un crescendo di temerarietà e di coerenza» (Giorgio Petrocchi, Vita di Dante, 1993) e, nello stesso tempo, avendo ben salda la «coscienza della storia», quell’habitus morale in base al quale «gli avvenimenti non si confondono caoticamente nella memoria, ma sono collegati dalla coscienza della causa e dell’effetto, dell’iniziativa e della responsabilità» (Romano Guardini, Dante, 2008). Se accogliamo l’approccio euristico di Jürgen Moltmann (si veda in particolare Dio nel progetto del mondo moderno, edito da Queriniana nel 1999), possiamo capire in che senso la teologia può “binarizzarsi” con la politica determinando le scelte tra il bene e il male, nel concreto avvicendarsi della storia di una città, di una nazione, di un popolo. Non è un caso che la formazione filosofico-teologica di Dante preceda cronologicamente l’attività politica, anzi ne sia quasi il trampolino di lancio: «Io che cercava di consolarme, trovai non solamente a le mie lagrime rimedio, ma vocaboli d’autori e di scienze e di libri: li quali considerando, giudicava bene che la filosofia, che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa. E da questo imaginare cominciai ad andare là dov’ella si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti » ( Convivio, II, xii, 5-7).
Dopo aver approfondito l’Etica Nicomachea e la Politica di Aristotele (nella traduzione latina di Guglielmo di Moerbeke e col commento di Tommaso d’Aquino), nel libro II del Convivio si rivendica il primato della morale. Dante va oltre Tommaso d’Aquino: se la metafisica è la scienza di Dio, l’uomo potrà cercare lo status felicitatis in questa vita e, dato che l’uomo è un animale sociale, in una politica regolata dalla morale. Pertanto non è conforme alla morale rinchiudersi nella contemplazione dell’intelligibile, quando l’odio e la violenza di parte sconvolgono la comunità in cui si vive.
Nel 1294, anno dell’elezione e successiva abdicazione di Celestino V, nonché dell’ascesa al papato di Bonifacio VIII, Dante ha un ruolo diplomatico- culturale di primo piano nella delegazione dei cavalieri destinati dal Comune al seguito dell’imperatore Carlo Martello. In seguito, con la stesura del Paradiso, Dante potrà immaginare un incontro con Carlo al cospetto di Dio; il dialogo tra i due, con esplicito richiamo alla Politica di Aristotele, ma anche al De Anima, ha una precisa connotazione teologica: «“Vuo’ tu che questo ver più ti s’imbianchi?”. /E io: “Non già; ché impossibil veggio / che la natura, in quel ch’è uopo, stanchi”. / Ond’ elli ancora: “Or dì: sarebbe il peggio /per l’omo in terra, se non fosse cive?”. / “Sì”, rispuos’ io; “e qui ragion non cheggio”. / “E puot’ elli esser, se giù non si vive /diversamente per diversi offici? / Non, se ’l maestro vostro ben vi scrive”» ( Paradiso, VIII, 113-120).
Sarebbe un male per l’uomo sulla terra se non facesse parte di un ordine civile, di un organismo sociale? E può esistere un’organizzazione civile se i suoi membri non siano ordinati a vivere esercitando diverse funzioni? E Dante risponde “sì” alla prima domanda e “no” alla seconda. La naturale politicità dell’uomo si accompagna alla necessità di distinguere gli offici poiché Nihil frustra natura facit (Politica I, 2).
Il quinquennio successivo al 1294 segnerà intensamente la vita e l’opera di Dante proprio perché continuo sarà lo scambio tra teoria e prassi, una prassi in toga candida: dalla riflessione filosofica riguardo al primato della morale alla traduzione di ciò nella vita della polis, una sorta di ragion pratica kantiana ante litteram: impegno civile, riflessione morale, tenace inseguimento della giustizia.
Proprio quando Firenze è dilaniata da lotte sociali interne e lo stesso papato non è immune dalla brama di potere che assale i partiti politici, Dante tiene ben ferma la barra del suo operare cristiano, perché è fermamente convinto di agire nella direzione indicata dalla bussola teologica. In questo atteggiamento riconosciamo l’attualità del suo pensiero politico e del suo agire politico. Dopo la condanna, negli anni dell’esilio, Dante consegnerà alle pagine del Convivio, della Commedia, ma soprattutto del trattato Monarchia, la riflessione teorica frutto della sua esperienza politica. È un progetto in fieri perché dovrà fare i conti col divenire della storia, è un progetto politico voluto da Dio per il bene dell’umanità.
Dopo la fine del potere temporale dei Papi, la Chiesa, a partire dall’enciclica In praeclara summorum (1921) di Benedetto XV, fino al Messaggio al presidente del Pontificio Consiglio della cultura in occasione del 750° anniversario della nascita di Dante Alighieri (2015) di papa Francesco, ha pienamente rivendicato, si pensi alla mirabile Altissimi cantus, la lettera apostolica di Paolo VI, l’appartenenza di Dante alla Chiesa cattolica e alla fede di Cristo, proprio considerando la sua battaglia di cristiano impegnato nella vita politica del suo tempo e nella sua somma opera teologica.
Oggi l’umanesimo cristiano di Dante può essere una traccia da seguire nella comunicazione religiosa e laica che stiamo vivendo. Per la preparazione del laicato cattolico alla vita politica, il pensiero di Dante può diventare una “bussola teologica”. Il rapporto tra fede, morale e politica, vissuto alla luce dei valori cristiani, che fece di Dante il segno di contraddizione della sua epoca, oggi fa di lui un nostro contemporaneo.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LA VERA STORIA DEL PRESEPIO .... *
“[...] Che cos’è esattamente il presepio? Come nasce? Perché ci sono quei personaggi? Che senso ha farlo oggi? Sono tante le domande che s’affollano in questo libro del classicista Maurizio Bettini, Il presepio (Einaudi, pp. 189, € 19). Il suo non è solo un libro di studio, ma anche un libro di memoria. Meglio: un’autobiografia in forma di studio e di racconto. Tutto comincia con una dichiarazione ad apertura di volume: “Non saprei dire da quanti anni ho smesso di fare il presepio. Venti, trenta, anzi molto di più”. Perché interrogarsi oggi su questo “oggetto” tanto da scrivere un libro dotto e complesso? La risposta non viene subito. Prima bisognerà intraprendere un cammino, per quanto una definizione l’autore la dà subito: il presepio è “una finzione fragile, per questo incantevole”.
[...] Corro alla fine, là dove c’è la risposta ai tanti perché di questo viaggio nella storia e nell’antropologia del presepio. De te fabula narratur. Perché mi occupo del presepio?, si chiede l’autore. Perché ho un patto di fedeltà nei confronti di me stesso. Non quello con la religione in cui sono stato allevato, il Cristianesimo - Bettini ha scritto vari libri per manifestare la “superiorità” del politeismo sul monoteismo. La fedeltà a se stessi è quella all’infanzia, alla propria infanzia. Il presepio, non è solo l’infanzia della Divinità, che ha dominato la nostra storia occidentale per due millenni, ma proprio l’infanzia di Maurizio Bettini, e il presepio è il ritorno al proprio Io bambino...”
* Cfr. Marco Belpoliti, “La vera storia del presepio”, “Doppiozero”, 24.12.2018 (https://www.doppiozero.com/materiali/la-vera-storia-del-presepio).
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI.... *
Su “Dante, nostro contemporaneo” di Marco Grimaldi
di Claudio Giunta (Domenicale del Sole 24 ore, 23 luglio 2017)
Davanti agli scrittori e ai libri classici accade di tenere due atteggiamenti opposti. Uno è quello attualizzante: per far capire al pubblico, di solito un pubblico scolastico, che la voce dei grandi autori del passato è ben udibile anche oggi e merita di essere ascoltata, si annullano i secoli e si cerca di dimostrare come tutte le domande che ci poniamo oggi siano già contenute in quei vecchi libri, accompagnate da ragionevoli risposte. L’altro è quello filologico, che mira a leggere le opere nel loro contesto originario, e dunque a illuminare quel contesto con gli strumenti dell’erudizione. Interpretare significa, a seconda dei casi, avvicinarsi più all’uno o all’altro polo, o meglio trovare un punto intermedio dal quale spiegare le cose secondo verità, ma senza spegnere l’interesse del lettore non specialista.
