MONOTEISMO, CRISTIANESIMO E DEMOCRAZIA
di Federico La Sala *
1.
Esportare la Democrazia è possibile, ma l’ostacolo è il monoteismo. Questo il titolo di presentazione del Corriere della Sera (3.4.2007), in anteprima, di una pagina della nuova edizione del saggio di Giovanni Sartori, Democrazia. Cosa è?. E questo è l’avvio del discorso:
"Al quesito se la democrazia sia esportabile, si può obiettare che la democrazia è nata un po’ dappertutto, e quindi che gli occidentali peccano di arroganza quando ne parlano come di una loro invenzione e vedono il problema in termini di esportazione. Questa tesi è stata illustrata in un recente libriccino (tale in tutti i sensi) intitolato La democrazia degli altri dell’acclamatissimo premio Nobel Amartya Sen. A dispetto di Sen e del suo terzomondismo, la democrazia - e più esattamente la liberaldemocrazia - è una creazione della cultura e della civiltà occidentale. La democrazia degli altri non c’è e non è mai esistita, salvo che per piccoli gruppi operanti faccia a faccia, che non sono per nulla equivalenti alla democrazia come Stato ’in grande’. Pertanto il quesito se la democrazia sia esportabile è un quesito corretto. Al quale si può obiettare che questa esportazione sottintende un imperialismo culturale e l’imposizione di un modello eurocentrico. Ma se è così, è così. Le cose buone io le prendo da ovunque provengano. Per esempio, io sono lietissimo di adoperare i numeri arabi. Li dovrei respingere perché sono arabi? Allora la democrazia è esportabile? Rispondo: in misura abbastanza sorprendente, sì; ma non dappertutto e non sempre. E il punto preliminare è in quale delle sue parti costitutive sia esportabile, o più esportabile". (...) “Ricapitolando, non è vero che la democrazia costituzionale, specialmente nella sua essenza di sistema di demoprotezione, non sia esportabile/importabile al di fuori del contesto della cultura occidentale. Però il suo accoglimento si può imbattere nell’ostacolo delle religioni monoteistiche. Il problema va inquadrato storicamente così".
2.
Gian Maria Vian - in una nota apparsa sull’Avvenire (4.4.2007), dal titolo Monoteismi e democrazie: che gaffe! - commenta e, contro la semplificazione di Sartori (innanzitutto, e dello stesso Corriere), sollecita a riflettere con minore superficialità e a non semplificare la complessità della questione: "Adombrando una squalificazione dei monoteismi tanto diffusa quanto storicamente debole, la tesi dimentica che la culla della democrazia è la tradizione occidentale, secolarizzata quanto si vuole ma storicamente cristiana, e cioè, fino a prova contraria, monoteista. Non si può poi dimenticare che Israele, radicato in una tradizione culturale altrettanto monoteista, è da oltre mezzo secolo un modello di democrazia nel vicino Oriente (dove democratico era fino a un trentennio fa anche il Libano, certo non politeista). Infine, come essere sicuri che i problematici rapporti tra islamismo e democrazia siano dovuti al suo monoteismo? Il punto insomma non è questo, e se tanti sono gli ostacoli della democrazia tra questi certo non vi sono le religioni monoteistiche".
3.
Ora, se è vero - come è vero - che la democrazia si fonda sull’idea di autonomia dell’uomo (dell’uomo e della donna!) e che la premessa della modernità è l’autonomia (dell’uomo e della donna!), non è ancora e affatto altrettanto chiaro cosa significa quell’"auto" premesso a "nomia". E, se non vogliamo perdere quanto conquistato, non possiamo ripetere all’infinito sempre lo stesso ritornello: illuminismo, illuminismo!!! La conoscenza di sé ("auto") non è finita e non è affatto e ancora ben de-finita: "La più utile e meno progredita di tutte le conoscenze umane mi sembra quella dell’uomo" (J.J. Rousseau, Discorso sulle scienze e sulle arti, Prefazione). E, necessariamente, non possiamo non riprendere l’interrogazione e il cammino: "Chi siamo noi, in realtà?" (Nietzsche) e "Sapere aude!".
