Ipotesi di rilettura della “Divina Commedia”.
di Federico La Sala
IL DIALOGO/Quaderni di teologia, Martedì, 24 luglio 2007
LA DIVINA COMMEDIA, Un’indicazione di lettura generale e "personale" - per non restare all’Inferno... *
"Io non Enea, io non Paulo sono":
io, Dante Alighieri,
figlio della libera e piena unione
di Bella degli Abati ("Maria")
e di Alighiero II degli Alighieri ("Giuseppe"),
vi racconto e vi testimonio
che
Nel mezzo del cammin di nostra vita
io mi ritrovai ...
è l’Amore che muove il Sole e le altre stelle!
Ho ritrovato l’Origine, me stesso, e l’Umanità
In principio era la parola,
il dialogo, tra gli esseri umani, non il diavolo;
íl dialogo aiutava a superare ogni ostacolo (satana) e ogni inimicizia; non c’erano barriere, muri, e recinzioni diaboliche che
separavano e impedivano gli incontri e le amorose nascite di
esseri umani, liberi e sovrani, che crescevano pacificamente in
virtù e conoscenza, in terre e città belle e fiorenti;
consideriamo, considerate, la nostra semenza,
seguiamo, seguite, il filo del nostro corpo
e delle parole della nostra Lingua,
fatti e fatte non foste, e non fummo, a viver come bruti e come
brute...
siamo, siete, nati e nate in libertà e in umanità,
non rinneghiamo, non rinnegate,
non vendiamo, non vendete,
l’anima della vostra, nostra, Città,
l’anima della vostra, nostra, Terra.
* Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria ..., Edizioni Ripostes, Roma-Salerno 2001, p. 61.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
La nave Argo con l’equipaggio (Lorenzo Costa) |
LA GAIA SCIENZA. Si deve imparare anche l’amore *
Si deve imparare ad amare. Ecco quel che ci accade nella musica: si deve prima imparare a udire una sequenza e una melodia in genere, a enuclearla nell’ascolto e a distinguerla isolandola e delimitandola come se avesse una vita propria; quindi bisogna sforzarci e impiegare la nostra buona volontà per sopportarla, malgrado la sua estraneità, bisogna fare un esercizio di pazienza di fronte al suo sguardo e alla sua espressione, considerare con benevolenza quel che c’è di inusitato in essa - finalmente arriva un momento in cui ne abbiamo preso l’abitudine, in cui l’attendiamo, in cui si ha il presentimento che ne sentiremmo la mancanza, se non ci fosse più; e così essa continuamente dispiega la sua violenta suggestione e il suo incantesimo, finché non si sia diventati i suoi umili ed estasiati amanti, per cui non v’è più niente di meglio da chiedere al mondo se non la melodia e ancora la melodia.
Questo ci accade però non soltanto con la musica: proprio in questo modo abbiamo imparato ad amare tutte le cose che oggi amiamo. In definitiva, siamo sempre ricompensati per la nostra buona volontà, per la nostra pazienza, equità, mitezza d’animo verso una realtà a noi estranea, quando lentamente essa depone il suo velo e si manifesta come una nuova inenarrabile bellezza: è questo il suo ringraziamento per la nostra ospitalità. Anche chi ama se stesso, lo avrà appreso per questa strada: non ce ne sono altre. Si deve imparare anche l’amore.
*
F. Nietzsche, La gaia scienza, IV, fr. 334, tr. it. di F. Masini ("Opere",vol. V, t. II,) Adelphi, Milano 1991.
ECOLOGIA DELLA PAROLA: MESSAGGIO EVANGELICO ("AGAPE - CHARITAS") E FILOLOGIA...
Chiave concettuale *
É l’amore in senso cristiano (agape-caritas) che costituisce l’essenza stessa del Dio rivelato da Gesù Cristo (cf. 1 Gv 4, 8). Essa consiste nel donare la propria vita (Gv 15,13). La forma perfetta della carità è il dono di sé di Cristo sulla Croce (Gal 2, 20). La Croce è la "cifra" e il simbolo dell’amore: in essa Gesù compie il duplice comandamento dell’amore di Dio e del → prossimo, ripreso dalla Legge antica (Torah) (cf. Mc 12, 28ss; Dt 6, 5; Lv 19,17). Sulla Croce infatti Gesù ama totalmente Dio Padre, affidandosi nelle sue mani (Lc 23,44) e il prossimo, → perdonando i suoi nemici (Lc 23, 36). L’amore vero o carità consiste nell’amare con → gratuità, anche chi non lo merita, il peccatore, il malvagio, il traditore, il nemico (cf. Lc 6, 32; Rm 5,11). Questo amore divino, unico e trascendente non è "utopico" per gli esseri umani. Esso diventa realtà quando è riversato nel cuore degli uomini mediante la potenza dello Spirito Santo, il Dono del Signore risorto (cf. At 2; Rm 5, 5), che rende capaci di conformarsi all’amore di Cristo. Tale è l’esperienza dei santi e dei martiri (cf. At 7, 59-60). La carità è pertanto una virtù teologale, cioè soprannaturale e pneumatologica. San Paolo la considera il più grande dei doni dello Spirito Santo e la descrive così: "La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine" (cf. 1 Cor 13, 4-8). Essa può essere ritenuta opera della → fede (cf. Gal 5, 6). Avere l’amore è segno di una vita nuova che vince la morte: "Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte" (1 Gv 3, 14).
Tutta la tradizione cristiana l’ha venerata come "regina delle virtù". Essa consiste per S. Agostino nell’amore delle cose che devono essere amate (dilectio rerum amandarum) e dona di anteporre le cose comuni a quelle proprie (caritas communia propriis non propria communibus anteponit). La carità è "ordinata": essa fa amare Dio per se stesso; ispira un retto amore di sé (ricordando la propria dignità filiale); stimola ad amare il prossimo in Dio e il nemico a causa di Dio (caritas est amicum diligere in Deo et inimicum diligere propter Deum, S. Gregorio Magno). La carità ama secondo la misura smisurata di Dio (modo sine modo, S. Bernardo). Per san Tommaso soltanto la carità merita veramente il nome di grazia perché è l’unica che renda "graditi a Dio" (nomen gratiae meretur ex hoc quod gratum Deo facit). Essa ha la facoltà di trasformare l’amante nell’amato perché suscita una sorta di "estasi", un uscire da sé per aderire all’amato (caritatis proprium est transformare amantem in amatum, quia ipsa est quae extasim facit).
La carità è il vincolo di comunione della → Chiesa, e trova nell’Eucaristia il suo sacramento. Mediante la carità lo Spirito riunisce i fedeli in un solo corpo: lo Spirito unifica il corpo con la sua presenza, con la sua forza e con la connessione interna delle membra; produce la carità tra i fedeli e li sprona a viverla. Cosicché se un membro soffre, tutti soffrono insieme con lui; e se un membro viene onorato, ne gioiscono insieme anche gli altri (cf. 1 Cor 12, 26; LG 7, 3). La carità non può essere né confusa né tanto meno sostituita con la nozione non peculiarmente cristiana di → solidarietà. Questa consta dell’ordine umano e sociale della fraternità universale. La carità invece è la relazione di comunione propria della → fraternità cristiana. Essa ha una propulsione universale (fino ad abbracciare i nemici), ma è specialmente arricchita dalla reciprocità nella comunità ecclesiale: "questo è il messaggio che avete udito fin da principio: che ci amiamo gli uni gli altri" (1 Gv 3, 11-12); "Poiché dunque ne abbiamo l’occasione, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede", (Gal 6,10). Insieme alla → evangelizzazione e all’intercessione (Liturgia), la testimonianza della carità rappresenta la precipua forma cristiana di svolgere la missione che Cristo le ha affidato.
* Fonte: Chiave concettuale - Vatican.va
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
FLS
CON MICHELANGELO a scuola da DANTE:
#Antropologia, #teologia, #filologia e #immaginazione #cosmoteandrica! #DANTE2021 A che #gioco giochiamo?!: «Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?» (Matteo 18,1-5).
ANTROPOLOGIA E FILOSOFIA: SPIRITO CRITICO E AMORE CONOSCITIVO *:
"Per letiziar là sù fulgor s’acquista,
sì come riso qui; ma giù s’abbuia
l’ombra di fuor, come la mente è trista
«Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia»,
diss’io, «beato spirto, sì che nulla
voglia di sé a te puot’esser fuia.
Dunque la voce tua, che ‘l ciel trastulla
sempre col canto di quei fuochi pii
che di sei ali facen la coculla,
perché non satisface a’ miei disii?
Già non attendere’ io tua dimanda,
s’io m’intuassi, come tu t’inmii».
Dante Alighieri, Paradiso IX, 70-81.
* Sul tema, nel sito, cfr.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA"
FLS
Pasolini e Dante. La “divina mimesis” e la politica della rappresentazione
di Emanuela Patti (Le parole e le cose, 2412.2015)
I
Mimesi. “Il punto d’avvio non può essere che il concetto di mimesi”, scriveva Daniele Giglioli qualche settimana fa in apertura di un suo contributo su Réné Girard pubblicato su LPLC. E questo è anche il punto di partenza del rapporto tra Pasolini e Dante, fortemente incentrato sui temi della rappresentazione e dell’imitazione. Nella riflessione pasoliniana sulla “realtà rappresentata” (mimesis), Dante ha avuto di fatto un ruolo di primo piano. Negli anni Cinquanta la sua influenza ha preso la forma di un certo “realismo dantesco” nella narrativa e poesia pasoliniana, a partire dall’esempio di oggettività, sperimentalismo e plurilingualismo di Dante diffuso da un saggio di Gianfranco Contini del 1951, “Preliminari sulla lingua del Petrarca”. In particolare, il plurilinguismo sarebbe diventato per lui un modello per ripensare la rappresentazione dell’altro (delle classi subalterne e della loro realtà) a livello sociologico, in relazione alla “questione della lingua” e del “nazional-popolare”.
Nei primi anni Sessanta, invece, Dante è diventato fonte di ispirazione di un certo “realismo figurale” nel cinema pasoliniano a partire dai concetti di figura e “contaminazione degli stili” di Erich Auerbach - come emerge chiaramente nella fase “nazional-popolare” del suo cinema che va da Accattone (1961) a Il Vangelo secondo Matteo (1964). In questi film la contaminazione degli stili, tradotta in ibridazione di pittura, musica, letteratura ed immagini in movimento, ha consentito associazioni semiotiche piuttosto radicali tra cultura alta e cultura bassa e, nello specifico, tra la figura di Cristo e quella del sottoproletariato.
Sulla base di queste premesse, l’ipotesi di questo libro è che Pasolini abbia trovato in Dante - e più precisamente in alcune interpretazioni critiche della sua opera (in particolare quelle di Contini ed Auerbach) - un modello con cui rispondere, in ambito artistico, ad una domanda estetico-politica di grande rilevanza per il suo tempo: la rappresentazione dell’altro, il popolo. Che cosa significa “popolare” in poesia, narrativa, cinema? E qual è il ruolo dell’intellettuale/poeta che vuole rappresentare il popolo in modo realistico?
In questo discorso, è chiaramente cruciale per Pasolini la connessione tra l’esempio di Dante e quello di Cristo, in quanto entrambi rappresentano, come ricorda Auerbach, gli esempi, per eccellenza, di radicale contaminazione tra cultura “alta” e cultura “bassa”, tra la parola e la carne. Attraverso la tradizione cristiana a lui disponibile, Dante riesce a raggiungere questa integrazione tramite il doppio ruolo di auctor/actor che gli consente di combinare la funzione intellettuale con l’illusione di un reale viaggio fisico attraverso l’inferno, il purgatorio e il paradiso. Ed è proprio questo modello di “poeta della realtà” ad offrire a Pasolini, almeno negli anni Cinquanta, un esempio, sul piano linguistico ed autoriale, di integrazione delle due funzioni, in pieno clima ideologico post-crociano.
Eppure, per Pasolini, come l’autore scriverà nel 1965 in “La volontà di Dante “a” essere poeta”, il realismo di Dante rimane un mistero. L’incarnazione, vera ambizione del suo realismo, gli parrà ad un certo punto problematica in letteratura. L’originalità con cui Pasolini ha affrontato l’argomento della “realtà rappresentata” in relazione alle classi subalterne ha comunque avuto il merito di mettere in evidenza il divario esistente tra il cuore idealistico del discorso etico-politico delle culture realiste del suo tempo e il livello dialettico, materiale dell’esperienza artistica.
Nel contesto del periodo considerato, la riscrittura pasoliniana della Divina Commedia, La Divina Mimesis, il cui corpus principale è stato scritto tra gli anni 1963 e 1965 - con un momento di brusca interruzione proprio dopo le celebrazioni per i 700 anni di Dante nel 1965 - si colloca in un momento di svolta nella carriera pasoliniana e costituisce la sua fondamentale riflessione sul ruolo autoriale, misurato, appunto, sull’imitazione di Dante. La riscrittura pasoliniana della Divina Commedia non prenderà mai forma compiuta e resterà nel cassetto per anni, con poche ma importanti aggiunte di note o frammenti. Eppure, Pasolini decise di consegnare all’editore quest’opera, proprio nel suo stato incompiuto e frammentario, pochi giorni prima di essere ucciso nel novembre del 1975. La Divina Mimesis verrà pubblicata postuma qualche settimana dopo ed è una delle più significative dichiarazioni poetiche che l’autore ci ha lasciato.
Per mettere in luce le relazioni che questo testo frammentario ed incompleto stabilisce con l’attività poetica, narrativa e saggistica di Pasolini negli anni Cinquanta, il suo primo cinema e il dibattito sulla “nuova questione della lingua” ed il nazional-popolare, la rappresentazione di Dante in Pasolini viene qui affrontata come un fenomeno complesso e stratificato di appropriazione creativa che va interrogato a diversi livelli. Innanzitutto, le interpretazioni critiche di Dante nel dopoguerra italiano: quale modello di Dante è stato diffuso nelle letture di Contini e Auerbach? E poi, in che modo Pasolini si è appropriato di queste letture e come è stato usato il modello di Dante per ripensare la rappresentazione delle classi subalterne in relazione ad altri modelli culturali come quello gramsciano?
II
Realismi. Va subito detto che le forme di “realismo” del dopoguerra - tipicamente associate all’impegno ideologico del neorealismo o del realismo socialista di raccontare le condizioni di vita del popolo o dei socialmente esclusi nell’ambito del progetto nazional-popolare - risultavano a Pasolini insufficienti e con non poche contraddizioni. Innanzitutto, queste spesso rivelavano una mancanza di “reale” esperienza dell’altro da parte dell’artista borghese, con la conseguenza di restituire rappresentazioni stereotipate e poco autentiche. -Nel volume resta infatti sottesa la questione - recentemente discussa anche nel libro di David Forgacs, Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’unità a oggi (2015) - che riguarda i limiti di alfabetizzazione e di potere delle classi subalterne nell’auto-rappresentarsi in letteratura, condizione alla base dell’impegno di molti intellettuali, normalmente appartenenti ad una classe più alta, di “parlare per loro”. Questo è un punto che Pasolini solleva già nel 1952 anche per la poesia dialettale, mettendo in evidenza il falso binomio tra realismo e dialetto (vedi Poesia dialettale del Novecento), quella che Fortini chiamava la “coltivazione artificiale dei dialetti”.
In secondo luogo, non venivano messe in discussione le strutture linguistiche che veicolavano contenuti della realtà finendo per utilizzare una lingua tipicamente borghese per rappresentare il popolo. Lo sperimentalismo linguistico non era nell’agenda del realismo. Un’altra contraddizione emergente nella riflessione pasoliniana sul realismo riguarda i limiti del medium letterario che può solo sviluppare forme di approssimazione all’esperienza emozionale e fisica di una determinata realtà. Come imitare la lingua e i comportamenti degli altri è stato di fatto il principio guida della sua sperimentazione narrativa attraverso vari media artistici, in particolare nel passaggio dalla letteratura al cinema. È costante in Pasolini il desiderio di annullare la virtualità delle rappresentazioni egemoniche, nel suo tentativo di trasformare la parola, letteralmente, in carne.
III
1951. Realismo dantesco. La lezione di Gianfranco Contini fu per Pasolini determinante. Attraverso la sua interpretazione di Dante, Contini implicitamente offriva agli scrittori del dopoguerra un modello linguistico-letterario post-crociano. Nel suo saggio, “Preliminari sulla lingua del Petrarca” (1951), contrapponeva il monolinguismo petrarchesco al plurilinguismo dantesco: al primo Contini faceva corrispondere lo stile linguistico puro, assoluto e selettivo; al secondo, lo stile ibrido, sperimentale ed aperto alle contaminazioni di stile, genere e lingua. In linea con i valori ideologici di quegli anni, questo rispondeva all’esigenza di un approccio autoriale basato su un rapporto dialettico nei confronti della realtà. Pasolini fu particolarmente ricettivo verso questa lettura, non ultimo per lo speciale rapporto che lo legava a Contini - vale la pena ricordare che quest’ultimo fu il primo a riconoscerlo come “autore” scrivendo la sua recensione della prima raccolta poetica di Pasolini, Poesie a Casarsa (1942).
Non a caso, Dante e le sue tecniche poetiche e narrative - lo sperimentalismo, la contaminazione dei linguaggi - sarebbero state conciliate da Pasolini con la vocazione ideologica di rappresentazione delle classi subalterne. Va infatti precisato che l’Italia di quegli anni presentava uno scenario di bilinguismo non troppo diverso da quello di Dante. L’italiano era principalmente la lingua letteraria dell’élite, mentre la maggior parte degli italiani parlava i dialetti. Esisteva sicuramente un’affinità tra l’Italia di Pasolini e quella dei tempi di Dante: simile era il divario tra lingua istituzionale “alta” del potere, della scienza e della religione (latino) e la varietà plebea del volgare.
Come Dante, Pasolini partecipava ad entrambi i mondi linguistici. Sia per Dante che per Pasolini era dunque fondamentale la questione di come tradurre il plurilinguismo in letteratura. Per gli scrittori del dopoguerra si poneva infatti la questione di come realizzare una cultura nazional-popolare, o meglio popolare-nazionale, in altre parole, in che modo fare entrare il popolo nella scena della rappresentazione letteraria, dunque identitaria del Paese. Lo scrittore impegnato si trovava quindi a svolgere una funzione di ponte tra intellettuali e popolo che aveva come obiettivo proprio la rappresentazione. Non troppo distanti erano le parole di Gramsci quando parlava di “rappresentanza” nei Quaderni del carcere:
Se è vero, come scriveva Gramsci, che in Italia il divario tra letteratura nazionale e realtà sociale era enorme in Italia, tuttavia il pensatore sardo non forniva indicazioni sul come colmare questo divario in letteratura. Partendo da queste riflessioni, Pasolini prese a cuore proprio la questione del come. Come può uno scrittore borghese, socialmente e psicologicamente diverso dai suoi personaggi e dalla loro realtà, rappresentarli senza imporre egemonicamente la propria lingua, dunque visione del mondo?
Il paradigma continiano che opponeva plurilinguismo dantesco a monolinguismo petrarchesco offriva una risposta stilistica e venne sviluppato in due direzioni principali nell’opera pasoliniana: (1) un’espansione della lingua poetica verso il reale che ha portato allo sperimentalismo linguistico in poesia (in particolare, Le ceneri di Gramsci); e (2) un approccio mimetico verso la lingua dell’altro che ha portato, specialmente in narrativa, a ciò che Pasolini chiamò la “regressione nel parlante” (una sorta di uso performativo del linguaggio, messo in atto per evitare rappresentazioni aprioristiche delle classi subalterne).
Su questi due pilastri Pasolini ha sviluppato la sua filosofia del linguaggio in alcune delle sue principali opere poetiche, narrative e saggistiche degli anni Cinquanta come Le ceneri di Gramsci, Ragazzi di vita e l’attività di Officina. In quest’ottica, il plurilinguismo di Dante è stato assunto da Pasolini come il miglior modello letterario di performatività attraverso il quale colmare il divario tra la teoria e pratica del “realismo” negli anni Cinquanta. Vale dunque la pena sottolineare che da Ragazzi di vita a Le ceneri di Gramsci, da La Mortaccia a La Divina Mimesis, per Pasolini attraversare l’Inferno non significava fare esperienza del peggior destino possibile, ma anzi provare empatia verso gli altri e, attraverso l’empatia, dare voce alla vita degli altri.
Per quanto si tratti di un’esperienza virtuale, quella che Pasolini ha definito come l’opera più realistica della letteratura italiana, La Divina Commedia, di fatto evoca intensamente l’esperienza umana nella sua straordinaria diversità. È in affinità con queste considerazioni che Pasolini formula progressivamente il suo concetto di “regressione nel parlante” e di “intellettuale mimetico”, presenti già in alcuni scritti dei primi anni Cinquanta, ma emersi più esplicitamente solo nei saggi sulla lingua e su Dante del 1965. Sentire il popolo per capirlo, scriveva ancora Gramsci qualche riga prima nella citazione sopra riportata. Non è forse questo il messaggio che compare tra le righe de Le ceneri di Gramsci, scritto in una lingua che fortemente richiama quello sperimentalismo linguistico dantesco? E che cos’è La Divina Mimesis se non il racconto impossibile di un viaggio agli Inferi? [...]
CONTINUAZIONE NEL POST SUCCESSIVO
“Pasolini e Dante. La “divina mimesis” e la politica della rappresentazione”
di Emanuela Patti (Le parole le cose, 2412.2015)
[...]
IV
Realismo figurale. Se la ricezione del plurilinguismo di Dante ha avuto luogo in un momento storico-culturale in cui Pasolini credeva che la cultura potesse essere rinnovata attraverso la letteratura, la sua appropriazione della “contaminazione degli stili” - un concetto chiave della lettura di Auerbach della Divina Commedia - è stato il pretesto per guardare oltre la letteratura. Nel 1956 Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur veniva finalmente tradotto in italiano [Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale] e pubblicato da Einaudi, e solo alcuni mesi dopo troviamo già i primi riferimenti alla sua terminologia e l’uso di espressioni come sermo humilis, sermo piscatorius, e, appunto, “contaminazione degli stili”. Il saggio “La confusione degli stili” (1957) di Pasolini, per esempio, risulta già un tentativo di applicare la nozione di Auerbach alla tradizione letteraria italiana per verificarne il grado di contaminazione culturale. Ma è soprattutto nel cinema che Pasolini ottiene i migliori risultati di appropriazione del realismo figurale di Auerbach. Uno dei primi e più significativi riferimenti si trova nella ‘Nota su Le notti’ (1957), scritto dopo la sua collaborazione con Fellini a Le notti di Cabiria: “Fellini mi raccontava, trascinandomi in quella campagna perduta in un miele di suprema dolcezza stagionale, la trama delle Notti. Io, gattino peruviano accanto al gattone siamese, ascoltavo con in tasca Auerbach”.
I concetti di “contaminazione degli stili” e di “realismo figurale” sono quanto Pasolini trova di più utile per concepire il suo stile cinematografico in quelle sue prime esperienze accanto a Fellini. Nel suo cosiddetto cinema “nazional-popolare”, Pasolini di fatto traduce la contaminazione degli stili in una forma di ibridazione di media artistici (pittura, musica, letteratura e cinema), usando il concetto di figura per creare interconnessioni semiotiche tra i protagonisti dei suoi film (Accattone, Ettore, Stracci, e Gesù Cristo) e la figura Christi.
La contaminazione degli stili viene infatti usata come strategia estetica per redifinire i confini gerarchici della rappresentazione sociale. Nello specifico, il primo cinema pasoliniano risulta come un’approssimazione figurale progressiva alla figura di Cristo, prima solo suggerita attraverso associazioni simboliche musicali (per esempio, attraverso la musica di Bach), pittura (si pensi al Cristo morto di Mantegna o alla Deposizione di Pontormo), e sculture (la figura dell’angelo e la croce in Accattone), fino alla totale identificazione con Cristo in persona ne Il Vangelo secondo Matteo.
Non solo Cristo è la parola che si fa carne, ma anche il soggetto ‘sacrificale’ per eccellenza. Ed è proprio in questa combinazione di rappresentazioni figurali della realtà altamente intellettuali e rappresentazioni fisiche, più immediate di corpi, che Pasolini raggiunge un realismo creaturale di grande portata. Salvare, attraverso la morte, i suoi “poveri Cristi” da una società che minacciava la scomparsa della loro differenza culturale all’inizio degli anni Sessanta segna quel passaggio fondamentale, nella carriera di Pasolini, dalla fiducia in un “buon Inferno” di diversità linguistica e culturale, quello delle borgate degli anni Cinquanta, alla speranza di una salvezza al di fuori dell’“universo orrendo” nei primi anni Sessanta e poi la definitiva perdita di ogni fede al realizzarsi dei due Paradisi, quello capitalistico/consumistico e quello comunista - che in entrambi i casi rappresentavano per Pasolini, come scrive ne La Divina Mimesis, due forme di omologazione linguistica e culturale, la Lingua dell’Odio. A quest’altezza, per Pasolini, sacralità è sinonimo di esclusione: auto-esclusione come salvezza dall’omologazione culturale. Giorgio Agamben, non a caso personaggio de Il Vangelo, ne avrebbe scritto in Homo Sacer.
V
1965. Centenario dantesco. In occasione dei 700 anni dalla nascita di Dante, Pasolini aveva rilasciato un’intervista radio la cui trascrizione è rimasta inedita fino al 1999 e poi finalmente pubblicata nell’edizione Meridiani Mondadori dei Saggi sulla letteratura e sull’arte. Questo testo, “Dante e i poeti contemporanei”, aiuta a ricostruire quelle interconnessioni, rimaste invisibili per oltre quarant’anni, tra La Divina Mimesis, la sua attività poetica, narrativa e saggistica degli anni Cinquanta (in particolare, le antologie Poesia dialettale del Novecento, La poesia popolare italiana, Ragazzi di vita, Le Ceneri di Gramsci, il lavoro di Officina, “In morte del realismo”), il suo cinema “nazional-popolare” (Accattone, Mamma Roma, La ricotta, Il Vangelo secondo Matteo) e gli scritti coevi sulla lingua.
Tutti questi documenti hanno in comune un continuo dialogo con Dante sulla rappresentazione, attraverso il quale, come anticipato sopra, Pasolini ha tentato di dare nuovo significato alla nozione di “plurilinguismo” prima, e “contaminazione degli stili”, poi, due concetti dai confini spesso evanescenti, alla base del suo progetto di radicale contaminazione tra “cultura alta” e “cultura bassa”. Dichiarava Pasolini in quell’occasione:
Il testo critico a cui Pasolini fa riferimento è “Preliminari sulla lingua del Petrarca” (1951); il gruppo di addetti ai lavori - la cosiddetta “compagnia picciola” - erano gli scrittori gravitanti intorno ad Officina, nonché Sanguineti e Fortini; ed è evidente, dalle parole di Pasolini, che Dante era stato preso come modello linguistico, stilistico, ma anche ideologico di un certo modo di fare letteratura sperimentale, decisamente in opposizione all’“istituzione letteraria” (la “Letteratura”). Lo sguardo di Pasolini è tuttavia retrospettivo: come afferma in conclusione, quell’idea di realismo è superata e con essa una certa lettura dantesca.
Sempre in occasione del centenario dantesco, Pasolini era stato invitato da Anna Banti, direttrice insieme al marito Roberto Longhi della rivista Paragone, a contribuire ad un numero speciale in occasione del centenario. Pasolini avrebbe inviato un articolo, “La volontà di Dante “a” essere poeta” (1965), che metteva infatti in discussione proprio quell’interpretazione di Dante che tanto formativa era stata per lui negli anni Cinquanta, come dichiarato nell’intervista radio sopra riportata.
In sintesi, svelando per la prima volta l’archeologia di quel modello formativo, Pasolini rileggeva il plurilinguismo dantesco mettendo fondamentalmente in discussione i limiti del medium letterario e il ruolo dell’auctor. Inutile dire che il saggio avrebbe fatto infuriare dantisti e filologi della portata di Cesare Segre e Cesare Garboli, che leggevano il testo pasoliniano come un’incursione militante nella critica accademica, un intervento intellettuale inappropriato e fuori luogo - “una danza astratta sulla superficie di qualche “auctoritas” con le carte in regola” (Segre) -, e persino irritante. Scriveva infatti Garboli: “questo tipo di critica oracolare, divineggiante, eccitatissima, rabdomatica, tutta sui nervi, sempre affannata dalla smania di arrivare in tempo, eternamente sul punto di scoprire l’America, magari prendendo per nuove rive territori marcatissimi su mappe correnti, mobilita tutta la mia più profonda repulsione”.
Pasolini rispose alle critiche ricevute e, di fatto, la polemica si estese per diversi articoli pubblicati su Paragone, ma, come emerge dalla scena del convegno del “1° Convegno internazionale di Dentisti Dantisti” di Uccellacci e uccellini (1966), ne era rimasto profondamente toccato. La sua riscrittura della Divina Commedia venne di fatto interrotta nel 1965 - le aggiunte successive hanno lo scopo di giustificare formalmente quella serie di frammenti in risposta alla polemica con il Gruppo ’63 (“Per una “Nota all’editore”, 1966), all’uscita di Letteratura italiana dell’Otto-Novecento di Contini (1974) e infine dare forma definitiva al progetto incompiuto con la Prefazione (1975).
Oggi risulta chiaro che Segre e Garboli, e come loro molti altri critici, non potevano cogliere in pieno il senso dell’appropriazione di Dante nell’opera pasoliniana, non fosse altro perché La Divina Mimesis giaceva ancora in un cassetto e i riferimenti al realismo dantesco figuravano sparsi qua e là in vari documenti artistici e saggistici degli anni Cinquanta. Risulta invece chiaro oggi che “La volontà di Dante “a” essere poeta” non era che un frammento di un grande intertesto.
VI
1975. “La Divina Mimesis”. Molteplici connotazioni racchiude la parola “mimesi” nel rapporto Dante-Pasolini, ma il concetto emerge finalmente in modo inequivocabile nel titolo dell’opera pasoliana più dantesca, La Divina Mimesis (1975), dove la parola “mimesis” del titolo richiama la doppia accezione di “imitazione della Commedia” e di “imitazione della realtà, degli altri”. Il senso che Pasolini attribuiva a La Divina Mimesis è tuttavia ancora più specifico. “Divina mimesis”, imitazione divina, indicava quella vocazione poetica di diversità linguistica e culturale che aveva animato il progetto ideologico dell’autore per tutti gli anni Cinquanta e che Pasolini vedeva gravemente compromesso a causa di quella che chiamava l’“omologazione culturale e linguistica” dei primi anni Sessanta.
“Divina mimesis” corrispondeva ad un mito poetico associato alla figura materna, equiparabile al paradiso, scrive l’autore nella Nota 2 (1964) posta in appendice della sua riscrittura della Commedia: ““La Divina Mimesis” o “Mammona” (o “Paradiso”) si presenta miticamente come l’ultima opera scritta nell’italiano non-nazionale, l’italiano che serba viventi ed allineate in una reale contemporaneità tutte le stratificazioni diacroniche della storia”. Questo ed altri frammenti de La Divina Mimesis sono chiaramente in dialogo con Nuove questioni linguistiche (1964), il saggio pasoliniano che aveva avviato il dibattito sulla “nuova questione della lingua”, presentato alla conferenza dell’Associazione Culturale Italiana a Torino il 27 novembre 1964. Se, come argomentava Pasolini in quell’intervento, la lingua nazionale che si era formata in quegli anni era una lingua creata dall’alto, dai mass-media e dal potere economico, diametralmente opposto era invece il progetto linguistico-culturale a cui Pasolini aveva fortemente creduto nel decennio precedente, ovvero quello di una lingua “lievitante dagli strati bassi”, mimetica del mondo popolare, della realtà quotidiana. Almeno nelle prime intenzioni, dunque, La Divina Mimesis avrebbe dovuto seguire la linea di Ragazzi di vita (1955), come lasciava intendere anche il racconto La Mortaccia (1959), un primo abbozzo di riscrittura della discesa infernale di Dante, impersonato da una prostituta che si avventurava per le borgate romane.
Eppure, la riscrittura pasoliniana non si presenta come l’“ultima opera scritta nell’italiano non-nazionale”. I frammenti che Pasolini ha dato alle stampe “come un “documento”” si limitano a raccogliere testimonianze ed intenzioni di un progetto lasciato volutamente incompiuto. Nel suo stato documentaristico, La Divina Mimesis rappresenta piuttosto la morte del realismo dantesco - una morte che Pasolini aveva già ufficialmente anticipato in quel celebre componimento letto alla presentazione dei finalisti del Premio Strega nel 1960, “In morte del realismo” - e il passaggio ad un nuovo ideale mimetico in poesia e nel cinema. “Bisogna cambiare strada”, diceva il Pasolini ‘60/Virgilio al Pasolini ‘50/Dante pellegrino, alla fine del I Canto de La Divina Mimesis.
“Non ho da scegliere [...] vengo con te”.
Emanuela Patti - Pasolini after Dante. The «Divine Mimesis» and the Politics of Representation.
Scritto da Cristina Savettieri. *
[ Legenda, Oxford 2016 ]
Il libro di Emanuela Patti sul Dante di Pasolini è, sul piano del metodo, uno studio esemplare: poggia, infatti, su un’idea di ricezione che non ha niente a che vedere con modelli di relazione unidirezionali, basati sul principio dell’influenza dimostrabile attraverso indagini intertestuali, e collauda una pratica di lettura dei fenomeni culturali fatta di triangolazioni. Partendo da un assunto fondamentale di Stuart Hall, uno dei padri dei cultural studies, Patti lavora sul «circuit of culture» del campo letterario italiano tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, scegliendo come specola di osservazione l’opera di Pasolini e la sua complessa relazione con il modello linguistico, poetico e ideologico di Dante. Questo significa che quella che abbiamo davanti non soltanto è una monografia su Pasolini ma diventa anche una accuratissima ricostruzione archeologica degli usi del realismo nella cultura italiana del secondo dopoguerra e dell’impatto che la ricezione di Dante ebbe su essa. Pasolini è un attore primario di questo contesto e seguirne la traiettoria illumina alcuni elementi fondamentali di quel torno cruciale di anni tra i Cinquanta e i Sessanta: la questione della lingua e quella dell’impegno, la mediazione tra cultura alta e cultura popolare, la rappresentazione dei subalterni.
La tesi principale di Patti, argomentata con un solido sostegno di fonti, è che Pasolini modelli le proprie posizioni sul realismo a partire da un incontro “mediato” con Dante: se nei primi anni Cinquanta è il Dante di Contini - e in particolare dello storico saggio Preliminari sulla lingua del Petrarca (1951) - a modellare le riflessioni di Pasolini sulla rappresentazione dell’altro e il suo cruciale incontro con Gramsci, alla fine del decennio sarà la lettura di Mimesis e dei saggi danteschi di Auerbach a spingere Pasolini verso una pratica artistica intermediale. I concetti chiave di queste due fasi sono il plurilinguismo, che combinandosi al magistero gramsciano ispira le antologie di Poesia dialettale e di Poesia popolare e la composizione di Ragazzi di vita (1955), e il realismo figurale fondato sull’appropriazione del principio della Stilmischung, che nutrirà invece la ricerca di ibridazione intermediale della produzione cinematografica da Accattone (1961) al Vangelo secondo Matteo (1964). Patti non soltanto mostra come le auctoritates di Contini e Auerbach filtrino l’avvicinamento di Pasolini al modello dantesco, ma spiega anche in dettaglio come questi “filtri” reagiscano al paradigma gramsciano e producano esiti distinti da quelli di altri attori nel campo. Questo andamento per triangolazioni, fatto di costruzione diacronica e affondi sincronici, produce acquisizioni illuminanti.
La Divina Mimesis è infine letta da Patti come punto di massimo avvicinamento a Dante e, contemporaneamente, come gesto di radicale e consapevole allontanamento. Per certi versi, infatti, nell’opera scritta a strati tra il ’63 e il ’65 - con un ulteriore ripresa nel ’67 e poi, per un’ultima volta, nel ’74-75 - i due dantismi di Pasolini trovano un punto di sintesi: La Divina Mimesis è, infatti, una profonda riflessione sul plurilinguismo ma anche un esperimento di ibridismo intermediale condotto secondo il principio della Stilmischung. Al tempo stesso, questa è l’opera in cui proprio l’utopia del plurilinguismo come mezzo di rappresentazione dell’altro entra in crisi.
Patti individua nei primi anni Sessanta il momento in cui Pasolini si congeda dal modello intellettuale degli anni Cinquanta e dal suo ideale di realismo “inclusivo”. Il merito principale del libro è di osservare questo snodo cruciale in maniera stratigrafica, restituendo, attraverso un’analisi puntuale dei testi come parte del «circuit of culture», tutto il travaglio poetico e ideologico che segna la svolta performativa di Pasolini autore ormai scisso: quella, cioè, in cui si consuma il passaggio da una politica della rappresentazione a una «politics of self-representation», come felicemente Patti la definisce.
*Fonte: Allegoria
MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA.... *
Siamo fili dell’unico arazzo dell’essere
di Ermes Ronchi (Avvenire, giovedì 31 dicembre 2020)
II Domenica dopo Natale
Un Vangelo che toglie il fiato, che impedisce piccoli pensieri e spalanca su di noi le porte dell’infinito e dell’eterno. Giovanni non inizia raccontando un episodio, ma componendo un poema, un volo d’aquila che proietta Gesù di Nazaret verso i confini del cosmo e del tempo.
In principio era il Verbo... e il Verbo era Dio. In principio: prima parola della Bibbia. Non solo un lontano cominciamento temporale, ma architettura profonda delle cose, forma e senso delle creature: «Nel principio e nel profondo, nel tempo e fuori del tempo, tu, o Verbo di Dio, sei e sarai anima e vita di ciò che esiste» (G. Vannucci).
Un avvio di Vangelo grandioso che poi plana fra le tende dello sterminato accampamento umano: e venne ad abitare in mezzo a noi. Poi Giovanni apre di nuovo le ali e si lancia verso l’origine delle cose che sono: tutto è stato fatto per mezzo di Lui. Nulla di nulla, senza di lui.
«In principio», «tutto», «nulla», «Dio», parole assolute, che ci mettono in rapporto con la totalità e con l’eternità, con Dio e con tutte le creature del cosmo, tutti connessi insieme, nell’unico meraviglioso arazzo dell’essere. Senza di lui, nulla di nulla. Non solo gli esseri umani, ma il filo d’erba e la pietra e il passero intirizzito sul ramo, tutto riceve senso ed è plasmato da lui, suo messaggio e sua carezza, sua lettera d’amore.
In lui era la vita. Cristo non è venuto a portarci un sistema di pensiero o una nuova teoria religiosa, ci ha comunicato vita, e ha acceso in noi il desiderio di ulteriore più grande vita: «Sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). E la vita era la luce degli uomini.
Cerchi luce? Contempla la vita: è una grande parabola intrisa d’ombra e di luce, imbevuta di Dio. Il Vangelo ci insegna a sorprendere perfino nelle pozzanghere della vita il riflesso del cielo, a intuire gli ultimi tempi già in un piccolo germoglio di fico a primavera.
Cerchi luce? Ama la vita, amala come l’ama Dio, con i suoi turbini e le sue tempeste, ma anche con il suo sole e le sue primule appena nate. Sii amico e abbine cura, perché è la tenda immensa del Verbo, le vene per le quali scorre nel mondo.
A quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio. L’abbiamo sentito dire così tante volte, che non ci pensiamo più. Ma cosa significhi l’ha spiegato benissimo papa Francesco nell’omelia di Natale: «Dio viene nel mondo come figlio per renderci figli. Oggi Dio ci meraviglia. Dice a ciascuno di noi: tu sei una meraviglia».
Non sei inadeguato, non sei sbagliato; no, sei figlio di Dio. Sentirsi figlio vuol dire sentire la sua voce che ti sussurra nel cuore: “tu sei una meraviglia”! Figlio diventi quando spingi gli altri alla vita, come fa Dio. E la domanda ultima sarà: dopo di te, dove sei passato, è rimasta più vita o meno vita?
(Letture: Siracide 24,1-4.12-16; Salmo 147; Efesini 1,3-6.15-18; Giovanni 1,1-18)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PIANETA TERRA. Tracce per una svolta antropologica...
MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA: "LA VOCE DELLA SPOLETTA È NOSTRA" ("The Voice of the Shuttle is Ours").
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
FLS
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E MEMORIA ANTROPOLOGICA.
USCIRE DALL’ORIZZZONTE DELLA BIBLICA "CADUTA" ...
DANTE - 2021 E LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI": RISALIRE LA CORRENTE E RITROVARE I PROPRI "GENITORI". Al di là di Caino, la nuova Eva - Maria e Giuseppe, il nuovo Adamo , e Gesù è figlio dell’ amore [charitas] che move il Sole e le altre stelle (Pd. XXXIII, v. 145).
Federico La Sala
LA "MONARCHIA" DI DANTE, IL GIUSTO AMORE, E IL VATICANO ... *
«QUELLA ROMA ONDE CRISTO È ROMANO»: LA RICEZIONE DI DANTE NEL MAGISTERO PONTIFICIO CONTEMPORANEO
di VALENTINA MERLA *
In un clima di polemica tra cattolici e non cattolici, negli anni dell’Unità d’Italia, in cui i patrioti italiani avevano studiato la concezione politica dell’Alighieri incasellandola sotto l’egida del ghibellinismo anticlericale, Leone XIII sceglie la strada del dialogo con la società, progettando una riforma della cultura cattolica sulla base del tomismo. La sua ricezione di Dante è possibile proprio alla luce del tomismo: Leone XIII è, in effetti, secondo una definizione di padre Semeria, un’«anima dantesca», soprattutto per la significativa consonanza tra il suo pensiero sociale e la Monarchia (era stato proprio il suo intervento ad assolvere il trattato dantesco dall’accusa di eterodossia, escludendolo dall’indice dei Libri Proibiti). Infatti, come Dante, anche papa Pecci partecipa al dibattito sui rapporti tra Stato e Chiesa, riflettendo “laicamente” sul potere politico e sostenendo la reciproca indipendenza delle due istituzioni.
Alla morte dell’anziano pontefice sale al soglio pontificio Pio X, attento riorganizzatore del Catechismo della Chiesa Cattolica e sostenitore di una nuova concezione pastorale, che considera ogni strumento culturale, anche il testo dantesco, funzionale all’esigenza catechetica. Il pontefice incentiva, dunque, le iniziative in preparazione alla commemorazione del VI centenario dantesco, tra le quali una è particolarmente vicina ai suoi orientamenti pastorali. Si tratta di un lavoro di sinossi e comparazione tra il testo del catechismo del pontefice e la scrittura dantesca, che, in questo modo, viene frammentata al duplice scopo di supportare le affermazioni del catechismo e di dimostrare la perfetta aderenza del poeta al cattolicesimo. L’opera, firmata con lo pseudonimo d Minimo Sacerdote in Cristo, si intitola Il più bel ricordo del VI centenario di Dante, ossia Catechismo della Dottrina Cristiana pubblicato per ordine di sua Santità Pio X, meditato e studiato con Dante.
Una linea spartiacque nella rivalutazione dell’Alighieri da parte del magistero pontificio si ha con l’enciclica In praeclara summorum (1921), scritta da Benedetto XV per commemorare il VI centenario della morte del sommo poeta, che viene per la prima volta apostrofato come figlio prediletto della fede cattolica. Sulla scia del predecessore, sebbene in modi differenti, si colloca il riuso che dell’opera dantesca fa Pio XI, riportando nei suoi documenti ufficiali un ricco corredo di citazioni.
Ciò emerge maggiormente quando riflette sulla romanità della Chiesa, poiché papa Ratti risolve definitivamente la “questione romana”, affermando la necessità della reciproca collaborazione tra potere spirituale e potere politico.
Di questa collaborazione si fa simbolo la città di Roma (residenza del Papato e antica capitale dell’Impero di Roma), che assurge a figura della città di Dio, secondo la più canonica esegesi di Pg XXXII 102, verso prediletto dal pontefice e più volte citato. Con Pio XI Dante si presta per la prima volta, in modo significativo, ad essere rispolverato e letto criticamente. In effetti papa Ratti consacra la Commedia come un’opera di fede e se ne avvale come auctoritas a supporto delle argomentazioni dei suoi discorsi.
Ad imitare il suo esempio è Pio XII, in cui si nota una fitta trama di allusioni desunte dall’Alighieri soprattutto nei discorsi rivolti alla Pontificia Accademia delle Scienze (di cui era membro onorario). Queste prolusioni finiscono inevitabilmente per riflettere sulla vastità dell’universo, sede e immagine di Dio attraverso l’utilizzo della fonte dantesca.
Diversa è la fruizione di Dante da parte di Angelo Roncalli, il cui nome si lega inequivocabilmente al Concilio Vaticano II e all’esigenza di un rinnovato dialogo con il mondo intero, sicché anche la sua ricezione del poeta di Firenze si può ascrivere a questo desiderio di un più agevole confronto con la contemporaneità. Anche se in realtà, nel corpus degli scritti del pontefice, sia in quelli ufficiali che in quelli destinati alla scrittura privata, non se ne conserva una memoria significativa.
Vero e proprio punto di svolta nella lunga vicenda della ricezione dantesca è la lettera apostolica Altissimi cantus, che Paolo VI divulga il 7 dicembre 1965 in occasione del VII centenario della nascita di Dante. In essa il pontefice non esita ad appellare il sommo poeta con l’epiteto di teologo perché ha saputo comunicare le verità di fede servendosi della bellezza del verso. È, quella di papa Montini, una forte presa di posizione che innalza l’Alighieri al ruolo di maestro delle cose di Dio. Non a caso le citazioni del poema abbondano quando affronta temi particolarmente rilevanti, come l’amore di Dio; oppure quando parla del giubileo; numerosi sono poi i documenti che riflettono sul significato simbolico della città di Roma (in cui, a sostegno delle argomentazioni, viene citato If II 22-24 e Pg XXXII 102, evidenziando il significato provvidenziale che il poeta attribuisce all’Urbe).
Albino Luciani è ricordato dalla storia per il suo brevissimo pontificato, ma pur nella esiguità dei documenti del suo magistero, la fonte dantesca non passa sotto silenzio: l’Alighieri, infatti, è uno degli autori più citati dal papa bellunese. La prima interessante presenza si nota nella raccolta, pubblicata nel 1976, sotto il titolo di Illustrissimi. Lettere del Patriarca, in cui non mancano riferimenti danteschi espliciti, tra i quali i più interessanti si ravvisano nella lettera indirizzata a Casella, amico di Dante e personaggio della Commedia. -Tra i documenti che precedono l’elezione al soglio di Pietro, il più interessante è il messaggio quaresimale del 31 gennaio 1978, che risulta essere un vero e proprio microsaggio sul Purgatorio, perché il suo esordio trae spunto proprio da questa cantica.
Durante il periodo del pontificato, Giovanni Paolo I, sceglie di citare Dante nell’udienza generale del 20 settembre 1978, richiamando alla memoria l’esame teologico sulla speranza che il poeta affronta nel paradiso (Pd XXV).
Se per Paolo VI e per i suoi predecessori la scrittura dantesca assume una notevole rilevanza come auctoritas, nei discorsi di Giovanni Paolo II la vastissima gamma di citazioni, oltre che emergere nelle più svariate occasioni, predomina nelle riflessioni che hanno per argomento l’arte e il ruolo dell’artista.
Nel caso del pontefice polacco tale preponderanza assume un particolare rilievo perché, prima dell’elezione papale, Wojtyla è stato drammaturgo e poeta.
Il riuso di Dante si intravede non solo nei documenti ufficiali del magistero wojtyliano, ma anche nella sua produzione letteraria, in cui, al di là delle tracce intertestuali (irrisorie a mio parere), è possibile un accostamento a Dante, considerando non solo la concezione del ruolo del poeta e della poesia, ma anche lo sviluppo di alcuni nuclei tematici, ad esempio: il legame con le terra natia; la ricerca problematica di Dio; l’attenzione alla storia contemporanea considerata nella prospettiva escatologica; l’incontro con l’uomo, la concezione dell’io autoriale come “poeta visionario”. Si possono notare anche confluenze dal punto di vista stilistico come, ad esempio, l’insistenza sulle sfere semantiche dell’acqua, del fuoco, della luce, del viaggio, e ciò soprattutto nell’ultimo lavoro poetico, risalente al 2003: il Trittico romano.
Interessanti sono anche i documenti ad argomento prettamente dantesco. Tra questi, molto significativa è la lettera indirizzata a Mieczyslaw Kotlarczyk, datata 27 maggio 1964 e risalente al periodo in cui Karol Wojtyla era vescovo di Cracovia. Come già nel magistero dei suoi predecessori, anche nei documenti di Giovanni Paolo II le presenze dantesche non sono sporadiche e casuali: numerosissime sono quelle mariane, (desunte essenzialmente da Pd XXIII 73-74, Pd XXIII 88-89 e Pd XXXII 85-87, da Pd XXXIII 1-18). Tra le citazioni ricorrenti si annovera quella riferita all’Ulisse dantesco (If XXVI 118-120) e quella che descrive la scelta ascetica di san Pier Damiani (Pd XXI 117).
La Commedia non è ignorata neanche da papa Ratzinger. È esemplare in tal senso il messaggio per l’incontro promosso dal Pontificio Consiglio Cor Unum, il 23 gennaio 2003 in cui il pontefice, sin dall’esordio, afferma di aver attinto da Dante lo stimolo per elaborare l’intera prolusione. La fonte dantesca è, inoltre, ridondante nei discorsi mariani: è come se i luoghi topici della mariologia dantesca avessero delineato in modo talmente ineguagliabile il profilo di santità della Madre divina, da pretendere di essere richiamati alla memoria, proprio per la loro ineguagliabile bellezza.
* Scheda: Cineca Iris (Università di Foggia, Tesi di dottorato - 24-giugno-2014).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO.
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
FLS
LA "MONARCHIA" DI DANTE, IL GIUSTO AMORE, E IL VATICANO CON IL SUO TRADIZIONALE SOFISMA DELLA "FALLACIA ACCIDENTIS". LOGICA E REALTÀ .... *
Quando la logica va in vacanza
di Edoardo Camassa **
Il termine “fallacia” può essere inteso in almeno due modi. In senso lato designa una qualsiasi idea, opinione o credenza sbagliata; per esempio che le donne non sappiano guidare o che rompere uno specchio porti sette anni di disgrazie. Come si vede, stando a questa prima accezione del termine, le fallacie si fondano sugli stereotipi, sulla superstizione o comunque su detti e proverbi popolari, e perciò non ambiscono in nessun modo a risultare convincenti. Ma le cose cambiano se ci spostiamo dal linguaggio comune al linguaggio filosofico-scientifico.
In senso stretto, infatti, “fallacia” indica un’argomentazione o un ragionamento che sono logicamente viziati ma psicologicamente persuasivi; ciò può avvenire in modo consapevole e deliberato, quando vengono prodotti con l’intenzione di ingannare, e allora parleremo di sofismi, o inconsapevolmente, quando vengono prodotti senza volontà di inganno, e allora parleremo di paralogismi. In estrema sintesi, nella prospettiva della logica dell’argomentazione la fallacia è un ragionamento che ricorda un qualche tipo d’inferenza, ma che se sottoposto a un esame rigoroso si rivela scorretto[1].
Tra gli innumerevoli esempi possibili di fallacie intese in questa seconda accezione ce n’è uno su cui vale la pena di soffermarsi, se non altro perché compare in quello che è in assoluto il primo trattato sistematico sui ragionamenti viziati - il De sophisticis elenchis di Aristotele - e ha il pregio di essere estremamente chiaro[2]. Si tratta della fallacia d’accidente converso, un tipo di generalizzazione indebita che nasce dal considerare ciò che vale sotto un determinato aspetto (παρὰ τὸ πῄ, traducibile nei termini della logica medievale con secundum quid) come se valesse in assoluto, in sé e per sé (ἁπλῶς, corrispondente al latino simpliciter). In base a questo indebito procedimento generalizzante, dal fatto che un indiano è nero ma ha i denti bianchi si passa a concludere, erroneamente, che questo indiano è al contempo bianco e nero (Soph. el., 167a 7-9)[3]. Nel presente lavoro mi occuperò di fallacie intendendole in questo secondo senso, ossia nell’accezione ristretta; mi occuperò cioè di “fallacie logiche”. Più nel dettaglio, mi concentrerò su una particolare classe di ragionamenti scorretti: quella delle argomentazioni viziate che realizzano il loro potenziale comico.
[...]
Per sgombrare il campo da ogni possibile equivoco, occorre però aggiungere subito che qui mi soffermerò sulle fallacie comiche per come appaiono nella letteratura.
[...]
Per provare a esplicitare gli scopi delle fallacie comiche nella letteratura conviene rifarsi ancora una volta a Freud, e nello specifico all’analisi di ciò che egli chiama «storielle con una facciata logica» (o «motti concettuali sofistici»). Secondo Freud, se questo tipo di barzellette mostra una parvenza logica così robusta da rivelarsi come tale solo in seguito a un esame più attento è appunto perché lo scherzo tradisce qualcosa di serio, cela una logica ancor più profonda[4]. Orlando, che dal libro freudiano sul Witz ha tentato di estrapolare una teoria generale del comico letterario, scrive a ragione che i motti con una facciata logica sono «di una logica sofistica, esagerata, che dissimula anziché ostentarla l’erroneità dei propri ragionamenti secondo il livello della coscienza, e con ciò stesso ostenta fingendo di dissimularla la validità dei ragionamenti stessi secondo un’altra logica di fondo»[5].
È proprio questa dialettica di erroneità e validità, di illogicità e logicità che caratterizza le fallacie comiche rinvenibili nelle opere letterarie. Vale perciò la pena di approfondirne l’esame e di articolarne i momenti costitutivi. In prima battuta il lettore (mi riferisco al lettore modello) prende per buono il ragionamento incongruo; in altre parole si lascia persuadere dalla sua coerenza apparente. Il pensiero critico e la valutazione razionale subentrano in lui solo in un secondo momento, così da rendergli la fallacia palese, riconoscibile, e con ciò stesso da muoverlo al riso. Ma non è tutto: il lettore è infine portato a riconsiderare l’argomentazione comica e a intuire che quel che gli pareva erroneo così erroneo non è, dal momento che fa luce su verità paradossali ma profonde a cui la logica ordinaria non può né vuole accedere[6]. Da questa angolatura, assurdo non è più tanto e solo il ragionamento fallace, ma anche e soprattutto qualcos’altro di più generale. Se si vuole, il sistema di pensiero corrente e le sue leggi ritenute inattaccabili.
Un esempio chiarirà meglio cosa intendo: «L’unico modo per liberarsi di una tentazione è quello di cedervi»[7]. Tra tutte le massime che in The Picture of Dorian Gray (1890) Wilde mette in bocca a Lord Henry Wotton, irresistibile campione di freddure, questa è forse la più celebre. Essa di primo acchito sembra sensata, convincente. Tuttavia, a un esame più approfondito, l’aforisma rivela tutta la sua inconsistenza argomentativa. A rigor di logica, oltre a quella suggerita da Lord Wotton, vi sarebbe infatti un’altra e ben più valida soluzione per liberarsi di una tentazione: quella di metterla a tacere, di ignorarla e in definitiva di reprimerla. Come si vede, ci troviamo qui a ridere di una fallacia facilmente individuabile, che è nota come evidenza soppressa (o unilateralità) e che consiste nel dimenticare per strada alcune informazioni in grado di invalidare la tesi proposta. Benché tutto questo sia esatto, va pur detto che la massima sopra citata non si esaurisce nell’errore logico e nel comico puro. Nonostante l’incongruenza, e anzi proprio in virtù di questa, Wilde mira a farci intravedere qualcosa di serio: che tutto sommato non c’è davvero altro modo per liberarsi di una tentazione se non quello di cedervi. Per convincersene, basta leggere come il discorso di Lord Wotton continua: «Resistetele, e la vostra anima si ammalerà di bramosia per le cose che si è proibite da sola, di desiderio per ciò che le sue leggi mostruose (monstrous laws) hanno reso mostruoso e illegittimo (monstrous and unlawful)»[8]. Qui Wilde vagamente anticipa una idea che da lì a poco la psicanalisi cercherà di fondare su basi scientifiche. Per quanto proviamo a domarlo, il desiderio - mostruoso e proibito, sì, ma solo nell’ottica della ragione dispiegata - non si lascerà mai ammansire e combatterà con tutte le proprie forze per emergere. Con buona pace della mentalità borghese-puritana, additata come il “vero” bersaglio comico del ragionamento.
Quanto detto può essere riformulato e arricchito combinando la terminologia di Freud con quella del suo erede cileno Matte Blanco: le fallacie comiche della letteratura sono - un po’ come i sogni, i lapsus e i sintomi psiconevrotici, benché calcolate e coscienti - «formazioni intermedie e di compromesso»[9], frutti di un «sistema logico-antilogico»[10]. Esse ci spingono da un lato a ridere con superiore distacco di assurdità che a tutta prima paiono il risultato di una disattenzione, di un disimpegno mentale, e dall’altro a sentire in modo partecipe che il pensiero consueto in fondo non è altro che uno tra i molti tipi di pensiero possibili e immaginabili. Credo che D’Angeli e Paduano vogliano suggerire qualcosa del genere quando scrivono che nel riso diretto ai danni di chi pronuncia ragionamenti aberranti si maschera il timore che la sua logica altrettanto strutturata e resistente costituisca un grave rischio per la presunta inattaccabilità del sistema di pensiero corrente: le sue leggi, date senza verifica per completamente affidabili, se messe sotto la lente di un simile sguardo straniante, si rivelano discutibili e quindi incerte, e coinvolgono nel dubbio l’intero sistema logico[11].
Ricapitolando, le fallacie comiche in letteratura hanno un intento duplice e ambiguo: punire col riso le argomentazioni che si discostano dalla logica ordinaria e, contemporaneamente, rimarcare i limiti e i vincoli delle certezze comuni. Da ciò si ricava che nella finzione letteraria i ragionamenti ridicoli si presentano come un salvacondotto grazie a cui formidabili deviazioni dalla logica e dal pensiero razionale riescono a trapelare in modo socialmente fruibile. Lo scopo di questo lavoro è appunto mettere in luce, attraverso un congruo numero di esempi, in quali modi la letteratura può trasgredire la logica consueta e dare risalto alle verità paradossali e profonde che emergono proprio in virtù del sovvertimento della logica.
** Fonte: Le parole e le cose, 3 dicembre 2020 (ripresa parziale - senza note)
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NOTA
LOGICA E REALTÀ: LE FALLACIE “COMICHE” NELLA LETTERATURA DELLA TRAGEDIA.
E le fallacie tragiche nella letteratura della “Commedia” e della “Monarchia” di Dante Alighieri...
SE “le fallacie comiche in letteratura hanno un intento duplice e ambiguo: punire col riso le argomentazioni che si discostano dalla logica ordinaria e, contemporaneamente, rimarcare i limiti e i vincoli delle certezze comuni [....]”, alla fin fine, confermano il sentimento tragico della vita in cui si collocano. O no?
Se è così, non è meglio capovolgere il senso del cammino e mettere in luce le fallacie “tragiche” nella “Commedia”, e nella “Monarchia”, come da lezione di Dante?! O no?!
UNA "GALLERIA DI PAPI", LA "DONAZIONE DI COSTANTINO", E "IL GRANDE ROMANZO DEI PAPI" ... *
“Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro” di Riccardo Ferrigato. Intervista ...
di Letture*
Dott. Riccardo Ferrigato, Lei è autore del libro Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro edito da Newton Compton: in che modo la storia dell’umanità si è intrecciata con quella millenaria di una delle più influenti istituzioni che l’umanità abbia creato, il papato?
Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro, Riccardo FerrigatoFare riferimento alla “storia dell’umanità” è forse eccessivo, ma di certo il papato è stato elemento di notevole influenza per la storia europea e, in maniera più limitata e differenziata, per quella di alcune aree extraeuropee in cui il cattolicesimo ha avuto una significativa diffusione. In che modo lo ha fatto? Secondo registri completamente differenti, cioè mutando, modificandosi, adeguandosi ai tempi: non credo sia possibile che un’istituzione sopravviva altrimenti per un così lungo periodo.
Il vescovo di Roma ha maturato nei secoli, per gradi, un ruolo preminente all’interno della Chiesa - ruolo che, almeno nel primo millennio della sua storia, era tutt’altro che incontestato - e contemporaneamente ha giocato un ruolo politico in continuo divenire, con fasi di crescita e altre di declino, guadagnando il proprio spazio di manovra tra imperi, regni e repubbliche. Difficile sintetizzare in poche righe la parabola di questo percorso, ma direi così: finché il potere politico di un re o un imperatore ha avuto bisogno di giustificare la propria autorità attraverso il trascendente, il papa è stato un riferimento indispensabile. Questo, in realtà, ha determinato spesso la sottomissione della cattedra di Pietro ai bisogni di questa o quella corona, ma anche la crescita, lasciando persino spazio al sogno, mai realizzato, di mettere il vicario di Cristo al vertice dell’intero occidente.
In che modo da un modesto pescatore di Galilea si è giunti a fare del vescovo di Roma un monarca?
Il pescatore di Galilea, Pietro, primo tra gli apostoli di Gesù di Nazaret, non immaginava una chiesa strutturata in maniera verticista, probabilmente non pensava a figure assimilabili a quelle dei vescovi e lontanissima da lui era l’idea di una singola persona a capo di tutti i cristiani. Da ebreo qual era, immaginava piuttosto i fedeli riuniti secondo le modalità con cui la religione del suo popolo si organizzava da sempre, in piccole comunità collegate ma indipendenti, pronte all’imminente parusia, la venuta di Gesù alla fine dei tempi. Figuriamoci se può mai aver immaginato un vescovo che diviene monarca, cioè che assume su di sé anche un potere temporale!
In estrema sintesi, questo è stato possibile grazie a tre passaggi. Il primo è stato frutto dell’azione di Costantino, che ha dato alla chiesa una struttura affine a quella del potere imperiale, affiancando alle strutture di governo civile quelle ecclesiastiche. In secondo luogo, con la caduta dell’impero romano d’Occidente, la chiesa ha rafforzato la propria funzione politica, con i vescovi, a Roma e altrove, che divennero custodi - si pensi a Leone e Gregorio Magno - dei propri territori di influenza. Infine, l’alleanza con i Franchi di Pipino il Breve: nell’VIII secolo questo sovrano in cerca di una sacra investitura (Pipino non era re per diritto di nascita) conquistò al papa i territori di quello che divenne lo Stato della Chiesa. Di fatto Pipino e Stefano II, il papa dell’epoca, si legittimarono sul trono a vicenda.
Come è stato possibile che santi e martiri abbiano condiviso il medesimo scranno dei dissoluti papi del Rinascimento?
I papi sono stati 266 e questa gran massa di uomini rappresenta un completo campionario dell’animo umano: ogni passione - ma anche ogni vizio, ogni virtù - è stata incarnata. D’altra parte la cattedra di Pietro è un luogo di potere e il potere ha un effetto determinante sugli esseri umani, ne porta alla luce e ne inasprisce i tratti dell’animo.
La maggior parte degli uomini e delle donne possono permettersi di trascorrere una vita all’insegna di una tranquilla mediocritas: né troppo buoni né troppo malvagi, non ci è richiesto di dimostrare grande coraggio o eccezionali doti. Per un sovrano è diverso: nessuna via di mezzo per chi porta la corona, egli sarà vile o temperante, magnanimo o malvagio, perché il potere nelle sue mani è determinante per la vita o la morte di comunità intere.
Nel caso specifico del pontefice, poi, la tensione tra il potere politico e quello spirituale ha determinato spesso una vera iattura. Di norma ci riferiamo ai papi dissoluti del Rinascimento come a coloro che hanno umiliato la cattedra di Pietro - concubinari, nepotisti, festaioli, rivestiti di pietre e tessuti preziosi - ma alcuni di loro, con trame e strategie raffinate, hanno salvato la Chiesa del loro tempo. Al contrario, sant’uomini e personaggi di specchiata moralità, poiché sprovvisti di astuzia politica, hanno talvolta determinato la rovina dell’istituzione di cui erano a capo. Essere insieme re e sommi sacerdoti è come essere servi di due padroni e raccapezzarcisi non è semplice. Per questo Paolo VI poté dichiarare che era stata la Divina provvidenza, nel 1870, a togliere al papa l’incombenza di una corona da sovrano.
Quali sono state le figure di pontefici che maggiormente hanno inciso sulla storia del papato? La lista sarebbe lunghissima e, alla fine, non potrebbe risultare esaustiva. Tante e tali sono le rivoluzioni in questa storia di venti secoli, e tanti i frangenti sui quali un pontefice risulta determinante, che classifiche del genere sono davvero impossibili. In tempi recenti, però, non c’è alcun dubbio: la vera rivoluzione è stata quella di Giovanni XXIII e Paolo VI, grazie al coraggio del primo - quello di inaugurare un concilio, un vero concilio, aperto alla discussione e senza esiti predeterminati - e alla tenacia del secondo, che quell’assemblea ha condotto felicemente in porto. Un esito tutt’altro che scontato. Si tratta di una vicenda esemplare di come due pastori profondamente diversi per temperamento, per estrazione sociale, per esperienze pregresse, uniti quasi solo dalle comuni radici lombarde, abbiano governato la Chiesa con stili diversi, ma siano stati capaci di guardare nella medesima direzione. Purtroppo, però, il modello di una Chiesa maggiormente assembleare si è dovuto poi scontrare con un pontificato, quello di Giovanni Paolo II, fortemente accentratore. La Chiesa è così: si muove lentamente e, anche se talvolta subisce accelerazioni improvvise, la resistenza al cambiamento - la resilienza delle sue strutture secolari - rimane uno dei suoi caratteri distintivi.
Come è destinata a cambiare nel futuro, a Suo avviso, questa istituzione?
Previsioni di questo genere sono destinate a rivelarsi sempre inaccurate e, nel caso della Chiesa cattolica, è particolarmente difficile districarsi tra le tante correnti che spingono la barca di Pietro in diverse direzioni. Inoltre, la Chiesa è una struttura gerarchica, verticista, dove ogni cambio di pontefice può generare rivolgimenti prima impensati, tanto quanto le reazioni conseguenti. Bergoglio ha dato un’impronta, in questi anni, ma nessuno garantisce che il successore vorrà seguire il suo stesso percorso.
Su almeno un punto, però, la direzione è chiara poiché si tratta di un cambiamento ormai duraturo e inarrestabile: la Chiesa sta divenendo sempre più “cattolica”, vale a dire universale. Paesi un tempo marginali oggi guadagnano di importanza; cattedre vescovili prima considerate irrilevanti oggi si fanno centrali, mentre da decenni si parla di un’Europa scristianizzata. La Chiesa, da questo punto di vista, sta mutando lentamente ma inesorabilmente e anche il papato ne risentirà. Se si vuole un metro di giudizio, basti pensare a coloro che oggi entrerebbero in un immaginario conclave. Gli arcivescovi di città come Milano o Parigi rimarrebbero nei loro palazzi, dato che non sono cardinali; lo sono invece quelli di Kigali, in Ruanda, o di Bangui nella Repubblica centrafricana. E questi sono solo alcuni dei tanti che potrei riportare.