La Commedia di Dante è naturalmente il banco di prova tradizionale per un simile esercizio di equilibrio: ci parla ancora, indubitabilmente, nonostante siano passati sette secoli, più di qualsiasi altro libro del Medioevo; ma più di ogni altro grande libro del Medioevo incarna le idee e i sentimenti del suo tempo, idee e sentimenti dei quali il lettore odierno ha perduto la chiave. Charles Singleton sosteneva che «l’indifferenza alla salvezza» che è caratteristica di noi moderni ci impedisce ormai di avere una comprensione adeguata dell’opera di Dante. «Il fatto è - scriveva - che siamo arrivati al limite cui era possibile arrivare nella tendenza a minimizzare o a escludere dall’attenzione i più profondi significati cristiani della Commedia».
In altre parole, così come la Bibbia o il Corano significano qualcosa per un lettore cristiano o un per lettore musulmano e qualcos’altro - qualcosa di meno - per un lettore che non creda alla verità né dell’una né dell’altro, allo stesso modo si potrebbe dire che, dal momento che non siamo più in grado di percepire nella Commedia il valore teologico e profetico che essa aveva in origine, anche il nostro apprezzamento dell’opera risulta almeno in parte compromesso. È davvero così? O si tratta invece, come osservava Eliot, non di credere nelle idee in cui Dante credeva bensì soltanto di conoscerle, di dare alla sua opera non un assenso filosofico ma un assenso poetico («Non dobbiamo confondere Dante con san Tommaso o viceversa. Sarebbe un grave errore psicologico. La disponibilità a credere di chi legge la Summa presuppone un atteggiamento diverso da quella di un lettore di Dante, anche se si tratta della stessa persona, e anche se questi è un cattolico»)?
Marco Grimaldi ha scritto questo suo breve saggio dantesco, appena pubblicato da Castelvecchi, mettendosi all’incrocio tra queste due linee di riflessione. Da un lato, la Commedia è un’opera così ricca da concedere un’infinità di appigli a chi voglia servirsene come cava di citazioni o - come malamente si dice - ‘suggestioni’ da applicare alla vita presente. Ma, come mostra molto bene Grimaldi, si tratta spesso di attualizzazioni arbitrarie, nate da una conoscenza insufficiente del contesto storico-culturale nel quale Dante scrive e, più ancora, dalla smania che molti studiosi hanno di adoperare la cultura del passato per illuminare il presente.
Ma c’è una piccola parte di verità e una grande parte di retorica nell’idea - quale che sia l’ideologia attraverso cui si declina - che le opere del passato contengano in sé, impostati se non ancora risolti, i problemi del futuro: la democrazia, il capitalismo, l’eguaglianza, il gender. Grimaldi invita a separare e a distinguere, a segnare le differenze piuttosto che le analogie, e le sue osservazioni andrebbero lette soprattutto da studenti e insegnanti troppo zelanti nella pratica così scolastica del ‘collegamento’ fatto un po’ a casaccio. No, Dante non dice sulla politica cose che possano riguardarci davvero, perché l’assetto del mondo è troppo diverso da quello che lui aveva sotto gli occhi; no, attraverso il personaggio di Beatrice Dante non ha voluto «sconvolgere il comportamento stereotipico codificato in base al gender»; eccetera.
Sotto la critica di Grimaldi cadono uno dopo l’altro questi abusi anche un po’ sciocchi, e forse c’è solo da osservare che la necessità di farli cadere costringe talvolta lo studioso a estremizzare i contrasti: non direi per esempio che l’idea di monarchia dantesca si possa assimilare alla tirannia modernamente intesa, né che, «per le sue prospettive imperiali», Dante sia «totalmente distante agli occhi di chi, come la maggior parte di noi, vorrebbe un mondo libero, democratico ed egualitario». Dante difende l’idea imperiale proprio perché è quella che secondo lui meglio garantisce la libertà e la giustizia fra gli uomini: «Genus humanum solum imperante Monarcha sui et non alterius gratia est» (Mn I xii 9: ma tutto il paragrafo è pertinente). Si può eccepire contro questa idea, contro questa idealizzata - e già a quell’epoca perenta - forma statuale, non però dire che a Dante non stessero a cuore gli ideali che stanno a cuore noi oggi, né che la democrazia, anzi la democrazia moderna, sia l’unica forma di governo che permette di realizzarli.
Dall’altro lato, Grimaldi non si sottrae alla domanda sul perché si legga ancora la Commedia, e anziché fissarsi sui dettagli (il Dante politico, il Dante riformatore religioso, ecc.) guarda all’intero, e trova in questo intero, negli ideali che lo ispirano, un’analogia con i postulati della ragion pratica di Kant, cioè l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima, il libero arbitrio.
Qui - varcando, e di molto, i confini della filologia - il discorso di Grimaldi si fa ancora più interessante, ma anche più opinabile. Venuta meno per gran parte dei lettori odierni, come osservava Singleton, la fede in una vita dopo la morte, e nel giusto riconoscimento dei meriti e delle colpe, la visione dantesca sarebbe una specie di risarcimento, e la nostra perdurante devozione a quella visione esprimerebbe la nostalgia per un ormai tramontato ordine metafisico. È possibile.
Ma è su questa perdurante devozione che è lecito nutrire qualche dubbio, cioè sull’effettiva presenza della Commedia nelle letture degli italiani adulti, una volta finita la scuola. Presenza che a me pare scarsa, comprensibilmente scarsa, dato che la Commedia è un libro difficilissimo, che richiede un sacrificio di tempo e uno sforzo d’attenzione che sono ormai alla portata di pochi. Una risposta molto più pedestre alla domanda circa l’attualità e la ‘durata’ della Commedia nel canone delle nostre letture, circa il «perché leggiamo ancora la Commedia nell’anno 2017», potrebbe essere insomma «perché così hanno deciso centocinquant’anni fa coloro che hanno scritto i programmi della scuola italiana postunitaria». E s’intende che questa risposta materialista integra ma non cancella quella idealista proposta da Grimaldi: ma invita un’altra volta a riflettere su quanto la nostra visione del mondo e dell’arte rispecchi, più che sfuggenti costanti antropologiche, le - molto sagge, del resto - indicazioni nazionali per il curricolo scolastico.
*Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". Con la morte di Giovanni Paolo II, il Libro è stato chiuso. Si ri-apre la DIVINA COMMEDIA, finalmente!!! DANTE "corre" fortissimo, supera i secoli, e oltrepassa HEGEL - Ratzinger e Habermas!!! MARX, come VIRGILIO, gli fa strada e lo segue. Contro il disfattismo, un’indicazione e un’ipotesi di ri-lettura. AUGURI ITALIA!!!
DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI.
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
“Dante, nostro contemporaneo. Perché leggere ancora la Commedia” di Marco Grimaldi
Professor Grimaldi, Lei è autore del libro Dante, nostro contemporaneo. Perché leggere ancora la Commedia edito da Castelvecchi: perché leggiamo ancora la Commedia? *
Leggiamo ancora la Commedia prima di tutto perché è un’opera d’arte perfetta. Perché Dante ha creato un mondo fantastico ma del tutto verosimile e coerente nel suo funzionamento. La leggiamo per il suo realismo: perché nella letteratura in volgare prima di Dante le descrizioni della natura, degli uomini e delle emozioni erano sempre standardizzare, sempre uguali. Spesso erano molto efficaci, certo, ma era come se i poeti non guardassero quasi mai dal vivo la realtà. Dante, che è un uomo coltissimo, un intellettuale che conosce tanta letteratura, è invece un poeta della realtà, un poeta del mondo terreno, come è stato chiamato. E tutto questo lo fa nel momento stesso in cui fonda la tradizione letteraria italiana. Che è poi il motivo per il quale possiamo leggerlo ancora: perché la sua lingua è ancora la nostra lingua. Queste sono le ragioni - importantissime - che si spiegano a scuola e all’università.
Ma leggiamo la Commedia anche per altri motivi, che sono quelli che ho cercato di spiegare nel libro. La leggiamo ancora perché la Commedia ha un messaggio profondo che ancora ci interessa; perché anche oggi, quando a differenza di quanto accadeva al tempo di Dante la maggior parte di noi non crede né nell’esistenza di Dio né nella possibilità che vi sia un sistema di pene e di ricompense nell’aldilà, tutti noi abbiamo comunque un’idea di che cosa dovrebbe accadere dopo la morte. E ce l’abbiamo perché il nostro mondo morale si fonda su quelli che Kant definiva i postulati della ragion pratica: l’immortalità dell’anima, l’esistenza di Dio e il libero arbitrio.