Locke e Rousseau, come Kant, hanno fatto un grande lavoro, ma - se non vogliamo smettere di pensare e porre davvero fine all’avventura umana - dobbiamo continuare a portarlo innanzi. C’è un nodo non sciolto al fondo del loro pensiero ed è proprio il nodo di "dio". Vogliamo chiarircelo o no?!
"Se la Divinità non esiste, solo il cattivo ragiona, il buono non è altro che un insensato" (Emilio). J.J. Rousseu è il primo grande maestro del sospetto (dopo vengono Marx, Nietzsche, e Freud - e grazie a lui!): "Non concediamo nulla ai diritti della nascita e all’autorità dei padri e dei pastori, ma richiamiamo all’esame della coscienza e della ragione tutto quello che loro ci hanno insegnato fin dall’infanzia"(Emilio).
Locke polemizza con il cattolicesimo e l’ateismo quali "religioni" incompatibili con l’orizzonte democratico; Rousseau - pur polemizzando anch’egli duramente con il cristianesimo storico come una religione altrettanto incompatibile con una società democratica e tentando di pensare meglio la democrazia dei moderni - sottolinea tuttavia con forza la grande differenza tra Socrate e Gesù: "Quali pregiudizi, quale cecità (quale malafede) non bisogna avere per osar paragonare il figlio di Sofronisco col figlio di Maria! Che distanza c’è dall’uno all’altro!"(Emilio). Ma "la religione di preti" riesce ad accecarlo, e a non fargli vedere la connessione tra l’altro "mondo possibile" a cui egli stesso pensa e quello del messaggio evangelico: "Gesù Cristo, il cui regno non era di questo mondo, non ha mai pensato a dare un pollice di terra a nessuno, e non ne possedette mai lui stesso; ma il suo umile vicario, dopo essersi impadronito del territorio di Cesare, cominciò a distribuire il comando del mondo ai servitori di Dio" (Frammenti politici).
Rousseau cerca in tutti i modi di impostare bene il "trattato le cui condizioni siano eque" (Virgilio, Eneide, XI), ma perde il filo e, alla fine, si ritrova a riproporre la religione dei romani - la "religione civile", contro la "religione romana", cattolica! Senza volerlo, prepara la strada "cattolico-romana" a Fichte, a Hegel, a Marx, a Gentile e a Lenin.
Kant reimposta il problema e riparte, bene: "tutto proviene dall’esperienza, ma non tutto si risolve nell’esperienza" o, diversamente, tutto viene dalla natura ma non tutto si risolve nella natura; alla fine egli non riesce a sciogliere il nodo e resta in trappola. Al di là del mare di nebbia non può andare e - per non distruggere i risultati della sua esplorazione - si accampa lì dove è riuscito ad arrivare e decide: Io voglio che Dio esista.
Per Kant, Rousseau e Newton, come Locke, non sono stati affatto cattive guide per il suo viaggio. Il suo cammino è stato lungo, fruttuoso e coraggioso: la Legge morale dentro di me, il Cielo stellato sopra di me! E, onestamente, rilancia di nuovo la domanda antropologica, quella fondamentale: "Che cosa è l’uomo?". Teniamone conto.
Ciò che essi cercavano di capire e quindi di sciogliere era proprio il nodo che lega il problema "religioso", il legame "sociale", il problema di "Dio", il problema della Legge, non quello o quella dei Faraoni e quella di una Terra concepita come un "campo recintato" o assoggettata alla "Moira" di Orfeo e alla Necessità.
Filosoficamente, è il problema dell’inizio ... e, con esso, dell’origine e dei fondamenti della disuguaglianza tra gli esseri umani. Il problema J.J. Rousseau, dunque: No King, no Bishop! Il problema della Legge - e della Lingua: il problema stesso del principio di ogni parola, la Langue, Essai sur l’origine des langues! Da dove il Logos e la Legge?! E, con queste domande, siamo già all’oggi, agli inizi del ’900: Ferdinand de Saussure!