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Fonte: Letture.org
NOTE:
A) - [LA "GALLERIA DEI PAPI"]: CELEBRANDOSI #OGGI [10.11.2020] LA FIGURA DI PAPA #LEONEMAGNO (https://it.wikipedia.org/wiki/Incontro_di_Leone_Magno_con_Attila ), SUL FILO DELLA #MEMORIA DI #RAFFAELLO E #GIULIOII, è BENE RICORDARE DI FARE QUANTO PRIMA UNA VISITA ALLA #GALLERIADEIPAPI DI #PALAZZOALTIERI AD #ORIOLOROMANO...
B) - #Rinascimento e #filologia:"#Erasmo non ha ancora scritto il suo #Elogiodellafollia [pubblicato nel 1511], #Lutero non ha ancora affisso le sue #tesi" [rese pubbliche nel 1517], #AntonioFerrariis, il #Galateo, dona nel 1510 a #GiulioII un esemplare greco della #DonazionediCostantino.
C) - #DANTE2021 #RINASCIMENTO #OGGI. Svegliarsi dal #sonnodogmatico, accogliere l’analisi di #LorenzoValla (https://it.wikipedia.org/wiki/Donazione_di_Costantino) e l’indicazione antropologico-politica dei #DueSoli
Federico La Sala
“M”: (DANTE, D’ANNUNZIO, E) MUSSOLINI. SULL’UTILITA’ E IL DANNO DELL’ARALDICA PER LA VITA...*
LA BONIFICA DELL’AGRO PONTINO E LO STEMMA DELLA CITTA’ DI APRILIA (25 aprile 1936). A BEN RIFLETTERE, SE SI CONSIDERA che “Il primo bozzetto acquerellato dello stemma del nuovo centro dell’Agro Pontino fu predisposto da Araldo di Crollalanza, presidente dell’O.N.C. (Opera Nazionale Combattenti), e erede di una famiglia di insigni araldisti che contribuirono tra la fine del XIX sec. e l’inizio del XX a un aggiornamento in Italia della scienza del blasone” e, ancora, che “un velato riferimento al nome del fondatore della Città sembra non mancare nello stemma. Esso è dato dalla disposizione delle rondini che non sembra affatto casuale. Infatti le rondini tracciano idealmente una lettera M maiuscola considerate insieme all’andamento perpendicolare dei fianchi dello scudo [...] Tale stratagemma del richiamo al nome di Mussolini era più esplicito nella prima versione dello stemma di Pontinia [...]. Un richiamo del genere si trovava anche nell’originario stemma di Sabaudia, nel quale campeggiava un’aquila caricata da uno scudo sabaudo e posata su tre monti che, per numero e disposizione, accennavano ad una lettera M” (cfr. don Antonio Pompili, “Lo stemma”, Comune di Aprilia, NON E’ IMPENSABILE CHE nel “gioco” dell’immagine elaborata da Araldo di Crollalanza sia presente una volontà di alludere a Dante (alla “M”, all’Aquila, del canto XVIII del Paradiso) e al contempo di inviare un “messaggio” al “primo duce”, a D’Annunzio (e al suo “Dantes Adriacus”).
* Nota a margine dell’articolo di Aurelio Musi, "Un caso letterario: M, l’uomo della Provvidenza", "L’identità di Clio", 5 Ottobre 2020.
Federico La Sala
DUE SOLI.
La Costituzione, la "Monarchia" di Dante, e la indicazione di Papa Francesco...
Pagare il tributo a Cesare «è un dovere»! Con la precisazione evangelica sulla necessità di pagare le tasse allo Stato (secondo la Costituzione della Repubblica italiana), Papa Francesco apre la strada a Dante -2021 e, insieme, a una comprensione più precisa e contestualizzata della "misteriosa" figura che "fece per viltade il gran rifiuto".
Federico La Sala
Uscire dal letargo (Dante), dall’orizzonte di Edipo (Freud)!
Dopo sette secoli dalla morte di Dante Alighieri non è forse giunta, infine, l’ora di chiarirsi le idee sulla "bella e beata" (Inf. 53), Beatrice, e sulla relazione evangelica del Figlio con la Madre ?! :
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE : UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA".
Federico La Sala
Inclusa est flamma, Ravenna omaggia Dante
Focus su celebrazioni del 1921, VI centenario morte del poeta
di Marzia Apice (Ansa, 27 agosto 2020)
RAVENNA, 27 AGO - I celebri sacchi di Gabriele D’Annunzio pieni di foglie di alloro e decorati da Adolfo De Carolis col motto "Inclusa est flamma" ("la fiamma è all’interno") in omaggio a Dante, a stabilire un parallelo tra la fiamma che ardeva sulla tomba del sommo poeta e la fiamma perenne che veniva custodita presso il santuario di Apollo a Delfi; il modello in bronzo del monumento di Dante a Trento, realizzato da Cesare Zocchi nel 1896; le opere del triestino Carlo Wostry (1865-1943), dal titolo Dante nella pineta e I funerali di Dante. E poi alcune firme, di personaggi illustri e comuni cittadini, lasciate come testimonianza durante la visita al sepolcro di Dante, tra cui gli autografi di papa Pio IX, che trascrisse dei versi danteschi ma non lasciò firma, e di quell’anonima signora fiorentina che chiese perdono al poeta per espiare la colpa di Firenze, quando, cinque o sei secoli prima, venne decretato il suo esilio dalla città natale.
Sono alcuni dei pregiati e originalissimi
pezzi - tra libri, manifesti, fotografie, dipinti, manoscritti e oggetti d’arte - che impreziosiscono la mostra "Inclusa est flamma. Ravenna 1921: il Secentenario della morte di Dante", a cura di Benedetto Gugliotta e organizzata dal Comune di Ravenna, dal MAR - Museo d’Arte della città di Ravenna e dalla Biblioteca Classense per celebrare i 700 anni dalla morte del sommo poeta.
La mostra, in apertura l’11 settembre alle 17 presso la Biblioteca Classense e prima delle tre che compongono il progetto espositivo "Dante. Gli occhi e la mente" (in programma da settembre 2020 fino a luglio 2021 presso il MAR, la chiesa di San Romualdo e la Classense), è a ingresso libero e resterà allestita fino al 10 gennaio: un’occasione non solo per rendere omaggio all’incommensurabile valore dell’opera dantesca, ma anche per ricordare una pagina della storia ufficiale (nazionale e ravennate), a sua volta legata a tante piccole storie particolari, ancora poco conosciute.
L’esposizione si configura come un accurato percorso di documentazione storica, che ha il suo fulcro nella rievocazione delle celebrazioni nazionali per il VI centenario dantesco del 1921, inaugurate l’anno prima proprio alla Biblioteca Classense alla presenza dell’allora Ministro della Pubblica Istruzione Benedetto Croce. -Come documenta la mostra, le celebrazioni del 1921 vennero precedute da altri momenti importanti: nel 1908 furono organizzate per esempio dalla Società Dantesca Italiana le "Feste dantesche", nel corso delle quali si ritrovarono a Ravenna rappresentanti di città e territori allora sotto la sovranità dell’Impero asburgico. Proprio in quell’occasione nacque la Cerimonia dell’olio, con la città di Firenze che offre l’olio destinato ad ardere nella tomba di Dante, sempre come atto simbolico per riparare alla decisione di mandare in esilio il poeta.
L’esposizione offre anche la possibilità di vedere riuniti per la prima volta insieme due esemplari (uno della Biblioteca Classense, l’altro della storica Casa editrice Olschki) della pregiata edizione celebrativa per i 50 anni dell’Unità d’Italia e a tiratura limitata (solo 306 esemplari) della Divina Commedia, accanto al manoscritto autografo del proemio, scritto da Gabriele D’Annunzio. Infine, tra i pezzi più importanti, anche il manifesto ufficiale del Secentenario, di grande formato (cm 200x150) recentemente restaurato ed esposto a Ravenna per la prima volta dopo il 1921, ottenuto grazie alla collaborazione con l’Archivio Chini di Lido di Camaiore (LU), custode della memoria di Galileo Chini (1873-1956), grande interprete italiano dello stile Liberty.
Nota:
STORIA, STORIOGRAFIA, E IMMAGINARIO: DANTE 1921.
D’Annunzio imbarca sulla sua Nave, la tragedia adriatica ("tragoedia adriaca") del 1905 (e film nel 1921), anche Dante Alighieri, con la sua Divina Commedia - Dantes Adriacus!
Federico La Sala
Interpretare la «Commedia»
Dante era anche un profeta?
di Claudio Giunta (Il Sole-24 Ore, Domenica, 12 luglio 2020)
«Dante, io credo, aveva avuto esperienze che egli riteneva di una certa importanza». Dopo tanto leggere e meditare, questa frase sempliciotta di un amatore, non di uno studioso, T.S. Eliot, finisce per essere quella che ancora definisce meglio, cioè con minor coefficiente di arbitrio, la singolare personalità artistica di Dante Alighieri.
Quali furono queste esperienze «di una certa importanza»? Ci fu l’innamoramento per una ragazza morta giovane, Beatrice Portinari, un innamoramento che Dante trasfigurò in una vicenda di miracolo e di redenzione; ci fu la condanna all’esilio, e vent’anni di contumacia con i pericoli e la miseria che questa portava con sé, dal 1301 alla morte nel 1321; e ci fu... Qui le cose si complicano, perché la terza esperienza è quella che si trova raccontata nella Commedia, e mentre le prime due sono state certamente reali, radicate nella biografia, questa è un’opera dell’immaginazione, benché il protagonista si chiami Dante e presenti la sua avventura ultraterrena non come un sogno ma come un avvenimento verificatosi nel mezzo del cammino della sua vita.
Non basta: all’interno di quest’opera d’immaginazione che si presenta come referto di un’esperienza reale Dante dissemina una serie di profezie che riguardano sia il destino del mondo dopo l’anno 1300, quando il viaggio ultraterreno ha luogo, sia il suo proprio destino. Non basta ancora: queste profezie appartengono in parte alla categoria che si definisce post eventum, vale a dire che il poeta annuncia o meglio fa annunciare a un suo personaggio, adoperando un verbo al futuro, eventi che si sono già verificati nel lasso di tempo che intercorre tra la data del viaggio di Dante e la scrittura del poema (per esempio: «Dopo lunga tencione / verranno al sangue e la parte selvaggia / caccerà l’altra con molta offensione»: questa resa dei conti tra Bianchi e Neri, vaticinata da Ciacco, ha già avuto luogo quando Dante scrive); ma in parte sono profezie reali, affidate a un futuro che Dante può solo immaginare, o meglio sperare, come quella relativa al riscatto della Chiesa dalla cattività avignonese e alla prossima vendetta di un «cinquecento diece e cinque», cioè di un imperatore, che Dante fa pronunciare a Beatrice nell’ultimo canto del Purgatorio.
A questo aspetto cruciale e complesso della Commedia, la sua dimensione profetica, è dedicato questo bel volume curato da Giuseppe Ledda. Il tema ha alcuni snodi quasi obbligatori, e tra l’altro, dal lato storico, il rapporto tra il profetismo dantesco e la predicazione di Gioacchino da Fiore, con i suoi riflessi sul pensiero di francescani spirituali (Pietro di Giovanni Olivi, Ubertino da Casale) che a Dante poterono essere familiari; dal lato storiografico, la verifica delle tesi di Bruno Nardi, il cui saggio Dante profeta, pubblicato nei primi anni Quaranta, ha riaperto la moderna discussione critica sull’argomento.
Il saggio di Sergio Cristaldi che apre il volume è una guida eccellente sotto entrambi gli aspetti (e in realtà molto di più perché la questione del profetismo viene calata da Cristaldi in una storia dell’interpretazione della Commedia dal Trecento ai giorni nostri dalla quale può imparare qualcosa anche il lettore esperto: tanto è vero che anche il riepilogo di cose note può riuscire illuminante, se il punto di vista dal quale si guarda è originale).
I saggi successivi si possono riunire in due famiglie, a seconda che studino la questione sotto il profilo generale, storico (Anna Rodolfi, che illustra i trattati profetologici del secolo XIII, con particolare riguardo per Tommaso d’Aquino), o approfondiscano il tale o talaltro aspetto del profetismo dantesco, con proposte inedite sulle possibili fonti (la Vita Mariae di Giacomo da Vitry, studiata da Francesco Santi), approfondimenti su intertesti già esplorati ma ancora potenzialmente ricchi di spunti (Niccolò Maldina e Paola Nasti sulla Bibbia, Giuseppe Ledda sui classici latini, Luca Azzetta sull’Epistola a Cangrande).
Il libro è pieno di dati e riflessioni interessanti, ed è un libro che parla di Dante - precisazione che può sembrare superflua, ma che superflua non è dal momento che gli studi danteschi degli ultimi anni, o decenni, sono spesso studi intorno a più che studi su: se ne esce dottissimi, ma sulle idee o sui versi di Dante non si è imparato granché. Qui no; e, tra tante questioni sottili che vi si discutono (a volte anche troppo sottili, a volte contro i dantisti bisognerebbe ritorcere Dante «Per apparer ciascun s’ingegna e face / sue invenzioni; e quelle son trascorse / da’ predicanti e ’l Vangelo si tace»), ne indico una che tanto sottile non è, e alla quale - lo dico con un po’ di vergogna - non avevo mai veramente pensato, o solo distrattamente: che, nella Commedia, Beatrice o Cacciaguida profetizzino si spiega, perché l’una e l’altro vedono il futuro nel «punto / a cui tutti li tempi son presenti» (Pd XVII 17-18); ma il dannato Ciacco? Il dannato Farinata? Perché mai, con quale giustificazione Dante fa loro dono della facoltà di prevedere il futuro? Rimando il lettore interessato al saggio di Anna Rodolfi (e naturalmente non conta, non conta mai, che la spiegazione sia del tutto convincente, conta aver posto bene il problema).
Che fine ha fatto Creusa? Un’esegesi drammatica
Speciale "Classical reception". In un affresco di Palazzo Ratta attribuito a Ludovico Carracci, al tradizionale gruppo di Enea in fuga da Troia si aggiunge la figura della moglie dell’eroe, rapita mentre dà l’ultimo saluto ad Ascanio. Così l’artista bolognese «colmava» il silenzio di Virgilio
di Ermanna Panizon (il manifesto, Alias, 09.08.2020).
Un uomo lascia la propria città in fiamme portando sulle spalle il padre e tenendo per mano il figlio. Immagine emblematica di pietas filiale, simbolo della rinascita di una nazione, il gruppo di figure composto da Enea, Anchise e Ascanio in fuga da Troia appartiene alla cultura figurativa europea; se volessimo tracciare la storia di questo tema attraversando le epoche, non dovremmo temere cesure nel nostro racconto: lo troviamo dipinto sui vasi greci a figure nere, modellato sulle lucerne in terracotta romane, delineato dal fine pennello dei miniatori medievali. Artisti eccelsi del Rinascimento e dell’età barocca, come Michelangelo e Bernini, hanno raffigurato la famiglia troiana in cammino, attirati dall’opportunità di cimentarsi con una composizione di figure complessa (difficili le pose dei personaggi e articolato il rapporto che li lega), varia (un giovane, un anziano, un bambino) e drammatica. Grazie alla sua forza iconica, quell’immagine dei tre profughi che vengono dall’est approdando infine in Italia è spontaneamente evocata dalla nostra memoria ogni volta che ci imbattiamo nelle fotografie delle famiglie che ai giorni nostri scappano a piedi dalle città bombardate del Vicino Oriente e si rivolgono all’Europa per avere rifugio.
Per quanto la Fuga di Enea sia il tema figurativo più diffuso tra quelli ispirati all’Eneide - un testo la cui fortuna non ha mai subito interruzioni -, molti artisti nel rappresentare questa storia si discostano dal testo di Virgilio e variano fra loro soprattutto nel modo in cui raffigurano il destino del quarto membro della famiglia troiana: Creusa, la prima moglie di Enea. -Un caso che merita speciale attenzione è l’affresco di Ludovico Carracci in Palazzo Ratta a Bologna, per almeno due ragioni: perché è un tesoro nascosto, come tanti in Italia, che versa in uno stato di conservazione precario; e perché il grande artista bolognese che ha ideato la composizione si è fatto qui portavoce di una lunga storia di esegesi del testo virigiliano e, allo stesso tempo, ha dato forma a questa tradizione secondo la sua personale sensibilità.
Solo di recente un affresco staccato, che si conserva in una sala di Palazzo Ratta a Bologna, è stato identificato con la Fuga di Ludovico Carracci di cui parlano le fonti seicentesche, un dipinto che decorava il camino di un’altra sala dello stesso palazzo e che si credeva perduto. Si tratta di un’opera della prima maturità dell’artista (databile al 1586) che già ne rivela il talento narrativo e la finezza nell’indagare le emozioni dei personaggi. La scena dipinta, che dobbiamo immaginare illuminata in controluce dai bagliori del fuoco acceso nel camino, è tra le più drammatiche versioni di questo tema: mentre Enea cammina a grandi falcate portando il padre su una spalla, il piccolo Ascanio e la madre si scambiano disperati un estremo saluto, perché Creusa è trascinata via da un uomo armato.
Non si è persa, è stata rapita
Qui apparentemente Ludovico ha risposto con la propria fantasia a una questione che il racconto di Virgilio lascia in effetti aperta: cosa accade ad Ascanio e Creusa quella notte, dal momento in cui escono di casa fino a quando Enea, giunto al punto di incontro concordato con gli altri fuggiaschi, si accorge dell’assenza della moglie? Il poeta può evitare di nominare Creusa nelle fasi centrali della fuga - narrata in prima persona dall’eroe a Didone durante il banchetto che fa da cornice al II libro del poema - e segnalare a un certo punto la sua sparizione, lasciando al lettore il compito di immaginare quando e come essa sia avvenuta. Ma l’artista figurativo, se vuole introdurre nella storia dipinta la parte della vicenda che riguarda la prima moglie di Enea, deve mostrare la figura di Creusa e ciò che le accade. Spesso i pittori hanno rappresentato la donna in cammino vicino ai famigliari; alle volte, per alludere alla sua scomparsa, Creusa è raffigurata qualche passo indietro rispetto agli altri, come se già stesse per perdere le tracce del marito. Ludovico propone una soluzione diversa: Creusa non si è persa, è stata rapita.
Anche se siamo di fronte a una variante piuttosto rara, altre opere figurative precedenti e successive all’affresco di Carracci mostrano la moglie di Enea presa di forza da un soldato. Una di esse, in particolare, offre la chiave per comprendere questa versione del racconto: è un piatto di maiolica urbinate di metà Cinquecento dipinto su disegno di Battista Franco. Da un lato mostra la famiglia di Enea in cammino e Creusa rapita, dall’altro reca l’iscrizione ‘I Coribanti a Enea rapir Creusa’.
Ma cosa c’entrano i Coribanti, ovvero i seguaci della dea Cibele? Per capirlo bisogna ritornare al testo del poema. Il racconto di quella fatidica notte non svela cosa sia successo a Creusa. Enea ricorda che, accortosi dell’assenza della moglie, ripercorre i suoi passi dentro le mura di Troia, finché il fantasma della donna gli appare per dissuaderlo a continuare la ricerca: per lui, dice l’imago di Creusa, il destino ha in serbo una nuova compagna e una nuova terra, mentre lei stessa non andrà schiava a un principe acheo «sed me magna deum genetrix his detinet oris (mi trattiene in queste regioni la grande Madre degli Dei)».
C’è chi, come Boccaccio, legge in queste parole una perifrasi per indicare la morte: la Madre degli Dei (ovvero la terra) mi trattiene in queste regioni (ovvero sono qui morta e sepolta). Non tutti gli interpreti del testo concordano con questa lettura, perché il verso è in effetti ambiguo. Sembra che il poeta abbia lasciato volontariamente indefinito il destino di Creusa.
L’aporia del testo virgiliano nel tempo si è trasformata, come sempre accade, in sorgente di dotte interpretazioni e nuovi racconti. Alcuni commenti di età umanistica, tra i quali quello di Cristoforo Landino, spiegavano così le parole di Creusa: la dea Cibele (nota anche come la Grande Madre), impietosita dal triste destino della donna, mandò i suoi ministri, i Coribanti, a rapirla perché restasse in Frigia come sua sacerdotessa.
Ecco dunque spiegata l’iconografia del dipinto di Ludovico. È la risposta a una questione lasciata aperta nel racconto di Virgilio, che ha sollecitato l’ingegno di generazioni di lettori attenti. L’esegesi ha offerto una risposta possibile, che una volta incontrata e immaginata dall’artista, come un seme germoglia in un nuovo racconto. L’artista infatti, per la natura stessa del suo linguaggio, non può accettare ambiguità nel testo che intende tradurre in immagini: non può cioè trascurare di decidere quale emozione attribuire alle figure che tratteggia, né come vestirle, né come muoverle nello spazio. Se vuole dipingere Creusa, deve anche stabilirne il destino.
Pittore degli affetti
Ora, nessuna delle opzioni che si presentavano a Ludovico Carracci in merito a questo particolare problema, si accordava meglio alla sua sensibilità di quella effettivamente scelta per Palazzo Ratta. Ludovico è un pittore degli affetti, sensibile a tutta la scala delle emozioni umane e specialmente portato a indagare e rendere in immagine le sfumature dell’animo femminile. -L’artista qui non si è accontentato di illustrare ciò che qualche colto lettore dell’Eneide (il cugino Agostino?) gli avrà suggerito in merito alla fine di Creusa, ma ha a sua volta ragionato sugli eventi traendone una visione del tutto originale. È frutto della fantasia del pittore l’idea del commiato straziante tra Ascanio e Creusa: come potrebbe in effetti un bambino perdere di vista la madre in una situazione di così grave pericolo, sembra aver pensato Ludovico, e come potrebbe una madre accettare di staccarsi dal proprio figlio piccolo? L’inconsapevolezza di Enea, che guarda l’osservatore negli occhi e continua a marciare, senza avvedersi di ciò che accade al suo fianco, intensifica il carattere drammatico della scena.
Vediamo qui all’opera non un mero illustratore ma un interprete del testo virgiliano, che ha impiegato i mezzi espressivi proprii della sua arte come strumenti di esegesi del racconto. Si auspica perciò che un dipinto di tale bellezza e importanza culturale sia presto sottoposto alle operazioni di restauro necessarie a restituirgli, per quanto possibile, il suo aspetto originale.
“Vita di Dante. Una biografia possibile” di Giorgio Inglese
Intervista di Letture*
Prof. Giorgio Inglese, Lei è autore del libro Vita di Dante. Una biografia possibile edito da Carocci: cosa sappiamo davvero di Dante Alighieri?
Il confronto fra i documenti d’archivio, le testimonianze e le pagine autobiografiche ci consegna un profilo sommario ma, nelle sue linee fondamentali, abbastanza sicuro. Sono note e certe le date di nascita (1265) e morte (1321), l’elezione al collegio dei priori del comune fiorentino (15 giugno-15 agosto 1300), l’inizio dell’esilio (1301/1302), le tappe principali del suo peregrinare: Verona (1303-1304), la Lunigiana (1306-1308 e forse 1314-15), il Casentino (1309-1310), Verona (1316-19) e infine Ravenna - dove il Poeta è sepolto. Il canone delle sue opere è solidamente costituito, con la sola eccezione di due poemetti, il Fiore e il Detto d’amore, e di un Accessus alla Commedia (accluso a una epistola a Cangrande della Scala) la cui attribuzione è controversa.
Quali sono le principali fonti documentarie intorno alla vita del sommo poeta?
Possediamo una ventina di documenti d’archivio in cui compare il nome di Dante, la maggior parte dei quali relativa alla sua attività nei consigli del comune fiorentino nel periodo 1295-1301. Sono anche attestati il suo matrimonio con Gemma Donati, stabilito nel 1277 e perfezionato con la maggiore età; la condanna a morte che lo colpì nel 1302; la partecipazione attiva al fuoruscitismo armato nel medesimo anno; il servizio presso i signori Malaspina, in Lunigiana nel 1306; l’esclusione dalle amnistie del 1311 e del 1315.
Quale fu la cronologia della stesura della Commedia?
Nelle sue Esposizioni del poema dantesco, databili al 1373-74, il Boccaccio riferisce la testimonianza di un presunto nipote del Poeta, Andrea Poggi (scomparso parecchio tempo prima, fra il 1322 e il 1334), secondo il quale i primi sette canti dell’Inferno, composti nel 1300-1301, sarebbero stati ritrovati ritrovati anni dopo fra le carte domestiche dell’esule e fatti pervenire al Poeta in Lunigiana, alla corte di Moroello Malaspina (quindi, nel 1306 o 1307): solo per la preghiera del marchese, Dante avrebbe allora ripreso la stesura dell’opera. Tuttavia lo stesso Boccaccio muove un’obiezione decisiva alla plausibilità del racconto, quando fa notare che il sesto canto contiene inequivocabili accenni a fatti del 1301-1302. Anche ammesso che i sette canti fossero stati scritti prima dell’esilio, sarebbero stati modificati dopo quella data, in una misura ovviamente indefinibile.
Nell’ordine contenutistico e concettuale delle opere di Dante, è invece probabile che l’ideazione e la stesura del poema coincida con l’interruzione del Convivio, tra l’estate del 1308 e i primi mesi del 1309, e sia sostanzialmente collegata alle aspettative di rinnovamento etico-politico generate dalla elezione di Enrico di Lussemburgo a Imperatore (6 gennaio 1309).Il fatto più recente esplicitamente riferito nella prima cantica è la morte dell’usuraio Gianni dei Becchi, prima metà del 1310 (canto XVII, vv. 72-73). Ma la “profezia” della eterna dannazione di papa Clemente V (canto XIX vv. 79-87) presuppone verosimilmente la morte di questi (20 aprile 1314), o almeno l’infelice conclusione dell’avventura imperiale di Enrico (morto in terra toscana il 24 agosto 1313), che Dante imputava anche alla slealtà del papa. In ogni caso, la prima cantica non può essere stata “chiusa” dal Poeta se non in una fase di raccoglimento letterario, successiva a quella dell’impegno politico e dottrinario (la Monarchia) a fianco di Enrico.
Quanto al Purgatorio, è probabile che Dante lo abbia tenuto aperto sul suo scrittoio fino all’estate del 1315, dato che poté inserirvi (XXIII, vv. 106-111) la “profezia” della battaglia di Montecatini (24 agosto), in cui l’esercito guelfo, messo in campo da Firenze e dagli angioini, fu sanguinosamente battuto da Uguccione della Faggiola. La composizione del Paradiso dovrebbe distribuirsi fra Verona (i primi venti canti, che includono l’alto elogio dell’ospite Cangrande della Scala) e Ravenna (gli ultimi tredici canti, che, racconta Boccaccio, furono trovati dopo la morte del Poeta, fra le sue carte, dal figlio Iacopo).
Quali vicende attribuite all’Alighieri sono in realtà leggendarie?
La tradizione pseudo-biografica riferita da Boccaccio registra due eventi che, se fossero testimoniati attendibilmente (e non lo sono), avrebbero un rilievo notevole: un viaggio di studi a Parigi, presso la Sorbona; una prima stesura del poema, avviata in latino e quasi subito abbandonata: un’epistola attribuita al monaco Ilàro ne riporterebbe i primi due versi (esametri) e mezzo.
Nel Suo testo, Ella disegna un profilo biografico di Dante basato sulle sue note autobiografiche: quali informazioni è possibile desumere direttamente dalle opere dantesche?
L’esile disegno che si ritrae dai dati documentari e da qualche testimonianza (come quelle, preziosissime, raccolte da Leonardo Bruni) prende sostanza storica e patetica grazie alle frequenti allusioni autobiografiche contenute nelle opere (sarebbe anzi più adeguato parlare di “dimensione” autobiografica che caratterizza l’opera di Dante, soprattutto Vita nova e Commedia, ma anche i trattati). Una vicenda importantissima come quella dell’amore per Beatrice è, ad esempio, del tutto priva di riscontri documentari (si sa solo che a Firenze, nel 1288, viveva effettivamente una Bice di Folco Portinari, moglie di Simone dei Bardi).
* Fonte: Letture.org
RICORDANDO IL “MISTICO” WITTGENSTEIN (“L’Io è il mistero profondo”, “e non dell’io in senso psicologico”, Quaderni 1914-1916) E LA MADRE-LINGUA CHE VERRA’...
Una nota a margine di "Letteratura e mistica" *
“[...] 3. Una sponda sicura per sostenermi in quest’operazione la trovo in una recente monografia di Massimo Stella, Madreparola (Mimesis, Milano 2017), nella quale l’autore si preoccupa di osservare le “risorgenze” della Musa fra modernismo europeo e antichità classica: scrive Stella: “[...] la Musa, come sappiamo, è illetterata; è orale, gestuale, corporea. Non sa e dunque non rispetta le regole convenzionali della lingua [...]. La sua è poesia, parole non langue [...] tantomeno conosce il gioco meticoloso della scrittura” (p. 42). Osservare le metamorfosi della Musa da un punto di vista storico-letterario significa andare al centro del problema della generazione poetica, guardandolo da una distanza prospettica insieme antica e nuovissima (e in questo, Madreparola si dà come strumento preciso e acuminato, uno di quei rari testi che, costruendo un nuovo paradigma, necessariamente obbliga il lettore a un generale ripensamento del letterario): problema dell’indagine è quindi rintracciare l’origine della letteratura come forma di memoria collettiva” (Francesca Caraceni, “Letteratura e mistica” , Nazione Indiana, 9 luglio 2020).
SOLO “UNA SPONDA SICURA”, QUELLA DELLA “PAROLE”, NON BASTA. Se la Musa “non rispetta le regole convenzionali della lingua [...] è poesia, parole non langue [...] tantomeno conosce il gioco meticoloso della scrittura”, COME PUO’ PORTARE ALLA SPONDA DELLA “LANGUE”, “al centro del problema della generazione poetica” e, al contempo, ” rintracciare l’origine della letteratura come forma di memoria collettiva”?! Non è, forse, meglio ri-tornare sugli storici passi fatti fino al corrente antropocene, ri-seguire le indicazioni dei “profeti” e delle “sibille” e, ri-evitando gli edipici scogli di Scilla e Cariddi, portarci con l’Ulisse di Dante e Joyce, nell’oceano cosmico (Keplero) di una creatività antropologica all’altezza del pianeta Terra? “Sàpere aude!” O no?!
*
Uscire dal letargo "teologico" e "filologico" e dalla notte «in cui tutte le vacche sono nere»! La mistica dell’Amore (Deus charitas est), o quella di "Mammasantissima" e di "Mammona" ("Deus caritas est")?! *
Spiritualità.
Mistica cristiana: le nozze di eros e caritas
I Meridiani pubblicano il primo di tre volumi dedicati alla mistica cristiana. L’incontro con Dio supera ogni limite, fisico e linguistico, e si configura come esperienza sensibile di un amore totale
di Rosita Copioli (Avvenire, mercoledì 1 luglio 2020)
La Mistica Cristiana (Mondadori, I Meridiani, pagine. LXXXVIII+1624, euro 70,00), è il primo dei tre volumi di una vastissima opera - estesa dalle origini ai nostri giorni - ideata dieci anni fa e curata da Francesco Zambon, su ’impulso’ di Pietro Citati. Questo libro, curato da Zambon con Marco Rizzi, Sabino Chialà, Boghos Levon Zekiyan, comprende la mistica tardogreca e bizantina, siriaca, armena, latina e italiana medievale; il secondo volume presenterà la mistica tedesca e fiamminga, francese, italiana moderna; il terzo la mistica iberica (spagnola, portoghese e catalana), inglese e americana, russa, svedese. Nessun progetto ha avuto la medesima ampiezza, né pari cura filologica e critica: nemmeno i Mistici occidentali curati da Elémire Zolla; e altre pregevoli sillogi sono parziali.
Le radici sono ebraiche - nel Cantico dei Cantici, il testo più ardente e complesso dell’amore umano e divino - e greche: nel Fedro e nel Simposio di Platone, dove la ricerca della conoscenza diviene quella del bene e del bello, l’intelletto sale verso il divino: la mente si unisce allo slancio erotico, la mania che porta all’estasi: invasa da una luce alla quale tenderà tutta la tradizione occidentale fino al Rinascimento, e oltre: da Plotino, per il quale la contemplazione è superiore all’azione poiché permette la visione del vero, a Proclo; da Apuleio a Tasso, i poeti barocchi, i romantici, Yeats, Ungaretti, Luzi, Milosz.
La potenza della vista interiore è previsione e profezia. Lo afferma già Esiodo, e poi Saffo e Platone, seguiti da sant’Agostino e Dante: il poeta sprofonda nella memoria bevendo l’acqua di vita di Oceano, e lascia che il soffio del dio spiri dentro di lui, investendolo del suo nume sconvolgente. «Entra nel petto mio, e spira tue / sì come quando Marsia traesti / de la vagina de le membra sue». È il solo modo per riceverne il barlume, per glorificarlo: «O divina virtù, se mi ti presti / tanto che l’ombra del beato regno / segnata nel mio capo io manifesti».
Il mistico ricapitola ogni passaggio del Verbo incarnato e dello Spirito Santo che permette - osano i più temerari - di diventare Dio, trascinando con sé l’intera creazione. La trasfigurazione, la passione, la morte sulla croce di Gesù, il suo corpo martoriato sono lo strumento-specchio per rivivere Gesù in anima-spirito-corpo, oltrepassando i ’sensi spirituali’. Francesco nutre nelle viscere il sole - Cristo. Dalle mani e dai piedi spuntano chiodi di carne, sul costato si apre la ferita di Cristo.
Angela da Foligno aderisce al Crocifisso con i sensi dell’eros totale: «Tu sei me e io sono te». La mente di Iacopone da Todi, «En Cristo trasformata, è quasi Cristo, /cun Deo conionta tutta sta devina». Chi osa tanto, non teme la sintassi, scardina ogni figura e senso. Se fa miracoli, sfida la gravità e si innalza dal suolo, come Doucelina di Digne, altri aboliscono gli intermediari con Dio nel linguaggio, come Caterina Fieschi: «Il mio Mi è Dio, io non conosco altro Mi che esso Dio mio».
I mistici non hanno paura di niente, né del pudore, né di “ardiri” che il volgo deride: come i patriarchi della Bibbia, variano la metafora del latte della sapienza, con una passione tenerissima. Nel II secolo in Siria, un’Ode di Salomone, e Clemente Alessandrino suggono i seni del Padre e le dolci mammelle di sposa di Gesù; nel X secolo Gregorio di Narek, autore di inni inarrivabili al Cristo glorioso, invoca «comunione che distilla latte»: siamo in Armenia, dove la teologia del sacerdozio di tutti i fedeli - i corpi sono templi e altari - renderà possibile il sacrificio dell’intero popolo: il “Martirio armeno”. Misakh Metzarents (1886-1908) ne è l’ultimo fiore: «Nella notte discende ancora il ruscello di luce, / una goccia di latte della tua santità divenuta un mare; / e vedi, o Madre di Dio, ecco sto diventando bambino».
Come diceva san Tommaso d’Aquino, la mistica è la Cognitio Dei experimentalis, che Jean Gerson esplica: «Theologia mistica est cognitio experimentalis habita de Deo per amoris unitivi complexum». Ma è la più abissale delle imprese gnoseologiche e amorose. Per la “teognosia” dell’ombra, che deriva da Plotino e si distanzia da seguaci di Gesù come Giovanni e Paolo, e Agostino, mai giungeremo a conoscere Dio. La sua trascendenza rispetto a ciò che è, e all’essere stesso, è superessentialis: Dio non può essere conosciuto, descritto, visto, nemmeno dagli angeli e dai santi. Di Dio non si può parlare né in forma positiva, né in forma negativa. Ma la forma negativa si avvicina di più al suo mistero. Lo si contempla tra luce e tenebra.
Scrive Zambon: «Anche nella vita beata, al termine del reditus di tutta la creazione nel seno del Verbo, Dio sarà conoscibile solo attraverso delle mediazioni, delle teofanie (in greco, “manifestazioni, immagini di Dio”)». La teofania segue i gradi della contemplazione, della deificazione (theosis), e coincide con l’unione mistica. Ricorre alle immagini, al loro fantasma, alla fantasia: l’“alta fantasia” di Dante. La docta ignorantia fa apparire Chi è superiore alla Luce come tenebra, caligine, nube: nella “notte oscura” di Giovanni della Croce.
Una rivoluzione accade in pieno XII secolo: Guglielmo di Saint-Thierry, Bernardo di Clairvaux, Aelredo di Rievaulx, Ivo, e Riccardo di San Vittore (di cui Zambon ha curato sapientemente i Trattati d’amore cristiani del XII secolo per Valla Mondadori) mostrano a quale fuoco di trasformazione può accendersi l’intelletto d’amore che guida fino a Dio, intrecciando eros platonico e caritas paolina. Come in Ildegarda di Bingen, il grande impeto d’amore dà le ali. Culminano la poesia della fin’amor dei trovatori, le storie di Tristano e Isotta, il romanzo cortese.
Con Beatrice davanti alla candida rosa dei beati, Bernardo invita Dante a fissare Dio, nel movimento rapidissimo che imprime al creato e a noi: la metamorfosi dell’anima in Dio, l’excessus mentis, avviene per opera divina in un solo istante: «ma già volgeva il mio disio e ’l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa, / l’amor che move il sole e l’altre stelle». Riccardo di San Vittore è il più ardito. Amore terreno e carità hanno la stessa fonte, ma la carità non è mite. Ha la stessa struttura, manifestazioni e gradi della passione violenta. I Quattro gradi della violenta carità gridano in Iacopone da Todi: «Amor de caritate, perché m’ài ssì feruto? / Lo cor tutt’ho partuto, et arde per amore».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus !!! O, meglio, che progetto!!!
Federico La Sala
Il poeta e l’interprete: storia di una passione dantesca
di Valentina Pagnanini (Il Chiasmo/Treccani, 29 giugno 2020)
Ufficialmente è stato al servizio del governo cinese, prima interprete, poi diplomatico, infine console, appassionato di scacchi nonché grande conoscitore della lingua e cultura cinese, coinvolto in iniziative militari segrete: l’effettiva professione di Eugenio Volpicelli ancora oggi resta un mistero.
È stato uno dei più grandi sinologi italiani, tra i primi ad aver diffuso la Divina Commedia in Oriente, coltivando la passione per Dante oltre l’attività diplomatica. È grazie a lui se nell’Ottocento in Cina iniziarono a circolare le prime traduzioni del poema dantesco, l’opera più rappresentativa della cultura italiana in Asia. A far luce su alcuni periodi oscuri della sua vita interviene il saggio di Eric Salerno, Dante in Cina: la rocambolesca storia della Commedia nell’Estremo Oriente, nel quale si ripercorrono i viaggi, le missioni diplomatiche e gli incontri politici di Volpicelli e della moglie Iside. Quello tra i due coniugi è stato un sodalizio affettivo e ideologico. Eugenio e Iside si sono sposati a Milano il 14 febbraio 1891, insieme hanno condiviso l’amore per Dante e per la patria, le missioni diplomatiche e i segreti di stato, nonché i viaggi, da Milano a Hong Kong, a Nagasaki e Macao.
L’interesse per Dante sorge in lui in giovane età. La formazione di Volpicelli è affidata all’Istituto Orientale di Napoli, un unicum organizzato sul modello del Collegio dei cinesi, che costituisce la base per la sua attività diplomatica. Qui egli studia con profitto la letteratura italiana e le lingue orientali, per primo ottiene «una borsa di studio offerta dall’Istituto asiatico. E agli esami finali del 1881 si posizionò ancora una volta in testa a lla classifica. Dieci decimi in persiano e arabo, lingua questa che fu incaricato di insegnare» riporta Eric Salerno. In quello stesso anno, appena diplomato, egli decide di abbandonare Napoli e di seguire il richiamo dell’Est.
Volpicelli si interessava ai complotti della diplomazia e alle strategie politiche, praticava l’arte della guerra sfidando gli alti ufficiali a scacchi e wei ch’i, un gioco molto praticato in Giappone come esercizio di tattica militare, «istruttivo nell’arte della guerra». Si appassiona a tal punto da pubblicare due articoli su di essi per il Journal of the North China Branch of the Royal Asiatic Society di Singapore. «L’oggetto del gioco di wei ch’i può apparire molto facile, eppure sarà sufficientemente difficile portarlo a termine. Si tratta di occupare più spazio possibile sul tavolo e di impedire all’avversario di fare lo stesso» scrive nel 1892 e continua: «l’interesse del gioco non è concentrato in un posto come con gli scacchi, intorno al re, ma è sparpagliato ovunque sul tavolo, in quanto ogni singolo posto ha un effetto ugualmente importante nel risultato del gioco e conta nel totale finale che rappresenta la posizione delle due parti alla fine della lotta». Per concludere il gioco, «tradotto in termini militari, più che dare scacco matto al re bisognava puntare alla conquista del territorio». In ventotto pagine di spiegazioni e illustrazioni Volpicelli forniva le prime istruzioni di gioco del wei ch’i in una lingua europea, l’inglese. Se in Cina «lo veneravano come esperto degli scacchi cinesi», in Italia «lo idolatravano come uno dei primi ad aver compreso e descritto la struttura della lingua cinese, tra i simboli e le tonalità più diverse».
Egli arriva in Cina sul finire del diciannovesimo secolo e trova un paese profondamente diverso rispetto ai suoi studi, in piena crisi e in balia di conflitti interni ed esterni. Il suo primo incarico inizia nel 1882 ad Amoy, l’attuale Xiamen, porto strategico per le esportazioni di tè nel corso del Novecento. Qui, Volpicelli risiede per un lungo periodo, alternando visite alla capitale e ad altre città d’interesse coloniale, e racconta con orgoglio di una sua impresa compiuta in quegli anni che gli valse un importante impiego. Egli riuscì a circumnavigare a nuoto l’isola di Kulangsu - chiamata anche l’isola dei pianoforti per la più elevata presenza dello strumento musicale - prova della sua intraprendenza e coraggio, nonché di virtù. L’episodio fu seguito dall’assegnazione di un nuovo mandato: si richiedeva la sua presenza come interprete nella missione imperiale cinese volta a ottenere un armistizio con la Francia per il comando del Tonchino. Volpicelli prese parte alla missione, coordinata dalle dogane dell’impero, e diede prova delle sue abilità dialettiche. «Ebbe diritto, in segno della gratitudine cinese, all’ordine del Doppio Dragone» nota Eric Salerno, Parigi invece «insignì Volpicelli della commenda del Dragone dell’Annam, creata ad hoc per chi aveva fornito assistenza durante le operazioni navali in quel settore del Sudest asiatico».
La sua fama era giunta ben presto anche in Italia, il suo volto si stagliava in primo piano sulle copertine delle riviste italiane, le sue imprese erano motivo di orgoglio e onore per il governo italiano. L’8 novembre 1885 è dedicata a lui la copertina Un mandarino italiano in Cina del settimanale L’illustrazione italiana dove appare un’immagine di Volpicelli, fotografato con un casco coloniale in testa, corredata dalla didascalia: «L’italiano Volpicelli e i plenipotenziari per la pace in Cina». L’articolo menzionava le missioni diplomatiche nel Tonchino e in Corea, alle quali aveva partecipato Volpicelli come interprete e mediatore degli interessi italiani, ottenendo per i suoi servizi una commenda cinese:
La carriera di Volpicelli però non fu sempre costellata da riconoscimenti e onorificenze. Ci furono anche momenti bui, periodi di sospetti, critiche e accuse che coinvolsero Volpicelli in intrighi diplomatici. In Gran Bretagna c’era molta attenzione al modo in cui circolavano le informazioni e venivano diffuse le notizie, soprattutto nell’ambiente diplomatico. Volpicelli, d’altro canto, si interessava a questioni appartenenti non soltanto alla sua sfera di competenza, ma dava suggerimenti anche in altri ambiti, come nel campo militare, consigliando con perizia strategie e nuove mosse, tattiche da esperto giocatore di scacchi e wei ch’i. Fu proprio questa sua curiosità a procurargli degli inconvenienti politici. Se nel 1885 Eugenio Volpicelli era ritenuto degno di una delle più alte onorificenze cinesi e stimato in tutta Europa, trent’anni dopo, nel 1914 per l’esattezza, il suo operato non era più ben visto in Occidente e fu in breve tempo allontanato dalla sfera pubblica. Abbandonati gli incarichi ufficiali, egli si dedica alla lettura e alla scoperta dell’opera di un grande poeta e scrittore, viaggiatore esiliato come lui dai pubblici offici: Dante Alighieri.
Come sottolinea il filosofo Aijaz Ahmad in Orientalismo e dopo (2009), «Dante è la figura centrale attraverso cui si possono gettare dei ponti fra l’Antichità e la modernità», questo perché, secondo la definizione dell’orientalista Edward W. Said, «la forza poetica di Dante contribuisce a intensificare e generalizzare questa prospettiva [Orientalista] dalla quale l’Oriente è contemplato». Volpicelli avrebbe condiviso la passione per il poeta fiorentino con suo cugino Francesco Torraca, celebre commentatore della Divina Commedia, che nei primi anni del Novecento era professore di letteratura comparata all’Università Federico II di Napoli. La passione per il sommo poeta lo accompagnò sin dagli inizi, già a Napoli da studente era solito frequentare salotti rinomati nei quali veniva letto Dante.
Oltre l’attività di «interprete, diplomatico, storico e forse qualcos’altro, [Eugenio] si servì di una penna brillante per raccontare momenti importanti della sua avventu ra in Oriente e per spiegare ad altri diplomatici, ministri, re e principi, e poi alla gente comune, la realtà di quel mondo», di quella stessa penna si servì anche, e soprattutto, per tradurre Dante e farlo conoscere al pubblico cinese. «L’autore della Commedia fu sempre nel cuore e nella mente del nostro console generale» racconta Salerno.
L’amore per Dante era nato in Volpicelli da studi e ricerche, letture appassionate e ancora ricerche, Eugenio si era interessato alla vita del poeta in alcuni anni così simile alla sua, una carriera trascorsa al servizio del potere pubblico oscurata da false accuse di corruzione, l’allontanamento dalla propria patria più o meno forzato, la passione per i viaggi e le infinite peregrinazioni. Dante scrive: «Voi credete forse che siamo esperti d’esto loco; ma noi siam peregrin come voi siete», e anche Volpicelli, in definitiva, fu un pellegrino. Confrontando l’Alighieri e il Volpicelli, si notano molti punti di contatto tra le due esperienze biografiche: due uomini politici, il letterato e l’interprete, entrambi orfani fin da giovani, ma con una vasta rete di amicizie, i loro anni migliori spesi tra l’otium litterarum e il negotium. Dal 1319 al 1321 anche Dante era stato ambasciatore, a Venezia, al servizio del signore di Ravenna Guido da Polenta. Comune anche l’interesse per le strutture della lingua, italiana per il poeta, cinese per il console, e per i numerosi dialetti coesistenti, alla ricerca di una lingua comune.
Nel 1942, è Anna Silvia Bonsignore, giornalista per L’Ambrosiano milanese di Umberto Notari, che nell’elzeviro Sull’italiano creato mandarino racconta all’Italia della passione dantesca di Volpicelli e segnala anche un suo viaggio in Cina alla ricerca di Dante. Volpicelli riscontra delle «similarità tra la carriera di Dante e quella del grande saggio cinese Confucio», al punto tale da intraprendere una traduzione della Commedia in lingua cinese. Egli aveva ritrovato nei testi filosofici cinesi echi del poema dantesco, che si traducevano in raffigurazioni, simboli e descrizioni strettamente legati alla Commedia. Si legge da un originale autobiografico del diplomatico:
Esattamente un secolo fa, in Cina, Eugenio Volpicelli rivelava al mondo la sua passione per l’opera dantesca, celebrando l’amore di Dante per Beatrice proprio nel ventottesimo anniversario del suo matrimonio, simbolo del duplice legame, affettivo e letterario, che lo univa indissolubilmente al sommo poeta.
Per saperne di più:
Si consiglia la lettura del saggio di Eric Salerno da cui sono tratte le citazioni dell’articolo: Eric Salerno, Dante in Cina: la rocambolesca storia della Commedia nell’Estremo Oriente, Il Saggiatore, Milano, 2018. Per approfondire il processo di divulgazione della Divina Commedia in Oriente si propone la lettura dei contributi di Federico Masini: Una “Divina Commedia” cantonese, in Mondo Cinese, n.73, a. 1991, pp. 27-48 e La Divina Commedia in lingua cinese a Ravenna, in Mondo Cinese, n.98, a. 1994; sui rapporti storico-letterari tra l’Italia e la Cina, si suggerisce il volume di Giuliano Bertuccioli, Federico Masini, Italia e Cina, Laterza, Bari, 1996. Sull’orientalismo si propongono i testi: E. W. Said, Orientalismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1991; A. Ahmad, Orientalismo e dopo, in M. Mellino (a cura di), Post-orientalismo, Meltemi, Roma, 2009.
Celebrazioni. Nel 2021 cadono i 700 anni della morte del poeta. Oltre 300 i progetti programmati in Italia e nel mondo, con al centro la «Commedia»
L’Alleluja eterno di Dante
di Carlo Ossola (Il Sole-24 Ore, Domenica, 19.04.2020).
Abbiamo appena celebrato i 500 anni dalla scomparsa di Raffaello (6 aprile), e già s’annunciano i 700 anni dalla morte di Dante (1321), preceduti dall’aver posto in calendario l’annuale “giorno di Dante” al 25 marzo, giorno dell’Annunciazione, e inizio a Firenze, all’epoca di Dante, dell’anno civile.
Il tempo pasquale è propizio a ricordare che l’iter della Divina Commedia si svolge, nella finzione del poema, nella settimana santa del 1300, anno del Giubileo. È dunque, eminentemente, un poema di Resurrezione e Dante stesso, al sommo del Purgatorio, descrive in una luminosa terzina il gaudio a venire dei risorti: «Quali i beati al novissimo bando / surgeran presti ognun di sua caverna, / la revestita voce alleluiando » (XXX, 13-15).
Nel nome del realismo, il secolo XIX, e in particolare Francesco De Sanctis, ha celebrato la cruda materia dell’Inferno, riscattato in amore e dignità dai canti di Paolo e Francesca e di Ulisse. I grandi scrittori del Novecento hanno preferito il Purgatorio, il «dolce color d’orïental zaffiro», così caro a Borges (Sette notti), o il Paradiso dell’esilio dolorosamente rimeditato da Mandel’štam: «Dall’alto di scale inumane / Davanti a palazzi tutti spigoli, / Alighieri poteva cantare / più intensamente la sua Firenze / con la labbra riarse» (Quaderni di Voronej, 1935-1937); o quello tellurico, e cosmico, descritto da Saint-John Perse, il poeta di Anabase e di Exil, nel commentare l’incipit del canto II: «O voi che siete in piccioletta barca, / desiderosi d’ascoltar, seguiti / dietro al mio legno che cantando varca», così chiosando: «Non si era più intesa una voce siffatta dall’antichità latina. Ed ecco che questo canto non è più reminiscenza, ma creazione reale, e come un canto d’alveare che sciama verso l’Ovest, con il suo popolo di Sibille. [...] Poesia, ora dei grandi, cammino d’esilio e d’alleanza, lievito dei popoli forti, e levarsi degli astri presso gli umili» (Per Dante, 1965). Sì, Dante non è più, o solo, «reminiscenza» (anche se andrebbe sempre studiato a memoria), ma è futuro, per il XXI secolo: «È assurdo leggere i canti di Dante senza attrarli verso l’attualità. Essi sono fatti per questo. Sono dei proiettili lanciati per cogliere l’avvenire. Esigono un commento in futurum » (Mandel’štam, Conversazione su Dante).
Le celebrazioni del prossimo anno hanno suscitato un grande fervore: al Comitato nazionale per le Celebrazioni dantesche, istituito dal ministro Dario Franceschini, sono pervenuti oltre 300 progetti, da tutta Italia, dall’Europa, dall’America latina, dagli Stati Uniti; iniziative che toccano tutte le arti, la musica, il teatro d’opera e di parola, i Musei, gli Archivi, le città di Dante, le Accademie, le Università, le scuole.
Dante è veramente, come voleva Ezra Pound, everyman, ciascuno di noi; nello scorcio del XX secolo la voce di Carmelo Bene, di Vittorio Sermonti, di Vittorio Gassman, e soprattutto di Roberto Benigni, ha portato la Commedia sullo schermo televisivo e nelle piazze; Dante è davvero “popolare”: ci si può compiacere, ove questo non significhi recitarlo per via un giorno all’anno e perderne la lettura - lettura integrale del poema - nelle scuole.
In questo senso Dante è specchio fedele del nostro tempo: la maggior parte dei progetti presentati riportano Dante allo spettacolo, alla scena; o a una miriade di convegni a venire, propri dell’opificio accademico. Dante non è tuttavia un poeta della festa, ma dell’esilio, dei destini ultimi dell’umanità: Dante non si compiace mai dell’indugio (tranne un istante con Casella), corre al “fine ultimo”, con ansia e con sete: «[nel poema] le immagini si separano e si danno addio. È duro ascendere le balze dei suoi versi, colmi di addii» (ancora Mandel’štam).
Dante è un poeta in futurum: attenderà, finita questa pandemia, noi, al chiuso ora, guidandoci con la mansueta dolcezza dei suoi versi: «Come le pecorelle escon del chiuso / a una, a due, a tre, e l’altre stanno / timidette atterrando l’occhio e ’l muso; // e ciò che fa la prima, e l’altre fanno, / addossandosi a lei, s’ella s’arresta, / semplici e quete, e lo ’mperché non sanno; // sì vid’io muovere a venir la testa / di quella mandra fortunata allotta, / pudica in faccia e ne l’andare onesta» (Purgatorio, III, 79-87).
È un poema infinito, e che tuttavia si chiude: « A l’alta fantasia qui mancò possa; / ma già volgeva il mio disio e ’l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa, // l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Paradiso, XXXIII, 142-145; il compito del poeta termina; a colui che ha fatto il cammino di Croazia per vedere il volto di Cristo impresso nel velo della Veronica, la Grazia concede che desiderio e volontà infine si appaghino e si riducano a un solo ordine universale, come splendidamente annota il Tommaseo: «Fantasia: La visione delle cose celesti rende inutile la fantasia, che fa luogo al puro intelletto. Volgeva: Dio volgeva con libero equabile tranquillo moto, soddisfatti, il mio desiderio e l’amore».
Si chiude infine la lunga battaglia della tentazione, del contendere del Bene e del Male, in quel velle redento, che era stato avvolto nei vincoli e nelle insidie del Maligno, secondo le Confessioni di Agostino: «Velle meum tenebat inimicus» (VIII, 10).
Il poema va letto nell’asprezza di questo ruvido certame: due cantiche su tre (Inferno e Purgatorio) parlano di pene: eterne o redimibili; il Paradiso terrestre è vuoto; anche nel Paradiso Dante è costantemente interrogato (sulla fede, speranza, carità), rivelato dall’avo il destino d’esilio, lontanando infine nella gloria anche Beatrice. Ma quel velle placato è pur la fine del trionfo del Dies irae: «Dies irae, dies illa, / Solvet seclum in favilla,/ Teste David cum Sybilla», poiché ora la Sibilla e le sue sentenze si sciolgono per sempre: «Così la neve al sol si disigilla; / così al vento ne le foglie levi / si perdea la sentenza di Sibilla» (Paradiso, XXXIII, 64-66).
Solo alcuni grandi scrittori del Novecento hanno inteso questo “petroso” agone del poema; vorrei ricordare su tutti Flannery O’Connor che al culmine del suo Diario di preghiera si affisa su quella soglia, di grazia e di tormento, che è l’ingresso del Purgatorio, descritto da Dante con crudo espressionismo: «Là venimmo: e lo scaglion primaio / bianco marmo era sì pulito e terso, / ch’io mi specchiai in esso qual io paio. // Era il secondo tinto più che perso, / d’una petrina ruvida e arsiccia, / crepata per lo lungo e per lo traverso» (IX, 94-99).
Flannery O’Connor non sceglie il primo gradone, lo specchiarsi di una coscienza lacrimata e detersa; si inginocchia, con Dante, sul secondo, nel triturarsi della contritio smarrita di fronte alla parete, come di sangue, che «sopra s’ammassiccia». Della Commedia soltanto questo la urge, questa carcerazione che scarnifica: «Chiedi / umilmente che ’l serrame scioglia» (ivi, 107-108). Per poi confessare, vera lettrice di Dante e della sua scarna oltranza: «Io vorrei essere una mistica, e anche subito. Nonostante ciò, caro Dio, concedimi un posto, per piccolo che sia, e fa che io lo rispetti. Se fossi quella cui compete di lavare ogni giorno il secondo gradone, fammelo sapere, e fa che io lo lavi con un cuore traboccante d’amore» (Diario di preghiera, nota del 25 settembre [1946]).
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Carlo Ossola presiede il Comitato nazionale per le celebrazioni di Dante, 2021, ed attende (con Luca Fiorentini, Pasquale Porro, Jean-Pierre Ferrini, Stéphanie Vermot) all’edizione bilingue «Pléiade» della Divina Commedia
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LE INIZIATIVE E LA NUOVA EDIZIONE COMMENTATA DEGLI SCRITTI
«Lectura Dantis» a Roma. Per il settimo centenario della morte di Dante (settembre 2021) si stanno progettando iniziative, spettacoli (a Pompei), mostre, convegni (anche online). Prosegue la nuova edizione commentata degli scritti del poeta per l’Editrice Salerno: in autunno uscirà il volume VII/2 con le Opere già attribuite a Dante; in primavera ’21 è previsto il Convivio e l’Inferno per novembre ’21. L’edizione dei Commenti danteschi, sempre da Salerno, vedrà quello alla Commedia di Pietro Alighieri (autunno ’20) e di Bernardino Daniello (primavera ’21). Sul sito casadidanteinro ma.it (in foto, la casa a Roma) ci sono le registrazioni degli incontri avvenuti e i programmi futuri della «Lectura Dantis» romana che, ora fermata dal virus, si svolge la domenica alle 11: mai interrotta dal secondo dopoguerra. Inoltre ricordiamo di Giulio Ferroni, L’Italia di Dante. Viaggio nel paese della Commedia (La nave di Teseo, 2019): è un repertorio con tutti i luoghi del poema.
L’ORAZIONE SULLA DIGNITA’ DELL’UOMO - A UNA DIMENSIONE.
Da Giovanni Pico della Mirandola* a Herbert Marcuse** e ...
CARO ARMANDO, PER IMPARARE "a vivere meglio senza lasciarci condizionare dalla paura della morte, cioè dalla religione, qualunque essa sia", CREDO CHE SIA NECESSARIO riconsiderare il problema di "come nascono i bambini" (a tutti i livelli)! Hai ragione: "Non possiamo permetterci, con le Sibille, Maria Vergine, Cristo come dio, Maometto ed altre favolette l’illusione di un altro Messia"! Ci siamo addormentati nella tradizione cattolico-costantiniana e illuministica acritica (contro Kant), e abbiamo finito per "concepire" noi stessi e noi stesse secondo la bio-logia e l’andro-logia “unidimensionale” dell’omuncolo!
L’«ECCE HOMO» di Ponzio Pilato, al contrario!, ci dice proprio questo - la fine delle "favolette" e di ogni "illusione di un altro Messia". Il discorso è di diritto e di fatto, romanamente universale, vale a dire, antropologico (non limitato all’«omuncolo» di qualche "uomo supremo" o “superuomo”!):
SE SIAMO ANCORA CAPACI DI LEGGERE, COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA LEZIONE DI PONZIO PILATO?! Non è una lezione critica contro i "sovranisti" laici e religiosi di ieri e di oggi?!
Che vogliamo fare? Continuare a riportare noi stessi e noi stesse davanti a Pilato e ripetere da scemi e da sceme la stessa scena, riascoltare il suo "Ecce Homo" e non capire una "H" (acca)?!
P.S. - RICORDANDO ... GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA.
CULTURA, CDM ISTITUISCE 25 MARZO GIORNATA DI DANTE
Franceschini: Dante rappresenta unità nazionale, ogni anno scuole saranno protagoniste del Dantedì
Il consiglio dei ministri, su proposta del ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo, Dario Franceschini ha approvato la direttiva che istituisce per il 25 marzo la giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri.
“Ogni anno, il 25 marzo, data che gli studiosi riconoscono come inizio del viaggio nell’ aldilà della Divina Commedia, si celebrerà il Dantedì. Una giornata per ricordare in tutta Italia e nel mondo il genio di Dante con moltissime iniziative che vedranno un forte coinvolgimento delle scuole, degli studenti e delle istituzioni culturali. A un anno dalle celebrazioni dei 700 anni dalla morte di Dante - ha aggiunto Franceschini - sono già tanti i progetti al vaglio del Comitato per le celebrazioni presieduto dal prof. Carlo Ossola. Dante - ha concluso Franceschini - ricorda molte cose che ci tengono insieme: Dante è l’unità del Paese, Dante è la lingua italiana, Dante è l’idea stessa di Italia”.
La proposta della giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri oltre ad essere oggetto di diversi atti parlamentari aveva raccolto l’adesione di intellettuali e studiosi e di prestigiose istituzioni culturali dall’ Accademia della Crusca, alla Società Dantesca, alla Società Dante Alighieri, all’ Associazione degli Italianisti alla Società italiana per lo studio del pensiero medievale.
Ufficio Stampa MiBACT
PER I 700 ANNI DALLA MORTE DI DANTE.... *
Dante, l’appello di Franceschini alle imprese
"Poste finanzia, altri li seguano". La Rai rilanci all’estero
(ANSA) - ROMA, 10 GEN - "Grazie a Poste Italiane, che hanno offerto il loro sostegno per le celebrazioni, nel 2021, dei 700 anni dalla morte di Dante", ma "vorrei che quello di Poste fosse un esempio per le altre imprese italiane che non si possono sottrarre a fare qualcosa per Dante". Il ministro di Cultura e Turismo Dario Franceschini presenta a Roma, insieme con il presidente del Comitato per i 700 anni dalla morte di Dante, Carlo Ossola e con la presidente Maria Bianca Farina e l’ad Matteo Del Fante di Poste Italiane un progetto di valorizzazione che coinvolgerà decine di comuni italiani (70 al momento ma potrebbero diventare di più) e approfitta per lanciare un appello al mondo delle imprese: "Dante è di tutti - dice - tutte le nostre imprese quando vanno all’estero hanno dietro il supporto dell’Italia e Dante per noi italiani è identitario.
Tutti dovrebbero fare qualcosa". E aggiunge: "Vorrei vedere Dante sui treni, sui voli Alitalia, dappertutto". Non solo: "Vorrei che la Rai , so che ci sono ragionamenti aperti in questo senso, producesse cose da far circolare non solo in Italia ma nel mondo". Un appello, quello del ministro Pd, rivolto in ultima analisi al Paese a tutto tondo: "Dante è di tutti, è identitario, coinvolge, è stato anche uno dei primi ad aver parlato di Europa. - sottolinea il capo delegazione Pd al governo - Celebrare i 700 anni dalla sua morte è lavorare per l’unità e il nostro Paese ha molto bisogno di unità. E’ anche orgoglio e il Paese ha bisogno di orgoglio". (ANSA).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DELLA LINGUA E DELLA POLITICA D’ITALIA. DANTE: L’UNIVERSALE MONARCHIA DEL RETTO AMORE ("charitas"). Per una rilettura del "De Vulgari Eloquentia" e della "Monarchia"
Federico La Sala
USCIRE DALLA CAVERNA E DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE COSMO-TE-ANDRICA PLATONICA. Materiali sul tema... *
Veder le stelle con gli occhi di Dante
Fisici, cosmologi, poeti, scrittori, teologi e mistici sono da sempre affascinati dalla “scienza stellare” dantesca: lo ricorda l’inglesista Tracy Daugherty in un nuovo saggio
di Gianni Vacchelli (Avvenire, mercoledì 18 dicembre 2019)
Dante ci sorprende sempre e ci spiazza, anche quando crediamo di averlo incasellato, almeno su un aspetto. Così potremmo pensare che la sua astronomia sia realmente irricevibile e superata. Ad esempio per il grande poeta Thomas Eliot, anche acuto dantista, come tutti sappiamo, «non è essenziale che la quasi inintelligibile astronomia di Dante sia capita ». Eppure non è così. E se forse l’accademia riserva in genere una rispettosa ma un po’ distaccata attenzione alla “scienza stellare” dantesca, fisici, cosmologi, oltre che poeti, scrittori, teologi e mistici ne sono da sempre affascinati. Soprattutto oggi gli uomini di scienza. Ce lo ricorda anche l’americano Tracy Daugherty, professore emerito di Inglese all’Oregon State University, nonché romanziere, nel suo recente e interessante saggio Dante and the Early Astronomer [Dante e la Prima Astronoma] ( Yale University Press).
In verità il libro di Daugherty, come si evince anche dal sottotitolo “Scienza, avventura e una donna vittoriana che aprì i cieli”, è sì dedicato a Dante ma insieme all’astronoma Mary Acworth Evershed (conosciuta pure come M.A. Orr, col cognome da nubile, prima di sposare John Evershed, importante astronomo lui stesso).
Mary è una donna inglese, nata nel 1867. Amava la poesia e il cielo stellato, e un viaggio in Italia all’età di 20 anni, a Firenze e a Ravenna, fu fondativo per la sua ricerca: decise così di studiare attentamente tutti i riferimenti astronomici nella Commedia di Dante, che arriverà a leggere in italiano. E nel 1913 Mary, con il cognome di Orr, pubblicò il suo importante studio Dante and the Early Astronomers, troppo presto dimenticato e che sarebbe utile riscoprire e tradurre in italiano. Nonostante il modello tolemaico di Dante fosse totalmente superato, Mary ammirò «la fedeltà dantesca agli insegnamenti dell’astronomia come l’aveva imparata dai suoi maestri», «la fantastica precisione dentro una struttura chiara» nel descrivere i fenomeni celesti. Per lei «il Poeta possedeva l’istinto e le attitudini di un ricercatore scientifico: una mente irrequieta, un abito di attenta osservazione».
Studiosa dei crateri lunari e delle macchie del sole, che «Dante aveva riconosciuto tre secoli prima che venissero scientificamente rilevate», Mary rimase affascinata anche da come Galileo, che stava aprendo all’umanità una nuova immagine di universo, rimanesse fedele alla retorica, all’immaginazione, ai ritmi danteschi. Le sue descrizioni del sole nelle Lettere sulle macchie solari echeggiavano le discussioni astronomiche di Beatrice in Paradiso II, sulle macchie lunari. Per la Evershed «Galileo considerò sempre Dante un pari, e la sua maestria artistica un modello... per lui la Commedia non era un cimitero di teorie astronomiche scartate, ma un prologo poetico a future scoperte». Allo stesso modo anche lei «seguì le tracce dell’universo di Dante, afferrò l’uso da parte di Galileo dell’arte di Dante per far avanzare le sue nozioni scientifiche e partecipò alla rivoluzione mentale che espanse l’esistenza e la conoscenza nel modo in cui Einstein - e Dante - predissero che sarebbe accaduto».