La Commedia mette in scena questi stessi postulati: ci racconta che cosa accade dopo la morte ed è uno straordinario elogio del libero arbitrio, della piena responsabilità dell’uomo nella determinazione del proprio destino. E forse la leggiamo anche perché è un’opera scritta per cambiare la vita degli uomini: Dante ce lo dice in maniera molto chiara: il fine del poema è togliere i viventi dallo stato di infelicità in questa vita e di guidarli alla felicità. Non è arte per l’arte, è arte per la vita.
Quali dei temi affrontati da Dante lo rendono contemporaneo?
Il titolo del mio libro è provocatorio, in quanto nella prima parte spiego in realtà perché Dante a mio parere non è contemporaneo. Non lo è perché crede in tutta una serie di cose che non ci appartengono più: crede che la donna sia naturalmente inferiore all’uomo, che l’omosessualità sia un peccato, che la sete di conoscenza dell’uomo debba avere dei limiti. Per questo non ha senso la prospettiva di certi studi di genere secondo i quali Dante - proprio perché è Dante - avrebbe voluto rivoluzionare il modo di concepire il comportamento della donna.
Certo, Beatrice è il personaggio più importante della Commedia. Ma è anche una donna chiusa nel suo ruolo di genere. Cercare di separare Beatrice dal modo in cui Dante, come tutti gli uomini del suo tempo, concepiva i rapporti di genere, significa non comprendere che l’esaltazione della donna - che era già tipica della letteratura cortese - era possibile solo all’interno di quei ruoli. Dante non vuole rivoluzionare il modo di concepire i generi sessuali: vuole invece esaltare la virtù, l’umiltà e la bellezza di una donna la cui immagine tende a coincidere con quella della Vergine Maria. E in questo non c’è nulla di contemporaneo. Non ha senso tentare di avvicinare Dante alla nostra concezione dei rapporti tra i generi.
Ma in questa operazione di distanziamento non bisogna esagerare. Qualche tempo fa, a un incontro con degli insegnanti delle scuole superiori, mi è stato chiesto: “come si fa a spiegare agli studenti che l’amore di cui parlano Dante e Cavalcanti è una cosa completamente diversa da quello che si intende oggi?”. Ora, questa prospettiva è molto cauta, ma è giusta solo in parte. L’amore di cui parlano Dante e Cavalcanti è infatti lo stesso amore che intendiamo noi oggi. Lo è perché le nostre emozioni, le nostre sensazioni (il brivido che si prova davanti alla persona che si ama, il desiderio di possesso, la gelosia) sono esattamente le stesse che descrive Dante. Per questo, se si conosce un po’ di italiano antico e un po’ di storia e di filosofia del Medioevo (ed è la funzione della scuola: mettere tutti in condizione di poter leggere Dante), è così facile sentirsi coinvolti dal canto di Paolo e Francesca, che parla del momento in cui ci si innamora e dell’impossibilità di resistere al desiderio. Quello che è completamente diverso è il sistema di idee all’interno del quale Dante inserisce quella cosa che chiamiamo amore. Un sistema che condanna duramente Paolo e Francesca. Ed è questo sistema di idee che dobbiamo cercare di ricostruire noi oggi per capire Dante.
Quali soluzioni offre Dante per i mali del nostro tempo?
Dante non offre soluzioni per i mali del nostro tempo; e se a volte sembra offrirle - se qualcuno crede di poter trovare in Dante delle soluzioni - non sono soluzioni che ci piacciono. Pensiamo alle sue idee politiche, per esempio al suo modo per risolvere il problema della cupidigia. Siamo liberi di considerare Dante un predecessore delle critiche al capitale, all’accumulazione finanziaria, all’Europa delle banche. Ma quando lo facciamo dobbiamo sapere che la sua soluzione era concentrare tutto il potere e tutta la proprietà nelle mani di un imperatore assoluto che proprio perché possiede tutto non desidera nulla e mette in questo modo un freno ai desideri smodati di tutti gli altri governanti, portando così pace e serenità in tutto il mondo. Questa è una soluzione, la soluzione di Dante, ma credo che piacerebbe a pochi. Quello che deve interessarci è però che Dante aveva una soluzione per i mali del suo tempo. E ci interessa perché leggendo Dante veniamo a contatto con una idea di poesia e di letteratura che è abbastanza diversa da quella comune. Basta pensare all’ultimo Nobel per la letteratura, Bob Dylan, che quando gli è stato chiesto che cosa significano le sue canzoni ha risposto: «Non dipingetemi come un uomo con un messaggio [...] Tutto quel che posso sperare di fare è cantare quello che penso».
Dante la vede in maniera completamente diversa: lui è esattamente il contrario di Dylan, è un uomo con un messaggio. Anzi, un poeta con un messaggio. Un poeta che vuole cambiare la realtà, che vuole trasformarla, che ama, odia e si vendica dei nemici scrivendo la Commedia. Dante non canta solo per sé; Dante canta per gli altri.
Per spiegare questo aspetto uso a volte un testo di un cantautore calabrese contemporaneo, Brunori Sas, che si intitola Canzone contro la paura. All’inizio Brunori dà voce alla prima modalità, per capirci quella di Bob Dylan: «Canzoni che parlano d’amore / perché alla fine, dai, di che altro vuoi parlare? / Che se ti guardi intorno non c’è niente da cantare / solamente un grande vuoto che a guardarlo ti fa male / perciò sarò superficiale / ma in mezzo a questo dolore / tutto questo rancore / io canto solo per me». Poi la canzone si accende, cambia di tono (anche musicalmente) e Brunori dà spazio anche all’altra modalità (che per me è simile a quella di Dante) e immagina che cosa pensa un tu: «E invece no tu vuoi canzoni emozionanti, / che ti acchiappano alla gola senza tanti complimenti, / canzoni come sberle in faccia per costringerti a pensare / canzoni belle da restarci male». E poi ancora: «Canzoni che ti salvano la vita, / che ti fanno dire “no, cazzo, non è ancora finita!” / che ti danno la forza di ricominciare, / che ti tengono in piedi quando senti di crollare». Ora, è chiaro che sto giocando un po’ con le citazioni, perché ovviamente Brunori Sas non aveva in mente quello che ho in mente io. Però l’opposizione è la stessa: di solito pensiamo alla poesia come a qualcosa che parla d’amore, che parla di un vuoto che abbiamo dentro, di qualcosa che il poeta scrive soltanto per sé. Però ci sono anche poeti che scrivono per un pubblico che vuole delle cose diverse, che vuole poesie che salvano la vita, che danno la forza di ricominciare. Ecco, Dante appartiene a questa seconda categoria.
In cosa consiste la grandezza della Divina Commedia?
La grandezza della Commedia, come dicevo prima, sta nella lingua in cui è scritta (che è ancora la nostra lingua perché Dante è davvero, come abbiamo imparato a scuola, il padre della lingua italiana). La grandezza sta nel mondo possibile che Dante ha creato, un mondo nel quale tutto è fantastico (il viaggio di un uomo nell’aldilà, i suoi incontri con le anime, i diavoli, i mostri, gli angeli e alla fine la visione diretta di Dio) eppure tutto è straordinariamente reale, perché Dante è un poeta della realtà, che ci fa vedere le emozioni, la natura, che ci spiega la storia e le idee. E la grandezza sta anche nella sua idea di poesia, una poesia che cambia la realtà, che cambia gli uomini, che aiuta a vivere meglio.
Ma soprattutto, almeno per me, perché la Commedia è forse in assoluto l’opera letteraria nella quale è più esplicito quel meccanismo per il quale tutti noi tendiamo a riconoscere la nostra storia nelle storie che leggiamo cercando delle risposte, per trovare qualcosa che ci riguardi profondamente e che sia ancora vivo, attuale, presente. È un concetto che esprime benissimo Francesco Petrarca, quando racconta che leggendo le Confessioni di Agostino aveva l’impressione di leggere non la storia di altri «ma quella del suo proprio peregrinare». In Dante il meccanismo è più esplicito: quella che sta raccontando è la storia di un singolo uomo che vuole ritrovare sé stesso, che vuole superare il peccato e per farlo deve conoscere ciò che accade nell’aldilà. Ma è anche la storia dell’umanità intera. Dante aveva previsto che sarebbe scattato quel meccanismo di riconoscimento e scrive la Commedia sapendo che tutti i lettori futuri avrebbero ritrovato nel suo viaggio la storia del loro peregrinare, come dice Petrarca.
