MEMORIA DELLA LIBERAZIONE: COME TROVARE SE STESSI E SE STESSE E NON MORIRE NELLE BRACCIA DI MAMMONA E DI MAMMASANTISSIMA
In spirito di carità ("charitas") ... Non vuol affatto dire quello che generalmente e per lo più si pensa, leggendo e parlando come da sonnambuli e sonnambule facciamo - prevenuti/e e accecati/e dall’alto delle nostre "sacre" interpretazioni dominanti!
IN SPIRITO DI CARITÀ ("CHARITAS"). .... non significa parlare con se stesso o con se stessa nel sonno e nel sogno e pensare di parlare con un altro o con un’altra e recitare il proprio "cogito, ergo sum"!!!
Significa soprattutto che una persona (un sole) cerca di parlare con un’altra persona (un sole), alla luce del Sole - da essere umano a essere umano, in condizione di veglia!
Per ben agire e ben comunicare (anche solo con se stessi o con stesse!), come insegna Dante, ci vogliono TRE SOLI (la cosiddetta - impropriamente - teoria dei "due soli")!!!
CHARITAS è la parola chiave del messaggio evangelico ed è il Nome stesso del Dio-Padre di Gesù: "Deus charitas est"!
Se traduciamo correttamente questa parola con "amore", meglio con "amore pieno di grazia", cominciamo a capire un pochino di più!!! Poi se comprendiamo che Maria e Giuseppe sono colmi di "charitas", andiamo ancora di più in profondo, non perdiamo il filo del "Logos" e cominciamo a capire di Chi è Figlio Gesù, e di Chi siamo Figli, noi esseri umani.....Di Chi (nel duplice senso dell’Amore pieno di Grazia ("Charis") di "Maria e Giuseppe" e simbolicamente del "Chi" (X - lettera greca)! Non certo di un Geova con la barba bianca o di Belzebù con le corna e la coda!!!
Il simbolo Chi-rho con Alfa e Omega, Catacombe di Domitilla, Roma:
USCIRE DALL’EGITTO. In exitu Israel de Aegypto....
Che cosa vuol dire che «A ogni generazione ogni individuo è tenuto a considerarsi come se fosse colui che andò via dall’Egitto»? Significa uscire dallo stato di minorità, e diventare maggiorenne, prendere la propria "croce" (“se stesso”), e decidersi se portarlo sulla via del Padre Nostro e di Gesù ( Dio-Charitas) o sulla via del proprio egoismo e dei propri affari (Mammona-Caritas).
LA LEZIONE DEL "CANTICO DEI CANTICI": "AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" (trad., Giovanni Garbini). Capire e ricordarsi, innanzittutto che è scritto nel Cantico dei cantici (8.6) - e, paradigmaticamente, il Cantico narra dell’Amore pieno di grazia di due esseri umani, un uomo e una donna!!!
A ben rifletter-si, "Amore è più forte di Morte" è LA CHIAVE STESSA DEL MESSAGGIO DI MOSE’, DELL’ARCA DELL’ALLEANZA, DI ELIA... E DI GESU’ - "LA STELLA DELLA REDENZIONE"(Franz Rosenzweig)! E ci dice chiaramente che essa NON HA A CHE FARE NULLA CON NESSUN SUPER-ESSERE, NESSUN UOMO-DIO o DIO-UOMO, O - CHE E’ LO STESSO - NESSUNA DONNA-DIO o DIO-DONNA, MA HA A CHE FARE SOLO CON L’AMORE ("Charitas") CHE RENDE POSSIBILE IL FIGLIO, GESU’... COME ELIA E LO STESSO MOSE’ (il "Logos", in carne e ossa) E RI-COMPRENDERE E PERFEZIONARE LA STESSA LEGGE MOSAICA E L’INTERO MESSAGGIO BIBLICO.
Trasfigurazione (Raffaello) |
Che cosa vuol dire che «A ogni generazione ogni individuo è tenuto a considerarsi come se fosse colui che andò via dall’Egitto»?
Vuol dire che, se ogni essere umano vuole vivere e non morire, deve uscire dallo stato di minorità (nel duplice senso - personale e politico), diventare maggiorenne, prendere la propria "croce" (“se stesso”), e - ripetiamo - decidersi se mettersi sulla via del Regno-Terra del Padre Nostro e di Gesù ( Dio-Charitas) o sulla via del Regno-Terra della egolatria e degli affari propri (Mammona-Caritas).
Vuol dire, se vogliamo vivere e non morire, cominciare ad agire e a parlare in prima persona e portare se-stessi e se-stesse re-sponsa-bilmente sulla strada della carità ("charitas").... vale a dire, sulla strada stessa della ri-nascita, della resurrezione e della risurrezione di noi stessi e di noi stesse - quella dell’Amore che muove il Sole e le altre stelle.
Dante l’aveva capito e l’ha detto e scritto non solo nella "Commedia", ma soprattutto nella "Monarchia" ove chiarisce che cosa significa camminare sulla strada della giustizia e del retto amore ("charitas") e propone la metafora dei TRE SOLI: i DUE SOLI sulla Terra, e il TERZO - IL PRIMO E L’UNICO - Sole ("Deus charitas est": 1 Gv. 4.8) in Cielo. E chiarisce anche come e perché essa sia l’unica possibilità per uscire dall’Inferno e ritrovare la strada per il “Paradiso terrestre” e il“Paradiso celeste”.
Federico La Sala (10.04.2012)
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr. (cliccare sulla zona dei titoli evidenziata in rosso):
DANTE E I "TRE SOLI" - DELLA LINGUA E DELLA POLITICA D’ITALIA. DANTE: L’UNIVERSALE MONARCHIA DEL RETTO AMORE. Per una rilettura del "De Vulgari Eloquentia" e della "Monarchia"
COSMOLOGIA (""MONDO"), TEOLOGIA ("DIO"), ANTROPOLOGIA ("UOMO"): USCIRE DALLA CAVERNA PLATONICA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”...
LA TRE-SFERA: DANTE CON EINSTEIN - E KANT. Una bella e formidabile ipotesi di Carlo Rovelli, da coniugare con il lavoro di Kant - dalla "Storia universale della natura e teoria del cielo" alla "Critica della facoltà del giudizio".
P.S.
E’ BENE RICORDARSI CHE SIAMO TUTTI FIGLI E TUTTE FIGLIE DI CAINO ....
E CERCARE DI NON CONTINUARE AD UCCIDERE NOI STESSI E NOI STESSE E IL PADRE DI GESU’ E IL PADRE NOSTRO:
L’AMORE ("CHARITAS") CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE - CHE RENDE SOLARI I DUE CHERUBINI SULL’ARCA DELL’ALLEANZA DOVE E’ CUSTODITA LA LEGGE, IL PADRE NOSTRO, E LO STESSO GESU’ NELLA VISONE DI FRANCESCO DI ASSISI E DI PAOLA E NELLA VISIONE (DEL CARRO DI EZECHIELE) DI GIOACCHINO DA FIORE!!!
NON CHIUDERE UN OCCHIO, NE’ CHIUDERE GLI OCCHI, MA APRIRE GLI OCCHI!
AL MANGIARE IL MINESTRONE DEL FARAONE-DIO E AL BUTTARSI DAL FINESTRONE, C’E’ ANCORA E SEMPRE UNA TERZA VIA - LA PRIMA E L’UNICA, QUELLA DEI "TRE SOLI"!!!
(Federico La Sala)
"AL DI LA’ DEI CIELI. LA SEDE DEL FILOSOFO TEDESCO NIETZSCHE": "[...] Le sue parole furono ardite e il suo pensiero grandioso, spaccò in due gli Europei con la spada del suo dire. Nessun compagno trovò alla sua estasi: estatico, lo considerarono pazzo [...]" (Muhammad Iqbal, "Il Poema celeste" - 1932, Bari 1965).
LA GAIA SCIENZA. Si deve imparare anche l’amore *
Si deve imparare ad amare. Ecco quel che ci accade nella musica: si deve prima imparare a udire una sequenza e una melodia in genere, a enuclearla nell’ascolto e a distinguerla isolandola e delimitandola come se avesse una vita propria; quindi bisogna sforzarci e impiegare la nostra buona volontà per sopportarla, malgrado la sua estraneità, bisogna fare un esercizio di pazienza di fronte al suo sguardo e alla sua espressione, considerare con benevolenza quel che c’è di inusitato in essa - finalmente arriva un momento in cui ne abbiamo preso l’abitudine, in cui l’attendiamo, in cui si ha il presentimento che ne sentiremmo la mancanza, se non ci fosse più; e così essa continuamente dispiega la sua violenta suggestione e il suo incantesimo, finché non si sia diventati i suoi umili ed estasiati amanti, per cui non v’è più niente di meglio da chiedere al mondo se non la melodia e ancora la melodia.
Questo ci accade però non soltanto con la musica: proprio in questo modo abbiamo imparato ad amare tutte le cose che oggi amiamo. In definitiva, siamo sempre ricompensati per la nostra buona volontà, per la nostra pazienza, equità, mitezza d’animo verso una realtà a noi estranea, quando lentamente essa depone il suo velo e si manifesta come una nuova inenarrabile bellezza: è questo il suo ringraziamento per la nostra ospitalità. Anche chi ama se stesso, lo avrà appreso per questa strada: non ce ne sono altre. Si deve imparare anche l’amore.
F. Nietzsche, La gaia scienza, IV, fr. 334, tr. it. di F. Masini ("Opere",vol. V, t. II,) Adelphi, Milano 1991.
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
ANATHEMA SIT."Tradirei la verità, cioè quell’aspetto della verità che io scorgo, se abbandonassi la posizione in cui mi trovo sin dalla nascita, cioè il punto di intersezione tra il cristianesimo e tutto ciò che è fuori di esso. C’è un ostacolo assolutamente insormontabile per me, ed è l’uso di due brevi parole: anathema sit. Mi schiero al fianco di tutte le persone che, a causa di quelle due brevi parole, non possono entrare nella Chiesa, che deve essere invece accoglienza universale"(Simone Weil, Autobiografia spirituale)
FLS
TEATRO (STORIA) E METATEATRO (METASTORIA): GIUDA E GESU’, E, IL FILO DEL "SERPENTE", LA VIA PER USCIRE DALL’INFERNO DELLA #DIALETTICA TRAGICA (PLATONICO-PAOLINA ED HEGELIANA).
ALLA #LUCE DELLA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SUL TEMA PROPOSTO IN "Cain and Jesus in Gertrude’s Closet, Hamlet 3.4" (Paul Adrian Fried)), forse, è ora di decidersi ad accogliere coraggiosamente che per #Shakespeare, come per #DanteAlighieri, nel cammino verso la #sorgente stessa della Legge, "l’amor che move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145), l’unica possibilità di raggiungere la meta sta proprio nel pensare insieme (dialogicamente e amorosamente) la identità e la differenza tra i #due "fratelli" (al di là "del "bene e del male") e, così, capire che nel "cuore" di "entrambi" si annida (anagrammatica-mente) un "serpent-e" di #speranza, la modalità stessa del "#Trasumanar" (Par. I.70), di andare oltre l’#androcentrismo (e il "#cristocentrismo") della #cosmoteandria della "tragedia" e della "caduta". Rileggere la #Commedia: "E prima, appresso al fin d’este parole, / ‘#Sperent_in_te’ di sopr’a noi s’udì: a che rispuoser tutte le carole." (Dante Alighieri, Par. XXV, 97-99).
A CHE GIOCO GIOCHIAMO?! DOPO DUEMILA ANNI DI CRISTIANESIMO COSTANTINIANO E PAOLINO, QUALE IDEA DI EUROPA ANCORA E’ POSSIBILE?!:
"ANTROPOLOGIA" E STORIA DELLA "EUROPA, MADRE DELLE RIVOLUZIONI". Lo storico Friedrich Heer chiude l’opera così intitolata, appunto "Europa, madre di rivoluzioni" (1964; ed. it., 2 voll.m Il Saggiatore, Milano 1968), con il capitolo finale riflettendo su "Il salto", cominciando con il paragrafo "il salto cifra per il XIX-XX secolo, Tutto è in movimento", e, concludendo con l’ultimo paragrafo, a "Marya Sklodowska-Curie", e così scrive: "[...] Marya Sklodowska-Curie appartiene agli uomini di una Nuova Era incipiente, i quali sanno che le battaglie sul fronte dell’uomo - contro la morte, l’assurdo, l’ingiusto, il male, la stupidità - devono essere combattute in nuove forme; richiedono l’intera vita; un pensiero rigoroso, autocritico, un sentimento puro [...]"; e, in nota, aggiunge e "insiste" (in modo "antropologicamente" e linguisticamente "cattolico"): "Nuove battaglie - sul fronte dell’uomo [...] Questo secolo (o per meglio dire: alcuni suoi uomini) ha cominciato a comprendere in modo nuovo, e a far propria, la parola oscura e profonda dell’apostolo Paolo: Noi uomini siamo gli eredi di Dio" (F. Heer, op. cit., II, p. 588 e p. 596).
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA) ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E FILOLOGIA TEOLOGICO-POLITICA: "REMEMBER ME" (SHAKESPEARE, "HAMLET", I.5).
Dantedi (#25marzo 2025). Un’indicazione per uscire dal "sottosuolo" ("underworld"): «#Trasumanar significar per verba / non si porìa; però l’essemplo basti / a cui esperienza grazia serba.» (#Dante Alighieri, Par. I, 70-71).
L’EUROPA, L’ HAMLETICA QUESTIONE DI UNA ACCA (H), E UNA "SORPRENDENTE" LEZIONE DALLA #GAIA SCIENZA E DALLA #DIVINA COMMEDIA. Materiali sul tema
"Sàpere aude!"(#Kant). Siccome, ormai e "finalmente" non solo gli "analfabeti" ma anche i "litterati", tutti e tutte non riescono più a "orientarsi nel pensiero" e nella realtà, nemmeno a capire "un’ acca", o, che è lo stesso, "un’ostia", forse, è il caso di ricominciare dal "principio" (dalla "Alfa") e, possibilmente, cercare di arrivare alla fine (alla "Omega")!
ANTROPOLOGIA INFANZIA STORIA E FILOLOGIA. Come ha scritto in Giorgio #Agamben, in una sua nota su "L’invenzione del nemico" (Quodlibet, 31 maggio 2024), "Se nella religione - con la quale l’Europa si identificava - non credono più nemmeno i preti, anche la politica ha perduto ormai da tempo la capacità di orientare la vita degli individui e dei popoli", significa proprio non riuscire più a distinguere "eu-#carestia" da "eu-#charistia", "dio-mammona" ("#caritas") da "dio-amore" (#charitas), non significa che "Dio è morto", che "non c’è più religione", e che il #nichilismo trionfa e trionferà, alla grande (come ha scritto e chiarito #Nietzsche)?!
Non è meglio rimettersi in cammino e seguire Dante e i suoi "due Soli", il suo "#Virgilio" e la sua "#Beatrice"?! (#Dantedì, #25marzo 2025)?!
ARCHEOLOGIA E FILOLOGIA DELLA TRADIZIONE CULTURALE EUROPEA: CON SHAKESPEARE (DANTE ALIGHIERI E GIORDANO BRUNO), PER UNA ANALISI CRITICA DEL"CESARICIDIO" E UNA COMPRENSIONE ANTROPOLOGICA DELLA #MONARCHIA DEI "#DUE SOLI" ("DIVINA COMMEDIA").
CHE NELLA MODALITA’ IN CUI SHAKESPEARE PRESENTA LA "RESA" DI BRUTO ALLE ARGOMENTAZIONI DI #CASSIO (ALLA "SOCRATE") PER COINVOLGERLO (COME UN "ALCIBIADE") NELL’AVVENTURA DEL "CESARICIDIO", IN CUI APPARE evidente il rinvio critico al "gioco" narcisistico del guardarsi nell’occhio dell’altro per conoscere sé stesso del dialogo di #Platone ("Alcibiade primo", 132c - 133b ), è già ben chiaro che egli pensi al di là del #platonismo e del #paolinismo storico:
"BRUTO
No, Cassio; perché l’occhio non vede se stesso
se non di riflesso, attraverso altri oggetti.
CASSIO
È così;
e ci si rammarica molto, Bruto, che tu non abbia
specchi che volgano ai tuoi occhi il tuo valore
nascosto, così che tu possa vedere la tua immagine
riflessa. Ho sentito molte persone di alta reputazione
qui a Roma - eccetto l’immortale Cesare -
che, parlando di Bruto, e gemendo sotto il giogo
di questa epoca, hanno espresso il desiderio
che il nobile Bruto abbia occhi.
BRUTO
In quali pericoli vorresti spingermi, Cassio,
invitandomi a cercare in me stesso
quello che in me non c’è?
CASSIO
Per questo, caro Bruto, preparati ad ascoltare.
E poiché tu sai di non poterti vedere bene
se non per riflesso, io, il tuo specchio,
rivelerò con discrezione a te stesso
quello che di te stesso tu ancora non conosci.
E non essere sospettoso con me, gentile Bruto.
Se io fossi un buffone qualsiasi, o fossi avvezzo
a svilire con volgari giuramenti il mio affetto
al primo venuto che mi assicuri il suo; se ti risulta
che scodinzolo con le persone e prima le abbraccio forte
e poi le calunnio; o se ti risulta
che, alle feste, io mi professo amico
di tutta la marmaglia, allora ritienimi pericoloso. "
("Giulio Cesare," Atto I, Scena 2).
Shakespeare, nel solco e sul filo della lezione di Dante e di Bruno, sollecita la riflessione sul legame antropologico-politico e teologico dei "due soli" della "Monarchia" di Dante, e delle "#Tre corone" dello "Spaccio della bestia trionfante" di Giordano Bruno: sotto la spinta della #RiformaProtestante (1517) e Anglicana (1534) e della #Rivoluzionescientitica (#Copernico, 1543), egli insegna a "vedere" nella figura di "Giulio Cesare" (e di "Amleto") la unità e la unificazione - nelle mani e nella testa - non solo del sovrano ("cristiano") o della sovrana ("cristiana") ma di ogni "cristiano" e "cristiana", di ogni "cittadino" e di ogni "cittadina", del potere sia politico ("#sovranità universale") che religioso ("#sacerdotalità universale"): "Sàpere aude!" (#Kant, 1784).
#Dantedì, #25marzo 2025
ARCHEOLOGIA DEL #SAPERE, PSICOANALISI, E ANTROPOLOGIA: IL "SÀPERE AUDE" DI ORAZIO E KANT E IL CAMMINO DI NIETZSCHE, OLTRE L’ORIZZONTE DI SCHOPENHAUER, CON #MACH E #FREUD...
KANT (1789) E #NIETZSCHE (1889): IL "#CREPUSCOLO DEGLI #IDOLI". Da #Orazio di #Venosa, a Kant di #Koenigsberg: "#Illuminismo (#Aufklärung) è la liberazione dell’uomo dallo stato volontario di minorità intellettuale. Dico minorità intellettuale, l’incapacità di servirsi dell’intelletto senza la guida d’un altro. Volontaria è questa minorità quando la causa non sta nella mancanza d’intelletto, ma nella mancanza di decisione e di coraggio nel farne uso senza la guida di altri. #Sapere #aude! Abbi il #coraggio di servirti del tuo proprio intelletto!" Questo è il motto dell’illuminismo. [...]" (Immanuel Kant, “Risposta alla domanda: Che cosa è l’illuminismo?”. 1789).
LA "PSICOLOGIA DI MASSA" DI SCHOPENHAUER E L’ "ECCE HOMO" DI NIETZSCHE. #Schopenhauer, in una sua frase, invita a riflettere sul fatto che "«Ciò che il gregge odia di più è chi la pensa diversamente; non è tanto l’opinione in sé, ma l’audacia di pensare da sé, qualcosa che non sanno fare». La frase, come si sa, è quasi un proverbio (un ritornello dei "sapientissimi di tutti i tempi"), ma qui, Schopenhauer fa il "furbo" e incorpora nel suo "pensiero", come si può ben capire, il coraggio dei maestri Orazio e Kant, e cerca di proporsi come maestro dei maestri delle "pecore"!
Nietzsche, infatti, pur riconoscendo qualità e potenzialità straordinarie allo "Schopenhauer come #educatore" (la terza delle sue "Considerazioni Inattuali", 1874), capisce la famosa"antifona" (così anche con #Wagner) e prosegue il suo cammino, in #autonomia (oltre "il mondo come #volontà e #rappresentazione" del suo "maestro"), con Kant: "#Ecce #Homo. Come si diventa ciò che si è" (1888).
"BUCHI BIANCHI" (Carlo Rovelli, 2023). Con #Shakespeare, e come #Amleto, egli prosegue la sua strada e cerca di chiarirsi le idee su #Edipo, #Prometeo, #Arianna, il #Labirinto, "la #nascita della #tragedia (1872), #Dioniso e il #Crocifisso, e sul "Crepuscolo degli idoli" (1889). Egli, a partire da "#Aurora" (1881) e dalla "#Gaia #Scienza" (1882), ha camminato con Kant, Friedrich A. #Lange, Hermann von #Helmholtz, Ernst #Mach, e #DanteAlighieri (#Dantedì, #25marzo 2025).
PIANETA TERRA: EARTHRISE! IRAN: CECILIA SALA LIBERA. E’ GIA’ UN BUON INIZIO DELL’ANNO: UN "BUON LAVORO" E UN "BUON 2025"! Un "annuncio" di rinascita, di "una prima rinascita" per l’intera Terra! Un augurio all’intero popolo iraniano, a Cecilia Sala, all’Italia... *
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Federico La Sala
FILOSOFIA DEL #DIALOGO E #SCIENZA DELLA #COSTITUZIONE:
LA "BARBARIE" ("MONO-LOGICA" E "CICLOPICA"), IL "SÀPERE AUDE" (ORAZIO), E L’ ANTROPOLOGIA ("DUA-#LOGICA" E "#BINOCULARE") DI IMMANUEL KANT ...
"ORIENTARSI NEL PENSIERO": UNA CAVERNA E UN BARBIERE. «In un villaggio vi è un solo barbiere, un uomo con la barba ["Io, Platone, sono la verità" è l’insegna], che rade tutti e solo gli uomini del villaggio che non sanno radersi da soli. La domanda è: il barbiere non sa farsi la barba da solo?».
#IMMAGINARIO PLATONICO, "BARBE", E "INQUINAMENTO" NEOPOSITIVISTICO E PRAGMATISTICO: "ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO" (#HELMHOLTZ E #PROUST). SE E’ VERO, COME E’ VERO CHE "La verità non nasce e non si trova nella testa di un singolo uomo, essa nasce tra gli uomini, che insieme cercano la verità, nel processo della loro comunione dialogica."(Michail Michajlovič #Bachtin, 1968), ALLORA E’ TEMPO "DI PENSARE A RISOLVERE LA QUESTIONE" (W. V. O. #QUINE, («On "What there is"», 1948) E SCIOGLIERE IL NODO DEL "#PARTO MASCHIO" DELLA #LEVATRICE "SOCRATE" (UN "#DUE IN #UNO", CAPACE DI UN #DIALOGO CON "SE’ STESSO COME UN ALTRO"), LIBERARSI DELLA #CLAUSTROFILIA DELLA TRAGICA "CAVERNA" DELL’ASTUTO ("#METIS -OCRATICO") PLATONE ("ZEUS"), E USCIRE A RIVEDERE LA LUCE DEL SOLE E LE STELLE DEL CIELO.
«ESSERE, O NON-ESSERE» (#SHAKESPEARE), A PARTIRE DA #PARMENIDE, FINO AD ARRIVARE AL "VICOLO CIECO" DELL’ATTUALE STORICO PRESENTE , E’ UNA SOLA GRANDE QUESTIONE FILOSOFICA: E’ QUELLA FONDAMENTALE, QUELLA ONTOLOGICA: "SU «CIO’ CHE VI E’»", CHE NON A CASO TOCCA ANCHE LA "QUESTION" DI "AMLETO".
NOTA - SUL TEMA, PER APPROFONDIMENTO, SI CFR. "LIVELLI DI REALTÀ" ("ALFABETA", 66, 1984, pp. 29-30)), UNA MIA RECENSIONE DEL TESTO RELATIVO AL CONVEGNO (UNA VERA E PROPRIA RIUNIONE DEGLI "STATI GENERALI DEL #REALISMO FILOSOFICO E SCIENTIFICO" - FIRENZE 1978) E AGLI ATTI (PUBBLICATI DA Feltrinelli Editore, MILANO 1984).
MITOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E CRITICA DELLA "RAGIONE OLIMPICA":
RIPRENDERE IL FILO DA ARTEMIDE E DALLA "APOLOGIA" DI PLATONE DEL SOCRATE "LEVATRICE" E PORTARSI CON #DANTE E #VIRGILIO E #BEATRICE FUORI DALL’INFERNO...
Una sollecitazione a riflettere (ancora e meglio) sulla teologia-politica della relazione uomini e donne nell’antica Grecia (#Eschilo, #Sofocle, ed #Euripide) e sul tema del #comenasconoibambini (ancora oggi, all’ordine del giorno).
COME ARTEMIDE (DIANA), LA SORELLA DI APOLLO, VENNE "AGGIOGATA" AL CARRO DELL’ANIMA DI UN "APOLLINEO" PLATONE, SOSTENUTO DA UN SOCRATE, CHE "GIOCAVA" A FARE (COME LA MADRE FENARETE, DIVENUTA STERILE, E LA STESSA #VERGINE ARTEMIDE) L’OSTETRICO PER SOLI MASCHI.
ARTE DELLA MAIEUTICA E "AGRICOLTURA". Nel "Cratilo", Platone, nell’etimologie dei nomi degli dei e delle dee, così scrive:
FILOSOFIA E SOCIETA’: "LA NASCITA DELLA TRAGEDIA". * All’altezza dell’anno 2024, e dopo la rivoluzione copernicana e dopo i "maestri del sospetto" (Marx, Nietzsche, e Freud), si continua a concepire la relazione uomo-donna secondo la concezione della tragica #segnatura della "Scuola di Atene" (Raffaello, 1509-1511) e del "#Sapiente" (1510) di #Bovillus, vale a dire come lezione di Platone dal "Teeteto":
SOCRATE E L’APOLOGIA DEL "COMPROMESSO OLIMPICO". Eschilo aveva già chiarito molto bene la "ragione" del volere di Apollo e Atena e dello stesso discorso di Platone nel "Teeteto": «non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda...» (Eschilo, "Eumenidi").
ANTROPOLOGIA E COSMOLOGIA.
STORIA STORIOGRAFIA E PROFEZIA: MEMORIA DELLA "PRIMA RINASCITA", DI JAKOB BOEHME, E DEL "CONCILIO VATICANO II". *
Una nota margine di una riflessione del prof. Flavio Piero Cuniberto:
L’ANNO E L’ANELLO
(24 novembre 2024, Solennità di Cristo, Re dell’Universo).
La corona è il coronamento dell’Anno liturgico, che si chiude, come la corona, ad anello, celebrando nella sua preziosità scintillante la perfezione circolare dell’Alfa e dell’Omega, della fine che coincide con l’inizio (l’aprirsi aurorale del nuovo Anno, con l’Avvento, dopo l’ultima domenica del tempo ordinario).
L’apparente ripetizione - di sempre nuovi anelli - è l’effetto dello strabismo creaturale, che vede come ritorno dell’identico il rampollare delle infinite forme (l’universo) dentro il Cerchio Eterno.
Il Patriarca Enoch, che "camminò con Dio", visse 365 anni e "non conobbe la morte".
P.S. Lo spostamento della Solennità all’ultima domenica dell’A.L. è tra le pochissime innovazioni del Vaticano II su cui - si direbbe - ha aleggiato lo Spirito della profezia: su quasi tutte le altre ha soffiato, in contrasto drammatico, tutt’altro spirito.
Flavio Piero Cuniberto (Facebook (ripresa parziale - senza immagine)
* MEMORIA DELLA "PRIMA RINASCITA", DI JAKOB BOEHME, E DEL "CONCILIO VATICANO II".
SICCOME CHI GUIDA IL "GRANDE GIOCO" E’ IL FAMOSO "SATOR AREPO" ("L’AMOR CHE MOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE"), FORSE, è bene ricordare, chiarissimo prof. Flavio Piero Cuniberto, che la istituzione della "Solennità di Cristo, Re dell’Universo" (nel senso della tradizione paolina e cosmoteandrica), di #oggi, #24novembre 2024, "risale" a Papa Pio XI, all’anno Giubilare 1925.
A PROPOSITO DI #ANELLO, FORSE, E’ IL CASO DI RESTITUIRE "L’ANELLO DEL PESCATORE" A GIUSEPPE (1223).
Federico La Sala
UNA HAMLETICA QUESTIONE FILOLOGICA E TEOLOGICO-POLITICA DI #LUNGADURATA E
UN GRANDE SEGNAVIA PER USCIRE DALL’INFERNO, CON #DANTE E #PASOLINI...
Per Pasolini «chi ama è egoista, e vorrebbe tutta per sé la persona amata» (cfr. Emanuela Monini, "Tu sai che chi ama è egoista", "insula europea", 17 novembre 2024 ); ma, pur avendo capito, come scrive nel sonetto 110, che
HA difficoltà ad andare oltre sé stesso e riconoscere che "quel qualcosa che non aveva prezzo" è solo la "gaiezza" sua, non della "persona amata".
Il grande #dono della sua vita, forse, sta nel segnalare il "tradizionale" #nodo tragico del non riconoscere alla "persona amata" (gr."#Filomena") la sua #autonomia e la sua #libertà di #amare (gr. "#Filousa").
La sua passione per #DanteAlighieri lo ha portato, oltre la "#ego-logica" di san Paolo, sulla stessa strada e, deposto il suo "vorrebbe", gli ha permesso di giungere a consapevolezza della #dirittavia e a proseguire coraggiosamente il suo viaggio.
A ben distinguere e a ben unire, non è possibile confondere antropologicamente e filologicamente l’amore "prezzolato" (quello con il suo "#caro-prezzo"), la "#caritas", con quell’#amore, quel "qualcosa che non aveva prezzo, / ed era unico: non c’era codice né Chiesa / che lo classificasse", la "#charitas". Un grande segnavia, a mio parere, per uscire con Dante dall’inferno.
FILOLOGIA E FILOSOFIA: CON KANT A EFESO, IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS...
Alcuni appunti a margine di UN CONTRIBUTO DI GRAMSCI PER "ORIENTARSI NEL PENSIERO" (#KANT) E TENTARE DI RIUSCIRE AD #ABITARE UN #PIANETATERRA COMUNE (ERACLITO): RI-PENSARE LA #QUESTIONEANTROPOLOGICA E #CRISTOLOGICA ("ECCE HOMO") E, AL CONTEMPO, LA #QUESTIONE TEOLOGICO-POLITICA DEL #CORPOMISTICO DELLA #COMUNITA’:
A) - "POSIZIONE DEL PROBLEMA: [...] Marx è un creatore di Weltanschauung, ma quale è la posizione di Ilici? È puramente subordinata e subalterna? La spiegazione è nello stesso marxismo - scienza e azione -. Il passaggio dall’utopia alla scienza e dalla scienza all’azione (ricordare opuscolo relativo di Carlo Radek). La fondazione di una classe dirigente (cioè di uno Stato) equivale alla creazione di una Weltanschauung. [...] Marx inizia intellettualmente un’età storica che durerà probabilmente dei secoli, cioè fino alla sparizione della Società politica e all’avvento della Società regolata. Solo allora la sua concezione del mondo sarà superata (concezione della necessità, 〈superata〉 da concezione della libertà). Fare un parallelo tra Marx e Ilici per giungere a una gerarchia è stolto e ozioso: esprimono due fasi: scienza-azione, che 〈sono〉 omogenee ed eterogenee nello stesso tempo. Così, storicamente, sarebbe assurdo un parallelo tra Cristo e S. Paolo: Cristo-Weltanschauung, S. Paolo organizzazione, azione, espansione della Weltanschauung: essi sono ambedue necessarii nella stessa misura e però sono della stessa statura storica. Il Cristianesimo potrebbe chiamarsi, storicamente, cristianesimo-paolinismo e sarebbe l’espressione più esatta (solo la credenza nella divinità di Cristo ha impedito un caso di questo genere, ma questa credenza è anch’essa solo un elemento storico, non teorico)." (A. Gramsci, "Quaderno 7, § 33").
B) - PAOLO DI TARSO, IL "CITTADINO ROMANO", DIVENTA "CRISTIANO", E COSTRUISCE LA "WELTANSCHAUUNG" DEL SUO "PARTITO", FA DI #CRISTO IL "RE" DELLA "COSMOTEANDRIA" DELLA SOCIETA’ DEL SUO TEMPO, E COMINCIA A LAVORARE ALLA CONQUISTA DELL’#EGEMONIA SUI VARI "PARTITI" DEGLI APOSTOLI. Alcune note dai testi evangelici:
C) "IN PRINCIPIO ERA IL #LOGOS": STUDIANDO LE OPERE DI #SWEDENBORG, CON "I SOGNI DI UN VISIONARIO CHIARITI I SOGNI DELLA METAFISICA" (1766), PUR SE CON UN LAPSUS SIGNIFICATIVO DI "ARISTOTELISMO" RESIDUO, RISCOPRE LA LEZIONE DEL FILOSOFO DEL "LOGOS", #ERACLITO DI #EFESO ("Vegliando, noi abbiamo un mondo comune; ma sognando ciascuno ha il suo mondo") E INIZA A LAVORARE AL SUO PROGRAMMA DI CRITICA DELLA "RAGION "PURA, DELLA "RAGION PRATICA", E DELLA "CAPACITA’ DI GIUDIZIO" E,INFINE A RIFLETTERE SULLA "FINE DI TUTTE LE COSE" ( E SUL COSIDDETTO "CRISTIANESIMO") E, ANCORA, A RIPROPORRE E A RIAPRIRE LA QUESTIONE ANTROPOLOGICa ("LOGICA", 1800).
ANTROPOGENESI FILOLOGIA E FILOSOFIA: CHE GRANDE "PREISTORIA" DELL’INTERA #UMANITA’ DEL PIANETA TERRA!
RIPARTIRE DA CAPO, E IMPARARE A #CONTARE, A #CALCOLARE...
INDIVIDUO E SPECIE: "L’ONTOGENESI RICAPITOLA LA FILOGENESI" (ERNST HAECKEL).
MA QUALE "RICAPITOLAZIONE", COME DA #ANTROPOLOGIA COSMICA, QUALE QUELLA DI #DANTE ALIGHIERI ("L’#AMOR CHE MUOVE IL #SOLE E LE ALTRE #STELLE") O COME QUELLA (DELL’ATTUALE #PRESENTE STORICO) DA #ANDROCENTRISMO TEOLOGICO-POLITICO DA "#CAVERNA" PLATONICA E PAOLINA?!
"SAPERE AUDE!" (#KANT, 1784). NON E’ IL CASO DI CORRERE AI RIPARI E, FINALMENTE, uscire dall’orizzonte della #tragedia e dal #letargo epistemologico e #correggere un’operazione #matematica "sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (#Franca Ongaro #Basaglia, 1978)!!!
COSMOTEANDRIA E STORIA. LA LEZIONE DI PAOLO DI TARSO:
"Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [ἀνήρ], e capo di Cristo è Dio [ ὅτι παντὸς ἀνδρὸς ἡ κεφαλὴ ὁ Χριστός ἐστιν, κεφαλὴ δὲ γυναικὸς ὁ ἀνήρ, κεφαλὴ δὲ ⸀τοῦ Χριστοῦ ὁ θεός.]"(1 Cor. 11, 1-3).
ANTROPOLOGIA (KANT), STORIOGRAFIA, E LETTERATURA (BAUDELAIRE):
IL CASTIGO DELL’ORGOGLIO ("Châtiment de l’orgueil").
DAI "FIORI DEL MALE", UN #RACCONTO "STORICO" DI ALTA PROFONDITA’: COME UN TEOLOGO, CHE EBBE PAURA DEL "TRAUMA DELLA NASCITA" E, SULLA #NEGAZIONE DEL "RIDICOLO FETO", APRI’ LA STRADA ALLA "GLORIA" DELLA #COSMOTEANDRIA DELLA "#CAVERNA" PLATONICO-LUCIFERINA ("MAMMONICA") E FINI’ PER ESSERE "LA GIOIA E LO SCHERNO DEI #FANCIULLI".
In quei tempi meravigliosi in cui la Teologia fiorì con la massima forza ed energia, si narra che un giorno uno dei più grandi dottori, dopo aver forzato i cuori indifferenti ed averli commossi ne le loro nere profondità; dopo aver superato verso le glorie celesti strani sentieri a lui stesso ignoti, dove forse eran giunti solo i puri Spiriti, come un uomo salito troppo in alto, preso da vertigine, gridò in un trasporto di satanico orgoglio:
Immediatamente la sua ragione scomparve. Lo splendore di quel sole si velò; tutto un caos piombò in quell’intelligenza, tempio già vivo, pieno d’ordine e di opulenza, sotto le cui vòlte tanto fasto era stato sfoggiato. Il silenzio e la notte regnarono in lui, come in un sotterraneo di cui si è smarrita la chiave.
Da quel giorno fu simile a le bestie di strada, e, quando andava pei campi senza nulla vedere, incapace di distinguere l’estate da l’inverno, sudicio, inutile e brutto come una cosa logora, formava la gioia e lo scherno dei fanciulli. (Charles Baudelaire, "I fiori del male").
PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA TEOLOGIA MAMMONICA:
IL"CARINO" DI UNO STUDENTE E IL "CERCATE ANCORA" DI CLAUDIO NAPOLEONI (1990)!
A CHE GIOCO GIOCHIAMO?! Ricordando ancora con stima la sollecitazione #critica di Claudio Napoleoni a non addormentarsi nel #sonnodogmatico dominante, mi permetto di #pensare che lo #studente, nella sua risposta, si riferisse al #costo economico del #libro (non al contenuto) e, al contrario, fosse molto pertinente! A ben riflettere, il "carino" avrebbe dovuto allarmare il prof. e fargli #apriregliocchi e le orecchie sulla "#doppiezza" della "#carità" cattolico-paolina, nel suo significato "mercantile" ("#caritas": "caro-prezzo" e "caro-affetto") e #accogliere con #grazia la ironica sottolineatura dello studente!
"SAPERE AUDE!" (KANT, 1784; MICHEL FOUCAULT, 1984))."Da dove iniziare, volendo recuperare, soprattutto ora, il pensiero e l’opera - complessa, molteplice, culturalmente alta - di Claudio Napoleoni?" (cfr. Lelio Demichelis, "Cercare ancora. Il capitalismo, la tecnica, l’ecologia e la sinistra scomparsa. L’attualità di Claudio Napoleoni", Economia&Politica, 26 Aprile 2020).
USCIRE DALL’ORIZZONTE DELLA TRAGEDIA, CON DANTE E FREUD: INVERTIRE IL PRESENTE...
DA DOVE VENGONO I BAMBINI?" (Emma Eckstein) E #COMENASCONOIBAMBINI (Sigmund Freud, 1937)?
Sul piano dell’antropologia, delle tradizioni linguistiche e popolari, e della psicologia (e dell’amletico "marcio nello stato di Danimarca"), partendo dal "#gattonare" dei bambini e delle bambine e, passando dal "#gattaro" e dalla "#gattara", c’è da pensare anche al #verbo "gattare" e, infine, alla simulazione giocosa della "#Mousetrap" realizzata da Amleto e Ofelia nell’opera di #Shakespeare, per smascherare chi ha distrutto la "trappola per topi" realizzata dal "Re Amleto" e dalla "Regina Gertrude" nel loro #giardino e ucciso il Re! Non è meglio rileggere l’opera di Shaespeare e celebrare la #memoria di Santa Gertrude di Nivelles?!
ANTROPOLOGIA FILOSOFIA E ANDROCENTRISMO: "ECCE HOMO" (NIETZSCHE, 1888).
LA SFINGE CHIESE AD EDIPO, "CHI SEI ?"; EDIPO "PLATONICAMENTE" RISPOSE: "L’UOMO!" [#ANTHROPOS].
STORIA #LETTERATURA E #STORIOGRAFIA. #PILATO INDICO’ #GESU’ ALLA #FOLLA E DISSE: "ECCE HOMO" ( «Ecco l’uomo», «ἰδοὺ ὁ #ἄνθρωπος»).
TEOLOGIA-POLITICA E #COSMOTEANDRIA. LA LEZIONE DI #PAOLODITARSO:
"PERSONA E DEMOCRAZIA. La storia sacrificale" (M. Zambrano, 1958): "María Zambrano non ha venduto l’anima all’Idea" (Emil M. Cioran, "Esercizi di ammirazione. Saggi e ritratti", Adelphi, 1988).
Sul tema, cfr. "Le parole di Antigone nella riscrittura novecentesca di María Zambrano" (di Camilla Tibaldo, Treccani, 13 gennaio 2020).
TEATRO (STORIA) METATEATRO (METASTORIA), E FILOLOGIA ("LOGOS"):
SULLA "TERRA PROMESSA" ALL’INTERA UMANITA’ ("EARTHRISE").
RICORDANDO una riflessione del filosofo Emil L. #Fackenheim sul fatto che la "visione" di Theodor Herzel "non fu abbastanza visionaria: la vecchia lingua che egli considerava morta è rinata" (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo", Edizioni Medusa, Milano 2010), ed è rinata grazie al lavoro di Eliezer Ben-Yehuda, FORSE, è bene ricordare anche cosa proprio Ben Yeheuda, il "padre" dell’ebraico moderno) scriveva in una sua "Memoria": “[...] Tante parole nuove dovranno essere inventate, e quando l’Ebraico non basterà, la lingua araba, sorella della nostra, ci fornirà i suoi suggerimenti. Che cos’è infatti un amico, se non quello che ti offre la parola mancante?” (cfr. Massimo Leone, "Alla lingua ebraica. Memoria di Eliezer Ben-Yehuda", 2003).
Plaudendo ("cum grano salis") alla "analogia" storica tra Israele e Palestina con la situazione hamletica dello "stato di Danimarca" e lo "stato di Norvegia", dopo la morte del "Re Amleto", proposta da Paul Adrian Fried, c’è da chiedersi, in riferimento al "presente storico" dell’attuale rapporto tra la "terra" di Israele e la "terra" della Palestina: ma "Hamlet", la "figura" di "Amleto", capace di ricordare la promessa fatta da suo padre "("Ricordati di me!"), riflettere sul da farsi, di mantenere la parola data, e di decidersi a fermare il "gioco", dov’è?!
METASTORICA-MENTE, IERI COME OGGI, IL PROBLEMA E’ UNA #QUESTION LOCALE E GLOBALE DI LUNGA DURATA, TEOLOGICO-POLITICA E ANTROPOLOGICA: UNO=ONU. Bisogna uscire dal "letargo" (#DanteAlighieri) e, hamleticamente, rompere l’ipnosi "millenaria" indotta dalla musica del Re-Pifferaio e restituire alla "parola" il suo legame il "Logos", con la "lingua", la "terra" #comune.
ANTROPOLOGIA (#CRISTOLOGIA) E "DIVINA COMMEDIA". DA NON DIMENTICARE, a mio parere, che il nodo da sciogliere proposto da Shakespeare, alla intera cultura teologico-politica dell’Europa dell’epoca (egemonizzata dalla tradizione cattolico-spagnola) è legato al doppio filo del problema del "corpo mistico" del Re (#androcentrismo) e della struttura della "Sacra Famiglia": ad Amleto ("Cristo") il "presepe" messo su dallo "zio" - "re" (e dalla madre-regina) non può assolutamente piacere (egli è già "sacrificato" a morte, in partenza) ed è un #presepe che non ha alcuna consonanza né con quello di Francesco di Assisi" né di Dante Alighieri, né di Michelangelo, e nemmeno quello "sognato" da Kafka ("[...] alla nascita di Cristo nella capanna semiaperta era subito presente il mondo intero, i pastori e i savi d’Oriente" ).
PSICOANALISI DELLA SOCIETA’ CONTEMPORANEA:
I GIGANTI SULLE SPALLE DEI BAMBINI E "LA SOCIETA’ SANA" ("THE SANE SOCIETY", 1955).
UNA NOTA SUL "TEMPO FUORI DAI CARDINI" E L’ANSIA DELLA "DE-GENERAZIONE" DELLO STORICO PRESENTE
SOCIOLOGIA, PEDAGOGIA, E PRAGMATICA DELLA COMUNICAZIONE. SE DA MOLTI DECENNI I #PIFFERAI GIGANTI dei "mass-media" e dei "social media" (veri e propri "cavalieri dell’apocalisse"), a cui "abbiamo consegnato i nostri sensi e i nostri sistemi nervosi" (come denunciava McLuhan), si sono ormai seduti sulle spalle dei "#bambini" e degli stessi "#genitori", non è forse il caso di uscire, con Dante Alighieri, dal #letargo e dall’#inferno, e cercare di ripensare e chiarirsi le idee, con "Amleto" (III.2), sulla "trappola per topi" ("The Mousetrap"), e portare sulla scena il "giogo" del "pifferaio" dello "stato di Danimarca" planetario"? Se non ora, quando?!
P.S. - IL #BAMBINO SULLE SPALLE DEL GIGANTE: SAN CRISTOFORO.
IL DISAGIO DELLA CIVILTA’ E IL PROBLEMA "KARL MARX": LEWIS MUMFORD E LA GRANDE MACCHINA. Alcuni appunti sul tema*
Lewis Mumford e la Grande Macchina
di Alfonso Berardinelli (Una Città n° 292 / 2023 aprile-maggio)
Eminente e tipico umanista americano, storico della cultura, del lavoro e della tecnica, Lewis Mumford (1895-1990) è stato fin dagli anni Trenta del Novecento un pensatore sociale che non ha cessato di indagare sulle strutture materiali, sulle utopie e sulla loro influenza sulla vita individuale e collettiva. L’eccezionale ampiezza dei suoi orizzonti di ricerca, che vanno dalla preistoria al mondo attuale, ne fanno uno degli autori tutt’ora più utili alla riflessione sul destino della civiltà umana. I suoi maestri connazionali, soprattutto Emerson e Veblen, fanno di Mumford un filosofo sociale che ha sempre stentato a entrare nella cultura italiana. Oggi che si parla di tramonto dell’umanesimo, sempre più minacciato dal “postumano” tecnologico, Mumford va riletto: e colui che più lo ha riletto e usato è il francese Serge Latouche, nel suo saggio La Megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso (Bollati Boringhieri, 1995).
Il termine “Megamacchina” ripreso da Latouche viene in effetti da Mumford, che ne ha fatto ripetutamente uso approfondendone e ampliandone il significato nella storia delle civiltà. I suoi libri più importanti e famosi sono Storia delle utopie (1922), La cultura delle città (1938), La città nella storia (1961), Le trasformazioni dell’uomo (1956), Il mito della macchina (1967). Per Mumford la Megamacchina è un insieme organico, un’organizzazione sociale complessa e funzionale che produce e controlla forme di lavoro e di vita, il tipo di individui e il loro rapporto reciproco.
Nel suo libro sul pensiero di Mumford e i suoi sviluppi dell’interpretazione del presente e del futuro prossimo, Latouche comincia anzitutto con questo riassunto:
Lewis Mumford ci ha insegnato che la macchina più straordinaria inventata e costruita dall’uomo non era altro che l’organizzazione sociale. La falange macedone, l’organizzazione dell’Egitto faraonico, la burocrazia celeste dell’impero dei Ming sono “macchine” di cui la storia ricorda l’incredibile potenza. L’impero di Alessandro ha durevolmente sconvolto i destini del mondo; le piramidi d’Egitto stupiscono ancora l’uomo del XX secolo e la grande muraglia cinese resta fino a oggi la costruzione umana più visibile dalla Luna. In queste organizzazioni di massa, che combinano la forza militare, l’efficienza economica, l’autorità religiosa, la performance tecnica e il potere politico, l’uomo diventa l’ingranaggio di un meccanismo complesso che raggiunge una potenza quasi assoluta: una Megamacchina. Le macchine semplici o complesse partecipano al funzionamento dell’insieme e ne forniscono il modello. (Latouche, op. cit., pagina 9)
Si parte da lontano, come ha fatto Mumford nelle sue opere, per arrivare al Novecento e al futuro. Dai “tempi moderni” rappresentati genialmente da Chaplin negli anni Trenta (in cui l’uomo che lavora viene nutrito roboticamente alla catena di montaggio) all’imprenditore tedesco Walter Rathenau, che nella Germania di Weimar parlò di “meccanizzazione del mondo”, si arriva comunque al “grande automa”, che è la fabbrica della grande industria capitalistica, di cui aveva parlato Marx.
A conclusione dei suoi vari studi storici sulle trasformazioni tecniche e sociali, Mumford si rivela uno dei più decisi analisti e critici del Progresso. Prima di dare un certo spazio alla speranza, in spirito di utopia morale e perfino spirituale, Mumford delinea un ritratto particolarmente pessimistico degli attuali esiti a cui arriva il progresso meccanico-organizzativo:
Con lo sviluppo futuro dei sistemi cibernetici che permettono di prendere decisioni su problemi che, a causa della loro complessità e delle loro astronomiche serie numeriche, superano le capacità umane di pazienza e di calcolo, l’uomo post-storico sarà in grado di spodestare il solo organo umano di cui sembra importargli qualcosa: il lobo frontale del cervello. Creando la macchina pensante, l’uomo avrà compiuto l’ultimo passo verso l’assoggettamento alla meccanizzazione: e l’abdicazione finale davanti al suo stesso ingegno gli fornirà un nuovo oggetto da adorare: il dio cibernetico. Questa nuova religione richiederà ai suoi fedeli una fede ancora più cieca di quella pretesa dal Dio dei monoteismi: la certezza che tale demiurgo, i cui calcoli non potranno essere umanamente verificati, darà solo risposte corrette...
Generalizziamo tale risultato e vediamolo per quello che è. Una volta che l’automa avrà raggiunto la perfezione, l’uomo diventerà completamente estraneo al suo mondo e sarà ridotto a nulla: il regno, il potere e la gloria apparterranno alla macchina. Piuttosto che stabilire una ricca relazione di senso con la natura per guadagnarsi il suo pane quotidiano, l’uomo sarà condannato, a condizione di accontentarsi dei prodotti e dei surrogati forniti dalla macchina, a una vita di benessere senza sforzi. Tale benessere, più precisamente, sarà privo di sforzi se egli imporrà a se stesso di consumare esclusivamente i prodotti che di continuo la macchina gli fornirà, indipendentemente dal proprio grado di sazietà. Lo stimolo a pensare, a sentire e ad agire, in definitiva lo stimolo a vivere, scompariranno presto.
Negli Stati Uniti l’uomo, a causa della sua dipendenza dall’automobile, ha già cominciato a perdere l’uso delle gambe. Fra non molto condurrà una vita puramente viscerale, basata sullo stomaco e le parti genitali, benché ci siano ragioni per pensare che anche qui si applicherà il principio del minimo sforzo. Le madri americane non sono forse incoraggiate da molti medici a non allattare i loro figli? Da un punto di vista post-storico il latte in polvere è ben più soddisfacente dell’esperienza psicosomatica della tenerezza materna procurata dall’allattamento al seno. La scienza farà in modo di procurarci un orgasmo privo di sforzi per mezzo di una macchina eliminando così le incertezze dell’attaccamento umano e il bisogno di contatto fisico. Sarà questo un aiuto necessario all’inseminazione artificiale? Oggi si comincia solo a intravedere gli effetti del disprezzo per i processi organici e il tentativo ostinato di sostituirli a tutti i costi con surrogati meccanizzati. (Mumford, Le trasformazioni dell’uomo, 1972, a cura e con un saggio di Massimo Rizzante, Mimesis, 2021, pp. 178-79)
Il quadro che ci offre Mumford sembra integrare e aggiornare in un orizzonte di tecnoscienza in continua crescita quanto venti anni prima previde politicamente e socialmente Orwell in 1984. La prospettiva è tale che il suo esito non potrà che essere autodistruttivo. È solo per questa ragione che forse non si arriverà a realizzare una così totale meccanizzazione dell’umano. Mumford perciò aggiunge: “L’uomo post-storico, questa creatura completamente assoggettata alla macchina e che tristemente si è adeguata alla pseudo-vita dei suoi sistemi automatizzati, è una possibilità teorica, non una probabilità storica [...]. Malgrado tutto il potere della tecnica e la forza dei numeri, l’uomo post-storico possiede ancora una limitata speranza di vita” (ibid., p. 183). Come disse Orwell a proposito del suo 1984, “Non permettete che questo accada. Dipende da voi”.
A sua volta Mumford tenta di disinnescare l’incubo che lui stesso ha messo a fuoco con tanta precisione. La sua proposta potrebbe essere confortante, ma richiederà condizioni particolarmente favorevoli e uno sforzo assai arduo: “Oggi il compito principale dell’uomo è quello di creare un nuovo io, capace di dominare le forze che agiscono in modo tanto rischioso quanto costrittivo”. Un tale “io nuovo” ha qualcosa di utopico poiché dovrà combattere contro una potente tendenza storica: “cercherà di non imporre una uniformità meccanizzata, ma di costruire un’unità organica basata sulla piena realizzazione di tutte le risorse che la natura e la Storia hanno messo a disposizione dell’uomo moderno [...] è venuto di nuovo il momento di una grande trasformazione storica. L’unità politica dell’umanità può essere concepita realisticamente solo come parte integrante di un tale sforzo di autotrasformazione” (ibid., p. 185). Sarà necessario, niente di meno, che “creare e tramandare una cultura mondiale” che sappia unire Occidente e Oriente, con le loro più antiche e migliori tradizioni religiose e filosofiche.
Nel suo La Megamacchina, quale uso ha fatto vent’anni dopo Serge Latouche delle idee di Mumford? Anche nel suo caso l’utopia riappare. Una formula da lui usata è che per “scegliere il progresso dell’uomo” sarà necessario “cambiare l’uomo del progresso”, cambiare cioè la tradizione culturale che negli ultimi due secoli ha trasformato l’idea illuministica di progresso nell’ideologia di una società centrata sulla produttività e sul commercio. Dal Settecento in poi, per dirla ancora con Mumford, “se i signori e i padroni della società hanno adorato qualcosa, questa cosa è stata la macchina”. Le varie Megamacchine tecniche e organizzative sono infatti state create per fare soldi: “La combinazione di un potere tecnico incontrollato -e incontrollabile- e della decomposizione dell’ordine mondiale rappresenta esattamente la miscela esplosiva più terrificante che si possa concepire per rendere invivibile il pianeta” (Latouche, op. cit., pp. 192-93). Se è vero che attualmente siamo a questo, il nostro sonnambulismo storico potrà esserci fatale.
*
"BEN SCAVATO VECCHIA #TALPA!" (MARX, 1852): #FILOSOFIA "#GOLEMANTICA", #PEDAGOGIA DEL "#CORPOMISTICO" DELLA "MACCHINA" SOCIALE DEL "CAPITALE", E #ANTROPOLOGIA.
Uno "#Spirito" ("#Ghost") si aggira ancora per l’#Europa. Con i "maestri del sospetto" (P. #Ricoeur), #Marx e #Freud e #Nietzsche, è bene riprendere la lettura dell’opera di #Shakespeare...
#KANT (1724-2024). #OGGI, ANCORA A #SCUOLA della androcentrica #macchina teologico-politica "niceale" (Nicea, 325 - 2025)?!
UN ALTRO "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE" E’ POSSIBILE: "#SÀPERE #AUDE! (KANT, 1784). Una "brillante" e "sorprendente" sollecitazione di #MaurizioFerraris a uscire dal #letargo (#Dante Alighieri) e a riconsiderare il problema della #liberazione, dell’uscita dallo "stato di minorità":
"BEN DETTO, VECCHIA TALPA" ("#AMLETO, I.5)! CON SHAKESPEARE, NON E’ TEMPO DI PORTARSI #OLTRE LA TRAGICA DOTTRINA ATEO-DEVOTA DEL "CORPO MISTICO" DEL RE ("#GOLEM"), OLTRE IL #PLATONISMO E IL #PAOLINISMO "CATTOLICO", "UNIVERSALE" - SE NON ORA, QUANDO?!
STORIA (TEATRO), METASTORIA (METATEATRO), LETTERATURA, E STORIOGRAFIA:
"AMLETO IN #PURGATORIO" E "NEOSTORICISMO" ("NEW HISTORICISM")?
"SÀPERE AUDE!" (KANT, 1784; MICHEL FOUCAULT, 1984). Con i "maestri del sospetto" (P. #Ricoeur), #Marx e #Freud e #Nietzsche, e #WalterBenjamin, forse, è bene riprendere la lettura dell’opera di #Shakespeare e cercare di uscire dal più che millenario "letargo" (#Dante Alighieri).
CULTURA E SOCIETÀ: "NEW HISTORICISM". "WWGD?" ("Cosa farebbe Greenblatt?"). "Cum grano salis": le indicazioni di Kermode, come i lavori di Greenblatt, sono importanti sollecitazioni, ma dicono solo dell’immane "ritardo" storiografico (a tutti i livelli) relativo alle conoscenze della nostra stessa storica realtà (composta di storie di storie di storie...). Già solo i titoli: "Amleto in Purgatorio" ("𝘏𝘢𝘮𝘭𝘦𝘵 𝘪𝘯 𝘗𝘶𝘳𝘨𝘢𝘵𝘰𝘳𝘺") e "Arte tra le rovine" ("Art Among the Ruins"), cosa cercano di far capire?
"THE TIME IS OUT OF JOINT"("Hamlet", I.5). SHAKESPEARE, cosa fa con "Amleto"? A partire dal proprio "presente storico" (dallo "stato di Danimarca"), con ben altra radicalità, non riprende dall’immaginario ereditato il filo del "#principio" (antropologico e teologico-politico), non lo riporta in #luce con la sua "trappola di topi" ("The #Mousetrap"), e non sollecita a portarsi oltre il proprio tempo, un "tempo fuori dai cardini"?! A quale "storicismo" si vuole continuare a "#giocare", oggi?
LETTERATURA E ANTROPOLOGIA FILOSOFICA (KANT): QUALE "LEGAME" PER DANTE TRA BERNARDO DI CHIARAVALLE E FRANCESCO DI ASSISI?
CON LA #NAVE DI "#GIASONE" ("#DANTEALIGHIERI") E LA SUA #DIVINACOMMEDIA ("L’OMBRA D’#ARGO"), UN "INVITO" A PORTARSI FUORI DALL’ORIZZONTE DELLA "#CADUTA" E DELLA #TRAGEDIA... *
A MIO PARERE, LA #DIVINA COMMEDIA, IL PERCORSO DELL’ #AUTORE E DEL #PERSONAGGIO, #DANTE ALIGHIERI, E’ LA SUA "SALOMONICA" RISALITA ALLA #SORGENTE DELL’AMORE COSMOLOGICO E ANTROPOLOGICO, E, CON L’AIUTO DELLA #MEMORIA DI "#BERNARDO" ("GIUSEPPE") E "#BEATRICE" ("MARIA"), LA "EVANGELICA" RINASCITA DI SE’ STESSO, COME DI UN "ALTRO #CRISTO" (COME UN ALTRO FRANCESCO DI ASSISI).
OLTRE LA #COSMOTEANDRIA "ADAMITICA" ED "EDIPICA": "ECCE HOMO" ("#ANTHROPOS"). IL "VIAGGIO" DI DANTE E’ UN CHIARIMENTO ANTROPOLOGICO FONDAMENTALE SU COME SI DIVENTA CIO’ CHE OGNI #ESSEREUMANO E’, IL "FIGLIO", IL "CRISTO" (IL "CRISTIANO", LA "CRISTIANA") DEL "DIO" ("DEUS") DELL’AMORE ("CHARITAS") CHE "MOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE" (Dante, Par. XXXIII, 145): IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS.
NOTA:
PIANETA TERRA (PROMESSA), ONU (=UNO), E "UmaNITÀ" ("HUMANITAS"):
PROFEZIA, ANTROPOLOGIA, E TEOLOGIA-POLITICA.
SE E’ VERO CHE "DA TEMPO I PROFETI PARLANO A UNA CITTA’ CHE NON LI VUOLE PIU’ ASCOLTARE!" (Nicola Fanizza), E’ ALTRETTANTO VERO CHE, DA #TEMPO, DA MOLTO TEMPO, nonostante tutta la #storia (già solo quella) dell’#arte e, in particolare, la grande lezione di #Michelangelo #Buonarroti, che sapeva anche di #anatomia e di "vecchio" e "nuovo" #testamento" , è anche colpa dei #PROFETI che hanno "silenziato" le #Sibille, hanno buttato via la #bilancia (Vermeer ), e vogliono continuare a "pesare" solo "l’ #oro"!!!
CON DANTE ALIGHIERI, GIORDANO BRUNO, GALILEO GALILEI, SPINOZA, FREUD, ED EINSTEIN, #OLTRE. Senza #Kant, solo milioni di milioni di "mille piani", vecchi "ritornelli", e "dotta ignoranza" (1440) a volontà.
NOTE:
TEATRO METATEATRO E PIANETA TERRA:
IL "MULINELLO" DI SHAKESPEARE, LA GLOBALIZZAZIONE CATTOLICO-SPAGNOLA DEL SEICENTO EUROPEO, LA CRISI CONTEMPORANEA DELL’IMPERO AMERICANO, OGGI: "SAPERE AUDE! (KANT, 1784), E LA "RIPENESS" DEL "NOSTRO TEMPO".
CON L’ARTICOLO "Hamlet, Prince of #Denmark: Conspiracy Theorist for Our Times", Paul Adrian Fried propone un’ottima sintesi e un’aggiornata #analogia:
ESSERE, O NON ESSERE: "RIPENESS IS ALL" ("KING LEAR", V.2). A mio parere, tuttavia, la #consapevolezza di #Amleto è da collocarsi (come Shakespeare sembra volere e come sembra che lo stesso autore voglia fare) a un livello più propriamente "biblico", storico e metastorico: vale a dire, sul piano della "#caduta" (antropologica e teologica), e sulla determinazione #critica di portarsi fuori dall’orizzonte teologico-politico del #Mentitore, del "#Serpente" - di uscire dall’infernale "vicolo cieco" e, possibilmente, riprendere la via per recuperare l’orizzonte del "#paradisoterrestre" e celeste (come da indicazione di Dante Alighieri). Si tratta di portarsi, accogliendo i vari "rimandi" evangelici dello stesso Shakespeare, fuori dallo "#stato di #minorità", e, al contempo, aver il #coraggio di servirsi della propria intelligenza" (Kant), non ci sono altre vie: “Che c’è, ancora cattivi pensieri? Gli uomini devono sopportare / la loro uscita dal mondo come la loro venuta; / la #maturità è tutto. Andiamo” (Shakespeare, "#ReLear", V. II).
EARTHRISE (L’ALBA DELLA MERAVIGLIA, IL "SORGERE DELLA TERRA"). Ciò che nel tempo presente, qui ed ora, appare essere importante e urgente (dal punto di vista di un possibile ONU = UNO o dI astronauti e di astronaute che guardano dall’esterno il Pianeta Terra), da una parte, capire che il "serpente" non è altro che un’#anguilla alla #ricerca dell’via di uscita per raggiungere l’#oceano e, dall’altra, comprendere che occorre alimentare al massimo la fiamma del desiderio di "seguir virtute e canoscenza" (Inf. XXVI, 119), di "rivedere le stelle" (Dante Alighieri, Inf. XXXIV, 139), e di riprendere la navigazione nell’oceano celeste (#Keplero a #Galileo #Galilei, 1611).
ANTROPOLOGIA, MITO, STORIA, E LETTERATURA:
"IL FEMMINILE E L’UOMO GRECO" (NICOLE LORAUX). Un omaggio e una nota a margine del lavoro di Nicole Loraux (1943-2003).
"SAPERE AUDE!" (KANT, 1724-2024). MUOVENDO dal lavoro della brillantissima Nicole Loraux ("Il femminile e l’uomo greco", Laterza 1991, e, Mimesis Edizioni 2024) e, in particolare, dalla sua indicazione, legata alla figura di Tiresia, che «l’uomo non è mai tanto uomo come quando ha qualcosa della donna dentro di sé», forse, è possibile orientarsi meglio sia sui temi fondamentali della sua ricerca storico-antropologica sia del problema del "chi siamo noi, in realtà" (Nietzsche).
COME IN CIELO ("URANO") COSI’ IN TERRA ("GAIA"): MITO E TRAGEDIA (EDIPO). Riconsiderando, il legame tragico (edipico) codificato giuridicamente e teologicamente già nel (prei)storico "compromesso celeste", a partire dal salvataggio e dalla messa in sicurezza da parte della #Madre-#Regina - #Rea, di "#Zeus", del #Figlio, dalle fauci dello Sposo, il Padre-Re #Crono e, poi, nel "compromesso olimpico", dal "matrimonio" tra il "Padre -Re" (Zeus) e la "Madre -Regina" (#Era), rileggere #Amleto (Shakespeare) e riprendere a tutti i livelli la sollecitazione di #Freud (con le "parole" di Era, relative all’Acheronta movebo, citate all’inizio della "Interpretazione dei sogni", bene in mente) di pensare "l’edipo completo", rianalizzare il suo lavoro relativo a "L’uomo dei topi" (e fare attenzione alle sue riflessioni sul "#matriarcato" e sul "#patriarcato") e capire cosa significa la "trappola per topi" ("The Mousetrap") di Amleto ed Ofelia per il "Padre-Re" e la "Madre-Regina" (Shakespeare). Forse, solo così, è possibile ricominciare a pensare sul #comenasconoibambini e a un’altra "Storia universale della natura e teoria del cielo" (Immanuel Kant, 1755).
NOTE:
PSICOANALISI E "ODISSEA" (LETTERATURA):
UN SEGNAVIA PER "ORIENTARSI NEL PENSIERO" (KANT2024) E USCIRE DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO E ANTROPOLOGICO.
Due variazioni sul tema...
A). #DANTEALIGHIERI E LA DISCESA ALL’INFERNO DI #SIGMUNDFREUD. "L’Interpretazione dei Sogni" (1899) ha il suo legame con l’#Eneide (VII, 312: "Flectere si nequeo Superos, #Acheronta movebo") di #Virgilio e "L’#uomo #Mosè e la #religione monoteistica"(1938) con il tema dell’«In exitu Isräel de Aegypto» della #DivinaCommedia (Pg. II, 46-48) di Dante.
B). "COSTRUZIONI NELL’ANALISI (S. #FREUD, 1937): CON FREUD, OLTRE LA #CADUTA (IL "COMPROMESSO" ADAMITICO) E OLTRE LA #TRAGEDIA (IL COMPROMESSO "APOLLINEO", "OLIMPICO"), #OLTRE LA "PSICOANALISI"!
Freud ha guardato più lontano di #Lacan, ha saputo oltrepassare Scilla e Cariddi e le colonne d’Ercole, e, infine, prendere le distanze dall’interpretazione platonico-paolina della questione dell’#uomosupremo e del suo "#corpomistico" (come di "Mosè", "Cristo", e ogni altro #Superuomo).
"ECCE HOMO" (NIETZSCHE, 1888). Freud è con #Michelangelo e #Shakespeare e guarda oltre la "donazione di Costantino" (#Nicea 325-2025), e oltre il "#presepe" della presente edipica "#preistoria".
PSICOANALISI E LETTERATURA: UNA "STRAORDINARIA" IDEA DI DANTE ALIGHIERI.
SEGUIRE LACAN, PER IMPARE A RI-LEGGERE LA "DIVINA TRAGEDIA".
QUANDO L’INTERA CULTURA ACCADEMICA (LAICA E RELIGIOSA), ANCORA E PER LO PIU’, NAVIGA NELL’ORIZZONTE (v. allegato) DEL "SAPIENTE" (1510) DI BOVILLUS, IN UN ANDROCENTRISMO CHE IGNORA ADDIRITTURA "COME NASCONO I BAMBINI", E’ SEMPLICEMENTE "PANE QUOTIDIANO" LEGGERE DELLA SEGUENTE OPINIONE, TEORICAMENTE "DIMOSTRATA", SULLA VITA DELL’AUTORE DELLA "DIVINA COMMEDIA":
DOPO 700 ANNI E OLTRE DALLA MORTE DI DANTE ALIGHIERI, COME NON SI PUO’ NON CONTINUARE A DESIDERARE (VIVERE, SOGNARE E RAGIONARE) IN UN MARE DI "TRAGICHE" ED "EDIPICHE" PREMESSE E, NEL CONTEMPO, A PORTARE LO SVILUPPO DEL "MARCIO NELLO "STATO DI DANIMARCA" (SHAKESPEARE, "AMLETO") OLTRE OGNI LIMITE?!
"COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (SIGMUND FREUD, 1937). Contrariamente a quanto la scuola "platonica" di Lacan sostiene, a ben riflettere, non è "un amore senza desiderio [che] è un amore morto", ma è un desiderio ("Eros", "cieco" e "saettante", violento) senza amore ("grazia") che è un desiderio morto: #apriregliocchi, e #amare "sé come un altro", alla luce del sole (e del "padre" e della "madre"), è vietato, come dinanzi a un "padre" edipicamente #morto (#Freud, in movimento autoanalitico, insegna).
UNA "CADUTA" NELLA "PREISTORIA". Solo una "bella" storiografia e, altrettanto, una "bella" #filologia, segnate da un comune e profondo #sonnodogmatico (#Kant), probabilmente, hanno potuto rendere possibile il permanere di questa concezione tragica del desiderio e ri-consegnare la #Commedia di #Dante #Alighieri nella mani di #Socrate e #Platone e "costringere" a ri-leggerla come una "divina tragedia"!
NOTA. Sul tema, per eventuali approfondimenti, si cfr. Federico La Sala, «La Fenomenologia dello Spirito... dei “Due Soli”. Ipotesi di rilettura della "Divina Commedia"», «il dialogo», 2007 ).
L’ ITALIA, METAFORA DEL GIARDINO: SIGMUND FREUD (E DANTE ALIGHIERI) ALLA RICERCA DELLA VIA D’USCITA DALL’ORIZZONTE DELLA TRAGEDIA (E DELLA "CADUTA" LUCIFERINA ALL’INFERNO).
USCIRE DA SE’ PER CERCARE LA "ANTICA TERRA" E RI-TROVARE "I PROPRI #GENITORI". Come #DanteAlighieri, con #Virgilio ("dolcissimo patre"), così Sigmund #Freud, con più difficoltà edipiche (con il suo padre #Jakob): entrambi cercano "l’antica madre" (#Eneide, III, 116-117), il "sogno di una cosa" (K. #Marx), il "giardino dell’Impero" l’uno, la "Terra promessa" l’altro.
DANTE, MILTON, E FREUD. Alla fidanzata #Martha, il 7 agosto 1882, Sigmund Freud scrive che, nel "Paradiso perduto" (John Milton, 1667), «ancora di recente, in un momento in cui non mi sono sentito sicuro del tuo amore, ho trovato consolazione e conforto».
#AMARE L’ITALIA. Freud, confidando nell’amore di sua madre #Amalia (#Nathanson), come Dante, nell’amore di sua madre, la "#Bella e beata", "#Beatrice"), l’uno, come l’altro, affrontano un lungo cammino per risalire "salomonicamente" la corrente, e, finalmente, ritrovare al di là della dell’inferno e della tragedia, "l’antica matre" ("#Eva") e l’antico padre ("#Adamo"), e, finalmente, rigenerarsi nell’acqua viva dell’#amore "che muove il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145).
#COSMOLOGIA #POESIA E #LOGOS. Quando avremo sondato l’Universo alla ricerca della nostra incapacità di dominarlo e di capirlo, dovremo ritornare al Poeta e concludere che a muover il Sole e le altre stelle (a muoverle, ma non a spiegarle) è l’Amore. Allora la nostra fede non sarà più liberatrice, ma deduttiva, accettata per la nostra incapacità di andare oltre. Crederemo perché è evidente, non perché è assurdo." (#ENNIO #FLAIANO, "DIARIO DEGLI ERRORI", 1967).
* MARINA D’ANGELO, "I VIAGGI DI FREUD IN ITALIA. LETTERE E MANOSCRITTI INEDITI", BORINGHIERI 2024:
ANTROPOLOGIA FILOLOGIA ARCHEOLOGIA E STORIOGRAFIA: "COSTRUZIONI NELL’ ANALISI" (SIGMUND FREUD, 1937).
"OLTRE LA SOGLIA. Freud, il paesaggio dell’inconscio. I viaggi del padre della psicanalisi in Italia":
"[...] La psicoanalisi ha rappresentato e rappresenta tuttora un unicum nelle scienze per il suo carattere trasversale, tra medicina e filosofia, tra individuo e comunità, tra storia e metafisica, tra analisi, critica e ri-soluzione.[...] Per restare nelle scienze profane, è l’archeologia la disciplina che più si avvicina al metodo e alla teoria inventati da Freud e tuttora oggetto di uno dei più frastagliati dibattiti a livello accademico. Entrambe le discipline, psicoanalisi ed archeologia, sono accomunate da un pressante interrogarsi sull’Origine e da un perenne rifarsi a tracce, impronte, residui, scarti, rimossi. L’archeologia però è inevitabilmente rivolta al passato - solo la psicoanalisi ricerca l’Origine per dissodare il futuro." (cfr. Ludovico Cantisani. "Limina Rivista").
Federico La Sala
LA #MONARCHIA DEI "DUE SOLI" (DANTE ALIGHIERI) E LA "CHIMERA" DEL "POST-UMANO".
A) LA #QUESTION DI #SHAKESPEARE,
B) LA DOMANDA DI PASCAL:
C) LA "QUARTA" DOMANDA DI #KANT: "COSA E’ L’UOMO? (1800). "SAPERE AUDE!": "RIPENSANDO A #SOFOCLE (E ALLA SUA "#ANTIGONE"), OLTRE CHE A SHAKESPEARE (E AL SUO "AMLETO"), E’ BENE RIPARTIRE DA PASCAL CHE CON LA SUA «CHARITE’» SA PENSARE INSIEME "UOMO" E "CHIMERA" E OSA, ALL’INTERNO DELL’ORIZZONTE DELLA #RIVOLUZIONECOPERNICANA, RI-APRIRE LA #QUESTIONEANTROPOLOGICA E TEOLOGICA.
D) LA "MONARCHIA" DEI "DUE SOLI" (#DANTE2021) E IL "POST-UMANO". Con Pascal (Clermont-Ferrand, 19 giugno 1623 - Parigi, 19 agosto 1662) e Kant (Königsberg, 22 aprile 1724 - Königsberg, 12 febbraio 1804), non è forse l’ora e il tempo, oggi, di riprendere il filo di #MArianna, "la #saggezza, come un’altra #Arianna" e portarsi fuori dal "labirinto delle cose umane" (cfr. #VictorHugo, "Notre-Dame de Paris", L. I, cap. III), e, finalmente, dal #letargo (#Dante Alighieri, Par. XXXIII, v. 94)?!
NOTA:
"ESSERE, O NON ESSERE" (#SHAKESPEARE): "CHE VUOL DIRE #LEGGEMORALE IN NOI #PROFESSORE?", OGGI (#KANT2024)
ILLUMINISMO, #ILLUMINAZIONE, E "#SAPEREAUDE!" (#KANT): UNA RISPOSTA ALLA #DOMANDA.
Riconosciuta gratitudine per l’attenzione e per l’intervento, che cosa rispondere (in breve) a chi ha posto la #questione e desidera sapere?
Innanzitutto, che Il "professore" è il "tu" stesso con "te" stesso; secondo, che il sapere di non sapere e il #decidere con "te" stesso se si vuole sapere ("essere") o non sapere ("non essere") è già un primo passo, quello decisivo e fondamentale, per uscire dallo "stato di #minorità" (Kant, 1784); e, terzo, che cominciare a #dialogare con "#te" stesso come un #altro, apre al grande "aut aut"! "Che fare?" (Lenin), "Che cosa devo fare?" (Kant). Nel #ribaltamento e nel #riconoscimento di "sé" come un "altro" (Paul #Ricoeur) prende il via la "#fenomenologia dello #spirito" (alla #Hegel) o la #divinacommedia (alla #DanteAlighieri): "To be, or not to be, that is the question" (#Shakespeare, "Amleto", III.1). Uscire dall’inferno, dal #letargo (Inf. XXXIV, 94) è possibile: "#Amore è più forte di #Morte" (Ct. 8.6, trad. di Giovanni Garbini). #ESPERIENZA E CRITICA DELLA FACOLTA’ DI #GIUDIZIO. "Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così succede. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, è così accade. Ipocriti, sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?" (Lc. 12, 56-57).
Note:
La verità e il nome di Dio *
È da quasi un secolo che i filosofi parlano della morte di Dio e, come spesso accade, questa verità sembra oggi tacitamente e quasi inconsapevolmente accettata dall’uomo comune, senza che ne siano tuttavia misurate e comprese le conseguenze. Una di queste - e certamente non la meno rilevante - è che Dio - o, piuttosto, il suo nome - era la prima e ultima garanzia del nesso fra il linguaggio e il mondo, fra le parole e le cose. Di qui l’importanza decisiva nella nostra cultura dell’argomento ontologico, che stringeva insolubilmente insieme Dio e il linguaggio, e del giuramento pronunciato sul nome di Dio, che obbligava a rispondere della trasgressione del vincolo fra le nostre parole e le cose.
Se la morte di Dio non può che implicare il venir meno di questo vincolo, ciò significa allora che nella nostra società il linguaggio è diventato costitutivamente menzogna. Senza la garanzia del nome di Dio, ogni discorso, come il giuramento che ne assicurava la verità, non è più che vanità e spergiuro. È quanto abbiamo visto apparire in piena luce in questi ultimi anni, quando ogni parola pronunciata dalle istituzioni e dai media era soltanto vacuità e impostura. Viene oggi al suo termine ultimo un’epoca quasi bimillenaria della cultura occidentale, che fondava la sua verità e i suoi saperi sul nesso fra Dio e il logos, fra il nome sacrosanto di Dio e i semplici nomi delle cose. E non è certo un caso se solo gli algoritmi e non la parola sembrano ancora custodire un qualche nesso col mondo, ma questo soltanto nella forma della probabilità e della statistica, perché anche i numeri non possono in ultimo che rimandare a un uomo parlante, implicano ancora in qualche modo dei nomi.
Se abbiamo perduto la fede nel nome di Dio, se non possiamo più credere nel Dio del giuramento e dell’argomento ontologico, non è, però, escluso che sia possibile un’altra figura della verità, che non sia soltanto la corrispondenza teologicamente obbligata fra la parola e la cosa. Una verità che non si esaurisca nel garantire l’efficacia del logos, ma faccia in esso salva l’infanzia dell’uomo e custodisca ciò che in lui è ancora muto come il contenuto più intimo e vero delle sue parole. Possiamo ancora credere in un Dio infante, come quel Gesù bambino che, come ci è stato insegnato, i potenti volevano e vogliono a ogni costo uccidere.
*
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA, FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E "PACE PERPETUA" (#KANT2024):
A CHE #GIOGO GIOCHIAMO?! ANCORA ALLA "SPADA DI DAMOCLE"?!
RIPETIZIONE E DIFFERENZA: EUROPA 2024. Dopo millenni di #cosmoteandria, si ricorda ancora la lezione del vecchio dogmatico pro-ver-#dio "chi di spada ("gladio") ferisce, di spada ("gladio") perisce"?!
A quanto pare la filologia e la teologia-politica della #tragedia non sa nulla dell’#hamlet _ ica questione dell’#enigma (e della visione) del "#crepuscolo degli #idoli": «Come? L’uomo è soltanto un errore di Dio? O forse è Dio soltanto un errore dell’uomo?».
Nonostante la sollecitazione dell’ #EcceHomo (#Nietzsche, 1888) si continua a non aver il coraggio di fare buon uso della propria facoltà di giudizio ("#Sàpere aude!", #Koenigsberg 1784/ #Kaliningrad 2024) nulla del "buon messaggio" (Matteo 26,52) e, l’anno prossimo, ci si appresta a celebrare, l’imperatore cosmoteandrico, il figlio del dio Mammona, #Costantino (Nicea, 325-2025)?!
Non è forse meglio, per il #Dantedì, per il #25marzo, rileggere la "divina commedia", la fenomenologia dello spirito dei due Soli e cercare di uscire dall’orizzonte della tragica #caduta nel luciferino #buconero?!
#QUESTIONE ANTROPOLOGICA (#KANT2024), #ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E #FILOLOGIA COSMOTEANDRICA: IL #TRAMONTO DEGLI #ORACOLI, IL #CREPUSCOLO DEGLI #IDOLI *, E LA #FINE DELL’#ANDROCENTRISMO PLATONICO-HEGELIANO (#SAPEREAUDE!).
"IL #TRAMONTO DEGLI ORACOLI": IL GRANDE #PAN E’ MORTO (#PLUTARCO, #Cheronea, 46/48 d.C. - #Delfi, 125/127 d.C.):
"«Quanto alla morte di questi esseri, io ho sentito la storia di un uomo che non era né uno sciocco né un imbroglione. Alcuni di voi hanno ascoltato il retore Emiliano, che era figlio di Epiterse, mio concittadino e maestro di grammatica. Proprio lui mi raccontò che una volta si era imbarcato per l’Italia su un mercantile con molti passeggeri a bordo: alla sera, quando già si trovavano presso le isole Echinadi, il vento cadde di colpo, e la nave fu trasportata dalla corrente fino a Paxo [isola di fronte all’Epiro, a sud di Corfù ]. Quasi tutti i passeggeri erano svegli, e molti, terminata la cena, stavano ancora bevendo.
All’improvviso si sentì una voce dall’isola di Paxo, come di uno che gridasse il nome di Tamo. Tutti restarono sbalorditi. Questo Tamo era un pilota egiziano, ma quasi nessuno dei passeggeri lo conosceva per nome. Due volte la voce dell’uomo lo chiamò, e lui stava zitto. Alla terza rispose, e allora quello con tono più alto disse: “Quando sarai a Palode [porto della città di Butroto in Epiro] , annuncia che il grande Pan è morto”.
«A queste parole, diceva Epiterse, tutti restarono sbalorditi, e si domandavano se fosse meglio eseguire l’ordine oppure non darsene cura. Allora Tamo decise che, se ci fosse stato vento, avrebbero costeggiato la riva in silenzio; se invece giunti là avessero trovato bonaccia, avrebbe riferito la notizia. Quando infinearrivarono a Palode, non un soffio di vento, non un’onda. Allora Tamo, sulla poppa, guardò verso terra e gridò: “Il grande Pan è morto”. Non aveva quasi finito di dirlo, che subito si levò un gran gemito, non di una persona sola, ma di tante, pieno di stupore. [...]». (Plutarco, "Il tramonto degli oracoli", in "Dialoghi delfici", trad. di M. Cavalli, Adelphi, Milano 1995, pp. 82-83).
* "Il crepuscolo degli idoli" (e la fine dell’#androcentrismo): «Come? L’uomo è soltanto un errore di Dio? O forse è Dio soltanto un errore dell’uomo?» (Nietzsche).
STORIA DELLA CULTURA EUROPEA:
UNA FILOSOFICA QUESTIONE D’AMORE (CHARITAS).
Una nota sul "disagio della civiltà" (e nella civiltà).
Hannah Arendt, sul "concetto d’#amore in Agostino" (1929), titola il cap. 2 della Parte Prima ("Amor qua appetitus") e della Parte Seconda ("Creator - Creatura"): "Caritas e cupiditas"; ma il Dottore della #Grazia ("Charis") non scrive "Ecce unde incipit Charitas"?
Martin Heidegger, in "Essere e Tempo" (1927), a proposito di Max "Scheler, sotto l’influenza di Agostino e di Pascal", ricorda la frase del’uno e dell’altro, e, cita in nota: "Non intratur in veritatem nisi per charitatem"; "n’entre dans la vérité que par la charité" ("Non si entra nella verità se non con la carità"). Che fare?!
Amore (Charitas") o Mammona ("Caritas"): "Essere, o non essere" (Shakespeare, "Amleto": III,1). Sul "Deus caritas est" non è forse ora di fare chiarezza (claritas)? O, per assurdo, l’amore è "lo zimbello del Tempo" (Shakespeare, Sonetto 116)?!
Non è bene ricordare, filologicamente, che "in principio era il Logos"?! Se non ora, quando?!
*
a) Cfr. Hannah Arendt, "Il concetto d’amore in Agostino", a c. di Laura Boella, SE, 2021.
b) Cfr. Max Scheler, "Ordo amoris", Morcelliana, Brescia.
c) Cfr. S. Freud, "Disagio della civiltà, Bollati Boringhieri, Torino.
LETTERATURA E PSICOANALISI: "IL CASTELLO DEI #DESTINI INCROCIATI" (ITALO CALVINO).
L’INCONTRO CON "SIGISMONDO DI VINDOBONA" [DI VIENNA] NELLA "TAVERNA DEI DESTINI INCROCIATI".
Una "presentazione" del mito di Edipo con le carte dei Tarocchi... *
"ANCH’IO CERCO DI DIRE LA MIA. [...] Tutto questo è come un #sogno che la parola porta in sé e che passando attraverso chi scrive si libera e lo libera. Nella scrittura ciò che parla è il #represso. E allora Il Papa dalla barba bianca potrebbe essere il gran pastore d’anime e interprete di sogni Sigismondo di Vindobona, e per averne conferma non c’è che verificare se da qualche parte del quadrato dei tarocchi si riesce a leggere la storia che, a quanto insegna la sua dottrina, si nasconde nell’ordito di tutte le storie.
(Si prenda un giovane, Fante di Denari, che vuole allontanare da sé una nera #profezia: #parricidio e #nozze con la propria #madre. Lo si faccia partire alla ventura su un Carro riccamente addobbato. Il Due di Bastoni segnala un crocicchio sulla polverosa strada maestra, anzi: è il crocicchio, e chi c’è stato può riconoscere il posto in cui la strada che viene da Corinto incrocia quella che va a #Tebe. L’Asso di Bastoni testimonia una rissa da strada, anzi da trivio, quando due carri non vogliono darsi il passo e restano coi mozzi delle ruote incastrati e i conducenti saltano a terra imbestialiti e polverosi, sbraitando appunto come carrettieri,insultandosi, dando del maiale e della vacca al padre e alla madre dell’altro, e se uno tira fuori dalla tasca un’arma da taglio è facile che ci scappi il morto.
Difatti qui c’è l’Asso di Spade, c’è Il Matto, c’è La Morte: è lo sconosciuto, quello proveniente da Tebe, che è rimasto in terra, così impara a controllare i suoi nervi, tu Edipo non l’hai fatto apposta, lo sappiamo, è stato un raptus, ma intanto ti ci eri buttato addosso a mano armata come se non avessi aspettato altro per tutta la tua vita. Tra le carte che vengono dopo c’è la Ruota della Fortuna o #Sfinge, c’è l’ingresso in Tebe come un Imperatore trionfante, c’è le Coppe del #banchetto di nozze con la regina #Giocasta che vediamo qui ritratta come Regina di Denari, in panni vedovili, donna desiderabile benché matura.
Ma la profezia si compie: la peste infesta Tebe, una nuvola di bacilli cala sulla città, inonda di miasmi le vie e le case, i corpi dànno fuori bubboni rossi e blu e cascano stecchiti per le strade, lambendo l’acqua delle pozzanghere fangose con le labbra secche. In questi casi non c’è che ricorrere alla #Sibilla Delfica, che spieghi quali leggi o tabù sono stati violati: la vecchia con la tiara e il libro aperto, etichettata con lo strano epiteto di #Papessa, è lei.
Se si vuole, nell’arcano detto del Giudizio o dell’Angelo si può riconoscere la scena primaria a cui rimanda la dottrina sigismondiana dei sogni: il tenero angioletto che si sveglia nottetempo e tra le nuvole del sonno vede i grandi che non si sa cosa stanno facendo, tutti nudi e in posizioni incomprensibili, mamma e papà e altri invitati. Nel sogno parla il fato.