E in effetti il libro di Daugherty accenna in più parti ad una seconda e in qualche modo diversa linea di ricezione delle idee astronomiche del Poeta. Se la Evershed, con Galileo prima di lei, ha ammirato la coerenza e l’accuratezza “scientifica” del dettato dantesco, pur nel paradigma tolemaico non più accettabile, oggi molti «scrittori come il matematico Mark A. Peterson, lo storico della scienza Edward Grant e lo storico William Egginton hanno sostenuto in modo persuasivo che le concezioni medievali di Dante sulla forma dell’universo sembrano agli astronomi contemporanei sorprendentemente preveggenti». Dante insomma avrebbe «inventato un nuovo spazio topologico, la 3-sfera, o ipersfera», come scrive il citato Peterson in una sua analisi del 1979. In qualunque caso, una cosa è certa: la rappresentazione grafica del cosmo dantesco, ancora largamente accettata e quasi onnipresente su tutte le antologie scolastiche, con la terra al centro, i nove cieli intorno e l’Empireo sopra tutti, per lo più rappresentato come una sorta di “buffo cappellino” all’intero universo dantesco, è inaccettabile, testo di Dante alla mano.
Basta rileggere due complessi ma splendidi passi paradisiaci. In Paradiso XXVII, 106ss., Dante spiega la natura del Primo Mobile, la prima e più esterna delle sfere cosmiche ruotanti attorno alla Terra in base al modello geocentrico dell’universo, da cui trarrebbero origine il moto e il tempo. E scrive: «Luce e amor d’un cerchio lui comprende, / sì come questo li altri; e quel precinto / colui che ’l cinge solamente intende» (Pd XVVII, 112-114). Qui il Poeta sembrerebbe descrivere l’Empireo come un’ultima realtà capace di cingere il Primo Mobile e tutti gli altri cieli a seguire. Eppure nel canto successivo, Paradiso XXVIII, 16ss., avviene qualcosa di straordinario: Dante vede al centro dell’universo non la terra bensì un punto luminosissimo, il cui splendore non può essere sostenuto da occhi umani: «un punto vidi che raggiava lume / acuto sì, che ’l viso ch’elli affoca / chiuder conviensi per lo forte acume» (Pd XXVIII, 16-18). Il mistero divino è adesso centro dell’universo, «da quel punto / depende il cielo e tutta la natura» (vv.41-42), ed è come se il Poeta scorgesse «un altro universo», rovesciato e fatto, ugualmente, di nove cerchi concentrici, sede delle gerarchie angeliche ruotanti intorno a Dio.
È a partire da questi passi danteschi che il fisico rumeno Roman Patapievici, nel suo prezioso e oggi introvabile libretto Gli occhi di Beatrice ( Bruno Mondadori 2006), scrive: «L’immagine allo specchio è simile a quella reale, solo che è invertita. Il mondo invisibile diventa allora un calco rovesciato del mondo visibile: l’Empireo è Dio-centrico mentre la Terra è diavolo-centrica... l’invisibile obbedisce a norme opposte rispetto al visibile. Per spiegare queste simmetrie non resta che concepire l’universo visibile (con al centro la Terra) e l’Empireo (con al centro Dio) come due sfere che hanno in comune la superficie, cioè il “Primo Mobile”: il che equivale appunto a una ipersfera, oggetto della geometria di Riemann adottato da Einstein per descrivere l’universo nella relatività generale ». Su questa intuizione tornano recentemente anche due fisici italiani, Marco Bersanelli, nel suo Il grande spettacolo del cielo (Sperling & Kupfer 2016) e Carlo Rovelli in Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza ( Corriere della Sera 2018), che loda la «straordinaria intelligenza, anche matematico-scientifica» di Dante.
Questa ipotesi in verità ha una storia lunga e viene fatta risalire al matematico svizzero Andreas Speiser, che ne scrisse nel 1925, ripreso appunto poi da Mark Peterson, dall’astrofisico svizzero Bruno Binggeli e infine da Patapievici. Per altro già nel 1922 Pavel Florenskji in un breve e densissimo scritto, Gli immaginari in geometria, aveva sostenuto, a partire dalla “piroetta” effettuata dal Dante-personaggio in If XXXIV al centro della terra, che la concezione dello spazio della Commedia è abbordabile solo con il sostegno teorico della relatività einsteiniana e della geometria non-euclidea. Per concludere sorprendentemente: «Squarciando il tempo, dunque, la Divina Commedia finisce inaspettatamente per trovarsi non indietro, ma avanti rispetto alla scienza nostra contemporanea ».
Eppure forse il punto è un altro, anche se le riletture della fisica e della matematica contemporanee sono importanti, e certo da approfondire in uno studio esaustivo. Perché Dante ragiona da un mythos diverso dal nostro e le sue “preveggenze” gli vengono da una visione mistica dell’esistente. Ecco allora che il mistero divino sarà insieme imprendibile sfera e centro concentrico della realtà, contenente e contenuto, trascendente e immanente, come recitava un folgorante aforisma del medievale Libro dei XXIV filosofi: «Dio è una sfera infinita, il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo».
La fisica contemporanea vi intravede un’iper-sfera. Sia. Per Dante la posta in gioco però è forse ancora più complessa: non solo ravvisare in tutto ciò il mistero divino, ma comprendere come la trinità Dio(Mistero)-Uomo-Cosmo sia in una relazione costitutiva e rappresenti tutta la realtà: non Dio, l’Uomo o il Cosmo da soli.
Potremmo ricordarci allora l’intuizione cosmoteandrica (cosmo-dio-mondo) del filosofo e teologo indocatalano Raimon Panikkar, che parlava anche di teofisica, «non tanto come “fisica di Dio”, ma come “del Dio della Fisica”, del Dio creatore del mondo, dove il mondo non è sentito in quanto autonomo, indipendente e diviso da Dio, ma costitutivamente connesso a Lui». L’ardore di Dante è stato quello di provare a tenere insieme queste dimensioni della realtà - misteriosa, umana e materiale - con tutti i saperi che aveva a disposizione, anche fallaci, limitati, scientificamente. È questo che ci attende oggi: mantenere viva e prolungare la tensione dantesca, aggiornandola all’altezza dei tempi. E le potenti preveggenze del Poeta sembrano guidarci, perché «poca favilla gran fiamma seconda».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’INCARNAZIONE AL DI LA’ DELL’ IMMAGINAZIONE "TE-ANDRICA" DEL CATTOLICESIMO-COSTANTINIANO: DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. Ipotesi di rilettura della "Divina Commedia".
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FLS
RIPARTIRE DA GRECCIO, DAL PRESEPE ... *
Papa. Francesco: «Domenica sarò a Greccio, vi invierò una lettera sul Presepe»
Domenica primo dicembre con l’avvio del tempo dell’Avvento il Papa invierà una lettera per far capire il significato del Presepe, da Greccio dove san Francesco diede vita al primo presepe vivente
di I.Sol. (Avvenire, mercoledì 27 novembre 2019)
"Domenica prossima inizierà il tempo liturgico dell’Avvento. Mi recherò a Greccio, per pregare nel posto" dove San Francesco realizzò il primo presepe "per inviare a tutto il popolo credente una lettera per capire il significato del presepio".
È l’annuncio di Papa Francesco al termine dell’udienza generale.
A GRECCIO IL PRIMO PRESEPE VIVENTE DELLA STORIA
Correva l’anno 1223 quando san Francesco d’Assisi scelse l’umile paese montano del alto Lazio di Greccio, affacciato sulla vasta conca reatina, per rievocare la nascita del Salvatore. La tradizione vuole che a far nascere nel mondo la prima idea di presepe vivente fosse sorta su intuizione del Poverello di Assisi con l’aiuto del nobile signore di Greccio Giovanni Velita. Secondo le agiografie, durante la Messa, sarebbe apparso nella culla un bambino in carne ed ossa, che Francesco prese in braccio. Da questo episodio ebbe origine la tradizione del presepe.
La testimonianza di tutto questo ci arriva da un antica fonte come la "Legenda di san Francesco": «Come il beato Francesco, in memoria del Natale di Cristo, ordinò che si apprestasse il presepe, che si portasse il fieno, che si conducessero il bue e l’asino; e predicò sulla natività del Re povero». A simboleggiare ancora oggi questo episodio singolare e della vita del Poverello è il dipinto attribuito a Giotto "Il presepe di Greccio" (realizzato tra il 1295 e il 1299) che è la tredicesima delle ventotto scene del ciclo di affreschi delle "Storie di san Francesco" presenti nella Basilica superiore di Assisi.
Da allora, la tradizione si diffuse nel resto d’Italia e negli altri Paesi cristiani. Oggi, i presepi viventi sono organizzati pressoché in tutto il mondo occidentale cristiano, non solo cattolico, ma anche da parte di fedeli di altre Chiese.
Nella città laziale di Greccio ando a sorpresa anche papa Francesco nel gennaio 2016 proprio per visitare il luogo dove per la prima volta venne realizzato un presepe e per pregare al Santuario che custodisce la memoria di quel Natale 1223, in cui san Francesco volle «vedere con gli occhi del corpo» la povertà del Bambino di Betlemme.
IL VIDEO DELLA VISITA NEL 2016 DEL PAPA A GRECCIO
Video
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"DUE SOLI": COME MARIA, COSI’ GIUSEPPE!!!
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
MIO NONNO ERA UN RE
di Michele Feo *
Il filosofo Emanuele Severino parla spesso in interviste e ricordi autobiografici del fratello Giuseppe morto in guerra, dicendo che fu studente alla Scuola Normale Superiore di Pisa e lì ascoltò le lezioni di Giovanni Gentile; lo ripete con dovizia di particolari novellistici nel «Corriere della sera» del 31 dicembre 2018.
Ma il nome di Giuseppe è assente in tutti gli elenchi a stampa degli allievi della scuola pisana, da quello curato nell’immediato dopoguerra dal filologo e segretario della Scuola Alessandro Perosa all’ultimo del 1999. Poiché l’esempio del fratello sembra essere stato determinante per la scelta di vita di Emanuele, par di capire che la collocazione formativa di Giuseppe a Pisa, all’ombra di Gentile, debba riverberare su Emanuele un po’ di quella gloria.
Sempre, anche il figlio della lavandaia e del tavernaro, quando ha asceso la scala sociale, si crea antenati nobili; le povere ma belle donzellette alla fine della favola si scoprono figlie di regine e il tribuno popolare Cola di Rienzo rivelò di essere il risultato di una bassa avventura dell’imperatore nei quartieri bassi di Roma.
Corollario: o i repertori pisani devono essere emendati o il filosofo si è distratto e anche lui si è lasciato catturare dal mito delle origini favolose.
Michele Feo
NOTA:
"DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE". Una storia di lunga durata
MIO NONNO ERA IL IL PAPÀ DI ADAMO ED EVA...
“Se vogliamo andare avanti non è a Parmenide che dobbiamo pensare. Ma, se si vuole, a Talete. Egli sapeva che l’azzurro circondava la Terra. Che vuol dire questo? E’ presto detto (e poi chiudo). La chiave ce la fornisce l’altra recente polemica innescata da Paolo Rossi, e, in particolare, la risposta di [Emanuele] Severino alla provocazione dello stesso Rossi. La questione è quella della nascita. Chiariamo.
Con la sua costanza e con la sua testardaggine, Rossi - lo storico-segugio (Severino parla di cagnolini) - è riuscito a mettere alle strette il Leone, e, l’ha fatto uscire dalla foresta pietrificata o, che è lo stesso, dal campo (Essere=Verità) di Parmenide. Perseguitato per «vent’anni», Severino non ce l’ha fatta più e ha ceduto. E, costretto a scoprire le sue carte, ha dovuto ammetterlo: non è nato ad Elea (Parmenide) e nemmeno a «Como» (Heidegger). «Io sono nato - ha dichiarato Severino - a Brescia. Me lo ha detto mia madre e mio padre: è scritto sui documenti». Il giogo del Destino della Necessità è stato spezzato: HIC SUNT LEONES - a Brescia!. Era ora: Emanuele è solo un poco Severino, ma è con noi - come noi, semplici mortali.
Fuor di metafora: questo è il problema: La croce dei filosofi, per eccellenza. Ce n’è voluto per riportare a galla dalle profondità del mare dell’essere (altro che pantano o pozzanghera, entro cui era stato buttato da Parmenide e dai suoi edipici figli - i platonici di tutti i tempi) Talete: qual è il principio di tutte le cose? Questi sono i problemi: così nasce la filosofia [...] (cfr. Federico La Sala, "Per una nuova cultura all’altezza del Pianeta Azzurro", «La Critica Sociologica», n. 93, 1990, pp. 111-115; in: “Della Terra, il brillante colore”, Pref. di Fulvio Papi, Edizioni Nuove Scritture, Milano 2013, pp. 98-99, senza note).
Federico La Sala
Teatro
Come Dante salvò Primo Levi dall’inferno: Roberto Herlitzka e il ‘Canto di Ulisse’
In scena il 31 agosto al Festival di Todi, ’Il Canto di Ulisse’ è liberamente ispirato ai testi ’Se Questo è un Uomo’ e ’L’Ultimo Natale di Guerra’ di Primo Levi.
di Giuseppe Cassarà (GdS Globalist, 30 agosto 2019)
L’aggettivo che maggiormente ricorre in riferimento alla scrittura di Primo Levi è ‘lucida’. Lucida è la sua testimonianza del Lager, lucida la sua mente che non si è persa, ma ha lottato per trovare le parole in grado di raccontare un Male tanto cieco. Della sua scrittura, lo stesso Levi parlava in questi termini: “ho sempre teso a un trapasso dall’oscuro al chiaro, come (mi pare che lo abbia detto Pirandello, non ricordo più dove) potrebbe fare una pompa-filtro, che aspira acqua torbida e la espelle decantata: magari sterile”.
Nel Lager, dove la parola è castrata, ridotta a un rantolo, Primo Levi una mattina si dirige verso il refettorio accompagnato da un prigioniero di lingua francese. Per passare il tempo, per rimanere umani, Levi tenta di spiegare al compagno l’amata Divina Commedia. Sceglie un canto, il XXVI, in cui Dante incontra una lingua di fiamma che avvolge e tormenta lo spirito di Ulisse. I versi sfuggono alla mente di Levi, ma la memoria gli restituisce una terzina, la più nota del canto e una delle più citate di tutta la Commedia:
Ulisse canta, Dante ascolta, Levi racconta: la terzina per il prigioniero è “come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono”.
Il Canto di Ulisse è il titolo dello spettacolo diretto da Teresa Pedroni, in scena il 31 agosto in occasione del Todi Festival 2019. Un testo liberamente ispirato al capolavoro di Levi Se Questo è un Uomo e alla sua raccolta di racconti postumi L’Ultimo Natale di Guerra, fortemente voluto dal direttore artistico Eugenio Guarducci e interpretato dal Maestro Roberto Herlitzka, nei panni di un Primo Levi che racconta momenti del suo vissuto tragico nel Lager con una grande limpidezza unita a fughe dell’immaginazione, quando la fantasia si libera per lenire il peso della realtà.
Maestro, vorrei partire proprio da quella terzina, una delle poche che Levi ricorda con chiarezza, quella che gli restituisce, anche solo per un attimo, la sua umanità. A chi, oggi, potrebbero essere rivolte quelle parole?
Senza dubbio a chi soffre come Levi e i suoi compagni stavano soffrendo. Penso a quelle anime disperate che attraversano il mare per cercare una vita migliore, per esempio. Anche se, a dire il vero, consigliare loro di ‘seguir virtute e canoscenza’ può sembrare un po’ una beffa: l’unica cosa che conta, tutto ciò a cui ti aggrappi in situazioni del genere, è sopravvivere. Ma è per questo che le parole di Levi sono una sfida. Dante, e Levi, non scelgono Ulisse a caso: quando pronuncia quelle parole, l’eroe dell’Odissea si trova in un momento in cui il pericolo di morte è più reale che mai. Ulisse, come Levi, dice quelle parole ai suoi compagni, li sprona a ricordare la propria umanità, a proiettarsi oltre la paura. Ed è un monito che rivolge anche e soprattutto a sé stesso.
Mi ha sempre colpito che Levi, quando scriveva ‘Se Questo è un Uomo’, parlava delle vittime, non dei carnefici. I ‘bruti’ danteschi sono i prigionieri, i ‘sommersi’ nel Lager. Se queste parole sono un monito per tutta l’umanità, quali sono le nostre prigioni, oggi?
Guardi, non penso che oggi, almeno nel nostro mondo occidentale, si possa parlare di ‘prigioni’: nel mondo accadono cose orribili ma credo che nulla possa essere paragonabile a ciò che è stato il nazismo. Il nazismo non aveva la morte come mezzo, la morte era il fine del Lager. Una morte prima spirituale e solo dopo fisica. Il Lager tendeva all’annullamento della persona come essere umano, mirava a ridurre l’uomo in ‘bruto’. Le motivazioni che stanno dietro al male moderno sono più terrene, sono legate all’avidità, alla brama di potere. Quindi non penso che si possa fare un paragone tra il Lager nazista, tra l’esperienza di Primo Levi, e il tempo moderno. Ma è proprio questo che rende la voce di Levi essenziale: è la voce della memoria, dello sforzo sovrumano di un uomo che è rimasto tale nonostante fosse prigioniero in un luogo che voleva schiacciare la sua umanità. E lo ha fatto, per tornare a Dante, attraverso la sua sensibilità di artista, di scrittore. Nell’inferno, ciò che lo ha salvato è stata la poesia.
In un’intervista del tempo, Primo Levi parlava del Lager come dell’“unico momento in technicolor in una vita altrimenti in bianco e nero”. In che momento della sua vita troviamo il Primo Levi da lei interpretato nello spettacolo?
È un Primo Levi che sta cercando, come fece Ulisse davanti alla montagna del Purgatorio, di riscattare prima di tutto la propria coscienza. Penso sia questo il valore più grande della testimonianza di Levi. Altre voci, come la sua, hanno raccontato il Lager ma Levi con la sua scrittura ha riscattato l’umanità, ha permesso a chi è venuto dopo il nazismo di trarre le conseguenze di ciò che è stato. Ulisse racconta a Dante, e Levi racconta a noi, per trasmettere prima di tutto la memoria, l’esperienza di chi, di fronte alla più grande paura che l’uomo può provare, la paura della morte, dell’annullamento, scopre l’essenza più profonda della propria umanità.
Lo spettacolo, oltre che da ‘Se Questo è un Uomo’, è ispirato anche a una raccolta di racconti postumi, ‘L’Ultimo Natale di Guerra’. Sono racconti piuttosto diversi dal Levi più noto, dove la fantasia, l’immaginazione quasi infantile prendono alle volte il sopravvento sulla lucidità dello scrittore. Potremmo dire, quindi, ‘virtute, canoscenza’ ma anche poesia, immaginazione?
Certo che sì, anche se senza dubbio è una strada che può imboccare solo chi è dotato di grande creatività. Levi era già scrittore prima del Lager, anche se è chiaro che la sua vita di artista è stata irrimediabilmente segnata da ciò che ha vissuto ad Auschwitz. Ma Levi era un uomo capace di vivere di fantasia, di immaginazione. Come Ulisse, in fondo: solo chi può immaginare di espandere l’orizzonte del proprio mondo, di mettere sé stesso oltre le Colonne d’Ercole, può sfuggire alla morte dello spirito attraverso la poesia. Ed è quello che ha fatto Levi.
Il Canto di Ulisse, presentato dalla Compagnia ‘Diritto e Rovescio’, andrà in scena il 31 agosto presso il Teatro Comunale di Todi. Accanto al Maestro Herlitzka, troveremo Stefano Santospago e i musicisti Alessandro Di Carlo al clarinetto e Alberto Caponi al violino.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PRIMO LEVI. Quando Levi morì (11 aprile 1987), Claudio Magris scrisse un articolo che cominciava così: «È morto un autore le cui opere ce le troveremo di fronte al momento del Giudizio Universale».
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA"
Federico La Sala
LETTERATURA EUROPEA*, IMMAGINARIO PLATONICO, E IMMAGINAZIONE “EDENICA”. Nella speranza, e con l’augurio, che il dono del Sessantotto non risulti esser stato sprecato ...
Note a margine di "Volevamo la Luna" di Andrea Cortellessa (Alfabeta-2, 21 luglio 2019):
SULLA BASE DELLE INDICAZIONI DEL “TELESCOPIO” (DI LEOPARDI) E DEL “PALOMAR” (DI CALVINO), FORSE, E’ MEGLIO RI-DISCENDERE “SOTTO COVERTA DI ALCUN GRAN NAVILIO” E RIPRENDERE LA “NAVIGAZIONE” CON GALILEO ...
«Rinserratevi con qualche amico nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio, e quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti: siavi anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vada versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca che sia posto a basso; e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza. (..)
Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia mentre il vascello sta fermo non debbano succedere così: fate muovere la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur di moto uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti; né da alcuno di quelli potrete comprendere se la nave cammina, o pure sta ferma.» (Galileo Galilei, “Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano”, 1632 - Salviati, giornata II);
.... E CON NOE’ - IL CORVO E LA COLOMBA (“PALOMA”):
“E in capo a quaranta giorni, Noè aprì la finestra che avea fatta nell’arca,
7 e mandò fuori il corvo, il quale uscì, andando e tornando, finché le acque furono asciugate sulla terra.
8 Poi mandò fuori la colomba, per vedere se le acque fossero diminuite sulla superficie della terra.
9 Ma la colomba non trovò dove posar la pianta del suo piede, e tornò a lui nell’arca, perché c’eran delle acque sulla superficie di tutta la terra; ed egli stese la mano, la prese, e la portò con sé dentro l’arca.
10 E aspettò altri sette giorni, poi mandò di nuovo la colomba fuori dell’arca.
11 E la colomba tornò a lui, verso sera; ed ecco, essa aveva nel becco una foglia fresca d’ulivo; onde Noè capì che le acque erano scemate sopra la terra” (“Genesi”: 8, 6-11 );
* ... E CON DANTE ( ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica).
P. S. - LE RADICI DELLA TERRA SONO “COSMICOMICHE”! Un’ipotesi di ri-lettura della DIVINA COMMEDIA, e un omaggio a Ennio Flaiano e a Italo Calvino (cfr. LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI “DUE SOLI”).
Federico La Sala
Giorgio Agamben “Il regno e il giardino”
di Antonio Lucci (Doppiozero, 14 Giugno 2019)
Michel Foucault, nel suo breve saggio (uscito nel 1984) sui “Luoghi altri”, definì il giardino “un’eterotopia felice”: una definizione forse anche troppo positiva, ma comunque indicativa del fatto che il giardino, per il filosofo francese, rappresentava la realizzazione di una serie di caratteristiche utopiche in un luogo reale, assumendo caratteri spaziali e simbolici fortissimi. Del carattere di luogo simbolico, che dà da pensare, proprio del giardino sembra che i filosofi siano da sempre stati ben coscienti: dal giardino in cui si ritiravano (secondo il motto “vivi nascostamente”) gli epicurei, a quello che consigliava - come ricorda nell’epigrafe al suo ultimo libro anche Giorgio Agamben - di coltivare Voltaire alla fine del suo Candide, passando per il giardino di Herrenhausen ad Hannover, in cui non solo Leibniz amava passeggiare e filosofare, ma che egli stesso contribuì a progettare grazie alle sue conoscenze di matematica e di ingegneria, per fare solo qualche esempio.
Si potrebbe addirittura arrivare a dire che, per comprendere come le società antiche hanno immaginato la propria versione ideale - il proprio paradiso - bisogna guardare al modo in cui esse hanno pensato i propri giardini: il giardino ad Atene era un luogo per la discussione e l’agone scientifico, che corrispondeva agli ideali di democrazia e di paideia propri della cultura greca, mentre il giardino cristiano era hortus conclusus, un luogo in cui le mura proteggevano e al contempo separavano l’uomo dall’esterno, dandogli la sua precisa posizione nel mondo (un mondo in cui la percezione delle barriere, sia fisiche che sociali e culturali, era un tassello psicostorico fondamentale). Il giardino barocco era una sorta di “panottico esterno”, in cui le vie rigidamente disegnate, le piante piegate in forme bizzarre dalla mano umana e l’universale visibilità dall’istanza centrale costituita dal palazzo corrispondevano alla società assolutistica di cui era espressione, quello inglese, invece, con il suo avvicinarsi alla naturalità di una selva, rispecchiava in qualche maniera gli ideali di una società che aveva abolito la monarchia assoluta e cominciava a credere che l’uomo non dovesse essere necessariamente, per natura, indirizzato in maniera univoca nei suoi spostamenti nel mondo.
Non a caso, la parola “paradiso” significa, originariamente, “giardino”: è questo il punto di partenza dell’ultimo libro di Giorgio Agamben. Il filosofo romano rinuncia a un’analisi dei rapporti tra le concrete forme storiche del giardino e i diversi regimi immaginari e ideali politici che le hanno prodotte, per concentrarsi invece su uno specifico giardino: quello dell’Eden.
Tutto Il regno e il giardino, infatti, è una serrata analisi di come, in particolare nella letteratura teologica tardoantica e medievale, il giardino dell’Eden - il paradiso terrestre - sia stato un importante operatore teoretico, usato da autori centrali del canone teologico cristiano - come ad esempio Agostino - al fine di descrivere che cos’è, nella sua struttura più profonda, la natura umana. “Giardino” (o meglio, “Paradiso”) - ci dice Agamben - è il nome che tanto affascinanti quanto spesso dimenticati autori del periodo protocristiano (come Efrem Siro e Sant’Ambrogio) hanno dato alla natura umana, in particolare a quella prima del peccato. Come è noto, a causa del peccato siamo stati banditi dall’Eden, dal Paradiso terrestre: secondo Agamben è proprio questo bando il punto centrale, quando si parla dell’Eden.
Non tanto che esso esista, o il fatto che noi vi abbiamo dimorato (pare, secondo la tradizione teologica, non più di sei ore), quanto il nostro esserne stati cacciati: «Non il paradiso, ma la sua perdita costituisce il mitologema originario della cultura occidentale, una sorta di traumatismo originario che ha segnato profondamente la cultura cristiana e moderna, condannando al fallimento ogni ricerca della felicità sulla terra» (p. 19). Agamben vede nella concezione di Sant’Agostino del peccato originale l’origine della tradizione che si affermerà nel cristianesimo successivo, per cui noi tutti erediteremmo la colpa di Adamo per via fisiologica, e quindi indipendentemente dalle nostre azioni: noi tutti siamo da sempre condannati all’esilio dal Giardino, e questo per colpe non nostre, così come per colpe non nostre siamo condannati al peccato e alla morte. Su questa concezione si basa anche l’idea di una natura umana corrotta per sempre, in tutte le generazioni a venire, da un’azione unica, operata da un singolo: «L’uomo è il vivente che può corrompere la sua natura, ma non risanarla, consegnandosi così a una storia e a un’economia della salvezza, in cui la grazia divina dispensata dalla Chiesa attraverso i suoi sacramenti diventa essenziale» (p. 32). (Se anche Agamben non prende in considerazione qui il tema, si potrebbe allargare il discorso ponendo la domanda relativa a quali conseguenze sulla concezione della colpa e del debito quest’idea agostiniana abbia avuto nella storia del pensiero occidentale). Partendo da quest’idea agostiniana (e anselmiana) Agamben analizza l’affascinante ipotesi connessa con l’idea di una natura umana irrimediabilmente corrotta: quella che - fatta eccezione per le sei ore in cui l’uomo vi abitò felicemente - il Paradiso terrestre sia un giardino vuoto, silenzioso ...e fondamentalmente inutile.
Contro quest’idea Agamben analizza il semidimenticato Scoto Eriugena, che - contro Agostino - legge allegoricamente la narrazione della Genesi biblica, interpretando l’Eden come una figurazione della natura umana prima della sua corruzione. La tesi di Eriugena è il doppio specularmente opposto rispetto alla teoria agostiniana del peccato originale ereditario ed eternamente corruttore della natura umana: quest’ultima è stata creata secondo Eriugena da Dio incorrotta e incorruttibile, come lo è il Paradiso terrestre, e solo il peccato è corruzione, ma corruzione legata all’atto e non alla natura dell’agente. L’uomo, col peccato, è uscito dalla propria vera natura, quella assegnatagli da Dio, perché ne ha abusato: in termini metaforici è uscito dal Paradiso, o meglio, non vi è mai stato.
Quindi, non esisterebbe, per Eriugena, una natura corrotta: la natura è da sempre salva, solo che noi ne siamo fin dall’inizio usciti.
Le dispute dei teologi sul Paradiso terrestre, in ultima istanza, ci dice Agamben, sono delle dispute mirate ad articolare il rapporto tra natura e grazia quali dispositivi teorici reciprocamente connessi tramite l’operatore logico del peccato (diversamente interpretato a seconda della direzione che si vuole dare al rapporto tra queste due istanze), e che definiscono la posizione dell’uomo sia nel mondo, che nell’aldilà.
Uno dei capitoli più interessanti del libro è sicuramente quello dedicato alla Divina Commedia di Dante. Agamben decide (non risparmiando alcune righe ferocemente critiche verso la tradizione dantista) di leggere la narrazione dantesca dell’Eden al di fuori e contro il canone interpretativo tomistico e in generale teologico medievale, in quanto vede in esso un «significato immediatamente politico» (p. 68), che fa del Paradiso terrestre una «figura della beatitudine terrena» (p. 71), a cui «Dante - che rappresenta l’umanità - può acceder[e] senza alcun impedimento» (p. 75). Il rapporto tra beatitudine di questo mondo e Giardino viene ripreso anche nell’ultimo capitolo del suo libro da Agamben, che analizza - partendo da Francisco Suárez - la questione di una possibile “politica del Giardino”, ossia l’esperimento mentale per cui - se non avessimo peccato con Adamo - saremmo potuti restare nell’Eden, dovendo poi sviluppare un qualche tipo di organizzazione sociale.
Agamben rileva come le descrizioni di questa possibile “società politica edenica” nei teologi medievali siano assolutamente carenti, derivandone la conclusione che «il paradiso terrestre non costituisce in alcun modo per i teologi un paradigma politico» (p. 106). Da qui ne segue una discussione, tanto teologicamente avvincente quanto complessa da seguire per i non addetti ai lavori, sulle tensioni chiliastiche del cristianesimo, vale a dire sulle interpretazioni date del passo dell’apocalisse per cui Cristo, tornato alla fine dei tempi, regnerà per mille anni con i giusti su questo mondo prima del giudizio finale. La questione è vicina a quella del giardino terrestre, a volte interpretato, nel corso della storia, come allegoria e a volte interpretato come luogo fisico, presente da qualche parte sulla Terra. Ed entrambe le questioni rimandano a quella - per Agamben sempre centrale - della felicità: è possibile, intravedibile, intravista in alcune epoche della storia del pensiero una felicità vissuta, una felicità della vita, di questa vita in questo mondo?
Il libro di Agamben si chiude con questa domanda, quella sulla dantesca «beatitudine di questa vita» (p. 120), una domanda consegnata al lettore di questo bel saggio, da intendere come un ulteriore tassello nel tentativo agambeniano di portare alla luce le categorie centrali del pensiero occidentale, di cui - sicuramente - il giardino è una delle più importanti, e forse sottovalutate.
Teatro.
Ravenna: tutta la città a scuola con Dante
Un’imponente «chiamata pubblica» per riportare alla luce la struttura drammaturgica della «Commedia»: è la formula del Teatro delle Albe che quest’anno porta gli spettatori a esplorare il Purgatorio
di Alessandro Zaccuri, inviato a Ravenna (Avvenire, mercoledì 3 luglio 2019)
Il Purgatorio, scrive Marco Martinelli, è la cantica degli artisti. Di quelli attivi all’epoca di Dante, come il miniaturista Oderisi da Gubbio, e di quelli ancora là da venire, come Joseph Beuys o Vladimir Majakovskij. Separati da qualche secolo di storia terrena, ma meravigliosamente riuniti nella visione oltremondana dalla «chiamata pubblica per la Divina Commedia » che il Teatro delle Albe realizza all’interno del Ravenna Festival.
Un progetto avviato nel 2017 con l’Inferno e destinato a concludersi con il Paradiso nel 2021, settimo centenario della morte di Dante. Il 2019 è invece l’anno del Purgatorio, che non è soltanto la cantica nella quale gli artisti sono più presenti, ma anche quella che gli artisti più amano, come dimostra per esempio la predilezione espressa da T.S. Eliot.
Il Purgatorio è una montagna, lo sappiamo. Nello stesso tempo, però, è una scuola. A sostenerlo è di nuovo Montanari in Nel nome di Dante, il libro che accompagna e integra l’avventura della «chiamata pubblica». Teatro di strada e teatro di popolo, ridefinizione della città come palcoscenico urbano e rivendicazione della natura politica del coro, «un uno che non cancella i molti », secondo la formula che si legge in Acusma, il saggio - edito da Quodlibet - che Enrico Pitozzi ha dedicato al «teatro sonoro» di Ermanna Montanari, moglie di Martinelli e sua compagna di scena dalla metà degli anni Settanta.
Insieme, Ermanna e Marco fanno il Teatro delle Albe, ma non ne rappresentano l’interezza. Per rendersene costo basta venire a Ravenna, dove in queste settimane si svolge la liturgia comunitaria del Purgatorio. È, almeno in parte, lo stesso spettacolo già allestito tra maggio e giugno a Matera, ma nel caso di un oggetto teatrale come questo il cambio di ambientazione implica un ripensamento profondo delle scelte drammaturgiche. Non nell’impianto generale, quanto nell’ambientazione degli episodi e più ancora nella modulazione del paesaggio sonoro, che del Teatro delle Albe rappresenta forse l’elemento più caratteristico. C’è la voce di Ermanna Montanari, che nel tempo è diventata uno strumento a sé, nel quale l’eco della parlata romagnola si sublima nella pronuncia esatta della lingua (Miniature campianesi, il suo libro di memorie pubblicato da Oblomov, è ricco di indizi in questo senso). E c’è il coro, quell’uno-molti che le Albe riescono a suscitare ovunque si spostino, dall’Africa a Neww York, nella periferia di Scampia così come qui, a Ravenna, davanti alla tomba solenne di Dante, che del cimento purgatoriale segna l’inizio.
Alla «chiamata pubblica» hanno risposto un migliaio di ravennati di ogni età e condizione sociale, tra cui moltissimi bambini. Si distribuiscono in gruppi di trecento per animare, sera dopo sera, questa che non è affatto una drammatizzazione della Commedia, ma la rivelazione della natura drammaturgica che segretamente sostiene il «poema sacro». Si comincia con la proclamazione corale del primo canto, con Ermanna Montanari che scandisce «Per correr miglior acqua alza le vele» e il coro che le risponde ripetendo il verso con la medesima intonazione, in un effetto che amplifica e interiorizza ogni parola.
Dante, in apparenza, non si vede, ma solo perché in queste due ore ipnotiche e serrate ciascuno degli spettatori diventa Dante. Non si mette alla sua scuola, per tornare a una delle immagini centrali dell’allestimento, ma va con lui alla scuola del Purgatorio, che è poi una non-scuola : luogo di condivisione e di esperienza, non di trasmissione meccanica del sapere.
Dante siamo noi, in cammino per le strade di Ravenna, e il nostro Virgilio sono Ermanna e Marco. Entrambi vestiti di bianco, sempre pronti a dirigere il coro e a dialogare con le figure che di volta in volta prendono vita dalle pagine della Commedia. Il venerando Catone di Gianni Plazzi e il dolente Manfredi di Roberto Magnani, il penitente Adriano V di Alessandro Argnani e l’immobile Ugo Capeto di Luigi Dadina, il Bonconte di Massimilano Rassu, che non smette di rievocare il miracolo della salvezza dovuta a una «lacrimetta», e la Sapia di Laura Redaelli, anche lei instancabile nel mettere in guardia dalle insidie dell’invidia. Si tratta spesso di apparizioni improvvise e discrete, come quella dello scolaretto che da un balcone di via di Roma impersona l’angelo del silenzio.
Ma non mancano le grandi costruzioni corali. Su una scala di servizio dell’Istituto musicale Verdi si dispongono le donne uccise dalla violenza: a guidare le loro voci è la Pia dei Tolomei di Mirella Mastronardi, che per prima intona lo struggente «Ricordati di me». Una visione di forte resa emotiva, il cui corrispettivo è la massa degli iracondi che lo spettatore incontra nel Purgatorio vero e proprio, insediato per l’occasione nel cortile della Casa di riposo Garibaldi. Questa volta è il Marco Lombardo di Alessandro Renda a prendere la parola con la perorazione sul libero arbitrio che Dante ha voluto incastonare alla metà esatta del poema, come a denunciarne la struttura nascosta.
E la non-scuola? È organizzata in due classi, la cui frequenza è obbligatoria per accedere al Paradiso terrestre nel quale quattro ragazze, con le stesse trecce e la stessa giacca cerata di Greta Thunberg, sanciscono l’avvenuta purificazione di noi penitenti. Prima ci si siede tra i banchi per assistere alla lezione dell’Oderisi di Matteo Gatta, a sua volta abbigliato come Beuys, artista mistico e stravagnate. Poi vengono i «vermi e farfalle», che sui banchi salgono volentieri per proclamare i versi non solo di Dante, ma anche di Walt Whitman, John Donne, Etty Hillesum. E di Majakovskij, certo, che il Purgatorio lo ha descritto benissimo a modo suo: «Dite ai pompieri / che su un cuore in fiamme / ci si arrampica con le carezze».
Speciale
La voce-corpo / Esercizio di memoria per Edipo
di Daniele Vergni (Alfabeta-2, 23 Giugno 2019)
Sabato 13 aprile, all’interno degli eventi organizzati per la mostra Il corpo della voce, è andato in scena presso il Palazzo delle Esposizioni di Roma Edipo Re, esercizio di memoria per quattro voci femminili di Chiara Guidi. Nella sala 9 del Palazzo (completamente sold out) quattro attrici donano le loro voci a quartetti di personaggi che hanno come fulcro Edipo. La sintesi dello schema vocale dei personaggi lo troviamo sullo sfondo: l’albero della vita di kabbalistica memoria con le sue dieci Sephiroth rinominate per l’occasione e con Edipo che sostituisce tutti i gradi principali, dal divino all’umano (Edipo sostituisce Kether, Tiferot, Yesod e Malakuth).
Il testo di Sofocle viene ricreato e trattato come partitura vocale. Le quattro attrici, al microfono, cambiano personaggi durante il decorso dello spettacolo. Sono i personaggi vocali qui ad intersecarsi e scambiarsi, sorreggersi ed interrogarsi, proseguendo uno nell’altro. E da queste voci - assieme a quelle del coro di cittadini che nei tre giorni precedenti lo spettacolo hanno studiato con Chiara Guidi - prende forma l’intero spettacolo. L’esercizio di memoria sulle parole di Sofocle diviene scomposizione che mira prima di tutto al portato fonico, alla dischiusura di un nuovo e antico senso, quello che con Giorgio Agamben potremmo chiamare un experimentus vocis, quello in cui «nell’istante dell’enunciazione [...] il linguaggio non si riferisce a nessuna realtà lessicale né al testo dell’enunciato, ma unicamente al proprio aver luogo»1. Così questo flusso sonoro - in cui s’innestano suoni e texture create da Scott Gibbons - cui è mancata un’adeguata amplificazione - ci trascina davanti al mito.
Anni fa, seguendo un laboratorio di Chiara Guidi, appuntai alcune sue parole: “la voce è nascosta e può lavorare un testo per far emergere tutto quello che non dice, poiché la voce è puro voler dire che non spiega, non intrattiene, ma scava nel corpo provenendo da un organismo complesso, corpo e ambiente”. Questo Edipo Re è la messa in pratica di questa idea.
L’esercizio a cui allude il sottotitolo è quello delle memorie vocali dove si agita sempre qualcosa di nascosto, torsioni e slittamenti che contraddistinguono anzitutto un processo che più che compiersi si dipana tra i personaggi vocali e quindi incide direttamente sulla composizione del linguaggio. È qui che trovano senso i fonemi, le singole lettere, le vocali allungate che sorreggono sentenze e difese. Tutta la narrazione si articola in questi movimenti che ci restituiscono l’idea di una drammaturgia vocale.
Non si tratta più allora di rappresentare un testo ma di incrinarlo per portarne alla luce la potenzialità data dall’incontro tra le voci. Proprio da questo incontro Edipo scopre il suo destino e davvero è già tutto compiuto?
Il segreto della voce riecheggia nella Sala 9 del Palazzo delle Esposizioni e ci lascia un dubbio riguardante l’immaginazione. La persistenza del suono è più effimera di qualsiasi lampo d’immagine ed è qui il nodo di una drammaturgia vocale.
L’immaginazione indirizzata da questo sciame di voci ci restituisce il quadro completo ma il colore sulla tela svanisce e ciò di cui abbiamo fatto esperienza ci richiede uno sforzo maggiore, un decisivo ricorso alla memoria acustica che si alimenta dell’immaginazione, come Edipo che «solo con la voce [...] scopre la verità del proprio destino: l’essere figlio immaginario di suo padre»2.
Ad un secondo livello di lettura, questo aver luogo della voce nell’Edipo Re di Chiara Guidi ci mostra la formazione di un soggetto disancorato, appunto “figlio immaginario di suo padre”, slegato da quella legge del padre che crea individualità. Edipo non è individuo ma soggetto a-centrico, e questa de-centratura viene messa in risalto dal trattamento vocale che Chiara Guidi realizza con la sua partitura: «più che opporsi alla scrittura, come avviene nell’ambito degli studi sull’oralità, la voce si oppone perciò [...] al linguaggio, ai suoi canoni disciplinati, al gendarme della grammatica e della sintassi»3.
Sono le esigenze delle voci a riorganizzare il testo mettendo sotto scacco il linguaggio, così le valenze sonore prendono il sopravvento donando quel piacere ritmico4 in cui Edipo si disperde. Questa disindividualizzazione sembra appartenere a quel divenire-donna indicato da Gilles Deleuze, un’alterità continua nei propri confronti: «Donna è un modo d’essere trans-individuale in perenne divenire. E divenire-donna significa concatenare quanto eccede la dimensione individuale»5. Così Edipo si chiede nel finale della partitura“Dove rapida vola via ora la mia voce?” e solo quando il fato si è compiuto Edipo può rispondere, “Amico, seppure nell’ombra, riconosco la tua voce!”6.
EDIPO RE DI SOFOCLE | ESERCIZIO DI MEMORIA PER QUATTRO VOCI FEMMINILI
da un’idea di Chiara Guidi in dialogo con Vito Matera
suoni originali Scott Gibbons
scene luci e costumi Vito Matera
con Angela Burico, Chiara Guidi, Anna Laura Penna, Chiara Savoi
coro poetico composto da settanta cittadini
produzione Societas
1 G. Agamben, Che cos’è la filosofia?, Quodlibet, Macerata 2016, p. 45.
2 Dalle note redatte da Chiara Guidi per lo spettacolo.
3 A. Cavarero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Felitrinelli, Milano 2003, p. 146.
4 Ivi, p. 149.
5 G. De Fazio, Etica delle composizioni. Sul divenire-donna e le linee di fuga della corporeità, in «La Delouziana», n. 2/2015, p. 51. Disponibile al link http://www.ladeleuziana.org/wp-content/uploads/2015/12/De-Fazio.pdf
6 Partitura dell’Edipo Re, esercizio di memoria per quattro voci femminili di Chiara Guidi, p. 49.
“700 - Viva Dante”. Scelto il logo per celebrare i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri*
“700 Viva Dante - Ravenna 1321-2021” sarà questo il logo delle prossime celebrazioni dantesche, l’anniversario dei 700 anni dalla morte del Sommo Poeta. Un 7 e il simbolo dell’infinito, “Viva Dante” che in molti hanno letto come “Viva Ravenna”.
È stata quindi l’agenzia di comunicazione Matilde Studio di Cesena a vincere il concorso pubblico indetto dal Comune di Ravenna per trovare l’immagine che rappresenterà la città nel prossimo anno. Un concorso, a dire il vero, che in questi mesi ha ricevuto diverse critiche, dall’opposizione, ma anche dall’Associazione Italiana Design della Comunicazione.
A molti non è piaciuta l’idea di lasciare ai ravennati una scelta così complessa e strategica.
Di convinzione opposta, invece, il Comune, che ora ha il proprio logo sotto il quale racchiudere tutte le prossime celebrazioni dantesche, scelto da una decisione popolare
* https://www.ravennawebtv.it/ 30 Aprile 2019
"Viva Dante": i cittadini hanno scelto il logo per le celebrazioni del 2021
Con il nome scelto “Viva Dante” si è voluto sottolineare come il poeta, ancora oggi, rappresenti un punto di riferimento vivo per la città
di Redazione ("Ravenna Today", 30 aprile 2019)
"Viva Dante": il logo e il naming ideati da Matilde Studio di Cesena per rappresentare il settimo centenario della morte di Dante Alighieri sono quelli che hanno maggiormente convinto il pubblico del teatro Rasi, protagonista lunedì sera della procedura partecipata che ha costituito la fase finale della selezione con la quale l’Amministrazione comunale ha scelto di individuare l’identità visiva che rappresenti il settimo centenario dantesco del 2021 a Ravenna. Per la proposta di Matilde Studio hanno votato 176 persone su 291. Al secondo posto si è classificato il progetto proposto da Social Design srl (Firenze); al terzo quello di Menabò group (Forlì).
Il logo-naming vincitore
"Il logo presentato è composto di tre elementi: marchio, logotipo e payoff - spiegano dallo studio vincitore - Il marchio rappresenta il numero settecento, stilizzato utilizzando un motivo a tessere. La forma è completata dalla silhouette di Dante ripreso dall’iconico ritratto di Botticelli con alcune variazioni relative soprattutto alla corona d’alloro tesa a dare maggior risalto al profilo in monocromia. Come dettaglio ulteriore il marchio contiene, creata dalla sovrapposizione dei due cerchi, la forma dell’infinito, allo scopo di simboleggiare l’eternità divina espressa nel Paradiso e la memoria perpetua celebrata dai Ravennati nel culto del poeta. Lo schema policromo riprende le tonalità utilizzate nei mosaici ravennati che, pare, abbiano ispirato lo stesso Dante nell’elaborazione di alcune immagini letterarie del Paradiso. In generale l’utilizzo di un marchio composito, creato da tante tessere e molteplici colori vuole anche essere il simbolo di una celebrazione formata da tante voci, esperienze, sensibilità particolari che cooperano alla celebrazione. Per quanto riguarda il nome scelto “Viva Dante” si è voluto sottolineare come il poeta, ancora oggi, rappresenti un punto di riferimento vivo per la città sia in termini di valori che di ispirazione artistica. Si è giocato quindi con la contrapposizione tra la celebrazione della morte e la consapevolezza di un’esperienza che vive, eternamente. Il nome, pur essendo in italiano, utilizza parole utilizzate spesso anche in ambito internazionale rendendo, assieme al payoff, il logo perfettamente fruibile anche da un pubblico estero mantenendo un imprescindibile carattere italiano. Il payoff condensa, sempre tenendo conto della fruibilità linguistica, il posizionamento temporale e geografico delle celebrazioni, evidenziando inoltre il ruolo di Ravenna nella vicenda umana di Dante".
I cittadini, nell’ambito della chiamata pubblica organizzata dal Teatro delle Albe - Ravenna Teatro per la rappresentazione del Purgatorio, sono stati invitati a scegliere l’immagine e la frase a loro parere più significativi e capaci di trasmettere l’insieme dei valori, delle attività e degli spazi che concorrono al programma delle celebrazioni dantesche nel 2020 e 2021. La partecipazione era comunque aperta anche ai cittadini non partecipanti alla chiamata pubblica per la rappresentazione del Purgatorio. Nel corso della serata i tre loghi e i relativi naming, precedentemente scelti, tra 29 proposte pervenute, da una giuria di qualità costituita da cinque esperti, sono stati illustrati al pubblico dagli ideatori per meglio far comprendere il messaggio che intendevano legare alla città, a Dante e ai valori universali e plurali della sua opera. Le 29 proposte sono arrivate da diverse parti d’Italia e anche dall’estero: Ravenna, Riccione, Bellaria, Mirandola, Bologna, Firenze, Russi, Lugo, San Giovanni in Marignano, Messina, Milano, Forlì, Rimini, Mosca, Faenza, Slovenia, Cesena, Caltagirone, Roma, Cagliari, Bagnacavallo, Siviglia.
Conclusa la presentazione si è passati alla votazione, presentando un documento di riconoscimento, tramite una scheda da introdurre in un’urna. Il voto si è concluso alle 22 e si è poi svolto lo scrutinio, pubblico, al termine del quale è stato annunciato il vincitore. La proposta vincitrice sarà premiata con un premio di quattromila euro. Il secondo e il terzo classificato riceveranno rispettivamente un premio di duemila euro e di mille. Il Comune di Ravenna affiderà il servizio di ideazione e progettazione di una declinazione esecutiva dell’immagine coordinata all’ideatore del progetto classificato al primo posto. Nella prima fase della selezione la giuria ha esaminato i progetti nel rispetto del loro anonimato, in base ai seguenti criteri: caratteristiche concettuali, estetiche, espressive; efficacia comunicativa e qualità della proposta in ordine alla relazione tra Ravenna e Dante; funzionalità e applicabilità ai diversi utilizzi e contesti istituzionali.
La giuria era così composta: Giulio Ceppi, Giulio Blasi, semiologo, amministratore delegato di Horizons Unlimited, società che gestisce il servizio MLOL in 4.500 biblioteche italiane e straniere, si occupa di editoria multimediale. Marianna Panebarco, general manager Panebarco &c sas, esperta di comunicazione digitale. Presidente CNA Giovani imprenditori Emilia-Romagna. Membro di presidenza Cna Giovani imprenditori nazionale. Membro del Comitato Dantesco Ravennate. Mimmo Berterame, amministratore delegato di Gusto italian design studio che realizza consulenze professionali nella progettazione e nella pianificazione di campagne su scala nazionale ed internazionale, con new e classic media. Maurizio Tarantino, dirigente Unità operativa Politiche e attività culturali, direttore dell’Istituzione Biblioteca Classense e Istituzione Museo d’arte della città.
La polemica
Dure le critiche della capogruppo della Pigna Veronica Verlicchi: "Con la scusa della “partecipazione popolare” la dirigenza e l’assessorato alla cultura continuano a sviare la responsabilità delle scelte che sono chiamati a fare, e per le quali sono ben pagati, scaricandola sul pubblico. Ma é evidente che questo non é un modello applicabile sempre e comunque e che in talune occasioni di particolare rilevanza, come quella delle celebrazioni dantesche, sarebbe più opportuno un intervento tecnico e di qualità. Parola che é palesemente sconosciuta ai componenti della Giunta di Michele de Pascale, che nell’esercitare le proprie deleghe perpetrano scelte scellerate e totalmente contrarie agli interessi dei cittadini. Il risultato: il primo passo dell’organizzazione delle celebrazioni dantesche ravennati é stato un passo falso. Ci si dovrà tristemente ridurre a sperare che Firenze e Verona, le altre città coinvolte nei festeggiamenti, facciano di peggio?".
Accademici e ministri, fissate il giorno del «Dante pride»
È giunto il momento di mettersi d’accordo e fissare d’imperio una Giornata da dedicare al Sommo Poeta: «Vuolsi così colà dove si puote...».
di Paolo Di Stefano (Corriere della Sera, 23.04.2019)
Lo confesso. Questo è un articolo che ho scritto più volte (inascoltato) da quando siamo a cavallo tra un anniversario dantesco e l’altro: tra il 2015 (750 anni dalla nascita) e il 2021 (700 anni dalla morte). Lo confesso, ma ci sono casi in cui repetita juvant («et secant», scherzava il mio professore di latino). Ieri, 23 aprile, era la Giornata mondiale del libro, istituita il 7 ottobre 1926 per celebrare la nascita del padre del romanzo europeo, lo spagnolo Miguel de Cervantes. Dal 1930 si passò al 23 aprile in omaggio a Shakespeare e a Garcilaso de la Vega, che morirono lo stesso giorno di Cervantes nel 1616. Quel giorno, San Jordi, patrono di Barcellona, i librai catalani regalano una rosa per ogni libro acquistato.
È una festa a cui Inge Feltrinelli ha partecipato tante volte impazzando allegramente per le ramblas con il suo amico Manolo, Manuel Vázquez Montalbán. Ma questa è una semplice variante sul tema. La ripetizione sta nell’insistere perché anche Dante abbia una sua Giornata sul calendario, così come Cervantes, Shakespeare e Joyce, che a Dublino (e nel mondo) dal 1950 viene festeggiato ogni 16 giugno. Santificato San Remo, beatificati i nostri mille festival quotidiani, metabolizzato agevolmente il Black Friday, dopo sette secoli sembra giunto il momento di uno scatto d’orgoglio tutto italiano: per le università, per le accademie (Crusca, Lincei eccetera), per la benemerita Società Dante Alighieri, per la gloriosa Società Dantesca, per i dantisti e i dantologi, per gli infaticabili Istituti di Cultura, per gli illuminati ministri della cultura, dell’interno, degli esteri, della difesa, delle infrastrutture, dei trasporti...
È giunto il momento di mettersi d’accordo e fissare d’imperio una Giornata da dedicare al Sommo Poeta: «Vuolsi così colà dove si puote...». Un Dantedì o se preferite un “Dante Pride” per le strade, nelle piazze, nei teatri, nelle chiese, nelle scuole: ovunque, in Italia, in Europa, nel mondo, e se possibile (sarebbe un segno di eterna gratitudine) anche nell’aldilà. -All’anno prossimo.
NEL REGNO DI EDIPO: "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE", L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO. Come nascono i bambini e le bambine... *
Appello di una femminista alle donne cristiane che sono contro il Congresso mondiale delle famiglie
di Luisa Muraro (Libreria delle donne, 29 Marzo 2019)
Care amiche, vorrei sottoscrivere il vostro Appello contro il Congresso delle famiglie a Verona. Sono d’accordo con quello che dite, in primo luogo che la famiglia non è un’entità naturale ma un’istituzione culturale, che quasi sempre mostra una forte impronta patriarcale.
A me e a voi, suppongo, è chiaro che prima della famiglia, comunque intesa, c’è la diade formata da una donna e dalla creatura che lei ha concepito e portato al mondo. È un rapporto molto speciale, che precede i dualismi tipici della cultura maschile: la donna che accetta di entrare nella relazione materna, alla sua creatura dà la vita e insegna a parlare, le due cose insieme. Ed è un “insieme” che si tende, come un ponte insostituibile, sopra l’abisso della schizofrenia umana.
Vorrei ma non posso sottoscrivere il vostro Appello perché, nella difesa delle nuove forme familiari, non c’è una critica di quelle che si costituiscono da coppie che, sfortunatamente o naturalmente sterili, invece di adottare, si fanno fare la creatura a pagamento.
Da donne cristiane, mi aspettavo una calorosa difesa dell’adozione e un’energica richiesta della sua estensione a persone e coppie finora escluse dalla legge. Ma, ancor più, essendo voi donne, mi aspettavo una difesa della relazione materna libera e responsabile così come oggi è diventata possibile. Invece, parlate solo di genitorialità, usate cioè una parola tipica del linguaggio neutro-maschile. E a voi che parlate del corpo femminile come luogo di spiritualità incarnata, chiedo: che famiglia è mai quella che nasce con il programma esplicito, messo nero su bianco, di cancellare la relazione materna che si sviluppa con la gestazione in un intimo scambio biologico e affettivo?
Voi, a differenza di tanti cattolici, leggete la Bibbia e sapete che la cosiddetta gravidanza per altri, ossia la donna che partorisce senza diventare madre, corrisponde pari pari ad antiche usanze del patriarcato, usanze che sembravano superate. Le ultime pagine del Contratto sessuale di Carole Pateman, parlano proprio di questo sostanziale arretramento. Detto alla buona, ci sono “nuove” famiglie che di nuovo hanno solo la tecnologia.
A proposito: che cosa pensano di tutto questo gli uomini vicini a voi, i vostri compagni di fede e d’impegno politico? Perché non compaiono nel vostro Appello? Mi è venuto un sospetto, di ritrovarmi davanti a quel noto comportamento maschile che è di nascondersi dietro a una o più donne quando si vuol far passare pubblicamente qualcosa che è contro le donne. Devo portare degli esempi? Ma, se questo non fosse vero, scusatemi.
(www.libreriadelledonne.it, 28 marzo 2019)
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
Cultura e civiltà. L’ordine simbolico della madre.....
NEL REGNO DI EDIPO. L’ordine simbolico di "mammasantissima"
"L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": L’ALLEANZA CATTOLICO-"EDIPICA" DEL FIGLIO CON LA MADRE!!!
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
"DUE SOLI" IN TERRA, E UN SOLO SOLE IN CIELO: "TRE SOLI".... *
Storia.
Il sogno di Napoleone: l’archivio dell’impero
Bonaparte aveva capito che, controllando la memoria dei popoli, li si teneva in pugno e si poteva scrivere la storia come prova della legittimità del proprio potere
di Edoardo Castagna (Avvenire, giovedì 11 aprile 2019)
Del saccheggio napoleonico di opere d’arte, con i lunghi strascichi relativi alle restituzioni o alle mancate restituzioni, molto si è scritto. Assai meno del saccheggio di uomini, della “carne da cannone” razziata come e più di quadri e statue in ogni angolo d’Europa, per finire seppellita tra le colline boeme o nelle steppe di Russia. Tutti iscritti all’anagrafe della storia come “francesi” sebbene in gran parte francesi non fossero affatto, come lo stesso Napoleone si premurò poi di rimarcare. Ma le appartenenze nazionali, così come le tradizioni storiche e le memorie collettive, si costruiscono. Ed è per questo che tra i tanti saccheggi napoleonici uno, perseguito con particolare tenacia, si concentrò sugli archivi delle varie capitali via via occupate e inglobate nell’Impero.
Vicenda meno nota di altre, ben ricostruita da Maria Pia Donato nel suo L’archivio del mondo. Quando Napoleone confiscò la storia (Laterza, pagine 170, euro 19,00). La sua versione dell’eterno sogno della biblioteca universale si declinò utilitaristicamente verso la condensazione sotto un unico controllo di quella che avrebbe dovuto essere la fonte primaria sia per la scrittura della storia nei secoli a venire, sia per la costruzione di una tradizione e di un’identità comune a tutta l’Europa posta sotto lo scettro di Napoleone, in ideale rimando all’unità medievale dei “due soli” a cui esplicitamente tale operazione si ispirò. Furono infatti la conquista, nel 1809, degli archivi del Sacro Romano Impero e del Papato a mettere in moto la macchina accentratrice dell’archivio dell’Impero.
Come in tante altre occasioni, la storia seguiva la propria strada indipendentemente dalla volontà degli uomini, tanto che l’idea di centralizzare gli archivi europei, sottolinea la Donato, seguì e non precedette l’inizio della sua realizzazione: il suo Napoleone è perfettamente tolstojano, in balìa di quegli stessi eventi epocali che si illude di governare. Stando al trattato con l’Austria nel 1809, avrebbero dovuto passare sotto controllo francese soltanto gli atti relativi ai territori ceduti agli occupanti: i quali invece, con militaresca ruvidità, prelevarono in blocco le carte conservate a Vienna, quali che fossero e di ogni epoca. Furono riempite oltre 2.500 casse, caricate sui carri e spedite a Parigi.
Simile fu la brutalità con la quale si procedette al- l’acquisizione degli archivi di Roma, il cui sequestro in realtà fu, almeno inizialmente, funzionale alla volontà di Napoleone di mettere sotto pressione il Papa: tanto che nel 1813, quando l’imperatore credette di averla spuntata su Pio VII, ordinò la restituzione delle carte. Per rimangiarsela, naturalmente, quando mutò nuovamente idea sul conto del Pontefice. Nel frattempo però, e anche in contraddizione con i tatticismi politici del momento, maturava in lui e nei suoi collaboratori «l’idea di creare un sito centrale della memoria per l’impero, anzi una grandiosa raccolta delle testimonianze scritte della civiltà», nota la Donato; via via furono acquisiti gli archivi olandesi, spagnoli, piemontesi, belgi, della galassia di staterelli tedeschi.
A sovrintendere al tutto fu l’archivista capo Pierre-Claude-François Daunou: ex prete, ex illuminista, ex fervente repubblicano, infine comodamente adagiato nell’ordine bonapartista (al quale peraltro sarebbe sopravvissuto). Nella sua opera trasfuse, al pari di quella contemporanea e simmetrica dei curatori del Louvre, del Jardin des plantes o della Biblioteca nazionale di Parigi, l’ideale e l’ambizione enciclopedici degli Idéologues illuministi. «Fu elaborata sul campo - nota la Donato - la dottrina che Édouard Pommier ha chiamato “la teoria del rimpatrio”, ossia l’idea che solo nella Francia rigenerata le opere delle scienze e delle arti avrebbero potuto sprigionare il loro potenziale di conoscenza ed emancipazione».
Daunou aveva ben servito Napoleone compilando un Saggio storico sul potere temporale dei papi tutto teso a mostrare le malefatte plurisecolari del Papato e le buone ragioni di un imperatore nel volerlo ridurre alla sua mercé; il Saggio venne ripetutamente riveduto e ampliato proprio grazie alle nuove fonti archivistiche divenute disponibili. Ma Daunou non era un mero cortigiano, anzi: nella sua opera di gran maestro dell’archivio napoleonico diede indubbie prove di capacità organizzative, di intelligenza pratica (fu l’inventore di quelle “schede”, uniformi per formato e ordine delle informazioni, divenute poi di uso universale fino all’avvento della digitalizzazione) e anche di un po’ di visionarietà.
Non ci fu il tempo di costruire l’immenso palazzo che avrebbe dovuto ospitare i Grandi Archivi, ma quello per affermarne la centralità storica sì: non solo, prosegue la Donato, «furono l’invenzione simbolica di un impero in cerca di radici», ma offrivano anche l’occasione di coltivare la storia pragmatica che era stata degli Idéologues. L’archivio serviva (anche) a scrivere la storia», e per questo esserne i controllori significava essere i controllori della memoria dei popoli. Nelle carte degli archivi si trovano i mattoni fondamentali per erigere quei monumenti umani collettivi che sono le identità naziona-li: una lezione, questa, che gli Stati- nazione che sarebbero sorti dopo il tramonto dell’età napoleonica, e che rientrarono in possesso dei rispettivi archivi, avrebbero ben messo a frutto.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA" -Nel 200° anniversario della pubblicazione della "Fenomenologia dello Spirito" di Hegel (1807)
Federico La Sala
IL "DIO DI AMORE" DI (OVIDIO E) BRUNETTO LATINI E "L’AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE" DI DANTE.... *
Su Brunetto Latini, “Poesie”, a cura di Stefano Carrai
di Claudio Giunta (Domenicale del Sole 24 ore, 20 marzo 2016)
Il Tesoretto di Brunetto Latini non è certamente quel misconosciuto «capolavoro della letteratura allegorica» che diceva Jauss (ma come mai lo abbiamo preso sul serio?), ma è un modo eccellente per avvicinarsi alla poesia dei primi secoli; e questa nuova edizione a cura di Stefano Carrai è un modo eccellente per avvicinarsi al Tesoretto.
Si tratta di un poemetto, 2944 versi in tutto, scritto da Brunetto Latini al principio degli anni Settanta del Duecento. È uno strano ibrido. Comincia come un racconto di viaggio (il poeta-protagonista si trova a Roncisvalle, e qui incontra uno studente bolognese che gli comunica la sconfitta dei guelfi a Montaperti), prosegue come un trattato didascalico (la Natura personificata illustra al poeta l’ordinamento del cielo e della terra), poi come un trattato morale (il poeta incontra in successione le virtù, il dio d’Amore, il poeta Ovidio), e finisce con una bizzarra ‘Penitenza’, circa 500 versi in cui Brunetto riflette sulla caducità delle cose umane ed esorta un amico a cambiare vita come lui l’ha cambiata («che sai che sén tenuti», scrive, «un poco mondanetti»); dopodiché il racconto riprende e il protagonista si trova sul monte Olimpo, dove incontra il grande Tolomeo, «maestro di storlomia». Qui il testo s’interrompe di colpo.
Al di là però del contenuto, né originale né profondo, e al di là dello stile, senza veneri (anche perché imprigionato in una gabbia metrica da filastrocca: coppie di settenari a rima baciata), il Tesoretto è un testo interessantissimo perché è davvero un repertorio di topoi immaginativi, un campione di medievalità: c’è il viaggio nella foresta, c’è un mondo fantastico all’interno del quale il personaggio-poeta può dialogare via via con la Natura, con Ovidio o con Tolomeo, ci sono le ipostasi delle virtù e delle percezioni, che pescano dall’identico immaginario da cui hanno pescato gli sceneggiatori di Inside Out (Desianza=Joy, Paura=Fear): «Desïanza ... sforza malamente / d’aver presentemente / la cosa disïata / ed è sì disvïata / che non cura d’onore / né morte né romore, / se non che la Paura / la tira ciascun’ora, / sì che non osa gire / né solo un motto dire».
Il commento di Carrai è un commento esatto e intelligente. Sembra poco, ma è tantissimo, perché i commenti alla poesia (e soprattutto alla poesia antica) sono spesso un po’ stupidi. Chi ha studiato per anni un autore o un testo non si rassegna facilmente a farsi da parte, cioè a tacere una volta chiarito ciò che nel testo c’è da chiarire, ed eventualmente a far riflettere il lettore su ciò che il testo può dire sul suo autore o sulla mentalità dell’epoca in cui venne scritto: non si rassegna, gli viene, come diceva il dottor Johnson, «la fregola di dire qualcosa anche quando non c’è nulla da dire», o peggio - e la cosa è specialmente frequente nel campo della medievistica - gli viene la fregola di trovare verità nascoste, di sciogliere gli enigmi, il che porta spesso a postulare enigmi là dove non ce ne sono, onde una ridda di ipotesi e contro-ipotesi da stancare un causidico. E poi, a riempire le pagine, valanghe di ‘riscontri intertestuali’, come se importasse qualcosa che il poeta X ha preso quella parola dal poeta Y o dal poeta Z. Carrai invece non scaraventa sul lettore tutto il contenuto delle sue schede, spiega il testo dove occorre, e dove non riesce a spiegare prospetta delle ipotesi d’interpretazione, appoggiandosi - per consentire o per dissentire - a chi del Tesoretto si è occupato prima di lui.
Al Tesoretto Carrai fa seguire, com’è consuetudine, il Favolello, che è un altro breve poemetto in settenari baciati, più pedestre nel contenuto (è uno scialbo trattatello sull’amicizia), ma interessante soprattutto perché cita come amici-destinatari due rimatori contemporanei, Rustico Filippi e Palamidesse di Bellindote. E al Favolello segue, nel volume (che appunto per questo s’intitola Poesie: è l’opera omnia in volgare italiano di Brunetto), l’unica canzone di Brunetto che ci venga tramandata dai manoscritti, S’eo son distretto, strana poesia d’amore e devozione che alcuni hanno interpretato come un documento dell’omosessualità dell’autore (con ovvi riflessi sull’interpretazione di Inferno XV) e altri, direi più plausibilmente, come canto nostalgico per la patria, Firenze, dal quale il guelfo Brunetto viene bandito dopo Montaperti.
Manca, e avrebbe invece dovuto esserci, la canzone responsiva di Bondie Dietaiuti (così, nel Medioevo, si dissolvevano le tenzoni poetiche: gli scribi copiavano i corpora personali degli autori obliterando i testi missivi e responsivi dei loro corrispondenti, che in questo modo si disperdevano; ma in un’edizione moderna non si vede perché le tenzoni non debbano essere date nella loro integrità).
