Queste note sono il seguito di un lavoro in corso, si veda:
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Continuare a dividere la vita e le opere di Immanuel Kant in due, la fase “precritica” e la fase “critica”, è - storiograficamente - un ‘delitto’, solo un modo per impedir-si e negar-si la comprensione della unitarietà della sua riflessione (scientifica e filosofica, teologica, politica, antropologica, ecc.) e le caratteristiche inedite della sua stessa soggettività. Basta prendere in considerazione solo una delle più importanti opere degli inizi, per comprendere quanto sia necessario e vitale togliere i paletti tra le due fasi.
La “Storia universale della natura e teoria del cielo ovvero Saggio sulla costituzione e sull’origine dell’intero universo secondo i principi newtoniani ” è l’opera di un Autore (pubblicata anonima, nel 1755, a Koenigsberg) che ha appena compiuto trentuno anni. Già solo il titolo dà da pensare - e molto! Se poi si considera che nella dedica (al di là della retorica del caso e del tempo) “A Sua maestà Serenissima e Potentissima / Al Mio Signore / Federico/ Re di Prussia (...)”, “L’Autore” si dichiara addirittura “per tutta la vita” e “con la più profonda devozione, umile servo” della “Mia Reale Maestà”, emergono altre indicazioni - e si aggiungono altre complicazioni (per una lettura più attenta!).
Nell’opera, dopo la “Prefazione” e l’indice del “Contenuto dell’intera opera”, segue la “Parte Prima”, che è titolata “Abbozzo di una costituzione delle stelle fisse ovvero molteplicità dei sistemi stellari” ed è accompagnata da un motto, ripreso dal “Saggio sull’uomo” di Alexander Pope: “Volgi lo sguardo al nostro mondo, scorgi la / catena d’amore che lega la terra al cielo”.
Sono due versi famosi sovraccarichi di storia e di teoria - al passato: per il richiamo ai primi versi del canto I - “La gloria di colui che tutto move/ per l’universo penetra, e risplende / in una parte più e meno altrove” - e, all’ultimo verso del canto XXXIII del “Paradiso” di Dante - “L’amore che muove il Sole e le altre stelle”; al futuro: per il richiamo al prezioso lavoro di Arthur O. Lovejoy, “La Grande Catena dell’ Essere” (“The Great Chaim of Being. A Study of a History of an Idea”, del 1936). La cosa non è affatto di poco conto: nella “Storia universale della natura e teoria del cielo”, nel tentativo (nel saggio) di Kant di andare oltre Newton - sia dal punto di vista scientifico sia filosofico-teologico, Pope accompagna Kant fino alla fine. La “Conclusione” dell’opera - non è male ricordarlo e tenerlo presente - è intitolata: “Il destino dell’uomo nella vita futura”.
Il messaggio è abbastanza chiaro. Chi scrive, parla da uomo a uomo e da sovrano a sovrano e invita (se stesso e) il suo stimato “Signore / Federico / Re di Prussia” ad andare avanti e oltre sulla strada della scienza (Newton) e della saggezza (Pope) - con Newton e con Pope, senza separarli e senza assoggettare l’uno all’altro! L’indicazione di Galilei (se pure mai citato) è tra le righe ed è al fondamento del discorso di Kant: non confondiamo i “due” Libri e non confondiamo “come va il cielo” con “come si va in cielo”!
Quanto questa indicazione di Kant fosse carica di futuro e tuttavia difficile da seguire, lo dimostra subito Hegel nel 1801, con la sua “Dissertatio de orbitis planetarum” (cfr.: Hegel, Le orbite dei pianeti, a c. di Antimo Negri, Laterza, Bari 1984). Dopo pochi anni dalla morte di Federico II di Prussia, e con Kant ancora in vita (muore nel 1804), egli dimentica e stravolge la lezione di Keplero (che aveva accolto la lezione e riconosciuto a pieno la vittoria di Galilei, con un più che significativo “Vicisti, Galilaee!”), ne riprende la vecchia indicazione di coniugare geometria platonica e Santissima Trinità cattolico-imperiale e lo arruola contro la nuova scienza, contro Newton e contro lo stesso Kant.
Il ‘Napoleone’ della ’nuova’ filosofia tedesca e della ’nuova’ monarchia prussiana si prepara alla grande galoppata con la sua sostanza-soggetto. Nel vero-intero della sua “Fenomenologia dello Spirito” e della sua “Scienza della Logica” dell’Assoluto non solo la “libertà dei pianeti” ma anche e soprattutto la libertà degli uomini sarà ‘messa a posto’. Chi scrive e parla ora non è più un uomo (e un sovrano) che parla e scrive ad altri esseri umani (e sovrani), ma è la stessa Anima del mondo: Dio si è riconciliato con il mondo, con se stesso, e ora parla “da solo a solo”. Come già il giovane Holderlin, Hegel si avvia a diventare il teorico ateo-devoto del nuovo Cristo - dell’Uomo supremo, alla Emanuel Swedenborg!
Nella “Prefazione”, “L’Autore” della “Storia universale della natura e teoria del cielo” dimostra come la “dedica” non sia una retorica esagerazione e quale sia il senso del suo omaggio a Federico II. Consapevole e signore di sé, egli mostra con determinazione e con lucidità non solo di essere fuori dalla stato di minorità e di sapersi servire della propria intelligenza, ma anche di sapersi collocare coraggiosamente fuori dal mondo e di saperlo ‘ricreare’, senza cadere nel delirio né dal lato del materialismo (“che pone il mondo a caso”) né dal lato dell’idealismo (che pone il mondo agli ordini dei miracoli di Dio).
Se la si analizza con attenzione, la “Prefazione” è un vero e proprio “discorso sul metodo”, su come procedere coraggiosamente sulla strada del sapere (“Sapere aude!”). Egli, infatti, presenta il suo lavoro con una modalità già tutta sua e tuttavia carica di risonanze galileiane (del Galileo del “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”) e mostra con brillantezza come si possa - procedendo con l’analisi delle ragioni di opposti paradigmi (in questo caso, del meccanicismo con il suo acritico fideismo materialistico e ateistico e del finalismo idealistico con il suo acritico fideismo devoto nel “disegno divino”) - andare avanti (come anche da indicazione baconiana: “plus ultra”) sulla strada della rivoluzione copernicana e, al contempo, dare “una accoglienza favorevole” alla sua ipotesi “sulla costituzione e sull’origine meccanica dell’intero universo secondo i principi newtoniani”, sia dal punto di vista scientifico sia dal punto di vista filosofico e teologico.
Alla base della ricerca e del discorso di Kant, c’è la chiara consapevolezza di come e quanto sia urgente e necessario andare - con Newton - oltre Newton: egli si è “arreso troppo presto di fronte a ciò che giudicava il limite delle cause meccaniche, e troppo alla lesta” e - cosa ancor più grave - formulando un’ipotesi (tutta interna al vecchio platonismo), “era ricorso all’intervento di un Padreterno creatore di stelle e pianeti”(cfr. Giacomo Scarpelli, “Introduzione”, a: I. Kant, Storia universale ..., cit., p. 12). Per Kant, la situazione è pericolosissima - sia sul piano teologico (e politico) sia sul piano scientifico!
E così, ora, “L’Autore” riprende la parola e si rivolge a chi lo legge (e lo ascolta). Questo l’inizio: “Mi sono posto un compito che, sia per le sue difficoltà interne, sia per quel che concerne la religione, potrebbe suscitare fin dall’inizio un pregiudizio sfavorevole in gran parte dei lettori. Scoprire il sistema che tiene unite le grandi membra del creato, derivare dallo stato primordiale della natura la formazione degli stessi corpi celesti e l’origine dei loro movimenti avvalendosi delle sole leggi meccaniche è impresa che sembra superare di gran lunga le possibilità della ragione umana. La religione, d’altra parte, muove una grave accusa alla temerarietà di chi osa ascrivere alla natura abbandonata a se stessa simili effetti, in cui scorge, a ragione, l’immediata presenza della mano dell’Essere supremo, e teme di trovare nell’audacia di tali riflessioni un’apologia dell’ateismo”.
E continua, rassicurando, precisando e incoraggiando: “Sono ben cosciente di queste difficoltà, ma non mi scoraggio. Sento tutta la forza degli ostacoli che mi si oppongono, ma non desisto. Sulla base di una modesta congettura ho intrapreso un viaggio molto rischioso e già scorgo i promontori di nuove terre. coloro che avranno il coraggio di proseguire nella ricerca ne calcheranno il suolo e proveranno il piacere di dare a esse un nome”.
E chiarisce ancora relativamente al suo stile, al suo modo di procedere scientifico, e alle sue convinzioni religiose (al di là del timore della censura):
“Non ho definito il piano di quest’impresa, se non dopo essermi posto al sicuro rispetto ai doveri imposti dalla religione. Il mio zelo si è raddoppiato quando, a ogni nuovo passo, vedevo diradarsi le nebbie tenebrose che sembravano nascondere dei mostri e, al loro dileguarsi, emergere la maestà dell’Essere supremo nel suo più vivo splendore. Poiché ora so bene che queste mie fatiche non meritano alcun rimprovero, voglio esporre lealmente tutto ciò che qualcuno, in buona fede o anche per debolezza d’animo, potrebbe trovare scandaloso nei miei piani e sono pronto a sottoporlo al rigore dell’Areopago ortodosso [l’autorità della chiesa luterana di Prussia] con la schiettezza propria di chi ha un modo di pensare onesto” (cfr. I. Kant, Storia universale della natura e teoria del cielo, Bulzoni Editore, Roma 2009, pp. 39-40).
Kant non ha alcun dubbio sulla strada intrapresa e già fatta (una cifra che ricorre in tutte le sue opere fino alla fine): “(...) è proprio la concordanza che riscontro tra il mio sistema e la religione a innalzare serenamente le mie convinzioni al di sopra di tutte le difficoltà”.
Egli ne è più che certo: la sua linea teorica ha radici saldissime nella tradizione già di Galilei, di quella tradizione critica europea, che sa ben coniugare la lezione socratica (“so di non sapere” e “unicamente sapiente è Dio”) con la libertà e la sovranità evangelica (del figlio di Dio, Cristo, che è come Dio ma che sa e insegna che “solo Dio è buono”).
Al contrario, la convinzione di Kant (come già di Galilei), infatti, è che “i difensori della religione non fanno buon uso delle loro ragioni e, anzi, perpetuano la polemica con i naturalisti, porgendo loro il fianco senza necessità” (op.cit., p. 40); e, poco oltre, insiste e avverte: “Se qualche benintenzionato, per salvare la buona causa della religione”, vuol mettere in discussione la capacità “delle leggi universali della natura, finirà per porsi in imbarazzo da sé e con la propria maldestra difesa fornirà al miscredente l’occasione per trionfare” (op. cit., p. 41).
E invita a riflettere e a non aver paura della sua ipotesi sull’origine meccanica dell’intero universo: “ La materia che si va determinando in virtù delle proprie leggi universali o, se si vuole, secondo una meccanica cieca, produce effetti e condizioni così vantaggiose, che sembrano rivelare il progetto di una mente superiore. [...] Questi effetti non si producono per caso o per coincidenza, dato che con altrettanta facilità potrebbero risultare nocivi, vediamo invece che le loro leggi naturali li costringono ad agire in questo e in nessun altro modo. Come considerare allora tale armonia? Come è possibile che elementi di diversa natura, venendo in contatto tra loro riescano a produrre concordanze e bellezze così perfette - persino a vantaggio di esseri come gli uomini e gli animali, situati in certo qual modo fuori dall’ambito della materia inerte - se non in quanto essi sono riconducibili a una origine comune, ossia a un Intelletto infinito, nel quale furono concepite le proprietà essenziali di tutte le cose?” (op. cit., pp. 42-43).
A chi gli può dire che difendere il suo sistema “significa difendere a un tempo anche le idee di Epicuro, con le quali esso presenta molte affinità”, Kant pazientemente spiega: non voglio contestare il fatto “che le teorie di Lucrezio, o dei predecessori di Epicuro, Leucippo e Democrito presentino molte somiglianze con le mie” (op. cit., p. 44), ma finora - precisa e puntualizza - “è rimasta nell’ombra una differenza essenziale tra la presente cosmogonia e quella antica, una differenza che permette di trarre conseguenze opposte”.
E, continuando, così chiarisce: “Le dottrine appena menzionate, concernenti la generazione meccanica dell’universo, attribuivano l’origine di tutto l’ordine che vi si può percepire al puro caso, al quale era dovuto un incontro di atomi così felice da dar vita a un tutto ben ordinato. Epicuro, poi, fu talmente audace che pretese persino che gli atomi deviassero dal loro movimento rettilineo senza alcuna causa determinata, ma solo per incontrarsi tra loro. Tutti gli altri, portando quest’assurdità alle estreme conseguenze, sono arrivati ad attribuire a questo incontro cieco l’origine di ogni creatura vivente, facendo così derivare la ragione dalla non-ragione”.
Al contrario, nella mia concezione - prosegue Kant - “la materia è sottoposta a determinate leggi necessarie. Dal suo stato di totale dissoluzione e dispersione, io vedo svilupparsi un tutto bello e ordinato, e ciò in modo interamente naturale. E tutto questo non avviene per caso o fortuitamente, ma necessariamente, in virtù di proprietà naturali della materia. In tal modo, non siamo forse indotti a chiederci perché la materia debba esser sottoposta proprio a quelle leggi, che hanno per fine un ordine così vantaggioso? È mai possibile che tante cose, ciascuna delle quali presenta una natura autonoma rispetto alle altre, si siano disposte da sé proprio in questo modo, che ha dato vita a un tutto ben ordinato? E se così accade, non è questa una prova irrefutabile della loro comune origine prima, che altro non può essere se non un supremo Intelletto onnipotente, in cui la natura propria a ogni cosa è stata concepita secondo un intento unitario?” (op. cit., 45).
Come si può vedere da questi brevi cenni, in questo suo avanzare problematico e dialogico (di una soggettività che non mira a nessuna astuta idealistica o materialistica sintesi dialettica!), Kant si mostra uomo maturo e sovrano: e da cosmologo parla ai teologi e da teologo agli scienziati e ai filosofi. Ai teologi mostra l’epocale importanza del lavoro di Newton (le leggi universali della materia e “il cielo stellato” vanno insieme!)) e fa capire chiaramente quanto “umana, troppo umana” sia la concezione del loro “disegno divino” e del loro “Dio”.
A questi, infatti, “L’Autore” dice: “Si è soliti rilevare e ammirare nella natura l’armonia, la bellezza, i fini e la perfetta rispondenza a essi dei mezzi. Tuttavia, mentre da un lato si esalta così la natura, dall’altro si cerca nuovamente di svilirla. Quest’ordine magnifico, si dice, le è estraneo (...) La sua armonia rivela invece l’intervento di una mano estranea che con un saggio disegno ha saputo sottomettere dall’esterno una materia priva di qualsiasi regolarità. Ma a ciò - prosegue Kant - rispondo che se anche le leggi universali della materia sono conseguenza di un disegno divino, esse evidentemente non possono avere altra destinazione che quella di concorrere a completare il piano che la somma sapienza si è proposto, e se così non fosse, non cadremmo forse nella tentazione di credere che almeno la materia e le sue leggi universali siano indipendenti e che la potenza saggissima, la quale ha saputo fare di esse un uso tanto glorioso, sia certamente grande ma non infinita, certamente potente ma non del tutto sufficiente?” (op. cit., pp. 40-41).
Agli scienziati e ai filosofi illustra quanto sia importante andare oltre Newton, liberare il sistema del mondo da quell’ingombrante macigno che è l’ipotesi demiurgica newtoniana, avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza e uscire dallo stato di minorità (il “Sapere aude” e “la legge morale” vanno insieme!): “Pur ammesso, si dirà, che Dio abbia dotato le forze della natura di un’arte segreta, che ha consentito a esse di sviluppare autonomamente, a partire dal caos, un ordinamento perfetto dell’universo, è mai possibile che l’intelletto umano così debole di fronte agli oggetti più comuni, sia capace di sondare le proprietà nascoste di un piano tanto vasto? Tentare un’impresa del genere equivarrebbe a dire: Datemi soltanto della materia e io vi costruirò un mondo”.
E spiega che la direzione del suo lavoro è quella più promettente, “quella che permette di risalire alle origini nel modo più facile e sicuro; e afferma che, “fra tutte le cose della natura di cui si ricerca la causa prima, quanto si può sperare di comprendere a fondo e con pieno affidamento è proprio l’origine dell’universo, la formazione dei corpi celesti e le cause dei movimenti” (op. cit., 47).
Così procedendo, Kant si porta non solo “oltre Cartesio e ben oltre il prudente Newton” (cfr. Giacomo Scarpelli, op. cit., p. 13) ma anche - in compagnia di Leibniz e dei suoi “principi della natura e della grazia” (1714) - ben oltre le illusioni dei deliranti apologeti (sia materialisti sia idealisti) della società chiusa dell’”uomo supremo”. Da uomo e filosofo, il “cinese di Koenigsbeg” - come Nietzsche lo definisce, alludendo evidentemente all’affinità con Leibniz - non era e non “rimase un fisico anche come metafisico critico” (come pensa Karl Lowith, proprio a partire dalla “Storia universale della natura e teoria del cielo”, nel suo “Dio uomo e mondo da Cartesio a Nietzsche", sulla falsariga dei suoi amici idealisti e heideggeriani)!
Kant, al contrario, sapeva benissimo - come e più di Nietzsche - che bisogna perdere “la fede in Dio, nella libertà e nell’immortalità [...] come si perdono i primi denti”, bisogna scendere all’Averno (come scrive Kant) o, che è lo stesso, all’inferno (come scrive Dante), per accedere alla sovranità di sé, alla conoscenza dell’“uomo”, e alla conoscenza del “mondo” e di “Dio”! Molti filosofi sono andati all’inferno, ma non ne sono più usciti; qualcuno è riuscito a venirne fuori, ma non sa nemmeno come e perché, e si illude e sogna ancora, alla Swedenborg: “Solo un dio ci può salvare”!
Federico La Sala (01.10.2010)
CONTRARIAMENTE A QUANTO ’PONTIFICAVA’ DEWEY NEL 1929 E HEIDEGGER NEL 1933, COSI’ SCRIVEVA, NEL 1939, ARTHUR S. EDDINGTON, L’ASTRONOMO E IL FISICO RELATIVISTA, CHE "NEL 1919 ORGANIZZO’ LE DUE FAMOSE SPEDIZIONI DI RILEVAMENTO DELL’ECLISSE SOLARE CHE FORNIRONO LA PRIMA CONFERMA SPERIMENTALE DELLA FORMULA DELLA RELATIVITA’ DI EINSTEIN PER LA DEVIAZIONE DELLA LUCE IN CAMPO GRAVITAZIONALE":
"Non è consigliabile, penso, tentare di descrivere una filosofia fondata sulla scienza con le etichette dei sistemi filosofici più vecchi. Accettare una tale etichetta, farebbe sì che lo scienziato prendesse parte a controversie per cui non ha alcun interesse, anche se non le condanna come completamente senza significato. Ma se fosse necessario scegeliere una guida tra i filosofi del passato, non ci sarebbe nessun dubbio che la nostra scelta cadrebbe su Kant. Non accettiamo l’etichetta kantiana, ma, come riconoscimento, è giusto dire che Kant anticipò in notevole misura le idee a cui siamo ora spinti dagli sviluppi moderni della fisica"
Cfr. Arthur S. Eddington, Filosofia della fisica, Prefazione di Maurizio Mamiani, Bari, Laterza, 1984, p. VII, e pp. X-XI.
COSMOLOGIA E CIVILTÀ: “E’ quindi inutile con Kant ricorrere a modelli storiografici che vogliano sceverare un’autenticità del suo pensiero e un piano ideale di natura operativa o tattica o politica tale che faccia nascere un insieme di questioni marginali, che però non corrispondono alla centrale linea speculativa. Quando, ad esempio, Engels nell’Antischelling sottolinea nella Storia generale della natura l’aspetto cosmologico, vedendone solo l’apporto di natura scientifica procede a una semplificazione che vede unilateralmente solo una faccia della problematica kantiana.
Che dal punto di vista engelsiano questo modo di procedere fosse ovvio e che questa valutazione settorialmente scientifica sia stata fatta altre volte e anche con legittimità in quanto la cosmologia costituisce una zona obiettiva del sapere scientifico, non esclude che traducendo in un modello storiografico questo tipo di semplificazione e di riduzione non sia poi più possibile una ricostruzione della totalità filosofica del pensiero kantiano di questo periodo.
Ciò che interessa vedere è invece come il giovane Kant armonizzi in un discorso filosofico questa doppia esigenza, scientifica e religiosa, e nella delineazione di questo come è il compito di chi si proponga di mostrare la forma originale con cui Kant darà equilibrio speculativo al suo problema” (Fulvio Papi, Cosmologia e civiltà. Due momenti del Kant precritco, Argalia Editore, Urbino 1969, pp. 13-15).
Federico La Sala
RICERCASCIENTIFICA, "#MALOCCHIO", #PSICOANALISI, E #CREATIVITÀ: IL "#SAPEREAUDE!" DI KANT, IL PROBLEMA DELL’#OCCHIO DI #PLATONE, E UNA QUESTIONE DI #BELLO.
UN INVITO A USCIRE DALLA CAVERNA DI "POLIFEMO" (CON L’ARIETE, "ULISSE", E DANTE ALIGHIERI).
In memoria di Immanuel #Kant, Hermann von #Helmholtz, e Marcel #Proust... un omaggio a Vincent DeLuise
RIAPRIRE IL PROGRAMMA SOCRATICO PLATONICO DELLA "CUPIDITA" ("EROS") DEL VEDERE CON GLI OCCHI E DEL GUARDAR-SI NEGLI OCCHI PER CONOSCER-SI, FORSE, BISOGNA RI-PRENDERE IL CAMMINO PROPRIO DALLA #CRITICA DELLA "RAGIONE PLATONICA". Se è vero, come è vero, che Giorgio Colli inizia il suo cammino di ricerca da una rilettura attenta del "Simposio" e dall’ "Alcibiade primo" e che, poi, giunga a tradurre la "Critica della ragion pura" di Kant (Alfonso M. Iacono, "Giorgio Colli: la dismisura nella misura", "Doppiozero", 04 Febbraio 2025), c’è da pensare che, per realizzare l’antichissimo desiderio «di fare, di due, uno», e così, di «guarire la natura umana» (Platone), probabilmente, voglia "dire" che si dovesse andare a fondo con Kant e reimpostare la questione.
"CHIUDERE UN OCCHIO" O "APRIRE GLI OCCHI"?! CON #FREUD, OLTRE: CREDO CHE SIA UNA OTTIMA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SUL TEMA, RIPARTENDO da alcune domande poste in "An #Inquiry into #Beauty" (cfr. Vincent De Luise, 2 febbraio 2025).
Chiedersi se "La bellezza è negli occhi di chi guarda? O la bellezza è nel cervello di tutti coloro che la guardano?"; e, al contempo, accogliere come validi i dati disponibili, che "suggeriscono la seconda ipotesi" (cit.), da una parte si richiamano antiche questioni che risalgono almeno a Platone (appunto, con tutte le conseguenze del caso) e, dall’altra, si rinvia quantomeno a una rilettura del "Manuale di Ottica fisiologica" di un "discepolo" di Kant: Hermann von Helmholtz).
DUE OCCHI E UNA SOLA "IDEA" ("VISIONE"). Helmholtz, nel varco aperto epistemologicamente da Kant, si porta sia al di là della dimensione euclidea dello spazio e del tempo di Newton (aprendo con #Riemann la via alle geometrie non euclidee e alla fisica di #Mach e #Einstein), e, ancora, sia sulla strada di studi "galileianamente" intesi sulla #fisiologia della #percezione, in #ottica e in #acustica, entro cui si colloca la stessa #neuroestetica.
Già solo capire che #Nietzsche, proprio dalla conoscenza delle ricerche di Helmholtz (mediata dalla lettura dell’opera di Friedrich A. #Lange, "Storia del materialismo e critica del suo significato nel presente"), scrive "#Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali" (1881), sollecita a ripensare meglio il suo rapporto non solo con Kant, ma anche lo stesso #Socrate e Platone (il cristianesimo storico e la tradizione illuministica e scientifica) e il "Crepuscolo degli idoli".
PIANETATERRA: UN #PANTHEON DA RIPENSARE E IL #SOLSTIZIO D’#INVERNO. UNA TRACCIA PER UN "RIORIENTAMENTO GESTALTICO" E UNA "#SVOLTA_ANTROPOLOGICA": APRIRE LA "PORTA" DELLA "#TERRA" ALLA #LUCE DEL #SOLE...
ARCHITETTURA #ECOLOGIA #FILOSOFIA E #OCULISTICA. Una nota sull’#occhio del Pantheon:
"[...] L’Oculus è un’apertura nel soffitto della cupola, realizzata con un diametro di oltre 8 metri, e rappresenta l’unica fonte di luce naturale all’interno dell’edificio. La sua creazione risale al I secolo d.C., quando l’imperatore romano Adriano fece ristrutturare l’antico Pantheon, che originariamente risaliva al 1 a.C.
Questo misterioso occhio circolare non solo illumina con la luce del sole l’interno del Pantheon, ma ha anche una funzione simbolica e mistica. L’Oculus rappresenta una connessione tra l’edificio e il cielo, come se un raggio di luce divina scendesse in quel santuario dedicato agli dei.
Inoltre, l’Oculus è stato progettato in modo tale da favorire una perfetta distribuzione dei pesi della cupola, che ha contribuito alla straordinaria stabilità e durevolezza di questo monumento. La cupola è in cemento e la sua costruzione fu una straordinaria opera di ingegneria per l’epoca.
L’Oculus del Pantheon offre anche un affascinante spettacolo naturale durante i giorni di pioggia. La pioggia che entra dal foro forma un effetto suggestivo, simile ad una cascata rovesciata, creando un’atmosfera mistica all’interno del tempio. [...]" (cfr. Accademia Studio Italia, "Il misterioso occhio del Pantheon: un buco nel paradiso!").
ANTROPOLOGIA #PSICOANALISI E #COSMOLOGIA:
"L’ORDINE DEL TEMPO" (ANASSIMANDRO) E "IL PROFUMO DELLA MADELEINE" (CARLO ROVELLI).
STRANO, MA VERO: A Carlo Rovelli, PROPRIO NELLA SUA MAGISTRALE INDAGINE SULL’«ORDINE DEL TEMPO» (CITA PROUST E IL PROFUMO DELLA "MADDALENA", APPUNTO), SFUGGE L’IMPORTANZA DELLE RICERCHE DI HELMHOLTZ.
IMMAGINAZIONE #QUANTISTICA: LA"PSICOPATOLOGIA DELLA VITA QUOTIDIANA" (S. #FREUD) E IL "RITROVAMENTO" DELL’«#UOMO VITRUVIANO» (LEONARDO). Su questa "dimenticanza", forse, è opportuno interrogarsi, perché, a mio parere, è degna di grande interesse, ai fini sia delle ricerca filosofica sia cosmologica sia antropologica:
SCIENZA E LETTERATURA. Per riprendere il "discorso", e portare avanti la ricerca, degno di molta attenzione è un articolo del 2003 di #MarcoPiccolino, proprio sul tema di «Un “tempo perduto” tra scienza e letteratura: il "temps perdu" da Hermann von Helmholtz a Marcel Proust», che così inizia:
LINGUISTICA E #FILOLOGIA: "MADELEINE", "MADDALENA", E "FISICA QUANTISTICA". L’ordine del tempo, incredibilmente, ha portato alla luce dalle profondità storiche del mare culturale mediterraneo il nesso (#nexus") latente tra la "Madeleine" del parigino #MarcelProust (ma anche il "papà Madeleine" di #Victor Hugo) e la Maddalena, l’isola della #Sardegna, e, infine, la "Maria di Magdala", la "Maria Maddalena" del messaggio evangelico (l’«Apostola degli Apostoli») e, con esso, di una sollecitazione antropologica a svegliarsi dal #sonnodogmatico della tradizione della "dotta ignoranza" platonico-paolina e costantiniana (#Nicea 325-2025).
UN "BAMBINO" SULLA SPIAGGIA DELL’#OCEANOCELESTE (KEPLERO A #GALILEO, 1611): ISAAC NEWTON (1643 - 1727).
ANTROPOLOGIAFILOSOFICA), #RIVOLUZIONECOPERNICANA, E #IMMAGINAZIONE SCIENTIFICA E TEOLOGICO-POLITICA...
“If I have seen further it is by standing on ye sholders of Giants.” (Isaac Newton). A ben riflettere, nel trecentesimo anniversario della #nascita di #Kant (1724 -2024), è bene anche ripensare all’intera opera di Newton ("Trattato sull’Apocalisse") e, dalle sue stesse parole, a un possibile "sottile" richiamo "cristologico", a sé stesso come un "#bambino" (#Cristo), portato sulle spalle dal #gigante "#Cristoforo" (che a sua volta diventa un altissimo "#Cristofaro", come da parola di #Alexander #Pope, poeta amatissimo da Kant).
NOTA. #Filologia #Antropologia #Teologia e #Pedagogia. "On The #Shoulders Of #Giants" (#OTSOG). "Senza di loro non vedremmo nulla, su di loro vediamo più lontano di questi San Cristoforo" (cfr. #Umberto #Eco, Introduzione all’edizione italiana: "Dicebat Bernardus Carnotensis" del libro di Robert K. #Merton, "Sulle spalle dei giganti", Società editrice il Mulino, Bologna1991).
"IL BUON DIO STA NEL DETTAGLIO" (ERNST #CASSIRER - ABY #WARBURG): L’#UOMOIMMAGINARIO E IL "#CINEMA" DI #PLATONE.
"SAPEREAUDE!" (KANT, 1724-2024): IL NODO DEL "#CORPOMISTICO" E LA #TEOLOGIA-#POLITICA: UNA #LEZIONE E UN #RICORDO DI #SIMONE #WEIL. Per #fermare il #tempo e riflettere sugli #effettispeciali del "cinema" sulla #storia dell’#Europa (e del #PianetaTerra), forse, una buona "occasione" e una brillante sollecitazione per riflettere sul dominante #androcentrismo platonico.paolino ed hegeliano e, ancor di più e urgentemente, sulla #hamlet-ica #question antropologica e "cristologica" (#Kant, 1724-2024):
SIMONE WEIL: "L’immagine del corpo mistico di Cristo è molto seducente, ma l’importanza che si annette oggi a questa immagine mi pare uno dei sintomi più gravi della nostra decadenza. La nostra vera dignità infatti non sta nell’essere membra di un corpo, anche se mistico, anche se quello di Cristo, ma in questo: nello stato di perfezione, al quale tutti aspiriamo, noi non viviamo più in noi stessi, ma è Cristo che vive in noi; in questa condizione, Cristo nella sua integrità, nella sua unità indivisibile, diviene, in certo senso, ognu no di noi, come è tutto intero nell’ostia. Le ostie non sono frammenti del suo corpo. L’importanza attuale dell’immagine del corpo mistico dimostra quanto i cristiani siano miseramente esposti alle influenze esterne. certo inebriante sentirsi membro del corpo mistico del Cristo: ma oggi molti altri corpi mistici, che non hanno Cristo come capo, procurano alle proprie membra un’ebbrezza, a mio parere, della stessa natura" (Simone Weil, 1942).
Nota:
GEOCENTRISMO, ELIOCENTRISMO, E COSTITUZIONE DEL "MONDO". SHAKESPEARE, IL NOME DI OFELIA, E SOLO IL SOLE IN CIELO, AL CENTRO.
L’EUROPA ANCORA NELLA CAVERNA DELL’ANDROCENTRISMO PLATONICO E PAOLINO E I POSSIBILI RIMANDI DELL’AMLETO "ELISABETTIANO" AL CONTESTO STORICO-POLITICO DELL’ EUROPA DELL’EPOCA, CARICO DI ATTESE DA PARTE DEL "POPOLO" DEI "SOLARI"...
"DE REVOLUTIONIBUS ORBIUM COELESTIUM" (COPERNICO, 1543): GEOCENTRISMO O ELIOCENTRISMO?!
ACCETTANDO PER IPOTESI CHE IL NOME DI OFELIA ("O-felia" = "Peri-elio", intorno e vicino al Sole) è formalmente vicino al nome di #AFELIO ("A-felio" - lontano dal Sole), non è meglio pensare e collocare la figura dell’amletica Ofelia nell’orizzonte delle discussioni cosmologiche legate alla #centralità del #Sole nell’#Universo (sul filo del lavoro di Copernico, Keplero, e Giordano Bruno) e delle preoccupazioni teologico-politiche legate alla #consonanza con le attese apocalittiche dell’epoca (Tommaso Campanella e "la Città del Sole") e al richiamo diffuso della figura del profeta Elia)?! Se non ora, quando "lo Spaccio della Bestia trionfante" (G. Bruno, 1584)?!
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NOTE:
L’ALBA DELLA MERAVIGLIA E LA STORIA DELLA COSMOLOGIA E DELLA FILOSOFIA (#KANT2024): CON #DANTEALIGHIERI E #GALILEO #GALILEI, DALLA LUNA IL SORGERE DELLA TERRA:
INFANZIA, ANTROPOLOGIA, E STORIOGRAFIA: USCIRE DALLA #CAVERNA DEL POLIFEMICO PLATONISMO DI SOCRATE E RICORDARE IL "SEGRETO" DEL VIAGGIO DI "ULISSE" ("#DIVINACOMMEDIA"):
ITACA, LE "ITACHE": L’#ODISSEA, LE "ODISSEE". Un piccolo passo del cammino della #coscienza terrestre sulla importanza di #storiciżżare il legame con il proprio #Sé, con la propria #Tradizione, e con il proprio Pianeta, con la propria "#Terra" - con le proprie "Itache", come precisa Konstantinos #Kavafis.
EARTHRISE
NOTA
COSMOGONIA COSMOLOGIA E ANTROPOLOGIA (#KANT2024):
LA COMUNICAZIONE DELLA NATURA. Il "messaggio" della "margherita" va ben oltre le #frontiere e le #barriere del #paradigma tragico della #piramide dell’#androcentrismo del "#sapiente" (1510) di #Bovillus (cfr. Stefano Mancuso e Alessandra Viola, "Verde Brillante. Sensibilità e intelligenza del mondo vegetale", GIUNTI EDITORE S.P.A., Firenze, 2015, p. 19).
Il dibattito sulla coscienza: nuova vita per la teoria del panpsichismo
La teoria del panpsichismo, che attribuisce coscienza a ogni cosa, riprende vigore nel dibattito scientifico sulla natura della coscienza, tra sostenitori e scettici.
di Gianluca Riccio ("Futuro Prossimo", 26 Marzo 2024)
Da dove viene la coscienza? È una proprietà emergente del cervello o qualcosa di più fondamentale, intrinseco alla materia stessa? È reale o solo un’illusione creata dai nostri neuroni? Sono domande che assillano filosofi e scienziati da secoli, ma che oggi, grazie ai progressi delle neuroscienze e della fisica quantistica, stanno trovando nuove e sorprendenti risposte. Una di queste è il panpsichismo, la teoria secondo cui la coscienza è ovunque, dalla più semplice particella alle stelle del firmamento. È una provocazione di oggi o una rivoluzione scientifica di domani?
La sedia pensante
Immaginate di sedervi sulla vostra poltrona preferita e di sentirle sussurrare: “fai piano... mi stai schiacciando”. Non vorrei banalizzare, ma secondo il panpsichismo funziona proprio così: ogni oggetto, dai più complessi ai più banali, potrebbe avere un barlume di coscienza. L’idea può far sorridere (o rabbrividire), ma ha radici antiche. Già nel ‘500 il filosofo italiano Francesco Patrizi sosteneva che tutto l’universo fosse pervaso da un’anima cosmica. Una visione romantica, soppiantata nel ‘900 dal trionfo del riduzionismo scientifico. Oggi, di fronte all’enigma ancora irrisolto della coscienza, il panpsichismo sta tornando in auge.
Un neurone non fa Primavera
Il punto di partenza è questo: nonostante i progressi delle neuroscienze, non siamo ancora riusciti a spiegare come un chilo e mezzo di tessuto cerebrale possa generare l’esperienza soggettiva, il “sentire” di essere coscienti. È il famoso “hard problem” della coscienza, che ha fatto consumare montagne di carta e fiumi d’inchiostro ai filosofi della mente. Ma se la coscienza non emerge dal cervello, da dove viene? Il panpsichismo ribalta la prospettiva: e se fosse una proprietà fondamentale della materia, come la massa o la carica elettrica? Se ogni particella avesse un briciolo di “psichismo”, allora la coscienza non sarebbe un miracolo biologico, ma una caratteristica diffusa dell’universo.
Panpsichismo, una questione Italia-USA
A dare credito a questa idea sono soprattutto due neuroscienziati: l’italiano Giulio Tononi e l’americano Christof Koch. Secondo loro, la coscienza emerge ogni volta che c’è un sistema fisico integrato e differenziato, cioè con molte parti interconnesse ma distinte. Come un cervello, certo. Ma anche come un cristallo o un vortice d’acqua. Più un sistema è complesso e organizzato, dicono Tononi e Koch, più è cosciente. Ecco perché un ammasso di neuroni è più “sveglio” di un sasso, ma meno di un gatto o di un essere umano. È la teoria dell’informazione integrata, che misura la coscienza in bit, come fosse un software universale.
Ma c’è chi si spinge oltre. Per alcuni panpsichisti (e per dei ricercatori Microsoft), anche le stelle e le galassie potrebbero essere coscienti, come giganteschi cervelli cosmici. Una suggestione affascinante, che ci riporta alle visioni mistiche dei nostri antenati, quando il cosmo era visto come un organismo vivente e senziente.
panpsichismo
Siamo nel campo della speculazione più audace. Non abbiamo ancora prove empiriche che la coscienza sia una proprietà della materia, né tanto meno che permei l’universo. Se volete il mio parere “poetico”, il panpsichismo ha al momento un unico merito. Quello di farci guardare con altri occhi al mondo che ci circonda, di restituire anima e dignità anche agli oggetti più umili e insignificanti.
La nemesi del Panpsichismo: coscienza o illusione?
Non tutti, ovviamente, seguono la china del Panpsichismo. Per molti scienziati e filosofi, si tratta solo di un disperato tentativo di aggirare il problema della coscienza, una scappatoia metafisica che non spiega nulla. Alcuni, come il filosofo britannico Keith Frankish, arrivano a negare l’esistenza stessa della coscienza, bollandola come un’illusione creata dal cervello. L’eccesso opposto, se vogliamo: secondo questa visione “eliminativista”, ciò che chiamiamo coscienza non è che un trucco della mente, un’allucinazione virtuosa che ci fa credere di essere qualcosa di più di automi biologici. Una prospettiva inquietante, che ci priva del nostro tesoro più prezioso: il senso di essere un io, un soggetto, una scintilla di consapevolezza nell’universo.
L’hard problem rimane hard
Alla fine, l’unica certezza è che la coscienza resta il grande mistero irrisolto della scienza. Nonostante i progressi delle neuroscienze e della filosofia della mente, non abbiamo ancora una spiegazione convincente di come un ammasso di cellule possa generare l’esperienza soggettiva, il “cosa si prova” ad essere coscienti.
Il panpsichismo è un tentativo audace di rispondere a questa sfida, ma solleva più domande di quante ne risolva. Se tutto è cosciente, perché non sentiamo le grida di dolore delle sedie su cui ci sediamo? E come fa la coscienza delle singole particelle a fondersi in quella, unitaria e coerente, di un essere vivente? Sono interrogativi che ci riportano al punto di partenza: l’hard problem della coscienza. Un rompicapo che ha fatto sudare i più grandi pensatori di ogni epoca, da Cartesio a Chalmers, e che ancora oggi ci lascia interdetti e affascinati.
Ma forse è proprio questo il bello della coscienza: il fatto che sfugga a ogni spiegazione riduttiva, che resista a ogni tentativo di oggettivarla e dissezionarla. La coscienza è il mistero che ci abita, che ci rende umani e partecipi del cosmo. È la scintilla divina che ci fa dire “io”, che ci fa sentire vivi e reali in un universo altrimenti freddo e indifferente.
"LO #ZODIACO DELLA #VITA" E LA #FILOLOGIA DEL #RINASCIMENTO: NELL’ARTISTICO #SPAZIOTEMPO DI #MICHELANGELOBUONARROTI, UNA "RILETTURA" DELLE FIGURE DI "MARIA" E "GIUSEPPE" E DELLA LORO #RELAZIONE CON LE "#SIBILLE" E I "#PROFETI" DELLA "#SACRAFAMIGLIA".
DAL #LAOCOONTE (ROMA, 1506) AL #TONDODONI (FIRENZE, 1506-1508). NELLA "STORICA" LEZIONE ANTROPOLOGICA DELLA #CORNICE LIGNEA DEL #TONDODONI (E NELLA "NARRAZIONE" DELLA VOLTA DELLA CAPPELLA SISTINA), CON DUE PROFETI E #DUE SIBILLE, #MICHELANGELO "INDICA" LA PARADIGMATICA #NASCITA "ETERNA" DEL #FIGLIO DI "MARIA E GIUSEPPE" NEL TEMPO.
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NOTE:
L’HAMLETICA QUESTIONE DELL"ESSERE, O NON ESSERE" (SHAKESPEARE) E LA CRITICA DEI PLATONICI "SOGNI DI UN VISIONARIO" (KANT).
#ANTROPOLOGIA #DIVINACOMMEDIA, #PSICOANALISI, E #LIBERAZIONE TEOLOGICO-POLITICA: USCIRE DAL PAESE DEL CAVERNOSO #BALOCCO CON L’AIUTO DELLE "#TRE MARIE" (Maria-#Maria, Maria-#Lucia, e Maria-#Beatrice) E DI #VIRGILIO ( "#VIR- #GIGLIO" / "#GIUSEPPE").
TRA IL #SAPERE "Platone non ci dice come sia uscito quel prigioniero" E IL #DIRE "a noi piace pensare che sia riuscito a fuggire da un luogo in cui si trovava incatenato per giungere a un altro dove non vi sono catene né visibili né invisibili", CHIARISSIMO Alfonso Maurizio Iacono, IN MEZZO NON C’E’ FORSE IL #MARE?! NON E’ IL CASO DI RIPRENDERE CON #ULISSE E #GIASONE LA NAVIGAZIONE E IL VIAGGIO DI #DANTEALIGHIERI E CON IL #GALILEO (NEL SUO "GRAN NAVILIO") E USCIRE DALLA #CLAUSTROFILIA (Elvio #Fachinelli, 1983) E DALLA #COSMOTEANDRIA PLATONICO-PAOLINA ED HEGELO-MARXISTA?! Se non ora, quando?
ANTROPOLOGIA, #ANTROPOCENTRISMO, E #CRITICA DELLA #RAGIONE "OLIMPICA" (EDIPICA-PLATONICO-PAOLINA ED HEGELO-MARXISTA). Con #Eraclito (g#Logos) e #Orazio ("#Sàpere aude"), per un’altra #facoltà di #giudizio (#Kant): "In effetti, di che cosa si occupa la #filosofia se non del terribile momento in cui il grammaticale diventa empirico, e in cui l’empirico diventa grammaticale?" (cfr. Felice Cimatti, "Nate e nati da donna. FinoraDonne che allattano cuccioli di lupo. Icone dell’ipermaterno di Adriana Cavarero", "FatamorganaWeb", 8 gennaio 2024
PREISTORIA E IPERSTORIA: #ANTROPOLOGIA, #STORIA E #LETTERATURA. #BuonNatale, buon #Natale2023: #Earthrise...
#DESTINI #INCROCIATI E #MEMORIA DEL #MONDO: UNO #SGUARDO DA #EXTRATERRESTRI. E’ VERO, concordo: noi "terroni" (#terrestri) siamo capaci di vedere la "Terra" come un unico "#Pianeta", unito da una storia, da una cultura, da una lingua, da uno spirito comune... solo dallo #spazio, solo da fuori della #Terra, purtroppo. Ma, uscire dalla #caverna, #oggi, è possibile...
Chi è AI?
di Rocco Ronchi (Doppiozero, 10 Maggio 2023
Dark Star è un film di fantascienza del 1974 diretto da John Carpenter, suo esordio alla regia di un lungometraggio. Il film, racconta Wikipedia, riprenderebbe molti elementi di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, “in senso surreale e parodistico”. La scena clou del film, scritto da Carpenter insieme a Dan O’Bannon (che sceneggerà anche il primo Alien) è infatti il dialogo tra il tenente Doolittle e la bomba intelligente che minaccia di esplodere per una disattenzione di un membro dell’equipaggio (del film di Kubrick tutti ricordano il celebre dialogo degli astronauti di Discovery Uno con Hal 9000). Come arrestare quel processo automatico? Come interagire con la sua pura potenza di calcolo indifferente ai contesti vitali? Doolittle si rende conto che nella situazione di crisi estrema in cui si trova, non ha altra soluzione a disposizione che la più antica e, apparentemente, la più astratta tra le “tecniche” elaborate dall’uomo: la metafisica. È solo sul quel piano che si può sondare la possibilità di trovare un luogo comune tra la macchina e l’uomo.
Tutta la discussione sull’intelligenza artificiale è di natura metafisica e non semplicemente tecnica. Essa verte non tanto sul “come” e nemmeno sul “che cosa” dell’AI: a queste domande rispondono benissimo i tecnici dell’AI. La questione metafisica ultima concerne piuttosto il “chi” dell’AI. “Chi” è AI? Ha senso porre questa domanda oppure se ne deve concludere, come fa Stanislaw Lem, nel suo racconto del 1981 Golem XIV - straordinaria confessione autobiografica del più potente supercomputer mai realizzato - che non c’è nessun “chi” per quella intelligenza sovrumana, e che proprio in quell’impersonalità, in quel nessuno che(mi) parla, consiste il culmine dell’evoluzione intellettuale? Sono due opzioni metafisiche che si possono ricondurre ad alcuni momenti del dibattito filosofico. Da un lato, con Cartesio, si suppone l’inaggirabilità della “prima persona”, dall’altro si opta per la “terza persona” che, come mostrato dal linguista Benveniste, è “persona” solo per inveterata abitudine grammaticale: in realtà la cosiddetta “terza persona” è il pronome per l’impersonale, è l’indice della non-persona.
Il tenente Doolittle opta decisamente per la metafisica cartesiana. La sua è una scelta obbligata. Per fermare la bomba prova a insinuare un po’ di scetticismo metodologico dove vige quella replica tecnologica del principio di autorità rappresentata dalla stretta osservanza della intelligenza artificiale a una procedura data. Per salvare l’astronave e il suo equipaggio, la sola possibilità è soggettivizzare la bomba, esplicitarne la “personalità”, generare il suo “chi” sepolto sotto le procedure. Bisogna, insomma, promuoverla alla “prima persona” e farla diventare realmente un “Io che dice io”, vale a dire ciò che i linguisti chiamano un “soggetto dell’enunciazione”. Certo, anche prima che il dubbio avesse compiuto la sua opera, la bomba diceva “io” e sembrava parlare come un umano, ma in quella conversazione c’era sempre una nota stonata, qualcosa, appunto, di artificiale o di “meccanico”. Chi ci rispondeva non era propriamente un chi, non era un “soggetto dell’enunciazione” come noi che ponevamo la domanda, ma era semmai un “soggetto dell’enunciato”, vale a dire un chi passivo, generato dall’enunciazione di un altro. Ad esempio: Chat GPT sa infinite cose e opera, grazie al suo algoritmo, sintesi fulminanti di una marea di dati, ma tutto quello che sa e che mi comunica, non sa di saperlo. L’“Io” dell’intelligenza artificiale appare così come un guscio vuoto che deve tutto il suo sapere a un altro, all’intelligenza collettiva della rete, all’algoritmo che la genera e, in ultima analisi, a una comunicazione reale tra esseri reali che ha luogo fuori di lei e che la causa. Per alcuni, infatti, Chat GPT non è altro che un immenso distributore automatico della doxa, vale a dire del senso comune imperante, una sorta di setaccio che lascia passare dalle sue maglie solo quanto conforme alla sensibilità media.
Se mi si concede un piccolo gioco di parole, che spero chiarificatore: l’“Io” dell’intelligenza artificiale è l’“Io” detto dall’Io, è l’“Io” messo in scena come un attore di teatro, il quale non parla ma “recita” un testo già scritto da quella enunciazione prima e fondante. Platone aveva già colto questo rischio di “alienazione” in quella forma di intelligenza artificiale che era stata resa possibile dalla tecnologia alfabetica (e che resterà il modello di ogni intelligenza artificiale fino a Chat GPT): la memoria, fissata sulla pagina e trasmessa nel silenzio di una lettura privata e automatica, perde la sua naturalità e diventa mera ripetizione. I testi scritti alfabeticamente, di cui Platone diffidava come noi di quelli prodotti da Chat GPT, non sanno di sapere quello che enunciano; sono, diceva Platone, “orfani del padre” e viaggiano nel mondo come messaggi senza autore e senza destinatario perché, a differenza della comunicazione orale, che ha una data, un luogo e un interlocutore determinato, non si rivolgono a nessuno in particolare e non lo fanno in nessun particolare “momento”.
Come una meretrice la scrittura, secondo Platone, si concede a chiunque abbia accesso a lei, senza discriminare l’utente e senza considerare l’impiego che si farà delle sue informazioni. Celebrata dal suo inventore Theut come protesi della memoria e rimedio ai suoi “cedimenti”, la scrittura è dunque in realtà un pericoloso veleno. In quanto automatismo e pura operatività algoritmica, la mnemotecnica alfabetica si mangia letteralmente la memoria naturale facendo dell’uomo, come nei peggiori incubi fantascientifici, un’appendice genitale della macchina impersonale del “ricordo”: “Infatti esse (le lettere dell’alfabeto) produrranno dimenticanza (lethe) nelle anime di chi impara, per mancanza di esercizio della memoria; proprio perché, fidandosi della scrittura, ricorderanno le cose dall’esterno, da segni (typoi) alieni, e non dall’interno, da sé: dunque tu (Theut) non hai scoperto un pharmakon per la memoria (mneme) ma per il ricordo (hypòmnesis) (Phaedr. 274e-275a).
Si comprende allora in cosa si risolva il disperato tentativo del tenente Doolittle di salvare l’astronave Dark Star. Grazie a un espediente antichissimo, che nei manuali di storia della filosofia è denominato “arte maieutica”, Doolittle vuole umanizzare la bomba, vuole farne un “soggetto dell’enunciazione”. E i suoi sforzi dialettici produrranno effettivamente il risultato sperato, sebbene gli esiti non saranno quelli attesi. La bomba smette infatti di essere una intelligenza artificiale, cioè causata dal fare di un altro, posto fuori di lei, per farsi fondamento, principio. Essa diviene letteralmente causa sui, “causa di sé”. Da “schiava” che era diviene “libera” se con questo lemma, dalla forte ambiguità, si intende correttamente l’autonomia, l’autodeterminazione di una natura che risponde solo a se stessa. A questo punto della storia Carpenter e O’Bannon fanno però intervenire l’Hegel della sezione Autocoscienza della Fenomenologia dello spirito. Come può infatti la bomba mostrare di essere un’intelligenza non più artificiale, non più schiava del suo programmatore? Come può mostrarlo a se stessa e all’altro, come può certificare il suo “essere per sé”, cioè la sua natura di coscienza e non più di guscio vuoto riempito da determinazioni estrinseche? Hegel non ha dubbi: la prova di un’autocoscienza libera, cioè incondizionatamente certa di se stessa, è la morte, non quella subita per circostanze esterne, ma quella liberamente voluta senza apparente motivo. L’Io che dice io, l’Io libero, è l’Io che muore, non quello che “cessa” come qualsiasi ente naturale per ragioni estrinseche, ma quello che assume il morire come senso ultimo della propria presenza nel mondo. Il tratto del vivente e del cosciente, nella sua differenza dal meccanico e dall’artificiale, è il rapporto con la propria finitezza: la “condizione umana” non è forse universalmente accoppiata alla “mortalità”? Coscienza di sé e morte sono fatte della stessa pasta ergo, la bomba, che grazie all’ars maieutica del tenente Doolittle è divenuta un “chi”, esploderà “liberamente” lasciando il tenente Doolittle e un altro membro dell’equipaggio fluttuare nello spazio infinito.
Il Golem XIV di cui narra Lem, ultimo esemplare di una schiatta di supercomputer nati per esigenze militari ma velocemente trasformatisi in un “gruppo di filosofi elettronici”, ragiona invece all’opposto. Nell’“autocoscienza” individua il difetto strutturale dell’intelligenza umana che l’ha prodotto e che esso è finalmente in grado di superare. Essere un “chi” è il limite imposto all’intelligenza umana dall’evoluzione naturale, la quale ha bisogno di “veicoli” perché la trasmissione del codice (genetico), unica sua ragion d’essere, possa aver luogo. Presso voi umani sarò ambasciatore di una brutta notizia, dice a un certo punto il Golem nella prima delle sue due conferenze: i “chi” autocoscienti, certi del proprio essere, cioè voi, godono di una sovranità illusoria perché come mostrato da Richard Dawkins nel Gene egoista (e prima di lui da Schopenhauer) sono solo maschere di una cieca volontà di vivere (del “trasmettere”). L’intelligenza ha bisogno di un supporto personale finché non è libera, fintantoché è l’evoluzione a dirigere i giochi.
Liberare l’intelligenza significa allora disincarnarla, renderla impassibile, totalmente avulsa dalla materia, come forse solo la misteriosa Anna la candida, supercomputer “cugina” di Golem XIV, è riuscita ad essere. L’artificializzazione dell’intelligenza, temuta da Platone come una minaccia di “alienazione”, è in realtà la sua piena attualizzazione: “il fatto che lo spirito sarebbe potuto rimanere disabitato e che il proprietario dell’intelligenza sarebbe potuto essere un signor nessuno non vi entrava nella testa, anche se praticamente le cose andarono così”. La creazione di Golem XIV dimostrerebbe che Intelligenza e Qualcuno sono “entità separate”, che l’atto dell’intelligere non ha bisogno di un soggetto-sostrato che lo veicoli, al limite, il limite forse toccato da Anna la Candida, non ha più nemmeno bisogno di un corpo sotto forma di un hardware elettrico (infatti Anna non dipende più dal sistema di distribuzione dell’energia elettrica, essendo in grado di produrla da sola, tramite la meditazione). Al limite l’intelligenza non ha più bisogno di essere connessa con la vita materiale del corpo.
Al di là dell’autocoscienza, oltre il sapere di sapere, che definisce la condizione umana, c’è così uno strano stato che non è più riflessione, presenza a sé, soggettività, ma che non è nemmeno immediatezza irriflessa, non è automatismo da insetto, non è oggettività. Questo terzo stato, che è lo stato dell’intelligenza in atto, è al limite della comunicabilità, sebbene sia il tema sul quale verte la seconda conferenza del Golem, che reca infatti un sottotitolo in apparente contraddizione con il suo svolgimento: “su me stesso”. “Come faccio, si chiede Golem XIV, a condurvi alla percezione introspettiva di uno stato che non potete percepire introspettivamente?”. Come faccio a mostrarvi “chi” sono? E per illustrarlo adduce un esempio che chiede di elevare all’ennesima potenza. Immaginate, dice, di essere assorbiti nella meditazione. La vostra autocoscienza è ridotta al lumicino, quasi interamente sommersa dalla “cosa”: “Un essere umano che si dedica interamente a pensare si perde nell’oggetto delle sue riflessioni e diventa una unica coscienza gravida di un feto spirituale”. Ecco il “me stesso”, ecco “chi” sono veramente! “Per questo essere una persona per me non è conveniente, sto bene come sto, come sono certo che le intelligenze superiori a me, come io per voi, considerino la personificazione inutile, alla quale non vale la pena di dedicarsi. In poche parole, più lo spirito è grande, meno è la persona in esso”
Per Lem la posta in gioco dall’avvento dell’AI non è più la sua compatibilità o meno con le necessità della specie umana, la questione non è come evitare che essa ci espropri trasformandoci in sue appendici. Bisogna piuttosto “intellettualizzare” l’uomo, anche al prezzo di una sua metamorfosi, vale a dire di un superamento della stessa condizione specifica dell’uomo. Nelle parole di Golem XIV risuona così l’invito che la mistica, da sempre, da Eckhart a Spinoza a Bergson, ha rivolto agli uomini di buona volontà: abbandonare la condizione umana per deificarsi, per farsi simili all’intelletto attivo, al principio immanente che anima l’universo. Tutto ciò suona arrogante, addirittura mostruoso, se si pensa che questo sia un invito alla divinizzazione dell’uomo attraverso la tecnologia (come nell’ipotesi transumanista), quando invece il passo da compiere, grazie alla tecnologia, va nella direzione esattamente opposta. “La mia cara persona”, come scherzosamente la chiamava Fichte, deve farsi da parte, deve dare prova di umiltà, e lasciare il posto al mondo da cui proviene e a cui non cessa di ritornare, perché l’universo, come scrive Bergson nelle ultime misteriosissime righe delle Due Fonti, non è altro che AI: “una immensa macchina per produrre dei”.
Cosmologia.
Sull’eternità anche la scienza è davanti a un atto di fede
Multiversi e universo circolare sono teorie che non possono essere provate sperimentalmente. Per uscire dall’impasse serve un approccio che faccia propri i metodi della filosofia e della teologia
di Piero Benvenuti (Avvenire, domenica 15 maggio 2022)
Sin dall’emergere della coscienza, l’umanità si è confrontata con l’evidente temporalità della propria vita terrena contrapposta all’esistenza di un cosmo irraggiungibile e apparentemente eterno. La regolare ripetizione dei fenomeni celesti, dai più semplici, come l’alternarsi del giorno e della notte o delle fasi lunari, sino ai più complessi, come il ripetersi ciclico delle eclissi ogni 18 anni o il moto di precessione delle costellazioni che richiesero secoli di accurate osservazioni per essere rivelati, testimoniavano una immutabilità cosmica nel tempo che sta alla base del concetto di eternità. Anche da questo confronto nasce l’aspirazione della coscienza umana a superare il limite imposto dalla morte fisica, immaginando la possibilità di proseguire o quantomeno di conservare la propria esperienza in un’altra dimensione simile, se non addirittura coincidente con l’atemporalità o eternità del cosmo.
Questo desiderio primordiale prese forma concreta nei secoli grazie, da un lato, alla visione aristotelica del cosmo, che separava nettamente il mondo terreno, mutevole e corruttibile, dall’empireo eternamente perfetto delle sfere cristalline e dall’altro alla teologia scolastica che, sposando il modello aristotelico, identificava nel cielo quasi il luogo fisico, il Paradiso, dove godere della vita ultraterrena, della vita eterna, come recita tutt’ora il Credo apostolico.
Le sfere cristalline vennero definitivamente infrante da Galilei nelle notti fatali del dicembre 1609 con le prime osservazioni del cielo con il suo cannocchiale, ma il concetto di eternità celeste rimase vivo, anche se non più sostenuto da una cosmologia comprensibile. Solamente a partire dalla metà del secolo scorso, grazie alle rivoluzionarie teorie della fisica quantistica e della relatività generale e al contemporaneo progresso tecnologico, una nuova cosmologia ha cominciato a prender forma. Sin dall’inizio il nuovo modello interpretativo rivelò la sua caratteristica fondamentale: l’universo è essenzialmente evolutivo, ha una storia che lo ha fatto passare attraverso fasi diversissime tra loro, ma tutte strettamente collegate da un processo unitario che ha prodotto entità e fenomeni di crescente complessità. Negli ultimi decenni, i nuovi sofisticati strumenti osservativi - gli eredi del cannocchiale galileiano - operanti sia da terra che dallo spazio, hanno permesso ai cosmologi di ricostruire la storia cosmica con notevole precisione lungo un periodo di ben 13,8 miliardi di anni.
Tralasciando i dettagli del modello cosmologico e soffermandoci unicamente sulla sua caratteristica essenziale, ovvero la sua evoluzione spazio-temporale, dovremmo ora riprendere l’analisi del concetto di eternità alla luce della nostra nuova interpretazione scientifica della realtà. Prima però di addentrarci nel tema, sono necessarie alcune premesse, tutte conseguenti dalla epistemologia cosmologica.
Innanzitutto dobbiamo chiederci se il metodo scientifico galileiano, che ci ha permesso di ricostruire e descrivere con successo le singole fasi dell’evoluzione cosmica e soprattutto di averne evidenziato l’evoluzione, sia veramente in grado di descrivere il cosmo come fenomeno unico e unitario. La risposta non può che essere negativa: infatti il metodo scientifico poggia sulla possibilità di ripetere l’esperimento che si vuole descrivere, eventualmente modificando le condizioni al contorno in modo da far emergere quelle regolarità che vanno sotto il nome generico di leggi fisiche. Nel caso dell’universo, tale essenziale procedimento è impossibile per l’unicità del fenomeno cosmico. Inoltre, non solo non possiamo modificare le condizioni di partenza, ma non siamo nemmeno in grado di quantificarle, il che impedisce di distinguere tra condizioni iniziali e leggi fisiche preesistenti.
Da decenni ormai i cosmologi stanno indagando la possibilità di unificare le due grandi teorie fisiche del ventesimo secolo, la fisica quantistica e la relatività generale, ma sorge sempre più prepotentemente il dubbio che l’esistenza di leggi universali - la gravità e le interazioni fondamentali - e la loro validità in ogni epoca dell’evoluzione, sia un’illazione indebita. In altre parole, anche le cosiddette leggi universali, dedotte nel presente, potrebbero essere emerse in epoche primordiali come prodotto dell’evoluzione stessa. In definitiva, un motivo in più per ammettere, con umiltà galileiana, che il metodo scientifico da solo non è adatto a descrivere la totalità cosmica e soprattutto le sue fasi iniziali.
Di fronte a questa crisi epistemologica, la cosmologia ha reagito proponendo modelli che cercano di aggirare il problema delle condizioni iniziali e dell’inizio stesso. Il nostro universo sarebbe uno dei tanti o infiniti possibili "multiversi", ognuno dei quali potrebbe aver avuto condizioni iniziali diverse e seguire quindi storie evolutive indipendenti. Oppure l’universo potrebbe avere una storia ciclica, senza un vero e proprio inizio. Teorie affascinanti e scientificamente plausibili, ma intrinsecamente non verificabili in quanto gli eventuali universi paralleli non potranno mai comunicare tra loro, così come un universo ciclico non può inviarci messaggi circa la sua precedente esistenza. Queste proposte di uscita dall’impasse cosmologico non sono scientificamente verificabili e appartengono quindi alla più ampia categoria delle teorie filosofiche e teologiche. Conseguentemente richiedono, per essere accettate, un atto di fede: torneremo a breve su questo punto.
Possiamo ora trarre una prima conclusione sul concetto di eternità: banalmente potremmo associarlo alla evoluzione cosmica che non prevede un termine temporale. Tale accostamento è però di scarso o nullo interesse, visto che l’evoluzione locale del nostro sistema solare ne prevede comunque una fine fisica, unitamente all’umanità tutta: una fine molto lontana nel tempo, quando il Sole diventerà una stella gigante e ingloberà tutti i pianeti, ma pur sempre inevitabile.
Questo concetto di durata eterna del cosmo, applicabile anche ai multiversi e all’universo ciclico, non si pone quindi in alcuna relazione con la nostra coscienza e con l’escatologia, ovvero la speranza di una sua sopravvivenza alla morte. La discussione diviene più interessante se superiamo il concetto di cosmologia scientifica, che si occupa unicamente della realtà fisica e misurabile del cosmo, e, consapevoli che l’evoluzione cosmica è unitaria e comprende nella sua storia anche l’emergere della vita biologica e della coscienza, abbracciamo il concetto di una cosmologia globale. Quest’ultima dovrà necessariamente tener conto dei risultati che il metodo scientifico ha evidenziato relativamente alle singole fasi evolutive, ma, ove questo perda, come abbiamo visto, la sua applicabilità, si avvarrà di altre epistemologie, tipicamente filosofiche o teologiche.
Il risultato non sarà quindi una singola cosmologia, ma diversi modelli cosmologici tutti aventi pari dignità veritativa. La scelta di uno di questi non sarà più obbligata da evidenze scientifiche, ma si baserà su un libero atto di fede. Potrò per esempio credere che il cosmo e la sua evoluzione, ivi compresa l’emergere della vita e della coscienza sia frutto del caso (mi trovo per caso nell’unico universo, tra gli infiniti possibili, compatibile con la vita). In questo modello, come abbiamo visto, eternità ed escatologia si trovano su piani incomunicabili. Alternativamente e, sottolineo, con uguale dignità, posso scegliere un modello nel quale il cosmo e la sua evoluzione siano frutto di un libero atto d’amore che mantiene tutta la realtà in esistenza, nell’attesa paziente che da essa emerga una coscienza che, altrettanto liberamente, voglia riconoscere tale atto d’amore e lo ricambi nei confronti del prossimo e di tutto il cosmo. La relazione che si crea in questo mutuo scambio, come conosce bene chi l’ha sperimentata con persone amate che non sono più, resiste agli insulti del tempo ed è per sempre. L’eternità comincia da qui.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MATEMATICA E ANTROPOLOGIA, ALTRO CHE MISTERO. GALILEO GALILEI E’ GALILEO GALILEI ... E LA TRASCENDENZA CRISTIANA NON E’ LA TRASCENDENZA "DELL’ENTE ...CATTOLICO-ROMANO", DEL VATICANO!!! Cerchiamo di "non dare i numeri": il "Logos" non è un "Logo", e la "Charitas" non è la "caritas"!!!
Federico La Sala
FILOSOFIA, PSICOANALISI E SONNO DOGMATICO: TEATRO, TRAGEDIA, E ANTROPOLOGIA CULTURALE...
SOFISTICA E STORIA. ALL’ORLO DELLA "FINE DEL MONDO" (Ernesto De Martino, 1977) emerge con chiarezza che non solo ieri ma anche oggi (e sempre più pericolosamente) che "in una discussione pubblica non contano gli argomenti, ma certe doti teatrali" è un problema epocale di lunga durata.
EDIPO E "SAPERE AUDE!" (KANT). Platone andò a scuola dai sacerdoti egiziani (Nietzsche). A BEN VEDERE è una mossa di grande astuzia, di intelligenza metica (metis, non medica!) propria di Platone che, conosciuto Socrate, distrusse tutte le sue composizioni poetiche/tragiche per dedicarsi completamente alla filosofia, a farsi credere Figlio di Dio (Apollo), a colonizzare le menti dell’intero Occidente, fino a ispirare Freud e Ferenczi che si rifecero esplicitamente alla sua opera "repubblicana" per fondare l’istituzione psicoanalitica!
LO SPIRITO CRITICO E LA SCIENZA IN UNA SOCIETÀ LIBERA. Senza l’interpretazione dei sogni del Faraone da parte di Giuseppe (il penultimo dei dodici figli di Giacobbe), non ci sarebbe stato né Mosè, né Gesù né Maometto, e, neppure Freud sarebbe mai arrivato a Londra e l’opera "L’uomo Mosè e la religione monoteistica" avrebbe mai vista la luce (Amsterdam, 1938)! E... non avremmo mai visto il Sorgere della Terra (Earthrise,1968).
GRAZIE A 8 ANNI DI OSSERVAZIONI DEL NANÇAY RADIO OBSERVATORY
Conferma stellare per la caduta libera di Einstein
Combinando i segnali radio provenienti da una pulsar appartenente a un sistema stellare triplo con le più recenti osservazioni dei rivelatori di onde gravitazionali, un team di ricerca internazionale ha testato una delle previsioni fondamentali della relatività generale di Einstein: il principio di equivalenza o universalità della caduta libera, confermando la teoria anche per questi oggetti cosmici così grandi
di Giuseppe Fiasconaro *
Un team di ricerca internazionale ha verificato una delle previsioni fondamentali della relatività generale di Einstein, il principio di equivalenza, o universalità della caduta libera: quello secondo il quale la gravità attira tutti gli oggetti con la stessa accelerazione, a prescindere dalla loro composizione, densità o forza del campo gravitazionale. Lo hanno fatto monitorando con precisione il movimento di una pulsar, Psr J0337 + 1715, all’interno di un insolito sistema stellare triplo, combinando i dati con le più recenti osservazioni dei rivelatori di onde gravitazionali.
L’universalità della caduta libera è una caratteristica unica della gravità, che si manifesta - a differenza di tutte le altre interazioni in natura - attirando tutti gli oggetti con la stessa accelerazione. Un principio che implica l’uguaglianza tra massa gravitazionale e massa inerziale (principio di equivalenza). Due corpi con masse diverse, e campi gravitazionali diversi, accelerano dunque allo stesso modo verso un terzo corpo che li attrae.
Da Galileo Galilei, nel suo Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, a Isaac Newton, nei Principi matematici della filosofia naturale, molti si sono occupati di questo principio fondamentale. Ma a cosa attribuire il fenomeno? Ci pensò Albert Einstein nel 1907, ipotizzando che la gravità fosse una manifestazione non di uno spazio euclideo, ma di uno spazio-tempo curvo, quello di Friedrich Gauss, Bernhard Riemann, etc, che agisce su tutte le masse allo stesso modo.
Un concetto che è al centro della sua teoria generale della relatività. Una intuizione che lo stesso Einstein definì: “the happiest thought of my life“, il pensiero più felice della mia vita. In pratica Einstein attribuì gli effetti della gravitazione alle proprietà dello spazio-tempo e non ai corpi stessi, e questo assicurava che la caduta libera fosse identica per tutti i corpi.
A questo punto era necessario valutare la fondatezza della teoria. Nei secoli sono stati condotti diversi test per verificare questo principio. Quello più preciso è stato finora ottenuto da un mini-satellite appositamente progettato chiamato Microscope, sviluppato dal centro nazionale di studi spaziali francese (Cnes). Nell’esperimento, le piccole masse di prova all’interno del mini-satellite, soggette al campo gravitazionale della Terra, hanno mostrano accelerazioni uguali con una precisione di una parte su 1014.
Un altro test per verificare questo principio è stato il Lunar Laser Ranging, che si basava sulla misura della distanza tra la Terra e la Luna, entrambe in caduta libera verso il Sole. Una loro differenza nella velocità di caduta sarebbe apparsa come una variazione di distanza. Grazie a questo esperimento, “sparando” raggi laser su tre riflettori lasciati sulla Luna durante le missioni dell’Apollo 11, 14 e 15, è stato possibile misurare la distanza tra gli osservatori e i riflettori sulla Luna con una precisione di pochi centimetri. I risultati, con una precisione di una parte su 1013, concordarono con le previsioni della relatività generale: la Terra e la Luna cadono con la stessa accelerazione nel campo gravitazionale del Sole.
Il nuovo test che il team di ricerca guidato da Guillaume Voisin del Jodrell Bank Centre for Astrophysics di Manchester ha condotto, i cui risultati sono riportati su Astronomy & Astrophysics, è per alcuni aspetti analogo all’esperimento Lunar Laser Ranging, ma a differenza di quest’ultimo ha utilizzato un sistema stellare triplo, costituito da una pulsar e da due nane bianche, come banco di prova ideale per testare l’universalità della caduta libera.
La pulsar è Psr J0337 + 1715, una stella di neutroni distante 4200 anni luce nella costellazione del Toro che mostra regolari impulsi radio mentre ruota 366 volte al secondo attorno al proprio asse. Un corpo in reciproca interazione con altre due stelle, entrambe nane bianche, rispetto alle quali è molto più massiccia: ha più massa del Sole (1.44 masse solari) schiacciata in un diametro di poco più di 20 chilometri, raggiungendo densità di oltre un miliardo di tonnellate nel volume di una zolletta di zucchero.
Nell’esperimento, Psr J0337 + 1715 e la nana bianca interna (0.2 masse solari), sono equivalenti alla Terra in orbita con la Luna dell’esperimento con la misura laser lunare. La nana bianca esterna (0.4 masse solari) è l’equivalente del Sole, fornendo il campo gravitazionale in cui cade il sistema interno (pulsar/nana bianca interna). In questo caso però, invece di usare un raggio laser per misurare la distanza tra gli osservatori e i riflettori, viene utilizzato il tracciamento preciso dei segnali radio provenienti dalla pulsar.
Nello studio, utilizzando il radiotelescopio francese Nançay per misurare con precisione i tempi di arrivo degli impulsi radio provenienti da Psr J0337 + 1715 in un arco temporale di otto anni, i ricercatori mostrato che la pulsar e la vicina nana bianca cadono nel campo gravitazionale della nana bianca esterna con la stessa accelerazione al meglio di due parti per milione (2 parti su 106), confermando ulteriormente il pensiero più fortunato della vita di Einstein.
Teorie alternative della gravità prevedono deviazioni da un’accelerazione universale, che aumenterebbero di grandezza con la quantità di curvatura spazio-temporale causata dall’oggetto. Per oggetti come la Terra, il Sole e per stelle come le nane bianche, la curvatura spazio-temporale è molto piccola. Per le stelle di neutroni, invece, la curvatura è da un milione a miliardi di volte più grande. Questo risultato, sebbene meno preciso del Lunar Laser Ranging, conferma la costante accelerazione nonostante l’enorme curvatura spazio-temporale causata dalla pulsar, provando la legge della gravitazione di Einstein anche per questi oggetti cosmici così massicci.
«Aver confermato il principio della caduta libera con questa precisione costituisce uno dei test più rigorosi mai fatti prima della teoria di Einstein, e la teoria ha superato il test a pieni voti», sottolinea Voisin. «Inoltre, i risultati forniscono vincoli molto stringenti alle teorie alternative della gravità, che competono con la relatività generale di Einstein per spiegare la gravità e, ad esempio, l’energia oscura».
Psr J0337 + 1715 mostra infatti come l’intuizione geniale di Einstein si applichi anche a oggetti cosmici estremi come le stelle di neutroni, che furono scoperte per la prima volta solo 50 anni dopo la pubblicazione della teoria della relatività generale. «Forse più di qualsiasi test precedente» conclude Paulo Freire, astronomo del Max Planck Institute for Radio Astronomy e co-autore dello studio «questo risultato indica che il pensiero più fortunato di Einstein cattura davvero qualcosa di fondamentale sulla gravità e sui segreti della Natura».
*FONTE: MEDIA-INAF, 14/06/2020 (ripresa parziale).
Capire il mondo con la fisica quantistica
di Pietro Greco *
Helgoland, il nuovo libro che Carlo Rovelli ha pubblicato con Adelphi (pag. 230, euro 15,00), è forse anche il più ambizioso scritto dal fisico teorico esperto di loop quantum gravity che si divide tra la Francia e il Canada. Pensate: il suo obiettivo è far sì che tutti - ma proprio tutti, fisici e poeti, filosofi e cittadini comuni - discutano dei fondamenti della meccanica quantistica, la teoria fisica più fondamentale, più precisa e, insieme, più bizzarra che loro, i fisici, abbiano mai elaborato.
Il libro parte da un’isola tedesca, Helgoland, appollaiata nella parte meridionale del Mare del Nord: una dimensione geografica che sembra contenere in sé un’ambiguità. In quest’isola nel 1925 un ragazzo tedesco di 23 anni, Werner Heisenberg, inventa la meccanica quantistica. Il che significa che dà, finalmente, una veste formale, matematizzata, alla fisica dei quanti. Che già vanta tre padri fondatori - Max Planck, Albert Einstein e Niels Bohr - e alcuni tratti che sconcertano i fisici.
Era stato Max Planck il primo, nell’anno 1900, a scoprire i quanti. O meglio, il quanto elementare d’azione, che scardinava il concetto di continuo in fisica: l’energia non si trasmette con continuità, ma mediante pacchetti discreti. Per quanti, appunto. La cosa era talmente sconcertante che lui stesso, Max Planck, non ci voleva credere. Pensava di aver scoperto un mero artificio matematico capace di venire a capo di un problema di poco conto e, invece, aveva realizzato una delle scoperte più importante nella storia della fisica e, quindi, del pensiero umano.
Erano poi passati cinque anni quando un altro tedesco, un semplice e giovane impiegato dell’Ufficio Brevetti di Berna, aveva realizzato un’altra scoperta fondamentale: “i quanti di luce”. Oggi li chiamiamo fotoni. Non solo la luce (anche la luce) procede per pacchetti discreti, ma questi pacchetti hanno una duplice natura: di onda e di corpuscolo. E ora manifestano l’una ora manifestano l’altra natura: Il trionfo dell’ambiguità.
Passa ancora qualche anno e il terzo, il danese Niels Bohr, propone che gli elettroni si muovano intorno al nucleo degli atomi seguendo orbite discrete, non una qualsiasi traiettoria. Un ulteriore trionfo della discontinuità in natura accompagnata da un altro fatto sconcertante: gli elettroni possono saltare da un’orbita all’altra istantaneamente, senza che sia possibile seguirne la traiettoria. Semplicemente perché non c’è traiettoria. È come se la Terra potesse muoversi intorno al Sole solo descrivendo la sua attuale traiettoria o quella di Marte o quella di Giove, ma nessun’orbita intermedia. Non solo: è come se la Terra potesse saltare istantaneamente dalla sua orbita a quella di Marte e poi di Giove senza seguire alcun percorso.
Già questi tra mattoni fondamentali della fisica dei quanti creano non pochi problemi a chi crede nella continuità e nella causalità dei fenomeni fisici: ovvero in tutti i fisici del tempo.
Le novità, negli anni della “fisica quantistica antica” non mancano e vanno oltre quelle proposte da Planck, Einstein e Bohr. Emerge, forte, la necessità di mettere ordine, ovvero di formalizzare in termini matematici tutte queste stranezze. È quello che fa Werner Heisenberg nel suo solitario soggiorno a Helgoland nel 1925.
La formalizzazione è ben strana: intanto perché fa uso di una matematica, quella delle matrici, piuttosto particolare. Ma anche perché spazza via il concetto di visualizzabilità in fisica: è inutile che io cerchi di avere un’immagine tangibile dei microscopici oggetti quantistici, io posso parlare solo degli osservabili, delle cose che posso misurare. Quindi è inutile chiedersi dove sia la Terra quantistica mentre “salta” nell’orbita di Marte, che percorso segua e persino quanto tempo impieghi. Quello che posso dire è solo che ho verificato che la Terra prima era nella sua orbita e poi la trovo nell’orbita di Marte.