Ma ritorniamo al problema politico, della Legge della Polis o, come scrive Rousseau, della Cité. La questione è decisiva ed epocale: ed è al contempo questione antropologica, politica, e "teologica". In generale è la questione del rapporto Uno-Molti - una questione lasciata in eredità da Platone, e riproposta da Rousseau, nei termini del rapporto volontà generale - volontà di tutti o del cosiddetto "uno frazionario", e risolta ancor oggi nell’orizzonte moderno (cartesiano) - dopo Cristo, come dopo Dante, Rousseau e Kant - in modo greco, platonico-aristotelico. Una tragedia, e non solo quella di Nietzsche. In tutti i sensi.
Se continuiamo a truccare le carte e confondiamo l’Uno al numeratore con un "uno" degli "uno" o delle "uno" al denominatore finiremo per cadere sempre nella trappola della dittatura, e nel dominio del "grande fratello". E non riusciremo mai a distinguere tra "Dio" Amore [Charitas], e "Dio" Mammona [Caritas] - tra la "volontà generale" dell’Uno e la "volontà generale" di "uno", camuffato da "Uno". Liberare il cielo, pensare l’ "edipo completo" - come da progetto di Freud.
Vedere solo i molti (gli individui, meglio gli uomini e donne in carne ed ossa, le persone) che agiscono, discutono e lottano, e non vedere l’Uno, che è il Rapporto e il Fondamento di tutti e il Rapporto dell’Uno stesso con tutti i vari sotto-rapporti (economici, politici, religiosi, giuridici, pedagogici, familiari, e, persino, di amicizia) dei molti e tra i molti ... non porta da nessuna parte, se non alla guerra e alla morte. In tale orizzonte (relativistico, scettico e nichilistico), chi vuole guidare chi, che cosa può fare, che cosa può insegnare, che cosa può produrre ... se non il suo stesso "uno" - allo specchio? Un narcisismo personale e istituzionale, imperialistico e ... desertificante!
È elementare, ma è così - come scriveva l’oscuro di Efeso, Eraclito: "bisogna seguire ciò che è comune: e ciò che è comune è il Logos" - la Costituzione, prima di ogni calcolo, per ragionare bene. La Costituzione è il fondamento, il principio, e la bilancia!!! Questo è il problema: la cima dell’iceberg davanti ai nostri occhi, e il punto più profondo sotto i nostri stessi piedi!!! E se non vogliamo permanere nella "preistoria" e, anzi, vogliamo uscirne, dobbiamo stare attenti e attente e ripensare tutto da capo, dalla radice (Kant, Marx), dalle radici: gli uomini e le donne, i molti, e il Rapporto-Fondamento che li collega e li porta - al di là della natura - nella società, e li fa essere ed esseri umani - dopo il lavoro in generale, il rapporto sociale di produzione in generale è la questione all’ordine del giorno nostro, oggi.
Riprendiamo. Allora, come si passa dalla "solitudine" naturale alla "solidarietà" sociale, e cosa svela questa a quella? Vediamo. "Se dunque si esclude dal patto sociale ciò che ad esso non è essenziale, ci si accorgerà che si riduce ai seguenti termini [...] al posto della singola persona di ciascun contraente, quest’atto di associazione dà vita a un corpo morale e collettivo, composto di tenti membri quanti sono i voti dell’assemblea; da questo stesso atto tale corpo riceve la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. Questa persona pubblica, che si forma così mediante l’unione di tutte le altre, assumeva in altri tempi il nome di Cité, e prende ora quello di repubblica [...]"(Contratto Sociale).
Cosa sta cercando di pensare Rousseau? Cerca di chiarirsi e di chiarirci il passaggio dal naturale "stato" di tanti "uno" (1.....1) al "nuovo stato" realizzato dal patto stesso - quello di UNO/molti, UNO/1+1...+1+1+1. Questo è il nuovo "soggetto" e questo il nuovo "fondamento" - la misura di tutte le cose, di quelle che esistono e di quelle che non esistono. E questo Uno non è mai un "uno", ma è il Rapporto Sociale che dà sostanza e fondamento a tutti gli "uno".
Basta con le robinsonate! Se è vero che "questa Terra è un’isola"(Kant), non è affatto e altrettanto vero che l’uomo si fa da solo (self made man)! Noi siamo sempre in relazione - dalla nascita alla morte, e in tutti gli ambiti: esseri umani, solo in società - né dio né bestia, già Aristotele.