Non ci resta che prenderne atto. Edipo, che non ne sapeva niente, si strappa il lume degli occhi: letteralmente il tarocco dell’Eremita lo presenta mentre si toglie dagli occhi un lume, e prende la via di Colono col mantello e il bastone del pellegrino).
Di tutto questo la scrittura avverte come l’oracolo e purifica come la tragedia. Insomma, non c’è da farsene un problema [...]"
*
SCIENZA, LETTERATURA E "LIVELLI DI REALTÀ" (1978):
UNA LEZIONE DI "NUOVO REALISMO" DAL "VECCHIO" ITALO CALVINO (1923-1985).
ITALO CALVINO, "Je ne suis pas satisfait de la littérature actuelle en Italie (“Gazzette de Lausanne”, 3-4 giugno 1967): *
B)
ITALO CALVINO, "La letteratura e la realtà dei livelli":
C)
Per gli Atti del Convegno Internazionale «Livelli della realtà» (Palazzo Vecchio, Firenze, 9-13 settembre 1978), pubblicati anni dopo, cfr. il volume, "Livelli di realtà", a c. di Massimo Piattelli Palmarini (Feltrinelli, Milano 1984), e, per una recensione, cfr. Federico La Sala, "Livelli di realtà" ("Alfabeta", 66, 1984).
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LE SIRENE, TRA SILENZIO E CANTO
DI GIUSEPPE ZUCCARINO (La dimora del tempo sospeso,, 3 giugno 2009)
Una delle Nuove poesie di Rilke introduce una insolita trattazione del tema dell’incontro fra Ulisse e le sirene. L’eroe greco, non nominato ma facilmente identificabile, confessa la difficoltà che sperimenta quando, nel narrare la storia dei suoi viaggi, tenta di trasmettere agli ascoltatori un’adeguata sensazione di spavento, allorché giunge a parlare «di quell’isole // la cui vista fa sì che muti volto / il pericolo, e non è più nel rombo, / non nel tumulto come sempre era; / ma senza suono assale i marinai // i quali sanno che là su quell’isole / dorate qualche volta s’ode un canto, / ed alla cieca premono sui remi, / come accerchiati // da quel silenzio che tutto lo spazio / immenso ha in sé e nelle orecchie spira / quasi fosse la faccia opposta del silenzio / il canto cui nessun uomo resiste»(1).
La lirica è volutamente ambigua, e si offre a diverse interpretazioni. I marinai della nave di Odisseo sono forse impauriti da ciò che hanno sentito dire sull’efficacia micidiale del canto delle sirene e si affrettano per timore che esso li raggiunga loro malgrado; ma secondo la narrazione omerica hanno le orecchie turate con la cera, quindi un simile timore parrebbe privo di fondamento. D’altro canto la cera che li protegge impedisce loro di appurare se il silenzio che odono è effettivo o illusorio. Chi non dovrebbe avere dubbi al riguardo è Ulisse, ma su di lui e sul suo ascolto i versi rilkiani si mostrano reticenti: non sappiamo dunque se l’idea, suggeritagli da Circe, di farsi legare all’albero maestro della nave per poter udire senza pericolo il canto delle sirene abbia avuto un senso, o se invece la precauzione si sia rivelata vana, poiché nessuna voce melodiosa è risuonata a partire dalle isole dorate. Neppure il fatto che nel finale si dica che il canto irresistibile può essere pensato come l’altra faccia del silenzio ci soccorre, intanto perché non sappiamo se tale riflessione abbia origine dall’esperienza dei marinai o da quella (che in ogni caso sarà stata diversa) di Ulisse, e poi perché ignoriamo in quale rapporto si trovino fra loro le due facce. La loro differenza potrebbe infatti essere estrema, come quella che separa due realtà di natura opposta, oppure assai minore, analoga a quella che distingue i due lati, inseparabili, di una stessa moneta o medaglia.
C’è un altro testo del primo Novecento che, se scioglie il dubbio sul prodursi o meno del canto, ne crea però altri. È un famoso brano di Kafka, rimasto inedito durante la vita dell’autore ma incluso da Brod fra i racconti postumi col titolo Il silenzio delle sirene(2). Se lo si ricolloca nel contesto originario costituito dai quaderni di appunti kafkiani, esso può prestarsi ad essere letto, oltre che in chiave narrativa, anche in modi differenti, ad esempio come una riflessione o una parabola(3). In questa annotazione, di cui conosciamo con esattezza la data (23 ottobre 1917), Kafka trasforma la versione omerica della storia, arricchendola di implicazioni inattese. Qui i marinai non compaiono più, e il confronto fra Odisseo e le sirene si fa diretto. È lui stesso che ha turato le proprie (e non le altrui) orecchie con la cera e si è legato alla nave. Si tratta, a ben vedere, di vani espedienti, in quanto «il canto delle sirene penetrava tutto, figurarsi la cera, e la passione di coloro che venivano sedotti avrebbe spezzato ben altro che catene e alberi maestri». Ma l’eroe non sospetta che i mezzi di difesa da lui adottati siano inefficaci, così come ignora che l’arma più terribile delle sirene non è la loro voce bensì il loro silenzio, capace di suscitare in chi ritenga di averle sconfitte un orgoglio smisurato e rovinoso. «E davvero, quando Odisseo arrivò, le potenti cantatrici non cantavano, sia che credessero che solo il silenzio potesse aver la meglio su quell’avversario, sia che la vista della felicità sul viso di Odisseo, che non pensava ad altro che a cera e catene, facesse loro dimenticare ogni canto». Il silenzio, però, non viene avvertito come tale da Ulisse, il quale, nella sua ingenuità, crede che le sirene stiano cantando, e che solo la cera gli impedisca di udirle. Esse, pur essendo munite di artigli, devono così accontentarsi di «afferrare, finché era possibile, il riflesso lucente degli occhi immensi di Odisseo». La loro arma più potente, il silenzio, è stata neutralizzata dall’eroe, ma la sconfitta non le ha condotte all’annientamento, come sarebbe accaduto «se le sirene avessero coscienza»: anche per loro dunque, come per Ulisse, l’inconsapevolezza sembra essere il mezzo migliore per garantirsi la sopravvivenza.
Però a proposito del greco, precisa Kafka, «la tradizione aggiunge un’appendice», da cui si apprende che forse la sua fama di scaltrezza era giustificata, in quanto egli potrebbe aver finto di non accorgersi che le sirene tacevano, recitando una commedia rivelatasi comunque efficace. Questa aggiunta rende ancor più problematico il senso della storia, poiché se già non si capiva come un Ulisse ingenuo potesse evitare di incorrere in quell’orgoglio che - a detta del narratore - costituisce l’effetto più temibile prodotto dal silenzio delle sirene, tanto meno dovrebbe esserne esente l’individuo capace di una così abile finzione di inconsapevolezza. Se quel che Kafka si proponeva inizialmente di dimostrare era che «anche mezzi insufficienti, anzi infantili, possono servire alla salvezza», dobbiamo dedurne che né l’ingenuità né l’astuzia riescono a sottrarsi ai difetti di insufficienza e infantilismo, pur potendo risultare, in qualche caso, salvifiche.
Ma non sempre, in Kafka, le sirene tacciono. In una lettera, commentando una missiva di mano femminile che giudica «tanto bella quanto ripugnante», egli osserva: «Anche le sirene cantavano così, si fa loro torto se si pensa che volessero sedurre, sapevano di avere gli artigli e il grembo sterile, di ciò si lamentavano a gran voce, non avevano colpa se il loro lamento era così bello»(4). All’origine del canto delle sirene vi sono quindi, secondo lo scrittore praghese, dei gemiti di dolore. Esse soffrono di una sorta di complesso di inferiorità nei riguardi delle donne, o in genere degli esseri femminili di una sola specie, che a differenza degli ibridi hanno la possibilità di trovare un compagno e di riprodursi. Ciò che le rende infelici è la loro natura biforme: gli artigli fanno pensare che si tratti di donne-uccello, secondo la tradizione più antica (certo condivisa da Omero, che peraltro non le descrive), e non di donne-pesce. Il fatto che i loro lamenti risuonino come un canto non ne allevia il dolore, e nel contempo le rende un pericolo per chi ascolta. La condizione delle sirene è dunque per certi versi paragonabile a quella di un’altra creatura kafkiana, l’agnello-gatto del racconto Un incrocio, innocuo e amato dai bambini (i quali però, in un momento di lucidità, non mancano di chiedersi «perché non ha cuccioli») e tuttavia isolato dagli altri animali, tanto che il suo proprietario, che pure gli è affezionato, non può impedirsi di pensare che per un simile essere «il coltello del macellaio» sarebbe forse la migliore liberazione(5).
Che quello delle sirene non sia un canto felice è anche l’opinione di Maurice Blanchot: «Pare che cantassero, ma in un modo che non soddisfaceva, che lasciava appena intendere in quale direzione si aprissero le vere sorgenti e la vera felicità del canto. Tuttavia, coi loro canti imperfetti che erano un canto ancora a venire, guidavano il navigante verso quello spazio dove il canto potrebbe cominciare veramente»(6). E si tratta di uno spazio insidioso, raggiunto il quale non resta che sparire. Ignoriamo quale difetto contrassegnasse il modo di cantare delle sirene, conferendogli al tempo stesso un potere irresistibile: forse suonava come disumano, estraneo all’uomo, oppure somigliava al nostro, ma a un punto tale «da suscitare in chi lo ascoltasse il sospetto della non umanità di ogni canto umano». Blanchot aggiunge: «C’era qualcosa di meraviglioso in questo canto reale, canto comune, segreto, canto semplice e quotidiano, che tutto a un tratto si dava a riconoscere, cantato irrealmente da potenze estranee e (diciamolo) immaginarie, canto dell’abisso: che, ascoltato una volta, apriva in ogni parola un abisso e invitava con forza a sparirvi dentro». Lo scrittore non vede in un simile invito alcun intento malevolo, e trova ingiusta l’accusa tradizionalmente rivolta alle sirene di essere menzognere e ingannevoli. Il suo biasimo si rivolge semmai ad Ulisse, a colui che perfidamente ha voluto «godere dello spettacolo delle Sirene, senza rischio e senza accettarne le conseguenze, vile, mediocre e pacifico godimento, misurato come si addice a un Greco della decadenza che non meritò mai di essere l’eroe dell’Iliade».
E nonostante ciò, l’illusione, da parte di Ulisse, di essersi liberato delle sirene, di averle sconfitte con il suo buon senso, si è rivelata infondata, perché «esse l’attirarono là dove egli non voleva cadere, e, nascoste dentro l’Odissea divenuta il loro sepolcro, lo impegnarono, lui e molti altri, a quella navigazione felice, infelice, che è il racconto». Ulisse, dunque, ha avuto bisogno di accostarsi alle sirene tanto da ascoltarne il canto, per avere un’esperienza realmente profonda da raccontare, ma ha dovuto sottrarsi a questo canto per poter sopravvivere e dar vita alla narrazione. Così - riassume in una fulminea sintesi Blanchot - «Ulisse diventa Omero»(7).
Michel Foucault ci aiuta a capire meglio il senso del discorso blanchotiano, e nel contempo lo sposta leggermente; finisce, come tutti, col narrare a suo modo la stessa storia, che cessa quindi di essere la stessa. «Le sirene sono la forma inafferrabile e proibita della voce che attrae. Non sono altro che canto. [...] La loro musica è il contrario di un inno: nessuna presenza scintilla nelle loro parole immortali; solo la promessa di un canto futuro ne percorre la melodia. È per questo che le sirene seducono, non tanto per ciò che fanno udire, ma per ciò che brilla nella lontananza delle loro parole, l’avvenire di quel che stanno per dire. Il loro fascino non nasce dal canto attuale, ma da quello che s’impegna a essere. Ora, ciò che le sirene promettono a Ulisse di cantare è il passato delle sue stesse imprese, trasformate per il futuro in poema: “Noi conosciamo le sventure, tutte le sventure che gli dèi nei campi della Troade hanno inflitto alle genti di Argo e di Troia”. Offerto come in cavo, il canto non è che l’attrazione del canto, ma non promette all’eroe nient’altro se non la copia di quel che ha già vissuto, conosciuto, sofferto, nient’altro se non lui stesso»(8). Ciò che le sirene promettono è falso, perché chi si lasciasse sedurre dalla loro voce incontrerebbe la morte, ma nel contempo è vero, «poiché è attraverso la morte che il canto potrà elevarsi e narrare all’infinito l’avventura degli eroi»(9). L’astuto greco, quindi, si è fermato sulla soglia dell’abisso, e grazie a ciò ha potuto in seguito raccontare quel poco che gli è giunto del canto delle sirene. E tuttavia - ipotizza Foucault - «può darsi che sotto il racconto trionfante di Ulisse regni il pianto inudibile per non aver ascoltato meglio e più a lungo, per non essersi immerso il più vicino possibile alla mirabile voce, là dove il canto forse si sarebbe compiuto»(10).
Degli autori finora citati, Foucault è il solo a far presente che quello udito da Ulisse non è, nel poema che ce ne ha trasmesso la storia, un canto senza parole. Cos’abbiano detto - o meglio, cominciato a dire - le sirene, ci è noto grazie all’eroe stesso, che ce lo riferisce: «Qui, presto, vieni, o glorioso Odisseo, grande vanto degli Achei, / ferma la nave, la nostra voce a sentire. / Nessuno mai si allontana di qui con la sua nave nera, / se prima non sente, suono di miele, dal labbro nostro la voce; / poi pieno di gioia riparte, e conoscendo più cose. / Noi tutto sappiamo, quanto nell’ampia terra di Troia / Argivi e Teucri patirono per volere dei numi; / tutto sappiamo quello che avviene sulla terra nutrice»(11). Come notava Foucault, la promessa contenuta in questi versi è quella di cantare le vicende della guerra di Troia, quindi anche la storia dello stesso Ulisse. Che un passo del genere presenti forti implicazioni metapoetiche è stato rilevato con acume da Italo Calvino: «Cosa cantano le Sirene? Un’ipotesi possibile è che il loro canto non sia altro che l’Odissea. La tentazione del poema d’inglobare se stesso, di riflettersi come in uno specchio si presenta varie volte nell’Odissea, specialmente nei banchetti dove cantano gli aedi; e chi meglio delle Sirene potrebbe dare al proprio canto questa funzione di specchio magico?»(12). Benché Calvino richiami subito dopo, elogiandolo, il testo di Blanchot, il ragionamento che propone nel passo citato conduce di fatto a una diversa conclusione: per lui sono le sirene, e non Ulisse, a diventare Omero.
In un saggio successivo, tornando ad esaminare in modo più articolato i diversi effetti di autoreferenzialità presenti nel poema, Calvino riprende la tesi che già conosciamo, ma con una correzione di non poco rilievo: «Ulisse incontra le Sirene che cantano; che cosa cantano? Ancora l’Odissea, forse uguale a quella che stiamo leggendo, forse diversissima»(13). L’ultima ipotesi nasce dalla constatazione che nell’opera omerica la storia di Ulisse viene raccontata varie volte in modi differenti, da altri personaggi ma anche dallo stesso protagonista, che del resto ha fama di essere un provetto ingannatore. A questo punto risulta difficile stabilire quale sia la versione più «autentica» delle avventure dell’eroe, e a fortiori immaginare se proprio quella e non un’altra sarebbe divenuta oggetto del canto delle sirene.
Forse, si potrebbe aggiungere, la lusinga irresistibile legata a quel canto dipendeva proprio dal fatto che esso offriva ad ogni navigante una versione, se non fantasiosa, quanto meno abbellita, e resa dunque più affascinante, della sua storia. Anche per questo le sirene si prestano a diventare un’immagine del discorso letterario, che, proprio perché sa mentire (e sa di mentire), è sempre persuasivo e coinvolgente. Questa capacità di trasformare i dati del reale è ciò che, più di ogni altra cosa, accomuna davvero quelle tre entità mitiche - e sia pure diversamente mitiche - che sono le sirene, Ulisse ed Omero. Infatti anche quest’ultimo appare per molti versi assimilabile ai personaggi dei poemi che la tradizione gli attribuisce: «Come gli antichi hanno sempre saputo, l’esistenza di Omero poeta è mitologia, come partecipa della mitologia il leggere Omero»(14). Chi legge l’Odissea può percepire le vicende narrate come irreali, ma può ugualmente - come infatti avviene da un buon numero di secoli - farsi catturare nello spazio della finzione, fino a interrogarsi e fantasticare su simili eventi. Fra questi l’incontro di Ulisse con le sirene è stato e continuerà ad essere uno dei più suggestivi, specie per quei particolari lettori (ricettivi, ma inclini a reinventare) che sono gli scrittori.
Tratto da: Giuseppe Zuccarino, Da un’arte all’altra, Novi Ligure (AL), Edizioni Joker, “Materiali di Studio”, 2009.
Note
(1) Rainer Maria Rilke, L’isola delle sirene (1907), in Nuove poesie - Requiem, tr. it. Torino, Einaudi, 1992, p. 203.
(2) Franz Kafka, Il silenzio delle sirene, in Racconti, tr. it. Milano, Mondadori, 1970, pp. 428-429.
(3) Lo si veda in F. Kafka, Il silenzio delle sirene. Scritti e frammenti postumi (1917-1924), tr. it. Milano, Feltrinelli, 1994, pp. 44-46 (da cui si cita).
(4) F. Kafka, lettera a Robert Klopstock del novembre 1921, in Lettere, tr. it. Milano, Mondadori, 1988, p. 430.
(5) Cfr. F. Kafka, Un incrocio (1917, ma pubblicato postumo nel 1931), in Racconti, cit., pp. 422-424.
(6) M. Blanchot, Le chant des Sirènes, I. La rencontre de l’imaginaire, in Le livre à venir, Paris, Gallimard, 1959; 1986, p. 9 (tr. it. Il canto delle Sirene, I. L’incontro con l’immaginario, in Il libro a venire, Torino, Einaudi, 1969, p. 13).
(7) Per tutte le citazioni, cfr. ibid., pp. 10-14 (tr. it. pp. 13-16).
(8) M. Foucault, La pensée du dehors (1966), Montpellier, Fata Morgana, 1986, pp. 41-42 (tr. it. Il pensiero del fuori, Milano, SE, 1998, pp. 43-44).
(9) Ibid., p. 42 (tr. it. p. 44).
(10) Ibid., p. 44 (tr. it. p. 45).
(11) Omero, Odissea, XII, vv. 184-191, tr. it. Torino, Einaudi, 1963; 1984, p. 339.
(12) I. Calvino, I livelli della realtà in letteratura (1978), in Una pietra sopra (1980); ora in Saggi, Milano, Mondadori, 1995, p. 396.
(13) I. Calvino, Le Odissee nell’Odissea (1981), in Saggi, cit., pp. 888-889.
(14) Giorgio Manganelli, Omero: Odissea (1981), in Laboriose inezie, Milano, Garzanti, 1986, p. 18.
#PSICOANALISI E #RINASCITA:
IL PROGRAMMA DI #FREUD DI RIPENSARE L’#EDIPO #COMPLETO (E CAPIRE "COME SI DIVENTA CIO’ CHE SI È") E LA DIFFICOLTÀ PRINCIPALE AFFRONTATA NEL SUO "#MOSAICO" PERCORSO.
Una ipotesi di ricerca...
#BIOGRAFIA E #STORIOGRAFIA: "SAPERE AUDE!" (KANT, 1784). RICORDANDO CHE FREUD ha iniziato la sua discesa nel regno di #Ade, agli #inferi (nel mondo dei "sogni"), con #Virgilio (e con la guida dell’#Eneide) e, in particolare, in sintonia (non con lo spirito di #Afrodite / #Venere ed #Eros / #Cupìdo ma) con lo spirito di #Era / #Giunone - con l’aiuto della "Madre", di cui richiama le parole, polemiche contro lo stesso #Zeus / #Giove - contro lo spirito del "Padre": "Flectere si nequeo Superos", #Acherontamovebo"), forse, è bene richiamare l’attenzione su uno dei primi fondamentali passi "edipici" del giovane "Freud-#Mosè" sulla strada della conoscenza e dell’uscita dallo "#stato di #minorità" (Kant, 1784):
"La notte prima del funerale di mio padre sognai una tabella a stampa, un manifesto o un affisso - pressappoco come i cartelli:
"Vietato fumare" nelle sale d’aspetto delle ferrovie - su cui si leggeva:
Si prega di chiudere gli occhi
oppure
Si prega di chiudere un occhio,
alternativa che sono abituato a raffigurare nella forma seguente:
gli
Si prega di chiudere occhi(o).
un
Ciascuna delle due versioni ha un suo significato particolare e nell’interpretazione del sogno conduce a vie particolari. Avevo scelto il cerimoniale più semplice, perché sapevo che cosa pensasse il morto di tali manifestazioni; ma altri membri della famiglia non erano d’accordo; ritenevano che saremmo stati costretti a vergognarci di fronte agli intervenuti alla cerimonia. Perciò una versione del sogno chiede di "chiudere un occhio" vale a dire di usare indulgenza. " (S. Freud, "L’Interpretazione dei sogni", cap. 6, pf. C).
ONORARE IL PADRE E LA MADRE. Sul "Si prega di chiudere gli occhi", nella lettera a Fliess del 2 novembre 1896, Freud scrive che la formulazione della frase è "a doppio senso e significa in ambedue i casi: bisogna adempiere al proprio dovere verso i morti", in particolare, il dovere filiale di chiudere gli occhi al defunto. Nella "Interpretazione dei sogni", Freud "tace": guardare negli occhi il proprio padre #Jacob (morto) e, addirittura, chiuderglieli, per l’ "Edipo re", evidentemente, è una missione "impossibile".
USCIRE DALL’#INFERNO E #APRIREGLIOCCHI. L’ anno «prima di morire, il 12 maggio 1938, mentre fuggiva da Vienna a Londra per evitare i nazisti, scrisse al figlio Ernst: "Talvolta mi paragono a Giacobbe [così si chiamava il padre] che i suoi figli, quando era già vecchio, portarono in Egitto» (J. J. Spector, "L’estetica di Freud", Mursia, Milano 1972).
A #LONDRA, #SigmundFreud muore il 23 settembre 1939: "L’uomo Mosè e la religione monoteistica" era stato pubblicato ad #Amsterdam l’anno prima, nell’autunno del 1938 (con la data: 1939).
IL CANTO DELLE SIRENE: CON ULISSE, OLTRE SCILLA E CARIDDI, OLTRE LE COLONNE D’ERCOLE.
A SCUOLA DA CICERONE, PER COMPRENDERE MEGLIO L’ODISSEA DI OMERO E LA COMMEDIA DI DANTEALIGHIERI... E USCIRE DAL LETARGO. Alcuni appunti...
A) "IL SOMMO BENE E IL SOMMO MALE": "C’è, innato in noi, un amore così grande della conoscenza e della scienza che nessuno può dubitare che la natura umana sia spinta verso queste cose senza essere allettata da alcun guadagno. [...] E a me sembra senz’altro che Omero abbia visto qualcosa di questo genere in quei versi che ha composto sui canti delle Sirene. E infatti sembra che non fossero solite richiamare coloro che passavano di lì grazie alla soavità delle voci o ad una certa novità e varietà del canto, ma poiché dichiaravano di sapere molte cose, cosicché gli uomini si incagliavano ai loro scogli per bramosia d’imparare. Così infatti invitano Ulisse. [...].
Omero vide che la storia non poteva essere accettata, se un uomo tanto grande fosse trattenuto, irretito da delle canzonette; (le Sirene) promettono la scienza, che non era sorprendente che fosse più cara della patria ad un (uomo) desideroso di sapienza. E desiderare di conoscere tutte le cose, quali che siano, deve essere ritenuto proprio dei curiosi, invece essere condotti tramite la contemplazione delle cose più grandi al desiderio della scienza deve essere ritenuto proprio degli uomini sommi."(Cicerone, "De finibus bonorum et malorum", V, 18).
B) LA "FEMMINA BALBA" E LA "DOLCE SIRENA" E IL BRUSCO RISVEGLIO DAL SONNO DOGMATICO: LA DIVINA COMMEDIA. Con l’aiuto della memoria della figura paterna (Virgilio) e della figura materna (Beatrice), la donna "santa e presta", Dante Alighieri riesce a portarsi oltre le illusioni del "sommo bene" e del "sommo male" e a proseguire il suo viaggio al di là dell’inferno e del #purgatorio, verso la sua piena rinascita e fuori dallo "stato di minorità" (Kant):
* STORIA E LETTERATURA: MARIA CORTI, “IL CANTO DELLE SIRENE".
IL SOGGETTO, LA MASCHERA, E LA SOCIETÀ TRASPARENTE.
Alcune note su "che cosa ha veramente detto GIANNI VATTIMO". *
AUTOIRONIA, "Auto-chiarificazione (filosofia critica)", e Charitas: queste poche parole, forse, possono essere dei segnavia per non perdersi l’essenziale (e, in qualche modo, per distinguere prima e unire poi, quanto ritenuto accoglibile) nel mare della ricchissima produzione culturale e professionale di Vattimo.
UNA NUOVA "FILOSOFIA DELL’AVVENIRE". "«L’uomo è ciò che mangia, ma soprattutto quel che beve». Così Gianni Vattimo, scomparso il 19 settembre scorso, trasformò il celebre motto di Ludwig #Feuerbach, bevendo un calice di rosso della Sila. Di origini calabresi e fama mondiale, il filosofo torinese era autoironico, alleggeriva i discorsi, amava scherzare e porsi con umiltà." (cfr. Emiliano Antonino Morrone, "La ricerca (infinita) della verità e il pensiero “forte” di Vattimo per la sua San Giovanni in Fiore", Corriere della Calabria, 22.09.2023).
Rimettendo storicamente e antropologicamente accanto all’ironia (della dialettica platonico-socratica), anche l’autoironia di Gianni Vattimo, forse, a omaggio delle sue "AVVENTURE DELLA DIFFERENZA" (1980)", in un mondo dove la lanterna è in mano ai #ciechi, è più che opportuno richiamare alla memoria la figura di Diogene di Sinope.
RIPARTIRE DALLA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA DELL’ATTUALE PRESENTE STORICO. Se nel "processo dell’avvento del valore di scambio come metro di misura totalizzante si nasconde il trionfo dell’homo oeconomicus e della tendenza all’illimitazione del capitalismo", e, ancora, come ricorda Francesco Fistetti, "il recupero del valore d’uso e di un progetto di demercificazione dei mondi vitali va reimpostato a quest’altezza ", come è possibile svegliarsi dal "sonno dogmatico" (Kant)?
QUESTIONE ANTROPOLOGICA. Come mi sembra di capire, non è proprio il caso di re-interrogarsi sul tema del "soggetto e della maschera" (Vattimo, 1974) e riprendere la indicazione kantiana del 1784 (riafferrata per i capelli, da Michel Foucault nel 1984), della questione antropologica e ripartire dal "#sàpereaude!", "dal coraggio di servirsi della propria intelligenza"? All’ordine del giorno, oggi, per ri-"orientarsi nel pensiero" (Kant) e per una seconda rivoluzione copernicana (Th. W. Adorno), è augurabile che venga ripresa la lettura dello "Spaccio della bestia trionfante" di Giordano Bruno e del "Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano" del Galileo Galilei, senza queste opere l’uscita dal letargo claustrofilico e terrapiattistico è impensabile.
IL MATERIALISMO DIALETTICO. Superato Kant dialettica-mente (con la hegeliana astuzia della ragione "mascherata" - già di Platone e Cartesio, sia atea sia devota, sia idealistica sia materialistica), si è perso anche il senso e il sottotitolo stesso del lavoro di Marx sul "Capitale" e, con esso, ogni possibilità di portare avanti la stessa "critica dell’economia politica": si tenga presente che per John Dewey, la rivoluzione di Kant è "un ritorno a un sistema di tipo ultra-tolemaico").
LA "COSCIENZA MISTICA", IL "SOGNO DI UNA COSA", E "IL PROBLEMA DELLA LIBERAZIONE". Paradossalmente, e probabilmente, se avessimo letto di più e meglio sia Giambattista Vico sia Kant a questa ora, in occasione della riflessione sul percorso filosofico di Gianni Vattimo, forse, potremmo capire di più la sua reale vicinanza e consonanza con la "Critica dell’idealismo" della "Critica della Ragion Pura" (1787) e il programma giovanile di Marx, il sogno di una cosa (1843) : "Sarà chiaro come non si tratti di tirare una linea retta tra passato e futuro, ma di realizzare le idee del passato. Si vedrà infine come l’umanità non incominci un lavoro nuovo, ma venga consapevolmente a capo del suo antico lavoro."("Annali franco-tedeschi"). Uno dei più importanti contributi in tale direzione di Gianni Vattimo, a mio parere, è proprio il saggio del 1974: "Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione" (Bompiani, 1974). Negli stessi anni, nelle infinite analisi sul rapporto tra il marxismo ed Hegel, correva il ripescaggio del "sapiente" Bovillus e della sua "rinascimentale" antropologia piramidale.
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FILOSOFIA ANTROPOLOGIA PSICOANALISI E RINASCITA:
LA RIPRODUZIONE SOCIALE NELLA CAVERNA E UNA SOLLECITAZIONE A USCIRE DAL CINEMA.
Una nota a margine della "lettura" che del film di Marco Bellocchio ("Rapito") propone Felice Cimatti *
"RAPITO". Una nota a margine della "lettura" che del film di #MarcoBellocchio propone #FeliceCimatti ("Il soggetto e la libertà", "FataMorgana Web", 4 giugno 2023):
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NOTA.
"RAPITO". A meglio comprendere l’interpretazione "dialettica" del film, proposta da Felice Cimatti - “Prima il rapimento, poi la libertà, è questa la strada inusuale e controintuitiva che Bellocchio ci propone di seguire”, - forse, può essere opportuno riascoltare, sul tema della relazione "pedagogica", l’intervista fatta nel 2017 da Chiara Ugolini allo stesso regista:
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO *
Il titolo, Dante poeta-giudice del mondo terreno (Roma, Viella, 2020), sembra lanciare una sfida, suggerire un recupero, offrire una conferma, o, detto in modo diverso, indicare una grande costruzione su una pianta vecchia. Reggerà? Conserverà molto e in modo riconoscibile l’edificio antico? o lo restaurerà con pochissime modifiche? Ecco alcune delle domande che il titolo in esponente fa sorgere, e il fatto che metta in moto il lettore con questa serie di promesse e di sfide e di curiosità dice molto della felicità di un titolo che cifra il libro e nello stesso tempo ne suggerisce una chiave di lettura. In effetti ogni dantista vi sente l’eco del Dante als Dichter des irdischen Welt, il celeberrimo saggio di Erich Auerbach del 1929, che, partendo da uno spunto hegeliano, segnava un modo assolutamente nuovo di leggere la Commedia.
Senza più perdersi negli infiniti problemi posti dalle esegesi positiviste o idealiste, Auerbach puntava sul tema del “realismo”, che conserva i tratti del mondo terreno pur trasferendoli nel mondo ultraterreno, e non solo li conserva ma li “essenzializza”, come poi dirà lo stesso Auerbach nell’altro ancor più celebre saggio Figura del 1938. In questi studi capitali, però, non compariva il “giudice” accanto al “poeta”, una presenza che invece Antonelli rileva nel suo titolo hyphenated, ossia con quel trattino che crea un’unità semantica nel momento stesso in cui la scompone. È una combinazione che consente di recuperare un altro dato cruciale negli studi danteschi, ossia quella distinzione tra autore e personaggio, lanciata simultaneamente da Contini e da Singleton negli anni Cinquanta. La distinzione è sottilissima e ha creato anche molta confusione perché è stata schematizzata e irrigidita. Antonelli invece la utilizza per avvalorare il “realismo” e trasformarlo in un messaggio profetico. Per lui il rapporto personaggio/autore non è un binomio oppositivo ma dialettico che consente al poeta Dante di “giudicare” l’operato e le reazioni del suo personaggio davanti alle anime dell’altro mondo. In altre parole, Dante assolve la funzione del “giudice” delle sue proprie azioni e reazioni negli incontri con le anime durante il suo viaggio nel regno dei morti. E poiché questo personaggio che reagisce e si giudica è il Dante che ha precisi tratti anagrafici, ma è anche un everyman (come viene annunciato fin dalla prima terzina con la compresenza del “nostra vita” e “mi ritrovai”), il giudizio su sé stesso è spesso anche giudizio sull’operato umano in generale. E siccome il Dante personaggio è un peccatore, il suo giudicarsi ha una funzione penitenziale. Per giunta l’everyman che è in lui giustifica e allarga il suo giudizio agli eventi del mondo, alla sua politica e ai suoi mores e valori. Il Dante autore prende la voce delle guide che lo sostengono nel viaggio, prima Virgilio e poi BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 293 Beatrice; e man mano che il Dante personaggio si libera dei suoi peccati o delle tendenze peccaminose, tende ad identificarsi con la saggezza e il sapere delle sue guide. Ma il processo educativo non si ferma con l’esaurimento di questi insegnamenti: infatti, una volta superato l’esame davanti ai teologi e diventato “puro e disposto” a vedere Dio, il poeta e il suo personaggio si sovrappongono, anzi si identificano. Così, quando quel binomio diventa una sola persona, allora il poeta acquista la voce di un autore-profeta perché non parla più di sé ma parla a tutti gli uomini riferendo a questi la parola divina, e in tal modo la sua poesia prende il valore della profezia o di voce poetica ispirata da Dio.
Fino a questo punto vediamo che Antonelli erige un edificio in cui si riconoscono almeno le vecchie fondamenta, ossia i principi strutturali sui quali il poema viene costruito. Ma è anche vero che l’edificio presenta novità considerevoli: un realismo che produce realtà metafisiche e una coppia che ha per fine quella di comporsi in un’unità. Ma perché questa macchina funzioni alla perfezione è indispensabile un elemento strutturale del tutto nuovo: è la nozione del “teatro del mondo” lanciata da Harald Weinrich a proposito della Commedia e che Antonelli integra e ingrana nelle altre strutture indicate: è una novità che completa l’impalcatura in modo da rendere funzionale il nuovo edificio. Nelle intenzioni di Harald Weinrich “il teatro della memoria” serve a chiarire una modalità del “realismo dantesco”, spiegando come la collocazione dei personaggi contribuisca a renderli memorabili. Antonelli utilizza questa nozione - ampiamente chiarita nel terzo capitolo - e la porta a conseguenze estetiche ulteriori e ben più complesse di quanto non risulti dal saggio di Weinrich. La memoria che a lui interessa non è tanto quella dei lettori quanto quella del viator, sia nella veste dell’auctor sia nella veste del personaggio. L’autore ha bisogno di creare una struttura per il viaggio del suo personaggio e deve fare in modo che i “loci” in cui colloca le anime creino un ordine compatibile con le gerarchie dei sistemi morali e cosmologici.
Quella struttura è quindi fatta di simmetrie e di collegamenti che giustificano i rimandi interni dell’opera che - ora è chiaro - sono calcolati e quindi sono semanticamente significativi. Pertanto il teatro della memoria più che una costruzione tassonomica di cui si servivano le enciclopedie rinascimentali (chi non ricorda “il teatro della memoria” di Giulio Camillo?) è una sorta di “cassa di risonanza”, che spiega e autorizza i rimandi testuali che si possono cogliere all’interno del poema, le numerose allusioni ad episodi superati e ad episodi che verranno. Il teatro della memoria, insomma, “lega” la Commedia in un racconto dove l’autoreferenzialità conferma la sapienza e la consapevolezza di un portentoso piano costruttivo. Non un semplice palcoscenico dal quale lo spettatore può abbracciare “l’ordine del mondo” rappresentato dalle “sedi” o “categorie” della realtà, come volevano i teatri mnemonici rinascimentali, ma un vero teatro nel quale il personaggio deve muoversi e interloquire con i personaggi collocati nei loci assegnati loro dalla giustizia divina e corrispettivi al loro operato in questa terra. Tutto questo suggerisce la seguente considerazione: la Commedia è essa stessa una sorta di teatro o di finzione del vero così ben realizzata da sembrare vera. Il “teatro” in effetti è la più ovvia delle finzioni, e gli spettatori sanno di assistere a uno spettacolo non vero, ma che per essere persuasivo deve essere vero nella rappresentazione. Perché sia teatro bisogna che si seguano alcune convenzioni, fra cui primeggiano quelle dello spazio chiuso del teatro, il palcoscenico e la maschera.
A teatro gli attori saranno tanto più convincenti quanto più mentiranno, cioè fingendo di essere persone diverse da quello che sono. Era questo Le paradoxe sur le comedien di Diderot e ripreso da Gadamer, e nella Commedia gli eventi sono così ben “finti” che ancora potremmo discutere se il viaggio di Dante nell’oltretomba sia una visione vera o una visione immaginata. Congegnata in questo modo, la macchia della Commedia non è statica ma si muove, e Antonelli ne ricostruisce la dinamica in modo convincente. Sulle linee portanti dell’ordito indicato, Antonelli avvia la tessitura del libro che è composto di varie tappe, ma tutte viste nel fieri del viaggio, nel crescere del personaggio e del poeta in vista degli scopi che la loro dialettica si prefigge.
Ad esempio: il Limbo e l’incontro con i maestri classici e il fatto che Dante si senta “sesto fra cotanto senno” non significa solo che egli sia indebitato intellettualmente verso quella “bella scuola”, ma anche che dovrà procedere oltre e scrivere il “poema sacro”, e quindi la separazione da quei grandi poeti ha anche il senso del superamento e della missione penitenziale che presiede al viaggio intero. È anche un preludio alle “separazioni” che verranno: il Pellegrino si separerà da Virgilio quando avrà appreso da lui la “scienza” che si può ricavare dal sapere antico; e si separerà anche da Beatrice dopo che l’avrà guidato nel mondo della “sapienza” e lo ho reso capace di vedere Dio. Anche questo è un divenire che la “cassa di risonanza” aiuta a mettere in luce e in prospettiva.
La poesia come soggetto è uno dei temi toccati con frequenza altissima nel corso della Commedia per ragioni che sono in parte ovvie e in parte vengono alla luce da una lettura come quella di Antonelli. Le origini della Commedia si trovano nella Vita nuova, origini che sono anche un traguardo del viaggio come ritorno all’innocenza e alla purezza che rende atti alla visione finale e all’investitura divina della dote profetica, inverando dunque quelle potenzialità dell’amore che, intese male in gioventù, hanno sviato il poeta e i suoi compagni. La Commedia è ricca di personaggi poeti che indicano in modi diversi l’uso buono e meno buono di questo dono del linguaggio poetico, e fra questi ha un ruolo speciale Guido Cavalcanti, il primo amico di Dante. Non per nulla la sua è una presenza costante nel poema, ma una presenza inquietante e celata, anche perché egli è ancora vivo nel momento in cui Dante compie il viaggio. Cavalcanti è una specie di interlocutore mentale, possiamo dire, la cui voce viene colta spesso in allusioni di rime e di immagini che Antonelli coglie dove nessuno le aveva viste, e questo è possibile grazie alla sua esperienza scientifica di studioso della rima come fonema semantico. E le numerose osservazioni in tale senso sono anch’esse il risultato di quel “teatro della memoria”, in cui ogni locus sta in relazione ad altri, e la valorizzazione di queste corrispondenze dipende dalla sagacia del lettore.
Al tema della poesia sono intrecciate la missione del poema e il suo “messaggio”, e ciò spiega non solo l’accoglienza nella “bella scuola”, come abbiamo detto, ma tutta una serie di episodi che tramano il viaggio, dagli incontri con Francesca a Bertran de Born e Arnaut Daniel; è presente nella missione rivelatagli da Cacciaguida e nell’esame dei teologi che garantisce la fondazione dell’investitura celeste a parlare ai popoli dall’alto dei cieli con la parola umana ma con un messaggio sacro. E quando ciò sarà chiaro, sarà anche ovvio che il personaggio e il poeta parlano con la stessa voce perché il primo ha l’approvazione totale del secondo. Parallelo al tema poetico è quello politico che emerge in una serie di episodi “forti” - da Farinata, a Bonifacio VIII, all’aquila del paradiso e all’incontro con Cacciaguida e in vari altri - ma è presente ovunque non solo per il ruolo che la politica ebbe nel destino civile di Dante, ma perché la giustizia divina in terra si realizza con una sana politica che viene alterata quando i due poteri o i due “soli” collidono anziché cooperare. Ed è un argomento per il quale l’autore e il personaggio si erigono a “giudici” del mondo terreno, giudizio che all’inizio mette in luce gli errori che “il personaggio” stesso ha commesso e di cui ora vede le conseguenze, ma il viaggio penitenziale lo libera anche da queste scorie, per cui, con la maturità di chi conosce il mondo, si fa portavoce del volere divino. In tal modo e dall’alto dei cieli la sua parola acquista la qualità della profezia che annuncia i castighi e sa indicare la via giusta per evitarli. Anche in questo filone vediamo, dunque, che la tensione del duo autore/personaggio culmina nella fusione perfetta dei due. È la sola condizione che consenta il passaggio dal poeta al profeta e che autorizzi la definizione di “poema sacro” alla sua opera. Nessuno dei maestri/guida di Dante può essere “profeta” perché tale ruolo non è concesso né ai morti né ai santi: solo una persona viva, che per grazia speciale comunica con Dio, può rivelare ai vivi il volere e la giustizia divina. Il “realismo” della visione, così ben evidenziato da Auerbach, acquista ora una funzione chiara: esso sostanzia le istanze profetiche di giustizia davanti ad un mondo “che mal vive”, istanze ampiamente espresse nel corso di tutta l’opera. E in questa figura del profeta, suprema ipostasi del “poeta-giudice”, si condensa il messaggio morale e artistico del poema sacro.
La dinamica instaurata dalla compresenza di autore e personaggio viene dunque spiegata in modo nuovo e viene utilizzata in modo persuasivo. È sicuramente una delle conquiste di questo libro. Del quale non possiamo render conto dettagliato del come vengano affrontati annosi problemi del poema e del modo nuovo con cui vengano risolti; qui ci limitiamo a dire che tutti gli aspetti presi in esame contribuiscono a creare quel senso di organicità che gli edifici ben costruiti presentano. È un libro così intrecciato nei suoi quattordici capitoli che nessun particolare potrebbe essere sufficientemente descritto senza fare riferimento a tutte le ramificazioni che spiegano perché faccia parte del poema e perché lo si trovi nel punto in cui lo leggiamo. In ultima analisi ciò dipende dal fatto che tutto il poema tenda a culminare in quel punto che lo rende sacro e profetico pur rimanendo sostanzialmente autobiografico.
La poesia della Commedia ricrea il mondo terreno in uno spazio che dovrebbe essere abitato da sole ombre, ma di fatto esse sono più vere di quelle che hanno calpestato la terra perché sono “essenzializzate”, come aveva visto Auerbach. Antonelli aggiunge che il realismo risultante da tale interpretazione avvalora il giudizio della persona che visita il regno dei morti e lo addita ai viventi perché sappiano trovare nel teatro dell’aldilà o nell’eterno il luogo che tramanda la memoria di ciò che avviene sulla terra. È un passato storico messo a fuoco perché viene rivisto attraverso il filtro del giudizio divino: il poema non è solo “realistico” ma anche profondamente morale. La promessa di imitazione/sfida notata nel titolo viene adempiuta: si conservano elementi di alcune tesi ormai classiche, ma le si rinvigorisce con una visione sensibilmente rinnovata. Il risultato è un libro difficile da riassumere, ma che decisamente si distingue nella voluminosa dantistica attuale.
FILOSOFIA (DELLA CAVERNA) E PSICOANALISI:
L’OMBRA MINACCIOSA DELL’IMMAGINARIO DI EDIPO E PLATONE SULLE SPALLE DELL’INTERA EUROPA.
Una lettera di Sigmund Freud a Lou Andreas Salomé del 25 novembre del 1914, da ri-leggere:
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PER NON BUTTARE IL BAMBINO INSIEME ALL’ACQUA SPORCA. A gloria di Freud, nonostante la catena che lo teneva legato alla Madre e, come Edipo, si sia comportato da #Padrino ("Pater Freudenreich* - Padre Freud"), fin dal "caso Dora" e, poi, sia arrivato alla disperazione e al pessimismo più nero ("Perché la #guerra?". Carteggio #Einstein-Freud, 1932/1933) sulle possibilità di portarsi fuori dalla tradizionale cosmoteandria di Platone (e Socrate), bisogna dire che, con (e come) Mosè, riuscì a salvarsi dalle grinfie del "Faraone" del XX secolo e a raggiungere Londra!
A mio parere, la sua lettera a #Lou Salomé è una grande sollecitazione a pensare ancora, di più, e meglio, alle difficoltà gigantesche che sono sì del Freud del 1914, ma che sono ancora, oggi - dopo la morte di Nietzsche (1900) e la stessa morte di Freud (1939) - quelle dell’Europa del 2023, governata dalla logica della tragedia di Edipo e dall’algoritmo demiurgico del "Grande Sconosciuto".
PSICOANALISI, CRISTIANESIMO, ANTROPOLOGIA E LETTERATURA:
"PSICOLOGIA DELLE MASSE E ANALISI DELL’ IO" (S. FREUD, 1921): DANTE ("Io non Enëa, io non Paulo sono": Inf. II, 32) SA "DOVE METTE CRISTOFORO IL PIEDE" (cfr. Wilhelm Stekel, "Il ’Piccolo Kohn’ ", 1903, tradotto e curato da Michele Lualdi).
"IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS", "CRITICA DELLA RAGION PURA" (KANT), E "IDEALE DELL’IO" (S. FREUD). CON GIASONE (OVIDIO) E CON ASTREA (LA "VIRGO" DI VIRGILIO) E MARIA-BEATRICE (LA "VERGINE" DI SAN BERNARDO), DANTE RIPRENDE IL CAMMINO, dall’ INIZIO (dall’Inferno) ma dal PRINCIPIO (Par. XXXIII: "Vergine Madre, figlia del tuo figlio [...] l’amor che move il sole e l’altre stelle") e racconta come è riuscito a ritrovare "LA DIRITTA VIA" e a capire il senso antropologico di sé: "Io sono l’alfa e l’omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine" (Ap., XXII, 13).
ANTROPOLOGIA FILOSOFIA E PSICOANALISI: "LA MATURITA’ E’ TUTTO"("King Lear", V. 2) ... MA E’ ANCORA DIFFICILE DA RAGGIUNGERE.
Un omaggio a William Shakespeare...
PSICOLOGIA E FILOSOFIA. Carl Gustav Jung ha fatto un brillantissimo lavoro su «Lo Zarathustra di Nietzsche. Seminario 1934-39» , ma alla fine la sua stessa ombra gli ha impedito di giungere a fondo e a capo dell’enigma di Edipo, della domanda (la "question") di Amleto, della "visione e l’enigma di Zarathustra e, infine, di accogliere il bambino nato dalla metamorfosi del cammello e del leone (cfr. Federico La Sala, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica", Antonio Pellicani Editore, Roma 1991 ).
"CONOSCI TE STESSO" (DELFI): "ECCE HOMO. Come si diviene ciò che si è" (Nietzsche, 1888). Il problema è antico, e il cammino di ogni essereumano è ancora lungo. Per lo più siamo fermi (come umanità) in una fase dello sviluppo segnato dalla minore età, di "giovani" che non hanno imparato a pensare con la propria testa e a camminare con i propri piedi; di esseri umani che vivono ancora come cammelli che viaggiono in un deserto con le loro tavole del "tu devi"; e di molti altri che hanno saputo liberarsi dei pesi, ma vanno in giro in una foresta solo a ruggire come leoni con la potenza del loro "io voglio", ma Nessuno ancora è giunto a venir fuori dal proprio "stato di minorità", a diventare maggiorenne, e a saper dire, con semplicità, "io sono colui che sono": "Ecce Homo" ("Ecco un Essere Umano"). Forse è bene rimettersi in cammino con Dante e Virgilio e uscire dall’orizzonte della caduta e della tragedia.
Federico La Sala
PSICOANALISI, FILOLOGIA, E "DIVINA COMMEDIA": INTERPRETAZIONE DEI SOGNI (1899) E "COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (SIGMUND FREUD, 1937).
CHIARISSIMA International Psychoanalytical Association (IPA), SULLE ALI DEL VENTO, UNA BRILLANTE "CONSONANZA" PRIMAVERILE CON LA LONDRA DI MARESFIELD ("Freud Museum London") E DINTORNI, IL SUO POST SU BELLA FREUD.
DIVINA COMMEDIA. Avendo richiamato da poco alla memoria il nome della madre di Dante Alighieri - Gabriella (Monna Bella) degli Abati, meglio nota come Donna Bella degli Abati - e, da tempo (almeno dal 2007), fatta l’ipotesi che la ragione per cui la figlia di Dante, Maria Antonia, abbia scelto il nome di Beatrice quando entrò in convento e divenne suora, stia proprio nel fatto che Bella era il nome della nonna, quella donna 🌞"bella e beata"🌞(Inf. II, 54), che sollecita Virgilio ad aiutare Dante, oggi☀️(15.02.2023), ho trovato molto significativa la coincidenza con il fatto che la pronipote di Freud sia (e per davvero), già solo per il #nome e #cognome, legata alla figura di Freud e, al contempo, di Virgilio e Dante. 🌞🙏
N.B. - Dopo i maestri del sospetto (Marx Nietzsche e Freud), come è possibile (Kant) continuare a pensare all’altezza dI DANTE2021 che il Sommo Poeta tradisca spiritualmente la sua sposa Gemma Donati e i suoi figli e la sua figlia Antonia, suor Beatrice?
"L’Interpretazione dei Sogni" (1899) ha il suo legame con l’Eneide (VII, 312: "Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo") di Virgilio e "L’uomo Mosè e la religione monoteistica"(1938) con il tema dell’«In exitu Isräel de Aegypto» della Divina Commedia (Pg. II, 46-48) di Dante.
#QUESTIONEANTROPOLOGICA (#FILOLOGIA E #CRISTOLOGIA ): SHAKESPEARE E NIETZSCHE.
La grande eroica ricerca di #Nietzsche è stata quella di rispondere alla domanda già di #Shakespeare , alla #question di Amleto, e portare il discorso oltre #Wittenberg (la #RiformaProtestante ), e chiarirsi e chiarire le idee relative all’ #essere degli esseri umani, figli e figlie del "#Re dei Re", di "Dio", e di andare oltre la tragica #logica del "sapere di non sapere" platonica, del #mentitore, e dell’ #adulterio e dell’#incesto ("Così parlò #Zarathustra ", parte IV). Egli, a mio parere, ha aperto la strada e dato indicazioni per sciogliere il nodo e non nella direzione del #supeuomo cosmoteandrico (cfr. Federico La Sala , "La #menteaccogliente. Tracce per una #svolta_antropologica ", Roma 1991).
#ANTROPOLOGIA O #ANDROLOGIA? #Gesù, chi era? Quello del "parto maschio del tempo" di san #Paolo e #Costantino (e #Bacone ), o quello del tempo di san #Francesco ("Cantico delle #Creature " o "Cantico di Frate #Sole ") e #DanteAlighieri ("l’amor che muove il sole e le altre stelle") e di ogni #essereumano nato di donna e di uomo nel pianeta Terra?
ANTROPOLOGIA ("UOMO")
E
"DISAGIO DELLACIVILTÀ" (S. FREUD, 1929):
The Stages of Man (1510), by Charles de Bouelles (c. 1470-1553).
USCIRE DAL LABIRINTO O DALLA CAVERNA,
E
NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI
“DIO”
CONCEPITO
SECONDO IL TRAGICO ALGORITMO DELL’
ANDROCENTRISMO
COME “UOMO SUPREMO” O "SUPERUOMO".
CRITICA DEL SOGNO D’AMORE DELLA RAGION PURA E FILOLOGIA: A LEZIONE DA SHAKESPEARE.
SHAKESPEARE (E BEN JONSON): "EST MODUS IN REBUS" (Orazio, "Satire" I, 1, 106-107). Polonio comprende che nella "follia" di Amleto "c’è del metodo (Amleto, II,2), ma non conosce il modus, né la misura né la lingua dell’Arte poetica di Quinto Orazio Flacco.
"BEN SCAVATO VECCHIA TALPA!" (MARX, 1852): "Ma la rivoluzione va fino al fondo delle cose. Sta ancora attraversando il purgatorio. Lavora con metodo [...] La tradizione storica ha fatto sorgere nei contadini francesi la credenza miracolistica che un uomo chiamato Napoleone renderà loro tutto il loro splendore. E si è trovato un individuo il quale, dato che porta il nome di Napoleone, ha potuto spacciarsi per quest’uomo, conformemente al codice #Napoleone, il quale stabilisce: "La recherche de la paternité est interdite".
Dopo un vagabondaggio di venti anni e una serie di avventure grottesche, la leggenda diventa realtà e l’uomo diventa imperatore dei francesi. L’idea fissa del nipote si è realizzata, perché essa coincideva con l’idea fissa della classe più numerosa della popolazione francese -[...] Intendiamoci. La dinastia dei Bonaparte non rappresenta il contadino rivoluzionario, ma il contadino conservatore; non il contadino che vuole liberarsi dalle sue condizioni di esistenza sociale, dal suo piccolo appezzamento di terreno, ma quello che vuole consolidarli; non quella parte della popolazione delle campagne che vuole rovesciare la vecchia società con la sua propria energia, d’accordo con le città, ma quella che invece, ciecamente confinata in questo vecchio ordinamento, vuole essere salvata e ricevere una posizione privilegiata, insieme col suo piccolo pezzo di terreno, dal fantasma dell’Impero. Essa non rappresenta la cultura progressiva, ma la superstizione del contadino, non il suo giudizio, ma il suo pregiudizio, non il suo avvenire, ma il suo passato, non le sue moderne Cévennes, ma la sua moderna Vandea (Karl Marx, "Il 18 Brumaio di Luigi Napoleone".
PUCK - ROBIN GOODFELLOW ("Sogno di una notte di mezza estate", II) E MARX (1856): "[...] Da parte nostra non disconosciamo lo spirito malizioso che si manifesta in tutte queste contraddizioni. Nei segni che confondono la borghesia e i meschini profeti del regresso riconosciamo la mano del nostro valente amico, Robin Goodfellow, la vecchia talpa che scava tanto rapidamente, il grande minatore: la rivoluzione. La storia è il giudice e il proletariato il suo esecutore." (K. Marx, discorso per l’anniversario del People’s paper, aprile 1856).
***
AMLETO, I. 1: *
"Bernardo. Ecco, la scorsa notte,
quando la stella a occidente del polo
aveva ormai compiuto il suo percorso
in quella parte del cielo ove brilla,
la campana batteva il primo tocco,
Marcello ed io...
Compare lo Spettro
Marcello. Silenzio! Eccolo, torna!
Bernardo. È lui! È proprio lui!... Il re defunto!
Marcello. Parlagli, Orazio, tu che sai il latino.
Bernardo (A Orazio).
Guardalo bene: non è tutto il re?
Orazio. Spiccicato!... Mi sento raggelare...
di stupore... paura... non lo so.
Bernardo. Forse vorrebbe che alcuno gli parli.
Marcello. Parlagli, Orazio, su, parlagli tu!"
[...]
AMLETO, I. 5:
Entra lo Spettro
Orazio. Oh, guardate, signore, eccolo, viene!
Amleto. O angeli e ministri della grazia,
difendeteci voi!...
[...]
Parla. Che cosa vuoi che noi facciamo?
(Lo spettro fa cenno ad Amleto di avvicinarsi a lui)
Orazio. Ecco, vi accenna d’andar con lui,
come a volervi parlare da solo.
Marcello E guardate con che amorevol gesto
v’invita ad appartarvi insieme a lui!
Ma non ci andate.
Orazio. No, assolutamente.
Amleto. Perché? Che cosa c’è da aver paura?
Io, di questa mia vita materiale,
non faccio maggior conto d’uno spillo,
e quanto alla mia anima,
che male mai può farle,
s’è come lui immortale?... Mi fa cenno.
Io vado.
[...]
AMLETO, I, 5:
Amleto. Mai parlare di quel che avete visto.
Sulla mia spada giurate.
La voce dello Spettro (Da dentro)
Giurate!
[...]
La voce dello Spettro
Sulla spada!
Amleto. Ben detto vecchia talpa!
Ma come fai a scavarti la terra
così veloce?... Un minatore in gamba.
Via, signori, spostiamoci di nuovo.
Orazio. Oh, giorno e notte insieme,
quale straniera meraviglia è questa!
Amleto. E come tale dalle il benvenuto!
Ci son più cose in cielo e in terra, Orazio,
che non sogni la tua filosofia.
Ma sentite: qui, come mai innanzi,
voi due - così vi possa assistere la #Grazia! -
per quanto stravagante e stralunato
possa apparirvi il mio comportamento
(e m’accadrà di stimare opportuno
di darmi un’aria stralunata e sfatta),
non dovete far mostra, innanzi ad altri,
di saperne di più di quel mio stato
[...]
AMLETO, V, 2:
Orazio (Indicando il corpo del re)
[...]
E lasciate ch’io dica al mondo ignaro
come sono accaduti questi eventi.
Potrete così udire
di carnali rapporti, e sanguinose
e innaturali azioni, e d’assassinii
casuali, e decisioni occasionali
di morti provocate o da perfidia
o da forza maggiore, e, in questo epilogo,
di tranelli falliti e ricaduti
sulla testa di chi li aveva orditi.
Su tutto posso dir la verità.
Fortebraccio. E noi ci accingeremo ad ascoltarla,
qui, tutti insieme, coi nostri maggiori.
In quanto a me, abbraccio la mia sorte,
col dolore nel cuore;
ho dei diritti, mai dimenticati,
su questo trono, che l’ora presente
mi esorta a far valere.
Orazio. Anche di questo vi dovrò parlare,
ed a nome di chi, con il suo voto,
molti altri ne trarrà alla vostra parte.
Ma si proceda subito al da farsi,
mentre gli animi sono ancora scossi,
così che altri intrighi ed altri errori
non abbiano a recarci altre sventure.
*Fonte: Liber Liber.
RIVOLUZIONE COPERNICANA E RIFORMA TEOLOGICO-POLITICA IN CORSO: NUOVO CIELO E NUOVA TERRA.
Una nota*
La grandezza di Shakespeare e l’importanza del suo "Amleto" è analoga a quella di Sofocle e del suo "Edipo Re": della loro lezione, anche dopo la sollecitazione di Freud, si stenta ancora a capire il legame tra il familismo amorale e le manipolazioni istituzionali della Legge (divina ed umana).
Con Lutero (1517), con Copernico (1543), e Giordano Bruno (Nola, 1548 - Roma, 17 febbraio1600), Shakespeare osa aprire un dibattito nel suo globo teatrale che fa tremare tutto l’ordine teologico-politico e sociale precedente e seguente: riapre il discorso sulla dottrina dei "Due corpi del Re" (Ernst H. Kantorowicz)!
La critica dell’adulterio in "Amleto", connesso (come è) all’intero ordine istituzionale e collegato fin nel cuore dello stesso messaggio biblico ed evangelico, pone all’ordine del giorno lo "spaccio della bestia trionfante" e sgombra la strada alla dea Giustizia, alla Vergine Astrea (Virgilio, Egloga IV, V. 6: "Iam redit et Virgo").
*
NOTA.
Europa 1600: RegnodiNapoli->Nola->Salerno->Eboli->Contursi Terme, Chiesa della Madonna del Carmine, 1608/1613.
Federico La Sala
Dostoevskij e la bellezza che salverà il mondo (forse)
DI GIULIANO ZANCHI *
«Quando Fëdor Dostoevskij, forse il solo cristiano stimato da Friedrich Nietzsche, nel 1869 portava a termine L’idiota, non poteva immaginare quali sorti attendevano un dialogo, peraltro fugace, che, estratto da un romanzo non necessariamente letto, avrebbe finito per rimbalzare ovunque come cifra obbligata di uno spiritualese che abbraccia tanto i cattolici tradizionalisti impegnati nel revival della vecchia arte sacra quanto gli agnostici pellegrini di quei santuari moderni che sono i grandi musei. Merita almeno riportare il luogo da cui sgorga la grande eco di quel suono così ecumenico.
A rivolgere queste parole al principe Miškin, protagonista del romanzo, è il giovane tormentato Ippolit. Formulate peraltro nei termini di un interrogativo, esse chiamano in causa la questione di un riscatto del mondo, il suo possibile affrancamento dal male, rappresentato nel romanzo dalla cappa di violenza e di morte che aleggia su vicende amorose insieme ingenue e torbide, destinate a precipitare nella tragedia da un momento all’altro.
Che si possa redimere una condizione compromessa come il ‘mondo’ che Dostoevskij tratteggia nelle trame cupe dei suoi romanzi, resta il tema di un vero enigma, sospeso peraltro alla natura della ‘bellezza’ che viene chiamata in suo soccorso. Cosa significa qui ‘bellezza’?
Non si tratta certamente dell’armonioso riflesso esteriore che l’umanesimo latino, da un certo momento in poi, ha posto a fondamento del proprio ideale di un’arte come finestra sul mondo. Basta leggere Le porte celesti di Pavel Florenskij per avere un’idea di quale disprezzo venga riservato a quella tradizione da parte di una cultura ortodossa cui anche Dostoevskij si mantiene tutto sommato fedele. Nonostante questo non ha nemmeno molto a che vedere con lo stereotipo spirituale dell’icona a cui è stata spesso sbrigativamente associata, né con quello delle sue neo-serializzazioni ortodosse e dei loro consumatori occidentali. Si tratta piuttosto dell’intensità sacrale che può scaturire solo da una vera profondità etica in cui grazia e moralità restano sempre indisgiungibili, ma la cui congiunzione, almeno in questo mondo, appare ogni volta misteriosa e irrealizzabile.
Quello di ‘bellezza’ è il nome che si dà all’inequivocabile manifestarsi del bene. Un insieme di qualità che non hanno necessariamente a che fare con la forma armonica, perfetta e intatta. Quanto piuttosto i tratti dell’irremovibilità con cui la bontà custodisce la propria perseverante giustizia. A costo di tutto. Anche di perdere la perfezione della forma. È il bello del bene. Esso consiste nel fatto che se necessario perde anche la faccia, se questo serve a preservare l’integrità. Si tratta perciò di una bellezza che talvolta non si cura di poter apparire anche brutta se questo resta segno della propria tenacia.
La bellezza su cui il romanzo profetizza, tanto quanto ironizza, è quella che emana dall’aura tangibile dell’«uomo veramente buono» che attraversa i tumulti della storia con sovrana semplicità d’animo e inscalfibile bontà di cuore, ritratto evangelico del mite che sfida il sorriso dei cinici e la scaltrezza dei prepotenti, nel guscio di un’innocenza dal destino sempre incerto.
Magnetismo irradiante di un profilo umano dai caratteri tipicamente cristologici che Dostoevskij, come il Padre creatore del suo mondo letterario, invia nel mondo oscuro di una tetra borghesia russa a rinnovare il gesto di redenzione che il cristianesimo pone a fondamento della storia.
Il principe è un povero Cristo nuovamente mandato sulla terra. La mitezza ancora una volta di fronte alle potenze del male. Di lui non si smette mai di dire che è bello. Questa bellezza potrebbe salvare il mondo. Questo tipo di bellezza, non il suo stereotipo occidentalizzante. Potrebbe salvare il mondo, ma non è detto che ci riesca. Nel romanzo l’esito non è prestabilito. Tutto viene fatto ribollire come un enigma messo alla prova dai fatti. Il primo fra tutti è che il principe Miškin appare come una replica sbiadita del ‘Cristo’ che dovrebbe impersonare, un replicante inadeguato alla resurrezione del suo modello, una reincarnazione scadente che resta prigioniera dei cinici e degli scaltri che vorrebbe confondere. Oppure, che renderebbe tutto ancora più tragico, la rivelazione dell’estrema debolezza di ogni ‘messia’ del passato, del presente e dell’avvenire (la tesi di Nietzsche). Più che semplice, il principe di Dostoevskij si rivela incapace.
* FONTE: VITA E PENSIERO, 09.02.2021 (ripresa parziale).
NOTA
QUALE BELLEZZA SALVERÀ IL MONDO? Affinché la bellezza non degradi in una bruttezza "umana, troppo umana" (asservita a fini ideologici) e conduca direttamente all’inferno , forse, è bene non ridurre lo sguardo ed esaminare attentamente anche l’intero quadro della Madonna Sistina (Raffaello, 1512/1513): a sx, ai piedi di San Sisto, osservare la tiara (con i simboli araldici dell’albero della famiglia dei "della Rovere"), una chiara firma della politica e della teologia di Giulio II ("Della Rovere", appunto), papa guerriero e papa mecenate. Da ricordare, infine, che la Madonna Sistina gioca un ruolo fondamentale nella storia della psicoanalisi ("caso Dora") e, ancora, che alla tomba dello stesso Giulio II, in san Pietro in Vincoli, a cui ha lavorato Michelangelo, è legato lo stesso Mosè tanto apprezzato e ammirato da Freud.
Federico La Sala
La rivolta di Dostoevskij. Quel gesto disperato contro la filosofia di Hegel
di Alberto Manguel (la Repubblica, 25 luglio 2012)
Lo scrittore dei “Demoni” rifiutò con orrore la concezione della Storia formulata dal padre dell’idealismo: l’idea che passi inosservata l’esistenza dei singoli. Il principio perseguito dall’autore russo, secondo l’ungherese László Földényi, è che nessuno può essere estromesso dal corso delle vicende umane.
Devo la scoperta di László Földényi a Cees Nooteboom, che in uno dei suoi assalti epistolari insistette perché lo leggessi e mi inviò uno dei suoi saggi, Dostoevskij legge Hegel in Siberia e scoppia a piangere, pubblicato in italiano dal Melangolo qualche anno fa. Tra le tante vie che ci portano a leggere un libro (che hanno tutte qualcosa di misterioso) c’è quella del titolo. Magari non ci sentiamo immediatamente attratti verso un testo intitolato la Divina Commedia o Le contemplazioni, ma solo un cuore di pietra può resistere a Dostoevskij legge Hegel in Siberia e scoppia a piangere.
Io lo lessi immediatamente, tutto di un fiato, e poi lo lessi una seconda volta, e poi una terza: il contenuto non faceva assolutamente torto allo splendido titolo. La mia ignoranza dell’ungherese è assoluta e mi dovetti limitare perciò a leggere qualcuna delle opere di Földényi tradotte in spagnolo e in tedesco: sufficienti per giudicarlo un pensatore brillante, originale, lucido; ho seguito con piacere le sue illuminanti considerazioni filosofiche, storiche ed estetiche. I suoi libri sulla malinconia, l’arte e la critica sono dei capolavori.
Molto tempo fa, le scoperte di Copernico spostarono la visione autocentrata del nostro mondo su un’angolazione che da allora si è spostata sempre più in là, verso i margini dell’universo. La presa di coscienza che noi esseri umani siamo aleatori, minimali, un’apparecchiatura casuale per molecole autoreplicanti, non induce ad alte speranze o grandi ambizioni. Eppure, quello che Nicola Chiaromonte ha chiamato «il tarlo della coscienza» fa anch’esso parte del nostro essere, e pertanto, noi, queste particelle di pulviscolo cosmico, per quanto effimere e distanti siamo anche uno specchio in cui tutte le cose, noi stessi inclusi, ci riflettiamo. Questa modesta gloria dovrebbe bastarci. Il nostro passaggio (e, su una scala minuscola, il passaggio dell’universo insieme a noi) sta a noi registrarlo: un paziente e vano sforzo cominciato quando per la prima volta abbiamo iniziato a leggere il mondo. Chiamiamo Storia quella storia in svolgimento che pretendiamo di decifrare mentre la fabbrichiamo. Dostoevskij aveva capito tutto quando diceva che se la nostra fede nell’immortalità venisse distrutta, «tutto sarebbe permesso ». Così come la Storia, non abbiamo bisogno che l’immortalità sia vera per credere in essa.
Fin dall’inizio, la Storia è la storia raccontata dai suoi testimoni, vera o falsa che sia. Nell’VIII libro dell’Odissea, Ulisse elogia l’aedo che canta le sventure dei greci: «Tu narri quello che i Danai patirono e quanto patirono; uno tu sembri che era presente o che abbia udito da loro». Quel «sembri» è essenziale. La Storia quindi è la storia di quello che noi diciamo che è successo, anche se le giustificazioni che diamo per la nostra testimonianza non possono, per quanto ci sforziamo, essere giustificate.
Secoli dopo, in una polverosa aula di università in Germania, Hegel avrebbe diviso questa «invenzione di ciò che è avvenuto» in tre categorie: la prima è la Storia scritta dai presunti testimoni diretti (ursprünglische Geschichte); la seconda è la Storia come meditazione su se stessa (reflektierende Geschichte); la terza è la Storia come
filosofia (philosophische Geschichte), che alla fine si trasforma in quella che tutti chiamiamo Storia mondiale (Welt-Geschichte), la storia infinita che include se stessa nel racconto.
Immanuel Kant, in precedenza, aveva immaginato due diverse concezioni della nostra evoluzione collettiva: la Historie, che indicava il mero resoconto dei fatti, e la Geschichte, un’elaborazione ragionata di quei fatti, perfino un’a-priori Geschichte, la cronaca di un corso annunciato di eventi a venire. Per Hegel, quello che importava era la comprensione (o l’illusione della comprensione) dell’intero flusso degli eventi, compreso il letto del fiume e gli osservatori sulla riva, e per potersi meglio concentrare sul corso principale escludeva i margini, le pozze laterali e gli estuari.
Földény immagina che questo sia l’orrore scoperto da Dostoevskij: che la Storia, di cui sa di essere la vittima, ignora la sua esistenza, che la sua sofferenza passa inosservata o, ancora peggio, non assolve a nessuno scopo nel flusso generale della specie umana. Quello che Hegel propone, agli occhi di Dostoevskij (e di Földényi) è quello che Kafka dirà poi a Max Brod: «C’è speranza, ma non per noi». Il caveat di Hegel è ancora più terribile dell’esistenza illusoria proposta dagli idealisti: veniamo percepiti, ma non veniamo visti.
Un presupposto del genere, per Földényi, (e altrettanto dovette sembrare a Dostoevskij) è inammissibile. Non solo la Storia non può estromettere nessuno dal suo corso, ma è vero anche l’inverso: è necessario il riconoscimento di tutti perché la Storia possa essere. La mia esistenza, l’esistenza di qualsiasi uomo, è condizionata al vostro essere, all’essere di qualsiasi altro uomo, ed entrambi dobbiamo esistere perché Hegel, Dostoevskij e Földényi esistano, dato che noi (gli anonimi altri) siamo la loro convalida e la loro zavorra, noi li portiamo in vita leggendoli. È questo il significato di quell’antica intuizione che siamo tutti parte di un insieme ineffabile in cui ogni singola morte e ogni sofferenza specifica influenza l’intera collettività umana, un insieme che non è limitato da ciascun io materiale.
Il tarlo della coscienza mina la nostra esistenza, ma allo stesso tempo la convalida; non serve a nulla negarla, nemmeno come atto di fede. «Il mito che nega se stesso», dice Földényi saggiamente, «la fede che pretende di sapere: questo è l’inferno grigio, questa è la schizofrenia universale su cui è inciampato Dostoevskij».
La nostra immaginazione ci consente sempre una speranza in più, al di là della speranza spezzata o realizzata, una frontiera finora apparentemente irraggiungibile, che alla fine raggiungeremo solo per proporne un’altra ancora più in là. Dimenticare questa illimitatezza (come cercava di fare Hegel «potando» la sua concezione di quello che conta in quanto Storia) può riuscire a garantirci la piacevole illusione che ciò che avviene nel mondo e nella nostra vita sia pienamente comprensibile, ma riduce la contestazione dell’universo al catechismo e quella della nostra esistenza al dogma. Come sostiene Földényi, quello che vogliamo non è la consolazione di ciò che appare ragionevole e probabile, ma le inesplorate terre siberiane dell’impossibile.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Dostoevskij vs. Hegel
di Andrea Monda (BombaCarta, 24 Marzo 2009) *
Nel febbraio del 1854 Dostoevskij si trova ad essere condannato a servire l’esercito come soldato nella città siberiana di Semipalatinsk vicino al confine cinese. Cinque anni prima era stato condannato a morte, poi la pena era stata commutata, all’ultimo minuto, ai lavori forzati a vita; infine anche questa pena, dopo quattro anni durissimi, era stata trasformata nel servizio militare in Siberia. In questo periodo gli furono di grande supporto morale i libri inviatigli clandestinamente dal fratello Michail, tra cui i romanzi di Dumas e la Critica della ragion pura di Kant nonché Hegel.
E proprio dalla lettura di Hegel prende le mosse questo strano libretto, a metà tra il racconto biografico e il saggio filosofico, scritto due anni fa dal professore ungherese di letteratura comparata Laszlo Foldèny che oggi arriva in Italia grazie all’edizioni de Il Melangolo.
Foldèny si concentra in quei cinque anni della biografia del grande scrittore russo passati nell’inferno bianco della Siberia (potrà tornare nella Russia europea solo il 18 marzo 1859) ed in particolare sull’effetto che ebbe su di lui la lettura di un brano delle Lezioni sulla filosofia della storia di Hegel in cui il filosofo tedesco, parlando dell’Asia, scrive di non essere interessato alla Siberia “in nessun modo, perché la zona nordica giace fuori dalla storia“. Il più grande filosofo e il più grande romanziere discutono “a distanza” (Hegel in realtà è già morto da oltre vent’anni) e il primo rivela al secondo, in modo secco e arrogante, di non far parte della storia.
Il breve saggio di Foldèny può essere visto come un tardivo tentativo di “risarcimento”, un prendere parte nel senso proprio di “parteggiare” per Dostoevskij, duramente colpito dalla lettura hegeliana: “E’ facilmente immaginabile che proprio allora, quando capì di non far parte della storia, per la quale aveva accettato tutte le disavventure” scrive Foldèny, “nacque in lui la convinzione che la vita potesse avere delle dimensioni che non possono essere inquadrate nella storia [...] Che è necessario uscire dalla storia per poter vedere i confini e i limiti dell’esistenza della storia“.
Il saggio è diviso in due parti, la prima si concentra su Hegel e la sua riflessione, perfettamente lucida quanto arida, sulla storia, e la seconda invece dedicata al tumultuosa condizione in cui si trova l’animo del romanziere russo che trova nella Siberia nello stesso tempo l’Inferno per cui disperare ma anche le ragioni per una riconquista più matura della fede e della speranza.
Sul filo del paradosso l’autore conduce al lettore alla conclusione che, proprio perché sconfitto dalla storia e sbattuto nel luogo più sperduto della terra, Dostoevskij riesce a osservare il mondo e l’uomo più in profondità di quanto faccia Hegel, cogliendo che nella storia c’è qualcosa di più, qualcosa di irriducibile e che sfugge anche alla più perfetta “architettura filosofica” realizzata dall’uomo occidentale.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Federico La Sala
Cosmologia, antropologia, cristianesimo e civiltà.
"IL FIGLIO DELL’UOMO": UNA QUESTIONE ANTROPOLOGICA E FILOLOGICA...
COSMOLOGIA. “Da Copernico in poi l’uomo rotola dal centro verso una X”. Così Nietzsche, nel 1886. Ma, per un filosofo nato filologo e, per di più, uno dei grandi maestri del sospetto, contrariamente a quanto si è sempre ripetuto in modo "umano, troppo umano", non è bene tornare a interrogarlo e cercare di avere ulteriori dati sulla destinazione "ignota"?
ANTROPOLOGIA. Nel 1888 pubblica "Ecce homo. Come si diviene ciò che si è": un Urlo contro la paolina religione del "Vir Dei", una critica radicale della cosmoteandria faraonica, e un aut aut epocale.
LA PUNTA DI UN ICEBERG BIMILLENARIO: PUGLIA (12 FEBBRAIO 2022). "Ecce Vir": il "caso serio" del quadro intitolato "Sabinus vir Dei".
Tracce per una seconda rivoluzione copernicana
SCIOGLIMENTO DEI GHIACCIAI E RINASCIMENTO, OGGI. Una ristrutturazione epocale e lo sgretolamento della cosmoteandria tradizionale (#cosmo, teologia/ #dio e #andrologia/uomo) è già da tempo in atto: la nascita di una antropologia annunciata già da Michelangelo nel suo "Tondo Doni", con le sue due sibille e i suoi due profeti - non "quattro profeti", come vuole la Galleria degli Uffizi, e da Galileo Galilei con il suo "Sidereus Nuncius" (1610), fondata sulla visione del sorgere della Terra, è già in cammino: un capovolgimento e una nuova ricapitolazione, una radicale inversione logico-storica!
Federico La Sala
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA E PSICOANALISI. LA CRISI DELLE SCIENZE: ENZO PACI, "AUT AUT", E L’ENIGMA DEL SOGGETTO. *
Quel gesto fenomenologico che ha fatto cultura
di Pier Aldo Rovatti *
Se mi chiedessero di dire in una battuta che cosa ha prodotto il settantennio di vita della rivista “aut aut”, messa al mondo nel 1951 dal filosofo Enzo Paci e oggi tutt’altro che estinta, risponderei senza esitazione: “il gesto fenomenologico”.
A tale atteggiamento o pratica di pensiero è stato dedicato anche il fascicolo della rivista attualmente in circolazione, in cui si guarda tanto al lunghissimo passato quanto a un futuro ancora da realizzare: sì, perché siamo ancora lontani dall’avere ben compreso questo gesto e dall’essere riusciti a metterlo in atto.
Di cosa si tratta? È un tentativo di dar corpo alla parola “critica”, forse più facile da collegare a quella cultura che voleva prendere distanza dai dogmatismi e dagli ideologismi del ventennio fascista di quanto sia riconoscibile oggi in una situazione nella quale tutti ci riempiamo la bocca di un’idea di democrazia alquanto superficiale e di tanti propositi culturali che spesso risultano vuoti e dai piedi di argilla. Parliamo infatti di pensiero critico, di responsabilità e di etica pubblica, ma non sembra proprio che riusciamo a dare troppo peso a quello che diciamo, come se dalla bocca di molti intellettuali uscisse soltanto un esile vapore, un flatus vocis che si disperde subito nell’aria.
Il gesto fenomenologico avrebbe invece la pretesa di tenere i piedi ben piantati sulla terra e di non consumarsi subito in una vacua cortina fumogena, come capita alla gran parte dei prodotti dell’attuale mondo della comunicazione, frettolosi e dunque superficiali. Questo gesto è invece qualcosa che ci coinvolge integralmente: non un semplice pensiero, qualcosa che ci passa per la testa e che comunque si riduce all’ambito del mentale, al contrario riguarda la nostra intera soggettività. È un atteggiamento “concreto” che concentra l’insieme delle nostre facoltà e ci mette completamente in gioco.
Detto altrimenti, questo gesto ci espone agli altri, non è una postura comprimibile nella privatezza, perciò ha sempre una dimensione pubblica, nel senso appunto dell’esposizione e del confronto. Siamo lontani dall’idea di una filosofia come disciplina a sé, dotata di una sua autorevolezza, piuttosto siamo vicini a un impegno di pensiero che ci chiederebbe di uscire dal bozzolo di un “io” separato, vale a dire di tentare di liberarci dalla presa di qualunque egoismo (egologia, egolatria) e dunque anche di sospettare di ogni pervasiva psicologia.
Perciò il gesto fenomenologico, così difficile da mantenere, così facile da inquinare e infrangere, dunque raro, è innanzi tutto un atteggiamento autocritico: ciascuno di noi, ogni “soggetto”, dovrebbe cominciare con il togliersi di dosso la camicia di forza dell’egoismo, tentare almeno di farlo, se vuole che il suo gesto agisca come un gesto critico. Non è certo lo scenario che vediamo ogni giorno perché, invece, abbiamo costantemente davanti una scena opposta in cui non si scorge quasi nessuna traccia di tale necessaria critica di sé stessi.
Ma cosa significa quel parolone, “fenomenologico”, che accompagna la parola “gesto”? Qui compare la specificità filosofica che caratterizza i settant’anni della rivista. È chiaro che il rimando è a Husserl e soprattutto alla sua ultima opera La crisi delle scienze. Si parte da una diagnosi di perdita di senso, cioè appunto di “crisi”, che non investe soltanto il mondo scientifico e la sua tecnicizzazione, come aveva fatto negli anni Trenta lo stesso Heidegger (peraltro, inizialmente discepolo di Husserl), ma investe per intero la cultura poiché riguarda lo stile di vita di ciascuno. Il titolo preciso di quest’opera di Husserl, che davvero ha fatto testo per comprendere un’epoca, certo non ancora conclusa, è: La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (in italiano è stata pubblicata dal Saggiatore, lo stesso editore di “aut aut”).
“Fenomenologia” e in più “trascendentale”? Non è poi così difficile arrivare al nocciolo di una frase che potrebbe giustamente allarmare i non addetti (tra i quali, in questo caso, vorrei potermi collocare a mia volta): quel “trascendentale” è lì per dirci che non dobbiamo confondere fenomenologia con fenomeno (o con qualcosa di semplicemente fenomenico) perché ciò che viene messo in gioco è l’idea di soggetto e di soggettività nella sua concretezza non superficiale.
Per mantenere o ritrovare il suo carattere fenomenologico, questa idea non dovrà essere soltanto la meno idealistica, categoriale, metafisica possibile, perché non basta che la concretezza equivalga a ciò che è empirico, ma dovrebbe riuscire a dar corpo a una soggettività che non è mai fissabile attraverso un’etichetta. Perciò il termine fenomenologia risulta essenziale per mettere in primo piano proprio il problema del soggetto.
Aggiungo, per far capire l’importanza di tale problema, che il soggetto che viene così evocato non è mai traducibile in un concetto chiuso, di cui si possa costruire una scienza comunemente intesa. È piuttosto, come diceva lo stesso Husserl, un “enigma” che non possiamo cessare di sondare e di rilanciare, qualcosa che ha a che fare con l’insieme dei nostri vissuti e con la nostra stessa vita.
Qualcosa che fa tutt’uno con lo stile di vita di ognuno di noi, come ha mostrato con chiarezza Paci nelle pagine del suo personale Diario fenomenologico (ora riedito da Orthotes). E proprio da qui discende l’intero corredo critico di “aut aut”, cioè - per indicarne solo qualche aspetto - l’importanza della “sospensione del giudizio” (la famosa epoché, rilanciata anche da Franco Basaglia nella sua critica alla psichiatria ufficiale), l’importanza di non isolare mai il sapere dall’etica con il rischio di svuotare il “gesto” facendolo diventare unicamente una tecnica di pensiero, o anche l’importanza di conservare a ogni costo l’apertura del dubbio e la possibilità del “sempre di nuovo”.
Perché questo gesto non può essere mai considerato un atteggiamento esclusivamente individuale? La tonalità “politica” della rivista, presente fin dal suo inizio, può ritrovarsi nella risposta a quest’ultima domanda, nel senso che non si dà soggettività senza intersoggettività, cioè che nel vissuto personale è sempre presente e attiva l’esperienza dell’“altro” ed è quindi comunque decisiva un’esperienza del noi.
Senza il compito dello stare assieme in una comunità possibile e necessaria di soggetti, il gesto fenomenologico perde il suo significato, letteralmente si annulla nel suo senso e nei suoi obiettivi. Siamo ancora lontani da questo telos, dall’impegnarci seriamente nella pratica di una simile finalità, e allora si comprende perché il tragitto che “aut aut” ha iniziato fin dal primo fascicolo non sia affatto esaurito.
[articolo uscito in versione ridotta su “La Stampa” il 20 settembre 2021]
*Fonte: Aut Aut, 23/09/2021
NOTA:
L’ENIGMA DEL SOGGETTO E LA PROVA DELL’ESISTENZA DI DIO. Note su un dialoghetto "platonico" diffuso in rete:
USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO” (KANT).
COSA PENSANO I due BAMBINI nella pancia della madre "della VITA DOPO IL PARTO"? Ma l’autore "scrittore" di questo "bel" testo (sopra) ha mai sollecitato i "due bambini" a pensare sul come sono ’arrivati’ là dove sono, su come nascono i bambini?, e ha mai visto il Sole? O vive ancora nel pancione della Mamma-Terra, nella caverna di Platone (ama il mondo chiuso e la claustrofilia) e, per il trauma della nascita, si è sempre rifiutato di aprire gli occhi alla luce del Sole e vedere la Terra dalla Luna, dallo spazio?!
"ACHERONTA MOVEBO" (IL "MUOVERE LE ACQUE INFERNALI" DI FREUD) E AFFRONTARE IL TRAUMA DELLA NASCITA (OTTO RANK): SAPERE AUDE! ("IL CORAGGIO DI SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA" DI KANT) !
Senza la critica di Kant del sogno dell’amore cieco e zoppo della ragion pura (di Socrate/Platone) non si può riconoscere a Diotima piena cittadinanza né nell’Accademia né nella Polis. La logica della tragedia (Edipo) porta davvero la peste!
La Sibilla Delfica (dell’oracolo di Apollo) a Socrate disse la verità, ma la storiografia ha preferito credere al sogno della nascita del cigno e alla storia di Platone, figlio di Zeus / Apollo!
Nietzsche perché ha scavato nella nascita della tragedia? Freud cosa cercava a Tebe?! Come Edipo, già a partire dal caso Dora, chiarirsi le idee sulla morte e uccisione del padre ("Interpretazione dei sogni") e sul desiderio incestuoso nei confronti della #madre, fare luce su "L’uomo #Mosè" e sull’esistenza di "Dio"! Con Dante e come Dante ha avuto il coraggio di agitare le acque infernali e uscirne: a Londra, è arrivato!
LA QUESTIONE DEL SOGGETTO, IL TRAUMA DELLA NASCITA, E LA VITA DOPO IL PARTO.
"OTTO RANK, IL DOPPIO E LA PSICOANALISI" (alcune mie note, in "Psicoterapia e Scienze Umane", 4, 1980, pp. 75-79) ). Se Freud osò agitare e rompere le acque infernali ("Acheronta movebo) e riuscì a portare alla luce la psicoanalisi, è da dire, però, che non fu altrettanto attento a riconoscere il trauma della nascita e a portarsi oltre le colonne d’Ercole dell’Edipo.
Andando in America, nel 1909, Freud era ancora fiducioso e ottimista nella possibilità della psicoanalisi di affrontare il diffondersi della peste; ma nel 1924, con la sua parziale comprensione del complesso di Edipo, non riesce ad accogliere la sollecitazione di Otto Rank a riflettere sul trauma della nascita e l’avvenire della sua stessa creatura comincia a oscurarsi.
Elvio Fachinelli (1928-1989) ha saputo vincere la Claustrofilia (1983), si è portato "Sulla spiaggia" (1985), ma l’ Accademia platonica della Filosofia come della Psicoanalisi ha continuato a chiudere un occhio su come nascono i bambini. E il platonismo continua a oscurare il cielo...
Federico La Sala
DIVINA COMMEDIA: UNO STRAORDINARIO OMAGGIO A DANTE!
Materiali di studio 5.
Il letargo di Dante (di Stefano Marcucci, "L’errore di Kafka/blog", 19 aprile 2021):
ENTRATO NEL PUNTO .. UNA BRILLANTE FUSIONE NUCLEARE CONTROLLATA!
"[...] L’ESPERIENZA-LIMITE o SEGMENTO ZERO. Nessuno può sembrare più lontano da Dante di Nietzsche. Pensare solo di accostarli è folle, d’accordo, sebbene non sia lecito tralasciare che il trasumanar dantesco e il concetto di Übermensch di Nietzsche, oltre a condividere il medesimo carattere di neologismo, presentano una convergenza di significato piuttosto imbarazzante. L’eterno ritorno dell’uguale di Nietzsche, sorta di rivelazione di cui è depositario l’Übermensch, è una dottrina mai presa sul serio e screditata dai principali suoi commentatori. Più che di un concetto si tratta di una meditazione sul pensiero che non può pensare se stesso (come un letargo?) o sul vertiginoso pensiero del nulla che azzera il tempo come durata.[xv] Il déjà-vu è una di quelle esperienze strane che fanno baluginare o intravedere una possibile sovrapposizione del passato col presente (e viceversa) e fanno sorgere un dubbio, nonché un piacevole stupore (come quello di Nettuno-Dante?), se ciò che stiamo vivendo sia presente o passato. [...]" (Stefano Marcucci, Il letargo di Dante, cit., senza note).