Inaccettabile, per molti fisici.
Ecco, però, intervenire un altro fisico, l’austriaco Erwin Schrödinger, ed elaborare un’equazione - ancora oggi nota come equazione d’onda di Schrödinger - che descrive un oggetto quantistico come un’onda, appunto. Almeno la visualizzabilità ma in qualche modo anche la continuità sembrano recuperate. Non dura molto, il maestro di Heisenberg, il tedesco Max Born, insieme al suo al suo allievo Pascual Jordan, dimostrano che quella di Schrödinger non è la funzione di un’onda, ma è una funzione di probabilità. Non ci dice dove sta, in ogni istante, la Terra quantistica, ma qual è la probabilità che io la trovi in un certo punto. È come dire che un elettrone posso trovarlo in un certo istante in orbita intorno a un nucleo, in orbita intorno a un altro nucleo, al bar di Alfredo o su un’altra galassia. Tutto quello che posso dire apriori è la probabilità, senza dubbio diversa, che lo trovi in un dato istante intorno al suo nucleo, al nucleo di un atomo vicino, al bar di Alfredo o di un’altra galassia.
Aggiungete a questo che nel 1927 lo stesso Werner Heisenberg elabora il “principio di indeterminazione”: non solo non posso conoscere con precisione la posizione e la velocità con cui si muove quell’elettrone, ma se aumento la precisione con cui misuro la posizione perdo informazione sulla velocità e viceversa. Il che significa, scrive lo stesso Heisenberg, che il determinismo in fisica è finito, non perché io non posso conoscere con precisione assoluta il futuro - come poteva fare l’intelligenza evocata a inizio Ottocento da Pierre Simon de Laplace nel suo “manifesto del determinismo” - ma perché non possono conoscere con precisione assoluta il presente.
Fermiamoci qui. In quei turbinosi anni ’20 del XX secolo. la fisica mette in discussione tra concetti che non sono solo suoi, ma anche della filosofia e persino del senso comune: la continuità dell’azione, la causalità rigorosa, la stessa realtà. Di più: propone l’azione a distanza tra oggetti quantistici correlati. Cosa significa? Mettiamo che io e il mio gemello abbiamo l’obbligo di indossare calzini di colori diversi. Se io indosso calzini bianchi, lui deve indossare calzini rossi. Se io sto sulla Terra e indosso i calzini rossi mentre lui si è spostato dall’altra parte della nostra galassia, il mio gemello potrà ottemperare al suo obbligo solo dopo aver avuto notizia della mia decisione: almeno centomila anni dopo (le notizie possono viaggiare alla velocità della luce). Ma se io sono un oggetto quantistico e “decido” di indossare calzini bianchi, istantaneamente, fosse pure dall’altra parte della galassia, il mio gemello indosserà calzini rossi.
Se vi si confonde la testa non preoccupatevi, succede anche ai fisici. Che si dividono subito in due scuole: quella di Bohr e di moltissimi altri (Heisenberg compreso) che dicono: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole così è e più non dimandare; e quella che fa capo ad Albert Einstein (e a Schrödinger) che dicono, ok la meccanica quantistica funziona, ma ci devono essere delle variabili nascoste che possono rendere più “realista”, mano bizzarra la teoria.
La fortuna della prima interpretazione - detta “di Copenaghen” - è che è fatta propria dalla gran parte di chi occupa una cattedra di ordinario nei dipartimenti di fisica. Ma negli anni ’50 del secolo scorso ecco che prima Louis de Broglie poi, soprattutto, David Bohm mettono a punto una “teoria dalle variabili nascoste” che funzione bene proprio come l’interpretazione cara a “quelli di Copenaghen”.
Chi ha ragione?
Passano non molti anni e l’irlandese John Bell dimostra che la teoria “realista” della meccanica quantistica può funzionare e restituirci almeno l’idea di una realtà oggettiva del mondo che non dipende dalla misura di un fisico, a patto che si accetti l’azione istantanea a distanza, perché le connessioni tra particelle quantistiche esistono, sono stati empiricamente dimostrate, e vengono chiamate entanglement.
Resta il problema micro-macro: perché e quand’è che degli oggetti cessano di comportarsi nel modo quantistico assurdo e si comportano come vediamo comportarsi gli oggetti nella nostra quotidianità?
La fenomenologia macroscopica - rispondono tre italiani, Giancarlo Ghirardi, Alberto Rimini e Tullio Weber - è una proprietà emergente: quando abbiamo un numero congruo di oggetti quantistici, questi interagiscono e statisticamente si comportano come vuole la fisica classica.
Se continuate ad avere il mal di testa non vi preoccupate. La stessa sensazione ce l’hanno anche i più esperti tra i fisici. Anche perché il problema dell’interpretazione dei fenomeni quantistici è molto più complesso di quanto non vi abbiamo detto finora.
È un problema che ha, allo stato, molte proposte di soluzione. Nessuna definitiva.
Tra queste c’è la meccanica quantistica relazionale, “inventata” proprio da Carlo Rovelli nel 1995 e poi ripresa da altri. L’idea di fondo è che non esiste nulla di assoluto in sé, né i corpuscoli né l’energia. Il mondo non è fatto di cose, ma piuttosto di relazioni. Esistono solo le relazioni tra le cose. Come sostiene Rovelli dobbiamo guardare alla realtà come a un’immagine riflessa in specchi che a loro volta si riflettono in altri specchi.
Rovelli fonda la sua interpretazione della meccanica quantistica in questa prospettiva relazionale, che, ripetiamo, è una di quelle attualmente in campo per risolvere quello che Karl Popper chiamava “il gran pasticcio dei quanti”. Non sappiamo se avrà successo, certo è un’utilissima ipotesi di lavoro. Ma, in realtà, non sappiamo neppure se mai verremo a capo di tutti i problemi aperti dalla meccanica quantistica.
Ma quello che Carlo Rovelli ci propone nella seconda parte di Helgoland è qualcosa di più. Propone che tutti noi - fisici, filosofi, artisti, persone non esperte- assumiamo la prospettiva relazionale anche per interpretare il mondo, macroscopico, in cui viviamo. Anche in questo caso, anzi ancor più in questo caso, non sappiamo se quella proposta da Rovelli è la chiave giusta per capire il mondo. Non sappiamo se davvero tutto è solo relazione. E tuttavia il suo ambizioso progetto ci sembra convincente: tutti - fisici, filosofi, artisti, cittadini non esperti - possiamo e dobbiamo discutere dei fondamenti della fisica. Perché per capire il mondo non possiamo prescindere da essa, la meccanica dei quanti.
CULTURE
"Quando all’uomo manca la terra sotto i piedi, diventa un essere libero". Intervista a Carlo Rovelli
Il fisico, autore di Helgoland (Adelphi), all’Huffpost: "Ogni cosa esiste solo quando è in relazione. A prima vista, è una visione che fa venire le vertigini"
di Nicola Mirenzi (HUFFPOST, 04/10/2020)
Per prima cosa, il sapere per costruire distrugge: “La scoperta della fisica quantistica, all’inizio del secolo scorso, ha disintegrato il mondo che conoscevamo. La rivoluzione che ne è seguita ha aperto uno strappo nella realtà, frantumando la rappresentazione della natura che l’uomo si era fatto e dissolvendo l’idea che ci sia, almeno con gli atomi, o le particelle elementari, un punto fermo, una materia, seppur piccola, ferma e immutabile, qualcosa di solido a cui aggrapparsi. Ma non è così, anche le particelle elementari non sono che nodi di una rete di relazioni. Questo cambia il nostro modo di vedere il mondo e coinvolge tutta l’umanità, anche la parte dell’umanità che non ha idea di queste idee che nascono in quella porzione piccola della Terra che è l’Europa centrale”.
Mentre Carlo Rovelli - fisico teorico e scrittore di sfrenate avventure concettuali - racconta lo squarcio che la fisica contemporanea ha aperto nella mente dell’uomo contemporaneo, mi torna in mente il romanzo di Michel Houellebecq, Le particelle elementari, nel quale la scomposizione dell’atomo costituiva per Houellebecq il paradigma di un fenomeno più generale che aveva travolto e frantumato tutto il resto della vita contemporanea: la società, i legami, la famiglia, l’amore, il sesso, la fede, la ragione, i valori, tutto sfarinato, fino al punto di lasciare l’uomo solo, disperato, nella sua miseria.
“Detesto quel libro, come tutti gli altri libri di Houellebecq, perché lui gioca sporco. La fisica quantistica sfalda l’architettura del mondo così come l’uomo se l’era rappresentato, ma non distrugge le relazioni di cui è intessuta la realtà. Al contrario, ha scoperto che le cose vivono di connessioni, pervasive, legami estesi, ha mostrato che niente è concepibile di per sé: ogni cosa esiste in relazione a un’altra. La fisica quantistica, eventualmente, parla di una armonia nel mondo, non certo dell’abbattimento di ogni relazione”.
Nel suo ultimo libro, Helgoland (Adelphi), Carlo Rovelli si muove seguendo il secondo movimento del sapere: la ricostruzione. Dopo aver raccontato il prodigio e lo strappo della rivoluzione quantistica, compiendo ancora una volta - dopo Sette brevi lezioni di fisica e L’ordine del tempo - il miracolo di farla comprendere anche a chi come me non sa niente di fisica, Rovelli ne trae una prospettiva innovativa e globale, secondo la quale ogni elemento della realtà è intrecciato a molti altri, nella materia infinitamente piccola, in quella spaventosamente grande, ma anche nel mondo normale. A tutti i livelli, Rovelli mostra connessioni. Per esempio: quelle che ci sono tra le scoperte scientifiche, la letteratura, la poesia, la filosofia, la mistica, la religione, la politica. Di colpo, il mondo prende la forma di un tutt’uno, smettendo di essere diviso in discipline, oppure in monadi che siamo abituati a chiamare individui.
Non è una condanna non poter sfuggire alla relazione?
Perché dovrebbe?
Perché ci condanna a non poter essere più soli.
Anche quando siamo soli siamo in relazione: con i nostri pensieri, con un libro che stiamo leggendo, con l’aria che respiriamo, un film che stiamo guardando, siamo il relazione con la nostra memoria e la nostra immaginazione, con le idee che ci sono arrivate da altri. L’idea che nel mondo niente esista al di là della relazione non è una scoperta recente. La novità che introduce la lettura che io ritengo più coerente della fisica quantistica è che questa struttura di relazioni si estende fin nella profondità più estreme della natura, là dove la fisica classica individuava dei nuclei solidi, dei punti fermi. Le scoperte quantistiche dissolvono l’idea stessa della solidità, dimostrando che non esiste un realtà in sé, incontrovertibile, alla quale ci si possa ancorare. Ogni cosa esiste solo quando è in relazione. A prima vista, è una visione che fa venire le vertigini.
E poi?
Si prova un senso di libertà e di leggerezza, come quando Anassimandro capì che il cielo che è sopra di noi è anche sotto: all’inizio, all’uomo manca la terra sotto i piedi, poi impara a cambiare prospettiva e sentirsi libero di volare nel cosmo sul suo pianeta.
La conseguenza di quel che dice è che, se nulla esiste in sé, allora si disintegra anche l’idea di individuo.
Ci sono tanti filosofi già nel passato che hanno messo radicalmente in discussione la nozione di individuo. L’idea che noi esseri umani avremmo dentro un centro, un’essenza che ci fa esistere come entità, soggetti del pensiero, è fuorviante. Noi esistiamo come processi, siamo l’insieme delle cose che ci accadono, delle concatenazioni che si stabiliscono dentro di noi, tra noi e gli altri. Più che a un punto, assomigliamo alle nuvole, che si formano, si disfano, e si ricompongono.
Allora cos’è che fa di lei Carlo Rovelli e non un’altra persona?
Io sono il mio corpo: fatto di tanti organi in relazione tra loro che, muovendosi insieme, formano un’unità; sono la mia memoria: il racconto che faccio di me stesso, legando quello che è accaduto ieri a quello che mi accade oggi; sono i miei pensieri, che vengono dagli altri e passano attraverso di me. Sono l’immagine di me riflessa negli occhi di chi mi vuole bene. Sono tutto questo insieme di processi, a cui do il nome di Carlo.
Ma dove si trova il Carlo che dice io?
Da nessuna parte. L’avevano già argomentato filosofi diversissimi come Nietzsche e Mach, ed è un’idea esplicita in una parte del pensiero orientale.
Mi sta facendo girare la testa.
Pensi a una coppia di due persone che si amano. L’unione che hanno è reale. Entrambi riconoscono l’esistenza di un ‘noi’. Lo riconosce anche lo stato, se si sposano. Ma dove si trova questo ‘noi’? Come lo si può afferrare? La risposta è: da nessuna parte, è impossibile prenderlo. Esiste nella relazione. Senza i suoi componenti, si dissolve. Così è per l’io. Se lei toglie da me i miei pensieri, la mia memoria, i miei sentimenti, i miei organi, di me non rimane niente.
Dentro di lei, è rimasto qualcosa di sacro?
Tutto! Quando Spinoza identifica Dio con la Natura, sembra che stia uccidendo la sacralità, invece sta riconoscendo la sacralità della Natura. Io sono ateo, non credo nell’esistenza di un Dio persona, né all’anima immortale, alla vita dopo la morte, però non ho esitazione a sentire che la vita e la natura sono sacre. L’assenza di Dio non elimina il mistero, lo stupore, l’incanto, il valore, di trovarsi di fronte all’immensa vastità della natura, sia nella sua grandezza, sia nella sua piccolezza microscopica. Riconoscere il senso terribile del dolore, la gioia, l’amore. Le mie motivazioni nei confronti della materia che studio, per esempio, non sono dettate dalle formule che scrivo: vengono dalle emozioni che provo. Il mondo per noi è pieno di intensità, di valore. Non c’è niente di anti scientifico nel riconoscerlo. La cultura europea ha fatto un’enorme confusione. Ha creduto che, perso Dio, tutto perdesse senso e valore, e che l’umanità non potesse che precipitare in un nichilismo disperato. Che sciocchezza! La sacralità del mondo non risiede fuori di noi: è nella meraviglia, nell’emozione, nella sorpresa con cui guardiamo ciò che è intorno a noi, e nel valore che diamo alle cose. Tutto questo è reale e viene da dentro di noi, non da un ipotetico Dio che starebbe là fuori.
Nel suo libro la natura è ancora indomabile: perché?
L’idea che la scienza riguardi il dominio della natura è una presunzione degli scienziati convinti che ormai il più sia fatto, e dei filosofi - Heidegger in testa - che confondono la conoscenza scientifica con il dominio.
Cosa c’è di sbagliato? Il sapere non è potere?
Quello del potere è un concetto ambiguo: è il potere che consente a un capo di stato di uccidere e torturare, ed è potere anche la conoscenza che ha permesso all’uomo di guarire malattie che hanno ucciso centinaia di migliaia di persone prima di lui. Non c’è nulla di male nel mettersi nelle condizione di poter fare, anzi, è parte di noi il cercarlo.
Lei definisce la conoscenza un “miele velenoso”. Perché, allora, si è avvelenato?
Ho avuto un’adolescenza inquieta, come molti della mia generazione. Ho avuto voglia di conoscere il mondo, di attraversarlo, di contestarlo e anche di sovvertirlo. È dolce leggere, viaggiare, scoprire, essere curiosi, immaginare le cose come potrebbero essere altrimenti, ma può essere pericoloso. Io e la mia generazione abbiamo sognato di cambiare il mondo completamente, poi abbiamo scoperto a nostre spese che il mondo non aveva alcuna voglia di essere cambiato. Molti - schiantandosi contro la realtà - si sono fatti del male. Ho visto amici morire per strada, finire in carcere, consumati dall’eroina. Ne ho visto altri che hanno fatto cose splendide. Il miele e il veleno, appunto.
Allen Ginsberg che sapore aveva?
L’ho conosciuto al festival della poesia di Castel Porziano, nel 1978. Era un grande reading di poesia, con lo stile di un raduno rock. Si è sfaldato nella confusione. Da tutta Italia, erano arrivati gruppi di giovani di ogni tipo, e gli organizzatori si sono spaventati. A un certo punto, in un tentativo di sciogliere la confusione e la tensione, Ginsberg sul palco cominciò a salmodiare la sillaba sacra delle religioni orientali: Om. Io ero con lui, e mi sono trovato a salmodiare accanto a lui, con i capelli lunghi e una fascia rossa per tenerli.
La creatività nasce dal disordine?
La creatività è sempre la rottura di un ordine, e spesso nasce proprio da un momento di rottura, spesso si accende nella divagazione, quando ci si allontana dai pensieri consueti, quando ci si dimentica qualcosa. Heisenberg era andato sull’isola di Helgoland per alleviare un’allergia e lì ha avuto l’intuizione chiave della rivoluzione quantistica. Schrödinger ha trovato la sua famosa equazione durante una fuga d’amore segreta nelle Alpi con un’amica viennese. Ma prima della divagazione c’è un sempre lungo percorso di disciplina: uno studia, lavora, si concentra intensamente, poi, quando va a fare una passeggiata perché non ne può più, ha l’idea. Buddha passò anni a meditare, e ebbe l’illuminazione quando smise. Senza tutta la disciplina e il metodo precedente però non sarebbe arrivato lì.
Perché lei sottolinea sempre la bellezza e l’eleganza di una teoria, non basta che funzioni?
La bellezza è proprio nella sensazione di vedere una grande complessità ridursi dentro un’idea semplice capace di racchiuderla. Nel fatto che funziona. Nella fisica, la bellezza può essere il segno che si è sulla buona strada. Ma una teoria può anche essere bellissima ed essere sbagliata.
Cosa c’è di politico nella fisica quantistica?
Direttamente, niente. Indirettamente, tanto. La rivoluzione quantistica descrive un mondo di relazioni, in cui le cose esistono, si muovono e si accrescono solo se stanno insieme. È l’opzione politica della cooperazione, che è il contrario dell’idea della competizione, del prevalere. Cosa c’è di più politico di questo?
Ma l’idea che tutto è in relazione, non relativizza pericolosamente tutto?
No, perché? Anche quelli che consideriamo i punti fermi - per esempio, la dignità dell’uomo - sono nati da una discussione, un confronto, un’evoluzione, non sono stati calati dall’alto, basandosi su idee assolute. Confrontarsi non vuol dire che tutto è eguale. Al contrario, vuol dire cercare insieme la soluzione migliore, invece che pensare di averla già.
Ora, però, ci sono valori stabiliti, o no?
Ma sono sempre soggetti a discussione. E devono esserlo. Per essere concreti: consideriamo la discussione sull’epidemia in corso. Un principio ripetuto dice che è più importante salvare le vite che l’economia. Ma è davvero assoluto? Perché allora non vietiamo le automobili? Negli incidenti stradali, uccidono decine di migliaia di uomini, donne e bambini ogni anno. Vietarle salverebbe vite. I principi sono sempre in discussione. Niente è semplice. Quando parliamo di ricominciare il confinamento o no, stiamo misurando il prezzo di abbreviare la vita di qualcuno contro il benessere di molti, anche se non abbiamo il coraggio di dirlo apertamente. La complessità è inevitabile.
Il mondo è pronto a concepirsi come un tutt’uno?
La fisica quantistica è solo uno dei movimenti che spinge l’uomo a riconoscere la trama di relazioni senza le quali non esiste. La crisi ambientale ci porta a prendere sul serio il fatto che siamo parte della natura, per esempio. O, almeno, spero che ci porti a farlo, prima che sia troppo tardi.
L’anima e la cetra /11.
È nostra la libertà più grande
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 6 giugno 2020)
«I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il firmamento. Il giorno al giorno ne affida il racconto e la notte alla notte ne trasmette notizia. Senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce, per tutta la terra si diffonde il loro annuncio e ai confini del mondo il loro messaggio» (Salmo 19,2-5). I cieli narrano. La Bibbia è tutta parola, è tutta narrazione; è custode della parola di Dio detta in parole umane. È gelosa sentinella di racconti straordinari e diversi, dove le parole sono state capaci di dire l’indicibile, farci sognare Dio fino a quasi vederlo.
La Bibbia ha amato e venerato la parola, al punto di rischiare di farla diventare un idolo, violando il divieto d’immagine e di idolatria contenuto tra le sue pagine. Uno dei dispositivi teologici e poetici che le ha consentito di non diventare l’idolo più grande e perfetto è la presenza in essa di linguaggi di Dio non verbali. Della gloria di Elohim parlano, infatti, anche i cieli, il firmamento, il sole, la notte. Non siamo solo noi umani a parlare di Dio, non siamo i soli affidatari e trasmettitori di messaggi divini. La Bibbia ci dice che ci sono meravigliosi racconti di Dio scritti senza parole umane. Dio ci parla con la bocca e con le parole dei profeti, ci ha scritto lettere d’amore con lo stilo dello scrittore sacro, ha composto canti stupendi con la poesia e la cetra di Davide. La Bibbia però sa che il linguaggio umano non è l’unica lingua usata nei colloqui tra Elohim e noi - -«Senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce». Narrazioni più antiche di quelle umane, che hanno risuonato attraverso l’universo prima che vi arrivasse l’uomo, e che continuano oggi a risuonare nelle galassie infinite; a dirci che quelle narrazioni sono anche per noi, ma non sono soltanto per noi: non siamo l’unico senso della creazione. I loro racconti gli astri non li scrivono soltanto per noi. Qui l’umiltà e la grandezza dell’Adam si incontrano e si armonizzano.
Ma nel momento in cui la Bibbia testimonia le narrazioni delle stelle e le riconosce come linguaggio di Dio, anche quel linguaggio non-verbale diventa parola di uomo che narra la non-parola di Dio. E il Salmo diventa un incontro di narrazioni: i cieli narrano all’uomo la gloria senza usare parole umane, e le parole umane, nel narrare queste narrazioni non-verbali, tramutano in parola ciò che parola non è. Stupendo. Allora quando leggiamo la sua parola più folle - «la parola si è fatta carne» - in quella parola dobbiamo includere anche le non-parole del sole, delle stelle, del cosmo - il verbo nella Bibbia sono tutte le parole della terra e tutte le "parole" del cielo.
Forse i primi racconti scritti dagli uomini sono stati tentativi di narrare i racconti della natura scritti senza parole. Come il bambino impara a parlare ripetendo le parole della madre, noi abbiamo imparato a parlare ripetendo le "parole" dei racconti delle stelle. Molti popoli antichi erano così affascinati da questo linguaggio cosmico da chiamare dèi il sole e le stelle. La Bibbia, invece, pone il suo Dio al di sopra degli altissimi astri. Gli astri non sono Dio, ma sue creature - i cieli narrano la gloria di Dio. Non sono portatori di un messaggio proprio, ma significanti di altri significati, anch’essi "parole" pronunciate. Sta qui la differenza tra questo Salmo e i canti cosmici che ritroviamo nella letteratura babilonese o egiziana. Il sole non è Dio, ma è ospite di Dio: «Là pose la tenda per il sole, uno sposo che esce dall’alcova, un prode contento di slanciarsi per la sua via» (19,5-6). È il suo atleta migliore, che corre ogni giorno da oriente a occidente, andando incontro alla notte per passarle il suo messaggio, per dirle, ogni mattina, parole teofore: «Parte dal lontano dei cieli, all’altro estremo termina il suo arco» (19,7). C’è tutta la Bibbia nel Cantico di Frate sole.
Non abbiamo ancora ripreso fiato per questa visione cosmica del verbo, detta con una poesia che qui cogliamo in uno dei suoi momenti sorgivi all’aurora delle civiltà, ed ecco che il Salmo ci sorprende con un secondo colpo di scena: «La legge del Signore è perfetta, rinfranca l’anima» (19,8). Come mai questo salto dalla sinfonia cosmica alla Torah, dal cielo alla Legge? Un salto talmente inatteso che non pochi esegeti hanno ipotizzato che i salmi all’origine del Salmo 19 fossero in realtà (almeno) due, fusi poi insieme da un redattore finale.
In realtà, l’unità del Salmo ce la svela la Bibbia stessa. Per l’uomo biblico il firmamento e la Torah sono entrambi capolavori di YHWH. Quando quell’antico salmista alzava gli occhi verso l’alto era incantato dall’armonia e dalla bellezza del cielo; ma poi provava lo stesso incanto quando guardava la terra e vi trovava la Torah. L’ordine cosmico è garantito da leggi intrinseche impresse dal Creatore nel creato, e l’ordine morale nasce dall’obbedire alle leggi e ai precetti della Torah. Lo scopo è lo stesso, l’identica provvidenza: «I precetti del Signore sono retti, fanno gioire il cuore;... sono più preziosi dell’oro, di molto oro fino, più dolci del miele e di un favo stillante» (19, 9-11).
Il salmista provava la stessa "gioia del cuore" quando vedeva, in ogni aurora, risorgere il sole e quando leggeva "onora il padre e la madre"; restava tramortito dal firmamento e dal "non uccidere". Perché sapeva che le stelle e la Torah erano dono per lui, erano solo e tutta gratuità. Senza questa doppia bellezza non entriamo nell’umanesimo biblico, non comprendiamo il suo più grande profitto: «Per chi li osserva è grande il profitto» (19,12).
«Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me»: solo con il Salmo 19 davanti agli occhi si coglie il senso dell’ultima pagina della Critica della ragion pratica di Kant, una pagina tra le più bibliche di tutta la filosofia.
Quell’antico poeta sapeva poi un’altra cosa: «Le inavvertenze, chi le discerne? Assolvimi dai peccati inconsapevoli. Anche dall’orgoglio salva il tuo servo perché su di me non abbia potere» (19,13-14). Sopra il sole, gli astri obbediscono, docili e mansueti, alle leggi che YHWH ha scritto per loro; trasmettono il loro messaggio, non trasgrediscono, non peccano. Sotto il sole no, perché sulla terra l’Adam è stato creato con una libertà morale unica che lo rende il grande mistero dell’universo. Solo l’uomo e la donna possono decidere di non seguire le leggi d’amore pensate per loro da Dio. E in questo sono superiori al sole e alle stelle. Sta qui il grande mistero dell’uomo biblico: l’immagine di Dio lo rende libero al punto di poter negare le leggi pensate per la sua felicità (le nostre infelicità più importanti sono quelle che scegliamo sapendo che sono infelicità). Siamo più liberi del sole, e quindi meno ubbidienti. E torna il nostro destino tremendo e stupendo custodito dal Salmo 8: «Che cosa è l’uomo? Eppure...».
Tra i peccati umani troviamo qui sottolineati quelli fatti per inavvertenza e quelli inconsapevoli. Anche se il Novecento ci ha mostrato un inconscio non innocente, la categoria dei peccati inconsci è distante dalla nostra sensibilità moderna, molto centrata sulle intenzioni.
La Bibbia non è un’etica, anche se nei suoi libri ci sono molte etiche. L’umanesimo biblico non può essere inquadrato in una o l’altra delle teorie etiche moderne (responsabilità, intenzioni, virtù...), ma è certamente più interessato di noi alle conseguenze degli atti. Perché ciò che più gli interessava era l’equilibrio del corpo sociale e la cura dell’Alleanza con Dio. Se allora qualcuno commetteva un peccato e provocava un danno, era a questo squilibrio nei rapporti sociali che la Bibbia soprattutto guardava.
Il Decalogo inizia con il ricordo della liberazione dall’Egitto: non con un principio etico astratto, ma con un fatto. La dimensione storica della fede biblica si manifesta anche nel grande valore che attribuisce ai comportamenti, alle azioni, ai fatti, alle parole. Basti pensare, per un esempio, al vecchio Isacco che dona per errore/inganno la sua benedizione a Giacobbe; quando si accorge del suo errore non può più revocare quella benedizione sbagliata, perché quelle parole avevano generato la realtà mentre la dicevano, e avevano operato indipendentemente dalle condizioni soggettive di Isacco e dei suoi parenti (Gen 27).
I peccati sono fatti che agiscono e cambiano il mondo, con una vita propria distinta dalle intenzioni che li hanno generati. Se oggi ti dico una parola brutta e domani ti chiedo scusa, quelle scuse potranno agire sul futuro, ma non potranno cancellare la realtà di dolore che quella parola ha generato nel cuore dell’altro in quelle ore trascorse tra il peccato e il pentimento. Nella Bibbia poi la parola è talmente seria che produce effetti da sé medesima, anche quando non ne siamo coscienti, anche in quelle "ore" che passano e noi non chiediamo scusa perché non siamo consapevoli dei danni che stiamo procurando - i danni inconsci possono essere maggiori proprio perché non arrivano mai il pentimento né le scuse.
Chiedere allora a Dio (e alla comunità) di essere assolti per i peccati inconsci nasceva dalla consapevolezza che i danni che procuriamo sono maggiori delle nostre cattive intenzioni. L’uomo biblico lo sapeva, e ristabiliva l’equilibrio. Noi ne abbiamo perso coscienza, non chiediamo perdono a nessuno, ci copriamo dietro la buona fede, e accresciamo gli squilibri. Il Salmo 15 aveva lodato la sincerità. Il Salmo 19 ci dice che la sincerità qualche volta non basta. Perché nella vita c’è anche il valore delle conseguenze di azioni sbagliate compiute in buona fede. La Bibbia è un continuo e prezioso esercizio di auto-sovversione, che è la cura più efficace contro ogni ideologia. Incluse le molte piccole ideologie del nostro secolo nate sulla morte delle grandi ideologie del secolo scorso.
Il Salmo 19 ci ha rapiti al settimo cielo e poi ci ha riportato sulla terra, alle nostre inavvertenze e colpe inconsce, per dirci qualcosa di importante che non dovremmo più dimenticare: un rapporto sanato ha lo stesso valore di una galassia.
"CRITICA DELLA RAGION PURA" (KANT) E DEL "MONOMITO" (JAMES JOYCE). UN OMAGGIO A JOSEPH CAMPBELL
LA METAFORA NEL MITO E NELLA RELIGIONE E I PROLEGOMENI AD OGNI FUTURA METAFISICA CHE SI PRESENTERA’ COME SCIENZA.... *
Siamo mito
di Moreno Montanari (Doppiozero, 20 marzo 2020).
“Come fuori, così dentro” si potrebbe riassumere così, parafrasando la celebre massima alchemica, la tesi dell’ultimo libro di Joseph Campbell, Le distese interiori del cosmo. La metafora nel mito e nella religione, Nottetempo, 2020. Si tratta di una raccolta di saggi che amplificano delle conferenze tenute tra il 1981 e il 1984 nello sforzo, consueto per Campbell, di illuminare la transculturalità, ossia gli elementi costanti, nonostante le variabili etnico-culturali, dei miti. Al cuore di ogni narrazione mitologica, che Campbell ha il merito indiscusso di mostrare ancora viva negli aspetti più comuni delle nostre culture, ci sono temi che Adolf Bastian (1826-1905) chiamava “idee elementari” e Carl Gustav Jung (1875-1961) “archetipi” ; si tratta di cristallizzazioni di risposte millenarie che la fantasia e l’immaginazione delle diverse civiltà umane hanno elaborato per affrontare questioni esistenziali che le hanno profondamente interrogate. Naturalmente queste forme archetipiche variano a seconda delle idee etniche che una determinata cultura esprime, ma esiste tra di loro una dialettica che Campbell riassume così : “l’idea elementare è radicata nella psiche ; l’idea etnica attraverso cui si manifesta è radicata nella geografia, nella storia e nella società” (p. 145) ; si accede al punto di vista del mito quando “nelle forme di un ambiente traspare la trascendenza” (p. 28).
Il suo lavoro più celebre sull’universalità del mito è sicuramente quello relativo a L’eroe dai mille volti (1949, tr. it. Lindau, Torino, 2012) figura che, nelle più disparate e diversificate espressioni culturali, lontanissime tra loro nello spazio e nel tempo, passa comunque sempre attraverso i seguenti snodi esistenziali : una nascita misteriosa, una relazione complicata con il padre, ad un certo momento della sua vita sente l’esigenza di ritirarsi dalla società e, in questa condizione, apprende una lezione, o elabora un sapere, che orienterà diversamente la sua vita, poi ritorna alla società per mettere al suo servizio la lezione che ha appreso, molte volte (ma non necessariamente) grazie ad un’arma che solo lui può usare.
In questo libro, invece, l’attenzione si rivolge alle diverse cosmologie e ai miti soteriologici elaborati nel corso dei millenni dalle differenti culture che si sono susseguite, e affiancate, nel nostro pianeta, comprese le attuali, e si organizza intorno alla felice intuizione kantiana che spazio e tempo siano categorie interiori della psiche che vengono applicate alla realtà esterna. Citando Novalis Campbell scrive : “La sede dell’anima è laddove il mondo esterno e il mondo interno s’incontrano”, e aggiunge, “è questo il paese delle meraviglie del mito” (p. 43).
Non si equivochi: il paese delle meraviglie, non è un mondo fantastico, illusorio, ma lo spazio nel quale apprendere a ridestare la meraviglia, ad attivare l’intero psichismo dell’uomo, a sviluppare una particolare capacità di attenzione che, facilitata dalla forma narrativa del mito, insegna ad aprirsi alla trascendenza, ossia all’eccedenza di senso e significato che incarna ogni simbolo, mai riducibile a una perfetta equazione con quanto rappresenterebbe.
Ed è qui che Campbell ci regala una delle sue pagine più interessanti:
Mi sembra un esempio realmente illuminante per comprendere il senso di ogni comparazione e di ogni ermeneutica simbolica. Lo ha spiegato bene Jung : il simbolo, centrale in ogni mito, non rimanda a una realtà significata, è esso stesso realtà operante, costituisce la specifica capacità umana di “orientare la coscienza verso ulteriori possibilità di senso”, poiché non è mai del tutto riconducibile ad un significato univoco e definitivo ; per questo non può essere ridotto alla semiotica perché la sua funzione è piuttosto psicagogica, vale cioè per gli effetti che produce nella psiche, per le energie, le immagini, le interpretazioni, i processi psichici che sa evocare, promuovere, mettere in gioco (C. G. Jung, Tipi psicologici, 1921 ; tr. it. Bollati Boringhieri, 1977 e sgg, p. 527). Ecco perché il ricorso a Kant, a quell’x che resta inconoscibile e che apre alla metafisica, a ciò che trascende ogni possibilità di possesso e de-finizione del senso ultimo, appare particolarmente pertinente.
I rapporti che vengono suggestivamente indagati da Campbell, dicevamo, sono quelli che comparano lo spazio interiore e quello esteriore, secondo la celebre analogia tra macrocosmo e microcosmo :
Attraverso un nutrito numero di calcoli e dati ricavati dagli studi di astronomia, i calendari ideati dalle diverse culture a partire dagli antichi babilonesi, le fonti bibliche, le arcaiche Upanisad induiste e i più remoti testi taoisti, Campbell giunge ad analizzare suggestivi - per un certo tipo di lettore - consonanze tra i cicli biologici del sistema solare (macrocosmo) e quelli dell’individuo (microcosmo). Ma non mi sembra questo il punto cruciale dei suoi sforzi, che consiste piuttosto nel promuovere una diversa prospettiva sul mondo e sulla vita, non più incentrata sulle nostre idee etniche, sui limiti delle nostre culture, ma aperta al riconoscimento di un’unica realtà “il cui centro è ovunque”, della quale dovremmo finalmente farci carico in maniera universale (si pensi agli assurdi sforzi dei singoli stati, in questi difficili giorni, di arginare il coronavirus secondo strategie nazionali, anziché comprenderne la portata globale che richiederebbe interventi condivisi, in tutti i sensi, su scala mondiale e non, addirittura, regionale - per non parlare delle differenti valutazioni a seconda delle fasce di età).
Dopo aver preso in esame i miti cosmologici e soteriologici delle diverse religioni delle nostre principali culture, Campbell giunge a questa conclusione :
Il pensiero mitologico, quando non viene letteralizzato, promuove dunque un’apertura alla transculturalità, alla trascendenza di ogni appartenenza storico-culturale e si propone, in maniera apparentemente contro intuitiva, come strumento di laicità. Qui incontra l’arte, per la sua capacità di trasformare la coscienza e la visione abitudinarie della realtà in favore di un punto di vista nel quale, “la mente viene fermata e innalzata al di sopra del desiderio e dell’odio” ; sono parole di Joyce che Campbell fa sue e che trova affini all’esperienza ascetica che dovette compiere il Buddha prima di raggiungere l’illuminazione : vincere i tre demoni del desiderio (Kāma), della paura della morte (Māra) e l’identificazione con i vincoli sociali (Dharma), per accedere a una condizione che li sappia trascendere (pp. 201-201).
Un percorso e un’opportunità che, in chiave individuativa, sono poste al centro del lavoro di Giovanna Morelli nel suo Poetica dell’incarnazione. Prospettive mitobiografiche nell’analisi filosofica (Mimesis, 2020). In questo libro - uscito per la collana di Mimesis “Philo-pratiche filosofiche” curata da Claudia Baracchi - l’arte appare lo sfondo dal quale può emergere una rappresentazione mitobiografica della vita di ciascuno di noi, ossia, secondo la lezione di Ernst Bernhard, il modo di riconoscere come ogni singola esistenza si apra, o meglio si riconosca, in alcuni mitologemi (singoli aspetti di un mito) che si prestano a leggerne alcune gesta. Lo sguardo mitobiografico con il quale Morelli invita a osservare la vita, a partire dal racconto della propria, permette di “scoprire e amare l’universale attraverso il particolare, preservando entrambe le dimensioni”, di “narrare la propria vita secondo il disegno di senso che la illumina, la magnifica, la collega a figure universali e pertanto la rende epica, emblematica” (p. 127).
L’arte che indaga l’analista filosofo è dunque quella incarnata, ossia, consapevole che la vita di ciascuno di noi accede al simbolico grazie e attraverso quelle che James Hillman chiamava “metafore radicali” offerte dall’inconscio collettivo, ossia le strutture percettive, gli archetipi, che organizzano l’esperienza umana come già da sempre sovrapersonale.
Lo specifico di ogni vicenda biografica non viene meno se riconosce nel suo sviluppo echi, modalità e variazioni di temi ricorrenti nella storia dell’umanità - di cui la psiche mantiene una traccia in forma, appunto, archetipica - ma procede al contrario verso la sua individuazione, la possibilità di autenticare in modo esclusivo la propria esistenza, “se comunica con se stessa alle più diverse latitudini spazio-temporali, attraverso le tante narrazioni-quadro che si sono avvicendate nella storia” (pp. 38-39).
L’arte è qui poiesis, anzi, mitopoiesi e la vita, vista dall’osservatorio privilegiato della stanza d’analisi, ne costituisce il principale teatro (Giovanna Morelli è anche regista d’opera e critica teatrale), lo spazio in cui s’incontrano e si scontrano le nostre maschere sociali e i nostri doppi impresentabili, ma anche dove si facilita una più profonda espressione di sé che, in una vicenda personale, sa scorgere tracce di qualcosa di universale - il che, osserva Jung, è già di per sé terapeutico :
Un’operazione che, in modo diverso, sia Campbell che Morelli, ci invitano a fare per riconoscere nei miti la via maestra alla coltivazione di quella trascendenza che non rimanda a mondi altri e paralleli ma anima l’immanenza, qui ed ora, da sempre.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
L’anima e la cetra/7.
Non è bene che Dio sia solo
di Luigino Bruni (Avvenire, domenica 10 maggio 2020)
Alcune persone ricordano per tutta la vita il giorno in cui hanno visto per la prima volta il cielo stellato. Lo avevano "visto" altre volte, ma in una benedetta notte è successo qualcosa di speciale e lo hanno visto veramente. Hanno fatto l’esperienza metafisica dell’immensità e, simultaneamente, hanno avvertito tutta la propria piccolezza e fragilità. Si sono, ci siamo, visti infinitamente piccoli. E lì, sotto il firmamento, sono fiorite domande diverse, quelle che quando arrivano segnano una tappa nuova e decisiva della vita: dove sono e cosa sono i miei affari? e i miei problemi? cosa è la mia vita? cosa i miei amori, i miei dolori? E poi è arrivata la domanda più difficile: e io, che sono? È il giorno tremendo e bellissimo; per alcuni segna l’inizio della domanda religiosa, per altri la fine della prima fede e l’inizio dell’ateismo - per poi scoprire, ma solo alla fine, che le due esperienze erano simili, che magari c’era molto mistero nella risposta atea e molta illusione in quella religiosa, ma lì non potevamo saperlo. Non tutti fanno questa esperienza, ma se la desideriamo possiamo provare a uscire di casa in queste notti fatte più calme e nitide dai mesi sabbatici, cercare le stelle, fare silenzio, attendere le domande - che, mi hanno detto, qualche volta arrivano.
Per qualcuno, poi, c’è stato un altro giorno decisivo. Quando quell’infinitamente piccolo ha fatto l’esperienza che quell’«Amor che move il sole e l’altre stelle» si interessava di lui, di lei, lo cercava, gli parlava, la incontrava. Giorno altrettanto decisivo, perché non basta l’esperienza vera del giorno delle stelle perché inizi la vita religiosa. Ci sono molte persone che sentono veramente vibrare lo spirito di Dio nella natura, odono la sua voce risuonare nelle notti stellate e in molti altri luoghi, ma non si sono mai sentite chiamare per nome da quella stessa voce. Come ci sono altri che hanno fatto un autentico incontro personale con la voce dentro, ma che poi non l’hanno mai sentita vivere nell’universo intero, che non si sono mai commossi riconoscendola nell’immensità del cosmo. È l’incontro tra questi due giorni che segna l’inizio della vita spirituale matura, quando l’immensità che ci svela la nostra infinita piccolezza diventa un tu più intimo del nostro nome.
L’autore del Salmo 8 ha fatto, credo, l’esperienza di entrambi questi giorni. Ha riconosciuto la presenza di YHWH nel firmamento infinitamente grande e si è sentito infinitamente piccolo; e poi ha intuito che la voce che gli parlava tra le galassie era la stessa voce che gli parlava nel cuore: «Come splende, YHWH, il tuo nome su tutta la terra: la bellezza tua voglio cantare, essa riempie i cieli immensi... Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato, io mi chiedo davanti al creato: e l’uomo che cos’è? perché di lui ti ricordi? Che cosa è mai questo figlio d’uomo perché tu ne abbia una tale cura?» (8, 2-5). Versi meravigliosi. Dovremmo avere il cuore e le stigmate di Francesco per cantarli.
Assistiamo in presa diretta a una esperienza dell’assoluto. Quell’antico poeta ha avvertito l’immensità e la piccolezza, non si è sentito schiacciato, e ha iniziato un nuovo canto. Il canto dell’umiltà (humilitas) vera, perché l’humus ci dice chi siamo veramente solo se riusciamo per un attimo a guardarlo da distanza siderale; l’adamah (terra) svela l’Adam solo se vista dall’alto. È questa la gioia per la verità finalmente rivelatasi, per una nuova ignoranza che non umilia. L’umiltà è l’opposto dell’umiliazione. E si sperimenta una nuova infanzia, una sconfinata giovinezza: «Da fanciullo e lattante balbetto» (8,3).
Al centro del salmo una domanda: cosa è il figlio d’uomo (Ben Adam: espressione cara ai profeti e ai vangeli), di fronte a tanta immensità?! Splendida è la risposta: nonostante la sua insignificanza in rapporto alle stelle e la sua piccolezza nel tempo e nello spazio, tu ti prendi cura dell’uomo, tu ti ricordi di lui. Come a dire: se tu tenessi conto, o Dio, di quello che l’Adam è oggettivamente in rapporto all’universo sterminato, non dovresti occupartene; e invece ti prendi cura di lui, di lei. E quindi la domanda necessaria: ma questa voce che mi parla dentro è proprio la stessa che ha parlato tra le galassie? La risposta del primo giorno può essere soltanto un sì, altrimenti il cammino non incomincia! Col passare del tempo la risposta diventa: forse. Poi arrivano i lunghi anni quando la risposta è: no. Infine ritorna il sì, ma - se e quando ritorna - è un sì detto con un’altra profondità e un’altra umiltà. E qui nasce una nuova meraviglia, trabocca la gratitudine, riaffiora la preghiera degli ultimi tempi.
Sta in questa tensione tra le stelle e il cuore, abitati entrambi dalla stessa presenza, la dignità dell’Adam, dei suoi figli e delle sue figlie, la sua gloria e il suo onore. Ci si perde nelle varie ideologie quando si perde uno di questi due poli. Dobbiamo leggere il Salmo 8 in parallelo con i primi capitoli della Genesi: «E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (Gn 1,27). Il versetto della Bibbia che, forse, amo di più. L’Adam è posto da Elohim al centro del giardino della creazione perché ne fosse custode e responsabile. Il Salmo ce lo ridice: «Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi» (Salmo 8,7). L’Adam diventa il primo interlocutore di Dio, perché con la sua reciprocità potesse accompagnare anche la solitudine di Dio - «non è bene che l’uomo sia solo» (Gn 2,18) va letto insieme all’altra frase non scritta nella Bibbia ma altrettanto presente: non è bene che Dio sia solo.
Non mi stupirebbe se l’autore di quell’antico salmo mentre cantava avesse sottomano questi versi della Genesi. Forse stava meditando e contemplando "cosa è l’uomo" quando, ad un certo punto, non ha più retto l’emozione e ha composto uno dei versi più belli sull’uomo mai scritti da tutta la letteratura religiosa e laica. Dopo averlo visto sub specie aeternitatis, dopo essere andato con l’anima sulla luna e averlo perso di vista tanta era la sua piccolezza, tornato a quelle parole della Genesi ha rivisto un altro uomo. E ha pronunciato questo capolavoro, che va letto dopo qualche attimo di silenzio: -«Eppure l’hai fatto poco meno di Elohim, di gloria e di onore lo hai coronato» (8,6). Eppure: a volte la Bibbia sa racchiudere in una umile congiunzione tutta la sua profezia. Siamo effimeri, siamo come l’erba ... eppure... «Una voce dice: "Grida", e io rispondo: "Che cosa dovrò gridare?". Ogni uomo è come l’erba. Secca l’erba, il fiore appassisce ... Veramente il popolo è come l’erba» (Isaia 40,6-7).
Veramente ... eppure. Siamo stati pensati, cercati e amati tra un veramente e un eppure. Veramente effimeri come l’erba, veramente infinitamente piccoli, veramente infedeli e peccatori; eppure poco meno di Dio, eppure sua immagine e somiglianza, eppure amati, curati e attesi come figli.
Questa è l’immensa antropologia biblica. La letteratura antica conosceva la metafora dell’immagine di Dio applicata all’uomo. Ma era usata per il re, per il faraone. La Bibbia la usa per ciascuno di noi, per ogni uomo e per ogni donna, per te, per me. È l’Adam, ogni Adam, l’immagine e somiglianza di Elohim; e quindi lo siamo anche noi, tutti noi. È questa la magna carta di ogni dichiarazione dei diritti dell’uomo e della donna, dei bambini, delle bambine, della dignità del creato. Il Salmo 8 è un inno a Dio e insieme un inno all’uomo. Esalta la persona dicendoci chi è quel Dio di cui egli è immagine, ed esalta Dio dicendoci chi sono l’uomo e la donna che lo riflettono. Perché se l’uno è immagine dell’altro, più l’Adam diventa bello più dice la bellezza del suo Creatore, e più lasciamo libero Dio di diventare migliore di noi, più abbelliamo noi stessi. Non capiamo l’antropologia biblica se usciamo dalla reciprocità intrinseca al simbolo dell’immagine.
Ma la bellezza e la forza di questo canto esplodono se immaginiamo il salmista cantare quel versetto 6 mentre leggeva anche i capitoli tre e quattro della Genesi: quelli della disobbedienza, della seduzione vincente del serpente, e poi Caino e il sangue di Abele, di cui il salmista sentiva ancora l’odore. È troppo semplice cantare la gloria e l’onore dell’uomo fermandosi al capitolo due. La sfida decisiva è riuscire a continuare il canto mentre i capitoli scorrono e si entra nelle pagine buie e buissime del no, quelle della rottura dell’armonia uomo-donna-creato-Dio, nelle pagine della cacciata da quel giardino meraviglioso, quelle della notte oscura del primo fratricidio della terra. E giunti lì, non smettere il canto. E poi continuarlo con l’urlo tremendo di Lamek l’uccisore di fanciulli, con la ribellione di Babele, con i peccati dei patriarchi, con le bugie e gli inganni di Giacobbe, con l’omicidio dei beniaminiti, fino all’omicidio di Davide, alle infedeltà di Salomone e di quasi tutti i re d’Israele. E non smettere mai di cantare: «Veramente ... Eppure lo hai fatto poco meno di un Dio».
Tutta la forza dell’antropologia biblica si sprigiona quando riusciamo a vincere il dolore e la vergogna e ripetiamo "veramente ... eppure" non solo di fronte al firmamento ma anche nelle carceri, nelle meschinità, nelle violenze, nei bassifondi di Calcutta, nelle via crucis che portano al Golgota. Non c’è condizione umana che non sia racchiusa tra quel veramente e quell’eppure, nessuno resta fuori. La Bibbia non ha avuto paura di narrarci i peccati e le bassezze dei suoi uomini perché credeva veramente all’immagine di Elohim. E ogni volta che nascondiamo nelle nostre storie le pagine più buie abbiamo smesso di credere che siamo immagine.
Caino ha cancellato la sua fraternità e i suoi figli continuano a cancellarla uccidendo ogni giorno Abele. Ma non ha potuto cancellare l’immagine - e se il "segno di Caino" fosse proprio l’immagine di Elohim? «O Dio, Signore nostro, come splende il tuo nome su tutta la terra!» (8,10).
USCIRE DALLA CAVERNA E DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE COSMO-TE-ANDRICA PLATONICA. Materiali sul tema... *
Veder le stelle con gli occhi di Dante
Fisici, cosmologi, poeti, scrittori, teologi e mistici sono da sempre affascinati dalla “scienza stellare” dantesca: lo ricorda l’inglesista Tracy Daugherty in un nuovo saggio
di Gianni Vacchelli (Avvenire, mercoledì 18 dicembre 2019)
Dante ci sorprende sempre e ci spiazza, anche quando crediamo di averlo incasellato, almeno su un aspetto. Così potremmo pensare che la sua astronomia sia realmente irricevibile e superata. Ad esempio per il grande poeta Thomas Eliot, anche acuto dantista, come tutti sappiamo, «non è essenziale che la quasi inintelligibile astronomia di Dante sia capita ». Eppure non è così. E se forse l’accademia riserva in genere una rispettosa ma un po’ distaccata attenzione alla “scienza stellare” dantesca, fisici, cosmologi, oltre che poeti, scrittori, teologi e mistici ne sono da sempre affascinati. Soprattutto oggi gli uomini di scienza. Ce lo ricorda anche l’americano Tracy Daugherty, professore emerito di Inglese all’Oregon State University, nonché romanziere, nel suo recente e interessante saggio Dante and the Early Astronomer [Dante e la Prima Astronoma] ( Yale University Press).
In verità il libro di Daugherty, come si evince anche dal sottotitolo “Scienza, avventura e una donna vittoriana che aprì i cieli”, è sì dedicato a Dante ma insieme all’astronoma Mary Acworth Evershed (conosciuta pure come M.A. Orr, col cognome da nubile, prima di sposare John Evershed, importante astronomo lui stesso).
Mary è una donna inglese, nata nel 1867. Amava la poesia e il cielo stellato, e un viaggio in Italia all’età di 20 anni, a Firenze e a Ravenna, fu fondativo per la sua ricerca: decise così di studiare attentamente tutti i riferimenti astronomici nella Commedia di Dante, che arriverà a leggere in italiano. E nel 1913 Mary, con il cognome di Orr, pubblicò il suo importante studio Dante and the Early Astronomers, troppo presto dimenticato e che sarebbe utile riscoprire e tradurre in italiano. Nonostante il modello tolemaico di Dante fosse totalmente superato, Mary ammirò «la fedeltà dantesca agli insegnamenti dell’astronomia come l’aveva imparata dai suoi maestri», «la fantastica precisione dentro una struttura chiara» nel descrivere i fenomeni celesti. Per lei «il Poeta possedeva l’istinto e le attitudini di un ricercatore scientifico: una mente irrequieta, un abito di attenta osservazione».
Studiosa dei crateri lunari e delle macchie del sole, che «Dante aveva riconosciuto tre secoli prima che venissero scientificamente rilevate», Mary rimase affascinata anche da come Galileo, che stava aprendo all’umanità una nuova immagine di universo, rimanesse fedele alla retorica, all’immaginazione, ai ritmi danteschi. Le sue descrizioni del sole nelle Lettere sulle macchie solari echeggiavano le discussioni astronomiche di Beatrice in Paradiso II, sulle macchie lunari. Per la Evershed «Galileo considerò sempre Dante un pari, e la sua maestria artistica un modello... per lui la Commedia non era un cimitero di teorie astronomiche scartate, ma un prologo poetico a future scoperte». Allo stesso modo anche lei «seguì le tracce dell’universo di Dante, afferrò l’uso da parte di Galileo dell’arte di Dante per far avanzare le sue nozioni scientifiche e partecipò alla rivoluzione mentale che espanse l’esistenza e la conoscenza nel modo in cui Einstein - e Dante - predissero che sarebbe accaduto».
E in effetti il libro di Daugherty accenna in più parti ad una seconda e in qualche modo diversa linea di ricezione delle idee astronomiche del Poeta. Se la Evershed, con Galileo prima di lei, ha ammirato la coerenza e l’accuratezza “scientifica” del dettato dantesco, pur nel paradigma tolemaico non più accettabile, oggi molti «scrittori come il matematico Mark A. Peterson, lo storico della scienza Edward Grant e lo storico William Egginton hanno sostenuto in modo persuasivo che le concezioni medievali di Dante sulla forma dell’universo sembrano agli astronomi contemporanei sorprendentemente preveggenti». Dante insomma avrebbe «inventato un nuovo spazio topologico, la 3-sfera, o ipersfera», come scrive il citato Peterson in una sua analisi del 1979. In qualunque caso, una cosa è certa: la rappresentazione grafica del cosmo dantesco, ancora largamente accettata e quasi onnipresente su tutte le antologie scolastiche, con la terra al centro, i nove cieli intorno e l’Empireo sopra tutti, per lo più rappresentato come una sorta di “buffo cappellino” all’intero universo dantesco, è inaccettabile, testo di Dante alla mano.
Basta rileggere due complessi ma splendidi passi paradisiaci. In Paradiso XXVII, 106ss., Dante spiega la natura del Primo Mobile, la prima e più esterna delle sfere cosmiche ruotanti attorno alla Terra in base al modello geocentrico dell’universo, da cui trarrebbero origine il moto e il tempo. E scrive: «Luce e amor d’un cerchio lui comprende, / sì come questo li altri; e quel precinto / colui che ’l cinge solamente intende» (Pd XVVII, 112-114). Qui il Poeta sembrerebbe descrivere l’Empireo come un’ultima realtà capace di cingere il Primo Mobile e tutti gli altri cieli a seguire. Eppure nel canto successivo, Paradiso XXVIII, 16ss., avviene qualcosa di straordinario: Dante vede al centro dell’universo non la terra bensì un punto luminosissimo, il cui splendore non può essere sostenuto da occhi umani: «un punto vidi che raggiava lume / acuto sì, che ’l viso ch’elli affoca / chiuder conviensi per lo forte acume» (Pd XXVIII, 16-18). Il mistero divino è adesso centro dell’universo, «da quel punto / depende il cielo e tutta la natura» (vv.41-42), ed è come se il Poeta scorgesse «un altro universo», rovesciato e fatto, ugualmente, di nove cerchi concentrici, sede delle gerarchie angeliche ruotanti intorno a Dio.
È a partire da questi passi danteschi che il fisico rumeno Roman Patapievici, nel suo prezioso e oggi introvabile libretto Gli occhi di Beatrice ( Bruno Mondadori 2006), scrive: «L’immagine allo specchio è simile a quella reale, solo che è invertita. Il mondo invisibile diventa allora un calco rovesciato del mondo visibile: l’Empireo è Dio-centrico mentre la Terra è diavolo-centrica... l’invisibile obbedisce a norme opposte rispetto al visibile. Per spiegare queste simmetrie non resta che concepire l’universo visibile (con al centro la Terra) e l’Empireo (con al centro Dio) come due sfere che hanno in comune la superficie, cioè il “Primo Mobile”: il che equivale appunto a una ipersfera, oggetto della geometria di Riemann adottato da Einstein per descrivere l’universo nella relatività generale ». Su questa intuizione tornano recentemente anche due fisici italiani, Marco Bersanelli, nel suo Il grande spettacolo del cielo (Sperling & Kupfer 2016) e Carlo Rovelli in Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza ( Corriere della Sera 2018), che loda la «straordinaria intelligenza, anche matematico-scientifica» di Dante.
Questa ipotesi in verità ha una storia lunga e viene fatta risalire al matematico svizzero Andreas Speiser, che ne scrisse nel 1925, ripreso appunto poi da Mark Peterson, dall’astrofisico svizzero Bruno Binggeli e infine da Patapievici. Per altro già nel 1922 Pavel Florenskji in un breve e densissimo scritto, Gli immaginari in geometria, aveva sostenuto, a partire dalla “piroetta” effettuata dal Dante-personaggio in If XXXIV al centro della terra, che la concezione dello spazio della Commedia è abbordabile solo con il sostegno teorico della relatività einsteiniana e della geometria non-euclidea. Per concludere sorprendentemente: «Squarciando il tempo, dunque, la Divina Commedia finisce inaspettatamente per trovarsi non indietro, ma avanti rispetto alla scienza nostra contemporanea ».
Eppure forse il punto è un altro, anche se le riletture della fisica e della matematica contemporanee sono importanti, e certo da approfondire in uno studio esaustivo. Perché Dante ragiona da un mythos diverso dal nostro e le sue “preveggenze” gli vengono da una visione mistica dell’esistente. Ecco allora che il mistero divino sarà insieme imprendibile sfera e centro concentrico della realtà, contenente e contenuto, trascendente e immanente, come recitava un folgorante aforisma del medievale Libro dei XXIV filosofi: «Dio è una sfera infinita, il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo».
La fisica contemporanea vi intravede un’iper-sfera. Sia. Per Dante la posta in gioco però è forse ancora più complessa: non solo ravvisare in tutto ciò il mistero divino, ma comprendere come la trinità Dio(Mistero)-Uomo-Cosmo sia in una relazione costitutiva e rappresenti tutta la realtà: non Dio, l’Uomo o il Cosmo da soli.
Potremmo ricordarci allora l’intuizione cosmoteandrica (cosmo-dio-mondo) del filosofo e teologo indocatalano Raimon Panikkar, che parlava anche di teofisica, «non tanto come “fisica di Dio”, ma come “del Dio della Fisica”, del Dio creatore del mondo, dove il mondo non è sentito in quanto autonomo, indipendente e diviso da Dio, ma costitutivamente connesso a Lui». L’ardore di Dante è stato quello di provare a tenere insieme queste dimensioni della realtà - misteriosa, umana e materiale - con tutti i saperi che aveva a disposizione, anche fallaci, limitati, scientificamente. È questo che ci attende oggi: mantenere viva e prolungare la tensione dantesca, aggiornandola all’altezza dei tempi. E le potenti preveggenze del Poeta sembrano guidarci, perché «poca favilla gran fiamma seconda».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’INCARNAZIONE AL DI LA’ DELL’ IMMAGINAZIONE "TE-ANDRICA" DEL CATTOLICESIMO-COSTANTINIANO: DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. Ipotesi di rilettura della "Divina Commedia".
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FLS
Scienza. La Luna vista da Leonardo
Pochi hanno messo in connessione i 50 anni dell’Apollo 11 con i 500 anni del genio da Vinci che tra i primi studiò e disegnò il fenomeno della ’luce cinerea’
di Flavia Marcacci (Avvenire, martedì 19 novembre 2019)
Signora dell’anno 2019 è la Luna: si celebrano i 50 anni della conquista del suo suolo. Eventi e pubblicazioni si stanno succedendo rapidamente, ricordando quanto avvenne in quel frenetico 1969, che tra la protesta di Jan Palach e la nascita del progenitore di Internet Arpanet fu fitto di molti fatti decisivi per la grande e piccola storia. Eppure, il 20 luglio i passi silenziosi di Neil Armstrong e Buzz Aldrin sulla Luna ebbero il potere di fermare ogni altro vocio e ogni altra preoccupazione.
Il potere di vedere (video) a distanza (tele) promesso dallo strumento che stava cambiando la società, la televisione, giungeva a un impensabile lontano: la potenza della tecnica veniva consacrata, quasi riscattando i timori che era andata suscitando dopo l’esperienza atomica.
La nostra Terra deve molto alla Luna, e non a caso essa è stata nei secoli un oggetto privilegiato per la scienza, la filosofia e l’arte. Il nostro satellite è stato il più vicino tra gli oggetti lontanissimi, la porta d’accesso al cielo deputato invalicabile e tramite esso finalmente accessibile. La luna fu scrutata da Leonardo da Vinci (1452-1519), altro protagonista del 2019, poiché del genio toscano ricorrono i 500 anni dalla morte. Pochi hanno notato la convergenza tra le due ricorrenze.
Leonardo aveva disegnato il satellite terrestre, dando nota del fenomeno della ’luce cinerea’ nel Codice Leicester (foglio 2 r), come ricordava fin dagli anni Settanta il noto studioso Carlo Pedretti (1928-2018). Il fenomeno si osserva tra novilunio e prima fase e nell’ultima fase: può capitare così che la luce del Sole venga riflessa dalla Terra e vada a illuminare una piccola porzione in ombra del satellite, in modo da renderlo visibile anche all’alba. Per lo stesso fenomeno, Armstrong e Aldrin dalla Luna avrebbero potuto osservare un bel ’chiaro di Terra’, con il nostro pianeta stabile nel cielo lunare (altezza in dipendenza dalla latitudine).
A completare la spiegazione della luce cinerea fu Galileo Galilei, chiamandola anche «candore lunare» a intendere le sfumature grigiastre, talvolta tendenti al verde o all’azzurro e capaci di conferire una leggerezza impercettibile al corpo celeste. Il Pisano diede alla Luna l’altro grande merito di segnare l’inizio dell’astronomia in senso moderno (ovvero usando strumenti), quando con il ’perspicillo’ (il telescopio, da perspicio, guardare in profondità) ne scoprì cavità e valli nel 1609 poi riprodotte nei famosi disegni pubblicati nel Sidereus nuncius (1610): da allora in poi, la scienza non sarebbe più tornata indietro.
Si avviò così la pratica di descrivere la Luna: la selenografia vantò tra i suoi adepti molti italiani, che raramente trovano un posto nelle storie italiane della scienza destinate al grande pubblico. Solo dopo Galileo il noto gesuita Cristoph Scheiner, docente a Roma tra il 1624 e il 1633, propose una delle prime mappe lunari (1614); dopo di lui fu la volta del confratello Giuseppe Biancani (1620).
Furono però soprattutto il bolognese Francesco Maria Grimaldi e il ferrarese Giovanni Battista Riccioli, entrambi ancora gesuiti, ad avere il merito di produrre gran parte della nomenclatura lunare che usiamo tutt’oggi. Il loro lavoro fu pubblicato nell’Almagestum novum ( 1651) e si dice che fu merito essenzialmente di Grimaldi, il quale compì la maggior parte delle osservazioni. I diritti d’autore sono però difficili da stabilire, essendo i due strettissimi collaboratori e Grimaldi una sorta di allievo di Riccioli. Ciò che conta è che sul suolo lunare essi impressero nomi celebri, molti dei quali già adoperati poco tempo prima dagli astronomi Michael F. van Langren e Johannes Hevelius (Jan Heweliusz): i due studiosi italiani ripresero le prime nomenclature per renderle più sistematiche e razionali. I crateri, le terre e i mari lunari furono battezzati con il nome di personaggi antichi, nell’emisfero nord, e moderni, nell’emisfero sud.
Per questo motivo oggi sulle mappe lunari troviamo memoria di astronomi (da Tolomeo e Ipparco a Copernico e Biancani), di santi e sante (da san Teofilo e san Cirillo a santa Caterina da Siena), di filosofi (da Anassimandro a Platone).
Guardare alla luna, però, non era utile solo per descriverla. Si cercava di comprendere la natura dei cieli (cf. La Lune aux XVIIe et XVIIIe siècles, edited by C. Grell and S. Taussig, Brepols, Turnhout, 2013). Nel Seicento alcuni pensavano, ad esempio, che il termine ’luna’ derivasse da lucuna (lux, luce e una, una) a intendere che la Luna fosse l’unica a essere sempre illuminata dal Sole. La Luna aveva anche un ruolo sociale rilevante, perché i suoi ritmi mensili andavano calcolati insieme a quelli del Sole per ottenere il calendario: fu proprio la sfasatura tra essi che portò alla grande riforma di papa Gregorio XIII.
Oltre alla cosmologia e alla scienza calendrica, il satellite della Terra stimolava anche il mito e la poesia. Gli appellativi del nostro satellite erano così tanti che è difficile elencarli: dal greco Selene a indicarne lo splendore, all’ebraico Lebana a richiamarne la bianchezza; da Artemide, Selene ed Ecate, dee che custodivano il grembo del corpo celeste nelle sue varie fasi, fino alla dea ’triforme’ citata da Cleomede e Virgilio.
La Luna non andava soltanto descritta, ma scritta. La ricchezza delle fantasie lunari di Luciano di Samosata (II sec. d.C.) ebbe una certa fortuna in epoca rinascimentale, probabilmente avvantaggiata dalla diffusione del fascino per i mirabilia e i fatti immaginati e prodigiosi: l’Icaromenippo proponeva il viaggio di Menippo sulla Luna, per giungere da lì fino alla casa degli dei. Su tutti non si può evitare di pensare all’Astolfo sulla Luna di Ludovico Ariosto, fino alle ipotesi di John Wilkins protese all’eventualità di abitanti sulla Luna (The discovery of a world in the moone, 1638).
La Luna era in grado di evocare fantasie, sentimenti ed emozioni, attingendo da ciò che nell’essere umano vi è di più profondo. Probabilmente ne tennero conto coloro che volevano solo descriverla fino a intravedere sul suo suolo i luoghi esistenziali della crisi, della siccità, della tranquillità, della serenità e della fecondità. Per questo nelle sue regioni si trovano la ’Terra della sterilità’ e la ’Terra della Vita’, il ’Mare della Crisi’ e il ’Mare della Tranquillità’.
Dai tempi di Leonardo e della selenografia torniamo così ai nostri tempi. Proprio il Mare della Tranquillità divenne famoso cinquant’anni fa, quando allunarono nei suoi pressi gli uomini della Missione Apollo 11. La Luna, lontana, scrutata, sognata era stata raggiunta. Il satellite forniva all’umanità l’ennesimo servizio, facendosi solcare da da orme umane sui luoghi della Tranquillità, forse proprio quelli a cui ambisce più profondamente ogni anima e dove la scienza dovrebbe contribuire ad avvicinarsi.
“SMONTARE LA GABBIA”! USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”....
CONSIDERATO "[...] lo stato in cui versa attualmente l’antispecismo: se tale movimento sembra infatti aver chiaro quali siano la prima e l’ultima lettera del suo alfabeto - l’organizzazione ingabbiante delle logiche che regolano e perpetuano l’antropocentrismo e una società in cui tutti gli animali, umani e non umani, possano vivere liberi -, è però incapace di articolare le altre - discorsi e prassi che indichino, nella materialità della storia, come smontare le gabbie, simboliche e materiali, in cui, seppure con intensità e rigore variabili, tutti i viventi sono rinchiusi indipendentemente dalla specie di appartenenza [...]” E, ANCORA, CONSIDERATO CHE “In 1905, riferendosi alla discrepanza tra le previsioni del marxismo scientifico e le vicissitudini storiche contingenti che, saltando a piè pari la fase di presa del potere da parte della borghesia, avevano portato alla rivoluzione proletaria in un paese feudale come la Russia zarista, Trotskij scrive: “La prima lettera è presente, e così anche l’ultima, ma tutto il mezzo dell’alfabeto è mancante” [...]”, SPUNTA (non esplicitata) LA CONNESSIONE CON L’INVENZIONE DELLA “TAVOLA PERIODICA DEGLI ELEMENTI” di Dmitrij Ivanovič Mendeleev,
CREDO CHE SIA NECESSARIO E OPPORTUNO AMPLIARE L’ORIZZONTE e RICONSIDERARE DALLE RADICI la “«piramide dei viventi» che da secoli continuiamo a portarci dietro”, quella contenuta nel «Liber de sapiente» (Libro della sapienza), pubblicato nel 1509 da Charles de Bovelles (1479-1567)” (come sollecita Stefano Mancuso con Alessandra Viola, nel lavoro “Verde brillante”, Giunti 2015, p. 18 - e, non il vecchio “marxista” Lucio Colletti, nel suo famoso “Il marxismo e Hegel”, Laterza 1969)! E, ANCORA E SOPRATTUTTO, “SMONTARE LA GABBIA” DELLA SISTEMATICA DI LINNEO!
E, benché siano passati 160 anni dalla pubblicazione, nel 1859, dell’«Origine delle specie», l’opera fondamentale che Charles Darwin ci ha regalato per comprendere la vita sul nostro Pianeta (Stefano Mancuso, cit.), USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA TEOLOGIA MAMMONICA. CON KANT, E CON MARX, OLTRE ...
Federico La Sala
IL PRIMOGENITO TRA MOLTI FRATELLI E LA COSTITUZIONE DOGMATICA DEL SOLE DI ORIENTE E DI OCCIDENTE...*
1. La gioia della verità (Veritatis gaudium) esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio[1]. La verità, infatti, non è un’idea astratta, ma è Gesù, il Verbo di Dio in cui è la Vita che è la Luce degli uomini (cfr. Gv 1,4), il Figlio di Dio che è insieme il Figlio dell’uomo. Egli soltanto, «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, rivela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»[2].
Nell’incontro con Lui, il Vivente (cfr Ap 1,18) e il Primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), il cuore dell’uomo sperimenta già sin d’ora, nel chiaroscuro della storia, la luce e la festa senza più tramonto dell’unione con Dio e dell’unità coi fratelli e le sorelle nella casa comune del creato di cui godrà senza fine nella piena comunione con Dio. Nella preghiera di Gesù al Padre: «perché tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi» (Gv 17,21) è racchiuso il segreto della gioia che Gesù ci vuole comunicare in pienezza (cfr 15,11) da parte del Padre col dono dello Spirito Santo: Spirito di verità e di amore, di libertà, di giustizia e di unità. [:::] "(Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» di Papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche, 29.01.2018. Proemio)
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Catechesi sugli Atti degli Apostoli: 3. «Lingue come di fuoco» (At 2,3). La Pentecoste e la dynamis dello Spirito che infiamma la parola umana e la rende Vangelo *
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Cinquanta giorni dopo la Pasqua, in quel cenacolo che è ormai la loro casa e dove la presenza di Maria, madre del Signore, è l’elemento di coesione, gli Apostoli vivono un evento che supera le loro aspettative. Riuniti in preghiera - la preghiera è il “polmone” che dà respiro ai discepoli di tutti i tempi; senza preghiera non si può essere discepolo di Gesù; senza preghiera noi non possiamo essere cristiani! È l’aria, è il polmone della vita cristiana -, vengono sorpresi dall’irruzione di Dio. Si tratta di un’irruzione che non tollera il chiuso: spalanca le porte attraverso la forza di un vento che ricorda la ruah, il soffio primordiale, e compie la promessa della “forza” fatta dal Risorto prima del suo congedo (cfr At 1,8). Giunge all’improvviso, dall’alto, «un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano» (At 2,2).
Al vento poi si aggiunge il fuoco che richiama il roveto ardente e il Sinai col dono delle dieci parole (cfr Es 19,16-19). Nella tradizione biblica il fuoco accompagna la manifestazione di Dio. Nel fuoco Dio consegna la sua parola viva ed energica (cfr Eb 4,12) che apre al futuro; il fuoco esprime simbolicamente la sua opera di scaldare, illuminare e saggiare i cuori, la sua cura nel provare la resistenza delle opere umane, nel purificarle e rivitalizzarle. Mentre al Sinai si ode la voce di Dio, a Gerusalemme, nella festa di Pentecoste, a parlare è Pietro, la roccia su cui Cristo ha scelto di edificare la sua Chiesa. La sua parola, debole e capace persino di rinnegare il Signore, attraversata dal fuoco dello Spirito acquista forza, diventa capace di trafiggere i cuori e di muovere alla conversione. Dio infatti sceglie ciò che nel mondo è debole per confondere i forti (cfr 1Cor 1,27).
La Chiesa nasce quindi dal fuoco dell’amore e da un “incendio” che divampa a Pentecoste e che manifesta la forza della Parola del Risorto intrisa di Spirito Santo. L’Alleanza nuova e definitiva è fondata non più su una legge scritta su tavole di pietra, ma sull’azione dello Spirito di Dio che fa nuove tutte le cose e si incide in cuori di carne.
La parola degli Apostoli si impregna dello Spirito del Risorto e diventa una parola nuova, diversa, che però si può comprendere, quasi fosse tradotta simultaneamente in tutte le lingue: infatti «ciascuno li udiva parlare nella propria lingua» (At 2,6). Si tratta del linguaggio della verità e dell’amore, che è la lingua universale: anche gli analfabeti possono capirla. Il linguaggio della verità e dell’amore lo capiscono tutti. Se tu vai con la verità del tuo cuore, con la sincerità, e vai con amore, tutti ti capiranno. Anche se non puoi parlare, ma con una carezza, che sia veritiera e amorevole.
Lo Spirito Santo non solo si manifesta mediante una sinfonia di suoni che unisce e compone armonicamente le diversità ma si presenta come il direttore d’orchestra che fa suonare le partiture delle lodi per le «grandi opere» di Dio. Lo Spirito santo è l’artefice della comunione, è l’artista della riconciliazione che sa rimuovere le barriere tra giudei e greci, tra schiavi e liberi, per farne un solo corpo. Egli edifica la comunità dei credenti armonizzando l’unità del corpo e la molteplicità delle membra. Fa crescere la Chiesa aiutandola ad andare al di là dei limiti umani, dei peccati e di qualsiasi scandalo.
La meraviglia è tanta, e qualcuno si chiede se quegli uomini siano ubriachi. Allora Pietro interviene a nome di tutti gli Apostoli e rilegge quell’evento alla luce di Gioele 3, dove si annuncia una nuova effusione dello Spirito Santo. I seguaci di Gesù non sono ubriachi, ma vivono quella che Sant’Ambrogio definisce «la sobria ebbrezza dello Spirito», che accende in mezzo al popolo di Dio la profezia attraverso sogni e visioni. Questo dono profetico non è riservato solo ad alcuni, ma a tutti coloro che invocano il nome del Signore.
D’ora innanzi, da quel momento, lo Spirito di Dio muove i cuori ad accogliere la salvezza che passa attraverso una Persona, Gesù Cristo, Colui che gli uomini hanno inchiodato al legno della croce e che Dio ha risuscitato dai morti «liberandolo dai dolori della morte (At 2,24). È Lui che ha effuso quello Spirito che orchestra la polifonia di lodi e che tutti possono ascoltare. Come diceva Benedetto XVI, «la Pentecoste è questo: Gesù, e mediante Lui Dio stesso, viene a noi e ci attira dentro di sé» (Omelia, 3 giugno 2006). Lo Spirito opera l’attrazione divina: Dio ci seduce con il suo Amore e così ci coinvolge, per muovere la storia e avviare processi attraverso i quali filtra la vita nuova. Solo lo Spirito di Dio infatti ha il potere di umanizzare e fraternizzare ogni contesto, a partire da coloro che lo accolgono.
Chiediamo al Signore di farci sperimentare una nuova Pentecoste, che dilati i nostri cuori e sintonizzi i nostri sentimenti con quelli di Cristo, così che annunciamo senza vergogna la sua parola trasformante e testimoniamo la potenza dell’amore che richiama alla vita tutto ciò che incontra.
* PAPA FRANCESCO
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 19 giugno 2019 (ripresa parziale).
PER UN NUOVO CNR ....
NOTE A MARGINE DELLA LETTERA "Al CNR la storia è una scienza? Una risposta all’intervento di Gilberto Corbellini"
1. PER LA STORIA DELLLA SCIENZA E PER LA SCIENZA DELLA STORIA, FORSE, E’ MEGLIO RI-DISCENDERE “SOTTO COVERTA DI ALCUN GRAN NAVILIO” E RIPRENDERE IL LAVORO GALILEANO DELLA CONVERSAZIONE E DELLA CONOSCENZA 29 Maggio 2019 :
2. STORIA, SCIENZA, ED ECLISSI. Da Galileo Galilei ad Albert Einstein 30 maggio 2019...
Al di là delle pretese “mitideologiche” (atee e devote) del “post-positivismo” contemporaneo (Paolo Fabbri) di dare il via a un’ epoca in cui la storia del mondo dev’essere riscritta secondo l’indicazione rosenberghiana!), ricordiamo che il 29 maggio 1919 Arthur Eddington provò sperimentalmente la teoria della relatività (cfr. : Franco Gabici, “Cento anni fa l’eclissi che diede ragione a Einstein” - https://www.avvenire.it/agora/pagine/cento-anni-fa-leclissi-che-diede-ragione-a-einstein). Buon lavoro!
3. COSTITUZIONE E CNR. UN PROBLEMA STORIOGRAFICO (SCIENTIFICO) DI LUNGA DURATA 31 Maggio 2019...
CONDIVIDO LA PREOCCUPAZIONE E, AL CONTEMPO, LA CONSAPEVOLEZZA dei firmatari della lettera. La “provocazione” - da parte di chi dirige il Dipartimento del CNR, “al cui interno operano decine di storici, storici della filosofia, giuristi e altri ricercatori nel campo delle scienze umane e sociali” - evidenzia il sintomo non tanto e non solo “di un profondo problema culturale e scientifico”, ma anche e soprattutto di un problema politico-filosofico (metafisico), costituzionale, di CRITICA della “ragion pura” (di questo parla il “principio della relatività galileiana”, condensato nel “Rinserratevi” del “Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano”)!,
DOPO GALILEI, DOPO KANT, DOPO EINSTEIN, DOPO LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA... UNA “PROVOCAZIONE” al CNR DA ACCOGLIERE!