Il discorso sul Tesoretto e sul Favolello non è chiuso. Sono testi facili solo all’apparenza, specie a causa delle contorsioni che il metro e lo schema delle rime impongono all’autore. Di certi hapax resta poco chiaro, nonostante lo sforzo degli interpreti, il significato. Altri termini sono ambigui (per esempio non parafraserei con ‘verità’, con Contini e Carrai, il drittura di Favolello 7 «e fàllati drittura»: ‘giustizia’, che è il senso che drittura ha usualmente, mi pare più aderente al contesto). E certi passi dovranno forse essere riconsiderati in una futura edizione critica. Per esempio, ai vv. 1275-79 tutti gli editori postulano un (credo inattestato altrove) ablativo assoluto: «E vidi ne la corte, / là dentro, fra le porte, / quattro donne reali / che corte principali / tenean ragione ed uso». Dove «corte principali» vorrebbe dire ‘nella prima corte’. Ma dato che le «donne» di cui si parla sono virtù, e che principales è l’aggettivo che nel Medioevo spesso si predica delle virtù, in genere le cardinali, ci si deve domandare se la lezione corretta non sia piuttosto, con minimo emendamento, «come principali», cioè ‘come signore, regine di quella corte di giustizia’ (e sarebbe un altro errore d’archetipo, da aggiungere a quelli registrati da Pozzi e Contini nei Poeti del Duecento).
Forse potremmo chiudere, invece, il discorso sui rapporti tra Brunetto e Dante, salvo che non saltino fuori nuovi testi che permettano di riconsiderare sotto nuova luce la questione. Questione che è nota ad ogni studente liceale: Dante mette Brunetto all’Inferno, tra i sodomiti, ma non dice nulla della sua colpa (il che sorprende fino a un certo punto, dato che non sempre Dante lo fa), né di questa colpa si parla nelle fonti che non dipendono da Dante (il che non sorprende per niente: ci si aspetta che l’omicidio o la simonia lascino traccia nelle cronache, non necessariamente le inclinazioni sessuali).
Sodomia va allora inteso figuratamente, come ‘peccato contro la propria lingua materna’ (perché Brunetto, fiorentino, ha scritto il suo Tresor in francese)? Oppure come peccato politico (perché Brunetto non avrebbe «riconosciuto la sacra autorità dell’Impero»)? Mi sembra che la soluzione proposta da Zanato e ora da Carrai resti la più sensata: dato che Brunetto ci appare in compagnia di «Prisciano, Francesco Accursio e Andrea de’ Mozzi, [cioè] del gruppo di intellettuali, perlopiù pedagoghi ed ecclesiastici, che si sono resi colpevoli di pratiche omosessuali», non c’è ragione di pensare che lui non si sia macchiato dello stesso - non metaforico - peccato.
Non andrei oltre; né speculerei, per le ragioni che ho già accennato, sulla ‘memoria’ della poesia brunettiana nel canto XV. Il poeta Brunetto non aveva niente da insegnare a Dante, perché il peggior Dante (per esempio quello un po’ lezioso di Inferno IV: «Venimmo al piè d’un nobile castello, / sette volte cerchiato d’alte mura, / difeso intorno d’un bel fiumicello...») è migliore del migliore Brunetto. E l’idea che quando Dante mette in scena un altro poeta si serva - attraverso accorte allusioni - delle parole che quel poeta ha adoperato nelle sue opere mi sembra davvero un’idea tutta nostra, un’idea da filologi moderni, che mettiamo a forza nella testa di scrittori molto meno sottili di noi.
E questo vale anche per la testimonianza che molti (anche Carrai) considerano più probante: l’avvio del canto XV, «Ora cen porta l’un de’ duri margini...», nel quale si condenserebbero «gli echi di mosse identiche del Tesoretto, vv. 1183-84 “Or va mastro Burnetto / per un sentiero stretto”, e 2181-82 “Or si ne va il maestro / per lo camino a destro”». Ma direi di no: è una formula di transizione che si trova molte volte nella poesia narrativa francese, per esempio nel Girart de Rossillon («Ere s’en vait Girarz egal solel / per un estreit sender...» (l’identica immagine del sentiero stretto che si trova in Brunetto Latini), nella chanson de toile Gaiete et Oriour («Or s’an vat Oriour stinte et marrie»), nel Macaire franco-veneto, «Ora se voit sor un corant destrer». Langue, insomma, non parole, come nella poesia medievale capita non dico sempre, ma quasi.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". DANTE "corre" fortissimo, supera i secoli, e oltrepassa HEGEL.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Il Gruppo "Amici di Dante" - Associazione culturale di Conegliano da alcuni anni ha istituito e festeggia la Giornata di Dante l’ultimo giovedì di Maggio nell’ambito del proprio Maggio Dantesco, con una conferenza specifica e letture/recite di canti della Divina Commedia accompagnate da musiche. Cfr. i siti
https://centrodantesco.it/agenda/maggio-dantesco-a-conegliano-2/
http://www.trevisotoday.it/eventi/maggio-dantesco-conegliano-26-aprile-2019.html
https://www.time-to-lose.it/conegliano/maggio-dantesco-conegliano-2019.html
Pertanto aderisco con entusiasmo all’istituzione nazionale o mondiale della Giornata di Dante, raccomandando che essa abbia una denominazione italiana ("Giornata di Dante" meglio che "Dantedì") e non inglese ("Dante day", "Dante Pride").
Carmelo Ciccia, dantista (http://www.treccani.it/enciclopedia/carmelo-ciccia/)
presidente del Gruppo "Amici di Dante" di Conegliano (TV)
DANTE, OGGI. PER UNA NUOVA "BUSSOLA TEOLOGICA" .... *
Classici.
Più fede nella politica, la lezione di Dante
La vicenda biografica e intellettuale del grande fiorentino si rivela di grande attualità ancora oggi, specie per quanto riguarda l’impegno dei credenti a favore del bene comune
di Gabriella M.Di Paola Dollorenzo (Avvenire, 17 febbraio 2019)
L’intervista al cardinale Gualtiero Bassetti (Avvenire, 9 dicembre 2018) ha riportato la nostra attenzione «sull’impegno concreto e responsabile dei cattolici in politica». Già nell’inchiesta del mensile Jesus sul «tempo del rammendo » (ottobre 2018), il presidente della Cei aveva rimarcato l’urgenza di ricostruire una presenza laicale che guardasse alla politica come a un’avventura positiva, nella necessità di una classe dirigente in grado di opporre alla sfiducia popolare un forte senso di concretezza e di responsabilità. Queste virtù o, per meglio dire, questi talenti ci permettono di richiamare la coerenza del pensiero politico di Dante così come ebbe a svilupparsi, sia negli anni di politica attiva sia dopo l’esilio e parallelamente allo svolgersi del suo pensiero teologico nella Commedia. Considerare l’architettura del suo pensiero, il rapporto tra teoria e prassi, l’utilizzo anzi l’interazione delle fonti (Sacre Scritture, autori grecolatini, testi arabi) può essere utile per individuare l’archetipo del cristiano impegnato nella realtà politica del proprio tempo, con l’ambizione di tradurre l’imitatio Christi nel concreto operare all’interno della res publica.
La vicenda umana del Poeta incardinato nella realtà politica del suo tempo, specialmente negli anni che vanno dalla morte di Beatrice (1290) alla condanna all’esilio (1302), ci permette di riflettere sul rapporto teologia- politica, così come fu duramente ma appassionatamente vissuto, in «un crescendo di temerarietà e di coerenza» (Giorgio Petrocchi, Vita di Dante, 1993) e, nello stesso tempo, avendo ben salda la «coscienza della storia», quell’habitus morale in base al quale «gli avvenimenti non si confondono caoticamente nella memoria, ma sono collegati dalla coscienza della causa e dell’effetto, dell’iniziativa e della responsabilità» (Romano Guardini, Dante, 2008). Se accogliamo l’approccio euristico di Jürgen Moltmann (si veda in particolare Dio nel progetto del mondo moderno, edito da Queriniana nel 1999), possiamo capire in che senso la teologia può “binarizzarsi” con la politica determinando le scelte tra il bene e il male, nel concreto avvicendarsi della storia di una città, di una nazione, di un popolo. Non è un caso che la formazione filosofico-teologica di Dante preceda cronologicamente l’attività politica, anzi ne sia quasi il trampolino di lancio: «Io che cercava di consolarme, trovai non solamente a le mie lagrime rimedio, ma vocaboli d’autori e di scienze e di libri: li quali considerando, giudicava bene che la filosofia, che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa. E da questo imaginare cominciai ad andare là dov’ella si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti » ( Convivio, II, xii, 5-7).
Dopo aver approfondito l’Etica Nicomachea e la Politica di Aristotele (nella traduzione latina di Guglielmo di Moerbeke e col commento di Tommaso d’Aquino), nel libro II del Convivio si rivendica il primato della morale. Dante va oltre Tommaso d’Aquino: se la metafisica è la scienza di Dio, l’uomo potrà cercare lo status felicitatis in questa vita e, dato che l’uomo è un animale sociale, in una politica regolata dalla morale. Pertanto non è conforme alla morale rinchiudersi nella contemplazione dell’intelligibile, quando l’odio e la violenza di parte sconvolgono la comunità in cui si vive.
Nel 1294, anno dell’elezione e successiva abdicazione di Celestino V, nonché dell’ascesa al papato di Bonifacio VIII, Dante ha un ruolo diplomatico- culturale di primo piano nella delegazione dei cavalieri destinati dal Comune al seguito dell’imperatore Carlo Martello. In seguito, con la stesura del Paradiso, Dante potrà immaginare un incontro con Carlo al cospetto di Dio; il dialogo tra i due, con esplicito richiamo alla Politica di Aristotele, ma anche al De Anima, ha una precisa connotazione teologica: «“Vuo’ tu che questo ver più ti s’imbianchi?”. /E io: “Non già; ché impossibil veggio / che la natura, in quel ch’è uopo, stanchi”. / Ond’ elli ancora: “Or dì: sarebbe il peggio /per l’omo in terra, se non fosse cive?”. / “Sì”, rispuos’ io; “e qui ragion non cheggio”. / “E puot’ elli esser, se giù non si vive /diversamente per diversi offici? / Non, se ’l maestro vostro ben vi scrive”» ( Paradiso, VIII, 113-120).
Sarebbe un male per l’uomo sulla terra se non facesse parte di un ordine civile, di un organismo sociale? E può esistere un’organizzazione civile se i suoi membri non siano ordinati a vivere esercitando diverse funzioni? E Dante risponde “sì” alla prima domanda e “no” alla seconda. La naturale politicità dell’uomo si accompagna alla necessità di distinguere gli offici poiché Nihil frustra natura facit (Politica I, 2).
Il quinquennio successivo al 1294 segnerà intensamente la vita e l’opera di Dante proprio perché continuo sarà lo scambio tra teoria e prassi, una prassi in toga candida: dalla riflessione filosofica riguardo al primato della morale alla traduzione di ciò nella vita della polis, una sorta di ragion pratica kantiana ante litteram: impegno civile, riflessione morale, tenace inseguimento della giustizia.
Proprio quando Firenze è dilaniata da lotte sociali interne e lo stesso papato non è immune dalla brama di potere che assale i partiti politici, Dante tiene ben ferma la barra del suo operare cristiano, perché è fermamente convinto di agire nella direzione indicata dalla bussola teologica. In questo atteggiamento riconosciamo l’attualità del suo pensiero politico e del suo agire politico. Dopo la condanna, negli anni dell’esilio, Dante consegnerà alle pagine del Convivio, della Commedia, ma soprattutto del trattato Monarchia, la riflessione teorica frutto della sua esperienza politica. È un progetto in fieri perché dovrà fare i conti col divenire della storia, è un progetto politico voluto da Dio per il bene dell’umanità.
Dopo la fine del potere temporale dei Papi, la Chiesa, a partire dall’enciclica In praeclara summorum (1921) di Benedetto XV, fino al Messaggio al presidente del Pontificio Consiglio della cultura in occasione del 750° anniversario della nascita di Dante Alighieri (2015) di papa Francesco, ha pienamente rivendicato, si pensi alla mirabile Altissimi cantus, la lettera apostolica di Paolo VI, l’appartenenza di Dante alla Chiesa cattolica e alla fede di Cristo, proprio considerando la sua battaglia di cristiano impegnato nella vita politica del suo tempo e nella sua somma opera teologica.
Oggi l’umanesimo cristiano di Dante può essere una traccia da seguire nella comunicazione religiosa e laica che stiamo vivendo. Per la preparazione del laicato cattolico alla vita politica, il pensiero di Dante può diventare una “bussola teologica”. Il rapporto tra fede, morale e politica, vissuto alla luce dei valori cristiani, che fece di Dante il segno di contraddizione della sua epoca, oggi fa di lui un nostro contemporaneo.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LA VERA STORIA DEL PRESEPIO .... *
“[...] Che cos’è esattamente il presepio? Come nasce? Perché ci sono quei personaggi? Che senso ha farlo oggi? Sono tante le domande che s’affollano in questo libro del classicista Maurizio Bettini, Il presepio (Einaudi, pp. 189, € 19). Il suo non è solo un libro di studio, ma anche un libro di memoria. Meglio: un’autobiografia in forma di studio e di racconto. Tutto comincia con una dichiarazione ad apertura di volume: “Non saprei dire da quanti anni ho smesso di fare il presepio. Venti, trenta, anzi molto di più”. Perché interrogarsi oggi su questo “oggetto” tanto da scrivere un libro dotto e complesso? La risposta non viene subito. Prima bisognerà intraprendere un cammino, per quanto una definizione l’autore la dà subito: il presepio è “una finzione fragile, per questo incantevole”.
[...] Corro alla fine, là dove c’è la risposta ai tanti perché di questo viaggio nella storia e nell’antropologia del presepio. De te fabula narratur. Perché mi occupo del presepio?, si chiede l’autore. Perché ho un patto di fedeltà nei confronti di me stesso. Non quello con la religione in cui sono stato allevato, il Cristianesimo - Bettini ha scritto vari libri per manifestare la “superiorità” del politeismo sul monoteismo. La fedeltà a se stessi è quella all’infanzia, alla propria infanzia. Il presepio, non è solo l’infanzia della Divinità, che ha dominato la nostra storia occidentale per due millenni, ma proprio l’infanzia di Maurizio Bettini, e il presepio è il ritorno al proprio Io bambino...”
* Cfr. Marco Belpoliti, “La vera storia del presepio”, “Doppiozero”, 24.12.2018 (https://www.doppiozero.com/materiali/la-vera-storia-del-presepio).
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI.... *
Su “Dante, nostro contemporaneo” di Marco Grimaldi
di Claudio Giunta (Domenicale del Sole 24 ore, 23 luglio 2017)
Davanti agli scrittori e ai libri classici accade di tenere due atteggiamenti opposti. Uno è quello attualizzante: per far capire al pubblico, di solito un pubblico scolastico, che la voce dei grandi autori del passato è ben udibile anche oggi e merita di essere ascoltata, si annullano i secoli e si cerca di dimostrare come tutte le domande che ci poniamo oggi siano già contenute in quei vecchi libri, accompagnate da ragionevoli risposte. L’altro è quello filologico, che mira a leggere le opere nel loro contesto originario, e dunque a illuminare quel contesto con gli strumenti dell’erudizione. Interpretare significa, a seconda dei casi, avvicinarsi più all’uno o all’altro polo, o meglio trovare un punto intermedio dal quale spiegare le cose secondo verità, ma senza spegnere l’interesse del lettore non specialista.
La Commedia di Dante è naturalmente il banco di prova tradizionale per un simile esercizio di equilibrio: ci parla ancora, indubitabilmente, nonostante siano passati sette secoli, più di qualsiasi altro libro del Medioevo; ma più di ogni altro grande libro del Medioevo incarna le idee e i sentimenti del suo tempo, idee e sentimenti dei quali il lettore odierno ha perduto la chiave. Charles Singleton sosteneva che «l’indifferenza alla salvezza» che è caratteristica di noi moderni ci impedisce ormai di avere una comprensione adeguata dell’opera di Dante. «Il fatto è - scriveva - che siamo arrivati al limite cui era possibile arrivare nella tendenza a minimizzare o a escludere dall’attenzione i più profondi significati cristiani della Commedia».
In altre parole, così come la Bibbia o il Corano significano qualcosa per un lettore cristiano o un per lettore musulmano e qualcos’altro - qualcosa di meno - per un lettore che non creda alla verità né dell’una né dell’altro, allo stesso modo si potrebbe dire che, dal momento che non siamo più in grado di percepire nella Commedia il valore teologico e profetico che essa aveva in origine, anche il nostro apprezzamento dell’opera risulta almeno in parte compromesso. È davvero così? O si tratta invece, come osservava Eliot, non di credere nelle idee in cui Dante credeva bensì soltanto di conoscerle, di dare alla sua opera non un assenso filosofico ma un assenso poetico («Non dobbiamo confondere Dante con san Tommaso o viceversa. Sarebbe un grave errore psicologico. La disponibilità a credere di chi legge la Summa presuppone un atteggiamento diverso da quella di un lettore di Dante, anche se si tratta della stessa persona, e anche se questi è un cattolico»)?
Marco Grimaldi ha scritto questo suo breve saggio dantesco, appena pubblicato da Castelvecchi, mettendosi all’incrocio tra queste due linee di riflessione. Da un lato, la Commedia è un’opera così ricca da concedere un’infinità di appigli a chi voglia servirsene come cava di citazioni o - come malamente si dice - ‘suggestioni’ da applicare alla vita presente. Ma, come mostra molto bene Grimaldi, si tratta spesso di attualizzazioni arbitrarie, nate da una conoscenza insufficiente del contesto storico-culturale nel quale Dante scrive e, più ancora, dalla smania che molti studiosi hanno di adoperare la cultura del passato per illuminare il presente.
Ma c’è una piccola parte di verità e una grande parte di retorica nell’idea - quale che sia l’ideologia attraverso cui si declina - che le opere del passato contengano in sé, impostati se non ancora risolti, i problemi del futuro: la democrazia, il capitalismo, l’eguaglianza, il gender. Grimaldi invita a separare e a distinguere, a segnare le differenze piuttosto che le analogie, e le sue osservazioni andrebbero lette soprattutto da studenti e insegnanti troppo zelanti nella pratica così scolastica del ‘collegamento’ fatto un po’ a casaccio. No, Dante non dice sulla politica cose che possano riguardarci davvero, perché l’assetto del mondo è troppo diverso da quello che lui aveva sotto gli occhi; no, attraverso il personaggio di Beatrice Dante non ha voluto «sconvolgere il comportamento stereotipico codificato in base al gender»; eccetera.
Sotto la critica di Grimaldi cadono uno dopo l’altro questi abusi anche un po’ sciocchi, e forse c’è solo da osservare che la necessità di farli cadere costringe talvolta lo studioso a estremizzare i contrasti: non direi per esempio che l’idea di monarchia dantesca si possa assimilare alla tirannia modernamente intesa, né che, «per le sue prospettive imperiali», Dante sia «totalmente distante agli occhi di chi, come la maggior parte di noi, vorrebbe un mondo libero, democratico ed egualitario». Dante difende l’idea imperiale proprio perché è quella che secondo lui meglio garantisce la libertà e la giustizia fra gli uomini: «Genus humanum solum imperante Monarcha sui et non alterius gratia est» (Mn I xii 9: ma tutto il paragrafo è pertinente). Si può eccepire contro questa idea, contro questa idealizzata - e già a quell’epoca perenta - forma statuale, non però dire che a Dante non stessero a cuore gli ideali che stanno a cuore noi oggi, né che la democrazia, anzi la democrazia moderna, sia l’unica forma di governo che permette di realizzarli.
Dall’altro lato, Grimaldi non si sottrae alla domanda sul perché si legga ancora la Commedia, e anziché fissarsi sui dettagli (il Dante politico, il Dante riformatore religioso, ecc.) guarda all’intero, e trova in questo intero, negli ideali che lo ispirano, un’analogia con i postulati della ragion pratica di Kant, cioè l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima, il libero arbitrio.
Qui - varcando, e di molto, i confini della filologia - il discorso di Grimaldi si fa ancora più interessante, ma anche più opinabile. Venuta meno per gran parte dei lettori odierni, come osservava Singleton, la fede in una vita dopo la morte, e nel giusto riconoscimento dei meriti e delle colpe, la visione dantesca sarebbe una specie di risarcimento, e la nostra perdurante devozione a quella visione esprimerebbe la nostalgia per un ormai tramontato ordine metafisico. È possibile.
Ma è su questa perdurante devozione che è lecito nutrire qualche dubbio, cioè sull’effettiva presenza della Commedia nelle letture degli italiani adulti, una volta finita la scuola. Presenza che a me pare scarsa, comprensibilmente scarsa, dato che la Commedia è un libro difficilissimo, che richiede un sacrificio di tempo e uno sforzo d’attenzione che sono ormai alla portata di pochi. Una risposta molto più pedestre alla domanda circa l’attualità e la ‘durata’ della Commedia nel canone delle nostre letture, circa il «perché leggiamo ancora la Commedia nell’anno 2017», potrebbe essere insomma «perché così hanno deciso centocinquant’anni fa coloro che hanno scritto i programmi della scuola italiana postunitaria». E s’intende che questa risposta materialista integra ma non cancella quella idealista proposta da Grimaldi: ma invita un’altra volta a riflettere su quanto la nostra visione del mondo e dell’arte rispecchi, più che sfuggenti costanti antropologiche, le - molto sagge, del resto - indicazioni nazionali per il curricolo scolastico.
*Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". Con la morte di Giovanni Paolo II, il Libro è stato chiuso. Si ri-apre la DIVINA COMMEDIA, finalmente!!! DANTE "corre" fortissimo, supera i secoli, e oltrepassa HEGEL - Ratzinger e Habermas!!! MARX, come VIRGILIO, gli fa strada e lo segue. Contro il disfattismo, un’indicazione e un’ipotesi di ri-lettura. AUGURI ITALIA!!!
DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI.
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
“Dante, nostro contemporaneo. Perché leggere ancora la Commedia” di Marco Grimaldi
Professor Grimaldi, Lei è autore del libro Dante, nostro contemporaneo. Perché leggere ancora la Commedia edito da Castelvecchi: perché leggiamo ancora la Commedia? *
Leggiamo ancora la Commedia prima di tutto perché è un’opera d’arte perfetta. Perché Dante ha creato un mondo fantastico ma del tutto verosimile e coerente nel suo funzionamento. La leggiamo per il suo realismo: perché nella letteratura in volgare prima di Dante le descrizioni della natura, degli uomini e delle emozioni erano sempre standardizzare, sempre uguali. Spesso erano molto efficaci, certo, ma era come se i poeti non guardassero quasi mai dal vivo la realtà. Dante, che è un uomo coltissimo, un intellettuale che conosce tanta letteratura, è invece un poeta della realtà, un poeta del mondo terreno, come è stato chiamato. E tutto questo lo fa nel momento stesso in cui fonda la tradizione letteraria italiana. Che è poi il motivo per il quale possiamo leggerlo ancora: perché la sua lingua è ancora la nostra lingua. Queste sono le ragioni - importantissime - che si spiegano a scuola e all’università.
Ma leggiamo la Commedia anche per altri motivi, che sono quelli che ho cercato di spiegare nel libro. La leggiamo ancora perché la Commedia ha un messaggio profondo che ancora ci interessa; perché anche oggi, quando a differenza di quanto accadeva al tempo di Dante la maggior parte di noi non crede né nell’esistenza di Dio né nella possibilità che vi sia un sistema di pene e di ricompense nell’aldilà, tutti noi abbiamo comunque un’idea di che cosa dovrebbe accadere dopo la morte. E ce l’abbiamo perché il nostro mondo morale si fonda su quelli che Kant definiva i postulati della ragion pratica: l’immortalità dell’anima, l’esistenza di Dio e il libero arbitrio.
La Commedia mette in scena questi stessi postulati: ci racconta che cosa accade dopo la morte ed è uno straordinario elogio del libero arbitrio, della piena responsabilità dell’uomo nella determinazione del proprio destino. E forse la leggiamo anche perché è un’opera scritta per cambiare la vita degli uomini: Dante ce lo dice in maniera molto chiara: il fine del poema è togliere i viventi dallo stato di infelicità in questa vita e di guidarli alla felicità. Non è arte per l’arte, è arte per la vita.
Quali dei temi affrontati da Dante lo rendono contemporaneo?
Il titolo del mio libro è provocatorio, in quanto nella prima parte spiego in realtà perché Dante a mio parere non è contemporaneo. Non lo è perché crede in tutta una serie di cose che non ci appartengono più: crede che la donna sia naturalmente inferiore all’uomo, che l’omosessualità sia un peccato, che la sete di conoscenza dell’uomo debba avere dei limiti. Per questo non ha senso la prospettiva di certi studi di genere secondo i quali Dante - proprio perché è Dante - avrebbe voluto rivoluzionare il modo di concepire il comportamento della donna.
Certo, Beatrice è il personaggio più importante della Commedia. Ma è anche una donna chiusa nel suo ruolo di genere. Cercare di separare Beatrice dal modo in cui Dante, come tutti gli uomini del suo tempo, concepiva i rapporti di genere, significa non comprendere che l’esaltazione della donna - che era già tipica della letteratura cortese - era possibile solo all’interno di quei ruoli. Dante non vuole rivoluzionare il modo di concepire i generi sessuali: vuole invece esaltare la virtù, l’umiltà e la bellezza di una donna la cui immagine tende a coincidere con quella della Vergine Maria. E in questo non c’è nulla di contemporaneo. Non ha senso tentare di avvicinare Dante alla nostra concezione dei rapporti tra i generi.
Ma in questa operazione di distanziamento non bisogna esagerare. Qualche tempo fa, a un incontro con degli insegnanti delle scuole superiori, mi è stato chiesto: “come si fa a spiegare agli studenti che l’amore di cui parlano Dante e Cavalcanti è una cosa completamente diversa da quello che si intende oggi?”. Ora, questa prospettiva è molto cauta, ma è giusta solo in parte. L’amore di cui parlano Dante e Cavalcanti è infatti lo stesso amore che intendiamo noi oggi. Lo è perché le nostre emozioni, le nostre sensazioni (il brivido che si prova davanti alla persona che si ama, il desiderio di possesso, la gelosia) sono esattamente le stesse che descrive Dante. Per questo, se si conosce un po’ di italiano antico e un po’ di storia e di filosofia del Medioevo (ed è la funzione della scuola: mettere tutti in condizione di poter leggere Dante), è così facile sentirsi coinvolti dal canto di Paolo e Francesca, che parla del momento in cui ci si innamora e dell’impossibilità di resistere al desiderio. Quello che è completamente diverso è il sistema di idee all’interno del quale Dante inserisce quella cosa che chiamiamo amore. Un sistema che condanna duramente Paolo e Francesca. Ed è questo sistema di idee che dobbiamo cercare di ricostruire noi oggi per capire Dante.
Quali soluzioni offre Dante per i mali del nostro tempo?
Dante non offre soluzioni per i mali del nostro tempo; e se a volte sembra offrirle - se qualcuno crede di poter trovare in Dante delle soluzioni - non sono soluzioni che ci piacciono. Pensiamo alle sue idee politiche, per esempio al suo modo per risolvere il problema della cupidigia. Siamo liberi di considerare Dante un predecessore delle critiche al capitale, all’accumulazione finanziaria, all’Europa delle banche. Ma quando lo facciamo dobbiamo sapere che la sua soluzione era concentrare tutto il potere e tutta la proprietà nelle mani di un imperatore assoluto che proprio perché possiede tutto non desidera nulla e mette in questo modo un freno ai desideri smodati di tutti gli altri governanti, portando così pace e serenità in tutto il mondo. Questa è una soluzione, la soluzione di Dante, ma credo che piacerebbe a pochi. Quello che deve interessarci è però che Dante aveva una soluzione per i mali del suo tempo. E ci interessa perché leggendo Dante veniamo a contatto con una idea di poesia e di letteratura che è abbastanza diversa da quella comune. Basta pensare all’ultimo Nobel per la letteratura, Bob Dylan, che quando gli è stato chiesto che cosa significano le sue canzoni ha risposto: «Non dipingetemi come un uomo con un messaggio [...] Tutto quel che posso sperare di fare è cantare quello che penso».
Dante la vede in maniera completamente diversa: lui è esattamente il contrario di Dylan, è un uomo con un messaggio. Anzi, un poeta con un messaggio. Un poeta che vuole cambiare la realtà, che vuole trasformarla, che ama, odia e si vendica dei nemici scrivendo la Commedia. Dante non canta solo per sé; Dante canta per gli altri.
Per spiegare questo aspetto uso a volte un testo di un cantautore calabrese contemporaneo, Brunori Sas, che si intitola Canzone contro la paura. All’inizio Brunori dà voce alla prima modalità, per capirci quella di Bob Dylan: «Canzoni che parlano d’amore / perché alla fine, dai, di che altro vuoi parlare? / Che se ti guardi intorno non c’è niente da cantare / solamente un grande vuoto che a guardarlo ti fa male / perciò sarò superficiale / ma in mezzo a questo dolore / tutto questo rancore / io canto solo per me». Poi la canzone si accende, cambia di tono (anche musicalmente) e Brunori dà spazio anche all’altra modalità (che per me è simile a quella di Dante) e immagina che cosa pensa un tu: «E invece no tu vuoi canzoni emozionanti, / che ti acchiappano alla gola senza tanti complimenti, / canzoni come sberle in faccia per costringerti a pensare / canzoni belle da restarci male». E poi ancora: «Canzoni che ti salvano la vita, / che ti fanno dire “no, cazzo, non è ancora finita!” / che ti danno la forza di ricominciare, / che ti tengono in piedi quando senti di crollare». Ora, è chiaro che sto giocando un po’ con le citazioni, perché ovviamente Brunori Sas non aveva in mente quello che ho in mente io. Però l’opposizione è la stessa: di solito pensiamo alla poesia come a qualcosa che parla d’amore, che parla di un vuoto che abbiamo dentro, di qualcosa che il poeta scrive soltanto per sé. Però ci sono anche poeti che scrivono per un pubblico che vuole delle cose diverse, che vuole poesie che salvano la vita, che danno la forza di ricominciare. Ecco, Dante appartiene a questa seconda categoria.
In cosa consiste la grandezza della Divina Commedia?
La grandezza della Commedia, come dicevo prima, sta nella lingua in cui è scritta (che è ancora la nostra lingua perché Dante è davvero, come abbiamo imparato a scuola, il padre della lingua italiana). La grandezza sta nel mondo possibile che Dante ha creato, un mondo nel quale tutto è fantastico (il viaggio di un uomo nell’aldilà, i suoi incontri con le anime, i diavoli, i mostri, gli angeli e alla fine la visione diretta di Dio) eppure tutto è straordinariamente reale, perché Dante è un poeta della realtà, che ci fa vedere le emozioni, la natura, che ci spiega la storia e le idee. E la grandezza sta anche nella sua idea di poesia, una poesia che cambia la realtà, che cambia gli uomini, che aiuta a vivere meglio.
Ma soprattutto, almeno per me, perché la Commedia è forse in assoluto l’opera letteraria nella quale è più esplicito quel meccanismo per il quale tutti noi tendiamo a riconoscere la nostra storia nelle storie che leggiamo cercando delle risposte, per trovare qualcosa che ci riguardi profondamente e che sia ancora vivo, attuale, presente. È un concetto che esprime benissimo Francesco Petrarca, quando racconta che leggendo le Confessioni di Agostino aveva l’impressione di leggere non la storia di altri «ma quella del suo proprio peregrinare». In Dante il meccanismo è più esplicito: quella che sta raccontando è la storia di un singolo uomo che vuole ritrovare sé stesso, che vuole superare il peccato e per farlo deve conoscere ciò che accade nell’aldilà. Ma è anche la storia dell’umanità intera. Dante aveva previsto che sarebbe scattato quel meccanismo di riconoscimento e scrive la Commedia sapendo che tutti i lettori futuri avrebbero ritrovato nel suo viaggio la storia del loro peregrinare, come dice Petrarca.
In una delle più belle poesie di Satura, Montale scrive: «Dicono che la mia / sia una poesia d’inappartenenza. / Ma s’era tua era di qualcuno». Montale risponde a una critica e per spiegare che la sua non è una poesia senza destinatario si rivolge a un tu, alla donna che ha amato, e le dice che proprio per aver parlato a lei la sua poesia appartiene a qualcuno, è una poesia che si spinge all’esterno, che non è ripiegata sull’interiorità del poeta. Ecco, Dante avrebbe potuto rispondere più o meno nello stesso modo - «Ma s’era tua era di qualcuno» - perché uno degli aspetti più straordinari della Commedia è che sia pensata per elogiare una donna che incarna la perfezione cui possono tendere tutti gli uomini e che questa donna occupi un posto centrale in Paradiso. La Commedia appartiene sicuramente a qualcuno perché appartiene a Beatrice. Ma avrebbe potuto rispondere anche in un altro modo, avrebbe potuto dire: «Ma s’era mia era di tutti». Perché la Commedia è la storia di Dante, ma è anche la storia di tutti noi.
* Fonte: Letture.org.
Il bene è una modesta proposta
di Paolo Morelli (nazione indiana, 17.03.2018)
“A un certo punto, nell’educazione di mio figlio, ho cominciato a sostituire i concetti di buono e cattivo con quelli di reale e irreale, per quanto ciò possa sembrare arbitrario”. Nei suoi ultimi libri Filippo La Porta pare prendere il via da considerazioni di carattere pedagogico assai personale. Ma se nel precedente, Indaffarati, l’indagine riguardava la gioventù odierna e i suoi problemi d’adattamento, qui il critico letterario torna alla grande letteratura e alle sue possibilità di interpretazione ed integrazione nel vissuto quotidiano. Sarà per questo intento iniziale forse, educatore ed autobiografico che la lettura di quello che è pur sempre un saggio dantesco si presenta confortevole, amicale, familiare, con tutta evidenza cosa assai rara.
La Commedia di Dante, dispiegata e spaginata quasi fosse un esercizio spirituale, cioè a dire una pratica personale destinata ad operare un mutamento di visione. Terreno impervio, vista da stratificazione quasi millenaria di pensose riletture e studi accademici sul poema, quella di guardare oggi al viaggio avventuroso nell’oltretomba come un percorso morale di perfezione, un rivolgimento, e alla portata di tutti. Lui il Sommo, così avverso alla modernità riletto come classico contemporaneo, non aggiungendo quindi l’ennesima dose di filologia dantesca bensì alla scoperta di un Dante etico che “possa aiutarci a ridefinire un’etica per il terzo millennio”. E con un suo mentore anche in questo caso, magari più di uno, ma certamente centrale appare la figura di Simone Weil e la sua affermazione che “è bene ciò che dà maggiore realtà agli esseri e alle cose, male ciò che gliela toglie”.
Ed è con la forza delle analogie e la disinvoltura di un appassionato e continuo processo d’induzione che l’autore si avvicina, pure lui “con esitante umiltà”, si appresta a smuovere il monumento per una buona causa, costeggiando o corteggiando l’arbitrario per scrollarsi di dosso il noto, il risaputo, per riaprirlo convinto, almeno pragmaticamente, del primato della morale sulla metafisica e l’idea di grandezza che inevitabilmente essa porta in sé.
Dalla lettura attenta del poema quindi si può ricavare un’idea di bene “come riconoscimento della realtà (...), del carattere inesauribile e diversificato del mondo”, mentre il male, qui sempre minuscolo, è “sottrazione di realtà” per se e per gli altri, è chiusura. È bene (e aggiungerei io, utile) accettare l’insensatezza, la carenza, la reale e realistica nostra debolezza di fronte all’esistere, il male morale nasce invece da una cattiva immaginazione, dall’illusione di una stabilità. Amare qualcuno è dargli realtà, scrive La Porta, e lo ripete nel libro quasi con effetto psicagogico, vale a dire lasciare essere l’altro quello che è, senza volerlo per forza cambiare, ritirarsi quando serve per far esistere l’altro giacché solo “ci si salva lasciando che il mondo esista”. Il corollario di questa intuizione weiliana con cui leggere la Commedia è che una mente sana è una mente non distratta, causa ed effetto al contempo di una speciale qualità di attenzione non solo per gli altri ma per se stessi, traverso la quale è possibile riconoscere che tutti gli eventi e le cose al mondo, noi compresi, sono invariabilmente collegati, intrecciati da nessi cangianti, e ciò che li collega può addirittura definirsi il ‘sacro’.
Quindi il fine della ricerca dantesca, e della nostra parimenti potrebbe essere la visione delle cose come sono, ma il mezzo, lo strumento non può che essere l’attenzione, una speciale qualità d’attenzione come atto intellettivo originario da cui scaturisce, quasi per forza, l’effetto di un amor proprio meno lòico (lo è il diavolo), calcolatore e più laico, cioè forte abbastanza da avere il senso del limite, da poter esercitare la mitezza, quella mitezza così spesso scambiata per debolezza.
Ma poi sul libro aleggia anche, a mio parere, l’urgenza, l’esigenza di una critica letteraria risvegliata dal pensiero etico. Il pensiero pigro, esausto, nichilista o post-moderno che dir si voglia della nostra attualità accetta che non vi sia alcuna verità intrinseca nell’opera d’arte, e che la valutazione si possa quindi limitare al gusto personale, più o meno ammantato da chiacchiere e distintivo. In realtà, e se vogliamo sognare una rifondazione di una necessità quotidiana, di una efficacia autentica, la verità di un’opera d’arte dovrà trovarsi nella maggiore approssimazione del bello al bene, nella kalokagathìa per dirla alla greca.
E questa non è solo una modesta proposta.
Nota:
LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ ...
Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni", ma soprattutto la Legge del "Dio" di Mosè di Elia e di Gesù, del "Dio" dei nostri "Padri" e delle nostre "Madri". L’Amore che muove il Sole e le altre stelle ... e la fine del cattolicesimo costantiniano!!!
Per ben agire e ben comunicare (anche solo con se stessi o con stesse!), come insegna Dante, ci vogliono TRE SOLI (la cosiddetta - impropriamente - teoria dei "due soli")!!!
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA".
Federico La Sala
"INDIVIDUAZIONE": LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ! ... *
Psicoanalisi.
Dante ci aiuta a ritrovare noi stessi. Ne sono convinti gli junghiani. Che portano i pazienti a percorrere un viaggio dentro di loro. Sulle orme del poeta. Uno specialista spiega di Paolo e Francesca, Cunizza da Romano ... E del Paradiso
Nel mezzo del cammin mi trovo sul lettino
Il canto V ci racconta della incapacità di controllare noi stessi I golosi ci parlano dei disturbi alimentari. Gli avidi della compulsività
di Elisa Manacorda (la Repubblica, 29.08.2017)
QUANDO RIPASSIAMO mentalmente quei versi che tante volte abbiamo incontrato sui libri di scuola (“Nel mezzo del cammin di nostra vita”, “Amor ch’a nullo amato amar perdona”, “Fatti non foste a viver come bruti”...) non stiamo solo facendo un esercizio di memoria. Stiamo, in parte, costruendo noi stessi. Stiamo cercando di dare un senso alla nostra imperfezione di esseri umani, stiamo cercando di contenere in un unico individuo le mille contraddizioni che lo compongono. Leggendo e ricordando la Divina Commedia stiamo, in ultima analisi, facendo pace con quello che siamo.
È una straordinaria e affascinante lettura laica della più famosa opera di Dante quella che ne fa la psicologia junghiana. E Claudio Widmann - analista junghiano e membro del Centro italiano di psicologia analitica (Cipa) - l’ha riproposta nel corso del seminario promosso dalla Scuola di specializzazione in psicoterapia psicodinamica dell’età evolutiva dell’Istituto di ortofonologia (Ido) di Roma.
«È una lettura certamente poco istituzionale e classica, che tuttavia può aiutare non soltanto noi analisti, ma gli stessi pazienti, a compiere una sorta di percorso dantesco dentro le nostre vite, per affrontare e risolvere lo smarrimento che a volte ci coglie: momenti di sofferenza, di crisi, di insoddisfazione profonda, di infelicità nei quali non ritroviamo più la “diritta via”», dice Widmann. In questo senso i dannati che animano i gironi infernali, con una interpretazione non letterale dei loro peccati, aiutano a riconoscere le tante debolezze che punteggiano le nostre vite.
«Tutti noi siamo stati, in un certo momento della nostra esistenza, avidi, ingordi, violenti», continua Widmann. I golosi ci parlano non soltanto dei disturbi alimentari così diffusi oggi, ma anche, in un senso meno letterale, dell’avidità di affetti, di denari, di oggetti: basta aprire uno dei nostri armadi per capire quanto ci siamo lasciati andare all’ingordigia dell’acquisto. E il celebrato Canto V dedicato ai lussuriosi, nel quale i due amanti chini sul libro sono condannati per l’idea di un bacio clandestino, ci racconta anche della nostra incapacità di controllare gli impulsi. «Non a caso Paolo e Francesca sono trasportati dal vento, trascinati dalle folate, incapaci di fermarsi: e questo - continua l’analista - ci ricorda di tutte quelle volte in cui non abbiamo saputo prendere una decisione autonoma, lasciandoci in balia delle convenienze, delle mode del momento o di un amore sbagliato».
Nella psicologia junghiana, dunque, la Divina Commedia assume le sembianze di un percorso maturativo, di evoluzione dell’individuo. Inizialmente si procede in discesa, nelle viscere della terra, a significare l’introspezione psicologica. Ma è proprio quando ci sentiamo sprofondati nei gironi infernali, avverte Widmann, che sappiamo di poter risalire la china. Possiamo uscire dal regno della sofferenza per entrare in quello della fatica. Salire insomma sulla montagna del Purgatorio, il luogo dove innanzitutto si ristabiliscono le regole: il ritmo del giorno e della notte, che nell’Inferno era cancellato, qui è ben delineato. Anche il tempo riacquista un suo valore, dunque non va sprecato. «Quando, nel Canto II, Dante incontra il suo amico compositore Casella, gli chiede di suonare per lui. Ma Catone li richiama presto all’ordine: non bisogna attardarsi nel percorso di ricostruzione del sé. Le cose vanno fatte bene, fino in fondo, se si vuole imparare a camminare sulle proprie gambe. Come quando i pazienti ci chiedono di interrompere la terapia perché si sentono già meglio, e non capiscono che si tratta di un benessere illusorio», aggiunge Widmann.
Nella psicologia junghiana, continua l’analista, questo percorso maturativo è detto di “individuazione”, perché parla di ciò che fa di noi degli individui a tutto tondo. Così come è tondo - meglio, sferico - il Paradiso. «Regno della complessità, dove ciascuno di noi riesce a tenere insieme le sue parti contrastanti, le sue contraddizioni », sottolinea l’analista. Qui i francescani e i domenicani, avversari in seno alla Chiesa, possono riconoscersi vicendevolmente i pregi. Qui, ancora, uno “spirito amante” come Cunizza da Romano, donna dalla vita amorosa movimentata, con tre mariti morti in circostanze misteriose e numerosi amanti passeggeri, può autoassolversi senza rimpianti (“lietamente a me medesma indulgo la cagion di mia sorte”), perché, dice Widmann : Tutto quello che ha fatto in vita è andato a comporre la sua esperienza amorosa, e in questo modo ha affinato la sua capacità di amare. Ha, insomma, fatto pace con i suoi difetti e le sue imperfezioni».
Così alla fine del suo percorso di individuazione, nell’ultimo canto, Dante può raccontare la sua visione della trinità, tre cerchi concentrici che si riflettono l’un l’altro. Al centro dei quali emerge una figura umana: il riflesso di se stesso.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
NUOVO REALISMO: LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA"
Federico La Sala
AL DI LA’ DI HEGEL, HEIDEGGER, E RATZINGER. IL PROBLEMA DELL’UNO E LA VIA DEI "TRE SOLI". A scuola di Dante, Bruno, Galilei, e Kant ...
Franco Ricordi: "La grande magia di Dante può essere capita soltanto ascoltandola a viva voce"
Lo scrittore, saggista, attore e regista racconta il tour italiano con cui torna a interpretare la "Commedia". A partire dal 4 luglio sono previste sette serate, tutte a ingresso libero, ospitate nei siti archeologici più suggestivi della Capitale
di RAFFAELLA DE SANTIS (la Repubblica, 01 luglio 2017)
Dante può essere letto in tanti modi, anche come antidoto al nichilismo contemporaneo. Franco Ricordi, interprete dantesco tra i più raffinati, filosofo e saggista oltre che attore e regista teatrale, propone di leggere la Divina Commedia come fosse una cura alla mancanza di senso dei nostri giorni. Ricordi, ora protagonista della seconda edizione della rassegna Dante per Roma, è impegnato in un articolato progetto dedicato alla Commedia dantesca che prevede una lettura dell’opera in più tappe. Roma prima di tutto, dove lo scorso anno Ricordi ha portato l’Inferno e dove ora arriva con il Purgatorio (mentre nel 2018 sarà la volta del Paradiso).
A partire dal 4 luglio sono previste sette serate, tutte a ingresso libero, ospitate nei siti archeologici più suggestivi della capitale, dalle Terme di Diocleziano all’Arco di Giano al Velabro alle Terme di Caracalla. Ma il progetto è un ampio work in progress itinerante: arriverà a Firenze in autunno e poi a Ravenna, in Germania e in Argentina. Il lavoro teatrale è affiancato da documentari tv. Inoltre Ricordi sta lavorando a un’opera in tre volumi: Dante, filosofia della Commedia.
Qual è il posto di Dante nella cultura occidentale?
"Credo sia il solo autore che tenga testa a Shakespeare. La Commedia è il più grande testo dell’Occidente. Come scrive Harold Bloom è l’epicentro del canone occidentale. Ma può essere compresa pienamente solo oggi ".
Perché?
"Perché è un antidoto al nichilismo dei nostri giorni. In Dante possiamo scorgere il primo filosofo dell’anti-nichilismo".
In che senso?
"Attraverso il concetto di amore, che è il vero sottotesto e sovratesto di tutta la Commedia. Il mio ultimo libro s’intitola L’essere per l’amore, concetto simile e contrario all’"essere per la morte" di Heidegger. Volendo usare uno slogan direi: Dante contro Heidegger".
Però la sua infatuazione dantesca è arrivata tardi.
"In realtà sono rimasto folgorato all’età di quindici anni. Al liceo avevo un insegnante, frate Serafino, appassionato di Dante. È lui ad avermi trasmesso la passione dantesca. Ma Dante è un personaggio che è meglio affrontare dopo i cinquanta anni. Ho lavorato su Shakespeare in teatro fin da ragazzino, poi da regista e protagonista di Amleto, ma a Dante sono arrivato nella piena maturità".
Per quali ragioni?
"Dante quando scrive la Commedia è un uomo maturo. E leggendo si avverte che è un uomo provato. Solo da adulti si riesce a comprendere a fondo il suo personaggio ".
Ma Dante è molto amato dai ragazzi.
"Tutto merito del suo endecasillabo, che arriva in maniera impressionante. Alle mie letture partecipano persone di ogni età. Anche se purtroppo è difficile trovare interpreti che sappiano computare la metrica dantesca nel modo giusto. L’endecasillabo per essere tale deve avere l’ultimo accento sulla decima sillaba. Sbagliare vuol dire non conferire il significato giusto. Non dimentichiamo che ogni cantica è formata da canti: il suono è il veicolo del senso".
La lettura ad alta voce serve a dare corpo alla "Commedia"?
"Va recuperato il testo orale. Prima di me lo hanno fatto Vittorio Gassman, Carmelo Bene, Giorgio Albertazzi. Fino a Vittorio Sermonti, al quale dedico le mie letture del Purgatorio. Grandi maestri, ma anche loro presentavano difetti nella computazione del pentagramma delle figure metriche e nel precisare l’ultimo accento sulla decima".
In cosa differisce la sua Lectura Dantis da questi modelli?
"Per commento e lettura privilegio un approccio più poetico-filosofico che storico-filologico. Come l’Amleto, anche la Commedia arriva in modo immediato".
Di certo l’Inferno ha un’immediatezza anche politica. Crede valga lo stesso per il Purgatorio?
"Nel sesto canto, che interpreterò il 5 luglio all’Arco di Giano, c’è la grande invettiva contro l’Italia, che è già una denuncia di quella che oggi chiamiamo "partitocrazia". La denuncia è chiara: "Ché le città d’Italia tutte piene / son di tiranni, e un Marcel diventa / ogne villan che parteggiando viene". In quel "parteggiando" è contenuta una visione quasi ontologica della partitocrazia".
Un’ultima curiosità. Come mai la scelta di iniziare a Roma?
"Se c’è un’ambientazione metastorica e metafisica in assoluto direi che quella è Roma. La Commedia è antica, medioevale, moderna e contemporanea come Roma ".
Il Dante laico un eretico in Paradiso
Collocò i papi all’inferno, separò teologia e politica e le sue opere furono bandite
di Vito Mancuso (la Repubblica, 27 maggio 2017)
Il centro matematico della “Commedia” è una terzina in cui si celebra la libertà in quanto possibilità di libera decisione: «Se così fosse, in voi fora distrutto / libero arbitrio, e non fora giustizia / per ben letizia, e per male aver lutto» (“Purg.” XVI, 70-72). L’intera opera in realtà ruota attorno al concetto di libero arbitrio, come spiega Dante stesso presentando il suo lavoro: «L’uomo, meritando o demeritando nell’esercizio del suo libero arbitrio, è soggetto al giusto premio o alla giusta pena» (“Epistola a Cangrande”, 8).
È per questo che si dà commedia, cioè movimento, trama, creatività, mentre in sua assenza si avrebbe tragedia, come Edipo destinato a uccidere il padre e a giacere con la madre, oppure farsa, mero caos, assenza totale di struttura. Uno dei versi più belli è quello con cui Virgilio, accomiatandosi da Dante, gli conferisce la corona e la mitria attestando che ormai egli è re e papa di se stesso: «Per ch’io te sovra te corono e mitrio» (Purg. XXVII, 142).
Appare qui l’altissimo senso della libertà della coscienza personale coltivato da Dante, confermato da quanto scrive al signore di Verona: «Coloro che hanno vigore d’intelletto e di ragione sono dotati di una sorta di divina libertà e non sono rigidamente legati a nessuna consuetudine; e ciò non fa meraviglia, perché non essi sono diretti dalle leggi, ma piuttosto le leggi da loro» (Epistola a Cangrande, 2). Tale primato della coscienza ha ben poco a che fare con lo stereotipo del medioevo oscurantista e non a caso si ritroverà nell’umanesimo con la Oratio pro hominis dignitate di Pico della Mirandola del 1486, e nella modernità con lo scritto di Kant del 1784 Risposta alla domanda: Che cos’è l’illuminismo? ...
Da tale considerazione della libertà discende il primato della morale sostenuto da Dante: «Cessando la Morale Filosofia, l’altre scienze sarebbero celate alcuno tempo, e non sarebbe generazione né vita di felicitade, e indarno sarebbero scritte e per antico trovate» (Convivio, II, 14). Si tratta di una tesi «veramente straordinaria nel medioevo» (Gilson), secondo cui la filosofia si compie come etica e la conoscenza come giustizia.
È per questo che in Dante hanno tanto spazio la denuncia e l’invettiva: sono una logica conseguenza dell’aver assunto l’etica quale punto di vista in base a cui guardare il mondo. Uno sguardo informato dalla giustizia intende giudicare, sente cioè la necessità di distinguere il bene dal male e gli onesti dai truffatori.
Dante quindi è un moralista, non però nel senso decaduto della contemporaneità, ma nel senso classico che fa della giustizia la virtù più grande al cui servizio si devono porre la politica, la filosofia e la teologia, perché a questo servono il potere, la conoscenza e la religione: a essere giusti nel proprio intimo e a incrementare il tasso di giustizia nel mondo. Esattamente per perseguire la giustizia sopra ogni cosa Dante non esita a collocare all’inferno ben cinque papi: Niccolò III, Bonifacio VIII, Clemente V, Celestino V, Anastasio IV, oltre ad altri non nominati e a moltissimi esponenti del clero, collocati soprattutto nel girone degli avari e dei sodomiti.
Il pensiero di Dante sul rapporto della teologia con le altre scienze, in particolare con la filosofia, emerge con chiarezza dal Convivio dove viene ripreso un passo biblico secondo cui «sessanta sono le regine... una è la colomba mia e la perfetta mia», con il seguente commento: «Tutte scienze come regine» e la teologia «colomba perché è sanza macula di lite» (Convivio II,14; la citazione biblica è Cantico dei cantici 6,8).
Ora Dante sapeva bene che la condizione effettiva della teologia non era certo quella di essere priva di liti, visto che la rabies theologorum alimentava scomuniche e roghi. Egli si riferiva però alla teologia quale avrebbe dovuto essere idealmente: una scienza non a servizio del potere, e perciò ricolma di invidia e di litigiosità, ma a servizio della vita spirituale, e perciò ricolma di pace e di mitezza.
La teologia amata da Dante ha il vertice non nella dogmatica, ma nella spiritualità e nella mistica: non a caso Beatrice al culmine del Paradiso lo affida non a un teologo dogmatico come Tommaso d’Aquino, ma a san Bernardo, il teologo della mistica unitiva.
A questo proposito un grande esperto quale Gilson ha scritto che la prospettiva dantesca «non solo non contiene la dottrina tomista della subordinazione delle scienze alla teologia, ma manifesta piuttosto l’intenzione di evitarla», e qui occorre ricordare che fu a causa di tale teoria tomista della subordinazione delle scienze alla teologia che in Italia si ebbero eventi come il rogo di Giordano Bruno e l’abiura di Galileo, che tanto hanno contribuito al declino culturale, civile e morale del nostro paese.
Tutto ciò trova conferma nella clamorosa presenza in Paradiso di ben due eretici, già condannati come tali all’epoca in cui Dante scriveva: Gioacchino da Fiore, condannato dal Lateranense IV nel 1215, e Sigieri di Brabante, condannato dall’arcivescovo di Parigi nel 1270 e nel 1277. Dante fa sì che essi vengano presentati da chi in terra era stato loro particolarmente ostile, così fa dire a Bonaventura che Gioacchino da Fiore è «di spirito profetico dotato», un’affermazione che il Bonaventura storico non avrebbe mai potuto compiere perché considerava Gioacchino «come un ignorante condannato a buon diritto».
Quanto a Sigieri, ancora gli esperti non hanno trovato un accordo sul motivo che portò Dante a porre in Paradiso un pensatore tanto scomodo, esponente di quell’aristotelismo radicale, o averroismo, guardato con palese ostilità dal potere ecclesiastico per la piena autonomia della ragione che professava. Ma proprio un personaggio così scomodo viene posto da Dante in Paradiso accanto ai teologi più illustri e fatto presentare dal più illustre di tutti, san Tommaso d’Aquino, con le celebri parole: «Essa è la luce etterna di Sigieri, / che, leggendo nel vico degli strami, / sillogizzò invidiosi veri» (Par. X, 136-138).
Sigieri era un filosofo che professava la più rigorosa distinzione tra teologia e filosofia: collocandolo in Paradiso Dante approva questa impostazione, persino dopo la pubblica condanna ecclesiastica (cui peraltro seguì la morte sospetta di Sigieri nella curia papale per mano del segretario, si disse preso da un raptus di follia).
Perché Dante esalta Sigieri? Perché il suo pensiero si traduceva in politica nella rigorosa distinzione tra papato e impero, e nella conseguente esclusione del papato da ogni gestione del potere politico. È la prospettiva che noi oggi denominiamo laicità. Si spiega così anche l’ostilità di cui fu oggetto il pensiero politico di Dante da parte del potere ecclesiastico, con l’ordine di papa Giovanni XXII nel 1329 di dare alle fiamme il De Monarchia e l’inserimento della stessa opera nel 1559 nella prima edizione del famigerato Index librorum prohibitorum.
Dante, “il padre Alighiero di Bellincione era un usuraio: la prova in due pergamene”
I documenti conservati nell’Archivio Diocesano di Lucca e pubblicati nella nuova edizione del ’Codice Diplomatico Dantesco’, attestano l’attività usuraia del padre del Sommo Poeta a un processo svoltosi a Firenze nel 1254
di F. Q. (Il Fatto Quotidiano, 1 febbraio 2017)
Seduto su una spiaggia incendiata, sotto una pioggia di fuoco: così Dante Alighieri avrebbe punito suo padre dopo la morte, almeno secondo quanto si legge nella Divina Commedia. Alighiero di Bellincione, padre del Sommo Poeta, “era infatti un piccolo e astuto usuraio, protagonista di continui maneggi di denaro”. Per questo sarebbe potuto finire nel terzo girone del settimo cerchio dell’Inferno dantesco, insieme a bestemmiatori e sodomiti. Chissà però se il figlio, quando scrisse il suo capolavoro, era a conoscenza dell’attività di Alighiero, testimoniata ora dai documenti pubblicati nella nuova edizione del ‘Codice Diplomatico Dantesco‘ (Salerno Editrice) curato da Teresa De Robertis, Giuliano Milani, Laura Regnicoli e Stefano Zamponi. Due pergamene conservate nell’Archivio Diocesano di Lucca che attestano la partecipazione del padre di Dante a un processo svoltosi a Firenze nel 1254 davanti al podestà, undici anni prima della nascita di suo figlio.
Anche quando si trovò a vestire i panni di procuratore giudiziale nel tribunale del podestà, Alighiero di Bellincione non esitò a rivelarsi, sotto mentite spoglie, uno speculatore finanziario, sfruttando le difficoltà economiche di un convento, il cui abate aveva fama di essere “dedito ai piaceri mondani e dissipatore di denaro”: è questa l’immagine del padre del Sommo Poeta che emerge dai nuovi documenti, che non solo confermano la sua attività usuraria, ma contribuiscono a precisarla, arricchendola di dettagli e sfumature. Il tribunale di Firenze, dove costantemente si affrontavano cause per debiti in udienze aperte al pubblico, rappresentava per gli usurai “un fertile bacino da cui attingere la clientela e con ogni probabilità era frequentato anche dal padre di Dante in cerca di affari”, ricostruisce Laura Regnicoli, docente dell’Università di Firenze.
“Niente vieta allora di pensare che Alighiero, presente nell’aula del podestà il 5 settembre 1254, abbia offerto il proprio aiuto all’abate Nicola, tanto carico di debiti quanto di proprietà con cui garantire i mutui - spiega la professoressa all’AdnKronos - Se questa ricostruzione è esatta, le pergamene lucchesi assumono il valore esemplare di un’attività svolta da Alighiero come usuraio, in forma più o meno continuativa. In cambio di opera e soldi il padre di Dante ottenne verosimilmente la proprietà dell’abbazia e forse, attuando una strategia finanziaria già di famiglia, la rivendette, convertendola in moneta sonante”.
Le carte d’archivio spiegano che la causa civile fu promossa da due fratelli di Semifonte, città che fu avversaria di Firenze, contro il monastero di San Salvatore di Fucecchio, allora sotto Lucca, e il padre di Dante intervenne come procuratore dell’abate Nicola. La prima pergamena, ritrovata da Alberto Malvolti (che ne pubblicò un riassunto del contenuto nel 1987 sulla rivista “Erba d’Arno”) contiene la verbalizzazione delle udienze tenutesi tra il 5 settembre e il 5 novembre 1254. L’altra è stata scoperta proprio da Laura Regnicoli e costituisce il presupposto giuridico dell’azione processuale di Alighiero, contenendo la procura a lui rilasciata dall’abate. Due nuove testimonianze contenute nel ‘Codice Diplomatico Dantesco’ che dimostrano l’attività usuraia del padre di Dante. Anche se il Sommo Poeta, nel suo viaggio con Virgilio attraverso l’Inferno, non racconta di averlo incontrato.
"DUE SOLI" IN TERRA, E UN SOLO SOLE IN CIELO: "TRE SOLI". GENERE UMANO: I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE!!! NON SOLO SUL PIANO TEOLOGICO-POLITICO, MA ANCHE ... ANTROPOLOGICO!!!
L’uomo che apre le porte dei capolavori vaticani: “Ho le chiavi del paradiso”
Gianni Crea è il capo dei clavigeri dei musei della Santa sede. "Ogni mattina, quando entro nella Cappella Sistina, mi sento un privilegiato"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 gennaio 2017)
CITTÀ DEL VATICANO. "L’alba è il momento più magico. Entro nel bunker che custodisce le 2797 chiavi dei musei vaticani. Quando non ci sono gli addetti della sagrestia pontificia, tocca a me prelevare l’unica chiave che non ha numero né copie. È un modello antico come la porta che apre, quella della Cappella Sistina. Giro la serratura della Cappella, quella stessa che sigilla i cardinali in conclave, per pochi istanti mi sento investito da una meraviglia che non è facile spiegare. M’inginocchio, mi segno, e dico una preghiera in solitudine. Chiedo che tutti i visitatori che di lì a poco entreranno possano provare il medesimo stupore. Sono un privilegiato, ne sono consapevole. E so che di questo privilegio devo esserne sempre degno".
Gianni Crea, 45 anni, romano ma originario di Melito di Porto Salvo, in provincia diReggio Calabria, è capo clavigero dei musei vaticani. In sostanza, ha il compito di aprire e chiudere tutte le porte e le finestre, 500 in tutto, 300 del percorso dei visitatori e 200 dei vari laboratori collegati. A vent’anni il parroco della chiesa che frequentava sulla via Appia gli chiese se voleva lavorare nella basilica vaticana come custode ausiliario. La Fabbrica di San Pietro in cambio avrebbe contribuito ai suoi studi. Accettò.
Qualche anno dopo, giovane studente di giurisprudenza con il sogno di diventare magistrato, partecipò a un concorso per diventare a tutti gli effetti custode. Per un anno lo osservarono, per valutare se fosse idoneo: puntualità, discrezione e serietà le principali doti richieste. Venne preso: "Da adesso - gli dissero - devi sempre ricordare dove ti trovi. Lavori nel centro della cristianità. I dieci comandamenti devono diventare il tuo secondo vestito". Una richiesta "non da poco", dice. "Tuttavia sono contento di non disattenderla".
Più immaginifica fu, invece, la consegna che gli fece Antonio Paolucci, fino a poche settimane fa direttore dei musei, quando da semplice clavigero venne nominato capo. "Adesso sei tu ad avere simbolicamente in mano le porte del Paradiso", gli disse per fargli comprendere la responsabilità a cui era chiamato. Con lui, infatti, collaborano altri dieci clavigeri che si dividono il lavoro in due turni, una metà dalle 5.30 del mattino alle due del pomeriggio. Gli altri fino a sera tardi. "Da quel momento il Vaticano è diventata la mia seconda casa - dice - Conosco le chiavi come le mie tasche. Ogni porta apre un mondo per me e per tutti i clavigeri familiare. Dietro ogni porta c’è un odore particolare, un profumo, riconoscibile soltanto da noi".
L’apertura e la chiusura di porte e finestre sono momenti entrambi delicati. Alle 5.30 la Gendarmeria di Porta Sant’Anna toglie l’allarme e il clavigero di turno procede con un lungo giro che dura quasi un’ora e mezzo. Dopo ogni apertura c’è il controllo che ogni cosa sia in ordine. "Se ad esempio si rompe un tubo dell’acqua - racconta - spesso tocca a me chiamare l’idraulico". Negli ultimi anni i visitatori dei musei sono parecchio aumentati, 28mila le sole presenze giornaliere in Sistina. Tutto deve essere perfetto. "Ma anche la chiusura non è facile. Bisogna controllare che nessuno rimanga all’interno. Gli imprevisti sono sempre possibili. Una sera chiudemmo tutto e di colpo suonò l’allarme. Accorremmo nella stanza nella quale veniva segnalata una presenza. Per fortuna era soltanto un passerotto rimasto dentro".
Il clavigero è l’erede delle chiavi del Maresciallo del Conclave, colui che fino al 1966 doveva sigillare le porte intorno alla Cappella quando i cardinali si riunivano per eleggere il Pontefice. La sua chiave non è l’unica a essere preziosa: c’è, ad esempio, la chiave numero 1, quella che apre il portone monumentale su viale Vaticano, che oggi è il portone d’uscita dei visitatori dei musei.
E poi c’è la 401, una delle più antiche: apre il portone d’entrata dei musei e pesa mezzo chilo. "Due chiavi decussate, cioè incrociate a X, appaiono negli stemmi ed emblemi dei papi - scrive Tiziana Lupi su "Il mio Papa" - Sono una d’oro (potere spirituale) e una d’argento (potere temporale); hanno i congegni traforati a croce e sono unite da un cordone, simbolo del legame tra i due poteri ". I musei sono divisi in quattro aree. Ad ogni area corrispondono dei numeri a cui le chiavi si riferiscono. Le chiavi con il numero 100 sono del museo etnologico, quelle col 200 sono del Gregoriano, eccetera...
"La gioia più grande in questi anni - dice ancora Crea - l’ho avuta pochi anni fa. Prima che morisse mia madre ha potuto assistere a una messa del mattino a Casa Santa Marta. Ha ricevuto una carezza dal Papa. Un piccolo gesto che per me ha significato molto".
IL “PARADISO IN TERRA”, LA “MEMORIA” DI ABY WARBURG, E LA LEZIONE DI WALTER BENJAMIN. *
C’ERA UNA VOLTA IL PARADISO SEGNATO SULLE CARTE. “Il paradiso in terra. Mappe del giardino dell’Eden”, (Bruno Mondadori, Milano, 2007) di Alessandro Scafi è per molti versi un’opera sorprendente - soprattutto per l’essere il lavoro di un “Lecturer in Medieval and Renaissance Cultural History” presso il Warburg Institute di Londra.
Muovendo dalla storica acquisizione che la “gran parte delle mappe medievali contengono un riferimento visivo al giardino dell’Eden”, egli cerca di rispondere alla domanda su quali siano state “le condizioni che hanno reso possibile la cartografia del paradiso”. Lo scopo del suo libro, infatti, è quello di “visitare il nostro passato come si fa con un paese straniero, tentando di effettuare la visita con la massima apertura mentale e il massimo rispetto” e cercare di esplorare e scoprire - premesso che “chi metteva il paradiso su una carta aveva le sue buone ragioni” - queste “buone ragioni” (p.7).
Se è vero - come egli stesso sostiene - che “ieri segnare il paradiso su una carta significava una confessione dei limiti della ragione una dichiarazione di fede in un Dio che interveniva nell’arena geografica della storia”, e, altrettanto, che “oggi una mappa che tra le ragioni del mondo comprenda anche il paradiso sembra dover richiedere uno slancio di fantasia o uno sforzo di immaginazione”, è da pensare che l’Autore - alla luce del suo percorso e, ancor di più, delle sue stesse conclusioni - ha trovato molte e grandi difficoltà e che - per dirlo “con una parola-chiave dell’orizzonte di Aby Warburg - che la Memoria (“Mnemosyne”) gli ha giocato un brutto scherzo!
Nell’ Epilogo, con il titolo “Paradiso allora, paradiso ora”, dopo aver premesso in esergo la seguente citazione:
Scafi così comincia: “Per cercare di capire la cartografia del paradiso abbiamo compiuto un lungo viaggio nel tempo. Siamo partiti dagli albori del cristianesimo e, passando attraverso il Medioevo, il Rinascimento e la Riforma, siamo arrivati ai giorni nostri. Abbiamo incontrato il paradiso terrestre in una grande varietà di forme, sia descritto a parole sia sagomato dalle linee di una carta”.