"[...] (Successivamente alla stesura della presente riflessione, all’autore di queste righe è occorso di imbattersi nella Sura 18 del Corano, denominata anche Sura del Venerdì o Sura dei Sufi. Ne ha parlato a Radio3 Riccardo Bernardini, studioso e storico delle opere di Karl Gustav Jung, all’interno della trasmissione radiofonica “Uomini e profeti”, nel ciclo curato da Bruno Madera e intitolato Ricordati di rinascere II puntata - I simboli della rinascita. «La Sura mostra un sonno che prende dei viandanti, i quali si risvegliano da questo sonno dopo secoli completamente trasformati e avendo acquisito una immortalità nella grazia divina.» Senza essere specialisti di Dante, e senza aver letto Henri Pirenne, è noto che la cultura araba abbia avuto una non irrilevante influenza su quella medievale europea a partire dall’anno mille. Si pensi solo ad Avicenna e ad Averroè, entrambi musulmani, che Dante “incontra” nel Limbo. Possiamo escludere che Dante avesse letto o conoscesse il Corano? Non è, quantomeno, suggestiva, questa coincidenza di un sonno che dura secoli e che conduce, attraverso la trasformazione nella grazia divina, all’immortalità?) [...]" ((Stefano Marcucci, Il letargo di Dante, cit.).
***
P. S. - Alcune note sulla “corrispondenza d’amorosi sensi” tra ->Dante e Nietzsche.
DIVINA COMMEDIA: UNO STRAORDINARIO OMAGGIO A DANTE!
Materiali di studio 5.
Il letargo di Dante (di Stefano Marcucci, "L’errore di Kafka/blog", 19 aprile 2021):
ENTRATO NEL PUNTO .. UNA BRILLANTE FUSIONE NUCLEARE CONTROLLATA!
"[...] L’ESPERIENZA-LIMITE o SEGMENTO ZERO. Nessuno può sembrare più lontano da Dante di Nietzsche. Pensare solo di accostarli è folle, d’accordo, sebbene non sia lecito tralasciare che il trasumanar dantesco e il concetto di Übermensch di Nietzsche, oltre a condividere il medesimo carattere di neologismo, presentano una convergenza di significato piuttosto imbarazzante. L’eterno ritorno dell’uguale di Nietzsche, sorta di rivelazione di cui è depositario l’Übermensch, è una dottrina mai presa sul serio e screditata dai principali suoi commentatori. Più che di un concetto si tratta di una meditazione sul pensiero che non può pensare se stesso (come un letargo?) o sul vertiginoso pensiero del nulla che azzera il tempo come durata.[xv] Il déjà-vu è una di quelle esperienze strane che fanno baluginare o intravedere una possibile sovrapposizione del passato col presente (e viceversa) e fanno sorgere un dubbio, nonché un piacevole stupore (come quello di Nettuno-Dante?), se ciò che stiamo vivendo sia presente o passato. [...]" (Stefano Marcucci, Il letargo di Dante, cit., senza note).
***
P. S. - Alcune note sulla “corrispondenza d’amorosi sensi” tra ->Dante e Nietzsche.
Il pensiero è coscienza morale
La responsabilità verso l’altro come elemento fondamentale della soggettività. Una riflessione sull’attualità della filosofia di Emmanuel Levinas.
di Teresa Simeone (MicroMega, 26 Novembre 2021)
L’essere umano è una monade isolata, in sé stessa risolventesi o un Io in relazione, inserito in un contesto di legami fatti di presenze e di ascolti? Domanda retorica a cui rare persone potrebbero rispondere con la prima opzione, eppure ciò che è ovvio e frutto di analisi costruite nel tempo è sconfessato dal fervore con cui si contesta, nella prassi, l’essenza relazionale dell’Io e la si riconduce a una dimensione egocentrica in cui a prevalere sono le spinte alla libertà assoluta piuttosto che quella relativizzata dalla presenza di un altro.
Emmanuel Levinas, esponente di spicco di quel filone ebraico che ha prodotto fertili riflessioni sull’etica, lo riferisce molto chiaramente quando sottolinea il valore dell’Altro, sia inteso come essere umano, sia come alterità trascendente e divina che come alterità in generale, in ogni caso come presenza che ci impone l’uscita dalla nostra soggettività egoistica. E tale apertura è sollecitata dall’incontro con il prossimo che avviene attraverso il volto e ci chiama alla responsabilità.
Il tema del volto è centrale nel suo pensiero perché è il luogo “etico” in cui si sostanzia la presenza di un “non me”. “Penso - ha detto Levinas - che l’accesso al volto è immediatamente etico”[1]. Il volto è significazione e parla. Mi interpella. E bisogna “rispondere a lui e rispondere già di lui”[2].
La responsabilità, per Levinas, non è qualcosa di accessorio ma la struttura essenziale, primaria, fondamentale della soggettività, soggettività che descrive in termini etici. Ed è, per lui, “responsabilità per altri”.[3] Appena “altri mi guarda io ne sono responsabile, anche senza dover assumere nessuna responsabilità nei suoi confronti: la sua responsabilità mi incombe.”[4] Non posso sottrarmi: la soggettività è, fin dall’inizio, per un altro. Il legame con lui si stringe soltanto come responsabilità, sia che essa venga accettata o rifiutata. Io sono responsabile senza aspettare di essere ricambiato. Che l’altro lo faccia, dice Levinas, è “affar suo”. “Io non intercambiabile, io sono io soltanto nella misura in cui sono responsabile. Io posso sostituirmi a tutti, ma nessuno può sostituirsi a me: e questa è la mia inalienabile identità di soggetto.”[5] Nessuna presa di responsabilità, come si vede, può essere più totale.
La relazione etica ci fa uscire dalla solitudine dell’essere e ci apre al mondo. Sicuramente con tutti i suoi rischi che includono anche il dover portare il peso della sorte altrui. Fino all’assunzione estrema.
“Penso che nella responsabilità per altri si sia responsabili, in ultima analisi, della morte dell’altro”[6]. [...] Quello che nel volto viene detto come domanda significa certamente un appello al donare e al servire - ossia al comandamento di donare e servire -, ma al di sopra di questo, e includendolo, si dà l’ordine di non lasciare solo altri, fosse pure di fronte all’inesorabile. È questo probabilmente il fondamento della socialità, dell’amore senza eros. Il timore della morte dell’altro è sicuramente alla base della responsabilità nei suoi confronti.”[7]
Come attuali risultino queste parole è segno che la filosofia non è mai fuori dalla storia, dal mondo, dalla società. E che la sua modernità, nel senso letterale del termine, come adesione allo spirito del tempo che si vive, è ciò che la rende sempre necessaria.
Non è vera vita, dunque, quella che non “si risvegli all’altro”, che non lo includa nel proprio mondo. “L’essere non è mai - contrariamente a quanto affermano tante tradizioni rassicuranti - la sua propria ragione d’essere: il ben noto conatus essendi non è la fonte di ogni diritto e di ogni senso.”[8]
Come essere pensante l’uomo è colui per il quale il mondo esterno esiste. “A partire da questo momento la sua vita cosiddetta biologica, la sua vita puramente interiore si illumina di pensiero.”[9] Di un pensiero che include l’esteriorità, l’alterità e la cui condizione è, per ciò, una coscienza morale.
Gli esseri stanno l’uno di fronte all’altro. “Il pensiero ha inizio con la possibilità di concepire una libertà esterna alla mia”[10]. E, con tale concreta apertura, si dissolve la pretesa della sovranità assoluta e solitaria dell’io.
Certamente Levinas esaspera la presenza dell’altro, fino a farsene in qualche modo asservire, fino a stabilire un primato sull’io che rischia, come rilevato e criticato da Ricoeur in Percorsi del riconoscimento, una certa disimmetria perché rovescia per reazione la prospettiva a favore dell’altro. Per Ricoeur “il primato epistemologico appartiene all’io, il primato etico al tu”[11] nel senso che “il movimento che dall’altro viene verso di me [...] ha la priorità nella dimensione etica, il movimento dall’ego all’alter ego conserva una priorità nella dimensione gnoseologica”[12]. Alla base di ogni considerazione, però, rimane il riconoscimento reciproco, per cui l’io e l’altro si assumono le rispettive libertà. Insieme alle responsabilità.
E proprio il rigore di uno sguardo imprescindibile sull’altro porta Levinas a distaccarsi da Heidegger, in opposizione alla sua algida ontologia. “Su questo tema è avvenuta la mia rottura con Heidegger. Era hitleriano e non ha colto il valore della dignità dell’uomo e dell’”altro”. Ma io sono ebreo ed essere ebrei non significa soltanto conoscere il Talmud, significa aver sofferto come un ebreo. È a questo che bisogna arrivare. Aver sofferto come un ebreo. E di questa sofferenza una piccola responsabilità è da attribuire a un certo Hitler”[13].
Quando Levinas parla di Heidegger, non ne tace il fascino indiscusso che lo aveva ammaliato, lo spessore teoretico e la personalità carismatica che intrigava chiunque avesse a che fare con lui, come la padronanza con cui dominava ogni questione filosofica: la nutrita schiera di pensatori che è nata dalle sue prolifiche lezioni ne ha riconosciuto la grandezza di maestro. Eccellente e insuperato. E, ciononostante, altrettanti allievi se ne sono poi allontanati, delusi quando i noti legami col nazionalsocialismo sono diventati evidenti e ingiustificabili per chi si aspettava che a tanta vis speculativa corrispondesse un eguale spessore etico. Non poteva non essere così anche per il filosofo lituano.
Per lui, il problema fondamentale è quello etico, quello dell’assunzione della presenza di un altro: “Il punto su cui insisto è che quando si è responsabili, si risponde sempre di un altro uomo. Noi, certo, possiamo ignorarlo, ma in realtà siamo responsabili anche di ciò che è successo poco fa a colui che è passato vicino a noi. Questa è la responsabilità.”[14]
Alla domanda di Dio “Dov’è Abele, tuo fratello?”, Caino risponde: “Non so. Sono forse io il custode di mio fratello?”[15] scatenando una serie di analisi come anche quella di Levinas e riproponendo un tema sempre attuale, che anche in questa pandemia ritorna e ci chiama alla riflessione, nonostante i tentativi che a volte facciamo con noi stessi di eludere il peso della responsabilità per chi ci è prossimo. D’altronde può darsi un “essere con gli altri” che non preveda responsabilità? È possibile un senso della collettività, un superamento dell’individualismo esasperato che non comprenda la responsabilità di ciascuno di noi per chi ci è a fianco? Certo Levinas porta alle conseguenze estreme questo “imperio dell’altro” su di me, come quando in Etica e Infinito scrive: “Siamo colpevoli di tutto e di tutti, davanti a tutti; e io più degli altri” [16]
Con la sua straordinaria lezione di generosità è probabilmente lontano da quella contrattazione sociale che ogni giorno pratichiamo nel tentativo di superare chiusura egoistica, da un lato, e annullamento masochistico, dall’altro, ma in ogni caso ci interroga sui nostri comportamenti, sulla liceità di un modo di procedere solitario e autoreferenziale, sulla difesa della nostra legittima ricerca della felicità e sul contemperare l’eguale aspirazione degli altri, in una tensione che, ancora una volta, richiede equilibrio, sintesi, capacità di compromesso, quello benefico, quello che include bisogni, diritti e doveri differenti, ma necessariamente risolvibili all’interno di un comune consesso.
Alla solitudine mentale del pensare, cui è giusto indulgere e che è doveroso preservare, fonte com’è di analisi autonome, dissidenti, se non rivoluzionarie, dovrebbe poi corrispondere l’apertura nel sociale e l’accettazione di una coscienza altrettanto portatrice di diritti. Ognuno di noi, abitante di questa terra, è altro per l’altro, io per l’io: il terreno d’incontro, necessario per continuare a vivere civilmente, è il riconoscimento reciproco, viatico alla mutua assunzione di responsabilità.
NOTE
[1] Emmanuel Levinas, Etica e infinito, Dialoghi con Philippe Nemo, Castelvecchi, pag. 87
[2] Ivi, pag. 89
[3] Ivi, pag. 93
[4] Ivi, pag. 93
[5] Ivi, pag. 97
[6] Ivi, pag. 107
[7] Ivi, pag. 107
[8] Ivi, pag. 109
[9] Emmanuel Levinas/Gabriel Marcel/Paul Ricoeur, Il pensiero dell’altro, a cura di Franco Riva, Edizioni lavoro, pag. 41
[10] Ivi, pag. 44
[11] Ivi, XXIV
[12] Paul Ricoeur, Sé come un altro, Milano, Jaka Book, pag. 450
[13] https://antemp.com/2011/06/10/emmanuel-levinas-il-volto-dellaltro-intervista-di-renato-parascandolo-sergio-benvenuto/
[14] Far riferimento alla stessa intervista a Parascandolo.
[15] Genesi, 4, 9
[16] Levinas emmanuell, Etica e Infinito, F. Riva (a cura di), Castelvecchi, Roma, 2014, Pag. 97
RINASCIMENTO: STORIA, MEMORIA, E FILOLOGIA.
LA SPREZZATURA, LA GRAZIA, E UN LEGAME DA RISTABILIRE. Nota a margine dell’opera di Baldassarre Castiglione...
Baldassarre Castiglione (1478-1529):
«Trovo una regula universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano più che alcun altra: e cioè fuggir quanto più si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò, che si fa e dice, venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi...
Da questo credo io che derivi assai la grazia: perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficultà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia; e per lo contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i capegli dà somma disgrazia e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch’ella si sia. Però si po dire quella essere vera arte, che non pare essere arte; né più in altro si ha da poner studio che nella nasconderla: perché, se è scoperta, leva in tutto il credito e fa l’omo poco estimato» (Baldassarre Castiglione, Il Cortegiano, XVI)
UNA QUESTIONE DI GRAZIA, UNA QUESTIONE DI AMORE...
SI DEVE IMPARARE ANCHE L’AMORE: "CARISSIMI, NON CREDETE A OGNI SPIRITO ... DIO È AMORE":"CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1 Gv., 4. 1-16). UNA LEZIONE DI NIETZSCHE E DI FREUD:
Si deve imparare anche l’amore. Si deve imparare ad amare. Ecco quel che ci accade nella musica: si deve prima imparare a udire una sequenza e una melodia in genere, a enuclearla nell’ascolto e a distinguerla isolandola e delimitandola come se avesse una vita propria; quindi bisogna sforzarci e impiegare la nostra buona volontà per sopportarla, malgrado la sua estraneità, bisogna fare un esercizio di pazienza di fronte al suo sguardo e alla sua espressione, considerare con benevolenza quel che c’è di inusitato in essa - finalmente arriva un momento in cui ne abbiamo preso l’abitudine, in cui l’attendiamo, in cui si ha il presentimento che ne sentiremmo la mancanza, se non ci fosse più; e così essa continuamente dispiega la sua violenta suggestione e il suo incantesimo, finché non si sia diventati i suoi umili ed estasiati amanti, per cui non v’è più niente di meglio da chiedere al mondo se non la melodia e ancora la melodia.
Questo ci accade però non soltanto con la musica: proprio in questo modo abbiamo imparato ad amare tutte le cose che oggi amiamo. In definitiva, siamo sempre ricompensati per la nostra buona volontà, per la nostra pazienza, equità, mitezza d’animo verso una realtà a noi estranea, quando lentamente essa depone il suo velo e si manifesta come una nuova inenarrabile bellezza: è questo il suo ringraziamento per la nostra ospitalità. Anche chi ama se stesso, lo avrà appreso per questa strada: non ce ne sono altre. Si deve imparare anche l’amore.
F. Nietzsche, La gaia scienza, IV, fr. 334, Adelphi, Milano 1991).
Disagio della civiltà: "[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori; i Romani, che non avevano fondato la loro collettività statale sull’amore, non conobbero l’intolleranza religiosa, benché per loro la religione fosse un affare di Stato e lo stato fosse imbevuto di religione. Non fu un puro caso che il sogno germanico del dominio del mondo facesse appello all’antisemitismo come a suo complemento, e non è inconcepibile che il tentativo di stabilire una nuova civiltà comunista in Russia trovi il suo sostegno psicologico nella persecuzione della borghesia. Ci si chiede soltanto, con apprensione, che cosa si metteranno a fare i Sovieti, dopo che avranno sterminato la loro borghesia [...]" (S. Freud, Il disagio della civiltà, 1929).
CANOVA E IL VATICANO: LE GRAZIE, AMORE E PSICHE Una gerarchia senza Grazie (greco: Χάριτες - Charites) e un papa che scambia la Grazia ("Charis") di Dio ("Charitas") con il "caro-prezzo" del Dio Mammona ("Caritas"). Materiali per riflettere
FLS
Un poeta “eracliteo”: Mandel’štam legge Dante
di Gianluca Venturini (La Chiave di Sofia, 07.08.2017)
Quando si affrontano i grandi autori della letteratura italiana, gettare nel contempo uno sguardo, anche fugace, ai commenti che essi hanno ispirato al di là dei nostri confini nazionali costituisce un’esperienza utile e sempre interessante, perché permette di capire come i nostri “giganti” sono recepiti e interpretati altrove. Vedere cose a noi note attraverso gli occhi altrui ci consente di apprezzarle da prospettive nuove e inaspettate; anche ciò con cui abbiamo molta familiarità può in tal modo svelare tratti inusuali o dettagli che avevamo tralasciato e colpirci come se fosse la prima volta. A chi stesse studiando Dante, per esempio, potrebbe tornare utile la lettura delle Conversazioni su Dante di Osip Mandel’štam, che rappresentano un vero e proprio «classico della critica letteraria del Novecento» e che sono state riedite di recente.
Molti si staranno chiedendo chi sia Osip Mandel’štam. In breve, possiamo dire che Mandel’štam (1891-1938) fu un poeta russo, fiero della propria ebraicità, che appartenne al movimento letterario postsimbolista noto come acmeismo, di cui fu in qualche modo il «primo violino». La sua fu una vita raminga, itinerante, randagia, fatta di traversie, ristrettezze e vagabondaggi (Remo Faccani lo definisce «un emigrato interno, un esule in patria»). A causa di alcuni suoi componimenti sferzanti e quindi “scomodi” per il regime staliniano, venne arrestato due volte e infine deportato con l’accusa di “attività controrivoluzionaria”. Morirà a Vladivostok, in un campo di concentramento di transito, prima di giungere al lager della Kolimà a cui era destinato.
L’amore di Mandel’štam per Dante era, senza mezzi termini, “viscerale”. Chi ebbe modo di conoscere Osip finiva inevitabilmente col notare che egli «ardeva tutto per Dante». La poetessa Anna Achmatova ricorda ad esempio che Mandel’štam «recitava la Divina Commedia giorno e notte» (una passione, quella per Dante, che la Achmatova condivideva, se è vero che, quando le chiesero se avesse mai letto Dante, ella rispose: «Non faccio altro che leggere Dante!»). Da parte sua, il giovane poeta Sergej Rudakov, mentre scambiava due chiacchiere con Mandel’štam, gli disse: «tutto ciò che attiene alla [tua] poesia ha girato intorno alla Conversazione su Dante, [...] tutto ha guardato ad essa». Tutto ciò che Mandel’štam aveva prodotto, secondo Rudakov, rinviava quindi, da ultimo, alla Divina Commedia. A quest’osservazione, Mandel’štam replicò scherzosamente: «Sì, me lo dicono tutti: mi dicono che se ne rende conto pure chi non conosce Dante!».
Il Dante venerato da Mandel’štam è tuttavia molto diverso da quello a cui siamo abituati. Mandel’štam stesso tiene a distinguere il “suo” Dante da quello di «generazioni e generazioni di scolastici, di striscianti filologi e di pseudobiografi». «Sottrarre Dante alla retorica scolastica» scrive Mandel’štam «equivale a rendere un servizio non da poco a tutta la cultura europea». Egli dichiara anche: «è indispensabile dar vita a un nuovo commento dantesco, che rivolga la faccia al futuro e metta in luce il legame dell’autore della Commedia con la nuova poesia europea».
Secondo Mandel’štam, quindi, Dante non è stato ancora veramente compreso, e questo nonostante tutti gli studi che sono stati scritti sul sommo poeta: «presi dalla terminologia teologica, dalla grammatica scolastica e dall’ignoranza allegorica, abbiamo perso di vista le danze sperimentali della Commedia dantesca, e abbiamo conferito a Dante una dignità conforme al modello di una scienza defunta, mentre la sua teologia era un vaso di dinamica». Per Mandel’štam, Dante guarda sì alla cultura del passato, ma non certo per riproporla pedissequamente e quindi in modo sterile; piuttosto, egli se ne appropria per poi rielaborarla, reinterpretarla, rinnovarla. Mandel’štam è infatti dell’opinione che Dante veda «nella tradizione [...] non tanto il suo lato sacro, accecante, quanto un oggetto da valorizzare per mezzo di un ardente reportage e di una sperimentazione appassionata».
Certo, Mandel’štam riconosce che la Divina Commedia è «un’orgia di citazioni» classiche, e che leggere il poema dantesco è come fare «una passeggiata [...] lungo tutto l’orizzonte dell’antichità». Ma il poeta russo tiene comunque a sottolineare che «Dante è stato scelto come tema di questa conversazione non perché io volessi concentrare l’attenzione su di lui con il sottinteso invito ad apprendere dai classici».
L’impressione che si ricava dalla lettura delle Conversazioni è che Mandel’štam voglia fare di Dante non tanto (o non più) un rappresentante della tradizione filosofico-teologica occidentale, ma un anticipatore della temperie culturale contemporanea.
Il Dante descritto da Mandel’štam, più che essere vicino a Platone e ad Aristotele (o a Tommaso d’Aquino e ai filosofi arabi), sembra infatti prendere posto tra Eraclito e Nietzsche.
Per capire perché Mandel’štam faccia di Dante un poeta “contemporaneo” ed “eracliteo”, bisogna comprendere che cosa significhi per lui “poesia”. Per Mandel’štam, la poesia è soprattutto creazione, «cambiamento», «gioia del divenire» (non dimentichiamoci che “poesia” in greco antico si dice poiesis, termine che significa anche “creazione”, “produzione”). Mandel’štam scrive che la poesia è un «flusso d’energia», un «campo d’azione» composto di «onde semantiche», «onde-segnali», che «svaniscono, una volta eseguita la loro funzione: quanto più sono intense, tanto più sono arrendevoli e tanto meno sono inclini a trattenersi».
Ebbene, Mandel’štam ritrova in Dante tutti i caratteri tipici della propria concezione della poesia: secondo il poeta russo, Dante è infatti «il più grande e indiscusso signore della materia poetica convertibile e in via di conversione, il più antico e al tempo stesso il più vigoroso direttore d’orchestra [...] d’una composizione poetica che esiste unicamente sotto forma di flussi di onde, sotto forma di impennate e bordeggi».
Mandel’štam ritiene che una delle “specialità” di Dante sia proprio la «metafora eraclitea», ovverosia una figura retorica «impegnata a sottolineare con tale forza la transitorietà di un fenomeno e a cancellarlo con tali svolazzi, che alla pura contemplazione, dopo che la metafora ha fatto la sua parte, non resta in sostanza di che alimentarsi». È proprio questa capacità di ritrarre ed esaltare ciò che è caduco, effimero e transeunte che fa sì, per Mandel’štam, che la «contemporaneità» di Dante sia «inesauribile, incalcolabile e inestinguibile».
#filologia «(gr. «idou ho #anthropos»)
e
#principiodicarità:
#Ascensione «per uno», «per molti» o «per tutti»?!
#DanteAlighieri non narra come stato è possibile uscire dall’#inferno
e
#giungere in #purgatorio e in #paradiso?!
Verso Paradiso
Dante: dal ghiaccio infernale al «caldo amore»
di Gianni Vacchelli (Doppiozero, 28 Aprile 2021)
Dobbiamo ancora diventare contemporanei del Paradiso di Dante! Sembra paradossale, ma è così: infatti il Paradiso è complessivamente la cantica meno “ricevuta” e conosciuta a livello popolare, come anche scolastico, in una piuttosto standardizzata classifica che passa dall’entusiasmo per l’Inferno, alla tiepidezza per il Purgatorio fino ad un certo distacco dal viaggio paradisiaco. Ma anche nella ricezione di molti grandi scrittori, il Paradiso “latita”. Si pensi a Pasolini, a Primo Levi, a Edoardo Sanguineti, dove, pure in modi diversi, è il Dante infernale al centro, senza dimenticare il Dante “petroso” di molto Montale. Anche “dantisti” stranieri di altissima levatura come Joyce e Beckett privilegiano, per tante ragioni, soprattutto le prime due cantiche o un approccio soprattutto parodico alla Borges. Naturalmente ci sono eccezioni: certi passi eliotiani dei Quattro Quartetti, alcuni Cantos poundiani, la luce flagrante dell’ultimo Luzi, il cimento di Giovanni Giudici per mettere in scena la terza cantica. Al di là di questo del tutto incompleto censimento, la luce, l’ardore, la «mente innamorata» che intridono il Paradiso attendono ancora di essere pienamente gustati e vissuti. Anche per questo è preziosa la sfida di Marco Martinelli e di Ermanna Montanari, anime del Teatro delle Albe di Ravenna, di condurre a termine per l’anno prossimo la traversata teatrale della Commedia e di restituire «scintille» del genio paradisiaco a tutti, dotti e semplici, nello spirito che li ha guidati già con Inferno e Purgatorio: restando cioè fedeli a parti scelte del testo, ma dall’altra proponendo una lettura attualizzante e “militante”, come faceva il Poeta stesso, sempre teso ad interpellare i testi antichi, come ombra portata sulle domande e le esigenze del presente.
I motivi della difficile ricezione paradisiaca sono complessi e vari. Ne accenno qui solo alcuni “storici” e legati allo “spirito del nostro tempo”: non si entra nel Paradiso senza una qualche considerazione della mistica, che però è realtà misconosciuta e minoritaria, anche nella tradizione cristiana. In più la modernità secentesca ha costruito la sua antropologia sul cogito cartesiano e sulla matematizzazione della realtà. Sia chiaro: la mistica di Dante non è irrazionale, e mai svaluta il logos. L’uomo però non è solo Virgilio, ma anche Beatrice e Bernardo. Da ultimo il nostro tempo, nel suo mainstream, è lontanissimo da questa idea di un uomo capax Dei. Il capitalocene odierno lavora piuttosto su un tragico riduzionismo antropologico, quello di un homo miserabilis se non miserrimus, consumens, cosificato e mercificato. Marcuse parlava di uomo ad una dimensione. Forse sempre più dobbiamo denunciare gli esiti di fatto nichilistici e distruttivi di questa figurazione di mondo, che non è solo un sistema economico, ma un’intera rimappatura della vita all’insegna del denaro e del mercato totalizzato: vita che, non a caso, è appunto «smarrita».
Per arrivare a gustare qualcosa del Paradiso, partirò da due “immagini”, una infernale e una purgatoriale, per poi immergerci nel «gran mar de l’essere» del terzo regno.
Quando giungiamo nel fondo dell’abisso, nell’anus mundi, ci troviamo dentro un paesaggio spaventoso e insieme di incredibile potenza simbolica:
Già era, e con paura il metto in metro,
là dove l’ombre tutte eran coperte,
e trasparien come festuca in vetro.
Altre sono a giacere; altre stanno erte,
quella col capo e quella con le piante;
altra, com’arco, il volto a’ piè rinverte (If XXXIV, 10-15)
Il cuore dell’Inferno non è fuoco, ma ghiaccio, ghiaccio del Cocito e soprattutto ghiaccio dell’odio, dell’incompiutezza, della disumanizzazione, della morte relazionale, del desiderio spento, dell’uomo fallito come «compagnevole animale». Criogenato lì dentro, ecco ciò che resta dell’umano, ridotto a «festuca» (pagliuzza), a pezzo, a “impetrata” e muta insignificanza, mentre la grande macchina sacrificale luciferina tutto sussume e raggela, impersonalmente. L’immaginazione creatrice dantesca dice una deriva antropologica spesso realizzata in momenti bui della storia, specie in certi abissi del “secolo breve” e in alcuni scorci pure molto inquietanti del XXI secolo.
Ma usciamo «a riveder le stelle», ed entriamo nel sentire purgatoriale, che è un’altra figurazione dell’uomo, come di Dio e del cosmo:
Dolce color d’oriental zaffiro,
che s’accoglieva nel sereno aspetto
del mezzo, puro infino al primo giro,
a li occhi miei ricominciò diletto,
tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta
che m’avea contristati li occhi e ’l petto.
Lo bel pianeto che d’amar conforta
faceva tutto rider l’oriente,
velando i Pesci ch’erano in sua scorta (Pg I, 13-21)
Tutto rinasce e risorge qui, in un risveglio interiore, naturale e spirituale, che ridà «diletto» agli occhi, esodo dall’«aura morta» per un soffio di altra qualità. Si intravede la stella Venere che invita ad amare. Inizia il disgelo del cammino che permetterà il recupero di un «libero, dritto e sano [...] arbitrio» (Pg XXVII, 140). La sclerocardia infernale si sfa, come Dante canta splendidamente nel rincontro difficile ma intensissimo con Beatrice: «lo gel che m’era intorno al cor ristretto, / spirito e acqua fessi, e con angoscia /de la bocca e de li occhi uscì del petto» (Pg XXX, 97-99). L’uomo torna umano e lo diventa, in una relazione sempre più intensa con tutte le dimensioni della realtà.
Adesso forse possiamo meglio esperire “lo spirito del Paradiso” e alcune sue straordinarie immagini: la prima relativa alle vicissitudini di Traiano e la seconda con Piccarda protagonista.
L’ anima gloriosa [Traiano] onde si parla,
tornata ne la carne, in che fu poco,
credette in lui che potea aiutarla;
credendo s’accese in tanto foco
di vero amor, ch’a la morte seconda
degna di venire a questo gioco (Pd XX,112-117)
Con quelle altr’ ombre pria sorrise un poco;
da indi mi rispuose tanto lieta,
ch’arder parea d’amor nel primo foco (Pd III, 67-69).
(Corsivi di G. V.)
Ecco com’è nuova la poesia paradisiaca, ecco come è mutato lo stato di coscienza, non più infernale, petrosamente ghiacciato, non più neppure di purgatoriale disgelo “primaverile” e venusiano, ecco com’è diversa l’antropologia della terza cantica, e lo sguardo che pone su tutta la realtà. Questa energia danzante di ardore, di «caldo amor(e)» (Pd XII, 79; XX, 95), di luce, di bellezza, di gioco, di verità, questa «gloria di colui che tutto move», questo «amor che move il sole e l’altre stelle», pervade, in modi più o meno fulgenti, tutta l’atmosfera paradisiaca. Raggia dai beati, da Beatrice e avvolge Dante stesso, nel finale della cantica uomo di luce (Pd XXX, 46ss.).
Non solo la poesia del Paradiso non è esangue, statica, ma piuttosto fiammante, infuocata di eros e agape insieme, dove la carne è sì spiritualizzata, ma mai perduta, piuttosto assunta e portata a compimento, in trasfigurata ma possibile realtà: Traiano tutto «s’accese di tanto foco / di vero amor», Piccarda «arder parea d’amor nel primo foco», e puoi leggere il mirabile endecasillabo sentendo Piccarda rilucere nella potenza amante dello Spirito Santo, «primo foco» increato che tutto pervade, infondendo viriditas, direbbe Ildegarda di Bingen, ma anche nella bellezza e nell’emozione del primo innamoramento. Amore divino e umano nel Paradiso finalmente non si contrappongono più, ma sono interrelazionati: il primo alimenta il secondo, il secondo lo manifesta qui, nella compagnia degli uomini, delle donne e della creazione.
L’incompletezza raggelante dell’Inferno, il cammino di liberazione purgatoriale si compiono nell’eterno «gioco» paradisiaco, una esperienza piena della vita, traboccante e abbondante fin dai versi celeberrimi dell’incipit:
La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove (Pd I, 1-3)
Quella cantata qui infatti è l’esperienza della Vita, della «nostra vita», della Vita grande, che non muore, di cui siamo «vasi», epifanie, diafanie, cristofanie, se ci accorgiamo, ci risvegliamo, ci mettiamo in viaggio, per ritornare alla nostra origine, alla nostra vera natura, che per il Poeta è cristica. Non solo al centro della croce luminosa del cielo di Marte, ma ovunque nel poema lampeggia il mistero divino-umano cristico, che tutti attira a sé, credenti e non credenti, cristiani e uomini di altre religioni (che non devono naturalmente chiamarlo con questo nome):
Qui vince la memoria mia lo ’ngegno;
ché quella croce lampeggiava Cristo,
sì ch’io non so trovare essempro degno (Pd XIV, 103-105)
Ancora, con il grande teologo indocatalano Raimon Panikkar, potremmo dire che esperiamo nel Paradiso la vita e la mistica cosmoteandrica, dove il mistero di infinitudine che alcuni chiamano Dio (theos), ma che pure ha altri nomi, la dimensione umana e di coscienza (anèr) e quella cosmica, materiale, della natura (kosmos) rifulgono intrecciati insieme, certo gerarchicamente, in ordine sacro, ma non l’uno senza l’altro. È anche questo il mistero triadico e trinitario che pervade tutta la Commedia e che nella terza cantica si rivela nel suo splendore vivente.
Quella del Paradiso non è «vita bestiale», «cieca vita», nè vita solo biologica, «nuda vita», per dirla con Agamben, ma è «vera vita» (Pd XXXII, 59), «intera vita» (Pd VII, 104), da cantare così:
Oh gioia! oh ineffabile allegrezza!
oh vita intègra d’amore e di pace!
oh sanza brama sicura ricchezza! (Pd XXVII, 7-9).
Questa pienezza non è riservata a pochi gnostici ma, potenzialmente, all’umanità tutta, che Dante rappresenta in quanto everyman, fin dall’incipit del poema. Egli è sicuramente se stesso, ma pure tutti noi. Naturalmente tutto comincia per grazia, per dono, ma richiede pure impegno e sforzo, per discendere agli inferi personali e collettivi, risalire nella liberazione-trasformazione purgatoriale, e alla fine entrare in questo misterioso stato unitivo, aduale, di pienezza, dove la divinizzazione dell’uomo dice in primis la sua incarnazione umana feconda, amante, conoscente e virtuosa.
Per quanto il linguaggio di Dante sia maggioritariamente cristico (più che cristiano), ma pure aperto a tutte le sapienze a lui conosciute (quella pagana in primis), la mistica paradisaca non è appannaggio di una religione o di una confessione. «Le religioni non hanno il monopolio del religioso», ricordava spesso ancora Panikkar. Quello di Dante è soprattutto un magnifico invito al viaggio. Entra nel mistero che ti inabita e che tutto pervade. Coltiva la tua vita interiore, fai esperienza della sapienza. Questa mistica è una sorta di “diritto umano” di nuova generazione. E di essa abbiamo più che mai bisogno oggi, in tempi di evidente selva oscura, dove serve un «mi ritrovai» di cambiamento e di nuova immaginazione.
Dante sembra anche ricordarci che faville mistiche sono presenti in molte esperienze umane: nell’innamoramento, nell’estasi di fronte alla natura e al suo misterioso ordine, cantati in Paradiso I, e forse in certi istanti vissuti nell’infanzia, da ritrovare adesso con nuova e cosciente innocenza. Così anche il Poeta alla fine del viaggio diventa evangelicamente bambino ed entra nel regno, non solo dopo la morte, ma ora, in questo momento, sub specie tempiternitatis:
Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella (Pd XXXIII, 106-108)
Questi attimi escronici, ma pure radicati nel tempo, queste epifanie, questi ricordi di sé, questi moments of being raccontano anche la gioia rara ma possibile dell’intimità profonda: «s’io m’intuassi, come tu t’inmii (Pd IX, 81), cioè se io fossi capace di entrare in te, di “intuarmi” come tu entri in me, ti “inmii”, dice il Poeta con continua invenzione neologistica.
Anche il rapporto d’amore uomo-donna, paradigma simbolico di ogni altra relazione innamorata, trova nel Paradiso il suo inveramento. La mistica dantesca non è celibataria, ma laica e secolare, e non a caso il trasumanar del Poeta è vissuto guardando negli occhi l’amata Beatrice, per poi levarsi con lei, tutta donna, tutta iniziatrice, tutta dea e tutta simbolo, di cielo in cielo, chagallianamente:
Beatrice tutta ne l’etterne rote
fissa con li occhi stava; e io in lei
le luci fissi, di là sù rimote.
Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
qual si fé Glauco nel gustar de l’erba
che ’l fé consorto in mar de li altri dèi.
Trasumanar significar per verba
non si poria; però l’essemplo basti
a cui esperienza grazia serba (Pd I, 64-72).
Impossibile commentare la ricchezza di questi versi, che si nutrono della Trasfigurazione taborica del Cristo, rivissuta in Beatrice, “crista personale” del Poeta, ma fanno ricorso pure al mito classico, vaso anch’esso di luccicanze del mistero. E necessaria è l’esperienza, vissuta nella grazia e nel cammino col corpo, che nella mistica dantesca è dimensione in trasformazione ma definitiva.
Ancora: mai la spiritualità dantesca è fuga mundi o intimismo, quanto piuttosto una mistica critico-politica in forma di poesia. Il nesso interiore e quello civile per noi sono infranti, sconnessi, ed è quasi un “nonpensabile” questa circolazione costitutiva invece della poesia dantesca. Il diventare sempre più reali, umani e pieni significa per Dante mai disperdere la dimensione del bene comune, della polis, della giustizia. La felicità dantesca riabita la natura umana nella sua rettitudine originaria, come racconta nei canti del Paradiso Terrestre, ma è sempre anche una felicità politica, che tiene insieme, per così dire, il Giardino e il Regno. Ecco perché, se la superbia apparentemente resta il peccato più grave, invero fin dal I canto dell’Inferno Dante, con grande acutezza e audacia, denuncia come più mortifero il regno della lupa, assato sulla cupiditas e sull’accumulo. E queste aspre invettive impazzano pure in molti canti del Paradiso:
Se mala cupidigia altro vi grida,
uomini siate, e non pecore matte (Pd V, 79-80)
La tua città, che di colui è pianta
che pria volse le spalle al suo fattore
e di cui è la ’nvidia tanto pianta,
produce e spande il maladetto fiore
c’ha disviate le pecore e li agni,
però che fatto ha lupo del pastore (Pd IX, 127ss)
[...] La cieca / cupidigia che v’ammalia
simili fatti v’ha al fantolino
che muor per fame e caccia via la
balia» (Pd XXX, 133-141)
La mala pianta della cupiditas-accumulo attecchisce ovunque, nell’animo umano in primis, e poi nelle istituzioni stesse: nella Chiesa, nell’Impero, nei comuni ecc. Ma Dante intravvede anche la nascita di un protocapitalismo finanziario e manifatturiero, l’affermarsi di un nuovo paradigma che andrà verso l’economicizzazione della realtà, il culto del denaro (il «maladetto fiore»), la cui devastante pericolosità - per i popoli, per l’equa distribuzione dei beni primi e necessari, per la natura, per l’anima e l’interiorità stessa - oggi vediamo dispiegata al suo concetto.
Anche per questo quindi facciamo fatica a comprendere la poesia del Paradiso, ma pure ne abbiamo sete e ci è più che mai necessaria. Proprio perché la spiritualità dantesca è piena di amore, di ardore e di desiderio forse essa aspetta idealmente soprattutto le nuove generazioni, più capaci di ripensare in modo inedito e meno iniquo il mondo.
Dopo che varcando il Teatro Rasi si era precipitati nella città dolente, dopo che si era imparato il “noi” nella cantica dell’ascendere insieme per le strade di Ravenna, e di Matera, ci sarebbe stata una nuova chiamata pubblica e, insieme, si sarebbe dovuti arrivare al Paradiso nel 2021. Come fare, costretti alla distanza? Come celebrare Dante nell’anno del settimo centenario della morte del poeta? Teatro delle Albe e doppiozero hanno immaginato lo spazio della scrittura come spazio di un’attesa condivisa, un racconto-diario scritto da Marco Martinelli e racconti-sapere di studiosi e amici del Sommo, fili differenti per “dialogare con l’ago” e tessere visioni. Oggi il primo di questi quattro contributi. Il Cantiere Dante di Marco Martinelli e Ermanna Montanari è una produzione Ravenna Festival/Teatro Alighieri in collaborazione con Teatro delle Albe/Ravenna Teatro.
Del coraggio. L’abc di Wittgenstein
di Federico Ferrari *
Pensare significa avere coraggio. Affrontare le proprie paure, il proprio fondo di inautenticità. Non farsi mai sconti e, indifferenti al quieto vivere, non farli nemmeno agli altri. C’è della crudeltà nel coraggio, una forma di doloroso accanimento. L’impossibilità di tacere, di non dire esattamente quel che va detto, costi quel che costi. Il coraggio si paga. Rovina i rapporti umani. Spinge nella solitudine. Ma il coraggio ci rende un po’ meno pagliacci di quel che naturalmente siamo. Ci offre l’opportunità di diventare uomini e donne decenti - ein anständiger Mensch, scrive Wittgenstein, concependo il pensiero come un impietoso autosmascheramento. Il coraggio e la decenza sono due facce di una medesima medaglia. L’indecenza di ogni tempo nasce dalla mancanza di coraggio. Politici senza coraggio, intellettuali senza coraggio, uomini senza coraggio: la fine di una civiltà.
Poco importa se la lotta coraggiosa per difendere la propria dignità, le proprie idee, la propria esistenza non porterà a nulla, non cambierà il mondo. Il mondo non cambierà mai davvero. Il mondo è solo l’eterno confronto e scontro tra pavidi e coraggiosi. Tra coloro che salgono sul carro dei vincitori, in cerca di consenso, e coloro che percorrono il tempo sempre controvento, in cerca di se stessi. Questo scontro avviene in ogni luogo, in ogni momento e sempre, anche, in noi stessi.
La cosa più difficile non è essere all’altezza del mondo, ma all’altezza di se stessi. E’ abbastanza semplice non deludere gli altri. Molto più complesso non deludere se stessi. Pensare, dire, a volte, tacere coraggiosamente è un modo di darsi dignità, un modo di riconoscere la propria irripetibile unicità.
La dignità di un pensiero è data dal suo coraggio e dal coraggio che sa infondere. Il resto è vanità.
Questo testo è solo un eco (e un ricordo riconoscente) della prefazione di Aldo G. Gargani ai Diari segreti di Ludwig Wittgenstein (Laterza, 1987), letti molti anni fa e mai dimenticati.
* Fonte: Antinomie, 24/11/2020 (ripresa parziale, senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
Federico La Sala
#DANTE2021
STORIA DELL’ARTE E TEOLOGIA:
LA PRIMA “CENA” DI “CAINO” (DOPO AVER UCCISO IL PASTORE “ABELE”) E L’INIZIO DELLA “BUONA-CARESTIA”(“EU-CARESTIA”)!
NELL’OSSERVARE “L’Ultima Cena raffigurata sulla parete di fondo del refettorio dell’ex convento dei francescani di Veglie” (sec. XVI/XVII ca.) E NEL RIFLETTERE SUL FATTO CHE “è tra le più canoniche rappresentazioni del momento in cui Cristo istituì la santissima Eucarestia” (Riccardo Viganò, "Fondazione Terra d’Otranto"), c’è da interrogarsi bene e a fondo su chi (teologi ed artisti) abbia potuto concepire e dare forma con straodinaria chiarezza e potenza a questa “cena”(vedere la figura: “Portata centrale, saliere e frutti”) e, insieme, riflettere ancora e meglio sui tempi lunghi e sui tempi brevi della storia di questa interpretazione tragica del messaggio evangelico - a tutti i livelli, dal punto di vista filosofico, teologico, filologico, artistico, sociologico. O no?
NOTARE BENE E RICORDARE. Siamo a 700 anni dalla morte dell’autore della “COMMEDIA”, della “DIVINA COMMEDIA”, e della sua “MONARCHIA”!
SAPERE AUDE! (I. KANT). Sul tema, per svegliarsi dal famoso “sonno dogmatico”, mi sia lecito, si cfr. l’intervento di Armando Polito, “Ubi maior minor cessat”(Fondazione Terra d’Otranto, 24.02.2021) e, ancora, una mia ipotesi di ri-lettura della vita e dell’opera di Dante Alighieri.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Con Wojtyla (2000), oltre. Guarire la nostra Terra. Verità e riconciliazione
FLS
COSTITUZIONE ED EDUCAZIONE CIVICA. Crisi dei fondamenti di una civiltà....
FLS
Dante: alla ricerca di un dilettoso monte
La Divina Commedia è espressione di un’unità integrale, di per sé poco affine alla sensibilità moderna. Tuttavia, nel coraggio a perlustrare percorsi alternativi e nella propensione a navigare in spazi aperti, Dante conserva una sua definitiva attualità.
di Oreste Tolone ("Dialoghi", 01.03.2021)
Nel ricordo di alcuni importanti filosofi e letterati del Novecento Dante e la sua Commedia vengono associati, di frequente, alla voce e al movimento, al viaggio e al bisogno quasi fisico di pronunciare ad alta voce le sue parole. Come se in questo modo assumessero il loro vero contorno e ci convincessero della loro immane architettura. Così Thomas Stearns Eliot, il quale per alcuni anni fu in grado di recitare a se stesso «buona parte di questo o di quel canto stando a letto o durante un viaggio in treno», o Jorge Luis Borges, che lesse «i tre volumi, durante quei lenti viaggi in tranvai». Walter Benjamin, a proposito di Stefan George e della sua mirabile traduzione, rammenta di come un giorno fosse rimasto affascinato dal V canto dell’Inferno, «la voce che me lo lesse una chiara mattina in un atelier di Monaco ha continuato a risuonare per anni dentro di me», mentre il vivido ricordo della poetessa Anna Achmatova riferisce di un Osip Mandel’štam alle prese con una lingua «assurda», e un poeta a cui farà costantemente appello nel suo ultimo periodo di confino: «Da pochissimo aveva imparato la lingua italiana. Recitava la Divina Commedia giorno e notte».
In queste brevi testimonianze Dante e la sua poesia ci appaiono come compagni di viaggio, che ci scortano, in treno o in tranvai certo, ma soprattutto nel lungo percorso dell’esistenza, ribadendo immagini e verità che non temono di apparire anacronistiche, e che anzi, ripetute ad alta voce, reiterano la forza quasi dimostrativa della visione. Nonostante o forse per via della velocità dei treni su cui oggi sfrecciamo, la poesia di Dante trasmette, ostinatamente, l’impressione di essere una visione intuitiva suprema, una rivelazione originaria, nella quale il poeta sembra parlare afflante numine, sotto l’influenza del nume. In questo senso tutti i versi davvero straordinari vanno declamati ad alta voce - non si lasciano leggere in silenzio o bisbigliare - poiché il verso «non dimentica di essere stato un’arte orale, prima di essere una scrittura scritta». Tuttavia, questo vale in particolar modo per Dante, la cui Commedia sembra «farci apprendere con i sensi», conservando i tratti di una verità sensibile.
A maggior ragione se, come ritiene Borges, la Commedia sembra essere un libro, un’opera collettiva, nella quale la visione passionale dell’arcaico (il pathos) e la parola annunciata (il logos) appaiono indivisibili: un’opera più simile a quella di Omero che di Valéry.
Che questo possa fare, dunque, di Dante più un poeta classico che moderno, della trasparenza e dell’ordine più che del caotico e del creativo, è quanto si evince dalle riflessioni del filosofo e teologo italo-tedesco Romano Guardini. Egli, nelle sue belle lezioni universitarie dedicate al poeta a partire dagli anni Trenta, ribadisce qualcosa del genere, ricordandoci come cercheremmo invano, nell’opera di Dante, l’introspezione psicologica dei personaggi moderni: non il processo creativo concentrato sul soggetto, non l’opera d’arte autonoma che ruota intorno all’esperienza creatrice e arbitraria dell’artista. La scissione moderna tra soggetto e oggetto, interiorità ed esteriorità, significato e parola - più propria dell’indole nordeuropea - in Dante sembra affievolirsi. In lui sembra prevalga una fiducia originaria nella capacità del corpo di esprimere adeguatamente l’interiorità più profonda, la dote della parola di svelare le intenzioni più intime, la possibilità di esporsi al pubblico senza che questo comporti il tradimento di ciò che è autentico.
Come nota Guardini:
Nella Commedia di Dante tutti hanno il desiderio di parlare, tutti i personaggi che egli incontra nel corso della sua peregrinazione vogliono prendere parola - tranne che nel regno del male irreversibile, la Caina, dove regna il silenzio più totale. Ciò che è profondo affiora in superficie, senza essere superficiale, ciò che è intimo e segreto viene reso pubblico senza per questo essere svilito; l’immagine conserva i tratti dell’icona e la parola conserva la forza originaria del significato. La parola pronunciata, il paesaggio scorto assumono nella Commedia il peso della verità, e in questo processo di rivelazione la razionalità sembra fare tutt’uno con i sensi.
Questa fiducia nella risoluzione delle contese, nella profonda integrità del tutto, che in Dante assume dimensioni cosmologiche, urta però contro il disincanto contemporaneo, che ha edificato il proprio successo sulla divisione degli ambiti, sulla lucidità della ragione scientifica. L’importanza del procedimento allegorico e della fantasmagoria; l’idea di un «pensiero sensibile», frutto di un umano e maturo equilibrio di intelligenza e sensualità, nel quale anche l’apprensione coi sensi conserva una sua segreta e misteriosa validità; l’esigenza di un’opera d’arte totale, unitaria e armonica, in cui ogni cosa, ogni emozione trova la sua giusta collocazione: tutto questo rende Dante forse più consono e affine ai grandi sistemi ottocenteschi, che all’attuale disseminazione, alla proliferazione delle istanze individuali. Per questo, secondo Nietzsche, «non potrà mai più rifiorire quella specie d’arte che, come la Divina Commedia, i quadri di Raffaello, gli affreschi di Michelangelo e le cattedrali gotiche, presuppone un significato non solo cosmico, ma anche metafisico degli oggetti dell’arte».
Ciononostante, Dante ha ancora la forza di proporsi a noi come colui che si pone alla ricerca di percorsi alternativi, che quando le fiere sbarrano la strada e l’unica alternativa valida sembra quella di retrocedere, imbocca sentieri più che interrotti, inimmaginabili.
Come ci ricorda Massimo Cacciari, «egli ci insegna, che anche laddove i limiti ci sembrano insuperabili [...] bisogna trovare la forza di scoprire spazi immensi», di prefigurarsi strade che ci permettano di accedere al nostro dilettoso monte, pur attraversando oscure selve o inerpicandosi su montagne scoscese. Sia quando a richiederlo sia la nostra vita personale, sia quando a trovarsi nel guado sia la storia. In questo caso il coraggio di una visione non assorbita dal presente e la disponibilità a viaggiare lungo sentieri poco battuti potrebbero risultare indispensabili alla prefigurazione di un altro mondo: a modificare il corso della storia.
"ECCE HOMO" (PONZIO PILATO - NIETZSCHE). Chi ha perduto il filo del messaggio evangelico? ... *
Chi ha perduto il filo del cristianesimo?
Gli orrori del Novecento hanno favorito un nuovo “ateismo”. Occorre ritrovare la forza insostituibile del messaggio di Cristo. Due saggi di Ryrie e De Angelis
di Roberto Righetto (Avvenire, mercoledì 10 febbraio 2021)
«La filosofia hegeliana era stata la forma più compiuta di quella laicizzazione del cristianesimo in cui consiste il pensiero moderno, sì che la sua dissoluzione ha posto un’alternativa, ch’è ancora l’alternativa d’oggi: o condurre sino in fondo la secolarizzazione del cristianesimo verso le forme più radicali di ateismo e di nichilismo, o recuperare il cristianesimo nella sua genuinità religiosa. Insomma, fine o ritrovamento del cristianesimo, questa è l’alternativa d’oggi, e si tratta d’un’alternativa filosofica». Così il filosofo Luigi Pareyson in uno dei suoi ultimi scritti. Una linea radicale che suonava come un verdetto impietoso verso le filosofie contemporanee ridotte all’analisi dei giochi linguistici o alla sudditanza verso la scienza. In questa direzione muovono anche due saggi recenti: Il senso di non credere. Una storia emotiva del dubbio di Alec Ryrie (Utet, pagine 306, euro 23) e Serve ancora Dio? La via di Nietzsche oltre il nichilismo di Massimo De Angelis (Castelvecchi, pagine 288, euro 25).
Partiamo da quest’ultimo, dato che Nietzsche è visto da molti come il sostenitore della "morte di Dio" e l’iniziatore del nichilismo in Occidente. Ma è davvero così? Già il grande antropologo francese René Girard, nel volume Il caso Nietzsche, aveva definito il pensatore tedesco «il preteso distruttore del cristianesimo », anzi «la migliore conferma». Soprattutto negli ultimi tempi, quando firma i suoi aforismi a volte Dioniso a volte Cristo, e a volte entrambi, Nietzsche vuole parteggiare per l’antica divinità pagana e lo oppone a Gesù ma questo suo tremendo sforzo di autoconvincimento lo porterà alla pazzia.
Il saggista De Angelis, già direttore della rivista "Nuova civiltà delle macchine" rileva come la critica del filosofo di Sils Maria al cristianesimo fosse rivolta al suo impianto metafisico e morale, e ricorda l’analisi che fece della malattia il professor Kaftan, secondo cui Nietzsche «non riuscì mai a dimenticare e a superare completamente il cristianesimo, giacché a Dio era destinato e soltanto Dio avrebbe potuto dare una forma grande e armoniosa alla ricca vita spirituale che sgorgava in lui». Tesi contraddette dagli amici più prossimi come Overbeck e Koselitz, ma in un certo senso confermate da Lou Salomé, per la quale l’incontro- scontro con Cristo è rimasto in lui una questione irrisolta e causa di dolore estremo.
La lezione che ci lascia Nietzsche, dopo la demolizione della metafisica e la proclamazione della morte di Dio, è una sfida aperta per un pensiero cristiano che torni alle origini e riscopra la dimensione mistica. Come ha scritto Karl Jaspers: «Nietzsche, continuamente scosso dalla trascendenza che egli nega, prepara la trascendenza che egli non mostra». In questo senso ha ragione ancora Girard a definirlo un «pensatore religioso». Si ritorna al passo di Pareyson citato all’inizio, all’alternativa fra un ateismo nichilista e un cristianesimo genuino, non sentimentale né consolatorio.
E qui ci aiuta l’analisi di Ryrie, pastore anglicano e storico delle religioni. La sua è una difesa di un cristianesimo che non dimentica la sfida del dubbio. Ricostruendo la «storia dell’assassinio filosofico di Dio», a suo parere assai più lontana nel tempo rispetto al cliché consolidato del libertinismo e dell’illuminismo come padri della non credenza, Ryrie prende spunto dal dato di fatto inoppugnabile della crisi della fede oggi in America ed Europa a tutto vantaggio dell’agnosticismo e dell’ateismo. Ma contrasta quanto affermato da Charles Taylor nel suo famoso saggio L’età secolare: «Perché era virtualmente impossibile nella nostra società occidentale non credere in Dio, ad esempio, nel 1500, mentre nel 2000 a molti di noi questa appare come una scelta non solo facile, ma quasi inevitabile?». Secondo Ryrie anche durante i cosiddetti secoli cristiani coloro che avevano una fede vera non erano certo la maggioranza ed esisteva comunque chi si dichiarava ateo. E cita vari casi di rivolta verso la Chiesa già in età medievale, anche se all’epoca non si usava certo la parola "ateismo". Da Federico II a Jacopo Fiammenghi e Thomas Tailour, è lungo l’elenco di quanti espressero risentimento verso Dio e scetticismo sulla vita eterna, oltre che rancore verso vescovi e preti. E’ nel ’500 e ’600 poi soprattutto che la ribellione si fa ideologia, dagli umanisti Sozzini e Harvey ai più noti filosofi Hobbes e Spinoza e ai drammaturghi inglesi Marlowe e Jonson. È un ateismo fatto di rabbia e ansia insieme: rabbia per i tradimenti del cristianesimo commessi dai suoi leader e ansia per non essere all’altezza della fede. Così il poeta John Donne poteva distinguere fra «l’ateo presuntuoso, che non crede in alcun Dio», e «l’ateo pensoso, che crede che Gesù non sia sceso in terra per lui». E oggi?
Secondo il pastore anglicano il cristianesimo è inciampato negli orrori del nazismo. Non solo perché questa efferata ideologia è cresciuta in una terra cristiana, ma perché i suoi orrori hanno stabilito nel corso del ’900 un nuovo ordine morale da non oltrepassare, mettendo da parte la visione cristiana delle cose. ’Umanesimo’ è la nuova dottrina cui anche il cristianesimo si deve piegare. Una nuova struttura etica sempre più diffusa (Chesterton l’avrebbe definita ’umanitarismo’) e il cui sostegno è la sola ragione umana. La fede viene messa in disparte. Secondo Callum Brown, autore di una storia orale della miscredenza moderna (Becoming Atheist), col genocidio nazista il cristianesimo ha subito uno smacco. «Ha fallito - commenta Ryrie - non solo nel senso che molte chiese e moti cristiani erano più o meno collusi con nazismo e fascismo, ma in un senso più ampio: la crisi globale rivelò che le priorità morali del cristianesimo erano sbagliate. Era ormai evidente che crudeltà, discriminazione e omicidio erano espressioni del male in un modo ben diverso da fornicazione, blasfemia ed empietà».
Di fronte a questa sfida quale risposta è possibile? Essendo anglicano, Ryrie non cita la svolta del Concilio Vaticano II e gli ultimi pontificati: è convinto che il passato non può tornare e che bisogna riannodare i fili del dialogo fra un’etica cristiana e un’etica laica umanista. Rinunciando a ogni cedimento ai richiami nazionalistici che oggi subiscono molti cristiani europei ed essendo certi della forza insopprimibile della proposta: «Neanche l’ascesa umanista è una nuova realtà solida. Le strutture morali delle nostre culture sono state sempre mutevoli, e sempre lo saranno. Le nostre credenze, inevitabilmente, seguiranno le loro mutazioni. Il finale di questa storia riguarderà tutti, credenti e miscredenti».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Sul tema, le pagine dell’uno e dell’altro (con alcune note)
FLS
"ECCE HOMO" (PONZIO PILATO - NIETZSCHE). Chi ha perduto il filo del messaggio evangelico? ... *
Chi ha perduto il filo del cristianesimo?
Gli orrori del Novecento hanno favorito un nuovo “ateismo”. Occorre ritrovare la forza insostituibile del messaggio di Cristo. Due saggi di Ryrie e De Angelis
di Roberto Righetto (Avvenire, mercoledì 10 febbraio 2021
«La filosofia hegeliana era stata la forma più compiuta di quella laicizzazione del cristianesimo in cui consiste il pensiero moderno, sì che la sua dissoluzione ha posto un’alternativa, ch’è ancora l’alternativa d’oggi: o condurre sino in fondo la secolarizzazione del cristianesimo verso le forme più radicali di ateismo e di nichilismo, o recuperare il cristianesimo nella sua genuinità religiosa. Insomma, fine o ritrovamento del cristianesimo, questa è l’alternativa d’oggi, e si tratta d’un’alternativa filosofica». Così il filosofo Luigi Pareyson in uno dei suoi ultimi scritti. Una linea radicale che suonava come un verdetto impietoso verso le filosofie contemporanee ridotte all’analisi dei giochi linguistici o alla sudditanza verso la scienza. In questa direzione muovono anche due saggi recenti: Il senso di non credere. Una storia emotiva del dubbio di Alec Ryrie (Utet, pagine 306, euro 23) e Serve ancora Dio? La via di Nietzsche oltre il nichilismo di Massimo De Angelis (Castelvecchi, pagine 288, euro 25).
Partiamo da quest’ultimo, dato che Nietzsche è visto da molti come il sostenitore della "morte di Dio" e l’iniziatore del nichilismo in Occidente. Ma è davvero così? Già il grande antropologo francese René Girard, nel volume Il caso Nietzsche, aveva definito il pensatore tedesco «il preteso distruttore del cristianesimo », anzi «la migliore conferma». Soprattutto negli ultimi tempi, quando firma i suoi aforismi a volte Dioniso a volte Cristo, e a volte entrambi, Nietzsche vuole parteggiare per l’antica divinità pagana e lo oppone a Gesù ma questo suo tremendo sforzo di autoconvincimento lo porterà alla pazzia.
Il saggista De Angelis, già direttore della rivista "Nuova civiltà delle macchine" rileva come la critica del filosofo di Sils Maria al cristianesimo fosse rivolta al suo impianto metafisico e morale, e ricorda l’analisi che fece della malattia il professor Kaftan, secondo cui Nietzsche «non riuscì mai a dimenticare e a superare completamente il cristianesimo, giacché a Dio era destinato e soltanto Dio avrebbe potuto dare una forma grande e armoniosa alla ricca vita spirituale che sgorgava in lui». Tesi contraddette dagli amici più prossimi come Overbeck e Koselitz, ma in un certo senso confermate da Lou Salomé, per la quale l’incontro- scontro con Cristo è rimasto in lui una questione irrisolta e causa di dolore estremo.
La lezione che ci lascia Nietzsche, dopo la demolizione della metafisica e la proclamazione della morte di Dio, è una sfida aperta per un pensiero cristiano che torni alle origini e riscopra la dimensione mistica. Come ha scritto Karl Jaspers: «Nietzsche, continuamente scosso dalla trascendenza che egli nega, prepara la trascendenza che egli non mostra». In questo senso ha ragione ancora Girard a definirlo un «pensatore religioso». Si ritorna al passo di Pareyson citato all’inizio, all’alternativa fra un ateismo nichilista e un cristianesimo genuino, non sentimentale né consolatorio.
E qui ci aiuta l’analisi di Ryrie, pastore anglicano e storico delle religioni. La sua è una difesa di un cristianesimo che non dimentica la sfida del dubbio. Ricostruendo la «storia dell’assassinio filosofico di Dio», a suo parere assai più lontana nel tempo rispetto al cliché consolidato del libertinismo e dell’illuminismo come padri della non credenza, Ryrie prende spunto dal dato di fatto inoppugnabile della crisi della fede oggi in America ed Europa a tutto vantaggio dell’agnosticismo e dell’ateismo. Ma contrasta quanto affermato da Charles Taylor nel suo famoso saggio L’età secolare: «Perché era virtualmente impossibile nella nostra società occidentale non credere in Dio, ad esempio, nel 1500, mentre nel 2000 a molti di noi questa appare come una scelta non solo facile, ma quasi inevitabile?». Secondo Ryrie anche durante i cosiddetti secoli cristiani coloro che avevano una fede vera non erano certo la maggioranza ed esisteva comunque chi si dichiarava ateo. E cita vari casi di rivolta verso la Chiesa già in età medievale, anche se all’epoca non si usava certo la parola "ateismo". Da Federico II a Jacopo Fiammenghi e Thomas Tailour, è lungo l’elenco di quanti espressero risentimento verso Dio e scetticismo sulla vita eterna, oltre che rancore verso vescovi e preti. E’ nel ’500 e ’600 poi soprattutto che la ribellione si fa ideologia, dagli umanisti Sozzini e Harvey ai più noti filosofi Hobbes e Spinoza e ai drammaturghi inglesi Marlowe e Jonson. È un ateismo fatto di rabbia e ansia insieme: rabbia per i tradimenti del cristianesimo commessi dai suoi leader e ansia per non essere all’altezza della fede. Così il poeta John Donne poteva distinguere fra «l’ateo presuntuoso, che non crede in alcun Dio», e «l’ateo pensoso, che crede che Gesù non sia sceso in terra per lui». E oggi?
Secondo il pastore anglicano il cristianesimo è inciampato negli orrori del nazismo. Non solo perché questa efferata ideologia è cresciuta in una terra cristiana, ma perché i suoi orrori hanno stabilito nel corso del ’900 un nuovo ordine morale da non oltrepassare, mettendo da parte la visione cristiana delle cose. ’Umanesimo’ è la nuova dottrina cui anche il cristianesimo si deve piegare. Una nuova struttura etica sempre più diffusa (Chesterton l’avrebbe definita ’umanitarismo’) e il cui sostegno è la sola ragione umana. La fede viene messa in disparte. Secondo Callum Brown, autore di una storia orale della miscredenza moderna (Becoming Atheist), col genocidio nazista il cristianesimo ha subito uno smacco. «Ha fallito - commenta Ryrie - non solo nel senso che molte chiese e moti cristiani erano più o meno collusi con nazismo e fascismo, ma in un senso più ampio: la crisi globale rivelò che le priorità morali del cristianesimo erano sbagliate. Era ormai evidente che crudeltà, discriminazione e omicidio erano espressioni del male in un modo ben diverso da fornicazione, blasfemia ed empietà».
Di fronte a questa sfida quale risposta è possibile? Essendo anglicano, Ryrie non cita la svolta del Concilio Vaticano II e gli ultimi pontificati: è convinto che il passato non può tornare e che bisogna riannodare i fili del dialogo fra un’etica cristiana e un’etica laica umanista. Rinunciando a ogni cedimento ai richiami nazionalistici che oggi subiscono molti cristiani europei ed essendo certi della forza insopprimibile della proposta: «Neanche l’ascesa umanista è una nuova realtà solida. Le strutture morali delle nostre culture sono state sempre mutevoli, e sempre lo saranno. Le nostre credenze, inevitabilmente, seguiranno le loro mutazioni. Il finale di questa storia riguarderà tutti, credenti e miscredenti».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Sul tema, le pagine dell’uno e dell’altro (con alcune note)
FLS
Se dopo 700 anni
#Beatrice appare come un «manichino senza corpo»,
forse,
non è il caso di
osare un’altra ipotesi di lettura
della #DivinaCommedia e della #vita di #Dante?
FLS
“Pasolini e Dante. La “divina mimesis” e la politica della rappresentazione”
di Emanuela Patti (Le parole le cose, 2412.2015)
I
Mimesi. “Il punto d’avvio non può essere che il concetto di mimesi”, scriveva Daniele Giglioli qualche settimana fa in apertura di un suo contributo su Réné Girard pubblicato su LPLC. E questo è anche il punto di partenza del rapporto tra Pasolini e Dante, fortemente incentrato sui temi della rappresentazione e dell’imitazione. Nella riflessione pasoliniana sulla “realtà rappresentata” (mimesis), Dante ha avuto di fatto un ruolo di primo piano. Negli anni Cinquanta la sua influenza ha preso la forma di un certo “realismo dantesco” nella narrativa e poesia pasoliniana, a partire dall’esempio di oggettività, sperimentalismo e plurilingualismo di Dante diffuso da un saggio di Gianfranco Contini del 1951, “Preliminari sulla lingua del Petrarca”. In particolare, il plurilinguismo sarebbe diventato per lui un modello per ripensare la rappresentazione dell’altro (delle classi subalterne e della loro realtà) a livello sociologico, in relazione alla “questione della lingua” e del “nazional-popolare”. Nei primi anni Sessanta, invece, Dante è diventato fonte di ispirazione di un certo “realismo figurale” nel cinema pasoliniano a partire dai concetti di figura e “contaminazione degli stili” di Erich Auerbach - come emerge chiaramente nella fase “nazional-popolare” del suo cinema che va da Accattone (1961) a Il Vangelo secondo Matteo (1964). In questi film la contaminazione degli stili, tradotta in ibridazione di pittura, musica, letteratura ed immagini in movimento, ha consentito associazioni semiotiche piuttosto radicali tra cultura alta e cultura bassa e, nello specifico, tra la figura di Cristo e quella del sottoproletariato.
Sulla base di queste premesse, l’ipotesi di questo libro è che Pasolini abbia trovato in Dante - e più precisamente in alcune interpretazioni critiche della sua opera (in particolare quelle di Contini ed Auerbach) - un modello con cui rispondere, in ambito artistico, ad una domanda estetico-politica di grande rilevanza per il suo tempo: la rappresentazione dell’altro, il popolo. Che cosa significa “popolare” in poesia, narrativa, cinema? E qual è il ruolo dell’intellettuale/poeta che vuole rappresentare il popolo in modo realistico?
In questo discorso, è chiaramente cruciale per Pasolini la connessione tra l’esempio di Dante e quello di Cristo, in quanto entrambi rappresentano, come ricorda Auerbach, gli esempi, per eccellenza, di radicale contaminazione tra cultura “alta” e cultura “bassa”, tra la parola e la carne. Attraverso la tradizione cristiana a lui disponibile, Dante riesce a raggiungere questa integrazione tramite il doppio ruolo di auctor/actor che gli consente di combinare la funzione intellettuale con l’illusione di un reale viaggio fisico attraverso l’inferno, il purgatorio e il paradiso. Ed è proprio questo modello di “poeta della realtà” ad offrire a Pasolini, almeno negli anni Cinquanta, un esempio, sul piano linguistico ed autoriale, di integrazione delle due funzioni, in pieno clima ideologico post-crociano.
Eppure, per Pasolini, come l’autore scriverà nel 1965 in “La volontà di Dante “a” essere poeta”, il realismo di Dante rimane un mistero. L’incarnazione, vera ambizione del suo realismo, gli parrà ad un certo punto problematica in letteratura. L’originalità con cui Pasolini ha affrontato l’argomento della “realtà rappresentata” in relazione alle classi subalterne ha comunque avuto il merito di mettere in evidenza il divario esistente tra il cuore idealistico del discorso etico-politico delle culture realiste del suo tempo e il livello dialettico, materiale dell’esperienza artistica.
Nel contesto del periodo considerato, la riscrittura pasoliniana della Divina Commedia, La Divina Mimesis, il cui corpus principale è stato scritto tra gli anni 1963 e 1965 - con un momento di brusca interruzione proprio dopo le celebrazioni per i 700 anni di Dante nel 1965 - si colloca in un momento di svolta nella carriera pasoliniana e costituisce la sua fondamentale riflessione sul ruolo autoriale, misurato, appunto, sull’imitazione di Dante. La riscrittura pasoliniana della Divina Commedia non prenderà mai forma compiuta e resterà nel cassetto per anni, con poche ma importanti aggiunte di note o frammenti. Eppure, Pasolini decise di consegnare all’editore quest’opera, proprio nel suo stato incompiuto e frammentario, pochi giorni prima di essere ucciso nel novembre del 1975. La Divina Mimesis verrà pubblicata postuma qualche settimana dopo ed è una delle più significative dichiarazioni poetiche che l’autore ci ha lasciato.
Per mettere in luce le relazioni che questo testo frammentario ed incompleto stabilisce con l’attività poetica, narrativa e saggistica di Pasolini negli anni Cinquanta, il suo primo cinema e il dibattito sulla “nuova questione della lingua” ed il nazional-popolare, la rappresentazione di Dante in Pasolini viene qui affrontata come un fenomeno complesso e stratificato di appropriazione creativa che va interrogato a diversi livelli. Innanzitutto, le interpretazioni critiche di Dante nel dopoguerra italiano: quale modello di Dante è stato diffuso nelle letture di Contini e Auerbach? E poi, in che modo Pasolini si è appropriato di queste letture e come è stato usato il modello di Dante per ripensare la rappresentazione delle classi subalterne in relazione ad altri modelli culturali come quello gramsciano?
II
Realismi. Va subito detto che le forme di “realismo” del dopoguerra - tipicamente associate all’impegno ideologico del neorealismo o del realismo socialista di raccontare le condizioni di vita del popolo o dei socialmente esclusi nell’ambito del progetto nazional-popolare - risultavano a Pasolini insufficienti e con non poche contraddizioni. Innanzitutto, queste spesso rivelavano una mancanza di “reale” esperienza dell’altro da parte dell’artista borghese, con la conseguenza di restituire rappresentazioni stereotipate e poco autentiche. -Nel volume resta infatti sottesa la questione - recentemente discussa anche nel libro di David Forgacs, Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’unità a oggi (2015) - che riguarda i limiti di alfabetizzazione e di potere delle classi subalterne nell’auto-rappresentarsi in letteratura, condizione alla base dell’impegno di molti intellettuali, normalmente appartenenti ad una classe più alta, di “parlare per loro”. Questo è un punto che Pasolini solleva già nel 1952 anche per la poesia dialettale, mettendo in evidenza il falso binomio tra realismo e dialetto (vedi Poesia dialettale del Novecento), quella che Fortini chiamava la “coltivazione artificiale dei dialetti”.
In secondo luogo, non venivano messe in discussione le strutture linguistiche che veicolavano contenuti della realtà finendo per utilizzare una lingua tipicamente borghese per rappresentare il popolo. Lo sperimentalismo linguistico non era nell’agenda del realismo. Un’altra contraddizione emergente nella riflessione pasoliniana sul realismo riguarda i limiti del medium letterario che può solo sviluppare forme di approssimazione all’esperienza emozionale e fisica di una determinata realtà. Come imitare la lingua e i comportamenti degli altri è stato di fatto il principio guida della sua sperimentazione narrativa attraverso vari media artistici, in particolare nel passaggio dalla letteratura al cinema. È costante in Pasolini il desiderio di annullare la virtualità delle rappresentazioni egemoniche, nel suo tentativo di trasformare la parola, letteralmente, in carne.
III
1951. Realismo dantesco. La lezione di Gianfranco Contini fu per Pasolini determinante. Attraverso la sua interpretazione di Dante, Contini implicitamente offriva agli scrittori del dopoguerra un modello linguistico-letterario post-crociano. Nel suo saggio, “Preliminari sulla lingua del Petrarca” (1951), contrapponeva il monolinguismo petrarchesco al plurilinguismo dantesco: al primo Contini faceva corrispondere lo stile linguistico puro, assoluto e selettivo; al secondo, lo stile ibrido, sperimentale ed aperto alle contaminazioni di stile, genere e lingua. In linea con i valori ideologici di quegli anni, questo rispondeva all’esigenza di un approccio autoriale basato su un rapporto dialettico nei confronti della realtà. Pasolini fu particolarmente ricettivo verso questa lettura, non ultimo per lo speciale rapporto che lo legava a Contini - vale la pena ricordare che quest’ultimo fu il primo a riconoscerlo come “autore” scrivendo la sua recensione della prima raccolta poetica di Pasolini, Poesie a Casarsa (1942).
Non a caso, Dante e le sue tecniche poetiche e narrative - lo sperimentalismo, la contaminazione dei linguaggi - sarebbero state conciliate da Pasolini con la vocazione ideologica di rappresentazione delle classi subalterne. Va infatti precisato che l’Italia di quegli anni presentava uno scenario di bilinguismo non troppo diverso da quello di Dante. L’italiano era principalmente la lingua letteraria dell’élite, mentre la maggior parte degli italiani parlava i dialetti. Esisteva sicuramente un’affinità tra l’Italia di Pasolini e quella dei tempi di Dante: simile era il divario tra lingua istituzionale “alta” del potere, della scienza e della religione (latino) e la varietà plebea del volgare.
Come Dante, Pasolini partecipava ad entrambi i mondi linguistici. Sia per Dante che per Pasolini era dunque fondamentale la questione di come tradurre il plurilinguismo in letteratura. Per gli scrittori del dopoguerra si poneva infatti la questione di come realizzare una cultura nazional-popolare, o meglio popolare-nazionale, in altre parole, in che modo fare entrare il popolo nella scena della rappresentazione letteraria, dunque identitaria del Paese. Lo scrittore impegnato si trovava quindi a svolgere una funzione di ponte tra intellettuali e popolo che aveva come obiettivo proprio la rappresentazione. Non troppo distanti erano le parole di Gramsci quando parlava di “rappresentanza” nei Quaderni del carcere:
Se è vero, come scriveva Gramsci, che in Italia il divario tra letteratura nazionale e realtà sociale era enorme in Italia, tuttavia il pensatore sardo non forniva indicazioni sul come colmare questo divario in letteratura. Partendo da queste riflessioni, Pasolini prese a cuore proprio la questione del come. Come può uno scrittore borghese, socialmente e psicologicamente diverso dai suoi personaggi e dalla loro realtà, rappresentarli senza imporre egemonicamente la propria lingua, dunque visione del mondo?
Il paradigma continiano che opponeva plurilinguismo dantesco a monolinguismo petrarchesco offriva una risposta stilistica e venne sviluppato in due direzioni principali nell’opera pasoliniana: (1) un’espansione della lingua poetica verso il reale che ha portato allo sperimentalismo linguistico in poesia (in particolare, Le ceneri di Gramsci); e (2) un approccio mimetico verso la lingua dell’altro che ha portato, specialmente in narrativa, a ciò che Pasolini chiamò la “regressione nel parlante” (una sorta di uso performativo del linguaggio, messo in atto per evitare rappresentazioni aprioristiche delle classi subalterne).
Su questi due pilastri Pasolini ha sviluppato la sua filosofia del linguaggio in alcune delle sue principali opere poetiche, narrative e saggistiche degli anni Cinquanta come Le ceneri di Gramsci, Ragazzi di vita e l’attività di Officina. In quest’ottica, il plurilinguismo di Dante è stato assunto da Pasolini come il miglior modello letterario di performatività attraverso il quale colmare il divario tra la teoria e pratica del “realismo” negli anni Cinquanta. Vale dunque la pena sottolineare che da Ragazzi di vita a Le ceneri di Gramsci, da La Mortaccia a La Divina Mimesis, per Pasolini attraversare l’Inferno non significava fare esperienza del peggior destino possibile, ma anzi provare empatia verso gli altri e, attraverso l’empatia, dare voce alla vita degli altri.
Per quanto si tratti di un’esperienza virtuale, quella che Pasolini ha definito come l’opera più realistica della letteratura italiana, La Divina Commedia, di fatto evoca intensamente l’esperienza umana nella sua straordinaria diversità. È in affinità con queste considerazioni che Pasolini formula progressivamente il suo concetto di “regressione nel parlante” e di “intellettuale mimetico”, presenti già in alcuni scritti dei primi anni Cinquanta, ma emersi più esplicitamente solo nei saggi sulla lingua e su Dante del 1965. Sentire il popolo per capirlo, scriveva ancora Gramsci qualche riga prima nella citazione sopra riportata. Non è forse questo il messaggio che compare tra le righe de Le ceneri di Gramsci, scritto in una lingua che fortemente richiama quello sperimentalismo linguistico dantesco? E che cos’è La Divina Mimesis se non il racconto impossibile di un viaggio agli Inferi? [...]
“Pasolini e Dante. La “divina mimesis” e la politica della rappresentazione”
di Emanuela Patti (Le parole le cose, 2412.2015)
[...]
IV
Realismo figurale. Se la ricezione del plurilinguismo di Dante ha avuto luogo in un momento storico-culturale in cui Pasolini credeva che la cultura potesse essere rinnovata attraverso la letteratura, la sua appropriazione della “contaminazione degli stili” - un concetto chiave della lettura di Auerbach della Divina Commedia - è stato il pretesto per guardare oltre la letteratura. Nel 1956 Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur veniva finalmente tradotto in italiano [Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale] e pubblicato da Einaudi, e solo alcuni mesi dopo troviamo già i primi riferimenti alla sua terminologia e l’uso di espressioni come sermo humilis, sermo piscatorius, e, appunto, “contaminazione degli stili”. Il saggio “La confusione degli stili” (1957) di Pasolini, per esempio, risulta già un tentativo di applicare la nozione di Auerbach alla tradizione letteraria italiana per verificarne il grado di contaminazione culturale. Ma è soprattutto nel cinema che Pasolini ottiene i migliori risultati di appropriazione del realismo figurale di Auerbach. Uno dei primi e più significativi riferimenti si trova nella ‘Nota su Le notti’ (1957), scritto dopo la sua collaborazione con Fellini a Le notti di Cabiria: “Fellini mi raccontava, trascinandomi in quella campagna perduta in un miele di suprema dolcezza stagionale, la trama delle Notti. Io, gattino peruviano accanto al gattone siamese, ascoltavo con in tasca Auerbach”.
I concetti di “contaminazione degli stili” e di “realismo figurale” sono quanto Pasolini trova di più utile per concepire il suo stile cinematografico in quelle sue prime esperienze accanto a Fellini. Nel suo cosiddetto cinema “nazional-popolare”, Pasolini di fatto traduce la contaminazione degli stili in una forma di ibridazione di media artistici (pittura, musica, letteratura e cinema), usando il concetto di figura per creare interconnessioni semiotiche tra i protagonisti dei suoi film (Accattone, Ettore, Stracci, e Gesù Cristo) e la figura Christi.
La contaminazione degli stili viene infatti usata come strategia estetica per redifinire i confini gerarchici della rappresentazione sociale. Nello specifico, il primo cinema pasoliniano risulta come un’approssimazione figurale progressiva alla figura di Cristo, prima solo suggerita attraverso associazioni simboliche musicali (per esempio, attraverso la musica di Bach), pittura (si pensi al Cristo morto di Mantegna o alla Deposizione di Pontormo), e sculture (la figura dell’angelo e la croce in Accattone), fino alla totale identificazione con Cristo in persona ne Il Vangelo secondo Matteo.
Non solo Cristo è la parola che si fa carne, ma anche il soggetto ‘sacrificale’ per eccellenza. Ed è proprio in questa combinazione di rappresentazioni figurali della realtà altamente intellettuali e rappresentazioni fisiche, più immediate di corpi, che Pasolini raggiunge un realismo creaturale di grande portata. Salvare, attraverso la morte, i suoi “poveri Cristi” da una società che minacciava la scomparsa della loro differenza culturale all’inizio degli anni Sessanta segna quel passaggio fondamentale, nella carriera di Pasolini, dalla fiducia in un “buon Inferno” di diversità linguistica e culturale, quello delle borgate degli anni Cinquanta, alla speranza di una salvezza al di fuori dell’“universo orrendo” nei primi anni Sessanta e poi la definitiva perdita di ogni fede al realizzarsi dei due Paradisi, quello capitalistico/consumistico e quello comunista - che in entrambi i casi rappresentavano per Pasolini, come scrive ne La Divina Mimesis, due forme di omologazione linguistica e culturale, la Lingua dell’Odio. A quest’altezza, per Pasolini, sacralità è sinonimo di esclusione: auto-esclusione come salvezza dall’omologazione culturale. Giorgio Agamben, non a caso personaggio de Il Vangelo, ne avrebbe scritto in Homo Sacer.
V
1965. Centenario dantesco. In occasione dei 700 anni dalla nascita di Dante, Pasolini aveva rilasciato un’intervista radio la cui trascrizione è rimasta inedita fino al 1999 e poi finalmente pubblicata nell’edizione Meridiani Mondadori dei Saggi sulla letteratura e sull’arte. Questo testo, “Dante e i poeti contemporanei”, aiuta a ricostruire quelle interconnessioni, rimaste invisibili per oltre quarant’anni, tra La Divina Mimesis, la sua attività poetica, narrativa e saggistica degli anni Cinquanta (in particolare, le antologie Poesia dialettale del Novecento, La poesia popolare italiana, Ragazzi di vita, Le Ceneri di Gramsci, il lavoro di Officina, “In morte del realismo”), il suo cinema “nazional-popolare” (Accattone, Mamma Roma, La ricotta, Il Vangelo secondo Matteo) e gli scritti coevi sulla lingua.
Tutti questi documenti hanno in comune un continuo dialogo con Dante sulla rappresentazione, attraverso il quale, come anticipato sopra, Pasolini ha tentato di dare nuovo significato alla nozione di “plurilinguismo” prima, e “contaminazione degli stili”, poi, due concetti dai confini spesso evanescenti, alla base del suo progetto di radicale contaminazione tra “cultura alta” e “cultura bassa”. Dichiarava Pasolini in quell’occasione:
Il testo critico a cui Pasolini fa riferimento è “Preliminari sulla lingua del Petrarca” (1951); il gruppo di addetti ai lavori - la cosiddetta “compagnia picciola” - erano gli scrittori gravitanti intorno ad Officina, nonché Sanguineti e Fortini; ed è evidente, dalle parole di Pasolini, che Dante era stato preso come modello linguistico, stilistico, ma anche ideologico di un certo modo di fare letteratura sperimentale, decisamente in opposizione all’“istituzione letteraria” (la “Letteratura”). Lo sguardo di Pasolini è tuttavia retrospettivo: come afferma in conclusione, quell’idea di realismo è superata e con essa una certa lettura dantesca.
Sempre in occasione del centenario dantesco, Pasolini era stato invitato da Anna Banti, direttrice insieme al marito Roberto Longhi della rivista Paragone, a contribuire ad un numero speciale in occasione del centenario. Pasolini avrebbe inviato un articolo, “La volontà di Dante “a” essere poeta” (1965), che metteva infatti in discussione proprio quell’interpretazione di Dante che tanto formativa era stata per lui negli anni Cinquanta, come dichiarato nell’intervista radio sopra riportata.
In sintesi, svelando per la prima volta l’archeologia di quel modello formativo, Pasolini rileggeva il plurilinguismo dantesco mettendo fondamentalmente in discussione i limiti del medium letterario e il ruolo dell’auctor. Inutile dire che il saggio avrebbe fatto infuriare dantisti e filologi della portata di Cesare Segre e Cesare Garboli, che leggevano il testo pasoliniano come un’incursione militante nella critica accademica, un intervento intellettuale inappropriato e fuori luogo - “una danza astratta sulla superficie di qualche “auctoritas” con le carte in regola” (Segre) -, e persino irritante. Scriveva infatti Garboli: “questo tipo di critica oracolare, divineggiante, eccitatissima, rabdomatica, tutta sui nervi, sempre affannata dalla smania di arrivare in tempo, eternamente sul punto di scoprire l’America, magari prendendo per nuove rive territori marcatissimi su mappe correnti, mobilita tutta la mia più profonda repulsione”.
Pasolini rispose alle critiche ricevute e, di fatto, la polemica si estese per diversi articoli pubblicati su Paragone, ma, come emerge dalla scena del convegno del “1° Convegno internazionale di Dentisti Dantisti” di Uccellacci e uccellini (1966), ne era rimasto profondamente toccato. La sua riscrittura della Divina Commedia venne di fatto interrotta nel 1965 - le aggiunte successive hanno lo scopo di giustificare formalmente quella serie di frammenti in risposta alla polemica con il Gruppo ’63 (“Per una “Nota all’editore”, 1966), all’uscita di Letteratura italiana dell’Otto-Novecento di Contini (1974) e infine dare forma definitiva al progetto incompiuto con la Prefazione (1975).
Oggi risulta chiaro che Segre e Garboli, e come loro molti altri critici, non potevano cogliere in pieno il senso dell’appropriazione di Dante nell’opera pasoliniana, non fosse altro perché La Divina Mimesis giaceva ancora in un cassetto e i riferimenti al realismo dantesco figuravano sparsi qua e là in vari documenti artistici e saggistici degli anni Cinquanta. Risulta invece chiaro oggi che “La volontà di Dante “a” essere poeta” non era che un frammento di un grande intertesto.
VI
1975. “La Divina Mimesis”. Molteplici connotazioni racchiude la parola “mimesi” nel rapporto Dante-Pasolini, ma il concetto emerge finalmente in modo inequivocabile nel titolo dell’opera pasoliana più dantesca, La Divina Mimesis (1975), dove la parola “mimesis” del titolo richiama la doppia accezione di “imitazione della Commedia” e di “imitazione della realtà, degli altri”. Il senso che Pasolini attribuiva a La Divina Mimesis è tuttavia ancora più specifico. “Divina mimesis”, imitazione divina, indicava quella vocazione poetica di diversità linguistica e culturale che aveva animato il progetto ideologico dell’autore per tutti gli anni Cinquanta e che Pasolini vedeva gravemente compromesso a causa di quella che chiamava l’“omologazione culturale e linguistica” dei primi anni Sessanta.