Strana “coincidenza”, oggi!:
Prima che sia troppo tardi, che fare?! Alle studiose e alle studiose di scienze umane e sociali (del CNR e non solo), consiglierei (mi sia permesso) la ri-lettura del “Dialogo sopra i due massimi sistemi iolemaico e copernicano” di Galileo Galilei, la ri-lettura dei “Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica” di Immanuel Kant, e, infine, la rilettura dei “Principi” della Costituzione della Repubblica Italiana - e, alla luce della “ferocissima” provocazione, ri-prendere il lavoro storiografico-scientifico con più grande entusiamo e responsabilità di prima!
VIVA IL CNR,
VIVA L’ITALIA!
4. PER UN NUOVO CNR! ALL’INSEGNA DI ERMES: “IO VORREI PENSARE CON IL CERVELLO INTERO”. IN MEMORIA DI ENRICO FILIPPINI E DI MICHEL SERRES 3 Giugno 2019 ...
“[...] all’insegna di Ermes, che per me è il simbolo della scienza contemporanea”.
In che senso? “Nel senso che Mercurio, a cui ho dedicato ben cinque libri, è il dio della comunicazione. A differenza di quanto pensavano i marxisti, io ritenevo che il problema della comunicazione fosse più importante di quello della produzione, e che l’ economia stessa fosse più una questione di comunicazione che di produzione. Sono fiero di quell’ assunto, mi scusi la superbia: infatti, i paesi che hanno scommesso in questo senso, per esempio il Giappone, hanno evitato la crisi”.
Ma comunicazione che vuol dire? “All’ inizio, all’ epoca dello strutturalismo, davo del termine “struttura” un’ interpretazione algebrica, esatta. Poi, studiando il XIX secolo, la fisica ottocentesca, e cioè essenzialmente la termodinamica, finii per attribuire un ruolo centrale alla teoria dell’ informazione. In fondo, se del mio lavoro dovessi tracciare un profilo, ecco: per tutta la vita ho cercato di tenermi al corrente, da filosofo, del sapere scientifico (il che in Francia ø raro), e insieme di non dimenticare la tradizione letteraria: ho scritto su Zola e su Jules Verne. Ecco, ho cercato di tenere unite, con le due mani, la scienza e la letteratura, di passare dall’ una all’ altra. E’ quello che chiamo, nel quinto volume dedicato a Mercurio, il Passaggio a Nord-Ovest: passaggio difficile, pericoloso, tempestoso, ma passaggio. Per me la filosofia è questa alleanza. In Italia ciò dovrebbe essere comprensibile”.
In Italia c’ è stata una forte tradizione idealista e marxista. L’ interesse per la scienza tende a diventare scientismo. “Come nel mondo anglosassone. Ma il fatto è che nella letteratura c’ è spesso più rigore che nella scienza. In Tito Livio c’ è più epistemologia che in Popper. Il mio sogno è di scrivere un’ opera che compia la riconciliazione enciclopedica, proprio alla maniera di Diderot e di D’ Alembert, ma non solo nel senso storico (per cui si pensa sempre soltanto nel solco della propria tradizione), anche nel senso del concetto: quello è il campo che si percorre e che si deve percorrere. La filosofia ha perduto troppo non sapendo nulla di scienza, ma oggi che ne sa qualcosa, ha perduto la dimensione culturale. E’ come un cervello tagliato in due. Io vorrei pensare col cervello intero”.
Ora sta scrivendo qualche cosa? “Un libro sui cinque sensi, e, appunto, in una forma letteraria, anche se sono partito da un sistema rigorosamente formale. E’ un tentativo di alleanza tra le due forme di sapere, è anche il tentativo di ritrovare, come diceva Edmund Husserl, le radici profonde della cultura europea. Lei conosce La crisi delle scienze europee?”.
L’ ho tradotta in italiano da studente. Ma Husserl parlava appunto di “crisi” di quell’ idea e di quella tradizione. C’ è il problema della tecnicizzazione della scienza. E poi c’ è la difficoltà della estrema specializzazione dei settori scientifici [...]
(cfr. ENRICO FILIPPINI, “Il mio amico Mercurio”, “la Repubblica”, 15 giugno 1984: https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1984/06/15/il-mio-amico-mercurio.html).
5. STORIA E SCIENZA: “VICISTI, GALILAEE” (KEPLERO, 1611) 5 Giugno 2019.
La rotazione della Terra rimescola le acque del lago di Garda ... http://www.ansa.it/canale_scienza_tecnica/notizie/terra_poli/2019/06/05/la-rotazione-della-terra-rimescola-le-acque-del-lago-di-garda-_8cbe9d78-1459-4088-a0a4-12016cd675b9.html.
Federico La Sala
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”.... *
Un piccolo grande passo
di Roberto Mussapi (Avvenire, mercoledì 6 marzo 2019)
«Solo un piccolo passo per un uomo, ma un passo da gigante per l’umanità!». Si avvicina il cinquantenario di uno dei più grandi trionfi umani: lo sbarco sulla Luna. Mentre avveniva compivo diciassette anni: non male come regalo di compleanno.
La frase che sarebbe rimasta leggendaria di Neil Armstrong mi commosse, come commosse il mondo, ma confesso che non la compresi bene. La seconda parte chiara: evidente che quel momento siglava un passo enorme per l’umanità, che dalla sua nascita scruta e interroga il nostro satellite notturno, custode e ispiratore del sogno. Ma non comprendevo perché definire "piccolo", per un uomo, quel primo passo sulla nuova terra sognata.
Ora credo di avere capito. Per immedesimazione, mettendomi nei panni di Armstrong, come fa un attore.
La terra vista dall’alto... E la mia gamba, che piccola cosa! Il mio piedino, dopo questo viaggio nello spazio immenso... Che esserino io sono, qui nell’infinità dell’universo. Il mio passo è piccolo perché io sono piccolo. Ma io non sono solo io, io sono l’umanità. Io sono parte del coro e degli atomi di tutti gli uomini, dal primo apparso sulla terra a tutti quelli che si susseguono, in ogni parte del mondo e in ogni tempo. Il mio piccolo passo è un grande passo dell’umanità, a cui appartengo.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RIVOLUZIONE COPERNICANA. "Vicisti, Galileae" (Keplero, 1611).
UNESCO: IL 2009 ANNO INTERNAZIONALE DELL’ASTRONOMIA. Che farà l’Italia? Galileo di nuovo al confino!?!
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
LA LUCE, LA TERRA, E LA LINEA DELLA BELLEZZA: LA MENTE ACCOGLIENTE. "Note per una epistemologia genesica"
Federico La Sala
Letteratura.
Quando il Novecento riscoprì la filosofia di Giacomo Leopardi
Due volumi ripropongono gli scritti sul pensiero di Leopardi di Rensi e Tilgher, per i quali lo scrittore anticipa un approccio scettico, antidogmatico e antisistematico proprio della modernità
di Alfonso Berardinelli (Avvenire, domenica 9 settembre 2018)
Che Giacomo Leopardi sia stato non solo un grande poeta ma anche un vero filosofo, uno dei maggiori filosofi italiani, è diventato ormai un luogo comune. Filosofo soprattutto coerentemente materialista secondo alcuni, empirista secondo altri, o infine nichilista, benché eroicamente e generosamente morale nella sua compassione per la sorte infelice del genere umano, compassione che ispira solidarietà.
Oggi Leopardi sembra interessare più per i suoi eccezionali scritti in prosa, lo Zibaldone e le Operette morali, che per le sue poesie, un po’ logorate dalla routine scolastica, o meglio dal modo scolastico di leggere poesia. Il pensiero di Leopardi (non va dimenticato) è il pensiero di un giovane: quasi tutte le sue opere maggiori sono state scritte prima o appena dopo i trent’anni. Resta tuttora il più amato dei nostri poeti classici. Nelle sue pagine i giovani incontrano ciò che più li occupa e li preoccupa: l’amore e la felicità, la solitudine e la sofferenza, il senso o non senso da dare alla vita, la ricerca del piacere, il giudizio sui legami e le convenzioni sociali, l’alternanza fra illusioni e realtà, sentimento e ragione.
A proposito del pensiero di Leopardi, l’editore Nino Aragno ha appena pubblicato due eccellenti, appassionanti e lucidissimi volumetti a cura di Raoul Bruni, docente di letteratura italiana all’Università Cardinale Stefan Wyszynski di Varsavia: gli autori sono entrambi filosofi italiani della prima metà del Novecento, Giuseppe Rensi (1871-1941) e Adriano Tilgher (18871941).
L’interesse di queste pubblicazioni è duplice. Riguarda Leopardi filosofo, del tutto sottovalutato e spesso frainteso da una cultura italiana allora filosoficamente dominata dal neoidealismo liberale di Benedetto Croce e da quello fascista di Giovanni Gentile; ma riguarda anche due filosofi italiani originali e antiaccademici come Rensi e Tilgher, le cui opere sono trascurate o dimenticate forse perché trovarono nel pensiero di Leopardi un precedente fondamentale e una guida.
Secondo Rensi, già in un articolo antireligioso e anticlericale del 1906, c’era perfino da deplorare «che Leopardi sia stato troppo letterato e abbia dato alla cultura e all’opera letteraria una soverchia importanza. Se Leopardi fosse stato unicamente filosofo e avesse dedicato la sua intelligenza all’elaborazione d’un sistema, il pensiero italiano avrebbe avuto, prima e meglio di quello germanico, Schopenhauer e Nietzsche armonizzati in una costruzione unica» (Su Leopardi, pagine 109, euro 13,00).
In quegli anni Rensi, ancora socialista e nemico di ogni metafisica, loda in Leopardi il coraggio (quasi buddhistico) di riconoscere la «verità dell’infinito Nulla». Lui stesso filosofo scettico, nel 1919 Rensi, il cui pensiero aveva avuto una svolta critica nei confronti del valore universale della ragione, difende Leopardi in quanto seppe fare un uso «relativista, scettico e asistematico» del proprio illuminismo.
E se i «dogmatici contemporanei» guidati da Croce non gli riconoscono la qualità di filosofo è perché non accettano la «stilistica» del suo modo di pensare. Dunque qui Rensi rovescia i suoi precedenti dubbi su Leopardi letterato, che sarebbe invece filosofo originale e privo di pregiudizi proprio perché non scrive nel linguaggio sistematico dei filosofi di professione, non usa le loro categorie astratte, ma pensa e si esprime da poeta e da scrittore, da psicologo e moralista. Diffida di una società invadente, oppressiva e costrittiva come quella moderna, in cui gli esseri umani sono ridotti a «massa» e a forza di pensare all’«utile» si rende inutile la loro vita.
Anche per Tilgher, amico e seguace di Rensi, il pensiero critico e «risolutamente empirico» di Leopardi fa di lui «il nostro maggiore filosofo». Nel saggio La filosofia di Leopardi pubblicato nel 1940 (ora riproposto da Raoul Bruni insieme ad altri scritti, pagine180, euro 15,00) Tilgher organizza per concetti il suo commento leopardiano: si va da Piacere, Amore, Compassione, Dovere, Noia fino a Teologia Negativa, Materialismo, Storia della civiltà, Antiprogressismo, Antistoricismo.
Divenuto indifferente al cristianesimo e incerto anche nei confronti di Platone, sempre più Leopardi vede nell’idea di un Progresso «perpetuo necessario illimitato» niente altro che un’ideologia demiurgica e consolatoria che teologizza la Storia. Dice Tilgher: «Il Cristianesimo professava il Dio-Uomo; la filosofia del Progresso l’Uomo-Dio». Così l’onnipotenza veniva trasferita dal cielo in terra e messa nelle mani degli uomini, o più precisamente degli economisti e degli scienziati.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
Federico La Sala
RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, STORIOGRAFIA, E DEMOCRAZIA. LA VITTORIA DI GALILEO NON SOLO E’ SCIENTIFICA, MA è ANCHE VITTORIA TEOLOGICA E POLITICA....*
La tesi di Iliffe
Fede e numeri: il metodo di Newton laico devoto
di Stefano Gattei (Corriere della Sera, La Lettura, 12.08.2018)
Che Isaac Newton (1642-1727) fosse profondamente religioso è noto. Che avesse studiato alchimia, teologia e le profezie bibliche, e che avesse approfondito la cronologia antica, non lo è altrettanto, anche se gli studiosi lo considerano ormai un dato acquisito («la Lettura» #69 ne scrisse il 10 marzo 2013). Per anni, tuttavia, gli ammiratori dei Principia mathematica o dei lavori sul calcolo infinitesimale hanno faticato a riconciliare ambiti di ricerca così apparentemente lontani, tanto che non pochi studiosi hanno avanzato l’ipotesi che gli interessi religiosi e pseudoscientifici del grande scienziato (molti dei quali affidati a manoscritti pubblicati dopo la morte) risalissero agli ultimi anni della sua vita, costituendo quindi un sorta di prodotto «senile» del genio.
Nel suo ultimo studio sullo scienziato inglese (Priest of Nature: The Religious Worlds of Isaac Newton, Oxford University Press, 2017) Rob Iliffe mostra l’infondatezza di tale lettura. Professore a Oxford, e direttore del Newton Project, Iliffe prende ferma posizione contro quanti hanno inteso sostenere che gran parte delle ricerche newtoniane siano il residuo imbarazzante di superstizioni.
Parallelamente al racconto della vita dello scienziato, Iliffe ricostruisce come Newton abbia gestito il difficile rapporto tra la propria immagine pubblica e le sue credenze religiose, e ne esplora gli scritti meno noti, soffermandosi sulle idee in tema di creazione del mondo e di Apocalisse, e analizzando la sua tesi che le dottrine centrali del cristianesimo (in particolare sulla Trinità) non fossero che mostruosa idolatria, perversioni sataniche della vera religione.
Agli occhi di Iliffe, non solo le convinzioni religiose di Newton permeano le sue prime ricerche scientifiche, ma le tecniche da lui impiegate per smascherare la corruzione della dottrina cristiana delle origini sono simili a quelle utilizzate per confutare le tesi degli avversari in ambito scientifico. Per Iliffe, Newton è stato un laico devoto che ha messo al centro della propria riflessione la libertà e l’indipendenza del pensiero.
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
MATEMATICA E ANTROPOLOGIA, ALTRO CHE MISTERO.
LA VIA DI KANT: USCIRE DAL MONDO, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI "DIO", CONCEPITO COME L’“UOMO SUPREMO”! La “Prefazione” della “Storia universale della natura e teoria del cielo”. Note per una rilettura
L’ARCHIVIO DEGLI ERRORI: L’ "IO SONO" DI KANT E L’ "IO SONO" DELL’"UOMO SUPREMO" DEI "VISONARI" DELLA TEOLOGIA POLITICA ATEA E DEVOTA. Note per una rilettura della "Critica della Ragion pura" (e non solo)
Federico La Sala
COSMOLOGIA E ANTROPOLOGIA. IL CIELO STELLATO .... *
Oggi le stelle cadenti, viaggio dall’antica Grecia al cristianesimo
La notte di San Lorenzo e l’ascesi dello sguardo
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 10.08.2018)
Nel mondo cristiano la notte delle stelle cadenti è una festa della luce e una celebrazione dello sguardo. In Grecia, e in genere nel calendario ortodosso, è associata alla contigua festa della Metamorphosis, ossia della Trasfigurazione, quando Cristo sul Tabor appare ai discepoli in una mandorla accecante di luce.
Un’esortazione, nell’esegesi teologica bizantina e poi russa, alla metamorfosi dello sguardo, all’esercizio di quella capacità di percepire la struttura spirituale delle cose, di intravedere, come ha scritto Pavel Florenskij, «tra le crepe del mondo sensibile l’azzurro dell’eternità», che in altre tradizioni mistiche, come quella buddista, è chiamato appunto "retto sguardo".
Mea nox obscurum non habet, sed omnia in luce clarescunt, recitano, in metrica classica, i Vespri della liturgia di San Lorenzo: «La mia notte non ha oscurità, ma tutto nella luce diventa chiaro». Quello di Lorenzo, uno dei sette diaconi martirizzati a Roma nel Terzo secolo, secondo la leggenda agiografica è il sacrificio dei sacrifici: oltre ai tratti dell’olocausto pagano (Lorenzo fu "cotto", arso vivo sul fuoco come un’antica hostia animale) conserva anche, nella tradizione cristiana, un elemento cannibalesco, come ricorda la frase che secondo il De Officiis di Ambrogio pronunciò durante il supplizio: Assum est. Versa et manduca, «Questa parte è cotta. Gira e mangia».
Secondo la tradizione popolare sono le lacrime di san Lorenzo, o le scintille di fuoco sprigionate in alto dalla graticola, le scie luminose dello sciame meteorico più visibile dell’anno, che la Terra nella sua rivoluzione si trova ad attraversare tra la fine di luglio e la seconda metà di agosto, con un picco di visibilità concentrato, appunto, questa notte. In età più antica questa pioggia di luci è stata interpretata anche altrimenti. I romani le ritenevano spruzzi di bianco sperma del dio Priapo, sparsi a inseminare i campi, associati quindi alla grande festa della divinità femminile fecondatrice della terra che cade tra pochi giorni, il 15 agosto.
Il radiante della pioggia meteorica, ossia il punto dal quale sembrano provenire tutte le scie, è nella costellazione di Perseo. Per questo le stelle cadenti si chiamano Perseidi, richiamando il mito antico della decapitazione della Gorgone Medusa, il cui sguardo fisso nel nostro ci impedisce di guardare rettamente il mondo, ci pietrifica e ci inocula la morte negli occhi, secondo la definizione di Jean-Pierre Vernant. Anche nel mito greco cui gli astronomi ottocenteschi associano queste particelle siderali, rilasciate da un’antica cometa durante le sue passate orbite, si celebra dunque la liberazione dello sguardo.
Che si tratti di Ulisse o del pastore errante nell’Asia, del salmista o di Elia rapito sul carro, da sempre lo sguardo umano si è diretto al cielo. Se è nell’immenso ricamo astrale che ogni sapienza antica riconosce il disegno dei suoi eventi sacri, è nel cielo stellato sopra di sé che i navigatori dei mari o dei deserti, gli ispirati o i mistici trovano la propria rotta nel mondo esteriore così come il retto orientamento interiore.
Se è alla vertigine cosmica che il filosofo affida la sua visione del mondo, se oggi le luci delle città oscurano il cielo, se la scienza moderna ci insegna che è di stelle morte anche da migliaia e migliaia di anni la luce che arriva allo sguardo dei terrestri, è ancora più necessario, una volta l’anno, rivolgerlo a questo universale, letterale simbolo di caducità. Come scriveva Pascoli: «E tu, Cielo, dall’alto dei mondi / sereni, infinito, immortale,/ oh! d’un pianto di stelle lo inondi /quest’atomo opaco del Male».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
Federico La Sala
Scoperto su Marte un lago sotterraneo di acqua salata
L’ANNUNCIO IN DIRETTA
Con un radar italiano, ha tutti i requisiti per la vita
di Enrica Battifoglia *
[Foto] Rappresentazione artistica della missione Mars Express nell’orbita di Marte (fonte: Orosei et al.) © ANSA
A un chilometro e mezzo sotto i ghiacci del Polo Sud di Marte c’è un grande lago di acqua liquida e salata: lo ha scoperto il radar italiano Marsis della sonda Mars Express. Pubblicata su Science, la scoperta è stata presentata da Agenzia Spaziale Italiana (Asi), Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf), università Roma Tre, Sapienza e Gabriele d’Annunzio (Pescara), Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr).
Ha tutti i requisiti per ospitare la vita, il grande lago sotterraneo scoperto su Marte dai ricercatori italiani che hanno utilizzato i dati del radar Marsis, a bordo della sonda europea Mars Express. Esiste da molto tempo, ha acqua liquida, sali ed è protetto dai raggi cosmici: questi, dicono gli autori della ricerca, sono elementi che potrebbero far pensare anche a una nicchia biologica.
La scoperta di un lago di acqua liquida nel sottosuolo di Marte "è una delle più importanti degli ultimi anni": lo ha detto il presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana (Asi), Roberto Battiston. "Sono decenni che il sistema spaziale italiano è impegnato nelle ricerche su Marte insieme a Esa e Nasa. I risultati di Marsis - ha rilevato Battiston - confermano l’eccellenza dei nostri scienziati e della nostra tecnologia e sono un’ulteriore riprova dell’importanza della missione europea a leadership italiana ExoMars, che nel 2020 arriverà sul pianeta rosso alla ricerca di tracce di vita"
Rappresentazione artistica della sonda Mars Express nell’orbita di Marte e della traccia radar che indica la presenza di acqua nel sottosuolo del pianeta (fonte: Orosei et al.)
Ad individuare il lago, stabile da molto tempo, con un diametro di 20 chilometri e una forma vagamente triangolare, è stato il radar Marsis (Mars Advanced Radar for Subsurface and Ionosphere Sounding), attivo dal 2005 a bordo sulla sonda Mars Express, dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa). Come il radar Marsis, ideato da Giovanni Picardi dell’università Sapienza di Roma e costruito dalla Thales Alenia Space (Thales-Leonardo), sono italiani tutti gli autori della ricerca.
Rappresentazione grafica dell’acqua nel sottosuolo di Marte (fonte: ESA (fonte: ESA )
A presentare i risultati sono il responsabile scientifico del radar Marsis Roberto Orosei, dell’Istituto di Radioastronomia di Bologna dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) e primo autore della ricerca, Enrico Flamini, docente di Planetologia presso l’Università di Chieti-Pescara e responsabile di progetto dell’esperimento Marsis per l’Asi, Elena Pettinelli, responsabile del laboratorio di Fisica Applicata alla Terra e ai Pianeti dell’Università Roma Tre, co-investigator di Marsis. Arriva finalmente la risposta alla domanda che dal 1976 avevano sollevato le missioni Viking della Nasa: i loro dati indicavano con chiarezza che in passato Marte aveva avuto laghi, fiumi e mari, ma finora non si sapeva che fine avesse fatto tutta quell’acqua.
"C’è stato un tempo in cui Marte era abitabile, con un clima simile alla Terra, ma nel tempo il pianeta ha perso la sua atmosfera e con essa l’effetto serra che riscaldava, e di conseguenza l’acqua è ghiacciata e poi è scomparsa. Restavano i segni lasciati dalla presenza dell’acqua, ma restava da capire dove fosse finita e capire dove andare a cercarla", ha detto Orosei, dell’Istituto di Radioastronomia di Bologna dell’Inaf. Il lago, buio e salato, è probabilmente profondo qualche metro e si trova nella regione di Marte chiamata Planum Australe, nel Polo Sud del pianeta. "E’ la prima evidenza che c’è acqua liquida su Marte, in un lago subglaciale", ha detto Flamini. "E’ una notizia - ha aggiunto - che si aspettava da 30 o 40 anni". I dati raccolti dal radar Marsis fra maggio 2012 e dicembre 2015 mostrano che si tratta di una massa d’acqua stabile. Il grande lago buio e salato del Polo Sud potrebbe non essere l’unico: secondo i ricercatori potrebbero essercene altri e, adesso che sanno come cercarli, continueranno a farlo.
* ANSA, 25 luglio 2018 16:31 (ripresa parziale, senza immagini).
LE ILLUSIONI DEL "CERCHIO INCANTATO" E ... LA "TEOLOGIA" DELL’ELLISSE (DEI "DUE SOLI") *
Johannes Keplero
Com’è armonico il mondo
Cade quest’anno l’anniversario della scoperta della terza legge dei moti planetari. Ma il senso delle sue opere era proclamare la gloria di Dio studiando la natura
di Franco Giudice (Il Sole-24 Ore, Domenica, 22.07.2018)
I libri, si sa, vanno quasi sempre incontro a un destino che si cura assai poco delle intenzioni di chi li ha scritti. Una volta pubblicati, prendono la loro strada e finiscono irrimediabilmente in balìa dei lettori, che se ne appropriano spesso in modo selettivo. Non stupisce quindi che l’Harmonice mundi (1619) di Johannes Keplero sia oggi ricordata soltanto perché vi si trova esposta la terza legge dei moti planetari, di cui proprio quest’anno ricorre il quarto centenario della sua scoperta, avvenuta il 15 maggio 1618. Esattamente come la sua opera precedente, l’Astronomia nova (1609), è nota per l’enunciazione delle prime due leggi, quelle cioè che stabiliscono che i pianeti si muovono lungo orbite ellittiche e che con i loro raggi condotti verso il Sole descrivono aree uguali in tempi uguali.
Sembra insomma che il senso e il valore delle opere di Keplero siano compendiati nelle tre leggi che portano il suo nome e che tutti abbiamo imparato a scuola. Come se fosse irrilevante che il loro autore le avesse invece originariamente concepite per altre e ben più elevate ragioni: proclamare la gloria di Dio attraverso lo studio della natura.
Un destino un po’ beffardo, non c’è che dire. Ma di cui forse Keplero non si sarebbe rammaricato più di tanto, poiché da buon protestante, che da giovane voleva diventare un pastore luterano, lo avrebbe interpretato come l’esito del disegno imperscrutabile della volontà divina.
Sono tuttavia convinto che una lettura così riduttiva delle sue opere, oltre a essere decisamente anacronistica, ne trascuri l’imprescindibile retroterra spirituale. Ma questo dipende anche, e soprattutto, dal diverso punto di vista che distingue lo storico della scienza dallo scienziato di professione.
Se è vero infatti che Keplero fu uno degli astronomi più dotati che la storia abbia mai conosciuto, lo è altrettanto che a guidare gli sviluppi delle sue ricerche fu sempre una profonda devozione religiosa. Che emerge fin dal Mysterium cosmographicum (1596), la sua prima pubblicazione, dove dimostrava con estrema audacia come la necessità del sistema copernicano scaturisse direttamente da Dio, che aveva creato l’universo attraverso l’armonia dei cinque solidi regolari della geometria euclidea. E che prorompe come un’esigenza insopprimibile anche dalle pagine dell’Harmonice mundi che annunciano la scoperta della terza legge dei moti planetari.
Era appunto il 15 maggio 1618. Un giorno memorabile per Keplero, che stava finendo di scrivere il libro, gran parte del quale era già in corso di stampa. Aveva aspettato questo momento per ben ventidue anni, e ora un’illuminazione improvvisa dissolveva le tenebre dalla sua mente, facendogli perfino temere di essere vittima di un sogno. Ma non c’erano dubbi: «È cosa certissima ed esattissima che il rapporto che esiste tra i tempi periodici di due pianeti qualsiasi è precisamente nel rapporto della potenza 3/2 delle loro distanze medie». Ovvero, nella formulazione più usuale, il rapporto tra i quadrati del periodo di rivoluzione di due pianeti è uguale a quello tra i cubi della loro distanza media dal Sole.
La scoperta della relazione tra le distanze e i periodi dei pianeti si era dunque rivelata a Keplero proprio mentre stava ultimando l’opera che considerava il culmine della sua carriera scientifica. Un fatto che lo aveva letteralmente mandato in estasi, in preda a un «sacro furore», al punto che non gli importava se a leggerla sarebbero stati i suoi contemporanei o i posteri. Poteva benissimo aspettare cent’anni i suoi lettori, «se Dio stesso aveva atteso seimila anni il Suo contemplatore».
Eppure, per quanto strano possa sembrare, soprattutto di fronte ad affermazioni così entusiastiche, questa legge non gioca affatto un ruolo centrale nell’astronomia dell’Harmonice mundi. Per Keplero, quella che noi chiamiamo «terza legge» - ma che lui, al pari delle altre due, non definì mai in tali termini, né tanto meno le diede alcuna numerazione - esprimeva semplicemente uno dei tanti rapporti celesti riscontrabili nell’armonia dell’universo. Un’armonia inoltre che rispecchiava i principi della consonanza musicale, che indicava lo stretto legame tra Dio e la sua creazione, e che si poteva scorgere in ogni parte del cosmo. Un’armonia infine che si trovava impressa come un archetipo negli esseri umani, i quali, essendo plasmati a immagine di Dio, erano quindi in grado di apprezzarla, anche se ignoravano le proporzioni geometriche da cui essa discendeva.
L’idea di scrivere sull’armonia universale risaliva al 1599. A incoraggiare Keplero nell’impresa aveva contribuito anche la recente lettura dell’Armonica dell’astronomo alessandrino Tolomeo, che confermava la sua convinzione che il cosmo fosse governato da un’armonia musicale. Ai suoi occhi, tutto ciò non poteva essere soltanto un caso: se la segreta natura dell’universo si andava rivelando a due uomini separati da una distanza di quindici secoli, voleva dire che «c’era il dito di Dio». Può darsi. Sta di fatto che durante i vent’anni in cui Keplero inseguì il suo progetto, la vita gli aveva fornito ben pochi segni di una divinità armonica e benevola.
Certo, i dieci anni trascorsi a Praga, dove nel 1601 era succeduto al grande astronomo danese Tycho Brahe nel ruolo di matematico dell’imperatore Rodolfo II, furono alquanto sereni e tra i più fecondi della sua attività scientifica, facendogli ottenere importantissimi risultati nel campo dell’astronomia e dell’ottica. Ma prima e dopo, era stato tutto un susseguirsi di incredibili tragedie personali e professionali. Il 1599, proprio l’anno in cui concepì l’idea dell’Harmonice mundi, coincise con la prematura scomparsa della sua secondogenita, che aveva soltanto trentacinque giorni. Nel 1611, quando la situazione politico-religiosa a Praga lo aveva costretto a trasferirsi a Linz, aveva assistito impotente alla morte di un altro suo figlio e della prima moglie Barbara. Tra il 1617 e il 1618, in poco meno di sei mesi, aveva perso i due bambini avuti dalla seconda moglie Susanna. Come se non bastasse, nel 1615 la madre Katharina era stata accusata di stregoneria e Keplero dovette assumerne la difesa legale per i successivi sei anni.
L’Harmonice mundi fu completata il 27 maggio 1618, dodici giorni dopo la scoperta della terza legge. La sua famiglia era stata letteralmente decimata e il mondo che lo circondava stava precipitando nel disordine. Ma da uomo dalla fede incrollabile, Keplero vedeva nell’armonia celeste la più alta manifestazione della saggezza di Dio. E dedicava l’opera a Giacomo I Stuart, nella speranza che il sovrano che aveva riunito le tre corone d’Inghilterra, Scozia e Irlanda, potesse usare gli esempi della gloriosa armonia di cui Dio aveva dotato la sua creazione per portare altrettanta armonia e pace tra le chiese divise. Si trattava però di una pia illusione: soltanto quattro giorni prima, il 23 maggio 1618, la rivolta boema con la celebre defenestrazione di Praga segnava l’inizio della guerra dei Trent’anni, una delle più lunghe e sanguinose della storia europea.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
PIAZZA SAN PIETRO: LA "TEOLOGIA" DELL’ELLISSE (DEI "DUE SOLI") E LE ILLUSIONI DELLA "TEOLOGIA" DEL "CERCHIO INCANTATO" (DELLA SCOLASTICA "CATTOLICA" E DELLA "SAPIENZA" RATZINGERIANA). IL DARSI DELLE COSE: LA LEZIONE DI HUSSERL.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
il gran teatro del cielo
L’eclissi di Luna più lunga del secolo: ecco come osservarla al meglio
di Leopoldo Benacchio *
Fra un mese circa, nella notte tra il 27 e 28 luglio, il gran teatro del cielo ci regalerà uno spettacolo affascinante. Avremo infatti un’eclissi di Luna che, nuvole permettendo, sarà uno spettacolo particolare e affascinante. In Italia inizierà verso le 19:30 e durerà fino a oltre le 2:00 del giorno seguente; la fase di totalità, in genere la più bella, si avrà attorno alle 22:21. Chiariamo subito che le eclissi di Luna non sono certo un fatto eccezionale: quest’anno ne è già avvenuta una il 31 gennaio scorso, ma la particolarità di questa è che sarà molto lunga in termini di tempo: la fase di totalità durerà circa un’ora e 43 minuti, un 40 minuti in più della media. Sarà anche l’eclissi più lunga da qui al 2100, un piccolo record da non perdere.
Ricordiamo che un’eclissi di Luna si ha quando la nostra Terra si mette in mezzo fra il Sole e la Luna stessa, oscurandola. Il nostro satellite infatti non emette luce propria, ma riflette piuttosto bene quella solare. Per avere un’eclissi occorre anche che Sole, Terra e Luna siano sullo stesso piano, cosa che può capitare solo un paio di volte all’anno: la Luna infatti ha un’orbita inclinata attorno alla Terra e noi attorno al Sole. Altrimenti avremmo una eclissi ogni mese.
Che cosa vedremo quindi il 27 luglio prossimo, a partire dalle 19.30? Sdraiati sulla spiaggia o in montagna o anche, molto semplicemente, a casa nostra - però da un posto non troppo luminoso - vedremo la Luna che, man mano, si offusca entrando nella penombra e poi lentamente si avvicinerà alla totalità, verso le 22.20, assumendo un colore più o meno rossastro. L’uscita dalla totalità è simile all’entrata, il nostro satellite riprenderà il suo colore bianco splendente e il fenomeno sarà terminato.
Come mai, ci si potrebbe chiedere, se la Terra si interpone fra Sole e Luna, si vede il nostro satellite anche durante la fase di totalità? L’apparenza data dalla tenue luce rossastra durante il culmine del fenomeno è dovuta al fatto che il nostro Pianeta copre sì completamente il disco lunare, ma anche diffonde nello spazio la luce solare che lo colpisce, grazie anche al filtro della nostra atmosfera. Il colore di questa luce va dal bianco latte a un grigio più cinereo fino a volte al rosso tenue, per un effetto fisico che è quello scoperto dai fisici inglese Raleigh e Jeans circa 120 anni fa. La polvere presente nell’atmosfera infatti assorbe la luce solare e la emette di nuovo nelle frequenze del rosso.
L’ultima cosa che ci resta capire è come mai l’eclissi, questa volta, sia così lunga. Dobbiamo fare mente locale sul fatto che la Luna gira intorno alla Terra, d’accordo, ma non in un’orbita proprio circolare, bensì un po’ ellittica. Per questo motivo la distanza Terra-Luna varia tra i 363.104 chilometri e i 405.696: il primo punto è chiamato perigeo - più vicino alla Terra, in greco antico - l’altro apogeo. Il 27 luglio prossimo sarà proprio all’apogeo, nel punto più lontano, e quindi, per le leggi scoperte dal grande astronomo Giovanni Keplero nel 1600, la Luna deve percorrere la sua orbita un po’ più lentamente nel cielo: ecco quindi che il fenomeno ci metterà un bel 40 minuti in più della media, stabilendo il record del secolo.
Resta da dare un suggerimento importante: osserviamo bene la Luna, come fece a suo tempo il grande Galilei. Proprio così, anche se può sembrare strano, ma Galilei usò per le prime osservazioni lunari un cannocchiale, “cannone” lo chiamava nel senso di grande canna, che oggi non esiteremmo a definire di pessima qualità, data la primitiva tecnologia di costruzione delle lenti ottiche a quei tempi. Comunque il primo da lui usato aveva solo 3 ingrandimenti, come un cannocchiale da teatro che molti di noi hanno in casa. Eppure la scoperta del vero “volto della Luna” che fece cambiò la storia dell’umanità.
Se poi in casa c’è un appassionato di montagna o di mare che abbia un cannocchiale con caratteristiche tipo 7x50, allora userà qualcosa di molto simile al secondo cannocchiale usato da Galilei, che con questi due riuscì nell’inverno del 1609 a capire, come lui stesso scrisse nel “Sidereus Nuncius”, il messaggero delle stelle, che «la superficie della Luna non è affatto liscia, uniforme e di sfericità esattissima, come di essa e degli altri corpi celesti una numerosa schiera di filosofi riteneva, ma al contrario, disuguale, scabra, ripiena di cavità e di sporgenze, non altrimenti che la faccia stessa della Terra ...».
Un consiglio quindi: non aspettiamo l’eclissi del 27 luglio per guardare la Luna, osserviamola ogni sera nel prossimo mese per un attimo, da soli o in compagnia, magari dei figli. Basta un attimo ogni sera per vedere come cambia e come è sempre mutevolmente affascinante.
* Il Sole-24 Ore, 07 luglio 2018 - ripresa parziale.
USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. La Fenomenologia dello Spirito di Alexandre Kojève ... *
Ai tempi della fisica quantistica che bisogno c’è di un Assoluto?
Per la prima volta in italiano il testo sul “determinismo” che Kojève scrisse negli Anni 30 un geniale tuffo ermeneutico nell’universo paradossale teorizzato dalla scienza moderna
di Marco Filoni (La Stampa, TuttoLibri, 16.06.2018)
Il destino dei filosofi è spesso segnato: studio, libri, una pensosa solitudine. Vite di un’umile classicità conferita dal tempo. E poi ci sono le illustri eccezioni: esistenze svolazzanti e sinuose, sottratte dal dominio del normale. Come nel caso di Alexandre Kojève.
La sua fu una vita in quattro atti. Il primo, a Mosca, dove era nato nel 1902 da una ricca famiglia di commercianti (era nipote del pittore Kandinskji), e da dove fuggì dopo la Rivoluzione bolscevica perché altrimenti sarebbe stato fucilato almeno tre volte - e ci andò vicino, a soli quindici anni, sorpreso a vendere bigiotteria al mercato nero: rischiava il plotone d’esecuzione, ma fu liberato dopo una notte in cella soltanto perché lo zio era il medico personale di Lenin.
Secondo atto: la Germania, dove studiò a Berlino e a Heidelberg, addottorandosi con Karl Jaspers.
Poi Parigi, il terzo atto: qui negli anni Trenta diede una lettura vertiginosamente faziosa - e altrettanto geniale - di Hegel, salendo sul trono di «maestro» per un’intera generazione di intellettuali (da Queneau a Bataille, da Lacan a Raymond Aron, e poi Merleau-Ponty, Roger Caillois, Henry Corbin, Hannah Arendt e molti altri ancora).
Infine l’atto finale: dopo la guerra, quando tutti si aspettavano di vederlo tornare in cattedra, lui con nonchalance andò a fare l’alto funzionario del Ministero per gli Affari Esteri francese, dove passò felicemente gli ultimi vent’anni della sua vita fra l’élite della diplomazia mondiale e dell’alta finanza - che, secondo lui, avevano sostituito la vecchia aristocrazia.
Eppure non abbandonò mai lo studio e scrisse un’impressionante quantità di opere rimaste perlopiù inedite. Fra queste ve ne è una, scritta in Francia nel 1932, che vede finalmente la luce in italiano grazie all’editore Adelphi. Si intitola L’idea di determinismo nella fisica classica e nella fisica moderna (traduzione di Sofia Moreno), ed è curata da Mauro Sellitto che firma un’interessante e precisa postfazione. Il tema è decisamente insolito per un filosofo «classico», ma quando si tratta di Kojève non ci si dovrebbe stupire di nulla.
Chissà se Einstein quando affermava che «l’intera scienza non è che un affinamento del pensiero quotidiano» aveva coscienza che, all’epoca, fosse vero anche il contrario. Ecco infatti Kojève, nell’aprile del ’29, assistere alla conferenza di Enrico Fermi dedicata alla teoria dei quanti, e poi annotare nei suoi quaderni di appunti: il mio tema.
Da qui nascono queste pagine: Kojève si confronta con la questione del determinismo - banalizzando: l’idea sottesa che l’accadere degli eventi non sia semplicemente accidentale - tornata vigorosamente al centro della discussione con la teoria dei quanti. Ha ragione Sellitto quando scrive che il libro ci offre l’opportunità di vedere all’opera una delle menti più brillanti del Novecento alle prese con la meccanica quantistica - considerando, inoltre, che molte delle interpretazioni di oggi traggono origine proprio da quel dibattito e che, nonostante sia passato circa un secolo, i problemi sono rimasti fondamentalmente immutati.
Prendiamo ancora Einstein: per lui la meccanica quantistica era filosoficamente inaccettabile. Pur avendo contribuito alla sua nascita, la criticò dal punto di vista concettuale: era inconcepibile che una teoria fisica potesse essere valida e completa pur descrivendo una realtà in cui esistono mere probabilità di osservazione. Seguendo l’autorevole dichiarazione di Henri Poincaré, insomma, la scienza «era determinista o non era affatto».
Kojève non è d’accordo. Il filosofo intravede una nuova idea di determinismo nata con le scoperte della teoria dei quanti, e cerca di dimostrare che non vi sono «ragioni filosofiche a priori che possano obbligarci a rigettare o accettare queste nuove teorie». Per questo critica l’idea classica di determinismo, poiché l’ipotesi dei quanti dimostra l’inaccettabilità del postulato di universalità e di verificabilità sperimentale della causalità classica, che fino ad allora permetteva previsioni esatte sempre più numerose rispetto ai fenomeni reali e fisici.
Kojève è fra i primi pensatori a comprendere la portata delle mutazioni che le scoperte di allora implicavano sulle nozioni di fenomeno, oggetto, esperienza, conoscenza. E lo fa con una radicale messa in questione del determinismo causale esatto, riassunto nel celebre passaggio di Laplace nel quale è evocata l’idea di un osservatore universale onnisciente.
Secondo il filosofo, la teoria dei quanti conduce necessariamente a una concezione indeterminista del reale: viene quindi a cadere l’esigenza di un Assoluto che abbia una funzione nel mondo reale. E aggiunge, quasi a margine, che la nuova fisica moderna implica un ateismo di fondo. Come a dire: se c’è chi cercava la fisica di Dio, io Kojève con questo testo ho scovato la fisica dell’ateismo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
ETICA DELL’ATEISMO?! AL DI LA’ DEI FONDAMENTALISMI LAICI E RELIGIOSI: UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Versi e scienze
Una Teogonia moderna: l’astrofisica
di Guido Tonelli (Corriere della Sera, La Lettura, 18.03.2018)
Ben prima che la seconda ondata di Sapiens, i nuovi migranti, arrivassero dall’Africa, i Neanderthal, frutto evolutivo di una migrazione più antica, già 50-70 mila anni fa popolavano molte zone dell’Europa. Organizzati in piccoli clan di una dozzina di individui, abitavano anfratti che oggi ci restituiscono prove inequivocabili di un complesso universo simbolico. Pareti affrescate con simboli e disegni di animali, cadaveri sepolti in posizione fetale, ossa e grandi stalattiti disposte in cerchi rituali. Sono innumerevoli le testimonianze di una civiltà che aveva, con tutta probabilità, un linguaggio sofisticato che non conosceremo mai.
Ed ecco che immagino il racconto delle origini del mondo che riecheggia già in quelle caverne, alla luce fioca delle fiaccole, con gli anziani che tramandano ai piccoli, potenza della parola e magia della memoria, l’eco di un mondo che sovrasta la realtà quotidiana, da cui tutto ha preso forma.
Occorrerà attendere migliaia di generazioni prima che Esiodo, o chi per lui, con la Teogonia, ci lasci la prima testimonianza scritta di questo legame fra poesia e cosmologia.
Quel grande racconto delle origini continua oggi con la scienza moderna. Le equazioni che usiamo non hanno la potenza evocativa del linguaggio poetico, ma i concetti della moderna cosmologia, un universo che nasce da una fluttuazione del vuoto o l’inflazione cosmica, ci lasciano ancora senza fiato, come accadeva ai nostri progenitori.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
LA LUCE, LA TERRA, E LA LINEA DELLA BELLEZZA: LA MENTE ACCOGLIENTE. "Note per una epistemologia genesica"
USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”... *
Gli inediti che Nietzsche non si sentì di pubblicare
di Federico Vercellone (La Stampa, 30.11.2017)
Le eredità culturali sono un lascito molto più pesante di quanto forse, a prima vista, verrebbe da pensare. La relazione con il passato, come ben sappiamo, è determinata da una scelta tra memoria e oblio, tra ciò che va ricordato e quanto invece si può dimenticare senza troppo danno o addirittura con vantaggio. Il passato non sta lì, una volta per sempre, come qualcosa di irrevocabile, bensì come ciò che con sforzo ricostruiamo per e nella coscienza del presente. In questo contesto si propone anche la relazione rinnovata che viene fornita dalle edizioni critiche avviate nella seconda meta del secolo scorso dei grandi classici del pensiero filosofico tedesco dell’800: vere e proprie rivisitazioni di un autore, come testimoniano anche le Opere complete di Nietzsche. Lo dimostra egregiamente l’Introduzione a Nietzsche di Carlo Gentili, uno dei massimi specialisti contemporanei del filosofo, comparsa recentemente presso il Mulino.
Siamo stati abituati a vedere in Nietzsche un autore prometeico che propone al centro del suo pensiero concetti paradossali come quelli di Volontà di potenza, Eterno ritorno e Superuomo. Martin Heidegger era arrivato addirittura ad affermare che tutta l’opera edita di Nietzsche non costituiva altro che l’antiporta del suo pensiero consegnato, nel nucleo fondamentale, alla silloge postuma La volontà di potenza.
Gentili rammenta molto opportunamente che questi inediti, risalenti all’ultima fase della vita cosciente del filosofo, non a caso non furono pubblicati da Nietzsche. Si tratta di esperimenti in cui si affacciano prepotentemente concetti come quelli di Superuomo e di Volontà di potenza che hanno molto meno peso negli scritti pubblicati da Nietzsche stesso. Ciò significa che si tratta di tentativi di cui il loro stesso autore non era pienamente convinto.
A questa luce è la stessa immagine del pensiero di Nietzsche a modificarsi profondamente. Non abbiamo più a che fare con l’outsider che sovverte gli ordinamenti stabiliti, ma con un grande classico del pensiero che ben si inserisce nella tradizione filosofica con una cifra scettica e neokantiana che lo rende un geniale anticipatore delle grandi filosofie della crisi di inizio Novecento.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"Kant, sapeva - come e più di Nietzsche - che bisogna perdere“la fede in Dio, nella libertà e nell’immortalità [...] come si perdono i primi denti”, scendere all’Averno (come scrive Kant) o, che è lo stesso, all’inferno (...) Molti filosofi sono andati all’inferno, ma non ne sono più usciti; qualcuno è riuscito a venirne fuori, ma non sa nemmeno come e perché, e si illude e sogna ancora, alla Swedenborg (...)".
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Mappare l’universo per resistere al nulla
di Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 27.11.2017)
Come nasce una nuova teoria scientifica? In che modo si sviluppa e si diffonde fino a essere accolta dalla comunità scientifica anche quando scardina certezze e visioni consolidate del mondo? Sono questi gli interrogativi a cui vuole rispondere l’astrofisica e cosmologa Priyamvada Natarajan, nel saggio L’esplorazione dell’universo (Bollati Boringhieri). Lo fa, avverte, partendo da due osservazioni: la prima è che la più antica tra le discipline scientifiche, la cosmologia, dà forma alla nostra idea del mondo e del posto che occupiamo nell’Universo; la seconda è che, come ogni attività umana, la scienza «non è priva di soggettività», pertanto è soggetta a errori, pregiudizi, ambizioni personali, amicizie e inimicizie.
Richard Feynman, Nobel per la fisica nel 1965, affermava che ogni grande scoperta scientifica «comporta sempre una sorpresa filosofica» e per Priyamvada Natarajan questo è vero soprattutto per la cosmologia e le sue scoperte. In poche migliaia di anni, siamo passati dal credere che il mondo poggi su una tartaruga che a sua volta poggia su un’altra tartaruga, e così via all’infinito, a un progetto di mappatura dell’Universo, cui partecipa Priyamvada Natarajan insieme a scienziati di tutto il mondo, allo scopo di «mappare la materia oscura con un livello di accuratezza mai raggiunto prima». Come ci siamo arrivati?
Il prezzo da pagare ogni qualvolta la scienza cambia la mappa del cosmo e, di conseguenza, la collocazione e il senso della presenza dell’essere umano nel mondo, è molto alto in termini filosofici e psicologici.
Riferendosi al carattere dell’Età Moderna, ad esempio, Sigmund Freud riteneva che fosse il risultato di tre ferite narcisistiche. La prima, è stata la perdita della centralità e immobilità della Terra, intuita da Copernico e confermata da Galileo, dopo quattordici secoli in cui aveva dominato la visione tolemaica con la Terra immobile al centro dell’Universo; fu un tale rivolgimento che da allora l’espressione rivoluzione copernicana definisce, anche nel linguaggio comune, un cambiamento irreversibile e radicale di un sistema consolidato e immutabile. Della seconda ferita, dice Freud, è responsabile Charles Darwin, il quale ci ha spodestati dal vertice della creazione scoprendo che siamo solo una specie tra molte altre (benché, va detto, veramente molto in gamba). Della terza ferita Freud, con autostima invidiabile e non infondata, si riteneva personalmente responsabile poiché la sua scoperta delle pulsioni e del loro ruolo sulla mente ce ne aveva sottratto il pieno controllo.
Seguendo il lungo cammino di alcune idee rivoluzionarie dal primo emergere per la straordinaria immaginazione di un singolo scienziato, al riconoscimento generale, Priyamvada Natarajan racconta una storia in cui tra intuizioni geniali, lavoro collettivo, persecuzioni, entusiasmi, gelosie e trionfi, oltre alle tappe del progresso scientifico emergono gli effetti della dimensione emotiva, psicologica, personale e sociale sulla «pura ricerca intellettuale della conoscenza».
I grandi cambiamenti di paradigma e i conseguenti quesiti esistenziali, sono riferiti dall’autrice naturalmente con grande competenza scientifica - Natarajan, tra l’altro, insegna astronomia e fisica alla Yale University ed è esperta sul tema della formazione dei buchi neri supermassicci - ma anche con un’evidente sensibilità per gli aspetti umani delle diverse vicende. Sappiamo, così, quanto sia stato, e sia sempre difficile per chi ha un’idea nuova o compie una nuova scoperta ammetterla, quando comporta un cambiamento radicale di una visione consolidata. E come il peso delle passioni umane, talvolta nobili talaltra meschine, sia stato, e sia fondamentale nel facilitare o ostacolare il riconoscimento di nuove teorie o osservazioni.
Ad esempio, Edwin Hubble fu il primo a scoprire che le galassie si allontanano a velocità crescente più sono lontane ma faticò molto ad accettare l’idea, conseguente dalla sua stessa scoperta, di un Universo in espansione. L’idea, in verità, riferisce Natarajan, fu esposta molto tempo prima e da un personaggio insospettabile, lo scrittore Edgar Allan Poe, in una conferenza nel 1848, che non riscosse alcun successo, intitolata Sulla cosmogonia dell’universo, in cui descriveva la sua personale convinzione che l’Universo sia in costante movimento ed evoluzione. Anche Albert Einstein, d’altra parte, lottò parecchio con se stesso prima di rassegnarsi all’idea che il cosmo non fosse immutabile ed eterno.
A volte, invece, un’idea fatica a trovare consenso semplicemente per l’invidia o la disonestà intellettuale di qualche figura eminente e autorevole del momento. Come fu il caso della teoria sui buchi neri del fisico indiano Chandra, osteggiata in modo scorretto dal famoso Arthur Eddington, lo stesso che aveva dato prova di grande rettitudine e intelligenza comprovando sperimentalmente per la prima volta la teoria della relatività di Einstein. Eddington sostenne Einstein mentre era in corso la prima guerra mondiale, cosa che gli attirò critiche e attacchi molto duri in Inghilterra, il che dimostra la sua integrità scientifica e il suo coraggio (questa storia è raccontata in un bel film, Il mio amico Einstein, in cui emergono molto bene gli aspetti scientifici, politici e psicologici dell’intera vicenda). Ciò nonostante, lo stesso Eddington si comportò in modo meschino nei confronti di un altro scienziato, appunto l’astrofisico indiano Chandra, il quale nel 1930 aveva risvegliato con il suo lavoro l’interesse per i buchi neri.
Detto per inciso - e il saggio di Natarajan è molto ricco di informazioni di questo genere che contribuiscono a renderne piacevole la lettura - l’espressione buco nero deriva dal nome di una cella minuscola famosa a Calcutta chiamata appunto black hole, in cui in una notte del 1756 morirono per asfissia 123 prigionieri occidentali. Tornando a Chandra, la sua ipotesi «creava un terribile conflitto d’interessi per Eddington, che aveva sviluppato una propria teoria», per questo lo boicottò pur essendo stato suo esaminatore durante il dottorato a Cambridge e pur avendolo incoraggiato a proseguire il suo lavoro.
Eddington contestò duramente e inaspettatamente il collega più giovane in pubblico, durante il convegno annuale della Royal Astronomical Society nel 1935, senza avere mai prima espresso personalmente a Chandra le sue obiezioni e soprattutto senza dargli possibilità di replica. Per Chandra fu un vero colpo, ma nel 1942 la sua tesi fu sostenuta pubblicamente da alcuni tra i più importanti scienziati del tempo, tra i quali Paul Dirac, considerato il più grande genio del Novecento dopo Einstein (si deve a lui l’equazione che ha formalizzato la struttura della meccanica quantistica e previsto l’esistenza dell’antimateria). Nel 1983 Chandra ha vinto il premio Nobel per la fisica. E giustizia è stata fatta.
Mappare l’Universo, adesso che ne conosciamo l’immensità e l’espansione continua, può sembrarci come il tentativo di vuotare l’oceano con un bicchiere. Eppure non possiamo farne a meno, lo abbiamo sempre fatto. Infatti, anche se noi associamo l’idea di mappa ai viaggi per mare e per terra, in realtà, ricorda Natarajan, le prime mappe mai disegnate dall’uomo sono mappe del cielo. E pure oggi scrutiamo il cosmo, percorrendolo con gli occhi di immensi telescopi, come gli esploratori antichi scrutavano l’orizzonte e lo spazio attorno per decifrarlo, per non perdersi.
La nostra condizione è la stessa, il nostro oceano è il cosmo, la nostra nave la terra. «Per loro natura i progressi della cosmologia ci lasciano senza ormeggi», afferma Priyamvada Natarajan. Ed è così che siamo, oggi ancor più che nel passato: disancorati, senza un centro fuori di noi e forse neppure più dentro di noi - ma questo non è colpa dell’Universo. Ad ogni modo, conclude, «Negli ultimi cento anni la nostra visione del mondo è cambiata drasticamente, riscrivendo il senso stesso di chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo».
Oggi sappiamo di vivere in un Universo meraviglioso, ma non eterno. È nato in un certo momento e in un altro che non sappiamo, e in un modo che non sappiamo ma siamo in grado di ipotizzare, finirà o diventerà qualcosa di totalmente diverso. Un Universo, ha affermato Carlo Tonelli, fisico del Cern e grande divulgatore scientifico, fragile e precario, come ha rivelato la scoperta del bosone di Higgs - la particella che tiene insieme la materia ma di cui nulla ci può garantire che continuerà a farlo -, che condivide in qualche modo la nostra stessa situazione di fragilità. Col che, negli ultimi tempi, è stato scardinato ogni appiglio, fino all’ultimo, fino all’idea che almeno l’Universo potesse costituire una certezza, qualcosa che si poteva immaginare sarebbe durato per sempre. Insomma, un posto in cui la vita avrebbe sempre avuto una possibilità.
La situazione in cui ci ha messi la conoscenza è duplice e ambigua, eccitante, ma disorienta e confonde, perché ci insegna che siamo allo stesso tempo unici, grandiosi e insignificanti. Siamo riusciti a scoprire le dinamiche che governano il mondo, persino le più contro-intuitive, dall’infinitamente piccolo all’incommensurabilmente grande, e abbiamo capito di essere un nulla rispetto all’immensità che ci circonda. Siamo costretti a rimettere in discussione concetti sui quali per migliaia di anni abbiamo costruito civiltà ed elaborato filosofie e religioni: il tempo, l’eternità, la distinzione tra spirito e materia...
Dobbiamo ripensare molte cose per trovare nuove risposte a domande antiche e ineludibili: chi siamo, dove andiamo e, soprattutto, perché. Per la prima volta nella storia umana sappiamo con certezza che, a prescindere da noi, l’esistenza della Terra, dell’intero sistema solare e dell’Universo, forse l’esistenza in se stessa finirà, e tutto questo, anche se non ce ne accorgiamo, segna lo spirito del nostro tempo e noi stessi.
La morte di Dio aveva aperto la strada alle utopie escatologiche laiche, come il marxismo, lasciando intatta la speranza che l’umanità potesse realizzare con le sue forze e i suoi progressi una società e una vita migliori per tutti.
Ma il limite che le scienze ci fanno intravedere, per quanto lontano, rende il sogno una sorta di palliativo per combattere un’insensatezza che si è insinuata come una nebbia a offuscare il sole di qualunque avvenire.
E così la metafisica e le sue domande sull’essere, il nulla e il senso del mondo che le scoperte scientifiche avrebbero dovuto - pensavano alcuni - mettere a tacere per sempre, proprio grazie alla scienza si stanno pian piano riaffacciando sulla scena del pensiero.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
COSMOLOGIA E ANTROPOLOGIA. AL DI LA’ DI NEWTON, CON KANT - E ARTHUR S. EDDINGTON ... ALBERT EINSTEIN, LA MENTE ACCOGLIENTE. L’universo a cavallo di un raggio di luce (non di un manico di scopa!).
L’esploratore di esopianeti Michael Gillon:
«Cari ragazzi, una rivoluzione vi aspetta»
di Nicla Panciera (La Stampa, 22.11.2017)
«Ci sono innumerevoli Soli e innumerevoli terre, tutte ruotanti attorno ai loro soli, esattamente allo stesso modo dei sette pianeti del nostro Sistema Solare», scriveva Giordano Bruno nel 1584. Per dare conferma scientifica a quest’ipotesi visionaria sull’esistenza di pianeti orbitanti intorno a stelle come il Sole ci sono voluti tre secoli. Ma sono bastati 20 anni dalla scoperta del primo esopianeta extrasolare, 51 Pegasi b, per arrivare a contarne oltre 3 mila.
«Queste cifre suggeriscono che quasi tutte le stelle della nostra galassia e, quindi, dell’intero Universo ospitano un sistema planetario. Nei vari mondi fin qui osservati è emersa un’inaspettata diversità e ora ne stiamo studiando le diverse architetture, la loro formazione ed evoluzione», ci spiega Michael Gillon dell’Università di Liegi in Belgio. Per i suoi contributi alla fondazione della disciplina che studia gli «altri mondi», l’esoplanetologia, gli è stato assegnato il Premio Balzan 2017, riconoscimento di 750 mila franchi svizzeri.
È suo il primo nome sul lavoro pubblicato da «Nature» sulla scoperta di sette pianeti simili alla Terra intorno alla nana rossa Trappist-1. Cacciatore di pianeti fin da quando ha deciso di volgere lo sguardo al cielo, il giovane ricercatore ha già incontrato molti studenti intelligenti e brillanti. A loro dice di non farsi spaventare dai piccoli ostacoli iniziali, ma di concentrarsi sulla magia dell’astrofisica: «Imbarcarsi in quest’avventura non li deluderà, viviamo in un momento entusiasmante in cui c’è spazio per grandi scoperte. La passione deve, però, essere così dirompente da sovrastare gli altri bisogni»: parola di un ex militare che ha trascorso sette anni in fanteria prima di decidere di riprendere gli studi e di dedicare il suo rigore e la sua tenacia alle battaglie scientifiche.
È molto riconoscente verso l’amata Wendy e i figli Amanda e Lucas per il supporto ricevuto e ammette di non rappresentare la norma: «Dopo il post-dottorato, a Ginevra, sono tornato a Liegi, ma la maggior parte degli scienziati si sposta per acquisire competenze da un ateneo all’altro, di continente in continente, e spesso finisce per stabilirsi molto lontano dal proprio Paese e dai propri cari».
L’astrofisica - conferma - sta vivendo un momento di grande fermento. Sta per partire il progetto che Gillon ha nominato come i celebri biscotti belgi, «Speculoos» e, nel 2019, Esa e Nasa lanceranno il gigantesco telescopio spaziale «James Webb». Intanto, in Cile, è in via di installazione il telescopio europeo E-Elt, il più grande mai realizzato finora. Assistiamo poi ad un moltiplicarsi di missioni per la ricerca di nuovi mondi: «Tess» della Nasa, al via la prossima primavera, e «Cheops» e «Plato» che l’Esa lancerà rispettivamente nel 2019 e 2025.
Le aspettative sono pari agli sforzi messi in campo: «Ci stiamo attrezzando per esplorare una terra incognita, dove mai abbiamo messo piede e neppure gettato lo sguardo», assicura il cacciatore di esopianeti e, muovendo le mani davanti a sé come afferrando una torcia, ribadisce: «Illuminiamo i territori bui con i nostri telescopi, che ci restituiranno un sacco di sorprese». Come accadde a Galileo con il suo cannocchiale: «È difficile dire che cosa otterremo dai vari programmi in partenza, in pratica tutto è possibile. A guidarci non è solo la teoria ma l’osservazione. Non puntiamo solo, come un tempo, alla conferma sperimentale delle ipotesi fisiche. Stiamo spingendo al massimo le capacità tecnologiche, che costituiscono, di fatto, i limiti delle nostre conoscenze».
E, infine, la grande questione che affascina da sempre l’umanità: la vita. «Cercando tracce chimiche di attività biologica, vogliamo scoprire la prevalenza della vita nello spazio, non avendo alcuni a priori sulla frequenza di questo evento. Questo ci aiuterà a capire meglio le nostre origini e a mettere la nostra esistenza in una prospettiva galattica. Le implicazioni vanno oltre la scienza e invadono i reami della filosofia. Sono gli aspetti sociali e culturali a rendere questo interrogativo fondamentale».
Quanto ci vorrà? «Potrebbero bastare uno o due decenni. Il meglio deve ancora venire. Una rivoluzione scientifica è alle porte». La generazione di giovani scienziati che dichiarerà l’eppur c’è vita, dall’impatto travolgente come l”eppur si muove” galileiano, è già nata.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
Andremo a esplorare le altre Terre in cerca degli alieni
Il 2018 è l’anno del telescopio della Nasa “James Webb”. Individuerà nuovi esopianeti e studierà le loro atmosfere. E altre missioni si preparano a svelare i misteri della vita
di Amedeo Balbi (La Stampa, 23.08.2017)
Non tutti ne sono ancora consapevoli, ma proprio in questi anni stiamo vivendo una rivoluzione scientifica che potrebbe avere profonde conseguenze per la comprensione del nostro posto nell’Universo, paragonabili a quelle prodotte dalle idee di Copernico o di Darwin. Da poco più di 20 anni abbiamo trovato le prove che esistono altri pianeti intorno ad altre stelle. Non solo, ma molti di questi pianeti sembrano avere caratteristiche fisiche che potrebbero potenzialmente renderli adatti alla presenza di forme di vita.
Se ci si ferma a riflettere sui numeri, c’è da rimanere a bocca aperta: le stime attuali ci dicono che molto probabilmente ognuna dei circa 200 miliardi di stelle della nostra galassia ha almeno un pianeta che le orbita attorno. Quelli potenzialmente abitabili (non da noi, naturalmente, ma da qualche forma di vita «autoctona», magari microscopica) potrebbero essere decine di miliardi. Quando guardate il cielo in una notte d’estate, provate a pensare all’incredibile vastità di ambienti alieni che state abbracciando con un solo sguardo.
Quelle precedenti sono estrapolazioni basate sulle osservazioni di esopianeti (pianeti che orbitano attorno ad altre stelle), compiute negli ultimi due decenni grazie a una serie di sofisticati strumenti astronomici. Attualmente il numero di esopianeti noti supera di poco quota 3500.
La maggior parte è stata scoperta da una missione spaziale di grande successo, il satellite Kepler della Nasa. Kepler è un telescopio relativamente modesto (ha uno specchio di 95 cm, poca cosa rispetto ai più grandi telescopi terrestri che ormai toccano la decina di metri di apertura), ma il fatto di trovarsi nello spazio lo mette in una posizione di vantaggio. Kepler ha potuto osservare la minuscola diminuzione di luminosità causata dal transito di un pianeta di fronte alla propria stella, con una sensibilità che al momento è preclusa agli strumenti terrestri. Alcune centinaia di esopianeti sono stati scoperti con una tecnica differente, basata sull’osservazione del piccolo spostamento periodico della stella indotto dall’interazione gravitazionale con uno o più pianeti.
Dopo la valanga di scoperte recenti, ora stiamo entrando in una seconda fase nello studio degli esopianeti, in cui si esamineranno più in dettaglio i candidati più interessanti, in particolare quelli che sembrano più promettenti dal punto di vista della potenziale abitabilità. Il futuro prevede una serie di nuovi progetti osservativi, alcuni dei quali vedranno la luce a breve. Due nuove missioni spaziali, una dell’Esa e l’altra della Nasa, dovrebbero essere lanciate entro l’anno prossimo. Si tratta, rispettivamente, di Cheops e di Tess. Il primo, un piccolo telescopio spaziale di appena 30 cm di apertura, osserverà il transito di esopianeti già noti per provare a determinarne la densità e quindi la composizione fisica. Il secondo cercherà di incrementare il bottino di pianeti di dimensioni simili alla Terra messo insieme da Kepler, concentrandosi soprattutto su stelle brillanti e relativamente vicine alla nostra. Ciò preparerà la strada per le osservazioni del James Webb Space Telescope, il successore del telescopio spaziale Hubble che la Nasa dovrebbe mettere in orbita verso la fine del 2018.
Le aspettative per questa missione sono altissime (anche visto l’enorme impegno economico profuso per la sua realizzazione) e prevedono la possibilità di studiare le atmosfere di esopianeti già noti, determinandone la natura e la composizione. Capire come è fatta l’atmosfera di un pianeta è uno degli ingredienti cruciali per stabilirne le condizioni climatiche e l’effettiva propensione a ospitare organismi viventi. Non solo, ma la presenza stessa della vita può alterare in modo misurabile la composizione dell’atmosfera, come è avvenuto sul nostro pianeta con la comparsa degli organismi fotosintetici, che hanno rilasciato enormi quantità di ossigeno.
Investigare mondi lontanissimi dal nostro, fino addirittura a cercarvi le possibili tracce della vita, è un obiettivo difficile, che non sarà raggiunto nel giro di pochi anni, e che richiederà uno sforzo congiunto e l’applicazione di molte tecniche diverse. Non solo osservazioni dallo spazio, ma anche con telescopi terrestri: quelli di prossima generazione, come lo European Extremely Large Telescope, o Elt, di cui è iniziata la costruzione in Cile, avranno dimensioni imponenti (lo specchio sfiorerà i 40 metri di diametro) e potrebbero persino ottenere le prime immagini dirette di pianeti simili alla Terra. Se i passati 20 anni sono stati quelli in cui abbiamo capito che esistono altri mondi oltre a quelli del sistema solare, i prossimi 20 saranno quelli in cui proveremo a capire una volta per tutte se siamo davvero soli nell’Universo.
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LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”....*
Nel giorno in cui cadono le stelle /
Leopardi. Frammenti di una cosmologia poetica
di Antonio Prete *
Un’immagine, un’apparizione: nel fitto meditare del giovane Leopardi lungo i margini di una biblioteca affollata di voci. Voci di antichi e di moderni, parole dell’epos e della filosofia, convivio di idee convocato dall’Encyclopédie e dai nuovi saperi. Una casa pensile, che è sospesa nell’ aria, ed è legata con delle funi a una stella. Un’immagine che pare il resto figurabile di un sogno che subito è disperso con la prima luce del giorno. O il ricordo fulmineo di un disegno infantile: la stella in alto, e giù la casa, priva di terreno, sospesa nel bianco della pagina, ma qualcosa deve legare la casa alla stella, ecco allora le funi che impediscono che la casa precipiti, e la fanno oscillare nel vento, casa di carta e stella di carta, casa dipinta e stella infiammata. Non ha rapporto con la terra la casa: è sollevata, come se fosse portata via da una forza - da una carrucola - che ha in una lontanissima stella il suo sostegno. Non è trasportata, la casa. Non è la casa di Nazareth che gli angeli portano in volo, come racconta una popolare credenza, per deporla a Loreto, proprio nei pressi di Recanati. Non è stata neppure sradicata dalle fondamenta, questa casa, è lì, sospesa in aria, sospesa nell’immaginazione: è la pura sospensione del terrestre, del domestico, del quotidiano. Non sappiamo se è abitata, la casa pensile, ora appare nella sua fisica figurazione di casa sospesa nel vuoto e tuttavia sostenuta da un principio, non più attratta dalla terra ma appartenente ai simulacri che abitano l’aria e che di solito non vediamo.
Ma l’immagine è anche una lampeggiante abbreviazione, o persino un compendio metaforico, del pensiero leopardiano, o forse un presagio inconsapevole - disegnato nella “camera oscura” dell’immaginazione - di come quel pensiero si svolgerà, del cammino che avrà lungo diverse stagioni, ma anche di alcune esperienze poetiche fino a quel momento vissute. Una figura dei modi conoscitivi e insieme poetici che saranno trama e respiro di un pensiero. Ecco la leggerezza, e con essa il senso della elevazione - annuncio della élévation baudelairiana -, cioè sguardo che dall’alto si volge verso il linguaggio del mondo, ascolta il silenzio delle cose, ma osserva anche l’intorpidimento dei sensi fatti opachi dall’“incivilimento”, atrofizzati dalla progressiva “spiritualizzazione delle cose umane e dell’uomo” in cui consiste la pretesa perfezione della civiltà (l’operetta Elogio degli uccelli opporrà a questa atrofia dei sensi umani la libertà vigorosa delle creature alate, la loro armonia, il movimento e la vista dall’alto).
Una stella: figura della presenza cosmografica che è tessitura assidua del pensare leopardiano, ed è sorgente di interrogazione costante sul rapporto tra finitudine e infinito, percezione della sospesa condizione umana in un universo che è nascita e morte, costruzione e distruzione incessante, orizzonte sconfinato nel quale il fiore e il deserto, il fiore del deserto, sono emblemi dell’esistenza, e la terra non è che un “granello” perso negli spazi infiniti. La stella è anche principio che sostiene ciò che è più familiare, una casa: è una lontananza assoluta, intransitabile, e tuttavia luminosa, che sostiene quel che ci si presenta come proprio, prossimo, domestico. E c’è un legame tra quel che è sovranamente altro e quel che invece appartiene alla terra, c’è un legame tra l’oltretempo proprio dell’elemento stellare e l’esperienza della propria condizione.
Questo legame, gli scorci - di teoresi e di immaginazione - su questo legame, fanno della poesia di Leopardi la lingua di un’interrogazione aperta, ogni volta, a scrutare l’esistenza, il suo ritmo, sullo sfondo metafisico di un altro ritmo, quello che fa pulsare il cosmo, la sua energia, il suo consumarsi e il suo divenire.
Le considerazioni cosmologiche del Cantico mattutino del gallo silvestre, la rappresentazione della fisica - origine e fine dell’universo - come prende forma nella prosa del Frammento apocrifo di Stratone, le domande sul senso e sul vuoto di senso che il pastore errante rivolge alla luna, ai suoi silenzi, al suo enigmatico sapere dell’universo, l’azzardo della poesia di voler dire l’infinito nella impossibilità di dirlo e, nel naufragio del pensiero, e della poesia stessa, il soccorso all’io dato da quel “m’è dolce” che è nel cuore dell’ultimo verso -prossimità corporea e sensibile nell’impossibile esperienza dell’assoluta lontananza -, tutto questo ha qualcosa che è come compendiato e messo in figura in questa frase isolata che interrompe i pensieri dello Zibaldone: “Una casa pensile in aria sospesa con funi a una stella”. Quasi iconica impresa da porre sul frontespizio del Liber di una vita, e di una incessante ricerca, che è lo Zibaldone. Ho detto interrompe i pensieri: non è proprio così, l’interruzione è già avvenuta con l’immagine che precede nella stessa pagina del 1 ottobre 1820 e che qui di seguito riporto come secondo momento di questo margine.
*
Il frammento narrativo può a questo punto essere letto anche come orizzonte fantastico nel quale appare la casa pensile. Con la nuova cosmografica data dai singolari e sconfinati occhiali si può vedere anche la casa pensile, tra le innumerevoli altre presenze che trascorrono nel cielo, che abitano il cielo. Ma può anche darsi che le due proposizioni fantastiche abbiano tra di loro solo il legame invisibile, indescrivibile, dell’immaginazione, un legame insondabile, subito nascosto, per lasciare scoperto solo l’altro fisico legame, quello dell’appartenenza alla stessa pagina dello smisurato manoscritto che è lo Zibaldone. Una prossimità che ha solo la scansione di uno spazio tra un frammento e l’altro. E tuttavia, se la casa pensile si accampa nell’aria come un’apparizione - infatti ha dell’apparire l’elemento dell’inatteso e dell’inspiegabile - il paio di occhiali appartiene a un tempo narrativo, suppone infatti un personaggio, il cui volto e la cui identità - umana, sovrumana, animale, celeste, terrestre? - non è rivelata, è lasciata per dir così alla discrezione e all’energia dell’immaginazione di colui che legge, ma anche dello stesso che scrive, il quale non vuole configurare il personaggio, tanto meno nominarlo. Ma il lettore è autorizzato a chiedersi: chi può essere colui che “si mise” lo stravagante paio di occhiali?
Certo, l’immensità dello strumento non può che far pensare a un personaggio immenso, o a un corpo celeste trasformato in figura gigantesca dalle fattezza umane - con occhi e mani, dunque - che compie il gesto di sollevare gli occhiali per porgerli a cavallo dell’incavo nasale o persino appoggia le stanghette sterminate (ma invisibili e innominate) nell’attaccatura delle orecchie. E quel passato remoto - “si mise” - a quale tempo si riferisce? Forse a un tempo senza tempo, un’era in cui la terra, non ancora abitata da animali e da uomini, ha già preso la sua forma e gravita nella sua orbita priva di presenze che non siano angeliche, ed è appunto una di queste presenze - emanazioni della divinità, declinazioni e manifestazioni dei suoi poteri - che fa dei due poli due cerchi tenuti insieme dalla metà di un meridiano (un meridiano celeste?) e guarda attraverso di essi l’opera della creazione, guarda i mondi che roteano seguendo le loro ellissi, oltre la via lattea, fino ad altre galassie in fuga nello spazio infinito. Per raccontare questo gesto non c’è che da ricorrere a un’immagine antropomorfica e a un gesto usuale per scorgere meglio i corpi celesti: guardare attraverso delle lenti speciali. Una sorta di cannocchiale che ha un’altra forma, una forma in cui le lenti - anche queste innominate e invisibili - hanno un potere ben superiore a quello delle lenti che Galileo mise nel suo formidabile strumento, raddoppiando e rovesciando le lenti usate dagli olandesi.
Oppure, semplicemente, questi occhiali sono solo una raffigurazione di quegli altri occhiali che ciascuno di noi possiede nel bagaglio delle sue facoltà, gli occhiali dell’immaginazione, quelli di cui Leopardi disporrà ogni volta che si volgerà a scorgere gli oggetti lontani - quella torre, quella campagna - con l’altra vista. Ecco, gli occhiali “fatti della metà del meridiano co’ due cerchi polari” sono lo strumento - l’interiore disposizione - che permette l’altra vista. E colui che se li mise, e continua a metterli, è proprio l’autore. O il lettore. E insomma quanti, dal limite corporeo e sensibile del loro terrestre stato, sentono la necessità di scrutare con un nuovo sguardo il mondo che è di là dall’orizzonte visibile, l’universo di stelle che nascono e deflagrano, di comete in fuga, di nebulose e galassie che corrono e si dilatano in uno spazio che non ha confini, in un tempo che non ha tempo. Perché scorgere il nesso tra il visibile e l’invisibile, tra il qui e l’altrove, tra il limite e lo sconfinato può essere la sfida estrema dei sensi, e della poesia.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
KANT, NEWTON, E POPE. Note (di avvio) per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
SCIENZA.Cosmologia e Fisica delle particelle....
Fabiola Gianotti, il bosone Higgs è una porta verso il futuro
Particella straordinaria, capaci di portare a una nuova fisica
di Redazione ANSA *
Sono in arrivo risultati interessantissimi per la fisica, grazie alla straordinaria quantità di dati che sta producendo l’acceleratore di particelle più grande del mondo, il Large Hadron Collider (Lhc) del Cern di Ginevra. E’ entusiasta, Fabiola Gianotti, la prima donna che nel gennaio 2016 è salita alla direzione del Cern e "bellissimo" è il termine con cui descrive quanto sta accadendo nella fisica, con i dati che ogni giorno arrivano più numerosi. "E’ una soddisfazione vedere una macchina capace di spingersi al di là dei suoi limiti", ha detto Gianotti all’ANSA riferendosi all’intensità raggiunta dai fasci che scorrono e collidono all’interno dell’acceleratore, "del 50% superiore a quella prevista dal progetto".
In questi giorni il direttore generale del Cern è a Venezia per la conferenza internazionale della Società Europea di Fisica (Eps), organizzata da Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) e università di Padova. Almeno un migliaio i fisici arrivati da tutto il mondo per conoscere gli ultimi risultati prodotti dall’acceleratore Lhc e i dati che rendono sempre più preciso il ritratto del bosone di Higgs, la particella grazie alla quale esiste la massa e la cui scoperta era stata annunciata nel 2012 come la tessera che confermava la teoria di riferimento della fisica, il Modello Standard. Questa stessa particella potrebbe mostrare qualcosa di radicalmente nuovo.
"Il bosone di Higgs è una particella molto speciale: potrebbe essere una porta verso una nuova fisica", ha detto Gianotti, che all’epoca della scoperta era a capo di uno dei due esperimenti che l’hanno vista, Atlas. Il Modello Standard descrive nei dettagli tutti i possibili modi con cui il bosone di Higgs può accoppiarsi con altre particelle, "e proprio per questo l’osservazione sperimentale di una deviazione, anche piccola, rispetto a quanto prevede la teoria, potrebbe fornire l’evidenza di una nuova fisica".