E ormai stanco del percorso fatto, nello sforzo di non farsi accecare dalla varietà delle forme e di (farci!) cogliere l’essenziale (il “dio”) che nei “dettagli” si “nasconde”, così ricorda e prosegue: “Come si è visto, localizzare il paradiso terrestre descritto dalla Genesi non era soltanto un problema geografico, e tutti coloro che hanno voluto interpretare il racconto del peccato di Adamo si sono trovati di fronte ai grandi interrogativi sul destino ultimo dell’uomo”. E, a chiusura del discorso e a esclusione di ulteriori domande in questa nebbiosa direzione metafisica ed escatologica, così precisa: “Non c’è meravigliarsi, allora, che le risposte offerte da tanti secoli di tradizione cristiana siano state formulate e riformulate, con il passare del tempo, in maniera così diversa”!
LA RINASCITA DELLA “HYBRIS” ANTICA: I MODERNI. L’attenzione di Scafi, nonostante ogni buona intenzione, è conquistata da altro: “Quello che colpisce, invece, è il modo in cui, a partire dal Rinascimento e dalla Riforma, ogni autore che si sia cimentato sull’argomento si è sempre industriato a ridicolizzare le teorie dei suoi predecessori. Scrivere sul paradiso sembrava richiedere sempre una carrellata preliminare sulle stravaganze precedenti, per bollare come insostenibili tutte le teorie pregresse e quindi proporre la propria soluzione, che si auspicava definitiva”. E così sintetizza e generalizza: “L’abitudine di presentare, in un’ironica rassegna, le assurdità e gli errori del passato è diventata così un topos che è durato fino ad oggi”; e, ancora, precisa: “A ben vedere, si possono rintracciare già nella tarda antichità le avvisaglie di questa pratica post-rinascimentale”(p. 306).
Colpito da questa “evidenza” e da questa “scoperta”, egli prosegue con l’antica e moderna ‘tracotanza’ (il “folle volo”) a narrare la sua “odissea”, aggiorna il numero della “varietà delle forme” delle mappe del giardino dell’Eden, e, senza alcun timore e tremore, completa la sua personale “ironica rassegna”, - con una “carrellata” sulle ultime e ultimissime “stravaganze”, su quelle degli artisti russi Ilya ed Emilia Kabakov, coi loro “progetti singolari e fantasiosi” (in particolare, “Il paradiso sotto il soffitto”), che Scafi così commenta:
“MAPPING PARADISE”. Questa è la conclusione di "A History of Heaven on Earth”: per dirla in breve, una pietra tombale sull’idea stessa del “paradiso in terra”, e non solo sulle “carte” dei Kabakov, anche se “i due artisti russi sembrano condividere il pensiero dei teologi e dei cartografi medievali”.
Che a questo “destino” dovesse approdare tutta la ricerca, nonostante le apparenze del percorso, Scafi l’aveva già ‘annunciato’, come in una “profezia che si auto-adempie”, in un breve paragrafo dedicato a Dante e alla “Commedia”, intitolato “Un volo poetico in paradiso”, dove - separata “poesia” e “non poesia” - così pontifica:
Fin qui, niente di speciale: il suo punto di approdo è lo stesso di “chi scrive di storia per il grande pubblico” e degli “storici di professione”(p. 7)! E la sua “storia dell’arte” cartografica del “paradiso in terra” di “oggi”, alla fin fine, potrebbe benissimo essere collocata, in una possibile ristampa, nel “Dictionary of the Bible” di “ieri” (1863).
LA SCALA DEGLI INDIANI PUEBLO E LA “MEMORIA” DEL PARADISO DI ABI WARBURG. Per “ironia della sorte”, quasi cento anni prima della mostra dei Kabokov a Londra (1998), nel 1896, Aby Warburg è nel Nuovo Messico e in Arizona, incontra gli indiani Pueblo e - come poi racconterà e cercherà di descrivere con disegni e foto nel 1923 (cfr. “Il rituale del serpente”, Adelphi, Milano, 2005) - conosce elementi della loro cosmologia, un universo “concepito come una casa”, con il tetto con “le falde a forma di scala”, una “casa-universo identica alla propria casa a gradini, nella quale si entra per mezzo di una scala”, e comprende quanto è importante per l’uomo “la felicità del gradino”, il salire (“l’excelsior dell’uomo, il quale dalla terra tende al cielo”). E, al contempo, sempre nel 1896 (il 26 giugno), ad un suo amico, così scrive:
Warburg rimase persuaso di ciò sino alla fine. Ma se fu questo suo atteggiamento ad allontanarlo dagli esteti e anche dagli storici dell’arte, fu il suo intenso interesse - come cita, scrive, e commenta Ernst H. Gombrich (cfr. Aby Warburg. Una biografia intellettuale, Feltrinelli, Milano, 2003, pp 274) - per le questioni psicologiche fondamentali ad avvicinarlo a una generazione che aveva assimilato la lezione di Freud e si rendeva sempre più conto dell’immensa complessità della mente umana. E qui la fama di Warburg non si basa certo su un fraintendimento.
IL PARADISO E L’ANGELO DELLO STORIA. LA LEZIONE DI WALTER BENJAMIN:
"Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo "come propriamente è stato". Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo [...] In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come redentore, ma come vincitore dell’Anticristo. Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere"(Tesi di filosofia della storia).
*
Allegato:
“LIBER PARADISUS” (BOLOGNA, 1257):
Dio onnipotente piantò un piacevole Paradiso (giardino) e vi pose l’uomo, il cui corpo ornò di candida veste donandogli una libertà perfettissima ed eterna. Ma l’ uomo, misero, immemore della sua dignità e del dono divino, gustò del frutto proibito contro il comando del Signore. Con questo atto tirò se stesso e i suoi posteri in questa valle di lagrime e avvelenò il genere umano legandolo con le catene della schiavitù al Diavolo; cosi l’ uomo da incorruttibile divenne corruttibile, da immortale mortale, sottoposto a una gravissima schiavitù. Dio vedendo tutto il mondo perito (nella schiavitù) ebbe pietà e mandò il Figlio suo unigenito nato, per opera dello Spirito Santo, dalla Vergine madre affinché con la gloria della Sua dignità celeste rompesse i legami della nostra schiavitù e ci restituisse alla pristina libertà. Assai utilmente agisce perciò chi restituisce col beneficio della manomissione alla libertà nella quale sono nati, gli uomini che la natura crea liberi e il diritto delle genti sottopone al giogo della schiavitù.
Considerato ciò, la nobile città di Bologna, che ha sempre combattuto per la libertà, memore del passato e provvida del futuro, in onore del Redentore Gesù Cristo ha liberato pagando in danaro, tutti quelli che ha ritrovato nella città e diocesi di Bologna astretti a condizione servile; li ha dichiarati liberi e ha stabilito che d’ora in poi nessuno schiavo osi abitar nel territorio di Bologna affinché non si corrompa con qualche fermento di schiavitù una massa di uomini naturalmente liberi.
Al tempo di Bonaccorso di Soresina, podestà di Bologna, del giudice ed assessore Giacomo Grattacello, fu scritto quest’ atto, che deve essere detto Paradiso, che contiene i nomi dei servi e delle serve perché si sappia quali di essi hanno riacquistato la libertà e a qual prezzo: dodici libbre per i maggiori di tredici anni, e per le serve: otto libbre bolognesi per i minori di anni tredici (...).
Con il trattato sulla “Monarchia” l’autore della “Divina Commedia” rompe con la tradizione medievale. Ma difende la natura sacrale dell’impero
A lezione di politica dal professor Dante
di Massimo Cacciari (la Repubblica, 06.11.2016)
L’edizione del Monarchia di Dante, a cura di Paolo Chiesa e Andrea Tabarroni, recentemente pubblicata come quarto volume della nuova edizione commentata delle Opere, coordinata da Enrico Malato, non si segnala soltanto per la ricchezza di note e apparati, per alcuni interventi migliorativi del testo-base, per l’ampia introduzione generale e quelle, essenziali, alle singole parti del volume, ma anche per la presenza di alcuni importantissimi “documenti” riguardanti la fortuna dello scritto dantesco, tra i quali il De reprobatione di Guido Vernani, radicale e filosoficamente nient’affatto sprovveduto attacco al Monarchia da parte del frate domenicano; il Commentarium al Monarchia di Cola di Rienzo, testimonianza della sua passione per la gloria di Roma, di un “culto” che Dante definisce nella sua portata teorica e da lì, anche proprio attraverso Cola, trapassa nell’Umanesimo; infine il “volgarizzamento” del Monarchia, steso dal grande Ficino, alla fine degli anni ’60 del ‘400, non solo in funzione antirepubblicana, ma per rivendicare Dante alla pia philosophia e cioè alla “catena aurea” del platonismo. Interpretazioni o “fra-intendimenti” diversissimi, che non nascono soltanto dalle posizioni spesso incompatibili dei loro autori, ma proprio dalla novità e complessità dell’opera di Dante, soprattutto se letta insieme alla Commedia (come appare necessario fare, poiché certamente essa viene scritta in anni nei quali Dante è già tutto immerso, mente e cuore, nella stesura del poema).
Della sua novità Dante è “superbamente” consapevole - e così dello scandalo che essa è destinata a suscitare. Malgrado le numerose citazioni da Agostino, riguardanti essenzialmente questioni intorno al metodo dell’esegesi, Dante non poteva non avvertire l’abisso tra la sua concezione della civitas hominis, la sua idea di Roma e di Impero, e quelle dell’intera tradizione patristica e dello stesso “aristotelismo” tomista. Da remedium o addirittura semplice solacium per l’infermità della nostra natura vulnerata dal peccato, in Dante l’Impero (e cioè la forma provvidenzialmente destinata a unire politicamente il genere umano), la cui idea stessa viene da lui proposta in termini puramente filosofico-scientifici, esclusivamente per philosophica documenta, è chiamato a assicurare autentica felicità terrena, a edificare l’autentico Paradiso terrestre. Da Babilonia, quale era per Agostino, Roma si trasforma in Roma celeste!
Ma nella Commedia questo Fine appare davvero ancora garantito dall’opera del solo Impero, nella razionale autonomia della sua forma? Questo l’enigma, su cui Chiesa e Tabarroni invitano ancora a riflettere. Virgilio, la prima guida di Dante, si arresta alla soglia del Paradiso terrestre, non vi entra e tantomeno potrebbe spiegarne i simboli; stupisce e basta sullo spettacolo che gli si rivela. È Beatrice a “far entrare” il poeta, e solo dopo che egli ha bevuto tutto l’amaro calice della confessione e del pentimento.
L’architettura della Commedia, nei nessi costitutivi rappresentati dalle guide del poeta, segna una profonda discontinuità con quella del Convivio e del Monarchia. Come spiegarla? Amara delusione e disincanto dopo il fallimento delle ultime speranze, che ancora avrebbero animato l’opera politica? Ma il Monarchia è tutto fuorché uno scritto “militante”; provvidenziale appare a Dante il corso della storia, ed egli vuol esserne il profeta. In questo schema è inserita la gloria di Roma, modello di perfetto potere politico, di Impero. Ma è la forza ideal-eterna di questo disegno che finisce col rendere contraddittorio il famoso simbolo dei due Soli, Chiesa e Impero, perfettamente distinti nei rispettivi domini e nelle rispettive missioni. Se, infatti, il perfetto potere politico è concepibile soltanto in quanto voluto ab origine dal Signore, in quanto provvidenziale nel senso più proprio e più forte, la felicitas che esso promette è necessariamente subordinata a quella ultima, alla beatitudo celeste.
E sembra essere questa, alla fine, l’indicazione che emerge dalla Commedia. Dante rompe definitivamente con la teologia politica patristica e medievale, ma non è affatto anacronisticamente leggibile nel senso di Marsilio da Padova e della filosofia politica moderna successiva. L’Impero di Dante non sono i regna, o ormai potremmo dire gli Stati, che ha in mente Marsilio. Dante segna la grandiosa soglia tra due epoche - quella di un’idea del Politico che, pur nel rivendicare la propria razionale autonomia, lotta per non perdere ogni fondamento sacrale, e quella che ne risolve il significato e la missione nella immanente potenza delle sue leggi, nella positività del suo diritto. Per quest’ultima, che il Giustiniano imperatore di Dante trovi posto, e vera pace, solo in Paradiso diverrà il simbolo di un’epoca per sempre tramontata.
I tabù del mondo
L’enigma Ulisse eroe narcisista che scelse l’Altro
Il personaggio creato da Omero è, ancora più di Edipo, simbolo eterno dell’oltrepassamento del limite, come racconta Dante nell’Inferno. Ma poi il Novecento (vedi Heidegger e Canetti) ha riletto in tutt’altra chiave le sue avventure. Enfatizzandone i lati decisamente non egoistici: dal pianto per Troia al ritorno in famiglia Queste nuove interpretazioni non cancellano aspetti come il desiderio infinito o la curiosità insaziabile: piuttosto sottolineano la divisione tragica dell’uomo
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 11.09.2016)
Ulisse è l’eroe della mitologia che più di tutti ha forse incarnato la tendenza umana all’oltrepassamento di ogni tabù. Al contrario di Edipo, il figlio, che di fronte all’eccesso di verità (non è re ma parricida, non è marito ma figlio della regina, non è padre ma fratello dei suoi figli) sprofonda nella colpa, Ulisse incarna la spinta positiva della conoscenza che sa trasformare ogni ostacolo in uno stimolo a proseguire la sua ricerca.
Non ci siamo forse riconosciuti tutti in questa spinta, si chiede Roberto Benigni commentando con il suo solito estro lo straordinario canto XXVI della Commedia di Dante che ha proprio in Ulisse il suo maggiore protagonista? Non siamo noi tutti divisi tra la brama di conoscere l’ignoto e l’attrazione nostalgica verso le nostre radici, il suolo familiare, la nostra identità, Itaca?
L’interpretazione dantesca del desiderio di Ulisse sembra però sbilanciare a senso unico questa divisione: non il padre Laerte, non il figlio Telemaco, non la moglie Penelope e nemmeno la propria terra, sono in grado di quietare l’irrequieta brama di conoscenza di Ulisse. Il suo “folle volo” coincide dunque con la sua massima colpa ( ma non fu la stessa di Edipo?): la conoscenza non rispetta il suo limite umano, non riconosce la sua insufficienza.
Secondo Dante è questo il nucleo del dramma di Ulisse: l’hybris del vincitore di Troia è, infatti, per il sommo poeta tragicamente colpevole. «Misi me nell’alto mare aperto », dichiara l’Ulisse dantesco a sottolineare l’indipendenza sovrana della sua volontà. Il nostalgico ritorno verso Itaca è allora solo un pretesto per soddisfare la sua curiosità irrefrenabile, la sua fame di esperienza? Secondo Dante il suo viaggio è destinato alla morte perché non sa cogliere il senso del limite che è innanzitutto il senso dei propri limiti. Ulisse come Edipo trascura l’indicazione socratica: «Conosci te stesso!». L’uno cerca il colpevole fuori da se stesso, l’altro rincorre la soddisfazione per mari sconosciuti senza alcuna capacità di raccogliersi presso di sé.
La vera colpa di Ulisse, sempre secondo Dante, non è lo stratagemma fraudolento del cavallo di Troia, ma la superbia di voler accedere all’inaccessibile, di sfidare con la propria intelligenza il mistero della vita e della morte, di non saper mai realizzare il proprio desiderio fatalmente destinato all’insoddisfazione perpetua. Per questa ragione Dante, alla fine del Canto XXVI, immagina che la morte di Ulisse accada proprio nel momento in cui egli oltrepassa il tabù delle colonne d’Ercole inoltrandosi in un viaggio impossibile, destinato al naufragio («infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso »).
Nella raffigurazione dantesca Ulisse è alle prese con un problema narcisistico che non gli consentirebbe di fare mai a meno del proprio Io. In totale contrasto con questo ritratto Elias Canetti in Masse e potere indica il fascino di Ulisse in tutt’altra dimensione. Al centro del suo brevissimo ritratto è l’immagine della diminuzione. Ulisse non è vittima della superbia del proprio Io, non è sedotto dalla potenza del proprio intelletto, ma è colui che sa salvarsi perché rinuncia al proprio prestigio, finanche al proprio nome, alla propria individualità, come accade nell’avventura con il Ciclope. È solo facendosi Nessuno che l’eroe riesce a scongiurare la vendetta dei Ciclopi invocata dall’ira di Polifemo accecato.
Su questa stessa linea troviamo anche una straordinaria lettura di Heidegger in un breve scritto titolato Aletheia, contenuto in Saggi e discorsi. La scena è quella di Ulisse che assiste al racconto della guerra di Troia del cantore Demodoco nel palazzo dei re dei Feaci. A ogni passo della narrazione che gli rammenta l’atroce risultato della sua astuzia, colpito dall’emozione, egli nasconde il proprio capo per piangere in segreto.
Quanto è diversa questa immagine di Ulisse da quella dantesca del “folle volo”? Ulisse non incarna qui la spinta indomita alla conoscenza del mondo, quanto il valore di ciò che resta nascosto, che non appare. L’esatto contrario dell’orgogliosa affermazione narcisistica di sé che Dante gli imputa. Nel mezzo di una festa, Ulisse, l’esiliato, il senza patria, il naufrago, si ritira in solitudine nel pianto e nella vergogna. Il sapere non è qui potere, ma, se vuole avere un qualche rapporto con la verità, deve saper arretrare.
Non è questa un’altra versione di Ulisse che entra in attrito con quella più nota che lo ha consacrato come eroe tragico e superbo della conoscenza? Non è questo gesto di ritegno in contrasto con l’orgoglio di colui che oltrepassa ogni divieto? Ecco tutto il valore del passo indietro, del rinunciare al nome proprio, della diminuzione sulla quale insiste anche Canetti.
Non è forse per questa capacità di sottrarsi alla presenza che Ulisse può respingere l’offerta di Calipso che in cambio del suo amore è disposta a promettergli la vita eterna? Cosa rende possibile a Ulisse, il superbo, scegliere di ritornare da Penelope, da suo figlio Telemaco e alla sua terra? In questa scelta Ulisse - come accadde alla corte dei Feaci - si rivela un soggetto capace di riconoscere il profondo debito che lo lega all’Altro. Non cancella Penelope, non dimentica Telemaco, non scorda Laerte. Non la vita eterna, l’oltrepassamento della morte, ma la vita dell’amore che vuole restare fedele alla sua promessa è ciò che più conta. Questo altro Ulisse non cancella ovviamente l’Ulisse del desiderio infinito e della curiosità insaziabile che Dante ha supremamente scolpito, ma ne esalta piuttosto, con ancora più forza, la divisione tragica che lo attraversa.
La Sibilla cumana accompagna Enea nell’oltretomba come Beatrice conduce Dante in Paradiso
di Emanuela Boccassini *
Nel VI libro dell’“Eneide” di Virgilio e nel XVI libro delle “Metamorfosi” di Ovidio la Sibilla cumana ha il duplice compito di profetessa e di guida. In entrambe le opere latine, Enea si rivolge a lei, dopo aver dato i suoi «crudi ed oscuri responsi», per essere condotto nel regno dei morti.
Sin dalle prime battute la Sibilla mostra un carattere deciso e forte “sfoggiando” intransigenza e ammonendo Enea, che indugia dinanzi ai rilievi delle porte del tempio (VI; 35-41). A breve distanza lo riprende perché tarda a interrogare il dio. Beatrice, ugualmente, nel XXX canto del “Purgatorio”, quando incontra Dante, ancor prima che lui riesca a rivolgerle la parola, lo rimprovera in quanto non lo reputa “degno” di trovarsi sul monte del Paradiso e di godere di una felicità dalla quale si è allontanato. Nel momento in cui la donna si rivolge al poeta lo chiama per nome «in tono di fiero rimprovero».
Beatrice, guida materna ma intransigente
Dante, dapprima emozionato e smarrito per la visione angelica, dopo le sue parole prova vergogna e abbassa la testa. Non è una donna soave che si rivolge con parole amorevoli, ma è «inquisitrice, ammonitrice», sarcastica e minacciosa, paragonata a un ammiraglio che ha l’atteggiamento fiero e imperioso.
Beatrice, che per tutto il percorso svolge il suo incarico di guida e maestra, è, tuttavia, spinta da un affetto che assume un tono impietoso e amaro, quasi materno di sostegno e aiuto nei confronti del “figlio” rimproverato per il proprio bene (vv. 79-81):
«così la madre al figlio par superba,
com’ella parve a me; perché d’amaro
sente il sapor de la pietade acerba».
La Sibilla, inflessibile custode della legge divina
La Sibilla è inflessibile per adempiere al proprio compito: accompagnare Enea nei campi Elisi e farlo incontrare col padre Anchise. La Sibilla nel canto ovidiano acquisisce un aspetto umano e indulgente per l’avversa sorte toccata all’eroe troiano, lo distrae parlandogli di sé e della ragione della sua lunga vecchiaia, per rendere meno faticoso il cammino. In quello virgiliano sembra essere distaccata e frettolosa, per esempio quando «ammonì brevemente» (v. 538) Enea per il suo dilungarsi con l’amico Deìfobo, - il quale si risente e le dice «Non ti sdegnare» (v. 544). Quando il figlio d’Anchise le pone delle domande, la Sibilla risponde con «succinte parole» (v. 321), non si dilunga in spiegazioni, ma limita le frasi allo stretto necessario. Mentre Beatrice adopera estrema pazienza con Dante, lo comprende e spesso previene i desideri del poeta riuscendo persino a leggergli dentro e a soddisfare le richieste ancor prima che lui parli.
La Sibilla mantiene sino alla fine il suo inflessibile atteggiamento di guida e di custode della legge divina, mostrandosi pronta e inesorabile nell’impedire a Palinuro di entrare insepolto nel regno ultraterreno, così come prende le difese di Enea contro Caronte che ne disturba il transito.
Alla fine dei canti latini, la Sibilla sparisce senza congedarsi e l’eroe riprende il suo cammino senza voltarsi indietro. Beatrice, anche se lascia il posto a San Bernardo, riappare per un attimo a Dante rivolgendogli un “sorriso d’assenso”.
Il mito della Sibilla
Nella religione greca (e romana) Sibilla era il nome di donne, vergini e vecchie, fornite di capacità profetiche e collegate ad Apollo. Lo scrittore latino Varrone ne identificò dieci, la più famosa era proprio quella cumana. Da Virgilio si apprende che la Sibilla cumana è Deifobe, figlia di Glauco - pastore divinatore della Beozia, mutato in dio dopo la morte -, profetessa di Apollo, vigila sul tempio dedicato alla divinità nella città campana.
Nelle “Metamorfosi” (vv. 130-148), la Sibilla narra a Enea la sua storia. Apollo, invaghitosi di lei, le concede di esprimere un desiderio. La giovane e bella donna chiede al dio di vivere tanti anni quanti granelli di sabbia può contenere la sua mano. Però commette l’errore di non chiedere anche la giovinezza. Il nume le accorda la possibilità di variare il suo desiderio se si concede a lui.
«[...]. Disprezzato il dono di Febo,
eccomi qui, ancora nubile. Ma ormai l’età più bella
mi ha voltato le spalle, e a passi incerti avanza un’acida vecchiaia,
[...]. Vedi sette secoli
son già vissuta [...]».
La Sibilla continua a invecchiare sino a quando le sue membra si riducono talmente tanto da lasciare di lei solo la voce. Nel “Satyricon” vi è la conferma di questa leggenda: Petronio sostiene che la Sibilla è oramai ridotta a un essere minuscolo e, confinata in una gabbia, invoca soltanto la morte.
Approfondimenti
Bibliografia
Anthony S. Mercatante, “Dizionario universale dei miti e delle leggende”, Mondadori, 2001.
Publio Virgilio Marone, “Eneide”, a cura di Giuseppe Vergara, 1986.
Dante Alighieri, “La Divina Commedia. Il Purgatorio”, a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio, 1988.
Dante Alighieri, “La Divina Commedia. Il Purgatorio”, a cura di Ernesto Bignami, 1995.
Ovidio P. Nasone, “Metamorfosi”, 2005.
* "Ripensandoci" (anno II, n. 9, settembre 2009 - Superstizioni, miti, leggende)
La rivoluzione del Dante minore
Esperimenti letterari in latino
Le nuove prove dell’autenticità nelle due parti dell’Epistola a Cangrande
di Paolo Di Stefano (Corriere della Sera, 18.02.2016)
Parlare di un Dante minore è un paradosso, perché anche il Dante delle epistole occasionali o delle egloghe è pur sempre uno scrittore maggiore, fuori dall’ordinario. Anche fuori dal suo capolavoro, l’Alighieri, fino alla fine, non si stanca mai di sperimentare, di provare nuove strade letterarie, di forzare le convenzioni.
Fa un certo effetto, per esempio, immaginarlo in piena attività, negli ultimi suoi anni di vita, nel tranquillo soggiorno ravennate, circondato dai figli e ormai ammirato e gratificato da un crescente circolo di adepti: ancora febbrilmente intento alla conclusione del Paradiso , respinge - per raccoglierla a suo modo - la proposta di dedicarsi a un componimento in latino di argomento politico.
L’invito (o la sfida) gli era arrivata da un prestigioso retore e grammatico bolognese convinto della superiorità del latino sul volgare, l’interlocutore privilegiato Giovanni del Virgilio, il quale gli aveva promesso una corona poetica a Bologna capace di garantirgli un trasferimento e magari qualche aggancio nell’ambiente universitario. Il risultato, in forma di corrispondenza poetica con il magister preumanista Giovanni, è l’unica opera dantesca in versi latini che ci sia giunta: quattro carmi con cui, rivendicando tra l’altro la qualità e l’altezza del suo poema in volgare, l’Alighieri approda, poco prima di morire, a traguardi ancora una volta innovativi, per non dire sconvolgenti, rispetto ai modelli contemporanei.
Ora questa incredibile padronanza dantesca della poesia latina viene valorizzata e commentata da Marco Petoletti nel volume V della Nuova edizione commentata delle Opere di Dante (Necod) pubblicata da Salerno per il Centro Pio Rajna. È Enrico Malato, nella Premessa, a parlarci della complessa iniziativa nelle sue linee programmatiche che si riassumono in alcuni principi generali: attenzione rigorosa, partendo dai testi accertati, alla ricostruzione letterale dei testi e impegno critico-esegetico che tenga conto dello sviluppo più recente degli studi danteschi senza cadere in eccessi iperspecialistici.
Questo nuovo volume, che fa seguito ai commenti di Vita Nuova e Rime, Convivio, De vulgari eloquentia e Monarchia, contiene, oltre alle Epistole e alle Egloge, la Quaestio de aqua et terra, il trattato cosmologico di cui non esistono testimoni manoscritti, ma solo una stampa del 1508. Le singole opere vengono affidate a curatori diversi, con relative introduzioni e note al testo, precedute da una utile Introduzione complessiva di Andrea Mazzucchi, che mette in luce le più significative acquisizioni dei vari commenti, offrendo quindi al lettore diverse opzioni di lettura, dal più piano al più articolato.
Tornando alla Quaestio, l’operetta scientifica latina che tratta la distribuzione delle acque e delle terre sul globo, va detto che la sua attribuzione a Dante è da sempre stata oggetto di discussione: considerata certa da Michele Barbi nella fondamentale edizione delle Opere del 1921, è stata autorevolmente esclusa da Bruno Nardi e rimessa in dubbio di recente da Marco Santagata in virtù delle incongruenze rispetto alla caduta di Lucifero sulla terra, descritta nell’ Inferno.
Ora Michele Rinaldi si schiera per la paternità dantesca sulla base di un numero notevole di coincidenze con i testi danteschi e di fonti comuni utilizzate secondo letture singolari. Ma viene richiamato come elemento decisivo il fatto, anch’esso imperituro oggetto di confronto critico, che il figlio di Dante, Pietro Alighieri, commentando i versi della caduta di Lucifero, ricordi una disputa sullo stesso argomento (acqua e terra) sostenuta dal padre a Verona all’inizio del 1320. Se è vero che la testimonianza filiale non si sottrae a fondati sospetti di autenticità, Rinaldi offre inedite pezze d’appoggio alla sua tesi richiamando alcuni passaggi delle postille alla Commedia contenute nelle cosiddette «Chiose Cassinesi» (conservate in un manoscritto trecentesco dell’Abbazia di Montecassino).
A proposito di attribuzione e di autenticità torna ovviamente la questione (anch’essa ancora aperta) della Lettera a Cangrande della Scala, che ha trovato eserciti di detrattori radicali, di mezzi fautori e di fautori convinti. L’Epistola XIII viene collocata in un capitolo a sé rispetto alle precedenti: del resto, è noto che le lettere latine di Dante, come le Rime, non si compongono in un corpus organico e omogeneo strutturato dall’autore. Per le prime dodici, Marco Baglio, motivata la disomogeneità della raccolta, illustra di ciascuna le ragioni politiche, personali e ideali all’interno della tormentata biografia dantesca (in particolare il vagabondaggio e le instabilità anche intellettuali dell’esule), ma individuando anche nodi tematici e tessere lessicali riconducibili alla Commedia e non solo.
Alla faccenda più spinosa si dedica Luca Azzetta, anche con argomenti stilistici e strutturali che conducono a confermare l’autenticità della lettera nelle sue due parti (la seconda in particolare è quella che suscita da sempre maggiori perplessità).
L’Epistola a Cangrande si presenta, nella breve sezione iniziale, come la manifestazione di amicizia al signore di Verona presso cui Dante ebbe ospitalità in un periodo situabile tra il 1316 e la fine del 1319, prima di abbandonare la corte scaligera per ragioni che rimangono oscure. Allo scopo di conservare l’amicizia, Dante offrirebbe in dono a Cangrande la dedica del Paradiso. La seconda parte, più lunga, è una sorta di trattato esegetico dell’intero poema, cui fa seguito un’analisi del proemio del Paradiso.
La ricca e tarda tradizione manoscritta che tramanda la lettera (a partire dalla metà del Cinquecento); le tante testimonianze indirette che ne accertano la precoce circolazione e diffusione; l’incertezza sulla localizzazione (tra Verona e Ravenna) e sulla datazione (che oscilla tra il 1315 e il settembre 1321); i dubbi sulla qualità della lettera: ogni aspetto ha contribuito a far scorrere fiumi di inchiostro, anche perché l’autenticità o meno della lettera comporta argomenti cruciali come quello della titolazione del poema (proprio nell’epistola vengono illustrate le ragioni del presunto titolo, Commedia ).
Allo stesso Azzetta si deve, di recente, la scoperta della precoce testimonianza contenuta nelle Chiose alla Commedia , collocabili tra il 1341 e il 1343, di Andrea Lancia, dove il celebre notaio fiorentino mostra di conoscere la Lettera a Cangrande e di attribuirla in toto a Dante.
L’integrale paternità dantesca della lettera trova conferma, secondo Azzetta, in una fitta serie di elementi che capovolgerebbero la diffusa convinzione che considera la seconda parte un commento del poema limitativo, semplicistico e «conservatore», dunque difficilmente attribuibile a Dante: viene rivendicata, al contrario, l’efficacia illuminante e l’originalità esegetica su alcuni snodi della Commedia. Azzetta replica ai singoli detrattori, cercando di valorizzare il carattere non convenzionale e anzi l’eversività (antitomistica) degli argomenti e, simmetricamente, la novità strutturale di una lettera che dunque andrebbe intesa non solo come unitaria ma, ancora una volta, come un unicum. Molto affascinante: seguiranno fiumi di inchiostro.
Quando Bologna abolì la schiavitù
di Federico Fioravanti *
Il 3 giugno 1257 Bologna abolì la schiavitù. Nell’Archivio di Stato cittadino è conservato un prezioso codice che anticipa di almeno 600 anni le moderne carte dei diritti umani: si chiama Liber Paradisus, in omaggio alla prima parola del testo del documento, scritto in latino.
Il grande capolettera, una “P” ornata di disegni filigranati, precede una frase bella e solenne: “Paradisum voluptatis plantavit dominus Deus omnipotens a principio, in quo posuit hominem, quem formaverat, et ipsius corpus ornavit veste candenti, sibi donans perfectissimam et perpetuam libertatem”.
“In principio il Signore piantò un paradiso di delizie, nel quale pose l’uomo che aveva formato, e aveva ornato il suo stesso corpo di una veste candeggiante, donandogli perfettissima e perpetua libertà”.
L’atto di liberazione è motivato da ragioni teologiche: Dio ha creato l’uomo libero e poiché la disobbedienza originale di Adamo lo ha reso schiavo del peccato, lo ha riscattato tramite suo figlio, Gesù Cristo, che si è fatto uomo.
Il documento notarile rese ufficiale la “manumissio”, una emancipazione resa possibile da un riscatto in denaro.
Il decreto fu firmato un anno prima, il 25 agosto del 1256, dal Podestà e dal Capitano del Popolo nel corso di una cerimonia pubblica alla quale presero parte migliaia di persone festanti. Le trattative furono lunghe e complesse. Ma dopo un anno, il 3 giugno 1257, l’atto diventò operativo. Il Comune pagò tre rate per complessive 53.014 lire per indennizzare i proprietari di 5.855 persone: erano tutti i servi della gleba che risiedevano all’interno del territorio bolognese. Soltanto la famiglia Prendiparte, proprietaria dell’omonima torre cittadina, “possedeva” più di 200 servi. A ogni bambino fu attribuito un valore di 10 lire. Chi aveva più di 14 anni fu riscattato con 10 lire d’argento.
I servi della gleba erano considerati tali per nascita, incatenati per tutta la vita alla zolla di terra (gleba in latino) che non potevano abbandonare, per nessuna ragione, senza il consenso del padrone del terreno.
Una condizione umana senza via d’uscita, di poco migliore di quella degli schiavi dell’antica Roma. I servi della gleba potevano essere venduti, insieme alla terra alla quale erano legati. Possedevano solo piccoli beni mobili e potevano sposarsi soltanto con persone che vivevano, come loro, all’interno della proprietà.
Il padrone dei fondi era, di fatto, anche il signore assoluto delle loro esistenze. Alle famiglie proprietarie l’uso del terreno andava pagato con il raccolto dei campi e con tutta un’altra serie di corvées. I servi dovevano versare anche le “decime” per il mantenimento del clero. E avevano mille altri obblighi e limitazioni.
Il Liber Paradisus, per legge, mutò questo stato sociale. Diede speranza ai manenti, i coloni di condizione servile legati da un contratto alle terre padronali. E anche ai cosiddetti “servi di masnada”, che costituivano i piccoli eserciti signorili.
Quattro notai stilarono quattro elenchi, uno per ogni quartiere, con quattro preamboli.
Regista di tutta l’operazione fu Rolandino de’ Passaggeri (1215 - 1300), uno dei più celebri giuristi medievali, massima autorità nella scienza e tecnica del documento notarile, di cui rinnovò i formulari con un grande rigore scientifico.
Nel documento si possono leggere importanti dichiarazioni di principio. Una su tutte: “Nella nostra città possano vivere solo uomini liberi”. Si prendono impegni solenni: “Spezzare le catene della servitù”. Si parla, a più riprese, di “restituire alla libertà originaria uomini che da principio la natura generò liberi e il diritto delle genti sottopose poi al giogo della schiavitù...”.
Bologna all’epoca era una delle più grandi città d’Europa, sede della prima è più importante università del mondo, frequentata da più di duemila studenti che non producevano ma consumavano. Il denaro fresco muoveva l’economia. Nacquero allora i nuovi mercati cittadini e i canali navigabili.
La città aveva addosso gli occhi del mondo. Nel palazzo del Podestà, dopo la battaglia di Fossalta del 1249, viveva prigioniero Enzo, figlio dell’imperatore Federico II di Svevia. L’economia della città e del suo contado stava mutando pelle rapidamente insieme alla società feudale di derivazione carolingia, fino ad allora sostenuta dalle attività agricole dei castelli, indipendenti l’uno dall’altro. Ma il lavoro autonomo rendeva la famiglia contadina assai più produttiva grazie alla selezione di nuove sementi e a diverse innovazioni tecniche.
La liberazione proclamata nel Liber Paradisus non fu solo un “beau geste” del governo cittadino. Servì a sanare molte situazioni giuridiche causate dai matrimoni misti tra cittadini liberi e servi.
Più cittadini liberi voleva dire anche più contribuenti. Era il prezzo della libertà. Non a caso, il Comune vietò ai servi liberati di spostarsi fuori dal territorio delle diocesi di appartenenza. In alcuni casi i servi vennero raccolti in località “franche”, libere dalla giurisdizione delle grandi famiglie. Si svilupparono così, al confine del territorio, in prossimità delle aree controllate dalla nemica Modena, paesi come Castelfranco, ai quali la città di Bologna concesse particolari condizioni fiscali.
Il riscatto dei servi rafforzava il Comune. E il mantenimento delle famiglie contadine sui campi garantiva la produttività dei terreni. In città arrivava una maggiore quantità di prodotti.
Bologna fu il primo Comune in Italia ad attuare la liberazione dei servi della gleba.
Altre città, come Vercelli, Assisi e Parma, si mossero nella stessa direzione. A Vercelli, come in altri luoghi, per legge, “la città dava la libertà”: la posizione dei servi della gleba che si rifugiavano nel centro abitato veniva regolarizzata dopo un certo periodo di tempo. Lo stesso avveniva a Parma, dove i nuovi cittadini venivano accolti come uomini liberi dopo 10 anni di permanenza .
Oggi la piazza che ospita palazzo Bonaccorso, la nuova sede del Comune di Bologna, si chiama “Piazza Liber Paradisus”. L’edificio porta il nome del podestà Bonaccorso da Soresina che redasse i documenti raccolti nel Liber.
Un affresco di Adolfo De Carolis esposto nel salone del Palazzo del Podestà ricorda ai bolognesi e ai turisti lo storico affrancamento dei servi.
In Russia la servitù della gleba venne abolita nel 1861, dallo zar Alessandro II, circa 50 anni più tardi rispetto al resto d’Europa. La fine della pratica della schiavitù degli esseri umani fu certificata dalla Costituzione degli Stati Uniti soltanto nel 1865. Il Brasile arrivò invece alla fatidica decisione nel 1888, con la “Lei Áurea” promulgata dalla principessa reale Isabella.
Per milioni di altri vecchi e nuovi schiavi, a distanza di secoli, il Paradiso è invece ancora un sogno lontano.
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FONTE: FESTIVAL DEL MEDIOEVO (ripresa parziale - senza immagini)
DELLA LINGUA E DELLA POLITICA D’ITALIA. DANTE: L’UNIVERSALE MONARCHIA DEL RETTO AMORE. Per una rilettura del "De Vulgari Eloquentia" e della "Monarchia". *
Il testo del Liber Paradisus (Bologna, 1257):
Dio onnipotente piantò un piacevole Paradiso (giardino) e vi pose l’uomo, il cui corpo ornò di candida veste donandogli una libertà perfettissima ed eterna. Ma l’ uomo, misero, immemore della sua dignità e del dono divino, gustò del frutto proibito contro il comando del Signore. Con questo atto tirò se stesso e i suoi posteri in questa valle di lagrime e avvelenò il genere umano legandolo con le catene della schiavitù al Diavolo; cosi l’ uomo da incorruttibile divenne corruttibile, da immortale mortale, sottoposto a una gravissima schiavitù. Dio vedendo tutto il mondo perito (nella schiavitù) ebbe pietà e mandò il Figlio suo unigenito nato, per opera dello Spirito Santo, dalla Vergine madre affinché con la gloria della Sua dignità celeste rompesse i legami della nostra schiavitù e ci restituisse alla pristina libertà. Assai utilmente agisce perciò chi restituisce col beneficio della manomissione alla libertà nella quale sono nati, gli uomini che la natura crea liberi e il diritto delle genti sottopone al giogo della schiavitù.
Considerato ciò, la nobile città di Bologna, che ha sempre combattuto per la libertà, memore del passato e provvida del futuro, in onore del Redentore Gesù Cristo ha liberato pagando in danaro, tutti quelli che ha ritrovato nella città e diocesi di Bologna astretti a condizione servile; li ha dichiarati liberi e ha stabilito che d’ora in poi nessuno schiavo osi abitar nel territorio di Bologna affinché non si corrompa con qualche fermento di schiavitù una massa di uomini naturalmente liberi.
Al tempo di Bonaccorso di Soresina, podestà di Bologna, del giudice ed assessore Giacomo Grattacello, fu scritto quest’atto, che deve essere detto Paradiso, che contiene i nomi dei servi e delle serve perché si sappia quali di essi hanno riacquistato la libertà e a qual prezzo: dodici libbre per i maggiori di tredici anni, e per le serve: otto libbre bolognesi per i minori di anni tredici (...)
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L’Arca dell’Alleanza del Logos e il codice di Melchisedech.
La Fenomenologia dello Spirito... dei “Due Soli”. Ipotesi di rilettura della “Divina Commedia”.
*15 GIUGNO 2009: ALLA DOTTA BOLOGNA, NELLA CATTEDRALE DI SAN PIETRO, LA "DEUS CARITAS EST" (UN FALSO FILOLOGICO E TEOLOGICO).
Dante, kolossal del muto
La vita del poeta in una pellicola recuperata del 1921
«Diventò strumento di propaganda per il fascismo»
di Paolo Conti (Corriere della Sera, 25.05.2016)
«Nel primo ventennio del ‘900, il cinema diventa uno strumento di autorappresentazione storica da parte di molte nazioni. Penso alla Russia da poco comunista, per esempio. O a Nascita di una nazione di David Wark Griffith, del 1915. Per l’Italia il film La mirabile visione (1921) ebbe un ruolo importantissimo in Italia perché raccontava la vita di un simbolo nazionale come Dante. Addirittura, dopo il 1926, diventò col fascismo uno “strumento di propaganda spirituale e nazionale”, come scrisse l’allora ministro della Pubblica Istruzione Pietro Fedele».
Lo sceneggiatore e regista Stefano Rulli dal 2012 presiede il Centro sperimentale di cinematografia (Csc), suddiviso nella Scuola nazionale di cinema e nella Cineteca nazionale, uno degli archivi audiovisivi più importanti del mondo. Proprio il Csc-Cineteca nazionale è protagonista, con il Cnc-Archives Françaises du Cinema, di un recupero storico-culturale che verrà presentato sabato nell’ambito dell’evento «Dante posticipato» all’università di Pisa ideato da Marco Santagata.
Si tratta del film kolossal del muto La mirabile visione, due ore di grande cinema del tempo, disperso da decenni nella sua integrità. Regia, scene e costumi sono di Caramba, alias Luigi Sapelli, scenografo, costumista e illustratore che dal 1921 al 1936 fu direttore degli allestimenti scenici alla Scala di Milano. La fotografia è di Carlo Montuori (che nel 1948 firmò le immagini di Ladri di biciclette per Vittorio De Sica). La sceneggiatura («iconografia», come si diceva ai tempi) è di Fausto Salvatori, poeta e librettista (suoi i versi de «L’inno a Roma» di Giacomo Puccini). Un gruppo di eccellente livello tecnico e culturale, ben sperimentato: l’anno precedente aveva già firmato un grande successo popolare e di cassetta, I Borgia , del 1920.
La recitazione svela gli influssi stilistici dell’epoca (sicuramente una gestualità legata al melodramma e al teatro di prosa di quel periodo). Ma l’insieme, spiega Rulli, «è di forte impatto narrativo, fascino e modernità. La fotografia è pregevolissima, la composizione dell’immagine è efficace così come innovativo è il modo di muovere gli attori. Gioacchino Volpe, in una sua nota, lodò la cura e la precisione della ricostruzione storica».
Il film è suddiviso in due parti. Una Vita Dantis, con i principali episodi della sua travagliata esistenza (l’attività politica a Firenze, l’esilio, Bonifacio VIII, l’ospitalità di Cangrande della Scala). E poi Visioni di vita e di poesia: rappresentazioni della Vita Nova, gli episodi del Conte Ugolino e di Paolo e Francesca da La Divina Commedia. Il tutto con ricchezza di costumi, di ambientazioni, di massa ben orchestrate.. La ricostruzione della pellicola, girata durante le manifestazioni per il sesto centenario della morte del poeta, è a sua volta una straordinaria storia. Il film è stato restaurato in digitale a cura del Centre National du Cinéma et de l’Image Animée - Parigi / Bois d’Arcy.
Tutto è partito dalla scoperta di due diverse copie d’epoca: una della versione originale italiana, conservata negli archivi della Cineteca Nazionale, e l’altra, legata alla versione francese distribuita da Les Films André Ghilbert, e conservata nel fondo depositato al Cnc da GaumontPathé Archives. Le due copie, entrambe incomplete, sono subito apparse complementari ed ecco la versione italiana che verrà presentata sabato prossimo. Mancava un solo episodio, fortunosamente rintracciato pochi giorni fa. L’avventura ha permesso di approntare l’attuale versione: lo studio e la ricostruzione sono stati possibili anche grazie a un raro libretto d’epoca sul film, un pezzo unico, conservato dalla Biblioteca «Luigi Chiarini» del Csc di Roma, che registra la scansione narrativa e le sequenze fotografiche.
Cosa accadrà della pellicola? Dice Rulli: «Trattandosi di una ricostruzione nata grazie a due Paesi, dovremo studiare gli accordi. Ma spero che questo magnifico pezzo di storia del cinema italiano possa essere distribuito soprattutto nelle scuole come materia di studio dell’arte dei nostri tempi».
Ispirazione e tormento
Gli autori latini (e pagani) della biblioteca di Dante
Il libro di Luciano Canfora (Sellerio Editrice)
di Livia Capponi (Corriere della Sera, 16.11.2015)
L’ ultimo libro di Luciano Canfora, Gli occhi di Cesare. La biblioteca latina di Dante, si apre con il ritratto di Cesare «con li occhi grifagni» nella galleria dei grandi pagani che abitano il «nobile castello» posto da Dante all’interno del Limbo. Il particolare deriva da Svetonio, lettura colta per i medievali appassionati di storia romana. La ricostruzione della biblioteca latina di Dante è solo uno dei pregi del volumetto, che, attraverso un’erudita galoppata nei secoli, parte da Cesare e Alessandro, simboli della monarchia assoluta dall’antichità al Medioevo, per poi analizzare l’idea di impero e il rapporto Stato-Chiesa nella Monarchia dantesca.
Per Dante, l’impero romano è la provvidenziale preparazione alla diffusione del Cristianesimo su scala mondiale. Cesare e il suo oppositore Catone Uticense, colui che per la libertà «vita rifiuta» (era morto suicida nel 46 a.C. pur di non assistere alla fine della Repubblica), sono due aspetti di un disegno più grande, da cui consegue Augusto, il «buon monarca» da accettare come garante della convivenza umana.
Una monarchia universale come garanzia di pace è anche la risposta ai problemi dell’Italia di Dante. Lo spiega Giustiniano, protagonista del canto VI del Paradiso e incarnazione del cesaropapismo bizantino, dove è la Chiesa a essere subordinata all’imperatore, che, avendo ricevuto il potere direttamente da Dio, non ha bisogno di obbedire a un suo Vicario. L’errore, se mai, è stato la donazione di Costantino, il documento con cui si assegnava ufficialmente del territorio al Papa, legittimandone il potere temporale (fino al 1517, quando fu dimostrato falso dall’umanista Lorenzo Valla).
Questo è il macigno che costa alla Monarchia la condanna all’ Indice dei libri proibiti nel 1559, e suscita poi una serie di ritrattazioni papali, fino alla risoluzione del problema con la soppressione dell’ Indice stesso nel 1966. È noto che nella storia gli elenchi di libri proibiti funzionarono sempre come pubblicità a rovescio.
Nel Limbo i pagani sono condannati a desiderare, senza mai poterla conseguire, la «vera fede». Ma la desideravano davvero? Difficile per Dante (e per molti suoi lettori) accettare che gli «spiriti magni» dei classici, così grandi ed eticamente impeccabili, fossero esclusi da tutto solo perché nati prima di Cristo.
Per Canfora, quando fa dire al pagano Virgilio che senza la fede «ben far non basta», Dante sta convincendo anzitutto se stesso. Perché «ben far» non dovrebbe bastare alla salvezza? E, infatti, è proprio Virgilio che salva Dante.
Con Borges, Canfora vede in Omero, Orazio, Ovidio e Lucano nell’ Inferno proiezioni o figurazioni di Dante. I classici non solo nutrono la poesia dantesca, ma ne stimolano i risvolti filosofici, fino a insidiarla con dubbi tormentosi sul rapporto ragione-fede. Lo prova il monumento che Dante innalza a Ulisse, eroe pagano dannato in eterno.
Nella Monarchia, e nella Commedia, libertà non è arbitrario soddisfacimento delle proprie pulsioni (cioè il «viver come bruti»), ma libera obbedienza a leggi giuste, perché, anche a rischio di morire, «la semenza» degli uomini è fatta per «seguir virtute e canoscenza».
L’indagine filologica, che si snoda in maniera più appassionante di un giallo, risveglia la curiositas sulle inedite sinapsi fra gli autori del nostro patrimonio comune. Mostra le continuità classico-cristiane e il riaffiorare quasi «carsico» dell’idea di un potere politico sovranazionale più potente della religione. Alla fine, il lettore si ritrova in mano due armi formidabili contro ogni forma di oscurantismo: i classici e Dante.
«Il mio Dante a fumetti, la Commedia con ironia»
di Paolo Guiducci (Avvenire, 14 agosto 2015)
Per dieci anni ha condotto Zagor, il longevo “spirito con la scure” di casa Bonelli, sulle piste di ogni avventura nordamericana, si è cimentato con il giallo di Nick Raider e l’orrore quotidiano di Dylan Dog, scrive fumetti per ragazzi sulle pagine de “Il giornalino” e innumerevoli serie umoristiche. Ma il personaggio al quale più di ogni altro ha legato il suo nome è Dante, proprio il Sommo poeta, le cui cantiche della Commedia Marcello Toninelli - in arte Marcello - ha trasposto in un’edizione integrale a fumetti, in strisce, caratterizzate dalla notevole carica umoristica. «La Divina Commedia ha tutte le qualità per essere fatta, tradotta e divulgata in fumetti, comunicando suoi valori storici e morali, tipici per noi italiani»: ciò che Cesare Zavattini teorizzava già nel 1959, Marcello lo ha minuziosamente “tradotto” a disegni, portando demoni, frodi, inganni, violenze, grida e pianti di dannati e la bellezza paradisiaca di Beatrice sulle nuvole. Un’opera così ben congegnata che in un convegno a York due autori britannici han letto il saggio The underworld turned upside down: Marcello’s Divina Commedia senza che in sala nessun cattedratico si scandalizzasse.
Dante a fumetti non è stato un parto a tavolino, piuttosto il frutto di un incontro.
«Studente di ragioneria, mentre ascoltavo le lezioni della Commedia, mi inventavo battute su quel soggetto. Disegnare mi aiutava a non distrarmi e, data la mia inclinazione a vedere il lato umoristico delle cose, le battute mi sgorgavano naturalmente insieme agli schizzi».
In principio fu il Purgatorio. Virgilio e Dante passeggiando incontrano un tizio seduto, pensoso. Dante gli domanda: “Anima, chi sei?”. Poi al sacro furore politico e religioso che ha “guidato” i passi del poeta nell’Inferno, lei ha contrapposto la sua ironia dissacrante.
«In realtà Dante a fumetti può essere un aiuto a seguire meglio ambienti, personaggi e svolgimento del viaggio dantesco: da Caronte “trasportatore” sempre in ritardo, a Cesare “incallito” giocatore di dadi. E per chi lo ha già dimenticato o mai conosciuto, uno stimolo a riprendere in mano il testo».
A 750 anni dalla nascita di Dante, qual è l’attualità della Commedia?
«Nelle mie strisce l’attualità non manca, visto che il “gioco” narrativo-umoristico è quello di seguire passo passo l’opera originale, ma leggendola con gli occhi (e i riferimenti culturali) di oggi. Per il poema di Dante, credo che l’attualità sia duplice: da una parte, la Divina Commedia è un po’ una summa delle conoscenze culturali, letterarie, politiche e religiose dell’epoca, e dunque una “enciclopedia in terzine” del sapere milletrecentesco sempre utile; dall’altro, analizzando le sfumature e i moti dell’animo umano, da quelli più bestiali ai più altruistici e generosi, continua a parlarci del nostro essere uomini e donne anche a distanza di sette secoli».
Quanto pesa il ruolo di Roberto Benigni in una riscoperta “popolare” del capolavoro dantesco?
«Il comico toscano ha portato all’opera dell’Alighieri fasce di pubblico che forse mai si sarebbero fatte attirare dalle più “corrette” ma meno spettacolari letture di Sermonti. Detto questo, confesso che, dopo la lettura-spiegazione di qualche canto, ho cominciato a trovare un po’ stucchevoli le esaltazioni di ogni minima cosa: “Fantastico!”, “Bellissimo!”, “Sconvolgente!”... Qualche parte meno riuscita ci sarà anche nella Divina Commedia, no?»
Dopo Dante, ha proseguito con altri classici a fumetti: il “gioco” ha funzionato?
«L’idea non fu mia, ma dell’allora direttore del settimanale per ragazzi “Il giornalino”, don Tommaso Mastrandrea (don Tom), che aveva pubblicato il mio Dante. Visto il successo ottenuto dalla versione a strisce umoristiche de La Divina Commedia, mi chiese di continuare con altri grandi poemi: Iliade, Odissea, Eneide e Gerusalemme liberata. La sua convinzione era che fosse necessario far conoscere i classici della letteratura ai ragazzi, in forma di fumetto, sceneggiato televisivo o film, affinché non andassero perduti “pezzi” di cultura che non sempre a scuola vengono proposti... o studiati con la dovuta attenzione. Una riproposta in forma “intrattenitiva” consentiva che riferimenti culturali magari trascurati a scuola non andassero perduti. Basta pensare a concetti come “il tallone d’Achille” o “il cavallo di Troia”».
Ora si è rivolto a I promessi sposi, il primo romanzo italiano che esce a puntate sulla rivista “Fumo di china”. È più il terrore degli insegnanti o la coscienza degli ex studenti che sui banchi non hanno strizzato l’occhio a Manzoni?
«Gli insegnanti sono i primi a comprarsi i miei volumi, perché ci trovano un valido supporto per far passare meglio le opere che ai ragazzi rischiano di risultare se non indigeste, difficili. Certo, quando iniziai a fare la mia versione umoristica della Divina Commedia (ora in tre volumi cartonati editi da Cartoon Club Editore, ndr) mi rivolgevo idealmente, cercandone la complicità, agli studenti che si erano scontrati con le difficoltà del testo dantesco (non è un caso se uno dei tormentoni di maggior successo della mia trasposizione è quello relativo al «vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole»), ma dopo la pubblicazione su “Il giornalino” ho incontrato tanti giovani che dicono di essersi innamorati dell’Alighieri sulle mie strisce, scegliendo poi di farne il centro del loro percorso di studio. Anche “I promessi sposi” sono un bellissimo libro che pure io, lo confesso, ho scoperto più grazie a una lettura radiofonica che non ai capitoli studiati a scuola, e spero che la mia versione parodistica spinga più d’un lettore alla riscoperta dell’opera originale».
È riuscito ad esportare la sua versione della Commedia anche all’estero. Con quale accoglienza?
«Ottima. L’edizione norvegese dell’Inferno (voluta dalla traduttrice Bodil Moss), presentata a un concorso indetto dal locale Ministero della Cultura, è stata scelta tra centinaia di libri per essere distribuita gratis in tutte le biblioteche della Norvegia».
EU-ANGELO E COSTITUZIONE . "CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1 Gv., 4. 1-16).
SENZA LO "SPIRITO" DI GIOACCHINO DA FIORE, NON SI DA’ IL "TERZO PARADISO". Un omaggio critico a Michelangelo Pistoletto
Cultura, il mondo s’inchina al genio di Dante. Via alle celebrazioni per i 750 anni
Da lunedì parte un calendario di 187 manifestazioni in tutto il Paese, ben 173 all’estero. Appuntamenti clou a Firenze, Verona, Roma e Ravenna tra gonfaloni, rievocazioni storiche, seminari su lingua e tradizione del grande fiorentino
di Alex Corlazzoli (Il Fatto, 3 maggio 2015)
Da lunedì tutta l’Italia si inchina davanti al genio di Dante Alighieri. In occasione del 750esimo anniversario della nascita del padre della “Divina Commedia”, andranno in scena 187 manifestazioni in tutto il Paese e ben 173 all’estero. Per alcuni mesi mostre, letture, convegni e conferenze, concerti di musica classica e contemporanea, spettacoli di teatro e danza, video installazioni e proiezioni, lectio magistralis, summer school con i massimi protagonisti della scena culturale nazionale e internazionale e studiosi della letteratura dantesca, faranno parte del ricco calendario che vedrà in prima fila le città più legate al sommo poeta - Firenze, Ravenna, Verona e Roma.
L’evento ha una portata internazionale ed è stato presentato dal ministro dei Beni e delle Attività culturali Dario Franceschini insieme ai sindaci delle città che lo ospiteranno. Lunedì l’apertura delle celebrazioni sarà solenne e coinvolgerà i massimi livelli istituzionali: alle 11 a Palazzo Madama nell’aula del Senato, in diretta Rai, la cerimonia sarà aperta dal Presidente, Pietro Grasso e dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Un omaggio musicale di Nicola Piovani e Rosa Feola e una lectura dantis di Roberto Benigni arricchiranno la giornata che prevede anche nella contigua Sala Garibaldi un’esposizione di importanti documenti della più avanzata ricerca scientifica sull’opera di Dante. La mostra, a cura del Centro Pio Rajna - Centro studi per la ricerca letteraria, linguistica e filologica e della Casa di Dante in Roma, esporrà moderne edizioni di opere e preziose riproduzioni in facsimile di antichi codici miniati e altre testimonianze artistiche, antiche e moderne.
Firenze darà voce a Dante nel Battistero di San Giovanni dove in collaborazione con la Società Dantesca Italiana, martedì 5, Emilio Pasquini con Michele Placido apriranno le manifestazioni; il 12 maggio sarà la volta di una riflessione di Lucia Battaglia Ricci e lettura di Roberto Herlitzka; il 19 maggio prenderà la parola il cardinale Gianfranco Ravasi con le letture di Gioele Dix. L’evento più suggestivo è previsto per il 14 maggio, quando si svolgerà la rievocazione storica della grande sfilata di gonfaloni con cui, al tempo di Firenze capitale, fu inaugurata la statua di Dante dello scultore ravennate Enrico Pazzi (1865), allora al centro di Piazza Santa Croce e adesso a lato della chiesa. Il Comune di Firenze, inoltre, finanzierà una nuova produzione della Compagnia Teatrale Virgilio Sieni dal titolo “Ballo 1265”.
Non sarà da meno Ravenna che dedica al grande poeta un fitto programma di eventi tra cui si prevede l’allestimento, presso il Museo d’Arte della mostra “Divina Commedia. Le visioni di Doré, Scaramuzza e Nattini”. Non poteva mancare l’impegno dell’Accademia della Crusca che attiverà un assegno di ricerca sul “lessico dantesco”. Verrà analizzato il vocabolario dantesco in tutto il suo spessore e contestualizzato nel quadro della cultura del Duecento e del Trecento.
Fuori dall’Italia grazie agli 80 Istituti Italiani di Cultura si parlerà di Dante a Berlino, Stoccarda, Colonia, Amburgo, Monaco, Londra, Edimburgo, Parigi, Amsterdam, Bratislava, Zagabria, Helsinki, Madrid, Barcellona, Oslo, Zurigo, Riga e anche in America Latina, negli Stati Uniti, in Libano, Israele, Marocco, Australia e Corea de Sud. A organizzare il tutto è il comitato MiBACT composto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, dalla RAI, dai Comuni di Firenze, Ravenna e Verona, dal Centro Pio Rajna, dall’Accademia della Crusca, dalla Società Dantesca Italiana e dalla Società Dante Alighieri.
FEDERICO II, DANTE, E LA DISTRUZIONE DELLA "CRITICA DELLA RAGION PURA"*
"(...) Si tenga presente che Federico II visse alla fine del secolo che conosceva la giustizia come unico fine dello stato - fine, del quale, come si sa, gli statisti del rinascimento si occuparono ben poco. Federico era nato nel tempo della massima fioritura del «secolo giuridico», che chiudeva un millennio dedicato alla ricerca della giustizia, e che senza dubbio ebbe tanta influenza su Federico, quanta egli ne ebbe poi sulla giurisprudenza: si pensi soltanto alla visita dello Staufen a Bologna, al giurisperito Roffredo di Benevento, alla fondazíone dell’università di Napoli.
A buona ragione s’è definito «epoca del diritto» quel secolo (1150- 1250) che chiude il medioevo, perché dai giorni di un Graziano e di un Irnerio, da quelli che segnarono una notevole ripresa del diritto romano da parte del Barbarossa (simbolo dello spirito del tempo), a nessun’altra ricerca scientifica il mondo aveva mostrato effettivo interesse come allo studio del diritto - il che certo non impedì che l’interesse si tramutasse in pazzia: come dimostra l’aver cominciato, verso la fine del XIII secolo, a mettere in versi le Institutiones di Giustiniano, allo stesso modo che si è fatto ai giorni nostri con la Critica della ragion pura di Kant.
Tale degenerazione indica che nel campo in oggetto non resta più nulla da fare. Non che la scienza del diritto si esaurisse con quel secolo: solo, la materia era stata dai glossatori assiduamente e sempre più sterilmente perorata, e, d’alÍo canto, si schiudevano al rinascimento nascente tanti e infinitamente più importanti spazi scientifici, che la cultura profana non poté più, come al tempo di Federico II, essere identificata con quella giuridica. La scienza giuridica, però, che consiste nello studio delle leggi, conraddistingue la nascita d’uno spirito non teologico, anzi essenzialmente laico.
D’altra parte, la chiesa stessa aveva mantenuto, nel campo del diritto, una posizione di guida: tutti i papi più importanti di questo secolo - Alessandro III, Innocenzo III, Onorio III, Gregorio IX, Innocenzo IV - furono giuristi, anzi la conoscenza del diritto canonico diventò elemento essenziale della teologia, o meglio: teologia e scienza giuridica vennero a pericolosi conflitti nell’ambito della chiesa, e la seconda ne patì gravi danni. Sdegnato di ciò, Dante maledisse i Decretali perché papa e cardinali, a furia di studiatli sino a consumarne i «vivagni», dimenticavano Nazareth.
Le raccolte di leggi cominciarono a farsi più frequenti: la piccola ma importante raccolta del normanno Ruggero II aveva segnato un inizio. Contemporanea quasi alla grande codificazione fridericiana del diritto pubblico e amministrativo, venne alla luce la raccolta dei Decretali, cominciata da Innocenzo III e pubblicata da Gregorio IX nel 1234 e "lasciando da parte il superfluo", "secondo l’esempio di Giustiniano".
È strano che in quel tempo che aspettava quasi da un momento all’altro giudizio universale e fine del mondo, sbocciasse ovunque lo studio del diritto, quasi che la conoscenza delle leggi potesse stornare appunto il giudizio universale; e che in quel secolo, che come nessun altro guardava alla pienenezza dei tempi, vedesse giungere a compimento l’aspirazione di un millennio: la iustitia. Ma di tutto il lavoro dei giuristi soltanto un’opera, come sempre accade, portò a una rottura decisiva: il Liber augustalis di Federico II. Nel quale confluirono e costituirono un tutto determinate premesse: al punto che nel codíce siculo la giustizia stessa celebrava la sua apoteosi. In forza della dignità imperiale e del suo ufficio di giudice supremo, Federico II si pose a capo, in veste dí realizzatore, del secolare movimento tendente alla giustizia, allo scopo di fondare, grazie ad esso, lo stato laico: il quale, pur senza la spiritualità ecclesiastica, sarebbe stato tuttavia una creazione permeata di forze spirituali" (Ernst H. Kantorowicz, Federico II, Imperatore, [Kaiser Friedrich der Zweite, I-II, Berlin 1927-1931] Garzanti, Milano [1976] 1988).
* Federico La Sala
Cultura islamica di padre Dante
di Carlo Ossola (Il Sole-24 - Domenica, 14.12.2014)
«Hic incipit liber qui arabice vocatur Halmahereig, quod latine interpretatur: "in altum ascendere". Hunc autem librum fecit Machometus et imposuit ei hoc nomen» («Qui comincia il libro che in arabo si intitola Halmahereig, che in latino significa: "salire in alto". Maometto lo compose, e gli diede tale nome»). Ben prima che Enrico Cerulli pubblicasse, nel 1949, il Libro della scala. La questione delle fonti arabo-spagnole della Divina Commedia, un grande studioso spagnolo, Miguel Asín Palacios (Saragozza, 5 luglio 1871 - San Sebastián, 12 agosto 1944) aveva posto, con una erudita e vastissima messe di allegazioni, il problema dei contatti tra la struttura della visione di Dante e le tradizioni dell’ascensione o mi’ra-’g’ di Maometto nei regni dell’oltretomba.
Il suo saggio La escatología musulmana en la Divina Comedia, pubblicato nel 1919, suscitò polemiche enormi; non si riconosceva più, nell’autore, il sacerdote pieno di dottrina che aveva edito l’Averroísmo teológico en Santo Tomás de Aquino (1904), bensì un avventuroso e incauto assertore di contatti immaginari, e proprio alla vigilia del VI centenario della morte di Dante (1921).
Naturalmente il libro non venne tradotto in italiano, ma trovò un recensore attento nel grande arabista francese Louis Massignon, che gli consacrò, nello stesso 1919, un lungo saggio ora ripreso, da Andrea Celli, nel prezioso volume dello stesso Massignon, Il soffio dell’Islam. La mistica araba e la letteratura occidentale (Medusa, 2008).
Asín conosceva i resoconti del viaggio di Ricoldo da Montecroce, ma morì prima di aver potuto vedere l’edizione del Liber de scala, che certo avrebbe portato ben altri suffragi alle sue tesi (esso è ora edito da Anna Longoni, Rizzoli-Bur, 2013).
Nei cinquant’anni dalla morte di Asín Palacios proposi all’editore Pratiche di pubblicare il volume (nell’ottima traduzione di Roberto Rossi Testa e Younis Tawfik) e da allora il libro si è ristampato, sino alla presente edizione, nella quale propongo il bilancio di ulteriori vent’anni di indagini. Dalle parallele ricerche di Maria Corti, e poi di più giovani studiosi - da Andrea Celli a Luciano Gargan -, è apparsa evidente l’ampia circolazione occidentale del Liber de scala, sino alla menzione di una copia del Liber de scala nell’inventario della biblioteca di un domenicano bolognese ai tempi di Dante.
Ora non si tratta né di attingere a tipologie intemporali che riunifichino i culti, come fece Frazer, e neppure di voler immaginare filiazioni dirette, bensì - ben vide Maria Corti - ritrovare costellazioni di testi e di senso che circolarono con libertà e influenze reciproche nel Mediterraneo della fine del Medioevo (Mediterraneo oggi irriconoscibile, per fratture e reciproca ignoranza, rispetto alla sua storia plurimillenaria).
Si tratta, ancor più, di sceverare ciò che è della "memoria collettiva" di tutte le tradizioni semitiche (ad esempio, il capitolo XXXIII che «parla del Paradiso in cui fu creato Adamo, e dei fiumi che in esso si trovano») da ciò che è più tipico di una tradizione araba che si innerverà in Occidente («Il XXVI capitolo parla di come Dio fece molteplici mondi e creature di molteplici specie»), e dai luoghi che possono aver suscitato l’attenzione di Dante e che ho ampiamente esaminato nell’"Introduzione".