“Divina mimesis” corrispondeva ad un mito poetico associato alla figura materna, equiparabile al paradiso, scrive l’autore nella Nota 2 (1964) posta in appendice della sua riscrittura della Commedia: ““La Divina Mimesis” o “Mammona” (o “Paradiso”) si presenta miticamente come l’ultima opera scritta nell’italiano non-nazionale, l’italiano che serba viventi ed allineate in una reale contemporaneità tutte le stratificazioni diacroniche della storia”. Questo ed altri frammenti de La Divina Mimesis sono chiaramente in dialogo con Nuove questioni linguistiche (1964), il saggio pasoliniano che aveva avviato il dibattito sulla “nuova questione della lingua”, presentato alla conferenza dell’Associazione Culturale Italiana a Torino il 27 novembre 1964. Se, come argomentava Pasolini in quell’intervento, la lingua nazionale che si era formata in quegli anni era una lingua creata dall’alto, dai mass-media e dal potere economico, diametralmente opposto era invece il progetto linguistico-culturale a cui Pasolini aveva fortemente creduto nel decennio precedente, ovvero quello di una lingua “lievitante dagli strati bassi”, mimetica del mondo popolare, della realtà quotidiana. Almeno nelle prime intenzioni, dunque, La Divina Mimesis avrebbe dovuto seguire la linea di Ragazzi di vita (1955), come lasciava intendere anche il racconto La Mortaccia (1959), un primo abbozzo di riscrittura della discesa infernale di Dante, impersonato da una prostituta che si avventurava per le borgate romane.
Eppure, la riscrittura pasoliniana non si presenta come l’“ultima opera scritta nell’italiano non-nazionale”. I frammenti che Pasolini ha dato alle stampe “come un “documento”” si limitano a raccogliere testimonianze ed intenzioni di un progetto lasciato volutamente incompiuto. Nel suo stato documentaristico, La Divina Mimesis rappresenta piuttosto la morte del realismo dantesco - una morte che Pasolini aveva già ufficialmente anticipato in quel celebre componimento letto alla presentazione dei finalisti del Premio Strega nel 1960, “In morte del realismo” - e il passaggio ad un nuovo ideale mimetico in poesia e nel cinema. “Bisogna cambiare strada”, diceva il Pasolini ‘60/Virgilio al Pasolini ‘50/Dante pellegrino, alla fine del I Canto de La Divina Mimesis.
“Non ho da scegliere [...] vengo con te”.
Libero e non esigibile, ma dovuto: sull’ultimo libro di Stefano Biancu
di Andrea Grillo *
Con lo stile pacato che abbiamo imparato ad apprezzare nei suoi libri precedenti, e con grande finezza, in questo volume (Il massimo necessario. L’etica alla prova dell’amore, Milano, Mimesis, 2020) Stefano Biancu - che insegna Filosofia morale alla Lumsa di Roma - scandaglia con bella chiarezza un tema “minore” della tradizione della filosofia morale (le “azioni supererogatorie”), portandone alla luce non solo riletture recenti assai promettenti, ma facendolo diventare quasi il luogo di evidenza di una “diversa logica” nel pensare l’agire morale.
Il libro è costruito in modo lineare. Fin dalla Introduzione (“Per iniziare”), è posta la questione centrale: ci sono alcune azioni che la tradizione teologica e filosofica ha riconosciute come “esterne” all’ambito morale e giuridico, e che tuttavia qualificano in modo decisivo l’intelletto d’amore: è ciò che è stato chiamato “supererogatorio”. Così il libro, muovendo da una appassionata ed appassionante “storia del termine” (cap. 1: Il supererogatorio), lo valorizza come chiave di lettura di uno dei temi decisivi della “modernità”: la fraternità (cap. 2). Ciò permette di elaborare, mediante la traduzione della terminologia classica della filosofia morale in nuove categorie, aggiornate nel confronto con il pensiero contemporaneo, una comprensione delle tensioni che il pensiero moderno (etico, giuridico e politico) vive per giustificare non solo la libertà e l’uguaglianza, ma anche la fraternità. Il “massimo necessario” della fraternità non è solo fondato su una libertà ed eguaglianza originaria, ma sta pure all’origine della libertà e della uguaglianza. Questa sfida viene giocata in relazione a tre termini, che definiscono la “fraternità in atto”: l’ospitalità (cap. 3), il perdono (cap. 4) e la misericordia (cap. 5). Una lettura solo etica o giuridica di queste tre categorie è votata al fallimento. Per darne conto, occorre attingere ad una dimensione “previa” - che Biancu chiama “antropologica” - e che costituisce l’orizzonte nel quale il “soggetto di diritto” trova il fondamento della propria dignità.
Nel discorso di Biancu, che resta intenzionalmente e accuratamente un testo di carattere filosofico, appaiono discretamente, ma autoreveolmente, fonti teologiche. D’altra parte, per fare i conti con i temi della fratellanza, della ospitalità, del perdono e della misericordia non è possibile aggirare né il “grande codice” biblico, né la elaborazione che di esso ha fornito la tradizione teologica.
Per questo il libro di Biancu a me pare anche una buona guida per un lavoro esplicitamente teologico, che voglia arricchire la prospettiva di riflessione sulla libertà, sulla eguaglianza e sulla fratellanza, ponendo in luce un presupposto non solo “antropologico”, ma “teologico” delle categorie in gioco. E’ la genealogia del soggetto ad essere qui arricchita e problematizzata, nella sua relazione al prossimo e a Dio come costitutiva della sua identità. La differenza tra ciò che può essere “esigito” e ciò che è doveroso - in altri termini tra i diritti/doveri e i doni - costituisce un guadagno teorico che trova origine in una “esperienza della azione” più complessa di quella a cui siamo abituati.
Non ci sono solo azioni “imposte, vietate o libere”. Ci sono anche “azioni supererogatorie”, che non sono riducibili a questa “triade”, ma che costituiscono l’orizzonte di fratellanza, di ospitalità, di perdono e di misericordia nel quale ogni soggetto può “venire al mondo”. Sono libere e non esigibili, ma necessarie e dovute. La non contraddittorietà tra queste due affermazioni - sulla libertà e sulla necessità - implica un “cambio di paradigma” che investe non solo la filosofia morale, ma anche la antropologia e la teologia. E il superamento delle “classiche opposizioni” di cui si è nutrita la tradizione filosofica e teologica che ci chiede la comprensione della misericordia - al di qua e al di là delle coppie interiore/esteriore, immanente/trascendente, necessario/possibile, pubblico/privato - dimostrano la bella fecondità della prospettiva assunta.
In altri termini, per dar conto davvero delle “azioni supererogatorie”, occorre ripensare con cura il linguaggio della antropologia e della teologia. Comprendere davvero fraternità, ospitalità, perdono e misericordia implica una “intelligenza di sé e del mondo” di altra e alta qualità, che impegna il pensiero non solo dei filosofi, ma anche dei teologi.
All’inizio del libro Stefano Biancu ha posto una frase esemplare, tratta dai quaderni di A. Camus, che recita: “Se dovessi scrivere un libro di morale, esso avrebbe cento pagine e 99 sarebbero bianche. Sull’ultima scriverei: conosco un solo dovere ed è quello di amare”. Nel suo bel volume Stefano Biancu propone un serio tentativo di dar voce a quelle 99 pagine .
Tutte le voci cantano la Fede e la Speranza
Virtù teologali. Sul tema Eugenio Borgna ripercorre le strade cliniche delle terapie psichiatriche e ricorda le riflessioni di scrittori e pensatori, da Leopardi a Sant’Agostino, da Kierkegaard a Bloch.
di Gianfranco Ravasi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 08.11.2020, p. X)
«È sperare la cosa difficile - a voce bassa e vergognosamente. E la cosa facile è disperare, ed è la grande tentazione». Così Charles Péguy nel suo poema Il portico del mistero della seconda virtù (1911), dedicato a questa che è appunto la seconda delle virtù teologali, la «sorella più piccola» rispetto alle altre due, la fede e la carità. Ma, come spesso accade ai bambini che strattonano i loro genitori fermi per strada davanti alle vetrine o a chiacchierare con una persona incontrata, è la speranza a far avanzare le due sorelle maggiori nella via della vita.
A questa virtù e al suo rovescio oscuro, la disperazione, lo psichiatra Eugenio Borgna ha riservato un fascicolo essenziale di pagine, ma che mettono a dura prova il recensore perché sarebbero quasi semplicemente da trascrivere, tanto sono trasparenti e intense, frutto anche di una ricerca come la sua, condotta non solo sui picchi innevati e soleggiati della speranza ma anche negli abissi oscuri e nelle caverne tenebrose della disperazione. Strettamente parlando la sua riflessione è impostata su un dittico.
La prima tavola evoca l’orizzonte immenso che sboccia dalla speranza, vista come «infinita ricerca di senso». Curiosamente la parola spes è ancorata alla radice indoeuropea spat- che genera anche spatium. In realtà questa virtù è più annodata alla categoria «tempo», è infatti soprattutto proiezione sul futuro, sia pur tenendo i piedi piantati nel presente e con le spalle e il volto pronti a girarsi anche verso il passato. Non per nulla il secondo quadro del dittico s’intitola la «speranza come memoria del futuro», intrecciando così in pienezza la tridimensionalità del tempo alla maniera agostiniana. Davanti alle due tavole il lettore è invitato a scoprire i registri molteplici che le compongono.
Da un lato, attesa e paura, etica ed escatologia, ma anche il piombare nel gorgo del suicidio. Emozionante è l’esegesi del diario di Pavese con le sue righe roventi, con le trame inquietanti e sospese fino all’approdo in quell’ultima pagina fremente che vira persino verso un’invocazione orante («Tu, abbi pietà») ma che sarà suggellata da un freddo dato di cronaca: «nella notte tra il 26 e il 27 agosto 1950 moriva ingerendo alte dosi di barbiturici». Borgna convoca, infatti, nella sua ricerca almeno due tipologie testimoniali. Ci sono le voci delle persone che hanno percorso le strade cliniche delle terapie psichiatriche.
L’autore, però, non le fa risuonare mai secondo un freddo referto medico (come è noto, egli ha praticato anche questa via nel manicomio femminile di Novara), bensì si rivela un compagno di viaggio, persino tenero e delicato, con la ricchezza della sua umanità che ben conoscono tutti coloro che l’hanno incontrato (tra l’altro, uno dei suoi testi precedente s’intitolava L’ascolto gentile).
D’altro lato, c’è una voce ulteriore dalle mille iridescenze, ed è quella molteplice degli scrittori, a partire dall’amato Leopardi, ma anche dei pensatori come Agostino, Kierkegaard o Bloch e persino del cinema col folgorante balenare del Posto delle fragole di Bergman, parabola ideale della «memoria del futuro», e dell’apostolo Paolo con la sua lezione sullo «sperare contro ogni speranza».
Come dicevamo, tante altre sono le suggestioni che fioriscono nel lettore di questo volumetto che è posto all’insegna di un incisivo detto leopardiano: «Insomma la disperazione medesima non sussisterebbe senza la speranza, e l’uomo non dispererebbe se non isperasse». Per il teologo, poi, è aperto un campo molto vasto di ricerca e non solo per la meta escatologica che regge il concetto di storia della salvezza (l’Apocalisse insegna), ma per il profilo stesso del Dio cristiano e per la sua parola che invita l’umanità ad alzare sempre lo sguardo, come è dimostrato dall’importante Teologia della speranza di Jürgen Moltmann (1964), tradotta dalla Queriniana di Brescia.
Si è già detto che la speranza ha una sorella maggiore nella carità, e a questa virtù dedica un suo studio un docente universitario, Stefano Biancu, ma lo fa da un’angolatura molto originale. Certo, il dettato ora è quello accademico e le pagine hanno rimandi sistematici e grondano di note, ma l’approccio potrà interessare molti. Se volessimo sintetizzarlo in modo semplificatorio, potremmo ricorrere proprio al titolo, Il massimo necessario. L’amore, infatti, è di sua natura eccedente, non calcola, anzi sciala, tant’è vero che quando due innamorati cominciano a soppesare il valore dei regali che si sono fatti, è segno che stanno per lasciarsi.
Non per nulla, il Nuovo Testamento ha coniato come suprema definizione divina quella giovannea che suona ho Thèos agápe estín, «Dio è amore». La carità s’incrocia con l’infinito e l’eterno e san Paolo ci ha lasciato uno strepitoso inno dell’agápe nel c. 13 della Prima Lettera ai Corinzi, ove dichiara che «la carità non avrà mai fine» (letteralmente «non cadrà mai»).
Per illustrare questa qualità «eccessiva» dell’amore, che diventa anche la cartina di tornasole dell’autentica etica, Biancu ricorre a un curioso vocabolo adottato dalla tradizione teologico-morale, «supererogatorio». Il termine ha la sua sorgente genetica nella versione latina di un celebre passo del Vangelo di Luca, quello dalla parabola del Buon samaritano (10,29‑37): dopo aver raccolto, curato e condotto in un albergo la vittima di un assalto di brigantaggio, il samaritano rassicura l’albergatore - al quale ha già consegnato due denari - di non esitare a «spendere di più» qualora fosse necessario, pronto a rifondere la spesa successivamente (v. 35).
Quello «spendere di più» nel greco neotestamentario è un hapax, prosdapanáô, che si basa sui termini correlati dapánê, «spesa», e dapanáô, «spendere», e che san Paolo userà in un’altra forma composita, ekdapanáô, proprio per indicare il suo «spendersi senza riserve, il consumarsi, il sacrificare se stesso» per l’evangelo (2Corinzi 12,15).
Eccoci, dunque, nel cuore dell’amore che anela al massimo della donazione e che, nel suo scritto, Biancu incarna in una categoria radicale, la fraternità. Essa si sostiene su una duplice base: da un lato, la libertà e l’uguaglianza, che appartengono alla modernità politica e secolare; d’altro lato sull’ospitalità e sul perdono, virtù pertinenti soprattutto alla morale religiosa e che, alla fine, sfociano nella «misericordia impensabile». Non per nulla, a quest’ultimo proposito, Antico e Nuovo Testamento, pur nella loro diversità linguistica, per esprimerla non ricorrono come nel nostro caso al «cuore» (misericordia), bensì al grembo materno (rahamîm in ebraico, splánchna in greco) che simboleggia un amore totale, assoluto, istintivo e radicale.
È quello che Cristo aveva rappresentato nell’asserto pronunciato nell’ultima sera della sua vita terrena nel Cenacolo: «Non c’è amore più grande di chi dà la vita per la persona che ama» (Giovanni 15,13). Naturalmente molto ramificato e sostenuto da un ampio apparato di riflessioni, di applicazioni, di rimandi alla ricerca filosofica è lo studio proposto dall’autore. Certo è che il paradigma del «supererogatorio » è un po’ la pietra di paragone del «dovere» veramente umano e dell’etica genuina, nonostante la deriva attuale che, tendendo sempre al minimo, impedisce e rende incapaci di tentare l’ascesa verso l’alto, fino al «massimo necessario».
Una delle domande conclusive che affiora nel testo è, allora, questa: «come pensare l’antropologia, l’etica, la politica a partire da ciò che è stato fino ad ora impensabile?».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM".
L’ULTIMO PAPA CEDE IL PASSO A ZARATHUSTRA: "CHI AMA, AMA AL DI LA’ DEL PREMIO E DELLA RIVALSA". Una pagina di Nietzsche
Federico La Sala
Papa Francesco: non valido battesimo con formula ’noi battezziamo’
La Congregazione per la Dottrina della Fede interviene per fermare la ’creatività’ di alcuni sacerdoti
di Redazione ANSA *
CITTA DEL VATICANO.
La Congregazione per la Dottrina della Fede interviene dunque per fermare la ’creatività’ di alcuni sacerdoti che cambiano le formule dei riti dei sacramenti pensando di migliorarle.
"Recentemente vi sono state celebrazioni del Sacramento del Battesimo amministrato con le parole: ’A nome del papà e della mamma, del padrino e della madrina, dei nonni, dei familiari, degli amici, a nome della comunità noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo’. A quanto sembra, la deliberata modifica della formula sacramentale - riferisce la Congregazione per la Dottrina della Fede - è stata introdotta per sottolineare il valore comunitario del Battesimo, per esprimere la partecipazione della famiglia e dei presenti e per evitare l’idea della concentrazione di un potere sacrale nel sacerdote a discapito dei genitori e della comunità".
Ma l’"io", che il sacerdote deve pronunciare ha un valore dottrinale ben preciso: "segno-presenza dell’azione stessa di Cristo". "Nel caso specifico del Sacramento del Battesimo, il ministro non solo non ha l’autorità di disporre a suo piacimento della formula sacramentale, per i motivi di natura cristologica ed ecclesiologica sopra esposti, ma non può nemmeno dichiarare di agire a nome dei genitori, dei padrini, dei familiari o degli amici, e nemmeno a nome della stessa assemblea radunata per la celebrazione", spiega la Congregazione per la Dottrina della Fede.
Ora si apre la questione dei battesimi celebrati con questo rito errato. Al quesito "Coloro per i quali è stato celebrato il Battesimo con la suddetta formula devono essere battezzati in forma assoluta?", la risposta del Vaticano è: "affermativamente". "Negativamente" è la risposta che si dà al quesito principale: "È valido il Battesimo conferito con la formula: ’Noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo’?".
In pratica i battesimi con la formula ’noi’ è come se non fossero mai stati fatti. Anche se comunque nel Catechismo della Chiesa Cattolica - secondo quanto spiegato da esperti in Vaticano - potrebbe trovarsi una via d’uscita per evitare il ’ripetersi’ del sacramento. Anche perché senza il Battesimo, a cascata non sono validi neanche gli altri sacramenti, dalla Cresima alla Comunione, dal Matrimonio alla Confessione. Nel Catechismo si stabilisce infatti che "Dio ha legato la salvezza al sacramento del Battesimo, tuttavia egli non è legato ai suoi sacramenti". Sempre nel Catechismo ci sono aperture per i non battezzati: "Ogni uomo che, pur ignorando il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, cerca la verità e compie la volontà di Dio come la conosce, può essere salvato". (ANSA).
COSTITUZIONE (META-REGOLE), POLITICA (REGOLE), E RICORDI DI SCUOLA SULLA CRITICA DELLA “RAGIONE PURA” (“SOFISTICA”)!. Una nota*
SE E’ VERO CHE, “Per coloro che, come chi scrive, percorrono da molti anni i corridoi delle aule giudiziarie e degli altri palazzi del potere conoscendo le dinamiche sottese alle scelte della “politica giudiziaria”, diventa particolarmente fastidioso leggere e sentir raccontare autentiche favole metropolitane su quel che potrebbe ora accadere o sarebbe mai accaduto nelle proverbiali stanze dei bottoni”, NON E’ ALTRETTANTO VERO CHE, “Salvo cataclismi naturali e a dispetto dei clamori che fomentano il popolo con cronache enfatizzanti sul futuro panorama delle collusioni tra politica e giustizia, non accadrà assolutamente nulla, se non la futura giusta punizione a carico di coloro che non hanno rispettato le regole di appartenenza alle proprie aree di influenza del potere” (Laura Vasselli, "La giustizia, la politica e le relazioni pericolose", "InLibertà", 2 luglio 2020).
AD EVITARE eccessi di pericolose semplificazioni e produzioni di “nuvolose” illusioni, per contestualizzare meglio il problema, NON SOLO rileggerei l’ottimo “riassunto” di una questione complessa come quella affrontata nell’articolo in “#iorestoacasa, Forza Italia!” (di Italo Mastrolia, “InLibertà”, 16 aprile 2020), MA rivisiterei ANCHE i luoghi della memoria degli anni di scuola e riguarderei con maggiore attenzione la grande lezione di Aristofane (cfr. “Le nuvole”) su un “Socrate” che non è mai giunto a “conoscere sé stesso” e tuttavia viene “venduto” e “contrabbandato” (pubblicità-progresso!) come un grande saggio, non solo ieri (ad Atene) ma anche oggi (nel “villaggio globale”) - dopo Marshall McLuhan?! O no?!
ANCORA NON ABBIAMO TROVATO "LA GIUSTA DISTANZA" NEMMENO CON NOI STESSI... *
ABITARE LE PAROLE / Distanza.
Vedersi l’un l’altro stagliati nel cielo
DI NUNZIO GALANTINO (Il Sole-24 Ore, Domenica, 28.06.2020)
Distanza. Parola - non la sola, in verità! - che perde un po’ della sua evidenza semantica quando la si trova unita ad attributi particolari. Come capita, per esempio, nelle locuzioni: “distanza sociale”, “fisica”, “interpersonale”. Per coglierne la ricchezza, bisogna anzitutto evitare l’ambiguità - a volte, vera e propria confusione - ereditata dalle locuzioni inglesi social distancing (distanziamento sociale) e social distance (distanza sociale). In sociologia e in psicologia, sono espressioni che descrivono il livello di interazione o di rifiuto tra individui appartenenti a gruppi sociali, economici e culturali diversi. Non è corretto, quindi, ricorrervi per indicare la distanza di sicurezza interpersonale o la distanza necessaria per evitare contagi tra più persone.
Un’intensa considerazione di Rainer Maria Rilke ci aiuta a guardare con occhio diverso la distanza. «Una volta che si è accettato di capire che anche tra gli esseri umani più vicini continuano ad esistere infinite distanze, può crescere un meraviglioso affiatamento, se questi riescono ad amare la distanza che li separa, che rende possibile ad ognuno di vedersi reciprocamente, per intero, stagliati nel cielo».
Qui la parola distanza ha tutt’altro significato rispetto a quello che gli dà F. Nietzsche, quando parla di pathos della distanza. Questa espressione - nel filosofo tedesco e in parte anche nella ripresa di Italo Calvino - indica l’atteggiamento dell’aristocratico che, da una presunta posizione di superiorità, “tiene a distanza” e guarda da lontano quanti non gli sono pari.
Invece, “la distanza che rende possibile ad ognuno di vedersi reciprocamente, per intero, stagliati nel cielo”, è la “distanza giusta”. Quella che permette di stabilire e coltivare relazioni sane ed equilibrate, grazie alla modulazione e alla misurazione, non esclusivamente fisica, di vicinanza-lontananza, come nel «dilemma dei porcospini», evocato da A. Schopenhauer.
I porcospini, per ripararsi dal gran freddo, provano a farlo stringendosi l’un l’altro; ma, a causa dei loro aculei, sono costretti ad allontanarsi e a cercare comunque la distanza giusta, per riscaldarsi senza farsi male a vicenda. È, sostiene il filosofo tedesco, la stessa fatica che sono chiamati a far gli uomini. Anche loro hanno bisogno di stabilire tra loro una distanza giusta. Quella che fa passare messaggi e comunicare disposizioni interiori ed emozioni. Una distanza che può persistere, nonostante gesti di grande vicinanza fisica. Chi infatti può davvero decifrare i sentimenti e le autentiche intenzioni che accompagnano le relazioni intime, anche le più belle?
Lo ha capito bene René Magritte. Con stile surreale, il pittore belga, nelle due versioni (1928) di The Lovers, mostra di non avere dubbi: nonostante i gesti di grande tenerezza, i due amanti non possono guardarsi negli occhi, non possono penetrare la loro intimità. Ad impedirglielo è l’inevitabile distanza, non fisica, esistente tra loro, rappresentata dal telo che ne avvolge il volto.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.
FLS
CIELO PURO E LIBERO MARE.... *
L’anima e la cetra /9.
L’altro nome della fede
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 23 maggio 2020)
«Il cuore degli ottenebrati parla così: "Dio non c’è". Il Signore dal cielo si affaccia e si china sui figli dell’uomo per vedere se c’è un uomo saggio, uno che cerchi Dio» (Salmo 14, 1-2). Un inizio originale per un salmo unico nel salterio. Un inizio speciale perché speciale è la posta in gioco. È infatti la sola volta che nella Bibbia troviamo scritto: Dio non c’è. Anche il mondo religioso antico conosceva il dubbio che gli dèi fossero una invenzione dell’uomo. L’uomo biblico è più vicino a noi di quanto pensiamo e scriviamo. Anche la domanda sull’esistenza di Dio tra le domande legittime della Bibbia.
Il Salmo 14 fu scritto con ogni probabilità durante l’esilio babilonese. I babilonesi non erano atei. Ci hanno lasciato raccolte di preghiere bellissime, avevano in grande considerazione i loro dèi che onoravano con processioni, templi e statue spettacolari. Quindi i babilonesi non dicevano esplicitamente "Dio non c’è", tantomeno lo dicevano gli ebrei. Quella del salmista era allora un’accusa alla falsa religione? Era una critica idolatrica? No. La forma della negazione di Dio di cui parla questo salmo non è quella idolatrica. Quale allora?
Ce lo rivelano due elementi, uno linguistico e l’altro teologico. La parola ebraica che il salmo 14 usa per dire «Dio non c’è» è Elohim, che nella Bibbia è il nome generico della divinità (gli dèi). Se il salmista avesse voluto criticare l’idolatria, il culto di dèi «falsi e bugiardi», il nome di Dio usato doveva essere YHWH, il nome proprio del Dio biblico. Anche perché YHWH è il nome di Dio più usato nel salterio e quasi esclusivamente nel primo libro (salmi 1-41). Usare qui Elohim significa allora voler dare a quella negazione - Dio non c’è - un valore che va oltre la critica idolatrica. In quel «Elohim non c’è» si nasconde allora qualcosa di universale e di tremendamente importante per ogni religione (e per ogni ateismo). Di quale "ateismo" parla questo salmo?
Lo scopriamo guardando il secondo elemento: «Sono distorti tutti, è un reciproco guastarsi: non c’è nessuno che agisca bene, neppure uno. Si divorano il mio popolo come mangiassero un tozzo di pane... Voi deludete la speranza del miserabile» (3-4,6). Qui ritroviamo la tesi profetica che la negazione di Dio si rivela nella negazione dell’uomo, soprattutto dei poveri. «Dio non c’è» non va dunque letta come una affermazione atea del tipo di quelle che abbiamo iniziato a conoscere in Europa con la modernità, ma come una conseguenza di un’idea centrale nella Bibbia: Dio c’è se c’è l’uomo - è l’uomo l’altro nome della fede biblica. È il «divorare il popolo come un tozzo di pane» che dice questo tipo di ateismo. Non è faccenda filosofica né intellettuale, è molto di più.
Certamente la vita sociale dei babilonesi dovette esercitare un grande effetto sugli ebrei deportati. Quelle banche che prestavano a interesse e che generavano debitori schiavi, la corruzione del potere in quel grande impero, impressionarono molto gli ebrei e i loro profeti. Ezechiele, profeta in esilio, arrivò persino a formulare una versione del peccato dell’Adam nell’Eden come peccato economico: «Con la gravità dei tuoi delitti, con la disonestà del tuo commercio hai profanato i tuoi santuari» (Ez 28,18). Ma l’ateismo pratico iscritto nelle prassi socio-economiche era qualcosa di ancora più generale di quanto avveniva in Babilonia. Lo ritroviamo già in Isaia, prima dell’esilio: «Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me... Ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova» (Is 1, 13-17). Isaia accusava i suoi concittadini non i babilonesi; stigmatizzava gli assidui frequentatori del tempio e i praticanti che offrivano i sacrifici mentre calpestavano il diritto e la giustizia.
Il salmista vede allora l’assenza di Dio nell’assenza dell’uomo. Sono questi i passaggi da cui si comprende che la teologia biblica è immediatamente umanesimo: il Dio biblico si onora onorando gli uomini, le donne, i poveri. Ritorna ancora l’antropologia della Genesi: siamo immagine di Dio anche perché quando qualcuno - un impero o una cultura - non vede più l’uomo non vede più Dio, anche quando continua a pregarlo e lodarlo nei templi. È già ateo, anche se non lo sa ancora. Ci sono molti modi per dire "Elohim non c’è", "Elohim è nulla" (nella traduzione di Ceronetti). Quello che sta più a cuore alla Bibbia è chiaro: "l’uomo è nulla", "il povero è nulla". E che sia nulla lo dice l’unico linguaggio che davvero conta: quello del comportamento e dell’azione. Il mondo è stato sempre popolato di uomini religiosi che onoravano Dio e disonoravano gli uomini, che apprezzavano gli dèi e disprezzavano i propri simili. Non basta essere religiosi per non essere atei. E se il salmista ha scelto Elohim e non YHWH per parlarci di questo tipico ateismo, è anche per dirci che questa malattia di <+CORSIVO50>ateismo devoto<+TONDO50> attraversa tutte le religioni, comprese quelle bibliche. Gli uomini dicono "Dio non c’è" con il loro modo di trattarsi a vicenda e di trattare i poveri. La Bibbia non è un trattato di etica, ma dall’etica degli uomini si capisce se nel popolo c’è o non c’è la fede.
Il salmo chiama «stolto», «ottenebrato», «stupido», chi dice «Dio non c’è». Quale è la stoltezza di questo ateismo? Innanzitutto è un ateismo collettivo, una malattia che ha infettato l’intero popolo: «Non c’è nessuno che agisca bene, neppure uno». Questa stoltezza che porta a negare Dio non è dunque faccenda che riguarda qualche singolo intellettuale o filosofo scettico; quello denunciato dal salmista è un ateismo popolare: non è rimasto neppure un credente. Siamo in una situazione simile a quella di Sodoma e Gomorra, alla Gerusalemme dove Geremia non trovò neanche un giusto (Ger 5,1). Peggiore della terra osservata dal Satan in ricognizione che vi trovò almeno un uomo giusto: Giobbe (cap.1); un mondo più corrotto di quello prima del diluvio, dove almeno vi era rimasto un giusto: Noè.
È bellissima la radicalità della Bibbia - tutti, neppure uno. Tutti stolti. Lo siamo tutti quando dentro istituzioni, comunità, movimenti, imprese, chiese, si annida e si diffonde la corruzione. Precipitiamo in "un reciproco guastarsi". Il (raro) verbo ebraico usato qui, ’alàh, esprime il contagio reciproco, la mutua contaminazione. Anche se molti sono asintomatici la corruzione raggiunge tutti. Per uscire da queste situazioni ci vorrebbe un Noè, un Geremia, un Abramo, Maria. Ma non sempre ci sono. Quasi mai. Perché quell’«uno solo» per non essere stolto dovrebbe denunciare l’ingiustizia, resistere a lungo nella sua denuncia, sopportare le persecuzioni, e se non ottiene nessun risultato dimettersi, licenziarsi, uscire, dissociarsi. Ma queste azioni sono molto costose e quindi molto rare sulla terra. Anche in queste dinamiche di "guastarci a vicenda" siamo tutti figli di Adamo, siamo solidali nella corruzione, e anche quando i sintomi non sono evidenti siamo quantomeno complici e quindi stolti.
La parola che il salmo usa per dire "stolto" è nabal. Nabal era il nome del marito di Abigail. Nell’episodio del primo Libro di Samuele, Nabal non capì come doveva comportarsi con Davide. Non rispose ai suoi doni con altri doni, non "riconobbe" Davide. Stava per scatenare una guerra se non fosse intervenuta Abigail, che fece tutto quanto non aveva fatto suo marito: fu grata, riconobbe Davide, lo riempì di doni, fu generosa, e seppe onorare il suo ospite: «Non faccia caso il mio signore a quell’uomo cattivo che è Nabal, perché egli è come il suo nome: stolto si chiama e stoltezza è in lui» (25, 25). Abigail ricostruì il rapporto spezzato da suo marito, e con il suo dono ottenne il per-dono di Davide, che riconobbe in quelle relazioni curate la presenza di Dio: «Benedetto il Signore, Dio d’Israele, che ti ha mandato oggi incontro a me» (32). Abigail fu l’anti-Nabal, disse "Dio c’è" dicendo "l’uomo c’è", tramutando la guerra in pace. Non c’è modo migliore per dire-bene Dio, per bene-dire Elohim - le donne lo sanno bene, le donne lo sanno meglio.
Il Salmo definisce il "saggio" (maskil) non trovato da Dio sulla terra uno "che cerca Dio". L’opposto dello stolto è dunque il cercatore di Dio. Ma il primo cercatore che troviamo nel salmo è Dio-Elohim, che si affaccia dal suo balcone dei cieli per cercare almeno un uomo giusto. Dio cerca per trovare qualcuno che lo cerchi. La fede è un incontro di ricerche, una reciprocità di desideri, che diventa rapporto ternario: Dio cerca un uomo capace di cercarlo cercandolo nell’uomo - «...e il secondo comandamento è simile al primo». Ma allora ci può essere ancora un altro senso di questo Salmo 14: se il saggio è chi cerca Dio, allora lo stolto dice "Dio non c’è" perché, semplicemente, non lo cerca: e se l’ateismo stolto fosse quello di chi ha smesso di cercare?
Un giorno, un altro folle uomo «cercava Dio». Non lo trovò e annunciò a tutti che era morto. Forse perché lo aveva cercato nel «mercato», dove «si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio» (F. Nietzsche, La gaia scienza). Il mondo dove abbiamo trovato morto quel Dio che stavamo cercando è preferibile a quel mondo corrotto dove nessuno può dire "Dio c’è". E se lo dicesse direbbe qualcosa di più falso del "Dio non c’è" detto, in quella stessa situazione, dallo stolto. C’è un ateismo meno stolto di una fede proclamata in mezzo all’ingiustizia generale. Se il Dio cercato è morto possiamo sempre sperare e pregare che risorga.
Quando il «Figlio dell’uomo tornerà» non andrà nei templi e nelle chiese per vedere se «la fede è ancora sulla terra» (Lc 12,7-8). Guarderà ai nostri rapporti sociali: guarderà a come ci vorremo bene o male, guarderà le nostre banche, la nostra evasione fiscale, i nostri ospedali, gli stipendi ai braccianti e quelli ai manager. E se ci sarà ancora la fede la troverà soltanto dentro la giustizia e la verità dei nostri rapporti; se ci sarà ancora la potrà riconoscere da come risponderemo alla speranza del miserabile.
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Sul tema nel sito, si cfr.:
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA : VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LA FIGURA DI PILATO E IL "PELLEGRINAGGIO" CHE PORTA DANTE A DIVENTARE UN ALTRO CRISTO, A RINASCERE E A RITROVARE L’AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE... *
Il gran rifiuto (Inf. III 59-60)
di Romano Manescalchi (Independent Scholar),
Princeton.edu, 8 April 2014.
L’intervento di Lanza sul «gran rifiuto» riapre con grande determinazione la discussione riguardo il personaggio cui Dante si sarebbe riferito, discussione ultimamente sopita generalmente in favore di Celestino V.[1] In buona sostanza, ma in una sintesi necessariamente riduttiva, il Lanza evidenzia che l’atto di Celestino V non apparve riprovevole, se non a pochi estremisti, gli spirituali, che con Ubertino da Casale non ritennero valida l’abdicazione di Celestino, mentre generalmente apparve un atto di responsabilità, tanto che la Chiesa lo fece santo. Dante dagli spirituali rimarcò sempre le distanze;[2] ed aggiungerei che, per contro, Dante si trovò a lodare chi è capace di rinunciare ad un incarico per non sentirsi all’altezza, favorendo i meritevoli: «Molti rifiutan lo comune incarco» (Purg. vi 133); e a condannare quanti son sempre pronti a dire, irresponsabilmente, senza un minimo esame di coscienza «I’ mi sobarco» (ivi, 135).
Ma non intendo riassumere qui le sostanziose ragioni con le quali viene riproposta dal Lanza la candidatura di Ponzio Pilato e confutate le ragioni in favore di altri (Esaù, Celestino V soprattutto, Vieri de Cerchi, Giano della Bella, Giuliano l’Apostata, Romolo Augustolo ecc.), né ci sarebbe qui lo spazio per farlo. Qui vorrei solo aggiungere alcune mie considerazioni che vanno nella stessa direzione.
Innanzitutto una considerazione grammaticale e stilistica: «il gran rifiuto» può intendersi, su base grammaticale, in due modi: «quel gran rifiuto, che tutti conosciamo per averlo direttamente constatato», con «il» semplicemente indicativo; e la mente, in questo caso, va ad avvenimenti e personaggi recenti: Vieri di Cerchi, Giano della Bella, Celestino V ecc. Ma può intendersi anche «quel gran rifiuto di cui nessun altro è maggiore, il “gran rifiuto” per eccellenza, per definizione, per antonomasia»;[3] ed alla mente non può ricorrere se non Ponzio Pilato, con «il» che viene ad avere un valore superlativo, “antonomasico”. Ed ora il procedimento di Dante è questo: egli sostituisce i personaggi astratti del poema classico allegorico, semplici e unidimensionali personificazioni - vedi la Psicomachia di Prudenzio - con personaggi tratti dal mondo reale, indifferentemente della storia passata e del mito, o della cronaca dei suoi tempi. E la regola è questa: si sceglie il personaggio che meglio possa rappresentare quel peccato o vizio o virtù, che quel peccato o vizio o virtù lo rappresenti nel modo più eccellente, ne sia quasi la personificazione.
E da questo punto di vista Ponzio Pilato non ha rivali nell’indicare chi non si vuol compromettere, chi si ritira da un suo specifico dovere per viltà. Appartiene alle viscere del nostro linguaggio, da cui continuamente riemerge, il dire: «Ti comporti come Ponzio Pilato. Sei un Ponzio Pilato», come si dice «Sei un Giuda», frasi quasi altrettanto comuni come l’altra parallela del «lavarsene le mani», che comunque è ancor più ricorrente nel comune quotidiano parlare e rafforza in pari grado, o forse di più, le nostre argomentazioni. Dante avrebbe potuto trarre il personaggio esemplare dell’ignavo anche dalla cronaca quotidiana, come fa in tanti altri casi, riempiendo tra l’altro l’inferno con i suoi concittadini. Poteva quindi benissimo ricorrere a Celestino V, come a Vieri dei Cerchi o altri. Ma nessuno di questi personaggi può insidiare minimamente la candidatura di Ponzio Pilato, senz’altro il personaggio più rispondente, più adatto, ad incarnare il prototipo dell’ignavo, come gli riconosce senza obiezione alcuna tutta la nostra cultura, a cominciare, come detto, dal quotidiano parlare.
Vediamo ora il problema nell’economia della Commedia, nella cattedrale che anche è la Commedia, sintesi della storia universale dell’umanità in versione biblico-cristiana. Questa storia universale ha il suo punto centrale nella Redenzione della Croce, nella Crocifissione di Gesù. Non conosco racconto della storia della Crocifissione tante volte fatto dai pittori nelle cattedrali appunto, in cui manchino, accanto a Gesù, Pilato e Giuda. Ed ora Dante riconosce ed esalta i “meriti” di Giuda, dedicandogli a perpetua memoria - addirittura “eterna memoria” nel suo caso - un settore dell’inferno, la Giudecca, che appunto prende da lui il nome, dove anche grandeggia la sua statua vivente in una delle bocche di Lucifero (Inf. xxxiv vv. 61-63). Né è un settore qualunque quello a lui dedicato, bensì il più importante, dove è la reggia del sovrano infernale: diciamo che la Giudecca è la city della città infernale. Non penso proprio che Giuda si possa lamentare del trattamento che Dante gli ha riservato.
Ma lamentare si dovrebbe Pilato di cui non ci sarebbe nella Commedia, se gli togliamo di essere l’innominato di Inf. iii 59-60, niente altro che un fuggevole richiamo a Purg. xx 91 e solo per designare con il paragone con lui il sovrano di Francia Filippo IV. Davvero troppo poco. E se così fosse, dopo il tanto da lui fatto con il suo non far nulla, avrebbe ben motivo di rivoltarsi nella tomba contro un Dante tanto ingrato, dal momento che anche grazie a lui il poeta può fare questo pellegrinaggio[4] di redenzione che è la Commedia e guadagnarsi lui stesso il paradiso, grazie proprio a lui che in compenso del bene fatto (col non far nulla) come allo stesso poeta così a tutti i cristiani, dovrà subire pene eterne nell’inferno, pene che il poeta fiorentino non gli avrebbe nemmeno voluto determinare! E se non è troppo questo!
Dante darebbe a Pilato maggior rilievo a Mon. II xii 5-6: «Si ergo sub ordinario iudice Christus passus non fuisset, illa pena punitio non fuisset. Et iudex ordinarius esse non poterat nisi supra totum humanum genus iurisdictionem habens, cum totum humanum genus in carne illa Christi “portantis dolores nostros”, ut ait Propheta, puniretur. Et supra totum humanum genus Tiberius Cesar, cuius vicarius erat Pilatus, jurisdictionem non habuisset, nisi Romanum Imperium de iure fuisset. Hinc est quod Herodes, quamvis ignorans quid faceret, sicut et Cayphas cum verum dixit de celesti decreto, Christum Pilato remisit ad iudicandum... », dove il ruolo, comunque ragguardevole, avuto da Pilato è riconosciuto a chiare lettere, come anche a Mon. III xv 5 e ad Ep. V 28.
E dunque tanta importanza, quanto a mio avviso gli spetta, Dante dà a Pilato nella Monarchia, l’opera dantesca più vicina, per tematica e mole, alla Commedia, tanta in una lettera, comunque di molto peso come l’Ep. V indirizzata ai reggenti d’Italia, anche se di dimensioni indiscutibilmente minori; e non nominerebbe mai Pilato, direttamente, nella Commedia? A me pare molto, troppo, strano. Il personaggio è onnipresente nell’iconografia cristiana della Crocifissione e sarebbe assente nella Commedia, che è indiscutibilmente il massimo monumento laico della cristianità! È tanto inaccettabile quanto incomprensibile.
Da qualche parte Pilato deve essere anche nella Commedia e se non qui, a Inf. iii 59-60, dove? Nella storia universale della Chiesa (e dell’umanità) - da intendere in chiave biblico-cristiana - il personaggio di Pilato ha un grande rilievo come gli riconosce tutta l’iconografia e, come anche detto, il linguaggio spicciolo quotidiano. Celestino V e gli altri in questa prospettiva sono irrilevanti. Nel quadro specifico poi della Crocifissione, l’elemento centrale di quella storia universale in versione cristiana ed elemento centrale della Commedia che quella storia universale ha per suo sfondo e, direi, addirittura per suo oggetto, Pilato è un elemento addirittura indispensabile come lo è Giuda. Da qualche parte Dante deve averlo messo e il luogo più giusto è senz’altro tra gli ignavi. E se è tra gli ignavi nessuno gli può togliere - sarebbe una vera usurpazione - il diritto di rappresentare la categoria, che riconosce in lui, per il consenso di tutte le genti (cristiane), il suo massimo rappresentante.
Ci sarebbe anche un parallelismo: l’episodio della Crocifissione inizia con Pilato che, pur riconoscendo Cristo innocente, non fa il suo dovere, piegato dalla pressione della folla. E con Pilato posto nell’Antinferno comincerebbe la “crocifissione” di Dante, che ad una “crocifissione” del proprio ego lo porta il suo “pellegrinaggio” al santuario del Paradiso.[5]
Non mi sfugge che Inf. iii 59 - «vidi e conobbi» - crea delle difficoltà. Osserverei che si deve distinguere tra il “riconoscere” del v. 58, immediatamente precedente ed il “conoscere” del v. 59, volendo certo il poeta distinguere «quelli riconosciuti direttamente e quello che gli fu fatto conoscere da Virgilio» (Lanza, op. cit., p. 85) . Prosegue il Lanza: «Se si vuole un chiaro esempio di conobbi in questo senso, si veda il v. 122 del canto iv (ibidem), ovvero «tra quai conobbi Ettòr ed Enea». Vedi anche «sopra “riconosce”, qui “conosce”, vede in faccia» D. Mattalia, ad locum.
[1] Cfr. A. Lanza, Uno specchietto per allodole non previsto da Dante: Celestino V (Inf. iii 59-60, SD, lxxviii, 2013, pp. 45-100.
[2] Vd.: «ma non fia da Casal né d’Acquasparta» (Par. xii 124).
[3] L’espressione «per antonomasia» viene usata anche dal Lanza, op. cit. p. 93, ma riferita a Pilato e non all’espressione «gran rifiuto».
[4] Uso il termine “pellegrinaggio” soprattutto in onore di Vincenzo Barelli, il quale ha dato l’avvio alla interpretazione moderna delle tre fiere come «le tre disposizion che il ciel non vuole», ed è oggi totalmente dimenticato, indegnamente dimenticato visto che la sua scrittura è di alto spessore; vd. L’allegoria della Divina Commedia di Dante Alighieri / esposta da Vincenzo Barelli, Firenze, Galileiana, 1864, p. 64.
[5] Per questo concetto di “crocifissione” dantesca si tenga presente: «Si quis vult post me venire, abneget semetipsum et tollat crucem suam» ( Matth. XVI 24); «Qui autem sunt Christi, carnem suam crucifixerunt, cum vitiis et concupiscentiis» (Ad Galatas v 24); «Ego enim per legem, legi mortuus sum, ut Deo vivam; Christo confixus sum cruci. Vivo autem jam non ego; vivit vero in me Christus» (Ibidem ii 19-20). È questo il traguardo che Dante deve raggiungere con la Commedia.
* Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura. della DIVINA COMMEDIA"
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Celebrazioni. Nel 2021 cadono i 700 anni della morte del poeta. Oltre 300 i progetti programmati in Italia e nel mondo, con al centro la «Commedia»
L’Alleluja eterno di Dante
di Carlo Ossola (Il Sole-24 Ore, Domenica, 19.04.2020).
Abbiamo appena celebrato i 500 anni dalla scomparsa di Raffaello (6 aprile), e già s’annunciano i 700 anni dalla morte di Dante (1321), preceduti dall’aver posto in calendario l’annuale “giorno di Dante” al 25 marzo, giorno dell’Annunciazione, e inizio a Firenze, all’epoca di Dante, dell’anno civile.
Il tempo pasquale è propizio a ricordare che l’iter della Divina Commedia si svolge, nella finzione del poema, nella settimana santa del 1300, anno del Giubileo. È dunque, eminentemente, un poema di Resurrezione e Dante stesso, al sommo del Purgatorio, descrive in una luminosa terzina il gaudio a venire dei risorti: «Quali i beati al novissimo bando / surgeran presti ognun di sua caverna, / la revestita voce alleluiando » (XXX, 13-15).
Nel nome del realismo, il secolo XIX, e in particolare Francesco De Sanctis, ha celebrato la cruda materia dell’Inferno, riscattato in amore e dignità dai canti di Paolo e Francesca e di Ulisse. I grandi scrittori del Novecento hanno preferito il Purgatorio, il «dolce color d’orïental zaffiro», così caro a Borges (Sette notti), o il Paradiso dell’esilio dolorosamente rimeditato da Mandel’štam: «Dall’alto di scale inumane / Davanti a palazzi tutti spigoli, / Alighieri poteva cantare / più intensamente la sua Firenze / con la labbra riarse» (Quaderni di Voronej, 1935-1937); o quello tellurico, e cosmico, descritto da Saint-John Perse, il poeta di Anabase e di Exil, nel commentare l’incipit del canto II: «O voi che siete in piccioletta barca, / desiderosi d’ascoltar, seguiti / dietro al mio legno che cantando varca», così chiosando: «Non si era più intesa una voce siffatta dall’antichità latina. Ed ecco che questo canto non è più reminiscenza, ma creazione reale, e come un canto d’alveare che sciama verso l’Ovest, con il suo popolo di Sibille. [...] Poesia, ora dei grandi, cammino d’esilio e d’alleanza, lievito dei popoli forti, e levarsi degli astri presso gli umili» (Per Dante, 1965). Sì, Dante non è più, o solo, «reminiscenza» (anche se andrebbe sempre studiato a memoria), ma è futuro, per il XXI secolo: «È assurdo leggere i canti di Dante senza attrarli verso l’attualità. Essi sono fatti per questo. Sono dei proiettili lanciati per cogliere l’avvenire. Esigono un commento in futurum » (Mandel’štam, Conversazione su Dante).
Le celebrazioni del prossimo anno hanno suscitato un grande fervore: al Comitato nazionale per le Celebrazioni dantesche, istituito dal ministro Dario Franceschini, sono pervenuti oltre 300 progetti, da tutta Italia, dall’Europa, dall’America latina, dagli Stati Uniti; iniziative che toccano tutte le arti, la musica, il teatro d’opera e di parola, i Musei, gli Archivi, le città di Dante, le Accademie, le Università, le scuole.
Dante è veramente, come voleva Ezra Pound, everyman, ciascuno di noi; nello scorcio del XX secolo la voce di Carmelo Bene, di Vittorio Sermonti, di Vittorio Gassman, e soprattutto di Roberto Benigni, ha portato la Commedia sullo schermo televisivo e nelle piazze; Dante è davvero “popolare”: ci si può compiacere, ove questo non significhi recitarlo per via un giorno all’anno e perderne la lettura - lettura integrale del poema - nelle scuole.
In questo senso Dante è specchio fedele del nostro tempo: la maggior parte dei progetti presentati riportano Dante allo spettacolo, alla scena; o a una miriade di convegni a venire, propri dell’opificio accademico. Dante non è tuttavia un poeta della festa, ma dell’esilio, dei destini ultimi dell’umanità: Dante non si compiace mai dell’indugio (tranne un istante con Casella), corre al “fine ultimo”, con ansia e con sete: «[nel poema] le immagini si separano e si danno addio. È duro ascendere le balze dei suoi versi, colmi di addii» (ancora Mandel’štam).
Dante è un poeta in futurum: attenderà, finita questa pandemia, noi, al chiuso ora, guidandoci con la mansueta dolcezza dei suoi versi: «Come le pecorelle escon del chiuso / a una, a due, a tre, e l’altre stanno / timidette atterrando l’occhio e ’l muso; // e ciò che fa la prima, e l’altre fanno, / addossandosi a lei, s’ella s’arresta, / semplici e quete, e lo ’mperché non sanno; // sì vid’io muovere a venir la testa / di quella mandra fortunata allotta, / pudica in faccia e ne l’andare onesta» (Purgatorio, III, 79-87).
È un poema infinito, e che tuttavia si chiude: « A l’alta fantasia qui mancò possa; / ma già volgeva il mio disio e ’l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa, // l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Paradiso, XXXIII, 142-145; il compito del poeta termina; a colui che ha fatto il cammino di Croazia per vedere il volto di Cristo impresso nel velo della Veronica, la Grazia concede che desiderio e volontà infine si appaghino e si riducano a un solo ordine universale, come splendidamente annota il Tommaseo: «Fantasia: La visione delle cose celesti rende inutile la fantasia, che fa luogo al puro intelletto. Volgeva: Dio volgeva con libero equabile tranquillo moto, soddisfatti, il mio desiderio e l’amore».
Si chiude infine la lunga battaglia della tentazione, del contendere del Bene e del Male, in quel velle redento, che era stato avvolto nei vincoli e nelle insidie del Maligno, secondo le Confessioni di Agostino: «Velle meum tenebat inimicus» (VIII, 10).
Il poema va letto nell’asprezza di questo ruvido certame: due cantiche su tre (Inferno e Purgatorio) parlano di pene: eterne o redimibili; il Paradiso terrestre è vuoto; anche nel Paradiso Dante è costantemente interrogato (sulla fede, speranza, carità), rivelato dall’avo il destino d’esilio, lontanando infine nella gloria anche Beatrice. Ma quel velle placato è pur la fine del trionfo del Dies irae: «Dies irae, dies illa, / Solvet seclum in favilla,/ Teste David cum Sybilla», poiché ora la Sibilla e le sue sentenze si sciolgono per sempre: «Così la neve al sol si disigilla; / così al vento ne le foglie levi / si perdea la sentenza di Sibilla» (Paradiso, XXXIII, 64-66).
Solo alcuni grandi scrittori del Novecento hanno inteso questo “petroso” agone del poema; vorrei ricordare su tutti Flannery O’Connor che al culmine del suo Diario di preghiera si affisa su quella soglia, di grazia e di tormento, che è l’ingresso del Purgatorio, descritto da Dante con crudo espressionismo: «Là venimmo: e lo scaglion primaio / bianco marmo era sì pulito e terso, / ch’io mi specchiai in esso qual io paio. // Era il secondo tinto più che perso, / d’una petrina ruvida e arsiccia, / crepata per lo lungo e per lo traverso» (IX, 94-99).
Flannery O’Connor non sceglie il primo gradone, lo specchiarsi di una coscienza lacrimata e detersa; si inginocchia, con Dante, sul secondo, nel triturarsi della contritio smarrita di fronte alla parete, come di sangue, che «sopra s’ammassiccia». Della Commedia soltanto questo la urge, questa carcerazione che scarnifica: «Chiedi / umilmente che ’l serrame scioglia» (ivi, 107-108). Per poi confessare, vera lettrice di Dante e della sua scarna oltranza: «Io vorrei essere una mistica, e anche subito. Nonostante ciò, caro Dio, concedimi un posto, per piccolo che sia, e fa che io lo rispetti. Se fossi quella cui compete di lavare ogni giorno il secondo gradone, fammelo sapere, e fa che io lo lavi con un cuore traboccante d’amore» (Diario di preghiera, nota del 25 settembre [1946]).
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Carlo Ossola presiede il Comitato nazionale per le celebrazioni di Dante, 2021, ed attende (con Luca Fiorentini, Pasquale Porro, Jean-Pierre Ferrini, Stéphanie Vermot) all’edizione bilingue «Pléiade» della Divina Commedia
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LE INIZIATIVE E LA NUOVA EDIZIONE COMMENTATA DEGLI SCRITTI
«Lectura Dantis» a Roma. Per il settimo centenario della morte di Dante (settembre 2021) si stanno progettando iniziative, spettacoli (a Pompei), mostre, convegni (anche online). Prosegue la nuova edizione commentata degli scritti del poeta per l’Editrice Salerno: in autunno uscirà il volume VII/2 con le Opere già attribuite a Dante; in primavera ’21 è previsto il Convivio e l’Inferno per novembre ’21. L’edizione dei Commenti danteschi, sempre da Salerno, vedrà quello alla Commedia di Pietro Alighieri (autunno ’20) e di Bernardino Daniello (primavera ’21). Sul sito casadidanteinro ma.it (in foto, la casa a Roma) ci sono le registrazioni degli incontri avvenuti e i programmi futuri della «Lectura Dantis» romana che, ora fermata dal virus, si svolge la domenica alle 11: mai interrotta dal secondo dopoguerra. Inoltre ricordiamo di Giulio Ferroni, L’Italia di Dante. Viaggio nel paese della Commedia (La nave di Teseo, 2019): è un repertorio con tutti i luoghi del poema.
USCIRE DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO. Amore (Charitas) o Mammona (Caritas)?! Il "principle of charity", il «principio di carità» ("caritas"!), un assunzione di tipo «imperialistico» (Robert Nozick, "The Nature of Rationality", 1993) *
CAPIRE IL COMPORTAMENTO UMANO
di Antonio Rainone *
Carità o empatia?
Esiste una tematica nella filosofia del linguaggio e nell’epistemologia di W. V. Quine che può apparire per molti versi atipica o sorprendente a chi abbia del celebre filosofo statunitense un’immagine limitata alle sue concezioni fisicalistiche e comportamentistiche, per non dire “scientistiche”, non di rado considerate le più caratteristiche della sua produzione filosofica. Si tratta della tematica dell’empatia, cioè della capacità di avanzare spiegazioni o interpretazioni del comportamento (linguistico e non) di altri soggetti “mettendosi nei loro panni” o “simulandone” la situazione cognitiva o, ancora, assumendone immaginativamente il ruolo.
L’empatia - anche indipendentemente da Quine - ha peraltro suscitato una particolare attenzione nella filosofia della mente degli ultimi trent’anni, dove ha dato vita a un ampio dibattito sul cosiddetto mindreading, incontrandosi inoltre con la teoria neuroscientifica dei cosiddetti neuroni specchio 1. I più recenti lavori sulla filosofia del linguaggio di Quine dedicano una particolare attenzione a tale tematica 2, anche perché Quine, pur accennandovi in Word and Object (1960), ne ha proposto una esplicita teorizzazione solo nella sua produzione più tarda.
A partire dagli anni Settanta, ma più esplicitamente negli anni Novanta, Quine ha considerato il metodo dell’empatia come il metodo fondamentale di traduzione nel celebre Gedankenexperiment della traduzione radicale (ovvero la traduzione di una lingua completamente sconosciuta), ma anche come una capacità naturale ai fini dell’acquisizione del linguaggio e dell’attribuzione di stati mentali intenzionali (ossia percezioni, credenze, desideri ecc.) ad altri. In effetti, l’empatia ha acquisito un rilievo così crescente in Quine che nei suoi due ultimi lavori sistematici, Pursuit of Truth (1992) e From Stimulus to Science (1995), essa appare come un nucleo centrale della sua filosofia del linguaggio e della mente.
È stato del resto lo stesso Quine a sottolineare la rilevanza dell’empatia nella sua filosofia del linguaggio, “retrodatandone”, per così dire, la teorizzazione agli anni Cinquanta. Così Quine si esprime in uno dei suoi ultimi interventi sulla questione:
Il brano qui citato da Quine, ripreso dall’importante The Problem of Meaning in Linguistics (1951b, p. 63) - una notevole anticipazione della problematica della traduzione radicale - non è privo di una certa ambiguità, prestandosi a una duplice lettura. È forse vero che in Word and Object alcune affermazioni di Quine potrebbero essere interpretate come la proposta di un metodo empatico, sostenuto comunque in modo non del tutto esplicito (cfr. Rainone, 1995), ma possono essere avanzati dei dubbi circa la difesa di tale metodo nel saggio del 1951. Se da un lato il concetto di proiezione sembra proporre il metodo dell’empatia nell’attività di traduzione di una lingua completamente sconosciuta da parte di un etnolinguista, dall’altro sembra in effetti riferirsi non tanto al metodo empatico, quanto, piuttosto, a quello che, grazie allo stesso Quine, e in seguito a Donald Davidson (cfr. Davidson, 1984), sarebbe diventato noto come «principio di carità» (principle of charity). Il linguista - asseriva infatti Quine - proietta sé stesso con la sua Weltanschauung nei panni del nativo che usa una lingua sconosciuta, presupponendo (o ipotizzando) così che il suo informatore si conformi ai suoi principi logici e abbia le sue stesse credenze (ritenute vere) riguardo alla realtà (sono questi, grosso modo, i principali tenet del principio di carità, che presuppone una comune natura razionale tra interprete/ traduttore e interpretato/parlante).
In Word and Object Quine avrebbe esplicitamente utilizzato - e teorizzato - il principio di carità riguardo alla traduzione dei connettivi logici e degli enunciati “ovvi”. L’esempio più pertinente, in merito, è rappresentato dal «caso estremo» di qualche nativo che accetti come veri enunciati traducibili nella forma “p e non-p” (per esempio, “piove e non piove”), una forma enunciativa che, violando il principio di non contraddizione, deporrebbe per Quine non a favore dell’irrazionalità dei parlanti - come riteneva Lévy-Bruhl con la sua teoria della «mentalità prelogica» - ma contro la correttezza della traduzione (Quine, 1960, p. 58).
Il medesimo argomento varrebbe inoltre per la traduzione di enunciati ovvi: una risposta negativa da parte del nativo alla domanda (nella lingua nativa) “sta piovendo?” fatta sotto la pioggia costituirebbe una prova di cattiva traduzione nella lingua nativa, non del fatto che il nativo non condivida con il traduttore la credenza in qualcosa di così evidente. In generale, nota Quine in un famoso passo di Word and Object, «quanto più assurde o esotiche sono le credenze attribuite a una persona tanto più sospetti abbiamo il diritto di essere nei confronti delle traduzioni; il mito dei popoli prelogici segna solo il caso estremo» (ivi, p. 68).
Difficilmente, pertanto, la «proiezione» del linguista nei «sandali» del nativo di cui Quine parlava nel saggio del 1951 potrebbe apparire come una forma di metodo empatico, dal momento che essa “imporrebbe” al nativo uno «schema concettuale» (quello del linguista) che, per quanto il linguista può saperne, potrebbe essergli del tutto estraneo. Questo è, in fondo, il problema sottostante a tutto il celebre secondo capitolo di Word and Object 3. Non vi sarebbe alcuna garanzia, infatti, secondo Quine, che i nativi condividano lo stesso schema concettuale (la stessa Weltanschauung) del linguista. Ma il linguista non può, d’altro canto, che fare affidamento sul proprio linguaggio (o schema concettuale), data la scarsa evidenza empirica di cui dispone nel tradurre la lingua sconosciuta. Basarsi sul proprio schema concettuale, proiettandolo sul «linguaggio della giungla», è una necessità pratica, che - asseriva Quine in Word and Object - investirebbe soprattutto l’elaborazione delle «ipotesi analitiche», ovvero le ipotetiche correlazioni tra le emissioni verbali olofrastiche dei nativi e le loro possibili traduzioni mediante cui il linguista deve stabilire quali frammenti di enunciati andranno considerati termini (singolari e generali), quali congiunzioni, quali articoli, quali desinenze per il plurale e quali pronomi, sulla cui base individuare un insieme plausibile di credenze ontologiche ed epistemiche. La scelta delle ipotesi analitiche, infatti, non è altro che un modo di «catapultarsi nel linguaggio della giungla utilizzando i propri modelli linguistici » (ivi, p. 70).
Per ricordare il celebre esempio di Quine, la traduzione del proferimento di “gavagai” con “coniglio” (invece che con alternative bizzarre quali “stadi di coniglio” o “sta conigliando”, per quanto ammissibili sulla base dell’evidenza osservativa) equipara l’emissione verbale nativa a un termine generale del linguaggio del linguista, ma nulla esclude che i nativi possano essere privi di un termine referenziale generale per designare i conigli, anche se il linguista ritiene ciò “caritatevolmente” improbabile.
Utilizzare i modelli del proprio linguaggio per tradurre un linguaggio alieno non equivale quindi ad applicare un metodo empatico di comprensione, trattandosi al massimo di un’ulteriore e più ampia applicazione del principio di carità. L’empatia sembra in realtà qualcosa di diverso dalla carità: a differenza di quest’ultima, l’empatia non presuppone necessariamente una condivisione di significati e stati cognitivi (credenze). Forse l’assunzione di un’analogia di stati cognitivi tra interprete e interpretato - il «ritrovamento dell’io nel tu», secondo la celebre formula di Wilhelm Dilthey (1927, trad. it. p. 293) - può apparire inevitabile ed efficace riguardo alle risposte verbali fenomenologiche direttamente connesse a stimolazioni elementari provenienti da eventi osservativi intersoggettivi del mondo esterno (la pioggia, il colore rosso, il caldo e il freddo ecc.): ci si aspetta infatti che i nativi, che presentano una conformazione neurofisiologica e neuropsicologica analoga alla nostra, non abbiano percezioni di tipo diverso dalle nostre, rispondendo linguisticamente a tali percezioni in modo analogo a come risponderemmo noi; in tal caso l’empatia sembrerebbe indistinguibile dalla carità interpretativa, in quanto fondata sull’assunzione dell’esistenza di meccanismi percettivi comuni ai soggetti coinvolti. Ma difficilmente tale analogia potrebbe essere presupposta allorché si tratti di tradurre il linguaggio o spiegare il comportamento di soggetti appartenenti a una cultura del tutto estranea a quella dell’interprete. In questo caso l’interprete dovrà in qualche modo “entrare”, per così dire, nella “mente” dei soggetti da interpretare per comprendere il loro peculiare punto di vista, le loro credenze sulla realtà e i significati delle loro parole.
In definitiva, la differenza tra carità ed empatia può essere intesa come la differenza tra imporre il proprio punto di vista all’altro e assumere il punto di vista dell’altro. La differenza è particolarmente rilevante nei casi di interpretazione di soggetti appartenenti a “mondi” radicalmente diversi da quello dell’interprete. Se così non fosse, difficilmente gli etnoantropologi avrebbero potuto attribuire credenze animistiche o culti religiosi atipici (come i celebri cargo cults) alle popolazioni studiate (in entrambi i casi si dovrebbe trattare, secondo un’interpretazione caritatevole, di errori di traduzione o interpretazione).
Non dovrebbe costituire motivo di sorpresa, allora, che David K. Lewis, in un saggio dedicato alla problematica davidsoniana dell’«interpretazione radicale», avesse dato una definizione del principio di carità che ingloba, per così dire, anche il procedimento empatico: un soggetto di interpretazione, asseriva Lewis, «dovrebbe credere ciò che crediamo noi, o forse ciò che avremmo creduto noi al suo posto; e dovrebbe desiderare ciò che desideriamo noi, o forse ciò che avremmo desiderato noi al suo posto» (Lewis, 1974, p. 336; corsivi aggiunti). In pratica, secondo questa definizione del principio di carità, si tratterebbe di assumere empaticamente il punto di vista dei soggetti interpretati, tenendo conto delle loro credenze (eventualmente false o strane) e della loro cultura di appartenenza, attribuendo a essi non le credenze e i desideri dell’interprete, ma le credenze e i desideri che l’interprete avrebbe se fosse “nei loro panni”. Si può aggiungere, a tale proposito, che l’empatia rappresenta una sorta di “correttivo” del principio di carità, tenendo conto del punto di vista dell’altro.
Ma forse c’è ancora qualcosa da dire: mentre la carità impone dei vincoli normativi sulla razionalità dei soggetti da interpretare - vincoli a priori basati sui principi logici e sulle norme di razionalità epistemica e pratica dell’interprete, ritenuti universali 4 -, l’empatia sembrerebbe invece un metodo descrittivo ed empirico, essendo subordinata all’acquisizione di un’ampia gamma di informazioni relative alle credenze, alla cultura e alle esperienze passate dei soggetti da interpretare (inutile aggiungere che non c’è accordo su quest’ultimo punto).
4. Si può ricordare, riguardo a questa presunta universalità, che Robert Nozick ha contestato il principio di carità in quanto assunzione di tipo «imperialistico», conferendo tale principio «un peso indebito alla posizione che accade di occupare a noi, alle nostre credenze e alle nostre preferenze» (Nozick, 1993, p. 153). Giustamente, Nozick fa notare che difficilmente questa sarebbe l’assunzione di un antropologo relativamente alle cosiddette società “primitive” (ivi, p. 154).
* Cfr. Antonio Rainone, "Capire il comportamento umano. Azione, razionalità, empatia", Carocci editore, Roma, 2019, pp. 55-59, ripresa parziale.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Idee.
Povera filosofia ridotta a ricetta terapeutica
Due libri pescano da Aristotele e in generale dal pensiero greco per insegnare, come dei manuali, a raggiungere la felicità
di Roberto Mussapi (Avvenire, martedì 3 dicembre 2019)
Aristotele fu il primo filosofo a chiedersi che cosa sia la felicità, e come possiamo conseguirla. Da questa affermazione nasce un saggio che indica, nell’opera del maestro, una guida ancora attuale per la ricerca delle felicità. Per Edith Hall, nel suo Il metodo Aristotele (Einaudi, 288 pagine, euro 19,50), il pensatore greco è essenzialmente una guida a tale scopo, secondo il sottotitolo, “Come la saggezza degli antichi può cambiare la vita”: un mondo di formule, un ricettario, secondo le necessità e le richieste del nostro tempo. Un Aristotele un po’ diverso da come lo vedeva Dante, o secoli di pensiero. Certo, il padre della filosofia razionale guida anche alla ricerca della felicità, ma non necessariamente alla scoperta del suo elisir.
Aristotele non è un guaritore, personal trainer di anima e corpo, custode del segreto della felicità. Segreto che per ogni filosofo, o non esiste, o resta sempre segreto, mistero, che anima sempre alla nuova ricerca. Giusto distinguere il suo pensiero da quello cupo degli stoici, o da quello catartico e fondamentalista dei cinici. E quando Aristotele, per citare un esempio dal libro, afferma che sesso, cibo e vino, senza eccessi, contribuiscono alla felicità individuale e della persona amata, manifesta rispetto per la vita fisica, ma non sta indicando una ricetta. Il saggio di Edith Hall esplora il pensiero del filosofo, e lo orienta sulla ricerca di una felicità di fatto mondana, temporanea, ametafisica.
Certo è lapalissiano sottolineare come rispetto al maestro Platone, Aristotele non consideri fallace la vita terrena, illusoria al confronto con il mondo delle Idee. Ma è riduttivo farne un pensatore privo di senso del tragico. Il tema della felicità, e della filosofia che sarebbe nata per consentire a tutti di conseguirla, anima un altro libro, dal titolo esplicito: Lezioni di felicità (Einaudi, pagine 148, euro 13,00) di Ilaria Gasparri, seguito da un sottotitolo ancora più appetibile e promozionale: “Esercizi filosofici per il buon uso della vita”.
L’autrice parte da una domanda retorica: che cosa succederebbe se di punto in bianco decidessimo di conoscere noi stessi al modo degli antichi Greci? Risposta al quiz: risolveremmo problemi, ansie, dilemmi diversamente annebbianti, e nefasti. Che ogni problema del presente non possa essere affrontato solo nella dimensione del presente stesso, ma richieda una prospettiva più ampia, che riguarda il passato la tradizione, è constatazione sacrosanta e difficilmente contestabile. Ma l’affermazione che una parte del passato e della nostra tradizione contengano le soluzioni pronte a risolvere problemi di oggi, rivela atteggiamento semplificativo, quale quello della Hall rispetto ad Aristotele. Il mondo della filosofia greca sarebbe un formidabile ricettario di formule e verità utili a risolvere la ricerca della felicità, una volta per sempre. Di nuovo la filosofia usata come tesoro di ricette. In sintesi, non va trascurata, perché è utile.
Rispetto alla Hall Ilaria Gasparri ha il merito di scegliere, per le settimane terapeutiche in cui orchestra il libro, scuole filosofiche in sé già limitate da una prospettiva in parte utilitaria: cinque delle sei settimane sono immersioni nel pensiero eleatico, scettico, stoico, epicureo e cinico: da nessuna di queste scuole filosofiche nasce vertigine. Non si riferisce, l’autrice, e giustamente, al Socrate che non cerca la felicità ma il bene assoluto, e beve la cicuta pronto a volare come un bianco uccello nell’immortalità. Non c’é Platone, con l’ascesi del pensiero misticamente ardente allo spazio iperuranio, e le visioni estatiche delle Muse e delle Sirene, non c’è Plotino con il mistero dell’Anima e delle singole sue manifestazioni.
Ma la prima scuola, quella pitagorica, non nasce affatto come filosofia pronta per l’uso, quale possono essere intese, seppur semplificando, stoicismo e cinismo: è alle origini del mistero del numero, del mito e rito in cui l’Oriente passa metamorfosandosi misteriosamente in Occidente.
In linea di massima questo approccio semplificante e edificante al pensiero filosofico potrà condurre qualcuno alla felicità, ma a patto che egli si estranei, si alieni dalla complessità, dall’Ombra, dal mondo di Calipso, di Dante, di Shakespeare. Dalla zona di buio e passione in cui hanno origine poesia e filosofia.
Giampiero Comolli
La malinconia meravigliosa
di Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 19 luglio 2019)
La malinconia di cui parla Giampiero Comolli - giornalista, scrittore, presidente del Centro Culturale Protestante di Milano - nel saggio La malinconia meravigliosa (ed. Claudiana) è quella che pervade i discepoli di Siddharta Gautama della nobile famiglia dei Sakya, il primo Buddha, e di Gesù di Nazareth al momento del loro commiato in prossimità della morte. L’autore ripercorre i loro ultimi discorsi per cogliere attraverso di essi, i punti in cui le vie indicate dai maestri paiono avvicinarsi e quelli in cui decisamente divergono e lo fa utilizzando Il grande discorso del nirvana definitivo, per quanto riguarda il Buddha (i testi più antichi su cui si fonda la tradizione buddista sono raccolti nel canone Pali scritto attorno al 1° sec. a.C., pubblicati in italiano col titolo La rivelazione del Buddha. I testi antichi, Mondadori 2001) e i capitoli dal 14 al 17 del Vangelo di Giovanni, la cui formulazione definitiva risale alla fine del 1° sec. d.C.
I primi capitoli sono dedicati dall’autore a una breve e necessaria sintesi della vita di Siddharta Gautama e del pensiero buddista - a chi volesse saperne di più suggerirei di leggere Il cuore dell’insegnamento del Buddha (ed. Neri Pozza) di Thich Nhat Hanh, monaco vietnamita di tradizione Zen Rinzai che ne offre una dissertazione approfondita e molto chiara - e poi prosegue con un’attenta disamina degli atteggiamenti dei due maestri e delle rispettive visioni della realtà che, non solo nelle parole, ma appunto anche negli atteggiamenti e nei gesti, si riveleranno radicalmente differenti.
Perché anche laddove sembra esserci una certa sintonia, tra le due vie in realtà c’è una strutturale inconciliabilità, chiaramente sottolineata dal Dalai Lama al quale fu chiesto, racconta Comolli, se in una stessa persona potrebbero convivere cristianesimo e buddismo visto che quest’ultimo è più propriamente una filosofia che una religione. Egli rispose che ciò sarebbe possibile, ma solo a un livello molto superficiale, perché nei loro elementi profondi e sostanziali si tratta di due visioni della realtà incompatibili. Cerchiamo di riassumerne le ragioni.
Per Buddha il risveglio inizia quando si comincia a comprendere che la vera natura del mondo sensibile è l’impermanenza. L’intero universo, materiale e immateriale è impermanente cioè, per così dire, fluido, mobile; le infinite forme assunte dalla materia - animali, vegetali, minerali - sono soltanto apparenza, perché la sostanza è una sola e sempre la stessa. Ciò che noi avvertiamo come cambiamento, compresa la morte, è semplicemente il passaggio da una forma a un’altra dell’unica sostanza. In questo processo continuo di trasformazione da uno stato a un altro, ciò che cambia non viene distrutto, ma appunto trasformato. In ogni elemento della realtà fisica è contenuto tutto ciò che esiste (nel fiore, ad esempio, è contenuta la terra da cui proviene, l’acqua e il sole che l’hanno nutrito, ciò che un animale ha mangiato e poi lasciato sul terreno sotto forma di concime e così via). Di conseguenza, la morte non è l’estinzione di una realtà, ma il suo passaggio da una condizione a un’altra. Da questa consapevolezza nasce il sentimento di equanimità, fondamento dell’etica buddista e da molti accostato, un po’ superficialmente, all’idea cristiana di compassione. L’equanimità informa l’atteggiamento pacifico e amorevole del monaco buddista verso ogni creatura. La via buddista stricto sensu è destinata ai monaci, ma è utile anche ai laici ai quali essi dimostrano, con il loro esempio, «che la via della libertà e della dolcezza esiste e può essere percorsa». Perciò tutti possono aspirare, di reincarnazione in reincarnazione, a percorrerla fino al compimento.
L’amore che il Buddha insegna è molto diverso da quello che vive e predica Gesù. Il cuore del monaco buddista è «amorevole verso tutti, ma vuoto perché mai "perdutamente innamorato" di qualcuno in particolare», sottolinea Comolli. E come potrebbe esserlo visto che, come ogni altra cosa, la persona stessa, l’io individuale è pura illusione? Il cuore è anatta, cioè vuoto, «privo di sostanza propria» «perché non esiste un nucleo, un’essenza stabile, un’identità precisa e definita di quel cuore stesso». Anche il cuore/l’io è maja, apparenza. Per Gesù, al contrario, nulla è più importante del cuore dell’uomo, nulla è più solido e vero dell’amore, e per il Dio in cui egli crede ogni essere è unico, irripetibile, speciale e merita che Dio diventi uomo e muoia proprio per lui. Dio non ama tutti, ama ciascuno, per questo per ogni singolo essere umano vale la pena di donare la vita. Come il Dio in cui credeva e che annunciava, Gesù non amava «in modo equanime e disinteressato, distaccato» ma «in modo appassionato, fino ai singhiozzi», e dall’amore «si lascia prendere fino alle viscere». Gesù piange, prega, si spaventa, si arrabbia. È tutt’altro che impassibile, è appassionato. Comolli sintetizza con una bella immagine la differenza tra i due maestri: «Se il discepolo del Buddha è riconoscibile grazie al suo passo delicato e lieve, capace di traversare un villaggio quasi fosse un’ape che passa di fiore in fiore, per converso, il discepolo di Gesù è riconoscibile grazie al suo passo amoroso e caldo, capace di rispondere con mansuetudine e premura anche a chi offende e maledice».
Se la fede in Dio, dal cristiano inteso come un essere vivente che si rapporta all’uomo come un padre e una madre si rapportano a un figlio, distingue nettamente buddismo e cristianesimo, ne consegue anche un modo del tutto diverso d’intendere e affrontare il dolore. Per Buddha l’individuo ha in se stesso la forza per liberarsene attraverso un costante esercizio di distacco da ogni passione e attaccamento. Per Gesù il liberatore è Dio; egli è sempre accanto all’uomo, soprattutto quando è misero e sofferente, e con la sua risurrezione testimonia che l’uomo non è destinato alla morte e all’estinzione, ma a una vita nuova nella dimensione di Dio. «La via del Buddha - sottolinea Comolli - fa a meno della fede; la via di Gesù, vive nella fede». Per questo egli che, a differenza del Buddha, morì ancora giovane di una morte orrenda e solitaria, accomiatandosi disse ai suoi amici: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me» (Gv 14,1), e ancora: «Voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia» (Gv 16, 22). L’esortazione di Buddha ai discepoli è molto diversa: «Prendete rifugio in voi stessi e non in altro», e le sue ultime parole furono: «Continuate ad esercitarvi, instancabilmente».
Riassumendo la diversità delle due concezioni spirituali, Giampiero Comolli le raccoglie in tre assunti. Alla base della ricerca del Buddha vi sono l’inconoscibilità di Dio, l’irrilevanza della questione per giungere alla liberazione dal dolore, la capacità dell’uomo di farlo con le proprie sole forze. Esattamente opposti sono i presupposti su cui si fonda il messaggio di Gesù, ovvero l’esistenza di Dio, l’importanza primaria e assoluta della questione, l’impossibilità per l’uomo di salvarsi da solo. Così si può anche dire che il cuore del buddismo è la pace che nasce dal sapersi liberare dal dolore, mentre al cuore del cristianesimo c’è una serenità diversa e, in un certo senso, più libera che sorge dalla fiducia nell’amore indefettibile di Dio. In un caso la pace è una conquista, nell’altro un dono. E la libertà in cui confida il seguace di Gesù non è nirvana, estinzione, uscita dal ciclo delle reincarnazioni, ma ingresso di ognuno con la sua propria personale storia e identità nella vita piena ed eterna di Dio. Cioè, risurrezione.
La malinconia meravigliosa si chiude su questo tema, che quando Paolo lo affrontò spinse i razionali ateniesi, fino a lì attenti e interessati alle sue parole, a ridergli in faccia e a dirgli che su quello lo avrebbero ascoltato un’altra volta. Anch’io ve ne parlerei volentieri, ma forse anche voi come gli ateniesi vi mettereste a ridere di me... O mi sbaglio?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
IL MESSAGGIO EVANGELICO, IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, E LA CATASTROFE DELL’EUROPA. “Come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
Federico La Sala
Giorgio Agamben “Il regno e il giardino”
di Antonio Lucci (Doppiozero, 14 Giugno 2019)
Michel Foucault, nel suo breve saggio (uscito nel 1984) sui “Luoghi altri”, definì il giardino “un’eterotopia felice”: una definizione forse anche troppo positiva, ma comunque indicativa del fatto che il giardino, per il filosofo francese, rappresentava la realizzazione di una serie di caratteristiche utopiche in un luogo reale, assumendo caratteri spaziali e simbolici fortissimi. Del carattere di luogo simbolico, che dà da pensare, proprio del giardino sembra che i filosofi siano da sempre stati ben coscienti: dal giardino in cui si ritiravano (secondo il motto “vivi nascostamente”) gli epicurei, a quello che consigliava - come ricorda nell’epigrafe al suo ultimo libro anche Giorgio Agamben - di coltivare Voltaire alla fine del suo Candide, passando per il giardino di Herrenhausen ad Hannover, in cui non solo Leibniz amava passeggiare e filosofare, ma che egli stesso contribuì a progettare grazie alle sue conoscenze di matematica e di ingegneria, per fare solo qualche esempio.
Si potrebbe addirittura arrivare a dire che, per comprendere come le società antiche hanno immaginato la propria versione ideale - il proprio paradiso - bisogna guardare al modo in cui esse hanno pensato i propri giardini: il giardino ad Atene era un luogo per la discussione e l’agone scientifico, che corrispondeva agli ideali di democrazia e di paideia propri della cultura greca, mentre il giardino cristiano era hortus conclusus, un luogo in cui le mura proteggevano e al contempo separavano l’uomo dall’esterno, dandogli la sua precisa posizione nel mondo (un mondo in cui la percezione delle barriere, sia fisiche che sociali e culturali, era un tassello psicostorico fondamentale). Il giardino barocco era una sorta di “panottico esterno”, in cui le vie rigidamente disegnate, le piante piegate in forme bizzarre dalla mano umana e l’universale visibilità dall’istanza centrale costituita dal palazzo corrispondevano alla società assolutistica di cui era espressione, quello inglese, invece, con il suo avvicinarsi alla naturalità di una selva, rispecchiava in qualche maniera gli ideali di una società che aveva abolito la monarchia assoluta e cominciava a credere che l’uomo non dovesse essere necessariamente, per natura, indirizzato in maniera univoca nei suoi spostamenti nel mondo.
Non a caso, la parola “paradiso” significa, originariamente, “giardino”: è questo il punto di partenza dell’ultimo libro di Giorgio Agamben. Il filosofo romano rinuncia a un’analisi dei rapporti tra le concrete forme storiche del giardino e i diversi regimi immaginari e ideali politici che le hanno prodotte, per concentrarsi invece su uno specifico giardino: quello dell’Eden.
Tutto Il regno e il giardino, infatti, è una serrata analisi di come, in particolare nella letteratura teologica tardoantica e medievale, il giardino dell’Eden - il paradiso terrestre - sia stato un importante operatore teoretico, usato da autori centrali del canone teologico cristiano - come ad esempio Agostino - al fine di descrivere che cos’è, nella sua struttura più profonda, la natura umana. “Giardino” (o meglio, “Paradiso”) - ci dice Agamben - è il nome che tanto affascinanti quanto spesso dimenticati autori del periodo protocristiano (come Efrem Siro e Sant’Ambrogio) hanno dato alla natura umana, in particolare a quella prima del peccato. Come è noto, a causa del peccato siamo stati banditi dall’Eden, dal Paradiso terrestre: secondo Agamben è proprio questo bando il punto centrale, quando si parla dell’Eden.
Non tanto che esso esista, o il fatto che noi vi abbiamo dimorato (pare, secondo la tradizione teologica, non più di sei ore), quanto il nostro esserne stati cacciati: «Non il paradiso, ma la sua perdita costituisce il mitologema originario della cultura occidentale, una sorta di traumatismo originario che ha segnato profondamente la cultura cristiana e moderna, condannando al fallimento ogni ricerca della felicità sulla terra» (p. 19). Agamben vede nella concezione di Sant’Agostino del peccato originale l’origine della tradizione che si affermerà nel cristianesimo successivo, per cui noi tutti erediteremmo la colpa di Adamo per via fisiologica, e quindi indipendentemente dalle nostre azioni: noi tutti siamo da sempre condannati all’esilio dal Giardino, e questo per colpe non nostre, così come per colpe non nostre siamo condannati al peccato e alla morte. Su questa concezione si basa anche l’idea di una natura umana corrotta per sempre, in tutte le generazioni a venire, da un’azione unica, operata da un singolo: «L’uomo è il vivente che può corrompere la sua natura, ma non risanarla, consegnandosi così a una storia e a un’economia della salvezza, in cui la grazia divina dispensata dalla Chiesa attraverso i suoi sacramenti diventa essenziale» (p. 32). (Se anche Agamben non prende in considerazione qui il tema, si potrebbe allargare il discorso ponendo la domanda relativa a quali conseguenze sulla concezione della colpa e del debito quest’idea agostiniana abbia avuto nella storia del pensiero occidentale). Partendo da quest’idea agostiniana (e anselmiana) Agamben analizza l’affascinante ipotesi connessa con l’idea di una natura umana irrimediabilmente corrotta: quella che - fatta eccezione per le sei ore in cui l’uomo vi abitò felicemente - il Paradiso terrestre sia un giardino vuoto, silenzioso ...e fondamentalmente inutile.
Contro quest’idea Agamben analizza il semidimenticato Scoto Eriugena, che - contro Agostino - legge allegoricamente la narrazione della Genesi biblica, interpretando l’Eden come una figurazione della natura umana prima della sua corruzione. La tesi di Eriugena è il doppio specularmente opposto rispetto alla teoria agostiniana del peccato originale ereditario ed eternamente corruttore della natura umana: quest’ultima è stata creata secondo Eriugena da Dio incorrotta e incorruttibile, come lo è il Paradiso terrestre, e solo il peccato è corruzione, ma corruzione legata all’atto e non alla natura dell’agente. L’uomo, col peccato, è uscito dalla propria vera natura, quella assegnatagli da Dio, perché ne ha abusato: in termini metaforici è uscito dal Paradiso, o meglio, non vi è mai stato.
Quindi, non esisterebbe, per Eriugena, una natura corrotta: la natura è da sempre salva, solo che noi ne siamo fin dall’inizio usciti.
Le dispute dei teologi sul Paradiso terrestre, in ultima istanza, ci dice Agamben, sono delle dispute mirate ad articolare il rapporto tra natura e grazia quali dispositivi teorici reciprocamente connessi tramite l’operatore logico del peccato (diversamente interpretato a seconda della direzione che si vuole dare al rapporto tra queste due istanze), e che definiscono la posizione dell’uomo sia nel mondo, che nell’aldilà.
Uno dei capitoli più interessanti del libro è sicuramente quello dedicato alla Divina Commedia di Dante. Agamben decide (non risparmiando alcune righe ferocemente critiche verso la tradizione dantista) di leggere la narrazione dantesca dell’Eden al di fuori e contro il canone interpretativo tomistico e in generale teologico medievale, in quanto vede in esso un «significato immediatamente politico» (p. 68), che fa del Paradiso terrestre una «figura della beatitudine terrena» (p. 71), a cui «Dante - che rappresenta l’umanità - può acceder[e] senza alcun impedimento» (p. 75). Il rapporto tra beatitudine di questo mondo e Giardino viene ripreso anche nell’ultimo capitolo del suo libro da Agamben, che analizza - partendo da Francisco Suárez - la questione di una possibile “politica del Giardino”, ossia l’esperimento mentale per cui - se non avessimo peccato con Adamo - saremmo potuti restare nell’Eden, dovendo poi sviluppare un qualche tipo di organizzazione sociale.
Agamben rileva come le descrizioni di questa possibile “società politica edenica” nei teologi medievali siano assolutamente carenti, derivandone la conclusione che «il paradiso terrestre non costituisce in alcun modo per i teologi un paradigma politico» (p. 106). Da qui ne segue una discussione, tanto teologicamente avvincente quanto complessa da seguire per i non addetti ai lavori, sulle tensioni chiliastiche del cristianesimo, vale a dire sulle interpretazioni date del passo dell’apocalisse per cui Cristo, tornato alla fine dei tempi, regnerà per mille anni con i giusti su questo mondo prima del giudizio finale. La questione è vicina a quella del giardino terrestre, a volte interpretato, nel corso della storia, come allegoria e a volte interpretato come luogo fisico, presente da qualche parte sulla Terra. Ed entrambe le questioni rimandano a quella - per Agamben sempre centrale - della felicità: è possibile, intravedibile, intravista in alcune epoche della storia del pensiero una felicità vissuta, una felicità della vita, di questa vita in questo mondo?
Il libro di Agamben si chiude con questa domanda, quella sulla dantesca «beatitudine di questa vita» (p. 120), una domanda consegnata al lettore di questo bel saggio, da intendere come un ulteriore tassello nel tentativo agambeniano di portare alla luce le categorie centrali del pensiero occidentale, di cui - sicuramente - il giardino è una delle più importanti, e forse sottovalutate.
FILOSOFIA, SCIENZA, E STORIA. PER UN NUOVO CNR ....