Che cosa svela il "patto di alleanza"? Svela che "Dio esiste", che "solo Dio è sapiente"(Socrate), "solo Dio è buono" (Gesù), e che noi stessi siamo i figli e le figlie di "Dio!!! Che i soggetti che fanno Uno sono due (1+1) e, nel momento in cui fanno Uno, avviene la loro "trasmutazione" (da "padri" e "madri" in "figli" e "figlie" del loro stesso "Figlio" ... che è il loro stesso "Padre" che li ha generati) e, così, il ri-conoscimento della loro differenza e della loro identità. E come 1 e 1, che hanno superato la loro ideologica e naturalistica isolatezza e sono diventati Uno (1+1....+1), aprono gli occhi sulla "natura" e "dio" e - "faccia a faccia" - vedono "Dio" stesso! “Vere duo in carne una”: un’altra "scienza della logica" e un’altra "logica della scienza".
In democrazia, e nella democrazia non borghese, non vale più la logica dell’amico-nemico (la logica dialettica del padrone-servo), ma la logica dell’amico-amico, una logica chiasmatica e accogliente, nel rispetto reciproco della propria e della comune sovranità, concessaci dal nostro stesso rapporto, patto di alleanza - di fuoco di vita, non di distruzione e di morte infernale!
4. Italia. Non confondiamo i livelli... e cerchiamo di non perdere la bussola della nostra sana e robusta Costituzione. Pensare e pensare, ma pensiamo democraticamente e correttamente. "Forza Italia": Non è possibile e non è accettabile! È necessario continuare a tentare, continuare a cercare (cercate ancora: come ha detto, scritto e ricordato poco tempo fa, il ‘vecchio’, indomabile, libero e fiero Pietro Ingrao in onore di Luigi e di Giaime Pintor, ma anche di Claudio Napoleoni, che amava questa indicazione immortale). Non facciamo i furbi e le furbe, e soprattutto non accechiamoci reciprocamente né accechiamo gli altri e le altre che hanno i piedi e il cuore sulla base del nostro stesso Fondamento e la vita nell’orizzonte della nostra stessa Alleanza. In giro già ci sono tanti pifferai ciechi, con strumenti sempre più sofisticati, pronti a farlo. Per questo, quale indicazione? Chi si vuole porre fuori dal patto dell’Alleanza costituzionale, è libero di farlo ma non si metta sulla strada di Epimenide il Cretese, non si venda al mentitore e non faccia apologia di Baal-ismo!
L’"io voglio che Dio esista" di Kant - non dimentichiamolo - è da coniugare con la negazione della validità della “prova ontologica” e non ha nulla a che fare con tutti gli idealismi platonici o cartesiani ed hegeliani e marxisti, e porta alla conciliazione dell’"uno" con l’altro "uno" e di "Dio" con il mondo.
Ma, a questo punto, con Kant come con Dante (Gioacchino da Fiore e Marx e Nietzsche e Freud ed Enzo Paci), siamo al di là di Hegel e dell’imperialismo logico-romano - alla Fenomenologia dello Spirito ... dei Due Soli.
Sulla Terra, nell’oceano cosmico (Keplero, Bruno). La "rivoluzione copernicana" è ... appena agli inizi: Plus ultra (Bacone), "Sapere aude!"(Kant) - a tutti i livelli. Ed è "una seconda rivoluzione copernicana" (Th. W. Adorno).
* Fonte: Inattuali/Storia
Sui temi accennati in questa nota, mi sia lecito, si cfr.:
La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica di Federico La Sala, pubblicato nel 1991 da Antonio Pellicani Editore, Roma.
Della terra, il brillante colore. Note sul “Poema” rinascimentale di un ignoto Parmenide Carmelitano (ritrovato a Contursi Terme nel 1989) di Federico La Sala, pubblicato nel 1996 da Ripostes Edizioni, Roma-Salerno.
L’enigma della sfinge e il segreto della piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria in forma di lettera aperta di Federico La Sala, pubblicato nel 2001 da Ripostes Edizioni, Roma-Salerno.