Oggi, nel ripubblicare il volume, occorre riconoscere la funzione storica che il saggio ebbe, e rendere onore a Miguel Asín Palacios, probo e coraggioso nel l’aprire un problema storiografico, che non è spento. I libri servono a suscitare ricerche: e mi auguro che questa edizione, prima che nuovi giudizi, riapra le porte dell’inchiesta storica, sì che rientri il vento delle generazioni che corsero le acque e le terre, come vide Julio Cortázar per la parabola di Marco Polo: «Con il mio nome / ho gettato sulle porte la pergamena aperta» (Marco Polo ricorda).
Dante e il libro di Maometto
Arriva la conferma che nella biblioteca frequentata dal poeta c’era una copia del viaggio nell’aldilà del profeta dell’Islam
di Corrado Bologna (il Sole-24ore Domenica, 22.06.2014)
Aby Warburg elesse a epigrafe della propria ricerca un motto divenuto celebre: «Der liebe Gott steckt im Detail», «Il buon Dio abita nel dettaglio». Nel dettaglio può nascondersi il buon Dio, ma certo anche il perfido Demonio. In una massa enorme di dati, se si individua con sottile sagacia ermeneutica «il particolare giusto» e si riesce ad aprirlo come un forziere, scaturirà un tesoro inatteso, un’intera visione del mondo. Un piccolo dettaglio, allora, diventerà una cornucopia, una bacchetta magica, una lampada di Aladino.
Le ricerche delle Annales lo hanno dimostrato con dovizia, spesso affidandosi a quell’arte della lettura delle tracce che gli inglesi chiamano serendipity. Abbiamo tutti nella memoria, per evocare un caso luminoso, la straordinaria biblioteca in miniatura del mugnaio cinquecentesco Menocchio, che Carlo Ginzburg dedusse dagli interrogatori dell’Inquisizione, e che permise di restituire un fossile culturale di grande importanza: il "Fioretto della Bibbia", il "libro delle cento novelle del Boccatio", il "cavallier Zuanne de Mandavilla" (cioè i Viaggi di John Mandeville), un perturbante, quasi incredibile Corano. «Ma Menocchio», commentava Ginzburg, «non era Montaigne, era soltanto un mugnaio autodidatta».
Quel Corano tra le mani di un mugnaio del XVI secolo in odore d’eresia brilla come una pepita d’oro nella ganga della miniera. Da un’altra miniera strepitosa, gli elenchi dei libri posseduti dalle biblioteche dei grandi Ordini mendicanti dei secoli XIII-XIV e smarriti lungo i secoli, è stato appena scavato un altro simile diamante rarissimo, dalla forma curiosa, che permette d’essere incastonato alla perfezione in un’elegante collana di ricerche avviate giusto un secolo fa.
Il giacimento è la «piccola ma significativa biblioteca messa insieme da un frate converso domenicano fuori del comune di nome Ugolino, di cui per ora sappiamo soltanto che all’inizio del Trecento svolse il compito prestigioso di "arcarius" e cioè di "guardiano" della celebre arca sepolcrale di san Domenico, eseguita nel 1267 per l’omonima chiesa bolognese da Nicola Pisano e dalla sua bottega».
L’elenco dei libri, che in età avanzata Ugolino decise di regalare al proprio convento, Luciano Gargan l’ha ricavato dall’atto di donazione (1312) conservato in una pergamena dell’Archivio di Stato di Bologna che in realtà era già stata pubblicata mezzo secolo fa da due storici dell’ordine domenicano, rimanendo però del tutto inerte in fondo a uno studio per specialisti.
A valorizzarlo in una dimensione di storia della cultura, in particolare di cultura dantesca, è oggi la métis di Gargan, cioè il suo fiuto, la sua capacità di riconoscere i dettagli importanti immersi nel magma e di collegarli in una sottile ricostruzione filologica e storiografica. Storicizzati, i dettagli respirano, tornano a parlare di vita, di potenzialità e di realtà.
Tutte le ricerche di Gargan «per la biblioteca di Dante» sono zeppe di materiali interessantissimi. Le raccoglie ora un importante libro dell’Editrice Antenore (che sempre più si conferma faro sicuro nel settore degli studi su Medioevo e Umanesimo): una piattaforma di sintesi e di messa a punto anche bibliografica essenziale per qualsiasi futura indagine sulla cultura dantesca.
Piacerebbe avere spazio per illustrare le tante novità che offre, specie sulla presenza dei Vittorini. Ma mi limito all’ultimo fra i 14 libri dell’elenco notarile bolognese del 1312, che mi fa sobbalzare mentre leggo: «Item voluit frater Hugolinus predictus quod huic donationi adderetur liber qui dicitur Scala Mahometti... ». Dunque, fra Ugolino "aggiunse" ai libri di teologia e di filosofia regalati alla biblioteca di S. Domenico di Bologna quel famoso e un po’ misterioso Libro della Scala di Maometto che (annota giustamente Gargan, nella sua sobria prudenza filologica) «non è menzionato in nessun altro inventario di biblioteca medievale». Dante, durante i suoi studi bolognesi «nelle scuole delli religiosi», poté quindi leggere, tradotta in latino, la storia del viaggio di Maometto nell’oltretomba, accompagnato dall’arcangelo Gabriele.
«Poté» leggere: non «lesse certamente». È chiaro che su questo punto le polemiche tra i filologi si accenderanno. A me pare tuttavia che questo dettaglio rappresenti una punta di diamante fortissima, incisiva, per stabilire un affidabile paradigma di compatibilità logica, storica, documentaria.
Per la prima volta abbiamo la prova sicura che, negli anni stessi in cui Dante scriveva la Commedia, in una delle biblioteche in cui è verosimile che egli abbia studiato si conservava il Libro della Scala, forse nella stessa versione latina approntata nel 1264 nella Toledo di Alfonso X "il Saggio" dal notaio Bartolomeo da Siena.
La pubblicò nel 1949 Ernesto Cerulli, traendola da un codice parigino segnalato nel 1944 da Ugo Monneret de Villard, e congetturando che Brunetto Latini, maestro di Dante e ambasciatore di Firenze a Toledo, potesse essere stato mediatore dell’arrivo dell’opera in Italia (un’utile traduzione italiana, con il testo latino a fronte, procurò l’anno scorso un’allieva della Corti, Anna Longoni). Cerulli puntualizzava le acute ricerche del grande arabista spagnolo Miguel Asín Palacios che per primo, nel 1919, con L’escatologia islamica nella Divina Commedia, aveva segnalato l’affinità dell’impianto concettuale e figurale dell’architettura dell’aldilà dantesco rispetto a quello islamico (Carlo Ossola, definendolo «una delle poche opere-guida nella produzione erudita europea del ventesimo secolo», lo fece tradurre nel 1994). Oggi, scoprendo che nel 1312 i domenicani bolognesi possedevano il Libro della Scala, la questione va riaperta con un livello di compatibilità molto più alto.
Mentre leggo Gargan penso al sorriso solare che sarebbe sbocciato, se avesse potuto conoscere questi studi, sul volto di Maria Corti, la grande maestra coraggiosa, generosissima, che negli ultimi anni di una vita intensamente dedicata in particolare alla ricerca su Cavalcanti e Dante riprese con intelligenza l’idea di Asín Palacios, segnalando «un possibile influsso sulla metafisica della luce dantesca» da parte del Libro della Scala, ma ribadendo prudentemente che l’influenza «è più strutturale che puntuale, cioè tale da aver agito soprattutto sull’idea organizzativa del poema, e solo localmente su qualche episodio».
Quel sorriso lo immagina di certo anche Gargan quando proprio a Maria Corti dedica un altro dei suoi capitoli innovativi sui libri di logica, filosofia e medicina «che Dante poté avere occasione di leggere o rileggere mentre soggiornava a Bologna». In un inventario del 1286 (lo scoprì nel 2008 Armando Antonelli), legato a «un singolare processo in cui si trovò coinvolto il medico Tommaso d’Arezzo», per la prima volta si trova una traccia sicura della circolazione bolognese delle opere di Sigieri di Brabante e di Boezio di Dacia, che la Corti, nel suo bellissimo Dante a un nuovo crocevia (1981), propose fossero stati studiati direttamente da Dante, e poi allegoricamente cifrati nella Commedia in «un rapporto simbolico fra la vicenda di Ulisse e il pensiero degli aristotelici radicali» (fra cui Guido Cavalcanti, compagno di studi di Dante proprio a Bologna).
Trent’anni fa la polemica divampò, e si disse che non esistevano prove che Dante avesse letto quei testi. L’inventario del 1286, oggi studiato minuziosamente da Gargan, dimostra che «l’incontro di Dante con l’averroismo latino» assai probabilmente ci fu, e «poté avvenire nella facoltà di arti e medicina di Bologna». Il buon Dio, abita nel dettaglio!
Una nuova edizione del “Monarchia”
Quando Dante immaginava l’Impero come un Paradiso
di Massimo Cacciari (la Repubblica, 17.12.2013)
L’edizione del Monarchia di Dante, a cura di Paolo Chiesa e Andrea Tabarroni, recentemente pubblicata come IV° volume della nuova edizione commentata delle Opere, coordinata da Enrico Malato, non si segnala soltanto per la ricchezza di note e apparati, per alcuni interventi migliorativi del testo-base, per l’ampia introduzione generale e quelle, essenziali, alle singole parti del volume.
Ma è notevole anche per la presenza di alcuni importantissimi “documenti” riguardanti la fortuna dello scritto dantesco, tra i quali il De reprobatione di Guido Vernani, radicale e filosoficamente nient’affatto sprovveduto attacco al Monarchia da parte del frate domenicano; il Commentarium al Monarchia di Cola di Rienzo, testimonianza della sua passione per la gloria di Roma, di un “culto” che Dante definisce nella sua portata teorica e da lì, anche proprio attraverso Cola, trapassa nell’Umanesimo; infine il “volgarizzamento” del Monarchia, steso dal grande Ficino, alla fine degli anni ’60 del ’400, non solo in funzione anti-repubblicana, ma per rivendicare Dante alla pia philosophiae cioè alla “catena aurea” del platonismo.
Interpretazioni o “fra-intendimenti” diversissimi, che non nascono soltanto dalle posizioni spesso incompatibili dei loro autori, ma proprio dalla novità e complessità dell’opera di Dante, soprattutto se letta insieme alla Commedia (come appare necessario fare, poiché certamente essa viene scritta in anni nei quali Dante è già tutto immerso, mente e cuore, nella stesura del poema).
Della sua novità ,come per le altre sue opere, Dante è “superbamente” consapevole - e così dello scandalo che essa è destinata a suscitare. Malgrado le numerose citazioni da Agostino, riguardanti essenzialmente questioni intorno al metodo dell’esegesi, Dante non poteva non avvertire l’abisso tra la sua concezione della civitas hominis, la sua idea di Roma e di Impero, e quelle dell’intera tradizione patristica e dello stesso “aristotelismo” tomista.
Da remedium o addirittura semplice solacium per l’infermità della nostra natura vulnerata dal peccato, in Dante l’Impero (e cioè la forma provvidenzialmente destinata a unire politicamente il genere umano), la cui idea stessa viene da lui proposta in termini puramente filosofico-scientifici, esclusivamente per philosophica documenta, è chiamato a assicurare autentica felicità terrena, a edificare l’autentico Paradiso terrestre. Da Babilonia, quale era per Agostino, Roma si trasforma in Roma celeste!
Ma nella Commedia questo Fine appare davvero ancora garantito dall’opera del solo Impero, nella razionale autonomia della sua forma? Questo l’enigma, su cui Chiesa e Tabarroni invitano ancora a riflettere. Virgilio, la prima guida di Dante, si arresta alla soglia del Paradiso terrestre, non vi entra e tantomeno potrebbe spiegarne i simboli; stupisce e basta sullo spettacolo che gli si rivela.
È Beatrice a “far entrare” il poeta, e solo dopo che egli ha bevuto tutto l’amaro calice della confessione e del pentimento. L’architettura della Commedia, nei nessi costitutivi rappresentati dalle guide del poeta, segna una profonda discontinuità con quella del Convivio e del Monarchia.
Come spiegarla? Amara delusione e disincanto dopo il fallimento delle ultime speranze, che ancora avrebbero animato l’opera politica? Ma il Monarchia è tutto fuorché uno scritto “militante”; provvidenziale appare a Dante il corso della storia, ed egli vuol esserne il profeta. In questo schema è inserita la gloria di Roma, modello di perfetto potere politico, di Impero. Ma è la forza ideal-eterna di questo disegno che finisce col rendere contraddittorio il famoso simbolo dei due Soli, Chiesa e Impero, perfettamente distinti nei rispettivi domini e nelle rispettive missioni. Se, infatti, il perfetto potere politico è concepibile soltanto in quanto voluto ab origine dal Signore, in quanto provvidenziale nel senso più proprio e più forte, la felicitas che esso promette è necessariamente subordinata a quella ultima, alla beatitudo celeste. E sembra essere questa, alla fine, l’indicazione che emerge dalla Commedia.
Dante rompe definitivamente con la teologia politica patristica e medievale, ma non è affatto anacronisticamente leggibile nel senso di Marsilio da Padova e della filosofia politica moderna successiva. L’Impero di Dante non sono i regna, o ormai potremmo dire gli Stati, che ha in mente Marsilio. Dante segna la grandiosa soglia tra due epoche - quella di un’idea del Politico che, pur nel rivendicare la propria razionale autonomia, lotta per non perdere ogni fondamento sacrale, e quella che ne risolve il significato e la missione nella immanente potenza delle sue leggi, nella positività del suo diritto. Per quest’ultima, che il Giustiniano imperatore di Dante trovi posto, e vera pace, solo in Paradiso diverrà il simbolo di un’epoca per sempre tramontata.
Paradiso in terra dove sia qualcun lo sa
di Claudio Gallo (La Stampa, 16 dicembre 2013)
«Immagina che non ci sia nessun paradiso, provaci, non è poi così difficile, immagina che non ci sia nessun inferno sotto di noi». Così cantava John Lennon nel 1971, con la sua Imagine, proponendo di abolire il paradiso mentre, per l’ineludibile dialettica delle cose, ne proponeva una nuova versione. Si può vivere senza un altrove? Sembrerebbe di no, perché, anche nelle menti più scettiche, l’idea o l’immagine emerge puntualmente dal pozzo tenebroso da cui sorge la coscienza. Non ci credo, ma lo immagino.
Gli antichi, che vedevano il mondo con occhi diversi dai nostri, non si ponevano il problema della sua esistenza ma s’interrogavano sul dove. Una raffinata scienza cartografica si sviluppò lungo i secoli per indicare dove il paradiso terrestre fosse situato. Una «scienza» cangiante che si è prefissata l’obiettivo di spiegare l’inspiegabile e che è riuscita a sopravvivere anche all’era delle misurazioni esatte.
Segue il suo percorso affascinante, che è allo stesso tempo una mappa della nostra mente, lo storico Alessandro Scafi, docente al Warburg Institute di Londra, nel suo Maps of Paradise, appena pubblicato in Gran Bretagna (dalla British Library) e in Nord America (dalla University of Chicago Press) e in attesa di traduzione italiana. Il libro traccia la storia della cartografia di una specifica forma di paradiso: il Giardino dell’Eden descritto nel libro della Genesi . Il termine usato nella versione ebraica è «Gan Eden», Giardino dell’Eden.
La parola persiana da cui deriva il termine paradiso adottato nelle versioni greche e latine della Genesi , «pairi-daeza», indicava all’inizio (nell’epoca achemenide, tra il ’600 e il ’300 a.C.) uno spazio chiuso da un muro. Quando i traduttori greci e latini dell’originale ebraico scelsero il termine paradiso trasformarono il luogo perfetto di Adamo ed Eva in un giardino recintato. È interessante che per tutta l’antichità l’ideale di perfezione fosse rigorosamente uno spazio finito. L’idea di un infinito illimitato, che a un filosofo greco avrebbe fatto orrore, è un dono della modernità, con le sue dimensioni disumane. Il paradiso socialista, di cui Marx profetizzava l’avvento sulla terra, nasceva proprio dalla negazione dell’accumulazione illimitata delle ricchezze per tornare al limite naturale del rapporto umano. Ciò che i greci chiamavano «metron» e mettevano alla base di ogni convivenza sociale.
Dall’inizio dell’era cristiana fino al Rinascimento le mappe del mondo situavano il Paradiso a Oriente perché così era indicato in alcune traduzioni della Genesi . «Infatti, in molte mappe medievali - ha spiegato Scafi presentando il libro all’Istituto italiano di cultura di Londra - il paradiso è localizzato a Est. Le moderne misurazioni geografiche non rappresentano che luoghi. Ma prima del Rinascimento, prima della riscoperta della geografia tolemaica, prima dell’uso di longitudine e latitudine, le mappe del mondo erano narrazioni storiche piuttosto che rappresentazioni geografiche».
Niente di più distante da Google Maps delle mappe medievali (anche se Google Earth ha cominciato a inserire una dimensione storica). Nelle antiche carte si compendiava la storia del mondo: il dramma dell’umanità si rivelava attraverso la geografia. Si poteva vedere il mondo di ieri ma anche il mondo di domani che, coincidendo con la fine dei tempi, era al di fuori del tempo e dello spazio: uno stato rappresentabile ma non pensabile.
«In Armenia - ha detto Scafi, illustrando il mappamondo di Hereford - vediamo l’Arca di Noè, in Mesopotamia la Torre di Babele, tra il Sinai e il Mar Rosso l’esodo del popolo d’Israele; a Gerusalemme la crocifissione di Gesù Cristo; a Creta il labirinto di Minosse; in Asia il Vello d’oro degli Argonauti. Nel Medioevo si credeva che lo spazio fosse inestricabilmente legato al tempo, una cosa tornata ovvia agli occhi dei fisici del ’900».
Il paradiso terrestre in quelle mappe è fissato nel momento topico in cui Adamo ed Eva commisero il peccato originale, come la finestra di un’altra dimensione affacciata sul presente. Così il giardino dell’Eden esiste e non esiste allo stesso tempo, è geograficamente localizzabile sulla terra ma rimane inaccessibile. Un luogo che è contemporaneamente dentro e fuori del mondo, sulla terra ma non della terra. Lo spazio diventa una semplice convenzione: mentre i cristiani medievali immaginavano un paradiso a Oriente, i loro contemporanei buddisti guardavano al paradiso d’Occidente.
Profondi cambiamenti nella teologia e nella cartografia hanno poi trasformato la visione medievale di un giardino ancora esistente in un Oriente misterioso nell’idea moderna di un paradiso perduto, i cui resti sono stati identificati con precisione in vari luoghi del mondo conosciuto. Nei modi più vari e ingegnosi cartografi e teologi hanno tentato per due millenni di situare il loro paradiso.
Nessuno più di Dante ha cercato di spiegare perché il paradiso non si può spiegare: «Nel ciel che più de la sua luce prende / fu’ io, e vidi cose che ridire / né sa né può chi di là su discende / perché appressando sé al suo disire / nostro intelletto si profonda tanto / che dietro la memoria non può ire»
Il sommo poeta e le sue opere
Sono in preparazione otto tomi Un corpus complesso e definitivo
Alighieri pensava alla grande politica universale, orientata verso la realizzazione della conoscenza e della felicità
di Giulio Ferroni (l’Unità, 12.12.2013)
CENTENARI E RICORRENZE DI VARIO GENERE PORTANO ALLA RIBALTA SITUAZIONI DEL PASSATO, capolavori delle arti e della letteratura, che spesso, passate quelle ricorrenze, tornano nellombra: al sistema delle celebrazioni culturali si potrebbe riferire ciò che Leopardi, in una delle prime pagine dello Zibaldone, dice della sensazione data dagli anniversari. Questi danno l’illusione «che quelle tali cose che son morte per sempre né possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in ombra, cosa che ci consola infinitamente allontanandoci l’idea della distruzione e annullamento che tanto ci ripugna e illudendoci sulla presenza di quelle cose che vorremmo presenti effettivamente».
Davvero sempre più spesso capita che certe ricorrenze offrano una piccola vita provvisoria a forme e modelli culturali sempre più lontane dall’orizzonte pubblico: cultori, eredi, concittadini di questo e di quello si danno un po’ da fare per portare sulla scena come «presenti effettivamente» nomi e opere spesso note solo a pochi specialisti. Lo sa bene chi si occupa di letteratura e nella sua vita ha avuto modo di seguire (anche partecipandovi) centenari, cinquantenari o altro...
Ci sono però pochi autori la cui presenza si impone al di là di ogni spirale celebrativa: per essi i centenari, visti e preparati da lontano, possono suscitare un particolare fervore di iniziative, capaci di dare nuova intensità a una presenza pervicacemente resistente pur nel quadro di un mondo che sembra sempre più allontanarsi dalla letteratura. Così accade per il più grande di tutti, quello che è davvero il «padre» della nostra lingua, Dante: in vista del settimo centenario della morte (2021) sono in atto vari progetti, tra cui si impongono quelli del Centro Pio Rajna, diretto da Enrico Malato, che hanno al centro una nuova edizione commentata delle Opere di Dante, che raccoglie tutto il frutto dell’immenso lavorio del precedenti commenti e offre una fitta serie di apparati, di strumenti di lettura, e anche di testi collaterali a quelli danteschi.
Si tratterà di otto volumi in più tomi (Salerno editrice), il cui insieme ambisce a venire in porto appunto nel 2021 (ma c’è anche una tappa intermedia, con la ricorrenza nel 2015, dei 750 anni dalla nascita di Dante), e che ha già visto nel 2012 l’uscita del volume III (De vulgari eloquentia), del primo tomo del VII (Fiore e Detti d’amore, opere di dubbia attribuzione), e ora del IV, Monarchia, a cura di Paolo Chiesa e Andrea Tabarroni con la collaborazione di Diego Ellero (pp. CLII-594, €.49,00).
PROSA MEDIEVALE
Tra le opere di Dante la Monarchia è quella più direttamente legata ai modelli della prosa scientifica medievale, in cui si esprime nel modo più netto l’affermazione della necessità di una monarchia universale (l’impero), destinata a instaurare la pace e la giustizia, guidando l’umanità verso la felicità terrena: negando ogni subordinazione dell’autorità imperiale a quella del papato, a cui invece spetta il compito di guidare l’umanità verso la vita eterna.
Questa edizione collega a un’introduzione che offre un’ampia sintesi storica, critica, filologica una fittissima annotazione del testo latino (con traduzione italiana a fronte) e una serie di altri materiali di grande interesse: da scritti polemici di parte papale del secolo XIV contro le tesi centrali dell’opera di Dante (del resto nel 1329 il libro fu fatto bruciare a Bologna e nel Cinquecento fu messo nell’Indice dei libri proibiti), al Commentarium che ad essa dedicò con fervida adesione Cola di Rienzo, al volgarizzamento che nel 1468 ne fece Marsilio Ficino.
Pur strettamente iscritta in un orizzonte tutto «medievale», la Monarchia ha alimentato nei secoli una prospettiva di tipo «laico», con la sua determinante separazione tra potere politico e autorità religiosa, nel quadro di una legittima aspirazione umana ad una «felicità» tutta terrena: essa identifica questa felicità secondo una prospettiva aristotelica, come piena attuazione di tutte le possibilità dell’intelletto umano, di una conoscenza capace di tradursi in azione e di realizzare il bene.
La sua argomentazione fa leva su di un profondo senso della responsabilità della scrittura, del suo necessario rivolgersi verso la ricerca di una «verità» rivolta al bene degli esseri umani: in una visione dell’unità del genere umano e della necessità di un potere universale, il solo capace di rendere possibile pace e giustizia. E certo se oggi siamo tanto lontani dal suo orizzonte storico, filosofico, linguistico, questo richiamo ad una grande politica universale, orientata verso la realizzazione della conoscenza, sola garanzia di felicità e di giustizia, resta determinante ancora per noi, di fronte ai pericoli di un mondo che procede ciecamente, che si affida all’esteriorità dell’apparenza e alla violenta indeterminatezza dell’economia finanziaria.
Non si deve dimenticare, d’altra parte, che con la sua poesia Dante mira ad andare «più in là» dello spazio finito dell’esistenza umana: con il suo grande poema guidato da una passione assoluta per una vita giusta e felice e nel contempo teso verso qualcosa che sfugge ad un controllo umano, fino alla visione di Dio in cui culmina il Paradiso.
All’ultimo canto del Paradiso, come parziale «campione» dell’edizione commentata della Commedia prevista per il centenario del 2021, Enrico Malato dedica ora un piccolo prezioso libretto, Dante al cospetto di Dio (Salerno editrice,2013,pp.92,€.7.90), che conduce il lettore entro la sfida dantesca all’indicibile, nella vertigine di quella visione «impossibile». Vi si nota, tra l’altro, l’audacia della scelta di Dante di aggirare «il divieto biblico ed evangelico della visione di Dio», di attribuirsi il privilegio di esservi giunto «addirittura con il proprio corpo», fino a collocarsi alla fine in «coincidenza o sintonia con la ruota dell’universo, mossa dall’amor divino». In questo approdo supremo trova la sua massima manifestazione quella tensione del grande poeta verso un punto di vista “universale”, che si svolge in tutta la sua opera e che, sul più circostanziato piano politico, agisce con spregiudicatezza nella Monarchia.
IL PONTEFICE MASSIMO IL PAPA ATEO: COME E’ STATO ED E’ ANCORA POSSIBILE - OGGI?!
Due note storiche: una di Leonard Boff e una di Luciano Canfora
La Commedia di ognuno di noi
di Carlo Ossola (Il Sole -24 Ore, 18 marzo 2012)
Siamo stati formati dalla critica a pensare alla Divina Commedia come «viaggio a Beatrice» (così suona il titolo del celebre saggio di Charles S. Singleton, Journey to Beatrice, 1958). Il fedele d’Amore mantiene la promessa che chiudeva la Vita nova: «Appresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei». Beatrice appare nel Paradiso Terrestre, al sommo della montagna del Purgatorio, ivi trionfa e ivi nomina, per la prima volta nella Commedia, Dante: «Quando mi volsi al suon del nome mio, / che di necessità qui si registra» (Purg., XXX, 62-63). La teoria romantica che da Rossetti a Gourmont ha ispirato la lettura del poema trova qui il suo sigillo.
Ma molti ostacoli presenta tuttavia una lettura siffatta: il primo ed evidente è che Dante si fa lì nominare per essere aspramente rimproverato da Beatrice: «Dante, perché Virgilio se ne vada, / non pianger anco, non piangere ancora; / ché pianger ti conven per altra spada» (Purg., XXX, 55-57). Anche a voler ammettere che Dante si pieghi a un gesto di umiltà, e poi ascenda gloriosamente con Beatrice al Paradiso, sul più bello - come si dice in maniera colorita ma calzante - Dante si fa poi abbandonare da Beatrice: «Uno intendëa, e altro mi rispuose: / credea veder Beatrice e vidi un sene / vestito con le genti glorïose» (Par., XXXI, 58-60).
La guida al mistero e alla visione finale sarà san Bernardo: su questo "transito" Jorge Luis Borges ha scritto pagine finissime e non resta che rinviare ai suoi Nove saggi danteschi. L’ipotesi romantica rimane monca e toglie anzi grandezza al «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» (Par., XXV, 1-2), toglie spessore alla lettura allegorica del testo che Dante difende spiegando, nell’Epistola a Cangrande, e citando nel poema il salmo In exitu Isräel de Aegypto (Purg., II, 46).
Occorre prendere sul serio il testo e ritornare a una ipotesi già avanzata dal Boccaccio e dai primi commentatori e ripresa nel Novecento da Ezra Pound: «In un senso ulteriore è il viaggio dell’intelletto di Dante attraverso quegli stati d’animo in cui gli uomini, di ogni sorta e condizione, permangono prima della loro morte; inoltre Dante, o intelletto di Dante, può significare "Ognuno", cioè "Umanità", per cui il suo viaggio diviene il simbolo della lotta dell’umanità nell’ascesa fuor dall’ignoranza verso la chiara luce della filosofia» (E. Pound, Dante, in Lo spirito romanzo, 1910). Se il protagonista del viaggio è «Everyman», non è più necessario attribuire a Dante viator l’esperienza eccezionale di una visione mistica, ma di riconoscere in lui il volto di Ognuno: per questo «la Commedia di Dante è, di fatto, una grande sacra rappresentazione, o meglio, un intero ciclo di sacre rappresentazioni» (ivi).
La lettura di Pound incontra, dicevamo, la chiosa che il Boccaccio propone sin dall’apertura delle sue Esposizioni sopra la Comedia di Dante, estrema opera della sua vita, suggerendo che non solo da Beatrice Dante si faccia nominare, ma soprattutto da Adamo al sommo del Paradiso: «L’altra persona, alla quale nominar si fa, è Adamo, nostro primo padre, al quale fu conceduto da Dio di nominare tutte le cose create; e perché si crede lui averle degnamente nominate, volle Dante, essendo da lui nominato, mostrare che degnamente quel nome imposto gli fosse, con la testimonianza di Adamo; la qual cosa fa nel canto XXVI del Paradiso, là dove Adamo gli dice: "Dante, la voglia tua discerno meglio", eccetera».
Ora precisamente Boccaccio adotta una lezione, per Par., XXVI, 104, trádita dai più antichi codici (il Landiano, 1336, il Trivulziano, 1337, e molti altri) e confermata dagli antichi commentatori, da Pietro Alighieri, alle Chiose ambrosiane, a Francesco da Buti; lezione che cambia profondamente il senso del poema, poiché ora - nominato da Adamo - Dante non è più solo il fedele d’Amore, ma è il «novello Adamo» di un’umanità redenta, come riassume, nel suo commento, Pietro Alighieri e, con raffinata pertinenza, ribadiscono le «Chiose ambrosiane» (da situare intorno al 1355; traduco dal bel latino): «Dante - Qui il poeta si fa nominare dal primo uomo che impose il nome a tutte le cose e senza quella excusatio alla quale ebbe a ricorrere nel Purgatorio ove disse: "Che de necessità qui se registra". Nota quindi che il poeta mai volle essere nominato nell’Inferno, e neppure nel Purgatorio nei luoghi ove si purgano i vizi, ma concesse di farsi nominare fuori dalle cornici dei vizi, sebbene dovendosi scusare (tamen cum excusatione). Ma in Paradiso senza doversi scusare, come appunto qui - essendo l’opera ormai quasi compiuta - e dopo che, esaminato, aveva fatto professione delle virtù teologali».
Quando parallelamente si osservi il comportamento di Boccaccio copista, in particolare nell’esemplare «Chigiano L VI 213 (= Chig), di mano del Boccaccio, che lo trascrisse non molto avanti la nomina a lettore di Dante, nell’agosto del 1373» (G. Petrocchi, I testi del Boccaccio, in La Commedia secondo l’antica vulgata), si dovrà concludere che anche lì un codice Chig «il quale si impone sugli altri con la qualifica di edizione ultima e definitiva del testo dantesco» (Petrocchi) mantiene la lezione «Dante, la tua voglia discerno meglio» (nel ms. a p. 330; ringrazio di cuore Rudy Abardo per il prezioso riscontro filologico e Marisa Boschi Rotiroti per la sollecitudine) con perfetta coerenza alle ragioni enunciate nelle contigue Esposizioni.
Si tratta dunque di ritornare alle origini, non solo agli autorevolissimi manoscritti che inscrivono: «Dante» o «da- te» e non «da te» (lezione minoritaria), come ha adottato il Petrocchi e con lui - snervando il vigore del testo - le edizioni moderne della Commedia («Indi spirò: "Sanz’essermi proferta / da te, la voglia tua discerno meglio"»); e di riconoscere che - nell’eliminare Dante nominato da Adamo - non si è fatta solo una "rimozione" a favore di una lettura meramente amorosa del poema, ma si è privato il testo stesso di quella grandiosa e universale coralità che Dante voleva conferire al proprio viaggio. Poiché, qui, Dante non è più il poeta della Vita nova, ma l’autore del «poema sacro»; egli è ormai, e per sempre, Everyman, il "novello Adamo" dell’umanità redenta, sì che dal «padre antico» (Par., XXVI, 92) possa ricevere la più alta consacrazione.
Occorre insomma pensare alla Commedia, come a «l’albero che vive de la cima» (Par., XVIII, 29); che si compie nella "nuova Genesi" del Paradiso di Gloria, come ben vide Giovanni Getto, sin dal 1947, sottolineando «cotesto epos della vita interiore come esultanza delle spirito elevato verso le cime vertiginose della partecipazione al Dio della gloria e dell’eterno» (Poesia e teologia nel «Paradiso» di Dante, in Aspetti della poesia di Dante); ma anche come partecipazione dell’umanità tutta alla speranza della Resurrezione della carne della storia e dei corpi, che ansiosamente i beati in Paradiso attendono («Come la carne glorïosa e santa / fia rivestita, la nostra persona / più grata fia per esser tutta quanta», Par., XIV, 43-45).
Così dunque, in questa quotidiana coralità di Everyman, è da proporre al XXI secolo la Divina Commedia, bene comune non dell’Italia soltanto, ma dell’umanità intera; e sempre così è stata intesa, dai primi commentatori al Boccaccio, come il poema al quale bussare e attingere per avere accoglienza, ospitalità, conforto. Lo testimonia ancora, al portale di un palazzo di Cannaregio il battente dantesco, e i tanti uomini che in nome di Dante, e leggendo il suo poema, hanno sfidato la barbarie, da Osip Mandel’štam a Primo Levi. Ogni giorno, Dante è davvero tutti noi.
Cercando Virgilio
Tutti i volti del poeta che cambiò il mondo
di Francesca Montorfano (Corriere della Sera, 16.10.2011)
Quando nell’autunno del 1896, dagli scavi di una villa romana presso Hadrumetum (l’odierna Sousse, in Tunisia) venne alla luce quel mosaico del III secolo dopo Cristo, apparve subito chiaro che si trattava di una scoperta dalla portata straordinaria. Tra Calliope, musa della poesia epica, e Melpomene, musa di quella tragica, era infatti seduto Virgilio, lo sguardo assorto, il rotolo con alcuni versi dell’Eneide in mano, il volto dai tratti ben caratterizzati.
Morto nel 19 avanti Cristo, a 51 anni, di ritorno da un viaggio in Grecia, il sommo poeta aveva conosciuto subito un’immensa fortuna e la sua immagine, la sua vicenda biografica e letteraria, ispirato un numero infinito di opere d’arte e affascinato nei secoli Leonardo, Giorgione e Michelangelo, così come Petrarca e Boccaccio, Ariosto e Leopardi, che volle addirittura essere sepolto accanto a lui o Thomas Eliot, che negli anni bui della Seconda Guerra Mondiale a Virgilio si riferirà come a un modello superiore di classicità e armonia. Tuttavia la scoperta avvenuta in terra d’Africa aveva qualcosa di diverso, di più.
Non rappresentava solo un’altissima testimonianza dell’influenza culturale romana anche in quei luoghi, ma un’iconografia nuova del poeta, forse l’unica, credibile immagine del volto di Virgilio, probabilmente derivata da un ritratto eseguito quando era ancora in vita.
Oggi il celeberrimo mosaico conservato nel Museo del Bardo di Tunisi è per la prima volta uscito dai confini nazionali ed esposto a Palazzo Te, nella bella mostra curata da Vincenzo Farinella e voluta nella città che al poeta ha dato i natali e che già nel 1190 un’iscrizione celebrava come urbs virgiliana.
Sarà proprio Virgilio, cantore del viaggio di Enea e guida d’eccezione nella Divina Commedia, a condurci lungo un percorso millenario che dall’epoca classica, dal Medioevo e dal Rinascimento arriva al Barocco al Romanticismo e al Novecento, a scoprire tutta la forza seduttiva che il suo volto e la sua opera hanno esercitato su letterati e artisti, autori sconosciuti come maestri celebrati.
Pochi altri autori classici si sono rivelati così attuali, aperti ad ogni stimolo come Virgilio, mantovano di nascita, milanese di formazione, romano d’adozione, pugliese per morte, partenopeo per sepoltura.
«La sua modernità consiste anche nella capacità di vivere il suo tempo, in quella consapevolezza del presente che lo porterà a coniugare arte e potere, a scrivere l’Eneide su commissione di Augusto per celebrare la romanità e la pace dopo anni di lotte politiche e sociali e nel contempo creare un altissimo capolavoro, così come dopo di lui farà Raffaello nelle Stanze Vaticane - commenta Vincenzo Farinella -. Pregio di questa mostra è la possibilità di apprezzare tutta la grandezza del poeta non solo attraverso i versi che ha scritto, ma anche attraverso le immagini che a lui si riferiscono, più di sessanta pezzi tra sculture, incisioni, monete, medaglie, antiche edizioni a stampa illustrate, dipinti e bozzetti attentamente selezionati, che ne documentano la fama goduta nei secoli.
Opere famose, ma anche poco note o pressoché inedite pur di altissima qualità, come la seicentesca "Morte di Didone" di Pietro Testa per lungo tempo ritenuta perduta e riemersa dai depositi degli Uffizi dopo un recente restauro, un capolavoro di forte tensione drammatica un tempo attribuito addirittura a Poussin, o le edizioni del corpus virgiliano dalle illustrazioni manieriste su disegni del Beccafumi e messe qui a confronto con la celeberrima edizione di Strasburgo del 1502, curata dal grande umanista Sebastiano Brant e resa ancora più preziosa da xilografie acquarellate».
Tanti i «volti» del poeta che è possibile ricostruire con i pezzi esposti nella suggestiva Ala Napoleonica dove è allestita la mostra.
Dal Virgilio in cattedra in marmo rosso di Verona, emblema civico e politico della Mantova duecentesca, a una stampa del Mocetto, a un frammento di affresco del poeta con la sirinx, il flauto a più canne, forse di Rinaldo Mantovano, al disegno autografo di Giulio Romano conservato a Monaco di Baviera, alla ricca numismatica di epoca gonzaghesca, dove Virgilio viene rappresentato quasi una sorta di nume protettivo fino ai giorni dell’ottavo duca, Carlo I Gonzaga Nevers (1627-1637).
A raccontare la fortuna figurativa di Virgilio sono quindi le grandi tele sei e settecentesche ispirate a motivi letterari, a episodi della Divina Commedia e dell’Eneide, come quelle di Filippo Napoletano e di Rutilio Manetti, dove è messo in scena l’ingresso dei due poeti nel regno degli Inferi o quella, rococò, di Sebastiano Conca, con l’episodio di Enea nei Campi Elisi.
In epoca neoclassica e preromantica sarà invece il sepolcro del poeta a Piedigrotta, diventato quasi una tappa obbligata del Grand Tour, a influenzare la sensibilità di artisti e viaggiatori, tra cui Joseph Wright of Derby che durante un soggiorno in Campania rimase talmente suggestionato dall’atmosfera del luogo da dipingerne ben sei vedute.
Ma la presenza, l’eredità di Virgilio, non si è mai affievolita, si è dimostrata viva e vitale anche nelle epoche successive, nel Novecento. Come dimostrano i tanti progetti e bozzetti per il monumento che nel 1927 Mantova ha dedicato al suo glorioso cittadino, «de li altri poeti onore e lume» e che chiudono cronologicamente il percorso.
Così il «padre dell’Occidente» apparve sulla montagna sacra
Al centro dello scontro fra romanità e germanesimo
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 16.10.2011)
Lo scontro tra romanità e germanesimo è forse la costante principale nella storia intellettuale del nostro continente. E Virgilio costituisce la figura centrale di questa storia. Virgilio «padre dell’Occidente», secondo la visione di un grande interprete tedesco della cultura latina e italiana, Rudolf Borchardt (1877-1945).
Nel 1930, quando il bimillenario virgiliano divampava non solo in Italia, egli scrisse un mirabile saggio intitolato Virgilio. Scrive Borchardt: «La Germania rimasta libera, che nel Cinquecento alla Chiesa, erede sacra dell’autorità di Roma, contrappose la Scrittura e lo scisma, ha contrapposto conseguentemente, tre secoli più tardi, Omero e l’ellenismo a Virgilio, da cui si dichiarava emancipata. Ma l’Occidente, quella famiglia culturale rimasta umanistica, mai divenuta ellenica e omerica, porta quel nome inciso nelle pietre delle sue fondamenta; conserva issata, altissima e lontana, di tutti e di ognuno, questa figura di Virgilio. Egli è il capostipite dell’intera poesia illustre di Francia e di Olanda, di Spagna e Portogallo, e per gran parte, di qua e di là del confine antico, anche di quella inglese e germanica, così come è custode e insieme espressione della carta costitutiva della civiltà italiana, l’atto di nascita della sua poesia nazionale».
E proseguiva osservando che «più saldamente di ogni sua razza, stato e popolo», il concetto di Europa converge nel nome di Virgilio. Così, pochi anni prima dell’ondata pangermanistica e anti-romana innescata dal nazismo, l’ebreo di Königsberg Rudolf Borchardt, convertitosi al calvinismo durante la guerra, catturato dalla Gestapo nei pressi di Lucca nel 1944, deportato verso la Germania e morto a Innsbruck al principio del ’45, apriva la strada a quella valorizzazione del mondo latino come essenza europea che avrebbe costituito per altre vie e grazie ad altri studiosi e in virtù di complicati intrecci - ivi compresa la tensione tra le due potenze dell’«Asse» -, la risposta umanistica, dell’umanesimo filo-latino, alla rivendicazione politico-razziale della supremazia germanica sull’Europa. Non era stato lineare il cammino intellettuale di Borchardt nei critici primi anni di vita della neonata e poco amata prima repubblica tedesca.
Itinerario, il suo, per certi versi analogo a quello di Thomas Mann, approdato, dopo le inquietanti Considerazioni di un impolitico (1918), impregnate dell’idea di una specificità germanica minacciata dall’occidentalismo, alla straordinaria e accesa disputa tra Naphta e Settembrini intorno alla figura di Virgilio (La montagna magica, sesto capitolo).
La polemica Naphta-Settembrini è l’architrave ideologico, che mette a contrasto liberalismo e rivoluzione. Non a caso il personaggio Naphta scaturisce dalla diretta conoscenza che Mann fece di György Lukács a Vienna nel 1922. Lo scontro tra i due su Virgilio è forse il cuore di quella battaglia sfociata di lì a non molto in un vero e proprio duello. Naphta, che riconosce e ammira la grandezza di Dante, trova che l’adesione profonda di Dante alla figura di Virgilio non sarebbe dovuta che ad una «pregiudiziale benevolenza nei confronti della sua epoca». Dante, secondo Naphta, ha attribuito indebito rilievo «a quel mediocre versificatore», «laureato di corte e leccapiedi della stirpe Giulia, letterato metropolitano, retore pomposo senza una scintilla di creatività», per nulla poeta, «bensì un francese con parrucca a boccoli dell’epoca augustea» (cito dalla traduzione, ormai insostituibile, di Renata Colorni).
Donde tanta acrimonia, e perché per il rivoluzionario-gesuita Naphta Virgilio è un così aborrito bersaglio? Naphta si richiama esplicitamente ai «maestri della giovane chiesa» (cristiana), i quali «non si erano stancati di mettere in guardia dalle menzogne dei poeti e dei filosofi dell’antichità e in particolare dallo sporcarsi le mani con il fiorito eloquio di Virgilio»: un insegnamento che torna attuale, secondo Naphta, «oggi che un’epoca scende nella tomba e una nuova alba proletaria va spuntando». In sostanza, Naphta si fa assertore di un ritorno alla rivoluzione culturale cristiana volta alla distruzione dei classici, a fare table rase come rozzamente si diceva nel 1968. Se dietro Naphta c’è Lukács, il Lukács iperbolscevico dei primi anni Venti, allora questa equiparazione tra rivoluzione culturale cristiana e alba proletaria ben si comprende giacché l’accostamento tra l’antica rivoluzione cristiana e la moderna rivoluzione proletaria era già stato un topos della riflessione per esempio di Engels, ma anche di Kautzky e, decenni dopo, di Deutscher.
Il bivio dinanzi al quale il pensiero cristiano si era trovato dopo la generazione dei «maestri della giovane chiesa», era stato tra la tabula rasa e il recupero quanto possibile ampio della cultura passata, nel nome di una asserita, non sempre ben argomentabile, continuità. E Virgilio era, poté efficacemente essere, l’architrave, l’asse portante di tale continuità. Un ruolo che trova il suo culmine nella scelta dantesca di farne la guida nel viaggio ultraterreno descritto nelle prime due cantiche della Commedia.
L’intervista.
Ursula Le Guin
L’Eneide narrata da Lavinia
Parla la scrittrice californiana femminista, anarchica e autrice pioniera dei romanzi di fantascienza. Stavolta guarda al passato e porta alla ribalta la moglie di Enea. «Quale traguardo per le donne di oggi? Non dover mai indossare un burqa né fisico né morale»
di Maria Serena Palieri (l’Unità, 03.01.2012)
Ci voleva una scrittrice della Napa Valley, California, e glottoteta, cioè esperta in una forma di esperanto, così come creatrice di prodigiosi mondi d’invenzione come l’Earthsea del suo ciclo più celebre, insomma ci voleva qualcuno che viene da un altro cosmo per dare voce a Lavinia, la moglie laziale di Enea, da duemila e trent’anni sepolta silente nelle pagine dell’Eneide. Ci voleva in altre parole Ursula K. Le Guin, scrittrice di culto per molte generazioni, con il suo romanzo Lavinia, uscito negli Usa nel 2008 e ora in libreria da noi (Cavallo di ferro, traduzione Natascia Pennacchietti e Costanza Rodotà, pagine 315, euro 16,00). Lavinia è un romanzo che, per il tramite della figlia del re Latino, ci racconta appunto in modo inedito la nascita della nostra civiltà. E così Ursula K.Le Guin, ora, ce ne spiega la genesi.
Nell’«Eneide» virgiliana Lavinia è menzionata undici volte, soprattutto come promessa sposa di Enea. Non ha voce e i suoi unici segni di vita sono un timido rossore e gli occhi modestamente rivolti in basso. Perché ha deciso di dedicarle un romanzo di 314 pagine? E cosa può dirci Lavinia che Virgilio non ci abbia già detto?
«In realtà, io non ho deciso nulla. Ma rileggendo l’Eneide mi sono interrogata su Lavinia chi fosse davvero, come fosse, cosa pensasse dell’uomo venuto da Troia e molto presto lei ha cominciato a parlarmi. Tutto ciò che dovevo fare era ascoltare cosa avesse da dirmi. (E leggere qualcosa sul Lazio nell’Età del Bronzo!)».
Che differenza c’è tra scrivere un libro ambientato in un mondo immaginario, come lei ha fatto con i suoi romanzi fantasy, scrivere un romanzo di fantascienza ambientato nel futuro o in un presente parallelo, come lei ha anche fatto, e scrivere un romanzo come questo, storico, ambientato nel passato?
«La differenza è davvero piccola, una volta che chi scrive ha creato appieno e con chiarezza l’ambiente, il mondo del suo romanzo, sia con un solido lavoro di fantasia sia con una ricerca storica sul luogo e il tempo».
Lei ha raccontato di avere riletto in latino, in quest’occasione, il poema di Virgilio. E, se non sbaglio, si è laureata con degli studi sul nostro Risorgimento. Vado errata? E qual è in ogni caso il suo legame con il nostro paese?
«Sono laureata in realtà in letteratura rinascimentale francese e italiana. Ed è una laurea che ho conseguito un bel pezzo fa. In realtà, poi, temo di poter leggere meglio Petrarca che l’Unità. So del vostro Risorgimento, dunque, quello che può sapere ogni persona interessata a tutti i grandi movimenti di liberazione europei del XIX secolo. La mia conoscenza imperfetta del latino mi concede solo una lettura molto lenta, ma questo è un buon modo di leggere Virgilio».
Negli ultimi vent’anni, grazie a Harry Potter, il fantasy è diventato un vessillo globalizzato. Le piace il ciclo della Rowling? Sente qualche somiglianza con lei?
«Per dirla schietta, no. Però sono felice che il fantasy alla fine venga visto per ciò che è sempre stato, una delle più antiche e grandi forme letterarie».
Lei è anarchica e femminista. E ha quasi 82 anni. Nel corso della sua vita ha visto il mondo migliorare o peggiorare?
«L’anarchismo è un meraviglioso attrezzo con cui criticare tutte le altre teorie politiche. Il termine femminismo viene usato in così tante accezioni, molte ostili, ed è usato con tanta incuria, spesso tanta ignoranza, che non ha senso dire di qualcuno che sia femminista, oppure no. L’unico suffisso in “ista” che accetto come etichetta è quello della parola “taoista”. Quanto al “mondo” sta andando verso tempi duri davvero, perché per almeno duecento anni non abbiamo usato la Terra in modo saggio e responsabile».
Le donne occidentali oggi quale traguardo dovrebbero porsi?
«Non indossare mai, mai, mai un burqa. Né un burqa fisico né mentale né morale né religioso».
Doris Lessing anche lei femminista, anche lei, tra le altre cose, scrittrice di fantascienza in tempi recenti ha espresso un giudizio drastico sulle giovani scrittrici inglesi: colpevoli, a suo dire, di frivolezza e vittimismo. Cosa ne pensa?
«Forse Doris Lessing non ricorda più quanto difficile sia la vita per i giovani, giovani scrittori, giovani scrittrici. Ma devo aggiungere che il binomio “frivolo e vittimista” descrive una bella fetta della narrativa contemporanea, scritta da uomini come da donne, da giovani come da vecchi, e non solo inglesi. Non possiamo però essere tutti profondi e generosi come José Saramago. E lui ci ha messo cinquanta-sessant’anni per conquistare quella saggezza e quella gentilezza».
Quali sono, se ci sono, gli errori piccoli, grandi, enormi compiuti dal femminismo?
«Non mi piace generalizzare. Posso dire che non credo che il femminismo abbia fatto grandi errori. Credo che molti uomini facciano un grande errore nel considerarlo ostile a se stessi e che molte giovani donne facciano un grande errore a pensare di non averne bisogno e che esso non abbia niente a che fare con loro».
Lei ha confessato che in questa parte della sua vita preferisce scrivere poesia anziché prosa. L’età e la condizione fisica influenzano la creatività di uno scrittore? Scrivere un romanzo lungo è anche una prova di forza fisica?
«Proprio così. Anche una novella chiede una pazzesca chiamata alle armi di tutte le mie energie vitali. Un romanzo però chiede che io mantenga energia e forza a pieno ritmo per mesi o per anni. Solo nel pieno della mia forza fisica, corporea, potrei cominciarne uno nuovo, sapendo che acquistando velocità mi trascinerebbe con sé. Ma la mia energia è esaurita da svariati acciacchi dell’età e non posso più intraprendere lunghi viaggi. Mi mancano molto, i lunghi viaggi. Quando una poesia viene da me porta con sé la sua stessa energia, mi prende e mi porta con sé è come lottare con un angelo che ti trasporta in cielo».
Il giudice ultraterreno
di Piero Boitani (il Sole-24 Ore, 23 ottobre 2011)
«Chi dà a Dante il diritto di ergersi a giudice del l’umanità?», domandava in pubblico, qualche anno fa, durante un convegno, una mia amica inglese. «Nessuno: se lo prende da solo», le risposi. E lo fa, si deve ora dire con Borsellino, perché ha un senso e un bisogno profondissimi della giustizia, di cosa essa dovrebbe essere. Sulla porta dell’inferno Dante piazza un’iscrizione che lascia noi moderni turbati: «Giustizia mosse il mio alto fattore: / fecemi la divina potestate, / la somma sapienza e ’l primo amore». L’inferno è stato creato da Dio per giustizia: poiché sulla terra essa non è mai perfetta, e lascia spesso impuniti i colpevoli mentre punisce talvolta gli innocenti, Dio ha fatto l’inferno perché racchiuda in maniera definitiva, per tutta l’eternità, il male del mondo.
Dante non ha né atteggiamenti politicamente corretti né inclinazioni teologiche moderne (l’inferno esiste, dicono alcuni teologi oggi, ma è vuoto, perché in Dio, perfettamente giusto, prevale la misericordia). Tuttavia, ha anche dei dubbi tremendi. Quando nel paradiso incontra gli spiriti giusti e questi formano un’aquila luminosa di stelle, si domanda: uno nasce in India, dove non c’è chi gli predichi il Cristianesimo; le sue azioni sono tutte buone secondo ragione, non commette peccato in pensieri, parole, opere, ma muore non battezzato: «Ov’è questa giustizia che ’l condanna? / ov’è la colpa sua, se ei non crede?». Il buono che non sia stato battezzato finisce, nell’ottica di Dante, al Limbo, che è pur sempre una parte dell’inferno. L’aquila si risponde da sola: nessuno è mai salito in paradiso che non abbia creduto in Cristo, ma l’intendimento di Dio non può essere sondato dall’intelletto umano: il giorno del Giudizio, ci saranno degli Etiopi che condanneranno quei Cristiani dell’apparenza i quali si battono il petto invocando Cristo tutto il giorno!
E poi, esiste anche, grandissimo, il problema della giustizia terrena, umana, e di quella poetica in particolare. Il potente, colui che governa (Giustiniano, Carlo Martello), può essere sempre giusto? E che giustizia è quella che condanna, mettiamo, Paolo e Francesca, Ulisse, o addirittura, in prospettiva, Guido Cavalcanti? Insomma, che giudice è Dante?
Nino Borsellino affronta tutti questi problemi in maniera pacata e sapiente nel libro che inaugura una serie di «Saggi e ricerche» pubblicati dalla Fondazione Sapegno (il suo maestro). Tre splendidi capitoli introduttivi esaminano il problema del rapporto tra giustizia e letteratura quale i millenni, ormai, hanno posto, e il passaggio, in questo ambito, dal divino all’umano: dalla Bibbia a Eschilo a Dante, appunto. Quindi, il corpo centrale affronta, con una serie di indagini su singoli temi o episodi, i «teatri delle cantiche»: l’idea stessa di una natura teatrale della Commedia è feconda, ed ecco svolgersi sotto i nostri occhi le scene memorabili delle metamorfosi, del Limbo, di Farinata e Cavalcante, di Malebolge; poi quelle del Purgatorio (tra i capitoli più affascinanti del volume, quelli su Stazio e Forese); infine quelle del del Purgatorio (tra i capitoli più affascinanti del volume, quelli su Stazio e Forese); infine quelle del Paradiso: Giustiniano, Carlo Martello, Cacciaguida. Una lettura per gradi, appassionatamente argomentata.
Nella sua "pietas", Borsellino salva anche Guido Cavalcanti, il cui celebre "disdegno" non sarebbe rivolto a Beatrice, ma soltanto a Virgilio (dunque non alla fede, ma alla ragione), e gli pronostica il purgatorio, «il luogo della penitenza per la salvezza... dove amici e poeti e artisti indugiano col pellegrino che li ha collocati sulla sua strada, quando la memoria delle passioni testimonia ormai di un riscatto». Ho i miei dubbi, ma come si richiede ai giurati prima del verdetto: si deve esser convinti al di là di ogni ragionevole dubbio. Meglio assolvere un colpevole che condannare un innocente.
Nino Borsellino, Il poeta giudice. Dante e il tribunale della Commedia, Nino Aragno, Torino, pagg. 266, € 15,00
La sua nuova fortuna legata alle letture pubbliche. Di Benigni, ma non solamente Innovatore e reazionario È il suo mix, per noi oggi misterioso. Ora arrivano i Meridiani
Così lontano così vicino Un enigma chiamato Dante
A scuola è una presenza sempre più remota. In piazza trionfa con le letture di Benigni (e non solo).
Ed ecco arrivare a compimento il poderoso lavoro dei Meridiani, l’opera omnia col massimo dei commentarii
di Giulio Ferroni (l’Unità, 27.04.2011)
Davvero singolare è il modo in cui si è andata definendo negli ultimi anni la presenza di Dante nel nostro paese, nell’universo linguistico che egli con potenza eccezionale ha contribuito a fondare: per certi versi la sua opera si è sempre più allontanata, con una riduzione ed emarginazione nella scuola e nella diffusa coscienza culturale, per altri versi essa si è riproposta in vivissima attualità attraverso letture pubbliche e performance appassionate (e non solo da parte di Benigni). E con tanta tempestiva attualità si può ripetere oggi l’attacco dell’invettiva del VI canto del Purgatorio, che proprio Benigni ha recitato qualche giorno fa a Torino all’inaugurazione di Biennale Democrazia («Ahi, serva Italia, di dolore ostello», con quel che segue).
Lontanissimo o attualissimo, Dante dà luogo comunque a una vastissima serie di studi in tutto il mondo, che toccano non soltanto la Commedia, ma anche le opere cosiddette «minori», di cui sempre più si riconosce il legame inscindibile col capolavoro: in un percorso umano e letterario segnato da un moto ascensionale, vigorosamente proteso verso un esito assoluto.
Formidabile punto d’arrivo di tanti studi e ricerche degli ultimi decenni è ora il Meridiano con l’edizione delle Opere diretta da Marco Santagata, di cui è appena apparso il primo volume (pp. CCXLVIII+1690), che contiene tre opere più esplicitamente «letterarie», cioè Rime, Vita nova e De vulgari eloquentia, curate con ampie introduzioni e fittissima annotazione (le cui dimensioni possono anche sgomentare il lettore non predisposto) rispettivamente da Claudio Giunta, da Gugliemo Gorni (grande critico e filologo recentemente scomparso) e da Mirko Tavoni.
L’introduzione di Santagata sul perno delle opere «minori» ruota verso un’interpretazione generale dell’opera dantesca, che segue proprio la coerenza e la fulminea densità del percorso che conduce dalla prima apparizione di Beatrice nella Vita nova (è la grafia definita da Gorni nell’edizione Einaudi del 1996, i cui materiali vengono qui in gran parte riproposti, con un testo molto diverso da quelli della «classica» edizione critica di Michele Barbi, che recava la grafia Vita nuova) alla visione di Dio alla fine della Commedia.
Non a caso il primo capitolo dell’introduzione s’intitola Sistematicità e coerenza, mentre gli altri chiamano in causa La componente intellettuale, Varietà e sperimentalismo, Il fuoco del sistema: Santagata collega l’inesauribile «tendere in avanti» di Dante alla costruzione di un’autobiografia disposta sotto il segno dell’eccezionalità, proiettata in una immagine mitica di sé e rivolta verso un orizzonte profetico. Tante marche tracciate dalle opere precedenti, tanti diretti riferimenti di Dante alle proprie vicende personali, tante rivendicazioni di autenticità, inviterebbero «a leggere l’intera Commedia come concepita da un autore che si sente profeta».
Dante profeta viene ad azzerare «la differenza tra realtà e finzione», ponendosi come arci-personaggio, capace di riassumere e moltiplicare in sé tutte le modalità possibili dell’essere personaggio; e nel grande poema definisce un nuovo tipo di rapporto con il pubblico, rivolgendosi non più (come in parte accadeva nelle opere precedenti) ad un «pubblico già selezionato in precedenza (i poeti d’amore, gli studiosi, i nobili appassionati di poemi e romanzi cavallereschi, i devoti), ma a tutti».
Il suo impegno sperimentale, la sua apertura all’«innovazione» (che agisce sia sul piano della lingua che su quello dell’invenzione) appaiono comunque a Santagata in netto contrasto con l’approdo politico-sociale della Commedia, rivolto ad una vera e propria «controrivoluzione», con un progetto di ritorno ad una «nobiltà» originaria, in opposizione al contemporaneo «dinamismo sociale», da lui visto come «degenerazione dei costumi»: la Commedia si troverebbe a «mettere una cultura nuova, una lingua nuova, un nuovo modo di percepire e rappresentare la realtà al servizio della tradizione», consumando una paradossale vendetta contro la «modernità» rappresentata da Firenze, la patria che aveva condannato l’autore all’esilio. È ovvio che questo Dante reazionario socialmente e rivoluzionario letterariamente non permette facili identificazioni per il lettore contemporaneo: e i saggi introduttivi alle tre opere qui raccolte sembrano variamente confermare questo suo arretrare in lontananza.
Così fa l’introduzione alle Rime di Claudio Giunta, con acuta attenzione al vario sviluppo, fino al mondo contemporaneo, della lirica e delle concezioni dell’amore: vi si mostra da una parte l’originalità con cui la lirica dantesca, a differenza dei precedenti antichi e medievali, ha conquistato lo spazio dell’intimità; ma dall’altra, guardando al presente, vi si suggerisce un distacco dalla sopravvalutazione, da Dante prolungatasi fino a noi, dell’amore come segno supremo dell’umano destino (amore-agape) e spinta verso l’assoluto (che oggi finalmente ci troveremmo a poter sostituire con la semplice gioia dell’eros).
Certo questi e gli altri ricchissimi dati interpretativi che il volume propone meriterebbero di essere a lungo considerati e discussi: essi susciteranno ampia attenzione e discussione nel mondo degli studi danteschi, anche perché questo Meridiano sembra ambire a porsi come un modello «definitivo» di commento ai vari testi.
Si attende un secondo volume, dedicato al Convivio e un terzo, con le altre opere latine e un poemetto dalla controversa identificazione, il Fiore (la cui paternità dantesca è ora negata con ben misurate e convincenti ragioni da un rigoroso saggio di Pasquale Stoppelli, Dante e la paternità del “Fiore”, Salerno editrice, €.14,00).
Resta il fatto che opere capitali come questo Meridiano, nell’atto stesso in cui portano un contributo imprescindibile agli studi e penetrano anche con nuovi elementi dentro le più sfuggenti pieghe dei testi danteschi, vengono a farceli sentire un po’ più lontani, in una sorta di gelida impenetrabilità. Ma questa è forse la condizione attuale della filologia e della storiografia letteraria.
Politica e convivenza sociale in Dante
L’equilibrio di due felicità
di Lorenzo Ornaghi *
Nella lettera apostolica Altissimi Cantus del 7 dicembre 1965, con la quale - in occasione del settimo centenario dalla nascita del poeta fiorentino - si istituiva la Cattedra di Studi danteschi presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Paolo VI volle soffermarsi sulla "dottrina politica" di Dante Alighieri. Papa Montini sottolineò con forza il significato e l’importanza che Dante aveva attribuito al perseguimento, da parte del genere umano, della felicità terrena, accanto - e in subordine - a quella celeste: Chiesa e Impero, entrambe "al servizio della res publica christiana", erano chiamate, pur nella loro indipendenza, ad "aiutarsi reciprocamente" per permettere la vita buona dell’intera civiltà umana. L’idea dantesca - egli proseguiva - di "una potestà sovranazionale, che faccia vigere un’unica legge a tutela della pace e della concordia dei popoli", seppur concepita in termini medievali, manifestava non solo attualità, ma anche freschezza politica.
Pur implicitamente, Paolo VI si scostava dall’interpretazione del pensiero politico di Dante allora (e ancora oggi) assai diffusa. Secondo una tale interpretazione, Dante è sì un profeta, ma - per usare la celebre espressione di Friedrich Schlegel - un profeta rivolto all’indietro. E il suo sogno politico di un’autorità universale nient’altro riecheggerebbe se non l’ultima, nostalgica esaltazione dell’ideale del Sacro Romano Impero, che aveva orientato la civiltà medievale e che ora tramontava per lasciare definitivamente spazio al sistema delle comunità politiche particolari, alle idee di sovranità e di ragion di Stato, alla modernità e - con essa - ai molteplici processi di secolarizzazione.
La genesi del pensiero politico di Dante è strettamente legata all’esperienza del poeta non solo come cittadino della Firenze di quel tempo, ma anche e soprattutto alla sua (pur breve e travagliata) esperienza politica. Nella Firenze tra il XIII e il XVI secolo, la spietata "guerra civile" tra guelfi bianchi e neri, che dilania la città, non è lotta tra valori o principi, non ha finalità ideali. Come osserva Robert Davidsohn nella sua monumentale Storia di Firenze, in quel periodo ferveva "una lotta sorda per l’accaparramento del potere e le fazioni in tumulto stavano sovvertendo tutto l’ordine civile. Per ogni più futile pretesto si dava sfogo alle più selvagge passioni ed un’abominevole corruzione inquinava la cosa pubblica".
Il quadro non cambia, se si volge lo sguardo ai rapporti (o, per meglio dire, alle lotte) tra i comuni italiani. Ciò che Dante descrive nel Convivio è, dunque, una sorta precisa istantanea della situazione politica del suo tempo.
Oltre che dall’amore di Dante per l’indipendenza della patria fiorentina, la realizzazione - che egli invoca a gran voce - dell’humana civilitas e di un potere universale al di sopra di quelli particolari nascerebbe così, secondo Etienne Gilson, per soddisfare un’esigenza strettamente legata alla realtà politica del suo tempo: quella cioè di garantire alla sua città, e più in generale agli stati italiani, un protettore sufficientemente potente contro "l’opera usurpatrice della Chiesa". In realtà, la profondità, la passione e l’incisività degli argomenti, coi quali Dante negli anni dell’esilio condanna la volontà di dominio del Papa e difende l’autonomia del potere temporale da quello ecclesiastico, superano il nobile ma troppo angusto ambito dell’amor di patria.
Entra così in campo il "presunto" anticlericalismo di Dante. Nella Lettera ai Cardinali italiani - i quali durante l’aprile del 1314 erano riuniti in conclave in una piccola città della Provenza, all’indomani della morte di Clemente v - Dante infatti sostiene che, per la loro sete di potere, alcuni Pontefici sono stati causa dell’eclissi del papato e la cura degli interessi mondani che ha invaso la gerarchia ha condotto la Chiesa quasi alla rovina. Questo preteso anticlericalismo è divenuto il cuore delle interpretazioni che vedono in Dante un fermo sostenitore della separazione più netta tra potere temporale e spirituale. Anzi - quasi egli fosse profeta dell’autonomia della ragione umana e del fine naturale dell’uomo rispetto alla fede e a ogni fine soprannaturale - un precursore di quel separatismo radicale che, poco dopo, troverà in Marsilio da Padova uno dei primi e massimi esponenti. Secondo queste interpretazioni ancora oggi radicate, per Dante combattere le pretese teocratiche del Papa significherebbe salvare l’autonomia dell’imperatore, affinché la "imperiale maiestade" possa compiere quella missione del tutto immanente che Dante gli assegna: assicurare la pace e la felicità terrene alle quali tutti gli uomini per natura tendono. A questo fine terreno si aggiungerebbe anche quello ultramondano, che Dante certo non nega. Il primo, però, sarebbe del tutto autosufficiente rispetto al secondo. In tal modo, con la sua difesa dell’indipendenza dell’imperatore dal Papa, Dante si rivelerebbe l’anticipatore di un’idea del tutto nuova - "moderna", appunto - del rapporto tra potere temporale e potere spirituale: un rapporto di irreversibile separazione tra due realtà ormai dotate di piena autosufficienza.
Sulla dottrina politica di Dante avrebbero dunque "sbagliato" Paolo VI e, prima di lui, Benedetto XV, il quale - nella lettera enciclica In praeclara Summorum del 30 aprile 1921, scritta in occasione del sesto centenario della morte del poeta - affermava che Dante "professò in modo esemplare la religione cattolica", e sapeva perfettamente che "il principale fondamento delle nazioni" sono "la giustizia e i diritti di Dio".