In una delle più belle poesie di Satura, Montale scrive: «Dicono che la mia / sia una poesia d’inappartenenza. / Ma s’era tua era di qualcuno». Montale risponde a una critica e per spiegare che la sua non è una poesia senza destinatario si rivolge a un tu, alla donna che ha amato, e le dice che proprio per aver parlato a lei la sua poesia appartiene a qualcuno, è una poesia che si spinge all’esterno, che non è ripiegata sull’interiorità del poeta. Ecco, Dante avrebbe potuto rispondere più o meno nello stesso modo - «Ma s’era tua era di qualcuno» - perché uno degli aspetti più straordinari della Commedia è che sia pensata per elogiare una donna che incarna la perfezione cui possono tendere tutti gli uomini e che questa donna occupi un posto centrale in Paradiso. La Commedia appartiene sicuramente a qualcuno perché appartiene a Beatrice. Ma avrebbe potuto rispondere anche in un altro modo, avrebbe potuto dire: «Ma s’era mia era di tutti». Perché la Commedia è la storia di Dante, ma è anche la storia di tutti noi.
* Fonte: Letture.org.
Il bene è una modesta proposta
di Paolo Morelli (nazione indiana, 17.03.2018)
“A un certo punto, nell’educazione di mio figlio, ho cominciato a sostituire i concetti di buono e cattivo con quelli di reale e irreale, per quanto ciò possa sembrare arbitrario”. Nei suoi ultimi libri Filippo La Porta pare prendere il via da considerazioni di carattere pedagogico assai personale. Ma se nel precedente, Indaffarati, l’indagine riguardava la gioventù odierna e i suoi problemi d’adattamento, qui il critico letterario torna alla grande letteratura e alle sue possibilità di interpretazione ed integrazione nel vissuto quotidiano. Sarà per questo intento iniziale forse, educatore ed autobiografico che la lettura di quello che è pur sempre un saggio dantesco si presenta confortevole, amicale, familiare, con tutta evidenza cosa assai rara.
La Commedia di Dante, dispiegata e spaginata quasi fosse un esercizio spirituale, cioè a dire una pratica personale destinata ad operare un mutamento di visione. Terreno impervio, vista da stratificazione quasi millenaria di pensose riletture e studi accademici sul poema, quella di guardare oggi al viaggio avventuroso nell’oltretomba come un percorso morale di perfezione, un rivolgimento, e alla portata di tutti. Lui il Sommo, così avverso alla modernità riletto come classico contemporaneo, non aggiungendo quindi l’ennesima dose di filologia dantesca bensì alla scoperta di un Dante etico che “possa aiutarci a ridefinire un’etica per il terzo millennio”. E con un suo mentore anche in questo caso, magari più di uno, ma certamente centrale appare la figura di Simone Weil e la sua affermazione che “è bene ciò che dà maggiore realtà agli esseri e alle cose, male ciò che gliela toglie”.
Ed è con la forza delle analogie e la disinvoltura di un appassionato e continuo processo d’induzione che l’autore si avvicina, pure lui “con esitante umiltà”, si appresta a smuovere il monumento per una buona causa, costeggiando o corteggiando l’arbitrario per scrollarsi di dosso il noto, il risaputo, per riaprirlo convinto, almeno pragmaticamente, del primato della morale sulla metafisica e l’idea di grandezza che inevitabilmente essa porta in sé.
Dalla lettura attenta del poema quindi si può ricavare un’idea di bene “come riconoscimento della realtà (...), del carattere inesauribile e diversificato del mondo”, mentre il male, qui sempre minuscolo, è “sottrazione di realtà” per se e per gli altri, è chiusura. È bene (e aggiungerei io, utile) accettare l’insensatezza, la carenza, la reale e realistica nostra debolezza di fronte all’esistere, il male morale nasce invece da una cattiva immaginazione, dall’illusione di una stabilità. Amare qualcuno è dargli realtà, scrive La Porta, e lo ripete nel libro quasi con effetto psicagogico, vale a dire lasciare essere l’altro quello che è, senza volerlo per forza cambiare, ritirarsi quando serve per far esistere l’altro giacché solo “ci si salva lasciando che il mondo esista”. Il corollario di questa intuizione weiliana con cui leggere la Commedia è che una mente sana è una mente non distratta, causa ed effetto al contempo di una speciale qualità di attenzione non solo per gli altri ma per se stessi, traverso la quale è possibile riconoscere che tutti gli eventi e le cose al mondo, noi compresi, sono invariabilmente collegati, intrecciati da nessi cangianti, e ciò che li collega può addirittura definirsi il ‘sacro’.
Quindi il fine della ricerca dantesca, e della nostra parimenti potrebbe essere la visione delle cose come sono, ma il mezzo, lo strumento non può che essere l’attenzione, una speciale qualità d’attenzione come atto intellettivo originario da cui scaturisce, quasi per forza, l’effetto di un amor proprio meno lòico (lo è il diavolo), calcolatore e più laico, cioè forte abbastanza da avere il senso del limite, da poter esercitare la mitezza, quella mitezza così spesso scambiata per debolezza.
Ma poi sul libro aleggia anche, a mio parere, l’urgenza, l’esigenza di una critica letteraria risvegliata dal pensiero etico. Il pensiero pigro, esausto, nichilista o post-moderno che dir si voglia della nostra attualità accetta che non vi sia alcuna verità intrinseca nell’opera d’arte, e che la valutazione si possa quindi limitare al gusto personale, più o meno ammantato da chiacchiere e distintivo. In realtà, e se vogliamo sognare una rifondazione di una necessità quotidiana, di una efficacia autentica, la verità di un’opera d’arte dovrà trovarsi nella maggiore approssimazione del bello al bene, nella kalokagathìa per dirla alla greca.
E questa non è solo una modesta proposta.
Nota:
LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ ...
Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni", ma soprattutto la Legge del "Dio" di Mosè di Elia e di Gesù, del "Dio" dei nostri "Padri" e delle nostre "Madri". L’Amore che muove il Sole e le altre stelle ... e la fine del cattolicesimo costantiniano!!!
Per ben agire e ben comunicare (anche solo con se stessi o con stesse!), come insegna Dante, ci vogliono TRE SOLI (la cosiddetta - impropriamente - teoria dei "due soli")!!!
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA".
Federico La Sala
"INDIVIDUAZIONE": LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ! ... *
Psicoanalisi.
Dante ci aiuta a ritrovare noi stessi. Ne sono convinti gli junghiani. Che portano i pazienti a percorrere un viaggio dentro di loro. Sulle orme del poeta. Uno specialista spiega di Paolo e Francesca, Cunizza da Romano ... E del Paradiso
Nel mezzo del cammin mi trovo sul lettino
Il canto V ci racconta della incapacità di controllare noi stessi I golosi ci parlano dei disturbi alimentari. Gli avidi della compulsività
di Elisa Manacorda (la Repubblica, 29.08.2017)
QUANDO RIPASSIAMO mentalmente quei versi che tante volte abbiamo incontrato sui libri di scuola (“Nel mezzo del cammin di nostra vita”, “Amor ch’a nullo amato amar perdona”, “Fatti non foste a viver come bruti”...) non stiamo solo facendo un esercizio di memoria. Stiamo, in parte, costruendo noi stessi. Stiamo cercando di dare un senso alla nostra imperfezione di esseri umani, stiamo cercando di contenere in un unico individuo le mille contraddizioni che lo compongono. Leggendo e ricordando la Divina Commedia stiamo, in ultima analisi, facendo pace con quello che siamo.
È una straordinaria e affascinante lettura laica della più famosa opera di Dante quella che ne fa la psicologia junghiana. E Claudio Widmann - analista junghiano e membro del Centro italiano di psicologia analitica (Cipa) - l’ha riproposta nel corso del seminario promosso dalla Scuola di specializzazione in psicoterapia psicodinamica dell’età evolutiva dell’Istituto di ortofonologia (Ido) di Roma.