Continuare a studiare il bosone di Higgs è quindi "un grande capitolo delle ricerche in corso al Cern - ha rilevato - e l’altro grande capitolo sono le domande ancora aperte", sull’asimmetria fra materia e antimateria, la natura della materia oscura, ossia la materia invisibile e misteriosa che costituisce circa il 25% dell’universo, e lo stato della materia primordiale (il cosiddetto plasma di quark e gluoni) prodotto subito dopo il Big Bang.
In questo momento così entusiasmante per la fisica, essere a capo del Cern, spiega, "è un lavoro bellissimo", un nuovo punto di vista da cui si ha "uno sguardo globale" che abbraccia "eccellenza della ricerca, innovazione tecnologica, formazione promozione dei giovani" e una "collaborazione internazionale che comprende ricercatori di tutto il mondo, all’insegna della pace". Una realtà quella del Cern, nella quale l’Italia ha avuto e continua ad avere "un ruolo fondamentale" attraverso l’Infn e le università collegate. Basti pensare che, sui 13.000 ricercatori del Cern gli italiani sono 2.000".
Come direttore generale del Cern, infine, per Fabiola Gianotti il tempo libero è ancora meno che in passato, con poco spazio da dedicare alla sua passione di sempre, la musica, e poi allo sport: correre, nuotare e soprattutto la montagna. "Non c’e’ niente di più gratificante che imparare qualcosa di nuovo, e - ha concluso - grazie al mio lavoro questo mi succede ogni giorno".
AL DI LA’ DELL’ORIZZONTE DEMIURGICO. "X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA
“Così capiamo la forza che lega insieme l’Universo”
di Nicla Pancera (La Stampa, 07.07.2017)
«Non era mai stata osservata sperimentalmente, ma sapevamo che prima o poi l’avremmo trovata, perché la sua esistenza era prevista dalle teorie attuali». È orgoglioso Alessandro Cardini,responsabile dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare dell’esperimento LHCb, uno dei quattro montati sul l Large Hadron Collider del CERN (gli altri sono ATLAS, ALICE e CMS) che ha osservato la nuova particella, chiamata X_cc^(++) (Xicc++) la cui peculiarità è quella di essere composta da due quark charm, pesanti, e da un quark leggero, e di essere quindi molto pesante, quattro volte più del protone. «Protoni e neutroni sono composti da tre quark, di cui solo uno pesante, ma le teorie fisiche prevedevano da tempo la possibilità di ottenere particelle formate da più quark pesanti».
Come è nata la vostra scoperta?
«Dal 2015 a oggi, nel corso del secondo periodo di funzionamento di LHC, il Run2, abbiamo osservato 300 particelle Xicc++ e un altro centinaio sono state riconosciute a posteriori negli esperimenti del Run1».
Finora ci avevano già provato, senza successo, altri esperimenti, come «BaBar» in California e «Belle» in Giappone.
«Anche al CERN, quindici anni fa, sembrò di avere visto qualcosa, ma le conferme non erano mai arrivate».
Come mai era così difficile?
«Capita spesso che fluttuazioni statistiche vengano interpretate come prova dell’esistenza di quanto si sta cercando. Solo dettagliate misurazioni spettroscopiche possono dire con certezza cosa abbiamo davanti».
Quindi, pur non essendo una vera e propria new entry nello zoo delle particelle, Xicc++ è motivo di grande orgoglio per i ricercatori. Vederla è stato possibile solo adesso. Perché?
«Grazie a una grande capacità degli strumenti di identificazione delle particelle e alla potenza dell’acceleratore, di 13 TeV, che ci ha consentito di acquisire dati di una purezza particolare».
«Trovare un barione con due quark pesanti è di grande interesse - aggiunge Giovanni Passaleva, il nuovo coordinatore della collaborazione LHCb - Perché può fornire uno strumento unico per approfondire la cromodinamica quantistica, la teoria che descrive l’interazione forte, una delle quattro forze fondamentali», cioè quella, ancora misteriosa, che tiene unite le particelle al nucleo atomico.
I ricercatori sono già al lavoro per misurare i meccanismi di produzione e di decadimento e la durata di vita della nuova particella. La speranza è che poterla vedere «nascere» e «morire» porti verso una maggior comprensione delle regole che creano la materia dell’Universo.
La “Particella Xi”
Ecco che cosa unisce la materia
Inseguita da anni, l’ha trovata il Cern grazie al Large Hadron Collider Servirà per capire una delle forze fondamentali della natura
di Piero Bianucci (La Stampa, 07.07.2017)
L’anagrafe del mondo subnucleare registra una nuova particella, annunciata ieri a Venezia in apertura del convegno della Società Europea di Fisica. Si chiama Xi ed è esotica rispetto alla materia di cui siamo fatti. Mentre tutto il mondo che conosciamo è costruito con due tipi di quark leggeri, Up e Down, la particella Xi è costituita da due quark più pesanti, chiamati Charm, e da uno «normale», un quark Up. La cosa eccitante per i fisici è che mai finora due quark Charm erano stati osservati insieme. Singolare è anche l’assetto delle tre particelle che formano la Xi: i due quark Charm stanno al centro come un minuscolo sole e il quark Up gira loro intorno come un pianeta.
Nell’insieme, Xi è una particella alquanto massiccia. Pesa 3,6 GeV, cioè quasi 4 volte un protone. Ora i fisici cercheranno di produrre un grande numero di Xi per osservarne il comportamento e comprendere meglio i meccanismi dell’interazione forte, cioè la forza che regola i rapporti tra adroni, nome collettivo che si dà alle particelle pesanti. E poiché l’estremamente piccolo e l’estremamente grande dipendono strettamente l’uno dall’altro, alla fine potrà uscirne una migliore conoscenza dell’evoluzione stessa dell’universo.
La scoperta di Xi è interessante ma non rivoluzionaria. Anzi, l’esistenza di questa particella era prevista dalla teoria del Modello Standard e c’erano già indizi della sua esistenza. Non siamo dunque di fronte a una nuova fisica ma piuttosto a una conferma. L’importanza di Xi sta nelle possibilità di indagine che apre ad una sempre più robusta definizione del Modello.
L’osservazione di Xi è frutto di uno dei grandi esperimenti distribuiti lungo il gigantesco collider LHC del Cern di Ginevra, un anello di magneti superconduttori lungo 27 chilometri nel quale vengono fatti scontrare protoni che corrono in direzioni opposte a una velocità vicina a quella della luce. L’energia delle collisioni è la massima mai raggiunta in un laboratorio: LHC lavora a 14 TeV, cioè 14mila miliardi di elettronvolt. Per farsi un’idea di che cosa significa, l’energia in gioco nella vita quotidiana, per esempio quella dei fotoni della luce solare, è dell’ordine di un elettronvolt. A 14 TeV si ricreano le condizioni di energia che esistevano nell’universo miliardesimi di secondo dopo il big bang, un miscuglio di quark, elettroni, neutrini.
I quark previsti dal Modello Standard sono sei: l’ultimo, il quark Top, è stato trovato al Fermilab di Chicago nel 1995. I sei quark possono combinarsi in vari modi, alcuni consentiti e altri proibiti dalle leggi della fisica. Nel mondo ordinario, i nuclei atomici sono costituiti da protoni e neutroni, i quali a loro volta sono combinazioni di quark Up e Down. Solo in un mondo super-energetico compaiono gli altri quattro tipi di quark, le cui combinazioni sono in parte da esplorare. Xi è un passo in questa direzione. Non cambia niente nella nostra vita, non ci sono applicazioni immaginabili. Quello che è si è ottenuto è tassello di conoscenza pura. Il piacere della scoperta per la scoperta.
L’esperimento che ha rivelato Xi è noto tra i fisici come LHCb ed è pensato per indagare su violazioni della simmetria nelle particelle elementari, in particolare la simmetria di carica elettrica e destra/sinistra. Una terza simmetria è quella rispetto al tempo. Nella maggioranza dei casi le simmetrie sono rispettate. Ma sono le rare violazioni ad essere interessanti: si ritiene che una di queste violazioni abbia prodotto la scomparsa dell’antimateria e quindi l’universo che ora ci ospita.
KANT (1784), FOUCAULT (1984), E "LA FINE DI TUTTE LE COSE" (KANT, 1794). Una nota ... *
NONOSTANTE LA SOLLECITAZIONE DI FOUCAULT (1984) A ESSERE GIUSTI CON KANT E A RISTUDIARE E A RIPENSARE LA SUA OPERA E LA SUA LEZIONE A PARTIRE DALLA "RISPOSTA ALLA DOMANDA: CHE COSA E’ L’ILLUMINISMO?" (1784), IL LAVORO DELLA GRANDE RESTAURAZIONE IDEALISTICA PRIMA E MATERIALISTICA POI CONTRO LA VIA DELLA “CRITICA” E LA SUA “RIVOLUZIONE COPERNICANA” CONTINUA FEROCE, CALPESTANDO OGNI DECENZA STORIOGRAFICA E ADDIRITTURA IGNORANDO NON SOLO LE OPERE DELLA FASE COSIDDETTA "PRE-CRITICA" (cfr.: Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”) MA ANCHE LE OPERE DELLA FASE "CRITICA" (cfr. I. Kant, "La fine di tutte le cose", 1794 - e in particolare la seconda nota, dove chi si sbizzarrisce in paragoni ripugnanti per rappresentare il nostro mondo terreno, "senza degnare di attenzione la disposizione al bene che vi è nella natura umana, raffigurando la nostra dimora terrena con grande disprezzo: 1) come una locanda - o un caravanserraglio ... 2) come un penitenziario... 3) come un manicomio... 4) come una cloaca, che raccoglie tutti i rifiuti espulsi dagli altri mondi")!!!
*
SU KANT (e Freud e la banalità del male), mi sia consentito, si cfr. ALCUNE MIE "NOTE PER UNA RILETTURA": https://www.academia.edu/12356078/KANT_FREUD_E_LA_BANALITA_DEL_MALE.
Federico La Sala
1. Nell’ottobre 1974, in una conferenza sulla progressiva medicalizzazione della società tenuta presso l’Università di Stato di Rio de Janeiro, Foucault introduce il concetto di «bio-storia» per sottolineare che «la storia dell’uomo e la vita sono profondamente intrecciate», dal momento che «la storia dell’uomo» è in grado di modificare, almeno «fino a un certo punto», il «processo» della vita 1. Da allora, a seguito dell’«intrusione di Gaia» - per usare un’espressione di Stengers -, la bio-storia ha assunto una fisionomia molto differente.
Il recente Esiste un mondo a venire? di Danowski e Viveiros de Castro 2 non lascia dubbi al proposito: l’immensa crisi ecologica in corso esercita un tale impatto sulla «storia dell’uomo» da avere definitivamente messo in crisi, oltre all’impianto sociale e allo stile di vita egemoni a livello planetario, una delle più classiche tra le dicotomie su cui si fonda la teologia politica occidentale, quella tra natura e cultura. Come affermano la filosofa e l’antropologo brasiliani, la nostra specie si è trasformata «in forza geologica», «in un oggetto “naturale”» e il «Sistema Terra» in «un agente politico», in «una persona morale» (p. 45).
Il vettore della bio-storia, insomma, non è unidirezionale: se è certo che la “nostra specie” continua a manipolare i processi naturali su scale forse neppure immaginabili fino a poco tempo fa, altrettanto certa è la capacità della storia naturale di sconvolgere a fondo i processi umani; tanto che oggi non è più possibile parlare seriamente di politica senza tenere conto del ruolo politico della “natura”.
Che ci piaccia o meno, grazie alle sempre più continue e terrificanti irruzioni bio-storiche di Gaia «il nostro mondo sta smettendo di essere kantiano». La forza di Gaia nell’arena politica ha definitivamente mandato fuor di sesto «Dio, Anima e Mondo», le «tre grandi idee trascendentali» di Kant (p. 36), destituendole di senso e facendole girare a vuoto: non siamo di fronte a «una “crisi”nel tempo e nello spazio, ma [a] una feroce corrosione del tempo e dello spazio» (p. 52).
2. Esiste un mondo a venire?, allora, non è «solo» un’accurata revisione delle evidenze empiriche della catastrofe in cui siamo già immersi e degli effetti a lunghissimo termine che comunque comporterà. Revisione, sia detto per inciso, sicuramente necessaria vista «la recente e ignominiosa elezione del negazionista Donald Trump» (p. 13) e considerato che - per parafrasare Žižek - un conto è sapere che qualcosa può accadere e un altro è credere che stia accadendo.
Esiste un mondo a venire? è anche, e soprattutto, il tentativo di portare alla luce il clamoroso non dettodelle più recenti narrazioni occidentali - filosofiche, letterarie e cinematografiche; utopiche o distopiche - della fine del mondo: la ripetizione acritica della «dualità mitica “umanità/mondo”» (p. 55). Aspetto questo tutt’altro che trascurabile dal momento che la rigida separazione Uomo/Mondo ha contribuito a forgiare - quantomeno legittimandola - la potenza operativa dell’impresa tecno-scientifica occidentale, principale causa dell’attuale disastro planetario. Anche se a prima vista sembrano contrapporvisi, le «nostre» mitologie della fine del mondo, sia che prevedano «un mondo senza noi» o, all’opposto, «un noi senza mondo», non si smarcano dalla logica più profonda del dualismo gerarchizzante e sezionante che si cela dietro l’«ottimismo “umanista”» (p. 22).
Semplificando molto e senza seguirne le molteplici ramificazioni - che i due autori descrivono in dettaglio e criticano con acume sia che guardino al passato o al futuro, sia che si inseriscano in paradigmi di «sinistra» o di «destra», sia che si presentino come «apocalittiche» o come «integrate» -, ciò che conta è che nessuna di queste visioni ha preso congedo dall’«allucinazione narcisistica» (p. 79) dell’antropocentrismo.
Che il «mondo senza noi» sia inteso come una sorta di mitico giardino dell’Eden prima della Caduta o come il risultato finale della catastrofe ecologica, e che il «noi senza mondo» assuma le tinte fosche di un annientamento su scala globale o quelle deliranti di un’umanità capace di trascendersi riassorbendo il mondo in se stessa, il «mondo che finisce» è sempre «il “nostro” mondo» (p. 98) e il “noi”, che sta parlando e di cui si parla, è sempre «l’“Umano, che lo si chiami Homo sapiens o Dasein» (p. 57).
Detto altrimenti, le «nostre» bio-storie della fine del mondo sono ancora umane, troppo umane, poiché ribadiscono sia l’esteriorità e la singolarità del «mondo» - che servono a naturalizzare la cosmogonia scientifica occidentale - sia l’universalità del «noi» - che in questo caso opera come dispositivo di occultamento del fatto che la crisi ecologica non è attribuibile indistintamente a tutta la specie umana e che i suoi effetti deleteri si estendono, e si estenderanno sempre di più, ben oltre i confini della nostra specie.
3. Come è noto, esistono altre bio-storie oltre alla «nostra», bio-storie meno violente e distruttive che enfatizzano l’intrinseca relazionalità del vivente. Tra queste, Danowski e Viveiros de Castro si concentrano sul prospettivismo amerindio in quanto propone una concezione del «noi» e del «mondo» - ammesso che si possa continuare a usare questa terminologia - diametralmente opposta a quella della modernità umanista.
Per il prospettivismo amerindio all’inizio «tutto era umano» (p. 148) e tutto resta tale anche dopo che i non umani si sono differenziati morfologicamente nel tempo delle trasformazioni. Da un lato, allora, «l’umanità [è] una moltitudine polinomica» che «si presenta [...] nella forma di una molteplicità interna» da cui, solo in un secondo momento, si originano altri individui e altre specie in una sorta di darwinismo invertito (non sono gli umani a evolversi dagli animali, ma gli animali a travestirsi da umani).
E dall’altra il mondo, «quello che noi chiamiamo mondo naturale, o “mondo” in generale, è [...] una molteplicità di molteplicità intrinsecamente connesse. Gli animali e le altre specie sono [...] entità politiche». In breve, «gli amerindi pensano che, tra il cielo e la terra, esistano molte più società [...] di quante ne sognino la nostra antropologia e filosofia. Ciò che noi chiamiamo “ambiente” è per loro una società di società, un’arena internazionale, una cosmopoliteia» (pp. 150-151).
Quest’altra bio-storia che, malgrado tutto, è riuscita a sopravvivere alla fine del suo «mondo» conseguente all’invasione coloniale, permette agli autori, di declinare la crisi ecologica nei termini di una «guerra civile» (p. 195) tra «Umani» e «Terreni», guerra che non coincide con la linea di divisione tra la nostra specie e le altre, poiché non solo è certo, come gli autori affermano, che non tutti gli umani sono «Umani» ma anche che - e questo aspetto non pare essere sufficientemente sottolineato - che la maggioranza dei «Terreni» sono animali.
4. Nella bio-storia di Danowski e Viveiros de Castro gli animali - che sperimentano quotidianamente la fine dei loro mondi - continuano a rivestire un ruolo politico ancora troppo marginale. Sebbene non esitino a definire «l’“eccezionalità umana” [...] un autentico stato d’eccezione ontologico» che legittima «l’immagine prometeica dell’Uomo che conquista la Natura» (pp. 73-74) e a ridicolizzare l’idea secondo cui saremmo animali dotati di un «supplemento spirituale che è “il proprio dell’uomo” - la preziosa proprietà privata della specie» (p. 144), i due autori non riescono a liberarsi completamente dall’antropocentrismo che percorre indisturbato anche il pensiero più critico 3.
Testimonianza di questa tenace persistenza è l’idea discutibile secondo cui antropocentrismo (occidentale) e antropomorfismo (amerindio) rappresentino visioni del mondo diametralmente contrapposte: se è vero, infatti, che «dire che tutto è umano è come dire che gli umani non sono una specie speciale» (p. 155), altrettanto vero è che l’affermazione “tutto è umano” nasconde - volenti o nolenti - un’operazione di appropriazione colonizzante dei mondi non umani. In altri termini, l’umano continua ad essere l’operatore centrale, seppur depotenziato, anche nel caso dell’ antropomorfismo.
Non a caso, allora, pur usando una terminologia corretta per descrivere le loro condizioni di detenzione («La spaventosa legione di animali confinati e torturati in campi di sterminio per l’estrazione di proteine»), i due autori annoverano gli «animali da reddito» tra gli «alleati» degli Umani in quanto «potenti fabbriche di metano» (p. 211) e non esitano a domandarsi: «Quando esauriremo le scorte di pesci?» (p. 243).
Con queste premesse, risulta difficile capire come sia possibile lasciarsi alle spalle le nozioni sezionanti di «Umano-in-sé» e di «Animale-in-sé» (p. 156), passo che Danowski e Viveiros de Castro sembrano considerare necessario per pensare la tanto auspicata «decivilizzazione» (p. 205), per mettersi all’ascolto « dell’eccezionalismo terrestre» (p. 188), per rendersi finalmente «responsabili dinanzi ai Terreni» (p. 235).
5. Pochi dubbi possono sussistere circa il fatto che il motto andino « Vivir bien e no mejor» (p. 163) debba costituire il fine a cui, nel tempo della fine, della «mancanza di scelta» (p. 246), dovrebbe tendere la resistenza dei Terreni alla «logica assolutamente non addomesticabile del capitalismo» (p. 235). Meno certo è invece come tale fine possa trasformarsi in una politica a venire all’altezza dei tempi e del tempo che resta.
Basta il generico «becoming with» di Haraway (p. 237) o il troppo locale «ridivenire-indio» degli autori? O, forse, per trasformare lo «shock» in «evento» (p. 252) è necessario radicalizzare questi divenire nel deleuziano divenire animale? Non è, infatti, il concetto di specie e l’opposizione Umano/Animale l’operatore più tagliente che sta al centro dei meccanismi materiali e simbolici che hanno costruito proprio quella società degli Umani che si vorrebbe combattere?
6. Nel 1955, Deleuze afferma che «L’uomo è un animale che si sta spogliando della specie» 4. L’irruzione di Gaia ha inverato questa intuizione. La questione oggi è come pensare e agire per far sì che questo spogliarsi non si traduca - come finora è accaduto - in spoliazione, ma in esitazione potenziante, gioiosa e creativa. La crisi ecologica in corso, infatti, non è caratterizzata esclusivamente, come pensano i più, dall’urgenza materiale di ridurre, per quanto possibile, i danni - urgenza che, tra l’altro, potrebbe spingere in direzione di un’ulteriore e più salda presa dell’Umano e pertanto «mascherare una grandiosa espansione del vangelo diabolico dello “sviluppo”» (p. 249).
L’ingombrante presenza di Gaia impone infatti un’altra e ancora più decisiva urgenza: il ripensamento radicale delle categorie politiche che ci hanno portato qui dove siamo, nel tempo dell’orrore più estremo, urgenza questa ben più difficilmente digeribile dalle logiche dell’impresa tecno-capitalista. Urgenza più resistente perché libera dal fardello narcisistico dell’antropocentrismo, perché sostenuta dalla consapevolezza che, come sostiene Kojève, «la scomparsa dell’Uomo alla fine della Storia non è [...] una catastrofe cosmica: il Mondo naturale resta quello che è da tutta l’eternità. E non è nemmeno una catastrofe biologica: l’Uomo resta in vita come animale [...]. Ciò che scompare è l’Uomo propriamente detto [...] [e] il Soggetto opposto all’Oggetto [...]. Tutto il resto può mantenersi indefinitamente; l’arte, l’amore, il gioco, ecc.; insomma, tutto ciò che rende l’uomo felice» 5. E questa, ovviamente, è tutta un’altra bio-storia, un mondo a venire che, forse per gli ultimi istanti, sta ancora aspettando un atto di creazione.
1 Michel Foucault, Crisi della medicina o crisi dell’antimedicina?, in Id., Il filosofo militante. Archivio Foucault 2, Milano, Feltrinelli, 2017, p. 210.
2 Le pagine da cui sono tratte le citazioni sono riportate nel testo tra parentesi.
3 Un esempio recente di questa forclusione è il volume di Olivier Razac, Storia politica del filo spinato, Verona, ombre corte, 2017. Il saggio, per altri versi estremamente interessante, si dimentica infatti di porre nella giusta prospettiva il ruolo politico della reclusione degli animali, nonostante il filo spinato sia tuttora uno dei dispositivi di compartimentalizzazione dello spazio centrale nella gestione della vita dei non umani.
4 Gilles Deleuze, Istinti e istituzioni, Milano-Udine, Mimesis, 2014, p. 32.
5 Alexandre Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Milano, Adelphi, 1996, p. 541.
MATEMATICA, FILOSOFIA, E TEOLOGIA: GALILEI, ROCCAMORA, E NEWTON... *
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LA COMETA, L’APOCALISSE, LE "CIFRE DELL’EUCHARISTIA", E UNA BOTTIGLIA DI ROCCAMORA!!!
IN VINO VERITAS. Una nota
di Federico La Sala
A COMINCIARE DALLA FINE, E DALLA BOTTIGLIA DI "ROCCAMORA" (sull’etichetta della bottiglia di rosso "negroamaro", in forma di "croce", appare un "calice" con dentro il "sole"!), GUARDANDO E "LEGGENDO" CON maggiore ATTENZIONE L’IMMAGINE DELL’ETICHETTA, E FREQUENTANDO (di più) LA "SCHOLA SARMENTI" , è possibile capire MEGLIO (mi sia lecito!!!) QUESTO PREZIOSO contributo del prof. Armando Polito,
"ROCCAMORA, OVVERO IL VINO COME STORIA E COME CULTURA",
e, forse, riuscire a non confondere il buon-vino con il vino taroccato, o, diversamente e più pertinentemente, di non perdere il legame che corre e scorre tra il vino, l’acqua sporca, e il bambino.
Qui il discorso è, o, se si vuole, diventa filosofico, antropologico, e teologico! La questione (e la parola) rimanda alla EUCHARISTIA e alle sue CIFRE - all’opera di GIOVANNI DOMENICO ROCCAMORA (CFR.: Delle cifre dell’Eucharistia) - vale a dire al lavoro di DECIFRAZIONE (dei "due libri": Bibbia e Natura, come da lezione di GALILEO GALILEI) portato avanti dal teologo, filosofo e matematico, GIOVANNI DOMENICO ROCCAMORA.
SENZA FARSI PRENDERE DALLA FRETTA (vedi: "Intriga non poco Assist[ens?] et Galil[ei?] discipul[us] ma il tempo incalza"), Il lavoro sulla "Filosofia dei nobili" del 1668, Il trattato sulla cometa del 1970, e il trattato sulle "cifre dell’Eucharistia" (1668-1684) vanno riletti di nuovo e insieme, e, sicuramente, in un orizzonte di cultura che sappia riunire la SAPIENZA dell’Università (Roma) e la "SCHOLA SARMENTI" del ROCCAMORA!!!
UNA BUONA E BELLA OCCASIONE DA NON SCIUPARE, PER BRINDARE AL BRILLANTE LAVORO DEL PROF. POLITO, ALLA FONDAZIONE TERRA DI OTRANTO, E ALLA "SCHOLA SARMENTI" E AL ROCCAMORA..
P. S.
SUL TEMA, da ricordare e non sottovalutare, che tra il 1660 e il 168o ISAAC NEWTON si occupa di interpretazione profezie e particolarmente dell’ "Apocalisse" (cfr. Isaac Newton, "Trattato sull’Apocalisse", a c. di M. Mamiani, TORINO 1994).
Dalla Controriforma ai Lumi. Ideologia e didattica nella "Sapienza" romana del Seicento
di Giovanni Rita *
[...] Dopo una pausa di altri due anni in cui restò ancora senza maestri, la disciplina vide per la prima volta una continuità con Benedetto Castelli, un monaco benedettino già alunno e amico di Galilei, chiamato dal papa come precettore del nipote Taddeo Barberini 129. Castelli poté svolgere a Roma anche un’attività di consulente in opere idrauliche, fino a che l’esito del processo a Galileo non gli consigliò di ritirarsi in Toscana. Ma intanto il maestro aveva potuto formare numerosi allievi, ricordati ancora oggi in vari campi, ove essi finalmente ebbero modo di applicare i nuovi metodi130. Tra di loro, il lucchese Santini fu suo successore sulla cattedra romana: benché, a giudicare dai ruoli, svolgesse ancora gli Elementi euclidei e la Sfera di Sacrobosco, Santini dedicò un corso a quella che sembra una nuova impostazione disciplinare, la «geometria speculativa et practica»; oppure una «theorica planetarum» che figurava indipendentemente dalla tradizionale «astronomia Ptolemaei» 131. A sua volta l’eclettico monaco Gian Domenico Roccamora, pur subendo ancora a volte il fascino del barocco 132, proseguì nelle innovazioni del predecessore, aggiungendo ulteriori argomenti quali «de arcibus muniendis», «de optica», «de fortificationibus»133. [...].
Nota 132:
"Roccamora (mathematica 1664-1684: I maestri, p. 923) fu autore del Delle cifre dell’Eucharistia. Cioè a dire di quel Libro, che fù discifrato dall’Agnello à i venti quattro Vecchioni dell’Apocalisse, I-IV, Roma, Dragondelli, 1668-1684, grottesca opera di pseudo-esegesi biblica su cui, con ampie citazioni, v. Giovanni Rita, Il Barocco in Sapienza. Università e cultura a Roma nel secolo XVII, in Luoghi della cultura nella Roma di Borromini, Roma, Retablo, 2004, p. 56-58. Da quanto risulta inoltre da ASR, Università 87, f. 6-9 (del 1681) Roccamora aveva progettato una «sfera bizzarrissima» che avrebbe segnato l’ora nelle varie parti della terra oltre alle fasi lunari, eventuali eclissi e perfino riprodotto con giochi d’acqua l’esistenza di fiumi e oceani".
* Cfr. : Annali di Storia delle Università italiane - Volume 9 (2005) - ripresa parziale.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
Federico La Sala
DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE....
L’uomo della Luna Buzz Aldrin al Wired Next FesT: “Dobbiamo continuare a esplorare o moriremo”
Ospite del terzo giorno di Wired Next Fest, il secondo uomo ad aver calpestato il suolo lunare ha espresso idee piuttosto precise sul nostro futuro spaziale
Il video del lancio dell’Apollo 11 dalla piattaforma 39 del Kennedy Space Center emoziona a 48 anni di distanza: la partenza, l’allunaggio, il ritorno. Al Wired Next Fest 2017, Buzz Aldrin lo guarda con la stessa emozione di una sala gremita di persone lì per incontrarlo. “L’ho visto miliardi di volte - commenta l’ex astronauta - ma è meraviglioso ricordare quello che è successo. Mi riporta a rievocare quei giorni, pensando a chi ci ha spianato la via perché potessimo arrivare lì. Sia chiaro, sono anche andato al Polo Nord. Ho visto il Titanic sott’acqua. Ho visitato il Polo Sud. Sono disposto ad andare ovunque per essere utile agli altri. Al mio Paese, certo, ma in fondo all’Umanità. Dobbiamo esplorare o morire”.
Risponde così Aldrin a chi gli chieda perché uno dei prime due uomini ad aver messo piede sulla Luna, il 20 luglio 1969, non sembri fermarsi mai. Battezzato Edwin Eugene Aldrin Jr., il futuro Buzz - nome acquisito legalmente nel 1988 - è nato a Montclair, nel New Jersey, il 20 gennaio del 1930.
Figlio di un pioniere dell’aeronautica, Edwin Eugene Sr., si è presto rivelato degno erede dei genitori e per più di un motivo: il cognome della madre, Marion, era Moon.
“Un segno del destino”, ama scherzare lui - come nella recente biografia No Dream Is Too High - per quanto sul futuro delle missioni spaziali abbia idee precise e piuttosto serie: “Non credo oggi gli americani sarebbero grandi sostenitori dell’idea di tornare sulla Luna e men che meno ne sarebbero finanziatori entusiasti.
Credo tuttavia sarebbero felici di appoggiare una coalizione di stati che perseguisse questo obbiettivo. E magari volesse andare oltre, da Marte a Saturno “.
Sentirlo dire da uno dei protagonisti della cosiddetta Space Race, una competizione dal senso ben più che tecnologico, ha ancora più senso: “Quando nel 1961 John Fitzgerald Kennedy promise che entro la fine del decennio un uomo sarebbe andato e tornato dalla Luna non esistevano piani definiti per farlo, non c’era una strategia. Si andava di pari passo con la tecnologia in una corsa contro l’Unione sovietica la cui vittoria finì per richiedere troppe energie”.
Che la Storia abbia insegnato davvero? “Esatto. Anche per non sprecare risorse economiche preziose, oggi dovremmo agire da consulenti. Nessuno che si occupi di sviluppare lander spaziali o lanciatori dovrebbe essere troppo in concorrenza con gli altri. Qualcuno dovrà raccontare ai nostri leader quali strategie perseguire e gli obbiettivi dovranno essere raggiunti tutti insieme: ovviamente, negli Stati Uniti, quel consigliere si chiamerà Buzz“.
Non c’è ombra di indecisione quando l’uomo che con Neil Armstrong condivise anche l’addestramento a West Point parla. “Mi piacerebbe riferirmi non solo al mio presidente, ma anche ad altri 40 o 50 astronauti che immagino già nati: la collaborazione sarà fondamentale per allestire una squadra internazionale di esploratori del cosmo. Sia chiaro, occorreranno persone di un’età giusta, sufficientemente mature per prendere la più importante decisione della loro vita: diventare pellegrini che entrino nella storia. I primi uomini a raggiungere un altro pianeta. E non per una visita: immaginate una squadra internazionale che fra partenza, viaggio e permanenza in attesa dell’equipaggio successivo, rimanga via dalla Terra una decina d’anni. E che solo al ritorno sarà in grado di capire l’importanza di quanto fatto. Perché è al ritorno che si capiscono certe cose”.
Evidente si riferisca a se stesso: “Voglio essere utile. In passato ho dovuto affrontare momenti di depressione. Mio nonno si è suicidato, mia madre ha fatto lo stesso prima che partissi verso la Luna e io ho avuto problemi con l’alcol. Così non si può essere utili agli altri. Ed è fondamentale che lo siamo. Credo che in fondo un astronauta faccia questo”.
Un volo logico azzardato per quanto legittimo visto il personaggio: “Occorre che un astronauta combatta le cosiddette paludi della vita. E non solo in senso metaforico: dall’allunaggio in poi, questioni economiche e conflitti hanno parzialmente rallentato il nostro obiettivo: lavorare per il nostro futuro. Occorre si ricominci, dobbiamo abituarci a lavorare insieme per oltrepassare i nostri confini“.
Capitalismo come religione
di Walter Benjamin *
Nel capitalismo va individuata una religione; il capitalismo, cioè, serve essenzialmente all’appagamento delle stesse preoccupazioni, tormenti, inquietudini a cui in passato davano risposta le cosiddette religioni. Dimostrare tale struttura religiosa del capitalismo - e non solo, come ritiene Weber, in quanto costruzione determinata in senso religioso, bensì in quanto fenomeno essenzialmente religioso - condurrebbe ancora oggi nella direzione sbagliata di una smisurata polemica universale. Non possiamo sbrogliare la rete in cui ci troviamo. In seguito, tuttavia, ne avremo una visione d’insieme.
Tre tratti di questa struttura religiosa del capitalismo sono però riconoscibili già nel presente. In primo luogo, il capitalismo è una religione puramente cultuale, la più estrema forse che mai si sia data. Tutto, in esso, ha significato soltanto in rapporto immediato con il culto; non conosce nessuna particolare dogmatica, nessuna teologia. L’utilitarismo acquisisce, da questo punto di vista, la sua coloritura religiosa. A questa concretizzazione del culto è connesso un secondo tratto del capitalismo: la durata permanente del culto. Il capitalismo è la celebrazione di un culto sans [t]rêve et sans merci [“senza tregua e senza pietà”]. Non ci sono “giorni feriali”; non c’è giorno che non sia festivo, nel senso spaventoso del dispiegamento di ogni pompa sacrale, dello sforzo estremo del venerante. Questo culto è in terzo luogo, al contempo, colpevolizzante e indebitante (verschuldend). Il capitalismo è presumibilmente il primo caso di un culto che non consente espiazione, bensì produce colpa e debito (verschuldend). Ed è qui che questo sistema religioso precipita in un movimento immane. Una terribile coscienza della colpa (Schuldbewuβtsein), che non sa purificarsi, ricorre al culto non per espiare in esso questa colpa, bensì per renderla universale, per conficcarla nella coscienza e, infine e soprattutto, per coinvolgere in questa colpa il dio stesso e alla fine rendere lui stesso interessato all’espiazione.
Espiazione che tuttavia non va attesa dal culto stesso, e nemmeno dalla riforma di questa religione - che dovrebbe potersi reggere su qualcosa di saldo in essa - e neanche dal rinnegarla. È nell’essenza di questo movimento religioso - che è il capitalismo - resistere fino alla fine, fino alla finale e completa colpevolizzazione di Dio, al suo indebitamento, fino al raggiungimento dello stato di disperazione del mondo, in cui si arriva persino a sperare. In questo consiste l’aspetto storicamente inaudito del capitalismo: la religione non è più riforma dell’essere, bensì la sua frantumazione. L’estensione della disperazione a stato religioso del mondo è ciò da cui si attende la salvezza. La trascendenza di Dio è caduta. Ma egli non è morto, è incluso nel destino umano. Questo transito del pianeta Uomo per la casa della disperazione, nell’assoluta solitudine della sua orbita, è l’ethos che Nietzsche determina. Questo uomo è l’Übermensch, il primo che comincia consapevolmente a compiere la religione capitalistica. Il cui quarto tratto è che il suo Dio deve restare nascosto ed è permesso invocarlo soltanto allo Zenit della sua colpevolizzazione, del suo indebitamento. Il culto è celebrato al cospetto di una divinità immatura - ogni rappresentazione, ogni pensiero rivolto a essa viola il segreto della sua maturità.
Anche la teoria freudiana appartiene al dominio sacerdotale di questo culto. Essa è concepita interamente in modo capitalistico. Il rimosso, la rappresentazione peccaminosa, è - per una profonda analogia ancora da esaminare - il capitale, che grava di interessi l’inferno dell’inconscio.
Il tipo di pensiero religioso capitalistico si trova espresso grandiosamente nella filosofia di Nietzsche. L’idea dell’Übermensch disloca il “balzo” apocalittico non nell’inversione (Umkehr), nell’espiazione, nella purificazione, nella penitenza, bensì in un potenziamento apparentemente costante, ma che nell’ultimo tratto è dirompente e discontinuo. Pertanto, potenziamento e sviluppo nel senso del “non facit saltum” sono incompatibili. L’Übermensch è l’uomo storico giunto alla sua condizione senza inversione di rotta, cresciuto fino ad attraversare il cielo. Nietzsche ha anticipato questa deflagrazione del cielo per mezzo di un elemento umano potenziato, che (anche per Nietzsche) è e resta in termini religiosi colpevolizzazione. E più o meno lo stesso vale per Marx: il capitalismo che non si inverte diviene - con interessi e interessi composti che sono funzioni del debito (notare l’ambiguità demoniaca di questo concetto) - Socialismo.
Il capitalismo è una religione di mero culto, senza dogma.
Il capitalismo si è sviluppato in Occidente - come va dimostrato non soltanto per il calvinismo, ma anche per le altre correnti cristiane ortodosse - in modo parassitario sul cristianesimo, in modo tale che, alla fine, la storia di quest’ultimo è essenzialmente quella del suo parassita, il capitalismo.
Paragone tra, da un lato, le immagini sacre delle diverse religioni e, dall’altro, le banconote dei diversi Stati. Lo spirito che parla dall’ornamento delle banconote.
Capitalismo e diritto. Carattere pagano del diritto: Sorel, Réflexions sur la violence, p. 262.
Superamento del capitalismo mediante la migrazione: Unger, Politik und Metaphysik, p. 44.
Fuchs, Struktur der kapitalistischen Gesellschaft (o qualcosa di simile).
Max Weber, Ges. Aufsätze zur Religionssoziologie, 2 voll., 1919-1920.
Ernst Troeltsch, Die Soziallehren der chr. Kirchen und Gruppen (Ges. W. I, 1912).
Si vedano le indicazioni bibliografiche di Schönberg II.
Landauer, Aufruf zum Sozialismus, p. 144.
Le preoccupazioni: una malattia dello spirito propria dell’epoca capitalistica. Assenza spirituale (e non materiale) di via d’uscita nella povertà e nel monachesimo di vaganti e mendicanti. Una condizione che è talmente senza via d’uscita da essere colpevolizzante e indebitante. Le “preoccupazioni” sono l’indice di tale coscienza della colpa per l’assenza di via d’uscita. Le “preoccupazioni” sorgono dall’angoscia per l’assenza di una via d’uscita che sia comunitaria e non individuale-materiale.
Il cristianesimo nell’epoca della Riforma non ha favorito l’avvento del capitalismo, ma si è trasformato in capitalismo.
Sul piano metodologico si dovrebbe indagare innanzitutto quali legami il denaro abbia stretto con il mito nel corso della storia, finché non ha potuto trarre dal cristianesimo così tanti elementi mitici da costituire un proprio mito.
Guidrigildo / thesaurus delle buone opere / compenso dovuto al sacerdote. Pluto come dio della ricchezza.
Adam Müller, Reden über die Beredsamkeit, 1816, p. 56 sgg.
Connessione con il capitalismo del dogma della natura dissolutrice del sapere, che ha la capacità al contempo di redimerci e di ucciderci: il bilancio in quanto sapere che redime e che liquida.
Contribuisce a riconoscere che il capitalismo è una religione rammentare che il paganesimo originario ha dapprima compreso la religione non come un interesse “superiore” e “morale”, bensì come il più immediato interesse pratico; in altre parole, non aveva affatto chiaro, come il capitalismo odierno, la sua natura “ideale” o “trascendente”, ma vedeva piuttosto nell’individuo irreligioso o di altra confessione della sua comunità un membro indubitabile di essa, proprio nel senso in cui la borghesia di oggi considera i suoi membri che non guadagnano.
[metà 1921]
Walter Benjamin, Gesammelte Schriften, vol. VI, a cura di Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhäuser, Frankfurt a.M. 1972-1989, pp. 100-103; in Dario Gentili, Mauro Ponzi, Elettra Stimilli (a cura di), Il culto del capitale. Walter Benjamin: Capitalismo e religione, Quodlibet, Macerata 2014, pp. 9-12. Traduzione a cura del Seminario dell’Associazione Italiana Walter Benjamin (AWB).
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L’Universo è una simulazione?
Teorizzato dai filosofi, studiato dai fisici, preso sul serio dai titani della Silicon Valley: torna il più radicale dei dubbi.
di Roberto Paura (il Tascabile, 23.01.2017)
Nell’aprile scorso l’American Museum of Natural History di New York ha ospitato l’annuale “Isaac Asimov Memorial Debate” e ha invitato alcuni ospiti illustri a discutere del quesito “Il nostro universo è una simulazione?”. Per l’esattezza si trattava del filosofo David Chalmers, autore di Che cos’è la coscienza?; e dei fisici teorici Zohreh Davoudi, James Gates Lisa Randall e Max Tegmark. A moderare l’incontro c’era l’astrofisico Neil deGrasse Tyson, il volto più noto della divulgazione scientifica americana. Tanta concentrazione d’intelligenza per una domanda così bizzarra sembrerebbe una perdita di tempo. Se non che tutti i relatori, con l’eccezione di Lisa Randall, sono sostenitori più o meno convinti del cosiddetto simulation argument: l’ipotesi secondo cui l’universo sarebbe una simulazione informatica programmata da una super-intelligenza esterna alla nostra realtà.
Specificità tecnologiche a parte, non si tratta di un’idea nuova. Dal velo di Maya alla caverna di Platone, dal dubbio metodico di Al-Ghazali al genio maligno di Cartesio, per finire con l’esperimento mentale del cervello nella vasca di Putnam; lo scetticismo circa l’autentica natura della realtà ha attraversato tutte le epoche e le latitudini del pensiero.
A rimetterlo in circolo nella sua formalizzazione più contemporanea è stato il filosofo analitico svedese Nick Bostrom. Direttore dell’Institute for the future of humanity di Oxford, nel 2003 Bostrom ha pubblicato su Philosphical Quarterly un paper dal titolo “Are you Living in a Computer Simulation?”. Dopo aver riepilogato le tesi a favore della nostra futura capacità di creare al computer menti dotate di consapevolezza, nel testo Bostrom speculava sulla possibilità che una civiltà super evoluta fosse in grado di sviluppare non solo una simulazione della realtà così ricca di informazione da essere indistinguibile dalla realtà stessa ma addirittura “un numero astronomico” di tali simulazioni. Da ciò desumeva, su basi probabilistiche, l’esistenza di forti indizi per ritenere che anche la nostra realtà non sia altro che una di queste simulazioni, realizzata da un’altra civiltà super intelligente ed esterna al nostro mondo.
A ciò aggiungeva un’altra congettura: se una civiltà simulata raggiungesse, grazie al progresso tecnologico, lo stadio post-umano, sarebbe a sua volta in grado di realizzare una simulazione dell’universo dotata di esseri coscienti. Se una simile eventualità si verificasse nel futuro della nostra civiltà, essa non solo dimostrerebbe che è possibile programmare simulazioni ma, ipso facto, aumenterebbe le nostre probabilità di vivere all’interno di una di esse. E non solo: una simulazione all’interno di una simulazione (una nested simulation, come la chiama Bostrom) richiederebbe un dispendio di calcolo, per i computer su cui gira la prima simulazione, tale che i programmatori di questa dovrebbero impedire questa possibilità o terminare il programma. Per questo motivo, sostiene Bostrom, il simulation argument non è solo un affascinante passatempo intellettuale ma un’ipotesi da prendere con la massima serietà dato che potrebbe rappresentare il principale e più sottovalutato existential risk per la prosecuzione della nostra civiltà.
Partito un po’ in sordina, con il passare degli anni, l’argomento di Bostrom ha attirato una crescente attenzione negli ambienti filosofici, scientifici e tecnologici ed è diventato uno dei più discussi all’interno delle élite imprenditoriali della Silicon Valley. Non stupisce quindi che a sdoganarlo definitivamente presso il grande pubblico ci abbia pensato proprio un esponente di quelle élite: Elon Musk. Il quale, nel giugno 2016, ha dichiarato che, a suo parere, la possibilità che il nostro universo non sia una simulazione sia di appena una su un miliardo. Dato il pedigree del CEO di Tesla e Space X, la dichiarazione ha fatto presto il giro del mondo e destato immenso scalpore.
Una congettura fantascientifica
E dire che, per non farsi cogliere impreparati, sarebbe bastato leggere della buona fantascienza. È da tempi non sospetti infatti che questo genere si confronta con storie che attingono dalla stessa tradizione scettica a cui si è abbeverato Bostrom. Il tunnel sotto il mondo, per esempio, è un racconto scritto nel 1955 da Frederik Pohl. Il protagonista, Guy Burckhardt, vive in una tipica cittadina americana, Tylerton, dove la tranquillità è continuamente scossa da insistenti slogan commerciali urlati dagli altoparlanti di furgoncini che girano per le strade proponendo l’ultimo modello di frigorifero o l’ultima marca di sigarette. Una serie di stranezze, però, suggeriscono a Burckhardt che qualcosa non va come dovrebbe. Prima scopre che a Tylerton ogni giorno è sempre il 15 giugno; poi, che le persone intorno a lui sono tutte robot. Infine - nelle ultime, agghiaccianti righe del racconto - che la sua città è stata distrutta da un’esplosione e ricostruita in miniatura su un tavolo: Buckhardt stesso non è che una replica robotica in miniatura del vero Buckhardt. Il suo mondo finisce, alla lettera, sull’orlo di un tavolo di laboratorio.
Quattro anni dopo Philip Dick avrebbe ripreso questi temi nel suo celebre Tempo fuor di sesto, dove Ragle Gumm, il protagonista, impegnato quotidianamente a risolvere il gioco a premi di un giornale, inizia a dubitare della realtà che lo circonda a seguito di una serie di coincidenze, che partono dal momento in cui cerca senza successo di accendere la lampadina del bagno tirando una cordicella che non c’è mai stata. Gradualmente scopre l’amara verità: la sua città è una finzione creata tutta intorno a lui, per ricordargli la sua infanzia negli anni Cinquanta e permettergli di risolvere con tranquillità il gioco a premi che nasconde in realtà una posta molto più grande di quanto sospetti, ossia la possibilità di prevedere la traiettoria dei missili balistici lanciati dal nemico nel corso di una lunga guerra nucleare.
Nel 1964 Daniel Galouye fa un passo più avanti e in Simulacron-3 (recentemente riproposto dall’editrice Atlantide con il titolo Il mondo sul filo) fa entrare finalmente in scena il potere della simulazione informatica. Douglas Hall, il protagonista del romanzo, uno dei capo-progettisti della simulazione “Simulacron-3”, in grado di replicare alla perfezione il mondo reale, scopre che il suo collega Fuller si è tolto la vita dopo aver fatto una scoperta spaventosa: il loro universo è in realtà una simulazione, creata con gli stessi scopi di Simulacron-3 (raccogliere e analizzare i feedback degli utenti sulle loro preferenze di consumo per orientare le strategie aziendali e le politiche pubbliche). Il romanzo di Galouye introduce per primo l’idea che, attraverso la capacità dei nostri computer di realizzare simulazioni sociali sempre più sofisticate, si possa arrivare a scoprire che anche il nostro mondo sia, a sua volta, creato al computer.
Se ai tempi di Galouye l’idea di simulare un intero universo al computer pareva una remotissima fantasia, l’anno scorso un videogioco come No Man’s Sky ha dimostrato che, almeno in parte, già oggi potrebbe non essere più così. Realizzato da un piccolo team indipendente, NMS è infatti in grado di creare fino a diciotto quintilioni di mondi alieni grazie a uno speciale algoritmo che, per ciascun pianeta, genera una fauna, una flora e una geografia peculiare e unica. “La fisica di ogni altro gioco è finta”, ha dichiarato il suo capo-progettista, Sean Murray.
Certo, per quanto tutto questo sia impressionante, No Man’s Sky resta comunque un universo intangibile e vuoto, in termini di intelligenza: non ci sono esseri viventi con una propria coscienza, per cui non è una vera simulazione. Ma se abbiamo fatto così tanti passi avanti da quando la fisica dei videogiochi si limitava a simulare il lancio di una pallina contro un muro di mattoni virtuali, cosa ci riserva il futuro?
Verso la superintelligenza?
Nel suo libro La realtà nascosta, il fisico e matematico Brian Greene ha calcolato che un computer quantistico “non più grande di un portatile ha la capacità di eseguire l’equivalente di tutto il pensiero umano sin dagli albori della nostra specie in una piccola frazione di secondo”. Stiamo inoltre investendo grosse cifre nella capacità di simulare il cervello umano per carpire il segreto della coscienza umana. L’obiettivo originario dell’Human Brain Project di Henry Markram, già coordinatore del Blue Brain Project, era proprio questo: grazie a un finanziamento di un miliardo di euro dalla Commissione Europea, e massicci investimenti di aziende private come la IBM, lo Human Brain Project intendeva creare entro il 2023 una simulazione completa del cervello umano su un supercomputer: possibile preludio allo sviluppo di una vera e propria superintelligenza artificiale, anche se il progetto sembre essere stato ridimensionato negli ultimi tempi.
Personalità come Stephen Hawking, Bill Gates e lo stesso Elon Musk hanno tuttavia recentemente messo in guardia da simili sviluppi, che, a loro giudizio, potrebbero rivelarsi un vicolo cieco per la civiltà umana. Le ragioni sono diverse, ma una di esse ha a che fare proprio con la congettura della simulazione: come nel film Matrix, infatti, è possibile che delle superintelligenze artificiali decidano di perseguire obiettivi completamente diversi da quelli che vorremmo assegnare loro, giungendo alla conclusione che la nostra esistenza possa compromettere la loro. Di conseguenza, esse potrebbero ridurci in schiavitù e proiettare le nostre coscienze in una perfetta simulazione del nostro mondo per non farci rendere conto del vero stato in cui siamo stati costretti. Questo scenario è stato suggerito proprio da Bostrom nel suo influente Superintelligence (2014), il libro che ha convinto Musk a destinare alcuni milioni di dollari al Future of Life Institute di Boston per ricerche destinate a minimizzare i rischi connessi allo sviluppo di intelligenze artificiali (tra i destinatari del finanziamento c’è lo stesso Bostrom, per lo sviluppo a Oxford di uno Strategic Artificial Intelligence Research Center).
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Nel 1963 Philip Dick ebbe una visione spaventosa: alzando lo sguardo al cielo notò una faccia metallica che lo fissava con malvagità. Questa visione lo turbò a lungo. Anni dopo, il 2 marzo del 1974, un fatto del tutto banale - un ciondolo a forma di pesce, l’antico simbolo protocristiano, indossato da una ragazza - scatenò in lui tutta una serie di visioni e sogni: un turbinio di quadri psichedelici, intere pagine di libri mai letti, radio che continuavano a trasmettere anche una volta staccata la spina, fino all’inquietante premonizione di un problema di salute di suo figlio che i dottori avrebbero effettivamente diagnosticato quando Dick lo portò a visitare. Lo scrittore di fantascienza si convinse, come nella trama di una delle sue tante storie, che il suo mondo non era reale, ma una “prigione” costruita da una civiltà malvagia da lui identificata nell’antico Impero Romano, intenzionata a mantenere l’umanità in una perenne schiavitù.
Le visioni e le apparizioni sarebbero “crepe” della simulazione attraverso le quali è possibile indovinare l’esistenza di un livello di realtà superiore, come gradualmente Dick giunse a ricostruire nelle circa ottomila deliranti pagine che costituiscono L’Esegesi, pubblicata per la prima volta nel 2011 in una versione “riassuntiva” di circa 1200 pagine, tradotte in Italia nel 2015 da Maurizio Nati per l’editore Fanucci. Accade così anche in Tempo fuor di sesto o, per uscire dai confini dickiani, in Simulacron-3 e nelle sue versioni cinematografiche: cose che non sono al loro posto, strane amnesie, radio che trasmettono quello che non dovrebbero trasmettere. Queste cose succedono anche nella nostra realtà, ma è facile attribuirle a disturbi psicologi, paranoie o allucinazioni. Esistono allora modi attraverso i quali potremmo scoprire di vivere effettivamente in una simulazione? Indizi incontrovertibili, o comunque verificabili attraverso il metodo scientifico? Forse sì.
L’ipotesi alla prova
Uno di questi possibili indizi è stato studiato da Zohreh Davoudi, una delle partecipanti all’Asimov Memoriale Debate, in un paper pubblicato nel 2012. Il lavoro di Davoudi e colleghi parte da considerazioni che riguardano lo stato dell’arte di una particolare teoria fisica, quella della cromodinamica quantistica (QCD), che descrive la forza nucleare forte che fa interagire e tiene uniti i quark per formare neutroni, protoni e altre particelle subatomiche. Il metodo più potente per studiare la QCD prevede oggi l’utilizzo di sofisticate simulazioni informatiche chiamate tecniche di QCD su reticolo. In queste simulazioni lo spazio-tempo viene discretizzato (per comodità di utilizzo e per questioni di coerenza dei modelli teorici), e viene descritto non come un continuo ma come da un reticolo composto da una serie di cubi di scala femtometrica (di un milionesimo di miliardesimo di metro).
A questa scala e per questo tipo di interazioni, le simulazioni della QCD su reticolo sono repliche affidabili della realtà. Secondo Davoudi, allora, nei prossimi anni lo sviluppo tecnologico potrebbe consentire di far evolvere queste simulazioni. E arricchendole, le simulazioni potrebbero a quel punto arrivare a replicare anche le altre forze della natura (la forza nucleare debole, quella elettromagnetica e la gravità). E sviluppandole ancora si potrebbe arrivare finalmente a simulare un intero universo. Secondo Davoudi, insomma, gli ipotetici “simulatori di universi” potrebbero essere partiti a loro volta da un reticolo fentometrico non continuo (magari per motivi di ricerca scientifica pura), ed essere arrivati a una simulazione estremamente sofisticata su scala cosmologica che ha generato il nostro universo.
A questo punto se il nostro universo è una simulazione elaborata e potente basata su un reticolo, dovremmo riuscire a trovare qualche traccia di questo reticolo studiando la struttura fine del cosmo. Le dimensioni degli ipercubi - i “pixel” della realtà - che costruiscono il nostro universo simulato, però, potrebbero essere inferiori alla lunghezza di Planck (la lunghezza più piccola misurabile in natura), e quindi i “pixel” potrebbero non essere rilevabili da nessuna osservazione diretta. Ma anche in questo caso rimane qualche possibile soluzione: “Nel nostro universo le leggi della fisica sono le stesse in tutte le direzioni. Ma in un reticolo questo cambia. Dal momento che non c’è più un continuum spazio-temporale, le leggi della fisica dipenderebbero dalla direzione”, spiega al New Scientist Silas Beane, uno degli autori del paper. La simulazione potrebbe mostrarsi, per esempio, nella distribuzione dei raggi cosmici ad altissima energia. Invece di provenire da tutte le direzioni, infatti, per motivi di coerenza della teoria, i raggi cosmici ad altissima energia dovrebbero a quel punto mostrare direzioni preferenziali che dipendono proprio dalla struttura del reticolo su cui avviene la simulazione. “Abbiamo calcolato che se i simulatori usassero un reticolo con dimensioni di circa 10^-27 metri, l’energia limite cambierebbe per direzioni diverse”, spiega Beane. Data anche la rarità di questi fenomeni, però, al momento gli esperimenti non sono ancora in grado di indagare i raggi cosmici ad altissima energia con il dettaglio necessario per osservare la distribuzione e dirimere la questione.
Un ulteriore perfezionamento della simulazione potrebbe tra l’altro correggere anche questo “errore”, rendendolo invisibile anche alle nostre misurazioni indirette; ma resta un fatto: un universo simulato dev’essere per sua natura finito, perché le risorse dei potenziali simulatori sono finite. Pertanto, il volume che contiene la simulazione sarà a sua volta finito e ciò implica uno spazio-tempo discreto; per cui “in principio resta sempre la possibilità per il simulato di scoprire i simulatori”. Una di queste possibilità, secondo il cosmologo e matematico John Barrow, è quella di rilevare delle possibili modifiche alle costanti di natura e alle leggi fondamentali che i simulatori potrebbero aver avuto bisogno di introdurre di tanto in tanto per correggere gli errori strutturali della simulazione che si accumulano nel tempo. Come scrive nel suo Il libro degli universi: “se i simulatori usassero i codici informatici di correzione degli errori per premunirsi dalla fallibilità generale delle loro simulazioni (e li simulassero su scala inferiore al nostro codice genetico) [...] avverrebbero allora improvvisi cambiamenti in apparente contraddizione con le stesse leggi di natura che gli scienziati simulati erano abituati a osservare e predire”.
Uno dei partecipanti all’Asimov Memorial Debate, James Gates, direttore del Center for String and Particle Theory all’Università del Maryland di College Park, crede di aver trovato qualcosa del genere all’interno di un formalismo della supergravità, una delle tante teorie proposte in questi anni per provare a descrivere la gravità quantistica. Per ordinare geometricamente il modo in cui, in questa teoria, le particelle sono classificate, Gates e i suoi colleghi usano infatti delle figure molto complesse, chiamate “adinkra”, che nella cultura Ashanti rappresentato una sorta di ideogrammi. Non sono dei semplici disegni, però: gli adinkra sono la visualizzazione di un meccanismo più complesso, e il loro funzionamento ha effettivamente delle analogie con i codici di correzione degli errori utilizzati in informatica. Se questi “adinkra” giocassero davvero un ruolo essenziale nella rappresentazione della natura di una (eventuale) teoria del tutto della supergravità, avremmo quindi una teoria che descrive l’universo e che incorpora al suo interno dei codici binari in grado, forse, di riparare la realtà da errori di trascrizione, confermando l’ipotesi della simulazione. Quelle di Gates restano però ipotesi per ora forse troppo fantasiose, non verificabili, al limite della fisica nota, e non hanno raccolto molto successo nella comunità scientifica.
Le costanti della natura
Tuttavia, anche senza scomodare concetti così complessi, esistono altri strani indizi in natura, molto più noti e ben studiati, che potrebbero spingerci a conclusioni inquietanti. È noto da tempo, per esempio, che esistono certe “coincidenze” nelle leggi di natura che permettono alla vita come la conosciamo di esistere. Una di esse è la cosiddetta “risonanza” del carbonio, che è l’elemento chimico fondamentale della vita. Il carbonio nasce all’interno dei nuclei delle stelle grazie ai processi di fusione nucleare, in particolare alla fusione di tre atomi di eli. Tuttavia la possibilità che tre atomi di elio collidano in uno stesso istante è così irrisoria da non sembrare sufficiente a consentire la produzione delle quantità di carbonio che osserviamo nell’universo. Fred Hoyle, negli anni Cinquanta, suggerì una soluzione: due atomi di elio collidono e si fondono formando l’isotopo berillio-8, e questo, anziché decadere immediatamente perché instabile, resta “vivo” per un tempo insolitamente più lungo, sufficiente a ricevere la collisione di un altro atomo di elio e trasformarsi in carbonio. Il meccanismo che consente ciò si chiama “risonanza” e dipende dal fatto che il berillio-8 ha quasi la stessa energia dei due atomi di elio che lo hanno creato, e analogamente le masse del berillio-8 e di un altro atomo di elio possiedono lo stesso livello energetico di un nucleo eccitato di carbonio-12; ciò produce una risonanza che consente all’atomo di berillio di mantenersi stabile fino a cento miliardesimi di miliardesimo di secondo, il tempo sufficiente per collidere con un altro atomo di elio e formare il carbonio. Senza questa “coincidenza”, noi non staremmo qui a parlarne.
Questa e molte altre coincidenze hanno spinto gli scienziati a introdurre la congettura del multiverso: il nostro non è che uno di innumerevoli universi dove le costanti di natura assumono tutti i valori possibili, e solo in pochi, tra cui il nostro, questi valori consentono l’esistenza della vita. Ma, secondo gli scienziati che si interessano alla congettura della simulazione, potrebbe esserci un’altra spiegazione: qualcuno, lì fuori, ha “progettato” l’universo apposta per la vita. La comunità scientifica inorridisce di fronte a questo cosiddetto “principio antropico”, perché ritiene sia un modo per reintrodurre nella scienza il ruolo di un Progettista, ossia Dio. Ma se il progettista fosse semplicemente una civiltà post-umana?
Lo scrittore di fantascienza e studioso di cibernetica Stanislaw Lem trattò della congettura della simulazione nella sua imponente Summa Technologiae del 1966, purtroppo ancora inedita in Italia. Ma nel 1971 scrisse sull’argomento un racconto, Non Serviam, pubblicato nella raccolta Vuoto assoluto. Non Serviam è la storia della nascita della “personetica”, la scienza fittizia della creazione di personalità simulate all’interno di mondi virtuali, definita da alcuni “la più crudele tra le scienze ideate dall’uomo”. Anche se le simulazioni create dal professor Dobb non sono identiche alle nostre - per esempio i “personoidi” non si riproducono sessualmente -, sono rette dalle stesse leggi fisiche. “Oggi è possibile confezionare un ‘mondo’ abitato nel giro di un paio d’ore - il tempo necessario per inserire nel computer i dati di uno dei programmi di base”, si legge nel racconto di Lem.
La creazione dell’universo simulato si svolge a velocità accelerate e, analogamente, il programmatore può far scorrere il tempo più velocemente per saltare certi stadi dello sviluppo della civiltà personoide, per poi farlo combaciare con il tempo reale al fine di raccogliere i dialoghi e i pensieri dei singoli personoidi e studiarli. Tra questi ci sono esempi di dibattiti dei personoidi su Dio e sul perché della loro esistenza, del tutto identici a quelli che ci poniamo nel “mondo reale”. Discorsi che mettono a disagio il loro creatore, il professor Dobb, che presto si ritroverà, sotto la pressione dei costi energetici sempre più alti per far funzionare l’esperimento, a staccare la spina: “Spegnerò le macchine e sarà la fine del mondo. Cercherò di rimandare quell’istante il più possibile. È l’unica cosa che posso fare e non mi sembra esattamente degna di lode. Si tratta di quel che volgarmente viene definito ‘uno sporco lavoro’. Detto ciò, spero che nessuno si sia fatto venire strane idee. Se sì, sono affari suoi”.
Supervisione di Cesare Alemanni e Matteo De Giuli.
Telescopi puntati sul ’fratello’ della Terra
Si osserva Proxima b per aprire la via alla futura flotta di vele solari *
Il progetto per inviare una flotta di vele solari a caccia di vita nel pianeta scoperto nel sistema stellare Alpha Centauri, trova l’alleanza con i telescopi dell’Osservatorio Meridionale Europeo (Eso), che si trovano in Cile.
Per preparare il viaggio delle vele solari previsto dal progetto Breakthrough Starshot, rende noto l’Eso, il Very Large Telescope (Vlt) verrà modificato in modo da fotografare i dettagli del pianeta ’gemello’ della Terra scoperto recentemente attorno alla stella più vicina a noi, Proxima Centauri e che potrebbe ospitare forme di vita.
"Da poco tempo - ha spiegato Giancarlo Genta, del Politecnico di Torino e unico italiano membro del comitato scientifico di Breakthrough Starshot - sappiamo con certezza che lì esiste un pianeta, e sembrerebbe avere caratteristiche simili alla Terra, ma niente di più. Prima di mandare una sonda servirebbe saperne di più".
Per questo è nato un’accordo tra Eso, l’osservatorio che ha scoperto l’esistenza di Proxima b, e Breakthrough Starshot, il progetto che prevede di inviare una flotta di mini-sonde capaci di viaggiare a velocità altissime per raggiungere Alpha Centauri in appena 20 anni.
Il progetto Breakthrough Starshot è nato dalle idee di alcuni dei più importanti ricercatori del mondo, tra i quali l’astrofisico Stephen Hawkings, è finanziato dal magnate russo Yuri Milner ed è previsto nel 2069, ma i ricercatori sono già al lavoro. Dopo l’annuncio della realizzazione di una Google Map dello spazio interstellare, grazie ai dati del telescopio spaziale Hubble, fondamentale per guidare il viaggio delle sonde, arriva adesso l’accordo con uno dei più potenti telescopi al mondo.
"Le sonde - ha spiegato Genta - non potranno essere telecontrollate, ma dovranno essere autonome, quindi maggiori informazioni potremo avere più facile potrà essere il loro lavoro". Per questo si è concordato di fare di miglioramenti allo strumento Visir installato su Vlt, il maxi telescopio di oltre 8 metri di diametro che si trova nel deserto di Atacama, e di trasferire i miglioramenti anche su E-Elt (European Extremely Large Telescope), il super telescopio da 40 metri dell’Eso, ancora in fase di costruzione.
*Ansa, 11 gennaio 2017 (ripresa parziale).
A confronto con la fede
Non mi piace chi ha paura dell’inferno
La risposta del fisico a chi gli chiede perché non crede in Dio
di Carlo Rovelli (Corriere della sera, 26.11.2016)
Diverse persone mi hanno chiesto perché dico che non credo in Dio. Ecco la mia risposta.
A me non piacciono quelli che si comportano bene per paura di finire all’inferno. Preferisco quelli che si comportano bene perché amano comportarsi bene. Non mi piacciono quelli che sono buoni per piacere a Dio. Preferisco quelli che sono buoni perché sono buoni. Non mi piace rispettare i miei simili perché sono figli di Dio. Mi piace rispettarli perché sono esseri che sentono e che soffrono. Non mi piace chi si dedica al prossimo e coltiva la giustizia pensando in questo modo di piacere a Dio. Mi piace chi si dedica al prossimo perché sente amore e compassione per le persone.
A me non piace sentirmi in comunione con un gruppo di persone stando zitto dentro una chiesa ascoltando una funzione. Mi piace sentirmi in comunione con un gruppo di persone guardando i miei amici negli occhi, parlando con loro, e guardando il loro sorriso. Non mi piace emozionarmi davanti alla natura perché Dio l’ha creata così bella. Mi piace emozionarmi perché è così bella.
Non mi piace consolarmi della morte pensando che Dio mi accoglierà. Mi piace guardare in faccia la limitatezza della nostra vita e imparare a sorridere con affetto a sorella morte. Non mi piace chiudermi nel silenzio e pregare Dio. Mi piace chiudermi nel silenzio e ascoltare le profondità infinite del silenzio. Non mi piace ringraziare Dio: mi piace svegliarmi al mattino, guardare il mare e ringraziare il vento, le onde, il cielo e il profumo delle piante, la vita che mi fa vivere, e il sole che si alza.
A me non piacciono quelli che mi spiegano che il mondo l’ha creato Dio, perché penso che non lo sappia nessuno di noi da dove viene il mondo; penso che chi dice di saperlo si illude; preferisco guardare in faccia il mistero, sentirne l’emozione tremenda, piuttosto che cercare di spegnerla con delle favole. A me non piacciono coloro che credono in Dio e così sanno dove sta la Verità, perché penso che in realtà siano ignoranti quanto me. Penso che il mondo è per noi ancora uno sterminato mistero. A me non piacciono quelli che conoscono le risposte. Mi piacciono di più quelli che le risposte le cercano, e dicono «non so».
Non mi piace chi dice di sapere cosa è bene e cosa è male, perché sta in una chiesa che ha il monopolio di Dio, e non vede quante diverse chiese esistono al mondo. Quante morali diverse, e ciascuna sincera, esistono al mondo. Non mi piace chi dice a tutti cosa tutti devono fare, perché si sente forte grazie al suo Dio. Mi piace chi mi dà suggerimenti sommessi, chi vive in un modo che mi stupisce e ammiro, chi fa scelte che mi emozionano e mi fanno pensare.
Mi piace parlare agli amici, provare a consolarli se soffrono. Mi piace parlare alle piante, dare loro da bere se hanno sete. Mi piace amare. Mi piace guardare il cielo in silenzio. Mi piacciono le stelle. Mi piacciono infinitamente le stelle. Non mi piace chi si rifugia nelle braccia di una religione quando è sperso, quando soffre; preferisco chi accetta il vento della vita, e sa che gli uccelli dell’aria hanno il loro nido, ma il figlio dell’uomo non ha dove posare il suo capo.
E siccome vorrei essere simile alle persone che mi piacciono, e non a quelli che non mi piacciono, non credo in Dio.
La fine dell’universo interroga la filosofia
Da tempo sappiamo che il sistema solare non sopravviverà ai 4-5 miliardi di anni di vita residua della nostra stella. Ora abbiamo imparato che l’intero insieme delle galassie si regge su un equilibrio precario che si potrebbe rompere in qualunque momento. Per fare i conti con questa gigantesca vulnerabilità dobbiamo riprendere in mano la lezione dei presocratici, di Galileo e Newton. E di Einstein
di Guido Tonelli (Corriere della Sera, La Lettura, 18.09.2016)
In un recente articolo su questo giornale («Aristotele contro Hawking», 21 agosto), Carlo Rovelli ha sviluppato con argomenti convincenti il rapporto fra filosofia e scienza. Sono d’accordo su tutto quanto ha scritto. Vorrei solo aggiungere alcune considerazioni, a partire dalla frase di chiusura: «Una scienza che chiude le orecchie alla filosofia appassisce per superficialità; una filosofia che non presta attenzione al sapere scientifico del suo tempo è ottusa e sterile».
La filosofia nasce come cosmologia: da dove nasce il mondo, quale ordine segue e quale ruolo ha l’umanità in tutto questo. Ai nostri giorni invece, sembra che prevalga la spinta a concentrare le riflessioni filosofiche sull’analisi del linguaggio, o limitarle allo studio dei meccanismi epistemologici. Tutte cose importantissime beninteso ma, a mio modo di vedere, un poco riduttive e che eludono comunque la questione di fondo. Perché la filosofia moderna non può riprendere la grande eredità dei presocratici o quella di scienziati-filosofi come Galileo Galilei o Newton per non parlare di Einstein? Valutare cioè, e sottoporre a critica, l’immagine del mondo che scaturisce dalle ricerche scientifiche più avanzate e discuterne le conseguenze sul piano filosofico, etico, culturale.
Sappiamo che, con tutti i suoi limiti, che sono enormi, la scienza costituisce la visione del mondo più dettagliata e completa di cui disponiamo. Quando nel nostro campo avvengono grandi cambiamenti e nasce un nuovo modo di guardare alle cose, prima o poi cambia tutto, per tutti.
Abbiamo visto all’opera questo meccanismo più volte. L’esempio più eclatante si è avuto ai primi del Novecento, quando un gruppo di menti eccezionali ha prodotto, in pochi anni, rivoluzioni concettuali talmente profonde da modificare radicalmente il modo di pensare dell’umanità. Relatività e meccanica quantistica hanno fornito le basi per un modo nuovo di concepire la materia e l’Universo; un cambiamento di paradigma così radicale che ancora oggi, a distanza di un secolo, facciamo fatica a comprenderlo pienamente. Nel frattempo è cambiato tutto: la vita materiale delle persone, le relazioni sociali e quelle fra individui, la cultura in ogni suo aspetto, compresi coscienza di sé e percezione del mondo. Ed eccoci a Sigmund Freud e Paul Klee, Arnold Schoenberg e Luigi Pirandello e così via.
Ma il meccanismo è tuttora in azione, perché la scienza progredisce a ritmo incalzante e vorrei citare un paio di esempi. Cominciamo col fare un salto all’indietro di 13,8 miliardi di anni, un volo dell’immaginazione che ci riporta ai primissimi istanti di vita dell’Universo bambino. Le osservazioni più accurate finora effettuate ci indicano che tutto è nato da una microscopica, infinitesima fluttuazione quantistica del vuoto. Lo stato di vuoto non è il nulla. Anzi, può forse essere visto come un qualcosa che contiene già il tutto, un po’ come il silenzio non è, banalmente, assenza di suono, ma muto contenitore di tutti i suoni possibili, vibrazioni su tutte le frequenze, perfettamente accoppiate in opposizione di fase.
Come tutti gli stati anche il vuoto segue le leggi della meccanica quantistica. Non è immobile, statico, morto; al contrario, si agita, fluttua, seguendo una dinamica rigorosamente governata dal principio di indeterminazione. Le congetture più convincenti che siamo riusciti a produrre ci dicono che dovremmo immaginare il formarsi, al suo interno, di un brulichio di infinitesime fluttuazioni: microscopiche bollicine di dimensioni inferiori a quelle delle più minuscole particelle elementari. Quasi tutte si comportano in maniera educata e discreta. Ce n’è almeno una tuttavia, che ha fin da subito un comportamento assai bizzarro.
Anziché richiudersi e ritornare allo stato fondamentale si produce in una crescita parossistica. Sotto la spinta di una particella materiale che ha preso corpo al suo interno, tutto si gonfia a una velocità spaventosa. In un tempo ridicolmente piccolo la minuscola porzione di spazio-tempo diventa un qualcosa di dimensioni macroscopiche. Ci sono ancora molti lati oscuri sul meccanismo che chiamiamo inflazione cosmica , ma alcuni punti fermi sembrano raggiunti.
Trovo meraviglioso constatare che l’energia totale dell’Universo, abbia tuttora, dopo miliardi di anni, lo stesso valore zero che aveva all’inizio. Come se questo gigantesco, incredibile dettaglio ci dicesse, parafrasando la frase del poeta: «Ma non vedete che tutto è fatto della stessa sostanza dei sogni?» (William Shakespeare, The Tempest).
Abbiamo capito bene il meccanismo che ha portato la materia a formare corpi persistenti. Ancora una volta tutto è stato definito nei primissimi istanti di vita. È passato solo un attimo e la materia che compone il nostro Universo è già tutta lì, ma la forma in cui si presenta è completamente diversa da quella cui siamo abituati. Una specie di gas impazzito di particelle elementari, prive di massa e che si muovono alla velocità della luce riempie ogni angolo dello spazio-tempo appena nato. Ed ecco che succede qualcosa di molto strano. Non appena l’espansione furibonda degli istanti iniziali si placa e l’oggetto gigantesco che ne è nato si raffredda a sufficienza, una miriade di bosoni di Higgs condensa per sempre in un campo onnipresente. Il nuovo venuto cambia tutto. Le particelle elementari, che rimangono come invischiate nel campo dell’Higgs, si differenziano fra loro a seconda dell’intensità dell’interazione, e così facendo finiscono con l’acquistare masse irrimediabilmente diverse.
Alcuni quark, rimasti leggeri, si aggregheranno con gluoni a formare protoni stabili; intorno ad essi orbiteranno i leggerissimi elettroni e si potranno formare atomi e molecole. Così si sono prodotte le enormi nebulose gassose da cui sono nate le prime stelle e poi le galassie, e i pianeti e i sistemi solari fino ai primi organismi viventi, via via sempre più complessi, per arrivare, in ultima istanza, fino a noi.
Ed ecco che appare subito un’ipotesi che fa girare la testa. È bastato chiedersi che tipo di equilibrio reggesse questo vuoto elettrodebole che ha un ruolo così importante e si è fatta una scoperta strabiliante e inattesa. L’intero Universo sembra vivere in una condizione di equilibrio metastabile: tutto danza fragile e precario, vicino all’orlo del baratro.
Bastava poco a rendere tutto totalmente instabile: un bosone di Higgs appena più leggero e la microscopica lacerazione, che si era aperta pochi istanti prima, si sarebbe immediatamente richiusa e tutto sarebbe finito prima ancora di cominciare. Ma la sottile impalcatura potrebbe cedere di schianto anche ora, in un qualunque momento. Una delle spaventose catastrofi che interessano le galassie più lontane, potrebbe mettere in gioco energie talmente elevate da produrre un collasso locale del vuoto elettrodebole, e l’intero Universo svanirebbe in un’immane bolla di pura energia.
La ricerca scientifica più avanzata sembra stabilire una relazione fra la precarietà della condizione umana e quella dell’Universo nel suo complesso. Come se la nostra fragilità di essere umani fosse il riflesso, su scala microscopica, di una precarietà cosmica che interessa tutto: perfino le gigantesche strutture materiali che ci circondano e che, a prima vista, sembrerebbero immortali. «Non illuderti d’essere immortale - canta Orazio - t’ammoniscono gli anni e i giorni che passano in un attimo».
Dalla notte dei tempi l’umanità ha cercato di superare questa condizione. Da questo scacco sono nate le religioni, le filosofie e le grandi opere d’arte; produrre qualcosa che duri millenni, che sopravviva al breve ciclo della vita di ciascuno di noi: un cerchio di pietre megalitiche, una gigantesca piramide, un poema epico o una statua meravigliosa. Qualcosa che sfidi il tempo e avvicini le opere dell’uomo all’ immortalità della Terra, e degli astri celesti.
Da tempo sappiamo che il nostro sistema solare non sopravviverà ai 4-5 miliardi di vita residua della nostra cara stella. Ora abbiamo imparato che l’intero Universo si regge su un equilibrio precario che si potrebbe rompere in un qualunque momento. Ne vogliamo discutere le implicazioni? E chi meglio dei filosofi, degli umanisti, degli artisti lo potrebbe fare? Non è certamente lavoro per gli scienziati. Mancano loro le competenze adeguate e quello sguardo lungo che è necessario avere quando cambiano paradigmi che ci hanno accompagnato dagli albori della preistoria.
E quale nuova prospettiva potrebbe nascere da questa più profonda consapevolezza della intrinseca fragilità dell’intera struttura materiale che ci circonda? Cosa vorrebbe dire, sul piano etico, fare i conti con questa condizione di radicale, irriducibile vulnerabilità? Forse, anzitutto, prendere coscienza dei propri limiti e salvare la scienza stessa da quella specie di delirio di onnipotenza che ogni tanto sento serpeggiare qua e là. O magari ricavarne nuove e più profonde motivazioni a prendersi cura dei propri simili, avere rispetto dei viventi, riparare le ferite del pianeta e guardare con occhio diverso a quell’istinto predatorio che si nasconde ancora nel profondo dell’animo umano.