Ma il quadro cambia se, al centro del pensiero politico di Dante, correttamente si mette non la critica al temporalismo del Papa, bensì il concetto di cupidigia e le conseguenze spirituali e materiali del suo trionfo. Per Dante, l’ordine e la pace terrene sono turbate dallo scatenamento di quella cupiditas che, in termini teologici, è la riduzione sul piano orizzontale dell’amor Dei per cui l’uomo non può in ultimo essere saziato da alcun bene finito. In termini temporali, la cupiditas è il contrario della giustizia: ossia è egoismo, volontà di sopraffazione e sete di potere. Come afferma Paolo VI, ancora nella Altissimi Cantus, secondo Dante l’agostiniana "tranquillità dell’ordine" - la pace che riguarda "i singoli, le famiglie, le nazioni, il consorzio umano, pace interna ed esterna, pace individuale e pubblica" - "è turbata e scossa, perché sono conculcate la pietà e la giustizia".
Del trionfo della cupidigia, il temporalismo di Bonifacio viii è certo una manifestazione, ma non l’unica. La sua copia rovesciata, è infatti - come ha osservato molto acutamente Augusto Del Noce - il tentativo del re di Francia di avere potestà diretta sul piano spirituale. Da questa prospettiva, Dante afferma la distinzione degli ordini perché vuole combattere la cupiditas, perché avverte profonda l’esigenza di permeare compiutamente di religione la vita pubblica. E questa esigenza è condizione essenziale per il raggiungimento della beatitudine celeste e della felicità terrena.
Vi è dunque una sorta di unità-distinzione che caratterizza, in Dante, il rapporto tra potere spirituale e quello temporale, dal momento che entrambi sono chiamati, pur nella necessaria distinzione, a cooperare armoniosamente per il bene integrale degli uomini: ossia per la felicità terrena e, "insieme", per la salvezza delle anime, per la vita buona su questa terra, e "insieme" per la beatitudine celeste. Così, il fine naturale del genere umano - da perseguire con la ragione, e per raggiungere il quale è necessaria l’opera di un’autorità politica universale - non è in contrasto, bensì in armonia con il raggiungimento del fine soprannaturale e celeste, dettato dalla fede. Come scrive Dante stesso nell’ultima pagina del suo De Monarchia, proponendo un’affermazione sintetica della laicità dal punto di vista cattolico: "La felicità terrena è in un certo modo subordinata alla felicità eterna".
Suona dunque corretta e appropriata l’affermazione di Benedetto XV, quando egli sottolineava la consapevolezza di Dante che la giustizia e i diritti di Dio sono il più solido fondamento della famiglia umana e del sistema internazionale. Ce ne viene oggi un’ulteriore prova dalla recentissima enciclica Caritas in Veritate, in cui Benedetto XVI giustamente ci ricorda: "Talvolta l’uomo moderno è erroneamente convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società. È questa una presunzione, conseguente alla chiusura egoistica in se stessi, che discende - per dirla in termini di fede - dal "peccato delle origini". La sapienza della Chiesa ha sempre proposto di tenere presente il peccato originale anche nell’interpretazione dei fatti sociali e nella costruzione della società: "Ignorare che l’uomo ha una natura ferita, incline al male, è causa di gravi errori nel campo dell’educazione, della politica, dell’azione sociale e dei costumi"".
Appare pertanto sempre meno ragionevole concepire il pensiero politico di Dante semplicemente come quello - per dirla con Karl Vossler - dell’ultimo "cavaliere dell’ideale teocratico", o, al contrario, come quello di uno dei primi scultori del laicismo moderno. In Dante, semmai, ritroviamo gli elementi di una genuina e sana concezione di laicità. Una concezione che, sapendo armonizzare fede e ragione, è in grado di affermare e realizzare la necessità della dimensione pubblica della fede per il bene di tutti, credenti e non credenti.
* ©L’Osservatore Romano - 24-25 agosto 2009
Sul tema della Monarchia o del retto amore ("karitas", come scriveva Dante - che non conosceva il greco), e sulle cieche pretese ratzingeriane, nel sito, si cfr.:
Hegel
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO
Il suo pensiero e’ una spietata macchina da guerra. Due secoli fa, nel marzo del 1807, usciva l’ardua opera del grande filosofo: sgomento’ non pochi lettori. L’editore Goebhardt, spaventato dalla mole e dall’oscurita’ del testo, decise di stamparne solo 750 copie. La leggenda vuole che finisse di scrivere questo saggio il giorno stesso in cui Napoleone entro’ a Jena vincitore
di ANTONIO GNOLI (la Repubblica, 24 marzo 2007) *
Nel marzo del 1807, a trentasette anni, G. W. F. Hegel pubblico la Fenomenologia dello Spirito. L’opera - ardua, oscura, indecifrabile - lascio’ sgomenti i pochi lettori contemporanei messi di fronte a un linguaggio di astrusa profondita’. Quasi un ventennio prima, anche Kant aveva seminato un eguale disorientamento. Tant’e’ che Fichte si spinse a dire che la fortuna del padre della Critica in larga parte si doveva alla sua oscurita’. Ma non era un po’ tutta la filosofia tedesca minacciata dall’incomprensione? Da tempo il suo linguaggio si era spinto nelle dure terre dell’astrazione. Lo stesso Marx, che nasceva da una costola di Hegel, e che pure si era dato uno statuto di scienziato sociale, amava sorprendere con l’estro della enigmaticita’. Anzi, dell’enigma egli fece una prerogativa della merce e della filosofia il suo specchio.
Il suo "maestro" dunque non era l’eccezione. Come non lo sara’ un secolo e mezzo dopo Heidegger. La lingua hegeliana si pose al servizio di un compito immane: ricostruire il tempio della filosofia, utilizzando le stesse architetture che aveva in precedenza demolito. Non c’e’ grande filosofo che non abbia provato a radere al suolo le maestose citta’ del pensiero da altri edificate. Al punto che si puo’ immaginare la filosofia come una macchina da guerra che va alla conquista di territori, scacciandone gli abitanti o sottomettendoli.
Hegel ha solo reso esplicito il carattere bellico del piu’ serafico tra i saperi. Ma per la prima volta il "parricidio" non era commesso contro un nome, un’identita’, una figura, una persona, una scuola, bensi’ nei riguardi di tutto cio’ che il pensiero aveva pensato fino a quel momento. Hegel non e’ solo un filosofo. e’ anche un predatore dello spirito. C’e’ qualcosa di pantagruelico e spietato, di onnivoro e cinico nel suo atteggiamento.
Deplora la stasi, diffida delle leggi (soprattutto quelle scientifiche), teme la forza dell’esperienza. Ma al tempo stesso sa che tutto cio’ che lo deprime o l’ostacola intellettualmente appartiene ancor prima che al cielo delle idee al teatro del mondo. Cio’ che vi accade - con gli uomini che vi si agitano, le storie che vi si narrano, i pensieri che lo ravvivano - e’ solo oggetto di spiegazioni parziali. Buone per giustificare un punto di vista, ma incapaci di restituire la verita’ nel suo splendore. Neanche Dio - per questo pastore luterano mancato - puo’ aspirare a illuminarci. Le nostre vite, i nostri pensieri, le costruzioni a volte fantasiose, altre ancora mirabilmente serrate, sono agli occhi del filosofo destinate a perire. Come puo’ immaginare una civilta’ a prova di decadenza? Fino a dove puo’ spingersi il pensiero senza cadere nel delirio dell’onnipotenza?
Dio deve calarsi nella storia e al tempo stesso la storia farsi in Dio. Sembra un gioco di prestigio, una sottigliezza. In realta’ e’ l’ossessione che Hegel si porta dentro. Ha una conoscenza mostruosa della storia della filosofia. Il suo sguardo abbraccia l’Oriente e l’Occidente. Da giovane si e’ invaghito di Eleusi, ha flirtato con i mistici (Eckart in particolare), ha scoperto la forza di Platone e Agostino. Conosce le virtu’ di Spinoza, ammira Rousseau, ma al tempo stesso ne diffida. Pensa allo spirito e alla politica. Non solo la potenza del pensiero speculativo, ma il disegno divino e i promettenti fasti della citta’ celeste, pavimentano la sua ricerca. Dove e come realizzare un cosi’ poderoso programma? A quale verita’ intende aspirare? In quale abisso terrestre cerca l’eterno? L’ossessione si trasforma in una lenta e magistrale bulimia.
I pochi amici lo descrivono probo, ragionevole, dotato di quella sicurezza che le menti eccelse a volte sviluppano. Sotto quella calma in realta’ batte il cuore di un Calibano. A volte - preso dal furore speculativo - mostrava la voracita’ del cannibale. In quelle circostanze era in grado di inghiottire ogni cosa. Non c’era boccone filosofico che egli non afferrasse per poi portarlo all’altezza del naso. Lo scrutava, lo annusava e in pochi istanti decideva se inghiottirlo o gettarlo come un rifiuto nella spazzatura. Si sentiva il sovrano di una tribu’ immaginaria, quella dello spirito, cosi’ come riconosceva a Napoleone la stessa potenza sul territorio della materia. La leggenda vuole che egli finisse di scrivere la Fenomenologia dello Spirito, il giorno stesso in cui Napoleone entro’ a Jena da vincitore. E annoto’ l’evento in una lettera: "Ho visto l’imperatore, quest’anima del mondo, cavalcare attraverso la citta’ per andare in ricognizione: e’ davvero un sentimento meraviglioso la vista di un tale individuo che, concentrato qui in un punto, seduto su un cavallo, abbraccia il mondo e lo domina".
C’era qualcosa di cinematografico in quella descrizione. A volte Hegel indugiava sulle immagini. Improvvisamente la tetra foresta verbale della sua prosa si incendiava di colori bellissimi. E in fondo, si puo’ anche pensare alla Fenomenologia dello Spirito come a un grande affresco hollywoodiano, una specie di movimentato dramma a lieto fine con protagonisti di alta classe e comprimari affidabili. Dopotutto, quello che i manuali avrebbero chiamato idealismo tedesco, si poteva anche interpretare come il sogno filosofico di una terra, la Germania, che aveva smesso di sognare. Ma in che modo la filosofia avrebbe potuto dire qualcosa di speciale e di definitivo rispetto alla scienza, all’arte, alla religione, alla politica? Quale "Assoluto" sarebbe stato all’altezza di questo compito? Quale "Totalita’" capace di soddisfarne la smisurata ambizione?
Hegel non aveva il deserto alle spalle. Non c’erano dietro di lui nani della filosofia, ma titani che svegliavano il sonno del mondo costruendo grandi macchine del pensiero. Architetture rarefatte, ma pur sempre cattedrali della speculazione che non si potevano ignorare: Kant, Herder, Fichte, Jacobi, Schelling erano sorti come fiori astrusi da quel mondo asfittico e miserabile che era la Germania del Settecento. Un territorio che Marx condannera’ all’inanita’ politica e che il giovane Hegel vedra’ come una promettente occasione di rivalsa. Bastava sconfiggere quei giganti, divorarli con lenta determinazione e accrescere cosi’ la propria forza, per essere non piu’ uno tra loro, ma l’unico. Il solo in grado di scrivere la parola fine. Perche’ era dalla fine che bisognava partire per tornare all’inizio e da qui ripercorrere tutto intero il cammino. Si trattava di uno sforzo intellettuale mostruoso la cui posta in palio era l’Assoluto.
Non il vuoto astratto dei metafisici che lo avevano preceduto, ma quello denso di vita, palpitante di storie, ricco di eventi: un Dio appunto che si faceva storia e la storia che diventava Dio. Un Dio che era in grado di pensare se stesso fuori da se’ e che alla fine, dopo la tormentata fuoriuscita, tornasse in se’, arricchito dall’esperienza del mondo. Ecco l’esercizio acrobatico con il quale Hegel si apprestava ad addomesticare i giganti del passato, introducendoli alla sua corte.
Anni di studi e di soggiorni, a Tubinga, Berna, Francoforte, ne avevano affinato lo spirito dialettico. Poi c’erano stati gli anni decisivi di Jena: il rumore dei cannoni, i bivacchi delle truppe francesi che occupavano la citta’, i fuochi intravisti dalla finestra dello studio, ne eccitavano la fantasia. Un’alba nuova si annunciava. Un’alba che la Fenomenologia, simile a un grande romanzo filosofico dall’andamento faustiano, avrebbe raccontato come la fine del vecchio mondo. Hegel voleva afferrare lo scorrere della vita, catturarne il movimento senza avvilirlo negli attriti dell’esistenza.
Voleva che la vita si fregiasse di quel potere che essa stessa negava: il potere dell’esistenza umana sull’inquietudine, sull’angoscia, sulla finitezza, sulla morte. Puo’ suonare stravagante che un metafisico - quale in fondo egli e’ rimasto - volga lo sguardo al mondo delle cose e degli uomini e alla storia che tutto avvolge. Nulla e’ piu’ infido e piu’ instabile di quel suolo coperto di polvere e sangue, sovrastato dal rumore della battaglia, dagli echi dei passi dei soldati. Non e’ solo Jena. E’ il mondo che si riflette in quello spicchio di vita prussiana.
Differentemente da uno scrittore, un filosofo in genere non testimonia di se’ e della propria vita, espone teorie. E ogni volta che lo fa spera di dimostrare se non in modo definitivo almeno profondo il suo grado di comprensione del mondo. Quella mitica entita’ che e’ l’Essere viene ostentata come lo scopo del suo lavoro, la ragione ultima del suo pensare.
Non e’ necessario osservare che una tale metafisica risultava insoddisfacente per l’incapacita’ a sanare la distanza tra l’Uno e il Molteplice, tra l’Al di la’ e l’Al di qua, tra Dio e Mondo. La Fenomenologia avrebbe dovuto riempire quel vuoto, unire, in qualche modo, cio’ che non era unificabile. Ma come tenere saldamente insieme la realta’ sfuggente, ambigua, contraddittoria del mondo con la perfezione celeste? Come non sporcare l’Assoluto con le bassezze del mondo e al contempo in che modo innalzare quest’ultimo al cielo dell’idea? Lo strumento della dialettica - l’arma letale di cui Hegel si era fornito - avrebbe egregiamente svolto il compito.
Che ne e’ oggi della Fenomenologia dello Spirito? Il lato aneddotico della domanda ci rimanda all’origine della vicenda. L’editore Goebhardt - spaventato dalla mole e dall’oscurita’ - ne stampo’ 750 copie.
Poche settimane prima che l’opera fosse pubblicata Hegel divenne padre. Il 5 febbraio 1807 nasceva Louis, il figlio illegittimo avuto dalla sua portiera.
Questo dramma, per lungo tempo tenuto nascosto ai biografi, tormentera’ il filosofo (al punto che se ne troverebbero tracce nella stessa Fenomenologia). Louis portera’ il cognome della madre. E sebbene si sentisse particolarmente legato al bambino, Hegel ne rifiutera’ la paternita’.
Provera’ a inserirlo nella famiglia che nel frattempo aveva creato con una moglie che gli dara’ due figli. Ma Louis Fischer - che commosse Goethe per la sensibilita’ e l’intelligenza - non riusci’ mai a integrarsi. Ormai ventenne si arruolo’ nell’esercito olandese e mori’ di febbre a Giava il 28 agosto 1831. Due mesi dopo Hegel sarebbe morto per l’epidemia di colera che si era diffusa a Berlino. Prima di morire aveva rimesso le mani sul suo capolavoro. Ma fece in tempo a rivedere solo una trentina di pagine. Mori’ che era un filosofo celebre ed ostico. La Fenomenologia dello Spirito fu un testo poco amato nell’Ottocento. La sua fortuna fiori’ improvvisa nel Novecento, tra le due guerre. In Francia Jean Wahl, Alexandre Koyre’, Jean Hyppolite e soprattutto Alexandre Kojeve contribuirono al suo sdoganamento.
Gyorgy Lukacs e Ernst Bloch ne rilevarono l’importanza. Anche Heidegger forni’ la sua interpretazione. Come mai tanta attenzione? Pensando il mondo, Hegel lo immagina come un teatro: un insieme di scene sfilano sotto il suo sguardo. Da questo punto di vista, lo svolgersi della Fenomenologia avviene attraverso un movimento che dalla coscienza immediata approda al Sapere Assoluto. Il cammino - che ha la forma di un vero e proprio viaggio - e’ cosparso delle esperienze che lo spirito dovra’ fare.
L’intelletto, la coscienza infelice, la lotta tra il servo e il signore e il desiderio del riconoscimento, il farsi della legge, il piacere e la necessita’, il passaggio dal mondo feudale alla monarchia, le anime belle e l’eroismo, l’illuminismo e la superstizione, la liberta’ e il terrore, il misticismo e la religione rivelata, sono alcuni dei tableaux che troviamo nell’opera. Hegel li disegna riducendoli al suo linguaggio. L’oscurita’ che li avvolge e’ la garanzia che qualcosa di ignoto sta venendo alla luce.
Non si puo’ evitare di concludere che cio’ che viene incontro al lettore e’ un abilissimo gioco acrobatico dove arbitrio e necessita’ familiarizzano con le parole, creando un singolare equilibrio tra evento e discorso. Cio’ che accade puo’ essere raccontato. Ma solo perche’ lo si racconta accade realmente. E’ un movimento che due secoli dopo il sistema dei media (non quello dello spirito) avrebbe reso evidente in tutta la sua ovvieta’. Del resto, dopo Jena, Hegel si reco’ a Bamberga dove svolse per un anno e mezzo il lavoro di giornalista. Conobbe l’ansia della notizia, la crudelta’ della censura e la lingua che si corrompeva.
Terminata quell’esperienza torno’ ad essere "Hegel l’oscuro" che riteneva che la parola non fosse semplicemente chiusa nel linguaggio, ma parlasse tra le cose e infine tornasse a se’ arricchita da quell’esperienza. La Fenomenologia si conclude con il trionfo del Sapere Assoluto. Si potrebbe ironizzare sulla consistenza di questa sovranita’ misteriosa che e’ la totalita’ hegeliana. O provare a leggerla nei tanti modi in cui e’ stata letta: fine della storia, nascita di un nuovo sapere, trionfo della civilta’ cristiano-borghese, metafora del totalitarismo o affermazione del piu’ puro ateismo. Ma dopotutto quell’opera ci dice anche qualcosa di essenziale sulla modernita’. Ci dice che un filosofo deve bagnare il proprio pensiero nella tempesta. Ci dice che sono esistiti tantissimi pensatori con l’ombrello aperto, al riparo dalla pioggia, ad aspettare che il cielo rischiarasse.
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NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 777 del primo aprile 2009.
La commedia del popolo
di Albero Asor Rosa (la Repubblica, 29.12.2008)
In genere si pensa che la storia della letteratura sia un seguito di grandi uomini e di grandi opere, che ci si deve accontentare di ammirare dal di sotto e da lontano, quasi pargoli indigenti di ogni sapienza. Di certo è anche questo (e anche l’ammirazione da lontano va praticata): ma è anche una moltitudine di minuscoli dati intellettuali e materiali, la cui paziente osservazione porta sovente a scoperte magari semplicissime nella sostanza ma estremamente rivelatrici negli effetti.
Questa considerazione mi viene in mente dalla rilettura di una famosa «epistola» di Francesco Petrarca niente di meno che a Giovanni Boccaccio in merito alla produzione letteraria volgare di Dante Alighieri (bella e straordinaria questa adunanza di «spiriti magni», riuniti intorno ad un tavolo ideale, come soggetti e oggetti della conversazione, per discutere della natura e dei compiti della poesia, anzi, della Poesia).
In questo testo è in gioco l’apprezzamento, - positivo o negativo, o meno positivo, o un tantino negativo, - di un’opera come la Commedia, pietra fondativa, architrave, dell’intero «sistema letterario» italiano. E per quanto l’occasione possa apparire limitativa, - in fondo una lettera originariamente privata, sia pure tra due grandi personalità, una «famigliare» fra le tante (XXI, 15), - lì è contenuta l’essenza di una scelta di fondo, che percorre da un capo all’altro l’intera nostra storia letteraria (forse addirittura fino ai giorni nostri, di sicuro fino all’altro ieri), la contrapposizione, cioè, per dirla in termini molto attuali, quasi da tifo calcistico, tra i filo-danteschi e i filo-petrarchisti, tra i seguaci di una nozione della poesia ispirata all’opera e ai precetti teorici di Dante e i seguaci di una nozione della poesia ispirata all’opera e ai precetti teorici di Petrarca.
Naturalmente, date le premesse, si potrebbe ragionare all’infinito sulle motivazioni, molteplici e ricche, di ognuna delle due linee. Per l’occasione fermerò l’attenzione su di un solo punto, che però, a guardar bene, potrebbe costituire il presupposto di tutti gli altri.
Boccaccio, com’è noto, è un filiale sostenitore (ovviamente a modo suo) della linea dantesca. Però, ammiratore al tempo stesso di quel suo fratello maggiore che era Petrarca, si sforzava in tutti i modi di persuaderlo delle buone ragioni della sua ammirazione per Dante (della cui Commedia aveva inviato anni prima una preziosa copia a Petrarca stesso).
Petrarca, contegnoso e, secondo me, anche un poco ipocrita, gli risponde (siamo in anni tardi, intorno al 1360) che lui apprezza e ama Dante ma non può fare a meno di constatare come il suo innegabile ingegno si sia come sporcato e rovinato a causa... A causa di cosa? A causa del fatto che Dante, nelle modalità della sua poesia, nella scelta delle sue tematiche e (soprattutto) nell’uso di una determinata lingua, ha pensato fosse giusto stabilire un rapporto, - un rapporto stretto e per lui molto fecondo, - fra il proprio ruolo di poeta e un pubblico vasto, nel quale avrebbe inevitabilmente assunto un ruolo, superiore a qualsiasi classica misura, l’elemento popolare.
Le parole di Petrarca sono di un’inequivocabile durezza. Egli respinge con sdegno l’insinuazione che potesse «invidiare» Dante per la fama da questi rapidamente acquisita. Come avrebbe potuto invidiarlo, - scrive il poeta classicheggiante e precocemente umanista, - se ad ammirare Dante, con «applauso e strepito sgraziato», si erano distinti in prima fila personaggi come «i tintori», «gli osti», «i lanaioli», ossia i rappresentanti tipici del popolino fiorentino, che fin dalla prima circolazione della Commedia ne avevano imparato i versi a memoria e li salmodiavano o cantavano (testimonianze coeve ce lo confermano) persino in bottega, nell’esercizio delle loro attività artigianali?
Non aver scansato in tutti i modi, - come Petrarca dichiara di aver voluto fare accuratamente per sé e per la propria opera, - questa vera e propria contaminazione fra la propria poesia e quel pubblico indegno aveva provocato come altra intollerabile conseguenza negativa che il suo stile, - lo stile di Dante, volentieri piegato dal suo autore a tale contaminazione, - risultasse «insozzato e coperto di sputo dalle balbettanti lingue di costoro».
Comincia da qui, con la sorprendente chiarezza di cui solo un intelletto come quello di Francesco Petrarca poteva esser capace, il lungo percorso del padre Dante nella storia della letteratura italiana successiva. Mi rendo conto, naturalmente, di schematizzare oltre misura. E però non sarebbe difficile dimostrare che la fortuna di Dante, e in modo particolare della sua poesia (che per scelta sua fu, non dimentichiamolo, quasi tutta volgare), s’alza o s’abbassa, in taluni momenti fin quasi a scomparire, a seconda che i letterati italiani di questo o quel periodo si siano posti oppure no il problema di venire incontro alle aspettative, non solo dei membri della loro medesima corporazione, ma a quelle dei «tintori», degli «osti» e dei «lanaioli» dei loro tempi (con il che, com’è ovvio, intendo riferirmi a quelle situazioni sociali, professionali e intellettuali, che di volta in volta sfuggissero ai modelli precedenti del «sistema»).
A questo possibile diagramma storico della nostra letteratura, che vede la presenza maggiore o minore di Dante come il visibile segnale d’una condizione più aperta e rinnovatrice della ricerca, andrebbe accompagnata la parallela ricostruzione della fortuna di Dante direttamente presso le classi popolari italiane, fino ad un periodo a noi assai vicino.
«Dire» Dante ha sempre significato a quel livello un’affermazione d’identità, che in quelle parole, in quei versi e in quella lingua «si riconosceva» (né può risultare una diminuzione per la Commedia dantesca il fatto che le si affiancassero nella memoria popolare opere come il Guerrin Meschino o la Gerusalemme liberata).
È quello che, con la geniale inventività che lo contraddistingue, ha fatto e continua a fare Roberto Benigni, parente stretto di quei popolani toscani che al Petrarca davano tanto fastidio. Mi preme rilevare che tutto ciò è tutt’altro che casuale.
L’origine ne va cercata infatti nelle scelte stesse di Dante, anche quelle di maggior rilievo e sofisticazione intellettuale. E si può esser sicuri che Dante, se avesse potuto, non si sarebbe lamentato, come Petrarca, d’esser detto o cantato dalle «lingue balbettanti» degli incolti.
Su "Lettera internazionale" un saggio di Starobinski
Dall’epica di Virgilio al dio di Dante
La memoria e il futuro
Il potere e la forza della poesia e delle immagini Nell’Eneide e nella Commedia due diversi modi di raccontare il passaggio da una catastrofe a una redenzione
Nel poema latino il ricordo di Enea inizia con la distruzione di Troia
Il percorso delle tre cantiche dantesche somiglia a quello virgiliano
di Jean Starobinski (la Repubblica, o8.10.2o08)
La memoria che Virgilio attribuisce al suo eroe assume la distruzione come suo inizio. È una storia di fragore e di furore. E il celebre racconto si annuncia come il ritorno di un dolore che le parole non possono tradurre.
Infandum regina jubes renovare dolorem. «Mi chiedi, o regina, di rinnovare un dolore indicibile» (Eneide, II, v. 1). La rammemorazione stessa è oggetto di orrore (animus meminisse horret, II, v. 12). La parola si dichiara in difetto, inadatta a rievocare le sventure subìte. Questa precauzione oratoria invita i destinatari fittizi, la regina e il suo seguito, e i lettori reali, che siamo noi, ad ascoltare tutto ciò che sarà narrato loro superandolo con l’immaginazione. La realtà fu peggiore del quadro che può esserne dipinto. Non resta nulla della città così a lungo difesa, e anche alla parola manca il terreno su cui poggiare. Perché, allora, non accordare fiducia a un racconto che confessa subito l’insufficienza delle sue risorse?
Nella notte del disastro, si dispone ancora di un aiuto. Apparizioni, voci divine guidano l’avanzare delle navi, promettendo una terra di Ponente per la città nuova che i discendenti dei vinti fonderanno. La notte fatale sarà così il punto zero, senza ritorno né ritirata possibili, da cui prenderà le mosse tutta l’azione successiva. L’incendio, i suoi bagliori, le sue ceneri sono preliminari che imprimono un carattere di necessità alla navigazione avventurosa e ai discorsi narrativi che seguiranno.
Nel terribile notturno virgiliano, ogni forma, fattasi precaria, è travolta dal crollo generale. Voci, clamori, fracasso assumono un’importanza eccezionale nello spazio sensoriale. Il racconto di Enea sviluppa così un registro uditivo di notevole ampiezza. Dall’elevato linguaggio divino al fragore inarticolato della catastrofe, l’orecchio del lettore di Virgilio è tenuto in uno stato di costante allerta. Per convincersene basterà scorrere rapidamente il testo.
Enea è inizialmente un testimone tra gli altri. Racconta quello che, come i suoi compagni, ha visto e sentito: le menzogne del falso transfuga Sinone, la morte di Laocoonte e dei suoi figli, strangolati da due serpenti usciti con gran frastuono dai flutti: il sacerdote muore lanciando orribili clamori verso le stelle (clamores horrendos). Queste grida mostruose segnano l’inizio della rovina.
Nella notte che avanza, le parole e i rumori assumeranno un’importanza sempre maggiore. Appena scivolato nel primo sonno, Enea è messo in guardia dall’ombra di Ettore che gli ingiunge di fuggire: il suo compito è ormai quello di raccogliere intorno a sé i suoi compagni e di cercare con essi, altrove, quelle «grandi mura, che infine fonderai, percorso il mare». A quattro versi di distanza, la stessa parola moenia (le mura) designa i bastioni di Troia che stanno per crollare e quelli della città che bisognerà costruire. Ma la devastazione è già cominciata e il sogno si interrompe perché i suoni diventano sempre più violenti: Frattanto da tutte le parti un terribile pianto / Sconvolge le mura, e sempre di più, sebbene remota dalle altre / e protetta da alberi la casa del padre Anchise si apparti, / i suoni si fanno chiari e incombe il fragore delle armi. / Mi riscuoto dal sonno e salendo giungo sul colmo / del tetto e mi fermo con gli orecchi tesi: come / quando all’infuriare degli austri cade una fiamma / tra le messi, o un rapace torrente con fiotto montano / spiana i campi e i floridi seminati e le opere dei buoi, / e trascina a precipizio le selve: il pastore stupisce / ignaro ascoltando il rombo da un’alta rupe (II, v. 298 e segg.).
Il disastro è attraversato dalle grida di lutto (luctus), dai gemiti (gemitus), dal fragore della bufera (sonitus), dallo strepito degli esseri umani (clamor), dagli squilli delle trombe (clangor). Nelle parole di Enea (II, vv. 361-362), Virgilio dichiara l’impotenza della parola e delle lacrime a dire la distruzione e la vana lotta contro la morte (clades, funera, labores). «L’interno del palazzo risuona di gemiti / e d’un misero tumulto; le ampie stanze remote / ululano di pianti femminili; il clamore ferisce le auree stelle» (II, vv.486-488). Il rumore fa pensare al fracasso dell’albero che si abbatte sotto l’infuriare della tempesta. Nella notte che si fa sempre più buia, Enea incontra sua madre Venere, apparizione luminosa che gli mostra brevemente ciò che i mortali non vedono: gli dèi accaniti contro Troia che collaborano attivamente alla sua distruzione. E l’ordine di fuggire viene ripetuto. Il baccano, il crepitio del fuoco, il terrore si moltiplicano. Infine, nell’incendio e nel silenzio terrificante che si stabilisce quando cessa ogni resistenza (simul ipsa silentia terrent, II, v. 755), Enea vede apparire l’ombra di Creusa, sua moglie, che gli rivolge le ultime parole premonitrici e gli annuncia che la sua destinazione è l’Esperia, la terra del tramonto, là dove scorre il Tevere. Nel corso del racconto, il registro dei suoni avrà dunque mostrato tutta la sua complessità e la sua varietà, tra il silenzio della notte e il clamore assordante della distruzione e del massacro - tra le grida inumane e il linguaggio elevato della profezia che spinge all’azione.
L’epopea di Virgilio ha offerto alla letteratura europea un grande modello, in cui coesistono un passato rammemorato e un futuro in cui avrà luogo l’azione. Questa doppia prospettiva diventa più evidente quando Enea, disceso agli Inferi, nel VI libro, incontra alcune figure del passato - il padre Anchise, Didone morta suicida - e le anime che si apprestano a fare il loro ingresso nella vita, futuri viventi, eroi che si sacrificheranno per la patria. Sente pianti e musiche, i vagiti dei bambini morti e i canti religiosi dei beati. Voci premonitrici mostrano l’impero che verrà. Con la discesa agli Inferi, l’eroe virgiliano si inoltra nell’intrico dei tempi. Durante le tappe successive del suo viaggio sotterraneo impara a quali castighi sono condannati coloro che sono stati giudicati e scorge il nugolo delle anime il cui destino è annunciato senza essersi ancora compiuto. Gli antenati troiani e i discendenti romani abitano negli stessi boschi. Virgilio si afferma così come il poeta che sa in che modo passato e futuro si compenetrano.
E quando appare Virgilio, nel I canto della Commedia, Dante lo designa facendogli dichiarare: «Poeta fui, e cantai di quel giusto / figliuol d’Anchise che venne da Troia / poi che il superbo Ilion fu combusto». Si trova così giustificato il suo compito di guida iniziale nel grande viaggio cosmoteologico, in un ruolo che ricorda quello che l’Eneide attribuisce alla Sibilla nel VI libro. Con il suo percorso, che somiglia volutamente a quello della discesa agli inferi dell’epopea latina, la Divina Commedia si muove tra passato e futuro, a partire dal «mezzo del cammin».
Lo scopo non è quello di fondare un impero, ma di accogliere la rivelazione della giustizia di Dio e di accedere alla conoscenza amorosa, alla visione beatifica. Virgilio, il poeta pagano, accompagna Dante solo fino alla soglia del Paradiso terrestre (Purgatorio, XXX), quando con Beatrice si manifesta la chiarezza divina. Durante tutto il tragitto e fino al suo termine contemplativo, il registro dei suoni svolge un ruolo fondamentale, in cui Dante mostra di essere un discepolo perfetto.
L’ambito sonoro si estende dalle urla dei dannati ai canti degli angeli, dalle dissonanze infernali alle armonie celesti. Il viaggio di Dante avrà come punto di arrivo non le mura di una capitale temporale, ma la contemplazione della «luce sovrana». Sono due citazioni latine nel XXX canto del Purgatorio a suggellare il nesso: per i lettori che hanno memoria dei contesti, uno stretto legame si stabilisce tra i versi dell’Eneide, dove Anchise, che ha assistito all’incendio di Troia, annuncia l’avvenire di Roma fino ai funerali di Marcello, e le parole del Vangelo di Matteo che fanno parte del rituale della messa. I «messagger di vita eterna» salutano l’arrivo di Beatrice cantando successivamente «Benedictus qui venit» (Mt., XXI, 9) e «Manibus, oh, date lilia plenis» (Eneide, VI, 883).
Il potere della poesia fa sì che una memoria storica fittizia si aggiunga alle immagini inventate e sostenute da una fede reale. Ma al contrario del racconto di Enea che cominciava con il dichiarare inadeguato il linguaggio quando si tratta di dire tutta la sofferenza patita, Dante si vede invece costretto a rinunciare a esprimere la gioia più alta: «Oh quanto è corto il dire e come fioco / al mio concetto! e questo, a quel ch’io vidi, / è tanto che non basta a dicer poco» (Paradiso, XXXIII, vv. 121-123).
Leopardi figlio di Galileo
Un libro di Gaspare Polizzi sul legame tra lo scienziato e il poeta
di Pietro Greco *
C’è un filo rosso che lega la storia della grande letteratura italiana, da Dante a Galileo fino a Giacomo Leopardi. Questo filo rosso - anzi questa «vocazione profonda» - diceva Italo Calvino, è la filosofia naturale. Qui tre grandi - e poi lo stesso Calvino - hanno considerato «l’opera letteraria come mappa del mondo e dello scibile».
Cosicché tra la grande letteratura e la scienza, in Italia, non c’è mai stata quella separazione denunciata cinquant’anni fa da Charles Percy Snow nel suo famoso libro sulle «due culture». Ma c’è stata una reciproca influenza? Quanto la figura di Dante ha contato per Galileo? E quanto Galileo ha pesato su Leopardi?
Alla prima domanda si può rispondere di sì: chi è venuto dopo si è lasciato influenzare dal grande che lo ha preceduto. Basti ricordare, per quanto riguarda Galileo, che la sua carriera accademica è iniziata virtualmente nel 1588, con le "Due lezioni all’Accademia Fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante", il ventiquattrenne figlio del musicista Vincenzio dimostra di essere sia un valente matematico che un profondo conoscitore del Sommo Poeta.
Per quanto riguarda l’influenza che lo stesso Galileo avrà su Leopardi abbiamo prove meno evidenti. Nelle sue opere il poeta nato a Recanati non cita spesso lo scienziato nato a Pisa. Eppure è possibile dimostrare che «la figura e l’opera di Galileo [hanno un ruolo decisivo] sulla filosofia di Leopardi e sul suo stile». L’affermazione è di Gaspare Polizzi. E gli argomenti, solidi e documentati, a favore della sua impegnativa tesi sono contenuti nel libro, «Galileo in Leopardi» (pagine 220, euro 22,00) che lo storico della scienza in forze all’università di Firenze ha da poco pubblicato presso la casa editrice Le Lettere.
Gaspare Polizzi ha passato in rassegna con grande rigore tutta l’opera di Leopardi alla ricerca di tracce, dirette o indirette, che riconducono a Galileo. Giungendo, a nostro avviso, a tre conclusioni di grande rilievo e a una considerazione che riteniamo di stringente attualità.
La prima conclusione finora niente affatto scontata è che, malgrado il nome dell’"Artista Toscano" (le definizione è del poeta John Milton) ricorra relativamente poco negli scritti di Leopardi - tranne in quelli resi pubblici della "Crestomazia della Prosa" e in quelli inediti dello "Zibaldone" - la presenza di Galileo nel pensiero e persino nello stile del poeta di Recanati non solo c’è, ma è addirittura decisiva.
Leopardi, infatti, non solo ha letto Galileo e le opere su Galileo. Ma lo considera: il più grande fisico di tutti i tempi; un filosofo di primaria importanza nella storia del pensiero umano; e, insieme a Dante, appunto, il più grande rappresentante della letteratura italiana. Galileo è «per la sua magnanimità nel pensare e nello scrivere» un (forse "il") modello per Leopardi.
La seconda conclusione documentata da Gaspare Polizzi è che Giacomo Leopardi, pur conservando, questa sintonia di fondo con Galileo, modifica e aggiorna e affina nel tempo i suoi giudizi sullo scienziato toscano. Gaspare Polizzi è così abile da mostrarci come Leopardi scopre nel tempo Galileo. Quali opere legge. E da quali è particolarmente colpito.
La terza conclusione è che, per quanto grande e addirittura decisiva sia l’influenza che Galileo esercita su Leopardi, l’epistemologia del poeta di Recanati non si esaurisce totalmente in quella dello scienziato pisano. Anzi, vi sono talvolta delle differenze. Entrambi, certo, considerano lo studio della natura, attraverso certe dimostrazioni e sensate esperienze, il nuovo modo, superiore, di filosofare intorno ai fatti del mondo fisico. Ed entrambi credono nella "potenza della ragione", capace di leggere il libro della natura e superare le false credenze degli antichi. Tuttavia Leopardi insiste molto più di Galileo sui limiti della conoscenza umana anche sui fatti della natura e, dunque, sulla relatività delle verità scientifiche. Ha un’attenzione per la matematica e per il suo valore epistemologico molto meno marcata dello scienziato toscano. E, più di Galileo, focalizza la sua attenzione sulla complessità del mondo. Anzi, per dare risalto a questa sua visione molto articolata del mondo fisico - dove piccole cause all’apparenza insignificanti possono produrre grandi effetti - Leopardi non esita a "tirare" fino a distorcere il pensiero di Galileo.
Galileo, dunque, ha una grande influenza su Leopardi. Ma, come sempre accade con i giganti che salgono sulle spalle di giganti, Leopardi ha una lettura critica e personale di Galileo.
C’è, infine, una ultima considerazione che ci propone il libro di Gaspare Polizzi e che ha un qualche riverbero nell’attualità. Nei suoi scritti Leopardi mostra una certa riluttanza a parlare della teoria copernicana e opera delle censure abbastanza sistematiche sul "processo a Galileo". Uno dei motivi, scrive Polizzi, è da attribuire al conflitto a distanza con il padre intorno alla legittimità della proposta galileiana. Ma, probabilmente, c’è anche una certa ritrosia - forse un vero e proprio timore - del giovane di Recanati ad assumere posizioni non conformi alla lettura che la Chiesa cattolica a due secoli di distanza fa del «processo a Galileo».
* l’ Unità, Pubblicato il: 29.04.08, Modificato il: 29.04.08 alle ore 19.49
RIFLESSIONE. SAVERIO ANSALDI: LUCREZIO, BRUNO E LA "POLITICA DELL’AMORE" *
Scrive Giordano Bruno nel De Immenso, mentre il XVI secolo volge ormai al termine: "Quando, in estate, cadono dall’aere gocce di pioggia sulla Terra infuocata, battuta dall’Apulo e dal Libico, dalla polvere incotta nasce repentinamente la rana e uguaglia il numero delle gocce, tanto che tu potresti credere, mirando al suolo, che tante rane siano cadute dal cielo (...). Tale e’ l’origine del serpente, del pesce, del topo, della rana gracidante, tale quella del cervo, della volpe, dell’orso, del leone, del mulo e dell’uomo". Di qui una visione del progresso dell’umanita’ fondato sull’attivita’ pratica e sulla conoscenza naturale, che Bruno e Lucrezio, poeti-filosofi, condividono. La civilta’ e’ sempre il risultato di una lotta e di una conquista, dal momento che l’uomo non gode di alcun privilegio metafisico e morale in un universo infinito in perenne trasformazione.
Lucrezio e’ una fonte e un punto di riferimento filosofico costante del pensiero di Bruno. Il De rerum natura e’ citato sia nei dialoghi italiani che nelle opere latine. Gli aspetti principali del pensiero di Lucrezio presenti in Giodano Bruno possono essere chiaramente identificati. In primo luogo troviamo una teoria dell’atomo e del "minimo" come parti originarie e costituenti della materia. Questa teoria si innesta su una concezione dell’infinito fisico e cosmologico che implica a sua volta una critica del cosmo finito di derivazione aristotelica. Un altro punto essenziale riguarda la teoria di un’antropogenesi spontanea, vale a dire la nascita del genere umano a partire dai processi di aggregazione naturale degli atomi. Per Bruno, come per Lucrezio, l’umanita’ costituisce una forma di vita fra le altre, sorta per effetto dei fenomeni naturali.
L’infinito materiale della vita
Dei molti temi che caratterizzano l’uso bruniano del De rerum natura, tuttavia, uno merita di essere messo in luce con particolare attenzione. Si tratta della concezione dell’amore, che prende forma in Bruno a partire da un doppio movimento filosofico: da una parte, la tradizione platonica e neoplatonica (Marsilio Ficino e Leone Ebreo), dall’altra Lucrezio. Vale a dire che Bruno riunisce, in una sintesi originale, una visione puramente materialistica dell’amore, come quella lucreziana, e una visione animistica, quale si riscontra nei grandi autori neoplatonici del Rinascimento italiano.
Il risultato di questa sintesi teorica e’ cio’ che potremmo definire una "politica dell’amore", che Bruno sviluppa in una delle sue ultime opere, il De vinculis del 1591. Qui, Bruno scrive che "tutti i vincoli si riconducono al vincolo d’amore, ne dipendono, riposano in esso (...) E’ infatti manifesto che l’amore costituisce il fondamento di tutti gli affetti: chi non ama niente non ha di che temere, sperare, gloriarsi, insuperbirsi, osare, disprezzare, accusare, scusare, umiliarsi, emulare, adirarsi e aprire la porta ad altri esempi del genere. La materia ha dunque ampio campo; (...) e questa riflessione non si deve giudicare troppo lontana dalle norme della vita civile, dal momento che e’ straordinariamente piu’ estesa di quanto attiene alla mera norma della vita civile".
Nel quadro della filosofia politica del Rinascimento, quella di Machiavelli s’intende, le affermazioni di Bruno sembrano prive di senso: l’orizzonte della politica e’ quello dell’interesse, del conflitto e della guerra, dell’uso della forza e dello scontro. Potremmo quasi dire che Bruno non coglie i fondamenti reali della politica e che probabilmente intende parlare d’altro. Ma in realta’ si tratta di comprendere il senso esatto della sua nozione: che cos’e’ e su cosa si fonda una "politica dell’amore"? Quali i suoi principi e i suoi presupposti? L’azione politica, per Bruno, poggia innanzitutto sulla materia vivente che costituisce la trama dell’universo infinito. Il "modello" della vita politica e’ rappresentato dall’universo infinito materiale, attraversato dalla potenza inesauribile della vita. E la vita cosmica non e’ altro che amore, poiche’ tutte le cose che vivono nell’universo infinito sono "vincolate" e strette le une alle altre dalla forza dell’amore. L’amore e’ la potenza cosmica che connette tutti gli esseri dell’universo, dai pianeti alle stelle, dai vegetali all’uomo.
Per Bruno, che riprende qui Marsilio Ficino, la potenza dell’amore e’ una vera e propria possibilita’ permanente di trasformazione e di metamorfosi: l’amore e’ una forza che rigenera e rinnova, e’ la resurrezione immanente della natura infinita. Perche’, allora, la materia vivente e "amorosa" diventa il modello della vita politica? Perche’ si tratta per Bruno di riprodurre, nella politica e nella vita civile, i vincoli d’amore che legano gli esseri nell’universo infinito.
Questo il significato straordinario della sua tesi, per cui la finalita’ della politica consiste nel perfezionare in modo esponenziale la potenza della natura umana, pratica e teorica, definita dai vincoli d’amore. Quei vincoli, cioe’, che costituiscono le metamorfosi "sociali" e che permettono le trasfomazioni incessanti della natura umana, secondo i ritmi e le variazioni della natura infinita. Il fine della politica si trova proprio nella necessita’ e nell’imperativo di favorire al massimo le possibilita’ di metamorfosi e di trasformazione dell’uomo e della sua natura. Ecco perche’ il "vincolo sociale" non puo’ essere altro che un vincolo d’amore, vale a dire un processo di cambiamento fondato sulla rigenerazione permanente delle forme della vita umana: affettive, economiche, giuridiche.
La politica non deve difendere un ordine naturale originario e normativo o promuovere un vitalismo primitivistico cosi’ come elaborato dal filosofo conservatore Oswald Spengler; essa deve piuttosto costruire un "mondo" all’interno del quale la natura umana possa vivere affermando ed esprimendo tutte le sue possibilita’ e tutte le sue potenzialita’. Le metamorfosi della natura umana costituiscono in tal senso la sola e unica "utilita’" della vita politica: la potenza umana e’ "utile" quando vive e si nutre dei vincoli d’amore. L’"uso" della vita umana - ed e’ questo probabilmente l’aspetto piu’ sovversivo del pensiero di Bruno - non rimanda all’ordine trascendente dell’agostiniana "citta’ di Dio" o all’ordine legale del "dio mortale" di Hobbes. Si radica invece nel ritmo incessante delle metamorfosi infinite della materia vivente, con le sue variazioni e le sue vicissitudini. L’uso comune della vita umana e’ l’amore della metamorfosi, e in questo amore la politica rivela la sua piu’ profonda e legittima utilita’.
La politica deve quindi essere all’origine di una "vita nuova", di un uso della vita umana come resurrezione materialistica dei corpi e delle menti, attraverso l’amore dei vincoli comuni che ci legano gli uni con gli altri.
Vincoli che non sono propri dei soli esseri umani. Tutti gli esseri naturali sono uniti dall’amore cosmico. L’utilita’ della politica deve quindi coinvolgere la "natura" nel suo complesso. Si potrebbe affermare che la politica umana, per Bruno, deve essere un effetto necessario della potenza infinita della natura; la natura non e’ "oggetto" della politica (non si tratta, con Heidegger, di prendersi "cura" della natura, o di "difenderla", con Jonas e il suo principio di responsabilita’) ma e’ piuttosto la politica a essere prodotta dalla natura infinita come infinito processo di metamorfosi.
Una luce sulla vita errante
La politica e’ solo un aspetto o un’"ombra", per utilizzare una terminologia bruniana, dell’amore infinito e della vita che si rinnova costantemente nella materia dell’universo. La vita nuova dell’amore e dei suoi vincoli e’ la legge che ogni politica dovrebbe poter applicare, poiche’ tale legge e’ l’unica forma di vita adeguata all’uso comune e giusto della natura infinita. Entro un universo ormai privo di gerarchie e di ordini trascendenti, Bruno scopre le regole di una vita nuova, "vincolata" all’utilita’ comune che non rimanda ne’ al concetto d’interesse ne’ a quello di profitto. Facendo del vincolo d’amore il solo e unico imperativo categorico della politica, Bruno mette in luce il rapporto di "cooperazione" fra la natura umana e finita da un lato e la materia infinita dall’altro, che l’azione politica deve costantemente costruire e inventare, contro ogni forma di ingerenza e di dominio, ideologico, culturale, economico o teologico.
La filosofia politica di Giordano Bruno rappresenta cosi’, all’interno della tradizione del pensiero moderno, una vera e propria "utopia", una sorta di non-luogo, estraneo tanto al nascente realismo dello Stato assoluto di Bodin e di Hobbes, quanto all’universalismo cattolico di Campanella o al progressismo scientifico di Bacon. Essa occupa una zona d’ombra, dalla quale si irradia la luce di una vita nomade ed errante, impegnata nella ricerca dei vincoli d’amore, nelle metamorfosi incessanti del mondo.
* Fonte: NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 431 del 20 aprile 2008
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 13 dicembre 2007, col titolo "Metamorfosi amorosa della natura umana" e il sommario "Da oggi a Milano un convegno internazionale su ’Lucrezio nella Modernita’’. La teoria dell’atomo del filosofo e poeta latino come base di una ’politica dell’amore’, dove l’infinita potenza della vita e’ fonte di una pratica della trasformazione sociale" riprendiamo uno stralcio della relazione di Saverio Ansaldi al convegno "Lucrezio nella modernita’" svoltosi il 13 e 14 dicembre 2007 all’Universita’ di Milano-Bicocca (convegno cosi’ presentato in una nota di Nicola Marcucci dal titolo "Lucrezio, l’incontro alla Bicocca di Milano" apparsa sullo stesso foglio: "Le diverse interpretazioni moderne di Lucrezio, seppur nella loro pluralita’, sono legate da una comune condanna o, al contrario, dalla rivendicazione di una comune appartenenza, sotterranea ed eccentrica rispetto ai canoni della storiografia filosofica ufficiale. Spinoza ne ha tracciato con forza i confini: ’L’autorita’ di Platone, di Aristotele e di Socrate - scrive a un suo superstizioso corrispondente - non ha per me gran valore. Sarei stato molto sorpreso se mi aveste citato Democrito, Epicuro, Lucrezio o qualche altro atomista o sostenitore dell’atomismo’. In una altra modernita’, ma entro i medesimi confini perimetrati da Spinoza, Marx ’traduceva’ Lucrezio, nel primo libro del Capitale, sottolineando come il valore, non potendo esser creato dal nulla, fosse piuttosto trasformazione di forza lavoro e come questa fosse ’anzitutto un complesso di sostanze naturali trasformate in organismo umano’. E’ alla tante modernita’ lucreziane e alla problematica definizione di questa comune appartenenza - caratterizzata dall’antifinalismo, dalla critica alle superstizioni religiose e all’antropomorfismo, dal rifiuto della filosofia come mera meditazione della morte - che sara’ dedicato il convegno ’Lucrezio nella modernita’’...").
Saverio Ansaldi e’ docente e saggista; dalla medesima fonte riprendiamo la seguente scheda: "Saverio Ansaldi e’ professore associato di Filosofia politica all’Universita’ di Montpellier III - Paul Valery. Si e’ occupato di filosofia tedesca (Schelling), di filosofia moderna (Spinoza) e lavora attualmente sulla filosofia politica del Rinascimento italiano (Machiavelli, Bruno, Campanella). Ha pubblicato articolo e saggi su Spinoza e Giordano Bruno (Spinoza et le baroque. Infini, desir, multitude, Kime’, 2001; Nature et puissance. Giordano Bruno et Spinoza, Kime’, 2006). Ha curato l’edizione francese dei Dialoghi d’amore di Leone Ebreo (Vrin, 2006) e tradotto in italiano Spinoza e il problema dell’espressione di Gilles Deleuze (Quodlibet, 1999). E’ membro del comitato di redazione della rivista ’Multitudes’"]
DANTE LETTO NELLE PIAZZE PARLA ALLA GENTE
di DANIELE PICCINI (Avvenire/Agorà, 17.04.2008)
In giro per l’Italia si sta rianimando l’uso delle «lecturae Dantis», dopo la sistematica e completa immersione di Vittorio Sermonti di qualche anno fa e dopo la popolatissima performance di piazza e di teleschermo di Roberto Benigni. Proprio l’attore toscano, per l’effetto di schiacciamento che i grandi media inducono, diviene un punto di partenza interessante e insieme contrastivo. Il pubblico più largo e generico è suggestionato a pensare che l’unica «lectura» possibile sia di quel tipo. Una messa in scena appassionata, magari con divagazioni attualizzanti e satiriche, e con la mediazione necessaria di un attore, di un «performer» appunto. Ma la storia, come sempre, è più lunga e complessa. Basti pensare che la prima «lectura Dantis» della storia venne tenuta da Giovanni Boccaccio a Firenze nella chiesa di Santo Stefano di Badia nel 1373.
Anziano e malandato, in una sessantina di lezioni pubbliche, Boccaccio arrivò a commentare circa la metà della prima cantica. In una chiesa, si diceva. Quello che Dante chiama nel «Paradiso» «sacrato poema» e ancora il «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» può essere meditato, ’ruminato’ e letto in un luogo per l’appunto sacro: la parola umana, umana al quadrato grazie alla tecnica poetica, aspira tuttavia, nell’altissima pretesa della Commedia, ad essere parola di verità, con l’autore autopromosso a «scriba Dei». Così a Sansepolcro, la città di Piero della Francesca, si è promosso un ciclo di quattro letture, intitolato «Comincia la commedia», proprio nella cattedrale romanica del paese: analisi e commento del primo canto di ognuna delle tre cantiche affidati a un dantista e a seguire lettura integrale del testo da parte di un attore (con la serata finale del 18 aprile dedicata alla versione in dialetto locale dell’«Inferno»: la Commedia è stata ’reinventata’ non solo in innumerevoli lingue straniere ma in tanti idiomi dialettali della penisola). A Milano poi, all’Università Statale, è ancora in corso la nuova edizione degli «Esperimenti danteschi», quest’anno dedicata all’«Inferno», con la presenza di prestigiosi dantisti italiani e stranieri. Che cosa suggeriscono queste «lecturae» rinate? Che la «Commedia» è stata letta per secoli nei modi classici della lectio accademica. E che Benigni è un felice episodio di una lunga trafila. E poi ci ricordano il potere ’salutare’ (come avrebbe detto Luzi) del poema: non solo in senso religioso, ma in chiave di pienezza della lingua, messa a frutto in tutta la sua efficacia ed economicità.
La potente scaturigine dantesca richiama all’origine, alle fonti di una parola armonizzata per «legame musaico» e per ciò stesso sottratta a ogni usura, consumo, deprivazione di energia. Parla perciò alla comunità civile. E a volerla e saperla ascoltare, parla anche ai dispersi poeti della tarda modernità, non come un bene di rifugio, consolatorio, ma come una spinta a riconsiderare i fondamenti del loro dire, perché possa nuovamente risuonare (anche attraverso una riforma tecnica e metrica) pubblico e comunitario.
l’intervento
Il patriarca latino di Gerusalemme, Michel Sabbah, rilancia il dialogo: «Oggi è la città di due popoli: tutti e due devono poter viverci con gli stessi doveri e gli stessi diritti»
Terra Santa, la pace è possibile
«Palestinesi e israeliani sono chiamati a questa responsabilità davanti a Dio: devono sforzarsi di trovare uno statuto speciale che rispetti le speranze dei due popoli e delle tre religioni»
DI MICHEL SABBAH (Avvenire, 13.02.2008) *
Ci domandiamo oggi se la pace è possibile in Terra Santa. In concreto ci sono segni di speranza, ma soprattutto sembrano prevalere paure, esitazioni, oppressioni e instabilità. E le sofferenze continuano. Costruire la pace in Terra Santa, come ovunque, è impresa sempre più difficile.
Numerosi sono i conflitti nel mondo in cui la violenza, il disprezzo della persona umana e dell’immagine di Dio nell’uomo sono praticati non solo da individui, ma da gruppi e a volte da governi responsabili. La pace in Medio Oriente sarà certamente frutto di accordi tra capi di governo e responsabili politici; ma prima di tutto coinvolgerà nel profondo i rapporti tra le comunità e tra i singoli. Ogni palestinese e ogni israeliano dovranno vedere nell’altro non più un nemico da odiare e da combattere, ma un fratello e un amico con cui costruire finalmente le nuove società palestinese e israeliana. La pace in Medio Oriente comincia a Gerusalemme.
Qui si manifesta il più profondo mistero di Dio per la storia dell’umanità: ha scelto questa città per raggiungere, attraverso il popolo eletto, tutti i popoli della terra. Gerusalemme: città in cui la fede in Dio unisce popoli e nazioni e città in cui i credenti, in nome di Dio, lungo i secoli e fino a oggi, si sono posti in conflitto. Città della riconciliazione, sorgente di pace per i pellegrini che la raggiungono, ma deserto di divisione per i suoi abitanti. La città dove tutti dicono «io qui sono nato» e che non è rimasta, nello scorrere dei secoli, esclusiva di una sola religione. Ebraismo, cristianesimo e islam oggi vi coesistono: sono tutti radicati in lei. La città di Dio è come Dio: per tutti. Nessuno può avere Dio in esclusiva, nessuno può avere la città di Dio in esclusiva e privarne l’altro. Gerusalemme è la dimora di Dio, aperta a tutti; è la dimora dello Spirito, sorgente di santità e di dignità per ogni persona.
Gerusalemme era ed è ancora il centro dell’ebraismo: era ed è il centro del cristianesimo. Dal sesto secolo fu per l’islam la «santa» città, il «santuario di Dio». Oggi, come nel passato, ci sono credenti, ebrei, musulmani e cristiani, amati da Dio di un amore speciale, che in questa terra, al di là delle divisioni e dei conflitti quotidiani, sono uniti nell’intimità della preghiera. Per loro intercessione Dio non permette che maggiori mali cadano su Gerusalemme. Altri credenti, e sono sfortunatamente la maggioranza, danno rilievo all’espressione esterna della loro fede, accentuando le differenze religiose che sono conseguentemente sfruttate da ambizioni e interessi umani.
Ogni giorno viviamo nei nostri cuori e nei nostri corpi la tragedia della divisione, dell’odio e della morte. La città della riconciliazione, la città di Dio, appare tragicamente lontana da Dio. Gerusalemme ha bisogno di pace e di riconciliazione, come d’altronde tutta le regione. Oggi Gerusalemme è la città di due popoli: tutti e due devono poter viverci con gli stessi doveri e gli stessi diritti. La Gerusalemme palestinese deve essere realmente palestinese, e l’israeliana israeliana. È una grande responsabilità amministrare la città di Dio rispettandone il Suo disegno, cioè con lo stesso amore e la stessa giustizia per tutti i suoi figli. Perciò palestinesi e israeliani, oggi chiamati a questa responsabilità davanti a Dio, devono sforzarsi di trovarle uno statuto speciale che rispetti le speranze dei due popoli e delle tre religioni presenti.
Gerusalemme è la chiave della pace nella regione e ogni soluzione imposta con la forza, che non rispetti i diritti e i doveri di tutti, può portare solo a una tregua, ma non a una pace definitiva. Una soluzione ingiusta o imposta rimarrà una minaccia permanente alla pace.
Soltanto la via della giustizia può condurre alla pace. Con la violenza si può vincere una guerra o una battaglia. Uno Stato può essere creato con la forza, ma la pace no. La realtà che stiamo vivendo in Terra Santa lo prova: con la forza Israele ha vinto battaglie e guerre ed ha creato uno Stato. Ma la ricerca della pace con i palestinesi non è ancora finita. Il dialogo tra le parti coinvolte è l’unica via, purché gli accordi non rimangano mere firme sulla carta.
Vedremo la vera vittoria solo quando avremo giustizia per tutti. Io, vescovo in questa Terra Santa e martoriata, chiedo una pace che garantisca tutti i diritti a tutte le parti in conflitto.
Desidero una pace che sia in grado di garantire la sicurezza ai palestinesi, agli israeliani e a tutti i popoli della regione; una pace che rispetti la dignità, la libertà, la sovranità e i diritti di ogni persona e di ogni popolo.
Bisogna riconoscere che la religione, in questa parte del mondo, ha una grande responsabilità nella ricerca della giustizia e della pace: è anzitutto la fede nell’unico Dio creatore e nell’amore per tutte le sue creature. Evidentemente questo amore deve conciliarsi con il diritto di difendersi e di difendere la dignità di ogni persona, nonché con il rifiuto di ogni forma di oppressione e di ingiustizia. In Oriente la religione compenetra e anima tutte le attività private e pubbliche. Tutto viene posto sotto il nome di Dio.
Tutto incomincia e finisce nel suo nome: la guerra, come la pace.
Perciò i leader religiosi possono avere un’influenza decisiva sui fedeli, in un senso come nell’altro: possono incitare alla guerra e alla violenza o esortare alla pace. Purtroppo, in nome di Dio, gli uomini hanno causato nel corso della storia molte guerre e conflitti. Oggi, in nome di una fede meglio compresa e meglio vissuta, i leader religiosi hanno la responsabilità di cambiare il comportamento dei fedeli, di aprire una nuova via che conduca il mondo verso la pace, per testimoniare l’appello di Dio all’umanità: Dio è creatore di tutti e vuole il bene di tutti.
*
L’ANTICIPAZIONE
Nato a Nazaret nel 1933, Michel Sabbah (nella foto) è il primo palestinese a essere nominato, nel 1987, patriarca latino di Gerusalemme. Ordinato sacerdote nel 1955 e conseguita la laurea in Filologia della lingua araba a Beirut, ha ottenuto il dottorato in Filosofia alla Sorbona di Parigi ed è stato preside dell’Università di Betlemme.
Presidente della Conferenza episcopale dei vescovi latini della regione araba, dal 1999 al 2007 è stato anche presidente di Pax Christi International. Deciso fautore del dialogo fra le religioni, è una figura di spicco nelle relazioni interreligiose con gli ebrei e i musulmani della Terra Serra. Un impegno ribadito nel volume «Voce che grida dal deserto», del quale anticipiamo qui uno stralcio, curato da Nandino Capovilla e presentato dal cardinale Carlo Maria Martini (Paoline, pagine 138, euro 11,00).
Il Dante di Benigni "vale come una preghiera"
di Andrea Tornielli (Il giornale, lunedì 11 febbraio 2008) «Quella di Roberto Benigni, quella dei grandi interpreti della letteratura in televisione, è una scommessa vincente. Il servizio pubblico deve essere capace di compiere scelte coraggiose e promuovere vera cultura». Monsignor Rino Fisichella, vescovo e rettore della Pontificia università Lateranense, l’ateneo del Papa, ha davanti a sé la pagina del Giornale con l’intervista a Benigni. «Mi ha molto colpito, domani (oggi per chi legge, ndr) devo tenere un incontro con molti sacerdoti e partirò proprio da alcune delle sue espressioni su Gesù».
La sorprende questo successo delle letture di Dante?
«Nella sua trasmissione non c’è solo il fatto positivo di riportare in primo piano un grande protagonista della letteratura, c’è anche un grande interprete che fa gustare Dante e avvicina i giovani alla Divina Commedia: è una svolta di cui non solo la televisione, ma più in generale il nostro Paese ha bisogno».
La letteratura, l’incontro con grandi autori, può aiutare la fede cristiana?
«L’incontro tra letteratura e cristianesimo è uno dei più fecondi. La letteratura indaga il mistero dell’uomo, ci fa capire in modo espressivo che nel cuore dell’uomo albergano interrogativi, grandi domande di senso, di significato. Domande che non possono essere espresse con il linguaggio scientifico. La letteratura evoca, ci fa intuire il grande mistero dell’esistenza e le domande costitutive del nostro essere uomini».
Forse, ci sarebbe più bisogno di maestri in grado di far vibrare quei testi...
«Guardiamoci alle spalle: che cosa sarebbe stata l’umanità senza Omero, Sofocle, Dante Alighieri, Pascal o Papini, Bernanos e Peguy? In questi come in altri grandi autori risplende una capacità di esprimere la bellezza del cristianesimo, più che in tanti libri di teologia. Penso al Diario di un curato di campagna e a come quelle pagine esprimano la forza di un amore che ama e perdona». Ci sono stati maestri ed educatori che hanno avvicinato generazioni alla lettura dei classici. Ad esempio don Luigi Giussani, che citava il ...
Canto alla luna di Leopardi per evocare la domanda di felicità e compimento dell’uomo.
«La letteratura, non necessariamente cristiana, provoca il credente, la fede, la teologia a percepire la drammaticità dei grandi interrogativi del cuore umano. È stata anche la mia esperienza personale di docente, quando insegnavo alla IV ginnasio e iniziavo le mie lezioni con le pagine del Piccolo principe di Saint-Exupéry. Grazie a quelle pagine arrivavo ai nodi fondamentali dell’antropologia e della fede. Non vorrei poi che dimenticassimo che la Bibbia stessa ha testi stupendi di alta letteratura e di alta poesia. Prendiamo il Cantico dei Cantici o i salmi, o gli interrogativi espressi nel libro di Giobbe. Heidegger riconosceva che la poesia è la forma culminante per esprimere la realtà. Arte e letteratura sono una ricchezza inestimabile per la religione, che senza queste espressioni sarebbe impoverita e non esprimerebbe il mistero di Dio che si fa uomo».
Benigni ha detto: «Come si fa a non restare affascinati dalla figura di Gesù Cristo? Il Vangelo ti dice che puoi sempre ricominciare da capo. Ti mette nella condizione di fare ognuno la rivoluzione dentro se stesso. Prima che arrivasse Gesù il rapporto con Dio era fatto di dolore e lui se l’è preso tutto su di sé»...
«Parole che indicano quanto sia entrato nella profondità delle pagine evangeliche. Gesù, il figlio di Dio, con la sua esistenza ha dato una risposta alla nostra domanda di felicità e di significato».
Questo approccio ha qualcosa da insegnare a chi predica o insegna il catechismo?
«La bellezza va contemplata e contemplare significa anche rimanere in silenzio ad ascoltare chi ci propone un brano di letteratura. Vorrei ricordare, a proposito dell’inno “Vergine Madre Figlia del tuo Figlio”, che per noi quelle parole di Dante diventano preghiera, nella Liturgia delle Ore, in occasione di ogni festività mariana».
Benigni osserva che «tutta la nostra civiltà è cristiana senza saperlo - e il senza saperlo è forse la cosa più bella - lo si vede da ogni cosa che facciamo».
«È un’osservazione acutissima. Credo dovremmo prendere coscienza del fatto che tutto ciò che respiriamo trova compimento e fondamento in quel messaggio d’amore che è il Vangelo».
L’ITALIA DI DANTE E GIOTTO IN ’INFERNI E PARADISI’
Roma, 24 ott. - (Adnkronos/Adnkronos Cultura) - La storiografia ufficiale ha sempre riconosciuto nel Rinascimento il periodo di nascita della modernita’. Nel volume "Inferni e paradisi. L’Italia di Dante e Giotto" di E’lisabeth Crouzet-Pavan, edito da Fazi Editore, il docente di storia medievale alla Sorbona, sostiene una tesi differente: nel Duecento, il secolo di Federico II e di Francesco d’Assisi, avviene la prima vera rivoluzione culturale che portera’ alla formazione della coscienza moderna.
E’ in questo periodo, un secolo di lotte intestine e di fazioni opposte, che l’uomo riscopre la dimensione terrena, la vita pubblica, la politica attiva. "Il volume - come spiega l’autrice - vuole essere una riflessione sulla storia dei dispositivi culturali di questa Italia in cui ogni cosa freme".