«È una lettura certamente poco istituzionale e classica, che tuttavia può aiutare non soltanto noi analisti, ma gli stessi pazienti, a compiere una sorta di percorso dantesco dentro le nostre vite, per affrontare e risolvere lo smarrimento che a volte ci coglie: momenti di sofferenza, di crisi, di insoddisfazione profonda, di infelicità nei quali non ritroviamo più la “diritta via”», dice Widmann. In questo senso i dannati che animano i gironi infernali, con una interpretazione non letterale dei loro peccati, aiutano a riconoscere le tante debolezze che punteggiano le nostre vite.
«Tutti noi siamo stati, in un certo momento della nostra esistenza, avidi, ingordi, violenti», continua Widmann. I golosi ci parlano non soltanto dei disturbi alimentari così diffusi oggi, ma anche, in un senso meno letterale, dell’avidità di affetti, di denari, di oggetti: basta aprire uno dei nostri armadi per capire quanto ci siamo lasciati andare all’ingordigia dell’acquisto. E il celebrato Canto V dedicato ai lussuriosi, nel quale i due amanti chini sul libro sono condannati per l’idea di un bacio clandestino, ci racconta anche della nostra incapacità di controllare gli impulsi. «Non a caso Paolo e Francesca sono trasportati dal vento, trascinati dalle folate, incapaci di fermarsi: e questo - continua l’analista - ci ricorda di tutte quelle volte in cui non abbiamo saputo prendere una decisione autonoma, lasciandoci in balia delle convenienze, delle mode del momento o di un amore sbagliato».
Nella psicologia junghiana, dunque, la Divina Commedia assume le sembianze di un percorso maturativo, di evoluzione dell’individuo. Inizialmente si procede in discesa, nelle viscere della terra, a significare l’introspezione psicologica. Ma è proprio quando ci sentiamo sprofondati nei gironi infernali, avverte Widmann, che sappiamo di poter risalire la china. Possiamo uscire dal regno della sofferenza per entrare in quello della fatica. Salire insomma sulla montagna del Purgatorio, il luogo dove innanzitutto si ristabiliscono le regole: il ritmo del giorno e della notte, che nell’Inferno era cancellato, qui è ben delineato. Anche il tempo riacquista un suo valore, dunque non va sprecato. «Quando, nel Canto II, Dante incontra il suo amico compositore Casella, gli chiede di suonare per lui. Ma Catone li richiama presto all’ordine: non bisogna attardarsi nel percorso di ricostruzione del sé. Le cose vanno fatte bene, fino in fondo, se si vuole imparare a camminare sulle proprie gambe. Come quando i pazienti ci chiedono di interrompere la terapia perché si sentono già meglio, e non capiscono che si tratta di un benessere illusorio», aggiunge Widmann.
Nella psicologia junghiana, continua l’analista, questo percorso maturativo è detto di “individuazione”, perché parla di ciò che fa di noi degli individui a tutto tondo. Così come è tondo - meglio, sferico - il Paradiso. «Regno della complessità, dove ciascuno di noi riesce a tenere insieme le sue parti contrastanti, le sue contraddizioni », sottolinea l’analista. Qui i francescani e i domenicani, avversari in seno alla Chiesa, possono riconoscersi vicendevolmente i pregi. Qui, ancora, uno “spirito amante” come Cunizza da Romano, donna dalla vita amorosa movimentata, con tre mariti morti in circostanze misteriose e numerosi amanti passeggeri, può autoassolversi senza rimpianti (“lietamente a me medesma indulgo la cagion di mia sorte”), perché, dice Widmann : Tutto quello che ha fatto in vita è andato a comporre la sua esperienza amorosa, e in questo modo ha affinato la sua capacità di amare. Ha, insomma, fatto pace con i suoi difetti e le sue imperfezioni».
Così alla fine del suo percorso di individuazione, nell’ultimo canto, Dante può raccontare la sua visione della trinità, tre cerchi concentrici che si riflettono l’un l’altro. Al centro dei quali emerge una figura umana: il riflesso di se stesso.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
NUOVO REALISMO: LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA"
Federico La Sala
AL DI LA’ DI HEGEL, HEIDEGGER, E RATZINGER. IL PROBLEMA DELL’UNO E LA VIA DEI "TRE SOLI". A scuola di Dante, Bruno, Galilei, e Kant ...
Franco Ricordi: "La grande magia di Dante può essere capita soltanto ascoltandola a viva voce"
Lo scrittore, saggista, attore e regista racconta il tour italiano con cui torna a interpretare la "Commedia". A partire dal 4 luglio sono previste sette serate, tutte a ingresso libero, ospitate nei siti archeologici più suggestivi della Capitale
di RAFFAELLA DE SANTIS (la Repubblica, 01 luglio 2017)
Dante può essere letto in tanti modi, anche come antidoto al nichilismo contemporaneo. Franco Ricordi, interprete dantesco tra i più raffinati, filosofo e saggista oltre che attore e regista teatrale, propone di leggere la Divina Commedia come fosse una cura alla mancanza di senso dei nostri giorni. Ricordi, ora protagonista della seconda edizione della rassegna Dante per Roma, è impegnato in un articolato progetto dedicato alla Commedia dantesca che prevede una lettura dell’opera in più tappe. Roma prima di tutto, dove lo scorso anno Ricordi ha portato l’Inferno e dove ora arriva con il Purgatorio (mentre nel 2018 sarà la volta del Paradiso).
A partire dal 4 luglio sono previste sette serate, tutte a ingresso libero, ospitate nei siti archeologici più suggestivi della capitale, dalle Terme di Diocleziano all’Arco di Giano al Velabro alle Terme di Caracalla. Ma il progetto è un ampio work in progress itinerante: arriverà a Firenze in autunno e poi a Ravenna, in Germania e in Argentina. Il lavoro teatrale è affiancato da documentari tv. Inoltre Ricordi sta lavorando a un’opera in tre volumi: Dante, filosofia della Commedia.
Qual è il posto di Dante nella cultura occidentale?
"Credo sia il solo autore che tenga testa a Shakespeare. La Commedia è il più grande testo dell’Occidente. Come scrive Harold Bloom è l’epicentro del canone occidentale. Ma può essere compresa pienamente solo oggi ".
Perché?
"Perché è un antidoto al nichilismo dei nostri giorni. In Dante possiamo scorgere il primo filosofo dell’anti-nichilismo".
In che senso?
"Attraverso il concetto di amore, che è il vero sottotesto e sovratesto di tutta la Commedia. Il mio ultimo libro s’intitola L’essere per l’amore, concetto simile e contrario all’"essere per la morte" di Heidegger. Volendo usare uno slogan direi: Dante contro Heidegger".
Però la sua infatuazione dantesca è arrivata tardi.
"In realtà sono rimasto folgorato all’età di quindici anni. Al liceo avevo un insegnante, frate Serafino, appassionato di Dante. È lui ad avermi trasmesso la passione dantesca. Ma Dante è un personaggio che è meglio affrontare dopo i cinquanta anni. Ho lavorato su Shakespeare in teatro fin da ragazzino, poi da regista e protagonista di Amleto, ma a Dante sono arrivato nella piena maturità".
Per quali ragioni?
"Dante quando scrive la Commedia è un uomo maturo. E leggendo si avverte che è un uomo provato. Solo da adulti si riesce a comprendere a fondo il suo personaggio ".
Ma Dante è molto amato dai ragazzi.
"Tutto merito del suo endecasillabo, che arriva in maniera impressionante. Alle mie letture partecipano persone di ogni età. Anche se purtroppo è difficile trovare interpreti che sappiano computare la metrica dantesca nel modo giusto. L’endecasillabo per essere tale deve avere l’ultimo accento sulla decima sillaba. Sbagliare vuol dire non conferire il significato giusto. Non dimentichiamo che ogni cantica è formata da canti: il suono è il veicolo del senso".
La lettura ad alta voce serve a dare corpo alla "Commedia"?
"Va recuperato il testo orale. Prima di me lo hanno fatto Vittorio Gassman, Carmelo Bene, Giorgio Albertazzi. Fino a Vittorio Sermonti, al quale dedico le mie letture del Purgatorio. Grandi maestri, ma anche loro presentavano difetti nella computazione del pentagramma delle figure metriche e nel precisare l’ultimo accento sulla decima".