NOTE A MARGINE DELLA LETTERA "Al CNR la storia è una scienza? Una risposta all’intervento di Gilberto Corbellini"
1. PER LA STORIA DELLLA SCIENZA E PER LA SCIENZA DELLA STORIA, FORSE, E’ MEGLIO RI-DISCENDERE “SOTTO COVERTA DI ALCUN GRAN NAVILIO” E RIPRENDERE IL LAVORO GALILEANO DELLA CONVERSAZIONE E DELLA CONOSCENZA 29 Maggio 2019 :
2. STORIA, SCIENZA, ED ECLISSI. Da Galileo Galilei ad Albert Einstein 30 maggio 2019...
Al di là delle pretese “mitideologiche” (atee e devote) del “post-positivismo” contemporaneo (Paolo Fabbri) di dare il via a un’ epoca in cui la storia del mondo dev’essere riscritta secondo l’indicazione rosenberghiana!), ricordiamo che il 29 maggio 1919 Arthur Eddington provò sperimentalmente la teoria della relatività (cfr. : Franco Gabici, “Cento anni fa l’eclissi che diede ragione a Einstein” - https://www.avvenire.it/agora/pagine/cento-anni-fa-leclissi-che-diede-ragione-a-einstein). Buon lavoro!
3. COSTITUZIONE E CNR. UN PROBLEMA STORIOGRAFICO (SCIENTIFICO) DI LUNGA DURATA 31 Maggio 2019...
CONDIVIDO LA PREOCCUPAZIONE E, AL CONTEMPO, LA CONSAPEVOLEZZA dei firmatari della lettera. La “provocazione” - da parte di chi dirige il Dipartimento del CNR, “al cui interno operano decine di storici, storici della filosofia, giuristi e altri ricercatori nel campo delle scienze umane e sociali” - evidenzia il sintomo non tanto e non solo “di un profondo problema culturale e scientifico”, ma anche e soprattutto di un problema politico-filosofico (metafisico), costituzionale, di CRITICA della “ragion pura” (di questo parla il “principio della relatività galileiana”, condensato nel “Rinserratevi” del “Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano”)!,
DOPO GALILEI, DOPO KANT, DOPO EINSTEIN, DOPO LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA... UNA “PROVOCAZIONE” al CNR DA ACCOGLIERE!
Strana “coincidenza”, oggi!:
Prima che sia troppo tardi, che fare?! Alle studiose e alle studiose di scienze umane e sociali (del CNR e non solo), consiglierei (mi sia permesso) la ri-lettura del “Dialogo sopra i due massimi sistemi iolemaico e copernicano” di Galileo Galilei, la ri-lettura dei “Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica” di Immanuel Kant, e, infine, la rilettura dei “Principi” della Costituzione della Repubblica Italiana - e, alla luce della “ferocissima” provocazione, ri-prendere il lavoro storiografico-scientifico con più grande entusiamo e responsabilità di prima!
VIVA IL CNR,
VIVA L’ITALIA!
4. PER UN NUOVO CNR! ALL’INSEGNA DI ERMES: “IO VORREI PENSARE CON IL CERVELLO INTERO”. IN MEMORIA DI ENRICO FILIPPINI E DI MICHEL SERRES 3 Giugno 2019 ...
“[...] all’insegna di Ermes, che per me è il simbolo della scienza contemporanea”.
In che senso? “Nel senso che Mercurio, a cui ho dedicato ben cinque libri, è il dio della comunicazione. A differenza di quanto pensavano i marxisti, io ritenevo che il problema della comunicazione fosse più importante di quello della produzione, e che l’ economia stessa fosse più una questione di comunicazione che di produzione. Sono fiero di quell’ assunto, mi scusi la superbia: infatti, i paesi che hanno scommesso in questo senso, per esempio il Giappone, hanno evitato la crisi”.
Ma comunicazione che vuol dire? “All’ inizio, all’ epoca dello strutturalismo, davo del termine “struttura” un’ interpretazione algebrica, esatta. Poi, studiando il XIX secolo, la fisica ottocentesca, e cioè essenzialmente la termodinamica, finii per attribuire un ruolo centrale alla teoria dell’ informazione. In fondo, se del mio lavoro dovessi tracciare un profilo, ecco: per tutta la vita ho cercato di tenermi al corrente, da filosofo, del sapere scientifico (il che in Francia ø raro), e insieme di non dimenticare la tradizione letteraria: ho scritto su Zola e su Jules Verne. Ecco, ho cercato di tenere unite, con le due mani, la scienza e la letteratura, di passare dall’ una all’ altra. E’ quello che chiamo, nel quinto volume dedicato a Mercurio, il Passaggio a Nord-Ovest: passaggio difficile, pericoloso, tempestoso, ma passaggio. Per me la filosofia è questa alleanza. In Italia ciò dovrebbe essere comprensibile”.
In Italia c’ è stata una forte tradizione idealista e marxista. L’ interesse per la scienza tende a diventare scientismo. “Come nel mondo anglosassone. Ma il fatto è che nella letteratura c’ è spesso più rigore che nella scienza. In Tito Livio c’ è più epistemologia che in Popper. Il mio sogno è di scrivere un’ opera che compia la riconciliazione enciclopedica, proprio alla maniera di Diderot e di D’ Alembert, ma non solo nel senso storico (per cui si pensa sempre soltanto nel solco della propria tradizione), anche nel senso del concetto: quello è il campo che si percorre e che si deve percorrere. La filosofia ha perduto troppo non sapendo nulla di scienza, ma oggi che ne sa qualcosa, ha perduto la dimensione culturale. E’ come un cervello tagliato in due. Io vorrei pensare col cervello intero”.
Ora sta scrivendo qualche cosa? “Un libro sui cinque sensi, e, appunto, in una forma letteraria, anche se sono partito da un sistema rigorosamente formale. E’ un tentativo di alleanza tra le due forme di sapere, è anche il tentativo di ritrovare, come diceva Edmund Husserl, le radici profonde della cultura europea. Lei conosce La crisi delle scienze europee?”.
L’ ho tradotta in italiano da studente. Ma Husserl parlava appunto di “crisi” di quell’ idea e di quella tradizione. C’ è il problema della tecnicizzazione della scienza. E poi c’ è la difficoltà della estrema specializzazione dei settori scientifici [...]
(cfr. ENRICO FILIPPINI, “Il mio amico Mercurio”, “la Repubblica”, 15 giugno 1984: https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1984/06/15/il-mio-amico-mercurio.html).
5. STORIA E SCIENZA: “VICISTI, GALILAEE” (KEPLERO, 1611) 5 Giugno 2019.
La rotazione della Terra rimescola le acque del lago di Garda ... http://www.ansa.it/canale_scienza_tecnica/notizie/terra_poli/2019/06/05/la-rotazione-della-terra-rimescola-le-acque-del-lago-di-garda-_8cbe9d78-1459-4088-a0a4-12016cd675b9.html.
6. PER UNA "RIVOLUZIONE KEPLERICANA": "IL LINGUAGGIO DEL CAMBIAMENTO. ELEMENTI DI COMUNICAZIONE TERAPEUTICA". Note per orientarsi nel pensiero [7 giugno 2019]...
Dal momento che (a quanto pare) è stata persa la "bussola", è opportuno, forse, riprendere il "cervello in una vasca" (Hilary Putnam: https://it.wikipedia.org/wiki/Cervello_in_una_vasca), riportarlo nella "nave" di Galilei ("Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano"), e rileggere (sia consentito) la mia nota sul lavoro di Paul Watzlawick ("Il linguaggio del cambiamento. Elementi di comunicazione terapeutica", Milano, Feltrinelli, 1980), dal titolo "LE DUE META’ DEL CERVELLO" ("Alfabeta", n. 17, settembre 1980, p. 11: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/IMG/pdf/LE_DUE_META_DEL_CERVELLO_0001-2.pdf); e, infine, rimeditare ancora e di nuovo la lezione di Kant su “Che cosa significa orientarsi nel pensiero” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4837).
Federico La Sala
PSICOANALISI E FILOSOFIA. DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE.... *
C’è una volta
di Moreno Montanari (Doppiozero, 06.05.2019)
Una sera, camminando con la mia compagna per le strade di Porta ticinese a Milano, mi è capitato d’imbattermi in una battuta che capeggiava sulla lavagnetta di un’osteria: “l’unico passato che non fa male è quello di veldule”. Confesso che ho “liso” di gusto. Eppure non penso affatto che il passato faccia male, credo piuttosto che sia una grande risorsa se adeguatamente analizzata. Su cosa poggia, dunque, la convinzione che il passato faccia male? Nietzsche, in Così parlò Zarathustra, la riconduce al senso d’impotenza che si prova di fronte a ciò che, essendosi compiuto, ci consegna a uno stato di rassegnata impotenza, come di fronte a quei treni di cui si dice che passino una sola volta nella vita:
Che il tempo non possa camminare a ritroso, questo è il suo rovello; “ciò che fu” - così si chiama il macigno che la volontà non può smuovere. (...) Così la volontà anziché liberare, infligge sofferenza: e oggetto della sua vendetta, per non poter volere a ritroso, è tutto quanto sia capace di soffrire. Ma questo, soltanto questo, è la vendetta stessa: l’avversione della volontà contro il tempo e il suo “così fu”». (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, 1882-84, Adelphi, Milano, p. 169-171).
Non a caso il capitolo dello Zarathustra in cui Nietzsche affronta questo tema s’intitola Della redenzione: una simile concezione del passato, vissuto come ciò che non è più e che è andato irreversibilmente perduto, non può che essere causa di grande frustrazione per chi è roso da rimpianti o da rimorsi. Non affronterò qui la soluzione di Nietzsche - che chiama in causa l’eterno ritorno, passa per l’amor fati, la capacità di dire dionisiacamente di sì alla vita così com’è, e sfocia nella capacità di trasformare ogni «così fu» in un «ma così volli che fosse, (...) ma così io voglio! Così vorrò» (ibid. p. 172) - in queste pagine m’interessa piuttosto soffermarmi sul concetto di redenzione non dal tempo ma, come vedremo, del tempo altrimenti imprigionato in una concezione che ne svilisce la portata e ne misconosce l’essenza. Non è del tutto vero, infatti, che ciò che è passato non è più; Heidegger, in Essere e tempo, ci ricorda che se da una parte si può parlare del passato come di ciò fu, intendendo per l’appunto qualcosa che è accaduto in tempo che ha irrimediabilmente cessato di essere e sul quale, come detto, non possiamo più avere alcuna presa, dall’altra, se ne può parlare anche come di ciò che è stato, o meglio, propone Heidegger, come dell’essente-stato (Gewesen). Questa seconda formulazione, meno luttuosa, indica un passato la cui essenza (Wesen) è quella di perdurare: benché sia accaduto tempo addietro, in qualche modo, esso non cessa d’essere ma persiste, si riverbera nel presente, nel quale è ancora vivo come traccia, psichica o storica. Ripensare in questi termini il passato significa redimerlo, liberarlo dal confino in una terra lontana e irraggiungibile, per avvertirne la presenza, feconda o inquietante, qui e ora.
A questo tema ha dedicato un breve ma intenso libro Paul Ricoeur (Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, il Mulino, Bologna, 2004) nel quale sottolinea come «il passato che non è più, ma che è stato, reclama il dire del racconto dal fondo stesso della propria assenza (...) richiede che lo si ridica, che si riscriva la storia” (p.40), anche personale, concluderebbe idealmente Freud, per il quale è necessario che “il materiale di tracce mnestiche esistente [in ciascuno di noi] venga, di tanto in tanto, sottoposto a risistemazione e riscrittura” (S. Freud, Lettere a Wilhelm Fliess, 1887-1904, Bollati Boringhieri, 2008, p. 236).
Simili punti di vista, osserva Ricoeur, offrono un’alternativa “all’opinione comune secondo la quale il passato non può più venir cambiato e per questo sembra determinato; secondo questa opinione soltanto il futuro può essere ritenuto incerto, aperto e in questo senso indeterminato. Questo però non è che la metà del vero, poiché, se i fatti sono incancellabili, se non si può più disfare ciò che è stato fatto, né fare in modo che ciò che è accaduto non lo sia, in compenso il senso di ciò che è accaduto non è fissato una volta per tutte» (ibid., pp. 40-41), anzi richiede continuamente di essere ripensato, com-preso, ossia, preso in carico da un’interpretazione che provi a farne emergere il significato, magari rileggendolo alla luce di nuove esperienze o dell’allargamento dei nostri orizzonti cognitivi, grazie ad un’offerta anamorfica che si riveli capace, si potrebbe dire con Maurice Merleau-Ponty, “di condurre a espressione le cose stesse dal fondo del loro silenzio” (M. Merleau-Ponty 1964, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano, 1999, p. 32.)
Si possono qui scorgere echi involontari della funzione che Walter Benjamin assegnava alla memoria storica: assumere su di sé, nel presente, la “debole forza messianica che ci è stata data in dote dalla generazione che ci ha preceduto” e che chiede di non essere dispersa, tradita, misconosciuta (W. Benjamin, Tesi di Filosofia della storia, in Angelus Novus, Einaudi, 1962, p. 76.). Contro la “meretrice dello storicismo che recita c’era una volta”, (p. 85) Benjamin invita a concepire la storia come “l’oggetto di una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, [dei calendari] ma quello pieno di attualità” (p. 83).
Non basta dunque ricordare il passato, occorre riviverlo adesso, con grande partecipazione emotiva ma con rinnovata capacità interpretativa. La psicoanalisi chiama rielaborazione questa operazione, attraverso la quale l’individuo torna a interrogarsi su quanto ha precedentemente sperimentato ma non ha saputo comprendere realmente, ed invita a distingue tra vissuto e esperienza. Il primo non è che la registrazione, soprattutto emotiva, di una situazione che, non essendosi potuta integrare pienamente in un contesto significativo, ha lasciato una traccia psico-emotiva immediata, cioè non mediata dalla capacità di comprenderla, di darle senso; l’esperienza è invece l’esito di un passato significativo dal quale possiamo trarre un insegnamento perché, proprio tornando a interrogarne il valore, scegliendo volontariamente di dargli risonanza e ospitalità, possiamo comprenderne il senso o divenirne coscienti.
Si tratta di un’operazione fondamentale perché, spiega Freud, “ciò che è rimasto capito male ritorna sempre; come un’anima in pena, non ha pace finché non ottiene soluzione e liberazione” (S. Freud, Caso clinico del piccolo Hans, in Opere n. 5, p. 570). Questa convinzione, al cuore del celebre concetto della coazione a ripetere, non fa in fondo che riformulare in chiave psicoanalitica la famosa massima secondo la quale, “chi non conosce la storia è condannato a ripeterla”, ponendosi attivamente, nel presente, in situazioni penose che altro non sarebbero che la ripetizione di vecchi irrisolti del passato. È infatti proprio ciò che non è stato compreso a tornare sotto forma di agito, ossia di impulso irriflesso, incontrollato, incurante delle conseguenze negative alle quale può andare incontro, perché incapace di fare tesoro di quanto sperimentato nel passato.
Nel saggio del 1914 Ricordare, ripetere e rielaborare, Freud contrappone chiaramente la ripetizione al ricordo consapevole affermando che le dinamiche conflittuali rimosse ritornano «non sotto forma di ricordo, bensì sotto forma di azione» (S. Freud, Opere 1912-1914, Torino Boringhieri, 1975. p. 356). Non si tratta, tuttavia, di una condanna irreversibile perché, come ha splendidamente scritto María Zambrano:
Certo non basta la ricostruzione dei fatti perché il passato sprigioni una parola di verità poiché per noi, come ha definitivamente spiegato Nietzsche, “non ci sono fatti ma solo interpretazioni”, nel senso che, per dirlo con Lacan, “questo reale non abbiamo nessun altro mezzo di apprenderlo - su tutti i piani e non solo su quello della conoscenza - se non grazie all’intermediario del simbolico” (J. Lacan, Il seminario II, 1954-55, Einaudi, Torino, 2001, p. 111). Nonostante i molti equivoci questa frase significa che i fatti certamente contano e sono spesso indiscutibili - chi potrebbe negare di star leggendo questo articolo? - ma che tuttavia per noi esseri umani è possibile coglierli realmente solo nella misura in cui ci riesce di comprenderli, di scorgervi cioè un significato, un senso e di trarne un insegnamento, che, per l’appunto, li sappia “condurre a espressione dal fondo del loro silenzio”.
In questo senso, se vogliamo redimere il passato, liberarlo dal suo esilio e liberare a nostra volta la vita dall’asservimento a schemi che si ripeterebbero identici, come nel mito di Sisifo, dobbiamo rielaborarlo. Anziché “ripetere il contenuto rimosso nella forma di un’esperienza attuale”, (S. Freud, Inibizione, sintomo e angoscia, 1924-1929, Opere. Vol. 10, Bollati Boringhieri, 1985, p. 204) dobbiamo imparare ad attualizzarne il ricordo, a lavorarlo, a ricostruirlo, inserendolo dentro un nuovo orizzonte di senso. Freud parla proprio di “costruzione” - ecco un’altra consonanza con l’idea di Benjamin della storia come “oggetto di una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, ma quello pieno di attualità” - e conia il termine di “posteriorità” per indicare la rielaborazione a posteriori di un evento che risulta finalmente comprensibile solo grazie al sopraggiungere di esperienze o condizioni che permettono al soggetto che lo aveva vissuto in precedenza di accedere a un nuovo tipo di significazione, che glielo rende finalmente comprensibile e, dunque, davvero sperimentabile.
Naturalmente la presa di coscienza di contenuti inconsci non viene modificata dal ricordo di un particolare o da una ricostruzione più dettagliata della scena che torna alla memoria, ma piuttosto dallo scuotimento emotivo che un’ipotesi di rilettura o una suggestione comparativa producono nel soggetto che si dispone a ripensarne il senso da nuovi punti di vista. Non si tratta, ribadisco, di ricostruire i fatti ma il significato che essi hanno assunto per noi paragonandolo a quello che possono acquisire ora, alla luce di nuove esperienze e dell’evoluzione della nostra personalità.
In gioco c’è il desiderio, presente in ciascuno di noi, di offrire una nuova chance a quelle opportunità che in passato non siamo stati capaci di cogliere, a quelle esperienze che non ci è riuscito di vivere appieno, nel tentativo, solo apparentemente paradossale, di riviverle e al tempo stesso di trasformarle, per accedere a possibilità d’essere che rompano l’incantesimo della coazione a ripetere e aprano la strada alla opportunità di essere più pienamente noi stessi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PSICOANALISI E FILOSOFIA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana .....
DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE. FACHINELLI, "SU FREUD".
“VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETTERATURA...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
VITA E FILOSOFIA: "NICODEMO O DELLA NASCITA". Sulla strada di Enzo Paci.... *
Idee.
Se il laico Polito, come Nicodemo, vuole risorgere a nuova vita
In un libro il giornalista affronta da non credente l’urgenza personale e sociale di trovare una strada alternativa all’imperante e acritico giovanislimo consumistico trovando una sponda nel Vangelo
di Francesco Ognibene (Avvenire, martedì 30 aprile 2019)
«Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?». Lo stupore di Nicodemo nel colloquio notturno con Gesù, riferito dal Vangelo di Giovanni, condensa l’eterna incomprensione dell’uomo rispetto alla possibilità di «rinascere dall’alto», di ricominciare a qualunque età come il Signore propone all’inquieto fariseo non più sazio di quel che è e che sa, tanto da interrogarsi su di sé, ma senza darlo a vedere (e infatti va dal Maestro al riparo delle tenebre). Il dialogo sotto la volta stellata propone la ricerca senza fine di chi per esperienza e posizione sociale potrebbe sentirsi a posto e che invece si sente attratto dalla possibilità solo intravista di scoprire, lui già maturo, la possibilità di un nuovo inizio.
La domanda di Nicodemo torna con prepotenza tra le pagine del recente libro del giornalista Antonio Polito Prove tecniche di resurrezione. Come riprendersi la propria vita (Marsilio), che in una premessa e dieci sfide lanciate alla vita quotidiana traccia un laicissimo percorso autobiografico attraverso «il ribaltamento di prospettive che sto vivendo con l’avanzare dell’età», cioè l’inesorabile cernita nel proprio zaino esistenziale quando si veleggia ormai oltre i 60 nella più apparente normalità, ma con una contabilità dell’essenziale e del superfluo in pieno svolgimento nella stiva del cuore. Si tratta di decidere se lasciarla inascoltata fingendosi giovani per sempre oppure cogliere senza patemi quello che Polito definisce «avviso di mortalità», respingendo la pressione dello «spirito del tempo» che con tono suadente «suggerisce che sentirsi invecchiati sia indice di un disagio psichico». Non è «la solita crisi di mezza età», ma una vera e propria «rivelazione» dopo la quale a una coscienza sincera «tutto sembra diverso». E si capisce che serve un gesto forte, una ribellione. O una rinascita.
L’obbligo ingiunto alla fascia più adulta della società (numericamente sempre più rilevante) di vestire abiti di un’altra taglia ha una tale forza cogente che Polito ne parla come di una vera ideologia, il cui assunto centrale è che, «come il sesso nelle teorie del gender, l’età "è quella che uno si sceglie"». Un simile obbligo sociale finisce però col neutralizzare la domanda a occhi sgranati di Nicodemo: davvero posso risorgere in vita? La tensione «insopportabile» tra il sé percepito interiormente e l’immagine sociale a cui adeguarsi è «tra ciò che ormai si sa di essere e ciò che gli altri vorrebbero che si continuasse a fingere di essere». Prendere sul serio il tempo che passa ci pone nelle condizioni di comprendere il segreto di ogni età, le risorse impareggiabili che la connotano, il meglio di sé all’orizzonte e non dietro le spalle. Tattiche autoconsolatorie? Tutt’altro: è la chance di un nuovo inizio, quello che l’ascesi cristiana definisce "cominciare e ricominciare" e che nel libro Polito chiama «possibile resurrezione laica».
Il credente, per mano a Dio, mai dovrebbe pensarsi tramontato, perduto, spacciato, col count down che ticchetta. Ma anche i termini secolari risuonano di questa intuizione cristiana: il problema di chiudersi dietro le spalle la porta della pretesa di eterna giovinezza, annota Polito, «non si risolve provando a tornare ciò che si era prima, da giovane, trasformandosi in un replicante del sé di un tempo. Richiede piuttosto la soluzione opposta: si deve provare a rinascere, a cambiare se stessi, a diventare diversi e possibilmente migliori».
Di educazione cattolica, Polito riconosce che è proprio quell’imprinting a impedirgli oggi di credere nella risurrezione annunciata dai Vangeli: quella dai morti «è competenza dei credenti, e io non lo sono», ma «arrivato a questo punto della mia vita sento ugualmente un impellente e disperato bisogno di risorgere».
Come si fa a volere «una cosa in cui non si crede?». Domanda senza sconti a cui il giornalista risponde riconoscendo che «l’idea di un Dio motore primo dell’universo non è così inconciliabile con la ragione, né con le leggi della natura rivelateci dalla scienza di Darwin e di Einstein». E anche sulla morale di stampo cristiano l’autore afferma che «più mi guardo intorno e meno trovo in giro princìpi etici più moderni e condivisibili di quelli introdotti oltre duemila anni fa dal cristianesimo». Non solo: «L’etica cristiana mi pare oggi l’unica che ci consenta di mantenere un rapporto con la dimensione del "naturale", di fronte alla hybris di un’epoca che crede di potersene far beffe, fino a terminare la vita senza morte o ad affittare uteri per generarla».
Recuperare il senso del limite - sapersi mortali davvero -, con la domanda di Nicodemo nel cuore, libera dalla dittatura dell’efficienza e dello sciocco giovanilismo. Se i cristiani l’hanno perso di vista, è bello farselo ricordare da chi c’è arrivato per un suo diverso e liberissimo percorso. Disponendosi ad accogliere l’intuizione dell’uomo risorto in vita, così espressa poeticamente da papa Francesco: «Sussurratevelo fino a crederci: il vino migliore sta per arrivare».
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
HUSSERL CONTRO L’HOMUNCULUS: LA ’LEZIONE’ DI ENZO PACI AI METAFISICI VISIONARI (ATEI E DEVOTI) DI IERI (E DI OGGI).
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI....*
La sinistra e le dimissioni dei filosofi dal secolo dei diritti
Sinistra. Le Dichiarazioni universali, le Costituzioni post-belliche, le Carte europee dei diritti.
La ragion pratica, almeno riconosciuta sulla carta, è stata poi abbandonata
di Roberta De Monticelli (il manifesto, 30.04.2019)
II Che un filosofo si metta a ragionare di politica, per di più in termini di vasti orizzonti contemporanei, e sollevando problemi effettivi dell’oggi, è solo ammirevole: tanto più se il problema principale che affronta è precisamente la mancanza di idee, oltre che di ideali, della sinistra di oggi, italiana ed europea. Grazie dunque a Maurizio Ferraris di averci provato (Dovrebbero essere i Big Data a pagare il Welfare del futuro, il manifesto” 19/04). Aiuterà, il suo consiglio?
Credo che Ferraris abbia soprattutto inteso lanciare un’intelligente provocazione a pensare. Credo si possa essere d’accordo sulla tesi che la sinistra è (almeno in parte) in difficoltà non perché abbia mancato i suoi obiettivi, ma perché li ha conseguiti. Anche se certamente non una volta per tutte: e per amor di verità bisognerebbe aggiungere che il welfare oggi soffre terribilmente, a partire dalla sanità pubblica, che la scuola pubblica italiana è in via di smantellamento in ciò che aveva di buono, che la ricerca in Italia è finanziata sotto qualunque livello di decenza, che in troppi dei posti in cui un po’ di lavoro è rimasto, è proprio (anche se non solo) la sinistra (di governo e amministrazioni locali) che ha accettato di farlo pagare a tutti in termini di devastazione dell’ambiente e della salute; che al problema dell’integrazione dei migranti la sinistra non ha dedicato lo straccio di una proposta nazionale, e infine che evasione, corruzione e mafie gravano sul paese come e più di sempre, con qualche aiutino in termini di modica quantità di truffa fiscale, e se non è un obiettivo di “sinistra” quello di estirpare questi tre cancri allora non ha senso dire che i pochi elettori della cosiddetta élite rimasti a votare a sinistra lo fanno per ragioni etiche. Il che invece è verissimo.
Ma a questo bisogna aggiungere che - come i fatti evocati dovrebbero provare - i fini stessi in funzione dei quali, anche, il welfare doveva esistere, e cioè l’accesso dei più all’istruzione, alla consapevolezza dei propri doveri e diritti di cittadino, direi addirittura all’età adulta e alla responsabilità morale e civile, oltre che a una vita più libera e migliore, non sembrano affatto conseguiti. E del resto perché e come avrebbero dovuto esserlo, se prima di tutto hanno smesso di crederci - a proposito di etica - quei pochi o molti per i quali “sinistra” era il nome politico di un nucleo umanistico, universalistico e cosmopolitico di pensiero, cresciuto insieme con la modernità nell’età dei diritti e di tutte le loro generazioni - civili, politici, sociali, culturali, che erano andati a furia di battaglie e di tragedie a formare la cosa di tutti, la res publica che valeva la pena di difendere.
E allora, veniamo al dunque. La sinistra non ha perso gli ideali perché è rimasta a cercarli nei campi e nelle officine. Li ha persi perché quelli che di idealità si occupavano - cioè i filosofi, comunque vogliate chiamarli: intellettuali, scrittori, e poi la minoranza pigra e grigia degli accademici, noi insomma - hanno smesso di occuparsene. Maurizio Ferraris stesso ne è testimone, sia nella veste giovanile che in quella matura del suo postmodernismo. Ma abbiamo smesso proprio nel momento in cui la migliore eredità dei Lumi, e insieme la dolorosa cognizione dei valori sofferta nella prima metà del secolo scorso, fra guerre e totalitarismi, si fondevano nella ragion pratica incarnata dei grandi documenti normativi: le Dichiarazioni universali, le costituzioni postbelliche, le Carte europee dei diritti. I filosofi diedero le dimissioni dalla ragione pratica nel momento stesso in cui i migliori fra i nostri padri e madri erano riusciti miracolosamente a incarnarla in embrioni di istituzioni e norme, a provarla, per la prima volta nella storia, universalmente riconosciuta, almeno sulla carta.
Ma la lettera è morta, senza lo spirito. E lo spirito è evaporato quasi subito. Sono rimasti un pugno, fra i filosofi, gli spiriti liberi che non si fecero incantare dai cupi, feroci miti della guerra fredda: i Camus contro i Sartre, i Milosz contro i Lukacs, gli Spinelli e gli Olivetti contro i Banfi e i Kojève... e poi? Poi i francesi sdoganarono il Pastore dell’Essere, quello che prima aveva affidato ai carri armati di Hitler la guerra dell’Essere conto l’ente, e poi aveva fatto spallucce ai campi di sterminio (tanto gli ebrei, questi paradigmi della modernità capitalistico-finanziaria e sradicatrice, “si erano sterminati da soli”).
Con la modernità illuminista ce l’avevano anche gli eredi di Hegel e Marx (l’Illuminismo conduce ai campi di sterminio, copyright Horkheimer). E da questo felice incontro della più nera Selva nera con la dialettica hegeliana nacque il canone della filosofia cosiddetta continentale, quella che per cinquant’anni abbiamo continuato a insegnare perfino nelle scuole. Come sia andata a finire in Italia, per quel po’ di idealità (di filosofia) senza la quale la sinistra annaspa e muore, è cosa nota: ci fu la Coscienza Sprezzante, più realpolitica e decisionista di Carl Schmitt, che poi andò sfumando in teopolitica e teologia negativa. E ci fu la Coscienza Danzante, per le cui maschere senza volto valori e verità sono violenza, tutto è gioiosamente relativo e i fatti cosa da talebani: e Maurizio Ferraris ne è testimone. Così la sinistra rimase senza ragioni. Anzi senza ragione. Altro che campi e officine.
Adesso, nel ventunesimo secolo, all’umanità intera, liberata dal lavoro ceduto agli automi e ben nutrita dalla socializzazione del capitale documentale (qualunque cosa esso sia) potrebbe aprirsi la prospettiva “di una vita dedicata interamente alla produzione di valore”: cioè al consumo, al turismo, alla scrittura, perché ormai il valore si produce così, poi basta socializzarlo e il gioco è fatto.
Supponiamo che sia vero e possibile: sarebbe diverso da un incubo alla Brave New World, la Repubblica dei Felici, liberati da ogni angoscia di dover fare qualcosa di sé stessi senza per questo annichilire gli altri? Che poi è la questione che starebbe al fondo di tutto l’umanesimo e l’idealità e la ragione pratica e la filosofia. Meglio dimenticarsene. Intanto ci stiamo portando avanti: complice il nostro silenzio, si abolisce per decreto lo studio della storia, e in primo luogo del Novecento, obsoleto, che poi tanto non si fa in tempo a farlo. Senza memoria, il pensiero forse è più intelligente, chissà. Certo è un pensiero spensierato.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"NUOVO REALISMO", IN FILOSOFIA. DATO L’ ADDIO A KANT, MAURIZIO FERRARIS SI PROPONE COME IL SUPERFILOSOFO DELLA CONOSCENZA (QUELLA SENZA PIU’ FACOLTA’ DI GIUDIZIO).
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
"ANDRAGATHIA" (’NDRANGHETA). IL MONDO COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE DEL MACROANTROPO ("UOMO SUPREMO", "SUPERUOMO", "DOMINUS IESUS"): FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-POLOGIA" ATEA E DEVOTA....
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
Federico La Sala
DOPO “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETTERATURA: ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA ....
Tre note... *
A) - EUROPA, STRASBURGO 1770: CON “MARIA ANTONIETTA” IN VIAGGIO PER VERSAILLES.
Nel 1770 a Strasburgo, nei pressi del confine del Sacro Romano Impero con la Francia, Goethe “guarda un arazzo che narra le storie di Giasone, di Medea e di Creusa”, preparato “per le feste in onore dell’arrivo della sposa” di Luigi XVI di Borbone, Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena che si stava trasferendo a Versailles, e così commenta: «dunque un esempio del più infelice matrimonio»!
Goethe mostra di avere una conoscenza superficiale della leggenda di Giasone, e della sua nave Argo, e del come e del perché sia arrivata proprio lì, sulle sponde del Reno, in quell’ambiente e per quella occasione, e, colpito, ne resta segnato per moltissimi anni: “era «estremamente» indignato dalla scelta e glien’è restato - commenta Curtius - il ricordo se dopo quarant’anni lo ritiene ancora degno di esser raccontato (Dichtung und Warheit, II, 9)”.
Nel 1950, Ernst R. Curtius, che ha già pubblicato nel 1947 “Letteratura europea e Medio Evo latino”, in un saggio intitolato “La nave degli argonauti” (cfr. Id.,“Letteratura della letteratura”, Saggi critici a cura di Lea Ritter Santini, Bologna 1984, pp. 301-325), quasi a conclusione, dopo aver ricordato che per Dante “il viaggio di Giasone è la più stupefacente impresa di tutti i tempi” e premesso che “il pensiero storico di Dante ha bisogno di prospettive millenarie - come quello di Goethe,” così prosegue e commenta: “A guardarlo oggi, Goethe si avvicina sempre più a Dante, e non solo nel tempo. Come Dante, anche egli rappresentò ancora una volta il Thesaurus della tradizione europea. Anche in lui troviamo il mito degli Argonauti”.
Curtius cosa sta cercando di dire - e di fare con le parole, con queste parole? Cambiata di segno, la sua affermazione appare essere una forma di sollecitazione subliminale volta ad avvicinare sempre più Goethe a Dante, sino a portarci a pensare: «dunque un esempio del più felice “matrimonio”»! Ma qualcosa resiste, sia nella memoria di Goethe sia di Curtius e fa emergere un non-detto del messaggio. Un’ipotesi: forse, e per caso, sono le stesse parole “sussurrate” al cuore e alla mente di Maria Antonietta dalla madre, l’Imperatrice Maria Teresa d’Austria, al momento del suo trasferimento a Parigi: «Rimanete una buona tedesca!», «Rimanete un buon tedesco!»?!
Incredibilmente Curtius - pur sapendo che “Giasone, nel XVIII canto dell’Inferno, compare fra i seduttori e Virgilio glielo presenta con ammirazione”, che “la nobile e bella figura giovanile di Giasone era già piaciuta ad Ovidio” e, ancora, che “Dante va oltre” lo stesso Ovidio e gli attribuisce “i tratti dell’eroe ideale” riservati “ai suoi prediletti” - fa sua la maschera di Goethe (“Der Bautigam” è il titolo di una sua poesia del 1829), divenuto egli stesso un Argonauta (“Linceo è l’Antifaust, Linceo è Goethe, l’argonauta trasformato”) e, nel tentativo di avvicinarsi “sempre più a Dante”, ricorda più il Thesaurus (il “Tresor” e il “Tesoretto”) della tradizione di Brunetto Latini, che quello della “Divina Commedia”, della nuova Argo, la nave del viaggio terrestre e celeste di Dante - più il Vitello (“T-aurus”) d’oro della tradizione egiziana, che il Vello d’oro dell’Ariete di Giasone e del Vello d’oro dell’Agnello di Dante. Che cagliostrosità!
Dopo i “venticinque secoli a la ‘mpresa” di Giasone (Dante, Par., XXXIII, 95), Curtius - ipnotizzato dalla magia di Goethe, che “scherzando” si autodefiniva “un Argonauta”, prende la sua maschera tratta fuori “dall’esatta descrizione storica dei mitologi”, e fa suo “il suo testamento. In ogni età c‘è una Argo, come aveva predetto Virgilio: «Ci saranno ancora un altro Tifi e un’altra Argo a trasportare eroi eletti»”.
Ma per quale destinazione?! Ancora e sempre per Versailles?!
Non è meglio uscire dal “letargo”, svegliarsi dal “sonno dogmatico”, e uscire “a rivedere le stelle”?!
B) - L’EUROPA, DOPO “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETTERATURA.
A commento dei “tratti dell’eroe ideale”, attribuiti da Dante a Giasone, in nota, Curtius] così scrive: “Una anticipazione del romanticismo burgundo che circonda Giasone. Filippo il Buono di Borgogna sposò nel 1430 Isabella del Portogallo. In questa occasione - o forse quale omaggio alla popolazione di allora, stupenda nel navigare - fondò l’ordine del Toson d’Oro. I suoi protettori erano Giasone e Gedeone. Anche nella loro storia un vello miracoloso aveva avuto la sua parte (Libro dei Giudici, IV, 36-40). Un auto sacramentale di Calderón si intitola La Piel de Gedeon (1650), stampato nella edizione di Pando y Mier (1717), vol. III; in tedesco in F. Lorinser: Calderóns geistliche Festpiele, vol IX. Sul romanticismo di Giasone: v. Georges Doutrepont, La Littérature Française à la Cour des Ducs de Bourgogne, 1909, pp. 147-176” (cfr. Ernst R. Curtius, Letteratura della letteratura..., op. cit., pp. 317-318).
Benché nella “Letteratura europea” (1947) abbia citato il lavoro dello storico olandese Johan Huizinga (morto nel 1945), in particolare l’opera “L’autunno del Medio Evo” (del 1919), una straordinaria lettura del “secolo della Borgogna”, ove si racconta diffusamente di “ordini e voti cavallereschi”, della nascita dell’ordine del Toson d’oro, ecc - ora, qui, nel saggio “La nave degli Argonauti” (1950), Curtius non ne fa alcun cenno; e, addirittura, delle opere di Calderón cita solo “La Piel de Gedeon” (ma non “El divino Jasón”, “El divino Orfeo”, “El Laberinto del Mundo”, ecc.)!
Cosa è successo?! La “maschera” di Goethe, forse, gli ha giocato giocato un brutto scherzo e lo ha costretto a rimettersi nei panni di Faust? Incredibilmente, già in “Letteratura europea e Medio Evo Latino”, dato per valido il calcolo dei “venticinque secoli” di Dante dall’impresa di Giasone (Par., XXXIII, 95), tre anni prima (1947), egli aveva già scritto: “La letteratura europea abbraccia il medesimo periodo di tempo della cultura europea, comprende cioè circa ventisei secoli (calcolati da Omero a Goethe” (p. 20).
Che dire? Davvero “Goethe si avvicina sempre più a Dante”?! Boh?! Bah!
C) - CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. A che gioco giochiamo?!
Nel 1929, in un breve saggio dedicato a "Hugo Hofmannsthal. In memoriam" (op. cit., pp. 165-176), Curtius scrive: "La regalità era la figurazione più interiore nel rapporto tra Hofmannsthal e il mondo. La funzione di poeta non era per lui che una delle forme in cui essa si manifestava [...] tutte le opere di Hofmannsthal tendono verso la forma ideale di un theatrum mundi, un poema cosmico allegorico-simbolico che eleva il caso dell’esistenza all’ordine delle grandi leggi, che nel temporale, fanno apparire l’eterno. L’allegoria non è qui indebolita ricchezza di vita e la maschera non è apparenza, al contrario, soltanto quando riusciamo a vedere la deformazione, la maschera della nostra esistenza, ne comprendiamo il senso e la verità più profonda".
E poco oltre, condividendo il programma e lo spirito della sua “rivoluzione conservatrice”, così prosegue : "La nostra poesia ha molto sentimento del mondo (Weltgefuhl), ma poco mondo: ha molte visioni del mondo (Weltanschauungen), ma mediocre ne è la sua conoscenza. In Goethe esisteva la possibilità di unire i due aspetti e ristabilire le giuste proporzioni. Ha dovuto condurre il suo Faust alla corte dell’imperatore: era anzi ancora legato all’impero e colorate feste d’incoronazione avevano illuminato la sua infanzia. Non ha sentito più battere il cuore dell’impero [...] L’orizzonte universale del vecchio impero asburgico era stato dato in eredità a Hofmannsthal. Vienna e Madrid non ne facevano meno parte [...]". E, così chiude: “Hofmannsthal ha raccolto nel suo tesoro reale, i beni più preziosi del linguaggio e dell’anima dei paesi latini: noi lo conserviamo come la sua eredità, come «munus Austriacum»”.
Nel 1932 fa il passo “decisivo”: pubblica “Deutscher Geist in Gefahr “ (“Lo spirito tedesco in pericolo”), un libro (una raccolta di articoli di quegli anni), e nella postfazione, confidando nella “metafisica dello spirito”, chiude con il richiamo al “Veni creator spiritus” - “l’inno del franco-renano Rabano Mauro” (“Mille anni più tardi un altro franco-renano, Goethe, ha tradotto questo “splendido canto religioso” e lo ha definito un “appello al genio”) - e con l’auspicio che “sotto questo segno la fede nella Germania e la fede nello spirito possono trovarsi legate e confermate” (cfr. Ernst R. Curtius, “Lo spirito tedesco in pericolo”, in Annamaria Bercini, “Il discorso politico culturale del «Deutscher Geist in Gefahr» di Ernst Robert Curtius”, Bologna 2015)
Le illusioni di Curtius di diventare una guida spirituale della “rivoluzione conservatrice” sono infondate e vengono spazzate via in un baleno: “Il 24 marzo del 1933, subito dopo l’ascesa al Reichstag di Hitler, sul Beiblatt del «Völkischer Beobachter», il giornale ufficiale del partito nazista sin dal 1920, comparve un durissimo articolo di Hermann Sauter (che di lì a qualche anno diverrà direttore della Stadtbibliothek di Monaco), Deutscher Geist in Gefahr? , che era in effetti una stroncatura senza appello del libro di Curtius. L’assenso di Curtius alla missione tedesca è, come si può vedere, in realtà una negazione del nuovo, potente volere tedesco. Ma questo è il nostro credo: che il vero spirito tedesco otterrà nuovamente onore, e sarà capace di avere valenza mondiale, quando sarà ripulito dal peso accumulato nella cosiddetta libertà spirituale del decennio passato. Sauter concludeva con quello che appare un vero avvertimento da mafioso. Curtius può avere ancora un ruolo importante nella nuova Germania, ma a patto di non tentare più di fare il Kulturpolitiker, perché non capisce nulla dei fondamenti autentici - cioè biologici - della cultura tedesca.” (cfr. Carlo Donà, “Lo spirito tedesco e la crisi della mezza età: «Deutscher Geist in Gefahr» (1932)” ).
Dopo la catastrofe della Germania del “Terzo Reich”, Curtius ancora non capisce: continua il suo “sogno” calderonico e la “vacanza” nel suo “illuminato” (contro e) pre-illuministico “stato di minorità” (I. Kant, 1784). E nel 1947, come se niente fosse successo, alla fine del primo capitolo di “Letteratura europea Medio Evo latino”, intitolato “Letteratura europea”, con un “occhiolino” a Benedetto Croce (e alla memoria di Hegel), riprende il lavoro per il “nuovo ordine culturale”, già proposto nel “Deutscher Geist in Gefahr” del 1932, e ricomincia: “Della letteratura europea l’eroe fondatore (heros ktistes) è Omero, l’ultimo autore universale è Goethe. Ciò che questi rappresenta per la Germania lo ha riassunto Hofmannsthal [...] La letteratura del secolo XIX e dell’inizio del XX non è stata ancora scandagliata, in essa non è stato ancora distinto ciò che è vivo e ciò che è morto. Ciò potrà dare materia per molte dissertazioni, la parola decisiva sarà però pronunciata non dalla storia della letteratura, ma dalla critica letteraria. Per questo compito noi, in Germania, abbiamo Friedrich Schlegel - e seguaci” (op. cit., p. 24)!
Purtroppo, per Curtius, che è vissuto e cresciuto all’interno di coordinate storico-culturali da Sacro Impero (romano, spagnolo, e germanico), e nelle cui orecchie risuona ancora l’ordine dato a Maria Antonietta dalla Madre-Imperatrice (“Rimanete un buon tedesco!”), “la vita è sogno” e non c’e alcuna possibilità di riconsiderare critica-mente né il lavoro di Ernst H. Kantorowicz (anch’egli vicino al “cerchio” di Stefan George) sulla figura dell’Imperatore Federico II (1927/1931), né tantomeno “l’autunno del Medio Evo”, il “declino del simbolismo” e la lezione su Dante di Johan Huizinga ("L’autunno del Medio Evo" [1919, 1921, 1928]): “[...] per indicare il rapporto fra l’autorità spirituale e quella temporale il Medioevo si serviva costantemente di due similitudini simboliche [...] La forza del simbolo è tale da intralciare l’indagine sullo sviluppo storico dei due poteri. Dante, avendo riconosciuto la necessità e il valore decisivo di tale indagine, si vede costretto, nel suo Monarchia, a spezzare prima la forza del simbolo, contestando la sua applicabilità, ed aprendosi così la strada alla ricerca storica".
La totale incomprensione del “relazionismo” proposto da Karl Mannheim in “Ideologia e Utopia” (1929), esaminato e rigettato nel capitolo quarto dello “Spirito tedesco in pericolo”, impedisce a Curtius di aprire gli occhi su stesso e sul mondo, di uscire dal relativismo-assolutismo dogmatico in cui naviga, e di smetterla di sognare il “sogno dei visionari” (sul tema, mi sia lecito, cfr.: “Heidegger, Kant, e la miseria della filosofia - oggi”).
“Sogno o son desto?”: a che gioco si continua a giocare? Non è meglio cambiare gioco!? Per l’Europa - e per l’intero Pianeta? Boh? e bah!?
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Federico La Sala
Cultura
Se la poesia guarda ai migranti per indagare l’ignoto dentro e fuori di noi
Scaffale. "Muri e Mari" di Marco Cinque per le edizioni Ensemble. Una raccolta, introdotta da Jack Hirschman e illustrata da Mauro Biani, in cui la tensione poetica è drammaticamente sospesa, mai fine a se stessa, fino a diventare intento, forza che spinge ed attira verso la conoscenza dell’"altro": il migrante, uomo, donna, bambino, in mare, a Roma o in ogni altro posto, è il Giusto, l’essere che in sé porta la Salvezza
di Raffaele K. Salinari (il manifesto, 27.03.2019)
Per Anatole France il vero significato della parola «viaggiare» era quello del cambiare opinioni e pregiudizi. Per Osip Mandel’stam invece che, una volta, chi non aveva viaggiato non osava scrivere. In questa raccolta di poesie, di cronache in versi, di immagini che si fissano nelle pieghe dell’anima, traspaiono esperienze vissute e condivise: chi scrive non solo ha viaggiato, ma accolto in sé l’altro, il diverso per eccellenza, l’alieno che viene dal nostro stesso altrove: il migrante.
Ma chi è il migrante per Marco Cinque? Chi è questo totaliter aliter che, alla fine, sostanzia la parte più profonda di noi e ci invita a ri-guardarci alla luce interrogativa che ogni esperienza vitale suscita e accende? Qui, in queste pagine di Muri e Mari (edizioni Ensemble) con l’introduzione di Jack Hirschman, «poeta laureato emerito», come si definisce nella prefazione, e l’evocativa copertina di Mauro Biani, la tensione poetica è drammaticamente sospesa, mai fine a se stessa, una tensione che così diventa intento, in-tensio, forza che spinge ed attira verso la conoscenza dell’ignoto dentro e fuori di noi: il migrante, uomo, donna, bambino, in mare, a Roma o in ogni altro posto, è il Giusto, l’essere che in sé porta la Salvezza.
Ad un certo punto del folgorante saggio sull’opera di Nikolaj Leskov, Walter Benjamin ci introduce alla sua originalissima idea di apocatastasi: la Salvezza universale attraverso il ritorno di tutti gli esseri alla pienezza originaria. Il sentiero che invita a percorrere da quel momento è, come spesso nel suo stile, notturno e sotterraneo: pieno di oscure analogie e necriche metafore che però, alla fine, seguendo la mappa tracciata dal suo immaginario messianico, ci portano al cospetto di una splendente verità.
Come guida naturale del tortuoso cammino verso la verità del nostro essere nel Mondo, del nostro esserci, Benjamin staglia dai racconti di Leskov questa particolarissima figura che egli chiama «il Giusto». Incarnazione complessa perché estremamente sfaccettata, maschera di volta in volta diversa, il viaggiatore, il pellegrino, il nomade, l’apolide, come i personaggi delle poesie di Marco Cinque, sono tra le sue incarnazioni più frequenti. In tutte queste versioni, che nel nostro tempo costituiscono il prisma della complessa figura migrante, il giusto mostra la sua essenza costante che si trasmette, di sfaccettatura in sfaccettatura, come in quelle Pathosformel che Warburg cercò di incasellare nel suo favoloso atlante Mnemosyne.
E non è Memoria questa raccolta di poesie? Benjamin parte da Bloch, citandone l’interpretazione del mito di Filemone e Bauci, nel quale si descrive la figura del Giusto come colui, «favolosamente scampato alla follia del mondo» e che, proprio mercé questa sua caratteristica, è in grado, attraverso i suoi racconti, di portare un annuncio di Salvezza, di apocatastasi appunto. Ecco perché queste poesie, tra l’altro splendidamente tradotte in inglese da Alessandra Bava, queste cronache, questi insight, che Marco Cinque ci offre, non parlano solo di vita, di salvezza fisica, di accoglienza, ma, purtroppo, anche di morte, di abbandono, di una tremenda ingiustizia egoista, della nostra indifferenza.
Molte pagine sembrano stagliare la figura migrante come talmente fragile che l’idea stessa che da questa possa venire un annuncio di Salvezza attraverso la loro stessa salvezza, sembra assolutamente incoerente. Ma, se ci pensiamo bene, se rimaniamo il tempo necessario nell’atmosfera di ogni pagina, della visione che ogni verso vorrebbe trasmetterci, non ci sovveniamo, ancora una volta che il pensiero dell’eternità ha sempre avuto la sua fonte principale nella morte?
Per attivare questa operazione favolosa che trasmuta i racconti di morte nella tensione massima verso la vita, l’autore, forse inconsciamente, o forse come forma della sua stessa esperienza esistenziale, potrebbe fare suo il motto di Johann Peter Hebel, quando dice che la morte è la sanzione di tutto ciò che il narratore può raccontare e aggiunge, «dalla morte egli attinge la sua autorità. O, in altre parole, è la storia naturale in cui si situano le sue storie». La morte come fonte di rinascita dunque è l’origine del racconto, la matrice della sua eternità. Come non vedere in questa affermazione la sanzione di queste pagine, la loro sottile fascinazione?
Prender cura
di Sarantis Thanopulos e Aldo Masullo *
Prender cura
di Sarantis Thanopulos e Aldo Masullo (il manifesto, 16 marzo 2019)
Sarantis Thanopulos. “C’è, Aldo, un gran parlare di cura. La cura della propria salute e di quella degli altri, della propria persona, della propria casa, delle persone care, dell’amicizia, del lavoro, degli spazi e degli interessi comuni. Si ha, tuttavia, una crescente percezione di incuria, a partire dall’indifferenza, macroscopicamente evidente, nei confronti dell’ambiente in cui viviamo e dalla trascuratezza che mostriamo nei confronti delle nostre relazioni affettive e erotiche, rese sempre più frettolose e superficiali.
La cura contiene due dimensioni problematiche dalle quali le è difficile emanciparsi. Il curarsi della superficie, lasciando fuori la complessità della profondità, che implica un elaborazione mai priva di difficoltà del nostro agire curante, e l’assistenza: curare l’oggetto del nostro investimento psicocorporeo, trattandolo di fatto come oggetto di manutenzione o come perennemente invalido, e quindi perennemente bisognoso della nostra azione compensativa.”
Aldo Masullo “Va detto, Sarantis, che l’antropologia del nostro tempo è segnata dalla tesi centrale di Heidegger: l’esistenza è “cura”, coinvolgimento strutturale dell’uomo nella vita del mondo. Esistere è portare sempre con sé il peso del mondo. La profondità di un tale coinvolgimento va considerata a livelli diversi, cioè risolta negl’impegni correnti della quotidianità o all’opposto espressa nel sentimento improvviso e inquietante che il tutto è nulla, e dunque nel senso devastante della propria nullità. Il termine tedesco Sorge significa appunto sia l’abituale “cura”, cioè ogni preoccupazione della quotidianità, sia l’“angoscia” che senza perché in certi momenti s’insinua “come nebbia” nell’anima, cioè il senso della nullità di tutto. L’attacco dell’angoscia viene per lo più prevenuto o almeno nascosto dal gioco delle svariate mascherature sociali, e così confuso con la dimestichezza della cura. Forse si coglie ancor meglio il nocciolo della questione, se si tiene presente che quanto più la cura si riduce al desiderio di narcisistica assistenza, incrementando la pigra passività, come la mascheratura sociale oggi dominante comporta, tanto più si sottrae all’uomo la sua forza più propria, l’azione come coraggio inventivo, piacere di formare se stesso nello scambio con altro e con gli altri.”
Thanopulos “Viene da pensare che la cura non possa ignorare l’angoscia, nessun coinvolgimento profondo può dissociarsi dal suo opposto, il senso del nulla la cui estensione misura l’incuria. Interrogata dall’angoscia, la cura non ha tuttavia come suo oggetto la sofferenza. Dire “curare il dolore”, è un modo comune di esprimersi, ma non è esatto. La cura è “un prendere cura” del gusto del vivere che include il patire. Come tu hai ben chiarito, un soffrire che è anche provare, esperire. Prendere cura implica la reciprocità, l’incontro di un coinvolgimento con un altro coinvolgimento. Nessuno si coinvolge da sé.
Masullo. “Vorrei ribadire il primato della cura di sé. Non è forse la sua assenza la malattia mortale della nostra società? Non aver cura di sé vuole appunto dire non coinvolgersi, non essere attenti alle differenze, in breve essere indifferente. Se leggo un libro, che pur mi piace e con i cui pensieri facilmente consento, ma non mi curo di approfondirne il discorso, coglierne le ragioni, seguire i fili più sottili della sua trama per rendere sicuro il mio consenso e provare la gioia di possedere un’immagine delle cose che mi mancava, se mi abbandono pigramente al consumato piacere della prima lettura, mostro di non aver cura di me, della mia intelligenza. Quanto alla reciprocità, essa è la forma complessa e completa della cura: è il momento in cui la vita, di cui abbiamo cura, ha a sua volta cura di noi.”
* SPI. Il Manifesto, 16 marzo 2019 Prender cura di S. Thanopulos e A. Masullo
Meditare la vita
di Moreno Montanari (Doppiozero, 20 Febbraio 2019)
Nonostante sia “mushotoku” ossia, secondo la definizione Zen, senza scopo né spirito di profitto, si parla spesso della meditazione a partire dai (molti) benefici psicofisici che è in grado di produrre in chi vi si dedica con una certa continuità; tuttavia tale approccio rischia di tradire il senso originario e decisamente più profondo di questa pratica che, come spiega con una prosa ispiratissima e a tratti poetica Chandra Livia Candiani, consiste piuttosto nel fare i conti con se stessi per provare, e non necessariamente imparare, a stare con quel che c’è:
Si tratta di un passo molto denso, sul quale vale la pena di meditare, che prende immediatamente le distanze da un uso strumentale della meditazione che è piuttosto presentata come un vero e proprio stile di vita, una postura grazie alla quale, zittendo il brusio del pensiero e delle sue rendicontazioni, ripristinare una certa intimità con il mondo.
Meditare, come scriveva infatti María Zambrano, “è riconquistare il sentire originario delle cose, del paesaggio, della gente, degli uomini e dei popoli, il sentire della realtà immediata che apre la realtà del mondo” (Delirio e destino, Raffaello Cortina Editore, 2000, p. 87).
Non si pensi che questo significhi accedere a una dimensione straordinaria: si tratta piuttosto di apprendere a prestare attenzione a quelli che Chandra chiama “i miracoli del noto, del così già tanto visto che lo si dà per scontato.” Riuscendo a fare “spazio intorno a quei gesti tanto ordinari”, la meditazione “li fa brillare e permette che aprano un varco nell’oscurità in cui si solito viviamo, nel nostro quotidiano sonno. Allora pian piano si ricevono le visite di quella consapevolezza” (p. 19) che si rivela una “forma di amore” (p. 40), una premura e un’attenzione realmente maieutiche perché capaci di facilitare la fioritura di ciò di cui si prendono amorevolmente cura, rivelandosi capaci, prosegue idealmente Zambrano, di chiamarle “non solo a rivelarsi, ma a divenire, a divenire presenti» (M. Zambrano, L’uomo e il divino, Ed. Il lavoro, Roma, 2009, p. 246), a farsi vive, direbbe, altrove, Chandra.
Che vuol dire che questa particolare forma di «intimità» con ciò che accade, in noi e fuori di noi, è «impersonale»? Significa che essa non pone più l’io al centro della propria narrazione ma il Sé, ossia, come spiegava Jung, qualcosa che “anche noi siamo”. L’esperienza che ne consegue non è affatto spersonalizzante, essa chiama anzi in causa l’intero psichismo dell’individuo, ma si dà in virtù di quella che la psicoanalista Marion Milner definiva “una resa creativa” dell’ego, (M. Milner, Una vita tutta per sé, Moretti &Vitali, 2013, pp. 207, 12 euro) grazie alla quale il soggetto smette di girare attorno al proprio ombellico, a parlare sempre di sé, per provare piuttosto a essere davvero presente a sé e a osservarsi. Scrive Chandra:
Una forma di meditazione zen invita a prendere coscienza dei propri pensieri e stati d’animo, a riconoscerli con chiarezza, a etichettarli con una definizione chiara (ad esempio “ansia”) e poi a dirsi, mentalmente, “non io”. Non siamo di fronte ad un invito alla negazione, tutt’altro, bisogna avere piena coscienza degli stati d’animo che ci attraversano, ma occorre imparare a non identificarsi con essi, ad esercitare quello che il buddismo chiama, “non attaccamento”. Questa capacità che “consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile all’oggetto”, spiega Simone Weil, si chiama “attenzione” (Simone Weil, Attesa di Dio, Adelphi, 2008, pp. 197) che a sua volta - come Chandra la consapevolezza e Zambrano il sapere filosofico - considera una forma d’amore.
Allo stesso modo, il pensiero non è affatto svilito nelle sue funzioni, al contrario; proprio perché non ha coperto le emozioni, sostituendosi ad esse, può rielaborarle e contribuire a chiarirne il senso, il significato, la portata, dando vita a quello che lo psicoanalista Thomas H. Ogden chiama “pensiero trasformativo”. Siamo di fronte ad un pensiero che segna “il passaggio da una mentalità basata sull’evacuazione dell’esperienza emotiva disturbante, non mentalizzata, a una mentalità in cui si prova a sognare/pensare la propria esperienza e, più avanti, il passaggio dalla conoscenza della realtà della propria esperienza, al divenire la verità della propria esperienza” (Thomas H. Ogden, Vite non vissute. Esperienza in psicoanalisi, Raffaello Cortina editore, 2016, p. 27).
Si capisce qui come quella sospensione del pensiero come atteggiamento giudicante o anche solo intellettualizzante che Chandra scorge al centro della meditazione e che, ancora una volta sotto altre forme, sta anche al cuore dell’analisi (“prego astenersi da giudizi” a vantaggio delle “libere associazioni”), non abbia nulla a che vedere con la condanna del pensiero, ma costituisca piuttosto un metodo per valorizzarlo appieno, imparando innanzitutto a prendere posizione sulle sue prese di posizione, permettendoci di comprendere come, spesso, gli schemi abituali attraverso i quali organizza la nostra esperienza non siano gli unici possibili.
Per questa ragione, lo psicoanalista Christopher Bollas si spinge ad affermare che “la psicoanalisi è una forma speciale di pratica meditativa che permette agli assiomi del sé di emergere” (C. Bollas, La mente orientale. Psicoanalisi e Cina, Raffaello Cortina Editore, 2013, p. 106). Nonostante si tratti di due percorsi di consapevolezza evidentemente differenti, è possibile scorgere tra loro alcune suggestive analogie che vorrei qui indicare: entrambi invitano a liberarsi dalle idealizzazioni per imparare ad essere se stessi e a stare con quel che (si) è, cosicché ciò che Chandra dice dell’esperienza della meditazione, vale senz’altro anche per quella della psicoanalisi: “non mi chiede di essere esemplare, non mi chiede di essere eroica, non mi chiede di tendere a niente di ideale, non cancella, non acuisce, sta. Con me. [mi permette di] Imparare a stare” (p. 4).
Non solo, dunque, non si tratta di percorsi per uscire dalla condizione che ci preoccupa ma, semmai, per imparare, come direbbe Hegel, “a soggiornarci, a guardarla faccia in ogni suo farsi,” (G. W. F. Hegel, La fenomenologia dello spirito, Bompiani, Torino, 2000, p. 87.) al tempo stesso non per accettarla e rassegnarsi ad essa ma, come spiega bene Chandra, per accoglierla (p.75) e solo dopo averla accolta, poterla rielaborare, sino a cambiarle di segno e di significato.
Certo è possibile che si abbia l’impressione che simili svolte, le stesse che sottolinea Ogden, avvengano all’improvviso, come a seguito di un insight particolarmente fecondo; tuttavia esse sono piuttosto il frutto di una pratica costante che nel tempo ci ha esercitato a stare, ad ascoltare, a comprendere e poi, grazie a questi passi, a concepire e vivere diversamente, ciò che ci faceva problema; non solo a inquadrarlo da un altro punto di vista, ma anche a porci diversamente rispetto ad esso.
Ma non si tratta di scoprire una verità profonda sull’esistenza, che si svela dietro le apparenze che la nascondevano, quanto, piuttosto, di sviluppare la possibilità di sperimentare, concepire e poi restare fedele, a una diversa maniera di vivere, di sentire, di concepire se stessi, il mondo e l’esistenza tutta. Una fedeltà che sarà stimolata da un senso di consonanza con ciò che nell’esercizio di queste pratiche sarà stato percepito come maggiormente autentico e significativo rispetto ai precedenti e abituali schemi di recettività e di elaborazione dei nostri pensieri e delle nostre emozioni.
L’irriducibilità di questo processo a uno schema impersonale - nel senso, questa volta, di valido per tutti, indipendentemente dalle specificità di ciascuno -, sottolinea come tanto la meditazione, quanto la psicoanalisi nelle sue diverse forme, non siano tecniche ma arti (Chandra, p. 59): le prime indicano procedure valide in se stesse che, se correttamente applicate, conducono necessariamente a risultati prevedibili e già testati, le seconde sono invece attività che coinvolgono l’intero psichismo dell’individuo e non possono verificarsi che secondo i suoi personali talenti, ossia le peculiarità di ciascuno, assumendo una piega e uno sviluppo mai del tutto prevedibili a priori e sempre, in qualche modo, unici. Mentre le tecniche richiedono di compiere atti oggettivi, le arti chiamano in causa comportamenti soggettivi nei quali gli individui non sono semplici esecutori di procedure ma interpreti, proprio come lo si può affermare di un artista del quale si dice che ha dato prova di una straordinaria interpretazione, frutto non solo del suo sapere ma, non di meno, della sua personalità e del suo percorso di vita.
Per questo entrambe, da ultimo, restano depotenziate se confinate in una o due ore a settimana nelle loro reciproche stanze di riferimento e compiono davvero la loro missione solo se il soggetto assume su di sé la responsabilità di estenderne l’esperienza alla vita di tutti i giorni. Scrive Chandra:
Che cosa c’è di male a sviluppare una vita un po’ più quieta e a incentrarla sull’io, vi chiederete? Niente in sé, ma non è per questo che nascono sia la meditazione che la psicoanalisi; entrambe, nel solco della filosofia antica, mirano piuttosto alla piena fioritura delle nostre potenzialità, che non significa diventare straordinari ma divenire, appieno, se stessi, compiendo quello che Jung chiamava il processo di individuazione. E non è forse delle possibilità di quel tanto vituperato io che comunque si parla in questo processo, non è lui che deve diventare se stesso? potreste chiedervi. No, spiega Jung, il soggetto di questo processo deve essere il Sé, centro della personalità non solo conscio e pienamente consapevole di non essere il padrone di casa, per citare Freud.
In gioco, come intende sottolineare il titolo di questo articolo che mi accingo a concludere, non c’è l’io ma la vita. Meditare sulla vita permette di meditare anche sull’io, meditare sull’io rischia di non dischiudere mai le questioni della vita. Ma soprattutto chiunque meditasse a fondo sulla propria condizione esistenziale finirebbe per comprendere, per dirlo con le fulminanti parole del filosofo e psicoanalista Miguel Benasayag, che “la mia vita non sono io” (M. Benasayag, Oltre le passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2016, p. 120), che, semmai, ne faccio parte.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.... *
Lou von Salomé
Esplorò la forza dell’eros
L’incontro imponderabile che unisce due estraneità
Bellissima e spregiudicata visse l’amore con trasporto fisico e con slancio intellettuale seducendo Rilke e Nietzsche
Cruciale il suo apporto alla picoanalisi con lo studio del narcisismo
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, La Lettura, 27.01.2019)
L’amore è stato il filo della sua esistenza turbolenta e frammentata, scandita da innumerevoli legami appassionati e drammatici, dai quali lei sembrava ogni volta uscire quasi illesa. Non si contano invece le vittime, più o meno consenzienti, di quei rapporti. Intellettuali, pittori, filosofi, poeti: da Friedrich Nietzsche a Rainer Maria Rilke.
Bellissima e piena di fascino, tenera e volitiva, eccentrica e indomabile, Lou (diminuitivo di Louise) von Salomé rappresenta una figura emblematica che si staglia nell’orizzonte del Novecento europeo agitato da rivolgimenti politici ed esistenziali. Qualsiasi giudizio si voglia emettere su questa donna spregiudicata e anticonformista, certo è che a lei toccò in sorte di esplorare, nei suoi meandri più oscuri, non tanto l’anima della donna, quanto la passione erotica femminile.
Nata a San Pietroburgo nel 1861, trascorse gran parte della sua vita in Germania, nella piccola città universitaria di Gottinga, dove morì nel 1937, in tempo per osservare da vicino la catastrofe. Poco tempo dopo la sua scomparsa, gli agenti della Gestapo ne confiscarono la biblioteca. Ai loro occhi quella specie di strega aveva più di una colpa: soprattutto si era occupata di psicoanalisi, la «scienza ebraica» per eccellenza. Non l’aveva forse escogitata Sigmund Freud?
Pur considerando la scrittura un’attività quasi secondaria, che accompagnava la sua sete di vivere, la sua curiosità intellettuale, il fervore con cui si abbandonava ai rapporti umani, Lou Salomè ha lasciato venti libri e oltre cento saggi, articoli, recensioni. Potrebbe essere definita una scrittrice, se non fosse che ciò che ne contraddistingue il lascito sono proprio gli scritti di stampo psicoanalitico, in cui le esperienze biografiche si coniugano con una introspezione originale.
Con il titolo La materia erotica. Scritti di psicoanalisi, la casa editrice Mimesis ha pubblicato di recente una raccolta, curata da Jutta Prasse. L’arco di tempo va dal 1900, data d’uscita del primo saggio Riflessioni sul problema dell’amore, al 1921, anno a cui risale Il narcisismo come doppio orientamento, dove non è difficile scorgere le tracce del dialogo serrato con Freud.
Perché quell’interesse proprio per la scuola di Freud e non, ad esempio, per l’indirizzo rappresentato da Gustav Jung? La risposta sta nel valore che la psicoanalisi attribuiva alla pulsione sessuale. Lou vedeva così confermata un’idea di cui si era andata convincendo già prima di conoscere personalmente Freud a Weimar, nel 1911, nel Congresso della Società psicoanalitica Internazionale. Quell’incontro fu per lei decisivo perché le fornì i mezzi per sbrogliare l’intrigo della materia erotica che la teneva avvinghiata sin dalla giovinezza.
La forza misteriosa dell’amore era sconvolgente, inebriante, ma anche demoniaca e distruttiva. Affine alla creazione artistica del genio, poteva innalzare a vette supreme o spingere negli abissi più meschini. Di questo aveva già narrato la grande letteratura ottocentesca immortalando i ritratti di Emma Bovary e Anna Karenina, eroine tragiche le cui storie avrebbero dovuto provare l’impossibilità di conciliare amore sessuale e serenità coniugale. Per Lou era tempo di cercare una terza via, senza rinunciare al rifugio di un compagno, ma senza neppure abdicare alla rigenerazione dell’amore. Il che non voleva dire abbandonarsi ad una facile promiscuità, consegnarsi all’avventura fortuita e banale.
Proprio perché scorgeva nell’amore la forza vitale per eccellenza, scelse di viverlo fino in fondo, con trasporto fisico, ma anche con slancio intellettuale, consapevole della transitorietà di quell’energia che cessava inspiegabilmente, così come nascostamente era sgorgata. Occorreva solo essere pronti e prendere a piene mani la felicità nell’attimo, senza arrovellarsi troppo sul dopo. Pretendere di dare durata a quella passione avrebbe significato essere del tutto irrealistici. Non si può promettere di essere fedeli quando è in gioco l’amore. Di questo aveva discusso a lungo con Nietzsche, che per anni aveva eletto a maestro. Si intuisce perché quella sua irrequieta disinvoltura disorientava i partner, conducendoli talvolta a gesti estremi, in taluni casi teatrali.
Nonostante i conflitti interiori, quello in particolare tra un cuore impulsivo e una volontà imperiosa, Lou superò una dopo l’altra anche le rotture più drammatiche, persuasa della necessità di addentrarsi nel mistero della vita, di esplorarne le vie tortuose, fino ad elevare quella sfera sepolta dell’inconscio alla dignità della coscienza. Quasi in un estenuante esperimento, amava come viveva, viveva come amava. Con spontaneità, ma anche con serietà.
In questa indagine dell’eros, nel suo significato più ampio e profondo, Lou non poteva non votarsi alla vita altrui, perché l’amore è anzitutto il bisogno impellente dell’altro. Si interrogò perciò anche sulla modalità e il valore della fusione, che nell’uomo, in cerca di un’identità rafforzata, rischia di diventare esigenza di possesso, smania di appropriazione, volontà di sottomissione. Questo non avviene nella donna, che - osserva nel saggio Il tipo femmina - sperimenta già sempre l’altro in sé, che è sempre già duale e divisa in sé stessa, laddove «il maschio permane univocamente aggressivo». Forse si può dire che il suo contributo più rilevante alla psicoanalisi sia lo studio sul narcisismo, che è senza dubbio amore di sé, egocentrismo spinto all’estremo, capace di cancellare del tutto l’altro, ma che a ben guardare ha mille sfaccettature spesso trascurate. Il narcisismo può comprendere persino la sottomissione.
Se qualche decennio fa i testi di Lou von Salomé, con le sue osservazioni provocatorie e talvolta parossistiche, hanno avuto un effetto dirompente, scardinando vecchi luoghi comuni e stimolando il pensiero femminista, oggi non possono non essere lette con occhi diversi. Resta, però, l’originalità della sua riflessione e di quel suo modo di considerare il rapporto erotico non come l’eterna inimicizia tra i sessi, bensì come l’incontro imponderabile tra due estraneità. Ed è proprio ciò che spinge all’unione.
L’amore, forma intermedia tra l’ipseità del singolo e la fraternizzazione comunitaria dei molti, tra egoismo e altruismo, dischiude dunque una sfera che ciascuno è chiamato a esplorare, ma che in nessun modo può essere sottovalutata, ritenuta inferiore, cancellata nell’esistenza umana.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Cura di sé e cura del mondo
di Lea Melandri (Comune-info, 24 dicembre 2018)
L’odio e i veleni che l’Occidente ha sparso nel mondo, i suoi stessi “valori” - denaro, competizione -, gli ritornano indietro ingigantiti e lo mostrano per quello che realmente è: già contaminato da quella “barbarie” che ha contribuito a far crescere respingendola fuori di sé, fingendosi un’innocenza mai conosciuta. Per una specie di “contrappasso”, la parte del mondo che si è pensata dispensatrice di “progresso” e di civiltà, si trova oggi costretta a contare sul proprio territorio le piaghe che ha inflitto ad altri, con le sue industrie, le sue bombe, i suoi consumi illimitati.
C’è una parte del mondo dove la morte ha nome, storia, leggenda, e un’altra, la più estesa, dove è solo numero. La malattia mortale della Terra unifica la famiglia umana, costringe popoli di cultura e condizioni diverse a ragionare su una sorte comune, ad affrontare per la prima volta un pericolo di sopravvivenza che alla lunga non risparmierà nessuno. Ma, insieme alla scoperta di parentele, escono vistose dal silenzio e dall’invisibilità anche le disuguaglianze, le responsabilità e, sia pure tra molte opposizioni, alternative di sviluppo e di convivenza. Fornire insistentemente numeri e previsioni può diventare allora un modo inconsapevole per adombrare l’ansia e l’infelicità legate inevitabilmente all’uso distruttivo dei beni che produciamo o che troviamo in natura.
Accanto alle altre “catastrofi” si assiste oggi anche al declino dell’antica dialettica che ha diviso e contrapposto natura e cultura, donna e uomo, individuo e società. Cadono barriere millenarie e consolidate costruzioni di senso: così, paradossalmente, sono le cose, alienate dai nostri “consumi forzati”, è la natura, ferita nel suo equilibrio, sono le donne, i bambini, i poveri, i malati, a dire il dolore e la distruttività nascosti dietro la facciata di un mondo che si è creduto “civile”.
Nell’articolo pubblicato sul Manifesto (22/23 gennaio 1989) l’anno della sua morte - Freud, Rilke e la caducità -, Elvio Fachinelli così concludeva:
“Questo è il rovesciamento radicale dell’antica e ben nota posizione in cui la natura, madre divina, era chiamata a salvarci. Ora siamo noi sollecitati a salvarla. In Rilke questo rovesciamento, ottenuto passando attraverso la più dolorosa identificazione con l’effimero, si fa vivo come compito particolare dell’arte e della poesia (dire la Terra, farla diventare invisibile), che è nello stesso tempo un atteggiamento etico religioso. Ma entrambi presuppongono qualcosa di più ampio e indistinto, l’accettazione piena di una figura che comprende in sé e salva le creature, prima che sia troppo tardi: «un cuore», per usare le parole del poeta, in cui scaturisca un «innumerabile esistere».
Forse sta qui una delle chiavi anche per noi, oggi. Forse non di un lutto abbiamo bisogno, come pensava Freud, né anticipato né post rem. Ma di questo accoglimento, di questa capacità di immedesimazione in cui noi, feriti, diventeremmo madre di creature ferite. È un passo difficile - al limite, impossibile: troppo tardi. Eppure esso ci viene da ogni parte e sempre più spesso «sollecitato». E in questo compito potrebbe trovarsi una gracile felicità: non un’«ascesa», un apice o culmine come si pensa di solito, ma piuttosto, come ci dice la Decima elegia, una «caduta», simile alla «pioggia che cade su terra scura a primavera».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Sulla spiaggia. Di fronte al mare...
CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO FACHINELLI.
Federico La Sala
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito... *
L’esilio e la promessa...
Ricordare è verbo di futuro
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 1 dicembre 2018)
Sono i segni religiosi quelli che più incidono la terra e dicono il carattere di una cultura. Templi, altari, edicole, croci, steli separano nel territorio il sacro dal profano, rivelano e danno nomi e vocazioni alle terre, trasformano gli spazi in luoghi. La terra porta iscritte nelle sue ferite i nostri vizi e le nostre virtù. Accoglie mite le nostre tracce, si lascia, mansueta, associare alle nostre sorti, e con una sua misteriosa e reale reciprocità comunica con noi. Tra le note della profezia c’è anche la capacità di interpretate il linguaggio della creazione, di raccontarcelo, di parlare al nostro posto e in nostro nome. Cosa direbbero, oggi, i profeti di fronte piaghe che stiamo producendo nel nostro pianeta? Quali parole di fuoco pronunzierebbero di fronte alle nostre "alture" popolate di idoli? Come profetizzerebbero davanti alle nostre miopie e ai nostri egoismi collettivi? Forse griderebbero, comporrebbero nuovi poemi, canterebbero, cantano, Laudato si’.
«Mi fu quindi rivolta questa parola del Signore: "Figlio dell’uomo, volgiti verso i monti d’Israele e profetizza contro di essi: Monti d’Israele, udite la parola del Signore Dio. Così dice il Signore Dio ai monti e alle colline, alle gole e alle valli: Ecco, manderò sopra di voi la spada e distruggerò le vostre alture"» (Ezechiele 6,1-3). Ezechiele profetizza contro i monti, resi complici innocenti delle infedeltà del popolo. Quelle colline, quelle valli e gole sono anche simbolo di quella creazione che "geme" in attesa di esseri umani suoi degni custodi. Sono gli animali, piante, suolo e sottosuolo, oceani e mari, che ogni giorno, e ogni giorno di più, subiscono le conseguenze della trasformazione della nostra vocazione da accudimento in tirannia. I profeti parlano anche per loro e al loro posto - ancora in mezzo tra terra e uomo, tra uomini e cielo, mediatori inchiodati su croci come messaggi di carne.
Fn dal suo primo insediamento in Caanan, il popolo di Israele ha sentito costantemente la seduzione dei culti cananei. Forte era il fascino di quegli dèi semplici, naturali, scanditi dai ritmi e dalle immagini della fertilità, e che si potevano vedere, raffigurare, toccare, ha avvertito la tentazione della loro prostituzione sacra che, sulle alture, offriva vie immediate di unione con le divinità. E se non ci fossero stati i profeti, YHWH, il nome del loro Dio diverso e unico, con il passare del tempo sarebbe diventato uno dei tanti nomi uno dei tanti dèi dei molti pantheon dei popoli vicini e vincitori. I profeti sono amici di Dio e amici dell’uomo, che ripetono: l’uomo è diverso perché Dio è diverso. Tengono alto e trascendente Dio per tenere più alto possibile l’uomo, per non ridurlo a consumatore-consumato di idoli manufatti. I profeti fanno sì che la naturale contaminazione che una fede riceve dall’incontro con gli altri popoli, non superi una soglia critica e faccia perdere il filo rosso dell’alleanza e dell’anima collettiva.
Senza il contagio religioso con Babilonia, con l’Egitto e coi popoli cananei, non avremmo molte pagine, bellissime, della Bibbia. Ma se quella fertilizzazione mutua fosse entrata nelle midolla e nel cuore della Promessa, del Sinai, della Legge e del Patto, quel popolo diverso dalla fede diversa sarebbe stato riassorbito nelle religioni naturali del Vicino Oriente. Il profeta è sentinella anche perché suona la tromba e dà l’allarme quando la contaminazione supera il punto critico e diventa assimilazione e sincretismo. E sa che c’è un luogo dove queste contaminazioni non possono e non devono entrare: il tempio, il luogo che custodisce la nostra storia più intima, l’altare del patto, il cuore del nostro nome. E, come conseguenza, il popolo di Israele non deve entrare nei templi degli altri popoli e adorare le loro divinità. Non solo perché quei popoli sono adoratori di idoli (Israele non ha sempre pensato che tutti gli altri dèi fossero idoli), ma perché il giorno che un popolo inizia a entrare e pregare in più di un tempio sta dicendo che, in fondo, non crede davvero a nessun dio (come quell’uomo che dicendo "ti amo" a più di una donna, in realtà sta dicendo che non ne ama davvero nessuna). Ecco perché la lotta dei profeti ai santuari delle alture ci dice, in poesia, cose molto serie - la poesia dice sempre cose molto serie.
Quando, ad esempio, le comunità nate da un carisma attraversano grandi crisi, la tentazione non sta l’eliminazione o la cancellazione del "Dio" della prima alleanza, ma nell’introduzione nel proprio tempio di altre divinità che iniziano ad affiancarsi al primo "culto". Si importano preghiere, canzoni, pratiche più vicine allo spirito del tempo, più semplici e comprensibili, che rispondono meglio ai gusti dei "consumatori". Entro un certo limite, questi arrivi possono aiutare e arricchire. Ma se queste pratiche estranee entrano dentro "il tempio", e se noi iniziamo a frequentare i templi degli altri senza distinguerli più dal nostro, la contaminazione inizia a minare il patto e la promessa; e arriverà presto il giorno in cui ci troveremo a parlare con il nostro primo Dio in templi tutti uguali, e non accadrà più nulla - molte crisi esistenziali, individuali e comunitarie, nascono da operazioni di affollamento del luogo del primo incontro, che diventa così fitto da non riuscire vedere né udire più nulla.
Ma i santuari e i templi erano anche i luoghi dei sacrifici di animali e di bambini. Dietro alla critica dei culti cananei e babilonesi c’è sempre, nei profeti grandi, la critica all’uso del sacrificio come moneta per commerciare con un Dio commerciante.
La polemica durissima dei profeti contro l’oro e l’argento, non è una critica economica né etica al denaro usato per i commerci umani; è una critica teologica e quindi antropologica, è una condanna ad una visione economica della fede e quindi della vita.
L’oro è pericolosissimo perché diventa il materiale con cui si fabbricano gli idoli: le statuette di Baal o di Astarte ieri, oggi i prodotti e i beni che, come nuovi idoli, ci vendono una sottospecie di eterna giovinezza. Più oro si possiede più grande è il prezzo che possiamo pagare per i nostri sacrifici.
I ladri che profanano il luogo santo non sono allora ladri di cose o di denaro; sono ladri religiosi, che sottraggono all’uomo la sua dignità e lo riducono a servo di idoli: «Getteranno l’argento per le strade e il loro oro si cambierà in immondizia, con esso non si sfameranno, non si riempiranno il ventre... Della bellezza dei loro gioielli fecero oggetto d’orgoglio e fabbricarono con essi le abominevoli statue dei loro idoli. Per questo li tratterò come immondizia... Sarà profanato il mio tesoro [tempio], vi entreranno i ladri e lo profaneranno» (7,19-22). Il denaro e l’oro sono immondizia quando non sono usati per vivere ma per fabbricare ogni sorta di idolo. Questa natura profonda delle ricchezze si rivela in pienezza soltanto alla fine («Viene la fine, viene la fine su di te»: 7,6).
Alla fine della vita, quando sarà evidente la differenza radicale tra le ricchezze (materiali e non) che abbiamo usato per sfamare e sfamarci, e le altre che abbiamo usato per creare o comprare idoli venditori di illusioni. Oppure nelle altre "fini", quando dentro una grossa crisi, malattia, depressione, capiamo che potremo ricominciare solo se impariamo a riconoscere altre ricchezze che ancora non abbiamo visto, in noi e attorno a noi.
Al centro di queste parole durissime che il profeta alza contro le alture, gli idoli e le infedeltà del popolo, ci raggiunge come raggio di sole aurorale un altro brano di teologia del resto (la Bibbia potrebbe essere raccontata come storia del resto fedele): «Tuttavia farò sopravvivere in mezzo alle nazioni alcuni di voi scampati alla spada, quando vi disperderò nei vari paesi. I vostri scampati si ricorderanno di me fra le nazioni in mezzo alle quali saranno deportati ... Sapranno allora che io sono il Signore» (6,8-10).
Tuttavia: i profeti amano molto questo avverbio, perché completa e addolcisce le loro parole di giudizio. I falsi profeti non conoscono i tuttavia, perché sono ideologici e ruffiani. Tuttavia è anche l’avverbio dei bravi educatori, degli insegnanti, dei responsabili di comunità, che dopo aver avuto la forza del giudizio di verità riescono ad aggiungere il "tuttavia" della mansuetudine e della pietas, che è sale e il lievito della pasta che stanno impastando.
Questo brano sul resto ci dice qualcosa di essenziale. Quando negli esili vogliamo provare a ricominciare veramente, sono due le cose davvero necessarie. A ricominciare non è il tutto, ma una parte, un piccolo resto vivo. Avevamo formato una famiglia, fatto nascere una comunità, un’impresa. Poi è arrivata la crisi, e quindi la deportazione e l’esilio. Ci siamo dispersi e contaminati con molti popoli. Se un giorno vorremo continuare la stessa prima storia dobbiamo vincere la nostalgia dell’intero, non lasciarci sedurre dal richiamo fortissimo del tutto, perché, semplicemente, quell’intero e quel tutto non ci sono più. Ma possiamo continuare veramente la nostra storia su quella piccola parte rimasta viva: due lavoratori della fabbrica, un bambino, quella sola parola buona che si è salvata dalle tante cattiverie che ci siamo detti.
La seconda cosa riguarda il significato del bellissimo verbo biblico ricordare ("si ricorderanno di me"). Nell’umanesimo biblico ricordare non è il verbo del passato, è il verbo di futuro. Si ricorda nel deserto, nei campi di mattoni, nell’esilio, e si ricorda per continuare a credere nella promessa che deve venire e verrà. Nel deserto dove ci ha gettato il tradimento del nostro patto matrimoniale, non si ricomincia celebrando un nuovo patto su un nuovo altare, ma ricordando che quelle parole erano state vere, perché una parte vera del nostro cuore non era mai uscita da quella chiesa e da quel primo altare. È imparando a ricordare che si inizia a risorgere.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO, HENRI DE LUBAC, E LA POSTERITÀ SPIRITUALE DI GIOACCHINO DA FIORE.
L’INDICAZIONE DI MANDELA....
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE.... *
Alle radici della crisi attuale
Quando Nietzsche seppellì l’Occidente
Come in biologia ogni civiltà è un organismo che nasce cresce e muore
E il canto del cigno della nostra ha un volto:quello del filosofo tedesco
I primi sintomi di malessere collettivo si ebbero a metà ’800, con le tesi di Feuerbach, Stirner e Marx
Ma fu l’autore della "Gaia scienza" e di "Ecce homo" a fare piazza pulita di fedi, sistemi, tradizioni e istituzioni
di Sossio Giametta (la Repubblica, 17.11.2018)
Quest’anno si è celebrato il centenario della fine della Prima guerra mondiale (1914-1918). Su questo sono fioriti, in aggiunta alla pletora che già c’era, articoli, servizi, saggi e studi di ogni tipo; sono state rinnovate le analisi delle cause lontane e vicine, delle occasioni scatenanti e delle funeste, ramificate conseguenze, coi prodromi, gli appigli e gli agganci alla Seconda guerra mondiale. Tuttavia nessuno storico è stato in grado di pervenire alla causa originaria delle due guerre e di tutto lo scatafascio che esse hanno comportato. E ciò per la ragione fondamentale che questa causa è metastorica, affonda le radici nella biologia e richiede la partecipazione della filosofia.
L’indagine storica non basta a far capire quello che l’Europa e il mondo hanno fatto e subito in tale periodo: le due più grandi catastrofi della storia.
Un organismo è un’unità in cui il principio vitale - una forza unificante di natura sconosciuta e inconoscibile - stringe insieme una pluralità di forze individuali contrastanti, tendenti ciascuna alla supremazia, in un’unità superiore. Si immagini il nostro organismo, con le cellule che lo compongono. Ogni organismo ha nascita, sviluppo, decadenza e morte. Nelle prime fasi di vita, cioè nella parabola ascendente, la forza unificante, che è forza collettivizzante (strumentalizza gli individui in funzione della collettività) è al suo massimo, come la forza vitale stessa, con cui si identifica. Nella parabola discendente, allenta la sua presa, mentre aumenta la forza individualizzante, cioè la forza dei singoli individui tra loro contrastanti. Ne consegue una tendenza dell’organismo a disgregarsi. Alla fine la forza unificante cede, e nell’organismo si crea una polarizzazione tra le tendenze opposte, che si compattano agli estremi. È il preludio della fine.
Le civiltà, le religioni sono soggetti storici al di sopra degli individui che ne fanno parte. I membri di questi grandi soggetti storici sono organizzati in funzione dell’organismo di cui fanno parte allo stesso modo degli organi del corpo umano. Più sono i membri che li compongono e più ampia è l’articolazione e diversificazione della civiltà o della religione.
Dunque il numero dei loro membri (gli individui) è importante. Che le civiltà, le Kulturen, siano organismi, è stato teorizzato da Oswald Spengler ne Il tramonto dell’Occidente, coevo alla Prima guerra mondiale. In quanto organismi, le civiltà sono soggette al nascere e al perire, come tutto ciò che esiste, compreso l’universo che conosciamo, e tendono a vivere e a svilupparsi secondo la loro legge interna. Cioè pur essendo condizionate dalle circostanze storiche e geografiche, esse non ne sono determinate e si sviluppano in maniera autonoma, come gli uomini stessi, che possono vivere la loro vita negli ambienti più disparati, e in mezzo alle circostanze storiche più svariate, obbedendo soprattutto alla loro legge interna.