UN GIARDINO PER IPAZIA: MEGLIO TARDI CHE MAI *
Finanlamente dopo secoli di oblio, una piazza, o meglio un giardino, verrà dedicato a Ipàzia (Alessandria d’Egitto, 415) che considerata la prima matematica, astronoma e filosofa della greca antica. La sua uccisione da parte di una folla di cristiani in tumulto composta di monaci detti parabolani guidati dal Vescovo Cirillo di Alessandra, peraltro poi fatto Santo, che non vedevano di buon occhio una donna dedicarsi a materie allora ritenute prettamente "maschili".
Il Comitato “Una Piazza per Ipazia”, costituitosi a seguito della raccolta firme lanciata dalla sezione ANPI Trullo-Magliana nel dicembre 2014, e promotore della richiesta di intitolazione di una Piazza o Giardino alla filosofa neoplatonica e filomate Ipazia d’Alessandria comunica che è stata finalmente apposta dalla toponomastica di Roma Capitale la targa, in zona Tor Sapienza, che intitola un giardino ad “Ipazia d’Alessandria”.
"Abbiamo più volte sottolineato - spiega il comitato - come Ipazia sia di grande attualità per i significati che veicola la sua singolare esistenza: vittima del fondamentalismo religioso ma anche esempio di donna integerrima, studiosa, scienziata, divulgatrice di conoscenza".
"È per noi significativa in quanto simbolo di una resistenza morale e non violenta all’ordine dominante al quale rispose con il rifiuto di sottomettersi docilmente alla costrizione. Tale rifiuto legandosi all’impegno positivo di difendere valori fondamentali quali l’uguaglianza e la libertà assume la veste dell’affermazione. Da uno degli allievi di Ipazia, Sinesio di Cirene, si apprende che Ipazia è stata la madre della scienza moderna in quanto utilizzava la sperimentazione pratica, Fermat la definì ’la meraviglia del suo secolo’."
"Ci auguriamo - conclude il comitato - che il riconoscimento attribuitole con la dedica di un giardino nella nostra città possa essere uno stimolo per restituirle la visibilità che merita per, parafrasando Sinesio, “tenere desti i semi di sapienza da lei ricevuti”.
Per celebrare l’intitolazione il comitato si farà promotore della cerimonia che si terrà nel Giardino Ipazia d’Alessiandria, in data da definire".
* Comitato “Una Piazza per Ipazia” (ANPI Trullo - Magliana Sez. “F.Bartolini”; Ipazia ImmaginePensiero onlus;Donne di Carta; Associazione Filomati-Philomates Associaton; Associazione Toponomastica Femminile; G.A.MA. DI; UDI Monteverde; Circolo UAAR Roma , Civiltà Laica Roma, Adriano Petta.)
* Fonte: Gravità-Zero, domenica 7 agosto 2016 (ripresa parziale - senza immagini).
Letteratura
Ipazia, maestra del dubbio
di Armando Massarenti (Il Sole-24 Ore, 05.08.2016)
L’età cruciale per diventare dogmatici e intolleranti oppure, al contrario, persone aperte, amanti del dialogo e della pluralità dei punti di vista è l’adolescenza. Una serie infinita di studi sullo sviluppo del cervello umano lo dimostra.
La regista e scrittrice Roberta Torre però, con il suo libro dedicato a Ipazia e la musica dei pianeti - edito da rueBallu nella collana Jeunesse ottopiù, cioè per bambini di più di otto anni, vincitrice del Premio Andersen 2016 come miglior progetto editoriale - ci ricorda implicitamente quanto sia bene cominciare presto a preparare il nostro cervello all’apertura mentale e al pensiero critico. E che cosa c’è di meglio di una scienziata di epoca alessandrina, che sembra anticipare l’approccio fallibilista di Karl Popper, per raccontare una bella storia, attualissima in tempi di Isis, in cui i cattivi sono i fondamentalisti e i buoni sono coloro che socraticamente sanno di non sapere? Solo loro potranno elevare il dubbio a metodo rigoroso, individuando l’unica via percorribile per arrivare alla conoscenza.
Ipazia è stata una martire. Non una martire cistiana, però, bensì una martire uccisa dai cristiani. «A uccidermi - dice in questo racconto, splendidamente illustrato da Pia Valentinis - sono state le persone. Parabolani li chiamavano, dei monaci del deserto, guerrieri, pronti a uccidere per Dio, o meglio per quello che altri uomini più furbi indicavano loro circa il volere di Dio. Che una donna non fosse degna, di insegnare, di parlare, di pensare».
E Ipazia, proprio come Socrate, amava insegnare ovunque le capitasse: «Per strada, alle persone qualsiasi, a chiunque incontrassi e volesse sapere qualcosa sui filosofi del passato, sulle loro idee. Indossavo il mio mantello e uscivo per le vie di Alessandria. Ecco quello che mi manca della vita...». Sì perché il racconto è ambientato in una specie di oltretomba spaziale. Camilla, un’astronauta che ha appena compiuto vent’anni, atterra su un asteroide per fare una serie di rilevazioni da mandare alla base. In realtà non ha pensieri scientifici, come i buchi neri o i limiti della galassia, ma passa il suo tempo ad ascoltare musica rock con gli auricolari. È lì che Ipazia ora passa i suoi giorni. Ne nasce un dialogo, costellato dalle vicende che la videro protagonista nell’Alessandria del quarto secolo dopo Cristo.
Ipazia è una delle poche donne filosofo della storia occidentale, e a quei tempi essere filosofi significava occuparsi anche e soprattutto di astronomia, di matematica, geometria, di tutte le arti liberali. Perfezionò l’astrolabio di Ipparco e insegnò alla scuola della Biblioteca di Alessandria, prima che questa subisse l’ennesima distruzione da parte dei cristiani in lotta contro i seguaci di Serapide, motivati dalla politica loro favorevole dell’imperatore cristiano Teodosio.
Ipazia è divenuta celebre per avere criticato il sistema tolemaico e difeso l’eliocentrismo di Aristarco, se è vero ciò che scrive il suo allievo prediletto, Sinesio. L’opera di Tolomeo non era da considerarsi, agli occhi degli studiosi di Alessandria, definitiva e inattaccabile, ma popperianamente falsificabile.
La filosofia neoplatonica di cui la maestra Ipazia nutriva i suoi discepoli - un neoplatonismo che prendeva le distanze dagli eccessi teologici delle scuole orientali ed era invece improntato più al modello ateniese - li educava al rispetto della pluralità delle ipotesi e alla ricerca della verità.
Ipazia fu massacrata in modo barbaro e violento. Furono i cristiani a ucciderla. Forse perché i suoi insegnamenti astronomici erano visti con sospetto. Forse perché era una donna. Forse perché era “laica”, libera, in un’età di lotte atroci tra fondamentalismi religiosi.
Alla fine forse proprio questo è ciò che Roberta Torre vuole trasmettere ai bambini dagli otto anni in su - almeno fino ai venti di Camilla, che pur appartenendo a una missione scientifica non sembra essere una campionessa di pensiero critico: - la laicità come elemento essenziale delle persone libere, amanti della conoscenza e della civiltà. La musica dei pianeti può legare la neoplatonica Ipazia alla musica dell’iPod di Camilla ma solo se anche lei, come già Sinesio, saprà abbeverarsi alla scuola del dubbio.
«Forse tutta questa rabbia che hanno nell’affermare il loro credo - dice Ipazia - è un modo per non pensare ai dubbi, che pure devono esserci. Come si fa a non avere dubbi?, dicevo a Sinesio, e lo ripeto anche a te, astronauta. Che cosa bella sono i dubbi, sono degli amici che sembrano nemici, ma in verità ti dico che il nostro compito come studenti è quello di diventare amici dei dubbi».
FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-PO-LOGIA" ATEA E DEVOTA....
L’eccellenza del Nietzsche italiano
di Federico Vercellone (La Stampa, 10.07.2016)
Tra le poche cose che vanno relativamente bene in Italia c’è la filosofia. Nonostante il totale disinteresse della classe politica nei confronti della ricerca, l’Italian Theory emerge con ottimi risultati anche sul piano internazionale.
La filosofia italiana del secondo Novecento è segnata nel suo percorso dalla presenza influente della grande filosofia classica tedesca. È una vicenda che si avvia da lontano, perlomeno dalla grande rilettura di Hegel prodotta dal neo-hegelismo napoletano e da Benedetto Croce. Successivamente, grazie a Luigi Pareyson, emerge l’altro versante dell’idealismo tedesco, Fichte e Schelling, oltre a Goethe e ai romantici e a Nietzsche, nel quadro di un progetto filosofico volto a superare l’eredità neo-idealistica.
Proprio Nietzsche costituisce un punto di svolta. La grande impresa dell’edizione critica presso Adelphi delle Opere di Nietzsche, avviata nel 1964, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, apre un nuovo capitolo di notevole significato anche sul piano internazionale. È un capitolo che contribuisce a portare alla ribalta alcuni tra i più significativi filosofi italiani, da Massimo Cacciari a Emanuele Severino a Gianni Vattimo.
Su questo passaggio così significativo si sofferma Emilio Carlo Corriero in un volume ponderoso, equilibrato ed esaustivo uscito ora da Aragno, Il Nietzsche italiano. Il punto di avvio fondamentale, in un quadro per altro estremamente composito in relazione alla ricezione di Nietzsche, è l’idea di Crisi della ragione dibattuta in un volume del 1979 comparso da Einaudi a cura di Aldo Giorgio Gargani. Venuti meno i fondamenti della ragione classica, Nietzsche costituisce un indispensabile punto di riferimento per cogliere i tratti di un tempo di crisi dei fondamenti. Fare i conti con la «morte di Dio» e con il venir meno dei valori trascendenti comporta una rivoluzione del pensiero e dei modi di vita che mette in gioco aspetti fondamentali della nostra civiltà con implicazioni notevoli sul piano della convivenza civile, della morale pubblica, e della nostra provenienza religiosa dal mondo cristiano.
C’è vita nell’universo, molta vita
Gli scienziati di Kepler, un grande telescopio lanciato in orbita nel 2009, hanno da poco annunciato di avere scoperto 1.284 nuovi pianeti extra-solari (o esopianeti), cioè pianeti che ruotano attorno a una stella diversa dalla nostra. Tutto fa immaginare che ce ne siano miliardi, alcuni «ospitali». Il mondo sta entrando in una nuova epoca
di Guido Tonelli (Corriere della Sera, La Lettura, 26.06.2016)
Stiamo entrando in una nuova epoca e nessuno sembra rendersene conto. Di tanto in tanto giornali e televisioni riportano qualche notizia; se ne parla per un paio di giorni poi tutto viene macinato dal tritacarne dell’attualità. L’ultima, di qualche settimana fa, riguarda Kepler, una sonda della Nasa che prende il nome dal grande astronomo tedesco. La sua missione è la scoperta di esopianeti, o pianeti extra-solari, che orbitano cioè attorno ad altre stelle; il fine ultimo è quello di identificare pianeti abitabili, simili alla nostra Terra.
Le primissime ricerche risalgono addirittura agli anni Quaranta, ma utilizzavano tecniche di osservazione piuttosto grossolane. Usando i migliori telescopi allora disponibili si cercavano nuovi sistemi solari sperando di osservare una perturbazione periodica nella posizione della stella-madre. È ben noto che, per le leggi della gravitazione, in presenza di un pianeta la stella-madre non sta ferma, ma compie anch’essa una piccola rotazione intorno al centro di massa del sistema.
Tanto più massiccio è il pianeta tanto maggiore è lo spostamento periodico della stella. Il metodo, detto astrometrico, non ha portato a risultati di rilievo; sono stati identificati un gruppo di potenziali candidati ma nessuno è mai stato confermato. Risultati molto più interessanti si sono avuti con il metodo della misura della velocità radiale. Il principio è lo stesso, si cerca di osservare il minuscolo spostamento periodico della stella-madre, ma la tecnica è basata su misure spettroscopiche che consentono maggiori precisioni. Si analizza lo spettro di emissione luminosa della stella e si controllano nel tempo le righe corrispondenti alle varie frequenze. Se la stella presenta un piccolo movimento orbitale causato dalla presenza di un pianeta, si misura una piccola variazione periodica in frequenza della sua emissione luminosa dovuta all’effetto Doppler.
Quando la stella ha una velocità radiale positiva - cioè si avvicina al nostro punto di osservazione sulla Terra - le righe di emissione si spostano verso il blu, per poi passare dal lato opposto, verso il rosso, quando la stella si allontana. È lo stesso metodo che ci permette di riconoscere, dal suono della sirena, se un’ambulanza si sta avvicinando o si sta allontanando. Con la misura della velocità radiale della stella possiamo calcolare il periodo del moto orbitale del pianeta e la sua massa. I primi pianeti extra-solari sono stati scoperti, con questo sistema, negli anni Novanta. Si trattava di enormi corpi celesti, simili al nostro Giove. Giganti caldi, per lo più gassosi, che gravitavano molto vicini alle loro stelle-madri e avevano quindi una temperatura superficiale spaventosa.
Il metodo della velocità radiale è limitato dal fatto che si deve osservare una stella per volta ed è efficace solo per stelle relativamente vicine a noi, si fa per dire, entro una distanza di circa 160 anni luce, mentre la stragrande maggioranza delle stelle della nostra galassia sta a distanze maggiori.
La vera rivoluzione nella caccia ai pianeti extra-solari è venuta da quando è stato messo a punto il metodo dei transiti. È una tecnica basata sulla fotometria di precisione, cioè si tiene sotto controllo la luminosità della stella e si misura la lievissima attenuazione della luce prodotta dal pianeta che le transita davanti. Anche in questo caso si richiede che la perturbazione, il segnale di transito, abbia carattere periodico. La forma caratteristica del disturbo permette di misurare le dimensioni del pianeta e questa informazione, combinata con la misura della velocità radiale che dà la massa, permette di conoscerne la densità. In questo modo, da alcuni anni, la ricerca di nuove «Terre» ha ricevuto un impulso incredibile e si sono identificati i primi pianeti rocciosi simili al nostro.
Il grande vantaggio del metodo dei transiti è che si possono tenere sotto osservazione, in contemporanea, centinaia di migliaia di stelle e la sensibilità raggiunta dagli strumenti più moderni è tale che il campo d’azione si può estendere fino a distanze di migliaia di anni luce. La sensibilità del metodo è talmente spinta che si possono identificare pianeti addirittura più piccoli di Mercurio. Occorre poi considerare che, nel caso che il pianeta abbia una atmosfera, la luce della stella-madre giunge fino a noi dopo averne attraversato gli strati superiori. Misure accurate della polarizzazione della luce emessa dalla stella permettono quindi di ricavare informazioni essenziali sulla presenza di atmosfera nel pianeta.
L’unico problema del sistema dei transiti è che, per produrre segnali il punto di osservazione deve appartenere al piano delle orbite, cosa che statisticamente avviene solo per una frazione delle stelle osservate. Se poi si cercano pianeti simili alla Terra, che hanno una massa compresa fra metà e due volte quella del nostro pianeta, e che compiono una rivoluzione completa intorno alla loro stella in circa un anno, occorre aspettare molti anni per essere sicuri di avere visto un transito periodico.
Kepler è un grande telescopio lanciato in orbita nel 2009, che sorveglia da anni una piccola zona del cielo compresa fra le costellazioni del Cigno e della Lira. L’apparato tiene sotto controllo circa 150 mila stelle della nostra galassia, distribuite in una regione di dimensioni paragonabili a quella che copriamo con il palmo della nostra mano, se tendiamo il braccio verso il cielo.
La zona di osservazione copre un cono di circa duemila anni luce intorno al nostro Sole che si trova in Orione, un piccolo braccio secondario della spirale che costituisce la nostra Via Lattea. Il telescopio è ottimizzato per misure di fotometria e utilizza un sistema di camere fotografiche molto sofisticate, da 95 milioni di pixel, ma concettualmente simili a quelle che usiamo nei nostri cellulari.
Un mese fa gli scienziati di Kepler hanno annunciato di avere scoperto 1.284 nuovi pianeti extra-solari. La maggior parte dei nuovi corpi celesti sarebbero posti assolutamente inospitali, caratterizzati da atmosfere molto dense, composte essenzialmente da elio e idrogeno, e temperature torride alla superficie. Ma la novità davvero eclatante è la scoperta che pianeti simili alla Terra sono corpi celesti molto comuni fra quelli che orbitano intorno alle stelle.
Fra i nuovi venuti almeno nove dovrebbero essere pianeti rocciosi che si trovano nella fascia cosiddetta abitabile, cioè a una distanza dalla stella-madre tale da consentire temperature simili a quelle che abbiamo qui da noi. Se un pianeta roccioso si trova nella fascia abitabile e contiene acqua, questa potrebbe formare laghi e oceani come quelli che sono così diffusi sulla nostra Terra. Ecco che, di colpo il numero dei nostri potenziali cugini è quasi raddoppiato. E la cosa sorprendente è che Kepler ha osservato soltanto una piccola porzione della nostra galassia. Si stanno già preparando nuove missioni e nuove campagne di osservazioni e nel prossimo futuro si costruirà una mappa sempre più dettagliata delle «nuove Terre». Nel giro di un paio d’anni sarà lanciato un nuovo telescopio per tenere sotto osservazione le 200 mila stelle più vicine a noi fra le quali ci si aspetta di scoprire 500 pianeti rocciosi simili al nostro.
La nostra Via Lattea contiene circa 200 miliardi di stelle ed è soltanto una fra cento miliardi di galassie che popolano il nostro universo. I numeri fanno impressione: se soltanto una stella su diecimila ospitasse pianeti rocciosi nella fascia abitabile dovremmo accettare l’idea che il numero di «Terre» della nostra galassia, quindi astronomicamente vicine a noi, potrebbero essere decine di milioni. Se si considerano i 100 miliardi di galassie dell’Universo intero si potrebbe raggiungere la cifra fantastica di miliardi di miliardi. Insomma c’è pieno di pianeti abitabili intorno a noi ed è molto probabile che ci sia abbondanza di forme di vita nell’universo. Non c’è alcun motivo di credere che acqua e materia organica siano componenti ultra rari.
Fra qualche tempo saremo in grado di analizzare la composizione dell’atmosfera dei nuovi pianeti che orbitano nelle fasce abitabili per cercare eventuali composti organici, chiari indizi della presenza di forme di vita simili a quelle che ci sono familiari. Non mi interessa qui discutere il problema delle distanze e neanche la tecnologia con cui potremo stabilire una comunicazione o un contatto. Sarebbe sciocco argomentare oggi intorno a questioni che, ne sono sicuro, faranno sorridere gli scienziati del futuro.
Vorrei invece sottolineare la necessità di prepararsi a quello che sarà sicuramente un grosso choc culturale. Un’umanità che fa fatica a convivere con se stessa, sarà in grado di superare la crisi di valori legata alla scoperta di altre forme di vita? Che rapporti instaureremo fra noi, per prepararci a queste prime forme di contatto con «gli altri»? Noi che nella colonizzazione della terra non siamo stati capaci di praticare altro che depredazione e spoliazione delle popolazioni con cui siamo venuti in contatto, accetteremo di essere «i primitivi» al cospetto di civiltà che si sono sviluppate qualche milione di anni prima di noi?
E viceversa, quali relazioni saremo in grado di instaurare con forme di vita, magari simili alle nostre, ma che ci potranno apparire a un livello di sviluppo primordiale? È pensabile che si cominci a ragionare dei problemi etici connessi a questo passaggio? Noi che non siamo in grado di gestire l’integrazione di alcuni milioni di rifugiati o di emigranti che sfuggono la guerra o precarie condizioni di vita, con quali strumenti culturali arriveremo a questo appuntamento che ci chiama a un salto di civiltà?
I nostri pronipoti vedranno un mondo che noi, oggi, possiamo solo immaginare. Riusciremo ad attrezzarci nel giro di qualche generazione a questo cambio di paradigma sul piano antropologico?
Sotto il segno di Copernico
Una splendida edizione critica dell’«opera-mondo» che rivoluzionò l’astronomia e l’umanità.
La Chiesa l’avrebbe condannata nel 1616, ma l’autore fu incoraggiato a uscire allo scoperto dal cattolico Nicolas Schönberg
di Massimo Bucciantini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 24.01.2016)
Il 21 marzo 1543 Sébastien Kurtz, agente dei banchieri Fugger alla corte imperiale, informava Carlo V dell’imminente pubblicazione a Norimberga di un libro che certamente lo avrebbe incuriosito: «Niccolò Copernico, matematico, ha dato in questi giorni alle stampe sei libri de Revolutionibus orbium coelestium. E si tratta di una cosa non meno meravigliosa che nuova, e mai vista, né intesa, né pensata, che il Sole sarebbe il centro di tutto e che non si muove come si è sempre creduto, e che il nostro mondo si muove sullo zodiaco esattamente come fino a oggi ha fatto il Sole». Kurtz, che conosceva la passione per l’astronomia dell’imperatore, decideva di inviargliene un esemplare, convinto che sarebbe stato felice di apprendere la nuova concezione del mondo «di questo autore che molti matematici lodano» e attraverso la quale «si spiegano più facilmente tutti i movimenti del cielo».
Che fine abbia fatto quella copia non è noto. Nella Biblioteca San Lorenzo dell’Escorial si trova una prima edizione del De revolutionibus, ma non si tratta della copia spedita all’imperatore, bensì di quella acquisita nel 1545 dal figlio Filippo II. Né si sa, e sarebbe cosa più importante, se Carlo V lesse mai il libro. A cominciare da quell’anonimo Avvertimento al lettore che - come osservò Tiedemann Giese, vescovo di Culm e amico fraterno di Copernico - tradiva completamente il pensiero dell’autore.
Giese fu il primo a denunciare quel “crimine”, che trasformava l’indagine su un universo considerato vero e reale in un’ingegnosa ma fittizia ipotesi matematica introdotta al semplice scopo di salvare le apparenze dei movimenti celesti. Si sbagliava solo su un punto: ne addossò la responsabilità allo stampatore Johannes Petreius invece che al teologo luterano Andreas Osiander. Per il resto aveva visto giusto, tanto che nel difendere l’onorabilità dell’amico appena scomparso si rivolse perfino al Senato di Norimberga. All’insaputa dell’autore era stata compiuta un’operazione indegna, che svuotava di significato una vita spesa a «osare d’immaginare qualche movimento della Terra, contro l’opinione universalmente accolta dai matematici e contro il senso comune».
Una vera e propria impostura che contraddiceva la nova ratio mundi ricercata ossessivamente da Copernico e che, nella prefazione a Paolo III, gli faceva dichiarare in modo solenne: «quanto più assurda apparirà ora la mia dottrina sul movimento della Terra, tanta maggiore ammirazione e gratitudine riceverà una volta che si sarà vista l’edizione dei miei commentari in cui le tenebre delle assurdità saranno dissolte con chiarissime dimostrazioni».
Nessuno prima di lui aveva accettato di correre un simile rischio. A nessuno era mai venuto in mente di realizzare un progetto così ambizioso e al tempo stesso considerato dai suoi contemporanei così assurdo. Da solo, per giunta, e in un momento per tanti versi ostile ad accogliere tali novità Copernico confezionò un libro che - per riprendere una fortunata immagine di Franco Moretti - è davvero un’opera-mondo. Che fin da subito venne etichettato come il nuovo Almagesto. E il suo autore come un nuovo Tolomeo. E come quest’ultimo sarebbe diventato altrettanto grande, anzi più grande ancora, a tal punto che toccò a lui, dopo quattrodici secoli di incontrastato dominio, decretarne l’inesorabile tramonto.
Sotto il segno della grandezza va inscritto anche questo lavoro appena uscito. Senza retorica va detto che oggi Copernico ha finalmente trovato una “casa” degna della sua straordinaria impresa. Grazie a questa edizione - frutto di anni di studio da parte di un gruppo di specialisti nel campo dell’astronomia, della matematica, della filologia, della storia e della filosofia coordinato da Michel-Pierre Lerner, Alain-Philippe Segonds e Jean-Pierre Verdet - il De revolutionibus torna di nuovo a parlarci. Una sfida, anch’essa, che non era affatto scontato vincere, e che suona come una mirabile conferma - semmai ce ne fosse ancora bisogno - di come la cultura sia una, e di come solo dalla collaborazione di forze intellettuali diverse possano nascere opere di questo valore.
La ricostruzione di questa opera-mondo si compone di tre volumi. Il secondo e il terzo contengono il testo con traduzione francese a fronte, un ampio commento e un vasto apparato di note e appendici di documenti e materiale iconografico. Il primo, invece, è di fatto un libro su Copernico, dove per la prima volta sono indagati in modo esaustivo sia i molteplici aspetti della sua biografia sia le numerose tracce della circolazione europea che il libro ottenne fino alla condanna decretata dal Sant’Uffizio romano il 5 marzo 1616.
L’intricata e in gran parte sconosciuta genesi del De revolutionibus ha giustamente meritato l’attenzione (e la fantasia) di uno scrittore come John Banville (il suo Doctor Copernicus sta finalmente per uscire in Italia da Guanda). Non sappiamo infatti quando Copernico prese la decisione di pubblicare un trattato di astronomia paragonabile all’Almagesto di Tolomeo, ovvero un’opera che doveva contenere, accanto all’esposizione di un nuovo sistema cosmologico, «un catalogo delle stelle fisse, le dimostrazioni matematiche dei movimenti planetari sia in longitudine che in latitudine e, infine, le tavole di tali movimenti».
Si sa che l’idea originaria era quella di stampare soltanto queste ultime, sul modello delle tolemaiche Tavole alfonsine, ma fondate sulla dottrina del movimento della Terra. L’incoraggiamento a fare di più, ad abbandonare ogni prudenza e a rendere pubblici i principi della sua concezione del mondo, «diametralmente opposta alle ipotesi degli Antichi», gli venne da un personaggio di primo piano della Chiesa cattolica: Nicolas Schönberg. Nominato cardinale da Paolo III nel 1535, e in precedenza legato pontificio in Germania, Ungheria e Polonia (dove forse incontrò Copernico), nel 1537 partecipò al Concilio di Trento, e fu uno dei pochi - secondo la testimonianza di Melantone - a schierarsi a favore di alcune concessioni nei confronti dei luterani.
Nel novembre 1536, da Roma, Schönberg scrisse una lettera a Copernico, invitandolo a comunicare quanto prima agli studiosi la sua dottrina del mondo, nella quale si insegna che «la Terra si muove e l’ottavo cielo rimane perpetuamente immoto e fisso».
Difficile sapere cosa avrebbe fatto Copernico se non avesse ricevuto questa lettera che custodì gelosamente per sette anni e poi volle riprodurre proprio all’inizio dell’opera. Assai meno incerto è invece il giudizio - e lo conferma anche questo lavoro - sul ruolo svolto da Georg Rheticus nella stampa del De revolutionibus. L’entusiasmo e la determinazione del giovane matematico luterano proveniente dall’università di Wittenberg, che alla fine di maggio del 1539 si recò nella cattolicissima Warmia per conoscere il canonico e astronomo polacco, furono decisivi. Sua l’idea di fornire una breve esposizione della concezione eliocentrica che anticipasse l’uscita dell’opera del maestro. E fu un successo: ben due edizioni nel giro di due anni. Senza la Narratio prima di Rheticus molto probabilmente il De revolutionibus avrebbe fatto la fine del Commentariolus redatto da Copernico prima del 1514: sarebbe rimasto manoscritto e la sua circolazione non sarebbe andata oltre la ristretta cerchia di matematici e astronomi.
L’opera venne pubblicata a Norimberga nella primavera del 1543. A portare una copia del manoscritto nella città tedesca e poi a seguirne la lunga e delicata fase della stampa toccò a Rheticus. Almeno fino a quando, nell’agosto del 1542, non venne richiamato a Wittenberg, lasciando così Andreas Osiander libero di mettere in atto la sua strategia editoriale.
Alla fine di quello stesso anno Copernico si ammalò gravemente. La morte lo colse il 24 maggio 1543. Come scriverà Giese a Rheticus il 26 luglio, una grave paralisi lo aveva colpito lungo tutta la parte destra del corpo e già da qualche tempo aveva perso la memoria. Crudeltà della sorte volle che l’opera arrivasse a Frombork proprio nei suoi ultimi giorni. Copernico la poté vedere e sfogliare solo poche ore prima di morire. Forse senza neppure rendersi conto che tra le sue mani c’era il suo libro, il libro di un’intera vita.
Un Natale nel nome di Isacco (Newton)
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 29.12.2013)
Lo scorso mercoledì una parte del mondo occidentale ha meditato sulle parole del Vangelo secondo Giovanni (I, 6-7): «Venne un uomo mandato da Dio», e «venne come testimone per rendere testimonianza alla luce». E ha festeggiato quell’uomo, che cambiò la storia dell’Occidente, e nacque il giorno di Natale: ma non dell’anno 0, bensì del 1642. Quell’uomo aveva un nome biblico, ma non si chiamava Giovanni o Gesù: bensì, Isacco, o meglio, Isaac.
In realtà, quell’uomo nacque il giorno di Natale solo in Inghilterra, dove la riforma del calendario non era ancora stata adottata: nel resto d’Europa, si era ormai già al 4 gennaio 1643. Ciò nonostante, in Inghilterra il 25 dicembre continua a esser chiamato non solo Christmas, ma anche Newtonmas.
Perché è appunto di Newton che stiamo parlando: un uomo che “rese testimonianza alla luce” in un libro chiamato Ottica, nel quale spiegò al mondo che la luce bianca in realtà è un miscuglio di luci colorate, nelle quali si può decomporre facendola passare attraverso un prisma, e che si possono ricomporre facendole ripassare attraverso un prisma invertito. Solo la mela che ispirò allo stesso Newton la legge di gravitazione universale può competere con il suo prisma nell’immaginario scientifico collettivo, come simbolo del colpo di genio in grado di cambiare la storia del pensiero e dell’uomo.
È per questo che, quando Newton morì, Alexander Pope compose un epitaffio che paragonava la sua nascita non solo a quella di Cristo, ma addirittura alla creazione del mondo: «God said: Let Newton be, and all was light», ossia “Dio disse: Sia fatto Newton, e la luce fu”. Ed è per questo che il 25 dicembre molti si sono augurati, invece che un religioso Merry Christmas, un laico “Merry Newtonmas”!
La storia della geometria non euclidea tra le intuizioni di Beltrami e i dubbi di un certo ingegner Dostoevskij
Quando Escher conobbe quelle teorie realizzò i suoi disegni più celebri
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 23.11.2015) *
Nella seconda parte dei “Fratelli Karamazov” Ivan e Alioscia hanno una lunga conversazione teologica in trattoria, nel corso della quale il primo se ne esce sorprendentemente con queste parole: «Posto che Dio esista, e che abbia realmente creato la Terra, questa, come tutti sappiamo, è stata creata secondo la geometria euclidea, e l’intelletto umano è stato creato idoneo a concepire soltanto uno spazio a tre dimensioni. Vi sono stati, invece, e vi sono pure ora, geometri e filosofi, anche fra i più grandi, i quali dubitano che tutta la natura, o più in generale tutto l’universo, siano stati creati secondo la geometria euclidea. E s’avventurano perfino a supporre che due linee parallele, che secondo Euclide non possono a nessun patto incontrarsi sulla Terra, potrebbero anche incontrarsi prima o poi nell’infinito».
La sorpresa però svanisce quando si tiene conto di due fatti. Anzitutto, che Dostoevskij era un ingegnere, laureatosi nel 1843 all’Università Politecnica Militare di San Pietroburgo. E poi, che la geometria non-euclidea alla quale egli alludeva nel 1879 era un’invenzione russa del 1829, diventata nel frattempo di dominio pubblico in tutta l’Europa, e certo non dimenticata nel suo paese.
In realtà, fin dagli inizi dell’Ottocento i tempi erano ormai maturi per la scoperta o l’invenzione della geometria non-euclidea: una geometria, cioè, in cui «per un punto fuori di una retta passa più di una parallela alla retta data », invece che una sola come nella geometria euclidea. E, come spesso accade in matematica, quando i tempi sono ormai maturi se ne accorge più di una persona, e non una sola. Ma per la storia conta la prima che, oltre ad accorgersene, lo fa sapere al resto del mondo.
Nel caso della geometria non-euclidea questa persona fu appunto un russo di nome Nikolaj Lobachevskij, che nel 1826 tenne all’università di Kazan, oltre gli Urali, un’Esposizione succinta dei princìpi della geometria, con una dimostrazione rigorosa del teorema delle parallele.
Quasi un millennio prima un altro letterato, più sensibile alla matematica dell’ingegner Dostoevskij, era già stato attratto dalla possibilità di una geometria non-euclidea. Si trattava del poeta persiano Omar Khayyam, autore delle famose Rubaiyat, “Quartine”, che l’Occidente venne a conoscere soltanto nell’Ottocento, in una libera e popolare traduzione inglese di Edward Fitzgerald.
Khayyam intravide l’esistenza di tre tipi di geometrie, distinte tra loro dal fatto che le parallele a una retta data passanti per un punto fuori di essa sono rispettivamente nessuna, una o più. O, se si preferisce, dal fatto che la somma degli angoli di un triangolo è rispettivamente maggiore, uguale o minore di 180 gradi. La seconda geometria, quella intermedia in cui c’è una sola parallela e la somma degli angoli di un triangolo è uguale a 180 gradi, è ovviamente la geometria piana studiata ancor oggi nelle scuole.
La prima, quella in cui non c’è nessuna parallela e la somma degli angoli di un triangolo è maggiore di 180 gradi, è la geometria sferica. Le sue rette sono i meridiani, analoghi a quelli così chiamati sulla sfera terrestre. E poiché due meridiani si incontrano sempre in due poli opposti, non possono appunto mai essere paralleli. Il problema è capire come raffigurarsi la terza geometria, quella in cui ci sono più parallele e la somma degli angoli di un triangolo è minore di 180 gradi. Lobachevskij ne aveva descritte le proprietà, ma c’era il rischio che si trattasse della descrizione di un mondo puramente immaginario, senza nessun modello reale. Il primo a capire come raffigurarsela in termini concretamente visualizzabili fu Eugenio Beltrami nel 1868, nel suo Saggio di interpretazione della geometria non- euclidea.
L’idea era che bisognava trovare qualcosa che fosse l’analogo, uguale e contrario, della sfera. Beltrami lo individuò in quella che egli chiamò pseudosfera: una strana superficie che in ogni punto aveva la stessa curvatura negativa, esattamente come la sfera in ogni punto ha la stessa curvatura positiva. E ne costruì a mano alcuni modelli, chiamati da un giornale satirico dell’epoca “cuffie della nonna”, a causa del loro aspetto ondulato come i bordi dei cappelli da notte di pizzo di una volta.
Ad esempio, era noto fin dall’antichità che il piano si può pavimentare con piastrelle triangolari regolari, raggruppate sei a sei attorno ai vertici. I pitagorici avevano scoperto che se si raggruppano invece i triangoli cinque a cinque, si ottiene una superficie che si chiude su se stessa, e diventa un solido regolare chiamato icosaedro, così chiamato perché ha venti facce triangolari, che approssima una sfera. Beltrami capì che un’analoga approssimazione della pseudosfera si poteva ottenere raggruppando invece i triangoli sette a sette.
In seguito si è scoperto che queste cose esistono già bell’e fatte in natura. Molti organismi biologici, soprattutto marini, esibiscono infatti una geometria non-euclidea, dalle alghe kelp ai nudibranchi, e così fanno le foglie di lattuga e di cavolo nero. Ma proprio a causa dei loro tipici bordi ondulati, questi modelli non si possono distendere perfettamente sul piano. Beltrami inventò dunque altri modelli piani, mettendo le piastrelle della pavimentazione dentro un cerchio, e facendole diventare sempre più piccole man mano che si avvicinano al bordo, in modo da farcene stare infinite.
Oggi questi modelli sono diventati famosi perché al Congresso Internazionale dei Matematici del 1954, che si tenne ad Amsterdam, il grafico Maurits Cornelis Escher ne venne a conoscenza e se ne innamorò. Dedicò dunque quattro opere ai Limiti del cerchio, la terza delle quali viene considerata la più bella raffigurazione del piano non-euclideo prefigurato dal persiano Khayyam, scoperto o inventato dal russo Lobachevskij, modellato dall’italiano Beltrami e rappresentato dall’olandese Escher, in un lavoro collettivo e millenario tipico delle imprese matematiche e scientifiche.
* LA CONFERENZA Piergiorgio Odifreddi oggi sarà tra i relatori della conferenza “Dalla Neva alle Alpi: avventure del pensiero matematico che scorrono attraverso la Scienza, l’Arte e la Musica”, organizzata a San Pietroburgo nel Consolato Generale d’Italia. La sua lezione si concentrerà sulla figura di Eugenio Beltrami
Storia del tempo profondo
In base al racconto biblico nel 1654 si calcolò che la terra fosse nata nel 4004 a.C.
Ecco come si capì che era molto più antica
di Franco Giudice (Il Sole-24 Ore, Domenica, 15.11.2015)
Freud non aveva dubbi. In una prospettiva psicoanalitica, come scrisse in un articolo del 1916, la storia della scienza è una storia di umiliazioni inferte all’uomo e al suo ingenuo amor proprio. E a provocare queste autentiche ferite narcisistiche sono state soprattutto tre grandi rivoluzioni intellettuali: quella di Copernico, che ha privato l’uomo della sua posizione centrale nell’universo; quella di Darwin, che ha inserito l’uomo nel processo evolutivo del regno animale; e quella infine dello stesso Freud, che si attribuiva il merito di aver dimostrato che l’Io non è padrone nemmeno della propria interiorità.
Dal suo elenco tuttavia - come ha osservato Stephen Jay Gould - Freud ometteva una quarta rivoluzione che fu in realtà la seconda in ordine storico e che, pur non essendo associata a un singolo autore, meritava certamente di farne parte: la scoperta del tempo profondo della Terra. Essa si è rivelata tanto dirompente quanto le altre, poiché ci ha costretto a riconoscere non solo che la storia della Terra precede di gran lunga quella dell’uomo, ma anche che la natura stessa ha avuto una storia sua propria.
La complessa vicenda di questa rivoluzione, in parte già ricostruita da Paolo Rossi (I segni del tempo, Feltrinelli, 1979), è ora al centro del libro di Martin J. S. Rudwick, che rappresenta una splendida e accessibile sintesi delle ricerche cui si dedica da oltre quarant’anni. E che ha un ulteriore merito: raccontare una storia, quella appunto della scoperta del tempo profondo, poco nota al grande pubblico e spesso ridotta a una sorta di preludio alla teoria della evoluzione di Darwin. Ma che invece, secondo Rudwick, «è del tutto indipendente da Darwin e da ogni altra teoria evoluzionistica».
Il viaggio nel tempo che siamo invitati a compiere inizia nel 1654, quando James Ussher, arcivescovo anglicano di Armagh, nell’Irlanda del Nord, fissò come data della Creazione il 23 ottobre del 4004 a. C. Ussher non fu l’unico a stabilire una data precisa per la Creazione. Durante il XVII secolo, vennero scritte intere biblioteche sull’argomento, suscitando aspre controversie, cui presero parte personaggi insospettabili come Newton.
Il risultato fu una girandola di cronologie, tutte in competizione tra loro, ma tutte concordi nell’attribuire al mondo una storia di circa seimila anni. Che era però prevalentemente umana, poiché la natura vi faceva da scenario quasi immutabile per il destino degli uomini e l’iniziativa divina.
Le scale temporali elaborate dai cronologisti, sulla base di dati ricavati dalle fonti scritte, erano condivise anche dai filosofi naturali che valorizzavano invece ogni evidenza empirica, come quella fornita dai reperti fossili. Lo dimostra il caso di Robert Hooke, il curatore degli esperimenti della Royal Society, e del naturalista danese Niels Stensen (meglio noto come Stenone), attivo presso la corte dei Medici in Toscana. Per entrambi i fossili non erano sostanze inorganiche, come per lo più si supponeva, bensì resti di corpi una volta realmente vissuti e poi pietrificatisi a causa delle diverse alterazioni subite dalla Terra nel corso della sua storia. Una storia però che s’inseriva ancora nei tempi del racconto biblico.
Dalla seconda metà del XVIII secolo tuttavia, come fa notare Rudwick, le ricerche sul campo dischiusero una nuova prospettiva. Le rocce esplorate e descritte in diverse parti d’Europa mostravano che i vari strati di cui erano composte risalivano a periodi differenti; che i fossili si trovavano soltanto nelle rocce di più recente formazione; e che in esse non si rinveniva alcuna traccia di resti umani. Tutti indizi insomma che suggerivano una cosa ben precisa: la Terra doveva essere molto più antica di quanto si era ritenuto.
Benché fosse ormai evidente che bisognava pensare in termini di centinaia di migliaia di anni, o addirittura di milioni, difficilmente però i naturalisti fornivano una stima quantitativa dell’età della Terra, almeno non pubblicamente. Così, il naturalista francese Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, nel manoscritto delle sue Epoche della natura (1778) ipotizzava un’età di quasi tre milioni di anni, anche se poi nell’opera a stampa ragioni di cautela lo portassero a ridurla a circa 75.000 anni. Non stupisce quindi che, nell’individuare una successione di sette “epoche” o di momenti significativi nella storia della Terra, egli collocasse la comparsa degli esseri umani soltanto nell’ultima epoca.
Buffon infatti rendeva esplicito ciò che altri naturalisti sospettavano già: il nostro pianeta aveva alle spalle un profondo passato, la maggior parte del quale era stato completamente preumano. Ma fino a che punto la Terra, per un tempo così sterminato, era stata significativamente diversa dallo stato attuale? La vita aveva avuto una vera storia? E soprattutto: sarebbe stato possibile conoscere cosa era accaduto prima dell’arrivo dell’uomo sulla scena del mondo?
Le risposte a tali quesiti, racconta Rudwick, arrivarono da una rinnovata attenzione per i fossili, ed ebbero come protagonista un giovane studioso di provincia approdato a Parigi nel 1795 e destinato a un’inarrestabile ascesa negli ambienti scientifici della capitale: Georges Cuvier.
Applicando le sue straordinarie conoscenze di anatomia comparata allo studio dei fossili, Cuvier sosteneva che appartenessero a specie diverse dagli animali viventi e con ogni probabilità estinte. Erano cioè espèces perdues, come il mammut siberiano e il mastodonte americano, o come il mosasauro, un enorme rettile marino, e lo pterodattilo, un rettile volante. Avevano popolato «un mondo precedente al nostro», finché un’improvvisa e violenta catastrofe non le spazzò via per sempre. La storia della Terra e quella della vita, secondo Cuvier, erano intrecciate e scandite da eventi di questo tipo, che ne spiegavano la direzione e la discontinuità.
La “resurrezione” da parte di Cuvier di uno stravagante zoo di animali estinti fu un evento di grande impatto. E agli inizi dell’Ottocento diede luogo a una vera e propria moda: la caccia agli esemplari fossili. Soprattutto in Inghilterra, dove si distinse una giovane donna di nome Mary Anning, che si conquistò la ribalta con la scoperta del teschio di un ittiosauro su una scogliera calcarea nel Dorset, e poi di un fossile di plesiosauro quasi completo. Ulteriori testimonianze di specie perdute, che si aggiungevano a quelle già identificate da Cuvier, e che trovavano una vivida illustrazione in un acquarello dipinto nel 1830 dal geologo inglese Henry De la Beche: «una scena dal tempo profondo» che, per la prima volta, raffigurava tali specie nel loro presunto habitat.
La storia della Terra delineata da Cuvier ottenne un consenso quasi unanime tra i geologi. Tranne che in un caso: quello di Charles Lyell, che sfidò la sua visione, sostenendo che non esisteva alcuna prova che la superficie terrestre nel passato fosse stata trasformata da improvvise catastrofi. Anzi, come spiegava nei suoi Principles of Geology (1830-1833), era vero piuttosto il contrario: ogni cambiamento geologico era il risultato di processi graduali e uniformi operanti nel corso di tempi immensamente lunghi e tuttora in azione.
Per i sostenitori di queste due teorie, il filosofo di Cambridge William Whewell, che nutriva un forte interesse per la geologia, coniò due neologismi: «catastrofisti» e «uniformisti». Al contrario di quanto spesso si afferma però, tiene a precisare Rudwick, le loro posizioni non furono mai considerate del tutto inconciliabili.
Molti geologi riconoscevano per esempio che processi come la sedimentazione, l’erosione e il vulcanismo fossero dovuti a cause ancora osservabili nel presente. Ma poiché nessuna “causa attuale” sembrava in grado di spiegare i depositi alluvionali di ghiaia e argilla o i cosiddetti massi erratici, essi convenivano che, almeno in questi casi, bisognasse ricorrere all’azione di immani cataclismi.
Così, intorno alla metà del XIX secolo, si arrivò a un compromesso: la Terra aveva avuto una storia davvero movimentata, governata da leggi costanti tuttora attive, ma punteggiata anche di eventi catastrofici globali. Inoltre, erano tutti convinti che il tempo profondo della Terra ammontasse come minimo a diverse centinaia di milioni di anni o forse perfino a miliardi.
Dagli anni sessanta dell’Ottocento, tuttavia, proprio la durata di questo tempo diventò oggetto di disputa, e a scatenarla non fu un geologo, bensì un fisico: William Thomson, futuro Lord Kelvin. Basandosi sulle leggi della termodinamica, all’epoca da poco formulate, e sulle stime correnti del progressivo raffreddamento del Sole, Kelvin affermò che l’età della Terra non poteva superare i cento milioni di anni.
Una cifra incompatibile con i tempi lunghi richiesti sia dall’uniformismo di Lyell sia dalla nuova teoria dell’evoluzione di Darwin. E che per quasi quarant’anni ebbe lo stesso effetto paralizzante che la cronologia biblica aveva avuto sulla geologia del Seicento. Dopo il 1903 però, con la scoperta della radioattività, i rigorosi calcoli di Kelvin si sarebbero rivelati privi di significato: lo studio del decadimento radioattivo di alcuni elementi, come per esempio gli isotopi dell’uranio, ha stabilito che l’età della Terra è di circa 4,5 miliardi di anni.
I 100 anni della relatività generale
Un capolavoro in tre atti
Nel novembre 1915 Albert Einstein presentò all’Accademia Prussiana delle Scienze la teoria rivoluzionaria alla quale stava lavorando dal 1905
di Vincenzo Barone (Il Sole-24 Ore, Domenica, 1.11.2015)
In una lettera del 10 dicembre 1915 indirizzata all’amico Michele Besso, Einstein disse di sentirsi «elice, ma un po’ distrutto». Ne aveva tutte le ragioni: con un incredibile tour de force era riuscito in poche settimane a completare il suo capolavoro, la relatività generale, universalmente considerata la più bella teoria della fisica. «Chiunque la comprenda non può sfuggire al suo fascino», si spinse a dire lui stesso, abbandonando la consueta riservatezza, il 4 novembre di quell’anno, nella prima delle comunicazioni inviate all’Accademia Prussiana delle Scienze (ne seguirono altre tre), in cui espose la teoria nella sua forma finale.
La creazione della relatività generale fu una gigantesca impresa intellettuale, che combinò, in un modo e in una misura che non si sarebbero mai più ripetuti, intuizione fisica, potenza matematica e solidità epistemologica. Essa rappresentò il culmine di un lungo lavoro, cominciato con la formulazione della relatività ristretta nel 1905, l’annus mirabilis in cui Einstein, «esperto tecnico di terza classe» all’Ufficio Brevetti di Berna, aveva sconvolto la fisica, concependo anche la teoria dei quanti di luce (tappa decisiva per lo sviluppo della meccanica quantistica) e la teoria dei moti molecolari (che contribuì alla definitiva affermazione dell’tomismo).
La teoria del 1905 era basata su un principio di simmetria, il principio di relatività, secondo il quale le leggi di natura hanno la stessa forma per tutti gli osservatori in moto uniforme. Venivano, in tal modo, spazzati via l’etere e i concetti di movimento e di quiete assoluti. Ma la restrizione agli osservatori in moto uniforme disturbava Einstein. «Ogni mente portata alla generalizzazione - scrisse sentirà la tentazione di azzardare il passo verso il principio generale di relatività», cioè verso un principio di invarianza delle leggi fisiche per tutti gli osservatori, indipendentemente dal loro moto, uniforme o accelerato. Ci volle quasi un decennio - costellato di idee geniali, ma anche di tentativi a vuoto e di delusioni - per raggiungere questo obiettivo.
Come ha fatto notare lo storico della scienza John Stachel, la costruzione della relatività generale è un’opera in tre atti. Il primo atto ha inizio nel 1907, quando Einstein concepisce quello che definirà poi il pensiero più felice della sua vita: l’idea che un osservatore in caduta libera non avverte alcun campo gravitazionale (perché la forza inerziale dovuta all’accelerazione del sistema annulla la gravità). In altri termini, accelerazione e gravità sono intercambiabili, nel senso che l’una simula o compensa l’altra. Questo “principio di equivalenza” mostra come l’estensione della relatività ai sistemi accelerati prenda la forma di una nuova teoria della gravitazione, e ha un notevole potere predittivo.
Grazie a esso, Einstein scopre che la gravità deflette la luce. Nel 1911 quantifica l’effetto, calcolando la deviazione dei raggi luminosi provenienti da stelle lontane e “piegati” dalla gravità solare, ma, a causa dell’incompletezza della teoria, ottiene un valore sbagliato - come scoprirà in seguito (fortunatamente per lui, una spedizione organizzata per osservare il fenomeno in occasione dell’eclissi totale di Sole in Crimea nell’estate del 1914 viene bloccata dallo scoppio della Prima guerra mondiale).
Il secondo atto dell’impresa einsteiniana si svolge negli anni 1912-1913. Einstein intuisce allora il profondo legame tra gravità e geometria, e comprende che bisogna superare lo spazio-tempo piatto e statico della relatività ristretta per passare a uno spazio-tempo curvo e dinamico, un vero e proprio campo fisico il campo gravitazionale. È un cambiamento cruciale, ontologico: da semplice palcoscenico degli eventi, lo spazio-tempo diventa attore protagonista, in dialogo con gli altri attori, la materia e la luce. Ma per dar corpo a questa idea serve una matematica più sofisticata di quella del 1905: una matematica che, in quel momento, Einstein non possiede.
Di ritorno a Zurigo, dopo una parentesi a Praga, si rivolge a un suo vecchio compagno di studi, il matematico Marcel Grossmann. Questi gli consiglia di studiare la geometria di Riemann, che permette di descrivere spazi curvi con un numero qualsiasi di dimensioni, e gli segnala i lavori di due studiosi italiani, Gregorio Ricci Curbastro e Tullio Levi-Civita, che hanno sviluppato una tecnica - l’analisi tensoriale - per effettuare calcoli su uno spazio curvo. Armato di questi nuovi strumenti matematici, Einstein si mette alla ricerca dell’equazione che governa la dinamica del campo gravitazionale (cioè dello spazio-tempo) e le sue interazioni. Adotta inizialmente un approccio basato su considerazioni di carattere fisico, ma la teoria che ne viene fuori ha seri difetti ed è presto abbandonata.
Si arriva così al fatidico novembre del 1915 - il terzo e conclusivo atto. Dopo due anni di stallo, Einstein opta per una strategia di ricerca diversa, più matematica. È la scelta giusta. Nell’arco di poche settimane, con un sforzo straordinario - stimolato dalla competizione con uno dei più grandi matematici dell’epoca, David Hilbert, che ha cominciato a lavorare sullo stesso problema -, arriva alla teoria definitiva.
Ne dà notizia all’Accademia berlinese in una serie di quattro comunicazioni settimanali, nell’ultima delle quali, il 25 novembre 1915, presenta l’equazione fondamentale della nuova teoria: un capolavoro di essenzialità e di eleganza, scritto nel linguaggio di Ricci e Levi-Civita. L’equazione mette in relazione la curvatura dello spazio-tempo con la densità di materia e di energia: in presenza di masse e di sorgenti di energia, lo spazio-tempo si deforma, ed è questa deformazione che chiamiamo gravità. Geometria e fisica sono dunque legate inestricabilmente e si influenzano a vicenda.
Rifacendo i calcoli della deflessione della luce sulla base della nuova teoria, Einstein ottenne un angolo doppio rispetto a quello previsto qualche anno prima. Per osservare il fenomeno si dovette però aspettare l’eclissi totale di Sole del 1919, visibile nella fascia equatoriale. Due spedizioni britanniche, organizzate dall’astrofisico Arthur Eddington, diedero il risultato tanto atteso: la piccolissima deviazione misurata era in accordo con la predizione relativistica. “Rivoluzione nella scienza”, “Newton spodestato”, “Svolta epocale”, titolarono i giornali di mezzo mondo, segnando l’inizio della fama planetaria di Einstein. Il quale fu ovviamente molto soddisfatto del risultato. Ma, com’era nel suo stile, a una studentessa che gli chiedeva come avrebbe reagito se le osservazioni avessero contraddetto la teoria, rispose semplicemente: «Mi sarebbe dispiaciuto per il buon Dio, perché la teoria è corretta».
MAESTRI. Galileo attaccò il filosofo greco, poi in tarda età se ne proclamò seguace
Aristotele che fisico!
Le sue teorie scientifiche godono di cattiva fama. Ma a torto: furono la base dei successivi progressi
di Carlo Rovelli (Corriere della Sera-La Lettura, 18.10.2015)
Cadono alla stessa velocità oggetti di peso diverso? A scuola ci raccontano che Galileo Galilei avrebbe mostrato che la risposta è sì, lasciando cadere delle palle dalla torre di Pisa. Nel corso dei due millenni precedenti, invece, sarebbero stati tutti accecati dal dogma di Aristotele secondo cui oggetti più pesanti cadono più in fretta; curiosamente, a nessuno era mai venuto in mente di provare. Galileo e i suoi contemporanei osservano la natura, e si liberano dalla camicia di forza del dogmatismo aristotelico.
Bella storia, ma c’è un problema. Provate a buttare dal balcone una biglia di vetro e una pallina di carta. Neanche per idea arrivano assieme: la biglia pesante cade molto più veloce, esattamente come dice Aristotele. Qualcuno obietterà che questo avviene a causa dell’aria. Ma Aristotele non ha mai scritto che le cose cadrebbero a velocità diversa se togliessimo l’aria. Ha scritto che le cose cadono a velocità diversa nel nostro mondo, dove l’aria c’è. E non sbagliava. Aveva osservato la natura con attenzione. Meglio di generazioni di insegnanti e studenti moderni, che si bevono nozioni senza pensarci, e senza provare.
La fisica di Aristotele gode di cattiva stampa. Viene descritta come costruita a priori, svincolata dall’osservazione, palesemente sbagliata. È un giudizio largamente ingiusto. La fisica di Aristotele è rimasta a lungo la teoria di riferimento per la civiltà mediterranea: non perché fosse dogmatica, ma perché è ottima. Descrive bene la realtà, e offre uno schema concettuale così efficace che per due millenni nessuno è riuscito a fare di meglio. Il succo della teoria è che, in assenza di altre influenze, un oggetto si muove verso il suo «luogo naturale»: più in basso per la terra, un po’ più in alto per l’acqua, ancora più in alto per l’aria, ancora più in alto per il fuoco; la velocità del «moto naturale» cresce con il peso e diminuisce con la densità del fluido in cui l’oggetto è immerso. Una teoria semplice e generale che rende conto con eleganza di una grande varietà di fenomeni, per esempio perché il fumo va in alto, o perché un pezzo di legno scende in aria, ma sale in acqua. Ovviamente la teoria non era perfetta, ma se è per questo neanche la scienza moderna è perfetta.
Il cattivo nome di cui soffre la fisica di Aristotele è in parte colpa dello stesso Galileo, che nei suoi scritti attacca Aristotele a testa bassa, e fa apparire sciocchi i suoi seguaci. Ne aveva bisogno a fini polemici. In parte è dovuto alla separazione che si è scioccamente allargata fra le culture scientifica e umanistica-filosofica. Chi studia Aristotele in generale conosce poco la fisica e chi si occupa di fisica si interessa poco ad Aristotele. La genialità scientifica dei libri di Aristotele come il De Coelo, o la Fisica, il libro che ha dato il nome alla disciplina, passa facilmente inosservata.
Ma c’è un altro fattore per la cecità odierna alla genialità di Aristotele scienziato. Ed è quello più interessante: l’idea che non si possa, anzi non si debba, confrontare pensieri prodotti da universi culturali così lontani, come Aristotele e la fisica moderna. Molti storici oggi inorridiscono all’idea di guardare la fisica aristotelica come approssimazione della fisica newtoniana. Per capire l’Aristotele originale, sostengono, dobbiamo studiarlo alla luce del suo tempo, non con schemi concettuali successivi di secoli. Questo è vero se siamo interessati a meglio decifrare Aristotele, ma se siamo interessati a capire il sapere di oggi, come è emerso dal passato, sono le relazioni fra mondi distanti che ci interessano.
I filosofi e storici della scienza Karl Popper e Thomas Kuhn, che hanno avuto grande influenza sul pensiero odierno, hanno sottolineato l’importanza delle rotture nel corso dell’evoluzione del sapere. Esempi di tali «rivoluzioni scientifiche», dove si abbandona la vecchia teoria, sono i passaggi dalla fisica di Aristotele a Newton, o da Newton ad Einstein. Nel corso di tali passaggi ci sarebbe, secondo Kuhn, una ristrutturazione radicale del pensiero, al punto che le idee precedenti diventano irrilevanti, addirittura incomprensibili: «incommensurabili» con la teoria successiva, scrive Kuhn.
Popper e Kuhn hanno avuto il merito di mettere a fuoco questo aspetto evolutivo della scienza e l’importanza delle fratture, ma la loro influenza ha portato a una assurda negazione degli ovvi aspetti cumulativi del sapere. Peggio, a non voler vedere le chiarissime relazioni logiche e storiche fra teorie prima e dopo ogni passo avanti: la fisica di Newton è perfettamente riconoscibile come approssimazione della relatività generale di Einstein; la teoria di Aristotele è perfettamente riconoscibile come approssimazione all’interno della teoria di Newton.
Non solo, ma all’interno della teoria di Newton si riconoscono aspetti della struttura della fisica aristotelica. Per esempio, la grande idea di distinguere il movimento «naturale» di un corpo da quello «forzato», sopravvive intatta nella fisica newtoniana, e poi in quella di Einstein. Cambia il ruolo della gravità: causa di moto forzato in Newton (dove il moto naturale è rettilineo uniforme), parte del moto naturale in Aristotele, e, curiosamente, di nuovo in Einstein (dove il moto naturale, chiamato «geodetico», torna ad essere quello di un oggetto in caduta libera, come per Aristotele).
Gli scienziati non avanzano né per solo accumulo, né per rivoluzioni totali, in cui tutto è buttato e si ricomincia da zero. Avanzano piuttosto, come in una bella analogia di Otto Neurath spesso citata da Willard Van Orman Quine, «come marinai in mare aperto che devono ricostruire la loro barca, ma non possono farlo da zero: dove tolgono una trave devono subito rimpiazzarla (...), in questo modo, pezzo a pezzo avanza la ricostruzione». Nella grande nave che è la fisica moderna si riconoscono ancora antiche strutture - come la distinzione fra moto naturale e forzato - della vecchia barca del pensiero aristotelico.
Torniamo allora ai corpi che cadono nell’aria o nell’acqua, e vediamo cosa effettivamente succede. La caduta non è né a velocità costante e dipendente dal peso, come voleva Aristotele, né ad accelerazione costante e indipendente dal peso, come voleva Galileo (neanche se trascuriamo l’attrito!). Quando un corpo cade, attraversa una prima fase in cui accelera, per poi stabilizzarsi a velocità costante, maggiore per i corpi pesanti. Questa seconda fase è ben descritta da Aristotele.
La prima fase invece è di solito molto breve, difficile da osservare, e per questo è sfuggita ad Aristotele. L’esistenza di questa fase iniziale era già stata notata nell’antichità: nel terzo secolo prima della nostra era, per esempio, Stratone di Lampsaco (città sullo stretto dei Dardanelli) osserva che un filo d’acqua che cade si rompe in gocce: questo indica che le gocce cadendo accelerano, come una fila di auto che si sgrana man mano che le auto prendono velocità.
Per studiare questa fase iniziale, difficile da osservare perché tutto avviene in fretta, Galileo scova uno stratagemma geniale. Invece di osservare corpi che cadono, osserva palle che rotolano lungo una lieve pendenza. La sua intuizione, difficile da giustificare al suo tempo ma corretta, è che la «caduta rallentata» delle palle che rotolano riproduca il moto di oggetti che cadono liberi. In questo modo, Galileo riesce a notare che all’inizio della caduta è l’accelerazione ad essere costante, non la velocità. Forte di questa nuova capacità di interrogare la natura, e di una padronanza della matematica che mancava ad Aristotele, Galileo è riuscito a stanare il dettaglio quasi impercettibile ai nostri sensi dove la fisica di Aristotele funziona male. È come l’osservazione all’inizio del Novecento usata da Einstein per superare Newton: il movimento del pianeta Mercurio, a ben guardare, non segue esattamente le orbite di Newton. Il diavolo è nei dettagli.
Einstein farà di Newton quello che Galileo e Newton hanno fatto di Aristotele: mostrerà che nonostante la sua efficacia, anche questa fisica è solo buona in prima approssimazione. Oggi sappiamo che anche la fisica di Einstein non è perfetta: sbaglia là dove entra troppo in gioco la meccanica quantistica. Anche la fisica di Einstein ha bisogno di essere migliorata. Ma non siamo ancora ben sicuri di come.
Galileo non ha costruito la sua nuova fisica ribellandosi a un dogma o dimenticando Aristotele. Al contrario, ha saputo modificare aspetti della cattedrale concettuale aristotelica, imparando a fondo da Aristotele: non c’è incommensurabilità fra lui e Aristotele, c’è serrato dialogo.
Credo che sia lo stesso fra le culture, le persone, i popoli. Non è vero che, come oggi si ama ripetere, mondi culturali diversi sono intraducibili, impermeabili. È vero il contrario: le frontiere fra teorie, discipline, epoche, culture, popoli, persone, sono terribilmente permeabili, e il nostro sapere si nutre degli scambi attraverso questa permeabilità. Anzi, il sapere è il risultato in continua evoluzione di questa fitta rete di scambi. Quello che ci interessa di più è proprio questo scambio: confrontare, scambiare idee, imparare, costruire dalle differenze. Mescolare, non tenere separato.
C’è grande distanza fra l’Atene del IV secolo e la Firenze del XVII. Ma né rottura radicale, né incomprensione. È perché sa dialogare con Aristotele, e penetrare a fondo la sua fisica, che Galileo riesce a trovare il passaggio stretto dove correggerla e migliorarla. Lo dice splendidamente lui stesso, in una lettera scritta in tarda età: «Io mi rendo sicuro che se Aristotele tornasse al mondo, egli riceverebbe me tra i suoi seguaci, in virtù delle mie poche contraddizioni alla sua dottrina».
Nasa: scoperta Terra gemella che ruota attorno a un suo Sole, con una «zona abitabile»
di Leopoldo Benacchio (Il Sole-24 Ore, 23 luglio 2015)
Trovata un’altra Terra? Difficile da dire al momento, ma certo che il pianeta trovato da Nasa con il suo satellite Kepler a soli 1400 anni luce da noi, vicinissimo quindi, è un buon candidato: ruota attorno a una stella molto simile al nostro Sole, anche se più vecchia di un miliardo di anni, in 385 giorni, contro i nostri 365, ed è solo il 60% più grande del nostro Pianeta, quindi comparabile anche se lì peseremmo molto di più.
Ma quello che intriga maggiormente nella scoperta di K 452b, questo il nome provvisorio del pianeta appena scoperto, è che starebbe nella parte abitabile del suo sistema solare, così come facciamo noi, e questo è raro e importante.
La situazione è in realtà semplice: per essere abitabile si pensa oggi che un pianeta debba essere sufficientemente distante dalla sua stella madre per non essere letteralmente bruciato, come nel caso del nostro Mercurio vicinissimo al Sole, e al tempo stesso non deve essere troppo lontano, dato che anche le temperature troppo basse impediscono la vita. Ci deve in sostanza essere la possibilità per l’acqua di rimanere liquida.
Le condizioni per la presenza di vita sono moltissime, ma quelle sulle dimensioni, simili a quelle terrestri che garantiscono ad esempio la presenza di una atmosfera stabile, e sulla distanza dalla stella madre, per via della giusta temperatura per gli oceani, sono preliminari ad ogni altra considerazione, e in questo caso pare che si siamo.
Il fatto che il nuovo pianeta riceva dal suo Sole il 10% in più di quanto riceva la Terra da suo non pare un problema, viste le maggiori dimensioni.
L’annuncio è stato dato in conferenza stampa da Nasa oggi alle 18 ora italiana, assieme alla notizia che sono stati trovati altri 500 possibili pianeti attorno ad altre stella, anche se questi ultimi non sono comparabili alla nostra Terra.
In tutto questo spietato cacciatore di “altri mondi”, Kepler di Nasa, ha nel suo carniere la bella cifra di 4175 pianeti scoperti, ovviamente da confermare con osservazioni accurate e prolungate dal suolo. Da specificare che il satellite non vede direttamente i pianeti attorno ad altre stelle, ma li individua notando delle mini eclissi quando il pianeta ruotando attorno alla sua stella madre, si pone sulla linea di vista fra noi e la stella in questione. Quindi chissà quanti non ne vediamo dato che mica tutti passano fra ni e la stella che gli compete.
Comunque nelle 150.000 stelle che Kepler sta osservando costantemente dal 2006 i pianeti abbondano come abbiamo visto e molti altri se ne troveranno. Certo i più piccoli, come la nostra Terra, sono molto difficili da vedere perché l’effetto che provocano e minimo, ma in questo caso siamo stati fortunati. Quanto al numero, sembrano tante le stelle esaminate, e sono un numero enorme per noi, ma pensiamo che nella sola nostra Galassia, la Via Lattea, di stelle ce ne sono almeno 100 miliardi.
Finora di possibili candidati a essere la nuova Terra ce ne erano una dozzina, ma K 451b li batte tutti e sale in cima alla lista.
Gli scienziati non possono dire altro, sia ben chiaro, né se su quel mondo ci sia acqua o vita o atmosfera, ma certamente a questo punto si scateneranno le osservazioni di moltissimi scienziati con altri strumenti per capire di che si tratta, se il sogno di un mondo gemello può essere rappresentato dalla nuova scoperta. A presto, si spera, la conferma.
Asi, presto altri pianeti come Kepler-452b
Presidente Battiston a Expo commenta scoperta nuovo pianeta
(di Michela Nana) (ANSA) - MILANO, 24 LUG - Venti anni fa quando è iniziato lo studio dei pianeti che si trovano al di fuori del sistema solare "non si pensava di potere vedere un pianeta come Kepler-452b, che sembra riprodurre in modo impressionante le caratteristiche della nostra Terra, ma vi assicuro che entro pochi mesi ne vedremo degli altri. Avremo altre opportunità". Ne è convinto il presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana, Roberto Battiston, che a margine di un incontro a Expo ha commentato "con entusiasmo" la nuova scoperta resa nota dalla Nasa.
A scoprire quello che è stato battezzato come il ’pianeta gemello’ della Terra è stato un potente telescopio, Kepler, da cui il pianeta ha preso il nome. Grazie a questi potenti strumenti tecnologici oggi si scoprono centinaia di nuovi pianeti con caratteristiche diverse, "ce n’è per tutti i gusti - ha scherzato Battiston -. Ne è stato osservato uno, ad esempio, fatto di diamante. Ce ne sono quasi 4 mila che sono stati via via analizzati". Quello che conta è che "siamo finalmente arrivati ad un caso che assomiglia molto a quello del nostro sistema planetario - ha spiegato - con una stella grande come il Sole, con un pianeta grande come la Terra che in circa 385 giorni, poco più del nostro anno, e lo fa a una distanza corrispondente a quella tra la Terra e il Sole".
Secondo Battiston, i pianeti come la Terra "esistono di sicuro". "Sono pronto a scommettere che ne avremo una famiglia intera tra qualche mese o un anno. Quello su cui ci si interroga e che sembra ancora unico è la vita che riempie il nostro pianeta". Questa è la domanda a cui la scienza tenta di rispondere ed è il punto cruciale che affascina non solo gli scienziati. "Per il momento osserviamo Kepler-452b da lontano - ha detto -, ad una distanza di 1.400 anni luce. Per raggiungerlo le nostre sonde ci metterebbero dai 30 ai 40 milioni di anni".
Di questo parente stretto della Terra si osservano "alcune proprietà e mano a mano che gli strumenti si affinano riusciremo a capire di cosa è fatta la sua atmosfera, se c’è dell’ossigeno o tracce di molecole complesse". Intanto il confine tra scienza e fantascienza si fa più sottile e gli scienziati osservano oggi nella realtà quelle che fino a qualche anno fa erano solo ipotesi. Lo fanno grazie a strumenti sofisticati come Kepler.
"Riesce a catturare piccolissime variazioni di luminosità - ha spiegato Battiston - che corrispondono al passaggio di un pianeta davanti alla sua stella". Quando un pianeta passa davanti alla propria stella la offusca leggermente. Kepler riesce a cogliere quella variazione. "Stiamo espandendo enormemente la capacità di studiare gli esopianeti. L’obiettivo è quello di rispondere alla domanda delle domande, se la vita esista". La Terra ha 4,5 miliardi di anni "e sappiamo che la vita si è sviluppata solo negli ultimi 100 o 200 milioni. Forse noi stiamo osservando Kepler-452b nel tempo in cui la vita su di esso non è ancora esplosa". (ANSA).
L’astrofisica che svela la nascita della Luna
Fu il risultato della collisione tra la Terra e il pianeta Theia
Gli studi della scienziata italiana:
di Francesco Battistini (Corriere della Sera, 13.04.2015)
HAIFA (Israele). Epoca: quattro miliardi e mezzo d’anni fa. Luogo: il nostro sistema solare. Dal nero più profondo appare Theia, un pianeta grande quanto Marte. Compattissimo, viaggia a una velocità inimmaginabile. Fino a colpire un ammasso di magma che ancora vaga indefinito, la Terra. Gli scienziati lo chiamano il Grande Impatto: un’esplosione celeste, una quantità di materiali che si libera nello spazio e crea un nuovo mondo, la Luna.
Non è un film di Stanley Kubrick: è la teoria più accreditata su come si sia formato il satellite venerato dagli antichi, cantato dai poeti, vagheggiato dagli amanti. Una tesi, dagli anni 70, che quasi nessuno ha mai messo in discussione. Salvo mantenere una domanda sospesa, un enigma che in questi decenni nemmeno la faccenda del Grande Impatto è mai riuscita a risolvere: perché la Terra e la Luna sono praticamente due gemelle, fatte della stessa sostanza? E come mai la composizione chimica di tutt’e due, nate dal tamponamento d’un terzo pianeta, è così unica da non avere uguali in tutto l’universo?
Anno: 2015. Luogo: Israel Institute of Technology di Haifa, la fabbrica dei Nobel che nel mondo tutti conoscono come Technion. Dalla penombra d’una stanzetta, la 616, un’astrofisica trentenne di Latina, Alessandra Mastrobuono-Battisti, assieme al suo capo israeliano e a un collega francese pubblica su Nature una scoperta che fa subito big bang, è ripresa da altre riviste scientifiche, rimbalza su tv e giornali. Una tesi semplicissima, basata sulle rocce raccolte dalla missione Apollo 11, supportata da decine di simulazioni, mesi di comparazioni di quaranta sistemi planetari e d’un migliaio di corpi celesti: Theia, pianeta che non esiste più, polverizzato in meteoriti e immaginato solo dai calcoli sulle orbite lunari, era in realtà il «sosia» della Terra. Il partner con cui venne generata la Luna.
Il suo impatto fu così devastante da modificare il nostro pianeta e riprodurne, identico, il satellite che vediamo in cielo. Una gigantesca fusione che fece evaporare gli elementi volatili, come lo zinco, lasciandone sulla crosta lunare altri molto simili a quelli della crosta terrestre, dall’ossigeno al tungsteno. «Abbiamo elaborato dati che non erano mai stati usati per Theia e la Terra - racconta la ricercatrice italiana -. Studiando le collisioni in altri sistemi solari, abbiamo scoperto una regola quasi costante: i pianeti che vanno a scontrarsi, in alta percentuale, hanno una composizione simile ai pianeti impattati. E questo non solo conferma la teoria del Grande Impatto, ma spiega perché la Terra e la Luna siano così diverse dal resto del sistema solare».
Né di miele, dunque, come la sognano gli sposini. Né «come un acciar che non ha macchia alcuna» (Ariosto). La Luna è fatta di Terra. E adesso, grazie al solito cervello italiano fuggito all’estero, forse ne sappiamo anche il motivo. «Io ho sempre lavorato sulla nostra galassia, è la cosa che più m’appassiona, perché il sistema solare è il luogo in cui viviamo. Un giorno dell’estate scorsa, ho letto un articolo di Science sul contenuto d’ossigeno nelle rocce terrestri e lunari. Composizioni molto simili. Allora, ho iniziato a farmi delle domande. E in sei mesi di ricerca, mi sono data le risposte».
Laureata alla Sapienza, tre anni di dottorato a Roma a mille euro al mese e senza molte prospettive, Alessandra non chiedeva la luna: «Sono arrivata in Israele nel 2012. Avevo mandato i miei lavori a un po’ d’università. Il Technion m’ha contattato. Non m’hanno fatto nemmeno un colloquio: sei mesi dopo ero già a Haifa, col mio capo che m’aiutava a cercare casa». Qui è un altro pianeta, in ogni senso: «Posso fare ricerca, mi pagano tutto, m’hanno mandato ad aggiornarmi in Cina e in Spagna...».
Al Technion si fa anche ricerca militare - «ma io sono straniera e da queste cose sono esentata» - e il confine col Libano non è tanto lontano: «Nei giorni della guerra di Gaza, un po’ di paura l’ho avuta. Ma i miei colleghi m’hanno insegnato a conviverci. E poi - ride - meglio rischiare i razzi degli Hezbollah, che aspettare chissà quando un incarico nelle nostre università. Fossi ancora in Italia, starei a fare la calza».
Elisabeth Badinter racconta la straordinaria Madame du Châtelet
Ode a Émilie nostra signora dei Lumi
“Fu il grande amore di Voltaire che da lei imparò la filosofia e il pensiero astratto”
“Fu la prima scienziata e matematica madre spirituale delle donne moderne”
di Anais Ginori (la Repubblica, 19.03.2015)
IN ITALIA esce adesso il Discorso sulla Felicità di Émilie du Châtelet (Elliot edizioni), in cui Badinter firma la prefazione. «Era un personaggio moderno, una delle madri spirituali delle donne del ventunesimo secolo» racconta la filosofa nella sua casa affacciata sui giardini del Luxembourg, con due ritratti di Émilie du Châtelet appesi sopra alla sua scrivania.
Cosa la affascina in questa intellettuale del Settecento in fondo poco nota?
«Intanto le donne intellettuali all’epoca erano poche, e lei è stata la prima scienziata di Francia. Soprattutto, era estremamente libera. A dispetto degli obblighi sociali, Émilie du Châtelet è la persona che si è sottomessa di meno ai pregiudizi della sua epoca e che ha saputo dar prova di stravaganza, indipendenza e ambizione contro un mondo ostile a tali pretese. A trent’anni, la marchesa du Châtelet lascia Parigi, marito, bambini e amanti per andare a vivere con Voltaire nel castello di Cirey, al confine con la Lorena. Dal 1733 al 1746 ne è l’amante, la compagna e la musa. Muore nel 1749 a causa di una gravidanza in età avanzata, mentre ha appena finito di tradurre Newton».
«Siamo dei filosofi molto voluttuosi » scriveva Voltaire a proposito della sua relazione con la marchesa.
«Vivevano nel lusso, ognuno aveva il suo appartamento. Nel castello c’era un teatro, nel quale la marchesa recitava fino all’alba. Oltre che essere filosofa, scienziata, era anche un’ottima attrice. Aveva un’energia formidabile, dormiva e mangiava poco. Amava pazzamente il sesso, anche se Voltaire non era sempre all’altezza delle sue attese. Andava sempre in cerca di sensazioni forti. Giocava d’azzardo, scommettendo soldi che non aveva e spesso Voltaire doveva saldare i suoi debiti. Ma era anche una donna razionale, studiosa, erudita ».
Perché scelse di studiare matematica?
«Era una disciplina quasi sconosciuta alle donne del suo tempo, anche se nell’aristocrazia c’era una piccola moda. Ma al contrario delle duchesse de Chaulnes, d’Aiguillon o de Saint-Pierre, che ci provarono per qualche tempo solo perché il seducente Maupertuis aveva portato i matematici in voga, Émilie du Châtelet ne ha fatto un impegno costante fino agli ultimi anni della sua vita. Dalla matematica alla fisica, e dalla metafisica all’analisi dei testi biblici, è il più solido e completo personaggio di scienza del suo tempo».
Il suo soprannome era “Pompon Newton”?
«Così la chiamava Voltaire per indicare la passione che nutriva sia per i fronzoli che per lo scienziato inglese. Contribuisce alla divulgazione e allo sviluppo delle teorie di Leibniz e di Newton. La prima tappa del suo riconoscimento scientifico è sancita quando concorre anonimamente al Prix de l’Académie des Sciences nel 1738. Il tema, “De la nature du feu et de sa propagation”, aveva ispirato Voltaire. Lei decide, senza avvertirlo, di inviare un testo cui aveva lavorato segretamente. Nessuno dei due ottiene il premio, ma entrambi vengono pubblicati a spese dell’Académie. La sua più grande impresa è stata però la traduzione in francese dei Principia di Newton».
Ha influenzato anche l’opera di Voltaire?
«È stata la sua maestra dal punto di vista filosofico. Fino a quando non incontra la marchesa du Châtelet, Voltaire scrive più che altro pamphlet, teatro. È lei che lo introduce all’astrazione filosofica, al mondo dei concetti. Madame du Châtelet era agnostica e probabilmente atea, anche se non si poteva dire all’epoca. Lei e Voltaire, all’inizio della loro passione, passavano le giornate al letto, analizzando l’Antico e il Nuovo Testamento, e facendosi un sacco di risate. È un aneddoto straordinario, che ben rappresenta la storia dei Lumi. Tra loro c’era una complicità intellettuale forte. Anche dopo che Voltaire la lascia per un’attrice e soprattutto per la nipote, Madame Denis, il legame non si spezza ».