* Fonte: Il dialogo, Sabato, 21 aprile 2007
Sul tema, in rete, si cfr. anche:
LA LEZIONE DI FREUD: "MOSE’ E LA RELIGIONE MONOTEISTICA". INDICAZIONI PER UNA RILETTURA
MESSAGGIO EV-ANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER.
Federico La Sala
Il mistero rivelato /8.
I sette tempi della bestia
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 21 maggio 2022)
I nostri atti di giustizia non sono il prezzo della nostra salvezza, sono solo espressione di una legge di reciprocità. L’interpretazione del sogno del grande albero si conclude con un consiglio di Daniele al re Nabucodònosor: «Perciò, o re, accetta il mio consiglio: sconta i tuoi peccati con la giustizia e le tue iniquità con atti di misericordia verso gli afflitti, perché tu possa godere lunga prosperità» (Daniele 4,24-25). La conversione del re e le sue opere di misericordia non sono la condizione per essere ristabilito un domani nel suo regno. Il consiglio di Daniele ci dice comunque che è conveniente convertirsi e fare atti di giustizia e di misericordia verso gli afflitti. È bene tornare giusti e misericordiosi. Potremmo non farlo, e Dio ci amerebbe lo stesso, perché se non lo facesse sarebbe peggiore di noi che amiamo i nostri figli anche quando sono cattivi e ingrati. Ma possiamo anche decidere di essere misericordiosi, possiamo desiderare di somigliare a Dio. Lo possiamo fare proprio perché siamo liberi, perché siamo certi di essere amati anche se non lo facessimo. Sta in questo incontro di eccedenze, in questo dialogo di libertà d’amore, il cuore della Bibbia e, forse, il mistero del suo Dio. Ci vogliono una intera vita e una infinita mitezza per riuscire a mantenere i nostri sguardi al livello degli occhi di Dio, e dentro questo incontro alto di pupille imparare che siamo più belli dei nostri meriti e meno brutti delle nostre colpe.
Terminata la spiegazione del sogno, il libro ci dice che la profezia contenuta in quella visione si compie: «Dodici mesi dopo, passeggiando sopra la terrazza del palazzo reale di Babilonia, il re prese a dire: "Non è questa la grande Babilonia che io ho costruito come reggia con la forza della mia potenza e per la gloria della mia maestà?". Queste parole erano ancora sulle labbra del re, quando una voce venne dal cielo: "A te io parlo, re Nabucodònosor: il regno ti è tolto!"» (4,26-28). Questo pensiero di Nabucodònosor è estremamente importante, una chiave di lettura di questo complesso e bellissimo capitolo. Possiamo immaginare il re mentre passeggia tra i giardini pensili. A un certo punto un pensiero cresce, si stacca da tutti gli altri, si impone nella sua anima fino a diventare il pensiero dominante: ho realizzato davvero qualcosa di straordinario, e l’ho fatto solo "con la forza della mia potenza".
Un sentimento opposto a quello che Italo Calvino attribuiva a Kublai Khan: «Nella vita degli imperatori c’è un momento, che segue all’orgoglio per l’ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato (...); un senso come di vuoto che ci prende una sera con l’odore degli elefanti dopo la pioggia e della cenere di sandalo che si raffredda nei bracieri (...); è il momento disperato in cui si scopre che quest’impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma» (Le città invisibili).
Nabucodonosor si trova invece in tutt’altro stato d’animo. È al culmine del proprio successo. Lo vede ovunque, ed è convinto di essere il principale, se non unico, artefice di quell’opera straordinaria. I greci avevano una parola precisa per descrivere questo sentimento del re: hybris, una combinazione di orgoglio, tracotanza e superbia.
Il libro di Daniele ci dice poi che ogni potere assoluto è ateo, anche quando è benedetto da sacerdoti e l’incoronazione avviene nel tempio, perché il re finisce per non riconoscere che l’origine dei suoi successi e della gloria è al di fuori e sopra di lui. Ed ecco allora il senso della pedagogia della sconfitta e della catastrofe, che arriva a ricordare ai re che non sono dèi e ai loro popoli di non trattarli da divinità. Tutto questo la Bibbia lo imparò durante la grande sconfitta dell’esilio babilonese, e non lo ha dimenticato più. Ma oggi non sono sufficienti neanche le catastrofi a farci comprendere la vera natura idolatrica di questi poteri: e i capi continuano indisturbati a sentirsi dio e noi a considerarli divinità.