Il grande organismo storico alla cui agonia e fine a noi anziani è toccato assistere, è la civiltà occidentale, cioè la civiltà cristiano-europea fondata dal cristianesimo in contrasto dialettico con la civiltà antica, ma in seguito integrata dagli Stati laici, figli del Sacro Romano Impero. Le Kulturen hanno una gioventù, una maturità e una vecchiaia. In vecchiaia diventano, detto nel tedesco di Spengler, Zivilisationen, detto in italiano, civiltà stramature. Esse brillano un’ultima volta prima di sprofondare nella morte e nella decomposizione. Ma ciò non per colpe e vizi, come si crede, ma per compiutezza e sazietà.
Rispetto alle altre nazioni europee, la Germania, divisa e arretrata, esplose in ritardo. Nell’alta marea che ne seguì Hegel, con lo spirito assoluto e un sistema che comprendeva tutti i sistemi e dava senso divino (umanizzato) alla storia, diede la carica ai tedeschi, come «parte razionale dell’Europa».
L’Uebermut, un senso titanico di forza e di superiorità, salì alle stelle, grazie anche all’apporto di Fichte e Schelling. Sarebbe cresciuto sempre più, fino al delirio nazista. Hegel era amico e protetto di Goethe, ma ne tradì il messaggio di misura (nella poesia Prometeo, Goethe si vanta di aver sconfitto der Titanen- Uebermut, la superbia dei titani). Per lui «classico è ciò che è sano e romantico ciò che è malato».
Hegel mise il romanticismo al di sopra della classicità. Goethe predicava la natura, di cui l’uomo è piccolissima parte, Hegel lo spirito. Goethe censurò la troppa importanza data all’individuo e disse che senza la morale lui non era niente. Hegel negò la morale per dare risalto all’etica. Ma quando si arriva al vertice, è prossima la caduta. Già negli anni Quaranta dell’Ottocento esplose, nel segno dell’antihegelismo, la più grande avvisaglia della crisi della quasi bimillenaria civiltà europea, con i giovani hegeliani di sinistra: Feuerbach, Ruge, Marx, Stirner, Bauer, poi Schopenhauer; in Danimarca Kierkegaard. La crisi raggiunse l’acme nella seconda metà dell’Ottocento e fu incarnata soprattutto da Nietzsche.
Contrariamente a quello che credeva di essere: il pensatore più indipendente e inattuale della sua epoca, Nietzsche era inconsapevolmente tutto e solo attualità, una creatura della crisi.
Trasferì verso la Grecia arcaica e dionisiaca le correnti selvagge della sua epoca, sicché alla fine la Grecia risulta essere soprattutto un alibi. Nietzsche fece piazza pulita di sistemi e costumi, morali e religioni, tradizioni e istituzioni, per cui gli rimase solo la natura col suo vitalismo selvaggio. In tal modo costruì nell’empireo della filosofia quello che sarebbe diventato il cuore del fascismo-nazismo. Questo fu l’ultimo colpo di coda dell’Occidente prima di perdere il primato alla fine della Seconda guerra mondiale.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI.... *
Su “Dante, nostro contemporaneo” di Marco Grimaldi
di Claudio Giunta (Domenicale del Sole 24 ore, 23 luglio 2017)
Davanti agli scrittori e ai libri classici accade di tenere due atteggiamenti opposti. Uno è quello attualizzante: per far capire al pubblico, di solito un pubblico scolastico, che la voce dei grandi autori del passato è ben udibile anche oggi e merita di essere ascoltata, si annullano i secoli e si cerca di dimostrare come tutte le domande che ci poniamo oggi siano già contenute in quei vecchi libri, accompagnate da ragionevoli risposte. L’altro è quello filologico, che mira a leggere le opere nel loro contesto originario, e dunque a illuminare quel contesto con gli strumenti dell’erudizione. Interpretare significa, a seconda dei casi, avvicinarsi più all’uno o all’altro polo, o meglio trovare un punto intermedio dal quale spiegare le cose secondo verità, ma senza spegnere l’interesse del lettore non specialista.
La Commedia di Dante è naturalmente il banco di prova tradizionale per un simile esercizio di equilibrio: ci parla ancora, indubitabilmente, nonostante siano passati sette secoli, più di qualsiasi altro libro del Medioevo; ma più di ogni altro grande libro del Medioevo incarna le idee e i sentimenti del suo tempo, idee e sentimenti dei quali il lettore odierno ha perduto la chiave. Charles Singleton sosteneva che «l’indifferenza alla salvezza» che è caratteristica di noi moderni ci impedisce ormai di avere una comprensione adeguata dell’opera di Dante. «Il fatto è - scriveva - che siamo arrivati al limite cui era possibile arrivare nella tendenza a minimizzare o a escludere dall’attenzione i più profondi significati cristiani della Commedia».
In altre parole, così come la Bibbia o il Corano significano qualcosa per un lettore cristiano o un per lettore musulmano e qualcos’altro - qualcosa di meno - per un lettore che non creda alla verità né dell’una né dell’altro, allo stesso modo si potrebbe dire che, dal momento che non siamo più in grado di percepire nella Commedia il valore teologico e profetico che essa aveva in origine, anche il nostro apprezzamento dell’opera risulta almeno in parte compromesso. È davvero così? O si tratta invece, come osservava Eliot, non di credere nelle idee in cui Dante credeva bensì soltanto di conoscerle, di dare alla sua opera non un assenso filosofico ma un assenso poetico («Non dobbiamo confondere Dante con san Tommaso o viceversa. Sarebbe un grave errore psicologico. La disponibilità a credere di chi legge la Summa presuppone un atteggiamento diverso da quella di un lettore di Dante, anche se si tratta della stessa persona, e anche se questi è un cattolico»)?
Marco Grimaldi ha scritto questo suo breve saggio dantesco, appena pubblicato da Castelvecchi, mettendosi all’incrocio tra queste due linee di riflessione. Da un lato, la Commedia è un’opera così ricca da concedere un’infinità di appigli a chi voglia servirsene come cava di citazioni o - come malamente si dice - ‘suggestioni’ da applicare alla vita presente. Ma, come mostra molto bene Grimaldi, si tratta spesso di attualizzazioni arbitrarie, nate da una conoscenza insufficiente del contesto storico-culturale nel quale Dante scrive e, più ancora, dalla smania che molti studiosi hanno di adoperare la cultura del passato per illuminare il presente.
Ma c’è una piccola parte di verità e una grande parte di retorica nell’idea - quale che sia l’ideologia attraverso cui si declina - che le opere del passato contengano in sé, impostati se non ancora risolti, i problemi del futuro: la democrazia, il capitalismo, l’eguaglianza, il gender. Grimaldi invita a separare e a distinguere, a segnare le differenze piuttosto che le analogie, e le sue osservazioni andrebbero lette soprattutto da studenti e insegnanti troppo zelanti nella pratica così scolastica del ‘collegamento’ fatto un po’ a casaccio. No, Dante non dice sulla politica cose che possano riguardarci davvero, perché l’assetto del mondo è troppo diverso da quello che lui aveva sotto gli occhi; no, attraverso il personaggio di Beatrice Dante non ha voluto «sconvolgere il comportamento stereotipico codificato in base al gender»; eccetera.
Sotto la critica di Grimaldi cadono uno dopo l’altro questi abusi anche un po’ sciocchi, e forse c’è solo da osservare che la necessità di farli cadere costringe talvolta lo studioso a estremizzare i contrasti: non direi per esempio che l’idea di monarchia dantesca si possa assimilare alla tirannia modernamente intesa, né che, «per le sue prospettive imperiali», Dante sia «totalmente distante agli occhi di chi, come la maggior parte di noi, vorrebbe un mondo libero, democratico ed egualitario». Dante difende l’idea imperiale proprio perché è quella che secondo lui meglio garantisce la libertà e la giustizia fra gli uomini: «Genus humanum solum imperante Monarcha sui et non alterius gratia est» (Mn I xii 9: ma tutto il paragrafo è pertinente). Si può eccepire contro questa idea, contro questa idealizzata - e già a quell’epoca perenta - forma statuale, non però dire che a Dante non stessero a cuore gli ideali che stanno a cuore noi oggi, né che la democrazia, anzi la democrazia moderna, sia l’unica forma di governo che permette di realizzarli.
Dall’altro lato, Grimaldi non si sottrae alla domanda sul perché si legga ancora la Commedia, e anziché fissarsi sui dettagli (il Dante politico, il Dante riformatore religioso, ecc.) guarda all’intero, e trova in questo intero, negli ideali che lo ispirano, un’analogia con i postulati della ragion pratica di Kant, cioè l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima, il libero arbitrio.
Qui - varcando, e di molto, i confini della filologia - il discorso di Grimaldi si fa ancora più interessante, ma anche più opinabile. Venuta meno per gran parte dei lettori odierni, come osservava Singleton, la fede in una vita dopo la morte, e nel giusto riconoscimento dei meriti e delle colpe, la visione dantesca sarebbe una specie di risarcimento, e la nostra perdurante devozione a quella visione esprimerebbe la nostalgia per un ormai tramontato ordine metafisico. È possibile.
Ma è su questa perdurante devozione che è lecito nutrire qualche dubbio, cioè sull’effettiva presenza della Commedia nelle letture degli italiani adulti, una volta finita la scuola. Presenza che a me pare scarsa, comprensibilmente scarsa, dato che la Commedia è un libro difficilissimo, che richiede un sacrificio di tempo e uno sforzo d’attenzione che sono ormai alla portata di pochi. Una risposta molto più pedestre alla domanda circa l’attualità e la ‘durata’ della Commedia nel canone delle nostre letture, circa il «perché leggiamo ancora la Commedia nell’anno 2017», potrebbe essere insomma «perché così hanno deciso centocinquant’anni fa coloro che hanno scritto i programmi della scuola italiana postunitaria». E s’intende che questa risposta materialista integra ma non cancella quella idealista proposta da Grimaldi: ma invita un’altra volta a riflettere su quanto la nostra visione del mondo e dell’arte rispecchi, più che sfuggenti costanti antropologiche, le - molto sagge, del resto - indicazioni nazionali per il curricolo scolastico.
*Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". Con la morte di Giovanni Paolo II, il Libro è stato chiuso. Si ri-apre la DIVINA COMMEDIA, finalmente!!! DANTE "corre" fortissimo, supera i secoli, e oltrepassa HEGEL - Ratzinger e Habermas!!! MARX, come VIRGILIO, gli fa strada e lo segue. Contro il disfattismo, un’indicazione e un’ipotesi di ri-lettura. AUGURI ITALIA!!!
DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI.
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
“Dante, nostro contemporaneo. Perché leggere ancora la Commedia” di Marco Grimaldi
Professor Grimaldi, Lei è autore del libro Dante, nostro contemporaneo. Perché leggere ancora la Commedia edito da Castelvecchi: perché leggiamo ancora la Commedia? *
Leggiamo ancora la Commedia prima di tutto perché è un’opera d’arte perfetta. Perché Dante ha creato un mondo fantastico ma del tutto verosimile e coerente nel suo funzionamento. La leggiamo per il suo realismo: perché nella letteratura in volgare prima di Dante le descrizioni della natura, degli uomini e delle emozioni erano sempre standardizzare, sempre uguali. Spesso erano molto efficaci, certo, ma era come se i poeti non guardassero quasi mai dal vivo la realtà. Dante, che è un uomo coltissimo, un intellettuale che conosce tanta letteratura, è invece un poeta della realtà, un poeta del mondo terreno, come è stato chiamato. E tutto questo lo fa nel momento stesso in cui fonda la tradizione letteraria italiana. Che è poi il motivo per il quale possiamo leggerlo ancora: perché la sua lingua è ancora la nostra lingua. Queste sono le ragioni - importantissime - che si spiegano a scuola e all’università.
Ma leggiamo la Commedia anche per altri motivi, che sono quelli che ho cercato di spiegare nel libro. La leggiamo ancora perché la Commedia ha un messaggio profondo che ancora ci interessa; perché anche oggi, quando a differenza di quanto accadeva al tempo di Dante la maggior parte di noi non crede né nell’esistenza di Dio né nella possibilità che vi sia un sistema di pene e di ricompense nell’aldilà, tutti noi abbiamo comunque un’idea di che cosa dovrebbe accadere dopo la morte. E ce l’abbiamo perché il nostro mondo morale si fonda su quelli che Kant definiva i postulati della ragion pratica: l’immortalità dell’anima, l’esistenza di Dio e il libero arbitrio.
La Commedia mette in scena questi stessi postulati: ci racconta che cosa accade dopo la morte ed è uno straordinario elogio del libero arbitrio, della piena responsabilità dell’uomo nella determinazione del proprio destino. E forse la leggiamo anche perché è un’opera scritta per cambiare la vita degli uomini: Dante ce lo dice in maniera molto chiara: il fine del poema è togliere i viventi dallo stato di infelicità in questa vita e di guidarli alla felicità. Non è arte per l’arte, è arte per la vita.
Quali dei temi affrontati da Dante lo rendono contemporaneo?
Il titolo del mio libro è provocatorio, in quanto nella prima parte spiego in realtà perché Dante a mio parere non è contemporaneo. Non lo è perché crede in tutta una serie di cose che non ci appartengono più: crede che la donna sia naturalmente inferiore all’uomo, che l’omosessualità sia un peccato, che la sete di conoscenza dell’uomo debba avere dei limiti. Per questo non ha senso la prospettiva di certi studi di genere secondo i quali Dante - proprio perché è Dante - avrebbe voluto rivoluzionare il modo di concepire il comportamento della donna.
Certo, Beatrice è il personaggio più importante della Commedia. Ma è anche una donna chiusa nel suo ruolo di genere. Cercare di separare Beatrice dal modo in cui Dante, come tutti gli uomini del suo tempo, concepiva i rapporti di genere, significa non comprendere che l’esaltazione della donna - che era già tipica della letteratura cortese - era possibile solo all’interno di quei ruoli. Dante non vuole rivoluzionare il modo di concepire i generi sessuali: vuole invece esaltare la virtù, l’umiltà e la bellezza di una donna la cui immagine tende a coincidere con quella della Vergine Maria. E in questo non c’è nulla di contemporaneo. Non ha senso tentare di avvicinare Dante alla nostra concezione dei rapporti tra i generi.
Ma in questa operazione di distanziamento non bisogna esagerare. Qualche tempo fa, a un incontro con degli insegnanti delle scuole superiori, mi è stato chiesto: “come si fa a spiegare agli studenti che l’amore di cui parlano Dante e Cavalcanti è una cosa completamente diversa da quello che si intende oggi?”. Ora, questa prospettiva è molto cauta, ma è giusta solo in parte. L’amore di cui parlano Dante e Cavalcanti è infatti lo stesso amore che intendiamo noi oggi. Lo è perché le nostre emozioni, le nostre sensazioni (il brivido che si prova davanti alla persona che si ama, il desiderio di possesso, la gelosia) sono esattamente le stesse che descrive Dante. Per questo, se si conosce un po’ di italiano antico e un po’ di storia e di filosofia del Medioevo (ed è la funzione della scuola: mettere tutti in condizione di poter leggere Dante), è così facile sentirsi coinvolti dal canto di Paolo e Francesca, che parla del momento in cui ci si innamora e dell’impossibilità di resistere al desiderio. Quello che è completamente diverso è il sistema di idee all’interno del quale Dante inserisce quella cosa che chiamiamo amore. Un sistema che condanna duramente Paolo e Francesca. Ed è questo sistema di idee che dobbiamo cercare di ricostruire noi oggi per capire Dante.
Quali soluzioni offre Dante per i mali del nostro tempo?
Dante non offre soluzioni per i mali del nostro tempo; e se a volte sembra offrirle - se qualcuno crede di poter trovare in Dante delle soluzioni - non sono soluzioni che ci piacciono. Pensiamo alle sue idee politiche, per esempio al suo modo per risolvere il problema della cupidigia. Siamo liberi di considerare Dante un predecessore delle critiche al capitale, all’accumulazione finanziaria, all’Europa delle banche. Ma quando lo facciamo dobbiamo sapere che la sua soluzione era concentrare tutto il potere e tutta la proprietà nelle mani di un imperatore assoluto che proprio perché possiede tutto non desidera nulla e mette in questo modo un freno ai desideri smodati di tutti gli altri governanti, portando così pace e serenità in tutto il mondo. Questa è una soluzione, la soluzione di Dante, ma credo che piacerebbe a pochi. Quello che deve interessarci è però che Dante aveva una soluzione per i mali del suo tempo. E ci interessa perché leggendo Dante veniamo a contatto con una idea di poesia e di letteratura che è abbastanza diversa da quella comune. Basta pensare all’ultimo Nobel per la letteratura, Bob Dylan, che quando gli è stato chiesto che cosa significano le sue canzoni ha risposto: «Non dipingetemi come un uomo con un messaggio [...] Tutto quel che posso sperare di fare è cantare quello che penso».
Dante la vede in maniera completamente diversa: lui è esattamente il contrario di Dylan, è un uomo con un messaggio. Anzi, un poeta con un messaggio. Un poeta che vuole cambiare la realtà, che vuole trasformarla, che ama, odia e si vendica dei nemici scrivendo la Commedia. Dante non canta solo per sé; Dante canta per gli altri.
Per spiegare questo aspetto uso a volte un testo di un cantautore calabrese contemporaneo, Brunori Sas, che si intitola Canzone contro la paura. All’inizio Brunori dà voce alla prima modalità, per capirci quella di Bob Dylan: «Canzoni che parlano d’amore / perché alla fine, dai, di che altro vuoi parlare? / Che se ti guardi intorno non c’è niente da cantare / solamente un grande vuoto che a guardarlo ti fa male / perciò sarò superficiale / ma in mezzo a questo dolore / tutto questo rancore / io canto solo per me». Poi la canzone si accende, cambia di tono (anche musicalmente) e Brunori dà spazio anche all’altra modalità (che per me è simile a quella di Dante) e immagina che cosa pensa un tu: «E invece no tu vuoi canzoni emozionanti, / che ti acchiappano alla gola senza tanti complimenti, / canzoni come sberle in faccia per costringerti a pensare / canzoni belle da restarci male». E poi ancora: «Canzoni che ti salvano la vita, / che ti fanno dire “no, cazzo, non è ancora finita!” / che ti danno la forza di ricominciare, / che ti tengono in piedi quando senti di crollare». Ora, è chiaro che sto giocando un po’ con le citazioni, perché ovviamente Brunori Sas non aveva in mente quello che ho in mente io. Però l’opposizione è la stessa: di solito pensiamo alla poesia come a qualcosa che parla d’amore, che parla di un vuoto che abbiamo dentro, di qualcosa che il poeta scrive soltanto per sé. Però ci sono anche poeti che scrivono per un pubblico che vuole delle cose diverse, che vuole poesie che salvano la vita, che danno la forza di ricominciare. Ecco, Dante appartiene a questa seconda categoria.
In cosa consiste la grandezza della Divina Commedia?
La grandezza della Commedia, come dicevo prima, sta nella lingua in cui è scritta (che è ancora la nostra lingua perché Dante è davvero, come abbiamo imparato a scuola, il padre della lingua italiana). La grandezza sta nel mondo possibile che Dante ha creato, un mondo nel quale tutto è fantastico (il viaggio di un uomo nell’aldilà, i suoi incontri con le anime, i diavoli, i mostri, gli angeli e alla fine la visione diretta di Dio) eppure tutto è straordinariamente reale, perché Dante è un poeta della realtà, che ci fa vedere le emozioni, la natura, che ci spiega la storia e le idee. E la grandezza sta anche nella sua idea di poesia, una poesia che cambia la realtà, che cambia gli uomini, che aiuta a vivere meglio.
Ma soprattutto, almeno per me, perché la Commedia è forse in assoluto l’opera letteraria nella quale è più esplicito quel meccanismo per il quale tutti noi tendiamo a riconoscere la nostra storia nelle storie che leggiamo cercando delle risposte, per trovare qualcosa che ci riguardi profondamente e che sia ancora vivo, attuale, presente. È un concetto che esprime benissimo Francesco Petrarca, quando racconta che leggendo le Confessioni di Agostino aveva l’impressione di leggere non la storia di altri «ma quella del suo proprio peregrinare». In Dante il meccanismo è più esplicito: quella che sta raccontando è la storia di un singolo uomo che vuole ritrovare sé stesso, che vuole superare il peccato e per farlo deve conoscere ciò che accade nell’aldilà. Ma è anche la storia dell’umanità intera. Dante aveva previsto che sarebbe scattato quel meccanismo di riconoscimento e scrive la Commedia sapendo che tutti i lettori futuri avrebbero ritrovato nel suo viaggio la storia del loro peregrinare, come dice Petrarca.
In una delle più belle poesie di Satura, Montale scrive: «Dicono che la mia / sia una poesia d’inappartenenza. / Ma s’era tua era di qualcuno». Montale risponde a una critica e per spiegare che la sua non è una poesia senza destinatario si rivolge a un tu, alla donna che ha amato, e le dice che proprio per aver parlato a lei la sua poesia appartiene a qualcuno, è una poesia che si spinge all’esterno, che non è ripiegata sull’interiorità del poeta. Ecco, Dante avrebbe potuto rispondere più o meno nello stesso modo - «Ma s’era tua era di qualcuno» - perché uno degli aspetti più straordinari della Commedia è che sia pensata per elogiare una donna che incarna la perfezione cui possono tendere tutti gli uomini e che questa donna occupi un posto centrale in Paradiso. La Commedia appartiene sicuramente a qualcuno perché appartiene a Beatrice. Ma avrebbe potuto rispondere anche in un altro modo, avrebbe potuto dire: «Ma s’era mia era di tutti». Perché la Commedia è la storia di Dante, ma è anche la storia di tutti noi.
* Fonte: Letture.org.
BENEDETTO CROCE, Recensione 1934*:
Il prof. Heidegger non vuole che la filosofia e la scienza siano altro, per i tedeschi, che un affare tedesco, a vantaggio del popolo tedesco. Gli studenti tedeschi, a suo dire, hanno tre «Bindungen», tre obblighi, il primo e fondamentale dei quali è la «Volksgemeinschaft», il nazionalismo. Ma se egli si ripiegasse davvero sulla sua coscienza morale (l’ha ogni uomo e l’avrà anche lui), direbbe piuttosto che il primo obbligo, di studenti e di professori, è il timor Dei, come sta scritto sul frontone della Sapienza di Roma.
Scrittore di generiche sottigliezze, arieggiante a un Proust cattedratico, egli che nei suoi libri non ha dato mai segno di prendere alcun interesse o di avere alcuna conoscenza della storia, dell’etica, della politica, della poesia, dell’arte, della concreta vita spirituale nelle sue varie forme - quale decadenza a fronte dei filosofi, veri filosofi, tedeschi di un tempo, dei Kant, degli Schelling, degli Hegel! -, oggi si sprofonda di colpo nel gorgo del più falso storicismo, in quello, che la storia nega, per il quale il moto deila storia viene rozzamente e materialisticamente concepito come asserzione di etnicismi e di razzismi, come celebrazione delle gesta di lupi e volpi, leoni e sciacalli, assente l’unico e vero attore, l’umanità.
Scrive nel bello stile che ci è già noto dai suoi libri filosofici: «Der Wille zum Wesen der deutschen Universitat ist der Wille zur Wissenschaft als Wille zum geschichtlichen geistigen Auftrag des deutschen Volkes als eines in seinem Staat sich selbst wissende Volkces. Wissenschaft und deutsche. Schicksal mussen zumal in Wesenswillen zur Macht kommen» (p. 7). E così si appresta o si offre a rendere servigi filosofico-politici: che è certamente un modo di prostituire la filosofia, senza con ciò recare nessun sussidio alla soda politica, e, anzi, credo, neppure a quella non soda, che di cotesto ibrido scolasticume non sa che cosa farsi, reggendosi e operando per mezzo di altre forze, che le son proprie.
Ben diverso atteggiamento è quello del teologo Karl Barth, che dice il fatto loro ai «Deutschen Christen», ai tedesco-cristiani, pronti a gridare che la chiesa evangelica deve servire alla fortuna del popolo tedesco e del terzo Impero, a richiedere un capo, una sorta cli papa, che fermamente li governi nella nuova vita cominciata con la primavera del 1933, e ad escludere, per intanto, dal loro seno i cristiani di sangue giudaico o a trattarli come cristiani di second’ordine, e via per simili turpitudini.
«Noi - scrive il Barth - abbiamo l’ufficio di portare al popolo tedesco la parola di Dio; e pecchiamo non solo verso Dio, ma anche verso questo popolo stesso se perseguiamo altri ideali e fini, che non sono cominessi a noi. Nella natura del nostro ufficio è che esso non possa essere subordinato o coordinato ad alcun’altra istanza; e di nuovo peccheremmo verso Dio e verso il nostro popolo, se lasciassirilo scuotere anche solo menomamente quest’ordine gerarchico!».
Il Barth degnamente tutela l’indipendenza della teologia, mentre il prof. Heidegger si è affrettato a far getto di quella della filosofia.
B. C.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CROCE “CRISTIANO” , VICO “ATEO”, E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA.
VENI, CREATOR SPIRITUS: LO SPIRITO DELLA VERITA’. Lo Spirito "costituzionale" di Benedetto Croce, lo spirito cattolico-romano di Giacomo Biffi, e la testimonianza di venti cristiani danesi (ricerca scientifica)
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Federico La Sala
IL "DESIDERIO" E IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. "Sapere aude!" .... *
Resistere resistere resistere
"Alzati e cammina" una resurrezione laica
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 19.10.2018)
Come si può intendere laicamente il mistero cristiano della resurrezione? Il corpo di Cristo che risorge dopo aver conosciuto l’assoluto nascondimento della morte, della fine della vita, non è solo una immagine consolatrice che dovrebbe liberare l’uomo dal peso insopportabile della sua finitezza, ma può essere assunto come il simbolo di una resistenza altrettanto assoluta della vita contro la tentazione della morte.
Non è, in fondo, questo uno dei significati fondamentali della predicazione di Gesù? Non abbiate paura perché non tutto è morte, perché il cuore della vita è più grande dell’ombra della morte!
Non a caso è nella parola antica Kum che è contenuto il tema della possibilità che la vita rinnovi se stessa proprio laddove pare morta, finita, consegnata ad uno scacco fatale. Kum è la parola-imperativo che, per esempio, nel testo biblico, Dio rivolge a Giona. Essa scuote il profeta dal suo letargo per consegnargli una missione impossibile che lo costringe a mettersi in movimento. Ma è anche la parola-imperativo che Gesù rivolge a Lazzaro: Kum! Alzati!
Cammina! Rimettiti in moto! Kum è la parola che riabilita la vita alla vita, proprio nel punto dove la vita si perde e muore. Ecco la cifra laica della resurrezione. Dobbiamo provare a vedere in Kum la parola che ispira ogni autentica pratica umana di cura.
La posta in gioco è decisiva: è possibile rialzarsi, ricominciare, ritornare a vivere, anche quando l’esperienza della caduta, della malattia, del fallimento, della catastrofe appare senza rimedio alcuno? In gioco non è solo il destino individuale della vita, ma quella di una città, di un popolo, di un ideale, del nostro stesso pianeta.
Il Grande Cretto di Burri che commemora il terremoto di Gibellina o il One World Trade Center di Daniel Libeskid che evoca il trauma dell’abbattimento delle Torri gemelle, non guariscono la ferita (inguaribile) ma la sanno incorporare in una forma nuova che consente alla vita di ricominciare a vivere.
Il mistero della resurrezione, riletto laicamente, indica allora non solo e non tanto la possibilità eventuale che la vita possa esistere dopo la morte, tema caro a tutte le religioni, ma la possibilità di ridare vita ad una vita che sembrava perduta, di ricostruire una città distrutta, di ritrovare un popolo privato di ogni forma di identità, di restituire un volto umano alla vita dopo l’esperienza atroce dell’orrore.
La parola Kum!, Alzati!, è un appello che esige movimento, rilancio, responsabilità di un atto che sappia riaccendere la vita. In gioco è l’evento della sorpresa che sempre accompagna il "miracolo" dell’uscita della vita dalla zona sepolcrale della morte. Non è infatti proprio questa sorpresa al centro di ogni avventura di cura? Possiamo pensare esemplarmente ad alcuni casi clinici ritenuti senza speranza che, nel corso di una cura, risorgono contraddicendo i protocolli e le previsioni prognostiche più nefaste. Può accadere con bambini colpiti da malattie rare, con giovani afflitti da patologie mentali gravi, ma anche, in uno scenario meno drammatico, con studenti ritenuti dall’istituzione scuola senza speranza, cause perse, irrecuperabili. Può accadere con territori e città che hanno fatto esperienza - solo apparentemente irreversibile - della catastrofe. Ma più in generale ogni volta che incontriamo una resistenza insperata alla morte, ogni volta che incrociamo la sorpresa della vita che non cede alla morte e ricomincia a camminare, facciamo esperienza della resurrezione.
Come se la cifra ultima della resurrezione coincidesse con quella della insurrezione: non si tratta di respingere fobicamente la caduta o la malattia, il fallimento o la perdita inconsolabile, illudendosi che possa esistere una medicina capace di dissolverne la presenza scabrosa.
Piuttosto si tratta di non lasciare l’ultima parola alla morte. Per questo sappiamo che i momenti più fecondi per una vita sono quelli che implicano passaggi stretti, crisi, ferite. Tuttavia, affinché il "miracolo" della resurrezione si possa compiere è sempre necessario un atto di fede che non può essere confuso con una semplice credenza. Non si tratta tanto di avere fede in un salvatore, ma di avere fede nella forza stessa della fede.
Quando una volta a Lacan chiesero in che cosa consistesse l’esperienza dell’analisi, egli rispose, molto semplicemente, che essa consisteva nell’offrire ad una vita persa, l’opportunità per "ripartire". Ebbene, la fede nel proprio desiderio è la condizione di base per questa ripartenza.
Alzati! è la parola-imperativo che rimette in piedi e in movimento la potenza affermativa del desiderio contro la tentazione cupa, sempre presente negli umani, della morte. Perché, in fondo, se la resurrezione non può pretendere di curare la vita dal suo destino mortale - non può liberare la vita dalla morte - essa può invece liberare la vita dalla paura paralizzante della morte e dalla sua tentazione. Perché la paura della morte, umanissima quando riguarda la prossimità dell’evento della propria fine che ci priva della gioia infinita della vita, può nascondere talvolta la paura della vita. La tentazione della morte è, infatti, un modo per voler evadere dalla fatica che la vita impone. È questa la tentazione più grande.
Testimoniare che non tutto è morte, non tutto è devastazione, non tutto è destinato a finire, che risorgere è un compito della vita, è il segreto che la parola Kum! porta con sé nei secoli.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GESÙ E IL CATTOLICESIMO-ROMANO. UNA LEZIONE DI JOYCE (da "FINNEGANS WAKE").
"PERVERSIONI" di Sergio Benvenuto. UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LA’ DELL’EDIPO
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Per uscire dal buio
Decalogo *
Parole rifondative: di un progetto, un’identità, una speranza di futuro. Nelle prossime settimane si riuniranno in tanti, a sinistra o da quelle parti: si comincia questa domenica con la marcia della pace Perugia-Assisi, cinquant’anni dopo la morte di chi la sognò, Aldo Capitini, scomparso il 17 ottobre 1968. Seguiranno nel Pd la Piazza Grande del nuovo aspirante leader Nicola Zingaretti, a Roma il 14 ottobre; e la Leopolda dell’ex ma sempre incombente Matteo Renzi, una settimana dopo. E le manifestazioni del 13 ottobre in tutta Europa, comprese molte città italiane, «contro il nazionalismo, per un’Europa unita» (www.13-10.org). Si discuterà di nomi, sigle, contenitori, per provare a riempire il vuoto di presenza, il deserto di alternativa visibile.
Quello che ancora manca è la battaglia di idee: una sfida politica e culturale, popolare e non elitaria. Qualche settimana fa l’Economist ha offerto ai suoi lettori un manifesto per ripensare il liberalismo. L’Espresso, nel solco di questo dibattito italiano e europeo, ha chiesto ad alcune sue firme, diverse per cultura e esperienza, un decalogo di parole-chiave (altre ne seguiranno). Da “Noi e Tu” di Massimo Cacciari a “Tutti” di Francesca Mannocchi, il nostro alfa e omega. Un segno di luce, per uscire dal buio.
***
Noi e tu
di Massimo Cacciari
Nessun “noi” è autorizzato a parlare a nome del mio “Io”. È questo il detestabile “Noi” cosi volentieri in bocca a leader e pseudo-leader, a detentori di verità o post-verità, ai “veri” rappresentanti del Popolo o della Gente. Si tratta del “Noi” plurale maiestatis, in cui Tutti dovrebbero ritrovarsi e abbracciarsi armoniosamente. A questa figura totalitaria va opposta la comunità degli Io, la ricerca della loro relazione senza confusione, senza che nessuno perda o dimentichi la propria singolarità. Ogni insieme che non si costituisca sulla base di un tale principio è destinato a trasformarsi in un oscuro grumo, manipolabile da qualsiasi pifferaio o burattinaio.
Ma dall’Io in quanto tale non si passa per miracolo alla comunità. Soltanto da quell’Io che è capace di chiamare l’altro col Tu, che non vede nell’altro l’avversario, l’ostacolo, lo scandalo, ma il Tu - che si fa prossimo dell’altro per giungere a chiamarlo Tu. E che con questo nome potrà essere a sua volta chiamato. L’Io è veramente tale quando viene chiamato Tu dall’altro. La singolarità del mio Io è tale quando cosi la scopro comparandomi al Tu dell’altro. Altrimenti non sono questo Singolo, unico nel proprio valore, non scambiabile con nessuno, merce o strumento di nessuno, ma soltanto un punto indistinto, un granello di sabbia nella indifferenza del Tutto. Se e soltanto se ognuno riuscisse a “dare del Tu” all’altro e a ritrovare se stesso proprio in questo dare-donare, saremmo autorizzati a usare il Noi.
Idea che appare semplice e che forse, invece, è in realtà sovrumana. È l’idea che regge l’intera struttura del Paradiso di Dante: tutti santi nel suo amplissimo abbraccio, tutti insieme beati nell’amore contemplativo del Signore e amici gli uni con gli altri, eppure ognuno si manifesta in un suo luogo, eterno nel suo volto proprio, nel suo nome, nella sua opera, ognuno inconfondibile nella sua preziosissima, inalienabile singolarità. È l’Inferno in terra dove la maledetta lupa dell’invidia, dell’avarizia, della libido di dominare, genera continuamente masse, indifferenza, confusioni, grumi. Ma a differenza che in quello di Dante, nel nostro è forse ancora possibile lottare e sperare in nome del Tu.
* l’Espresso, 07.10.2018
Fiducia nell’uomo
L’assist di Emerson alla filosofia di Nietzsche
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, Domenica, 09.09.2018)
Ralph Waldo Emerson, nato nel 1803 a Boston, è una figura-chiave della cultura americana. Così, almeno, lo considera un critico come Harold Bloom. Un pensatore quale John Dewey lo intese come il filosofo della democrazia moderna. E un poeta della grandezza di Walt Whitman arricciava il naso dinanzi ai suoi versi e preferiva ammirarlo come critico o diagnostico. Certo, non fu un campione di quelle passioni che rendono interessanti le biografie, anche perché sembrava non conoscere debolezze. Fu però autore dalle concezioni influenti. Di Dante apprezzava «l’energia unita alla simmetria»; quando individuava un nemico, sapeva sistemarlo a dovere: antitetico a Poe, lo definì «the jingle man», l’uomo dei sonagli o giullare che dir si voglia.
Eppure Emerson, che era anche poeta e filosofo e ha lasciato tracce in teologia (sosteneva: Dio è presente nell’anima e da essa direttamente intuibile), fu amato da Nietzsche. Lo scoprì quando aveva diciotto anni e lo lesse per gran parte della vita.
Non è facile tentare anche un inventario degli influssi della sua opera. L’idea che ne caratterizza scrittura e pensiero fu il nesso di finito e infinito, la capacità di individuare il fondamento trascendente della realtà sensibile nella percezione dello spirito umano.
Il suo ottimismo antropologico, che motiva una profonda sicurezza in se stessi, è uno specchio dell’anima statunitense, una sorta di premessa generale al liberalismo con stelle e strisce. Anche se Whitman ebbe riserve sui versi, ne amò lo spirito e le notevoli intuizioni; e così fece molta letteratura americana, sino alla Beat Generation, senza dimenticare che Thoreau gli deve molto, altrimenti non avrebbe osato scrivere che «la poesia è il misticismo dell’umanità».
Non si può escludere, tra i contagiati da Emerson, persino Proust; e inoltre si ritrovano in lui numerose idee del futuro pragmatismo. Qualcuno sussurra che il compositore classico statunitense Charles Edward Ives ne sia discepolo. Di certo - e basti questo esempio - quando si ascolta la Quarta Sinfonia (1909-16) non occorre essere dei critici per capire che il musicista sta inseguendo qualcosa trovabile in Emerson, il quale considerava la morale una guida all’immensa intelligenza divina. Si sospetta e si avverte che le note, simili agli eoni degli gnostici, stanno cercando di compiere il singolare percorso, anche se la complessa orchestrazione e l’uso della poliritmia richiedono per evocare quei suoni due direttori d’orchestra e l’utilizzo di strumenti allora nuovi, come il theremin.
È il caso di fermarsi con influssi e altro, anche perché tali noterelle su Emerson sono state suggerite al vostro cronista dalla ristampa di una sua opera, le due serie dei Saggi curate da Piero Bertolucci, con testo originale a fronte. In sostanza, ritorna con le edizioni La Vita Felice la traduzione riveduta e corretta che uscì nella serie Enciclopedia di autori classici, diretta da Giorgio Colli per Boringhieri. Un lavoro che fece meglio conoscere tale autore, le pagine pacate e coinvolgenti sull’eroismo o sulla prudenza, sulla fiducia in se stessi o sulle leggi spirituali, sulla “superanima” o sui doni. Il lavoro di Bertolocci archiviava la vecchia traduzione di Mario Cossa, uscita da Laterza nel 1925 nella rimpianta Biblioteca di Cultura Moderna .
Rileggere questo americano significa comprendere meglio Nietzsche. La dottrina di Emerson della self-reliance rappresentò per il filosofo tedesco un breviario di coraggio e indipendenza: contribuì ad alimentare il suo progetto di trasvalutazione morale per costruire un uomo nuovo.
AUTOSTRADE PER IL CIELO: CARTE TRUCCATE E "PONTE PERICOLANTE". L’*AMORE* Di MARIA E GIUSEPPE E LA "PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018" :
PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018 *
Dio, nostro Padre,
Siamo fratelli e sorelle in Gesù, tuo Figlio,
Una famiglia unita dallo Spirito del tuo amore.
Benedici ognuno di noi con la gioia dell’amore.
Rendici pazienti e gentili,
Amorevoli e generosi,
Accoglienti con i bisognosi.
Aiutaci a vivere il tuo perdono e la tua pace.
Proteggi tutte le nostre famiglie con il tuo amore,
Specialmente coloro che ti affidiamo ora con la nostra preghiera:
[facciamo un momento di silenzio per pregare per i membri della famiglia e altre
persone che ci stanno a cuore, ricordandoli per nome].
Aumenta la nostra fede,
Rendi forte la nostra speranza,
Conservaci nel tuo amore,
Aiutaci ad essere sempre grati del dono della vita che condividiamo.
Ti chiediamo questo nel nome di Cristo, nostro Signore,
Amen
Maria, madre e guida nostra, prega per noi.
San Giuseppe, padre e protettore nostro, prega per noi.
Santi Gioacchino e Anna, pregate per noi.
San Luigi e Zelia Martin, pregate per noi.
*Fonte: https://www.worldmeeting2018.ie/WMOF/media/downloads/prayerA4-IT.pdf
* L’Incontro mondiale. «Famiglia, sfida globale». Ecco il senso dell’incontro di Dublino. L’arcivescovo Martin, primate della Chiesa d’Irlanda: Amoris Laetitia, messaggio di misericordia nella complessità. Uno spazio dedicato anche al soloroso tema degli abusi (di Luciano Moia, Avvenire, venerdì 17 agosto 2018: https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/famiglia-sfida-globale-ecco-il-senso-di-dublino).
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala (18.08.2018)
PER IL DIALOGO A TUTTI I LIVELLI - GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE...
GESU’, GIUSEPPE, SACRA FAMIGLIA?! RESTITUIRE L’ANELLO DEL PESCATORE A GIUSEPPE... E ANNUNCIARE LA BUONA NOTIZIA!!! PER LA CHIESA CATTOLICA, SAN GIUSEPPE E’ ANCORA UN "GOJ", UNO STRANIERO. La ’buona’ novella di Luigi Pirandello
PER UNA NUOVA TEOLOGIA-POLITICA E PER UNA NUOVA CHIESA. L’INDICAZIONE DI GIOVANNI XXIII E DI GIOVANNI PAOLO II: LA RESTITUZIONE DELL’ANELLO DEL PESCATORE A GIUSEPPE.
MESSAGGIO EVANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER (E DI TUTTI I PAPI).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. ... *
Disobbedienza, cattolici più avanti della sinistra
di Michele Prospero (il manifesto 27.07.2018)
Vade retro, Salvini si presenta ai lettori con questo titolo, forte e pieno di coraggio civile, il settimanale Famiglia cristiana. Il ministro degli interni lepenista è affrontato senza remore. Con il suo volto in copertina, il leader padano viene indicato come bersaglio esplicito di un mondo cattolico che non tentenna neanche ora che i sondaggi danno il governo oltre il 62 per cento e pure le toghe sono in sintonia con il vento nuovo della destra al comando.
Famiglia cristiana non è sola nella sua azione di denuncia. Anche sul quotidiano Avvenire, molto sensibile ai temi sociali, la comprensione critica del fenomeno delle destre di governo è molto acuta.
Le stesse pratiche di resistenza civile, abbozzate nei giorni scorsi dalle camicie rosse, sono state promosse da don Ciotti e hanno visto quindi la presenza in prima fila del cattolicesimo. Molti e autorevoli sono poi i pronunciamenti di prelati e della stessa gerarchia, che non rimane indifferente alle prove di regime, con tracce inequivoche di etnopopulismo sperimentate nei palazzi del potere.
C’è, in questo impressionante esercizio dell’etica della convinzione da parte dell’universo cattolico, un fatto di straordinaria rilevanza e novità: la fede come assunzione di responsabilità pubblica contro gli abusi del potere che nella costruzione del nemico indossa i simboli del sacro. I cattolici non avvertono esitazione alcuna a scagliarsi contro un potente che, in maniera blasfema, brandisce il rosario per incitare all’inimicizia verso l’altro.
Nessuna giustificazione è possibile per chi, coltivando le ambizioni di un consenso facile, gioca con la vita dei profughi. L’indignazione dell’uomo di fede è incontenibile quando il vice presidente del consiglio, che vuole il censimento degli zingari giusto per esibire la forza persuasiva della ruspa sui loro campi, e si scaglia contro il buonismo della «Corte di Strasburgo sui diritti dei rom», per fondare su solide basi etiche il respingimento dei naufraghi propone di esibire un crocefisso nei porti chiusi.
Scrittori, sindacalisti, intellettuali di sinistra hanno votato in gran numero per il non-partito padronale di Casaleggio e ora sono afoni dinanzi alle regressioni di civiltà promosse dal governo del cambiamento. La confusione è così grande, sotto il cielo di una sinistra ormai perduta nelle idee, che lo scrittore Domenico Starnone si meraviglia perché «nel decreto dignità ci sono un bel po’ di cose che così di sinistra ce le eravamo dimenticate».
Le apparenti (e modiche) aperture in campo sociale sono sempre necessarie alle destre radicali quando inaspriscono il volto repressivo del potere e conferiscono una pericolosa curvatura etnica alle loro politiche. I cattolici questo nesso eversivo lo hanno colto e per questo si indignano dinanzi a un governo che nella gestione del potere esibisce i simboli del sacro per delimitare una comunità etnica che si ritrova solo se si difende dallo straniero. A sinistra invece si balbetta sui principi e non manca chi contrappone l’anima sociale (!) del governo a una componente più di destra e suggerisce di differenziare e civettare con i grillini per impedire che la mucca si trasformi in toro.
Si spiega con la riluttanza ad assumere le implicazioni definitive del contratto di governo, l’incapacità della sinistra di rispondere alle provocazioni della destra con il gusto della rottura simbolica, della disobbedienza. Al potere ci sono due forze, le unisce una sola cultura, che ha i tratti inconfondibili di una destra postmoderna. Le ossessioni a sfondo etnico di Salvini, che intende destinare alla polizia i soldi tolti ai rom e ai migranti, sono le stesse di Grillo che nel suo blog difese la sacralità dei confini e scrisse che le invasioni dei rom erano la vera «bomba sociale».
Peraltro quando l’imprenditore Casaleggio prospetta che solo tra qualche lustro il parlamento deve essere chiuso come un ente inutile, svela con trasparenza assoluta la vocazione illiberale del suo non-partito a proprietà privata: alla fine della guerra, urlava già Grillo nelle piazze, solo uno deve rimanere. E appunto la chiusura di Montecitorio evoca un mondo ideale senza più partiti, pluralismo, organizzazioni in conflitto. Uno solo al potere, con il popolo passivizzato che fa un clic sulla piattaforma e nel cassetto conserva una pistola.
Per tornare al popolo e riconquistare le periferie a sinistra c’è chi pensa persino di scoprire il nucleo di verità del salvinismo che denuncia una mutazione antropologica degli italiani per le invasioni dei neri.
La strada più giusta è quella indicata da settori di un mondo cattolico che non va verso il popolo, sfida il suo popolo sedotto dal male, come è necessario in fasi di regressione etico-politica.
La sinistra deve fare lo stesso, organizzarsi come minoranza dalle grandi idealità che punge il governo e strattona il suo popolo di un tempo e la sua classe dormiente che ora inneggia a Salvini e a Grillo. La disobbedienza, il terreno della resistenza culturale e civile, in attesa che si riscaldi quello sociale, sono i cardini di una controffensiva possibile dopo la catastrofe che prepara una democratura a cemento etno-populista.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA TEOLOGIA DI "MAMMONA" ("caritas"), LA LEZIONE DI MARX, E IL MESSAGGIO EVANGELICO ("Charitas").
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
IL SONNO MORTIFERO DELL’ITALIA. In Parlamento (ancora!) il Partito al di sopra di tutti i partiti.
Federico La Sala
Arcisenso di Aldo Masullo. La bellezza della paticità e la sapienza del relativo. Così ogni storia va ’sentita’
di Silvia Lanzani (Nuova AGENZIA RADICALE, 18 Febbraio 2018)
Gli scenari si costruiscono sempre insieme, al plurale, sapendo tuttavia - come insegnava il Nolano - che ogni punto è ‘centro’. «Patico» è il modo umano della coscienza. Esso è in atto in ogni momento del Sentir-si. Le emozioni vi si umanizzano ed entrano nella “e-sistenza”. Così avviene il sempre nuovo cadere della coscienza fuori del proprio attuale con-sistere. In questo atto si coinvolgono non soltanto le emozioni ma qualsiasi vissuto. Ce lo insegna uno dei più grandi filosofi del nostro tempo, Aldo Masullo, 95 anni il prossimo 12 aprile, che firma uno straordinario testo filosofico, ‘L’Arcisenso. Dialettica della solitudine’ (Quodlibet, pp. 194, euro 17), nel quale il Professore emerito di Filosofia morale alla Federico II di Napoli reimpagina e approfondisce, con nuove e potenti riflessioni, i temi di una intera vita di ricerca filosofica, lasciando una traccia profonda, potremmo dire lavica amando la sua Napoli, negli studi sulla paticità.
Il percorso, infatti, da ’Paticità. L’intoccabile tocco’, a ’Grazia. Il repentino della poesia’, passando per ’Dolore. La scelta di Chirone’, ’Eraclito. il desiderio eroico’, ’Leopardi. Sentire corporalmente il pensiero’, ’Silenzio. L’indecenza della parola’ e ’Sapienza. Nel relativo è la salvezza’. Preziosa anche l’Appendice ’Nel labirinto della soggettività. Appunti per un’autobiografia filosofica’ e, non ultimo, un autentico ’tocco’ di stile con il ’ringraziamento’ ai suoi allievi migliori - migliaia nel tempo - a iniziare da Giuseppe Cantillo e Bianca Maria d’Ippolito, fino ai dialoghi con amici come Matteo Palumbo e Gerardo Picardo.
Per Masullo non solo non vi sono piacere o dolore, ma neppure ragionamento o azione, immaginazione o ricordo, che siano umani, se non sono sentiti, se non recano, sia pure nascosti ma sempre pronti a saltar fuori o almeno a far capolino tra le pieghe del vivere, «lo stupore con cui si manifesta il sé» e «l’angoscia dell’esser toccati da eventi, senza perché». Ogni accadere tocca a me, proprio a me, senza che io sappia perché, così come non so questo me donde venga né dove vada, anzi neppure perché mai proprio a me questo me sia toccato.
Con l’accadermi, la coscienza di me ancora una volta cade fuori del suo con-sistere, e proprio in ciò io e-sisto. Sensus non c’è, se non è sensus sui. Lo stesso sé in nient’altro consiste che nel sensus sui, nel sentimento di sé, nella tensione verso sé come verso l’unità che si ha l’impressione di essere. Esso non è né «prima» né «dopo» questo o quel sentire, ma è sempre di ogni sentire la condizione originaria. Un filosofo tedesco lo chiamerebbe Ursinn. Masullo lo definisce «Arcisenso».
L’avvertimento del sé muove dall’intimo della vita, che nell’individuo umano, sentendo-si, vive. La vita ogni volta accade, e accade in quanto accade al sé che la vita allucina - ad un sé a cui l’accadere tocca, quasi il sé fosse prima dell’accadere, il vissuto fosse prima e non a partire dalla vita vivente. Se una differenza non colpisse, il sé non apparirebbe; né il colpo della differenza, il tempo, apparirebbe senza un sé colpito. Si tocca così la falda più profonda della fenomenalità di ogni fenomeno, il fenomeno primario con cui s’inaugura la possibilità stessa dell’apparire e senza di cui nessun altro fenomeno sarebbe possibile. «Fenomeno» è il calco italiano del greco φαινόμενον, participio del verbo deponente φαίνεσθαι, che in greco vuol dire «apparire», «manifestarsi».
Il φαινόμενον è l’«apparente», il «manifestantesi», cioè l’apparire, il manifestarsi, nel momento stesso in cui appare, si manifesta. È impersonale, senza soggetto, atto con cui tutto appare, tutto si manifesta, il mondo delle cose e di chi le vede e le usa. Il manifestarsi è tutto. L’apparire, il manifestarsi, è puro accadere o, come pur si dice, evento.
Nel vissuto del tempo e del sé, l’emozione di sorpresa nel sentire come contingente l’accadere e l’emozione di angoscia nel sentire come precario il sé strettamente si tengono. Senza il dolore che l’infallibile arciere del tempo infligge, non emergerebbe il sé come il vivente bersaglio di questa offesa. Ma, se il sé non emergesse, il colpo del tempo cadrebbe nel vuoto o riuscirebbe frustrato.
La vita fa come una piega - si «ri-piega su di sé» - . In ciò sta il punto d’origine della fenomenalità, là dove il vivente si converte in umano e si apre a se stesso, si fa soggettivo. La vita stessa si duplica (si complica nel «vivere il proprio vivere», come letteralmente suona il tedesco er-leben), e vivendo prova l’emozione di sé.
Avviene appunto quel che si esprime con il verbo πάσχειν, che vuol dire «patire», non necessariamente nel senso della sofferenza, ma in quello ampio del «provare», cioè del «vivere» usato transitivamente, come nelle espressioni «ho vissuto un brutto momento» e «ho vissuto una bella esperienza». Radice del verbo πάσχειν è παθ, da cui si forma il sostantivo πάθος: il calco italiano ne è «pathos» o più correntemente «patos». Il primo significato di πάθος è «ciò che si prova di bene o di male», in breve il vissuto. Si designa con ciò un’emozione sofferta, umanizzata dalla coscienza del sé.
Al fondo di ogni vissuto sta una rottura. La vita è un incessante rompersi, anche se abitualmente inavvertito. Quando il rompersi è violento e inabituale, l’in-differenza dell’essere esplode nella differenza dell’e-sistere. E’ questo il «repentino» (il platonico ἐξαίφνης). Esso scopre l’inarrestabile passo del cambiamento, ciò che «noi per abitudine chiamiamo tempo».Si mostra qui l’umanità originaria dell’emozione, la falda profonda di ogni emozione propriamente umana. Ci si trova, per essa, presi nella dinamica esistenziale, in cui non soltanto le emozioni occasionali, ma tutti i vissuti, anche quelli intenzionali e semantici, cioè gli sguardi sulle cose e la nominazione di queste, si costituiscono nella loro fenomenalità, nella loro umanità di vissuti. Solamente nel patico si e-siste.
Il sentir-si non è soltanto dell’emozione, ma di qualsiasi vissuto. Non solo non vi sono piacere e dolore, ma neppure percezione e ragionamento, immaginazione e ricordo, che siano tali, umani, se non sono intrisi di sentir-si, se non recano, sia pure nascosti ma sempre pronti a saltar fuori o almeno a far capolino tra le pieghe di qualsiasi atto del vivere, «lo stupore con cui si manifesta il sé» e «l’angoscia dell’esser toccati da eventi, senza perché». Ogni accadere tocca a me, proprio a me, senza che io sappia perché, così come non so questo me donde venga né dove vada, e neppure perché proprio a me questo me sia toccato.
Con l’«accadermi» la coscienza di me ogni volta salta fuori del suo con-sistere, e proprio in ciò io e-sisto. Essa qualifica il vissuto, il riferimento esplicito o implicito a un sé, coscienza riflessiva, autocentrata ancora prima che nella pubblicità della forma linguistica «io» e nella determinazione dialogico-concettuale. Insomma, se il vissuto è l’evento propriamente umano, la paticità è il nucleo intimo del vissuto, la fenomenalità di ogni fenomeno, l’arcisenso.
All’autocentramento però concorrono non soltanto la folgorante emozione del tempo, sofferto trauma della differenza, con la sua oscura figura del sé, ma pure la bruciante inquietudine dell’incontro con l’altro, il tacitamente interpellante, a me familiare o estraneo, seducente o minaccioso, comunque sempre enigmatico, tra me e lui reciprocità interiormente vissuta di speculari rimandi simpatetici o antipatetici. Nell’incontro, in ogni uomo l’immagine dell’altro lo anima del suo sé, e questa a sua volta intanto corrobora il sé di lui e lo arricchisce di tocchi. In questo vivo gioco di reciprocità ognuno si sovradetermina, enfatizzando sé come io e l’altro come tu.
L’emozione, in cui consiste il tempo, l’avvertimento «destabilizzante» di repentini cambiamenti, l’irrompere della differenza in noi, frantuma l’inerte identità dell’ente, ne distrugge l’apaticità, mette in moto la dialettica dell’altro nel sé di ognuno, e di ognuno nel sé dell’altro. La paticità è costitutiva dell’e-sistenza. Nella vertigine patica, sotto l’imperio del tempo, ci si ritrova comunque sempre da capo presso ad una soglia del nuovo, soli nel deserto di un assoluto «inizio». Tutto si ripete, nulla dura. Si danno infinite repliche, ma nessuna identica.
Il vissuto di tempo si rifrange nei molteplici cromatismi emotivi: nella sofferenza per l’identità perduta e l’abitualità sconvolta, nel tremore del destino incombente, nella insicurezza del rapporto con l’altro. Ma esso intero fiammeggia nell’inquietante sfida dell’inizialità, nel muoversi verso il nulla, il vuoto del futuro, a partire dal nulla, dal vuoto del passato. Nella paticità ogni volta, al centro della vita, le occasionali emozioni si “umanizzano”, da fatti naturali si ri-generano in prove umane. In umana anzi si ri-genera la vita tutta, da semplice vita vivente convertendosi in vita vissuta.
Nell’esplosa drammaticità dell’e-sistenza, l’oscuro avvertire che l’identità della coscienza di sé dura solo attraverso la difficile prova del suo incessante perdersi scatena l’emozione originaria, il vissuto decisivo. La morte non è che il caso estremo, la chiusura di partita, di tutte le infinite morti per cui la vita, che è «tempo» ma più propriamente l’incessante cambiamento delle cose (il sempre nuovo irrompere della differenza), fatalmente patisce la sua intrinseca precarietà non solo, dalla parte del dopo, nella straordinaria tragicità della catastrofe finale quanto pure, dalla parte del prima, in certa ordinaria catastroficità del quotidiano.
L’Arcisenso è impenetrabile, ma penetra di sé ogni esperienza. Esso contrasta l’intersoggettività, la relazione d’ogni singolo con gli altri, e tuttavia è condizione necessaria della sua possibilità. È evidente che il principio antropologico - l’idea con cui si comprende il senso di essere «uomo» -, si muove in un circolo. Punto di partenza e punto d’arrivo è sempre la relazione, ma in due versioni diverse. Tra il primo e il secondo funziona una cerniera, un medio: la solitudine. Questa può essere puro sentire o ragionata consapevolezza, ma è comunque paticità del sentir-si. Essa non sarebbe chiaramente e dolorosamente presente senza l’io, che si costituisce nella relazione, a cominciare dalla simbiosi bambino-madre.
A sua volta, senza la patita coscienza della solitudine, della propria separante differenza e unicità, cioè dell’irriducibile esclusività del proprio punto di vista, neppure esisterebbero la pluralità degli individui e la relazione sociale che ognuno d’essi strenuamente e in vari modi persegue, affaticandosi a costruire sistemi di comunicazione con altri soggetti-persone.
Senza l’incontro di un vivente con altri, nessun vissuto si avrebbe. I fenomeni patici e le fenomeno-patie non si originerebbero senza il gioco di una pluralità di viventi. L’ «universalità» della «verità» e dei «valori» in genere non se ne potrebbe generare nell’indifferenza. Essa può dischiudersi soltanto con il crescere dei vissuti nell’assidua e vivente reciprocità della «cura», nell’illimitato complicarsi delle relazioni sin-patetiche; nel sempre nuovo incrociarsi di Aufforderungen («appelli», «pro-vocazioni», «inviti»), come genialmente proponeva Fichte nel dedurre il fondamento intersoggettivo della soggettività e nell’annunziare con esso il significato nuovo dell’universalità dello «spirito».
Pensare l’assoluto non della morte, il nulla, ma della vita, è pensare la relazione, l’illimitata relazione di relazioni. Etico, o più propriamente ’path/ethico’, è il pensiero che, coltivando la sapienza del relativo, ci mantiene nella vita. Liberi.
L’arcisenso secondo Aldo Masullo
di Sossio Giametta («la Repubblica - Napoli», 06 aprile 2018)
Chi vuol sapere che cos’è la filosofia, in particolare la filosofia contemporanea (ma a partire da Fichte), chi vuole partecipare ai suoi misteri gaudiosi e dolorosi, provare su di sé la sua forza demoniaca, ed è disposto a farsi invadere perquisire violentare per essere affiliato alla ristretta, ma universale e sempiterna setta dei vedenti, raccolga le forze, si compri “L’arcisenso. Dialettica della solitudine” di Aldo Masullo (Quodlibet, pagine 190, euro 20), si liberi dalle incombenze quotidiane e si sprofondi nella lettura del libro. Se tutte queste condizioni non ricorrono e si preferisce rimanere nella beata ignoranza (Ignorance is Bliss), giacché non si tratta di babà e di gattò, anche se si rimane tra le eccellenze napoletane, allora: estote longe profani, statevene lontani, brava gente: si può vivere anche senza filosofia, sebbene non con la stessa larghezza, scialo e dignità.
Alle prime otto pagine mi sono spaventato. Sopra di me un oracolo, un medium, un mago, uno sciamano o non so quale personaggio sovrumano, dettava una dopo l’altra, in uno stile veloce conseguente perfetto ma a cui è arduo tener dietro, verità misteriche sulla vita e sull’uomo, sul soggetto, sulla soggettività, che “non è né essere né divenire, ma il sempre ricominciante “venire-a-sé”, sull’intersoggettività e sulla comunità che ne scaturiscono e sulla solitudine invincibile di fondo: un bagno freddo in un gelo ardente. Solo da pagina nove in poi, a cominciare da una bella citazione di Croce, ho ricominciato a respirare, a trovare un discorso più umano, più alla mia portata.
Ma la distruzione iniziata prima di nozioni e verità consolidate, idola di tutti i tipi, ma in particolare dell’uomo e del soggetto, continua. Si salva la “paticità”. Tutto comincia da essa anche se non finisce con essa. Che cos’è la paticità, “l’intoccabile tocco”? Be’, conoscete l’antipaticità? Il pathos, l’apatia? Sì? E allora ricavatevi anche quella. Tanto, se vi dico che è l’arcisenso, non vi aiuto molto. Ma vediamo se ci può aiutare invece quello che ne dice l’Autore, nel primo e nell’ultimo degli otto esplosivi capitoli del libro.
“Patico è il modo umano della coscienza. Esso è in atto in ogni momento del sentir-si. Le emozioni vi si umanizzano ed entrano nella e-sistenza”. Avete capito? Non ancora? Be’, pensateci sopra, finirete col capire più o meno, come più o meno ho capito io, anche grazie alle tante altre cose che l’Autore aggiunge. Per esempio: “la paticità è il nucleo intimo del vissuto, la fenomenalità di ogni fenomeno, l’Arcisenso”. “Il patico è il sentir-si che accompagna inseparabilmente ogni sentire”. Questa cosa fondamentale non è tuttavia né rappresentabile né comunicabile, e ciò rende la vita “radicalmente autocentrata”, cioè la solitudine di ognuno radicale e insuperabile. Non cominciate a vedere píù chiaro? Non c’è proprio un lume, ma un barlume sì.
L’uomo “non è un ente inerte, apatico”, ma “un e-sistente... esposto alle inquietanti relazioni con gli altri”. Insomma l’apatico è il sordo sentir-si di ognuno, un’oscurità, ma un’oscurità che porta alla luce dell’e-sistenza e della intersoggettività, giacché non c’è un Io senza almeno un altro Io, è un fatto naturale che si rigenera in prove umane. Qual è la sua fonte? È “la tensione dell’assoluta differenza (tra l’essere e il nulla) al cui irrompere si usa dare il nome di tempo”. Sul tempo se ne sentono delle belle nell’apposito capitolo “Durata”, che ha come sottotitolo Eraclito. Il desiderio eroico. Dove il desiderio eroico dell’uomo è il solo garante della durata nel tempo che distrugge tutto e in ogni istante anche se stesso.
Il discorso sulla paticità, che è centrale, è ripreso, come abbiamo detto, nell’ultimo capitolo. Questo è una Appendice. Nel labirinto della soggettività. Appunti per una autobiografia filosofica. Uno magari bada all’autobiografia e non al “labirinto” e pensa di trovare un’autobiografia come quella di Croce, di Vico, di Cartesio o di Spinoza.
Ma invece no, è proprio un labirinto, un labirinto di concetti, soprattutto della soggettività, in cui a forza di scavare la filosofia contemporanea, a partire da Fichte, si è intrappolata per la sua logica intrinseca, scovando alla fine interessanti passaggi e vie di uscita. Il risultato è la negazione di “essenze, strutture, metaempiriche, universalità, o qualche sovrana architettura logico-ontologica, trascendente o trascendenta-le”: bye bye (se funziona) filosofia classica! Quella contemporanea porta al post-Dove moderno e si basa sulla fattuale e irriducibile differenza vissuta, sempre il patico, che porta alla reciprocità affettiva e al sin-patetico riconoscimento - “riconoscimento della pluralità [nella comunità] in cui consiste l’unità dell’umano”.
Insomma, cari amici, ho cercato to put you in the picture, di introdurvi un po’ nell’atmosfera del libro, ma di più qui non posso dire, salvo che questo “Arcisenso” è un libro avventurioso, ricchissimo di “scandalose novità”, alle quali hanno contribuito quasi tutti i filosofi contemporanei, che hanno agito in questa impresa rivoluzionaria di concerto allo stesso modo in cui agisce nella scienza la collettività degli scienziati. Ma tutte queste novità sono magistralmente portate a unità con agilità da scoiattolo e piglio giovanile da un uomo che il 12 aprile ha compiuto 95 anni, che invera il detto di chi sostiene che il corpo invecchia solo per far ringiovanire lo spirito. Qui lo spirito è giovanissimo, lucidissimo, e l’Autore, come filosofo, non è affatto pronto per la “pensione”. Lo contrarierebbe infatti chi pensasse che questo libro, una sì vasta silloge, possa essere il “testamento spirituale” di Aldo Masullo. Molto bolle ancora in pentola e fra non troppo ci sorprenderà. Forse ci sconvolgerà. Se qualcosa si può timidamente obiettare ai suoi grandi capitoli (sul Dolore, sulla solitudine - magistrale saggio su Leopardi - sul silenzio, sulla sapienza e sulla grazia, è l’incredibile impetuosità, che lo porta a un’audacia capace di trasformarsi in temerarietà (accadde anche a Nietzsche). Molte sue soluzioni infatti sono così spinte che, pur ammirevoli come frutto di una felicissima inventività filosofica, non è facile, almeno immediatamente, far proprie. Quello che ci sentiamo di dire per un così geniale e illustre filosofo napoletano, che è anche un grande oratore, è quello che del filosofo dice un autore che spicca, rispetto a lui, per la brevità della sua vita, Pico Della Mirandola: “Se vedrai un filosofo discernere ogni cosa con netta ragione, veneralo; è animale celeste, non terrestre”.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
Federico La Sala
CdB - Comunità Cristiana di Base Viottoli
15 luglio - 15^ Domenica del T.O.
Un tirocinio di vita nuova
E’ un brano difficile, a mio parere. Non tanto per la radicalità del messaggio di Gesù, che i Vangeli ci testimoniano a ogni pagina e alla quale siamo ormai abituati, direi serenamente indifferenti, al di là forse dell’ammirazione estetica per la coerenza del profeta.
E’ difficile, secondo me, perché, a differenza della dottrina cattolica che vede nei discepoli di Gesù il nucleo originario del clero e della gerarchia, io ci vedo invece un invito preciso a ogni discepolo e a ogni discepola, a ogni uomo e a ogni donna che professino di voler vivere da cristiano e da cristiana.
Una pratica decisiva
Dice Marco (come anche Matteo 10,9-15 e Luca 9,1-6) che Gesù li mandava a predicare e a guarire, ad annunciare la buona notizia del Regno e a invitare la gente a fare penitenza, come segno tangibile del cambiamento di vita scelto.
Li mandava “a due a due” (solo Marco lo sottolinea), così si sostenevano nel compito e, andando, si scambiavano emozioni e parole, aiutandosi a vicenda ad approfondire e radicare le motivazioni del loro andare.
Mi sembra l’avvio di una pratica decisiva: un “passaparola” che, a poco a poco, coinvolgerà altri e altre e li/le motiverà a mettere a disposizione le proprie case, i propri averi, le proprie intelligenze, dando così vita alle piccole comunità domestiche di cui troviamo testimonianza nel libro degli Atti e nelle Lettere, non solo quelle di Paolo.
Solo uomini malati di potere, di ricchezza e di dominio, hanno potuto inventarsi e imporre il “sacramento dell’ordine”, addebitando a Gesù un progetto gerarchico che gli era completamente estraneo e che solo il mercimonio con l’imperatore di Roma ha reso possibile e duraturo nel tempo. E’ ora di smascherarlo e di abbatterlo, come la statua di Nabucodonosor nel sogno di Daniele...
Un tirocinio di vita
Torniamo al Vangelo, chiudendo con convinzione i testi di dogmatica e di catechismo. I “dodici” non erano preti e mai lo sono diventati. Erano discepoli, tra i quali solo il linguaggio maschile-neutro della cultura patriarcale nasconde e rende invisibili le donne, che accompagnavano Gesù e qua e là sono nominate.
A loro, ai discepoli e alle discepole che lo seguono con più convinzione ed entusiasmo, Gesù fa scuola: insegna, offre loro il proprio modello di vita, li/le invita a mettersi in gioco in prima persona, esercitandosi a fare quello che fa lui. E’ un tirocinio di vita nuova, quello a cui li/le invita: a imparare a mettere al centro le relazioni e a viverle con semplicità, coerenza, pazienza.
Semplicità. Niente cinque per mille né oboli di S. Pietro né concordati ed esenzioni ICI: solo “un bastone, sandali e una tunica”; e accettare con gioia l’ospitalità di chi mette a disposizione del cibo e un letto per il riposo.
Questa diventerà la casa di riferimento per altri e altre di quel villaggio: luogo di scambio, di ascolto della buona notizia del Regno, di relazioni che guariscono e consolano, raddrizzano altre schiene curve, cancellano depressioni, cecità, sordità, zoppìe di ogni tipo...
Marco dice che tutto ciò è il contenuto del “potere” che diede loro Gesù e che, a loro volta, hanno trasmesso ad altri e ad altre. Proprio com’è possibile che succeda a noi, ogni giorno che incontriamo uomini e donne con cui riusciamo ad entrare in relazione profonda di vita e di scambio.
E’ un “buon contagio” che si diffonde: ci accorgiamo che anche a lui, anche a lei, accade il bello e il buono che è già accaduto a noi e che si rinnova quotidianamente. La solitudine, la depressione, l’angoscia... e le mille somatizzazioni di una vita vuota di luce e di senso, lasciano il posto alla felicità, al desiderio di non tornare indietro, di vita piena... e di comunicarlo ad altri, ad altre.
Questa è la “conversione” a cui mi sento chiamato da Gesù; questo è il senso della “penitenza” a cui il messaggio evangelico ci chiede di aderire con coerenza.
E con pazienza: se qualcuno “rifiuta di accogliervi e di ascoltarvi, andatevene”. E continuate a camminare, di villaggio in villaggio, proprio come faceva Gesù, fermandovi nella casa che vi accoglie “finché non ve ne andiate”.
Sembra proprio che a Gesù non sia neppure passato per la mente di istituire parroci e pastori con compiti di permanenza territoriale. Troppo alto è il rischio di finire come i sacerdoti, gli scribi e i farisei di Israele, che impongono se stessi e pesi insopportabili.
Bisogna camminare, viaggiare, spostarsi... stimolando conversioni e cambiamenti di vita attraverso lo scambio nelle relazioni e accettando ogni rifiuto, che appartiene alla libertà di scelta di ogni uomo e di ogni donna.
A chi sceglie di vivere da suo discepolo, da sua discepola, compete il compito di predicare la buona notizia e di viverla con coerenza. Fare altrettanto è responsabilità di ciascuno e ciascuna.
Un modello copiabile
Ma non finisce lì! Nei versetti 30 e 31 vediamo Gesù che si prende cura dei suoi che tornano stanchi e li invita a riposare un po’. Ma la gente li segue, li assedia... e Gesù decide di prendersi cura di tutti e tutte e insegna come fare altrettanto sempre.
E’ semplice: basta condividere quel poco che ognuno/a ha: la parola e il gesto che guarisce, sostiene, conforta... e il cibo, la vicinanza sull’erba, la condivisione di un’esperienza di ascolto, di scambio, di ricerca.
Chi fa vita di comunità e di gruppo sa per esperienza quanto tutto ciò sia vero, sia semplice, sia “modello copiabile”. Non come il Gesù “personaggio”, di cui nessuno riesce a credere che sia proprio quell’umile artigiano di Nazareth che si è messo a fere il profeta.
Se “vivere da profeta” è e resta vocazione/professione di pochi, questi pochi restano lontani, imprigionati dal pregiudizio nel folclore, nel devozionismo, nel ritualismo vuoto e superficiale.
Sono modelli “non copiabili”, lontani dalla portata dei comuni mortali, che non si sentono dunque interpellati in prima persona. Non invitano all’ascolto e al cambiamento di vita, ma suscitano stupore e scandalo, come succede a Gesù nel brano iniziale del capitolo.
Se non c’è relazione il miracolo non avviene; se non ci sono consapevolezza e ascolto, fiducia e disponibilità, “fede da bambino”... il miracolo non si può fare.
Perché il miracolo del cambiamento non si impone da uno all’altro: può avvenire solo in chi ascolta l’esperienza altrui, accoglie la proposta e sceglie di farla propria.
Questo non accade “in patria”, nella casa del padre, dove impariamo a voler essere “padroni in casa nostra”, ma nel mondo, che è la “casa della madre”, delle relazioni d’amore libere, senza muri, senza respingimenti, senza confini, dove c’è responsabilità, riconoscimento reciproco e riconoscenza.
Tutto ciò è difficile, come dicevo all’inizio. Ma è fattibile, copiabile, possibile a ciascun uomo e a ciascuna donna. Non è “roba da preti”, missione per pochi...
Il Regno di Dio, dell’amore e della giustizia, ci è vicino e “viene” nella misura in cui ciascuno e ciascuna vi si dedica con semplicità, coerenza e pazienza. Se lo deleghiamo ai gerarchi, schiavi della loro sete di ricchezza e di dominio, resterà un’impresa impossibile. E’ parola di Gesù.
LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. Nonostante le lezioni di Benigni, non abbiamo ancora capito le ragioni dantesche di Ulisse all’inferno. E la cultura italiana continua a navigare in uno "stato" sonnambolico.... *
M5S, Lega e l’assalto alle istituzioni
I nuovi Proci e l’Italia
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 30.05.2018)
Anagraficamente Salvini e Di Maio appartengono alla generazione che avevo battezzato Telemaco: figli che hanno avuto il coraggio di farsi avanti, di impugnare le sorti del loro destino, di impegnarsi in prima persona per cambiare l’avvenire del loro Paese. Ma politicamente essi - anche alla luce di questo ultimo tristissimo quanto drammatico episodio della loro lunga marcia verso il potere - sembrano assomigliare di più ai Proci. Sono i cosiddetti “pretendenti”, i giovani principi che nell’Odissea di Omero esigono di possedere la regina Penelope e di insignorirsi del trono decretando Ulisse morto, disperso in chissà quale mare. Nel poema essi rivendicano il loro pieno diritto di governare Itaca nonostante non abbiano mostrato alcun rispetto per le sue istituzioni democratiche. Qui il lettore può spaziare ampiamente nella sua memoria tra le infinite ingiurie leghiste e grilline alle nostre istituzioni: ma non è forse questo il cemento armato della loro più profonda convergenza?
L’atteggiamento dei Proci non è però solo antiparlamentare - interrompono con le armi lo svolgimento di un’assemblea convocata da Telemaco, saccheggiano e deturpano la reggia che li ospita - ma è offensivo verso la Legge stessa della città. Il vuoto di Legge che si è determinato con l’assenza di Ulisse li rende padroni assoluti. Evocare la morte di Ulisse significa infatti evocare la morte della politica che deve lasciare il posto all’arroganza di chi rivendica il proprio diritto inscalfibile alla successione.
L’anti-parlamentarismo si ribalta così in una spinta furiosa ad occupare le istituzioni parlamentari. Una differenza sostanziale differenzia però i nuovi Proci dai vecchi. I nuovi hanno ottenuto democraticamente il consenso del popolo per governare la polis. Hanno un mandato, il popolo è con loro, li sostiene. Tuttavia, la Legge della città ha il compito di ricordare loro che il diritto a governare non implica lo sconvolgimento delle regole democratiche della convivenza, non significa introdurre l’anti- parlamentarismo nelle istituzioni nel nome del popolo. Lo squadrismo fascista violava la vita democratica in nome del popolo. Ed è sempre, come è tristemente noto, in nome del popolo che si sono commesse le più grandi atrocità nella storia. I padri costituenti hanno affidato al presidente della Repubblica un ruolo di garanzia. Bisogna che qualcuno ricordi ai nuovi Proci le regole complesse di una democrazia. Il diritto a governare non può mai coincidere con il diritto a fare quello che si vuole, con il puro arbitrio. Leghismo e grillismo empatizzano facilmente tra loro perché sono le espressioni più radicali del populismo: oppongono la volontà del popolo alla vita della politica.
Di fronte al collasso senza precedenti della sinistra e del Pd, di fronte al vuoto della Legge della città che sembra prolungare all’infinito la lunga notte di Itaca, c’è voluto ancora una volta il volto di un padre simbolico a testimoniare che le istituzioni non sono proprietà di nessuno, che il diritto al governare non coincide con il diritto a cancellare i principi elementari di una democrazia rappresentativa. È stato necessario il gesto coraggioso di un padre per salvare le speranze di Telemaco, per ricordare ai nuovi Proci che Ulisse è ancora vivo.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
Nonostante le lezioni di Benigni, non abbiamo ancora capito le ragioni dantesche di Ulisse all’inferno. E la cultura italiana continua a navigare in uno "stato" sonnambolico....
GLI ESEMPI TAROCCATI DI BARICCO E DI SCALFARI E L’ITALIA STRETTA NELL’ABBRACCIO MORTALE DEL "CAVALEONTICO" ULISSE DI ARCORE.
GENITORI, FIGLI, E FORMAZIONE: AL DI LÀ DEL FALLIMENTO, COSA RESTA DEL PADRE? PER MASSIMO RECALCATI, OBBEDIENTE A LACAN, RESTA ANCORA (E SEMPRE) LA LUNGA MANO DELLA MADRE.
Federico La Sala
ICONE DELLA LEGGE - DELLA COSTITUZIONE. Icone. Pensare per immagini... *
Resurrezione: mito o mistero?
di Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 28.05.2018)
Nel dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio Salita al Calvario del 1564, si scorge a fatica, al centro di una scena super affollata, Gesù salire al Calvario nell’indifferenza generale. Si fatica a vedere la sua piccola figura e la grande croce che trascina con sé. Tutt’intorno a lui brulica una folla indifferente, affaccendata nelle proprie attività. Il clima è festoso, non sembra profilarsi alcuna tragedia all’orizzonte. In primo piano, tre donne piangono, consolate da un giovane che sappiamo essere Giovanni, l’apostolo. Ma le quattro figure sembrano fuori posto, quasi fossero dovute perché non si dà la Passione senza le donne piangenti e Giovanni.
Inizia da qui l’itinerario che Gabriella Caramore e Maurizio Ciampa percorrono nel loro ultimo libro, Croce e Resurrezione (il Mulino), pubblicato nella collana ’Icone. Pensare per immagini’ diretta da Massimo Cacciari. -Come suggerisce il titolo, il libro è diviso in due parti. Nella prima, dedicata alla passione e crocefissione di Cristo, Maurizio Ciampa commenta la Salita al Calvario accostandola anche a diverse altre raffigurazioni dello stesso soggetto: da Hieronymus Bosch, col suo Cristo portacroce del 1515 - in cui il volto di Gesù sembra l’unico umano, schiacciato e soffocato da facce grottesche e demoniache -, a James Ensor, con L’entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889, in cui la parodia dell’ingresso a Gerusalemme alla vigilia della Pasqua, è un carnevale. Da Matthias Grunewald con il crocifisso dell’Altare di Isenheim, quasi inguardabile nell’atrocità del suo dolore, a I disastri della guerra, di Francisco Goya, 1808-1810, e altri ancora.
La seconda parte del libro è dedicata alla risurrezione di Cristo, evento inimmaginabile accaduto senza testimoni. Com’è possibile, allora, rappresentarlo? In che modo dipingere un uomo che abbia attraversato il confine della morte e abbia trovato, al di là, vita nuova? Di quale strana materia dovrebbe essere fatto, per rimanere attingibile ai sensi?
Gabriella Caramore sceglie di parlarne commentando La cena di Emmaus dipinta da Rembrandt nel 1629, in cui il risorto è un profilo d’ombra che risalta sulla luce proiettata sul muro alle sue spalle, che il suo stesso corpo emana. Ed è una buona scelta, perché non esiste in tutta la storia dell’arte un volto di Cristo risorto all’altezza dell’evento, neppure quello che forse è il più bello di tutti, ritratto da Piero della Francesca nel dipinto Resurrezione del 1460.
È un libro bello e intenso, traboccante di domande che tutti si fanno davanti ai due pilastri della fede cristiana, la morte in croce di Gesù e il suo ingresso in una nuova vita. Due sono le più dure e drammatiche: interessano ancora a qualcuno la sua storia e la sua tragica fine? Com’è possibile oggi credere alla resurrezione? La risposta, più lasciata intuire che detta esplicitamente, sembra essere ’no’. Forse, suggeriscono gli autori, dovremmo leggere tutta la vicenda in un modo diverso che, allontanandola dalla “leggenda”, ci permettesse di trovarne un senso accettabile oggi per noi.
Nella Salita al Calvario, osserva Ciampa, per la prima volta la passione di Cristo è trasformata in spettacolo, infatti la sua figura quasi scompare tra le tante che affollano la scena, per lo più allegre e ridanciane, prese dai loro vari commerci. Il luogo in cui il condannato sarà crocifisso è lontano e marginale. Come lo sono anche Giovanni e le donne, raffigurati in primo piano sul lato destro del dipinto, e sembrano del tutto estranei rispetto alla folla. Non sono vicini né a Gesù né al luogo del patibolo.
Maurizio Ciampa si chiede se ce la farà ad arrivare al Golgota questo povero Cristo “trafitto dall’indifferenza” e acutamente osserva: “Possiamo leggere la Salita al Calvario come un triste presentimento di ciò che accadrà, una sorta di presagio della Storia che verrà, una sua sintesi anticipata. La croce nascosta, il Cristo accantonato, la Passione alterata in ‘festa’”.
Una festa paesana che James Ensor porterà a termine, trasformandola in carnevale, dopo che Cristo avrà attraversato il male raffigurato nei volti ghignanti di Hieronymus Bosch, quasi a suggerire che egli non può - non ha potuto né potrà - vincere il male sulla Terra. “In Bruegel resiste ancora, nascosto, un residuo di croce” - afferma Ciampa - “in Bosch la croce sembra soccombere, Cristo resta comunque l’ultima traccia dell’umano; in Ensor, gli "uomini vuoti", distratti, confusi, sembrano non averne più memoria.” La passione diventata intrattenimento e un Cristo fragile e svuotato sembrano dichiarare che la sofferenza dell’uomo non troverà mai senso e che il “simbolo cristiano” ha perso efficacia per l’uomo di oggi. Il mondo ha messo Cristo da parte, la sua storia non interessa più, non è più ispiratrice né può dirsi in alcun modo diversa da quella dei tanti uomini e donne buoni e di valore che la Storia ha fatto a pezzi. Non c’è più altro da dire.
A questo punto, però, nella visione cristiana fondata sulla testimonianza della gente del tempo, entra in scena la libertà di Dio. Perché è questo il significato della resurrezione di Gesù: nella loro libertà i potenti nemici di Gesù ne hanno decretata la morte; nella sua libertà, Gesù non vi si è sottratto; ma nella sua libertà, Dio è intervenuto quando la sua azione non avrebbe più forzato e ridotto la libertà degli altri attori in gioco. Con la resurrezione di Gesù ha dichiarato, davanti agli uomini e alla Storia, che quell’uomo diceva la verità, su di loro e su Dio stesso. È possibile crederlo?
Gli autori sembrano, di nuovo, propendere per una risposta negativa quando si domandano: “Quale narrazione di quell’evento può aiutarci a darne una lettura che non strida con l’esigenza contemporanea di uscire dal linguaggio del mito?”. E più avanti, verso la conclusione del libro, Gabriella Caramore, invitando a non smettere di cercare “per capire se sia possibile estrarne una umile, esile forza su cui far leva per potere stare al mondo”, si chiede se non sia “proprio in questa eclissi di una trascendenza mitologica (corsivo mio) che può condensarsi il senso della ’resurrezione’: qualcosa è stato e ha lasciato un segno sulla terra ... rimane, per chi resta, la possibilità di ridestarsi alla luce, di rialzarsi alla vita. Non è, questo, un segno molto più potente che non attendere il ritorno nella carne, nella materia, o nella leggenda (corsivo mio) di chi ha lasciato quell’incolmabile vuoto?” E riferendosi all’evangelista Luca e alla sua insistenza a dichiarare Gesù il vivente anche dopo la morte, afferma: “In fondo quell’insistenza ... appare come un invito ad allontanarsi dalla visione di un cadavere che torna a rivisitare i vivi, per spalancare invece la possibilità di trovare forza e consolazione in ciò che rimane di una vita trascorsa”.
Se la resurrezione è un mito, non credo ci possa dare alcuna forza, né esile e umile, né d’altro genere; non consola nessuno né cambia alcunché della nostra personale sofferenza. Se non è un mito, è uno sconvolgimento, una forza potente, una rivoluzione dell’interpretazione che ognuno può dare alla propria vita, una direzione totalmente nuova verso cui sentirsi tutti in cammino. La resurrezione di Gesù non è il ritorno a questa vita di un cadavere, ma la rivelazione di un destino sorprendente, di uno stadio successivo alla vita che aspetta ogni essere umano (e non soltanto). È la possibilità di sperare con intelligenza, e non sulla base di favole e miti rassicuranti, che la morte non sia la fine del viaggio. E questa fiducia non si basa su un’adesione emotiva, non è stata conservata nei secoli da cuori fragili incapaci di accettare la morte, ma da spiriti forti e intelligenze acute che vi hanno riflettuto con tutte le proprie forze. È impossibile riassumere qua questo lungo cammino, mai concluso, ma chi volesse può ascoltare, per farsi un’idea della questione, una conferenza molto chiara e interessante dell’astrofisico e teologo Giuseppe Tanzella-Nitti, dal titolo: La visione del cristianesimo tra vita biologica ed immortalità, reperibile su youtube.
L’evento della resurrezione non ha avuto testimoni, per questo non si può definirlo storicamente certo (se lo fosse, probabilmente saremmo tutti cristiani). I fatti storicamente accertati riguardano, invece, quello che i discepoli fecero dopo gli incontri con Gesù successivi alla sua morte, e l’improvviso cambiamento avvenuto nella loro attitudine, nel loro stesso carattere.
La resurrezione è, ad ogni modo, un mistero che non si può liquidare facilmente né alla leggera, perché la fede cristiana non si fonda sul messaggio di Gesù allo stesso modo in cui, per esempio, il buddismo si fonda sull’insegnamento straordinario del Buddha, ma sulla sua persona e sul mistero che egli rappresenta per l’umanità tutta. A quel mistero appartiene, come elemento non secondario ma fondamentale, che sia risuscitato dalla morte rivelando qualcosa di sostanziale in merito al destino di tutti gli esseri umani.
Credere nella resurrezione di Gesù e in una vita piena dell’intera persona umana, al di là di come questo sia possibile e di quale materia sarà il nostro corpo, fa la differenza tra il cristianesimo e le altre concezioni. È ancora vero quello che ha detto san Paolo: “...se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede ... se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini.” (1Cor 15).
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
KANT ALL’ATTACCO DEI DELIRI E DEGLI INGANNI DEI "GRANDI SAPIENTI": ANNO DI GRAZIA, 1766.
EVANGELO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ...
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
LA LEZIONE DI DANTE. Nella Commedia i primi principi della Costituzione
... e l’Italia uscì a riveder le stelle
Nella Divina Commedia le indicazioni per la Costituzione nata dalla Resistenza
di Giovanni Maria Flick (La Stampa, 27.05.2018)
Per aprire la mia riflessione sulla Costituzione, nel ricordo e nella celebrazione di Dante, ho preso in prestito dalla Divina Commedia una delle espressioni che più mi hanno affascinato e mi sono rimaste impresse nelle letture liceali di essa. Non saprei trovarne altra più adatta - per ricordare il percorso del nostro Paese dalla guerra perduta a quella civile, alla Resistenza e alla Liberazione, alla Repubblica e alla Costituzione - della descrizione del passaggio anche fisico del poeta dall’emisfero boreale a quello australe.