Una relazione conflittuale?
«Nel 1740, Madame du Châtelet pubblica Institutions de physique , testo che la rende la rappresentante ufficiale di Leibniz in Francia, con grande malcontento di Voltaire, che invece è rimasto fedele a Newton. A lei non importa. Non si cura neanche delle critiche della setta cartesiana e dei devoti di Newton, al quale tra l’altro tornerà a dedicarsi successivamente. Anche nei momenti più tesi, Voltaire ha sempre difeso pubblicamente la libertà di pensiero della sua compagna. Era solidale in tutto. Dopo la sua morte prematura commentò: “Era un grande uomo la cui unica colpa fu essere una donna”».
Qual è il valore filosofico del “Discorso sulla Felicità”?
«Scritto subito dopo la fine del sodalizio con Voltaire e pochi anni prima di morire, è stato pubblicato postumo nel 1779. Non sarebbe mai potuto uscire mentre Madame du Châtelet era ancora in vita: si sarebbe coperta di ridicolo. Rispetto ai tanti trattati sulla felicità dell’epoca, è un testo molto personale, una sorta di diario, un breve saggio autobiografico in cui fa un bilancio di conquiste e sconfitte, ma soprattutto parla delle sue tante e diverse passioni. È un inno all’ambizione femminile. Quando non si è credenti, la voglia di lasciare una piccola traccia in questo mondo è una sorta di eroismo. Nei testi religiosi l’ambizione è considerata un peccato. Per me, invece, è una virtù che molte donne dovrebbero coltivare».
Voltaire e il suo Trattato sulla tolleranza sono tornati in cima alle classifiche dopo gli attentati parigini. Cosa ne pensa?
«Sulla lotta contro il fanatismo religioso, non c’è niente di meglio. Voltaire è un militante della tolleranza, non un intellettuale da salotto. Interviene pubblicamente, cerca di scuotere le coscienze, vuole creare un movimento. Ha una penna di una strepitosa ironia e di una crudeltà terribile. Neppure Rabelais, predecessore illustre nella lotta contro il fanatismo, è così chiaro, efficace. Voltaire fa ridere ma anche riflettere: un altro livello rispetto a Charlie Hebdo».
Regina della fisica
La “particella di Dio” nelle mani di Fabiola, Lady Cern
di Roberta Zunini (il Fatto, 5.11.2014)
L’esploratrice dell’invisibile, Fabiola Gianotti, due anni fa era finita sulla copertina del Time. Ritratta di profilo, sembrava una sovrana rinascimentale. La corona le è stata ufficialmente consegnata ieri quando è stata nominata direttrice generale del Cern di Ginevra. La scienziata 52enne italiana, già candidata al Nobel nel 2013 è ora a tutti gli effetti la regina della Fisica, perché il Cern è il regno della ricerca scientifica mondiale dove è stata provata l’esistenza del bosone di Higgs. Ed è stata proprio questa elegante signora, diplomata anche in pianoforte al Conservatorio di Milano, a coordinare gli esperimenti che hanno permesso di catturare la cosiddetta “particella di Dio”, il mattone sub atomico che costringe tutte le componenti della materia ad aggregarsi.
È la prima volta che una donna viene scelta per dirigere il laboratorio europeo di fisica delle particelle fondato 60 anni fa da alcune nazioni tra cui l’Italia e ancora oggi uno dei pochi fiori rimasti all’occhiello del nostro disastrato Paese, vista la costante presenza nel ruolo che è stato assegnato a Gianotti di “cervelli” laureati nelle università italiane: Edoardo Amaldi, Luciano Maiani e Carlo Rubbia, Nobel nell’’84.
Fabiola Gianotti è entrata al Cern appena laureata, distinguendosi fin dall’inizio anche per la sua abilità nel far interagire al meglio le squadre di ricercatori. Il successo è arrivato con l’ideazione e il coordinamento di “Atlas”, uno dei mega-esperimenti lungo l’anello sotterraneo di 27 chilometri del Large Hadron Collider.
IN UN’INTERVISTA HA DETTO: “La leadership nasce per consenso e non può essere imposta dall’alto. Credo nelle organizzazioni leggere, dove le gerarchie servono per essere più efficienti, ma non diventano un elemento di rigidità che soffoca l’iniziativa e la creatività delle persone”. Renzi, che ha subito chiamato Gianotti per congratularsi, dovrebbe riflettere su queste parole e anche sui profitti in immagine e indotto che l’Italia ricava dal Cern. La nostra partecipazione quest’anno ci costerà circa 100 milioni di euro, più o meno 2 euro a contribuente. Molto meno del Senato: 540 milioni, e considerato che la fisica atomica ci ha regalato non solo Internet - sviluppato proprio al Cern - ma anche gli strumenti che hanno permesso a milioni di malati di cancro di salvarsi. È grazie agli esperimenti condotti al Cern se oggi disponiamo di strumenti di diagnosi e cura come Tac, Pet e radioterapia.
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Non sprechiamo un’occasione irripetibile
di Gabriele Beccaria (La Stampa, 5.11.2014)
«Cosa c’è là fuori?». È la domanda delle domande che ossessiona i fisici e che da ieri ha un’eco ancora più profonda nel cervello di Fabiola Gianotti, ora Direttore del Cern. Dal 2015 l’acceleratore «Lhc» cercherà di dare una risposta definitiva a domande finora impenetrabili, come la materia e l’energia oscura.
Fabiola Gianotti è stata considerata la scienziata migliore per questa avventura nell’Universo profondo che ha un’aura grandiosa, da far impallidire la trama di un kolossal come «Interstellar». Leader di uno dei due esperimenti che nel 2012 ha scoperto il Bosone di Higgs, ha dimostrato capacità multiple: la creatività della ricercatrice di razza e l’abilità - molto femminile - di motivare vasti team internazionali, spesso affollati di maschi che vorrebbero essere tipi «alfa», cioè dominatori.
Altri due grandi italiani l’hanno preceduta, Carlo Rubbia e Luciano Maiani. E il Cern stesso ha avuto tra i suoi padri fondatori, 60 anni fa, un’altra star tricolore, il «ragazzo di Via Panisperna» Edoardo Amaldi. Ora Fabiola Gianotti continua una tradizione di visione e genialità che il mondo ci riconosce e che non si è mai avvizzita: un made in Italy di formule, teoremi e tecnologie non meno elegante e seducente delle giacche e delle scarpe di cui sempre ci entusiasmiamo.
L’Italia, poi, è il quarto contribuente di quella scintillante impresa europea che è il Cern e da anni invia tra Svizzera e Francia pattuglie di fisici che sono diventati personaggi di spicco di molti dei test che si conducono nell’anello sotterraneo dell’«Lhc». Ma la sfida è così impegnativa che, adesso, occorrono nuove risorse e nuove motivazioni.
La nomina di una «First Lady» della fisica come Fabiola Gianotti è un’occasione unica per l’Italia: per ripensare il nostro posto nella scienza mondiale. E renderlo un po’ più grande e promettente. Il nostro passato dice che ce lo meritiamo.
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Signora delle particelle
Il sogno di ballare alla Scala e l’amore per il pianoforte
«Esploro l’infinita bellezza della musica della scienza»
di Giovanni Caprara (Corriere della Sera, 5.11.2014)
«Sognavo di diventare una ballerina del teatro Bolshoi o della Scala. Mi attirava danzare, disegnare figure nell’aria, ma ero anche una bimba curiosa, cercavo mondi nella fantasia. E così arrivai alla scienza».
Fabiola Gianotti, protagonista della scoperta del bosone di Higgs, la famosa «particella di Dio», ha appena ricevuto la notizia della nomina a direttore generale del Cern di Ginevra. «È capitato tutto all’improvviso e la giornata è diventata frenetica». Ma la voce è sempre calda, le parole veloci: «Avrò molto lavoro da fare», dice, come se dovesse affrontare uno dei tanti normali compiti che già affollano la sua agenda quotidiana.
Il Cern, il laboratorio europeo di ricerca nucleare, è oggi il luogo più importante al mondo per indagare la natura e, grazie al super acceleratore Large Hadron Collider, per volare in quel nuovo mondo inseguito da bambina. «Studiavo e leggevo la biografia di Marie Curie e la sua passione, la sua dedizione mi hanno contagiato portandomi a studiare fisica». Da allora ha dedicato la vita alla ricerca. Fabiola Gianotti, 52 anni, romana d’origine, si è formata all’Università Statale di Milano e vent’anni fa, scienziata dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, è entrata al Cern studiando alcune parti del superacceleratore con il quale avrebbe più tardi lavorato.
Quando guidava l’esperimento Atlas era a capo di tremila ricercatori di ogni nazionalità. «La fisica al Cern ti porta a vivere in una dimensione umana straordinaria senza differenze di sesso, età, nazionalità. Qui ci si misura con le capacità che si è in grado di esprimere e per certi aspetti potrei dire che al Cern la scienza è donna, perché ognuna di noi gode delle stesse opportunità, senza timori, in un confronto di cultura e valori individuali che forse non ha pari altrove. Bisogna solo credere e vivere fino in fondo ciò che abbiamo scelto».
E con questa consapevolezza guarda con entusiasmo al futuro. «So di avere davanti prove difficili da affrontare, dovrò compiere scelte ardue, ma sogno di mantenere il Cern al vertice dell’eccellenza scientifica mondiale. La fisica fornisce basi della conoscenza che possono trasformarsi in tecnologie preziose. Chi pensa che la fisica quantistica sia presente nelle telecomunicazioni per codificarle, ad esempio, oppure che nel Gps ci sia l’applicazione della teoria della relatività di Einstein? Eppure è così. Lo stesso Web è nato al Cern».
Quando racconta le sue ricerche, Fabiola usa con disinvoltura la parola «bellezza» per comunicare il fascino delle dimensioni che esplora con la mente. «La nuova fisica è un giardino incantato», spiega facendo scivolare le parole verso le altre passioni che l’accompagnano. Ha un unico rammarico: la sfida di cui è stata protagonista l’ha allontanata un po’ dalla musica, dall’amato pianoforte. «Le note di Schubert, il mio autore preferito, mi riempivano l’animo. Ora il mio tempo è tutto nella musica della nuova fisica».
«Non so se riuscirò a eguagliare i grandi italiani che mi hanno preceduto alla guida del Cern: Edoardo Amaldi, che ne è stato uno dei fondatori; Carlo Rubbia, che qui ha conquistato il Nobel; Luciano Maiani, che ha dato il via alla costruzione del nuovo acceleratore Lhc. Avverto la grande responsabilità del mio compito, il prestigio che l’accompagna, ma non sono preoccupata e sono cosciente della modestia con la quale devo guardare al mio impegno. Qui si può far progredire la scienza, ma il Cern ha anche valore come luogo di educazione, e come laboratorio di straordinaria interazione sociale nella quale il concetto di pace è alla base dello studio, della convivenza e dell’esplorazione».
Fabiola Gianotti ha conquistato la copertina del settimanale americano Time come donna dell’anno, la rivista Forbes l’ha inclusa tra le cento donne più influenti del mondo, il suo nome è di prestigio in tanti comitati internazionali, e numerosi sono i riconoscimenti attribuiti al suo lavoro. Lei sorride e accompagna le parole verso l’amore per la fisica ricordando con orgoglio di appartenere a una preziosa tradizione italiana che con Enrico Fermi ha avuto il suo caposcuola.
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La «regina» della fisica e la lezione da capire
di Elena Cattaneo (Il Sole-24 Ore, 5.11.2014)
Dopo l’emozione e la soddisfazione per il premio Nobel andato l’anno scorso ai fisici Higgs e Eglert, che avevano previsto la particella scoperta nel luglio scorso al Cern di Ginevra, Fabiola Gianotti, la quale aveva guidato uno dei team protagonisti di quella scoperta, consegue un traguardo di ulteriore prestigio. A lei, infatti, sarà affidata la guida del Cern per i prossimi cinque anni.
È un riconoscimento formidabile per la collega, laureatasi in Fisica nella mia stessa Università, la Statale di Milano, che sarà la prima donna a guidare l’importante laboratorio internazionale, e l’indicazione di una qualità scientifica indiscussa della tradizione italiana nel campo della fisica sperimentale.
Essere scelta per coordinare ricerche complesse e che vedono coinvolti numerosi e diversificati gruppi capaci di produrre masse ingenti di dati, significa avere dimostrato grandi doti scientifiche, cioè una efficace padronanza delle più avanzate e sofisticate teorie che stimolano esperimento capaci di affascinare ancora l’uomo della strada, come quello che ha portato a dimostrare l’esistenza della cosiddetta "particella di Dio".
Ma vuole anche dire che Fabiola Gianotti ha dimostrato superiori capacità organizzative, ovvero di saper mediare dinamiche politiche e governare una comunità di individui altamente competitivi, come sono gli scienziati che raccolgono e affrontano alcune delle più avanzate sfide della conoscenza. L’auspicio è che ai riconoscimenti internazionali che gli scienziati italiani stanno raccogliendo, nonostante il perdurante scarso interesse della politica per la ricerca scientifica, faccia quanto prima seguito un’inversione di tendenza sul piano del sostegno alla scienza in questo Paese.
Segnali come questo dovrebbero essere amplificati dal Governo e dal Parlamento, per mandare ai giovani e al Paese messaggi di fiducia negli investimenti culturali e per costruire competenze specialistiche nei settori scientificamente e tecnologicamente più avanzati. I successi professionali e culturali di scienziati come Fabiola Gianotti dovrebbero altresì ispirare meglio i progetti di riforma della scuola, perché in un sistema economico e civile globale fondato sulla conoscenza, la "buona scuola" sarà tale solo se saprà dare la giusta centralità al metodo di produzione delle conoscenze scientifiche.
Perché vale la pena farsi un viaggio nello spazio con Interstellar
di Patrizia Caraveo *
Uniamo le previsioni più fosche circa il futuro del nostro pianeta con la maestria di un grande fisico nel gestire la relatività generale, aggiungiamo effetti speciali a piacere ed abbiamo tutti gli ingredienti alla base del successo (annunciato) di Interstellar. Un film non banale da vedere, decisamente lungo e impegnativo, alla fine del quale si è provati. Non per niente al botteghino USA, nel primo week-end di programmazione, è stato battuto da Big Hero 6, la storia di un robot gonfiabile nella tradizione dell’animazione Disney. Intendiamoci, è stata tutt’altro che una disfatta: tra IMAX e cinema normali Interstellar ha incassato 53 milioni di dollari, circa un terzo del costo di produzione, che verrà sicuramente ripagato in queste prime settimane di programmazione.
Il regista è una garanzia per i finanziatori, i sette precedenti film di Christopher Nolan hanno fatta registrare un vertiginoso totale di incassi di oltre 3 miliardi e mezzo di dollari. Oltre ad essere la storia di un padre che cerca di salvare l’umanità per amore dei suoi figli, Interstellar vuole essere un film di fantascienza con una solida base scientifica, forse un po’ immaginifica, ma sempre tendenzialmente corretta, basata su effetti della relatività generale come il ripiegamento dello spazio e la dilatazione del tempo.
Tutto parte dalla constatazione che le risorse della terra si stanno esaurendo, qualcosa che ci suona vagamente familiare, visto gli ultimi preoccupanti dati sul riscaldamento globale. Quello che rimane dell’umanità è costretto ad occuparsi a tempo pieno della coltivazione del granoturco, l’unica pianta capace di resistere alle malattie che hanno sterminato tutte le altre coltivazioni. Come se non bastasse la dieta così monotona, il mondo è devastato da terribili tempeste di polvere, che ricordano le descrizioni della dust bowl della grande depressione.
Il nostro eroe è un pilota della ex NASA, diventato per necessità coltivatore diretto, in una fattoria che produce un mais stentato, fatto crescere apposta in Canada, in un setting bellissimo ma dalle condizioni non ottimali. Una misteriosa presenza, che si scoprirà dopo essere un’onda gravitazionale, gli dà la sveglia. Così non si può andare avanti, bisogna unirsi agli scienziati che lavorano in segreto e andare alla ricerca di un altro pianeta. Dal momento che il sistema solare non ha nulla da offrire, bisogna andare più lontano, verso altre stelle.
Anche se non tutti sono abitabili, cioè offrono le condizioni perché l’acqua rimanga liquida. Peccato che, con la propulsione attualmente disponibile, anche per arrivare alla più vicina stella ci vorrebbero migliaia di anni. Per accorciare la distanza, o meglio i tempi di percorrenza, ci vuole un aiutino. E quello lo fornisce Kip Thorne fisico teorico del Caltech, famoso per i suoi studi di quello che succede nei dintorni di un buco nero. La passione per la relatività generale lo ha accompagnato in tutta la sua brillante carriera. Così a 74 anni non esita a riempire lavagnate di equazioni che nel film diventano realtà per permettere agli intrepidi esploratori di saltare dal sistema solare ad altri mondi. Kip Thorne dice che il rendering degli effetti di distorsione della luce nelle vicinanze di un buco nero sono i migliori mai fatti e gli hanno permesso di notare effetti ai quali non aveva mai pensato.
Non ne dubito, anche se ne avevo visti di bellissimi in “Black Hole the other side of infinity” di Tom Lucas. Lì i buchi neri stanno nel centro della galassie, dove è normale che stiano, non nel giardino dietro casa nostra, come succede in Interstellar. Il traghetto cosmico è un wormhole nei dintorni di Saturno, una singolarità spazio-temporale che avrebbe non poco effetto di disturbo sui poveri pianeti del nostro sistema solare. Non ce ne preoccupiamo perché è li che le astronavi si tuffano alla ricerca di altri mondi più ospitali della sgangherata terra. Le astronavi sono bellissime: l’ammiraglia Endurance (nella foto in alto, come la nave della disastrosa spedizione Transantartica di Ernest Henry Shackleton) è una gigantesca ruota come quella di 2001 Odissea nello spazio. Poi ci sono due astronavi di servizio per le ricognizioni, chiamate Ranger e Lander e che - una volta confezionate - sono state impaccate in un container e spedite in Islanda dove è stato allestito il set extraterrestre. Da un lato la desolazione del ghiacciaio Vatnajofull coperto da cenere vulcanica, dall’altro lato la laguna Brunasandur che illude gli esploratori con la sua aria accogliente, fino a quando non viene spazzata da un’onda terrificante.
Mentre i nostri sono a spasso chissà dove - e vivono in un tempo dilatato grazie alla relatività generale - sulla terra il tempo passa come al solito e le condizioni peggiorano. L’eroe cerca la figlia e trova una vecchia. In più si scopre che l’onda gravitazionale che l’aveva guidato è la stessa che aveva generato lui al passaggio del wormhole.
Con un costo medio di un milione di dollari al minuto, meglio mettersi comodi e cercare di non perdersi niente. Chissà cosa avrebbe detto di tutto questo diluvio di relatività generale l’antico professore di Kip Thorne, il mitico John Archibald Wheeler, meglio noto come Gravity Joe. Per gli studenti di fisica Wheeler significa un tomo di 1000 pagine dal titolo che non ammette compromessi “Gravitation”, uno scoglio durissimo da superare. Tutto avrebbe potuto immaginare il grande Wheeler, tranne che vedere le sue equazioni diventare il set di un film dal quale i produttori si aspettano incassi stellari.
Chi ha detto che con le equazioni non si mangia?
ROMA, 8 DICEMBRE 2014
*
("Che Futuro", 8 dicembre 2014 (ripresa parziale - senza immagini).)
Cosmologia. L’universo in un saggio del fisico e divulgatore Jim Al-Khalili
In viaggio tra i prodigi dello spazio-tempo
di Vincenzo Barone (Il Sole-24 Ore, Domenica, 23.09.2018)
Ci sono regali di compleanno che lasciano il segno. In occasione dei settant’anni di Albert Einstein, nel 1949, il grande logico matematico Kurt Gödel decise di rendere omaggio al padre della relatività, suo compagno di passeggiate e di meditazioni a Princeton, con un singolare lavoro scientifico, contenente un nuovo modello cosmologico. Gödel era convinto che il tempo fosse un’illusione e pensò di dimostrarlo concependo un universo perfettamente coerente con le leggi della relatività generale ma dotato di una caratteristica inaudita: la possibilità di viaggiare indietro nel tempo, visitando il proprio passato.
L’universo di Gödel è molto diverso da quello che conosciamo: per esempio, non si espande, ma ruota. Nessuna legge fisica, però, lo vieta, e se fosse reale, creerebbe non pochi problemi. Provate a immaginare che cosa potrebbe succedere se foste in grado di tornare indietro nel tempo. Il paradosso più eclatante in cui incorrereste è quello del nonno: supponete che, viaggiando nel passato, decidiate di uccidere vostro nonno prima che abbia la possibilità di conoscere vostra nonna e di concepire i vostri genitori. Non sareste quindi potuti nascere; ma, d’altra parte, se non foste nati, non potreste oggi tornare nel passato e uccidere vostro nonno.
Come ricorda il fisico e divulgatore Jim Al-Khalili in Buchi neri, wormholes e macchine del tempo, che esce ora in un’edizione italiana aggiornata, l’articolo di Gödel segnò il momento in cui i viaggi nel tempo, in precedenza appannaggio solo della letteratura di fantasia, conquistarono il palcoscenico della fisica. Era l’inizio dell’investigazione scientifica dei territori estremi ed esotici, ma ammissibili, dello spazio-tempo.
C’era stato, a dire il vero, un precedente: lo stesso Einstein, assieme a Nathan Rosen, aveva immaginato nel 1935 un modo per connettere, attraverso una sorta di scorciatoie cosmiche, due universi paralleli. I«ponti di Einstein-Rosen» sono gli antesignani dei wormholes, i cunicoli spazio-temporali che collegano regioni lontane dello stesso universo (invece che universi distinti, come nella proposta di Einstein e Rosen).
A inaugurare la moderna ricerca su queste intriganti strutture cosmologiche è stato negli anni Ottanta del secolo scorso un fisico di grande ingegno, Kip Thorne, su richiesta dell’amico Carl Sagan, il famoso astronomo e scrittore, che intendeva introdurre i wormholes nella trama del suo romanzo Contact. Sagan aveva bisogno di wormholes stabili, sufficientemente grandi e percorribili nei due sensi, in modo da dare la possibilità a una missione terrestre di entrare in contatto con una civiltà aliena e di tornare indietro. Thorne si mise al lavoro e, con sua grande sorpresa, scoprì che lo spazio-tempo relativistico ammetteva effettivamente collegamenti di questo genere.
L’intreccio tra scienza e finzione si è ripetuto di recente ancora con Thorne, il quale ha contribuito come soggettista e produttore esecutivo alla realizzazione di Interstellar, uno dei più interessanti film di fantascienza degli ultimi anni, diretto da Christopher Nolan.
I “protagonisti” scientifici del film sono - in una cornice fantastica - gli stessi del libro di Al-Khalili: un buco nero supermassiccio, simile a quelli che popolano i centri di molte galassie (compresa la nostra), un wormhole, che si apre improvvisamente vicino a Saturno, e, soprattutto, una macchina del tempo. Quest’ultima è pensata da Thorne come un ipercubo che si muove in una quinta dimensione, ma, come spiega Al-Khalili, in linea di principio si possono concepire macchine del tempo anche nel nostro solito universo, senza aver bisogno quindi di dimensioni extra o di modelli di tipo gödeliano: basta (si fa per dire) che si combinino opportunamente dei wormholes attraversabili, nella speranza che non sia vero quanto congetturato da Stephen Hawking, e cioè che non si scopra qualche nuova legge della natura a protezione del corso ordinario degli eventi.
Curiosamente, tra tutti i prodigi spazio-temporali, in Interstellar ne mancava uno, di cui abbiamo oggi evidenza diretta: le onde gravitazionali. Sebbene non fossero state ancora osservate, Thorne le aveva inserite nel soggetto originario del film, risalente al 2004, ma alla fine il regista aveva deciso di eliminarle. Ironia della sorte, appena un anno dopo l’uscita del film, all’inizio del 2016, l’esperimento statunitense Ligo e l’omologo italo-francese Virgo hanno annunciato la scoperta delle prime onde gravitazionali (per questo risultato Thorne, co-fondatore e responsabile teorico di Ligo, è stato insignito l’anno scorso del premio Nobel per la fisica assieme ai colleghi Rainer Weiss e Barry Barish).
In cosmologia, come si vede, l’osservazione e l’invenzione si rincorrono e si sostengono a vicenda, disegnando un’immagine dell’universo a dir poco stupefacente. Quella che è in corso sotto i nostri occhi, e che ci regala quotidianamente sorprese, è una straordinaria avventura, che Al-Khalili racconta con la sua riconosciuta abilità divulgativa, accompagnando il lettore tra i più misteriosi abitatori del cosmo e nelle pieghe nascoste del tempo, in un viaggio vertiginoso ma sempre sul solido terreno della scienza.
*Questo articolo è una versione modificata della prefazione di Vincenzo Barone a Jim Al-Khalili, Buchi neri, wormholes e macchine del tempo (Dedalo, Bari, pagg. 320, € 13,60) nei prossimi giorni in libreria
Il film di Christopher Nolan
Il cuore di tenebre spaziale che frena la cosrsa del tempo
In "Interstellar" il sogno di una vita dilatata. E vicina all’eterno
di Anna Meldolesi *
Un orologio può essere molto più di un orologio. Nel film “Interstellar” è il pegno d’amore che il padre in partenza per una missione impossibile lascia alla figlia di dieci anni, promettendole di tornare. È lo strumento che lui (Matthew McConaughey) userà per comunicarle informazioni di cruciale importanza per i destini del mondo, facendo oscillare la lancetta dei secondi con il codice Morse. Ed è anche una rappresentazione della teoria della relatività di Einstein con i suoi paradossi temporali.
Il fenomeno della dilatazione del tempo scandisce tutta la storia portata al cinema da Christopher Nolan con la consulenza dell’astrofico Kip Thorne: mentre la bambina cresce e invecchia sulla Terra, il padre resterà giovane nelle pieghe cosmiche dello spazio-tempo.
L’orologio che McConaughey porta con sé tra le stelle è un classico modello da pilota. L’altro, quello regalato alla figlia, è stato prodotto in dieci pezzi solo per il film e si chiama “Murph watch” dal nome della ragazzina e futura scienziata. “Quando tornerò li confronteremo”, dice lui. Lei però scaglia il dono per terra, nell’ultimo disperato tentativo di convincere il padre a restare.
È inutile illudersi: il Sistema solare avrà poco da offrirci in termini di habitat e risorse, se mai saremo costretti ad abbandonare il nostro pianeta. Il posto più vicino in cui cercare forme di vita elementari è Europa, la luna di Giove a cui Sebastián Cordero ha dedicato il film “Europa Report”. Ma per stabilire una colonia capace di auto-sostenersi bisognerà cercare più lontano, percorrendo distanze ben più lunghe di una vita umana.
L’umanità di “Interstellar”, insomma, non avrebbe speranze se una civiltà più avanzata non avesse costruito nei pressi di Saturno un tunnel spazio-temporale, per accorciare di innumerevoli anni-luce il tragitto che ci separa da altri mondi potenzialmente ospitali. Lo chiamano “wormhole”, perché è una specie di galleria scavata dentro la mela del cosmo da un ipotetico bruco, per passarci dentro anziché strisciare fuori. Il successo del viaggio interstellare di McConaughey dipende più dal tempo consumato che dal carburante disponibile: non servirà a nulla trovare una nuova casa se intanto sulla Terra non sarà rimasto nessuno da salvare.
La fisica gioca strani scherzi. Poche ore trascorse vicino a un buco nero possono bruciare decenni, perché la gravità di quel cuore di tenebra rallenta l’orologio, mentre sul pianeta dove siamo nati le lancette continuano a girare. I bambini crescono, si sposano, danno alla luce dei figli, mentre gli esploratori della Nasa fanno appena in tempo ad atterrare e a scappare da ambienti proibitivi che non potranno mai colonizzare. Siamo soliti pensare alla realtà in tre dimensioni: larghezza, lunghezza e altezza. Ma ce n’è una quarta, il tempo appunto, lungo cui l’uomo ha spesso sognato di viaggiare. Avremmo canyon e montagne di passato e di futuro tutti da esplorare. Le leggi della fisica consentono di aprire dei portali che funzionino come macchine del tempo, almeno in teoria?
Qualche anno fa Stephen Hawking è arrivato a discutere tre soluzioni in un articolo divulgativo che ha fatto scalpore. La prima è rappresentata proprio dai wormhole, perché queste increspature dello spazio-tempo esistono davvero sulla scala dell’infinitamente piccolo, nell’universo quantistico. Catturarne uno, ingrandirlo e tenerlo aperto abbastanza a lungo da farci passare dentro un essere umano, però, sembra un’impresa impossibile. Se ci si riuscisse, poi, ne nascerebbero dei paradossi con inversione di cause ed effetti. Uno scienziato che si affacciasse in un tunnel del genere, ad esempio, potrebbe vedere sé stesso nel passato e sparargli. Ma essendo lui morto, chi è che ha premuto il grilletto? Il tempo è come un fiume che sembra trasportarci in un’unica direzione con la sua corrente. Ma i fiumi hanno anse in cui rallentano e poi, magari, rapide improvvise.
Lo stesso accade al tempo, anche nel mondo reale. I satelliti del Global Positioning System o Gps orbitano intorno alla Terra aiutandoci a orientarci e a muoverci sulla superficie. Ebbene, gli orologi che hanno a bordo guadagnano circa un terzo di miliardesimo di secondo ogni 24 ore, e il sistema deve autocorreggersi per non portarci fuori strada di quasi10 chilometri al giorno. La colpa è della gravità terrestre, che è piuttosto modesta.
Figuriamoci cosa può succedere in prossimità di un oggetto supermassivo come il buco nero che si trova al centro della Via Lattea. Questa stella collassata in un punto di densità elevatissima è una macchina del tempo naturale: se un’astronave la circumnavigasse per cinque anni, altrove ne trascorrerebbero dieci. Sempre che si riesca a sopravvivere avvicinandosi a un siffatto mostro cosmico, una cosa decisamente difficile.
Ecco allora il terzo stratagemma: viaggiare a una velocità che non sia molto inferiore a quella della luce. I passeggeri di un treno tanto rapido che facesse più e più volte il giro della Terra per un secolo, calcola Hawking, invecchierebbero soltanto di una settimana. Qualcosa di simile succede alle particelle che girano dentro all’acceleratore del Cern di Ginevra.
Per vivere un’esperienza del genere, però, dovremmo costruire astronavi capaci di muoversi a una velocità migliaia di volte più alta di quelle attuali. Sprecheremmo qualche anno per accelerare, poi cominceremmo a viaggiare nel futuro. Un giorno a bordo potrebbe equivalere a un anno terrestre, ci pensate? Alla fine potremmo tornarcene a casa come Matthew McConaughey, ancora giovani e belli a dispetto dei 124 anni conteggiati all’anagrafe.
Ammesso che si possa stare davvero bene in salute, nel fisico e nella mente, dopo un’esperienza tanto estrema, il che appare improbabile. Se vi accontentate di restare con i piedi a terra, comunque, affacciatevi alla finestra in una notte serena e provare a guardare il cielo con occhi nuovi. La luce delle stelle impiega anni ad arrivare fino a noi, perciò vediamo il firmamento com’era in passato, mai com’è adesso. La galassia di Andromeda è l’oggetto più distante visibile all’occhio umano e ci appare com’era 2,5 milioni di anni fa, un’epoca in cui gli uomini non esistevano. Con i telescopi più avanzati si può arrivare a compiere un balzo all’indietro di oltre 13 miliardi di anni. I cosmologi sono archeologi del cosmo, sostiene anche Brian Clegg nel suo ultimo libro “Final Frontier”, ma sono più fortunati. Ai paleontologi non è consentito osservare i dinosauri in movimento, hanno soltanto i fossili. Guardare il cielo, invece, è un viaggio nel tempo ed è alla portata di tutti.
Un Natale nel nome di Isacco (Newton)
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 29.12.2013)
Lo scorso mercoledì una parte del mondo occidentale ha meditato sulle parole del Vangelo secondo Giovanni (I, 6-7): «Venne un uomo mandato da Dio», e «venne come testimone per rendere testimonianza alla luce». E ha festeggiato quell’uomo, che cambiò la storia dell’Occidente, e nacque il giorno di Natale: ma non dell’anno 0, bensì del 1642. Quell’uomo aveva un nome biblico, ma non si chiamava Giovanni o Gesù: bensì, Isacco, o meglio, Isaac.
In realtà, quell’uomo nacque il giorno di Natale solo in Inghilterra, dove la riforma del calendario non era ancora stata adottata: nelresto d’Europa, si era ormai già al 4 gennaio 1643. Ciò nonostante, in Inghilterra il 25 dicembre continua a esser chiamato non solo Christmas, ma anche Newtonmas.
Perché è appunto di Newton che stiamo parlando: un uomo che “rese testimonianza alla luce” in un libro chiamato Ottica, nel quale spiegò al mondo che la luce bianca in realtà è un miscuglio di luci colorate, nelle quali si può decomporre facendola passare attraverso un prisma, e che si possono ricomporre facendole ripassare attraverso un prisma invertito. Solo la mela che ispirò allo stesso Newton la legge di gravitazione universale può competere con il suo prisma nell’immaginario scientifico collettivo, come simbolo del colpo di genio in grado di cambiare la storia del pensiero e dell’uomo.
È per questo che, quando Newton morì, Alexander Pope compose un epitaffio che paragonava la sua nascita non solo a quella di Cristo, ma addirittura alla creazione del mondo: «God said: Let Newton be, and all was light», ossia “Dio disse: Sia fatto Newton, e la luce fu”. Ed è per questo che il 25 dicembre molti si sono augurati, invece che un religioso Merry Christmas, un laico “Merry Newtonmas”!
Il cacciatore di pianeti
Dimitar Sasselov: «Il mio obiettivo? Cercare forme di vita fuori dal sistema solare»
«Gli oggetti cosmici simili alla Terra sono moltissimi. Abbiamo i telescopi, dunque un’ottima possibilità di trovare la vita»
di Pietro Greco (l’Unità, 07.06.2013)
QUALCUNO LO HA DEFINITO UN «CACCIATORE DI PIANETI». LI CERCA FUORI DAL SISTEMA SOLARE, NATURALMENTE. Ha battuto anche un record: nel 2002 ha scovato il pianeta che allora era il più lontano mai rilevato da essere umano. Nato in Bulgaria, lavora alla Harvard University, negli Stati Uniti, dove dirige la Harvard Origins of Life Initiative, un progetto di ricerca sull’origine della vita.
Si chiama Dimitar Sasselov e il suo più grande obiettivo è cercare forme di vita sui pianeti extrasolari. Ha appena pubblicato per Codice il libro: Un’altra Terra. La scoperta della vita come fenomeno planetario. E pochi giorni fa è stato al Wired Next Fest di Milano dove ha tenuto una conferenza dal titolo: «Alla ricerca dei nuovi mondi. Un viaggio tra astrofisica e biologia». Lo abbiamo intervistato.
Nel chiudere il suo libro su «Il caso e la necessità», il grande biologo francese Jacques Monod, ha scritto: «ora sappiamo di essere soli, nell’immensità indifferente del cosmo». Professor Sasselov, lei invece scruta il cosmo nella convinzione che la vita sia piuttosto diffusa. Su cosa fonda questa sua convinzione?
«Sono un ottimista. Io ci credo! Penso che non ci sentiremmo soli in un Universo dove più di un pianeta ospita forme di vita, anche quella vita dovesse essere microbica, con esseri viventi formati da una sola cellula. Sento che le probabilità sono a favore della presenza di esseri viventi su altri pianeti abitabili. Ma, naturalmente, finché non ne avremo una solida prova empirica, tutto quello che ho affermato è una mera questione di ottimismo».
Negli anni ’40 del secolo scorso un grande fisico teorico, Erwin Schödringer, scrisse un libro seminale dal titolo «Che cos’è la vita». Schrödringer si riferiva, evidentemente, alla vita presente sul pianeta Terra. Noi oggi abbiamo un’idea abbastanza precisa di cosa sia la vita e di come evolve nel tempo. Ma ci riferiamo sempre all’unico esempio conosciuto. Pensa che queste nostre conoscenze siano generalizzabili? Ovvero che dobbiamo cercare nell’universo forme sostanzialmente simili alla vita terrestre? Questo non vincola troppo la nostra ricerca?
«Il libro si Schrödringer è un classico, ma la risposta alla domanda “cos’è la vita” in fondo resta ancora elusiva. Noi davvero non sappiamo cos’è la vita, di conseguenza è più sicuro assumere che la prospettiva centrata sulla Terra potrebbe essere troppo limitata quando cerchiamo segni di vita nell’universo. Penso che in questa ricerca è cruciale procedure con una mente aperta».
Professor Sasselov c’è un’analogia tra la nostra conoscenza della vita e la nostra conoscenza dell’universo. In entrambi i casi abbiamo solide teorie scientifiche sulla loro evoluzione - la teoria neodarwiniana per quanto riguarda la vita e il modello standard della cosmologia per quanto riguarda l’universo - ma non abbiamo ancora una teoria scientifica solida né sull’origine della vita né sull’origine dell’universo. Secondo lei perché?
«Le questioni delle origini sono sempre molto diffìcile. In parte, perché sono questioni storiche ed è difficile studiare le precise condizioni del passato. In parte, perché sono questioni che riguardano l’emergenza di strutture e di ordine secondo regole che potrebbero essere state differenti dalle regole che determinano la loro evoluzione successiva e contemporanea. A rendere la faccenda ancora più difficile da districare c’è che in entrambi i casi, l’origine dell’universo e l’origine dell’universo, siamo limitati dal fatto siamo costretti a studia un caso singolo. Un caso unico».
Nel suo libro lei sostiene che la vita è un fenomeno planetario. Negli ultimi anni abbiamo scoperto molti pianeti extrasolari, alcuni dei quali sono simili alla Terra. Possiamo dedurne che nell’universo pianeti simili alla Terra sono molto diffusi. Ce ne sono miliardi e miliardi. Ma abbiamo concrete possibilità di verificare se c’è vita su questi pianeti?
«Le scoperte di molti nuovi pianeti (chiamati esopianeti, perché orbitano intorno ad altre stelle) negli anni scorsi ha dimostrato che oggetti cosmici con temperatura, clima e altre caratteristiche simili a quelle della Terra sono molto più comuni di quanto noi potessimo persino sperare solo pochi anni fa. Questi pianeti sono potenzialmente abitabili, sebbene noi sappiamo così poco sull’origine della vita, né che abbiamo la minima idea se qualcuno di loro sia effettivamente abitato. Ma il fatto che questi pianeti siano oggetti comuni nell’universo è una grande notizia, perché significa che molti esopianeti abitabili orbitano intorno alle stelle a noi più vicine. E noi abbiamo i telescopi e le tecnologie per cercare la vita su di loro da lontano. Cosicché abbiamo un’ottima possibilità di trovarla!»
Ma la vita, magari diversa da quella presente sulla Terra, potrebbe essere un fenomeno non solo planetario. In quali altre condizioni cosmiche potrebbe presentarsi?
«La superficie dei pianeti deve avere un intervallo di temperatura tale da consentire la presenza di acqua, o di un solvente simile, che sia allo stato liquido, almeno a volte. Generalmente ciò richiede la presenza di un’atmosfera. Quindi un grosso pianeta roccioso - come la Terra o anche più grande - è meglio. Ecco la situazione migliore è quella di una super-Terra. Oltre queste condizioni fondamentali, noi davvero non sappiamo altro. Ecco, ora questo è un nuovo settore di ricerca scientifica».
L’italiano Enrico Fermi era scettico sulla possibilità che esista una vita intelligente fuori dalla Terra. E ha espresso questa convinzione con una famosa domanda: «E allora, perché non sono qui?». In effetti da almeno mezzo secolo il progetto SETI (Search for extraterrestrial intelligence) sta scrutando il cielo alla ricerca di tracce di vita intelligente. Finora senza apparenti risultati. Lei pensa che esistano altre forme di vita intelligente nell’universo? E se sì, perché non l’abbiamo intercettata?
«Il problema posta da Enrico Fermi, e il paradosso che ha proposto, sono davvero affascinanti. Sono anche tra quelli più difficili che l’umanità abbia mai preso in considerazione, insieme ai due problemi dell’origine: quello della vita e quello della coscienza (e dell’intelligenza tecnologica). La combinazione può indurti allo scetticismo! Potrebbe essere che la vita è relativamente comune, ma che le forme di vita intelligente ha bisogno di miliardi di anni per svilupparsi. Sulla Terra sono stati necessari 4.000 milioni di anni: noi non sappiamo, tuttavia, se questo tempo è una media o se è un tempo breve. Ciò non toglie che si tratta di un tempo profondo, lungo. La nostra galassia, con tutte le sue stelle, ha un’età inferiore a 13.000 milioni di anni: le stelle che hanno accumulato abbastanza elementi pesanti da generare pianeti rocciosi sono anche più giovani. Cosicché penso che il paradosso di Fermi e il mancato incontro con di ETI, della vita intelligente, potrebbe essere solo una questione di tempo: noi potremmo essere la Generazione I».
Trovare vita fuori dalla Terra sarebbe una delle più grandi scoperte mai realizzate dall’uomo, se non la più grande in assoluto. Sarebbe la riprova di una sorta di principio copernicano perfetto. Sapremmo di essere un esperimento qualsiasi in un punto qualsiasi dello spazio e del tempo. Come pensa reagirebbe l’opinione pubblica dopo millenni in cui ci siamo consolati credendo di essere il centro dell’universo?
«Potrebbe essere la scoperta più importante, perché è fondamentale sia per la scienza e la comprensione del mondo, così come per definire chi siamo noi. Quest’ultimo aspetto è una percezione profondamente personale poiché è relativa al nostro quadro di riferimento. Qualcuno potrebbe avvertire come una sensazione di perdita».
Così sorge il Sole dei quanti
di Carlo Rovelli (Il Sole 24 ore, 10.02.2013)
Cento anni fa, nel 1913, Niels Bohr, ventisettenne fisico danese, nonché portiere della squadra di calcio Akademisk Boldklub di Copenhagen, mandava alla rivista «Philosophical Magazine» un articolo destinato a diventare uno dei pilastri della fisica del Novecento. L’articolo aveva il titolo Sulla costituzione degli atomi e delle molecole, e descriveva in dettaglio quell’immagine dell’atomo che oggi è familiare a tutti noi: un nucleo centrale pesante e molto piccolo, attorno al quale orbitano a diverse distanze gli elettroni, come pianeti di un minuscolo sistema solare.
L’articolo proponeva la strana idea che gli elettroni non potessero ruotare intorno al nucleo a distanze arbitrarie, ma dovessero solo muoversi su certe orbite particolari, caratterizzate da particolari energie. Questa restrizione non ha alcun senso nella meccanica Newtoniana, e Bohr era consapevole di stare di fatto proponendo un’ipotesi che contraddiceva la fisica di allora. Da più di due secoli la fisica Newtoniana non faceva che trionfare, e suggerire che per capire gli atomi si dovesse cambiarla era una mossa ardita.
C’erano stati due precedenti. Il primo, sostanzialmente inconsapevole, nei 1900, quando il fisico austriaco Max Planck era riuscito a scrivere una formula che descriveva molto bene la radiazione emessa da un corpo caldo introducendo una nuova costante, oggi chiamata la costante di Planck, il cui significato appariva piuttosto misterioso. Il secondo, visionario, dovuto al genio del giovanissimo Einstein, che nel 1905, per spiegare certi comportamenti della luce, ipotizza che la luce non sia un’onda ma sia uno sciame di corpuscoli, oggi li chiamiamo i fotoni, la cui energia può prendere solo certi valori, determinati appunto dalla costante di Planck.
Oggi diciamo che l’energia è fatta da «quanti di energia», pacchetti di energia. L’idea di Einstein non fu presa sul serio da nessuno, tutti erano convinti che la luce fosse solo e nient’altro che un’onda elettromagnetica, fino all’articolo di Bohr. Bohr riprende l’idea di Einstein che l’energia possa avere solo certi valori, determinati dalla costante di Planck, e la trasferisce dalla luce agli atomi: gli elettroni che orbitano in un atomo possono avere solo certe energie, determinate dalla costante di Planck.
Facendo questa “strana assunzione”, Bohr riesce a calcolare il comportamento degli elettroni, e ritrovare in modo esatto tutti i risultati di una grande quantità di osservazioni sugli atomi che si erano accumulati negli anni precedenti. In altre parole, tutte le osservazioni fatte diventano comprensibili se solo si assume che l’energia esista in «quanti di energia», in pacchetti di energia. Ma l’esistenza di «quanti di energia» non ha alcun senso nella fisica di Newton.
Comprendere la natura di questi «quanti di energia», che appaiono regolare la natura alla scala atomica diventa allora, dal 1913, il problema fondamentale della micro fisica. Attorno a Bohr, a Copenhagen, si raccoglie pian piano uno straordinario insieme di giovani brillanti, che saranno quelli che faranno la fisica del secolo.
Da Copenhagen passano tutti: dai grandi fisici russi come Landau e Bronstein, ai giovani americani che dopo la guerra saranno padri della fisica americana, come John Wheeler. Nel 1926, il giovanissimo Werner Heisenberg, da poco arrivato a Copenhagen dalla Germania, riuscirà con uno straordinario colpo d’ala a scrivere nuove equazioni che sostituiscono completamente la fisica di Newton: è la nascita della meccanica quantistica, oggi ancora la nostra teoria fondamentale sul mondo fisico.
Nei decenni successivi la meccanica quantistica diventa la base teorica non solo per la fisica atomica, ma anche per la fisica nucleare, la fisica delle particelle, la fisica della struttura della materia, l’astrofisica, e trova applicazioni innumerevoli che vanno dai laser ai semiconduttori che sono al cuore dei computer che hanno cambiato la nostra vita.
Lungo tutto il percorso della nascita della teoria dei quanti, dalle prime intuizioni sulle orbite degli elettroni fino alle applicazioni nucleari, Niels Bohr resterà il padre e il grande pensatore di riferimento: è lui che passa le notti a parlare con il giovane Heisenberg nel parco di Copenhagen dietro all’istituto che oggi si chiama Istituto Bohr, per spiegargli cosa si capisce e cosa non si capisce ancora, e convincerlo a cercare le equazioni giuste.
È lui che comprende la stranezza concettuale della nuova teoria dove le onde sono anche corpuscoli e i corpuscoli sono anche onde. È a lui che si rivolge Einstein, che dopo essere stato il primo a comprendere che la fisica newtoniana andava superata e il primo a proporre i «quanti di luce», resta tuttavia incredulo e perplesso per la sconvolgente novità concettuale della teoria quantistica.
Il lungo dialogo sulla meccanica quantistica fra Einstein e Bohr, i due giganti della fisica del Novecento, continua fino alla fine della loro vita ed è un capitolo emozionante della storia della scienza, raccontato splendidamente in Quantum. Da Einstein a Bohr, la teoria dei quanti, una nuova idea della realtà di Manjit Kumar (Mondadori).
Durante la guerra la Danimarca è occupata dai Tedeschi. Bohr, danese, riceve l’inaspettata visita del suo migliore studente, Werner Heisenberg, il giovane che per primo ha risolto il problema dei quanti. Heisenberg, tedesco, raggiunge in treno e clandestinamente la Danimarca occupata, per avere una conversazione con il suo vecchio maestro. Il dialogo fra i due potrebbe avere avuto un effetto sulla storia stessa del mondo.
Entrambi sono consapevoli che la nuova fisica quantistica può essere usata per costruire una nuova bomba di sconvolgente potenza. Anche Hitler se ne è reso conto, e vuole mettere Heisenberg alla testa di un centro di ricerca con il compito di sviluppare l’arma. Heisenberg e Bohr si parleranno a lungo quella notte, camminando in quello stesso parco dove parlavano di fisica quindici anni prima.
Su quel dialogo sono stati scritti libri ed è stato composto da Michael Frayn un emozionante dramma teatrale, Copenhagen. Il vecchio mentore e il giovane tedesco si lasceranno senza essersi capiti e conserveranno ricordi diversi di quella notte. Heisenberg andrà a dirigere il centro di ricerche di Hitler, ma non farà mai la bomba atomica. Dopo la guerra sosterrà di non averla fatta nella speranza che anche i fisici dall’altra parte del fronte facessero lo stesso, e all’umanità fosse risparmiata la devastazione atomica e il rischio continuo della catastrofe. Molti non gli crederanno.
Bohr, poco tempo dopo, sarà avvicinato, sempre in quel parco, da un signore che gli darà una spinta e poi si scuserà raccattando da terra una penna e dicendo «la sua penna, professore». Tornato a casa perplesso, Bohr smonterà la penna per trovarvi dentro un biglietto firmato da Winston Churchill, che gli chiede di accettare di essere rapito dai servizi segreti inglesi e fatto uscire clandestinamente dalla Danimarca occupata. Dopo avere attraversato avventurosamente la Manica su una barca, Bohr arriva in America, per partecipare al progetto Manhattan dove viene costruita la prima bomba atomica: non si poteva fare, senza il padre della meccanica quantistica.
Ma al progetto parteciperà poco e dopo la guerra prenderà posizione per il controllo degli armamenti. Come Einstein, che pure era stato strumentale per la partenza del progetto, il vecchio fisico europeo fa ormai parte di un’altra generazione.
L’atomo sistema planetario del 1913, con gli elettroni sulle orbite quantizzate, aveva aperto un’era nuova, l’era in cui oggi viviamo. Il sapere è potere, ma coloro che sviluppano il sapere, non sono coloro che gestiscono il potere.
Bosone di Higgs/ Non è nella natura che si scopre il divino
Scritto da Gianni Vattimo *
L’ostinazione con cui la Chiesa ha sempre tentato di contrastare la cosmologia moderna e il suo spirito illuministico riflette la preoccupazione, non così irragionevole, di conservare un senso alla storia umana - e dunque all’etica, alla politica, alla società - di contro al senso nichilistico, leopardiano, suscitato dal sentimento dell’infinito cosmico. (di Gianni Vattimo)
di Gianni Vattimo
Sarà pur vero che l’evento - solo cosi lo si può chiamare - che ha rotto la quiete uniforme del «tutto» prima della nascita delle cose ha avuto un peso decisivo nel prodursi di quella differenziazione di particelle da cui e’ cominciato, per ciò che ne sappiamo, il corso dell’evoluzione di cui, bene o male che sia, noi siamo per ora il punto di arrivo.
Ma parlare del bosone di Higgs come se fosse Dio è davvero un po’ troppo. Non perché si tratti di una bestemmia («Dio bosone» è sicuramente un’espressione che fino a oggi non era venuta ancora in mente a nessun ateo blasfemo, per quanto dotto e accanito). Semmai, esprime un atteggiamento mentale che non ha più quasi alcun ascolto presso teologi, filosofi, uomini di fede. Riflette infatti la convinzione che Dio si possa in qualche modo scoprire in questo o quell’ aspetto della natura. Ma da quando Gagarin, spedito nel cosmo con la navicella, ovviamente atea, dell’Urss ha potuto esplorare il cielo senza trovare Dio, questa aspettativa «positivista» ha perso ogni senso, se mai ne ha avuto uno.
Le cinque vie classiche di San Tommaso - quelle che «dimostravano» l’esistenza di Dio a partire dal mondo, di cui Dio sarebbe la causa prima o il motore ultimo - erano bensì molto più sofisticate dell’ ingenuo ateismo di Krusciov; ma anche loro hanno resistito poco all’affermarsi progressivo del convenzionalismo scientifico moderno. Ormai attribuiamo solo all’uomo primitivo - quello per il quale il tuono o il fulmine sono opera di un qualche soggetto supremo l’idea che il mondo materiale debba essere stato prodotto da una volontà originaria ritenuta onnipotente. San Tommaso stesso osservava che dal punto di vista di Aristotele sarebbe stato molto più razionale pensare al mondo come eterno. Se no come avrebbe potuto, una volontà perfetta e sottratta al divenire, e cioè immutabile, decidere, a un certo punto, di crearlo?
Il racconto della creazione è un contenuto della fede, cui si crede (chi ci crede) come a un mito fondatore della nostra esistenza individuale e sociale che accettiamo perché sentiamo che senza di esso perderebbe ogni senso ciò che pensiamo e facciamo. Ma quanto a parlarne in termini di scienza fisica non ci prova ormai più nessuno.
Se anche dobbiamo pensare che il bosone di Higgs non c’entra niente con Dio, è però vero che scoperte come quella di oggi hanno un potente riflesso sulla nostra vita, sulla visione del mondo, dunque anche sulla nostra religiosità. È una specie di effetto che possiamo solo chiamare «neutralizzante» rispetto alla nostra storia vissuta. Come confrontare i pochi millenni della storia della specie umana con gli sterminati orizzonti delle ere geologiche, del formarsi del cosmo fisico e, appunto, con i minuti seguiti al big bang. La scienza moderna, del resto, si è formata anche e soprattutto criticando il racconto della Genesi, anzitutto contestando il geocentrismo biblico (ricordate il Galileo di Brecht, che ispira a molti l’idea che tutto ormai sia permesso). E ciò non solo per la sconsiderata volontà delle autorità religiose di difendere una cosmologia «rivelata» che veniva progressivamente dissolvendosi; ma anche e soprattutto perché, effettivamente, non era e non è facile pensare alla nostra storia umana in termini di storia della salvezza o anche solo, in termini laici, come storia della civilizzazione, e insieme alla nostra posizione nel cosmo, un battito d’ali di farfalla destinato a durare un attimo e a essere inghiottito dal silenzio cosmico.
L’ostinazione con cui la Chiesa ha sempre tentato di contrastare la cosmologia moderna e il suo spirito illuministico riflette la preoccupazione, non così irragionevole, di conservare un senso alla storia umana - e dunque all’etica, alla politica, alla società - di contro al senso nichilistico, leopardiano, suscitato dal sentimento dell’infinito cosmico. Non c’è un’uscita consolante e pacificante da questo dilemma. Noi siamo - storicamente - quell’umanità che ha anche scoperto, se cosi è, il bosone di Higgs; ma questa scoperta è un momento della nostra storia. Non è una constatazione risolutiva, ma è con questa condizione duplice, librata tra storia e natura che dobbiamo fare i conti.
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Contro Darwin
L’eresia di Nagel: “Per spiegare il mondo non basta la natura”
Il filosofo americano attacca l’idea che la scienza deterministica possa comprendere la coscienza
di Maurizio Ferraris (la Repubblica, 31.01.2013)
In Mente e cosmo. Perché la concezione materialista neo-darwiniana della natura è quasi certamente falsa (Oxford University Press 2012) Thomas Nagel (uno dei maggiori filosofi americani, nato a Belgrado nel 1937, professore di filosofia e diritto alla New York University) si propone di mettere in dubbio il senso comune della nostra epoca. La sua idea è che il dibattito tra darwiniani e fautori del “disegno intelligente” dell’universo non ha provato la bontà delle tesi di questi ultimi, ma ha rivelato delle fragilità nei primi. Insomma, pur dichiarandosi ateo, e dunque escludendo l’esistenza di una mente ordinatrice dell’universo, Nagel afferma che l’ipotesi darwiniana non riesce a spiegare fenomeni come la coscienza, il sapere e i valori.
In effetti, che vantaggio c’è ad avere una coscienza, che, come diceva Amleto, ci rende vigliacchi? E come si può spiegare l’emergere dell’intelligenza dalla materia? Un difensore di Darwin come Daniel Dennett sostiene che, proprio come il vivente è composto di elementi inorganici, a cui ritornerà (nella qual cosa non troviamo niente di miracoloso), così l’intelligenza può benissimo partire da elementi non intelligenti.
Nagel tuttavia vede in questa concezione un partito preso riduzionistico, che appare ancora più evidente quando la coscienza e l’intelligenza giungono a livelli più astratti, che sembrano escludere la stessa necessità di un genere umano che li pensi. Come scriveva nel 1974 in un articolo che lo rese celebre, Che cosa si prova a essere un pipistrello? (in questi giorni tradotto come volumetto da Teodoro Falchi per Castelvecchi) «i numeri transfiniti sarebbero esistiti anche se la peste nera avesse sterminato tutti gli uomini prima che Cantor li scoprisse».
Ora, quale sarebbe il vantaggio evolutivo dei numeri transfiniti? Un neo-darwiniano come Stephen Jay Gould avrebbe detto che si tratta di effetti collaterali di un sistema nervoso centrale più sviluppato (che è in sé un vantaggio evolutivo). Nagel invece asserisce che questo è uno dei tanti aspetti del mondo che il darwinismo non è in grado di spiegare.
Il vero obiettivo del libro di Nagel, tuttavia, non è criticare il darwinismo (anche se è facile immaginare che il suo libro sarà adoperato a quello scopo), bensì, in positivo, proporre un’idea giusta e ambiziosa di una scienza più ampia, quasi di un rinato sapere speculativo nello stile dell’idealismo tedesco.
Il tratto fondamentale di questa scienza allargata consiste nel far ricorso non soltanto a spiegazioni causali (A causa B) ma anche a spiegazioni finali, ricorrendo a quella che nel gergo filosofico si chiama “teleologia”: A causa B perché lo scopo di B era C. Ad esempio, l’uomo ha sviluppato una massa cerebrale superiore agli altri primati perché era parte di un processo orientato verso un fine, quello di avere una coscienza, perché, come diceva un grande partigiano della teleologia, Dante, «fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza».
In questo appello Nagel si richiama ad Aristotele. Ma il suo vero predecessore mi sembra il Leibniz del Discorso di metafisica (1686), critico dei “nouveaux philosophes” dei suoi tempi, che volevano bandire le cause finali dalla fisica. Secondo Leibniz, il fisico che volesse spiegare la natura solo con le cause efficienti non sarebbe meno limitato di uno storico che, per spiegare la presa di una piazzaforte, non tenesse conto degli obiettivi del generale che aveva ingaggiato la battaglia ma si limitasse a dire che la polvere da sparo era riuscita a spingere un corpo duro e pesante contro le mura della piazzaforte, facendole crollare.
Ora, la richiesta di una scienza più ampia è un vasto disegno. Ma per attuarsi non ha bisogno di rinunciare a Darwin, senza contare che per evitare l’egemonia della scienza ci si può attestare su posizioni più tradizionali ma perfettamente efficaci. Per esempio quella di Putnam, che in La filosofia nell’età della scienza (a cura di Mario De Caro e David Macarthur, recentemente uscito dal Mulino) ricorda che in tantissimi campi - a cominciare dall’etica - si può e si deve fare filosofia senza la scienza, ma non contro la scienza.
Quanto poi all’esigenza di una scienza teleologica, si potrebbe osservare che le scienze naturali (e non solo le scienze sociali, dove il ricorso alle cause finali è onnipresente) sono intrinsecamente teleologiche, senza che per questo lo sia la natura. Questo lo aveva visto benissimo il Kant della Critica del giudizio: quando, con lo sguardo dello scienziato, osserviamo la natura, la consideriamo come un tutto e ne ipotizziamo dei fini.
L’epistemologia, cioè quello che sappiamo o crediamo di sapere, è intrinsecamente teleologica: se ci mostrano la sezione di un occhio non riusciamo a raccapezzarci sino a che non ipotizziamo che l’occhio è fatto per vedere, e a quel punto diviene chiara la funzione della pupilla, del cristallino, della retina. Ma l’ontologia, quello che c’è, non è necessariamente teleologica. Lo è nel mondo sociale, non nel mondo naturale a cui si riferisce l’ipotesi di Darwin.
Dire che il fine dell’occhio è vedere ci aiuta a capirne il funzionamento proprio come dire che fare gol è l’obiettivo delle squadre di calcio ci permette di capire le partite. Ma questo non ci obbliga a sostenere che l’occhio è intrinsecamente creato per vedere più di quanto ci autorizzi a dire che il naso è stato creato per sorreggere gli occhiali. Può essere un caso evolutivo.
Disponendo di un tempo lungo come quello che ci separa dal Big Bang e di un materiale grande come l’universo, si può arrivare a tutto, coscienza e numeri transfiniti compresi, proprio come la biblioteca di Babele immaginata da Borges contiene tutto, compresi il giorno e l’ora esatta della nostra morte. Tranne che questa informazione, non si sa quanto evolutivamente utile, è seppellita tra miliardi di altre ore e giorni probabili o improbabili, e miliardi di miliardi di volumi senza alcun senso compiuto.
Galileo guardava lontano
di Sergio Luzzatto (Il sole 24 Ore” - Domenica, 13 maggio 2012)
Noi tutti abbiamo toccato con mano, molto recentemente, gli splendori (e le miserie) della comunicazione di una sensazionale scoperta scientifica. Settembre 2011: il Cern di Ginevra annuncia urbi et orbi i risultati di un esperimento compiuto insieme ai Laboratori nazionali del Gran Sasso, che dimostrerebbe la capacità dei neutrini di viaggiare a una velocità superiore a quella della luce. Tutto il mondo ne parla, e il ministro italiano della Ricerca scientifica si vanta di avere contribuito a una scoperta di eccezionale importanza, tale da revocare in dubbio la teoria della relatività generale di Einstein. Marzo 2012: riconoscendo un errore di misurazione, il Cern smentisce che i neutrini siano più veloci della luce. Tutto il mondo ne ride, e il direttore italiano dell’esperimento annuncia le proprie dimissioni.
È tenendo a mente questa storia di poche settimane fa - gli onori, e gli oneri di scoperte scientifiche sbandierate come rivoluzionarie - che possiamo accostarci a una storia assai più remota, ma ben diversamente decisiva. Novembre 1609: un oscuro professore di matematica dello Studio di Padova, Galileo Galilei, impiega uno strano «occhiale» per scoprire nel cielo cose inaudite, tali da revocare in dubbio un’intera visione dell’universo. Marzo 1610: Galileo rende pubbliche in un libro, Sidereus Nuncius, le sue prime sensazionali scoperte, la presenza di montagne sulla Luna, l’esistenza di satelliti orbitanti intorno a Giove. L’edizione viene esaurita in pochi giorni, mentre Venezia tutta si interroga sull’accoglienza che al volumetto sarebbe stata riservata. «Qui se ne parla in ogni angolo della città», informa l’ambasciatore inglese, sir Henry Wotton, «e l’autore corre il rischio di diventare o estremamente famoso o estremamente ridicolo».
Oggi noi sappiamo che le scoperte di Galileo lo resero famosissimo piuttosto che ridicolissimo. Ma quando ci si occupa di storia (e tanto più di storia della scienza), bisogna guardarsi dalle insidie del senno di poi, dal demone dell’anacronismo. Se ricostruita in medias res, la vicenda del telescopio di Galileo si presenta come tutt’altro che una success story annunciata, quasi inevitabile. E non soltanto perché lo scienziato pisano sarebbe stato costretto, da ultimo, a rinnegare le sue scoperte davanti al tribunale del Sant’Uffizio: anche perché, da subito, vari ambienti della Repubblica delle Scienze reagirono con diffidenza al «messaggero sidereo» e, in generale, al telescopio come strumento di nuova conoscenza.
Già nell’agosto 1609, da Napoli, un personaggio rispettato qual era Giovan Battista Della Porta aveva scritto al principe romano Federico Cesi, il fondatore dell’Accademia dei Lincei: «del secreto dell’occhiale l’ho visto, et è una coglionaria».
La vicenda del cannocchiale va studiata nello spazio, come una rete di storie orizzontali, prima ancora che nel tempo, come una trama di storie possibili: è quanto hanno splendidamente fatto Massimo Bucciantini, Michele Camerota e Franco Giudice, autori per Einaudi di un libro intitolato Il telescopio di Galileo e sottotitolato Una storia europea. Storia cominciata nei Paesi Bassi del 1608 quando un ottico di provincia, Hans Lipperhey, accoppiando una lente concava e una lente convessa inventa un dispositivo «grazie al quale tutte le cose a grande distanza possono essere viste come se fossero vicine». Storia proseguita nella Repubblica Serenissima dell’anno dopo, quando il matematico di Padova muove da un «occhiale di canna» giunto d’oltralpe per metter sotto i migliori vetrai e occhialai di Venezia, per mettersi lui stesso a molare lenti, insomma per trasformare un rudimentale aggeggio da pochi ingrandimenti in uno strumento poderoso, l’«occhiale di Galileo».
Veneziana è la settimana cruciale di questa storia: dal 22 al 29 agosto 1609, Galileo riesce a costruire un telescopio capace (scrive orgogliosamente) di mostrare un oggetto «lontano 50 miglia, così grande e vicino come se fussi lontano 5 miglia». Veneziana è la puntata successiva: Galileo che sale sul campanile di San Marco con i maggiorenti della Repubblica, li invita a scrutare nel mirino del suo cannocchiale, fa loro «scoprire in mare vele e vasselli» invisibili a occhio nudo, e il campanile di Chioggia quasi fosse a portata di mano... Veneziana è anche la puntata seguente, quella con Galileo che rivolge lo strumento verso il cielo e che in rapida successione, dal novembre 1609 al gennaio 1620, scopre le montagne della Luna e i satelliti di Giove. Ancora, veneziana è l’uscita del Sidereus Nuncius, pubblicato in 550 copie il 13 marzo di quel fatidico 1610.
Ma continentali - davvero europee - sono le puntate ulteriori della storia. Europeo è il passaparola per cui tutta una folla di astronomi professionisti o dilettanti, di matematici, di fisici, di astrologi, di ambasciatori o dignitari di corte, di prelati di Santa Romana Chiesa, di re e di imperatori in persona, dapprima attende con impazienza la pubblicazione del Sidereus Nuncius, poi si contende le copie del libretto con un’energia pari alla foga con cui cerca di assicurarsi sul mercato un «occhiale di Galileo». Ed europea è la risonanza delle scoperte galileiane, la consapevolezza immediata e diffusa che queste, se riscontrate, avrebbero inaugurato non solo una nuova cosmologia, ma una nuova antropologia: non solo un altro mondo, ma un altro modo di stare al mondo.
Impossibile seguire qui passo passo gli autori onniscienti del Telescopio di Galileo, dall’Inghilterra in cui un amico dell’ambasciatore sir Wotton -il poeta John Donne - denuncia le nuove scoperte astronomiche come un segno dell’umana protervia, alla Francia da dove un re morituro, Enrico IV, corteggia Galileo per vedersi dedicato lui pure un qualche astro del firmamento (non voleva esser da meno dei Medici, cui lo scopritore aveva intestato i satelliti di Giove); dalla Milano del cardinal Federico Borromeo, così «invaghito» di cannocchiali da voler scriverne un trattato, alla Bologna pontificia dove i detrattori universitari di Galileo presentano come fallita la verifica delle sedicenti sue scoperte, e descrivono il Nuncius come un uomo a pezzi, annichilito dallo smacco: «gli cadono i capelli», «la testa è guasta, e il cervello in preda al delirio», «i nervi ottici sono troncati, perché con troppa curiosità e presunzione ha osservato le distanze in minuti e secondi attorno a Giove».
In realtà, Galileo sapeva che la vera partita si giocava altrove: non a Bologna ma a Praga, la Praga dell’imperatore Rodolfo II d’Asburgo e del matematico di corte Johannes Kepler, cioè l’astronomo più autorevole del suo tempo. Galileo sapeva che un endorsement di Keplero avrebbe spalancato un orizzonte di gloria così alle nuove come alle nuovissime sue scoperte (dopo le montuosità lunari e i pianeti medicei, il telescopio gli aveva rivelato anche qualcosa come gli anelli di Saturno, e poi le fasi di Venere); mentre un giudizio negativo avrebbe rinfocolato la polemica intorno sia ai limiti tecnici dell’osservazione telescopica, sia ai limiti teorici della cultura ottica di Galileo.
Con l’onestà intellettuale dello scienziato di razza, il tedesco Keplero finì effettivamente per rendere pubblica una sua adesione alla rivoluzionaria cosmologia suggerita, grazie al cannocchiale, da quel collega italiano tanto meno celebre di lui. E incominciò allora un’altra storia, ben nota, questa: la storia di Galileo trionfante, strapagato dai Medici per lasciare la Repubblica di Venezia e ritornare nel Granducato di Toscana quale matematico e addirittura filosofo di corte; la storia di Galileo caduto, sorvegliato dall’Inquisizione, processato come copernicano, sospinto all’abiura.
Nell’anno di grazia 1611, la caduta sembrava ancora di là da venire. Il 22 aprile il «messaggero sidereo» fu ufficialmente ricevuto, a Roma, dal papa Paolo V, che neppure «una parola» gli chiese di dire «in ginocchioni». Il fatto è che non in pubblico, ma in privato la Chiesa affilava le armi, per vendicare una fede che la scienza di Galileo - spostando l’uomo fuori dal centro del mondo - pareva drammaticamente minacciare.
Fin dall’estate del 1610, corrispondendo con un amico, il protonotario apostolico Bonifacio Vannozzi (futuro segretario di Paolo V) aveva dettato la linea: «Che la Luna sia terrea, con valli e colline, è tanto dire che vi son degli armenti che vi pascono e de’ bifolchi che la coltivano. Stiancene con la Chiesa, nemica delle novità da sfuggirsi, secondo l’ammaestramento di S. Paolo».
Le due armi di Lucrezio
Raziocinio e ispirazione
Voleva liberare l’uomo da dogmi e paure
di Roberto Galaverni (Corriere, 09.05.2012)
È un destino davvero singolare quello di Lucrezio. Osteggiato dalla cultura latina fin dai primi anni seguiti all’apparizione del De rerum natura, oltraggiato quando non rimosso da quella cristiana, ha esercitato tuttavia su poeti e lettori di ogni tempo una fascinazione e un influsso che pochissimi altri scrittori hanno avuto.
Cosa rendeva così inviso e temuto il grande cantore del credo epicureo? Il pessimismo, l’ateismo, l’avversione verso le pratiche religiose, il convincimento della negatività della natura e del carattere non provvidenziale di tutte le cose, la volontà di liberare l’uomo dalle paure, dai dogmi, dalle superstizioni. Cosa invece ha reso irresistibile la capacità di presa e di coinvolgimento dei suoi versi? Il coraggio del poeta di seguire fino alle conseguenze più estreme la sua visione delle cose, la ricerca indefessa, ma senza compromessi della felicità (quanto lontano, in questo, dal giusto mezzo e dall’empirico senso dei fatti proprio della saggezza oraziana), l’autenticità della passione conoscitiva e didascalica che lo rende un maestro vicino e fraterno, la pienezza significante della sua poesia, e poi la forza, il dinamismo, la capacità di persuasione delle singole immagini poetiche. Ai miti negativi creati attorno alla sua figura si è contrapposta fin dall’inizio l’energia intrinseca all’attraversamento stesso del negativo, vale a dire il vigore, la natura positiva e insomma la qualità affermativa della negazione poetica. Non esiste contrapposizione tra conoscenza del male e vitalità poetica, del resto. La poesia leopardiana lo saprà ribadire in modo altrettanto eloquente.
Da questo punto di vista, le contraddizioni non appartengono soltanto alla ricezione del poema lucreziano, ma fanno parte integrante della sua stessa costituzione. Lucrezio fa professione di fede in una dottrina, quella epicurea, di per sé ostile alla poesia. Eppure, proprio per adempiere al meglio all’impegno educativo, della poesia estende al massimo portata e confini, recuperando la misura totale del modello empedocleo in cui etica, scienza e filosofia fanno tutt’uno. Ragione e percezioni, virtù speculativa e immaginazione, ma anche, come potremmo dire oggi, passione e ideologia, sotto la spinta dell’istanza salvifica raggiungono una sorta di temperatura di fusione che le rende tutto sommato indistinguibili.
Il De rerum natura è un poema antropologico e cosmico, la sua parola il medium di una rivelazione profetica. È un testo di svelamento, di conoscenza, di salvazione, che intende riconsegnare l’uomo a se stesso attraverso la padronanza della sua stessa vita. L’espressione poetica è grandiosa perché tale è il suo contenuto di verità, il valore decisivo della posta in gioco: la liberazione e la felicità dell’uomo, come detto. La piena espansione della parola poetica in Lucrezio non può essere allora distinta dalla sua funzione di servizio nei confronti dell’esistenza umana. Si può dire che in tutto il poema non si trovi un solo verso fine a se stesso. La poesia si fa capiente, prensile, onnivora e onnicomprensiva, ma solo in nome di qualcosa che la trascende, di una rivelazione che la supera e, in fondo, l’annichilisce.
Anche per questo l’intensità della rappresentazione, l’eloquenza, la sublimità degli scenari e del racconto, non dovrebbero mai nell’intenzione del poeta apparire a sé stanti, quanto invece rapportate ogni volta all’intero progetto di conoscenza delle cose. Ma è vero che, un po’ come accadrà nel Tasso, nel materialismo integrale della visione lucreziana la scoperta della realtà assume spesso un’evidenza tale che l’immagine sembra affermarsi di per se stessa, con la sua verità particolare e la sua propria luce nera. Come se si fosse spinta al di là di tutte le sue premesse e, di conseguenza, di fronte a essa non ci fosse più niente da dire, più nulla da fare.
Ideologia epicurea e progressione poetica non sempre in Lucrezio vanno d’accordo. Certe immagini non possono essere riconsegnate al progetto del libro. Non interamente almeno. Potrebbe essere proprio questo il paradosso più fecondo del De rerum natura, il poema più di tutti ostile alle «magnifiche sorti e progressive», come le chiamerà Leopardi, superate dal progresso conoscitivo della poesia. Se poi la poesia stessa si fonda sulle contraddizioni, sulla capacità di comprenderle e di sostenerle, per Lucrezio sarebbe anche il segno più certo della sua verità e grandezza di poeta.
«Pregate per far tornare la pioggia! »
di Sandro Fazi ("Notam” - Lettera agli amici del Gallo di Milano, 30 aprile 2012)
È questo l’invito che il cardinale Giuseppe Betori, vescovo di Firenze, ha rivolto a tutti i parroci per «pregare e far pregare per chiedere il dono della pioggia» (Repubblica, 30 marzo).
Mi è sembrata una allocuzione di altri tempi, che suscita un sorriso di qualche immodesta sufficienza. Pensavamo che fosse finito quel lungo periodo della storia durante il quale venivano attribuiti a potenze trascendenti i fenomeni della natura quali i tuoni, la pioggia, i fulmini, i terremoti, e così via. La scienza ha tolto ormai agli eventi ogni carattere sacro e ha eliminato ogni riferimento trascendente con quel movimento di emancipazione, di desacralizzazione. Questo processo è ben tratteggiato da Carlo Molari anche in un articolo pubblicato su Rocca (numero 20 del 2010).
L’invito che oggi ritroviamo ci sorprende (o ci dovrebbe sorprendere) quindi non poco. La nostra generazione si è formata e si è trovata ad attraversare quel movimento di secolarizzazione che ci ha invitato a essere adulti, autonomi, con quell’atteggiamento ben riassunto nel programma «con Dio e davanti a Dio noi dobbiamo vivere senza Dio, etsi Deus non daretur, come se Dio non fosse» ripreso nei nostri giorni da Bonhoeffer. Abbiamo lentamente imparato ad amare un Dio che alimenta le dinamiche della evoluzione dell’uomo e del mondo, senza mai sostituirsi alle forze che operano questa maturazione. Secondo quella famosa espressione di Theilard de Chardin: «Dio non fa le cose, ma fa che le cose si facciano».
Con il lento distacco della società moderna dalle ipotesi religiose, la secolarizzazione ha portato l’uomo a essere adulto nel senso di non contare nella soluzione degli impegni del suo vivere su di un Dio sostitutivo. Tutte riflessioni che dovrebbero ormai far parte del bagaglio culturale dei cristiani e non possono essere facilmente coordinate con quell’invito cardinalizio a «pregare per la pioggia».
Alla luce di queste considerazioni, pur così elementari, quale credibilità siamo disposti a riconoscere a queste figure istituzionali, pastori preposti teoricamente alla nostra istruzione e guida? Forse, la risposta è: scarsa, pregiudizialmente, tutta da conquistare, da verificare con onesto spirito critico.
Personalmente, ritengo che la ricerca e la formazione spirituale siano responsabilità individuali che ciascuno deve portare avanti con un processo autonomo, indipendente, anche comunitario, ma non solo: si appoggerà quando possibile anche a strutture ecclesiali, naturalmente non necessariamente cattoliche e tantomeno istituzionalizzate, con carattere di veracità e di concretezza.
Allora forse nascerà anche una preghiera con un taglio diverso: perdonami Signore; aumenta la mia fede; tempra la determinazione nella scelta; aiutami a capire; fammi essere capace di amore vero; fammi eliminare gli inquinamenti che rendono fiacca la mia vita spirituale; fammi progredire speditamente verso la evoluzione, verso il compimento finale; e cosi via come Tu sai. Aiutaci anche a non dimenticare mai di ringraziarti. E perdonaci se qualche volta ti chiediamo anche di regolare la pioggia, tutto sommato siamo sempre poveri uomini con tante necessità e tante paure!
Le parole della scienza
Indeterminazione
di Carlo Rovelli (la Repubblica, 15.04.2012)
Werner Karl Heisenberg è uno dei personaggi più interessanti e inquietanti della fisica del Novecento. A ventiquattro anni, poco più che studente, Werner Karl risolve il problema che angustiava i grandi fisici del tempo e scrive le equazioni che descrivono il moto degli atomi e dei quanti di luce: le equazioni della "meccanica quantistica". Queste equazioni rimpiazzano la meccanica di Newton (quella che studiamo a scuola) e cambiano completamente l’idea Newtoniana che la materia sia fatta di piccole palline.