In cosa differisce la sua Lectura Dantis da questi modelli?
"Per commento e lettura privilegio un approccio più poetico-filosofico che storico-filologico. Come l’Amleto, anche la Commedia arriva in modo immediato".
Di certo l’Inferno ha un’immediatezza anche politica. Crede valga lo stesso per il Purgatorio?
"Nel sesto canto, che interpreterò il 5 luglio all’Arco di Giano, c’è la grande invettiva contro l’Italia, che è già una denuncia di quella che oggi chiamiamo "partitocrazia". La denuncia è chiara: "Ché le città d’Italia tutte piene / son di tiranni, e un Marcel diventa / ogne villan che parteggiando viene". In quel "parteggiando" è contenuta una visione quasi ontologica della partitocrazia".
Un’ultima curiosità. Come mai la scelta di iniziare a Roma?
"Se c’è un’ambientazione metastorica e metafisica in assoluto direi che quella è Roma. La Commedia è antica, medioevale, moderna e contemporanea come Roma ".
Il Dante laico un eretico in Paradiso
Collocò i papi all’inferno, separò teologia e politica e le sue opere furono bandite
di Vito Mancuso (la Repubblica, 27 maggio 2017)
Il centro matematico della “Commedia” è una terzina in cui si celebra la libertà in quanto possibilità di libera decisione: «Se così fosse, in voi fora distrutto / libero arbitrio, e non fora giustizia / per ben letizia, e per male aver lutto» (“Purg.” XVI, 70-72). L’intera opera in realtà ruota attorno al concetto di libero arbitrio, come spiega Dante stesso presentando il suo lavoro: «L’uomo, meritando o demeritando nell’esercizio del suo libero arbitrio, è soggetto al giusto premio o alla giusta pena» (“Epistola a Cangrande”, 8).
È per questo che si dà commedia, cioè movimento, trama, creatività, mentre in sua assenza si avrebbe tragedia, come Edipo destinato a uccidere il padre e a giacere con la madre, oppure farsa, mero caos, assenza totale di struttura. Uno dei versi più belli è quello con cui Virgilio, accomiatandosi da Dante, gli conferisce la corona e la mitria attestando che ormai egli è re e papa di se stesso: «Per ch’io te sovra te corono e mitrio» (Purg. XXVII, 142).
Appare qui l’altissimo senso della libertà della coscienza personale coltivato da Dante, confermato da quanto scrive al signore di Verona: «Coloro che hanno vigore d’intelletto e di ragione sono dotati di una sorta di divina libertà e non sono rigidamente legati a nessuna consuetudine; e ciò non fa meraviglia, perché non essi sono diretti dalle leggi, ma piuttosto le leggi da loro» (Epistola a Cangrande, 2). Tale primato della coscienza ha ben poco a che fare con lo stereotipo del medioevo oscurantista e non a caso si ritroverà nell’umanesimo con la Oratio pro hominis dignitate di Pico della Mirandola del 1486, e nella modernità con lo scritto di Kant del 1784 Risposta alla domanda: Che cos’è l’illuminismo? ...
Da tale considerazione della libertà discende il primato della morale sostenuto da Dante: «Cessando la Morale Filosofia, l’altre scienze sarebbero celate alcuno tempo, e non sarebbe generazione né vita di felicitade, e indarno sarebbero scritte e per antico trovate» (Convivio, II, 14). Si tratta di una tesi «veramente straordinaria nel medioevo» (Gilson), secondo cui la filosofia si compie come etica e la conoscenza come giustizia.
È per questo che in Dante hanno tanto spazio la denuncia e l’invettiva: sono una logica conseguenza dell’aver assunto l’etica quale punto di vista in base a cui guardare il mondo. Uno sguardo informato dalla giustizia intende giudicare, sente cioè la necessità di distinguere il bene dal male e gli onesti dai truffatori.
Dante quindi è un moralista, non però nel senso decaduto della contemporaneità, ma nel senso classico che fa della giustizia la virtù più grande al cui servizio si devono porre la politica, la filosofia e la teologia, perché a questo servono il potere, la conoscenza e la religione: a essere giusti nel proprio intimo e a incrementare il tasso di giustizia nel mondo. Esattamente per perseguire la giustizia sopra ogni cosa Dante non esita a collocare all’inferno ben cinque papi: Niccolò III, Bonifacio VIII, Clemente V, Celestino V, Anastasio IV, oltre ad altri non nominati e a moltissimi esponenti del clero, collocati soprattutto nel girone degli avari e dei sodomiti.
Il pensiero di Dante sul rapporto della teologia con le altre scienze, in particolare con la filosofia, emerge con chiarezza dal Convivio dove viene ripreso un passo biblico secondo cui «sessanta sono le regine... una è la colomba mia e la perfetta mia», con il seguente commento: «Tutte scienze come regine» e la teologia «colomba perché è sanza macula di lite» (Convivio II,14; la citazione biblica è Cantico dei cantici 6,8).
Ora Dante sapeva bene che la condizione effettiva della teologia non era certo quella di essere priva di liti, visto che la rabies theologorum alimentava scomuniche e roghi. Egli si riferiva però alla teologia quale avrebbe dovuto essere idealmente: una scienza non a servizio del potere, e perciò ricolma di invidia e di litigiosità, ma a servizio della vita spirituale, e perciò ricolma di pace e di mitezza.
La teologia amata da Dante ha il vertice non nella dogmatica, ma nella spiritualità e nella mistica: non a caso Beatrice al culmine del Paradiso lo affida non a un teologo dogmatico come Tommaso d’Aquino, ma a san Bernardo, il teologo della mistica unitiva.
A questo proposito un grande esperto quale Gilson ha scritto che la prospettiva dantesca «non solo non contiene la dottrina tomista della subordinazione delle scienze alla teologia, ma manifesta piuttosto l’intenzione di evitarla», e qui occorre ricordare che fu a causa di tale teoria tomista della subordinazione delle scienze alla teologia che in Italia si ebbero eventi come il rogo di Giordano Bruno e l’abiura di Galileo, che tanto hanno contribuito al declino culturale, civile e morale del nostro paese.
Tutto ciò trova conferma nella clamorosa presenza in Paradiso di ben due eretici, già condannati come tali all’epoca in cui Dante scriveva: Gioacchino da Fiore, condannato dal Lateranense IV nel 1215, e Sigieri di Brabante, condannato dall’arcivescovo di Parigi nel 1270 e nel 1277. Dante fa sì che essi vengano presentati da chi in terra era stato loro particolarmente ostile, così fa dire a Bonaventura che Gioacchino da Fiore è «di spirito profetico dotato», un’affermazione che il Bonaventura storico non avrebbe mai potuto compiere perché considerava Gioacchino «come un ignorante condannato a buon diritto».
Quanto a Sigieri, ancora gli esperti non hanno trovato un accordo sul motivo che portò Dante a porre in Paradiso un pensatore tanto scomodo, esponente di quell’aristotelismo radicale, o averroismo, guardato con palese ostilità dal potere ecclesiastico per la piena autonomia della ragione che professava. Ma proprio un personaggio così scomodo viene posto da Dante in Paradiso accanto ai teologi più illustri e fatto presentare dal più illustre di tutti, san Tommaso d’Aquino, con le celebri parole: «Essa è la luce etterna di Sigieri, / che, leggendo nel vico degli strami, / sillogizzò invidiosi veri» (Par. X, 136-138).
Sigieri era un filosofo che professava la più rigorosa distinzione tra teologia e filosofia: collocandolo in Paradiso Dante approva questa impostazione, persino dopo la pubblica condanna ecclesiastica (cui peraltro seguì la morte sospetta di Sigieri nella curia papale per mano del segretario, si disse preso da un raptus di follia).
Perché Dante esalta Sigieri? Perché il suo pensiero si traduceva in politica nella rigorosa distinzione tra papato e impero, e nella conseguente esclusione del papato da ogni gestione del potere politico. È la prospettiva che noi oggi denominiamo laicità. Si spiega così anche l’ostilità di cui fu oggetto il pensiero politico di Dante da parte del potere ecclesiastico, con l’ordine di papa Giovanni XXII nel 1329 di dare alle fiamme il De Monarchia e l’inserimento della stessa opera nel 1559 nella prima edizione del famigerato Index librorum prohibitorum.