La storia conosce una profonda legge dell’evoluzione e del declino dei popoli e delle persone. Il suo centro è la gestione di quel tipico sentimento che si era impossessato del re di Babilonia nel suo giardino. Quando una vita, una comunità, cresce e si sviluppa molto, è inevitabile che un giorno arrivi il pensiero dominante di Nabucodònosor. In un primo tempo, le persone più oneste e religiose riescono a pensare che loro sono soltanto degli strumenti, delle "matite" nelle mani di Qualcun altro che è il vero autore del grande trionfo; ma, quasi sempre, in un altro giorno arriva puntuale il momento quando i successi diventano così sbalorditivi da convincere i "re" che senza di loro tutto quell’impero non ci sarebbe stato, e ne diventano i padroni. Quasi nessun dittatore nasce dittatore, ci diventa un giorno passeggiando nel giardino.
Le storie individuali e collettive di successi straordinari che sono state capaci di durare nel tempo, sono quelle, rarissime, che non sono cadute in questa trappola tremenda, che non sono state colpite da questa "maledizione dell’abbondanza"; perché nel momento stesso in cui quel pensiero seducente e tremendo prende possesso della mente e del cuore, inizia la morte delle persone e delle comunità: "in quel momento stesso ... il regno ti è tolto". Muoiono perché il passato si divora il futuro. Lo studioso inizia a dedicare le proprie energie per promuovere i libri di ieri e non più per studiare per scrivere quello migliore di domani, a frequentare soltanto i luoghi del consenso e degli applausi e a fuggire le critiche, a iniziare a sfogliare i libri degli altri dall’ultima pagina per cercare il proprio nome nella bibliografia.
Nelle esperienze collettive i danni sono poi ancora maggiori e più gravi. L’illusione del grande impero si diffonde come peste tra tutti, si auto-rafforza nei dialoghi, diventa infrangibile e infalsificabile. Le voci critiche vengono taciute o, più facilmente, si auto-zittiscono e, magari in buona fede, la celebrazione del Dio della comunità lascia il posto alla auto-celebrazione della comunità diventata dio. Le poche storie di grande successo che riescono a non essere eliminate dal proprio successo sono quelle dove i loro protagonisti sono capaci di una sistematica politica di auto-sovversione, che riescono a curare questa sindrome dello stra-successo quando ancora è solo incipiente. Si fermano prima della soglia critica, tornano poveri e piccoli prima di essere diventati troppo grandi e ricchi per riuscire a farlo, smontano i palazzi e tornano costruttori di tende.
Quando tutto ciò non accade, inevitabile c’è il compimento della parola pronunciata dal cielo sul re: «Egli fu cacciato dal consorzio umano, mangiò l’erba come i buoi e il suo corpo fu bagnato dalla rugiada del cielo, i capelli gli crebbero come le penne alle aquile e le unghie come agli uccelli"» (4,30). Qui è molto probabile che il testo attribuisca a Nabucodònosor un episodio della vita di suo genero Nabonide, l’ultimo re di Babilonia (vedi la preghiera in esergo). È comunque straordinaria la forza narrativa di questi versi. Nello spazio di un mattino il re si ritrova trasformato da sovrano più grande della terra in essere immondo simile ai mostri dell’Eneide o della Divina commedia.
Da semi-dio a bestia. Quante volte lo abbiamo visto, e continuiamo a vederlo. La cattiva gestione del grande successo produce sovente queste metamorfosi: ci si addormenta nel letto di sempre e ci si sveglia scarafaggio, senza sapere perché. C’è bisogno di "sette tempi" per sperare di capirlo, e a volte non bastano.