Lasciare la voragine dell’Inferno pietrificato dall’odio, dalla disperazione, dalla solitudine nella folla, dal frastuono caotico, dal gelo luciferino, dalle tenebre, per giungere alla serenità e alla luce nell’ascesa alla montagna del Purgatorio, ai suoi cieli azzurri preludio alla luminosità del Paradiso, all’erba e ai fiori, al «chiaro mondo» e a «le cose belle», alla solidarietà e all’amicizia, alla pena come strumento per la beatitudine e non come costrizione. Tale è - a differenza delle tradizioni dell’epoca, secondo cui il Purgatorio è un Inferno a termine - l’immagine del Purgatorio che ci propone Dante: una comunità in un paesaggio terrestre ma governato da leggi non terrestri; una realtà che è espressa dal poeta in modo più musicale, meno figurativo dell’Inferno e richiama i ritmi naturali dell’esistenza, il ciclo delle stagioni.
La sequenza dalla dichiarazione stolta della guerra nel 1940 (per sedere con qualche migliaio di morti al tavolo della pace) alla disfatta nel 1943; alla lotta fratricida oltre che contro il nazista invasore; alla Resistenza nel 1943 e alla Liberazione nel 1945; alla scelta repubblicana e alla scrittura della Costituzione con il referendum del 1946; alla ricostruzione delle pietre e dei valori del nostro Paese (dopo lo smarrimento della «diritta via» nella «selva oscura» del Ventennio fascista, culminato nel 1938 con la imitazione servile delle leggi razziali naziste). Forse non sono esattamente la stessa cosa dell’Inferno e del Purgatorio danteschi; ma certo vi si avvicinano molto.
Perciò è giusto rendere omaggio a Dante per questo contributo - profetico e preciso, quanto di necessità inconsapevole - alla ricostruzione di quel particolare periodo del nostro passato e alla riflessione odierna sulla Costituzione italiana, a settant’anni dalla sua nascita e a poca distanza dalla sua riconferma nel 2016, con il No a larga maggioranza in occasione dell’ultima proposta di referendum per una sua riforma radicale.
Beninteso, le indicazioni «costituzionali» che possono trarsi dalla lettura della Divina Commedia sono anche altre, sia di carattere generale sia specifico.
Basta pensare, ad esempio, alla definizione primitiva ma attuale dei beni comuni: «com’esser puote ch’un bene, distribuito in più posseditor, faccia più ricchi di sé, che se da pochi è posseduto?». Se il significato di bene comune è stato colto così bene da Dante nel 1300, «com’esser puote» che incontri difficoltà di comprensione nel 2018 di fronte a una serie sempre più estesa (e sempre più minacciata nella sua esistenza) di beni comuni (destinati cioè alla fruizione da parte di tutti e non solo da parte del loro proprietario pubblico e privato o di chi paga un biglietto?).
Basta pensare alle perle di saggezza - che in realtà racchiudono e sintetizzano interi commentari sull’arte di legiferare, da troppo tempo dimenticata - proposte del poeta: «le leggi son ma chi pon mano ad esse?» (Purgatorio, canto XVI, 97); o ancora, a proposito della dichiarazione di Giustiniano imperatore «per voler del primo amore ch’i sento, d’entro le leggi trassi il troppo e il vano» (Paradiso, canto VI, 12), che dovrebbe costituire l’ambizione e l’impegno di qualsiasi aspirante legislatore sia costituente sia ordinario.
Basta pensare infine alla differenza, sottolineata da Dante, tra la giustizia umana distributiva e quella divina: alla «lagrimetta» di Buonconte da Montefeltro (Purgatorio, canto V, 91-129) grazie alla quale l’angelo di Dio priva il diavolo della sua preda, da lui attesa per i trascorsi di vita del morente, che vengono superati e annullati dal pentimento finale di quest’ultimo.
La molteplicità degli aspetti posti in evidenza da Dante, nel descrivere il suo percorso poetico e umano, non consente ulteriori richiami in questa sede, oltre ai pochi accennati dianzi. Questi ultimi, ma in realtà tutto il resto, suggeriscono un filo rosso e una guida nella lettura della nostra Costituzione, di fronte alla vicenda di un grandissimo personaggio, che propone all’attenzione del giurista e del politico nella Divina Commedia un poema non solo autobiografico (il suo conservatorismo, la sua dignità e la sua rigidità, la sua posizione di protagonista e di vittima in quello scontro tra Guelfi e Ghibellini e tra Bianchi e Neri, che ripropone in miniatura temi tuttora presenti nella quotidianità e lotta politica del nostro paese). È soprattutto un poema civile ed etico.
È un poema di denunzia e di protesta contro l’ingiustizia, la corruzione, la degenerazione del potere che non conosce e rifiuta qualsiasi limite, le deviazioni della finanza e del mercato, l’avidità del guadagno, l’orgoglio e l’ostentazione della ricchezza conquistata, l’ipocrisia; quest’ultima considerata da Dante il peccato più grave, l’espressione della malvagità sotto apparenza di bontà, il parlare in modo reticente.
È emblematica in questo senso l’enciclopedia delle passioni umane descritte attraverso l’elencazione e l’esemplificazione dei sette vizi capitali, nel Purgatorio: la superbia, l’invidia, l’ira, l’accidia, l’avarizia, la gola, la lussuria. V’è ben più di quanto basta per agevolare, seguendo questo filo rosso e questa guida, una riflessione e un bilancio sulla nostra Costituzione nei suoi primi settant’anni di vita.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"DUE SOLI" IN TERRA, E UN SOLO SOLE IN CIELO: "TRE SOLI". GENERE UMANO: I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE!!! NON SOLO SUL PIANO TEOLOGICO-POLITICO, MA ANCHE ... ANTROPOLOGICO!!!
LA "MONARCHIA" DI DANTE, IL GIUSTO AMORE, E IL VATICANO CON IL SUO TRADIZIONALE SOFISMA DELLA "FALLACIA ACCIDENTIS". Un invito alla lettura
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". Con la morte di Giovanni Paolo II, il Libro è stato chiuso. Si ri-apre la DIVINA COMMEDIA, finalmente!!! DANTE "corre" fortissimo, supera i secoli, e oltrepassa HEGEL - Ratzinger e Habermas!!! MARX, come VIRGILIO, gli fa strada e lo segue. Contro il disfattismo, un’indicazione e un’ipotesi di ri-lettura. AUGURI ITALIA!!!
NUOVO REALISMO (E "GAIA SCIENZA"): LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
Federico La Sala
CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ! .... *
Massimo Recalcati, il nuovo saggio
Il coraggio di affrontare il desiderio
Il ritratto del nevrotico e il significato del sacrificio sono al centro del volume (Raffaello Cortina) dell’autore, in cui il sapere teorico si unisce all’esperienza di terapeuta
di Emanuele Trevi (Corriere della Sera, 10.04.2018)
È un ritratto potente, e per certi aspetti sconsolato, del nevrotico quello che emerge dalle pagine di Contro il sacrificio. Al di là del fantasma sacrificale (Raffaello Cortina, 2017), il recente saggio di Massimo Recalcati che sviluppa e approfondisce temi già toccati in libri precedenti, e in particolare in L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica (stesso editore, 2010). Nei brevi e limpidi capitoli di questo libro il sapere teorico si unisce all’esperienza di terapeuta e anche alla memoria personale, come se l’autore, individuato uno dei peggiori e più insidiosi nemici della vita umana, intendesse stanarlo e aggredirlo moltiplicando i punti di vista e le possibili strategie. Ed ecco emergere, pagina dopo pagina, la cupa figura dello «schiavo del peccato», del rinunciante sempre invischiato nell’economia perversa del «fantasma sacrificale». Tutto ciò di cui non gode, pensa quest’uomo, costituisce un capitale, o meglio un investimento che gli sarà restituito a tempo debito. Non c’è impoverimento della propria vita (e di quella di chi gli è vicino!) che non gli appaia conveniente in nome di un finto ideale di purezza e superiorità morale che è solo un alibi per non assumersi mai la responsabilità del proprio desiderio.
Nello Zarathustra, Friedrich Nietzsche escogitò la metafora del «cammello» per irridere questa vita tanto priva di spirito quanto fondata sulla penitenza e l’ascetismo. Lo sguardo rivolto a terra, la schiena carica di pesi, il «cammello» è la perfetta incarnazione di un’esistenza del tutto spogliata di senso da un imperativo morale che sembra sempre giungere da fuori e dall’alto, ed esige cieca obbedienza e rassegnazione. Recalcati non ha dubbi: così sottomessa a una Legge che si afferma negando il desiderio, l’esistenza dello «schiavo della colpa» è un errore irredimibile, una pulsione di morte travestita da virtù. «La vita interiore prende il posto della vita: ruminazione incessante, abnegazione, autocolpevolizzazione, risentimento, sacrificio di sé».
Il compito dell’analisi, per Recalcati, è riconoscere che proprio l’identificazione della vita e del sacrificio è «la malattia più grande del nevrotico». La posta in gioco è altissima, perché consiste nella possibilità di fondare e rafforzare un’alleanza vitale fra la Legge e il desiderio. Se c’è una «colpa», essa va riconosciuta nell’aver tradito la propria singolarità e tutte le sue inclinazioni, di non essersi caricati sulle spalle l’unico peso che è davvero necessario assumersi, che è quello di ciò che si vuole.
Si leggono queste pagine di Recalcati come un messaggio di speranza ancora più che come un rigoroso discorso scientifico e filosofico, capace di far interagire, con grande sapienza dialettica, i Vangeli e Nietzsche, Søren Kierkegaard e Jacques Lacan. Uno dei meriti dei saggi di Recalcati è quello di far sempre proseguire per conto suo il lettore nel percorso iniziato con la lettura.
Tutto sommato, è della nostra vita che si tratta, e del rischio perenne di sprecarla e dissiparla. Proprio per questo, mi sembra urgente formulare a questo bel libro, e al suo autore, una domanda: una volta liberati dal «fantasma sacrificale», come diventiamo in grado di riconoscere ciò che davvero vogliamo, e che ci definisce come individui? Non è questo un altro pezzo di strada lungo il cammino in direzione della nostra libertà?
Per il momento Recalcati confina questa ulteriore questione in una nota a piè di pagina. Ma mi sembra che valga la pena di scavare ancora in un terreno così fertile. Magari in un nuovo libro, dedicato questa volta all’arte più difficile che esiste: quella di conoscere sé stessi.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GENITORI, FIGLI, E FORMAZIONE: AL DI LÀ DEL FALLIMENTO, COSA RESTA DEL PADRE? PER MASSIMO RECALCATI, OBBEDIENTE A LACAN, RESTA ANCORA (E SEMPRE) LA LUNGA MANO DELLA MADRE.
Chi è il numero uno?
Eugen Rosenstock-Huessy e il ruolo della prima persona.
di Damion Searls (Il Tascabile, 03.04.2018) *
Può essere sconvolgente rendersi conto, all’improvviso, che qualcosa a cui non avevi mai pensato - qualcosa che avevi sempre accettato come reale - è solo un articolo di fede. Spesso è il linguaggio a far accendere la lampadina: qualcuno ridefinisce la realtà con una nuova parola (mansplaining, Rebecca Solnit) o mostrando i poteri nascosti e le interconnessioni di una parola antica (debito, David Graeber). Raramente la rivelazione riguarda il linguaggio in sé.
La citazione è di Eugen Rosenstock-Huessy (1888-1973), un teorico del Cristianesimo dell’età moderna molto particolare. (Tutte le traduzioni sono dal volume The Language of the Human Race: An Incarnate Grammar in Four Parts [Die Sprache des Menschengeschlechts: Eine leibhafte Grammatik in vier Teilen].) Rosenstock-Huessy ha ispirato alcuni connoisseur, tra cui W. H. Auden e Peter Sloterdijk, ma possiamo dire in tutta tranquillità che è ancora poco conosciuto. È difficile capire cosa pensare di lui. Di sicuro trovo fastidiosa la palese importanza della nascita di Cristo - o della Missione Divina - che inserisce regolarmente nei suoi ragionamenti filosofici. (Auden: “Chi lo legge per la prima volta può trovare, come è capitato a me, certi aspetti della sua scrittura un po’ difficili da accettare... Per quanto mi riguarda, posso solo dire che ascoltando Rosenstock-Huessy, io sono cambiato”). Il dogma grammaticale a cui fa riferimento - e contro cui si è battuto a morte in un libro di oltre 1.900 pagine - è la lista all’apparenza innocente che risale ai Greci: la prima persona, la seconda persona, la terza persona. Io amo, tu ami, egli ama, o, se avete studiato Latino, amo, amas, amat.
Non sta dicendo che dovremmo aggiungere una forma per la “quarta persona”, come per esempio la distinzione tra terze persone in Ojibwe, oppure una “persona zero” per le costruzioni impersonali come in Finlandese. Sta dicendo che rendere “io” la prima persona è il peccato originale non solo della linguistica, ma della filosofia, della scienza e della stessa vita sociale. E lo intende davvero. Teoricamente, appiattisce l’esperienza vissuta in resoconti freddi e asettici, assimilando tutto all’“affermazione” di un “dato” in terza persona che non richiede alcun coraggio personale, non ha alcuna rilevanza sociale.
Empiricamente, la lista Greca commette un errore: la “prima persona” infatti non arriva per prima. L’io di un bambino si sviluppa quando gli viene rivolta la parola, da un genitore o da un’altra persona che si prende cura di lui. Qualcuno deve dire “tu” nel modo giusto perché un “io” non folle possa di fatto esistere. (Vedi Neither Sun Nor Death di Peter Sloterdijk, p. 30, dove ho sentito parlare di Rosenstock-Huessy per la prima volta). Dal punto di vista psicologico, neurocognitivo e dello sviluppo, “io” è l’ultima persona. Sei un bravo bambino. La bottiglia è lì. Ho fame.
È questa la rivelazione che mi ha tanto colpito. La prima persona non è la prima. Non esiste nessuna lista, a parte quelle che inventiamo. Che aspetto avrebbe il mondo se potessi vedere al di fuori di questo schema? Se prima venisse un legame tanto forte da darti l’autorità di giudicare l’esperienza di qualcun altro - tu ami, tu hai fame, sei carino oggi, ti stai comportando male - e poi venisse una visione condivisa del mondo, e solo successivamente un’espressione di sé? L’idea Cartesiana, “penso dunque sono”, e tutte le distinzioni tra mente/corpo/io/altro avrebbero potuto non emergere mai se Cartesio non fosse stato indottrinato con l’idea che “io” viene per primo. Esistono romanzi in prima e in terza persona, ma la seconda è un’anomalia, proprio come nella vita reale non possiamo prenderci la libertà di parlare per una seconda persona come faremmo di noi stessi in quest’era dell’espressione di sé. Quanto altro ancora della natura del romanzo, e della percezione della mia vita, risale essenzialmente alla grammatica greca di duemila anni fa?
Vale la pena notare che scrisse questi pensieri sulla tirannia nel 1945. E che l’uso del “lui o lei”, ben avanti sui tempi, è suo.
Rosenstock-Huessy fa risalire tutto a questo peccato, dai conflitti con l’autorità a scuola alla schizofrenia, e avanza delle rivendicazioni impressionanti per un proprio “metodo grammaticale” che riconfiguri il linguaggio. Come dicevo, non so cosa pensare al riguardo. Ma è qui, presentato per voi sotto forma di paragrafi alternati da me e da lui. Voi siete la prima persona. Fatene quello che volete.
Traduzione di Alessandra Castellazzi. Si ringraziano l’autore e The Paris Review per la pubblicazione dell’articolo.
* Damion Searls traduce dal tedesco, dal norvegese, dal francese e dall’olandese. Ha tradotto classici come Proust, Rilke, Nietzsche, e Ingeborg Bachmann. Il suo ultimo libro è Macchie d’inchiostro - Storia di Hermann Rorschach e del suo test.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ... *
’My mirror’, nell’era dei selfie specchiarsi nell’altro è rivoluzionario
Esperimento di ’eye contact’, 4 minuti per guardarsi negli occhi altrui
di Redazione ANSA *
Guardarsi foto bowie15 iStock. © Ansa Guarda le foto...
MILANO.
Una doppia cabina, in cui due sconosciuti si siedono uno di fronte l’altro, per 4 minuti, semplicemente per guardarsi negli occhi. Al termine di questa breve interazione, ognuno dei due, assistito da alcuni facilitatori, racconta all’altro le sensazioni che ha provato.
E’ ’My mirror’, un nuovo esperimento di eye contact, organizzato da Caritas Ambrosiana, che sarà possibile sperimentare a Fa’ la cosa giusta!, la fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili dal 23 al 25 marzo.
Le tecniche di eye contact - spiegano gli organizzatori - dimostrano che 4 minuti di contatto visivo avvicinano le persone più di tante parole.
Così, con My Mirror si proverà a favorire l’incontro tra tante persone diverse, per genere, età, nazionalità, storie. L’idea di fondo è che nell’epoca dei selfie, dove ci si specchia solo negli schermi dei propri smartphone, specchiarsi negli occhi di un altro può essere un atto rivoluzionario e comunque non lascia nessuno indifferente
Secondo le stime, in media, ognuno di noi passa 5 anni della propria vita collegato a internet, 11 davanti alla tv. Con quante persone potremmo connetterci se ci prendessimo la briga di guardaci negli occhi gli uni con gli altri? E come cambierebbe la percezione che abbiamo del mondo?
Fragilità, povertà, migrazioni, malattia quando si incarnano in un volto smettono di essere un semplice fenomeno sociale, il titolo di un articolo, spesso di cronaca nera, ma diventano la vita del compagno di scuola e della sua famiglia, del vicino di casa, del parente prossimo.
My Mirror fa parte della campagna di Caritas Internationalis “Share the journey” volta a promuovere la “cultura dell’incontro”.
* ANSA, 23 marzo 2018 (ripresa parziale - senza foto).
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Il bene è una modesta proposta
di Paolo Morelli (nazione indiana, 17.03.2018)
“A un certo punto, nell’educazione di mio figlio, ho cominciato a sostituire i concetti di buono e cattivo con quelli di reale e irreale, per quanto ciò possa sembrare arbitrario”. Nei suoi ultimi libri Filippo La Porta pare prendere il via da considerazioni di carattere pedagogico assai personale. Ma se nel precedente, Indaffarati, l’indagine riguardava la gioventù odierna e i suoi problemi d’adattamento, qui il critico letterario torna alla grande letteratura e alle sue possibilità di interpretazione ed integrazione nel vissuto quotidiano. Sarà per questo intento iniziale forse, educatore ed autobiografico che la lettura di quello che è pur sempre un saggio dantesco si presenta confortevole, amicale, familiare, con tutta evidenza cosa assai rara.
La Commedia di Dante, dispiegata e spaginata quasi fosse un esercizio spirituale, cioè a dire una pratica personale destinata ad operare un mutamento di visione. Terreno impervio, vista da stratificazione quasi millenaria di pensose riletture e studi accademici sul poema, quella di guardare oggi al viaggio avventuroso nell’oltretomba come un percorso morale di perfezione, un rivolgimento, e alla portata di tutti. Lui il Sommo, così avverso alla modernità riletto come classico contemporaneo, non aggiungendo quindi l’ennesima dose di filologia dantesca bensì alla scoperta di un Dante etico che “possa aiutarci a ridefinire un’etica per il terzo millennio”. E con un suo mentore anche in questo caso, magari più di uno, ma certamente centrale appare la figura di Simone Weil e la sua affermazione che “è bene ciò che dà maggiore realtà agli esseri e alle cose, male ciò che gliela toglie”.
Ed è con la forza delle analogie e la disinvoltura di un appassionato e continuo processo d’induzione che l’autore si avvicina, pure lui “con esitante umiltà”, si appresta a smuovere il monumento per una buona causa, costeggiando o corteggiando l’arbitrario per scrollarsi di dosso il noto, il risaputo, per riaprirlo convinto, almeno pragmaticamente, del primato della morale sulla metafisica e l’idea di grandezza che inevitabilmente essa porta in sé.
Dalla lettura attenta del poema quindi si può ricavare un’idea di bene “come riconoscimento della realtà (...), del carattere inesauribile e diversificato del mondo”, mentre il male, qui sempre minuscolo, è “sottrazione di realtà” per se e per gli altri, è chiusura. È bene (e aggiungerei io, utile) accettare l’insensatezza, la carenza, la reale e realistica nostra debolezza di fronte all’esistere, il male morale nasce invece da una cattiva immaginazione, dall’illusione di una stabilità. Amare qualcuno è dargli realtà, scrive La Porta, e lo ripete nel libro quasi con effetto psicagogico, vale a dire lasciare essere l’altro quello che è, senza volerlo per forza cambiare, ritirarsi quando serve per far esistere l’altro giacché solo “ci si salva lasciando che il mondo esista”. Il corollario di questa intuizione weiliana con cui leggere la Commedia è che una mente sana è una mente non distratta, causa ed effetto al contempo di una speciale qualità di attenzione non solo per gli altri ma per se stessi, traverso la quale è possibile riconoscere che tutti gli eventi e le cose al mondo, noi compresi, sono invariabilmente collegati, intrecciati da nessi cangianti, e ciò che li collega può addirittura definirsi il ‘sacro’.
Quindi il fine della ricerca dantesca, e della nostra parimenti potrebbe essere la visione delle cose come sono, ma il mezzo, lo strumento non può che essere l’attenzione, una speciale qualità d’attenzione come atto intellettivo originario da cui scaturisce, quasi per forza, l’effetto di un amor proprio meno lòico (lo è il diavolo), calcolatore e più laico, cioè forte abbastanza da avere il senso del limite, da poter esercitare la mitezza, quella mitezza così spesso scambiata per debolezza.
Ma poi sul libro aleggia anche, a mio parere, l’urgenza, l’esigenza di una critica letteraria risvegliata dal pensiero etico. Il pensiero pigro, esausto, nichilista o post-moderno che dir si voglia della nostra attualità accetta che non vi sia alcuna verità intrinseca nell’opera d’arte, e che la valutazione si possa quindi limitare al gusto personale, più o meno ammantato da chiacchiere e distintivo. In realtà, e se vogliamo sognare una rifondazione di una necessità quotidiana, di una efficacia autentica, la verità di un’opera d’arte dovrà trovarsi nella maggiore approssimazione del bello al bene, nella kalokagathìa per dirla alla greca.
E questa non è solo una modesta proposta.
Nota:
LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ ...
Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni", ma soprattutto la Legge del "Dio" di Mosè di Elia e di Gesù, del "Dio" dei nostri "Padri" e delle nostre "Madri". L’Amore che muove il Sole e le altre stelle ... e la fine del cattolicesimo costantiniano!!!
Per ben agire e ben comunicare (anche solo con se stessi o con stesse!), come insegna Dante, ci vogliono TRE SOLI (la cosiddetta - impropriamente - teoria dei "due soli")!!!
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA".
Federico La Sala
«Il mio Dante tra etica e pop»
Filippo La Porta: «La scuola? Ci ha fatto odiare il meglio prodotto dall’umanità»
di DAVIDE SPERANZA (La Città di Salerno, 24 giugno 2015)
Il 750esimo anniversario della nascita di Dante Alighieri, il suo essere sempre presente non solo nella cultura italiana ma in tutte le culture del mondo, il ruolo della scuola, la riflessione profonda sulle città, su Roma, il contrasto/incontro tra modernità e senso dell’uomo, tecnologia e solidarietà. Il tutto declinato attraverso una continua ricerca di se stessi. Il critico letterario Filippo La Porta, fa il suo ingresso a Salerno Letteratura questa mattina alle 10.30 al Tempio di Pomona, con tutta la sua essenza “militante”. Lo abbiamo intervistato e, dall’etica dantesca, il discorso si è immerso nelle questioni del terzo millennio, nel rapporto tra uomo e ambiente urbano.
Lei parla di etica di Dante. Perché?
Non mi concentro sul Dante politico, né teologico. Mi interessa di più il Dante etico. Sono convinto che Dante ha qualcosa da dirci ancora oggi, egli ci parla, anche nel terzo millennio. C’è una frase di uno dei maggiori commentatori di Dante, Gianfranco Contini, che dice “Dante non sta dietro di noi, Dante sta davanti a noi”. E la filosofa Simone Weil una volta ha detto “Che cos’è il bene? Tutto ciò che dà realtà agli altri. Che cos’è il male? Tutto ciò che toglie realtà agli altri”. Ecco, questo concetto lo troviamo nel sommo poeta. Il male nasce dall’irrealtà, da una cattiva immaginazione che genera solitudine. Qui entra l’etica dantesca. Quando Dante incontra gli invidiosi nel purgatorio, questi hanno le palpebre cucite con un fil di ferro. Dante vede la folla di non vedenti e abbassa lo sguardo, perché loro non possono vedere lui e Dante pensa che non è giusto che lui veda loro. La terzina dice “A me pareva, andando, fare oltraggio, veggendo altrui, non essendo veduto”. Questa cosa la ritroviamo nel comportamento dello scrittore Albert Camus che nel 1949 va in America Latina, a Rio de Janeiro. Qui gli fanno visitare le favelas, di fronte alle quali lo scrittore abbassa lo sguardo: sente che guardandole le avrebbe oltraggiate. Oggi questo senso di ordine con il reale è imploso. Dante ci insegna a comprendere meglio le persone.
Dante viene studiato più all’estero?
Negli Stati Uniti, Dante è studiato di più e in modo diverso. Gli americani lo riconoscono come autore vicino alla loro cultura puritana. Studiosi come Charles Singleton o John Freccero, hanno un approccio meno filologico. Per loro Dante deve insegnare come comportarsi nella vita.
La scuola italiana riesce a mediare l’opera dantesca?
Sono a favore di un buon uso della cultura pop. C’è una canzone di Caparezza che si intitola “Argenti Vive” ed è ispirata ad un personaggio dantesco, Filippo Argenti. Caparezza fa un’operazione geniale, una mediazione culturale rispetto alla Commedia. La scuola ci ha fatto odiare il meglio che ha prodotto l’umanità. Tutto dipende dagli insegnanti e dalla relazione tra loro e gli studenti.
“Roma è una bugia” è il suo ultimo libro. Cos’è Roma?
È la città degli opposti. La città più maleducata del mondo ma anche la più accogliente. La città del Vaticano ma blasfema. Una città cinica ma che sa scoprire lo stupore del mondo. Tutto quello che viene a Roma muore. Il cristianesimo, il risorgimento, il fascismo, la resistenza, perfino la lega e il movimento5stelle. In realtà, è anche vero che qui tutto non finisce mai di morire. Ciascuno ogni giorno si sente immortale. A Roma l’apocalisse è sempre rinviata.
Qual è il rapporto tra scrittori e città?
Molti scrittori hanno dialogato con la città: Pasolini, Landolfi, Manganelli, Carlo Levi. Penso che è fondamentale per uno scrittore diventare consapevole dei propri luoghi. Le piazze e le strade mi comunicano ogni giorno un messaggio che ho il dovere di interpretare. Capire, nonostante la globalizzazione, in quanta misura i luoghi fisici determinano l’identità di un uomo e di uno scrittore.
Cosa significa per lei, città?
Più della metà della popolazione mondiale ha deciso di vivere in città. Ma qual è la città della globalizzazione? È un’ immensa, sterminata, incolore, anonima periferia, un non luogo. Qui dobbiamo ritrovare un senso, una dimensione urbana legata ad un’idea di modernità e di evoluzione etica, che metta insieme i concetti di smart city e di inclusione.
IL DIO MAMMONA (“CARITAS”), IL DENARO, E “IL GATTO CON GLI STIVALI”.
LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI *
PURGATORIO DE L’INFERNO, 10. “Questo è il gatto con gli stivali”
Questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente
Edoardo Sanguineti
* SI CFR. : KARL MARX E WALTER BENJAMIN - “PURGATORIO DE L’INFERNO”: IL DIO MAMMONA (“CARITAS”), IL DENARO, E “IL GATTO CON GLI STIVALI”. LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI
Federico La Sala
UN PASSO AL DI LÀ DEL NARCISISMO E DELL’EDIPO: "SÉ COME UN ALTRO". OSSERVARE SE STESSI, SE STESSE ... CON "SIMPATIA"! *
Il tizio che mi guarda dallo specchio
di Paolo Godani (Alfabeta-2, 11.02.2018)
L’attuale eclissi della psicanalisi, cioè la marginalizzazione della sua posizione epistemologica e della sua funzione sociale in favore delle scienze cognitive, è un’ottima notizia per almeno due ragioni. Innanzitutto perché, come alcuni segni già invitano a immaginare, c’è la possibilità che la psicanalisi stessa, da una posizione di minorità, torni a produrre qualcosa di interessante. Ma anche perché può ora riapparire, in tutto lo splendore che la bolla psicanalitica aveva lungamente offuscato, l’immenso patrimonio della ricerca psichiatrica, soprattutto francese, cresciuta nella seconda metà del XIX secolo.
Jean-Martin Charcot, Théodule Ribot, Alfred Binet, Pierre Janet, solo per nominare gli autori un tempo più celebri di questa età dell’oro della psicologia francese, non sono stati soltanto curiosissimi ricercatori sperimentali, ma anche e soprattutto inventori di ipotesi, spiegazioni, concetti che ancora sfidano l’asfissia della cultura contemporanea.
Lo dimostra brillantemente Barbara Chitussi che in un saggio appena uscito da Meltemi non solo, quasi come in un romanzo, mette in scena i casi clinici, le storie fantastiche di personalità multiple di cui si sono occupati gli psichiatri francesi, ma ne trae il materiale teorico per costruire una vera e propria filosofia della personalità. «Se mi sono occupata dell’analisi di questi casi - spiega l’autrice fin dall’introduzione - è stato per studiare in una prospettiva filosofica le strategie con le quali il soggetto si è pensato e costruito nella forma di un rapporto con sé, accettando di essere un personaggio, assumendo l’inautenticità della propria immagine, aprendosi al dominio della finzione attraverso l’imitazione dell’altro, o meglio osservandosi come uno spettatore osserva uno spettacolo».
Tutto è iniziato, si potrebbe dire, negli anni che seguono il 1875, quando la Francia sembrava attraversata da un’epidemia di personalità multipla. Tra i casi anonimi, raccolti dal dottor Krishaber e analizzati da Émile Littré, c’è chi «voleva parlare, ma fu costretto a interrompersi, tanto il suono della sua voce lo stordiva», chi credeva di «non essere di questo mondo», chi sentiva in sé stesso «un io che pensa e un io che esegue». Ma, come accade spesso, il brusio delle voci senza volto finisce per raccogliersi nel fulgore di un nome che quelle voci, tutte, le fa risuonare assieme. «Racconterò - spiega in un articolo del 1876 il chirurgo-psicologo Eugène Azam - la storia di una giovane donna la cui esistenza è tormentata da un’alterazione della memoria che non ha precedenti nella scienza; l’alterazione è tale che è lecito chiedersi se questa giovane donna non abbia due vite».
La ragazza di cui parla Azam si chiama Félida, è «bruna, di statura media», molto intelligente e piuttosto istruita, seria, taciturna, grande lavoratrice, «di carattere triste e persino cupo». O meglio, triste e cupa Félida appare di solito sino al momento della sua crisi. Le accade infatti, talvolta, di cadere improvvisamente nel sonno e di risvegliarsi in uno stato che non è più quello nel quale si era addormentata: «solleva la testa e aprendo gli occhi saluta sorridendo i nuovi arrivati, la sua fisionomia si illumina emanando allegria». Dopo il sonnellino o la catalessi, insomma, «il suo carattere è completamente cambiato; da triste è diventata allegra e la sua vivacità raggiunge l’impetuosità, la sua immaginazione è più esaltata». Per spiegare che cosa significhi e come possa accadere che la malinconica Félida-1 lasci il posto all’estroversa Félida-2, gli psicologi si lanciano nell’invenzione di nomi e concetti: amnesia periodica, raddoppiamento o sdoppiamento della vita, doppia coscienza o doppia esistenza, per arrivare alla nozione più carica di conseguenze: sdoppiamento della personalità.
Come nota con finezza Barbara Chitussi, gli psicologi che a proposito del caso di Félida iniziano a parlare di doppia personalità, operano a loro volta uno sdoppiamento dello stesso termine di personalità. Non più sinonimo di coscienza o di vita, la personalità torna ora a riavvicinarsi al significato originario del latino persona: avere una personalità significa ormai «indossare una maschera, avere un particolare modo di essere». Passaggio decisivo, con ogni evidenza, che consentirà a Pierre Janet di verificare la distinzione tra un moi interiore e un moi esteriore, tra un sentimento della pura esistenza di sé, cioè di un’esistenza indipendente da qualsivoglia attributo, qualità o maschera, e un sentimento della propria personalità, che come tale è complessa e variabile, nonché esteriore rispetto al mero sentimento dell’esistenza. Ma passaggio decisivo, questo, lo è soprattutto perché stabilisce che la personalità di ognuno non è un che di sostanziale, ma semmai un modo, una maniera di essere, una postura, un’immagine che può essere assunta o rigettata, un abito che si può indossare, ma anche cambiare e sostituire.
Da qui in avanti, il percorso dell’autrice attraversa una molteplicità di campi all’interno dei quali la questione della personalità, confrontata con problematiche diverse come lo sdoppiamento nel sogno, la costruzione immaginaria di un sé ideale in quello che si chiamerà «bovarismo», le questioni della co-coscienza e della doppia moralità, assume nuove connotazioni. Ma questa varietà di campi problematici - ognuno con i suoi casi singolari che rendono Lo spettacolo di sé così avvincente (fra cui non si può passare sotto silenzio l’affascinante e riottosa Sally, una delle personalità della «famiglia Beauchamp», analizzata da Morton Prince) - non toglie nulla alla compiutezza filosofica del testo.
La sua tesi fondamentale è che il soggetto è un rapporto, cioè che la formazione soggettiva di ognuno avviene sempre e soltanto attraverso lo sdoppiamento di sé, prendendo distanza da ciò che si è o si crede di essere, trattando se stessi come altri. In questo senso, il sé figura come una contrattazione continua, come un campo sul quale si alternano una pluralità di caratteri o personaggi, nessuno dei quali può affermare di essere l’autentico rappresentante del soggetto.
«Ripensare il paradigma della personalità-maschera - spiega di conseguenza l’autrice - significa [anche] disancorare nuovamente la vita personale [...] dall’ottusa identità della vita biologica». Infine, è ancora un’etica della non-coincidenza con sé, quella che Barbara Chitussi definisce, quando spiega che «l’identificazione con la maschera [...] non dà mai la felicità, mentre nello spazio che abbiamo imparato a chiamare rapporto conoscere se stessi significherà osservarsi e godere di sé come l’attore che prova per il proprio ruolo un sentimento di “simpatia”».
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
NUOVO REALISMO: LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!. Per ben agire e ben comunicare (anche solo con se stessi o con stesse!), come insegna Dante, ci vogliono TRE SOLI (la cosiddetta - impropriamente - teoria dei "due soli")!!!
Federico La Sala
“Il fascismo è eterno: ecco come lo si può riconoscere”
Non pensiero ma azione
di Umberto Eco (Il Fatto, 11.01.2018)
Il termine “fascismo” si adatta a tutto perché è possibile eliminare da un regime fascista uno o più aspetti, e lo si potrà sempre riconoscere per fascista. [...] Ritengo sia possibile indicare una lista di caratteristiche tipiche di quello che vorrei chiamare l’“Ur-Fascismo”, o il “fascismo eterno”. che non possono venire irreggimentate in un sistema; molte si contraddicono reciprocamente, e sono tipiche di altre forme di dispotismo o di fanatismo. Ma è sufficiente che una di loro sia presente per far coagulare una nebulosa fascista.
1. [...] Il culto della tradizione. Il tradizionalismo è più vecchio del fascismo. Non fu solo tipico del pensiero controrivoluzionario cattolico dopo la Rivoluzione francese, ma nacque nella tarda età ellenistica come una reazione al razionalismo greco classico. Nel bacino del Mediterraneo, i popoli di religioni diverse (tutte accettate con indulgenza dal Pantheon romano) cominciarono a sognare una rivelazione ricevuta all’alba della storia umana. Questa rivelazione era rimasta a lungo nascosta sotto il velo di lingue ormai dimenticate. Era affidata ai geroglifici egiziani, alle rune dei celti, ai testi sacri, ancora sconosciuti, delle religioni asiatiche. Questa nuova cultura doveva essere sincretistica. [...] tollerare le contraddizioni. Come conseguenza, non ci può essere avanzamento del sapere. La verità è stata già annunciata una volte per tutte [...] È sufficiente guardare il sillabo di ogni movimento fascista per trovare i principali pensatore tradizionalisti. [...]
2. Il tradizionalismo implica il rifiuto del modernismo. [...] Tuttavia, sebbene il nazismo fosse fiero dei suoi successi industriali, la sua lode della modernità era solo l’aspetto superficiale di una ideologia basata sul “sangue” e la “terra” (Blut und Boden). [...] L’illuminismo, l’età della ragione vengono visti come l’inizio della depravazione moderna. In questo senso, l’Ur-Fascismo può venire definito come “irrazionalismo”.
3. L’irrazionalismo dipende anche dal culto dell’azione per l’azione. [...] Pensare è una forma di evirazione. Perciò la cultura è sospetta nella misura in cui viene identificata con atteggiamenti critici. [...]
4. Nessuna forma di sincretismo può accettare la critica. Lo spirito critico opera distinzioni, e distinguere è un segno di modernità. Nella cultura moderna, la comunità scientifica intende il disaccordo come strumento di avanzamento delle conoscenze. Per l’Ur-Fascismo, il disaccordo è tradimento.
5. Il disaccordo è inoltre un segno di diversità. L’Ur-Fascismo cresce e cerca il consenso sfruttando ed esacerbando la naturale paura della differenza. [...] è dunque razzista per definizione.
6. L’Ur-Fascismo scaturisce dalla frustrazione individuale o sociale. Il che spiega perché una delle caratteristiche tipiche dei fascismi storici è stato l’appello alle classi medie frustrate, a disagio per qualche crisi economica o umiliazione politica, spaventate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni.
7. A coloro che sono privi di una qualunque identità sociale, l’Ur-Fascismo dice che il loro unico privilegio è il più comune di tutti, quello di essere nati nello stesso paese. È questa l’origine del “nazionalismo”. Inoltre, gli unici che possono fornire una identità alla nazione sono i nemici. Così, alla radice della psicologia Ur-Fascista vi è l’ossessione del complotto, possibilmente internazionale. I seguaci debbono sentirsi assediati. Il modo più facile per far emergere un complotto è quello di fare appello alla xenofobia. [...]
8. I seguaci debbono sentirsi umiliati dalla ricchezza ostentata e dalla forza dei nemici. [...]
9. Per l’Ur-Fascismo non c’è lotta per la vita, ma piuttosto “vita per la lotta”. Il pacifismo è allora collusione col nemico[...].
10. L’elitismo è un aspetto tipico di ogni ideologia reazionaria, in quanto fondamentalmente aristocratico. Nel corso della storia, tutti gli elitismi aristocratici e militaristici hanno implicato il disprezzo per i deboli. L’Ur-Fascismo non può fare a meno di predicare un “elitismo popolare”. Ogni cittadino appartiene al popolo migliore del mondo, i membri del partito sono i cittadini migliori, ogni cittadino può (o dovrebbe) diventare un membro del partito. Ma non possono esserci patrizi senza plebei. Il leader, che sa bene come il suo potere non sia stato ottenuto per delega, ma conquistato con la forza, sa anche che la sua forza si basa sulla debolezza delle masse, così deboli da aver bisogno e da meritare un “dominatore”. [...]
L’Ur-Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme - ogni giorno, in ogni parte del mondo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!! NEL 1994 UN CITTADINO REGISTRA IL NOME DEL SUO PARTITO E COMINCIA A FARE IL "PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA" DEL "POPOLO DELLA LIBERTA’"
UNA DOMANDA ALL’ITALIA: MA COME AVETE FATTO A RIDURVI COSI’?! UN "BORDELLO STATE": UN PAESE BORDELLO. Una nota di Maurizio Viroli (dagli Usa) - e una risposta (agli americani, dall’Italia)
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
Federico La Sala
BIOLOGIA, ANTROPOLOGIA E TEOLOGIA.... *
L’amore è davvero cieco così il cervello si spegne e la scienza non lo sa spiegare
È la Francesca di Dante il simbolo tragico della forza sprigionata dalle nostre passioni
di Massimo Ammaniti (la Repubblica, 29.09.2017)
Un saggio di Grazia Attili indaga le basi biologiche del sentimento più grande e misterioso. Studi ed esperimenti confermano le intuizioni dei poeti, ma non rispondono alla domanda cruciale: come accade? Consapevole di quanto l’amore plasmasse la vita quotidiana nel mondo occidentale, ma anche in altre culture, Sigmund Freud scrisse parole illuminanti in un suo saggio del 1915: «Indubbiamente l’amore fra i sessi è una delle cose più importanti della vita, e l’unione del soddisfacimento spirituale e fisico che si attinge nel godimento d’amore ne rappresenta precisamente uno dei vertici. Soltanto nella scienza si ha ritegno ad ammetterlo ».
È passato da allora più di un secolo ma la complessità dell’esperienza amorosa è ancora oggi difficile da decodificare in campo scientifico perché vi è un ritegno, più che comprensibile, ad entrare nell’intimità della vita individuale, ma anche a tradurre questo sentimento in un linguaggio troppo distante da quello che usano gli innamorati.
Ma l’amore non è solo quello del batticuore e del desiderio che si prova per la persona che si ama, anche il corpo e lo stesso cervello ne sono coinvolti, come viene raccontato nel libro Il cervello in amore (il Mulino, pag. 230) dalla psicologa e docente universitaria Grazia Attili.
Già in altri suoi libri Attili aveva esplorato l’esperienza amorosa in una chiave evoluzionistica mettendo in luce come l’amore dei genitori per i figli, ma anche fra partner sentimentali comporti l’attivazione di circuiti cerebrali che sostengono la relazione affettiva favorendo la propagazione delle specificità genetiche alle generazioni successive e la stessa sopravvivenza della specie umana. In questo nuovo libro esplora ulteriormente le basi biologiche dell’amore sentimentale con un’attenta revisione delle nuove scoperte nel campo dei neurormoni. Quando si pensa alla persona che si ama e ancora di più quando si è con lei si verifica nel cervello una tempesta ormonale, di cui la dopamina è la grande protagonista. Nel viso e negli occhi della persona innamorata si coglie il piacere che sta vivendo, ma che a volte suscita pensieri così insistenti da divenire travolgenti, quasi ossessivi.
Non può non ritornare in mente la tragica figura di Francesca da Rimini, che Dante incontra all’Inferno e che racconta il turbine da cui è stata travolta: «Amor che a’nullo amato amar perdona mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona». Ma il confine fra passione e innamoramento e delirio amoroso a volte può sfumare. Come per esempio nel film di François Truffaut Adele H., in cui la protagonista, la secondogenita di Victor Hugo, si innamora di un ufficiale inglese e lo insegue in Canada nonostante il divieto paterno, fino a perdere il senno.
Ma che cos’è che fa scivolare l’amore in un’ossessione che fa perdere il senso della realtà? A questo interrogativo cerca di rispondere il libro di Grazia Attili: nell’amore sentimentale, come hanno messo in luce le ricerche che hanno studiato il cervello delle persone innamorate utilizzando la risonanza magnetica, si verificano grandi cambiamenti. Le aree connesse alla sensazione di piacere e di euforia si attivano fortemente, ad esempio quando si guarda la foto della persona che si ama, mentre si disattivano le aree cerebrali connesse al riconoscimento delle emozioni negative e alla cognizione sociale. In altre parole gli studi confermano il detto “l’amore è cieco” proprio perché si verifica una specie di cecità mentale che compromette il riconoscimento delle qualità meno attraenti della persona che si ama.
È più che mai vero quello che scrisse Freud: artisti, poeti e scrittori hanno saputo raccontare le esperienze umane anticipando anche di molti secoli quello che la scienza ha cercato di scoprire molto dopo. Ma nel caso dell’amore la scienza sta compiendo i primi passi e ancora oggi non è in grado di spiegarne l’enigma: perché ci innamoriamo, perché succede proprio in un determinato momento della vita, perché siamo attratti da quella persona, ma anche perché può finire.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Antropologia e teologia....
"EROS", "AGAPE", "CHARITAS". L’ALLEANZA DI FUOCO: L’ANTICO TESTAMENTO E IL SESSO.
SESSO (EROS) E AMORE (AGAPE, CHARITAS). L’ARTE DI AMARE: COSTITUZIONE E "KAMASUTRA".
La lezione di Sigmund Freud (l’"Istruzione sessuale dei bambini")
Federico La Sala
RELAZIONI AUTENTICHE: UN URLO PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE ... *
MOLTISSIME PERSONE SI MANTENGONO AL SICURO non solo dietro a un cellulare (in "prigione" da sole!), ma dietro a un "mito"! E finiscono per non capire un’acca, nemmeno la differenza tra il proprio padre e il proprio "padre", tra la propria madre e la propria "madre", e mangiano "fake news" per colazione, pranzo, e cena, felici e contente di vivere alla corte del ricco "diavolo" di turno, stravisto come il dio dell’eternità!!!
Se è vero come qualcuno ha detto che "non si può descrivere una passione, la si può solo vivere", allora è bene non perdere l’equilibrio critico e non perdere la propria sovranità (cfr. nota sulla "colomba" di Kant, al seguente link): NON SAPER distinguere più tra sovranità e "sovranità", tra re e "re", regina e "regina", e ridursi da cittadino a "cittadino", da cittadina a "cittadina", a suddito e a suddita di un falso re e di una falsa regina!!!
NEL REGNO DEL SONNAMBULISMO GENERALE, da vent’anni e più, gli italiani e le italiane sono diventati e diventate tutti e tutte "italiani" e "italiane" e tutti e tutte si sono messi e messe a a correre a gran "velocità" e a gridare "Forza Italia"!!! Che grande "fluidità"!!! Avanti tutta ....
PER NON PERDERE IL SALE CHE ANCORA ESISTE NELLA TERRA D’OTRANTO E IN TUTTA L’ITALIA, UN SOLO GRANDE URLO:
W o ITALY ... VIVA L’ITALIA!
BUON LAVORO!!!
Federico La Sala
* Cfr. Pierpaolo Tarsi, "Le relazioni autentiche", Fondazione Terra d’Otranto, 22.09.2017.
CONOSCI TE STESSO, CONOSCI TE STESSA!!! Dopo millenni di riflessione, la nostra identità ("tautòtes" - greco) ancora nella culla ...
Abito bianco, bomboniere e 70 invitati alla festa: in Brianza la prima sposa single d’Italia
"Se a 40 non ho ancora il fidanzato faccio il matrimonio con me stessa": Laura Mesi ha mantenuto la promessa. E ha organizzato un mega party costato 10mila euro, viaggio di nozze compreso. "Ecco la mia fiaba senza principe azzurro"
di LUCIA LANDONI *
Abito bianco, bomboniere, taglio della torta, lancio del bouquet, familiari e amici commossi. Quello di Laura Mesi, 40enne istruttrice di fitness di Lissone (in provincia di Monza e Brianza), è stato un matrimonio tradizionale in tutto e per tutto, salvo per un particolare: mancava lo sposo.
"Sono la prima sposa single d’Italia. Qualche mese fa l’ha fatto anche un uomo di Napoli, ma a me l’idea era già venuta due anni fa. Avevo detto a parenti e amici che se entro il quarantesimo compleanno non avessi trovato la mia anima gemella mi sarei sposata da sola - spiega - Credo fermamente che ciascuno di noi debba innanzi tutto amare se stesso. Si può vivere una fiaba anche senza il principe azzurro. Se un domani troverò un uomo con cui progettare un futuro ne sarò felice, ma la mia felicità non dipenderà da lui".
Laura si è data da fare e ha organizzato in totale autonomia la sua cerimonia dei sogni: "Ho speso un po’ più di 10mila euro, pagando tutto di tasca mia. Ho fatto una piccola follia per il vestito e per le fedi, che sono due intrecciate in un unico anello. Grazie ai regali dei 70 invitati sono riuscita a coprire le spese del pranzo nuziale. Mi sono concessa anche il viaggio di nozze. Il giorno dopo la cerimonia, che si è tenuta in un ristorante di Vimercate, sono partita per Marsa Alam, sempre da sola".
Il matrimonio, celebrato da un amico che per l’occasione ha indossato una fascia tricolore, non ha alcun valore legale né religioso, ma la sposa garantisce che le emozioni provate sono state assolutamente reali: "Ho promesso di amarmi per tutta la vita e di accogliere i figli che la natura vorrà donarmi. Anche i miei familiari sono stati molto felici, compreso mio fratello che all’inizio era scettico sulla mia idea e invece poi ha finito per commuoversi accompagnandomi verso il celebrante".
Un’esperienza che la sposa single - seguita sull’omonima pagina Facebook da circa 1300 persone - ammette non essere per tutti: "Per portate avanti un progetto del genere servono una certa disponibilità economica, il sostegno di chi si ha intorno e soprattutto un pizzico di follia"
* LA REPUBBLICA, 21 SETTEMBRE 2017 (ripresa parziale - senza immagini).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CONOSCI TE STESSO!!! Dopo millenni di riflessione, la nostra identità ("tautòtes" - greco) ancora nella culla o, meglio, nella bara ("taùto" - napoletano)
LA FILOSOFIA E IL NARCISISMO "DIALOGICO". AMORE DELL’ALTRO O AMORE DI SE’? E’ LO STESSO. Una "risposta" di Umberto Galimberti
Federico La Sala
AL DI LA’ DELLA DIALETTICA "PADRONE-SERVO", PER UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO!
LA LEZIONE DI KANT
EDUCAZIONE? CHI EDUCA CHI: INSEGNARE A VOLARE. I SOGGETTI sono DUE, e tutto è da ripensare...
Pur condividendo con l’Autore di "Una domanda eterna: che cosa significa educare?", la linea strategica della sua riflessione ("della libertà faccio il perno centrale dell’educazione, un perno che ricomprende l’idea di educazione come introduzione alla realtà, il punto che sussume tutti i percorsi e le esperienze attivate per educare i cittadini di domani a una vita virtuosa"), credo che sia necessario e opportuno (anche sul filo delle sue stesse accennate indicazioni di Aristotele, Rousseau, Kant) portarci oltre e RIFLETTERE su quanto nella domanda è "nascosto", vale a dire su "CHI" educa "CHI" - a tutti i livelli! I SOGGETTI sono DUE, e tutto è da ripensare...
Se di Rousseau non vogliamo (continuare a) farne un teorizzatore dell’e-duc-azione autoritaria ( "ex-DUX-azione"), dobbiamo problematizzare proprio la sua frase finale, (ripresa dall’ "Emilio"), sull’uomo virtuoso, sul diventare "padrone di se stesso", e sul comandare al proprio "cuore", e, con lo stesso Rousseau, reinterrogarci sulla nostra condizione: "L’uomo è nato libero, e ovunque è in catene. Anche chi si crede padrone degli altri, non è per questo meno schiavo degli altri" ("Il contratto sociale"); e, insieme, sul tema del "CAPO" (preziosa al riguardo la "lezione" di Gramsci del 1924).
La questione è "eterna" ed è ... intrecciata con la questione delle Sibille e dei Profeti di Copertino (cfr. Pierpaolo Tarsi: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/30/copertino-si-scopre-casa-delle-sibille/), con la filologia e l’affresco di sant’Agostino di Nardò (cfr. M. Gaballo: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/28/laffresco-di-santagostino-nella-cattedrale-di-nardo/), e, ancora e in particolare, con il lavoro di Sigmund Freud. Non a caso in un mio lavoro su questi temi (cfr.: "Della Terra, il brillante colore. Parmenide, una "Cappella Sistina" carmelitana con 12 Sibille (1608), le xilografie di Filippo Barberi (1481) e la domanda antropologica", Prefazione di Fulvio Papi, Milano 2013), un capitolo è dedicato al problema J.-J. ROUSSEAU: "Al di là della cecità edipico-parmenidea e al di là della "società civile". J.-J. Rousseau: una coscienza aperta e una triplice fedeltà" (pp. 101-110).
PER ANDARE AVANTI democraticamente occorre rimeditare (come Pierpaolo Tarsi sollecita a fare) la lezione kantiana racchiusa nell’immagine della colomba della "Critica della Ragion Pura", occorre INSEGNARE A VOLARE. E, su questo, il contributo di KANT è enorme. Se si vuole uscire dallo "stato di minorità", non si può non tenerne conto!
ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN!
Federico La Sala
Perché la “confessione” del Pontefice è rivoluzionaria
In Italia la Chiesa spinse per mettere Freud fuorilegge
di Fabio Martini (La Stampa, 02.0’9.2017)
C’è qualcosa di rivoluzionario nella confessione di papa Francesco di essere andato in analisi, di averne tratto giovamento e di essersi fatto curare da una psicoanalista. Sin dai primi del Novecento la Chiesa ha sempre osteggiato con tutti i mezzi, anche “illegali”, la psicoanalisi, avvertita come pericolosa concorrente, come “colpevole” di aver infranto il monopolio cattolico nel confessionale e nella introspezione delle anime. Certo il capo di accusa non è mai stato dichiarato esplicitamente, ma per almeno 50 anni si è sviluppata una guerra senza quartiere contro una disciplina “eretica” fondata dall’ebreo Sigmund Freud.
La psicoanalisi è stata disciplina, almeno in Italia, vissuta come destabilizzante da tutti i poteri costituiti. Agli albori la contrastano non solo la Chiesa, ma anche il fascismo, l’idealismo crociano e nel secondo dopoguerra il Pci di influenza sovietica. E infatti all’inizio degli Anni Trenta i pionieri, non per caso, sono due ebrei - Edoardo Weiss ed Emilio Servadio - e due antifascisti socialisti, Cesare Musatti e Nicola Perrotti.
Il Vaticano è ostile perché intuisce nella psicoanalisi una pericolosa concorrente. Ne denuncia il «pansessualismo» e il «materialismo», ma di quelle teorie ancora più inquieta l’ambizione «totalitaria», un’attitudine che finisce col sottrarre alla Chiesa il monopolio dell’anima e i tanti segreti personali, fino a quel momento custoditi in confessionale. E crolla persino il monopolio sull’attività onirica, rispetto alla quale la Chiesa aveva elaborato, ben prima di Freud, una sua «Interpretazione», per la quale attraverso i sogni è il diavolo che vuole catturare l’anima. Ecco perché la Chiesa nel 1934 chiede a Mussolini - e ottiene - la soppressione della “Rivista italiana di psicoanalisi”, alla quale seguirà cinque anni dopo lo scioglimento della pur piccola Società italiana di psicoanalisi.
Soffocata sul nascere con l’accordo del fascismo, la psicoanalisi italiana nel secondo dopoguerra subisce la ripresa di ostilità da parte della Chiesa, al punto che nel 1952, sul Bollettino del clero romano, si arriva a qualificare addirittura come «peccato mortale» ogni pratica psicoanalitica. Una scomunica apparentemente senza appello, ma che negli anni successivi via via si scioglie grazie a piccole aperture di papi come Paolo VI e Giovanni XXIII. Ora Francesco non soltanto ha “sdoganato” la psicoanalisi ma l’ha elevata a “compagna” dell’anima umana.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità ...
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
A FREUD, GLORIA ETERNA!!! IN DIFESA DELLA PSICOANALISI... *
La confessione del Papa
«La psicanalisi mi ha aiutato». Bergoglio all’età di 42 anni, per sei mesi ogni settimana, ha incontrato un’analista ebrea. È il Pontefice a rivelarlo in un libro in cui parla anche di matrimoni gay, laicità e immigrazione.
In un libro gli incontri di anni fa del futuro Papa con un’analista ebrea
di Leonardo Martinelli Andrea Tornielli (La Stampa, 01.09.2017)
Padre Jorge Mario Bergoglio, all’età di 42 anni, per sei mesi ogni settimana ha incontrato una psicanalista. È lui stesso a rivelarlo in un libro di prossima pubblicazione in Francia, che contiene la trascrizione di dodici dialoghi con il sociologo Dominique Wolton (titolo: «Politique et société», edizioni L’Observatoire).
Durante una delle interviste, il Papa ha parlato del ruolo avuto da alcune donne nella sua esistenza. «Quelle che ho conosciuto mi hanno aiutato molto quando ho avuto bisogno di consultarmi». Poi si passa alla psicanalista.
«Ho consultato una psicanalista ebrea - racconta Bergoglio al suo interlocutore -. Per sei mesi sono andato a casa sua una volta alla settimana per chiarire alcune cose. Lei è sempre rimasta al suo posto. Poi un giorno, quando stava per morire, mi chiamò. Non per ricevere i sacramenti, dato che era ebrea, ma per un dialogo spirituale. Era una persona buona. Per sei mesi mi ha aiutato molto, quando avevo 42 anni». L’esperienza raccontata da Francesco si colloca dunque tra il 1978 e 1979, gli anni della dittatura, quando aveva concluso la non facile esperienza di provinciale dei gesuiti d’Argentina e stava iniziando quella di rettore del Collegio Máximo, dove venivano formati gli studenti che desideravano entrare nella Compagnia.
Chiesa e psicanalisi
All’inizio la Chiesa ha denunciato il «pansessualismo», ma anche l’ambizione «totalitaria» della psicanalisi. Ad aprire un primo spiraglio fu Pio XII nel 1952, spiegando: «È inesatto sostenere che il metodo pansessuale di una certa scuola di psicoanalisi sia parte indispensabile di ogni psicoterapia degna di tal nome». Nel luglio 1961, con Giovanni XXIII, il Sant’Uffizio proibì ai preti di praticare la psicanalisi e ai seminaristi di sottoporvisi. Nell’enciclica «Sacerdotalis coelibatis» del 1967 Paolo VI ammetteva la possibilità del ricorso «all’assistenza e all’aiuto di un medico o di uno psicologo competenti» nei seminari e nel 1973, durante un’udienza, affermava: «Abbiamo stima di questa ormai celebre corrente di studi antropologici, sebbene noi non li troviamo sempre coerenti fra loro, né sempre convalidati da esperienze soddisfacenti e benefiche». Come dato curioso si può infine ricordare «Habemus Papam», il film di Nanni Moretti, che racconta di un Pontefice eletto che ricorre - seppur con poca convinzione - al consulto di una psicanalista.
«In gabbia, ma libero»
Il Papa, nei dialoghi con Wolton parla anche della sua vita di oggi. «Mi sento libero. Certo, sono in una gabbia qui al Vaticano, ma non spiritualmente. Non mi fa paura niente». Si scaglia contro quei «preti rigidi, che hanno paura di comunicare. È una forma di fondamentalismo. Quando m’imbatto in una persona rigida, soprattutto giovane, mi dico che è malato. Sono persone che in realtà ricercano una loro sicurezza». Inevitabile, poi, il riferimento all’immigrazione. «La nostra è una teologia di migranti, perché lo siamo tutti fin dall’appello di Abramo, con tutte le migrazioni del popolo d’Israele. E lo stesso Gesù è stato un rifugiato, un migrante. Esistenzialmente, attraverso la fede, siamo dei migranti. La dignità umana implica necessariamente di essere in cammino». Si rammarica del fatto che «l’Europa in questo momento ha paura. Chiude, chiude, chiude...». Il Papa rigetta anche la nozione di «guerra giusta», che pure ha un fondamento nella tradizione della Chiesa e nella legittima difesa dei popoli. Per Bergoglio, «la sola cosa giusta è la pace».
La vera laicità
Francesco tocca anche il tema della laicità. «Lo Stato laico è una cosa sana - dice -. Gesù l’ha detto: bisogna dare a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». Ma «credo che in certi Paesi, come la Francia, la laicità abbia una colorazione ereditata dai Lumi davvero troppo forte, che costruisce un immaginario collettivo in cui le religioni sono viste come una sottocultura. Credo che la Francia dovrebbe «elevare un po’ il livello della sua laicità». Sul dialogo con l’Islam, si dice ottimista e accenna al suo rapporto con l’imam di Al-Azhar. Ma afferma anche che «i musulmani non accettano il principio della reciprocità».
Quanto al matrimonio gay, ritiene che «da sempre nell’umanità, non solo nella Chiesa cattolica, il matrimonio è fra un uomo e una donna». Ma quelle tra omosessuali accetta di chiamarle «unioni civili». Le piace essere chiamato «Papa dei poveri»? «No, perché è un’ideologizzazione». «Io sono il Papa di tutti, dei ricchi e dei poveri. Dei poveri peccatori, a cominciare da me». A Francesco piace il contatto fisico con i fedeli. «La tenerezza - confida - è qualcosa che procura così tanta pace».
Se il religioso va alla guerra con se stesso
di Ferdinando Camon (La Stampa, 01.09.2017)
La notizia che l’attuale papa Francesco, quando aveva 42 anni, andò in analisi, ti entra nel cervello e non ne esce più. È sconvolgente: un alto esponente della Chiesa Cattolica va in analisi; va da una psicanalista-donna; che è anche ebrea. Quelli che ragionano sull’analisi e sulla religione sono convinti che siano due contrari. Questo perché la fede parte dalla rivelazione: la verità è stata rivelata, una volta per tutte. Sappiamo che cosa è bene e che cosa è male.
Mentre l’analisi è ricerca incondizionata: se alla tua ricerca metti dei limiti (non parlerò di mia madre o della mia amante), l’analisi fallisce, anzi non comincia nemmeno. Cesare Musatti, presidente della Società Psicanalitica Italiana, esprimeva questo concetto ricorrendo alla metafora della guerra civile: l’analisi è una guerra civile, chi va in analisi è in guerra con se stesso, è come uno Stato in cui una parte dei cittadini si ribella e combatte contro gli altri.
Lo Stato non può dire: combatterò i ribelli a Torino e a Milano, ma non a Venezia e a Trieste, perché se parla così succede che tutti i ribelli si rifugiano a Venezia e a Trieste, e quelle città, che lo Stato voleva risparmiare, dovrà raderle al suolo. Pasolini andò in analisi da Musatti e dopo poche sedute disse: «Non parlerò della mia omosessualità, perché è natura». Musatti rispose: «Ne parlerà comunque, anche senza volerlo». Pasolini entrò in un’angoscia tremenda, e dopo sette-otto sedute non si presentò più. È mia opinione che lì sia accaduto un grave errore di Musatti. Perché tu, analista, non puoi dire al tuo paziente qualcosa che il tuo paziente in quel momento non è in grado di reggere. Aspetta, hai tutta l’eternità a disposizione. Se glielo dici in anticipo, e quello entra in crisi e si ritira, la colpa è tua. Musatti faceva l’analisi anche a preti e membri della gerarchia cattolica. Diceva che venivano a lui col permesso dei superiori.
L’analisi è l’esame delle potenti figure interiori che ti porti dentro, se sei cattolico la prima di queste potenti figure interiori è Cristo: non puoi iniziare una battaglia, nella quale puoi trovarti di fronte Cristo, senza dire ai tuoi che parti per il fronte. Un profondo e delicato psicanalista freudiano, Giovanni Gozzetti, allievo prediletto di Salomon Resnik, argentino (il quale è l’autore delle voci di psicanalisi dell’Enciclopedia Einaudi), aveva un paziente cattolico che a un certo punto gli annunciò: «Piuttosto di mettere in discussione Cristo, preferisco ritirarmi», e non si fece più vedere. Probabilmente era questo che temevano i cardinali del film «Habemus Papam» di Nanni Moretti, quando si presentò il problema se il papa (appena eletto, e in crisi col nuovo ruolo) poteva andare in analisi: in analisi? E parlare dei sogni? No no no. Se va in analisi, è la Curia che stabilisce di che cosa può parlare, e di che cosa no.
L’analisi è una discesa dentro te stesso, in una profondità che non conosci, là sotto troverai un te stesso che ignori, può incantarti ma anche spaventarti, puoi tornar su deciso a proseguire per la strada di prima oppure a fare una inversione a U. Non è affatto detto, come credono gli psicanalisti anti-cattolici, che analisi e fede siano due nemiche. Viktor Frankl lo dimostra. E ora anche l’analisi di Bergoglio. Perché ha avuto una conclusione stupefacente: è durata poco, sei mesi, e aveva un ritmo blando, una seduta per settimana, ma alla fine successe qualcosa di raro: in punto di morte, fu la psicanalista a chiamare l’ex-paziente, «per un dialogo spirituale». In analisi le due forze che agiscono sono il transfert, che lega il paziente all’analista, e il controtransfert, che lega lo psicanalista al paziente. Se succede che il secondo sia più forte del primo, allora è lo psicanalista che è in analisi dal suo paziente. Andò così con Bergoglio?
Il pontefice in cura da Moretti
in «Habemus Papam» (La Stampa, 01.09.2017)
Il Papa e uno psicanalista. Un incontro che il cinema aveva già raccontato. Nanni Moretti, nel suo «Habemus Papam» nel 2011, interpreta un analista che assiste il pontefice depresso e poi dimissionario Michel Piccoli (altra previsione azzeccata del regista romano). Per affrontare la crisi del Papa viene chiamato il professor Brezzi (Nanni Moretti), uno psicanalista, che prescrive al santo padre alcune sedute con la moglie, Margherita Buy, analista anche lei, al di fuori delle mura vaticane. L’intervento dei due specialisti non basterà: il Papa si troverà a vagare per Roma di notte su un autobus.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
A FREUD (Freiberg, 6 maggio 1856 - Londra, 23 settembre 1939), GLORIA ETERNA!!! IN DIFESA DELLA PSICOANALISI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
"INDIVIDUAZIONE": LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ! ... *
Psicoanalisi.
Dante ci aiuta a ritrovare noi stessi. Ne sono convinti gli junghiani. Che portano i pazienti a percorrere un viaggio dentro di loro. Sulle orme del poeta. Uno specialista spiega di Paolo e Francesca, Cunizza da Romano ... E del Paradiso
Nel mezzo del cammin mi trovo sul lettino
Il canto V ci racconta della incapacità di controllare noi stessi I golosi ci parlano dei disturbi alimentari. Gli avidi della compulsività
di Elisa Manacorda (la Repubblica, 29.08.2017)
QUANDO RIPASSIAMO mentalmente quei versi che tante volte abbiamo incontrato sui libri di scuola (“Nel mezzo del cammin di nostra vita”, “Amor ch’a nullo amato amar perdona”, “Fatti non foste a viver come bruti”...) non stiamo solo facendo un esercizio di memoria. Stiamo, in parte, costruendo noi stessi. Stiamo cercando di dare un senso alla nostra imperfezione di esseri umani, stiamo cercando di contenere in un unico individuo le mille contraddizioni che lo compongono. Leggendo e ricordando la Divina Commedia stiamo, in ultima analisi, facendo pace con quello che siamo.
È una straordinaria e affascinante lettura laica della più famosa opera di Dante quella che ne fa la psicologia junghiana. E Claudio Widmann - analista junghiano e membro del Centro italiano di psicologia analitica (Cipa) - l’ha riproposta nel corso del seminario promosso dalla Scuola di specializzazione in psicoterapia psicodinamica dell’età evolutiva dell’Istituto di ortofonologia (Ido) di Roma.
«È una lettura certamente poco istituzionale e classica, che tuttavia può aiutare non soltanto noi analisti, ma gli stessi pazienti, a compiere una sorta di percorso dantesco dentro le nostre vite, per affrontare e risolvere lo smarrimento che a volte ci coglie: momenti di sofferenza, di crisi, di insoddisfazione profonda, di infelicità nei quali non ritroviamo più la “diritta via”», dice Widmann. In questo senso i dannati che animano i gironi infernali, con una interpretazione non letterale dei loro peccati, aiutano a riconoscere le tante debolezze che punteggiano le nostre vite.
«Tutti noi siamo stati, in un certo momento della nostra esistenza, avidi, ingordi, violenti», continua Widmann. I golosi ci parlano non soltanto dei disturbi alimentari così diffusi oggi, ma anche, in un senso meno letterale, dell’avidità di affetti, di denari, di oggetti: basta aprire uno dei nostri armadi per capire quanto ci siamo lasciati andare all’ingordigia dell’acquisto. E il celebrato Canto V dedicato ai lussuriosi, nel quale i due amanti chini sul libro sono condannati per l’idea di un bacio clandestino, ci racconta anche della nostra incapacità di controllare gli impulsi. «Non a caso Paolo e Francesca sono trasportati dal vento, trascinati dalle folate, incapaci di fermarsi: e questo - continua l’analista - ci ricorda di tutte quelle volte in cui non abbiamo saputo prendere una decisione autonoma, lasciandoci in balia delle convenienze, delle mode del momento o di un amore sbagliato».
Nella psicologia junghiana, dunque, la Divina Commedia assume le sembianze di un percorso maturativo, di evoluzione dell’individuo. Inizialmente si procede in discesa, nelle viscere della terra, a significare l’introspezione psicologica. Ma è proprio quando ci sentiamo sprofondati nei gironi infernali, avverte Widmann, che sappiamo di poter risalire la china. Possiamo uscire dal regno della sofferenza per entrare in quello della fatica. Salire insomma sulla montagna del Purgatorio, il luogo dove innanzitutto si ristabiliscono le regole: il ritmo del giorno e della notte, che nell’Inferno era cancellato, qui è ben delineato. Anche il tempo riacquista un suo valore, dunque non va sprecato. «Quando, nel Canto II, Dante incontra il suo amico compositore Casella, gli chiede di suonare per lui. Ma Catone li richiama presto all’ordine: non bisogna attardarsi nel percorso di ricostruzione del sé. Le cose vanno fatte bene, fino in fondo, se si vuole imparare a camminare sulle proprie gambe. Come quando i pazienti ci chiedono di interrompere la terapia perché si sentono già meglio, e non capiscono che si tratta di un benessere illusorio», aggiunge Widmann.
Nella psicologia junghiana, continua l’analista, questo percorso maturativo è detto di “individuazione”, perché parla di ciò che fa di noi degli individui a tutto tondo. Così come è tondo - meglio, sferico - il Paradiso. «Regno della complessità, dove ciascuno di noi riesce a tenere insieme le sue parti contrastanti, le sue contraddizioni », sottolinea l’analista. Qui i francescani e i domenicani, avversari in seno alla Chiesa, possono riconoscersi vicendevolmente i pregi. Qui, ancora, uno “spirito amante” come Cunizza da Romano, donna dalla vita amorosa movimentata, con tre mariti morti in circostanze misteriose e numerosi amanti passeggeri, può autoassolversi senza rimpianti (“lietamente a me medesma indulgo la cagion di mia sorte”), perché, dice Widmann : Tutto quello che ha fatto in vita è andato a comporre la sua esperienza amorosa, e in questo modo ha affinato la sua capacità di amare. Ha, insomma, fatto pace con i suoi difetti e le sue imperfezioni».
Così alla fine del suo percorso di individuazione, nell’ultimo canto, Dante può raccontare la sua visione della trinità, tre cerchi concentrici che si riflettono l’un l’altro. Al centro dei quali emerge una figura umana: il riflesso di se stesso.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
NUOVO REALISMO: LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA"
Federico La Sala
Umberto Galimberti: il declino della convivenza
La convivenza con sé stessi, è secondo Galimberti quella più difficile: il tempo libero dal lavoro che dovrebbe essere quello da dedicare all’incontro con sé stessi viene dedicato invece alla distrazione, perché la convivenza con se stessi è diventata una cosa difficile. La controprova per esempio è il declino della psicanalisi che fa conoscere sé stessi e oggi nessuno ha il tempo per questo. Forse non siamo nemmeno interessati a sapere chi siamo.
Il problema della convivenza con gli altri invece è oggi condizionato dai fenomeni migratori, per cui dobbiamo imparare a convivere con l’altro da noi, che non è cosa facile. E infine c’è il mondo digitale: i ragazzi oggi non si incontrano più, eppure sono sempre connessi, con una modalità nella quale il corpo sostanzialmente sparisce e la connessione diventa un incremento esponenziale della convivenza: non si convive perché si è connessi.
Convivenza è condivisione di ideali, di modalità di stare al mondo, anche modi di ridere, di scherzare, di lavorare, lo stare insieme è convivenza, mentre attraverso il Web non si sta insieme, ma si comunicano a distanza i propri gusti, le proprie identità, magari anche false.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"CONOSCI TE STESSO". "ECCE HOMO. Come si diventa ciò che si è". Una bella e limpida discussione tra U. Galimberti ed E. Scalfari, ma ancora in un orizzonte "pre-copernicano" e "pre-fachinelliano".
NUOVO REALISMO: LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
EVANGELO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ...
Ipocrisia del documentario
di Ivelise Perniola (AlfaDomenica, 9 luglio 2017)
Nell’interessante volume di Dario Zonta, L’invenzione del reale, sono raccolte alcune approfondite interviste ad autori piuttosto vicini dal punto di vista generazionale e accomunati, oltre che da fattori anagrafici, da una medesima idea di cinema, caratterizzata dallo sconfinamento del documentario nella finzione o della finzione nel documentario (come vuole il caso di Matteo Garrone, Pietro Marcello e Alice Rohrwacher).
Autenticamente falso o falsamente autentico? si domanda e domanda Dario Zonta ai suoi bendisposti interlocutori. L’elemento che più colpisce nelle interviste raccolte è la sostanziale omogeneità delle risposte, per cui anche invertendo i nomi, operando un montaggio deturnante delle risposte, il risultato complessivo non cambia. La differenza documentaria è quanto di più obsoleto si possa immaginare, almeno a parole, tuttavia si continuano a fondare festival dedicati al documentario, premi, pubblicazioni, si aprono corsi universitari, master, portali, newsletter, panel all’interno di convegni, esposizioni, articoli di giornale, tesi di laurea: tutto un fiorire di produzione culturale intorno al cinema documentario, senza che nessuno più abbia il coraggio di pronunciare in pubblico questa vituperata parola, compresi i cineasti, che trovano però spesso spazi produttivi e distributivi solo in nome di questa “differenza documentaria”.
Christian Metz sosteneva che tutto è finzione e certamente aveva ragione, perché ogni immagine è cinema nel senso più commerciale del termine. È solo cinema, of course. Però ci sono due piccole, trascurate, differenze che permettono al documentario di rivendicare la sua diversità e che sono: la ricezione spettatoriale (di cui sempre Metz ci ha incominciato a parlare) e l’attore sociale. Sulla prima il libro di Zonta tace o fa fulminei accenni ma della seconda parla ampiamente, con risultati piuttosto interessanti. Sul primo aspetto occorre sottolineare che la scelta documentaria non è soltanto una scelta dell’autore, un punto di vista sul mondo, ma anche una modalità di lettura, di ricezione spettatoriale.
Gianfranco Rosi ha poco da inalberarsi se i suoi film vengono definiti documentari, se nel momento in cui lo spettatore entra in una sala cinematografica e all’uscita li definisce come tali. La lettura documentarizzante è un fattore culturale, pregresso rispetto al testo e alle intenzioni dell’autore; appartiene alla sfera del paratesto, tutto ciò che sta intorno al testo e ne modifica la lettura, molto spesso è indipendente dalla volontà dell’autore, anzi quasi sempre.
Sul secondo punto, invece, Dario Zonta si sofferma giustamente molto, dal momento che la questione dell’attore sociale, per utilizzare un termine proveniente da Erwin Goffmann, è veramente centrale nel cinema documentario, dal momento che investe una problematica dirimente ovvero quella dell’etica.
L’acuto intervistatore domanda a tutti i registi coinvolti quale sia la loro relazione con l’attore non professionista, se lo preferiscano rispetto a quello professionista, se cambino le modalità di approccio, la preparazione prima e durante le riprese. Le risposte sono abbastanza in linea le une con le altre: i registi interpellati preferiscono lavorare con i non professionisti dal momento che con loro il film risulta più libero di prendere pieghe impreviste, i volti sono più aderenti alla realtà, le esperienze della vita reale filtrano attraverso l’immagine cinematografica facendo acquisire un surplus di verità ai singoli fotogrammi.
È davvero con coraggio che Rosi dichiara: “Dov’è la verità nel documentario? Secondo me è nella verità interiore dei personaggi che stai raccontando” - sottolineiamo il coraggio del regista dal momento che i personaggi messi in scena dal pluripremiato regista lasciano trasparire una verità interiore veramente molto esile, quasi bidimensionale, quasi marionettistica. Basti pensare all’anguillaro che legge brani dalla Repubblica in Sacro Gra o al piccolo Samuele che succhia gli spaghetti e legge in inglese davanti alla zia Maria attonita in Fuocoammare o al delirio falsamente autentico e altamente performativo del sicario messicano in El Sicario. Room 146.
Anche Leonardo Di Costanzo dà una significativa risposta: gli attori professionisti “sono difficilmente modellabili, a meno di avere gli strumenti, o un’idea geniale, usandoli esattamente per l’immaginario che loro veicolano”. Insomma permane una certa ingenuità di fondo sull’attore non professionista, utilizzato come un personaggio puro e modellabile, naïf, quando in realtà l’attore sociale tende al regista la trappola peggiore, proprio perché più subdola: ovvero il costante rischio, quando non diventa immediatamente una concreta realtà, dell’autocompiacimento performativo e della seduzione ipocrita, ovvero “faccio come vuoi tu perché così ti piaccio e se piaccio a te allora piaccio anche a tutto il mio potenziale pubblico”.
L’attore sociale è un attore al quadrato, un ipocrita perfetto. Il termine “ipocrita”, come ben sappiamo, viene dal greco e significa colui che finge, colui che simula, quindi l’attore. Per tradizione questo termine indica un secondo attore che imita, col fine di imparare, le azioni del primo attore: quindi un attore al quadrato. Uno studio etimologico più attento ci rivela che la parola ipo-crita è composta da ipo (sotto) e crinein (decidere), e designa quindi un’incapacità di decidere, di agire con coerenza: un’inclinazione naturale a lasciarsi trasportare dove il vento ci conduce.
Secondo Carl Gustav Jung l’ipocrita è colui che nega il lato oscuro della sua natura, celando le pulsioni più nascoste e sotterrandole sotto false convenzioni, colui che non entra mai in contatto con la sua vera natura, negandola. L’attore sociale molto spesso agisce ipocritamente di fronte alla macchina da presa, negando la propria natura e indossando panni che non gli appartengono per ottenere consenso sociale e mediatico.
Si crede di avere a che fare con esseri puri e spontanei e si scopre che sono solo una masnada di ipocriti. Anche se la loro ipocrisia non è malevola, si ha a che fare col problema etico giustamente sollevato da Alice Rohrwacher: “Ho iniziato con il documentario e mi sono accorta che i rapporti e la fiducia che si vengono a creare al momento delle riprese sono talmente forti che mi bloccano e mi provocano un profondo disagio. Mi pare soprattutto che riprendere le persone nelle proprie vite spesso difficili, sia legarle solo a un aspetto della propria vita. [...] Spesso in un documentario la persona interpreta la propria vita e non credo sia totalmente libera. Ci sono resistenze, vergogne, imbarazzi”. Legare qualcuno solo a un aspetto della propria vita, questo è il rischio e la sfida del cinema del reale: da giocare con senso etico affinché questo legame sia produttivo non solo per l’autore ma anche per l’attore.
L’etica per la produzione delle immagini è un principio ora più fondamentale che mai, espresso anche in un libretto che andrebbe letto di pari passo con le interviste di Zonta, ovvero L’immagine che uccide di Marie-José Mondzain (EDB 2017), in cui la filosofa francese sottolinea l’urgenza di un pensiero critico ed etico in grado di indebolire e annientare il potere violento delle immagini, per riportarle nel loro alveo di pure immagini.
Ma se si polemizza con alcune risposte, con alcuni autori (un grande assente è Alessandro Rossetto), si apprezza in generale l’impalcatura del volume, il pensiero sincero che sorregge questo tentativo di perlustrare il cinema italiano del reale, intercettando gli autori più interessanti (Marcello, Di Costanzo e Rohrwacher sono certamente in cima alla lista di chi scrive) e le tendenze del momento (Rosi, Minervini, Comodin) centrate sulla modalità osservativa, per utilizzare un termine di Bill Nichols.
Nella lettura, infine, abbiamo sicuramente imparato qualcosa relativamente alle modalità produttive. Un tema solitamente taciuto, imparando che fare un film oggi in Italia è un grande atto di coraggio: solo per questo dovremmo sostenere pubblicazioni del genere, in grado di andare contro il sistema imperante dell’ottusa e monoculare iconocrazia.
AL DI LA’ DI HEGEL, HEIDEGGER, E RATZINGER. IL PROBLEMA DELL’UNO E LA VIA DEI "TRE SOLI". A scuola di Dante, Bruno, Galilei, e Kant ...
Franco Ricordi: "La grande magia di Dante può essere capita soltanto ascoltandola a viva voce"
Lo scrittore, saggista, attore e regista racconta il tour italiano con cui torna a interpretare la "Commedia". A partire dal 4 luglio sono previste sette serate, tutte a ingresso libero, ospitate nei siti archeologici più suggestivi della Capitale
di RAFFAELLA DE SANTIS (la Repubblica, 01 luglio 2017)
Dante può essere letto in tanti modi, anche come antidoto al nichilismo contemporaneo. Franco Ricordi, interprete dantesco tra i più raffinati, filosofo e saggista oltre che attore e regista teatrale, propone di leggere la Divina Commedia come fosse una cura alla mancanza di senso dei nostri giorni. Ricordi, ora protagonista della seconda edizione della rassegna Dante per Roma, è impegnato in un articolato progetto dedicato alla Commedia dantesca che prevede una lettura dell’opera in più tappe. Roma prima di tutto, dove lo scorso anno Ricordi ha portato l’Inferno e dove ora arriva con il Purgatorio (mentre nel 2018 sarà la volta del Paradiso).
A partire dal 4 luglio sono previste sette serate, tutte a ingresso libero, ospitate nei siti archeologici più suggestivi della capitale, dalle Terme di Diocleziano all’Arco di Giano al Velabro alle Terme di Caracalla. Ma il progetto è un ampio work in progress itinerante: arriverà a Firenze in autunno e poi a Ravenna, in Germania e in Argentina. Il lavoro teatrale è affiancato da documentari tv. Inoltre Ricordi sta lavorando a un’opera in tre volumi: Dante, filosofia della Commedia.
Qual è il posto di Dante nella cultura occidentale?
"Credo sia il solo autore che tenga testa a Shakespeare. La Commedia è il più grande testo dell’Occidente. Come scrive Harold Bloom è l’epicentro del canone occidentale. Ma può essere compresa pienamente solo oggi ".
Perché?
"Perché è un antidoto al nichilismo dei nostri giorni. In Dante possiamo scorgere il primo filosofo dell’anti-nichilismo".
In che senso?
"Attraverso il concetto di amore, che è il vero sottotesto e sovratesto di tutta la Commedia. Il mio ultimo libro s’intitola L’essere per l’amore, concetto simile e contrario all’"essere per la morte" di Heidegger. Volendo usare uno slogan direi: Dante contro Heidegger".
Però la sua infatuazione dantesca è arrivata tardi.
"In realtà sono rimasto folgorato all’età di quindici anni. Al liceo avevo un insegnante, frate Serafino, appassionato di Dante. È lui ad avermi trasmesso la passione dantesca. Ma Dante è un personaggio che è meglio affrontare dopo i cinquanta anni. Ho lavorato su Shakespeare in teatro fin da ragazzino, poi da regista e protagonista di Amleto, ma a Dante sono arrivato nella piena maturità".
Per quali ragioni?
"Dante quando scrive la Commedia è un uomo maturo. E leggendo si avverte che è un uomo provato. Solo da adulti si riesce a comprendere a fondo il suo personaggio ".
Ma Dante è molto amato dai ragazzi.
"Tutto merito del suo endecasillabo, che arriva in maniera impressionante. Alle mie letture partecipano persone di ogni età. Anche se purtroppo è difficile trovare interpreti che sappiano computare la metrica dantesca nel modo giusto. L’endecasillabo per essere tale deve avere l’ultimo accento sulla decima sillaba. Sbagliare vuol dire non conferire il significato giusto. Non dimentichiamo che ogni cantica è formata da canti: il suono è il veicolo del senso".
La lettura ad alta voce serve a dare corpo alla "Commedia"?
"Va recuperato il testo orale. Prima di me lo hanno fatto Vittorio Gassman, Carmelo Bene, Giorgio Albertazzi. Fino a Vittorio Sermonti, al quale dedico le mie letture del Purgatorio. Grandi maestri, ma anche loro presentavano difetti nella computazione del pentagramma delle figure metriche e nel precisare l’ultimo accento sulla decima".
In cosa differisce la sua Lectura Dantis da questi modelli?
"Per commento e lettura privilegio un approccio più poetico-filosofico che storico-filologico. Come l’Amleto, anche la Commedia arriva in modo immediato".
Di certo l’Inferno ha un’immediatezza anche politica. Crede valga lo stesso per il Purgatorio?
"Nel sesto canto, che interpreterò il 5 luglio all’Arco di Giano, c’è la grande invettiva contro l’Italia, che è già una denuncia di quella che oggi chiamiamo "partitocrazia". La denuncia è chiara: "Ché le città d’Italia tutte piene / son di tiranni, e un Marcel diventa / ogne villan che parteggiando viene". In quel "parteggiando" è contenuta una visione quasi ontologica della partitocrazia".
Un’ultima curiosità. Come mai la scelta di iniziare a Roma?
"Se c’è un’ambientazione metastorica e metafisica in assoluto direi che quella è Roma. La Commedia è antica, medioevale, moderna e contemporanea come Roma ".
Festival di Filosofia
Remo Bodei
“Si corre per vincere, anche San Paolo invitava a colpire duro”
Il filosofo: i greci ci hanno dato la linea
di Francesca Sforza (La Stampa, 15.09.2016)
Quest’anno si corre, al Festival della Filosofia di Modena. Si corre per capire, per restare al passo con il tempo inquieto della contemporaneità. E anche, un po’, per vincere. Remo Bodei, professore di Filosofia presso la University of California a Los Angeles e Presidente del comitato scientifico del Festival, è uno dei protagonisti di questa maratona del pensiero.
Professore, partiamo dall’origine greca della parola agonismo, cosa resiste dell’antica accezione del termine, e cosa invece è andato perduto o si è trasformato?
«“Agon” è la lotta in vista di una vittoria, in tutte le sue accezioni, fino all’agonia, che è la lotta estrema contro la morte. Direi che grosso modo si è conservato l’essenziale dell’accezione greca, che anzi si è estesa dal campo di partenza, quello sportivo, ad altri ambiti, penso ad esempio a quello economico, che vede tra l’altro l’uso di un modello di origine sportiva di tipo specifico, la corsa.
Se pensiamo poi alla concorrenza, come non ricordare la metafora agonistica usata da San Paolo nella prima lettera ai Corinzi? “Non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo”, scrive San Paolo, sottolineando che la differenza, semmai, è nel fatto che gli atleti si muovono per “una corona che appassisce”, mentre i cristiani sono chiamati per “una che dura per sempre”. Interessante notare il suo riferimento al pugilato - “Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio pugilato, ma non come chi batte l’aria”, cioè invita a colpire in modo da fare male».
In che cosa differisce l’agonismo religioso da quello laico?
«Più che di differenze parlerei di una ripresa laica dello stesso tema, ad esempio con Hobbes, in cui la gara non è conquistare il paradiso, ma vincere sugli altri al punto che la felicità consiste nel sorpassare, l’infelicità nel rimanere indietro, e la fine della corsa - l’abbandono della gara - coincide con la morte. Non c’è nessun premio, nella visione laica di Hobbes, si corre per vincere».
Nella condizione agonistica prevale il cimentarsi con la vittoria (e il rassegnarsi alla sconfitta) o il partecipare alla lotta e alla competizione?
«Se uno prendesse alla lettera Pierre de Coubertin si corre per gareggiare e confrontarsi, ma da un punto di vista più essenziale la concorrenza è spietata, quindi si corre per vincere. La cosa interessante che emergerà da alcune lezioni è che sul piano animale c’è una forma di altruismo che fa bene alla competizione, e anche in campo economico, la cosiddetta economia altruistica, insegna che non sempre è un bene stravincere. Ne parlerà Massimo Recalcati in un suo intervento: anche essere sconfitti aiuta a crescere».
È pensabile una declinazione equa dell’agonismo?