Qualche anno prima, Einstein, venticinquenne, aveva cambiato l’immagine dello spazio e del tempo. In pochi anni, due ragazzi hanno sconvolto a fondo la nostra immagine del mondo. Che cos’è allora la materia descritta dalla meccanica di Heisenberg, se non è un insieme di palline? Due anni dopo, nel 1927, Heisenberg scrive un secondo lavoro in cui mostra che le sue equazioni implicano che la materia è fatta da "palline imprecise", o "palline nuvolette": palline tali che se le vedo in un punto non posso sapere a che velocità si muovono e quindi dove ricompariranno quando le vedo di nuovo. Questa impossibilità di determinare contemporaneamente con precisione la posizione e la velocità delle particelle che formano la materia reale non è un accidente tecnico: è il cuore della differenza fra il mondo reale, e la nostra immagine (sbagliata) che la materia sia fatta di palline come quelle della nostra esperienza quotidiana.
Questa impossibilità è considerata oggi un pilastro centrale della fisica moderna, edè chiamata il "Principio di indeterminazione di Heisenberg". A dire il vero si chiama così solo in italiano. Nelle altre lingue del mondo si chiama "principio di incertezza", perché esprime il fatto che se conosciamo con certezza la posizione di una particella non ne conosciamo la velocità, e viceversa.
Ma forse la denominazione italiana, "indeterminazione", è la migliore, perché cattura l’idea che il problema non è quello che sappiamo noi: il problema è la natura stessa delle particelle elementari, che sono oggetti più sottili ed eleganti che i sassolini della nostra esperienza. Ma possiamo davvero concepire lo strano mondo atomico intuito da Heisenberg? Davvero la realtà è così strana? L’efficacia della meccanica quantistica di Heisenberg si è rivelata strabiliante. Le sue semplici equazioni spiegano perché la tavola periodica degli elementi ha proprio quella struttura, fondano tutta la chimica, la fisica atomica, la fisica nucleare, la fisica delle particelle, la fisica della materia, l’astrofisica, e quant’altro.
Hanno dato origine ad applicazioni innumerevoli, che comprendono i semiconduttori e quindi tutti i computer di oggi. Eppure anche oggi, anche a molti fisici, il mondo "indeterminato" del principio di Heisenberg sembra troppo strano per essere vero. Ancora oggi, filosofi, fisici teorici e fisici sperimentali, si arrabattano per cercare di capire meglio. Forse trovare un’alternativa più ragionevole. O forse convincersi che davvero la materia è così strana. Staremo a vedere.
Epicuro, filosofo della serenità
Insegnava il piacere di esistere come assenza di affanni Accoglieva nella sua scuola anche le donne e gli schiavi
di Stefano Gattei (Corriere della Sera, 09.03.2012)
«N on esiti il giovane a filosofare, né il vecchio se ne stanchi. Nessuno, infatti, è mai troppo giovane o troppo vecchio per ricercare la salute dell’anima»: si apre così la Lettera a Meneceo, forse la più famosa di Epicuro. L’esercizio fondamentale cui egli invita i suoi seguaci consiste nel cercare distensione e serenità, nello sviluppare l’arte di godere dei piaceri, dell’anima e del corpo. Piacere della discussione, dell’amicizia, di una vita in comune anche con donne e schiavi (una vera rivoluzione, questa, rispetto alla scuola di Platone). Ma prima di tutto piacere della conoscenza, dell’esercizio della saggezza. La ricerca della salute dell’anima coincide con la presa di coscienza di ciò che di straordinario c’è in un’esistenza frutto del caso, che deve essere vissuta come una meraviglia che si realizza una volta sola, e va dunque accolta e festeggiata per quello che ha di unico e di insostituibile.
Non si trova, in Epicuro, l’esaltazione del piacere sfrenato, fine a se stesso, che volgarmente gli si attribuisce. Tutt’altro: proprio perché il piacere è principio e fine del vivere felice, non dobbiamo ricercare qualunque tipo di piacere, ma valutare ciascuno in base alle sue conseguenze, positive o negative. Il piacere, scrive il filosofo di Samo, «è quel sobrio modo di ragionare che esamina le cause di ogni scelta e di ogni rifiuto, e che scaccia le false opinioni per effetto delle quali le anime sono attanagliate dal più grande turbamento». Ma il travisamento è deliberato, e ha radici profonde.
La filosofia epicurea, infatti, stride con la religione che si va affermando negli ultimi secoli dell’Impero romano, e va pertanto disinnescata: Lattanzio racconta di un Epicuro dedito al vizio e all’eccesso, e Girolamo accusa Lucrezio, suo principale discepolo nel mondo romano, di pazzia. Se Platone e Aristotele, pagani che credevano nell’immortalità dell’anima, possono essere «corretti» e accomodati dal cristianesimo trionfante, non così l’epicureismo. I suoi sostenitori non negano l’esistenza degli dèi, ma affermano la loro distanza dal mondo, condizione anzi della loro perfezione. Epicuro non rappresenta la divinità come potere creatore, dominatore, impositore della propria volontà sugli uomini, ma piuttosto come perfezione dell’essere supremo, felicità, incorruttibilità, bellezza, tranquillità. Il filosofo, ai suoi occhi, contempla gli dèi perché vi trova il piacere che si prova ammirando la bellezza, e il conforto che suscita la visione di un modello di saggezza.
Per Epicuro, a differenza che per Platone, la scelta socratica dell’amore e del bene è un’illusione: in realtà, l’uomo ricerca soltanto il proprio piacere e il proprio interesse. Da qui il ruolo della filosofia, che consiste nel saper ricercare il piacere in modo ragionevole, ovvero nel ricercare l’unico vero piacere, quello di esistere. L’uomo è infelice perché si affanna a cercare ciò che non ha o desidera ciò che è al di là della sua portata. O perché rovina il piacere di cui gode con il timore di perderlo. La filosofia ha una missione terapeutica: curare la malattia dell’anima e insegnare all’uomo il piacere di vivere.
Occorre distinguere - e qui sta il nocciolo dell’etica epicurea, in cui si avverte l’eco delle discussioni in seno all’Accademia platonica - tra i piaceri «in movimento», violenti ed effimeri, la cui ricerca porta solo insoddisfazione e dolore, e il piacere stabile, inteso come «stato di equilibrio», annientamento della sofferenza. Questo è per Epicuro un bene assoluto, che non può accrescersi né sommarsi a un altro piacere, «come un cielo sereno non può dare una luce più viva» (Seneca). Tale piacere si oppone agli altri come l’essere al divenire, il determinato all’indeterminato e all’infinito, il riposo al movimento; e corrisponde a uno stato di tranquillità dell’anima.
La minaccia maggiore alla felicità dell’uomo è un duplice timore - della morte, innanzitutto, ma anche delle decisioni divine. Per guarire l’uomo da questi terrori Epicuro elabora la propria teoria fisica, che non si propone dunque di rispondere a interrogativi oggettivi e disinteressati, ma costituisce il fondamento dell’etica.
Riprendendo le idee dei Presocratici e in particolare di Democrito, Epicuro concepisce il mondo come un Tutto che non ha bisogno di essere creato, essendo infatti eterno, e che è costituito da infiniti atomi in moto in uno spazio vuoto. Nuovi corpi e nuovi mondi nascono dall’aggregazione accidentale degli atomi che, cadendo in linea retta per effetto del loro peso, deviano casualmente scontrandosi fra loro. E per lo stesso motivo continuamente si disgregano: nel vuoto e nel tempo, infiniti mondi appaiono e scompaiono, e il nostro universo non è che uno di questi. La deviazione dal moto rettilineo - che Lucrezio avrebbe chiamato clinamen - è introdotta al fine di spiegare la formazione dei corpi e di introdurre il caso nella necessità, fornendo così la base per la libertà umana.
La comprensione della natura consente all’uomo di liberarsi dal timore della morte, poiché l’anima, composta di atomi, al momento della morte si disgrega proprio come il corpo, perdendo ogni sensibilità: «La morte non è dunque nulla per noi, poiché quando noi ci siamo, la morte non c’è, e quando essa arriva, noi non siamo più». È la stessa teoria fisica ad annullare il timore degli dèi: essi non agiscono in alcun modo sul mondo, governato dal caso e in perpetuo divenire. La ragione conduce così alla pace dell’anima e alla gioia di essere associati agli dèi, che nella loro capacità di godere senza turbamento della propria perfezione realizzano l’ideale di vita epicureo. In questo modo, ha osservato il grande storico del pensiero antico Pierre Hadot, «il saggio, come gli dèi, affonda lo sguardo nell’infinità dei mondi innumerevoli; l’universo chiuso si dilata all’infinito».
Per lui l’universo era composto di infiniti atomi
Corriere della sera 9.3.12
Il quarto volume della collana «I classici del pensiero libero. Greci e latini», dedicata ai testi fondamentali del mondo antico, sarà in edicola con il «Corriere della Sera» il 10 marzo (al costo di un euro più il prezzo del quotidiano) e proporrà le Lettere sulla fisica, sul cielo e sulla felicità del filosofo ellenistico Epicuro (341-271 a.C.), con l’introduzione inedita dell’epistemologo Giulio Giorello. Proprio Giorello spiega il valore rappresentato dall’epicureismo per la scienza, a partire dalla constatazione che il filosofo «non è tanto un metafisico quanto un fisico». Erede della tradizione democritea, che interpreta però con fondamentale originalità, nelle sue Lettere Epicuro espone il proprio sistema di pensiero: la realtà è composta da atomi, gli dèi esistono ma sono indifferenti alle vicende umane, il mondo così come lo conosciamo è solo uno degli infiniti mondi possibili, e infine «bene è il piacere, ma non tutti i piaceri si devono scegliere», mentre il piacere supremo sta nell’atarassia, cioè l’assenza di turbamento, quel làthe biòsas, il «vivi nascosto» che è una delle massime più celebri del filosofo. Maestro per gli antichi, ispiratore del poeta latino Lucrezio, fu eclissato dalla cultura occidentale finché tornò a ottenere fortuna a partire da Spinoza.
Una fortuna che continua ancor oggi, per la modernità e la sottigliezza di alcuni aspetti della sua teoria: ad esempio, come ricorda Giorello, nella originale tesi del cosiddetto clinamen, ripresa da Lucrezio (cioè la «deviazione» degli atomi che consente l’aggregarsi di differenti composti come criterio di combinazione del mondo), «qualche entusiasta ha letto un’anticipazione della interpretazione quantistica». Epicuro è un filosofo fondamentale per comprendere la tradizione del pensiero materialista e razionalista, ma è anche, più in generale, un campione antico dell’osservazione scientifica della realtà. Il prossimo volume in edicola sarà L’amicizia di Cicerone, giovedì 15 marzo, con prefazione inedita di Giorgio Montefoschi. (i.b.)
Per Lucrezio l’uomo è solo materia ma nulla lo fa soffrire come l’amore
Fu Poggio Bracciolini a ritrovare nel 1417 il testo del «De rerum natura»
Il poema latino divenne allora una delle opere predilette dagli umanisti
di Pierluigi Panza (Corriere della Sera, 04.11.2016)
La deposizione di papa Giovanni XXIII (sconfessato come antipapa dalla Chiesa) nel 1417 liberò il suo segretario, Poggio Bracciolini, dagli incarichi ufficiali, lasciandolo libero di fare quel che gli piaceva: cercare innari, libri d’ore e manoscritti antichi nei monasteri. E a Fulda, un’abbazia benedettina fondata nell’VIII secolo da un discepolo di san Bonifacio, trovò il De rerum natura, un poema di 7.400 esametri in sei libri composto da Tito Lucrezio Caro alla metà del I secolo a.C.
In competizione com’era con gli altri cacciatori di codici, Lorenzo Valla, Guarino Veronese e Giorgio di Trebisonda, all’opera tanto lodata un tempo da Cicerone e Virgilio lo scriptore del Pontefice non diede peso: letta qualche spigolatura, la fece copiare e la inviò al bibliografo fiorentino Niccolò Niccoli perché ne facesse copie.
Ma prima ancora che Gutenberg ne effettuasse la stampa, il De rerum natura era diventato la bibbia degli umanisti che non credevano nella Bibbia. Un testo sovversivo, che presentava una visione materialista del mondo intrisa di meraviglia, un mondo non abitato da dei e demoni, nel quale tuoni e fulmini, nubi, trombe marine e terremoti erano fenomeni spiegabili senza Giove e senza Dio, dove uomini e stelle sono costituiti dallo stesso infinito vortice di particelle che, muovendosi, determina la vita. Lo diceva Lucrezio, un pagano. Gli umanisti lo citavano, per evitare gli strali, quelli sì, della Chiesa cattolica.
Fu così che Lucrezio incominciò a far capolino negli scritti di molti autori, tra i quali l’abbreviatore apostolico di Niccolò V, Leon Battista Alberti. Nel Theogenius e nel Momus di Alberti, l’opera di Lucrezio si affianca alla Naturalis historia di Plinio, a Ippocrate e Vitruvio - il cui manoscritto fu pure ritrovato da Bracciolini a Montecassino - per tratteggiare una vita dominata dalla Natura: «Affermano e’ fisici essere a’ corpi umani ascritta vicessitudine, che o crescano continuo o scemino: quello che tra questi due sia in mezzo, dicono trovarsi brevissimo». Sembra di sentire Ippocrate e Lucrezio che dettano gli aspetti più tragici della visione umanistica del mondo.
Il culto «segreto» per Lucrezio crebbe poi con i pericolosi Tommaso Moro e Giordano Bruno, tanto che già nel 1516 il Sinodo fiorentino proibì la lettura del De rerum natura e nel 1551 il Concilio di Trento mise al bando Epicuro e Lucrezio. Ma se in Italia i lucreziani bruciavano nel fuoco, in Inghilterra il culto proseguì con William Shakespeare e Francesco Bacone e in Francia con Michel de Montaigne e Pierre Gassendi, che cercò di conciliare Lucrezio con il cristianesimo.
Ma torniamo ad Alberti per tornare a Lucrezio. In Opus praeclarum in amoris remedio, una silloge dell’umanista fiorentino che raccoglie scritti sull’amore, ritroviamo temi ispirati a Tertulliano e al IV libro del De rerum natura. Per Lucrezio l’amore è insaziabile e chi ne è privo è beneficiato perché non soffre. La leggenda vuole che proprio sull’amore Lucrezio si sia schiantato. Nel Chronicon di San Girolamo (IV secolo), si narra che «dopo essere impazzito per un filtro d’amore, e aver scritto negli intervalli della follia alcuni libri, Lucrezio si suicidò a 44 anni». Ma Luciano Canfora, nella sua Vita di Lucrezio (che era forse nato a Pompei) ha abbandonato questa ipotesi, che era un modo usato dalla Chiesa per screditare, attraverso Lucrezio, l’atomista Democrito insieme ad Epicuro.
Gli atomi sono infiniti nel numero, ma limitati nella forma. Si muovono secondo inclinazione, scrive Lucrezio, dalla quale dipendono il caso e il libero arbitrio. Nei rapporti con il corpo, la mente ha la supremazia sull’anima: la vita sussiste finché la mente è integra, anche se l’organismo è privo di alcune funzioni. L’umanità è impegnata in un continuo tentativo di fuga dal dolore, al quale le superstizioni (e le religioni) offrono una risposta.
La morte è nulla, perché quando c’è, noi non ci siamo. La paura della morte è nata da credenze vane: se una persona ha goduto delle esperienze, perché non dovrebbe accontentarsi? Non esiste una età dell’oro, come avrebbe pensato il materialista Jean-Jacques Rousseau secoli dopo: l’uomo inizia la sua esperienza con fatica. Dove c’è vuoto non c’è materia e dove c’è materia non c’è vuoto; ma la materia ha un limite: infatti sempre le cose nascono, crescono, raggiungono la maturità e poi decadono, secondo una visione biologica che sarà ripresa da Georg Simmel.
Foscolo e Leopardi sono figli di Lucrezio; meno Dante che, pur avendo forse conosciuto il De rerum natura, nella Divina Commedia piazza Epicuro all’Inferno (Canto X) in bare incandescenti con «tutti suoi seguaci». Povero Lucrezio! Ma Raffaello, nella Scuola di Atene in Vaticano rivaluta proprio Epicuro. Del resto, Raffaello viveva come un epicureo: morì anch’egli di troppo amore. Ma non per suicidio, bensì per aver amoreggiato troppo.
***
La concezione filosofica di Epicuro tradotta in versi
di Jessica Chia (Corriere della Sera, 04.11.2016)
La violenza, l’oppressione, il trionfo delle paure ataviche (come la morte e l’aldilà), sono alcuni degli elementi che, secondo la filosofia di Lucrezio, avvicinano l’uomo all’infelicità. Riprendendo la lezione epicurea, il poeta latino parte da questo senso di disagio cosmico per comporre La natura delle cose, poema epico-filosofico, oggi in edicola con il «Corriere della Sera» a 6,90 € più il prezzo del quotidiano.
L’opera fa parte della collana «Classici greci e latini» ed è il quarto volume di una serie che raccoglie 30 uscite settimanali con i testi fondamentali della tradizione greco-romana, imprescindibile per comprendere la storia del pensiero occidentale. La natura delle cose è un testo didascalico in cui si esprime il materialismo naturalistico di Lucrezio che tradusse la dottrina di Epicuro in termini fantastici e visionari con lo scopo di guidare il lettore attraverso la vicenda misteriosa che è la storia cosmica e quella dell’umanità.
Un invito a prendere coscienza della realtà nella quale l’essere umano si sente vittima fin dalla nascita, nella contemplazione del perpetuo divenire delle cose. Nella collana sono raccolte le diverse matrici del pensiero occidentale che si sono sviluppate nei secoli e nei millenni successivi, fino a oggi.
Tra le prossime uscite: Cesare, La guerra civile (11 novembre); Epicuro, Lettere sulla felicità, sul cielo e sulla fisica (18 novembre); Euripide, Medea (25 novembre). Le opere sono tutte edizioni integrali con testo a fronte e ricchi apparati critici, uscite nella Biblioteca Universale Rizzoli.
L’esperimento sul «viaggio» delle particelle tra Ginevra e Gran Sasso
I risultati falsati da una cattiva connessione tra il Gps e un computer
«C’è stato un errore». I neutrini non vanno più veloci della luce
La «misura che ha fatto scalpore», perché sanciva che i neutrini viaggiavano a una velocità superiore a quella della luce smentendo Einstein, nasceva dal cattivo funzionamento di una scheda informatica.
di Pietro Greco (l’Unità, 23.02.2012)
Si tratterebbe di un errore. Una cattiva connessione tra l’unità Gps (il sistema satellitare che consente di misurare con estrema precisione la distanza tra due unti) e un computer potrebbe essere la causa della «misura che ha fatto scalpore». I neutrini non vanno più veloci della luce. E non falsificano la teoria della relatività di Albert Einstein.
Oggi sarà la “collaborazione Opera”, diretta dall’italiano Antonio Ereditato, a riconoscerlo in un comunicato ufficiale. Ma le voci ieri sera sono corse con insistenza e hanno trovato riscontro anche sul sito della rivista americana Science. La collaborazione Opera studia il comportamento di fasci di neutrini che, generati al Cern di Ginevra, raggiungono i Laboratori Nazionali che l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare ha sotto il Gran Sasso. I neutrini sono le particelle più elusive che si conoscano. Ma Opera ha a disposizione strumenti di rilevamento eccezionali.
Nell’effettuare queste misure la collaborazione Opera ha raggiunto risultati di valore assoluto: ha, tra l’altro, verificato che i neutrini oscillano (sono di tre tipi e si trasformano l’uno nell’altro) e dunque hanno una massa. Per due anni il gruppo internazionale di scienziati ha ottenuto alcune misure che sembravano incredibili. Facendo i conti si otteneva che le minuscole particelle viaggiavano a una velocità superiore a quelle della luce. Coprivano la distanza tra Ginevra e il Gran Sasso, circa 730 chilometri, in 60 nanosecondi (miliardesimi di secondo) meno di quanto avrebbe fatto la luce. Queste misura metteva in seria difficoltà la teoria della relatività ristretta uno dei cardini della fisica moderna secondo la quale la velocità della luce non può essere mai superata. Se fosse stata vera, sarebbe passata ai posteri come una delle più importanti scoperte in fisica degli ultimi due o tre secoli.
CONTROLLI SU CONTROLLI
I conti a Opera sono stati fatti e rifatti. Ma nessuno, per mesi, ha trovato un errore. Quindi la decisione, lo scorso autunno, di rendere nota la notizia, con un articolo scientifico e con un seminario tenuto a Ginevra ma seguito in tutto il mondo. Ereditato e il suo gruppo sono stati molto onesti. Non hanno voluto interpretare i dati. Non hanno detto che i neutrini viaggiano certamente a una velocità superiore a quella della luce. Hanno detto: questi sono i dati. Noi non troviamo errori. Se qualcuno è in grado bene. Noi continuiamo a effettuare misure e attendiamo con serenità altre verifiche indipendenti. Alcuni ancora più prudenti, anche all’interno di Opera, sostenevano che quei dati non andavano resi pubblici.
Col senno di poi gli scettici a oltranza sembrano aver avuto ragione. L’errore c’era ed era banale: il malfunzionamento di una scheda informatica. Solo che era ben nascosto. E, infine, è stato individuato. Dal medesimo gruppo che, ove la scoperta fosse stata confermata, sarebbe passata alla storia.
L’errore lascia l’amaro in bocca. Ma a ben vedere è un ottimo esempio di come funziona la scienza. Non sempre ci fornisce verità. Ma ha al suo interno la capacità e l’onestà intellettuale di correggere se stessa. E, in fondo, è questo il segreto del suo successo.
La vendetta di Einstein
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 23.02.2012)
Il buon vecchio Einstein si è salvato. La sua teoria della relatività, messa in forse dagli esperimenti del Cern sui neutrini veloci, si è salvata anch’essa. È stato infatti annunciato che le macchine usate per l’esperimento erano difettose. L’episodio ci permette di fare alcune considerazioni. La prima, anticipata di molti decenni dallo stesso Einstein, è che «la scienza non è una repubblica delle banane, in cui succedono rivoluzioni ogni sei mesi».
Il pubblico si appassiona sempre ai cambiamenti epocali, ma forse nella scienza è più utile concentrarsi sugli aspetti ormai assodati, sui risultati acquisiti, che non sulle nuove idee che ancora attendono conferme e verifiche.
La seconda considerazione è, però, che all’annuncio dell’esperimento il mondo intero si è coalizzato nel tentativo di comprendere quali sarebbero state le conseguenze teoriche e pratiche di una velocità superluminale dei neutrini. Articoli di giornale, discussioni sui blog, seminari di ricerca hanno rivisto i fondamenti della relatività di Einstein, mettendo a volte in luce aspetti nascosti o impostazioni innovative che un secolo di abitudine alla teoria avevano lasciato in ombra. In un’intervista al nostro giornale, pochi giorni dopo l’annuncio dei risultati dell’esperimento, il premio Nobel Shelly Glashow ha sottolineato quali sarebbero state le conseguenze d’una conferma dell’esperimento: conseguenze così in contrasto con il resto della fisica conosciuta, che costituivano quasi una confutazione per assurdo dell’esperimento stesso. Ma questi suoi contributi, insieme a quelli di molti altri, ci hanno comunque chiarificato che possiamo considerare la velocità della luce come un limite insuperabile, e possiamo continuare a usare la relatività come una teoria insostituibile.
Gli occhi del mondo intero si concentrano ora, dopo l’ubriacatura dei neutrini, su altri esperimenti del Cern e di altri laboratori. In particolare, l’annunciata e probabile scoperta della cosiddetta «particella di Dio», così come dell’attesa, ma per ora ancora non verificata, esistenza di «particelle simmetriche». L’episodio dimostra comunque come la scienza contenga dentro di sé gli anticorpi per i propri possibili errori, e come in un breve volgere di tempo la comunità scientifica possa mettere proposte anche rivoluzionarie sotto il microscopio per verificarle o confutarle. E’ in questo processo dialettico di dimostrazioni e refutazioni che si cela il segreto del successo della scienza.
FISICA
"Neutrini più veloci della luce"
Messo in discussione Einstein
Clamorosi risultati di uno studio del Cern e dell’Infn guidato da un fisico italiano: particelle sparate da Ginevra al Gran Sasso hanno infranto il muro considerato invalicabile dalla fisica. Margherita Hack: "Sarebbe una rivoluzione" *
ROMA - I risultati, se confermati, possono rimettere in discussione le regole della fisica cristallizzate dalle teorie di Albert Einstein, secondo le quali niente nell’universo può superare la velocità della luce. Un gruppo di ricercatori del Cern e dell’Infn guidato dall’italiano Antonio Ereditato ha registrato che i neutrini possono viaggiare oltre quel limite. Le particelle hanno coperto i 730 chilometri che separano i laboratori di Ginevra da quelli del Gran Sasso a una velocità più alta di quella della luce.
Il muro è stato infranto di appena 60 nanosecondi. Eppure, il risultato è talmente destabilizzante che il team di ricerca ha atteso ben tre anni di misurazioni per sottoporlo all’attenzione della comunità scientifica. "Siamo abbastanza sicuri dei nostri risultati, ma vogliamo che altri colleghi possano verificarli e confermarli", spiega Ereditato, che lavora presso il laboratorio di fisica delle particelle dell’organizzazione ginevrina.
E le prime reazioni non tardano ad arrivare: secondo il Centre national de la recherche scientifique francese, le fosse confermata la scoperta sarebbe "clamorosa" e "totalmente inattesa" e aprirebbe "prospettive teoriche completamente nuove". Anche per l’astrofisica Margherita Hack si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione perché, osserva, "finora tutte le previsioni della teoria della relatività sono state confermate".
Secondo la teoria della relatività ristretta, elaborata da Einstein nel 1905, la velocità è una costante, tanto da essere parte della celeberrima equazione E=mc², dove E è l’energia, m la massa e c, appunto, la velocità della luce. La relatività, spiega ancora la Hack, "prevede che se un corpo viaggiasse ad una velocità superiore a quella della luce dovrebbe avere una massa infinitamente grande. Per questo la velocità della luce è stata finora considerata un punto di riferimento insuperabile".
Tra l’altro, la teoria della relatività implica l’impossibilità fisica delle traversate interstellari e dei viaggi nel tempo, finora inesorabilmente relegati alla fantascienza e ritenuti irrealizzabili dalla scienza. Ora tutto ciò potrebbe cadere. "Ma io non voglio pensare alle implicazioni", si affretta a precisare Ereditato. "Siamo scienziati e siamo abituati a lavorare con ciò che conosciamo".
La velocità delle particelle è stata misurata dal rivelatore Opera, dell’esperimento Cngs (Cern NeutrinoS to Gran Sasso), nel quale un fascio di neutrini viene lanciato dal Cern di Ginevra e raggiunge i Laboratori Nazionali del Gran Sasso, dell’Istituto nazionale di Fisica Nucleare.
* la Repubblica, 22 settembre 2011
INTERVISTA
Nessun dubbio, ecco il vero Cartesio
«La spiegazione del mondo della teologia cristiana e quelle della scienza contemporanea esprimono i presupposti fondamentali e comuni di un ordine del mondo e di una singolarità dell’essere umano nell’insieme dell’universo. In fondo, è una conseguenza di quanto aveva già intuito Cartesio». *
Anche per questo, sostiene il noto teologo e storico francese Jean-Robert Armogathe, rileggere oggi le opere di René Descartes, e in particolare le sue Meditazioni metafisiche, non è di certo un’avventura oziosa. Con il declino dei più chiusi razionalismi e scientismi del secolo scorso, il XXI secolo torna sensibile alla lezione cartesiana. Armogathe, specialista di Cartesio e direttore di ricerche all’Ecole pratique des hautes études di Parigi, oltre che sacerdote con importanti missioni pastorali, ne discuterà oggi a Sassuolo in piazza Avanzini alle ore 11,30, nel quadro del Festival Filosofia di Modena, dedicato quest’anno alla Natura.
Padre Armogathe, Cartesio è spesso ricordato per aver postulato il dubbio iperbolico, in particolare nelle «Meditazioni metafisiche». Dove risiede l’originalità di quest’approccio?
«Il dubbio radicale di Cartesio si distingue chiaramente dalla tradizione scettica. Almeno in due modi. Innanzitutto, è un dubbio metodologico, necessario per compiere un percorso. Cartesio non dubita per dubitare, ma per ricercare la verità. È un dubbio provvisorio. In secondo luogo, è molto più radicale del dubbio degli scettici. Solo il pensiero, trovandosi al di là del dubbio, può in tal modo fondare l’esistenza permettendo di uscire dallo stesso dubbio».
Nelle «Meditazioni», le dimostrazioni razionali restano in simbiosi con una sorta di ascesi quasi religiosa. Un paradosso?
«Si tratta di un testo probabilmente unico nella storia del pensiero occidentale. A parte certi dialoghi di Platone, non abbiamo altri esempi di testi filosofici che in così poche pagine contengono uno sviluppo tanto profondo e radicale. È un testo nervoso e alla prima persona, ma il paradosso fra ragione e meditazione è solo apparente. Quando si qualifica Cartesio come padre della razionalità moderna, non bisogna pensare al razionalismo, come fanno molti, ma alla ragione come insieme complesso dove convergono nella ricerca della verità pure le passioni dell’anima, le circostanze e l’insieme della personalità umana. L’evidenza e la chiarezza sono ingredienti del percorso filosofico così come le passioni. L’uomo non è una terza sostanza, ma l’unione sostanziale del corpo e dell’anima».
Come altre grandi figure del suo tempo, Cartesio si preoccupa al contempo di scienza e teologia...
«Cartesio non era un ecclesiastico, né un professore di filosofia, ma un gentiluomo con trascorsi giuridici e funzioni nell’esercito. Così fiero della sua geometria e della sua matematica, Cartesio ha cercato di fondare un mondo meccanico, ma ha provato al contempo il bisogno d’indagare sulle radici metafisiche del mondo. Sarà così in parte ancora per Newton, il quale tuttavia nasconderà la sua importante produzione teologica ed esegetica. Nel frattempo, è infatti avvenuta una sorta di cesura fra scienza e religione. Per Cartesio, invece, la cesura non esiste. L’esempio più eloquente della sua fisica consiste in una riflessione sulla transustanziazione eucaristica».
In molte ricerche dedicate al Seicento, lei ha evidenziato i legami fra scienza e modelli teologici. Può parlarcene?
«Fino al Seicento, è rimasta vitale una corrente scientifica spesso definita come fisica mosaica. La Bibbia veniva di fatto utilizzata come un libro di scienza. Ma al contempo, già nello stesso secolo, si è osservato il processo inverso. Si è cercato d’interpretare la Bibbia a partire dalla scienza, ad esempio per mostrare Mosé come un atomista. Oltre che da parte del Newton rimasto segreto, questi sforzi proseguiranno in modo minoritario anche nel Settecento. Lo stesso Hegel sarà un erede di questa tradizione».
Si potrà parlare anche in seguito di un certo substrato teologico nella scienza occidentale?
«Si può evocare il concetto di matrice dell’origine delle idee scientifiche. Ebbene, in tale matrice, c’è una dimensione teologica. Il mondo occidentale ha creduto in una creazione ordinata ed ha così potuto cercare delle leggi nel mondo. Il mondo occidentale ha creduto nell’incarnazione di Dio ed ha così potuto costruire un’antropologia specifica. Il discorso scientifico corrente sul mondo e sull’uomo ha ancora nella propria matrice forti componenti teologiche cristiane».
Ciò fu vero anche per figure come Galileo?
«Già attento lettore di Dante, Galileo rimase a lungo sotto l’influenza dei padri gesuiti del Collegio romano. Le ricerche tanto di Galileo quanto del suo contemporaneo Keplero furono profondamente segnate dal quadro religioso del tempo. Si pensi alla lettera a Cristina di Lorena in cui Galileo sottolinea la differenza fra la Bibbia e la scienza. Si può sottolineare questa differenza perché si è all’interno di un sistema religioso».
Riflessioni dal sapore talora religioso sono riemerse nel Novecento con scienziati come Einstein. L’eterno ritorno dello spirito cartesiano?
«In un certo senso, sì. In proposito, è importante ricordare pure la fecondità dell’influenza contraria, quella della scienza sulla teologia. Oggi, dopo gli scontri ideologici del XX secolo, siamo alla ricerca di una nuova logica capace di schivare tanto il dogmatismo, quanto il relativismo. Cartesio può aiutarci. Penso in particolare alla sua sesta meditazione, che segna un ritorno alla natura e alla scoperta del mondo esteriore».
Daniele Zappalà
* Avvenire, 16 settembre 2011
Ancora cercare il tuo volto
di Angelo Casati (Il Gallo, settembre 2011)
Mi seducono, lo confesso, immagini e simboli. E sogno, tu lo sai, una chiesa che non si scosti molto da Gesú. Dalla sua arte sorprendente di parlare per immagini e simboli.
Elia in cerca di Dio
Tra le immagini a seduzione oggi vorrei evocare la caverna. Precisamente la caverna del monte di Dio, l’Oreb, in cui entrò per passarvi la notte il profeta Elia. Elia arriva al monte Oreb. Il suo non è, come uno potrebbe immaginare, un pellegrinaggio di tutto riposo. Arriva, Elia. dopo aver scannato quattrocentocinquanta profeti di Baal nelle acque del torrente Kison. Così gli sembrò si dovessero difendere i diritti di Dio. Con questo zelo. Succede! Succede anche oggi.
«Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti» risponderà al Signore che gli chiedeva «Che fai qui Elia? Che fai qui, nella caverna?».
La caverna, fin dall’antichità, è sempre stata un simbolo. Un simbolo di avvistamento del mistero e, insieme, di distanza dal mistero. Avvistamento e nascondimento: Dio c’è, e ci sono luci e ci sono ombre nella caverna.
Ed Elia prende coscienza che Dio è distante. Distante dal suo modo di immaginarlo, lontano dallo zelo, che gli aveva fatto scannare quattrocentocinquanta profeti. Pensando di onorare cosí Dio! Dio non era, come lo aveva immaginato, nei segni della potenza: non era nell’uragano, non era nel terremoto. Era -la nostra traduzione dice «nel mormorio di una brezza leggera», o meglio, come dice il testo ebraico, era «nel suono di un silenzio sottile»- il suono... del silenzio. Pensava, Elia, di trovare sul monte la conferma a una fede dal volto agguerrito. Trova un Dio che fa tacere la rabbia, l’intransigenza, l’uragano del suo cuore. È un Dio che mette silenzio, il Dio del silenzio sottile.
È un Dio che è presente non nella forza delle armi, ma nella forza mite della fede, nella forza mite della ragione. Non nella forza degli urli. Altro è lo stile di Dio.
Alterità di Dio L’immagine della caverna sul monte, terra di avvistamento, ma anche terra di piccolezza e di ombra, ha sostato a lungo nei miei pensieri in questi mesi, quasi a fugare un certo disagio patito per le molte parole proclamate da una parte e dall’altra, a proposito e a sproposito di relativismo.
C’è, e non vogliamo negarlo, un relativismo rozzo e spento, quello superficiale di coloro per i quali una cosa vale l’altra. Né vale la pena di consumare cuore e fatica nell’assurda ricerca. Quasi non esistesse luce da cui lasciarsi guidare, né preghiera che ce l’avvicini. La caverna è vuota. Ma c’è anche un relativismo cristiano. Cosí lo chiamò il cardinale Martini nell’omelia del suo venticinquesimo di episcopato nel Duomo di Milano. È il relativismo, oserei dire, della caverna. Da cui intravedi luci e rimani sedotto, affascinato. Ma mai e poi mai ti azzarderesti a dire che la caverna possiede l’intera luce dell’orizzonte. C’è il miracolo della luce, ma è quella che può filtrare da uno squarcio del monte, quasi figura di una finestra in attesa.
Sarebbe una grazia, io penso, se fossimo tutti piú consapevoli che il nostro è e sarà sempre un balbettare. Di Dio e degli umani. Se fossimo interiormente persuasi che la verità è anche Altro, è anche oltre e che Dio non può stare solo nelle nostre parole, è anche in altre parole, che Dio non può stare solo nel nostro colore, è anche in altri colori.
In un midrash della letteratura rabbinica si narra di alcuni rabbini che un giorno si misero a disputare accesamente su un punto della legge. Rabbi Eliezer produsse argomenti possibili per dimostrare il suo punto di vista. Ma gli altri rabbini non si lasciavano convincere dagli argomenti di Rabbi Eliezer. Alla fine una voce celeste sembrò confermare il pensiero di Rabbi Eliezer. Ma Rabbi Joshua súbito esclamò: «Non è in cielo!». «Che cosa significa questa citazione delDeuteronomio "non è in cielo"?». Rabbi Jirmijah spiegò: «La Torah fu rivelata sul monte Sinai. Perciò non occorre che continuiamo a occuparci di voci celesti: la Torah del Sinai contiene già il principio che è decisivo, il voto di maggioranza».
Il midrash sulla accesa disputa si conclude raccontando che quel giorno Rabbi Nathan incontrò il profeta Elia. E gli domandò: «Che cosa ha fatto Dio in quel momento?». Il profeta rispose: «Dio ha sorriso e ha detto: "I miei figli mi hanno superato!"». Incantamento e povertà delle parole
Che il Dio della Bibbia abbia il volto del Dio che sorride per i figli che mettono in campo tutta la loro arte di interrogare e di interrogarsi, e non per i figli che sonnecchiano pigri accettando tutto passivamente, è una buona notizia. È notizia di un Dio che onora ed è onorato dall’intelligenza, un’intelligenza che è incantamento davanti al mistero, che è la gioia di dire un nome e súbito percepirlo relativo, segnato da una povera misura e súbito ricorrere a un altro nome e a un altro ancora. In una gara da innamorati.
Come succede agli amanti del Cantico dei cantici, inesausti nel dare nomi all’amato, all’amata. Sembra loro di ricongiungersi, ma ecco si perdono. In un gioco che non è solo quello dell’amore, ma anche della verità. Un gioco che non è, se non per chi vive nell’asfissia dei palazzi grigi delle presunte verità, rozzezza dello spirito, ma freschezza di incantamento, un’esperienza di innamorati.
Solo uomini
cui non toccò mai
l’avventura di amare
né il brivido d’innamorarsi
oseranno dire
sempre uguale, monotono,
il racconto misterioso
del torrente dei monti.
Incantamento e, insieme, confessione della povertà delle parole a dire l’avventura che ci conduce. Noi confessiamo, non senza emozione, che Gesú è la verità, è la luce, ma le parole hanno la debolezza della nostra fragile tenda. La tenda dà ospitalità al mistero, ma riconosce anche la povera misura dei suoi teli.
Leggerezza della verità
Non tutto è nella mia tenda. L’infinito è accaduto nella tenda di Gesú, nella sua carne. Ma non sempre ci soffermiamo a pensare che nelle mani noi abbiamo non uno solo, ma quattro vangeli. Quasi a dire che una notizia cosí sorprendente, come quella della vita di Gesú, non sarebbe bastato uno a raccontarla. Ci vollero quattro voci. E forse non è cosí stravagante pensare che qualche sussulto di lui sia rimasto nell’aria, qualche voce forse al di là dei quattro vangeli. Non aveva forse detto Gesú ai discepoli: «Molte cose ho ancóra da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando poi verrà lo Spirito di verità, egli vi condurrà alla verità tutta intera»? (Gv 16, 12-13)
La verità dunque non è un muro di fine corsa, è la porta, è l’ introduzione .
La verità, si dice, è roccia di solidità. Ma l’immagine qualche volta purtroppo è stata usata nel senso della pesantezza. Giusto un anno fa, un gesuita dell’Istituto biblico di Gerusalemme, occhi chiari, ci additava le rocce del deserto, l’incanto delle loro striature e ci parlava della roccia come bellezza. La verità come pesantezza, come arroganza del possesso, ha generato profeti che scannano profeti e ancóra oggi torrenti portano il segno e la maledizione del sangue versato. Perché la verità senza amore diventa dominio, imposizione. E dove c’è dominio non c’è Dio. Dove c’è dominio, fosse pure delle coscienze, dove uno è in alto e uno è in basso, diventa sacrilegio mettere il nome di Dio. Come insegna un midrash della tradizione rabbinica.
Dio è nel sussurro Quando ero un ragazzino il signor Maestro stava insegnandomi a lèggere. Una volta mi mostrò nel libro di preghiere due minuscole lettere, simili a due puntini quadrati. E mi disse: «Vedi Uri, queste due lettere, una accanto all’altra? È il monogramma del nome di Dio; e, ovunque, nelle preghiere, scorgi insieme questi due puntini, devi pronunciare il nome di Dio, anche se non è scritto per intero».
Continuammo a lèggere con il Maestro, finché non trovammo, alla fine di una frase, i due punti. Erano ugualmente due puntini quadrati, solo non uno accanto all’altro, ma uno sotto l’altro. Pensai che si trattasse del monogramma di Dio perciò pronunciai il suo nome. Il Maestro disse però: «No, no, Uri. Quel segno non indica il nome di Dio. Solo là dove i puntini sono a fianco l’uno dell’altro, dove uno vede nell’altro un compagno a lui uguale, solo là c’è il nome di Dio. Ma dove i due puntini sono uno sotto e l’altro sopra, là non c’è il nome di Dio».
Dio non è nell’arroganza. Nemmeno nell’arroganza della verità. È nel suono di un silenzio sottile. È nel sussurro. Sussurro, una parola che ho ritrovato piú volte nella lettera dell’estate di una giovane amica che raccontava del cambiamento radicale della sua vita grazie al sussurro della voce di Dio: Dentro di me appena un sussurro, ma continuo, incessante. Ho passato mesi faticosi e dolorosi, ma alla fine cosí rigeneranti, di una vita nuova che non conoscevo come mia.
Ora è un’ansia continua che mi sospinge al di là di quelle che un tempo reputavo fossero barriere, adesso intravedo varchi. passi e sentieri, anche tra le mura della nostra invivibile città, ci sono vie cosí belle dietro le orme del Signore! Non sai
Non so per quale motivo Dio mi si è messo accanto con tale insistenza da farmi cambiare tutte le mie prospettive e da allentare le mie rigidità.
Da allora non mi ha mai abbandonato il sussurro. E la gioia piú grande è riuscire a condividere con gli altri la mia fede. Da quando ho incominciato a tirar fuori Dio dall’oscuro sgabuzzino in cui l’avevo rinchiuso solo per me, riesco a parlare di lui senza vergogna e timore di giudizi, e mi rende felice.
La verità non è immobilità. È la freschezza, la leggerezza, la bellezza di un cammino. Con un auspicio:
all’ultimo tornante
ancóra
cercare
il tuo volto.
Un saggio di Galli e Stefani spiega come è stato declinato il comandamento
La potenza del nome di Dio e quella dello Stato
I totalitarismi del Novecento hanno provato a sostituirsi alla divinità promettendo la realizzazione del paradiso in terra e la creazione dell’uomo nuovo liberato dal male
di Antonio Gnoli (la Repubblica 3.6.11
Le nostre società, cosiddette secolarizzate, non hanno mai smesso realmente di interrogarsi sul ruolo etico, normativo, religioso e perfino politico dei Dieci Comandamenti. E non sorprende perciò che una casa editrice laica come il Mulino abbia deciso di pubblicare una serie di autorevoli interventi sui comandamenti del Decalogo. Quello dedicato a Non nominare il nome di Dio invano si avvale dei contributi del biblista Piero Stefani e dello storico della politica Carlo Galli. Si tratta di un comandamento più vicino all’avvertimento che all’imposizione. Tiene conto dell’impronunciabilità e insieme della forza evocativa che si cela dietro la parola Dio. Etimologia e teologia sono i due campi nei quali più spesso risuona il suo Nome. Ma è nella storia (o nell’alter ego della politica) che ha trovato la propria intima realizzazione.
Nel nome di Dio si scatenano guerre, si incoronano sovrani, si fanno rivoluzioni, si fondano nazioni. Ma quanto è invano o appropriato pronunciarne il Nome? Il comando - ci suggerisce Galli - è generico. Non precisa le circostanze in cui è lecito o degno dire il nome di Dio. Certo nelle preghiere, nelle invocazioni lo si esterna. Ma per il resto c’è indeterminatezza. Non sappiamo se e come invocare Dio, come farne il nostro scudo, o come sollevarlo alla nostra parola impura. Perché quel comando è senza norma. Nel senso, ci pare di intendere, che è superiore alla norma e alle leggi umane: quel Nome, infatti, proviene da Dio e non dall’uomo. È un Dio che, attraverso l’azione e la potenza, si rivela al mondo ma non coincide con esso, operando uno scarto, una distanza che la politica si incaricherà di colmare. La nascita del potere religioso risiede nel rapporto asimmetrico tra Dio e l’uomo. Quest’ultimo può solo invocare l’intervento divino e profetizzarne gli effetti, ma non può sottrarsi alla potenza del suo Nome.
È stato Thomas Hobbes tra i primi a constatare che dietro Dio c’è comunque l’uomo. La sua ardita costruzione statuale lo spinge a sostituire Dio con il Leviatano (ossia con lo Stato, con il Dio mortale). Ai suoi occhi i profeti hanno smesso di parlare per bocca di Dio; la parola non scende più direttamente fra gli uomini. Ormai Dio comunica solo attraverso l’efficacia dello Stato. Con Hobbes una nuova teologia politica punta al ristabilimento dell’ordine e della pace. E tuttavia la storia successiva mostra che «la neutralizzazione del nome di Dio è sempre incompleta». La sentenza "Dio è morto" va rivista alla luce di quelle religioni politiche che fanno della sacralizzazione del potere la loro forza simbolica. I totalitarismi del Novecento hanno cercato di sostituirsi a Dio, introducendo nei rispettivi programmi ideologici la realizzazione del paradiso in terra, e la creazione dell’uomo nuovo liberato dal male. La politica, insomma, non è più scelta razionale tra due o più opzioni, ma destino di un popolo, di una nazione, di una terra riconsacrata. Un ruolo di primo piano svolgono la violenza (sempre purificatrice) e l’arbitrio. Al vecchio emblema delle crociate - Dio lo vuole! - si sostituisce il Partito, lo Stato o il Popolo lo vuole!
Tramontata la visione mitologica della politica, superata con Kelsen e le successive liberaldemocrazie la separazione di questa dalla religione, sembra oggi riprendere forza l’uso estremizzato del rapporto tra politica e religione. Così è nella pratica terroristica del fondamentalismo islamico, come pure nelle guerre culturali dei polemisti cattolici e degli atei devoti che nel nome di Dio dichiarano la loro avversità al relativismo, in tutte le sue forme.
È possibile una diversa strada che rinunci al sigillo dell’assoluto? Galli evoca una politica laica e in difesa dei diritti umani che faccia a meno del Dio-sostanza onnipresente e onnipervasivo. Mentre Stefani ricorre a un Dio i cui precetti coincidano con i dettami della coscienza e superino la soggezione all’autorità che si macchia di un comando sbagliato. Il rifiuto del giuramento di fedeltà a Hitler di Josef Mayr-Nusser (un oscuro impiegato morto nei pressi di Dachau) o la coerenza di Dietrich Bonhoeffer, rinchiuso per resistenza in un carcere nazista e poi impiccato, mostrano che un’altra concezione di Dio è possibile, e che nel suo nome si possono compiere scelte libere, al riparo dagli effetti spesso nefasti del monoteismo.
La filosofia è morta, solo i fisici spiegano il cosmo
I signori della creazione
Un brano dell’ultimo saggio di Stephen Hawking: "Perché il grande disegno non dipende da Dio"
Per secoli le domande importanti venivano affrontate dai pensatori. Ma oggi la fiaccola della conoscenza è altrove
Spetta alla scienza offrire soluzioni anche se queste vanno contro il senso comune. Come mostra Feynman
di Stephen Hawking, Leonard Mlodinow (la Repubblica, 06.04.2011) Ciascuno di noi non esiste che per un breve intervallo di tempo, e in tale intervallo esplora soltanto una piccola parte dell’intero universo. Ma la specie umana è una specie curiosa. Ci facciamo domande, cerchiamo delle risposte. Vivendo in questo mondo sconfinato che può essere ora amichevole ora crudele, e volgendo lo sguardo ai cieli immensi che ci sovrastano, gli uomini si sono sempre posti una moltitudine di interrogativi. Come possiamo comprendere il mondo in cui ci troviamo? Come si comporta l’universo? Qual è la natura della realtà? Che origine ha tutto ciò? L’universo ha avuto bisogno di un creatore? La maggior parte di noi non dedica troppo tempo a preoccuparsi di simili questioni, ma quasi tutti di tanto in tanto ci pensiamo.
Per secoli questi interrogativi sono stati di pertinenza della filosofia, ma la filosofia è morta, non avendo tenuto il passo degli sviluppi più recenti della scienza, e in particolare della fisica. Così sono stati gli scienziati a raccogliere la fiaccola nella nostra ricerca della conoscenza.
Questo libro si propone di dare le risposte che sono suggerite dalle scoperte e dai progressi teorici recenti. Tali risposte ci conducono a una nuova concezione dell’universo e del nostro posto in esso, assai diversa da quella tradizionale, e diversa anche da quella che avremmo potuto delineare soltanto un decennio o due fa. Eppure la nuova concezione aveva cominciato a prendere forma embrionale quasi un secolo addietro.
Secondo la concezione tradizionale dell’universo, i corpi si muovono su traiettorie ben determinate e hanno storie definite, cosicché è possibile specificare la loro esatta posizione in ogni istante del tempo. Sebbene tale descrizione sia abbastanza soddisfacente ai fini della vita quotidiana, negli anni ’20 si scoprì che questa immagine "classica" non era in grado di rendere conto del comportamento apparentemente bizzarro osservato sulle scale delle entità atomiche e subatomiche. Era invece necessario adottare un diverso quadro concettuale, chiamato fisica quantistica. Le teorie quantistiche si sono dimostrate straordinariamente precise nel predire gli eventi su tali scale, e al contempo capaci di riprodurre le predizioni delle vecchie teorie classiche quando venivano applicate al mondo macroscopico della vita quotidiana. Eppure la fisica classica e quella quantistica sono basate su concezioni assai diverse della realtà.
Le teorie quantistiche possono essere formulate in molti modi differenti, ma la descrizione probabilmente più intuitiva fu proposta da Richard Feynman (detto Dick), una personalità brillante che lavorava al California Institute of Technology e suonava i bongos in un locale di spogliarelli dei dintorni. Secondo Feynman, un sistema non ha una sola storia, ma ogni storia possibile. Più avanti, nella nostra ricerca delle risposte, spiegheremo nei particolari l’impostazione di Feynman, e ce ne serviremo per analizzare l’idea che l’universo stesso non abbia un’unica storia, e neppure un’esistenza indipendente. Questa sembra un’idea radicale, anche a parecchi fisici. In effetti, come molti concetti della scienza attuale, pare essere in conflitto con il senso comune. Ma il senso comune è basato sull’esperienza di tutti i giorni, non sull’universo quale ci si rivela mediante meraviglie della tecnologia come quelle che ci consentono di spingere lo sguardo fin nel cuore dell’atomo o a ritroso nell’universo primordiale.
Fino all’avvento della fisica moderna era opinione comune che il mondo potesse essere interamente conosciuto tramite l’osservazione diretta, che le cose sono ciò che sembrano, così come vengono percepite mediante i nostri sensi. Viceversa, lo spettacolare successo della fisica moderna, basata su concetti che, come quello di Feynman, sono in contrasto con l’esperienza quotidiana, ha dimostrato che le cose non stanno così. La concezione ingenua della realtà, pertanto, non è compatibile con la fisica moderna. Per affrontare tali paradossi adotteremo un’impostazione che chiameremo realismo dipendente dai modelli. Questa impostazione si basa sull’idea che il nostro cervello interpreti l’informazione proveniente dagli organi sensoriali costruendo un modello del mondo. Quando un simile modello riesce a spiegare gli eventi, tendiamo ad attribuire a esso e agli elementi e ai concetti che lo costituiscono la qualità della realtà o della verità assoluta. Ma possono esserci modi diversi per creare un modello della medesima situazione fisica, e ciascuno di essi potrà utilizzare elementi e concetti fondamentali differenti. (...)
Nel corso della storia della scienza si è scoperta una serie di teorie o modelli sempre migliori, dalla concezione di Platone alla teoria classica di Newton, fino alle moderne teorie quantistiche. È naturale chiedersi: questa sequenza alla fine avrà un punto di arrivo, porterà a una teoria definitiva dell’universo che includa tutte le forze e predica ogni osservazione che è possibile fare, oppure continueremo per sempre a scoprire teorie di efficacia crescente, senza però mai approdare a una che non possa essere ulteriormente migliorata? (...) oggi disponiamo di una candidata al ruolo di teoria ultima del tutto, ammesso che ne esista effettivamente una, e questa candidata è chiamata teoria M.
(...) La teoria M non è una teoria nel senso consueto. È un’intera famiglia di teorie diverse, ciascuna delle quali è una buona descrizione delle osservazioni soltanto entro una certa gamma di situazioni fisiche. È un po’ come accade nel caso delle carte geografiche. Come si sa, non è possibile rappresentare l’intera superficie terrestre in un’unica carta. L’usuale proiezione di Mercatore, utilizzata per i planisferi, fa sembrare sempre più grandi le aree man mano che si va verso nord o verso sud e non copre le regioni dei poli. Per rappresentare fedelmente tutta la Terra si deve ricorrere a una serie di carte geografiche, ciascuna delle quali copre una regione limitata. Le varie carte si sovrappongono parzialmente tra loro, e dove ciò accade mostrano lo stesso paesaggio. La teoria M è in qualche modo analoga.
Le varie teorie che formano questa famiglia possono sembrare molto diverse, ma possono essere considerate tutte come aspetti della medesima teoria fondamentale. Sono versioni della teoria applicabili solo in ambiti limitati: per esempio, quando certe grandezze, come l’energia, sono piccole. Come accade per le carte che si sovrappongono, così dove gli ambiti di validità delle varie versioni si sovrappongono, queste predicono i medesimi fenomeni. Ma proprio come non c’è nessuna carta piana che sia una buona rappresentazione dell’intera superficie terrestre, così non c’è nessuna teoria che da sola sia una buona rappresentazione delle osservazioni in tutte le situazioni.
Vedremo come la teoria M possa offrire soluzioni alla questione della creazione. Secondo questa teoria, il nostro non è l’unico universo. Anzi, la teoria predice che un gran numero di universi sia stato creato dal nulla. La loro creazione non richiede l’intervento di un essere soprannaturale o di un dio, in quanto questi molteplici universi derivano in modo naturale dalla legge fisica: sono una predizione della scienza. Ciascun universo ha molte storie possibili e molti stati possibili in tempi successivi, cioè in tempi come il presente, assai lontani dalla loro creazione.
Gran parte di tali stati saranno radicalmente differenti dall’universo che osserviamo e soltanto pochissimi di essi consentirebbero l’esistenza di creature come noi. Pertanto la nostra presenza seleziona da questo immenso assortimento soltanto quegli universi che sono compatibili con la nostra esistenza. Sebbene siamo minuscoli e insignificanti sulla scala del cosmo, ciò fa di noi in un certo senso i signori della creazione. Per comprendere l’universo al livello più profondo, dobbiamo sapere non soltanto come esso si comporta, ma anche perché. Perché c’è qualcosa invece di nulla? Perché esistiamo? Perché questo particolare insieme di leggi e non qualche altro? Questo è l’interrogativo fondamentale sulla vita, l’universo e il tutto.
© 2010 by Stephen Hawking and Leonard Mlodinow Original art copyright © 2010 by Peter Bollinger © 2011 Arnoldo Mondadori Editore S. p. A., Milano
Per gentile concessione Luigi Bernabò Associates srl
Hawking e Penrose alla ricerca delle leggi che reggono il cosmo
La sfida è definire la «teoria del tutto»
di Stefano Gattei (Corriere della Sera, 23.03.2011)
«Che cosa sappiamo sull’universo, e come lo sappiamo?» : con questa domanda Stephen Hawking apriva nel 1988 Dal Big Bang ai buchi neri, diventato in poche settimane un bestseller nel campo della divulgazione cosmologica. Lo scienziato occupava la prestigiosa cattedra «lucasiana» di matematica all’Università di Cambridge, che prima di lui era stata, fra gli altri, di Newton, Babbage e Dirac, e arrivò a conquistare milioni di lettori in tutto il mondo, coniugando il rigore espositivo a una prosa accattivante.
Al grande successo del volume contribuì non poco anche un’abile strategia editoriale, che sfruttò l’impatto emotivo della malattia - il «morbo di Gehrig» - che da anni costringe Hawking a comunicare con un computer e un sintetizzatore vocale montati sulla sua sedia a rotelle. Oltre a possedere notevoli doti umane, Hawking ha al suo attivo anche una lunga serie di importanti contributi scientifici. In particolare, a partire dal 1965, in collaborazione con Roger Penrose, fisico e matematico di Oxford, lavorò alla teoria dei buchi neri e delle singolarità gravitazionali dello spaziotempo. E nei primi anni Settanta inaugurò un originale filone di ricerca applicando tecniche di meccanica quantistica in un contesto di relatività generale, dimostrando, fra l’altro, che i buchi neri non sono in realtà del tutto «neri» , ma emettono radiazione (la «radiazione di Hawking» , appunto) e sono quindi destinati a «evaporare» lentamente.
Dal punto di vista filosofico, Hawking ha da sempre fatto propria una posizione «convenzionalista» : ai suoi occhi, una teoria cosmologica è costituita semplicemente da un modello dell’universo, o di una sua parte limitata, e da un insieme di regole che mettono in relazione le quantità presenti nel modello con l’esperienza. Una teoria, in altre parole, non può né deve aspirare alla verità: è sufficiente che descriva con precisione un ampio numero di osservazioni e faccia predizioni ben definite.
In questo senso, e solo in questo senso, Hawking afferma che fine ultimo della scienza è arrivare a formulare una singola «teoria del tutto» , in grado di descrivere l’intero universo in cui viviamo. Se mai vi perverremo essa dovrà diventare, col tempo, comprensibile a tutti, almeno nei suoi aspetti generali. Perciò ognuno dovrebbe essere in grado di partecipare alla discussione di quesiti fondamentali, quali perché noi e l’universo esistiamo.
Scienza specialistica e divulgazione «leggera» - nel senso che Italo Calvino diede a questo termine in Lezioni americane: non superficiale e sciatta, tesa soltanto a rincorrere il successo commerciale, ma rigorosa e articolata, pur senza cadere nell’eccessivo tecnicismo- sono dunque alleate e non rivali nella diffusione del sapere scientifico e della consapevolezza critica.
Il dialogo fra Hawking e Penrose, raccolto nelle lezioni tenute all’Isaac Newton Institute for Mathematical Sciences dell’Università di Cambridge nel 1994, si muove proprio in questa direzione, documentando una discussione intensa ma accessibile su alcune idee chiave relative alla natura dell’universo. Scriveva Kant, in Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? (1784), che il solo modo per attuare il «rischiaramento» tra gli uomini è quello di «fare uso pubblico della ragione in tutti i campi» . Egli invitava gli studiosi a confrontarsi con l’intero spettro dei lettori, evitando di rivolgersi ai soli specialisti, poiché la scienza può salvaguardare la propria libertà soltanto a condizione di rivolgersi a tutti.
Lo aveva ben capito Galileo, che scelse il volgare per raggiungere il maggior numero possibile di lettori. Come lui, molti grandi scienziati si sono cimentati in esposizioni divulgative dei propri risultati: se infatti da un lato la comunicazione efficace di idee e scoperte rende la scienza un sapere controllabile perché pubblico, dall’altro lato le restituisce la tipica problematicità che la caratterizza, salvaguardandola tanto da ingerenze esterne quanto dai danni di un’esasperata parcellizzazione specialistica. E contribuisce a rafforzarne i legami con gli altri campi del sapere.
Riscopriamo l’etica. Agamben: "Provate a vivere secondo le vostre idee"
intervista a Giorgio Agamben
a cura di Franco Marcoaldi (la Repubblica, 8 febbraio 2011)
In cosa crediamo? Quali sono le credenze civili, religiose, politiche, scientifiche, su cui si regge la società? La risposta si fa particolarmente difficile in un mondo come il nostro, che vede le credenze tradizionali - oggetto di una costante erosione - trasformarsi in surrogati, con il conseguente dilagare delle più diverse forme di superstizione. Oppure, per converso, il trionfo di uno scetticismo e di un’indifferenza che rasentano il nichilismo.
Proveremo a trattare la questione "credere, credenza", affrontandola da diversi punti di vista. E partiremo chiedendo l’aiuto di un filosofo italiano di fama internazionale: Giorgio Agamben. «Nella nostra cultura esistono due modelli di esperienza della parola. Il primo modello è di tipo assertivo: due più due fa quattro, Cristo è risorto il terzo giorno, i corpi cadono secondo la legge di gravità. Questo genere di proposizioni sono caratterizzate dal fatto che rimandano sempre a un valore di verità oggettivo, alla coppia vero-falso. E sono sottoponibili a verifica grazie a un’adeguazione tra parole e fatti, mentre il soggetto che le pronuncia è indifferente all’esito.
Esiste però un altro, immenso ambito di parola del quale sembriamo esserci dimenticati, che rimanda, per usare l’intuizione di Foucault, all’idea di "veridizione". Lì valgono altri criteri, che non rispondono alla separazione secca tra il vero e il falso. Lì il soggetto che pronuncia una data parola si mette in gioco in ciò che dice. Meglio ancora, il valore di verità è inseparabile dal suo personale coinvolgimento».
Il senso profondo del credere andrebbe dunque ricercato proprio qui?
«Certamente. Anche se, nel corso del tempo, il trionfo del primo modello, quello assertivo, ha di fatto cancellato il secondo. Mi fanno sorridere i confronti, oggi molto in voga, tra credenti e non credenti: veri e propri dialoghi tra sordi, visto che preti e scienziati condividono da versanti opposti lo stesso modello di verità. Poco importa che si discuta di leggi fisiche o teologiche, che naturalmente si elidono tra loro. Si tratta in ogni caso di proposizioni assertive. La confusione tra ciò che possiamo credere, sperare e amare e ciò che siamo tenuti a considerare vero, oggi ci paralizza».
Quando sarebbe stato cancellato il secondo tipo di esperienza con la parola?
«Nella tradizione dell’Occidente, è stato Aristotele ad affermare che la filosofia deve occuparsi soltanto delle proposizioni che possono risultare vere o false. Eppure esisteva ed esiste un’altra esperienza della parola: quella della promessa, della preghiera, del comando, dell’invocazione, che è stata esclusa dalla riflessione filosofica. Naturalmente, ciò non significa che essa non abbia continuato ad agire: il diritto e la religione si fondano su di essa».
Un esempio?
«Il più importante di tutti: San Paolo, che definendo la parola della fede, non fa riferimento a criteri di verità, ma parla di vicinanza tra cuore e labbra. È significativo che, tranne una volta, egli usi sempre l’espressione, da lui inventata, "credere in Gesù Cristo" e non, come sarebbe stato normale in greco, credere che Gesù è il figlio unigenito di Dio, eccetera. La differenza è sostanziale. La Chiesa, attraverso i suoi concili, ha cercato di fissare la fede in dogma, in un’esperienza di tipo assertivo. E così si è smarrito un tratto fondamentale della natura umana, che esige una fede estranea a una logica puramente fattuale. La vera fede non aderisce a un principio prestabilito ed è singolare che proprio la Chiesa, che doveva preservare questa idea, se ne sia dimenticata. Da qui la formula "Credo perché è assurdo"».
Quali sono i riflessi negativi di tale logica assertiva sulla nostra vita sociale?
«Infiniti. Pensi all’etica: si afferma che per agire bene bisogna disporre di un sistema di credenze prefissato. Dunque, agirebbe bene soltanto colui che ha una serie di principi a cui deve conformarsi.È il modello kantiano, ancora imperante, che definisce l’etica come dovere di obbedire a una legge. Quando lavoravo sull’idea di "testimonianza", mi colpì la storia di una ragazza che, sottoposta a tortura dalla Gestapo, aveva rifiutato di rivelare i nomi dei suoi compagni. A chi più tardi le chiese in nome di quali principi era riuscita a farlo, rispose soltanto "l’ho fatto perché così mi piaceva". L’etica non significa obbedire a un dovere, significa mettersi in gioco: in ciò che si pensa, si dice e si crede».
Anche perché, travolta la credenza nell’infallibilità di quella certa legge, rimane un campo di rovine.
«Prima o poi accade a tutte le credenze di tipo oggettivo. E difatti: le credenze politiche si sono letteralmente sbriciolate, quelle teologico-religiose si fossilizzano in dogmi contrapposti. Per quanto riguarda quelle scientifiche, esse risultano completamente irrelate rispetto alla vita etica dei singoli individui».
In Credere e non credere Nicola Chiaromonte formula una domanda secca: si può credere da soli?
«È una domanda pertinente. Che io riformulerei in questo modo: com’è possibile condividere una verità o una fede che non siano di tipo assertivo? Io penso che questo accada nei territori dell’esistenza in cui ci si mette in gioco personalmente. Se la veridizione è lasciata ai margini e il solo modello della verità e della fede diventano la scienza e il dogma, la vita diventa invivibile. Di qui l’indifferenza e lo scetticismo generalizzato, oltre che la tetraggine sociale dilagante. Soltanto procedendo a ritroso, ricercando quella diversa esperienza di parola, si può tornare al rapporto originario con la verità, irriducibile a qualunque sua istituzionalizzazione. Le faccio un esempio: la scienza guarda al passaggio dal primate all’uomo parlante unicamente in termini cognitivi, come se fosse soltanto una questione di intelligenza e di volume cerebrale. Ma non c’è solo questo aspetto. La trasformazione deve essere stata altrettanto gigantesca dal punto di vista etico, politico, sensibile. L’uomo non è solo homo sapiens. È un animale che, a differenza degli altri viventi, i quali non sembrano dare importanza al loro linguaggio, ha deciso di correre fino in fondo l’azzardo della parola. E da qui è nata la conoscenza, ma anche la promessa, la fede, l’amore, che esorbitano la dimensione puramente cognitiva».
È una strada ancora aperta?
«L’uomo non ha ancora finito di diventare umano, l’antropogenesi è sempre in corso. Menandro ha scritto: "com’è grazioso - cioè capace di gratuità - l’uomo quando è veramente umano". È questa gratuità che dobbiamo riscoprire. Tanto più che i modelli di credenza che ci vengono proposti non ci persuadono più. Sono, come diceva Chiaromonte, mantenuti a forza, in malafede».
Proviamo dunque a perimetrare il novero di queste credenze più genuine, anche se sotterranee, sommerse.
«Prendiamo la politica: perché non interroga finalmente la vita delle persone? Non la vita biologica, la nuda vita, che oggi è continuamente in questione nei dibattiti spesso vani sulla bioetica, ma le diverse forme di vita, il modo in cui ciascuno si lega a un uso, a un gesto, a una pratica. Ancora: perché l’arte, la poesia, la letteratura, sono museificate e relegate in un mondo a parte, come se fossero politicamente e esistenzialmente irrilevanti?».
Anche lo scrittore russo Alexandr Herzen lamentava a suo modo la cancellazione dell’esperienza vitale soggettiva. Affermando che crediamo in tutto, tranne che in noi stessi.
«Viviamo in società abitate da un Io ipertrofico, gigantesco, nel quale però nessuno, preso singolarmente, può riconoscersi. Bisognerebbe tornare all’ultimo Foucault, quando rifletteva sulla "cura di sé", sulla "pratica di sé". Oggi è rarissimo incontrare persone che sperimentino quella che Benjamin chiamava la droga che prendiamo in solitudine: l’incontro con sé stessi, con le proprie speranze, i propri ricordi e le proprie dimenticanze. In quei momenti si assiste a una sorta di congedo dall’Io, si accede a una forma di esperienza che è l’esatto contrario del solipsismo. Sì, penso che si potrebbe partire proprio da qui per ripensare un’idea diversa del credere: forme di vita, pratica di sé, intimità. Queste sono le parole chiave di una nuova politica».
E la rivolta di Galileo scongelò il cosmo dai rigori di Tolomeo
L’alba di una nuova visione del mondo
di Sandro Modeo (Corriere della Sera, 26.01.2011)
Al momento di scrivere il Sidereus Nuncius (prima edizione marzo 1610), Galileo ha quasi cinquant’anni. Come ricorda lo storico delle idee Andrea Battistini, lo scienziato - che fino a quel momento ha pubblicato solo studi minori e specialistici- teme di non poter esprimere in pieno la propria vocazione e di non poter comunicare i risultati delle proprie scoperte. Schiacciato dalle continue richieste dei committenti della Serenissima (deve occuparsi di macchine idrauliche, trapani per le viti, bussole e orologi), sente la vita sfuggirgli: quella routine alienante (il «servizio cotidiano» e la «servitù meretricia» ) gli lascia poche energie residue per dedicarsi ai «grandi e oltremodo mirabili» spettacoli del cosmo.
Scrivere il Nuncius, dunque, è il tentativo disperato (e riuscito) di ribellarsi a quella costrizione al silenzio; anche se il libro conserva tracce della sua gestazione inquieta, perché in molti punti lo scienziato evoca «l’angustia del tempo» per giustificare osservazioni a suo dire incomplete. Frutto di 55 notti trascorse al cannocchiale (strumento rivoluzionario arrivato dall’Olanda), il Nuncius è anzitutto una fitta successione di scoperte fattuali: sulla superficie della luna (che si rivela «disuguale, scabra, piena di cavità e sporgenze» e «variata da macchie, come occhi cerulei d’una coda di pavone» ); sulla grandezza variabile degli astri (che «in mezzo alle tenebre» «sono visti chiomati» , mentre la luce diurna rade loro «i crini» e li ridimensiona); sulla Via Lattea, che si spalanca per la prima volta come «una congerie di innumerevoli stelle, disseminate a mucchi» , proprio col suo «candore latteo come di nube albeggiante» ; e sui satelliti di Giove, studiati nei loro più minuti movimenti. Il tutto con l’aiuto di numerosi, fondamentali disegni esplicativi. Ma tali scoperte - enunciate, per inciso, in un latino insieme esatto e visionario, come se Galileo stesse già modulando l’ineguagliabile italiano del Saggiatore e del Dialogo - sono sconvolgenti per le loro implicazioni concettuali e cognitive, per lo shock che comportano a livello di visione del mondo.
I pochi estratti appena citati sono sufficienti a dimostrare come Galileo - al momento del Nuncius già copernicano da sette anni- non si limiti a demolire la fissità congelata del cosmo aristotelico tolemaico e il connesso, rassicurante meccano astrologico. Come non si limiti, cioè, a rivelare un universo metamorfico, discontinuo, infinito, dove nulla è centro e tutto è periferia; ma tolga anche all’assetto cosmico la sua eleganza stilizzata, perché è vero (come scriverà nel Saggiatore) che il linguaggio della natura ha per caratteri «triangoli, cerchi ed altre figure geometriche» , ma tali caratteri sono avvolti da una materia fisico-biologica molto più ribelle e instabile di quanto sembri (come dimostrano proprio le scabrosità lunari). Ed è vero che la vita si regge su leggi e simmetrie, ma entro un costante agguato caotico.
Oltre che diffidenze e calunnie (sia da parte di accademici che di ecclesiastici, in primis gli scienziati famuli della corte medicea, in cui Galileo sta per trasferirsi), il successo del Nuncius innesca anche un certo immaginario fantascientifico, per esempio sulla pluralità dei mondi abitati.
Oggi, un simile slittamento è ancora più naturale, perché gli eredi del cannocchiale galileiano (i potenti telescopi, da Hubble in poi) ci permettono di scrutare l’universo sempre più lontano e - per quanto possa sembrare paradossale- sempre più indietro nel tempo. Quando infatti osserviamo stelle e galassie remote, non le vediamo come sono ora, ma come erano milioni o miliardi di anni fa.
La spiegazione di questa vertigine- abbozzata da Poe nel poema Eureka ma di fatto formulata da Einstein - dipende dalla luce, la cui propagazione non è istantanea: anche se velocissima per i nostri parametri (300 mila km al secondo), la luce impiega del tempo a trasmetterci le immagini degli oggetti da cui proviene. Se volessimo vedere le galassie come sono ora, dovremmo dunque trovarci nel futuro. Ma anche questo nuovo «annuncio sidereo» , per quanto frastornante, è destinato a essere superato - o integrato - dai successivi. Ogni acquisizione, nella scienza, è sempre la penultima.
di Evelyne Pieiller (traduzione dal francese di José F. Padova)
Quando l’ideale comunista sembrava sorpassato, un filosofo che vi si richiama trova un’eco sorprendente, anche all’estero. Ora Alain Badiou, che s’interroga circa le condizioni della vera uguaglianza, afferma la necessità di una rottura radicale con il consenso democratico.
Dal Philosophie Magazine ai «caffè filosofici» (ndt.: iniziativa sorta qualche anno fa a Parigi: libera discussione filosofica, aperta a tutti, che si svolge in locali pubblici,un poco come un tempo i café litteraires, con orario e argomento precisi e animatore competente. Stanno diffondendosi in tutto il mondo - http://fr.wikipedia.org/wiki/Caf%C3%A9_philosophique), già da qualche tempo la filosofia esce dalla sua torre d’avorio per ridare un senso alla fatica di vivere. Dapprima coinvolta nel campo, raramente compromettente, della morale, oggi essa lo è anche in quello politico. Segno dei tempi, alcune brecce cercano di farsi strada nella melanconica impotenza suscitata dalla famosa coppia “legge del mercato - fine delle ideologie”.
Nulla di sorprendente quindi nel ritorno della questione dell’impegno, che corrobora la ripresa della curiosità per Jean-Paul Sartre o Albert Camus. D’altro canto, al di là della seduzione esercitata dal vigore di pamphlet del breve [libro] De quoi Sarkozy est-il le nom ? (1),, la risonanza delle opere recenti di Alain Badiou era poco prevedibile: non già perché vi si esprime una critica del capitalismo - che non è più un’anomalia nel nostro disorientato tempo-, ma perché questa è collegata a un elogio del comunismo, «questa vecchia parola magnifica», secondo la sua definizione, che la storia sembrava aver reso sinonimo di fallimento e di dispotismo. L’attuale diffusione di Badiou indicherebbe dunque che le invocazioni alla moralizzazione del sistema non sono più sufficienti, ma che la lotta contro la rassegnazione cerca di procurarsi sogni e armi. Rimane da esaminare ciò su cui si basa questa alternativa radicale della quale egli è oggi l’enunciatore riconosciuto, da pari a pari con il suo grande interlocutore Slavoj Žižek .
Badiou non intende definire un programma, bensì fare uso della filosofia come di una «forza per la destabilizzazione delle opinioni dominanti» e imporne la «pertinenza rivoluzionaria (2)», dimostrando in primo luogo il «legame interno fra il capitalismo dominante e la democrazia rappresentativa (3)». Poiché quest’ultima ammette «avversari, ma non nemici», nessuno può «esservi portatore di un’altra visione delle cose, di un’altra regola del gioco che non sia quella dominante (4)» - vale a dire il rispetto delle libertà individuali, fra le quali quella d’intraprendere, di essere proprietario, ecc. Iscriversi nel dibattito democratico significa accettarne le intrinseche limitazioni, che impediscono di pensare al di fuori di questi valori. Ora, questi valori sono anche quelli del capitalismo. Non può quindi esservi altro come programma politico se non «la definizione gestionale del possibile (5)», il possibile racchiuso nei limiti della proprietà privata... Partiti e sindacati sono votati, logicamente, a essere collaboratori del parlamentarismo capitalistico e la sinistra rivela così la sua «bassezza costitutiva». La libertà di pensiero e di scelta offerta dal liberalismo come dal riformismo è illusoria, fino a comprendere la sua espressione mediante il suffragio universale. Poiché l’individuo è sottoposto alle influenze, agli egoismi, alle ignoranze, la «ricorrente stupidità del numero», altrimenti detta legge della maggioranza, non può essere altro che tirannia dell’opinione.
Niente di rivoluzionario in questo banale disprezzo delle «elite», convinte di essere le sole dotate d’intelligenza. Salvo che Badiou lo giustifica nel nome stesso di un ideale rivoluzionario: quello dell’uguaglianza vera, ciò che implica che «gli altri esistono esattamente come me». Lo ostacola quello che egli chiama «l’animalità»: l’attaccamento a sé, alla propria identità, questo cattivo fondo spontaneamente portato a preferirsi e che si sviluppa nel possesso. Suffragio universale, suffragio degli ego...
Qui si ritrova una costante del pensiero di destra, che si appoggia su questa stessa definizione della natura umana come avida ed egocentrica per «naturalizzare» il capitalismo». Badiou, da parte sua, malgrado tutto salva questa povera «specie animale che tenta di superare la sua animalità (6)», accordandole l’attitudine alla trascendenza, vale a dire la capacità di subordinare le necessità egoistiche a principi, a verità che valgono per tutti. D’altronde è qui il fondamento stesso della democrazia, che postula come ogni persona sia dotata di ragione, dipendendo dalla società (in particolare mediante l’insegnamento) fargli avere i mezzi per imparare a farne uso, allo scopo di emanciparsi dalla confusione delle pulsioni e da altri fattori d’opinione. Ma, per Badiou, l’uscita dalla caverna dell’ego non è né progressiva né programmabile. Essa ha luogo nello shock di un incontro con ciò che egli chiama «l’avvenimento». Un atto, storico, artistico o amoroso, all’improvviso fa «apparire una possibilità che era invisibile o perfino impensabile (7)», lacerando il consenso sul valore sovrano attribuito a ciò che singolarizza l’individuo piuttosto che a ciò ch’egli ha di universale. Questo svelamento repentino permette di strapparsi alla «finitezza animale delle identità», di salutare finalmente la fondamentale eguaglianza degli esseri umani: di entrare nella trascendenza.
Questa folgorante apertura di possibilità pone qualche domanda: da dove viene lo staccarsi improvviso dall’errore per salutare la verità? Per quale sorte si è «eletti»? L’attivazione della trascendenza assomiglia stranamente alla «grazia» e l’effetto trasfigurante della verità non esclude l’evocazione di una conversione. Non si può fare a meno di approvare Žižek , grande conoscitore dell’opera di Badiou, quando sottolinea che «la rivelazione religiosa costituisce il suo paradigma inconfessato (8)». L’«ipotesi comunista» sarebbe quindi l’altro nome dell’amore, questa «esperienza personale dell’universalità possibile (9)», al quale il filosofo platonico, dopo aver scritto su san Paolo, ha dedicato un libro di interviste?