Importante notare che a Nabucodònosor il sogno viene spiegato dodici mesi prima del suo avveramento. Sembra che il re avesse avuto un anno, un intero tempo, per cambiare condotta ed evitare la rovina. Ma è una falsa percezione. In realtà, neanche la presenza di profeti veri riesce a salvare gli imperi dal loro declino, perché quando i sogni tremendi arrivano dentro le notti dei re, il declino è già iniziato da tempo, il punto di non-ritorno è stato già superato. -La profezia è autentico dono non perché rivela il futuro, ma perché svela ciò che è già presente sebbene i protagonisti non ne abbiano ancora coscienza. Quel pensiero della passeggiata era già padrone del cuore del re, aveva già occupato tutta la sua vita, molte volte in molti tempi. I profeti non vengono ascoltati dalle loro comunità perché svelano ciò che le comunità sono già diventate, e non vogliono saperlo. Il profeta vede "in sogno" i segni della metamorfosi prima che essa si compia: e così vede già bestie dove tutti gli altri vedono ancora uomini e donne. E nessuno li prende sul serio.
Poi arriva il giorno in cui la metamorfosi si attua davvero e tutti vedono, dentro e fuori la comunità, che si è diventati davvero bestie. Lì, qualche volta, ci accorgiamo che eravamo usciti da molto tempo dal consorzio umano, che ci comportavamo già da lupi mannari e licantropi, e senza saperlo abbiamo divorato molte prede mentre costruivamo il nostro successo infinito. Il tempo della bestia è sempre un tempo tremendo. È un tempo lungo: sette tempi. Ci sentiamo circondati da fiere e ci sentiamo animali anche noi: abbiamo paura, proviamo molta rabbia e un infinito rimorso. Vorremmo scappare, ma dobbiamo restare, perché la sola cosa saggia che possiamo fare è attendere la fine dei "sette tempi". Chiediamo agli alberi di insegnarci la loro mansuetudine, alla terra la sua humilitas, diventiamo mendicanti di umanità verso piante, sassi, stelle, e con Giobbe impariamo il linguaggio dei vermi. E finalmente capiamo i Salmi, iniziamo a pregare dopo aver detto tante preghiere. Ci parlano Geremia e Osea, il canto del servo di YHWH diventa il nostro unico canto. È il tempo del dolore immenso, dell’umiliazione. Si può anche morire, alcuni muoiono davvero. Ma si può anche decidere di continuare a vivere: qualcuno ci riesce, qualche volta anche la comunità.
La Bibbia ci dona infatti una grande buona novella: anche i sette tempi della bestia possono essere un tempo di salvezza: «Ma finito quel tempo io, Nabucodònosor, alzai gli occhi al cielo e la ragione tornò in me e benedissi l’Altissimo» (4,32). Al termine dei sette tempi, il re-bestia alza di nuovo gli occhi. È nel libro di Daniele dove la Bibbia iniziò ad un usare la parola "cielo" come sinonimo di Dio.
La seconda metamorfosi sta tutta in quel grugno che ritorna volto mentre si torce in cerca di stelle.
Cina, Xi Jinping prende di mira le religioni: vietati i contenuti online che incitano al sovvertimento del potere statale
Gruppi, chiese e associazioni che svolgono prediche in formato digitale dovranno ricevere un’autorizzazione dalle autorità
di Lorenzo Lamperti (La Stampa, 30 Dicembre 2021)
Religione? Sì, ma solo con "caratteristiche cinesi". Che la Cina non sia un paese dove le confessioni di origine straniera abbiano fortuna lo si sa da tempo. Ora, però, Xi Jinping serra ulteriormente le fila e prende di mira l’informazione religiosa. Dopo un suo discorso sulla necessità di adattare la fede al "contesto cinese", in concomitanza del Natale sono state emanate delle nuove misure che renderanno illegale la gestione di servizi di informazione religiosa online sul web cinese da parte di organizzazioni o cittadini stranieri.
Saranno vietati i contenuti religiosi online che incitano al sovvertimento del potere statale, violano il principio di indipendenza e di autogestione nelle imprese religiose, e inducono i minori a credere nella religione. Coinvolti nella stretta anche le organizzazioni locali: gruppi, chiese e associazioni che svolgono prediche in formato digitale dovranno ricevere un’autorizzazione dalle autorità.
Gli utenti dovranno invece registrarsi utilizzando i loro nomi reali, elemento che potrebbe disincentivare la partecipazione. Le regole, che entreranno in vigore il prossimo 1° marzo, hanno uno scopo chiaro: standardizzare e omologare il messaggio religioso secondo i dettami del governo. I valori trasmessi dovranno essere quelli promossi dal "nuovo timoniere", a partire da patriottismo e armonia sociale. In Cina bisogna credere innanzitutto al Partito comunista.