Dante, “il padre Alighiero di Bellincione era un usuraio: la prova in due pergamene”
I documenti conservati nell’Archivio Diocesano di Lucca e pubblicati nella nuova edizione del ’Codice Diplomatico Dantesco’, attestano l’attività usuraia del padre del Sommo Poeta a un processo svoltosi a Firenze nel 1254
di F. Q. (Il Fatto Quotidiano, 1 febbraio 2017)
Seduto su una spiaggia incendiata, sotto una pioggia di fuoco: così Dante Alighieri avrebbe punito suo padre dopo la morte, almeno secondo quanto si legge nella Divina Commedia. Alighiero di Bellincione, padre del Sommo Poeta, “era infatti un piccolo e astuto usuraio, protagonista di continui maneggi di denaro”. Per questo sarebbe potuto finire nel terzo girone del settimo cerchio dell’Inferno dantesco, insieme a bestemmiatori e sodomiti. Chissà però se il figlio, quando scrisse il suo capolavoro, era a conoscenza dell’attività di Alighiero, testimoniata ora dai documenti pubblicati nella nuova edizione del ‘Codice Diplomatico Dantesco‘ (Salerno Editrice) curato da Teresa De Robertis, Giuliano Milani, Laura Regnicoli e Stefano Zamponi. Due pergamene conservate nell’Archivio Diocesano di Lucca che attestano la partecipazione del padre di Dante a un processo svoltosi a Firenze nel 1254 davanti al podestà, undici anni prima della nascita di suo figlio.
Anche quando si trovò a vestire i panni di procuratore giudiziale nel tribunale del podestà, Alighiero di Bellincione non esitò a rivelarsi, sotto mentite spoglie, uno speculatore finanziario, sfruttando le difficoltà economiche di un convento, il cui abate aveva fama di essere “dedito ai piaceri mondani e dissipatore di denaro”: è questa l’immagine del padre del Sommo Poeta che emerge dai nuovi documenti, che non solo confermano la sua attività usuraria, ma contribuiscono a precisarla, arricchendola di dettagli e sfumature. Il tribunale di Firenze, dove costantemente si affrontavano cause per debiti in udienze aperte al pubblico, rappresentava per gli usurai “un fertile bacino da cui attingere la clientela e con ogni probabilità era frequentato anche dal padre di Dante in cerca di affari”, ricostruisce Laura Regnicoli, docente dell’Università di Firenze.
“Niente vieta allora di pensare che Alighiero, presente nell’aula del podestà il 5 settembre 1254, abbia offerto il proprio aiuto all’abate Nicola, tanto carico di debiti quanto di proprietà con cui garantire i mutui - spiega la professoressa all’AdnKronos - Se questa ricostruzione è esatta, le pergamene lucchesi assumono il valore esemplare di un’attività svolta da Alighiero come usuraio, in forma più o meno continuativa. In cambio di opera e soldi il padre di Dante ottenne verosimilmente la proprietà dell’abbazia e forse, attuando una strategia finanziaria già di famiglia, la rivendette, convertendola in moneta sonante”.
Le carte d’archivio spiegano che la causa civile fu promossa da due fratelli di Semifonte, città che fu avversaria di Firenze, contro il monastero di San Salvatore di Fucecchio, allora sotto Lucca, e il padre di Dante intervenne come procuratore dell’abate Nicola. La prima pergamena, ritrovata da Alberto Malvolti (che ne pubblicò un riassunto del contenuto nel 1987 sulla rivista “Erba d’Arno”) contiene la verbalizzazione delle udienze tenutesi tra il 5 settembre e il 5 novembre 1254. L’altra è stata scoperta proprio da Laura Regnicoli e costituisce il presupposto giuridico dell’azione processuale di Alighiero, contenendo la procura a lui rilasciata dall’abate. Due nuove testimonianze contenute nel ‘Codice Diplomatico Dantesco’ che dimostrano l’attività usuraia del padre di Dante. Anche se il Sommo Poeta, nel suo viaggio con Virgilio attraverso l’Inferno, non racconta di averlo incontrato.
"DUE SOLI" IN TERRA, E UN SOLO SOLE IN CIELO: "TRE SOLI". GENERE UMANO: I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE!!! NON SOLO SUL PIANO TEOLOGICO-POLITICO, MA ANCHE ... ANTROPOLOGICO!!!
L’uomo che apre le porte dei capolavori vaticani: “Ho le chiavi del paradiso”
Gianni Crea è il capo dei clavigeri dei musei della Santa sede. "Ogni mattina, quando entro nella Cappella Sistina, mi sento un privilegiato"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 gennaio 2017)
CITTÀ DEL VATICANO. "L’alba è il momento più magico. Entro nel bunker che custodisce le 2797 chiavi dei musei vaticani. Quando non ci sono gli addetti della sagrestia pontificia, tocca a me prelevare l’unica chiave che non ha numero né copie. È un modello antico come la porta che apre, quella della Cappella Sistina. Giro la serratura della Cappella, quella stessa che sigilla i cardinali in conclave, per pochi istanti mi sento investito da una meraviglia che non è facile spiegare. M’inginocchio, mi segno, e dico una preghiera in solitudine. Chiedo che tutti i visitatori che di lì a poco entreranno possano provare il medesimo stupore. Sono un privilegiato, ne sono consapevole. E so che di questo privilegio devo esserne sempre degno".
Gianni Crea, 45 anni, romano ma originario di Melito di Porto Salvo, in provincia diReggio Calabria, è capo clavigero dei musei vaticani. In sostanza, ha il compito di aprire e chiudere tutte le porte e le finestre, 500 in tutto, 300 del percorso dei visitatori e 200 dei vari laboratori collegati. A vent’anni il parroco della chiesa che frequentava sulla via Appia gli chiese se voleva lavorare nella basilica vaticana come custode ausiliario. La Fabbrica di San Pietro in cambio avrebbe contribuito ai suoi studi. Accettò.
Qualche anno dopo, giovane studente di giurisprudenza con il sogno di diventare magistrato, partecipò a un concorso per diventare a tutti gli effetti custode. Per un anno lo osservarono, per valutare se fosse idoneo: puntualità, discrezione e serietà le principali doti richieste. Venne preso: "Da adesso - gli dissero - devi sempre ricordare dove ti trovi. Lavori nel centro della cristianità. I dieci comandamenti devono diventare il tuo secondo vestito". Una richiesta "non da poco", dice. "Tuttavia sono contento di non disattenderla".
Più immaginifica fu, invece, la consegna che gli fece Antonio Paolucci, fino a poche settimane fa direttore dei musei, quando da semplice clavigero venne nominato capo. "Adesso sei tu ad avere simbolicamente in mano le porte del Paradiso", gli disse per fargli comprendere la responsabilità a cui era chiamato. Con lui, infatti, collaborano altri dieci clavigeri che si dividono il lavoro in due turni, una metà dalle 5.30 del mattino alle due del pomeriggio. Gli altri fino a sera tardi. "Da quel momento il Vaticano è diventata la mia seconda casa - dice - Conosco le chiavi come le mie tasche. Ogni porta apre un mondo per me e per tutti i clavigeri familiare. Dietro ogni porta c’è un odore particolare, un profumo, riconoscibile soltanto da noi".
L’apertura e la chiusura di porte e finestre sono momenti entrambi delicati. Alle 5.30 la Gendarmeria di Porta Sant’Anna toglie l’allarme e il clavigero di turno procede con un lungo giro che dura quasi un’ora e mezzo. Dopo ogni apertura c’è il controllo che ogni cosa sia in ordine. "Se ad esempio si rompe un tubo dell’acqua - racconta - spesso tocca a me chiamare l’idraulico". Negli ultimi anni i visitatori dei musei sono parecchio aumentati, 28mila le sole presenze giornaliere in Sistina. Tutto deve essere perfetto. "Ma anche la chiusura non è facile. Bisogna controllare che nessuno rimanga all’interno. Gli imprevisti sono sempre possibili. Una sera chiudemmo tutto e di colpo suonò l’allarme. Accorremmo nella stanza nella quale veniva segnalata una presenza. Per fortuna era soltanto un passerotto rimasto dentro".