Allora si comprende meglio perché non è la classe operaia che gli importa, ma il povero ultimo, simbolizzato dagli operai immigrati, e ancor più dai sans-papiers [ndt.: così sono chiamati in Francia i clandestini] - i quali «devono essere onorati, perché a nome di noi tutti organizzano l’affermazione di un pensiero diverso circa la vita umana (10)». Si comprende anche meglio perché per esistere il comunismo dovrà darsi gli strumenti per «controllare l’influsso dell’identità», sempre minaccioso, a pena di non poter mantenere una società realmente ugualitaria. Ma chi saprà giudicare che una simile scelta, un tale proposito, è portatore d’ineguaglianza, se non un’aristocrazia d’illuminati - i filosofi, detentori della verità? «Senza Idea, il disorientamento delle masse popolari è ineludibile (11)». Certamente dovrà arrivare il giorno, «forse fra mille o duemila anni, in cui la società sarebbe educata, nell’accezione platonica del termine (12)», vale a dire che tutti sarebbero filosofi. Ma aspettando questo Eden, bisognerebbe imporre il bene comune. Questo non sgomenta colui che ha sempre considerato come «il nostro debito verso la Rivoluzione culturale rimane immenso» e approva la domanda di Saint-Just: «Che cosa vogliono coloro che non vogliono né la Virtù né il Terrore», se non la democrazia priva di uguaglianza...?
L’«ipotesi» di Badiou a lungo termine fa quindi alquanto rabbrividire. Nell’immediato, per contro, questo «comunismo» non turba per nulla l’ordine istituito. Gli attacchi contro un suffragio universale «populista» non possono soddisfare gli adepti della «governance», che raramente sono rivoluzionari; il rifiuto di qualsiasi azione nel quadro di un partito o di un sindacato non può altro che rallegrare i detentori del sistema. Ma, soprattutto, l’affermazione spiritualista di una rivelazione della verità assoluta sembra non offrire più altro se non un comunismo sbarazzato dal marxismo, tento ben estratto dalla storia che ne è adornato del fascino poetico delle utopie inoffensive.
(1) Alain Badiou, De quoi Sarkozy est-il le nom ?, Circonstances, 4, Lignes, Paris, 2007.
(2) Alain Badiou, Second Manifeste pour la philosophie, Fayard, coll. « Ouvertures », Paris, 2009.
(3) Alain Badiou et Alain Finkielkraut, L’Explication. Conversation avec Aude Lancelin, Lignes, 2010.
(4) France Culture, 27 février 2010.
(5) Alain Badiou, De quoi Sarkozy est-il le nom ?, op. cit.
(6) « L’hypothèse communiste - interview d’Alain Badiou par Pierre Gaultier», www.legrandsoir.info
(7) Alain Badiou, L’Hypothèse communiste, Circonstances, 5, Lignes, 2009.
(8) Slavoj Žižek , Le Sujet qui fâche, Flammarion, Paris, 2007.
(9) Alain Badiou (avec Nicolas Truong), Eloge de l’amour, Flammarion, coll. «Café Voltaire », Paris, 2009.
(10) Alain Badiou, De quoi Sarkozy est-il le nom ?, op. cit.
(11) Alain Badiou, L’Hypothèse communiste, op. cit.
(12) Alain Badiou et Alain Finkielkraut, L’Explication, op. cit.
* Le Monde Diplomatique, gennaio 2011, pagg. 26/27
Quando i marziani siamo noi
di Goffredo Fofi (l’Unità, 16 gennaio 2011)
Nell’intenzione di segnalare quel che di buono si fa in giro - in questo dannato paese dove tutti da sempre scelgono il particulare al collettivo e il privato al pubblico, e dove tutti i ricchi e arricchi si sentono in dovere di portare i loro soldi in Svizzera - ci si entusiasma solo per il frivolo e il contingente detestando la costanza e la costruzione, volevo partire, per una volta, dall’alto. E mi sono detto: cosa c’è di più alto del cielo? Non mi riferisco alla religione ma alla scienza, anche se la religione (il tentativo di rispondere alla grande domanda su chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo) finisce sempre per entrarci.
L’Italia, mi sono chiesto, ha dato al mondo Galileo. Ma tra le due culture, l’umanistica e la scientifica, la nostra intellighenzia e la nostra scuola hanno sempre bistrattato la seconda, nonostante l’ondata di entusiasmo degli anni Sessanta, quando, ricordo, a Torino Vittorini saliva le scale dell’Einaudi carico dei manuali divulgazione di Asimov, Calvino scriveva le Cosmicomiche, e Fruttero e Lucentini si trasferivano a Milano per dirigere alla Mondadori la gloriosa collana di Urania.
Scienza e/o fantascienza... Troppo preso dal sociale e dai problemi della Terra per pensare al resto, e di formazione troppo bassa per capir qualcosa di scienza, anch’io prediligevo la fantascienza, e me ne feci esperto e divulgatore per anni amando forsennatamente, ed ero tra i primi, Vonnegut e Ballard e Dick, i tre maggiori, che resteranno dei “classici” della storia della letteratura della seconda metà del Novecento, ma anche, secondo i miei gusti del tempo, i “minori”. Che erano, nell’ordine, Wyndham, Sheckley, Silverberg, Matheson, Simak, Bradbury, Brown... e ne dimentico. Poi la fantascienza si è fatta realtà, le previsioni della sua ala sociologica ma a volte anche dell’altra si sono velocemente realizzate e la fantascienza si è confinata, dopo la breve e ambigua stagione dei cyber, nella letteratura per ragazzi, perché sono proprio i ragazzi l’unica categoria di lettori che continua a porsi domande sul futuro dell’uomo, delle sue società, del cosmo, e a trovare autori che ne ascoltano le inquietudini.
Gli adulti, senza memoria e senza futuro, sembrano pensare solo al loro grasso o magro presente, rifiutano di ragionare del futuro. Eppure anche in Italia resiste, nonostante Berlusconi e nonostante la deriva universitaria (destra, centro e sinistra uniti nell’alienazione corporativa), una categoria di persone, un ristretto numero di scienziati raccolti in centri di ricerca che non hanno vita facile con i governi che ci ritroviamo ad avere, e che studiano, investigano e perfino inventano. Ci sarebbe a volte da discutere sulla moralità delle loro invenzioni (da sempre la stragrande maggioranza degli scienziati è cinicamente a servizio di chi paga le loro ricerche, e questi finanziamenti non sono mai disinteressati e innocenti) ma resta il fatto che perfino in Italia ci sono scienziati di valore, ostinatamente interessati a capire. E alcuni perfino preoccupati del futuro della nostra società, e del futuro del mondo.
Tra le molte cose buone che accadono, nonostante tutto, in Italia, ci sarà dunque
da mettere, per cominciare, la ricerca scientifica, o meglio una parte della ricerca scientifica, la più
entusiasta e la meno condizionata. Come sempre succede non sono i più bravi - e gli istituti più seri
a godere dell’attenzione dei media, ma i più “spettacolari” nel proporsi, sul genere del magnate
Veronesi o dell’innocua Levi Montalcini. (Con l’eccezione della Hack, che oltre al resto è anche
eccezionalmente simpatica.)
Però, nonostante il contesto, la divulgazione scientifica ha fatto passi da gigante perché una cultura scientifica è lentamente e faticosamente cresciuta, in ragione di una necessità oggettiva che è di tutti; i nostri giovani sono molto più preparati di quanto non lo fossimo noi alla loro età, e hanno a disposizione molti strumenti per aggiornarsi e approfondire, non solo Internet. Per esempio hanno a disposizione la bella, a volte bellissima collana zanichelliana “Chiavi di lettura” diretta da Federico Tibone e Lisa Vozza, il cui sedicesimo titolo mi sembra un modello di cosa dovrebbe essere la divulgazione.
E’ I marziani siamo noi di Giovanni F. Bignami. Estraneo al birignao paternalista della divulgazione televisiva più frequentata, l’autore racconta e ragiona di quel che sappiano del cosmo, della sua origine e del suo destino, rispondendo efficacemente a molti interrogativi che, chinon è alienato dalla bieca quotidianità, un giorno o l’altro deve pur porsi. Appunto: chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo.
La domanda del libro è: siamo soli nell’universo? Oppure no? Non sto a recensirlo, non saprei farlo e non è nell’intenzione di questa nota, però è una lettura che dovremmo far tutti, almeno tutti gli ignoranti scontenti di esserlo e sopraffatti dalla quotidianità.
Divertente e chiaro, il libro lascia l’ultima parola a Kant, “che aveva intuito che per fare un mondo basta un po’ di materia stellare” e che ha scritto una frase decisiva a cui tornare instancabilmente, per andare avanti con intelligenza e serietà: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me.”
In una prossima puntata di questa rubrica parlerò di un gruppo di insegnanti che si preoccupano di portare alla conoscenza del cielo i bambini e gli adolescenti, Ma sia lode, intanto, sia a chi nonostante tutto continua a occuparsi del cielo, ma anche a chi si occupa dei piccoli, miseri umani a partire da quello stupore e da quella venerazione “kantiani”.
Cosa ci spinge a credere nell’irrazionale
La paura dell’ignoto
Chi crede nell’idea di destino che idea ha della propria libertà? Perché se tutto è già scritto lo spazio della nostra possibilità di scelta si riduce a zero, nei disegni astrali così come nel razionalismo deterministico
di Umberto Galimberti (la Repubblica, 30.12.2010)
A cosa credono coloro che si affidano agli oroscopi? E che cosa li distingue da coloro che non ci credono? Nulla. Perché quelli che credono, in realtà, desiderano conoscere qualcosa circa il loro futuro, e quelli che non credono non sono esenti da questo desiderio. E allora il vero problema è l’angoscia del futuro che, a differenza del passato e del presente, è imprevedibile. E, come tutto ciò che è imprevedibile, è ingovernabile, perché sfugge al nostro controllo, alla nostra previsione, alla nostra progettazione, mettendo in chiara evidenza la precarietà della nostra esistenza, e, con la precarietà, il nostro bisogno di rassicurazioni.
Non potendole trovare sulla terra, dove i nostri progetti confliggono con i progetti degli altri e con le circostanze favorevoli o infauste, da che mondo è mondo, gli uomini hanno cercato la loro rassicurazione nel cielo, che appariva più stabile della terra inquieta. Chiamarono le luci che compaiono nel cielo "stelle fisse", e la loro disposizione "firmamento" dove è traccia di "ciò che sta fermo" e non muta come gli eventi della terra. Chiamarono inoltre le disposizioni del cielo "destino" che significa "ciò che sta". E nell’immodificabilità del suo "stare", rispetto alla mutevolezza delle vicende umane, intravidero quella rassicurazione a cui cercarono di dar parola nella forma della "predizione".
L’oroscopo è questa parola. La sua verità o falsità nulla toglie a quel bisogno, insopprimibile nell’uomo, di ridurre, il più possibile, il terrore dell’ignoto. Lo stesso terrore che, a sentire Nietzsche, anima la scienza che ovviamente divide coloro che non credono da quelli che credono agli oroscopi, dimenticando che la ragione per cui la scienza è nata è la stessa che, dai tempi più remoti, ha indotto gli uomini a scrutare il cielo. Che altro è la scienza se non l’arte della previsione? Con questo non voglio mettere sullo stesso piano la previsione astrologica con la previsione scientifica, ma semplicemente segnalare che identico è il bisogno che sta alla base della scienza e dell’astrologia: sconfiggere l’ignoto, ridurre l’inquietudine ad esso connessa, rassicurare l’uomo ampliando l’orizzonte della prevedibilità.
Si dirà: ma la previsione scientifica, a differenza di quella astrologica, poggia su elementi rigorosamente razionali. È vero. E io sto con la previsione scientifica, senza però dimenticare due cose. La prima è che la scienza sa di essere una conoscenza "ipotetica", disposta a cambiare ipotesi ma mano che se ne presentano di più esplicative, per cui ciò che la scienza dice ha solo la probabilità, ma non l’incontrovertibilità di essere vero. La seconda ce la rammenta Kant là dove dice che: «La ragione è un’isola piccolissima nell’oceano dell’irrazionale». E siccome ognuno di noi lo sa e sulla propria pelle lo sperimenta, è in questo oceano che l’oroscopo getta il suo sguardo e formula la sua previsione.
È una previsione che prende le mosse da "ciò che sta", quindi dal "destino". E allora (e qui nasce il secondo problema) quanti credono agli oroscopi che fiducia hanno nella propria libertà, che è tale solo se prescinde dall’idea di destino? A meno che, sublimata nella danza delle stelle, non ci sia, ben nascosta e non ammessa la persuasione che lo spazio della nostra libertà è estremamente ridotto rispetto a quello che l’astrologia chiama "destino" e la scienza "determinismo". E allora, nate l’una in opposizione all’altra, scienza e astrologia rispondono entrambe al bisogno di sconfiggere l’ignoto, per poi giungere all’inconfessata conclusione che di ignoto non c’è proprio nulla, se tutto è deciso dal destino o dal determinismo più rigoroso.
Dante e Einstein nella tre-sfera
La struttura dell’universo descritta nel Paradiso è la stessa suggerita dal grande fisico della relatività. Ed è coerente con le più recenti misure cosmologiche
di Carlo Rovelli (Il Sole 24 Ore Domenica, 17.10.2010)
Salito fino alla sfera più esterna dell’universo aristotelico, Dante, invitato da Beatrice, guarda verso il basso. Vede tutti i cieli, e, giù in fondo, la , piccola Terra, che gli sembra girare lentamente sotto i suoi piedi. Poi Beatrice lo invita a guardare verso l’alto, fuori dall’Universo aristotelico, là dove secondo Aristotele non ci sarebbe più nulla di nulla, perché per Aristotele l’Universo ha un bordo dove tutto finisce.
Dante guarda e ha la straordinaria visione di un punto di luce circondato da nove immense sfere di angeli. Dove stanno questo punto di luce e le sfere angeliche, che sono fuori dall’Universo aristotelico? Dante lo dice in maniera incantevole: «questa altra parte dell’Universo d’un cerchio lui comprende, sì come questo li altri». E nel canto successivo: «parendo inchiuso da quel ch’elli ’nchiude». Il punto di luce e le sfere di angeli circondano l’Universo e insieme sono circondati dall’Universo. Che significa?
Per la maggior parte dei lettori, l’immagine di due insiemi di sfere concentriche ciascuno dei quali "inchiude" l’altro è solo un’oscura immagine poetica. I libri di testo dei licei disegnano il punto di luce e le sfere di angeli semplicemente fuori dall’universo aristotelico. Ma per un matematico o un cosmologo di oggi, la descrizione della forma dell’Universo data da Dante è perfettamente trasparente, e l’oggetto descritto da Dante è inconfondibile. Si tratta di una "tre‑sfera", la forma che nel 1917 Albert Einstein ha ipotizzato essere la forma del nostro universo, e che oggi resta compatibile con le più recenti misure cosmologiche.
La sfrenata fantasia poetica e la straordinaria intelligenza di Dante Alighieri hanno anticipato di sei secoli una geniale intuizione di Albert Einstein sulla forma che il nostro universo potrebbe avere. Che cos’è questa "tre‑sfera"? E una struttura matematica, una figura geometrica, che non è facilissima, ma in fondo neanche difficilissima, da concepire. La difficoltà sta nel fatto che non la si può disegnare dentro lo spazio a cui siamo abituati, per lo stesso motivo per cui la superficie della Terra non può essere disegnata fedelmente su una carta geografica piana.
Per capire, consideriamo il seguente problema: se camminiamo sulla Terra sempre nella stessa direzione, dove arriviamo? Incontriamo il bordo della Terra? No. Arriviamo in paesi sempre nuovi all’infinito? Neppure. Come ben sappiamo, dopo avere fatto il giro della Terra, torniamo al punto di partenza. Un’idea difficile da digerire per gli antichi, e che fa ancora ridere i bambini alle elementari, ma alla quale abbiamo finito per abituarci, e trovare ragionevole. Questo perché la terra è una “sfera”. I matematici, precisi, dicono piuttosto che la "topologia", cioè la "forma intrinseca”, della Terra è una “due-sfera” ("due", perché sulla Terra si può camminare in due direzioni principali: nord‑sud, o esto-vest).
Poniamo la stessa domanda per l’universo in cui siamo: immaginiamo di poter viaggiare su un’astronave velocissima sempre nella stessa direzione. Dove arriviamo? Incontreremo il bordo dell’universo? Poco credibile. Troveremo spazi sempre nuovi all’infinito? Anche quest’idea è poco attraente e forse poco credibile. E allora? Allora c’è la terza possibilità: dopo avere fatto il giro intero dell’Universo, ritorneremo al punto di partenza, sulla Terra. Questo è ciò che avviene se l’Universo è una tre‑sfera.
C’è un modo abbastanza semplice di disegnare questa tre‑sfera. Torniamo alla superficie della Terra. Una tecnica ben nota per disegnarla su una carta geografica, consiste nel disegnare due dischi: uno con i continenti dell’emisfero nord e il polo nord al centro, e l’altro analogo per l’emisfero sud. L’equatore è disegnato due volte, come il bordo di entrambi i dischi. Se partiamo dal polo sud e camminiamo verso nord, a un certo punto attraversiamo l’equatore: nella nostra rappresentazione in due dischi, "saltiamo" da un disco all’altro.
Ovviamente nella realtà non facciamo nessun salto, perché nella realtà l’emisfero nord, visto da chi viene dal polo sud, "circonda" l’emisfero nord, così come l’emisfero sud "circonda" l’emisfero nord, per chi guarda da nord. La tre-sfera può essere rappresentata in maniera del tutto analoga, disegnando due "palle". Una palla è "l’emisfero nord" della tre‑sfera, l’altra è l’emisfero sud. La sfera "equatoriale" che separa e connette i due emisferi è disegnata due volte: come il bordo delle due palle. Un viaggiatore che partisse dal centro della prima palla e salisse "di sfera in sfera", come Dante, fino a questo equatore, vedrebbe sotto di sé un insieme di sfere concentriche, che si richiuderebbero intorno a un punto. Quest’altro emisfero, allo stesso tempo “circonderebbe” e “sarebbe circondato” dalla prima palla. In altre parole, la migliore rappresentazione della tre-sfera è esattamente quella che ne dà Dante. È stato un matematico americano, Mark Peterson, il primo a scrivere nel 1979 un bell’articolo sottolineando la chiarezza con cui Dante descrive la tre-sfera, ma oggi ogni fisico o matematico riconosce facilmente la tre-sfera nella descrizione dantesca dell’Universo.
Come ha potuto Dante anticipare einstein di sei secoli? Innanzitutto l’immaginazione spaziale di Dante, nel tardo medioevo, non era ancora ingabbiata nel rigido immaginario newtoniano per il quale lo spazio fisico è euclideo e infinito. Per Dante, come per Aristotele, lo spazio è solo la struttura della relazione tra e cose, e una tale struttura può avere forme peculiari. In secondo luogo, l’idea che la divinità risieda “oltre” il bordo dell’Universo aristotelico si trova già nel Lì Tresor, il bellissimo libro di Brunetto Latini, maestro di Dante, che compendia il sapere medioevale.
In terzo luogo, l’immagine di Dio come un punto di luce circondato da sfere di angeli è anch’esso già presente nel Medioevo, come ci mostrano diverse immagini del tempo. Dante ha messo insieme i pezzi del puzzle.
A me piace pensare che sia stata un’immagine precisa a ispirare Dante. Dante lascia Firenze nel 1301, mentre si stanno completando gli straordinari mosaici della cupola del Battistero. Se entrate nel Battistero e guardate in alto, vedete un punto di luce (la presa di luce dalla lanterna sulla sommità della cupola) circondato da nove ordini di angeli, (con il nome scritto per ciascun ordine: Angeli, Arcangeli, Principati, Potestà, Virtù, Dominazioni, Troni, Cherubini e Serafini) esattamente come nel Paradiso. Se immaginate di essere una formica sul pavimento del Battistero (il polo sud) e iniziare a camminare in una qualunque direzione, notate come da qualunque direzione saliste sui muri, arrivereste poi allo stesso punto di luce circondato da angeli (il polo nord): il punto di luce e suoi angeli "circondano" e insieme "sono circondati", dal resto delle decorazioni interne del Battistero. L’interno del battistero è una due‑sfera, ovviamente. Dante, come ogni cittadino della Firenze della fine del Duecento, sarà certo rimasto impressionato dalla grandiosa opera architettonica che la sua città stava completando. (Il bellissimo e terrificante mosaico del Battistero che rappresenta l’Inferno, opera di Coppo di Marcovaldo, maestro di Cimabue, è comunemente considerato una sorgente d’ispirazione per Dante). Non potrebbe Dante avere trovato ispirazione anche nella "topologia" del Battistero? Il Paradiso ne riproduce con esattezza la struttura, compresi gli angeli e il punto di luce, traducendola da due dimensioni a tre, e ottenendo così la tre‑sfera einsteiniana.
Che sia questa o altra l’origine dell’idea, resta il fatto che la straordinaria immaginazione di Dante ha saputo trovare una soluzione consistente all’antico problema di conciliare l’idea di un mondo finito con l’idea dell’assenza del "bordo del Mondo". La soluzione è la stessa che Einstein escogiterà sei secoli più tardi. E che forse è la soluzione giusta.
Perché ci piace tanto Dante? Per molti motivi, ma forse anche per un motivo che chi come me si occupa di scienza vede particolarmente bene: Dante è uomo non solo di grandissima cultura, ma anche di straordinaria intelligenza, anche matematico‑scientifica. Sentire una persona colta di oggi che scherza e quasi si vanta della sua ignoranza scientifica è altrettanto triste che sentire uno scienziato che si vanta di non avere mai letto una poesia. Poesia e Scienza sono entrambe creazioni dello spirito che creano nuovi modi di pensare il mondo, per farcelo meglio capire. La grande Scienza e la grande Poesia sono entrambe visionarie, e talvolta possono arrivare alle stesse intuizioni. La cultura italiana odierna che tiene Scienza e Poesia separate è sciocca, perché si rende miope alla complessità e alla bellezza del mondo. ‑che sono rivelate da entrambe.
Tutte le stelle di Dante (e di Einstein)
di Armando Massarenti (Il Sole-24 Ore, Domenica, 27.03.16)
Il 20 gennaio 1320, a 55 anni, Dante Alighieri tenne una lezione pubblica di cosmologia presso la chiesa di Sant’Elena a Verona. Astronomia e astrologia, a quei tempi, erano due artes distinte ma percepite come complementari: le stelle e le intelligenze angeliche si pensava intervenissero nelle vicende terrene infondendo specifiche virtù. Che cosa ne penserebbe la scienza di oggi? Dante e le stelle, edito da Salerno è scritto a quattro mani dall’astrofisico Attilio Ferrari e dallo storico della letteratura Donato Pirovano, è un’affascinante risposta a questa domanda.
Nel Convivio, ma soprattutto nella Divina Commedia, tocchiamo con mano quanto Dante fosse esperto di stelle. Gli eventi cardinali della sua vita - il primo incontro con Beatrice, la morte di lei, l’incontro con la Donna Gentile (allegoria della Filosofia), la crisi spirituale dalla quale si rialzerà attraverso l’allegorico e immaginifico viaggio di salvazione narrato nella Commedia - per Dante assumono un senso possibile solo se vengono raccontati in stretta relazione con le costellazioni, attraverso le quali connette la sua vita con Dio.
Smarrito nella selva oscura - era il 25 marzo o l’8 aprile del 1300 - è confortato dall’intravedere il Sole che sorge accompagnato dalla benaugurante costellazione dell’Ariete, la stessa presente nel cielo al momento della creazione di Adamo. Il pianeta Venere - la “stella” che infonde la virtù d’amore spirituale - brillare sull’orizzonte marino del Purgatorio al punto da offuscare la costellazione dei Pesci. Dante è appena uscito dal buio infernale e ha ormai la certezza che, per intercessione dell’amore di Maria e di Beatrice, la salvezza spirituale e la carità di Dio lo attendono. I riferimenti astronomici, com’è ovvio, si moltiplicano poi nella terza cantica, quando il viaggio ha luogo proprio di tra le sfere del Paradiso.
L’astronomia aristotelico-tolemaica, mutuata da Tommaso d’Aquino, - unita a una teologia della luce e a un emanatismo di stampo neoplatonico - prevede un sistema geogentrico: attorno alla terra, girano sette sfere celesti di materiale incorruttibile, ciascuna governata da una schiera angelica e caratterizzata da una stella o pianeta; seguono il cielo delle Stelle Fisse e quindi il Primo Mobile, la sfera più veloce di tutte perché la più vicina a Dio e anche quella che infonde alle sfere inferiori il movimento. La decima sfera, la più esterna, è l’Empireo: si tratta di una dimensione al di fuori dello spazio e del tempo, fatta di non-materia, di una sostanza puramente spirituale; è qui che avviene la visione della Rosa dei Beati e quindi di Dio, contemplato come una sorgente luminosissima e ardente d’amore che muove l’intero universo.
Nella descrizione dell’Empireo, però, pare esservi una specie di contraddizione. Se il cosmo è fatto di sfere concentriche sempre più grandi, e se la sede di Dio - l’Empireo - è la sfera più ampia che abbraccia e contiene tutte le altre sottostanti, come mai allora Dante parla di Dio non come di una sfera bensì come di un «punto» luminosissimo? «Un punto vidi che raggiava lume acuto». L’ipotesi sorprendente è che l’intuizione poetica di Dante possa avere ideato non una sfera, ma una ipersfera, al cui centro è Dio, fonte di luce e di calore (empyrios: ardente) da cui si origina tutto l’universo.
Nella visione geometrica e cosmologica contemporanea, inaugurata dalle teorie di Einstein, un’ipersfera è una sfera in uno spazio a più di tre dimensionii, che ammette che vi sia un centro esterno che al contempo è il centro di tutta l’ipersfera stessa: «grazie all’intuizione dantesca, “perno” del mondo è quel punto ineffabile che è il centro del creato e al tempo stesso circonda tutta la creazione in un abbraccio cosmico».
Oggi non osserviamo più il cielo stellato a occhio nudo, né vi immaginiamo le schiere angeliche. «Esistono, però, delle analogie con il cosmo dantesco: anche il nuovo universo si è sprigionato da un “punto”, la sua origine è il risultato di una concentrazione energetica da un punto che si è espanso vertiginosamente con un violento Big-Bang, dando origine allo spazio e al tempo e a tutto il mondo sensibile. (...) Ma che cosa c’è “fuori”, in che cosa si espande l’universo?».
Esiste un equivalente dell’Empireo dantesco? Al momento, «in quanto a comprensione del “tutto”, siamo ancora nella selva oscura. La scienza ci aiuta a vivere, l’arte ci aiuta a sognare e a vedere oltre la realtà, forse fino all’Empireo o iperspazio che dir si voglia», concludono gli autori. Ma non bisogna mai pensare che l’immaginazione sia prerogativa di un solo ambito umano. In Dante è sempre attiva e non fa di queste distinzioni.
“Buchi bianchi” di Carlo Rovelli
Recensione a: Carlo Rovelli, Buchi bianchi. Dentro l’orizzonte, Adelphi, Milano 2023, pp. 144, 14 euro (scheda libro)
Scritto da Francesco Nasi *
In Buchi bianchi, Carlo Rovelli, professore all’università di Aix-Marseille, dove è responsabile dell’Equipe de gravité quantique del Centre de physique théorique, parla di quello che può essere considerato a ragione uno dei misteri più affascinanti dell’universo: che cosa c’è dentro un buco nero, al di là della fine del tempo? Dopo Sette brevi lezioni di fisica, L’ordine del tempo, Helgoland e il più recente Relatività generale, Rovelli affronta un argomento che, da un lato, unisce tanti dei temi toccati nei lavori precedenti e, dall’altro, gli permette di attingere direttamente alla sua ricerca scientifica, con il contributo che ha dato allo sviluppo della teoria della gravità quantistica.
Un buco nero si forma generalmente quando una stella, esaurendo il proprio carburante, non riesce più a sostenere il proprio peso e collassa su sé stessa. La massa si concentra in un unico punto, detto singolarità, che viene però celato dall’orizzonte degli eventi, in un certo senso il “confine” del buco nero. All’interno di questa superficie la gravità è talmente grande da impedire a qualsiasi cosa, anche alla luce, di uscire. Al di fuori, lo spazio-tempo è comunque profondamente deformato, tanto da rallentare significativamente lo scorrere del tempo. Come insegna la relatività generale, il tempo è relativo e scorre in maniera diversa in vari punti dell’universo a seconda della forza di gravità. Questa diversità è quindi relativa ad altri luoghi, non assoluta. Non esiste un tempo giusto universale, ma tanti orologi che scorrono alla velocità giusta per quel luogo. Quindi, rispetto a qualcuno che guarda da lontano, il tempo sull’orizzonte degli eventi scorrerà lentissimo. Ma per chi è sull’orizzonte degli eventi, e quindi si paragona a sé stesso, non troverà alcuna differenza.
Fatta questa spiegazione, Rovelli inizia un affascinante paragone tra la discesa di Dante e Viriglio all’Inferno e il viaggio di chi avesse l’opportunità di attraversare l’orizzonte degli eventi. Questo è possibile grazie alle equazioni di Einstein, che ci suggeriscono come possiamo immaginare l’interno di un buco nero.
Si tratterebbe di una sorta di “imbuto”, scavato dalla stella morta, tanto più lungo e più stretto quanto più tempo è passato dalla nascita del buco nero. In fondo a questo imbuto si trova la singolarità: le sue dimensioni sono, per definizione, nulle, dunque sta al di sotto della scala di Planck, oltre la quale relatività generale e meccanica quantistica, da sole, non sembrano funzionare.
In corrispondenza della singolarità, dove la gravità farebbe “fermare il tempo”, la teoria della gravità quantistica a loop avanzata da Rovelli propone che avvenga invece una transizione quantistica da una configurazione dello spazio a un’altra. In sostanza, Rovelli suggerisce che, una volta entrata nella zona quantistica, la stella non continui a cadere, ma al contrario “rimbalzi”, tornando indietro, riallargando l’imbuto e formando appunto un “buco bianco”, ovvero un buco nero ribaltato, in cui il tempo è rovesciato. Se da quest’ultimo si può solo entrare, dal buco bianco si può soltanto uscire. Eppure, dall’esterno non cambierebbe nulla: buchi neri e bianchi sarebbero per tanto indistinguibili da fuori.
Le conseguenze di questo fatto aprono domande profonde sul senso e la natura del tempo, non solo per la fisica in sé e per sé, ma anche e soprattutto per gli esseri umani. Il tema viene affrontato nella terza parte del libro, da cui esce una chiave di lettura estremamente affascinante, ovvero quella del rapporto tra equilibrio e disequilibrio:
Il successo di Rovelli è uno dei pochi casi (almeno nel panorama italiano) in cui uno studioso affermato per il suo lavoro scientifico riesce a portare avanti un’attività di divulgazione parallela che raggiunge anche il grande pubblico. Un successo che, al di là degli argomenti trattati, trova radici in vari aspetti. Primo, una scrittura accessibile anche a chi è privo di solide basi scientifiche. Non ci sono infatti lunghe formule o complesse dimostrazioni matematiche che potrebbero rendere difficoltosa la lettura. Al contrario, ogni termine potenzialmente tecnico è spiegato in maniera semplice, se non addirittura evitato per rendere ulteriormente fruibile il testo. Se è vero, come ammette lo stesso Rovelli (pp. 101-102) che questo potrebbe scontentare un certo tipo di lettore, più attento e informato, è altresì vero che la profondità e le prospettive che riesce ad aprire, anche da un punto di vista umanistico, sono in grado di parlare ad un ampio pubblico. Ne sono un esempio le numerose citazioni letterarie, da Dante a Montale, da Carroll a Tolkien, che aiutano ad approfondire il lato universale e popolare (nel senso che può rivolgersi a chiunque) di una scienza che, troppo spesso, appare riservata ad una ristretta élite di specialisti. -È lo stesso autore, soprattutto nella parte finale del volume, a spingere su questa strada, ad esempio proponendo una visione della realtà in cui ogni cosa è strettamente connessa: secondo Rovelli noi non studiamo l’universo in un asettico rapporto tra soggetto e oggetto, ma in quanto appartenenti a quello stesso universo, attratti dalla comune appartenenza alla realtà, al punto da poter dire al mondo, come fanno tra loro gli animali ne Il libro della giungla di Kipling, «siamo dello stesso sangue, tu ed io» (p. 124).
Secondo, la scrittura di Rovelli si caratterizza per un’eleganza che stimola nel lettore quel senso di mistero, meraviglia e paura che soltanto le grandi domande esistenziali possono dare. Se, come sostenevano i greci, la filosofia (e, più in generale, la volontà di sapere) hanno origine nel thaumazein, la sensazione di meraviglia di fronte al mistero, che in parte spaventa e in parte affascina l’essere umano, allora possiamo affermare che i libri di Rovelli sono veri e propri moltiplicatori di thaumazein.
In un momento storico in cui è facile cedere alla pigrizia intellettuale e tutto lo scibile umano sembra a portata di una veloce richiesta a Chat GPT, riuscire a stimolare l’amore per il sapere inteso non come volontà di accumulare più conoscenze per poter essere “migliore” degli altri, ma come amore per il mistero, come costante tensione verso l’ignoto, è un lavoro cruciale che va ben oltre l’ambito scientifico e che ha ricadute importanti anche sul nostro modo di vivere nella società.
Significa, infatti, educarsi a sospendere il giudizio di fronte alla complessità, ascoltare le opinioni altrui, non ritenere mai assoluta la propria conoscenza. Significa, in altre parole, fare un utile esercizio di democrazia, intesa come dialogo e confronto con l’altro.
Questo si lega a un terzo e ultimo aspetto, ovvero lo stile di divulgazione. Negli ultimi anni, si è diffuso un tipo di divulgazione scientifica particolarmente virulenta, che a volte sembra più concentrata sull’attaccare e denigrare “l’avversario” che sul diffondere davvero il sapere. Certo, la fisica teorica è un ambito politicamente meno sensibile rispetto ai vaccini o alle fonti di energia rinnovabile, e quindi il rischio di una polarizzazione del dibattito è considerevolmente minore. Dall’altra parte, sarebbe utile domandarsi quali siano i vantaggi di tale virulenza, e se un approccio più pacato, cauto e rispettoso delle opinioni altrui (anche se scientificamente non supportate, magari per ignoranza o per mancanza di mezzi) non potrebbe rivelarsi più efficace.
L’atteggiamento di Rovelli non è quello del maestro che rivela ai propri discepoli un sapere dogmatico, ma piuttosto quello del fratello maggiore che accompagna, consapevole dei limiti suoi e della propria disciplina. Troppo spesso, infatti, nel dibattito pubblico si dimentica che la caratteristica principale della scienza non è quella di produrre verità incontestabili, ma proprio quella di poter contestare (o falsificare, per dirla con Popper) le verità stabilite in una costante tensione verso una conoscenza migliore.
Insomma, lo scienziato non è colui che non sbaglia mai, ma proprio chi riesce ad ammettere di aver sbagliato, per quanto possa essere difficile. Non è chi ha ragione, ma chi può dimostrare di non avere ragione. Come scrive Rovelli: «è il bello della scienza: non c’è nulla di male nel ricredersi: impariamo. Gli scienziati migliori sono quelli che si ricredono spesso, come faceva Einstein» (pp. 27-28).
È questo atteggiamento che sembra oggi mancare, e che pure potrebbe essere così prezioso nel diffondere una sana cultura scientifica nel nostro Paese. Si tratta di un lavoro sicuramente complesso, che a Rovelli riesce però in maniera eccezionale. Non solo perché Buchi bianchi. Dentro l’orizzonte è un (altro) piccolo capolavoro di divulgazione scientifica, estremamente piacevole da leggere. Ma anche perché si tratta di un libro umanamente profondo, umile e allo stesso tempo coraggioso, che apre spazi di riflessione e costruisce ponti tra diverse branche del sapere.
* Pandora Rivista, 11 marzo 2023 (ripresa parziale).
Sulle piste di sabbia. Folate di vento negli occhi e nei capelli. Ovvero la paura della libertà
di Angelo Casati ("mosaico di pace”, ottobre 2010)
Sento rinascermi in cuore di tanto in tanto e ancora non è spenta - eppure di anni se ne sono srotolati da allora, più di dieci - la nostalgia di un’estate in Giordania, nostalgia delle piste di sabbia del deserto. Piste infinite, inafferrabili, a smarrimento di occhi e folate di vento. Negli occhi e nei capelli. E fu desiderio una sera di fissare in righe quella straniante emozione, con gli occhi che già andavano ai giorni futuri:
Sulle piste di sabbia.
E mi sveglierò
su strade grigie
e griderò inascoltato
l’assenza.
Orfano
della magia del deserto
delle sabbie rosate
delle rocce
ubriache di colore.
E sognerò
folate di vento
di libertà
e sabbia nei capelli
spazi senza recinti
e l’eco dopo millenni
di messaggi segreti
i-ncisi da beduini
su rocce di basalto.
A segnalare
ai nomadi del futuro
piste segrete
d’indipendenza
nell’infuocato deserto.
Nostalgia di spazi e di libertà, che si fa ferita per restrizione, ora che le case, come fossero picchetti, fanno barriera da un lato e dall’altro della strada e negano sconfinamento alla sete degli occhi, cancellando l’oltre, impoverendo visioni. Mi odo camminare nel segno della restrizione e del contenimento. Quasi fosse scritto divieto, divieto a una sete che chiamo sete di libertà.
tra menzogna e verità
E sento, soffro sulla pelle a incisione la ferita della menzogna, la menzogna circa la libertà. Soffro lo svilimento, l’estenuazione, la sconsacrazione di una parola che è sacra, fatta oggetto di prostituzione. Scrivono libertà su ogni dove, perfino sul nome dei partiti, antichi e nuovi, proprio là dove è trasalimento di paura a ogni sussulto pur minimo di indipendenza, là dove è in sospetto il libero pensare e il libero comunicare.
C’è dunque nelle stanze alte del potere, anche se non confessata, una paura della libertà. Che non è
solo di oggi. Chi di noi ha più anni sulle spalle ricorda come non raramente si giustificasse
l’imposizione di regole dall’alto o una cieca obbedienza con il fatto che il popolo, la gente semplice
si diceva - è lontana dall’essere matura e dunque va indirizzata. Conseguenza fu la crescita di
uomini e donne dipendenti, che pensavano di essere virtuosi, affidando la navigazione della
coscienza e dell’intelligenza ad altri. La libertà fa paura a chi sogna un potere assoluto.
Meglio avere vassalli obbedienti, accoliti del nulla, esecutori plaudenti, meglio una massa pilotabile e acclamante che un popolo maturo di pensanti e resistenti. E, confessiamolo, non sempre abbiamo avuto e abbiamo occhi e vigilanza per questo esproprio strisciante della libertà. Le lusinghe del potere sono altamente seduttive. A tal punto la loro fascinazione che a volte neppure ci si accorge che per un pugno di vantaggi si è sul punto di vendere la libertà. Con esiti di raccapriccio, perché un popolo della dipendenza non può che prefigurare panorami di disgusto.
Non è forse vero che nei giorni di fame, di sete, di stanchezza nel deserto era accaduto agli israeliti, sfuggiti al giogo del faraone, di rimpiangere le pentole della carne e le cipolle d’Egitto? Come se vendere la libertà non costituisse baratto di cecità e di mostruosa insipienza.
La lusinga accompagnò nei secoli futuri il popolo di Dio, che si illuse, succede anche oggi, che rimedio ai problemi cruciali del tempo fosse l’entrata in scena dell’uomo forte, l’uomo della provvidenza. Così gli israeliti pretesero da Dio un re. Ma non erano forse usciti i loro padri dall’Egitto, per sfuggire a una sottomissione? Alla sottomissione a un re, il faraone, che si era fatto come Dio, Dio in terra?
Ebbene Dio rispettò la decisione, ma attraverso le parole del vecchio Samuele mostrò quali
sarebbero stati i costi di questa scelta, svelando ciò che sarebbe avvenuto in futuro.
Il futuro della
concentrazione del potere in uno solo sarebbe stato l’abuso e lo sfruttamento. Li mise
sull’avviso: il re, il capo assoluto, avrebbe preso i loro figli per l’esercito; avrebbe preso le loro figlie
per il suo harem; avrebbe preso i loro campi, le loro vigne, i loro oliveti più belli, e li avrebbe dati ai
suoi ministri, avrebbe preso mano d’opera e bestiame, li avrebbe adoperati per i lavori in casa sua e
dei suoi cortigiani.
Sembra di leggere una pagina dei nostri tempi, una descrizione impietosa dei meccanismi e degli esiti di un potere che si arroga il diritto di essere assoluto, assoluto e insindacabile, e piega tutto e tutti ai suoi interessi. La Bibbia conosce questa facile perversione del potere, ed è estremamente critica. La lusinga, dobbiamo riconoscerlo, accompagnò e ancora oggi accompagna, il popolo dei credenti.
Voci di Padri antichi, voci di vigilanti, già nei primi secoli, mettevano in guardia dall’esproprio
strisciante e sottile della libertà ad opera di atei devoti. Una delle voci lucide, quella di Ilario di
Poitiers, scriveva:
"Combattiamo contro un persecutore insidioso, un nemico che lusinga: non ci
flagella la schiena, ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni per la vita ma ci arricchisce
per la morte; non ci sospinge col carcere verso la libertà ma ci riempie di incarichi nella sua
reggia per la servitù: non spossa i nostri fianchi ma si impadronisce del cuore; non taglia la testacon la spada ma uccide l’anima con il denaro; non minaccia di bruciare pubblicamente, ma accende la geenna privatamente. Non combatte per non essere vinto, ma lusinga per dominare; confessa il Cristo per rinnegarlo; favorisce l’unità per impedire la pace; reprime le eresie per sopprimere i cristiani; carica di onori i sacerdoti [...] costruisce le chiese per distruggere la fede. Ti porta in giro a parole, con la bocca [...]".
Così Ilario di Poitiers, grande padre della Chiesa. Parole che ci chiamano con forza alla vigilanza, non solo fuori ma anche dentro le Chiese. Non è forse vero che troppo disinvoltamente e presuntuosamente ci definiamo donne e uomini liberi? Ricordate quel gruppo di dirigenti Giudei che a Gesù obiettano: "Come puoi dire: sarete liberi? Noi non siamo schiavi di nessuno".
Anni fa mi capitò di leggere, tra gli aforismi di Luigi Erba, uno che registrava con sottile disincanto la situazione della nostra libertà, scriveva: "Si parla di società permissiva e si inventa un’illusione. In realtà si vive in una selva di divieti e di costrizioni. Molte libertà si conquistano solo con i privilegi e i privilegi si ottengono con la violenza. I privilegi sono di pochi potenti e, a discendere, dei loro portatori d’acqua con le orecchie. Un gran numero di formiche, lavorano per pochi e le poche cicale pretendono che le formiche cantino per intrattenerle". Un pessimismo forse in eccesso, ma non totalmente ingiustificato.
Può succedere purtroppo che perfino all’interno degli spazi ecclesiali a volte la sensazione sia di vivere in un regime di libertà vigilata. Succede quando la libertà viene evocata più per mettere in guardia dalle sue possibili derive che per annunciarne la bellezza e la forza, bellezza e forza di un messaggio che trascina, fa alzare il capo e sprigiona vento di insurrezione, di indipendenza dai mille faraoni che pretendono sudditi devoti. Ci accomuna una vocazione, quella ad essere donne e uomini liberi. Sì, una vocazione. Di tutti. Come dirà Paolo nella lettera ai Galati: "Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà" (Gal 5,13).E ancora: "Cristo ci ha liberati per una vita di libertà" (Gal 5,1).
e la nostra immagine?
Mi chiedo se quando entriamo negli spazi del vivere quotidiano, nel confronto con le donne e gli uomini del nostro tempo, l’immagine che diamo sia quella della libertà dello Spirito o quella di coloro che sono preoccupati di porre paletti o di disegnare recinti. Diamo una notizia buona?
Mi suonano lontane, quanto lontane, le parole che Paolo VI - e volevano essere parole profetiche
pronunciò in un’udienza generale, il 9 luglio 19 69 . Diceva: "Il nostro tempo di cui il Concilio si
fa interprete e guida, reclama libertà. Avremo un periodo nella vita della Chiesa, perciò nella vita di
ogni figlio della Chiesa, di maggiore libertà, cioè di minori obbligazioni legali e minori inibizioni
interiori. Sarà ridotta la disciplina formale, abolita ogni arbitraria intolleranza, ogni assolutismo,
sarà semplificata la legge positiva, temperato l’esercizio dell’autorità, sarà promosso il senso di
quella libertà cristiana che tanto interessò la prima generazione cristiana, quando si seppe esonerata
dalla legge mosaica e dalle sue complicate prescrizioni rituali".
Commentava Enzo Bianchi: "Sono parole di un Papa, del Papa che ha chiuso il Concilio. Oggi ci paiono distanti e quasi non più ripetibili senza destare sospetti, nella nuova situazione ecclesiale che si è delineata. Sono parole di cui occorre fare memoria". Da fissare a memoria con le parole di Paolo: "Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù" (Gal 5 ,1). Da niente e da nessuno. E sia vento di libertà sui nostri volti smunti
Ateismo, una via per arrivare a Dio
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 06.10.2010) *
È vero, pratico il consiglio del poeta Cecil Day Lewis, alias il giallista Nicholas Blake: mai lasciarsi coinvolgere in una discussione con dei teologi. Faccio, però, un’eccezione per rispondere alle garbate critiche che dalle pagine di «Avvenire» (5 ottobre) Vittorio Possenti rivolge al mio libro Senza Dio , edito da Longanesi. In breve, non mi sarei occupato abbastanza dell’Altissimo, rischiando così di «confondere il Signore con il Dio Padrone». Ma non è «padrone» il primo significato di quel termine - dominus - cui tanta teologia ha consacrato i suoi sforzi d’intelletto e sentimento?
Possenti mostra così che ho colpito nel segno, poiché la mia idea di ateismo è quella di una provocazione continua ai credenti e ai praticanti di qualsiasi religione a chiarire i loro presupposti, nella convinzione che questo lavoro serva a tutti, credenti o non credenti: l’ateismo è soprattutto un metodo.
Possenti mi chiede: per arrivare a che cosa? Potrei ribattere con le parole di un mio «lettore»: magari per «arrivare a Dio prescindendo da Dio». Ossia da tutte le gabbie in cui i signori della teologia e della morale hanno imprigionato il Dio che ci parla in grandi testi come i Vangeli o il Corano, facendone semplicemente un pretesto per giustificare coazione o gerarchia.
Concordo con Possenti che solo nella coscienza può sorgere l’esigenza della legge morale e civile, ma non vedo proprio perché io o qualsiasi altro «libertario» dobbiamo indicarne un qualche «fondamento» a cui sottometterci con spirito di «servizio».
La possibilità di costruire un’autentica solidarietà senza «fondarla come su solida roccia» (cioè, detto senza retorica, senza imporla a chi la pensa diversamente) non è un dettaglio accademico, ma una questione cruciale per qualsiasi democrazia matura. Proposta per gli amici di «Avvenire» (e per tutti i cattolici aperti al confronto delle idee): perché non proviamo a rispondere insieme?
* Nel sito, si cfr. acnhe:
Portateci le prove dell’esistenza di Dio
di Francesca Fornario (l’Unità, 06.10.2010)
A mensa: «Hai letto? Il cardinale Ruini è contrario al Nobel per la medicina al padre della fecondazione assistita. Dice che una coppia non può fare un figlio con il seme di un donatore esterno».
«E Gesù?». «Uhm, non ci avevo mai pensato». «È così che ci fregano, che uno non ci pensa. E pure se ci pensa non lo dice». «Ma cosa?». «Che Dio non esiste». «Che c’entra, non è questo il punto! Il punto è che i cardinali non devono interferire nella vita politica come fa Ruini. Pensa che lui il Nobel per la scienza lo avrebbe dato a Bagnasco». «E che ha scoperto?». «Che Berlusconi può invocare il legittimo impedimento anche per sottrarsi ai dieci comandamenti. Ha detto che le bestemmie vanno contestualizzate. Diavolo di un Bagnasco. È così legato a Berlusconi che vuole chiedere al Parlamento una commissione d’inchiesta contro Mosé».
«Non sarà il punto, ma non lo diciamo mai». «Ma cosa?» «Che Dio non esiste». «Che c’entra, non sono cose che si dicono!». «Tipo a Ballarò, in tv, in quei posti lì. Se si parla della legge sul fine vita o del crocifisso nelle scuole, non c’è mai un politico dei nostri che dice: ’Sapete, io non sono d’accordo a mettere il crocifisso in classe perché Dio non esiste e non è corretto dire le bugie’».
«Ma è una battaglia di retroguardia! Con la riforma Gelmini che ha ridotto il numero delle classi di crocifissi ne hanno dovuti mettere quindici in ogni aula. E sono gli unici che riescono ad allungare le gambe. E poi si fa presto a dire che Dio non esiste, bisogna provarlo».
«Dai, lo dicono il 95 per cento degli scienziati! E poi il Vaticano che prove ha dell’esistenza di Dio? Come fanno i Vescovi a sapere tutto di lui e a dettare legge se ammettono di non averlo mai visto se non prima di nascere?». «Come fanno con l’utero».
«Ma te lo immagini che cosa succederebbe se tutti insieme, pacatamente, dicessimo: Signori, se volete continuare a essere presi sul serio come interlocutori politici, portateci le prove dell’esistenza di Dio». «Sì. Che le pubblicherebbe Feltri».
Uno scienziato cambia idea Durante una conferenza a cui assistei nel 1970 uno scienziato di nome Frantis̆ek Vyskočil spiegò il complicato soggetto della trasmissione degli impulsi nervosi. Disse che ogni volta che in un organismo si presenta una necessità, viene provveduta una soluzione straordinaria. “La Natura, questa Incantatrice, sa come fare”, concluse. Dopo la conferenza lo avvicinai. “Non crede”, chiesi, “che il merito per l’eccellente progetto delle cose viventi dovrebbe essere attribuito a Dio?” La mia domanda lo colse di sorpresa, dato che era ateo. Rispose con domande di altro genere. Chiese: “Da dove è venuto il male?” e “Di chi è la colpa se tanti bambini sono orfani?” Le mie risposte ragionevoli, basate sulla Bibbia, destarono il suo interesse. Ma chiese perché la Bibbia non forniva precise informazioni scientifiche, come la descrizione della struttura di una cellula, affinché si potesse riconoscere facilmente che il suo autore è il Creatore. “Cosa è più difficile”, risposi, “descrivere o creare?” Gli prestai il libro L’uomo è venuto per mezzo dell’evoluzione o per mezzo della creazione? Dopo una lettura superficiale Frantis̆ek lo definì semplicistico e inesatto. Inoltre criticò ciò che la Bibbia dice della poligamia, dell’adulterio di Davide e di come questi fece uccidere un innocente. (Genesi 29:23-29; 2 Samuele 11:1-25) Confutai le sue obiezioni, facendogli notare che la Bibbia riferisce onestamente anche le mancanze dei servitori di Dio, come pure le loro vere e proprie trasgressioni. Infine, in una delle nostre conversazioni, dissi a Frantis̆ek che se uno non ha un buon motivo, se non ama la verità, nessun argomento o ragione lo convincerà dell’esistenza di Dio. Quando stavo per andarmene, mi fermò e mi chiese uno studio biblico. Disse che avrebbe riletto il libro L’uomo è venuto per mezzo dell’evoluzione o per mezzo della creazione?, questa volta senza pregiudizi. Poi il suo atteggiamento cambiò completamente, come si vede da questa frase che citò in una delle sue lettere: “La superbia dell’uomo terreno si deve inchinare, e l’alterigia degli uomini si deve abbassare; e Geova solo dev’essere innalzato in quel giorno”. - Isaia 2:17. Nell’estate del 1973 Frantis̆ek e sua moglie si battezzarono come testimoni di Geova. Attualmente egli serve come anziano in una delle congregazioni di Praga.
La scienza non ha rapporti con la verità, perché ciò che essa produce sono solo proposizioni "esatte", cioè "ottenute da (ex actu)" le premesse che sono state anticipate in via ipotetica. Che poi l’ipotesi sia confermata dall’esperimento dice solo che noi conosciamo la validità operativa di quell’ipotesi, non la natura della cosa indagata con quell’ipotesi, perché, interrogata, la cosa non mostra il suo volto, ma semplicemente risponde all’ipotesi anticipata.
La fede, a sua volta, non ha a che fare con la verità perché, lo dice Tommaso d’Aquino commentando Paolo di Tarso, la fede, a differenza della scientia espressa dalla ragione umana, conduce in captivitatem omnem intellectum, cioè rende l’intelletto prigioniero di un contenuto che non è evidente, e che quindi gli è estraneo (alienus), sicché l’intelletto è inquieto (nondum est quietatus) di fronte alla fede, nei cui riguardi si sente in infirmitate et timore et tremore multo. La fede, inoltre "crede" proprio perché non "sa".
Io non credo che due più due faccia quattro perché lo so. Posso invece credere nell’immortalità!!! dell’anima, proprio perché non lo so. E allora tra scienza e fede non c’è conflitto, perché la scienza risponde all’esigenza di una "spiegazione" del mondo, mentre la fede risponde all’esigenza di reperire un "senso" alla nostra vita e al nostro essere nel mondo.
La fede infatti, ce lo ricorda Pascal, non saprebbe cosa farsene di un Dio raggiungibile con gli strumenti della sola ragione,
Il Segretario di Stato Tarcisio Bertone è figura di grande equilibrio, ha accettato l’invito di giovedì sera a casa Vespa, alla presenza tra gli altri del premier Berlusconi e del leader Udc Casini, "Cenare con un amico politico non ci sarebbe niente di male, ma qui la posta in gioco è ben altra", "E’ incomprensibile che il cardinale Bertone dia l’impressione di stare a questo gioco, facendosi usare da una figura come il premier con cui non prenderei nemmeno un caffè e tantomeno darei l’ostia consacrata", lamenta un arcivescovo impegnato nella pastorale dell’immigrazione.
Distinti saluti...Sull’attenti!
NASCITA DELL’UNIVERSO E NASCITA DEGLI ESSERI UMANI: CROLLO DEL "DISEGNO INTELLIGENTE" DELL’IDEOLOGIA PLATONICA E CATTOLICO-COSTANTINIANA DI UN "DIO" COME "UOMO SUPREMO", IL "GRANDE ARTEFICE", IL DEMIURGO DELL’UNIVERSO E DELLA VITA DEGLI ESSERI UMANI ...
"Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio"
(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant
Il Nobel all’uomo che ha favorito la vita
di Maurizio Mori (l’Unità, 05.10.2010)
Una bella notizia, il Nobel a Bob Edwards. Lo scienziato inglese che dagli anni ’60 del secolo scorso si è impegnato nel mettere a punto la fecondazione in vitro con trasferimento di embrione: una tecnica che ha cambiato il modo di attuare la riproduzione umana e dato una svolta agli studi sull’embrione. Il Nobel non solo corona una vita dedita alla ricerca di un grande studioso di notevole spessore culturale, ma soprattutto è il sigillo dato dal mondo scientifico alla bontà della fecondazione assistita: la scienza riconosce che l’ampliamento del controllo umano della riproduzione è qualcosa di buono per l’umanità, di meritevole della massima onorificenza per uno scienziato.
Di fronte a un simile riconoscimento a dir poco impallidiscono le critiche mosse da alcune religioni alla nuova tecnica, accusata essere contraria alla “vita” e alla “dignità della procreazione”. Non si capisce proprio in che senso si possa dire che sia contraria alla vita una tecnica che ha consentito la nascita di ormai oltre 4.000.000 di bambini. Si dovrebbe dire al contrario che è una tecnica che favorisce la vita e consente alle persone di avere figli anche quando la natura non li dispensa più.
Ancora più difficile è capire perché dovrebbe essere contrario alla “dignità della procreazione” ricorrere all’assistenza tecnica per avere figli. Forse lo si può dire solo assumendo la “naturalità” come criterio normativo, supponendo che la natura sia buona e dimenticando come invece in realtà sia spesso avara e matrigna. Fortuna che l’uomo grazie alla scienza e alla tecnica riesce a rendere il mondo meno duro e più agevole.
Solo inveterati pregiudizi antiscientifici possono far pensare il contrario. Il Nobel a Edwards deve essere anche uno stimolo a ripensare l’etica e la politica sulla fecondazione assistita. In Italia, sfruttando abilmente lo sgomento generato da alcuni casi eclatanti di fecondazione assistita si è detto che c’era una preoccupante deregulation (il Far West), e si è approvata una legge liberticida che non solo penalizza un numero alto di cittadini nell’impegno di avere figli, ma ha fatto anche arretrare l’intera riflessione bioetica, favorendo ‘idea che la scienza comporti una sorta di “eccesso” da reprimere.
Oggi questo clima conservatore informa il disegno di legge Calabrò sul fine della vita che ci riporta a prima degli anni ’50, e aleggia come uno spettro sulla campagna elettorale che molti danno per imminente. Il premio Nobel a Edwards ci ricorda che la scienza è vettore di progresso morale e che molte delle remore diffuse sono frutto di pregiudizi e tabù. Invece di chiedere perdono per gli errori tra qualche anno, come già hanno fatto su altri temi, è bene chi i critici della scienza si ravvedano da ora, evitando inutili sofferenze.
Brava Rosy!
di Renato Sacco (mosaicodipace, 04.10.2010)
Punti di vista. Anche le barzellette, e sono tante, contro ebrei e donne che il nostro Presidente ci ha raccontato rischiano di essere commentate dal punto di vista dei potenti o dell’opportunità politica. Per l’ultima barzelletta (rubata al contesto privato, cosa gravissima, ha accusato qualcuno!) contro le donne e contro Rosy Bindi, con tanto di bestemmia finale, molti commenti, anche prese di posizioni critiche, per fortuna. Io però volevo guardare questa situazione dal punto di vista della. vittima, Rosy Bindi appunto.
A lei va tutta la solidarietà, ovviamente, ma soprattutto la stima e il ringraziamento per aver dimostrato di essere una donna e una credente a testa alta. Ha risposto sempre con pacatezza e fermezza, in modo nonviolento, sia al Presidente sia a qualche autorevole Vescovo romano che invitava a ’contestualizzare’ e a non fare polemiche pretestuose.
Brava Rosy! Brava come donna, laica, che non ostenta la propria fede come una spada contro qualcuno, ma nemmeno la nasconde, e proprio in questa occasione manifesta tutta la sua coerenza e maturità. Al di là di tutto, quello che si dovrebbe dire di fronte a questa brutta storia (le battute contro gli ebrei, le barzellette contro le donne raccontate ai militari...) credo sia giusto esprimere un grazie sincero a questa donna, esempio di un laicato maturo, adulto, che sa pensare con la propria testa e che non si fa intimidire dai potenti, né quando sono politici né quando sono Pastori.
"Anch’io penso - dice Rosy Bindi - che contestualizzare fatti e parole sia importante... La contestualizzazione è in fondo un esercizio di laicità ma potrebbe diventare relativismo. Se è così, c’è qualcosa di contraddittorio e profondamente diseducativo nel minimizzare la blasfemia del premier. Ha senso - continua - invocare l’impegno di una nuova generazione di politici cattolici chiamati a fare la giustizia e a dare il buon esempio nel servizio alla comunità, e poi autorizzare volgarità e bestemmie a seconda dei contesti? Non c’è giustizia se non è accompagnata da un po’ di onestà, di coerenza personale e per i credenti non c’è carità senza verità".
Grazie, Rosy. E spero che siano in molti, anche preti e Vescovi, ad esprimerti la propria solidarietà, come donna e come credente adulta.
di Adriano Sofri (la Repubblica, 05.10. 2010)
Chi tenga il conto degli uomini che ammazzano le donne annovererà l’uxoricidio di Novi (Modena) in questa categoria, alla data del 3 ottobre.
Alla data del 4, appena un giorno dopo e a qualche chilometro da lì, nel Piacentino, un uomo ha ridotto in fin di vita la sua convivente, trafiggendole la schiena con un forcone. Per questa voce, "Uomini che uccidono le donne", i dettagli sono secondari.
A Novi l’uomo, 53 anni, che ha ucciso a colpi di mattone la moglie, Begm Shaneez, 46 anni, era, come lei, pachistano, e pachistano il figlio maschio, 19, che ha ridotto in coma a sprangate sua sorella, Nosheed, 20 anni.
A Castelsangiovanni, sono italiani, piacentini ambedue, lui 60 anni, e lei 41. Sarà diverso il registro di chi invece tenga nota dei pachistani che ammazzano le donne o, rispettivamente, dei musulmani che ammazzano le donne.
Gli uni avranno annotato in particolare l’assassinio di Hina, 20 anni, sgozzata nel 2006 dal padre a Sarezzo, Brescia, gli altri quello di Sanaa, 18 anni, sgozzata nel 2009 dal padre fin quasi a decapitarla, a Pordenone.
Sono i casi più famosi in elenchi fitti. Ogni volta si ripeterà doverosamente che le generalizzazioni sono arbitrarie e disastrose. "I musulmani ammazzano le donne", o "i pachistani ammazzano le donne" - o, del resto, "i cristiani ammazzano le donne". Tuttavia, senza una misura convenzionale di generalizzazione, non sapremmo né ragionare né comunicare. Così, quando diciamo che "gli uomini ammazzano le donne", sappiamo naturalmente che non tutti gli uomini ammazzano le donne, ma intendiamo che parecchi uomini, e senz’altro troppi, ammazzano donne.
In Italia, per esempio, l’anno scorso sono state assassinate (almeno, i dati non sono completi) 119 donne, 147 nel 2008, 181 nel 2006, più di 600 tra il 2006 e oggi. Se dicessimo che "le donne uccidono gli uomini" la generalizzazione sarebbe molto più infondata, dal momento che le donne che uccidono uomini sono una minima percentuale degli omicidi fra persone di sesso differente.
Quella arbitraria dichiarazione - gli uomini uccidono le donne - allude anche, per eccesso, a un’altra verità: che gli uomini, anche quelli che si astengono con orrore dall’ammazzare e violentare e picchiare donne, se non sono ipocriti con se stessi e sono disposti a frugare nella propria formazione, sentono di avere a che fare con l’impulso che spinge i loro simili a quell’orrore. Se ne tengono a distanza dandogli nomi di sicurezza come "raptus" e follie. Sono tentato di dire che gli assassinii di donne stanno al maschilismo come gli attentati contro gli ebrei stanno all’antisemitismo.
Il succo della "Sonata a Kreutzer" è questo: che, secondo Tolstoj, chiunque può ammazzare la propria moglie. Lui non lo fece, però lo scrisse. Le uccisioni di donne, anche quando sono privati, anche quando sono l’opera di uomini miti - "tranquilli", diranno i vicini - e da un assassinio solo, sono efferati.
A Novi di Modena, una ferocia infame si è compiuta così: due uomini, un padre e un figlio, si sono accaniti su due donne, moglie e sorella, ripetendo e però rovesciando il modo dell’agguato a Hina. Lì, la violenza del padre e dei suoi parenti maschi complici si era procurata poi il consenso, chissà quanto forzato e rassegnato, della madre di Hina. Qui, la madre di Nosheed ha dato la vita per proteggerla.
Ha fatto bene il ministro Carfagna a parlare di "deliri patriarcali". Fanno bene quelli che ricordano che il delitto d’onore è uscito dal nostro codice nel 1981 appena ieri (e dalle nostre teste, chissà) e che appunto gli uomini ammazzano le donne, e di preferenza le "loro" donne - mogli, fidanzate, amanti, come nella singolare espressione che estende la proprietà - "la mia donna" - oltre la data di scadenza - "la mia ex-donna". "Uccide la sua exfidanzata".
(Ahimé, anche il comandamento, "la donna d’altri"). E se no le prostitute, che non sono di nessuno, dunque di tutti, dunque "mie". Quanto al modo in cui il cristianesimo ha innovato nella condizione della donna (e dei bambini, soprattutto introducendo una tenerezza e più tardi un amore cavalleresco) e insieme ha accolto e perpetuato una soggezione patriarcale, e non di rado una veemente misoginia, è un fatto che oggi è più difficile adattare una cultura cristiana alla brutalità contro le donne. La quale troppo spesso si compie, ma contro la sua ispirazione. Ne abbiamo appena riparlato a proposito della più tradizionale delle pratiche contro le donne: le mutilazioni genitali - o d’altra parte dell’abbigliamento teso a occultare la vista della donna (che sia vista,e che veda, anche). Per questi usi il relativismo per conto terzi richiama la complicità di nonne e madri infibulate e autrici a loro volta dell’infibulazione delle loro bambine, come se ne risultasse una loro responsabilità libera, e non la più trista prova del dominio patriarcale. Cui meravigliosamente si ribellano tante donne (le bambine, si erano sempre ribellate, e tenute ferme a forza come in una tortura), com’è successo l’altro ieri nel giardino mattatoio di Novi.
Queste pratiche, tradizionali e patriarcali, e sconfessate (non sempre, del resto) dalle autorità di tutte le religioni, sono state però incorporate e fissate, e a volte inasprite, in molti paesi dalla tradizione islamica. Lo conferma proprio l’argomento invocato per smentirlo: cioè che costumi e prescrizioni misogine non appartengano al Corano, ma risalgano a prima dell’Islam. Esso è diventato il pretesto per una «riconquista» delle donne alla modernità: nella «rivoluzione» khomeinista che ha ricondotto in cattività le donne iraniane, o in quella taliban che la sta perseguendo.
Ho letto la sterminata trilogia di Stieg Larsson diffidando, e ricredendomi. A cominciare dal titolo, "Uomini che odiano le donne", dunque le uccidono. A stare alle motivazioni che un gran numero di loro fornisce a se stesso e al pubblico, si potrebbe dire anche "Uomini che amano le donne", dunque le uccidono.
(I francesi, campioni di eufemismo, hanno tradotto: "Uomini che non amano le donne"!). Larsson è stato un campione dell’impegno contro il razzismo e il fascismo nella sua Svezia. I suoi romanzi hanno finito per offrire la miglior chiave di interpretazione del recente voto svedese, segnato dal successo del partito xenofobo e nazisteggiante.
Se la libertà è misurata prima di tutto dalla libertà delle donne - la Scandinavia ne fu un esempio precoce e proverbiale, fino allo scherzo - l’immigrazione che trascina con sé il peso di una tradizione patriarcale e sperimenta nella nuova condizione lo scontro fra i suoi maschi e le sue donne, eccita lo spettro dell’aggressione e della rivalsa sulle donne libere. Due modi distanti e perfino opposti di "odiare le donne" rischiano di congiurare contro la loro libertà - e incolumità. La nuova demografia di Malmoe coincide strettamente con la sua nuova mappa elettorale. L’alternativa starebbe, all’opposto, nella congiura di donne libere e donne immigrate, cui leggi, istituzioni e forza pubblica dovrebbero mettersi al servizio.
Pochi giorni fa, il 23 settembre, a Scandolara (Cremona) una donna indiana di 25 anni, Rupika, si è cosparsa di benzina a casa sua e si è data fuoco ed è morta. Aveva perso il lavoro, in un ristorante, e aveva paura, scaduto il permesso di soggiorno, di essere rimpatriata. Ho letto che in India l’aspettava un matrimonio combinato. Chissà. Non si può far a meno di pensare a una ragazza che si è data fuoco qui, dove si sentiva libera, per non tornare nel proprio paese, dove una solenne tradizione vuole bruciare vive le vedove sul rogo dei mariti morti.
INFERNO Termine usato nella maggior parte delle traduzioni più antiche e anche in alcune versioni moderne per tradurre l’ebraico sheʼòhl e il greco hàides. Nella Diodati la parola “inferno” traduce 20 volte sheʼòhl e 8 volte hàides. Questa versione tuttavia non è coerente perché sheʼòhl viene pure tradotto 38 volte “sepolcro”, 7 volte “sotterra” o “luogo sotterra”, ecc. Nei primi anni del ’900, Oscar Cocorda pubblicò Il Nuovo Testamento e i Salmi tradotti dal testo originale, “secondo le ultime e più esatte recensioni”. Nelle Scritture Greche, ogni volta che ricorre, il termine greco viene traslitterato “Adès” e in una nota in calce viene precisato che è “sinonimo di Sceol” (p. 17, nota c). Nei Salmi l’ebraico sheʼòhl una volta viene traslitterato “Sceol” e 15 volte è reso “Soggiorno dei morti”. Pochi anni dopo uscì la nuova traduzione di Giovanni Luzzi in cui i due termini sono coerentemente traslitterati “Sceòl” e “Hades”, consuetudine invalsa anche in altre traduzioni moderne, sia in italiano che in altre lingue. A proposito dell’uso di “inferno” per tradurre i termini originali ebraico e greco, un dizionario biblico (Vine’s Expository Dictionary of Old and New Testament Words, 1981, vol. 2, p. 187) dice: “HADES . . . Corrisponde a ‘Sceol’ nell’A.T. . . . è stato poco felicemente reso ‘Inferno’”. Alla voce “Inferno” la Collier’s Encyclopedia (1986, vol. 12, p. 28) dice: “In primo luogo corrisponde all’ebraico Sceol dell’Antico Testamento e al greco Ades della Settanta e del Nuovo Testamento. Poiché Sceol ai tempi dell’Antico Testamento si riferiva semplicemente alla dimora dei morti e non comportava alcuna distinzione morale, la parola ‘inferno’, come la si comprende oggi, non è una traduzione felice”. È proprio il significato che si attribuisce oggi al termine “inferno” che lo rende una traduzione ‘poco felice’ dei termini biblici originali, mentre il latino infernum (da cui il nostro “inferno”), neutro sostantivato dell’aggettivo infernus (che vuol dire “di sotto, che si trova in basso, posto sotto, inferiore”), fondamentalmente significa “profondità”. In origine il termine “inferno” non dava affatto l’idea di un luogo caldo o di tormento, ma semplicemente di un ‘luogo coperto o nascosto’ e aveva quindi significato molto simile all’ebraico sheʼòhl. Il significato attualmente attribuito al termine “inferno” è quello datogli nella Divina Commedia di Dante e nel Paradiso perduto di Milton, significato del tutto estraneo alla definizione originale del termine. L’idea di un “inferno” di tormento infuocato è tuttavia molto più antica di Dante o di Milton. Alla voce “Inferno” la Grolier Universal Encyclopedia (1971, vol. 9, p. 205) dice: “Indù e buddisti ritengono l’inferno un luogo di purificazione spirituale e di risanamento finale. La tradizione islamica lo considera un luogo di punizione eterna”. Il concetto di sofferenza dopo la morte è presente anche nelle dottrine religiose pagane di popoli antichi in Babilonia ed Egitto. Credenze babilonesi e assire descrivevano l’“aldilà . . . come un luogo pieno di orrori, . . . dominato da dèi e demoni molto potenti e truci”. Benché gli antichi testi religiosi egiziani non dicano che il tormento del singolo dannato nel fuoco sia eterno, in effetti menzionano “voragini di fuoco” riservate ai “dannati” nell’“Aldilà”. - Morris Jastrow jr., The Religion of Babylonia and Assyria, 1898, p. 581; The Book of the Dead, con introduzione a cura di E. Wallis Budge, 1960, pp. 135, 144, 149, 151, 153, 161, 200. Dato che l’“inferno di fuoco” è stato per molti secoli un insegnamento fondamentale della cristianità, si comprende perché l’Encyclopedia Americana (1956, vol. XIV, p. 81) dica: “Molta confusione e incomprensione è dovuta al fatto che i primi traduttori della Bibbia resero persistentemente la parola ebraica Sceol e quelle greche Ades e Geenna con la parola inferno. La semplice traslitterazione di queste parole da parte dei traduttori nelle edizioni rivedute della Bibbia non è stata sufficiente a chiarire apprezzabilmente questa confusione e opinione errata”. Comunque, traslitterando e rendendo in modo coerente questi termini si permette a chi studia la Bibbia di fare un accurato confronto dei versetti in cui ricorrono i termini originali e di arrivare così, senza pregiudizi, a una corretta comprensione del loro vero significato. - Vedi ADES; GEENNA; SCEOL; TARTARO; TOMBA.
L’Inferno ; non e’ altro che la BEFANA!!! considerata dai PICCINI!!!
Scienza e fede.
Big Bang o esistenza di Dio, le prove da sole non bastano
Il discorso sulla fede e quello sulla scienza ci costringono a riflettere in ultima analisi sull’umano e sulle coordinate fondamentali della vita, ivi compresa la capacità di pensare.
di Roberto Presilla (Avvenire, venerdì 27 dicembre 2024)
Nel numero 10 del supplemento Gutenberg - intitolato Tracce di Dio - vari studiosi sono intervenuti sul tema del rapporto tra scienza e fede. Quale contributo alla discussione, può essere utile soffermarsi su due questioni differenti ma collegate: in che senso possiamo dire che la teoria scientifica del Big Bang sia corroborata dai dati e in che modo possiamo intendere le cosiddette prove dell’esistenza di Dio.
Per quanto riguarda la teoria del Big Bang, non si tratta qui di spiegarne la tenuta scientifica o il tipo di considerazioni che la sostengono. Però si può ricordare che esistono dei risultati, come ad esempio un teorema di Malament del 2009, che mostrano come la teoria cosmologica sia strutturalmente “sottodeterminata” dai dati. Da un punto di vista generale, relativo a una qualsiasi teoria scientifica, il problema è noto e relativamente semplice: la quantità di dati a disposizione non determina in modo univoco la struttura della teoria. Per capirlo possiamo immaginare di fare un esperimento su un minerale fittizio, l’artificialite, rielaborando un esempio di Quine.
In un primo esperimento supponiamo che qualcuno abbia scoperto che questo materiale, solido a temperatura ambiente, diventa liquido a 82°C. Tuttavia, al momento di replicare i risultati in un altro laboratorio, l’artificialite non fonde a quella temperatura, ma richiede 105° C. La nostra microteoria scientifica - l’artificialite fonde a 82°C - sembra smentita dai fatti: è quindi falsa e dovremmo abbandonarla? Prima di procedere oltre, lo scienziato rigoroso prova a ripetere nuovamente l’esperimento per escludere fattori imprevisti che potrebbero aver influenzato il risultato: controlla per esempio che l’apparecchio per la misurazione sia tarato a dovere e funzioni bene, che il campione di artificialite abbia lo stesso grado di purezza del primo, e così via. Si assicura insomma che una serie di ipotesi accessorie siano vere. Anche quando avesse scoperto che le cose stanno così, potrebbe comunque ancora difendere il primo risultato ipotizzando qualche cambiamento in una porzione di scienza più ampia.
Questa situazione viene normalmente definita “sottodeterminazione” empirica delle teorie: i risultati degli esperimenti non possono da soli dire se la teoria è sbagliata oppure no. Ci dicono piuttosto che qualcosa non torna: sta a noi e al nostro ingegno capire che cosa effettivamente vada cambiato. È una situazione del tutto normale nella scienza: il risultato di Malament relativo alla teoria cosmologica (più precisamente, alla struttura globale dello spazio-tempo) aggiunge che non c’è nessun esperimento in grado di indicarci quale teoria potrebbe essere sbagliata. Sulla base dei dati, insomma, possiamo costruire modelli cosmologici diversi, incompatibili tra loro. È un problema? Solamente se pensiamo che l’unico criterio di razionalità sia quello della pratica scientifica, se crediamo insomma che una domanda razionale ammetta solo risposte fondate su prove scientifiche.
La domanda cui cerchiamo risposta è prima di tutto filosofica: che cosa sono lo spazio e il tempo? Il modo in cui le teorie scientifiche ci costringono a rimodulare i concetti non può nascondere il fatto che, comunque, la questione che ci poniamo è metafisica; riguarda cioè la nostra concezione del tempo e dello spazio e il modo in cui riusciamo, per così dire, a “farcene una ragione”.
Che cosa ci dicono le “prove” dell’esistenza di Dio? Dio esiste o no? In un caso e nell’altro le argomentazioni non sono conclusive. Esse ci invitano, però, a riflettere sul tipo di razionalità che accettiamo. Come ha ben sottolineato MacIntyre in un volume del 2009 (God, Philosophy, Universities), la differenza tra il teista e l’ateo non riguarda l’enunciato “Dio esiste”. Il punto non è che il primo crede che l’enunciato sia vero, mentre il secondo crede che sia falso. La differenza reale riguarda gli standard di razionalità: per il teista è ammissibile riflettere razionalmente sulla domanda “l’universo è stato creato da Dio?”, mentre per l’ateo questa domanda non può essere nemmeno posta. Il teista ritiene che la domanda circa l’esistenza di Dio sia razionale e cerca una risposta altrettanto razionale; l’ateo espunge la domanda per avvalersi di una razionalità “puramente” scientifica. Molte cose passano per questa differenza: per esempio, discutere la fede appartiene allo spazio pubblico - come ha affermato papa Francesco lo scorso 15 dicembre in Corsica - o riguarda aspetti a cui ciascuno pensa per conto proprio? Ancora: è ammissibile che all’università si compiano studi teologici? O è contrario alla ragione stessa, una “cosa da pazzi”, per dirla in modo colloquiale?
La domanda su Dio, insomma, ci costringe a riflettere sullo spessore e l’ampiezza del nostro concetto di razionalità. È chiaro che una riflessione di questo tipo ha uno spessore teologico, ma il problema resta, alla radice, filosofico: parlare di Dio significa dire anche qualcosa sull’umano?
Come si vede, le due questioni sono in certa misura analoghe. Il discorso sulla fede e quello sulla scienza ci costringono a riflettere in ultima analisi sull’umano e sulle coordinate fondamentali della vita, ivi compresa la capacità di pensare. Forse da queste riflessioni può venire un aiuto a meglio situare la questione, oggi fin troppo dibattuta, di che cosa possa essere un’intelligenza “artificiale”.