«Nei cicli vitali ci sono sempre i salvati e i sommersi, per dirla con Primo Levi, e la conquista della democrazia vorrebbe che ci fossero, intorno a noi, non nemici, ma avversari. Il problema è nelle condizioni di partenza: è vero che bisogna crearle, in modo tale che poi ognuno sia messo in grado di fare la sua corsa, ma spesso è un’ipocrisia».
Quali sono gli autori che meglio di altri hanno illustrato la dimensione dell’agonismo?
«Nella filosofia è davvero una dimensione iniziale. Pitagora paragonava la contemplazione filosofica con l’andare allo stadio a guardare i contendenti - aggiungendo che se c’era una differenza consisteva nel fatto che la contemplazione filosofica era gratis, mentre allo stadio si doveva pagare. Nei cosiddetti presocratici, il “polemos”, la guerra, è il padre di tutte le cose, segna l’inizio per eccellenza. E da questo discendeva non solo una filosofia, ma un modo di vita per cui la disciplina, l’entrare in conflitto con se stessi, il sottoporsi a esercizi fisici e spirituali, rafforza l’individuo».
CONOSCI TE STESSO!!! Dopo millenni di riflessione, la nostra identità ("tautòtes" - greco) ancora nella culla o, meglio, nella bara ("taùto" - napoletano)
SENTIMENTI. Un legame gioioso e maturo non è una passione esclusiva: esige una presa di distanza per comprendere e accettare l’inaccessibilità dell’altro
In amore ascoltate Spinoza per evitare il rischio Bovary
di Ilaria Gaspari (Corriere della Sera, La Lettura, 10.07.2016)
Se Madame Bovary avesse letto Madame Bovary, ha scritto Flaiano, avrebbe probabilmente frenato le sue fantasticherie di «pornografia sentimentale». Un effetto dissuasivo ancora più forte l’avrebbe ottenuto, credo, con un paio di proposizioni dell’ Etica di Spinoza.
La povera Emma modellò la sua infelicità sulle molte possibilità narrative degli amori tormentati. Sognando di balli, duelli, eroine esangui nel gorgo della passione, imbrigliò l’amore nella fantasticheria di una forza che trascina alla rovina.
L’amore fa soffrire, doveva sospirare fra sé l’infelice signora Bovary, boccheggiante di noia, con la testa piena di romanzi d’appendice e un marito prosaico che nel frattempo sorbiva rumorosamente la soupe à l’oignon. A furia di sospirarlo, ci credette; pur di vivere quell’avventura romantica che si era imbastita non fece caso allo squallore della scappatella con Rodolphe. E finì avvelenata.
E pensare che l’antidoto a questo veleno si poteva trovare facilmente, distillando un po’ dell’ Etica di Spinoza; non un romanzo (qualcuno ha detto che non esistono romanzi sugli amori felici), e nemmeno un libretto di istruzioni o un decalogo che insegni a sfuggire alle relazioni fallimentari. Ma un libro per lettori coraggiosi; un libro petroso che, se lo si ascolta bene, può curare molti dei mali che nascono quando si vive prigionieri del luogo comune secondo il quale l’amore deve far soffrire.
Di Spinoza non si ricordano grandi amori. Le lettere raccolte dagli amici con cui coltivò una lunga corrispondenza dal suo esilio di reietto dopo lo herem, il decreto che lo «scomunicò», sono scritti dottrinali, con qualche fortuito scorcio sulla sua vita nascosta - troppo poco, però, per poterne ricostruire le vicende. Tutte le biografie ce lo consegnano come una sorta di santo eretico, un saggio stoico capace di condurre una vita esemplare, sobria e morigerata. Strana figura, quella di Spinoza, l’ateo virtuoso che sarà riesumato, ancora avvolto nel suo odore di santità, da un gruppo di giovanotti inquieti nella Germania di fine Settecento. Ma Spinoza dell’amore ha detto una cosa fondamentale: che amare non significa possedere l’altro, ma vederlo così com’è, comprendere che esiste al di fuori di noi; e quindi che l’amore vero non fa soffrire, ma anzi, è pura gioia.
L’ Etica parla molto di amore, ne costruisce una vera fenomenologia. L’amore è per Spinoza il motore di quella comprensione del mondo che, sola, permette all’uomo di rendersi veramente libero. L’amore gioioso di cui parla Spinoza è tutto il contrario di una passione esclusiva che procede per slanci di insicurezza e narcisismo, che segrega e fa soffrire; l’amore di cui parla Spinoza è la strada per uscire da se stessi e addentrarsi nel mondo.
Spinoza è stato forse il primo filosofo a costruire un’etica che sapesse farsi beffe della morale come scienza che addomestica il corpo a una teoria di valori astratti; ha sovvertito i termini dell’antica opposizione monolitica fra passione e ragione.
L’amore non è necessariamente una passione, nel senso di qualcosa che si subisce, dice Spinoza, che inventa il concetto nuovo di affetto, e trasfigura così la nozione classica di passione aprendole la possibilità di trasformarsi in un atto di conoscenza. Se la passione ci getta in balia di quello che proviamo, l’affetto è un mezzo per capire e conoscere il mondo anche attraverso le emozioni che suscita in noi. Come i colori nascono da combinazioni di giallo, rosso e blu, anche la tavolozza degli affetti è fatta di tre affetti primari: il desiderio - una sorta di primordiale istinto di sopravvivenza -, la gioia e la tristezza. Se la tristezza è un negarsi al mondo, la gioia è uno slancio verso un legame più intenso con la realtà - per Spinoza, che usa una parola della Scolastica, perfezione.
Spinoza racconta un amore che è una pura espressione della gioia: una gioia particolare però, innescata dalla presenza di una causa esterna - l’oggetto dell’amore. L’amore, essendo gioia, ci rende più attivi, più «perfetti», più immersi nella realtà; ma non è possibile se non alla presenza di un altro, che coincide con lo scatenarsi di questa gioia. Simone Weil è stata perfettamente spinoziana quando ha scritto che l’amore ha bisogno di realtà; e che amare è riconoscere l’esistenza di altri esseri umani.
Qui inciampò la povera Madame Bovary: trincerandosi in un amore asfittico, non fece troppo caso alla causa esterna se non come a una proiezione delle sue fantasticherie scopiazzate dai romanzi, e non seppe allarmarsi quando quella gran passione, invece di renderla più attiva e più viva, la paralizzò, impedendole anche di indovinare quello che poteva passare per la testa di Rodolphe. Chi non riconosce l’esistenza dell’altro, infatti, è incapace anche di quell’esercizio di empatia che rende l’amore uno strumento di conoscenza dell’altro, ma anche di sé.
«Chi immagina che ciò che ama sia affetto da Gioia o Tristezza, sarà anch’egli affetto da Gioia o Tristezza», dice la proposizione 21 della terza parte dell’ Etica : l’amore induce un mimetismo che ci porta a provare, per empatia, quello che immaginiamo provi la persona che amiamo; a condividerne le paure, gli odi e gli amori. Ma questo slancio empatico sarebbe solo una prova di narcisismo - o di bovarismo - se non tenessimo ben fermo l’aspetto fondamentale della teoria spinoziana dell’amore: cioè il fatto che si può parlare di amore solo in presenza di una causa esterna, di un altro che sta fuori di noi.
Per amare davvero, bisogna accettare la distanza, il segno che l’oggetto del nostro amore è reale. Robert Musil, in una sua pagina quasi di diario, Percezioni finissime, racconta la scoperta vertiginosa di questa distanza che ci separa dall’altro. Lo scrittore è a letto, con la febbre, in una camera d’albergo; ascolta nel dormiveglia, senza vederla, la toilette della moglie che si prepara per andare a dormire; e sente per la prima volta, nel frusciare della camicia da notte, nelle forcine che cadono sotto la spazzola, la vita segreta di lei: «Con piccoli gesti incoscienti e innumerevoli, di cui non sai renderti conto, tu t’immergi in un vasto spazio dove nemmeno un soffio di me stesso t’ha mai raggiunta. Lo sento per caso, perché ho la febbre e ti aspetto».
La povera Emma Bovary non dovette mai guardare Rodolphe con questi occhi, né ascoltarlo così, nel buio; eppure, se l’avesse fatto, le sarebbe stata risparmiata la vita. La vita, magari; non quel pungolo di dolore che si cerca di anestetizzare, nel nostro tempo che demonizza la sofferenza, con terapie di coppia e poste del cuore e manuali di self-help, e che però fa parte anche dell’amore più gioioso. Nell’atto di comprendere e accettare l’inaccessibilità dell’altro, nel vedere il segreto di un’intimità senza desiderare di violarla o di annientarla, un dolore c’è. Un dolore sottile che - direbbe Spinoza - non si può domare a furia di ragionamenti, né cancellare con i sillogismi; ma viene abbracciato dall’amore vero, un affetto più forte della gelosia e della smania di possesso.
Solo se abbracciamo quel dolore, e troviamo il coraggio di guardare chi amiamo sapendo che non lo possederemo mai, possiamo provare a sfuggire all’epigrafe su cui Leo Longanesi ha fissato lo sberleffo di chi rifiuta per accidia la fatica della libertà: «Visse infelice, perché costava meno».
di Armando Massarenti (Il Sole-24 Ore, Domenica, 27.03.16)
Il 20 gennaio 1320, a 55 anni, Dante Alighieri tenne una lezione pubblica di cosmologia presso la chiesa di Sant’Elena a Verona. Astronomia e astrologia, a quei tempi, erano due artes distinte ma percepite come complementari: le stelle e le intelligenze angeliche si pensava intervenissero nelle vicende terrene infondendo specifiche virtù. Che cosa ne penserebbe la scienza di oggi? Dante e le stelle, edito da Salerno è scritto a quattro mani dall’astrofisico Attilio Ferrari e dallo storico della letteratura Donato Pirovano, è un’affascinante risposta a questa domanda.
Nel Convivio, ma soprattutto nella Divina Commedia, tocchiamo con mano quanto Dante fosse esperto di stelle. Gli eventi cardinali della sua vita - il primo incontro con Beatrice, la morte di lei, l’incontro con la Donna Gentile (allegoria della Filosofia), la crisi spirituale dalla quale si rialzerà attraverso l’allegorico e immaginifico viaggio di salvazione narrato nella Commedia - per Dante assumono un senso possibile solo se vengono raccontati in stretta relazione con le costellazioni, attraverso le quali connette la sua vita con Dio.
Smarrito nella selva oscura - era il 25 marzo o l’8 aprile del 1300 - è confortato dall’intravedere il Sole che sorge accompagnato dalla benaugurante costellazione dell’Ariete, la stessa presente nel cielo al momento della creazione di Adamo. Il pianeta Venere - la “stella” che infonde la virtù d’amore spirituale - brillare sull’orizzonte marino del Purgatorio al punto da offuscare la costellazione dei Pesci. Dante è appena uscito dal buio infernale e ha ormai la certezza che, per intercessione dell’amore di Maria e di Beatrice, la salvezza spirituale e la carità di Dio lo attendono. I riferimenti astronomici, com’è ovvio, si moltiplicano poi nella terza cantica, quando il viaggio ha luogo proprio di tra le sfere del Paradiso.
L’astronomia aristotelico-tolemaica, mutuata da Tommaso d’Aquino, - unita a una teologia della luce e a un emanatismo di stampo neoplatonico - prevede un sistema geogentrico: attorno alla terra, girano sette sfere celesti di materiale incorruttibile, ciascuna governata da una schiera angelica e caratterizzata da una stella o pianeta; seguono il cielo delle Stelle Fisse e quindi il Primo Mobile, la sfera più veloce di tutte perché la più vicina a Dio e anche quella che infonde alle sfere inferiori il movimento. La decima sfera, la più esterna, è l’Empireo: si tratta di una dimensione al di fuori dello spazio e del tempo, fatta di non-materia, di una sostanza puramente spirituale; è qui che avviene la visione della Rosa dei Beati e quindi di Dio, contemplato come una sorgente luminosissima e ardente d’amore che muove l’intero universo.
Nella descrizione dell’Empireo, però, pare esservi una specie di contraddizione. Se il cosmo è fatto di sfere concentriche sempre più grandi, e se la sede di Dio - l’Empireo - è la sfera più ampia che abbraccia e contiene tutte le altre sottostanti, come mai allora Dante parla di Dio non come di una sfera bensì come di un «punto» luminosissimo? «Un punto vidi che raggiava lume acuto». L’ipotesi sorprendente è che l’intuizione poetica di Dante possa avere ideato non una sfera, ma una ipersfera, al cui centro è Dio, fonte di luce e di calore (empyrios: ardente) da cui si origina tutto l’universo.
Nella visione geometrica e cosmologica contemporanea, inaugurata dalle teorie di Einstein, un’ipersfera è una sfera in uno spazio a più di tre dimensionii, che ammette che vi sia un centro esterno che al contempo è il centro di tutta l’ipersfera stessa: «grazie all’intuizione dantesca, “perno” del mondo è quel punto ineffabile che è il centro del creato e al tempo stesso circonda tutta la creazione in un abbraccio cosmico».
Oggi non osserviamo più il cielo stellato a occhio nudo, né vi immaginiamo le schiere angeliche. «Esistono, però, delle analogie con il cosmo dantesco: anche il nuovo universo si è sprigionato da un “punto”, la sua origine è il risultato di una concentrazione energetica da un punto che si è espanso vertiginosamente con un violento Big-Bang, dando origine allo spazio e al tempo e a tutto il mondo sensibile. (...) Ma che cosa c’è “fuori”, in che cosa si espande l’universo?».
Esiste un equivalente dell’Empireo dantesco? Al momento, «in quanto a comprensione del “tutto”, siamo ancora nella selva oscura. La scienza ci aiuta a vivere, l’arte ci aiuta a sognare e a vedere oltre la realtà, forse fino all’Empireo o iperspazio che dir si voglia», concludono gli autori. Ma non bisogna mai pensare che l’immaginazione sia prerogativa di un solo ambito umano. In Dante è sempre attiva e non fa di queste distinzioni.
di Alberto Asor Rosa (la Repubblica, 20 gennaio 2016)
Nelle settimane passate è apparso in Italia un testo di Papa Bergoglio, che a me sembra di grande importanza. Si tratta dell’intervento da lui pronunciato a un Congresso internazionale di teologia (da lui stesso voluto e preparato), svoltosi a San Miguel in Argentina dal 2 al 6 settembre 1985, sul tema “Evangelizzazione della cultura e inculturazione del Vangelo”.
L’intervento, nella forma pubblicata da Civiltà cattolica, porta il titolo “Fede in Cristo e Umanesimo”. Ritengo però che il suo vero tema sia più esemplarmente testimoniato da quello del convegno.
Andrò per accenni, limitandomi a segnalare quello che, dal mio punto di vista, spicca per novità e intelligenza del discorso. In effetti, trovo, per cominciare dagli inizi, che ipotizzare questa doppia missione - che è anche un doppio movimento di andata e ritorno per ognuno dei due elementi che lo compongono, e cioè: “evangelizzazione della cultura” e “inculturazione del Vangelo”- significa offrire una visione nuova dei rapporti tra la “fede cristiana” e “il mondo”.
Bergoglio, infatti, non dice: “questa” o “quella cultura”. Dice: “cultura”. A chiarimento della tesi scrive: «Stiamo rivendicando all’incontro tra fede e cultura, nel suo duplice aspetto di evangelizzazione della cultura e di inculturazione del Vangelo, “un momento sapienziale”, essenzialmente mediatore, che è garanzia sia dell’origine (movimento di creazione) sia della sua pienezza e fine (movimento di rivelazione)». «Un momento sapienziale, essenzialmente mediatore...»: se la traduzione dallo spagnolo in italiano non ha deformato qualche senso, questo vuol dire che tra “fede” e “cultura” si può stabilire un confronto, i cui momenti di reciprocità sono destinati a influenzare sia l’una sia l’altra parte, producendo, attraverso la “mediazione”, un accrescimento di sapere e di conoscenza per tutti.
Bergoglio chiama in causa una parola-concetto tipicamente laica o quanto meno mondana: “mediatore”, mediazione. Tale impressione però si accentua, in misura significativa, nella lettura di un brano seguente, che qui riporto per intero, perché lo trovo denso di parole-concetti sorprendenti: «La base di questo sforzo è sapere che nel compito di evangelizzare le culture e di inculturare il Vangelo è necessaria una santità che non teme il conflitto ed è capace di costanza e pazienza. Innanzi tutto, la santità implica che non si abbia paura del conflitto: implica parresia, come dice San Paolo. Affrontare il conflitto non per restarvi impigliati, ma per superarlo senza eluderlo. E questo coraggio ha un enorme nemico: la paura. Paura che, nei confronti degli estremismi di un segno o di un altro, può condurci al peggiore estremismo che si possa toccare: l’ “estremismo di centro”».
In questo caso, la parola-concetto centrale è: “conflitto”. Si deve ammettere che siamo di fronte a una acquisizione inedita nel campo della cultura cristiano-cattolica. Il termine infatti ricorre nel pensiero e nelle problematiche del pensiero dialettico e sociologico europeo e americano degli ultimi due secoli: da Hegel a Marx, e poi Simmel, von Wiese, Dahrendorf... -Nessun equivalente, almeno della stessa portata, nel pensiero cristiano-cattolico dello stesso periodo, e si capisce perché: la predicazione evangelica sembrerebbe escludere una virata di tale natura.
Ma la sorpresa è destinata persino ad aumentare se si procede nell’analisi del ragionamento. «Affrontare il conflitto», scrive Bergoglio, «per superarl », ma «senza eluderlo»; si misura con «un enorme nemico: la paura». Paura di che? Paura dei possibili estremismi, che dal conflitto possono scaturire. Ma tale paura, se incontrollata, è destinata a condurre «al peggiore estremismo che si possa toccare: l’“estremismo di centro”, che vanifica qualsiasi messaggio». L’“estremismo di centro”! -In un paese come l’Italia, spesso arrivato a catastrofiche conclusioni proprio a causa di un sistematico e prevaricante “estremismo di centro”, tale messaggio dovrebbe risultare più comprensibile che altrove. Anche il riferimento alla parresia s’inserisce in questo contesto: solo chi parla alto e libero può vincere la paura.
Quali considerazioni si possono fare su posizioni, di questa natura? Su Bergoglio sono stati scritti molti articoli (bellissimi quelli di Eugenio Scalfari). Pochi, però, si sono soffermati sulla scaturigine storica delle sue prese di posizione, che è inequivocabilmente gesuitica. I gesuiti, nel corso della loro lunga storia, ne hanno combinate di tutti i colori, nella difesa perinde ac cadaver della Chiesa di Roma. E però...
Molti anni or sono ho studiato a lungo la cultura gesuitica del Seicento in Italia. Mi risultò chiaro allora che carattere perspicuo della cultura gesuitica, nei momenti migliori, è sempre stato il tentativo «di operare la saldatura fra cultura laica e cultura ecclesiastica, fra tradizione e rinnovamento... »; e questo su base mondiale.
Se le cose stanno così, la domanda (provvisoriamente) finale di questa ricostruzione è: quale rapporto esiste fra la centralità della parola-concetto “conflitto” e la centralità della parola-concetto “misericordia”, alla quale Papa Francesco ha voluto dedicare il Giubileo?
La risposta più semplice è: nessuno. “Misericordia” è parola evangelica, pochissimo usata in ambito laico, come pochissimo “conflitto” in ambito ecclesiale.
Sono passati trent’anni dalla prima formulazione, padre Jorge Mario Bergoglio, divenuto Papa Francesco, ha ripensato radicalmente le sue posizioni, rientrando nell’ambito più tradizionale della cultura ecclesiastica.
Come tutte le soluzioni troppo semplici, anche questa però si presta a un’obiezione di fondo. Una noticina al testo pubblicato da Civiltà cattolica informa infatti che il testo è stato ripresentato «in forma rivista dal Santo Padre». -Questo ci rende lecito pensare che nel pensiero di Papa Francesco “conflitto” e “misericordia” possano stare insieme. Cioè: il prodotto di una cultura laica può stare insieme con il prodotto tipico di una cultura evangelico-cristiana.
Non può esserci “misericordia” se non c’è stato “conflitto”; il “conflitto” è buono, anzi, addirittura indispensabile, se è necessario per superare la paura, e superare la paura è necessario per arrivare alla “misericordia”. Sarebbe troppo pretendere che Bergoglio, divenuto Pontefice, dopo averci additato come il conflitto sia necessario per attivare la misericordia, ci additi come la misericordia sia necessaria per attivare il conflitto, motivo quest’ultimo inesauribile - e positivo, quando c’è - delle azioni umane.
Però la connessione possibile - il prima e il dopo, insomma, che però è anche o può essere anche, un dopo e un
prima - almeno a noi laici e non credenti, risulta - credo - ben chiara.
Pordenonelegge / identità personale
Il labile confine tra «io» e «noi»
di Agnes Heller (Il Sole-24 Ore, Domenica, 13.09.2015)
Si possono distinguere due tipi di identità personale da due prospettive differenti: una soggettiva, o piuttosto interna, e l’altra oggettiva, o piuttosto esterna. L’identità interna si trova nella memoria autobiografica che, a sua volta, si basa su frammenti di memoria legati l’uno all’altro dall’individuo in una narrazione. Ogni narrazione autobiografica è una finzione, e non solo perché i frammenti di memoria vengono sempre interpretati intrecciandoli insieme per dare una continuità alla narrazione. La memoria autobiografica ricorda per certi versi i sogni. I propri ricordi possono essere discussi o raccontati ai propri cari proprio come i sogni: possono essere trascritti o confessati a un prete o a un analista, e in ogni caso, inevitabilmente, vengono rielaborati. Prendono forma, subiscono variazioni, possono essere assimilati a condizioni o occasioni concrete. Quante più sono le condizioni, e quanto più differiscono, tanto maggiori saranno le variazioni di una narrazione autobiografica.
Non c’è bisogno di precisare che nella modernità, in cui tutti viviamo - per citare Max Weber - in un universo sociale politeistico fatto di sfere differenti, ciascuna connotata dai propri codici etici, pragmatici e comportamentali, non esistono due condizioni identiche per la formazione di narrazioni autobiografiche. Disponiamo di numerose narrazioni autobiografiche bell’e pronte da snocciolare nelle occasioni più disparate persino senza imbrogliare o mentire. S può perfino presupporre che tutte le narrazioni autobiografiche si basino su autentiche tracce di memoria, nessuna delle quali semplicemente inventata per produrre una buona impressione. In questo caso la verità e l’autenticità sono, in ultima istanza, identiche.
La cosiddetta identità personale interna ha tre implicazioni. Prima di tutto, solo l’“io” ha accesso alle tracce mnestiche. Si può presumere che le tracce di un carico emotivo pesante siano normalmente preservate. All’inizio, nell’infanzia, i ricordi sono inscritti se vengono codificati con affetti innati empiricamente universali come la paura, la vergogna, il disgusto, la rabbia, l’erotismo, la gioia, il dispiacere. In seguito possono essere inscritti anche se sono codificati da emozioni più complesse e modificate dalla cognizione. All’inizio, e talvolta anche in seguito, i ricordi possono essere rievocazioni di una visione, un gusto, un suono, ma anche di qualcosa che è successo. La narrazione di un ricordo a se stessi è anche una specie di presentazione del sé, sebbene non ancora la sua rappresentazione. L’identità personale interna è, prima di tutto, un’autopresentazione che è soprattutto una manifestazione della preservazione e della difesa di sé.
Secondo, io e nessun altro, creo le narrazioni principali dalle tracce della mia memoria. Posso combinare le tracce in vari modi quindi posso presentare (a me stesso) autobiografie molto diverse. La memoria autobiografica prende le mosse da un punto, e questo punto è sempre l’assoluto presente della creazione dell’identità, il narratore che rafforza l’identità. Nessuno mette insieme la sua narrazione della memoria autobiografica dalla prospettiva di ieri. Certo, ci si può chiedere che cosa sarebbe successo se, dieci anni fa..., e così via, ma è sempre oggi che ci si formula tale domanda. Tutte le narrazioni autobiografiche sono retrospettive, vengono effettuate da una prospettiva teleologica. In questo senso, si può dar vita a un’autobiografia finale solo nel momento della morte. Poiché le narrazioni autobiografiche variano e mutano costantemente, anche l’identità personale interna cambia.
Terzo, l’identità interna può essere definita “soggettiva” solo perché è l’individuo in cui albergano queste esperienze che le richiama alla memoria. Così, l’identità interna garantisce l’accesso principale all’autoconoscenza. In sostanza, contiene la verità continuamente cangiante riguardo al sé.
Poiché l’identità personale è innanzitutto interna, e le narrazioni dell’identità come autopresentazioni dell’individuo sono fittizie, questa verità è anche non vera. La iscrizione di Delfi «Conosci te stesso» che ordinava un compito impossibile anche nei tempi antichi, suona oggi alquanto assurda. Anche solo immaginare tutti i possibili tipi di situazione è impossibile nei tempi moderni. Di conseguenza, non abbiamo idea delle possibilità nascoste e così continuiamo a sorprenderci.
In uno dei suoi racconti brevi Stefan Zweig ci dice che una signora elegante, una vedova virtuosa, va a letto con un ragazzo polacco per, lei crede, mera empatia, e in seguito confessa che se questo ragazzo le avesse chiesto di andare con lui in capo al mondo lei si sarebbe precipitata. Nessuno sa dell’accaduto, ma lei ha imparato qualcosa di interamente nuovo di se stessa: qualcosa che non aveva nemmeno mai sospettato “è” in lei... Ciò che importa è che questa esperienza non ha distrutto il rispetto che provava per se stessa, ma solo che rispettava se stessa anche per qualcos’altro, in confronto a ciò che gli altri consideravano con favore in lei, ovvero la donna virtuosa, la vedova dignitosa.
È ovvio che il “soggetto” dell’identità interna non è solo l’“io”, ma anche il “noi”. L’albero che ricordo sta nel “nostro” frutteto, la persona che mi sorride è qualcun altro, mia madre, la mia infermiera. Sono una ragazza, sono un ragazzo, mi parlano con questo o quel linguaggio. “Noi” vinciamo, “noi” perdiamo, “noi” dovremmo agire in questo modo o in quest’altro. La maggior parte delle esperienze che ricordiamo, siano esse dolorose o felici, le abbiamo vissute con altri. Altri ci hanno umiliati, altri ci hanno amati. Possono umiliare in noi, o amare in noi, non solo l’“io” ma anche il “noi”. Le tracce mnestiche dotate di maggiore emotività sono quelle che colpiscono nella nostra mente non solo le azioni degli altri, non solo i sentimenti che gli altri hanno acceso in noi, ma anche le nostre reazioni, cioè la nostra accettazione o il nostro rifiuto dell’autorità di questi altri.
L’identità interna è in una relazione di reciprocità con l’identità esterna. Diversamente dalle narrazioni dell’identità interna, le narrazioni dell’identità esterna non sono né teleologiche né retrospettive. È tipico piuttosto il contrario, anche se non in senso assoluto. Anche le identità esterne possono cambiare. Può succedere a causa di nuove esperienze, nuove informazioni, un mutamento del giudizio sociale o dell’immaginazione; le identità esterne più rigide sono dovute normalmente a pregiudizi, e questi pregiudizi sono prevalentemente pregiudizi contro il “noi”, vale a dire contro l’identità etnica, religiosa, nazionale, di genere, sessuale dell’oggetto della costruzione identitaria esterna.
Sartre e l’esistenzialismo francese in generale ritenevano che lo sguardo degli altri fosse il fattore essenziale nella costruzione dell’identità, specialmente dell’identità costruita come “noi”. Sartre disse che lo sguardo dell’antisemita crea l’ebreo, Simone de Beauvoir che lo sguardo degli uomini determina l’identità del sé delle donne. Secondo lei le donne accettano l’opinione e il giudizio dello sguardo maschile come qualcosa di palesemente corretto, e finiscono per vedersi con gli occhi degli uomini, interiorizzando le loro aspettative. C’è un mutuo riconoscimento e anche una simmetrica reciprocità, e tuttavia in tale condizione le donne accettano il ruolo stabilito per loro.
Beauvoir suggerisce (e non solo per le donne) di rovesciare lo sguardo: di costituire l’immagine, la personalità esterna degli uomini attraverso lo sguardo femminile. Dal momento in cui impareranno a respingere il ruolo loro riservato dagli uomini saranno capaci di creare un’identità interna indipendente dallo sguardo maschile e potranno pretendere rispetto per la loro autopresentazione e non solo per essersi assimilate al ruolo femminile tradizionale. Si incontrano grandi difficoltà nel cogliere l’identità esterna di qualcuno, non solo perché si ignora la sua cultura, ma anche perché la stessa difficoltà si incontra quando la porta che dà accesso alla nostra identità interna è chiusa e abbiamo perduto la chiave.
Tale difficoltà è resa evidente dal racconto breve di Stefan Zweig Verwirrung der Gefühle (La confusione delle emozioni), in cui un professore, festeggiato dai suoi colleghi e studenti per il suo sessantesimo compleanno, legge il Festschrift che hanno preparato per lui e si accorge che quella biografia non gli appartiene, che quell’identità esterna condivisa non ha niente a che spartire con la sua identità interna. Poi, in un lampo, il suo giovane sé emerge dal suo inconscio. A vent’anni aveva istituito un rapporto estremamente privilegiato con il suo professore che gli aveva insegnato a comprendere non solo i testi ma anche il mondo. Poi, a un certo punto, il suo professore gli aveva confessato di essere omosessuale e di essere innamorato di lui. Scioccato, era fuggito e aveva rimosso totalmente quel trauma. Adesso, però, riesce ad ammettere a se stesso che in tutta la sua vita non aveva mai amato nessuno, né i suoi genitori né sua moglie e i suoi figli, quanto aveva amato lui. Il professore non aveva avuto rispetto per se stesso, poiché aveva accettato il pregiudizio contro gli omosessuali. Il rispetto di sé del giovane era stato scosso, poiché era innamorato di un pervertito, del demonio. Se avesse giudicato il suo professore e anche se stesso sulla base dell’“io” e del “tu”, e non su quella del “noi” e del “loro”, non vi sarebbe stato alcun trauma, la vita non sarebbe stata sviata. Quindi, la prima condizione del rispetto di sé è quella di giudicare se stessi e anche gli altri non sulla base del “noi”, indipendentemente dal fatto che questo “noi” sia rifiutato o celebrato, ma sulla base dell’“io” e del “tu”. Più facile a dirsi che a farsi.
Lettere
SEI TU A DIRMI CHI SONO IO
Nessuno di noi nasce con un’identità, perché l’identità è frutto del riconoscimento che ci proviene da chi ci è accanto, quindi è un fatto sociale
RISPONDE Umberto Galimberti (la Repubblica - D, 12 settembre 2015)
Perché le si raggela il sangue per un’ovvietà così evidente? Teme la responsabilità di non avere consegnato a sua figlia un’identità adeguata? Non si preoccupi. Non c’è solo lei nel mondo della sua bambina, e tanti concorrono a formarle l’identità. Perché l’identità è un dono che ci fanno gli altri. Noi non nasciamo con un’identità, ma la acquisiamo dalle relazioni con gli altri che ci approvano e ci confermano nel nostro modo di vivere, oppure ci disapprovano insinuandoci dubbi circa il nostro modo di essere, inducendoci a modificarlo.
Ma per comprendere queste cose è necessario capire e soprattutto interiorizzare che il due viene prima dell’uno, perché a generare l’uno è il due. Lo sanno benissimo le donne, più dei maschi, perché il loro corpo, sia che generino sia che non generino, è ordinato biologicamente e psicologicamente anche per l’altro da sé, per cui la relazione viene tendenzialmente prima della loro identità che, in generale, trovano nella relazione. Questo spiega perché le donne tendenzialmente desiderano generare e sono propense, più dei maschi, ad accudire. Ma questo spiega anche perché le donne solitamente esprimono la loro sessualità a partire dalla relazione, mentre i maschi non disdegnano di esprimerla anche a prescindere.
Entrando più specificatamente nel tema che la sua lettera propone: se quando i bambini in età prescolare esprimono la loro visione del mondo con i disegni che mostrano ai genitori, o con le domande che pongono loro, noi prestiamo interesse e attenzione, questi bambini si sentono riconosciuti e il riconoscimento è alla base della costruzione di un’identità positiva; se invece trascuriamo le loro domande o non valutiamo i loro tentativi di descrivere come avvertono il mondo intorno a loro, il messaggio che mandiamo è che quello che fanno non è per noi di alcun interesse. E loro concludono che non contano niente ai nostri occhi e quindi che non valgono niente. Premessa, questa, che porta all’autosvalutazione, per compensare la quale costruiscono un’identità negativa.
Abbiamo dimenticato infatti che, come dicevano a più riprese gli antichi Greci: «L’uomo è un animale sociale», e perciò non trova una propria identità se non nella relazione con l’altro, che può essere positiva e quindi costruttiva o negativa e di conseguenza distruttiva. Del resto lo diceva con chiarezza Aristotele: «Siccome l’uomo non è autosufficiente, la comunità e quindi la città (pólis) viene per natura prima dell’individuo, e chi non è in grado di entrare in relazione con gli altri, o per la sua presunta autosufficienza non ne sente il bisogno, o è bestia o dio» (Politica, 1295 b).
Con l’introduzione del concetto di "anima", il cristianesimo ha affermato il primato dell’individuo rispetto alla comunità, facendoci scordare che la relazione con l’altro e il riconoscimento che dall’altro otteniamo sono il fondamento della nostra identità. E questo anche quando con le guerre uccidiamo i nostri simili, perché, come ci ricorda Hegel: «Mentre gli animali uccidono per nutrirsi, gli uomini sottomettono e uccidono i propri simili per avere dai vinti il riconoscimento del loro superiorità».
Spero che queste considerazioni non le raggelino ulteriormente il sangue, ma la persuadano che non siamo creatori di noi stessi: ci piaccia o meno, anche per la costruzione della nostra identità, quindi anche per ciò che c’è di più intimo a noi stessi, dipendiamo dagli altri. Nessuno di noi nasce con un’identità, perché l’identità è frutto del riconoscimento che ci proviene da chi ci è accanto, quindi è un fatto sociale
KANTOROWICZ, UN GRANDE (E IGNORATO) LETTORE DI DANTE. Una nota *
FEDERICO II, IMPERATORE (1927), "I DUE CORPI DEL RE" (1957). Senza la conoscenza delle opere di Dante, non solo la prima ma neppure la seconda grande opera di Kantorowicz sarebbe stata possibile. Questo è quanto emerso da una mia semplice e recente ricognizione dei suoi due eccezionali lavori. L’orizzonte storiografico di Dante non solo aiuta K. a capire la lezione di Federico II, ma - con l’aiuto di Federico II - a gettare le basi non solo di una straordinaria comprensione dell’opera di Dante, e anche della sua indicazione politica e filosofica.
Un accenno in questa direzione è nella conclusione (qui di seguito ripresa) della splendida e ricca "voce" "Kantorowicz" di Roberto Delle Donne (Federiciana del 2005, non - non dall’Enciclopedia Dantesca del 1970!!!):
"[...] Partendo dalla finzione giuridica del corpo doppio del re, enunciata nell’Inghilterra del XVI sec. allo scopo di porre al riparo i diritti della Corona e dello stato dalle pretese di poteri e istituzioni particolari, K. conduce il lettore attraverso i diversi strati ideologici che si erano coagulati in questa teoria. Affronta, attraverso l’archeologia del concetto di incarnazione monarchica, su un arco cronologico che dall’Alto Medioevo giunge al Rinascimento, il modo in cui il pensiero giuridico e politico tardomedievale giunse a concepire l’immortalità della monarchia di là dalla persona mortale in cui si incarna, fornendo così la genealogia della distinzione tra la funzione pubblica e la persona che l’esercita, cardine su cui avverrà il passaggio da una concezione dell’autorità incarnata nel suo titolare all’idea di un potere impersonale, a cui il titolare accede per temporanea delega collettiva.
Uno degli snodi di questo processo plurisecolare è costituito dall’imperiale "teologia di governo" di Federico II, che per quanto "pervasa dal pensiero ecclesiastico, contaminata dalla terminologia canonistica e infusa d’un linguaggio quasi cristologico per esprimere gli arcani del governo", non dipendeva più dall’idea altomedievale di una regalità "cristocentrica", basata cioè sulla credenza che il re, attraverso la consacrazione, divenisse vicario e "imitatore" del Cristo vivente. Il sovrano svevo e soprattutto i suoi consiglieri giuridici derivavano invece la funzione duale dell’imperatore quale "signore e ministro della giustizia" (Kantorowicz, 1957, pp. 97 ss.; trad. it. pp. 84 ss.) dal diritto romano, dalla tradizione della lex regia, aprendo la strada alla distinzione tra Impero e imperatore, già suggerita da Accursio e poi sostenuta più recisamente da Cino da Pistoia.
È proprio nell’acutezza delle analisi e nell’ampiezza euristica, nella straordinaria capacità di K. di restituire, ricorrendo a fonti straordinariamente disparate, la complessità concettuale del processo storico che segnò il passaggio da un’idea della sovranità secondo cui un individuo rappresenta un essere collettivo a quella secondo cui un essere collettivo rappresenta degli individui, che vanno ricercate le ragioni della sua recente fortuna tra un pubblico non di soli medievisti: nell’opera è possibile cogliere non solo le origini della moderna concezione dello stato occidentale, ma anche individuare a livello embrionale le diverse modalità di evoluzione che essa ha subito nei vari paesi d’Europa.
Il nucleo germinativo dell’opera, la sua ragion d’essere, non va tuttavia cercato nell’interesse per lo stato, ma per gli uomini mortali che elaborarono "la credenza politica nello Stato moderno e nel suo carattere perpetuo" (ibid., passim). K. ha fondato la sua inesausta ricerca della dignitas perpetua, che "non muore mai", in tutte le sue manifestazioni nell’universo mentale del Medioevo, muovendo da un ideale umanistico: il corpo mistico del re, che simboleggia la sovranità dello stato, è congiunto a un ideale di optimus homo, simboleggiante a sua volta la sovranità individuale, l’humanitas, la dignità stessa dell’essere uomo che accompagna, come un corpo mistico perenne, ogni singolo individuo, e che fa del principe, proprio perché appartenente all’humana universitas, un homo instrumentum humanitatis. Questa concezione della politica e della responsabilità di chi detiene un ufficio politico K. la ritrova, in un capitolo di straordinaria ispirazione, come categoria fondante dell’umanesimo medievale di Dante. Agli antipodi di quella "orribile esperienza del nostro tempo in cui intere nazioni, dalle più piccole alle più grandi, caddero preda dei dogmi più irrazionali e in cui i teologismi politici divennero autentiche ossessioni che sfidarono i più elementari principî della ragione umana e politica" (ibid., p. XVIII; trad. it. p. XXX), l’idea dantesca di humanitas potrebbe far risuonare la sua eco anche nel nostro presente. È questo un aspetto non secondario del lascito spirituale di K., ancora valido per tutti coloro che vogliono leggere e pensare, vivere e agire in accordo con il proprio pensiero".
Si tenga presente, per capire bene e meglio, che l’ultimo capitolo (l’ottavo) dei "Due corpi del re" è intitolato " La regalità antropocentrica: Dante "!!! Nel "Federico II, Imperatore" (un’opera che non solo getta luce sulla filosofia degli anni Venti del XX secolo in Europa, ma illumina meglio e tutto il percorso e l’orizzonte storiografico-filosofico dello stesso Kantorowicz, e sollecita a rileggere il suo lavoro del 1927 e del 1957 in modo unitario!), con grande chiarezza, così scrive:
"(...) Si tenga presente che Federico II visse alla fine del secolo che conosceva la giustizia come unico fine dello stato - fine, del quale, come si sa, gli statisti del rinascimento si occuparono ben poco. Federico era nato nel tempo della massima fioritura del «secolo giuridico», che chiudeva un millennio dedicato alla ricerca della giustizia, e che senza dubbio ebbe tanta influenza su Federico, quanta egli ne ebbe poi sulla giurisprudenza: si pensi soltanto alla visita dello Staufen a Bologna, al giurisperito Roffredo di Benevento, alla fondazíone dell’università di Napoli.
A buona ragione s’è definito «epoca del diritto» quel secolo (1150- 1250) che chiude il medioevo, perché dai giorni di un Graziano e di un Irnerio, da quelli che segnarono una notevole ripresa del diritto romano da parte del Barbarossa (simbolo dello spirito del tempo), a nessun’altra ricerca scientifica il mondo aveva mostrato effettivo interesse come allo studio del diritto - il che certo non impedì che l’interesse si tramutasse in pazzia: come dimostra l’aver cominciato, verso la fine del XIII secolo, a mettere in versi le Institutiones di Giustiniano, allo stesso modo che si è fatto ai giorni nostri con la Critica della ragion pura di Kant.
Tale degenerazione indica che nel campo in oggetto non resta più nulla da fare. Non che la scienza del diritto si esaurisse con quel secolo: solo, la materia era stata dai glossatori assiduamente e sempre più sterilmente perorata, e, d’alÍo canto, si schiudevano al rinascimento nascente tanti e infinitamente più importanti spazi scientifici, che la cultura profana non poté più, come al tempo di Federico II, essere identificata con quella giuridica. La scienza giuridica, però, che consiste nello studio delle leggi, conraddistingue la nascita d’uno spirito non teologico, anzi essenzialmente laico.
D’altra parte, la chiesa stessa aveva mantenuto, nel campo del diritto, una posizione di guida: tutti i papi più importanti di questo secolo - Alessandro III, Innocenzo III, Onorio III, Gregorio IX, Innocenzo IV - furono giuristi, anzi la conoscenza del diritto canonico diventò elemento essenziale della teologia, o meglio: teologia e scienza giuridica vennero a pericolosi conflitti nell’ambito della chiesa, e la seconda ne patì gravi danni. Sdegnato di ciò, Dante maledisse i Decretali perché papa e cardinali, a furia di studiatli sino a consumarne i «vivagni», dimenticavano Nazareth" (Ernst H. Kantorowicz, Federico II, Imperatore, [Kaiser Friedrich der Zweite, I-II, Berlin 1927-1931] Garzanti, Milano [1976] 1988, pp. 212-213).
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Federico La Sala
Da Gramsci a Wittgenstein (via Sraffa)
di Armando Massarenti (il Sole-24 ore domenica, 15.06.2014)
«Se dovessi ora uscire di carcere, non saprei più orientarmi nel mondo, non saprei più inserirmiin nessuna corrente sentimentale». Queste amare parole sono di Gramsci, che in carcere sembra avere perso ogni orientamento sia politico - si sono acuiti i contrasti ideologici con l’amico Togliatti - sia sentimentale - sempre più rade si fanno le lettere della moglie Giulia. In questo frangente drammatico, Nino scrive un illuminante commento al X canto dell’Inferno, erroneamente considerato «il canto di Farinata»: egli fa infatti notare come sia quella di Cavalcante Cavalcanti la figura più significativa dell’episodio ambientato nel cerchio eretici, per la sua amorosa preoccupazione per il figlio Guido di cui ignora la sorte, e non Farinata, che resta una figura convenzionale di politico militante, irrigidita da un ideologismo esibito nel suo “comizio” recitato dalla tomba.
Franco Lo Piparo, in un capitolo del suo appassionato saggio dedicato al Professor Gramsci e Wittgenstein (Donzelli), fa notare come Nino si sentisse anche lui un eretico relegato in un «cieco carcere». La sua visione della politica si è fatta vieppiù distante da quella teorica e astratta che caratterizza l’establishment stalinista.
Negli anni di prigione, torna con soddisfazione a sentirsi un Professore di linguistica e le sue riflessioni sul linguaggio inteso come evento della vita pratica non può non ripercuotersi sulla sua visione della società e della politica.
Il fatto straordinario di questa dolorosa vicenda è che Gramsci, dal carcere e dalle cliniche Cusumano e Quisisana, riesce a sua insaputa a influire sul pensiero di una delle menti filosofiche più geniali dell’Europa del tempo.
Si deve infatti proprio a Gramsci la celebre “svolta” in senso antropologico della visione del linguaggio di Wittgenstein, l’abbandono delle tesi esposte nel Tractatus e l’approdo alle Ricerche filosofiche.
L’amico di Gramsci Piero Sraffa, collega all’Università di Cambridge di Wittgenstein, è da identificarsi come il tramite del trasferimento delle idee dell’inconsapevole Nino a Ludwig.
Amartya Sen già nel 2009 sostenne che Gramsci avrebbe esercitato il suo influsso sul pensiero di Sraffa (e quindi di Wittgenstein) al tempo in cui l’economista napoletano collaborava a Torino con «L’Ordine Nuovo» di cui Gramsci era direttore.
Lo Piparo oggi dimostra in maniera puntuale una tesi diversa: furono le idee che Nino maturò in carcere quelle davvero significative per la svolta wittgensteiniana. Le Ricerche, infatti, sono state composte nell’anno accademico 193536, e il Quaderno gramsciano dedicato al tema della praxis linguistica (Q 11) è del 1935: è il periodo in cui Sraffa andava a trovare l’amico in clinica; leggeva i suoi Quaderni tramite la cognata di Nino, Tania; e, nel contempo, frequentava settimanalmente Wittgenstein per discutere le tesi linguistiche di quest’ultimo, al punto da farlo “convertire” a una visione pragmatistica della lingua. Ludwig affermerà di sentirsi, grazie a Sraffa, come un albero completamente potato dei suoi vecchi rami e pronto a rifiorire in modo nuovo.
È nella critica alla linguistica di Benedetto Croce (Q 29) il quale sostiene che una proposizione ha senso solo se è corretta dal punto di vista logico-grammaticale e semantico , che Gramsci afferma per la prima volta che «il senso di una proposizione non dipende da una qualità interna della proposizione stessa e il suo status grammaticale non può essere valutato indipendentemente dal contesto». Pertanto, una proposizione come «questa tavola rotonda è quadrata» può avere comunque senso in un determinato contesto, per esempio nel discorso di un personaggio di un romanzo fantastico. Il concetto gramsciano di praxis linguistica, presente nei Quaderni, compare variamente negli scritti di Wittgenstein a partire dal 1936, sebbene la cosa non sia stata notata per via della traduzione inglese di Anscombe che rende il tedesco originale Praxis con practise. Evidentemente, le idee linguistiche di Nino furono così potenti da riuscire a evadere le alte mura del suo cieco carcere.
Intervista
Bergonzoni, connessi alla vita
di Angela Calvini (Avvenire, 9 giugno 2014)
Restare connessi alla vita reale, in un mondo che si illude di essere unito grazie alla tecnologia. I “nessi” di Alessandro Bergonzoni hanno a che fare con la vita e con la morte, con i fili che ci legano gli uni agli altri. Fili che l’artista bolognese muove da perfetto burattinaio della parola nel nuovo spettacolo Nessi, applauditissimo al Teatro Elfo Puccini di Milano, avvolgendo in una morsa “pensante” il pubblico proprio nel momento in cui questo abbassa le difese davanti alle armi della comicità.
Bergonzoni, dopo trent’anni in scena, quattordici spettacoli, svariati romanzi, un costante impegno nel sociale (l’ultimo coi ragazzi del carcere minorile Ferrante Aporti di Torino), oggi arriva a una svolta. Non a caso l’artista debutta nella poesia con la nuovissima raccolta L’amorte edita da Garzanti (pagine 164, euro 12,00). Una svolta più vicina al cuore del pubblico, meno cerebrale, dove la “meraviglia” del coltissimo gioco di parole rallenta il ritmo per accompagnarci, passo passo, verso una nuova coscienza. «È finito il tempo dei leader. Falcone, Mandela, don Diana siamo noi - grida dal palco -. Non possiamo più nasconderci dietro a un “non ci riesco”».
Bergonzoni, quali sono questi nuovi “nessi”?
«Non hanno a che fare con la connettività di internet che usiamo quotidianamente. I nessi hanno a che fare con i legami e i legacci dell’uomo che da quando nasce a quando muore annodano le persone. Con i lontani, gli sconosciuti, gli evitati. Grazie alla rete pretendiamo di essere dappertutto e con chiunque, ma il nostro corpo, la nostra mente e la nostra anima non sono accanto a nulla. Attraverso i media crediamo di avere esaurito la nostra conoscenza. Occorre invece una rinascita, occorre risorgere».
Da dove ripartire, allora?
«Attraverso la comicità, le forme d’arte e, soprattutto, la poesia noi riusciamo a stabilire un contagio, una vicinanza, una presenza e anche un cambiamento. Prima della politica, bisogna parlare di ante-politica. E quello che viene prima è la poetica. Noi invece effettuiamo dei “geniocidi”, l’assassinio della parte più artistica, poetica e metafisica che è in noi: è il più grande obbrobrio che possiamo commettere».
Il suo spettacolo suona come un invito a tornare a un concetto “antico”, quello della partecipazione.
«Non possiamo più permetterci di cercare un leader, ma dobbiamo diventare noi stessi leader del nostro partito politico, della nostra Europa, della nostra Italia e del nostro cosmo. Noi siano diventati Falcone e Borsellino e dobbiamo smettere di pagare il pizzo alle nostre ’ndranghete che sono certe pubblicità, certi non ci riesco, certi non posso, certa televisione, certa radio. L’artista è il pubblico, il nostro è un lavoro artistico comune. Il bene comune è quello che si vuole a quelli che non si conoscono».
Bergonzoni, il suo è comunque un discorso “politico”.
«La gente oggi si ribella, ma non occorre cambiare partito, occorre cambiare spartito. Spartito musicale interiore. Ovviamente esistono la democrazia e il voto. Ma noi votiamo ogni giorno: quando guardiamo un handicappato, quando ne abbiamo fastidio, quando non sopportiamo la morte. Siamo sempre alle urne. Nello spettacolo dico: “Io non posso mica, mio non riesco mica: chi è questo mica che non ci permette di operare?”. Noi siamo opere d’arte, operanti e operabili. Io non posso più fare solo lo scrittore, l’artista, l’attore e poi sono a posto con la vita. Io devo cominciare quello che è considerato il dovere degli altri».
Nello spettacolo, lei dice essere stanco delle divisioni in categorie, anche fra credenti e non credenti...
«Innanzitutto sono insofferente verso certi cambiamenti superficiali. L’esoterismo e la new age sono sempre in agguato, con un atteggiamento estetico (e statico) che si limita a lanciare mode alimentari. Il cambio va fatto con un moto interiore. Non parlo di religione, o di dogmi. A me interessa la spiritualità, la metafisica, la surrealtà, l’oltre. Nello spettacolo dico che non sopporto di dividere il mondo in credenti, non credenti, laici e quant’altro. A me interessano i non creduti e gli incredibili, i non veduti e non visibili».
Tutto questo a che fare anche con il suo impegno con la “Casa dei risvegli di Luca De Nigris” di Bologna?
«Certamente. Il mio lavoro con loro si è ampliato. Il 10 giugno sarò a Varese per un incontro pubblico con un neurologo sul tema “La coscienza della cura”. Il concetto di “curabile” è più importante di “guaribile”. Dicono che una persona quando guarisce si salva: no, quando è curata si salva. La “Casa dei risvegli” mi ha dato la possibilità di avvicinare la vita e “la vita della morte”. È proprio quello che ispira il mio libro di poesie L’amorte».
Vita e morte si intrecciano sempre più nel suo percorso artistico.
«Non possiamo separare vita e morte, davanti alla Siria, agli immigrati, a quello che è costante sacrificio umano. Quando mi piego dietro un bidone della spazzatura per allacciarmi una scarpa devo essere in connessione con un siriano che in questo momento è dietro un bidone perché un cecchino gli sta sparando. Noi siamo invocati da quelli lontani da noi. Io non voglio amici di Facebook. Nel mio sito www.alessandrobergonzoni.it lancio il progetto artistico Vite in fasce [che è anche il monologo finale dello spettacolo di cui proponiamo un estratto, ndr]. Pubblico il numero aggiornato delle morti e delle nascite nel mondo: quelli sono tutti gli amici che avevo, e sono tutti gli amici nuovi che avrò. Sono stanco dell’umanità, a me interessa la sovrumanità. Altrimenti l’uomo resta solo un uomo».
Natale mistico
La notte di luce che rivela noi a noi stessi
Il senso della festa non è nel mito, ma in un evento reale che ha diretta incidenza sull’animo umano
di Marco Vannini (la Repubblica, 24.12.2013)
La nascita di Gesù fu posta dalla Chiesa latina al solstizio di inverno perché in quella data i romani festeggiavano il sol invictus, ovvero il sole che, giunto al punto più basso del suo corso nel cielo, non scompare, ma sembra fermarsi in attesa, e riprende da allora in poi vigore. Come molte altre, questa festività cristiana prese così il posto di una pagana: Cristo, sole di giustizia, sostituì la precedente divinità astrale.
In questi giorni del solstizio tutti provano comunque una sensazione di pace, che invita al raccoglimento, alla meditazione, e non v’è dubbio che la stagione astronomica e meteorologica sia per questo determinante: il tempo sembra fermarsi, la natura sembra silenziosa, in ascolto, la vegetazione in attesa di rinascita.
Oltre alla natura però contribuisce potentemente a questa sensazione la cultura, ovvero il passato cristiano, la cui influenza continua a farsi sentire nella nostra società post-cristiana: anche molti secoli dopo che Buddha era morto, come ricorda Nietzsche, la sua ombra continuò ad essere presente.E non meraviglia che sia così: quel passato era infatti ricco, forte, tanto - ad esempio - da dare a un oscuro maestro elementare e a un povero parroco di villaggio l’ispirazione per quella Stille Nacht, la cui struggente melodia, colma di nostalgia, muove tutti gli animi alla pace, all’amore, indipendentemente da ogni religione.
Si capisce allora come la Chiesa cerchi di far leva su questo sentimento per cercare di ravvivare la fede che una volta si riteneva fondata su reali eventi storici, ovvero sulla “storia della salvezza” che da Adamo procede verso Cristo. Oggi, però, dal momento che quella storia appare per ciò che è, una mera costruzione mitico-teologica, la fede si è ridotta a una combinazione di sentimento più fantasia: una cosa da bambini, dunque. Non a caso ai nostri giorni il Natale è festa non solo per un Bambino, ma soprattutto per bambini.
La fede è infatti in questo caso una credenza, che si difende con una sorta di infantile testardaggine, ignorando la realtà, tanto storica quanto psicologica. Se invece la fede è volontà di verità, essa guarda in faccia la realtà, scoprendo che quella credenza è desiderio di consolazione e rassicurazione, frutto del desiderio di permanenza di un ego che si sente debole e incerto e che perciò cerca “salvezza” nel rimando ad altro fuori di sé, restando così sempre nell’attesa, nell’anelito. La fede allora non produce affatto credenze ma, al contrario, le toglie via tutte, smascherando come menzogna anche l’immaginazione teologica.
La fede - scrive san Giovanni della Croce - «non solo non produce nozione e scienza, ma anzi accieca e priva l’anima di qualunque altra notizia e conoscenza: la fede è notte oscura per l’anima e, quanto più la ottenebra, tanto maggiore è la luce che le comunica». Fede come notte, dunque, ma una notte che mentre libera da ogni presunto sapere di verità esteriori, fa risplendere una luce interiore, sapere non di altro ma di se stessa, sapere che è un essere: questa, possiamo dire, è la verastille nacht, heilige nacht, notte silenziosa, notte santa.
La notte in cui Dio nasce nell’umanità è la notte prodotta dalla fede, ovvero il silenzio, il vuoto che l’intelligenza ha fatto nell’anima. Il Natale, riferimento a una nascita del divino nel tempo, ha dunque il senso di ri-cordare, nel suo senso etimologico di riportare all’interiorità, risvegliare nell’anima nostra ciò che le è proprio ed essenziale: il divino che è nel suo fondo più intimo. Questo è il passaggio aus historie ins wesen, dalla storia all’essenza, come dicevano i mistici tedeschi, ovvero da una verità esteriore, che non ha alcun effetto, a una verità interiore, che salva davvero.
La salvezza non è infatti dal peccato di un altro, Adamo, da cui un altro, Cristo,ti deve liberare, ma da quel peccato davvero “originale” che è l’amore di sé. In te è Adamo, in te è Cristo, ovvero tanto l’amore di te stesso quanto l’amore del Bene, e la salvezza ti appare nella sua realtà, non futura ma presente, non sperata ma reale, quando il bene degli altri ti è caro quanto il tuo, assolutamente, in nulla di meno. Niente può turbare allora la pace dell’anima: non a caso i mistici ripetono la cosiddetta supposizione impossibile: se anche Dio mi destinasse all’inferno, sarei comunque “salvo”.
Il senso vero del Natale non va dunque cercato all’esterno ma in se stessi, non in una costruzione teologica, ma nel vuoto, nel distacco. Questo è anche il senso profondo della storia che precede e rende possibile la nascita del Figlio, come del resto ogni nascita umana, ovvero la storia della Madre: Maria fu capace di generare il divino per la sua umiltà, per la sua verginità, che non significa una condizione fisica, ma il vuoto fatto in se stessa. Il Logos nasce infatti nell’anima di ciascuno di noi quando essa è come Maria: distaccata, ovvero libera, spoglia di ogni preteso valore e preteso sapere. Il mistico poeta Angelus Silesius perciò recita: «Davvero ancor oggi è generato il Logos eterno! Dove? Qui, se in te hai dimenticato te stesso».
Il mistero del Natale si svela infatti quando si comprende il significato non blasfemo, ma al contrario profondamente spirituale -anzi,essosolocristiano, senza il quale la religione restasuperstizione, la fede credenza infantile - del principio che innerva la mistica: tutto quello che la Sacra Scrittura dice di Cristo, si verifica totalmente anche in ogni uomo buono e divino.
Purtroppo tale principio fu condannato come eretico da uno di quei papi avignonesi che Dante definisce “lupi rapaci”, separando così divino da umano, sacro da profano, avocando alla chiesa il monopolio del sacro e con questo ribadendo la divisione ragione-fede, scienza-religione che perdura ancora oggi e che costringe i “credenti” in quella condizione di minorità da cui l’illuminismo, secondo le celebri parole kantiane, ha inteso togliere l’uomo occidentale.
Accanto a un Natale storico, nel quale una sola volta, in un solo luogo e in una sola persona, il divino è nato sulla terra, c’è dunque un Natale eterno, per cui, secondo le parole di Origene, il divino si genera nell’anima non una volta soltanto, ma in ogni istante, in ogni luogo e in ogni uomo, in ogni pensiero che egli rivolge a Dio con purezza, in ogni gesto di amore che compie.
Anche se non legata al solstizio d’inverno, la nascita di Gesù è comunque un evento reale, non un mito. In quanto ha a che fare con realtà profonde ed universali dell’anima umana, il mito riguarda ciò che non è mai avvenuto ma in eterno avviene, come diceva un filosofo pagano, mentre per il Natale noi dobbiamo dire: ciò che è avvenuto una volta e in eterno avviene.
Attenzione però: avviene solo se avviene. Perciò lo stesso poeta mistico che abbiamo prima citato lancia al suo lettore un avvertimento davvero terribile: «Nascesse mille volte Cristo in Betlemme, se in te non nasce, sei perduto in eterno».
Paradiso in terra dove sia qualcun lo sa
di Claudio Gallo (La Stampa, 16 dicembre 2013)
«Immagina che non ci sia nessun paradiso, provaci, non è poi così difficile, immagina che non ci sia nessun inferno sotto di noi». Così cantava John Lennon nel 1971, con la sua Imagine, proponendo di abolire il paradiso mentre, per l’ineludibile dialettica delle cose, ne proponeva una nuova versione. Si può vivere senza un altrove? Sembrerebbe di no, perché, anche nelle menti più scettiche, l’idea o l’immagine emerge puntualmente dal pozzo tenebroso da cui sorge la coscienza. Non ci credo, ma lo immagino.
Gli antichi, che vedevano il mondo con occhi diversi dai nostri, non si ponevano il problema della sua esistenza ma s’interrogavano sul dove. Una raffinata scienza cartografica si sviluppò lungo i secoli per indicare dove il paradiso terrestre fosse situato. Una «scienza» cangiante che si è prefissata l’obiettivo di spiegare l’inspiegabile e che è riuscita a sopravvivere anche all’era delle misurazioni esatte.
Segue il suo percorso affascinante, che è allo stesso tempo una mappa della nostra mente, lo storico Alessandro Scafi, docente al Warburg Institute di Londra, nel suo Maps of Paradise , appena pubblicato in Gran Bretagna (dalla British Library) e in Nord America (dalla University of Chicago Press) e in attesa di traduzione italiana. Il libro traccia la storia della cartografia di una specifica forma di paradiso: il Giardino dell’Eden descritto nel libro della Genesi . Il termine usato nella versione ebraica è «Gan Eden», Giardino dell’Eden.
La parola persiana da cui deriva il termine paradiso adottato nelle versioni greche e latine della Genesi, «pairi-daeza», indicava all’inizio (nell’epoca achemenide, tra il ’600 e il ’300 a.C.) uno spazio chiuso da un muro. Quando i traduttori greci e latini dell’originale ebraico scelsero il termine paradiso trasformarono il luogo perfetto di Adamo ed Eva in un giardino recintato. È interessante che per tutta l’antichità l’ideale di perfezione fosse rigorosamente uno spazio finito. L’idea di un infinito illimitato, che a un filosofo greco avrebbe fatto orrore, è un dono della modernità, con le sue dimensioni disumane. Il paradiso socialista, di cui Marx profetizzava l’avvento sulla terra, nasceva proprio dalla negazione dell’accumulazione illimitata delle ricchezze per tornare al limite naturale del rapporto umano. Ciò che i greci chiamavano «metron» e mettevano alla base di ogni convivenza sociale.
Dall’inizio dell’era cristiana fino al Rinascimento le mappe del mondo situavano il Paradiso a Oriente perché così era indicato in alcune traduzioni della Genesi . «Infatti, in molte mappe medievali - ha spiegato Scafi presentando il libro all’Istituto italiano di cultura di Londra - il paradiso è localizzato a Est. Le moderne misurazioni geografiche non rappresentano che luoghi. Ma prima del Rinascimento, prima della riscoperta della geografia tolemaica, prima dell’uso di longitudine e latitudine, le mappe del mondo erano narrazioni storiche piuttosto che rappresentazioni geografiche».
Niente di più distante da Google Maps delle mappe medievali (anche se Google Earth ha cominciato a inserire una dimensione storica). Nelle antiche carte si compendiava la storia del mondo: il dramma dell’umanità si rivelava attraverso la geografia. Si poteva vedere il mondo di ieri ma anche il mondo di domani che, coincidendo con la fine dei tempi, era al di fuori del tempo e dello spazio: uno stato rappresentabile ma non pensabile.
«In Armenia - ha detto Scafi, illustrando il mappamondo di Hereford - vediamo l’Arca di Noè, in Mesopotamia la Torre di Babele, tra il Sinai e il Mar Rosso l’esodo del popolo d’Israele; a Gerusalemme la crocifissione di Gesù Cristo; a Creta il labirinto di Minosse; in Asia il Vello d’oro degli Argonauti. Nel Medioevo si credeva che lo spazio fosse inestricabilmente legato al tempo, una cosa tornata ovvia agli occhi dei fisici del ’900».
Il paradiso terrestre in quelle mappe è fissato nel momento topico in cui Adamo ed Eva commisero il peccato originale, come la finestra di un’altra dimensione affacciata sul presente. Così il giardino dell’Eden esiste e non esiste allo stesso tempo, è geograficamente localizzabile sulla terra ma rimane inaccessibile. Un luogo che è contemporaneamente dentro e fuori del mondo, sulla terra ma non della terra. Lo spazio diventa una semplice convenzione: mentre i cristiani medievali immaginavano un paradiso a Oriente, i loro contemporanei buddisti guardavano al paradiso d’Occidente.
Profondi cambiamenti nella teologia e nella cartografia hanno poi trasformato la visione medievale di un giardino ancora esistente in un Oriente misterioso nell’idea moderna di un paradiso perduto, i cui resti sono stati identificati con precisione in vari luoghi del mondo conosciuto. Nei modi più vari e ingegnosi cartografi e teologi hanno tentato per due millenni di situare il loro paradiso.
Nessuno più di Dante ha cercato di spiegare perché il paradiso non si può spiegare: «Nel ciel che più de la sua luce prende / fu’ io, e vidi cose che ridire / né sa né può chi di là su discende / perché appressando sé al suo disire / nostro intelletto si profonda tanto / che dietro la memoria non può ire»
Una nuova edizione del “Monarchia”
Quando Dante immaginava l’Impero come un Paradiso
di Massimo Cacciari (la Repubblica, 17.12.2013)
L’edizione del Monarchia di Dante, a cura di Paolo Chiesa e Andrea Tabarroni, recentemente pubblicata come IV° volume della nuova edizione commentata delle Opere, coordinata da Enrico Malato, non si segnala soltanto per la ricchezza di note e apparati, per alcuni interventi migliorativi del testo-base, per l’ampia introduzione generale e quelle, essenziali, alle singole parti del volume.
Ma è notevole anche per la presenza di alcuni importantissimi “documenti” riguardanti la fortuna dello scritto dantesco, tra i quali il De reprobatione di Guido Vernani, radicale e filosoficamente nient’affatto sprovveduto attacco al Monarchia da parte del frate domenicano; il Commentarium al Monarchia di Cola di Rienzo, testimonianza della sua passione per la gloria di Roma, di un “culto” che Dante definisce nella sua portata teorica e da lì, anche proprio attraverso Cola, trapassa nell’Umanesimo; infine il “volgarizzamento” del Monarchia, steso dal grande Ficino, alla fine degli anni ’60 del ’400, non solo in funzione anti-repubblicana, ma per rivendicare Dante alla pia philosophiae cioè alla “catena aurea” del platonismo.
Interpretazioni o “fra-intendimenti” diversissimi, che non nascono soltanto dalle posizioni spesso incompatibili dei loro autori, ma proprio dalla novità e complessità dell’opera di Dante, soprattutto se letta insieme alla Commedia (come appare necessario fare, poiché certamente essa viene scritta in anni nei quali Dante è già tutto immerso, mente e cuore, nella stesura del poema).
Della sua novità ,come per le altre sue opere, Dante è “superbamente” consapevole - e così dello scandalo che essa è destinata a suscitare. Malgrado le numerose citazioni da Agostino, riguardanti essenzialmente questioni intorno al metodo dell’esegesi, Dante non poteva non avvertire l’abisso tra la sua concezione della civitas hominis, la sua idea di Roma e di Impero, e quelle dell’intera tradizione patristica e dello stesso “aristotelismo” tomista.
Da remedium o addirittura semplice solacium per l’infermità della nostra natura vulnerata dal peccato, in Dante l’Impero (e cioè la forma provvidenzialmente destinata a unire politicamente il genere umano), la cui idea stessa viene da lui proposta in termini puramente filosofico-scientifici, esclusivamente per philosophica documenta, è chiamato a assicurare autentica felicità terrena, a edificare l’autentico Paradiso terrestre. Da Babilonia, quale era per Agostino, Roma si trasforma in Roma celeste!
Ma nella Commedia questo Fine appare davvero ancora garantito dall’opera del solo Impero, nella razionale autonomia della sua forma? Questo l’enigma, su cui Chiesa e Tabarroni invitano ancora a riflettere. Virgilio, la prima guida di Dante, si arresta alla soglia del Paradiso terrestre, non vi entra e tantomeno potrebbe spiegarne i simboli; stupisce e basta sullo spettacolo che gli si rivela. È Beatrice a “far entrare” il poeta, e solo dopo che egli ha bevuto tutto l’amaro calice della confessione e del pentimento. L’architettura della Commedia, nei nessi costitutivi rappresentati dalle guide del poeta, segna una profonda discontinuità con quella del Convivio e del Monarchia.
Come spiegarla? Amara delusione e disincanto dopo il fallimento delle ultime speranze, che ancora avrebbero animato l’opera politica? Ma il Monarchia è tutto fuorché uno scritto “militante”; provvidenziale appare a Dante il corso della storia, ed egli vuol esserne il profeta. In questo schema è inserita la gloria di Roma, modello di perfetto potere politico, di Impero. Ma è la forza ideal-eterna di questo disegno che finisce col rendere contraddittorio il famoso simbolo dei due Soli, Chiesa e Impero, perfettamente distinti nei rispettivi domini e nelle rispettive missioni. Se, infatti, il perfetto potere politico è concepibile soltanto in quanto voluto ab origine dal Signore, in quanto provvidenziale nel senso più proprio e più forte, la felicitas che esso promette è necessariamente subordinata a quella ultima, alla beatitudo celeste. E sembra essere questa, alla fine, l’indicazione che emerge dalla Commedia.
Dante rompe definitivamente con la teologia politica patristica e medievale, ma non è affatto anacronisticamente leggibile nel senso di Marsilio da Padova e della filosofia politica moderna successiva. L’Impero di Dante non sono i regna, o ormai potremmo dire gli Stati, che ha in mente Marsilio. Dante segna la grandiosa soglia tra due epoche - quella di un’idea del Politico che, pur nel rivendicare la propria razionale autonomia, lotta per non perdere ogni fondamento sacrale, e quella che ne risolve il significato e la missione nella immanente potenza delle sue leggi, nella positività del suo diritto. Per quest’ultima, che il Giustiniano imperatore di Dante trovi posto, e vera pace, solo in Paradiso diverrà il simbolo di un’epoca per sempre tramontata.
Ermeneutica o nuovo realismo?
2013, nov 27*
Della terra, il brillante colore
Il libro di Federico La Sala offre un punto di vista raro. Quello di un pensiero maschile che osserva e riflette e su alcuni pilastri del pensero filosofico occidentale in modo non neutro ma a partire dal riconoscimento della propria parzialità - di individuo e di genere.
Il libro si compone di più saggi che affondano nel profondo delle nostre radici culturali come “carotaggi” a campione. La sensazione all’inizio spaesante di saltare da un frammento all’altro in campi diversi del sapere e in momenti diversi della storia è ricomposta nel filo conduttore che pian piano si manifesta. Più che un filo conduttore teorico, la tensione etica, intellettuale, di cuore, di un essere umano in ricerca.
Nella prima parte del testo l’autore si spinge in regioni dove la religione cattolica si intreccia con la tradizione ermetica. Incontriamo Ermete Trismegisto e la grande stagione Rinascimentale poi affogata nel rigore censorio della Controriforma. Incontriamo diverse manifestazioni delle Sibille, qui visibili nella riproduzione di xilografie di Filippo Barberi (1481) - una versione inedita. Percorsi incrociati tra Kabbalah, carmelitani e profeti islamici.
Sembra di navigare su un fiume sotterraneo che congiunge Oriente e Occidente. Così arriviamo alle note su Parmenide, Freud, Kant, Rousseau - tra gli altri. L’autore offre spunti e visioni prendendoli da un bagaglio di conoscenze che spazia dalla storia della religione alla filosofia alla psicoanalisi. Si alternano luce solare e lunare. Tra le tante le citazioni, il ritmo conciso e il gesto schietto, senza pose accademiche, rendono la lettura scorrevole. Nella pennellata di Fulvio Papi nell’introduzione, sulla spinta della lettura di questo “testo in piena”:
La Sala, con una mossa certamente ad effetto e piena di provocazione, dice: “guardiamo il nostro ombelico”, riconosciamoci come figli di una maternità e di una paternità che siano la terra del nostro fiorire e non i luoghi delle nostre scissioni.
Della Terra, il brillante colore. Parmenide, una “Cappella Sistina” carmelitana con 12 Sibille (1608), le xilografie di Filippo Barbieri (1481) e la domanda antropologica
di Federico La Sala,
Edizioni Nuove Scritture, Milano, 2013
156 p., 15€
* E.C.
NOVE PAROLE DI UmaNA ONTOLOGIA.
Le nostre radici culturali e linguistiche *
DIO
CIELO
AMORE
MARE
TERRA
E’
VIVE
MUORE
AMA
* Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, I, viii
* Cfr. Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria, Edizioni Ripostes, Roma-Salerno 1991, p. 62.
Vattimo contro il «nuovo realismo» di Ferraris
Tornare al mondo dei fatti? Botta e risposta (con controrisposta) tra i due filosofi sul «Manifesto del nuovo realismo». Per Vattimo si tratta di un’ideologia reazionaria: «Il ritorno della realtà è un ritorno all’ordine. È un supporto ideologico a Monti». Le replica di Ferraris: «No, è il vostro postmoderno che è sfociato in populismo. La decostruzione è naufragata nel realytismo e nelle guerre». E la disputa promette di proseguire (Alias/il manifesto, 8 APRILE 2012)
È ora di liberare la Chiesa dal viscido dominio del clericalismo
di Kevin Hegarty*
in “www.irishtimes.com” del 10 aprile 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
I cattolici liberal sono giunti alle loro opinioni circa l’insegnamento della chiesa sulla contraccezione, sui preti sposati, sulle donne prete, e sull’omosessualità come risultato di una onesta e seria riflessione.
Il pittore Tony O’Malley era solito creare un’opera d’arte ogni Venerdì santo. Quando è giunta la notizia, durante la Settimana santa, della censura del Vaticano nei confronti di Fr. Tony Flannery e della rivista dei Redentoristi “Reality”, ho desiderato poter dipingere un quadro che esprimesse la mia tristezza.
Il discorso di papa Benedetto nella messa del Giovedì santo a Roma hanno portato al massimo la mia depressione. In risposta ad un appello alla disobbedienza di preti e laici austriaci sul celibato e sulle donne prete, ha asserito che essi sfidavano “precise decisioni del magistero della chiesa”.
I capi della Chiesa spesso parlano del diritto di libertà di espressione, molto recentemente lo ha fatto lo stesso papa nella sua visita a Cuba. Le recenti mosse vaticane hanno l’intento di creare un clima di paura tra il clero più aperto. Per riprendere un commento espresso alcuni anni fa dallo scrittore inglese AN Wilson, la Congregazione per la dottrina della fede ha “i mezzi per obbligarti a non parlare”.
Conosco molto bene Tony Flannery. Ha donato 40 anni di sincero servizio come prete, soprattutto come predicatore di missioni in tutta l’Irlanda. È un oratore che trascina e suscita empatia e un liturgista innovatore. I suoi articoli su “Reality”, basati sul suo impegno per gli ideali del Concilio Vaticano II e la sua vasta conoscenza della Chiesa irlandese erano spesso scritti per far pensare. È uno dei fondatori della “Association of Catholic Priests”, istituita nel settembre 2010, e fa parte del gruppo dirigente. L’associazione si è dotata di un forum per il dibattito ed una voce indipendente per i preti irlandesi.
Tra le sue conquiste c’è il suo intervento nel caso di Fr. Kevin Reynolds, che fu gravemente diffamato nel maggio scorso nel programma Prime Time Investigates.
Mi aspetto che Fr. Reynolds ammetta che senza questo aiuto starebbe ancora languendo in un limbo dal quale non avrebbe mai potuto emergere.
Forse non sorprende che il Vaticano abbia fatto la mossa di censurare Fr. Flannery. Il Concilio Vaticano II prometteva una Chiesa aperta e dialogica, desiderosa di impegnarsi con il mondo secolare. Dal 1980 a Roma c’è stato un ritiro dalle sue riforme.
Papa Benedetto ha un’opinione negativa dello spirito del Concilio. L’anno scorso ha mandato un gruppo di visitatori apostolici per esaminare la Chiesa irlandese sulla scia dello scandalo degli abusi sessuali. Nel riassunto del loro rapporto pubblicato recentemente, i visitatori danno una sferzata ai cattolici aperti. Hanno scritto che un numero significativo di cattolici irlandesi aveva opinioni in contrasto con “l’insegnamento del magistero”.
Dovrebbero essere loro assegnati pieni voti per il loro potere di osservazione. I molti cattolici liberal in Irlanda sperano in una Chiesa che sia aperta a preti sposati e donne, ad un ripensamento sul problema della contraccezione rispetto a quanto si esorta nella Humanae Vitae, e ad un capovolgimento dell’assoluta mancanza di sensibilità dell’insegnamento sull’omosessualità.
Siamo giunti a queste posizioni come risultato di una onesta e seria riflessione. Non cerchiamo il cambiamento per il gusto del cambiamento. Crediamo che queste riforme aiuterebbero a far emergere una Chiesa più umana, attenta e stimolante, una Chiesa liberata dal viscido dominio del clericalismo.
E queste opinioni sostenute sinceramente non sono affatto in contrasto con la dottrina fondamentale della Chiesa, come hanno sostenuto i visitatori nel loro rapporto. Questa dottrina parla, ad esempio, dell’umanità e della divinità di Cristo, della resurrezione e dei sacramenti.
Non conosco alcun prete in Irlanda che pubblicamente dissenta da questi elementi di fede.C’è la tendenza di commentatori conservatori ad affermare che i preti più aperti siano una minoranza di vecchi scontenti che hanno trasformato le loro interpretazioni errate del Concilio Vaticano II in una specie di santo decreto.
Per loro noi siamo dei naufraghi che tengono sfrontatamente in alto le sbrindellate bandiere degli anni 60. Non ne saranno contenti, ma devo disilluderli.
L’evidenza aneddotica, unita ai risultati di un gran numero di indagini fatte da professionisti, indicano che la maggioranza dei cattolici irlandesi sostiene cambiamenti radicali nel ministero e nell’insegnamento morale della Chiesa.
Per parafrasare Gerry Adams in un contesto differente, non stiamo andando via. Il Vaticano è stato una “casa fredda” per i cattolici aperti negli anni recenti. Il minimo che ci aspettiamo è il rispetto per la nostra libertà di parola e di coscienza.
Una riforma della Chiesa che escluda questi diritti è una forma di repressione. Sembra che Papa Benedetto pensi che “una minoranza creativa” di cattolici conservatori trasformi la Chiesa in Europa. A me questo sembra un garbato eufemismo per un’assemblea di sosia di Rick Santorum.
*Fr. Kevin Hegarty è un prete della parrocchia di Kilmore-Erris a Co Mayo, e giornalista di Mayo News.
DIVES IN MISERICORDIA
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
SULLA MISERICORDIA DIVINA
Venerati Fratelli, carissimi Figli e Figlie,
salute e Apostolica Benedizione!
I - Chi vede me, vede il Padre (cfr Gv 14,9)
1. Rivelazione della misericordia
«Dio ricco di misericordia» (Ef 2,4) è colui che Gesù Cristo ci ha rivelato come Padre: proprio il suo Figlio, in se stesso, ce l’ha manifestato e fatto conoscere. (Gv 1,18) (Eb 1,1) Memorabile al riguardo è il momento in cui Filippo, uno dei dodici apostoli, rivolgendosi a Cristo, disse: «Signore, mostraci il Padre e ci basta»; e Gesù così gli rispose: «Da tanto tempo sono con voi, e tu non mi hai conosciuto...? Chi ha visto me, ha visto il Padre». (Gv 14,8) Queste parole furono pronunciate durante il discorso di addio, al termine della cena pasquale, a cui seguirono gli eventi di quei santi giorni durante i quali doveva una volta per sempre trovar conferma il fatto che «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo». (Ef 2,4)
Seguendo la dottrina del Concilio Vaticano II e aderendo alle particolari necessità dei tempi in cui viviamo, ho dedicato l’enciclica Redemptor hominis alla verità intorno all’uomo, che nella sua pienezza e profondità ci viene rivelata in Cristo. Un’esigenza di non minore importanza, in questi tempi critici e non facili, mi spinge a scoprire nello stesso Cristo ancora una volta il volto del Padre, che è «misericordioso e Dio di ogni consolazione». (2 Cor 1, 3). Si legge infatti nella costituzione Gaudium et spes: «Cristo, che è il nuovo Adamo... svela... pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»: egli lo fa «proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore» (Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, 22: AAS 58 [1966], p. 1042). Le parole citate attestano chiaramente che la manifestazione dell’uomo, nella piena dignità della sua natura, non può aver luogo senza il riferimento - non soltanto concettuale, ma integralmente esistenziale - a Dio. L’uomo e la sua vocazione suprema si svelano in Cristo mediante la rivelazione del mistero del Padre e del suo amore.
È per questo che conviene ora volgerci a quel mistero: lo suggeriscono molteplici esperienze della Chiesa e dell’uomo contemporaneo; lo esigono anche le invocazioni di tanti cuori umani, le loro sofferenze e speranze, le loro angosce ed attese. Se è vero che ogni uomo, in un certo senso, è la via della Chiesa, come ho affermato nell’enciclica Redemptor hominis, al tempo stesso il Vangelo e tutta la tradizione ci indicano costantemente che dobbiamo percorrere questa via con ogni uomo cosi come Cristo l’ha tracciata, rivelando in se stesso il Padre e il suo amore (Cfr. ib). In Gesù Cristo ogni cammino verso l’uomo, quale è stato una volta per sempre assegnato alla Chiesa nel mutevole contesto dei tempi, è simultaneamente un andare incontro al Padre e al suo amore. Il Concilio Vaticano II ha confermato questa verità a misura dei nostri tempi.
Quanto più la missione svolta dalla Chiesa si incentra sull’uomo, quanto più è, per cosi dire, antropocentrica, tanto più essa deve confermarsi e realizzarsi teocentricamente, cioè orientarsi in Gesù Cristo verso il Padre. Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano ad essere propense a dividere e perfino a contrapporre il teocentrismo e l’antropocentrismo, la Chiesa invece, seguendo il Cristo, cerca di congiungerli nella storia dell’uomo in maniera organica e profonda. E questo è anche uno dei principi fondamentali, e forse il più importante, del magistero dell’ultimo Concilio. Se dunque nella fase attuale della storia della Chiesa, ci proponiamo come compito preminente di attuare la dottrina del grande Concilio, dobbiamo appunto richiamarci a questo principio con fede, con mente aperta e col cuore. Già nella citata mia enciclica ho cercato di rilevare che l’approfondimento e il multiforme arricchimento della coscienza della Chiesa, frutto del medesimo Concilio, deve aprire più ampiamente il nostro intelletto ed il nostro cuore a Cristo stesso. Oggi desidero dire che l’apertura verso Cristo, che come Redentore del mondo rivela pienamente l’uomo all’uomo stesso, non può compiersi altrimenti che attraverso un sempre più maturo riferimento al Padre ed al suo amore. [ per continuare a leggere, cliccare qui.]
Il Papa annuncia Giubileo straordinario: "Chiesa riscoprirà Misericordia". "Il mio pontificato? Penso sarà breve"
L’annuncio durante il rito penitenziale in San Pietro. L’Anno Santo inizierà l’8 dicembre 2015 e terminerà il 26 novembre del 2016. Nel secondo anniversario del Conclave, Bergoglio parla in un’intervista alla tv messicana. Critica il clericalismo, definisce esagerate le aspettative sul Sinodo e fa previsione sugli anni che gli restano
CITTA’ DEL VATICANO - Il Papa annuncia un Anno Santo straordinario, dall’8 dicembre 2015 al 26 novembre 2016, dedicato alla misericordia, nel corso del rito penitenziale nella Basilica di San Pietro. L’annuncio era contenuto, con embargo, nella documentazione fornita nel primo pomeriggio dalla Sala Stampa Vaticana. "La Chiesa troverà la gioia di riscoprirla". L’8 dicembre prossimo, a 50 anni dalla fine del Concilio Vaticano II, sarà dunque riaperta la Porta Santa in San Pietro. La bolla di indizione sarà pubblica il 12 aprile, domenica della Divina Misericordia. Festa, quest’ultima, istituita da Giovanni Paolo II, celebrata la domenica dopo Pasqua. La scelta di Bergoglio è dunque in continuità con il precedente Giubileo straordinario, voluto da Wojtyla nel 1983 per ricordare i 1950 anni della Redenzione, e con il Grande Giubileo del 2000, ugualmente guidato dal Papa polacco che Jorge Mario Bergoglio ha proclamato santo il 27 aprile scorso.
Prevedibilmente, il Giubileo straordinario farà aumentare in modo esponenziale il numero dei fedeli che da tutto il mondo giungeranno in Vaticano nel corso dell’Anno Santo. Il sindaco di Roma, Ignazio Marino: "Siamo pronti". Mentre il presidente del Consiglio Matteo Renzi saluta "l’annuncio del Giubileo" come "una buona notizia che il governo italiano accoglie con i migliori auspici. L’Italia, che quest’anno ospita l’Expo, saprà fare la sua parte anche in questa occasione". Gli fa eco il ministro dei Beni Culturali e del Turismo, Dario Franceschini: "L’Italia saprà accogliere al meglio I fedeli che si recheranno a Roma per l’Anno Santo. Il ministero è pronto, sin da subito, a collaborare per la migliore riuscita di questo Giubileo che sarà per milioni di persone di tutto il mondo un’occasione per un percorso di fede e insieme per uno straordinario viaggio in Italia".
Già, milioni di persone, su cui sarà necessario vegliare. Perché l’Is da mesi ripete di voler arrivare a Roma, intesa come cuore della Cristianità. Un evento come l’Anno Santo straordinario meriterà, evidentemente, particolare attenzione. "L’annuncio del nostro Papa arriva in un momento storico complesso e difficile per il Paese e a livello internazionale. Per questo confidiamo che contribuirà ad alimentare un clima di pacificazione e noi ci impegneremo perché ciò possa avvenire in una cornice di sicurezza" conferma il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, interpellato dall’Ansa.
Intanto, il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ringrazia il Papa ai microfoni del Tg2000. "Francesco ha fatto una grande sorpresa e una grande dono alla Chiesa universale con l’indizione di questo nuovo Anno Santo e di questo Giubileo della Misericordia. La Chiesa Italiana ringrazia molto il Santo Padre ed esprime tutta la sua gioia e tutta la sua gratitudine".
L’annuncio di Papa Francesco. "Cari fratelli e sorelle - ha detto Bergoglio -, ho pensato spesso a come la Chiesa possa rendere più evidente la sua missione di essere testimone della Misericordia. È un cammino che inizia con una conversione spirituale. Per questo ho deciso di indire un Giubileo straordinario che abbia al suo centro la misericordia di Dio. Questo Anno Santo inizierà nella prossima solennità dell’Immacolata Concezione e si concluderà il 20 novembre del 2016, domenica di Nostro Signore Gesù Cristo, re dell’universo e volto vivo della misericordia del Padre. Affido l’organizzazione di questo Giubileo al Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, perché possa animarlo come una nuova tappa del cammino della Chiesa nella sua missione di portare a ogni persona il vangelo della Misericordia".
Perché "nessuno può essere escluso dalla Misericordia di Dio - ha proseguito il Pontefice nel corso dell’omelia - tutti conoscono la strada per accedervi e la Chiesa è la casa che tutti accoglie e nessuno rifiuta. Le sue porte permangono spalancate, perché quanti sono toccati dalla grazia possano trovare la certezza del perdono. Più è grande il peccato e maggiore - ha scandito Bergoglio - dev’essere l’amore che la Chiesa esprime verso coloro che si convertono".
"Sono convinto - ha detto ancora il Papa - che tutta la Chiesa potrà trovare in questo Giubileo la gioia per riscoprire e rendere feconda la misericordia di Dio, con la quale tutti siamo chiamati a dare consolazione a ogni uomo e ogni donna del nostro tempo. Lo affidiamo fin d’ora alla Madre della Misericordia, perché rivolga a noi il suo sguardo e vegli sul nostro cammino".
La Chiesa Cattolica ha iniziato la tradizione dell’Anno Santo con Papa Bonifacio VIII nel 1300. Bonifacio aveva previsto un Giubileo ogni secolo. Dal 1475 - per permettere a ogni generazione di vivere almeno un Anno Santo - il Giubileo ordinario fu cadenzato con il ritmo dei 25 anni. Un Giubileo Straordinario, consuetudine che risale al XVI secolo, viene indetto in occasione di un avvenimento di particolare importanza. Gli Anni Santi ordinari celebrati fino ad oggi sono 26. L’ultimo è stato il Giubileo del 2000. Gli ultimi Anni Santi straordinari, del secolo scorso, sono stati quelli del 1933, indetto da Pio XI per il XIX centenario della Redenzione, e quello del 1983, indetto da Giovanni Paolo II per i 1950 anni della Redenzione.
* la Repubblica, 13 marzo 2015 (ripresa parziale).