L’ideologia senza ideali
di Zygmunt Bauman (la Repubblica, 17.09.2007)
C’è chi crede che cercare una società giusta sia una perdita di tempo - Cosa significa l’invito di Sarkozy a "guadagnare e lavorare di più" - Questo pensiero proclama che è inutile, anzi dannoso, unire le forze per una causa comune - Così si prende di mira la solidarietà sociale e si deride il principio della responsabilità collettiva
Lo scorso giugno, poco dopo la sua elezione a Presidente della Francia, Nicolas Sarkozy ha dichiarato in un’intervista televisiva: «non sono un teorico, non sono un ideologo, non sono certo un intellettuale: io sono uno concreto». Cosa voleva dire con queste parole? Con ogni probabilità voleva dire che crede fermamente in talune convinzioni mentre con altrettanta fermezza ne respinge risolutamente altre.
Dopo tutto ha affermato pubblicamente di essere un uomo che crede «nel fare, non nel pensare» e ha condotto la sua campagna presidenziale invitando i francesi a «lavorare di più e guadagnare di più». Ha detto più volte agli elettori che lavorare più duramente e più a lungo per diventare ricchi è cosa buona. (Si tratta di un invito che i francesi sembrano aver trovato attraente, anche se non l’hanno affatto ritenuto unanimemente sensato dal punto di vista pratico: secondo un sondaggio TBS-Sofres il 39% dei francesi ritiene che sia possibile diventare ricchi vincendo la lotteria, contro il 40% che ritiene che si diventi ricchi grazie al lavoro). Dichiarazioni come queste, se sono sincere, rispettano tutte le condizioni della credenza ed espletano la funzione principale che ci si attende dalle credenze: dicono cosa si deve fare e suscitano fiducia che, così facendo, si otterranno risultati positivi. Manifestano inoltre l’atteggiamento agonistico e partigiano normalmente connesso con una «ideologia».
Alla filosofia di vita di Nicolas Sarkozy manca solo una delle caratteristiche delle «ideologie che abbiamo conosciuto finora», ossia una qualche concezione di una «totalità sociale» che, come suggerito da Emile Durkheim, sia «maggiore della somma delle sue parti», vale a dire diversa, per esempio, da un sacco di patate e quindi non riducibile al cumulo dei singoli elementi in essa contenuti. La totalità sociale non può venire ridotta a un aggregato di individui ciascuno dei quali persegua le sue finalità private e sia guidato dai suoi desideri e dalle sue regole private.
Le reiterate affermazioni pubbliche del Presidente francese suggeriscono invece proprio una riduzione di questo tipo.
Non sembra che le previsioni sulla «fine delle ideologie», comuni e largamente accettate venti-trent’anni fa, si siano avverate o stiano per farlo. Le apparentemente paradossali affermazioni che ho citato indicano invece la sorprendente svolta compiuta oggi dal concetto di «ideologia». In contrapposizione a una lunga tradizione, l’ideologia che viene attualmente predicata dai vertici perché sia fatta propria dal popolo coincide con l’opinione che pensare alla «totalità» ed elaborare concezioni della società giusta sia una perdita di tempo, in quanto irrilevante per i destini individuali e per il successo nella vita. La nuova ideologia non è un’ideologia privatizzata, e del resto tale nozione sarebbe un ossimoro, perché l’erogazione di sicurezza e di fiducia in se stessi che costituisce il principale impegno delle ideologie e la condizione primaria del loro carattere seduttivo sarebbero irrealizzabili senza un’adesione pubblica e di massa. Essa invece è un’ideologia della privatizzazione. L’invito a «lavorare di più e guadagnare di più», invito rivolto agli individui e adatto solo a usi individuali, scalza quelli del passato a «pensare alla società» (o alla comunità, alla nazione, alla chiesa, alla causa). Sarkozy non è il primo che cerca di avviare o di far accelerare tale trasformazione: la precedenza spetta a Margaret Thatcher e al suo memorabile annuncio secondo cui «non esiste qualcosa che si possa chiamare «società»: esistono solo il governo e le famiglie».
Si tratta di una nuova ideologia per la nuova società individualizzata, a proposito della quale Ulrich Beck ha scritto che uomini e donne, in quanto individui, dovranno adesso trovare soluzioni individuali a problemi creati dalla società e implementare individualmente tali soluzioni con l’aiuto di capacità e risorse individuali. Questa ideologia proclama che è inutile, anzi controproducente, unire le forze e subordinare le azioni individuali a una «causa comune». Essa prende di mira la solidarietà sociale; deride il principio della responsabilità comune per il benessere dei membri della società considerandolo fondamento dello «Stato assistenziale»; ammonisce che prendersi cura degli altri è la ricetta per creare l’aborrita «dipendenza».
Si tratta anche di un’ideologia fatta a misura della nuova società di consumatori. Essa rappresenta il mondo come un deposito di oggetti di potenziale consumo, la vita individuale come una perpetua ricerca di transazioni aventi per scopo la massima soddisfazione del consumatore e il successo come un incremento del valore di mercato degli individui. Largamente accettata e saldamente accolta, essa liquida le sue antagoniste con un secco «non esistono alternative». Avendo così ridimensionato i suoi avversari, essa diviene, per usare la memorabile espressione di Pierre Bourdieu, veramente pensée unique. Almeno nella parte ricca del pianeta la posta in gioco in questa spietata concorrenza tra individui non è la sopravvivenza fisica, e nemmeno la soddisfazione dei bisogni biologici primari necessari alla sopravvivenza; né il diritto di affermare se stessi, di darsi i propri obiettivi e di decidere che tipo di vita si vorrebbe vivere.
Esercitare tali diritti viene ritenuto, viceversa, un dovere di ogni individuo.
Si parte inoltre dal presupposto che tutto ciò che accade agli individui sia conseguenza dell’esercizio di questi diritti oppure di gravissimi errori in tale esercizio, fino al suo blasfemo rifiuto. Così tutto ciò che accade agli individui viene comunque definito retrospettivamente come dovuto alla responsabilità dei singoli. Ciò che è ora pienamente e veramente in gioco è il «riconoscimento sociale» di quelle che vengono viste come scelte individuali, ovvero della forma di vita che gli individui praticano (per scelta o per forza). «Riconoscimento sociale» significa accettazione del fatto che l’individuo che pratica una certa forma di vita conduce un’esistenza degna e decente, e per questo motivo merita il rispetto dovuto e prestato agli altri individui degni e decenti.
L’alternativa al riconoscimento sociale è la negazione di dignità, cioè l’umiliazione, e questo sentimento nutre risentimento. E corretto affermare che in una società di individui come la nostra questa sia la più velenosa e implacabile forma di risentimento che i singoli possono provare, nonché la più comune e prolifica causa di conflitto, di ribellione e di sete di vendetta. Negazione del riconoscimento, rifiuto di prestare rispetto e minaccia di esclusione hanno rimpiazzato sfruttamento e discriminazione, divenendo le formule più comunemente usate per spiegare e giustificare lo scontento che gli individui provano nei confronti della società o di quei settori e aspetti della società cui essi sono direttamente esposti (personalmente o attraverso i media) e di cui fanno esperienza di prima mano. Ciò non vuol dire che l’umiliazione sia un fenomeno nuovo, specifico dell’attuale forma della società moderna, perché al contrario essa è antica quanto la socialità e la convivenza tra gli uomini. Vuol dire però che nella società individualizzata di consumatori le più comuni ed «eloquenti» definizioni e spiegazioni delle afflizioni e dei disagi che derivano dall’umiliazione hanno rapidamente spostato, o stanno spostando, il proprio riferimento dal gruppo e dalla categoria alle singole persone. Invece che essere attribuite all’ingiustizia o al cattivo funzionamento dell’organismo sociale, cercando dunque rimedio in una riforma della società, le sofferenze individuali tendono a essere sempre più percepite come risultato di un’offesa personale, di un attacco alla dignità personale e alla stima di sé, invocando dunque una reazione personale o una vendetta personale. Questa ideologia, come tutte le ideologie a noi note, divide l’umanità. Ma in più essa genera divisione anche tra chi le presta fede, dando capacità a qualcuno e rendendo tutti gli altri incapaci. In questo modo essa inasprisce il carattere conflittuale della società individualizzata/privatizzata.
Depotenziando le energie e neutralizzando le forze che potenzialmente sarebbero in grado di intaccarne il fondamento, questa ideologia conserva tale società e rende più fievoli le prospettive di un suo rinnovamento.
(traduzione di Daniele Francesconi)
I domenicani olandesi vogliono dir messa senza il prete *
Proprio mentre il motu proprio “Summorum Pontificum” sta per entrare in vigore - con la messa antica che ritrova piena cittadinanza a fianco della nuova - i domenicani olandesi lanciano una proposta che mira a sovvertire l’ordinamento di qualsiasi messa, nuova o vecchia che sia.
La proposta è in un opuscolo di 38 pagine diffuso in tutte le 1300 parrocchie cattoliche d’Olanda, intitolato “Kerk en Ambt”, Chiesa e ministero. Qualora non vi fossero preti disponibili, i padri domenicani propongono che una persona scelta dalla comunità presieda ugualmente la celebrazione dell’eucaristia. “Non fa differenza che sia uomo o donna, omo o eterosessuale, sposato o celibe”. La persona prescelta e la comunità pronuncerebbero insieme le parole della consacrazione. “Pronunciare queste parole non è un diritto riservato al prete. È la consapevole espressione di fede dell’intera comunità”.
L’opuscolo ha l’approvazione dei superiori dell’ordine in Olanda ed è stato scritto dai padri André Lascaris, professore di teologia a Nimega, Jan Nieuwenhuis, già direttore del centro ecumenico dei domenicani di Amsterdam, Harrie Salemans, parroco a Utrecht, e Ad Willems, altro teologo di Nimega.
Sullo sfondo, il teologo di riferimento è un altro, più famoso domenicano olandese, Edward Schillebeeckx, 93 anni, che negli anni Ottanta finì sotto l’esame della congregazione per la dottrina della fede per tesi vicine a quelle ora confluite nell’opuscolo.
La conferenza episcopale olandese si riserva di replicare ufficialmente. Ma ha già fatto sapere che la proposta dei domenicani appare “in conflitto con la dottrina della Chiesa cattolica”.
Fuori dall’Olanda, ha dato evidenza alla notizia il settimanale cattolico inglese “The Tablet”, nel numero dell’8 settembre 2007, in un servizio di William Jurgensen dal titolo: “Dutch Dominicans call for laity to celebrate Mass“.
* SETTIMO CIELO di Sandro Magister, Postato in General il 12 Settembre, 2007
Il testo (formato PDF) in traduzione inglese dell’opuscolo di alcuni domenicani olandesi su "Chiesa e ministero" di cui molto si discute nel mondo. *
The Church and the Ministry
* Il dialogo, Lunedì, 08 ottobre 2007
Grandezza e tragedia all’inizio di un mondo nuovo
di Hannah Arendt (il manifesto, 02.10.2007)
L’amore è una potenza e non un sentimento. Si impadronisce dei cuori, ma non nasce dal cuore. L’amore è una potenza dell’universo, nella misura in cui l’universo è vivo. Essa è la potenza della vita e ne garantisce la continuazione contro la morte. Per questo l’amore «supera» la morte. Appena si è impossessato di un cuore, l’amore diventa una potenza ed eventualmente una forza.
L’amore brucia, colpisce l’infra, ovvero lo spazio-mondo fra gli uomini, come il fulmine. Questo è possibile soltanto se vi sono due uomini. Se si aggiunge il terzo, allora lo spazio si ristabilisce immediatamente. Dall’assoluta assenza di mondo (= spazio) degli amanti nasce il nuovo mondo, simboleggiato dal figlio. In questo nuovo infra, nel nuovo spazio di un mondo che inizia, devono stare ora gli amanti, essi vi appartengono e ne sono responsabili. Proprio questa è però la fine dell’amore. Se l’amore persiste, anche questo nuovo mondo viene distrutto. L’eternità dell’amore può esistere soltanto nell’assenza di mondo (dunque: «e se Dio vorrà, ti amerò anche di più dopo la morte» - ma non perché allora io non «vivrò» più e di conseguenza potrò forse essere fedele o qualcosa del genere, ma a condizione di continuare a vivere dopo la morte e di aver perduto in essa soltanto il mondo!) o come amore degli «abbandonati», non a causa dei sentimenti, ma perché, assieme agli amanti, è andata perduta la possibilità di un nuovo spazio mondano.
In quanto potenza universale (dell’universo) della vita, l’amore non ha propriamente una origine umana. Nulla ci inserisce in modo sicuro e inesorabile nell’universo vivente più dell’amore, al quale nessuno può sfuggire. Appena però questa potenza si impadronisce dell’uomo e lo getta verso un altro e brucia l’infra del mondo e del suo spazio fra i due, proprio l’amore diventa «ciò che vi è di più umano» nell’uomo, ovvero un’umanità che persiste senza mondo, senza oggetto (l’amato non è mai oggetto), senza spazio. L’amore consuma, consuma il mondo, e dà un’idea di che cosa sarebbe un uomo senza mondo. (Perciò lo si pensa spesso in relazione a una vita in «un altro mondo», ovvero in una vita senza mondo.)
L’amore è una vita senza mondo. In quanto tale, si manifesta come creatore di mondo; esso crea, genera un mondo nuovo. Ogni amore è l’inizio di un mondo nuovo; è questa la sua grandezza e la sua tragedia. Infatti, in questo mondo nuovo, nella misura in cui non è soltanto nuovo, ma anche appunto mondo, l’amore soccombe.
L’amore è dunque in primo luogo la potenza della vita; noi apparteniamo al vivente poiché sottostiamo a questa potenza. Chi non ha mai subito questa potenza non vive, non appartiene al vivente. In secondo luogo, esso è il principio che distrugge il mondo e indica così che l’uomo è ancora senza mondo, che egli è « più » del mondo, benché senza mondo non possa durare. Così, l’amore rivela proprio ciò che è specificamente umano nell’universo vivente. Il discorso degli amanti è così vicino alla poesia perché è il discorso puramente umano.
E, in terzo luogo, l’amore è il principio creativo che oltrepassa il semplice fatto di essere vivi, poiché dalla sua amondanità nasce un nuovo mondo. In quanto tale, «supera» la morte, o ne è il vero e proprio principio opposto. Soltanto perché crea esso stesso un mondo nuovo, l’amore rimane (oppure sono gli amanti che tornano indietro) nel mondo. L’amore senza figli o senza un mondo nuovo è sempre distruttivo (antipolitico!); ma proprio allora produce ciò che è propriamente umano in tutta la sua purezza.
(dal Quaderno XVI, Maggio 1953-giugno 1953)
“DIDONE LIBERATA”? SCIOGLIERE IL NODO DELLA TRAGEDIA (LAIO, GIOCASTA, ED EDIPO) E, SULLE ORME DI VIRGILIO E DANTE, METTERSI IN CAMMINO PER DAR VITA A UN “ROMANZO FAMILIARE” (FREUD) NUOVO....
Un avvio di dialogo (via e-mail) con Salvatore Conte
di Federico La Sala *
1.
Da: Salvatore Conte Inviato: giovedì 19 luglio 2007 14.37 A: redazione@ildialogo.org
Oggetto: c.a. Federico La Sala
Salve, vorrei con la presente mostrare apprezzamento ed interesse per alcune posizioni di Federico La Sala. Cito ad esempio il brano che chiude la presente, e ribadisco qui una sua domanda:
"Non è questa forse la ragione nascosta del “disagio della civiltà” dell’Oriente e dell’Occidente"? Poiché mi occupo da tempo di Femminino sacro o come voglia chiamarsi (www.queendido.org), auspicherei un contatto con il dott. La Sala al fine di verificare eventuali punti di interesse comune.
Grazie, a presto.
- - - - -
da FEDERICO LA SALA:
Vedere il caso del Giappone - nella cultura giapponese c’è la Dea in cielo, e l’imperatore sulla terra; ora-oggi!!!, dal momento che alla coppia imperiale è nata una bambina, si parla di cambiare la Costituzione per far sì che Lei possa accedere al trono ... ma il problema è più complesso - come si può ben immaginare - perché ... deve essere cambiata anche la Costituzione celeste dell’Impero del Sol Levante!!! Se no, l’Imperatrice con Chi si ’sposerà’?! Con la Dea?!!
Non è questa forse la ragione nascosta del “disagio della civiltà” dell’Oriente e dell’Occidente ..... e anche della sua fine, se non ci portiamo velocemente fuori da questo orizzonte edipico-capitalistico di peste, di guerra e di morte?
2.
From: Federico La Sala
To:conte@queendido.org
Sent: Thursday, July 19, 2007 9:00 PM
Subject: Caro Conte .... La ringrazio dell’attenzione. Mi scriva in modo più specifico del suo (il mio l’ha ben colto) "programma di ricerca" e d’interessi. M. saluti, fls
3.
Da: Salvatore Conte Inviato: giovedì 19 luglio 2007 22.11 A: Federico La Sala
Oggetto: Re: Caro Conte .... La ringrazio dell’attenzione. Mi scriva in modo più specifico del suo (il mio l’ha ben colto) "programma di ricerca" e d’interessi. M. saluti, fls
Egregio La Sala,
per quanto mi riguarda sono partito dallo studio di singoli autori (maschili) e singole figure (femminili).
In particolare sono specializzato nella coppia Virgilio-Didone e Tacito-Agrippina.
Sul mio sito può farsi un’idea di tutto questo.
Nei miei studi è emerso che è esistito per lungo tempo un progetto nascosto consistente nella segreta adorazione dello spirito femminile e tendente a sostenere una maggiore rilevanza della donna nella società.
Coerente con tale orientamento, non è per me una novità cercare sempre di serrare le fila con persone eventualmente affini e interessate alla perpetuazione del progetto.
Da qui il semplice motivo della mia mail.
Niente di personale, ma semplicemente un impegno che prosegue nel tempo.
A sua disposizione, cari saluti,
Salvatore Conte
4.
From: Federico La Sala
To:’Salvatore Conte’
Sent: Thursday, July 19, 2007 10:44 PM
Subject: R: Caro Conte .... La ringrazio dell’attenzione. Mi scriva in modo più specifico del suo (il mio l’ha ben colto) "programma di ricerca" e d’interessi. M. saluti, fls
Caro Conte
La mia linea di ricerca è un po’ diversa e più generale - antropologica e filosofico-teologica, come ha potuto cogliere dalla citazione che ha ripreso. E guarda nella direzione di un bilanciamento del rapporto uomo-donna e del maschile-femminile sia nell’uomo sia nella donna, non di “singoli autori (maschili) e singole figure (femminili)”.
Se posso permettermelo, data la sua passione e la sua competenza, io le direi di spostare l’asse e ri-guardare la questione dal problema che Virgilio si pone davanti con “Enea-Didone” e del perché - nel loro possibile rapporto - non vede alternativa e futuro ......
M. cordiali saluti,
fls
5.
Da: Salvatore Conte Inviato: venerdì 20 luglio 2007 0.55 A: Federico La Sala
Oggetto: Re: Caro Conte .... La ringrazio dell’attenzione. Mi scriva in modo più specifico del suo (il mio l’ha ben colto) "programma di ricerca" e d’interessi. M. saluti, fls
Caro La Sala,
mi perdoni se non sono stato esaustivo. La mia ricerca "parte" da Didone e Agrippina ma abbraccia appunto tutta la linea storica umana.
D’altra parte la mia passione mi spinge fin sulla soglia dell’esperienza religiosa.
Dalla filologia traggo gli elementi per conoscere, ma non sono un positivista. Il fine è dedurre delle soluzioni per la nostra storia.
L’equilibrio santo tra i due generi cosmici, maschile e femminile, è ovviamente il fine ultimo.
Quanto a Enea e Didone, il caso non attiene tanto ai due generi. Qui occorre conoscere in profondità Virgilio. Qui abbiamo una divaricazione etica tra Male (Enea) e Virtus (Didone).
Ma va bene anche il suo approccio: lei pensa che Enea sia misogino, no?
In Virgilio l’esempio di equilibrio perfetto è dato da Didone e Sicheo.
Grazie e spero a presto,
sc
6.
From: Federico La Sala
To: ’Salvatore Conte’
Sent: venerdì 20/07/2007
Caro Conte
Ripartiamo dalla citazione da lei ripresa: il problema è planetario e di tutte le culture. Dappertutto si cerca di uscire dal conflitto (in questo caso - uomo-donna) e di instaurare buone-relazioni dentro e fuori di noi. Virgilio lo affronta e - attraverso la figura di Enea - cerca di dire quale la “ragione” e la “forza” che lo spinge. Alla base, c’è una ripresa del filo del “conosci te stesso” di Apollo.... “ O duri Dardanidi, la terra che per prima / vi generò dalla stirpe dei padri, la stessa vi accoglierà / reduci nel seno fecondo. Cercate l’antica madre. / Qui la casa di Enea dominerà su tutte le terre, / sui figli dei figli, su quelli che da loro nasceranno” (Libro III, vv. 94-98). Deposta la volontà di potenza - oggi, questo è il problema. E, di qui, il problema della “coppia” - all’interno e all’esterno, di ogni essere umano. Su questa strada - l’unica indicazione (a mio parere !!!) valida è quella evangelica (eu-angelo - buona-notizia), di Francesco e Chiara di Assisi, di Dante .....e sulla strada di Abramo: Dio è amore - in “volgare”!!! In latino, Deus charitas est (non il “Deus caritas est” del cieco mammonico e af-faraonico papa presente)!!!
Spero di esser stato chiaro - per il resto legga un po’ gli articoli presenti (a sinistra) nella sez. di “filosofia” del sito: www.ildialogo.org/filosofia .
M. cordiali saluti e buona giornata, fls
7.
From: Federico La Sala
To: ’Salvatore Conte’
Sent: Sunday, July 22, 2007 11:40 AM
Subject: Caro Conte .... La ringrazio dell’attenzione. Mi permette di utilizzare l’interessante dialoghetto per il sito?. Grazie. M. saluti, fls
8.
Da: Salvatore Conte Inviato: domenica 22/07/2007 12.22
A: Federico La Sala
Sì, certo, tutti i miei dialoghi sono pubblici, in quanto aperti, conoscibili e liberi.
Tuttavia stavo per rispondere alla sua ultima, dunque diciamo che il dialoghetto non è concluso.
Può dirsi che siamo al primo capitolo...
Cari Saluti,
SC
Trovo molto interessante questo "dialoghetto" intriso di neo-paganesimo e socialismo.
Tanti auguri !
Caro Biasi
Leggi e rileggi la Divina Commedia!!! Credo che la nostra laboriosissima ed eccellentissima redattrice abbia ripreso a ragione questo breve testo proprio per illuminare meglio le "radici" costantiniane della "una, santa, apostolica" cattolico-romana Chiesa di Cristo... e far cogliere tutta la falsità del "logo" ratzingeriano "Deus caritas est", e la connessa volontà di potenza di perpetuare sotto il nome di Maria (la nuova Madre) la antica e vecchia madre - Eva!!! Come se Dio non ci fosse ... e Cristo sia ancora Edipo!!!
Un "grazie" a Maria Paola. E un "grazie" a Te per l’attenzione e l’acuto "desiderio-di-sapere".
M. cordiali saluti
Federico La Sala
Lieber Fried(ens)r(e)ich,
ti allego un articolo di ANTONIO SOCCI che riflette il mio pensiero su "Padre Dante" e il suo "Poema Sacro".
Con grande stima e simpatia.
Tuo blasius nutritus
Dante, Benigni e la «maturità» del Governo
Dopo il ’68 l’Alighieri era considerato un reazionario, poi è arrivato Benigni e l’ “homo de sinistra” ha riscoperto il poema sacro e con lui i media. Ma siamo sicuri che - al di là dello sdoganamento mediatico-politico della Commedia - se ne conoscano almeno le nozioni basilari? La gaffe del Ministero pare dimostrare il contrario: un’abissale ignoranza, perfino da parte degli addetti ai lavori, del Poema sacro. Proporre Dante ai temi di maturità senza reinserirlo nei programmi è davvero una colossale presa in giro... Ma in mezzo a tanto squallore l’inizio di conversione di Benigni attraverso Dante è lo spettacolo più bello e struggente. Ma non lo capisce nessuno...
di ANTONIO SOCCI
A che serve il Ministero della Pubblica Distruzione? L’errore di quest’anno nel titolo del tema sulla Divina Commedia, non è uno dei tanti che di solito infarciscono i test per la maturità, a riprova del naufragio della scuola. No. Questo è una flop politico come la Finanziaria o l’indulto. Il segnale infatti doveva essere l’esatto opposto. Volevano far capire che Dante era stato ormai sdoganato da Roberto Benigni diventando uno "de noantri" (di sinistra come la doccia e il caffè, mentre il thè e il bagno nella vasca restano "di destra"). Il genio di Veltroni - che già sdoganò a sinistra Alvaro Vitali ed Edwige Fenech - se fosse stato già al posto di Prodi avrebbe fatto un’operazione di successo. A ruota di Benigni che ha "ripulito" l’Alighieri rendendolo potabile allo snobismo dell’ "homo progressista", il quale detesta e disprezza tutto ciò che sa di cattolicesimo o parla "di santi e Madonne". Il Dante di Benigni è diventato, da 5 o 6 anni a questa parte, un geniale compagno progressista che permette di ridere di Berlusconi, di Ferrara e dei preti come la Guzzanti e la Dandini. Un’operazione eccezionale. Per trent’anni - dopo il Sessantotto - il sommo poeta è stato considerato un vecchio barbogio da prendere a calci. Il nuovo potere scolastico lo ha squalificato come un palloso reazionario. Faceva testo - per la cultura Sessantottina - la canzoncina di Venditti, "Compagno di scuola", che si chiedeva «se Dante era un uomo libero, un fallito o un servo di partito» e dichiarava «la Divina Commedia, sempre più commedia». La nostra provinciale intelligentsia non si era accorta nemmeno che nel frattempo - nel ’68 parigino - un intellettuale (allora) maoista come Philippe Sollers, folgorato dal poema dantesco, ne tracciava su "Tel Quel" una mirabolante lettura strutturalista, facendone il capolavoro di tutti i tempi, l’Opera di tutte le opere, la lingua universale.
EPURATO DALLA SCUOLA
Da noi il "reazionario" Dante veniva puntualmente sputacchiato ed epurato dai programmi ministeriali dove irrompeva e dilagava la mitica "attualità", fatta di Che Guevara, ecologia, problemi sociali e balle varie. Ho fatto il liceo e l’università dopo il Sessantotto, fra il 1974 e il 1983, e di Dante non c’era più traccia. Cancellato come capitava a certi poeti in disgrazia nell’Urss di Stalin. Due amici di Comunione e liberazione mi fecero scoprire e amare - insieme alla bellezza del cristianesimo - anche la Divina Commedia, 25 anni prima di Benigni, che a quel tempo cantava ancora "L’inno del corpo sciolto". Folgorato da Dante mi tuffai a leggere tutto, feci la tesina della maturità e poi la tesi di laurea sulla Divina Commedia nello sconcerto dei professori che mi ritennero un integralista provocatore. A rivelare Dante a noi giovani cercatori del senso della vita, in quegli anni bui, c’era quasi solo don Giussani, umanissimo maestro di Bellezza che ci struggeva i cuori aprendoci folgoranti panorami di poesia e di musica. Eravamo una piccola compagnia (presa a sputi dappertutto) che - con il bel gioco di parole di Davide Rondoni - si può definire il "Clan Destino". Poi, vent’anni dopo, arrivò Benigni. E di punto in bianco l’ "homo de sinistra" e i media scoprirono Dante. Ed allora eccoli tutti emigrare in branchi, a migliaia, a riempire le piazze per ascoltare le declamazioni benignesche del poema sacro, a esprimere appassionato interesse, ad andare in sollucchero per la Commedia: 70 repliche in 27 città, 120 mila spettatori solo a Roma per il V canto dell’Inferno. «Da mesi fa il tutto esaurito, dovunque si sposti, ci sono già andati in 500 mila, la gente fa la fila al botteghino», scrive Siegmund Ginzberg su "Repubblica" a proposito del «fenomeno Benigni». Ed ecco la Rai che programma, sulla prima rete, per l’anno prossimo, una serie di letture dantesche di Benigni che si annunciano già un gran successo. È un’ottima idea, perché sottrae meritoriamente serate a "Porta a porta" e finalmente, nell’orrida tv dei reality e dei crimini familiari, fa irrompere la Bellezza. Si aprono però alcune domande. Prima: qualche rappresentante della cultura Sessantottarda ha fatto ammenda? Ha riconosciuto che intere generazioni di giovani sono state ingiustamente private di un tesoro così prezioso? E in tutta questa "Dantemania" si comprende davvero l’essenza cristiana della Commedia? E si riconosce, di conseguenza, l’insensatezza dell’attuale tentativo di sradicamento delle radici cattoliche della nostra cultura? O hanno sempre ragione loro e, dopo averlo epurato, oggi possono impunemente fingersi scopritori di Dante, continuando però a odiare e combattere il suo connotato cristiano? Seconda domanda: siamo sicuri che - al di là dello sdoganamento mediatico-politico della Commedia - se ne conoscano almeno le nozioni basilari? La gaffe del Ministero pare dimostrare il contrario: un’abissale ignoranza, perfino da parte degli addetti ai lavori, del Poema sacro, quello da cui è stata tratta la lingua italiana (caso unico, una lingua nazionale ricavata da un Poema letterario). Proporre Dante ai temi di maturità senza reinserirlo nei programmi è davvero una colossale presa in giro. Ieri Nadia Verdile, una professoressa, sul "Manifesto", ha addirittura invitato i ragazzi impegnati nella maturità «a chiedere alla magistratura di invalidare la stessa per palese difformità con le leggi dello Stato e per ingiustificato razzismo nei confronti degli studenti non liceali». Il ragionamento dell’insegnante è questo: «Le cantiche della Divina Commedia si studiano, anno per anno, solo nei licei! Maledizione, questi programmi sono legge dello Stato italiano». E siccome in tutti gli altri istituti superiori, tre quarti del totale, «non si insegna la lettura delle cantiche e dei canti della Divina Commedia», il tema di quest’anno della maturità rappresenta una palese ingiustizia. Si potrebbe obiettare che c’erano altri temi, «ma» replica l’insegnante «sarebbe razzismo e soprattutto negazione di un diritto, cioè quello di avere le stesse possibilità degli studenti liceali». A parte l’accusa di "razzismo", che mi pare qui non c’entri niente, resta un problema: se le nostre giovani generazioni sono tuttora derubate di questo eccezionale tesoro, il ministro Fioroni non ritiene che si debbano rivedere i programmi?
TROPPO CATTOLICO
Terza domanda: Benigni come lettore e interprete di Dante è attendibile? Vittorio Sermonti, che lo ha preceduto nelle letture pubbliche della Commedia, intervistato giovedì da "Magazine", ha punzecchiato il comico toscano: «Non mi dispiace come lo legge. Ma credo che il pubblico di Benigni esca dallo spettacolo uguale a quando ci è entrato e pensando che Dante sia attualissimo e un po’ fessacchiotto. Io rivendico il diritto all’inattualità, non la faccio così facile». Sermonti ha ragione, ma dipende solo da Benigni o anche dal suo pubblico che non si lascia mettere in discussione? In un’altra intervista Sermonti afferma che una «lettura appassionante» di Dante nella scuola è possibile e auspicabile, perché «costringerebbe a pensare al Cristianesimo non in termini edulcorati o sentimentali, ma permetterebbe di comprendere lo "scandalo" di cui è portatore. E gli studenti troverebbero molte risposte alle loro domande di senso». Ma è per questo che Dante a scuola continua ad essere bandito. Perché tipico dell’intellettualità italiana è non volersi mai mettere in discussione sul cattolicesimo e non si può capire davvero la Commedia senza far esperienza dell’infelicità del peccato, della bellezza del perdono e della felicità che dà la grazia. Benigni in realtà è un testimone convincente e commovente perché il suo stupore di fronte a Cristo o alla bellissima Vergine Maria, è evidente. In questo senso il suo inizio di conversione attraverso Dante è lo spettacolo più bello e struggente. Ma non lo capisce nessuno.
LIBERO 23 giugno 2007
Caro Biasi
vedo che l’aria dei Larici Pisani ti manca proprio!!! Perché continui ad abbeverarti a queste fonti vecchie e inquinate?! Non senti quanto livore e quanto risentimento trasuda dalla scrittura del Socci, per non dire niente di niente di Dante, per offenderlo e per celebrare solo il suo furioso guelfismo!!! Dante era ben altro - e, te lo ripeto, non era un "talebano"!!! Era un terziario francescano - e per lo Spirito di Gioacchino e di Assisi e per l’Italia!!!
Che ti devo dire?! Ripeto a te quanto ho appena scritto ad un altro lettore del sito a proposito dell’intervento del segretario del Papa:
Ma dove vivi - in Vaticano, ancora sotto la gonna di "mammona" ?!
Sei cristiano? E, allora, di chi credi di essere figlio?! Io sono figlio dell’Amore (= Charitas)di "Maria" e "Giuseppe" ..... e non del "Dio" (= Deus caritas est ) di "Giuseppe" e "Giorgio"!!!
Accogli un po’ di charità nel tuo cuore. Dai: apri gli occhi - tutti e due, e sveglia!!!
E, possibilmente, torna, torna a San Giovanni in Fiore!!!
Ad ogni modo, grazie per il tuo intervento e la tua attenzione.
M. cordiali saluti.
Per la Redazione
Federico La Sala
Ahi Costantin
di quanto mal fu madre
di EUGENIO SCALFARI (la Repubblica, 05.08.2007)
Tra le tante questioni che affliggono il nostro paese, insolute da molti anni e alcune risalenti addirittura alla fondazione dello Stato unitario, c’è anche quella cattolica. Probabilmente la più difficile da risolvere. Personalmente penso anzi che resterà per lungo tempo aperta, almeno per l’arco di anni che riguardano le tre o quattro generazioni a venire. Roma e l’Italia sono luoghi di residenza millenaria della Sede apostolica e perciò si trovano in una situazione anomala rispetto a tutte le altre democrazie occidentali. Se guardiamo agli spazi mediatici che la Santa Sede, il Papa, la Conferenza episcopale hanno nelle televisioni e nei giornali ci rendiamo conto a prima vista che niente di simile accade in Francia, in Germania, in Gran Bretagna, in Olanda, in Scandinavia e neppure nelle cattolicissime Spagna e Portogallo per non parlare degli Usa, del Canada e dell’America Latina dove pure la popolazione cattolica ha raggiunto il livello di maggiore densità.
Da noi le reti ammiraglie di Rai e di Mediaset trasmettono sistematicamente ogni intervento del Papa e dei Vescovi. L’"Angelus" è un appuntamento fisso. Le iniziative e le dichiarazioni dei cattolici politicamente impegnati ingombrano i giornali, il presidente della Repubblica, appena nominato, sente il bisogno di inviare un messaggio di "presentazione" al Pontefice, cui segue a breve distanza la visita ufficiale. Tutto ciò va evidentemente al di là d’una normale regola di rispetto e dipende dal fatto che in Italia il Vaticano è una potenza politica oltre che religiosa. Ciò spiega anche la dimensione dei finanziamenti e dei privilegi fiscali dei quali gode il Vaticano, la Santa Sede e gli enti ecclesiastici; anche questi senza riscontro alcuno negli altri paesi.
Infine il rapporto di magistero che la gerarchia ecclesiastica esercita sulle istituzioni ovunque vi sia una rappresentanza di cattolici militanti e la funzione di guida politica che di fatto orienta i partiti di ispirazione cattolica e quindi cospicui settori del Parlamento.
La questione cattolica è dunque quella che spiega più d’ogni altra la diversità italiana. Spiega perché noi non saremo mai un "paese normale". Perché una parte rilevante dell’opinione pubblica, della classe politica, dei mezzi di comunicazione, delle stesse istituzioni rappresentative, sono etero-diretti, fanno capo cioè e sono profondamente influenzati da un potere "altro". Quello è il vero potere forte che perdura anche in tempi in cui la secolarizzazione dei costumi ha ridotto i cattolici praticanti ad una minoranza. "Ahi Costantin, di quanto mal fu madre...".
La questione cattolica ha attraversato varie fasi che non è questa la sede per ripercorrere. Basti dire che si sono alternate fasi di latenza durante le quali sembrava sopita, e di vivace ed aspra riacutizzazione.
Il mezzo secolo della Prima Repubblica, politicamente dominato dalla Democrazia cristiana, fu paradossalmente una fase di latenza. La maggioranza era etero-diretta dal Vaticano e dagli Stati Uniti, il Pci era etero-diretto dall’Unione Sovietica. Entrambi i protagonisti accettavano questo stato di cose, insultandosi sulle piazze e dai pulpiti, ma assicurando, ciascuno per la sua parte, un sostanziale equilibrio. Quando qualcuno sgarrava, veniva prontamente corretto.
Ma la fase attuale non è affatto tranquilla, la questione cattolica si è riacutizzata per varie ragioni, la prima delle quali è l’emergere sulla scena politica dei temi bioetici con tutto ciò che comportano.
La seconda ragione deriva dalla linea assunta da Benedetto XVI che ritiene di spingere il più avanti possibile le forme di protettorato politico-religioso che il Vaticano esercita in Italia, per farne la base di una "reconquista" in altri paesi a cominciare dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Baviera, dall’Austria e da alcuni paesi cattolici dell’America meridionale. Le capacità finanziarie dell’episcopato italiano forniscono munizioni non trascurabili per sostenere questo disegno che ha come obiettivo l’esportazione del modello italiano laddove ne esistano le condizioni di partenza.
A fronte di quest’offensiva le "difese laiche" appaiono deboli e soprattutto scoordinate. Si va da forme d’intransigenza che sfiorano l’anticlericalismo ad aperture dialoganti ma a volte eccessivamente permissive verso i diritti accampati dalla "gerarchia". Infine permane il sostanziale disinteresse della sinistra radicale, che conserva verso il laicismo l’antica diffidenza di togliattiana memoria.
Si direbbe che il solo dato positivo, dal punto di vista laico, sia una più acuta sensibilità autonomistica che ha conquistato una parte dei cattolici impegnati nel centrosinistra. Ma si tratta di autonomia a corrente variabile, oggi rimesso in discussione dalla nascita del Partito democratico e dai vari posizionamenti che essa comporta per i cattolici che ne fanno parte. Con un’avvertenza di non trascurabile peso: secondo recenti sondaggi nell’ultimo decennio i cattolici schierati nel centrosinistra sarebbero discesi dal 42 al 26 per cento. Fenomeno spiegabile poiché gran parte dell’elettorato ex Dc si trasferì fin dal 1994 su Forza Italia; ma che certamente negli ultimi tempi ha accelerato la sua tendenza.
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Un fenomeno degno di interesse è quello del recente associazionismo delle famiglie. Non nuovo, ma fortemente rilanciato e unificato dal "forum" che scelse come organizzatore politico e portavoce Savino Pezzotta, da poco reduce dalla lunga leadership della Cisl e riportato alla ribalta nazionale dal "Family Day" che promosse qualche mese fa in piazza San Giovanni il raduno delle famiglie cattoliche.
Da allora Pezzotta sta lavorando per trasformare il "forum" in un movimento politico. "Non un partito" ha precisato in una recente intervista "ma un quasi-partito; insomma un movimento autonomo che potrà eventualmente appoggiare qualche partito di ispirazione cristiana che si batta per realizzare gli obiettivi delle famiglie. Sia nei valori che sono ad esse intrinseci sia per i concreti sostegni necessari a realizzare quei valori".
L’obiettivo è ambizioso e fa gola ai partiti di impronta cattolica, ma Pezzotta amministra con molta prudenza la sigla di cui è diventato titolare. Dico sigla perché al momento non sappiamo quale sia la sua realtà organizzativa e la sua effettiva spendibilità politica.
Sembra difficile che il nascituro movimento delle famiglie possa praticare una sorta di collateralismo rispetto ai settori cattolici militanti nel Partito democratico: la piazza di San Giovanni non sembrava molto riformista, le voci che l’hanno interpretata battevano soprattutto su rivendicazioni economiche ma non basterà riconoscergliele per acquistarne il consenso e il voto. A torto o a ragione le famiglie e le sigle che le rappresentano ritengono che quanto chiedono sia loro dovuto. Il voto elettorale è un’altra cosa e non sarà Pezzotta a guidarlo. Ancor meno i vari Bindi, Binetti, Bobba nelle loro differenze. Voteranno come a loro piacerà, seguendo altre motivazioni e inclinazioni, influenzate soprattutto dai luoghi in cui vivono e dai ceti sociali e professionali ai quali appartengono.
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Un elemento decisivo della questione cattolica e dell’anomalia che essa rappresenta è costituito dalla dimensione degli interessi economici della Santa Sede e degli enti ecclesiastici, del loro "status" giuridico e addirittura costituzionale (il Trattato del Laterano è stato recepito in blocco con l’articolo 7 della nostra Costituzione) e dei privilegi fiscali, sovvenzioni, immunità che fanno nel loro insieme un sistema di fatto inattaccabile. Basti pensare che la Santa Sede rappresenta il vertice di un’organizzazione religiosa mondiale e fruisce ovviamente d’un insediamento altrettanto mondiale attraverso la presenza dei Vescovi, delle parrocchie, degli Ordini religiosi, delle Missioni. Ma, intrecciata ad essa c’è uno Stato - sia pure in miniatura - che gode d’un tipo di immunità e di poteri propri di uno Stato e quindi di una soggettività diplomatica gestita attraverso i "nunzi" regolarmente accreditati presso tutti gli altri Stati e presso le organizzazioni internazionali.
Questa doppia elica non esiste in nessun’altra delle Chiese cristiane ed è la conseguenza della struttura piramidale di quella cattolica e della base territoriale da cui trasse origine lo Stato vaticano e il potere temporale dei Papi. Non scomoderemo Machiavelli e Guicciardini, Paolo Sarpi e Pietro Giannone per ricordare quali problemi ha sempre creato il potere temporale nella storia della nazione italiana, nell’impossibilità di realizzare l’unità nazionale quando gli altri paesi europei avevano già da secoli raggiunto la loro ed infine lo scarso senso dello Stato che gli italiani hanno avuto da sempre e continuano abbondantemente a dimostrare. Sarebbe storicamente scorretto attribuire unicamente al potere temporale dei Papi questo deficit di maturità civile degli italiani, ma certo esso ne costituisce uno dei principali elementi.
Purtroppo il temporalismo è una tentazione sempre risorgente all’interno della Chiesa; sotto forme diverse assistiamo oggi ad un tentativo di resuscitarlo che si esprime attraverso la presenza politica diretta dell’episcopato nelle materie "sensibili" il cui ventaglio si sta progressivamente ampliando.
Negli scorsi giorni l’atmosfera si è ulteriormente riscaldata a causa di una frase di Prodi che esortava i sacerdoti a sostenere la campagna del governo contro le evasioni fiscali e lamentava lo scarso contributo della Chiesa ad un tema così rilevante.
Credo che Prodi, da buon cattolico, abbia pronunciato quella frase in perfetta buonafede ma, mi permetto di dire, con una dose di sprovveduta ingenuità. Lo Stato non rappresenta un tema importante per i sacerdoti e per la Chiesa. Ancorché i preti e i Vescovi siano cittadini italiani a tutti gli effetti e con tutti i diritti e i doveri dei cittadini italiani, essi sentono di far parte di quel sistema politico-religioso che a causa della sua struttura è totalizzante. La cittadinanza diventa così un fatto marginale e puramente anagrafico; salvo eccezioni individuali, il clero si sente e di fatto risulta una comunità extraterritoriale. Pensare che una delle preoccupazioni di una siffatta comunità sia quella di esortare gli italiani a pagare le tasse è un pensiero peregrino. Li esorta - questo sì - a mettere la barra nella casella che destina l’otto per mille del reddito alla Chiesa. Un miliardo di euro ha fruttato all’episcopato italiano quell’otto per mille nel 2006. Ma esso, come sappiamo, è solo una parte del sostegno dello Stato alla gerarchia, alle diocesi, alle scuole, alle opere di assistenza.
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Come si vede la pressione cattolica sullo Stato "laico" italiano è crescente, si vale di molti mezzi, si manifesta in una pluralità di modi assai difficili da controllare e da arginare.
Le difese laiche - si è già detto - sono deboli e poco efficaci: affidate a posizioni individuali o di gruppi minoritari ed elitari contro i quali si ergono "lobbies" agguerrite e perfettamente coordinate da una strategia pensata altrove e capillarmente ramificata. Quanto al grosso dell’opinione pubblica, essa è sostanzialmente indifferente. La questione cattolica non fa parte delle sue priorità. La gente ne ha altre, di priorità. È genericamente religiosa per tradizione battesimale; la grande maggioranza non pratica o pratica distrattamente; i precetti morali della predicazione vengono seguiti se non entrano in conflitto con i propri interessi e con la propria "felicità". In quel caso vengono deposti senza traumi particolari.
Perciò sperare che la democrazia possa diventare l’"habitus" degli italiani è arduo. Gli italiani non sono cristiani, sono cattolici anche se irreligiosi. Questo fa la differenza.
Quella materia informe nelle mani del Principe
In un volume le lezioni di Louis Althusser su Niccolò Machiavelli e dell’uso creativo che ne ha fatto Marx. Un percorso di ricerca tutt’ora fertile per pensare una politica della trasformazione
di Fabio Raimondi (il manifesto, 04.08.2007)
Va dato merito a François Matheron d’aver raccolto in Politique et Histoire, de Machiavel à Marx (Seuil, pp. 394, euro 23) le lezioni tenute da Louis Althusser tra il 1955 e il 1972. L’attenzione per i classici del pensiero politico moderno, durante l’elaborazione dei suoi scritti più noti, da Pour Marx ai saggi di Lire le Capital (1965) fino agli Éléments d’autocritique (1972-74), è testimoniata dal corpo a corpo con le filosofie della storia (da Montesquieu a Marx) nel corso del 1955-56, con Machiavelli (nel corso del 1962), autore che l’ha affascinato molto più di Marx; e, infine, con Rousseau, nel corso del 1965-66, vagliato attraverso il confronto con Hobbes e Locke.
Il divenire della storia
L’interesse di Althusser per il «continente storia» aperto da Marx si mostra innanzitutto, in aperta polemica con Sartre e con tutto lo storicismo, nell’analisi delle filosofie della storia, nate nel XVII secolo in seguito alla progressiva ascesa della borghesia e costruite attorno a un’unità di senso (il progresso, la ragione, l’interesse o la libertà), che consentiva la ricostruzione apologetica del processo di affermazione dell’economia di mercato. Anche il giovane Marx, legato a una «filosofia della storia, fondata sull’idea filosofica dell’essenza umana» alienata e da emancipare, comprenderà solo poi che il paradosso delle filosofie della storia sta nel fatto che «hanno per oggetto e contenuto la stessa materia storica, ma la comprensione della materia storica non emerge dalla storia». Ragione per cui «la storia non è conosciuta attraverso se stessa», ma attraverso una norma «trans-storica» (Dio, Provvidenza, Essenza umana), anche se poi «questa norma si rivela profondamente legata alla storia», perché «è essa stessa un elemento, un avvenimento, un fatto storico. Il vizio filosofico della filosofia della storia dipende dal fatto che il filosofo della storia fa della propria coscienza presente la norma trascendente in nome della quale giudica la storia».
Per Althusser questa è dunque la premessa da cui Marx parte per «distruggere la filosofia della storia» riportando «la norma, che essa impone alla storia, alla storia stessa». Si dà scienza della storia, anche se la norma stessa è storica, perché Marx non mette in relazione solo le «condizioni sociali» (lo «Stato») e l’«ideologia» (la «coscienza») della storia, ma anche le sue «condizioni economiche» (le «forze di produzione»). In questo modo il materialismo storico scopre «che la totalità di una società storica determinata comprende in sé il principio stesso del proprio divenire e della propria trasformazione: la contraddizione tra forze di produzione e rapporti di produzione». Il «marxismo (materialismo storico), dunque, non è un sapere assoluto ma una scienza aperta», perché continuamente determinata dall’esito della lotta di classe.
È a questo punto che la riflessione di e su Machiavelli interviene a precisare l’ipotesi marxiana. Il suo «anti-utopismo», infatti, consiste nell’affermare che uno stato «nuovo» può essere costruito solo per l’intervento di una forza esterna su una «materia» (politica) inerte. Uno stato corrotto non si cura da sé, ma necessita di una forza esterna che lo destrutturi e poi gli ridia forma. Ma, proprio perché esterno, il tempo di questo «avvenimento» è imprevedibile, legato a una «contingenza radicale».
L’intollerabile virtù
n queste circostanze coesistono «l’impossibilità di mostrare il legame tra la necessità che annuncia il Principe nuovo e la contingenza radicale della sua nascita. Colui che deve fondare l’ordine è richiesto da una necessità storica, ma è anche colui che deve immettere, nel disordine dei tempi, nel puro negativo della fortuna, il positivo e l’ordine della necessità che produrrà la sua virtù».
Non vi è alcun luogo in cui un soggetto esista in forma potenziale o inconsapevole (l’Italia, il proletariato, la moltitudine), ma solo un vuoto ontologico radicale, dove non esiste nemmeno la «natura umana». Machiavelli pensa la politica senza ricorrere all’ontologia e quindi all’antropologia, differenziandosi sia da Spinoza sia da Hobbes. Un gesto ripreso solo dal Marx maturo, visto che nella Questione ebraica la carica rivoluzionaria del proletariato sta nel fatto che la contraddizione tra «essenza umana e inumanità della sua esistenza» è «ontologicamente intollerabile». Un gesto che molto marxismo non ha mai compreso, ma che anche molte alternative a esso continuano a praticare nell’illusione di poter fondare nell’ontologia l’andamento delle lotte.
Nessuna filosofia della storia è dunque pensabile, perché come nessuna «natura umana» fonda la politica, così nessuna teoria del cambiamento può fondare la storia. Per questo i «concetti» machiavelliani sono diversi da quelli del pensiero politico moderno e per questo la sua riflessione continua a essere un punto di riferimento per tutti coloro che vogliano provare a pensare un «inizio radicale» non politicamente derivabile dalle condizioni presenti. L’«assolutamente Nuovo» non è dunque la repubblica né alcun tipo di principato o altro che già esista, ma «l’accadimento di una forma politica non prefigurata nella realtà. Un avvenimento non concettualizzabile sotto una qualunque forma, antica o moderna». Machiavelli pare così arrestarsi di fronte alla regola prudenziale che afferma la necessità di prepararsi a cogliere l’occasione, che si manifesterà come un evento (incontro o rottura) imprevisto.
Solo Jean-Jacques Rousseau prima di Marx ha seguito Machiavelli nell’esporre l’aleatorietà del processo politico, perché pensa la storia non come continuum temporale, ma sulla base di una serie di rotture (ora naturali ora umane), cioè di «salti» che introducono ciascuno una regola contingente facendola diventare necessaria; dato che «la struttura dei salti è diversa per ciascuno» e «ogni salto è specifico di ogni tappa», allora «una legge specifica governa ciascuna delle fasi ed è la legge della loro struttura».
In Rousseau Althusser vede dunque la possibilità di pensare una storia differenziale, cioè una storia priva di un piano trascendentale, formata da una pluralità di storie, mosse ognuna da una propria regola, e interagenti con altre storie in modo contingente ossia senza seguire il percorso preordinato di uno sviluppo unico e necessario.
L’inaspettato miracolo
Ogni storia, dunque, ha in sé la propria regola e non c’è nessun tempo (ideologico) unico e universale e quindi nessuna storia universale, ma solo specifiche strutture di storicità, che vanno di volta in volta individuate e portate alla luce esaminandone, come ad esempio ha fatto Michel Foucault nel caso della follia o della clinica, lo sviluppo. Quest’ipotesi fa saltare l’ideologia delle «magnifiche sorti e progressive» del movimento operaio internazionale e costa ad Althusser l’accusa di non essere marxista, per quanto egli abbia sempre cercato di spiegare come proprio questa concezione della storia sia quella inaugurata - benché non svolta - da Marx a partire dal Capitale.
Anche per Rousseau la società nasce dal suo vuoto (lo stato di natura), in cui non c’è alcuna necessità e teleologia, a causa di un incontro improvviso e inaspettato: quello di un uomo con un altro. La storia, segnata da continue ma imprevedibili rotture è posta sotto il segno della «precarietà» e della continua trasformazione, tanto che mantenere l’unità (del popolo ad esempio) «sembra un miracolo». Necessità di forma e sua impossibilità caratterizzano dunque, per Althusser, l’agire politico dell’uomo, ma solo affrontando quest’insanabile conflitto si apre lo spazio della soggettivazione.
50 anni fa: su l’Unità l’addio di Calvino al Pci
di Alessia Grossi *
È il 7 agosto 1957. Italo Calvino si dimette dal Pci. «Cari compagni devo comunicarvi la mia decisione ponderata e dolorosa di dimettermi dal partito». Con questa lettera lo scrittore piemontese si univa alle fila dei fuoriusciti. Per lui, come per altri arriva immediata la stroncatura del partito. In questi stessi giorni, a cinquant’anni di distanza da allora l’Unità pubblica un inserto con le pagine storiche del giornale. Momenti salienti come questo in cui la storia d’Italia e degli uomini che l’hanno fatta si incrociano sulle pagine del nostro giornale.
L’articolo-lettera di Calvino appare sulla settima pagina del giornale, allora organo del partito comunista. Il titolo esplicativo è già un anatema: «Le dimissioni di Calvino dal Pci condannate dal C.D. di Torino». Subito sotto, in basso a destra, la risposta del comitato direttivo. Il tono più che di condanna è di recriminazione. In quegli stessi mesi, dalle pagine di Città Aperta e di Rinascita, Calvino e Ferrara polemizzano con racconti ambientati nel mar delle Antille.
La decisione di Calvino di abbandonare il Pci arriva in agosto, ma sono già in molti ad aver lasciato il partito dagli ultimi mesi del ’56. Sono gli anni della diaspora, segnati dai fatti di Ungheria, dalla lettura che di quegli avvenimenti dà il Pci e anni in cui il dibattito aperto dalla questione ungherese si riflette necessariamente per scrittori e giornalisti, sulle pagine dell’Unità. Coloro che come Calvino, Antonio Giolitti, Fabrizio Onofri, Eugenio Reale così come i 101 intellettuali che firmano il manifesto di dissenso, solo per citare qualche esempio, prendono le distanze dalla linea di Togliatti e del Pci. «I compagni e gli avversari» devono sapere, dice lo scrittore piemontese e non solo lui. E con lo stesso criterio i dirigenti accusano i rivoltosi di voler dare spettacolo della crisi del partito dandola in pasto con i loro articoli alla stampa borghese. Il fatto è che dopo la rivolta d’Ungheria, il 1957 per molti intellettuali e militanti doveva essere l’anno della svolta. La svolta rinnovatrice che sarebbe dovuta uscire dall’VIII congresso del Pci . Coloro che rimasero delusi dal congresso, i cosiddetti rinnovatori, non videro altra possibilità che quella di uscire dal partito. Entrambe le parti, fuoriusciti e militanti, misero bianco su nero le rispettive delusioni. Da parte di entrambi la speranza di un possibile rincontro.
Nel caso di Calvino questi anni difficili e questi avvenimenti, contrariamente alle sue dichiarazioni iniziali, segneranno un lento ma progressivo allontanamento dalla politica .
La lettera di dimissioni di Calvino
Italo Calvino si dimette dal Pci. Come altri compagni chiede che la sua lettera venga pubblicata sul L’Unità. Le ragioni della sua fuoriuscita sono chiare: «La via seguita dal Pci [...]» dichiara Calvino dalla settima pagina dell’Unità del 7 agosto 1957 «attenuando i propositi rinnovatori in un sostanziale conservatorismo, m’è apparsa come la rinuncia ad una grande occasione storica». La delusione dello scrittore è evidente. Il suo dissenso, oltretutto, sarebbe solo d’ostacolo alla sua partecipazione politica. Astenersi da «ogni attività di Partito e dalla collaborazione alla sua stampa» per evitare una «nuova infrazione disciplinare» non è più un comportamento plausibile per lo scrittore piemontese.
Per Calvino, entrato nel Pci dopo aver combattuto contro i nazifascisti, iniziato alla scrittura con la collaborazione con Il Politecnico e L’Unità quello di voler essere un intellettuale indipendente resta una desiderio insindacabile. «Credo che nel momento presente quel particolare tipo di partecipazione alla vita democratica che può dare uno scrittore e un uomo d’opinione non direttamente impegnato nell’attività politica sia più efficace fuori dal Partito che dentro» spiega nella lettera ai compagni. Ma lo scrittore sa benissimo come il termine indipendenza, per lui tanto necessario non verrà accolto in modo benevolo dal partito. E, si affretta a spiegare, «non ho mai creduto (neanche nel primo zelo del neofita) che la letteratura fosse quella triste cosa che molti nel Partito predicavano e proprio la povertà della letteratura ufficiale del comunismo mi è stata di sprone nel cercare di dare al mio lavoro di scrittore il segno della felicità creativa: credo di essere sempre riuscito ad essere, dentro il Partito, un uomo libero. E continuerò ad esserlo» Così Calvino saluta i compagni. «Non rinnego il passato» dice «vorrei rivolgere un saluto anche ai compagni più lontani dalle mie posizioni che rispetto come combattenti anziani e valorosi, al cui rispetto, nonostante le opinioni diverse, tengo immensamente e a tutti; e a tutti i compagni lavoratori, alla parte migliore del popolo italiano dei quali continuerò a considerarmi il compagno».
La stroncatura del comitato direttivo di Torino
«Il Comitato direttivo ritiene necessario esprimere il proprio giudizio sugli argomenti con i quali Italo Calvino appoggia la sua decisione». La risposta del direttivo è inevitabile. Calvino aveva chiesto la pubblicazione della lettera di dimissioni per sottrarsi ai colloqui previsti dallo statuto che - aveva detto lo scrittore - non avrebbero fatto che «incrinare la serenità» del suo commiato. Il partito non accetta il tacito accordo e replica immediatamente. «Nessuno contesta a Calvino il diritto di avere una sua opinione sul modo con cui il rinnovamento si va compiendo nel Partito, ma ciò che è da respingere è che egli pretenda di fare del proprio giudizio l’unica misura obiettiva di valutazione e che da ciò tragga la grave conclusione di lasciare il Partito» - tuona il comitato direttivo da Torino. Calvino è accusato di aver preso le distanze «dal metodo di valutazione marxista, per il quale dovrebbe essere chiaro che le posizioni e le esperienze dei singoli confluiscono nel dibattito a formare insieme quella superiore realtà politica e storica che è rappresentata dalle posizioni collettive del Partito». Così stando le cose le ragioni dello scrittore sono in contraddizione l’una con l’altra. Parla di indipendenza, reagiscono dal comitato. «Indipendente da chi e da cosa?», si chiedono. Le formule di Calvino su un nuovo tipo di partecipazione alla vita del partito sono solo «formule che propongono una inaccettabile rinuncia». Il tono di recriminazione non cessa. «Proprio nel momento attuale» continua la lettera, la decisione dello scrittore denota «un cedimento rispetto alle sue responsabilità».
Ma la stroncatura arriva sul finale, apparentemente incoraggiante. «È da respingere con fermezza l’opinione che il Pci sia andato attenuando i propostiti rinnovatori in un sostanziale conservatorismo». Da qui la rimarcata intenzione da parte del direttivo di restare sulle sue posizioni e il vuoto augurio a fine lettera che «Calvino riesca a ritrovare la giusta posizione di lotta, propria di un intellettuale militante quale Calvino dichiara ancora di voler essere». Fermo restando la condanna del suo gesto e la critica dei suoi errori da parte del Pci.
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* l’Unità, Pubblicato il: 07.08.07, Modificato il: 07.08.07 alle ore 14.35
Ma, se leggiamo Dante secondo l’"ipotesi di rilettura della Divina Commedia" da me avanzata, anche la lettura del Decameron - pur apprezzando la lettura fattane da Cardini - cambia ... e non nel senso di una elegia del passato!!! (fls)
Nella peste un flagello morale
Sul tragico sfondo di una malattia che rese vano il conteggio delle vittime, l’ultimo libro di Franco Cardini, «Le cento novelle contro la morte. Boccaccio e la rifondazione cavalleresca del mondo»
di Marina Montesano (il manifesto, 08.08.2007)
I secoli XII e XIII erano stati, per l’Europa, un periodo di splendida crescita: le rendite agricole erano ottime, le città toccavano l’apice del loro sviluppo, tanto sotto il profilo della crescita demografica, quanto sotto quello urbanistico, economico e artistico. È vero che verso gli inizi del Trecento qualcosa cominciava a scricchiolare, ma nessuno si aspettava che, appena prima della metà del secolo, un’ondata di morte avrebbe travolto il continente. Nel 1346 la peste, proveniente dall’Asia centrale, colpì Tabriz e Astrakan e da lì, lungo la via dei fiumi, raggiunse la Crimea e il Mar Nero. Nel 1347 a Caffa, colonia genovese, durante un assedio, i mongoli dell’Orda d’Oro gettarono i corpi di appestati oltre le mura; alcune navi, che dal Mar Nero navigavano per giungere nella madrepatria, cominciarono a diffondere il micidiale bacillo lungo gli scali del Mediterraneo. Alla fine di quell’anno la peste si era manifestata a Cipro, Alessandria, il Cairo, Messina, Marsiglia, Genova e nel 1348 devastava i porti atlantici, per spingersi poi in quasi ogni zona dell’Europa.
Comincia con questo terribile affresco il nuovo libro di Franco Cardini: Le cento novelle contro la morte. Giovanni Boccaccio e la rifondazione cavalleresca del mondo, (Salerno 2007, pp. 153, euro 11) descrivendo quella che fu senza dubbio una tragedia immane, sebbene sia impossibile stabilire precisamente quale fosse stato il numero delle vittime: i dati a nostra disposizione non lo consentono, in primo luogo per la mancanza di fonti in un’epoca in cui le raccolte di dati anagrafico-catastali erano assai sporadiche se non inesistenti, ma anche perché i morti furono talmente tanti da rendere impossibile ogni conteggio, cosa che del resto avvenne anche in tempi molto più vicini ai nostri, quando neppure per l’epidemia di influenza nota come «spagnola» fu possibile fornire cifre esatte. Si calcola tuttavia che la popolazione dell’Europa occidentale fosse di circa ottanta milioni di abitanti all’inizio del contagio, e che il morbo ne uccise tra i venti e i venticinque milioni negli anni 1347-50, sebbene la sua diffusione non fosse uniforme: alcune regioni furono solo sfiorate dalla pestilenza, in altre la mortalità superò il 60%.
Le ricadute della peste sulla economia europea hanno fatto discutere a lungo: è ancora oggetto di controversia se si trattò di un fattore «riequilibrante» o distruttivo. E se tentare una risposta onnicomprensiva è impresa vana, molto più apprezzabile è l’effetto che la pestilenza ebbe sull’immaginario, le mentalità, la produzione artistica. Né avrebbe potuto essere altrimenti. Anche in una società qual era quella trecentesca, che aveva con il pensiero della morte maggiore dimestichezza, un morbo di tale potenza era noto soltanto attraverso la letteratura del passato: la peste di Atene del 429 a.C., descritta da Tucidide e ripresa da Lucrezio, quella di Roma del 66 d.C. di cui aveva scritto Tacito, la «peste di Giustiniano» (del 542) sulla quale si diffonde Procopio da Cesarea; l’ultima ondata epidemica documentata in l’Occidente risaliva al 767 e probabilmente era stata circoscritta all’Italia meridionale. Inoltre, lo stesso termine pestis era assai generico, tanto che Cardini ricorda come anche forme epidemiche diverse da quella che solo a partire dalla fine dell’Ottocento è stata definita Pasteurella pestis e Yersinia, quali tifo e vaiolo, venivano indicate col nome generico di «peste». Dunque, lo spaventoso contagio dal quale fu colpita la società europea era sostanzialmente sconosciuto, non c’erano strumenti per indagarne né le cause né le cure.
Se siamo soliti legare cicli artistici, come quelli celebri del Camposanto di Pisa, al susseguirsi di pestilenze che da quel momento in poi (la peste rimase infatti endemica a lungo, manifestandosi con nuove ondate nei secoli successivi) squassarono l’Europa, il legame tra il Decameron e la peste della metà del Trecento è però più complesso, a patto di non fermarsi ai suoi elementi più immediati e formali: i giovani protagonisti si riuniscono per sfuggire alla peste che nell’anno 1348 impazza in città e che Boccaccio - scrive Cardini - racconta come un «grande dies irae, affresco potente dell’agonia d’una città che già Dante aveva visto come condannata dalle scintille malefiche della superbia, dell’avidità, dell’invidia». Non è solo l’orrore della morte fisica, individuale, a sconvolgere Boccaccio, quanto il destrutturarsi sotto i suoi occhi dell’intera società fiorentina e soprattutto del suo ceto dirigente: del resto, in una società organizzata sulla base di consorterie, non c’è crisi peggiore di quella che travolge lignaggi e legami familiari.
Mentre quasi nessuno contesta la struttura unitaria del Decameron e il suo significato catartico rispetto alla tragedia del contagio, il dibattito sull’interpretazione generale dell’opera è invece acceso e ha prodotto una bibliografia smisurata. Cardini rivisita l’insieme dell’opera, ’cornice’ e novelle, con grande attenzione ai significati simbolici di cui è costellata: il tutto per concludere, in modo sorprendente, ma al tempo stesso assai convincente, che la rifondazione del mondo operata dai giovani fiorentini attraverso il racconto (e quello della parola quale elemento fondante della realtà è tema sul quale ci si potrebbe soffermare a lungo, rintracciandone facilmente la transculturalità o, se si preferisce, l’archetipicità) non va nella direzione di un’ode al futuro, ma in quello di un’elegia del passato. Una elegia dei suoi valori più alti, che per Boccaccio non sono quelli cittadini, mercantili e borghesi, bensì quelli cavallereschi, distrutti dalla cupidigia dei suoi tempi, rispetto alla quale la peste appare davvero come un flagello morale, ancor prima che materiale.
Caro Ambasciatore del Regno Unito in Italia, Amici del British Council che spesso ho visitato, grato della Vs. ospitalità e della Vs. civile accoglienza,
sono addolorato di rilevare che purtroppo il Vs. Paese, in altri tempi glorioso, ha questa volta toccato il fondo. La deportazione in stile nazista della innocente ragazza iraniana di nome Pegah è la fine della Vs. civiltà millenaria. In nulla l’aereo British Airways che porterà a morte quell’innocente sarà diverso dai treni della morte di HITLER. Questa scelleratezza Vi sarà ricordata ogni volta che chiederete asilo fra gli Esseri Umani. Parlare di democrazia fra 3 giorni vi sarà impossibile. Roma e tutti i popoli del Mediterraneo hanno una memoria lunghissima e la bandiera britannica sarà segno di sventura per tutte le persone giuste. Eppure anche Voi riceveste da Dio il verbo della ragione e la Vs. Onorata Patria nutrì Boudicca e Chaucer e Tommaso Moro e tante insigni persone per giustizia e umanità. Avete toccato il fondo dell’abominio: fermatevi e ragionate. Intanto fermate l’aereo della Morte, con il quale sarà deportata nei campi di sterminio, PEGAH EMAMBAKHSH, innocente. O almeno consegnatela ad una delle milioni di persone civili che le darebbero volentieri asilo a casa loro. Il sangue lapidato di Pegah spegnerà la Vs. Civiltà. Pensateci solo per un attimo. Grazie.
Dott. Salvatore Conte (Les Amis d’Elissa) - Paris/Rome/Tunis/Beiruth http://laroutedelissa-friends.over-blog.com/