Il clavigero è l’erede delle chiavi del Maresciallo del Conclave, colui che fino al 1966 doveva sigillare le porte intorno alla Cappella quando i cardinali si riunivano per eleggere il Pontefice. La sua chiave non è l’unica a essere preziosa: c’è, ad esempio, la chiave numero 1, quella che apre il portone monumentale su viale Vaticano, che oggi è il portone d’uscita dei visitatori dei musei.
E poi c’è la 401, una delle più antiche: apre il portone d’entrata dei musei e pesa mezzo chilo. "Due chiavi decussate, cioè incrociate a X, appaiono negli stemmi ed emblemi dei papi - scrive Tiziana Lupi su "Il mio Papa" - Sono una d’oro (potere spirituale) e una d’argento (potere temporale); hanno i congegni traforati a croce e sono unite da un cordone, simbolo del legame tra i due poteri ". I musei sono divisi in quattro aree. Ad ogni area corrispondono dei numeri a cui le chiavi si riferiscono. Le chiavi con il numero 100 sono del museo etnologico, quelle col 200 sono del Gregoriano, eccetera...
"La gioia più grande in questi anni - dice ancora Crea - l’ho avuta pochi anni fa. Prima che morisse mia madre ha potuto assistere a una messa del mattino a Casa Santa Marta. Ha ricevuto una carezza dal Papa. Un piccolo gesto che per me ha significato molto".
IL “PARADISO IN TERRA”, LA “MEMORIA” DI ABY WARBURG, E LA LEZIONE DI WALTER BENJAMIN. *
C’ERA UNA VOLTA IL PARADISO SEGNATO SULLE CARTE. “Il paradiso in terra. Mappe del giardino dell’Eden”, (Bruno Mondadori, Milano, 2007) di Alessandro Scafi è per molti versi un’opera sorprendente - soprattutto per l’essere il lavoro di un “Lecturer in Medieval and Renaissance Cultural History” presso il Warburg Institute di Londra.
Muovendo dalla storica acquisizione che la “gran parte delle mappe medievali contengono un riferimento visivo al giardino dell’Eden”, egli cerca di rispondere alla domanda su quali siano state “le condizioni che hanno reso possibile la cartografia del paradiso”. Lo scopo del suo libro, infatti, è quello di “visitare il nostro passato come si fa con un paese straniero, tentando di effettuare la visita con la massima apertura mentale e il massimo rispetto” e cercare di esplorare e scoprire - premesso che “chi metteva il paradiso su una carta aveva le sue buone ragioni” - queste “buone ragioni” (p.7).
Se è vero - come egli stesso sostiene - che “ieri segnare il paradiso su una carta significava una confessione dei limiti della ragione una dichiarazione di fede in un Dio che interveniva nell’arena geografica della storia”, e, altrettanto, che “oggi una mappa che tra le ragioni del mondo comprenda anche il paradiso sembra dover richiedere uno slancio di fantasia o uno sforzo di immaginazione”, è da pensare che l’Autore - alla luce del suo percorso e, ancor di più, delle sue stesse conclusioni - ha trovato molte e grandi difficoltà e che - per dirlo “con una parola-chiave dell’orizzonte di Aby Warburg - che la Memoria (“Mnemosyne”) gli ha giocato un brutto scherzo!
Nell’ Epilogo, con il titolo “Paradiso allora, paradiso ora”, dopo aver premesso in esergo la seguente citazione:
Scafi così comincia: “Per cercare di capire la cartografia del paradiso abbiamo compiuto un lungo viaggio nel tempo. Siamo partiti dagli albori del cristianesimo e, passando attraverso il Medioevo, il Rinascimento e la Riforma, siamo arrivati ai giorni nostri. Abbiamo incontrato il paradiso terrestre in una grande varietà di forme, sia descritto a parole sia sagomato dalle linee di una carta”.
E ormai stanco del percorso fatto, nello sforzo di non farsi accecare dalla varietà delle forme e di (farci!) cogliere l’essenziale (il “dio”) che nei “dettagli” si “nasconde”, così ricorda e prosegue: “Come si è visto, localizzare il paradiso terrestre descritto dalla Genesi non era soltanto un problema geografico, e tutti coloro che hanno voluto interpretare il racconto del peccato di Adamo si sono trovati di fronte ai grandi interrogativi sul destino ultimo dell’uomo”. E, a chiusura del discorso e a esclusione di ulteriori domande in questa nebbiosa direzione metafisica ed escatologica, così precisa: “Non c’è meravigliarsi, allora, che le risposte offerte da tanti secoli di tradizione cristiana siano state formulate e riformulate, con il passare del tempo, in maniera così diversa”!
LA RINASCITA DELLA “HYBRIS” ANTICA: I MODERNI. L’attenzione di Scafi, nonostante ogni buona intenzione, è conquistata da altro: “Quello che colpisce, invece, è il modo in cui, a partire dal Rinascimento e dalla Riforma, ogni autore che si sia cimentato sull’argomento si è sempre industriato a ridicolizzare le teorie dei suoi predecessori. Scrivere sul paradiso sembrava richiedere sempre una carrellata preliminare sulle stravaganze precedenti, per bollare come insostenibili tutte le teorie pregresse e quindi proporre la propria soluzione, che si auspicava definitiva”. E così sintetizza e generalizza: “L’abitudine di presentare, in un’ironica rassegna, le assurdità e gli errori del passato è diventata così un topos che è durato fino ad oggi”; e, ancora, precisa: “A ben vedere, si possono rintracciare già nella tarda antichità le avvisaglie di questa pratica post-rinascimentale”(p. 306).
Colpito da questa “evidenza” e da questa “scoperta”, egli prosegue con l’antica e moderna ‘tracotanza’ (il “folle volo”) a narrare la sua “odissea”, aggiorna il numero della “varietà delle forme” delle mappe del giardino dell’Eden, e, senza alcun timore e tremore, completa la sua personale “ironica rassegna”, - con una “carrellata” sulle ultime e ultimissime “stravaganze”, su quelle degli artisti russi Ilya ed Emilia Kabakov, coi loro “progetti singolari e fantasiosi” (in particolare, “Il paradiso sotto il soffitto”), che Scafi così commenta:
“MAPPING PARADISE”. Questa è la conclusione di "A History of Heaven on Earth”: per dirla in breve, una pietra tombale sull’idea stessa del “paradiso in terra”, e non solo sulle “carte” dei Kabakov, anche se “i due artisti russi sembrano condividere il pensiero dei teologi e dei cartografi medievali”.
Che a questo “destino” dovesse approdare tutta la ricerca, nonostante le apparenze del percorso, Scafi l’aveva già ‘annunciato’, come in una “profezia che si auto-adempie”, in un breve paragrafo dedicato a Dante e alla “Commedia”, intitolato “Un volo poetico in paradiso”, dove - separata “poesia” e “non poesia” - così pontifica:
Fin qui, niente di speciale: il suo punto di approdo è lo stesso di “chi scrive di storia per il grande pubblico” e degli “storici di professione”(p. 7)! E la sua “storia dell’arte” cartografica del “paradiso in terra” di “oggi”, alla fin fine, potrebbe benissimo essere collocata, in una possibile ristampa, nel “Dictionary of the Bible” di “ieri” (1863).
LA SCALA DEGLI INDIANI PUEBLO E LA “MEMORIA” DEL PARADISO DI ABI WARBURG. Per “ironia della sorte”, quasi cento anni prima della mostra dei Kabokov a Londra (1998), nel 1896, Aby Warburg è nel Nuovo Messico e in Arizona, incontra gli indiani Pueblo e - come poi racconterà e cercherà di descrivere con disegni e foto nel 1923 (cfr. “Il rituale del serpente”, Adelphi, Milano, 2005) - conosce elementi della loro cosmologia, un universo “concepito come una casa”, con il tetto con “le falde a forma di scala”, una “casa-universo identica alla propria casa a gradini, nella quale si entra per mezzo di una scala”, e comprende quanto è importante per l’uomo “la felicità del gradino”, il salire (“l’excelsior dell’uomo, il quale dalla terra tende al cielo”). E, al contempo, sempre nel 1896 (il 26 giugno), ad un suo amico, così scrive:
Warburg rimase persuaso di ciò sino alla fine. Ma se fu questo suo atteggiamento ad allontanarlo dagli esteti e anche dagli storici dell’arte, fu il suo intenso interesse - come cita, scrive, e commenta Ernst H. Gombrich (cfr.