L’OPPIO DEI POPOLI E LO SPIRITO CRITICO.
JEAN-LUC NANCY, IL SOFFIO RIVOLUZIONARIO, E I PALLONI IN ARIA...
JEAN-LUC NANCY, in un suo ultimo intervento ad un convegno del maggio scorso, dice: "[...] Quando Marx dichiara che la religione è «l’oppio dei popoli, lo spirito di un mondo senza spirito» [Nella sua "Critica della filosofia del diritto di Hegel"] intende dire da un lato che la religione è un povero surrogato dell’oppio con cui i ricchi si stordiscono, ma anche e allo stesso tempo che c’è da qualche parte uno “spirito” riservato a coloro che ne hanno i mezzi. Beninteso, per lui, tutti gli uomini ne hanno i mezzi, tutti possono partecipare al vero Spirito, a condizione d’essere liberi dall’alienazione. Poiché l’alienazione non consiste essenzialmente nell’estorsione del plusvalore - che ne è piuttosto il segno. L’alienazione consiste nel non essere propriamente sé stessi, tanto in quanto individui concreti che in quanto comunità non meno concrete".
E CONTINUA: "Questo spirito soffia come tutti gli spiriti. Marx usa spesso la parola “soffio” (Atem, respirazione). Ci accontenteremo di un esempio: «Il governo prussiano è infastidito dalla resistenza passiva che incontra ovunque. Attraverso l’apparente apatia, percepisce il soffio rivoluzionario»[...]"(Jean-Luc Nancy, "Essere, Soffio / Être soufflé", Le parole e le cose", 4.10.2021).
IL MESSAGGIO EVANGELICO E IL "FIGLIO DELL’UOMO". "Allora la folla gli [a Gesù] rispose: «Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo ["Filius hominis", "υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου]?»"(Gv. 12,34).
QUESTIONE ANTROPOLOGICA. CHI è questo Figlio dell’Uomo, CHI il "Gesù Cristo" degli Evangelisti? COME è detto nell’Evangelo di Giovanni di "Gesù Cristo"? Ponzio Pilato disse: "«Ecco l’uomo» (gr. «idou ho anthropos», vulg. «ecce homo»)" (Gv. 19, 4).
QUALE SPIRITO? COME è detto nella Prima Lettera dell’Evangelista Giovanni?: "Carissimi, non prestate fede ad ogni spirito, ma mettete alla prova gli spiriti, per saggiare se provengono veramente da Dio [...] Dio è amore." (1 Gv. 4, 1-8).
IL PROBLEMA DEL MENTITORE: CHI È IL "GESÙ CRISTO" DI PAOLO DI TARSO?!: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
PSICOANALISI E CRISTOLOGIA: "OEDIPUS AT VERSAILLES" ED "EDIPO A CUERNAVACA". CHE FARE? Rileggere il testo di "Un frammento inedito di Freud del 1931" e dell’articolo di Franca Ongaro Basaglia ("PM", novembre 1982). SapereAude!
IL VENTO SOFFIA DOVE VUOLE (Gv. 3.8). QUANTI PALLONI IN ARIA ...
Federico La Sala
Gli afghani e noi.
Non ripetere il passato.
Vent’anni svaniti in 10 giorni
di Andrea Lavazza (Avvenire, martedì 17 agosto 2021)
Un’avanzata durata dieci giorni per ribaltare vent’anni di occupazione e di sostegno a una transizione alla democrazia. L’impietosa differenza temporale tra la ripresa dell’Afghanistan da parte dei taleban e gli sforzi dei Paesi occidentali impegnati nella coalizione che rovesciò il primo emirato dice molto sul Paese e sugli errori commessi in due decenni. Gran parte delle parole di circostanza che da lontano accompagnano il dramma che si sta consumando all’aeroporto e nelle vie di Kabul suonano purtroppo retoriche o addirittura in malafede. I leader politici delle nazioni che hanno ritirato le truppe seguendo, forse inevitabilmente, la decisione Usa non sembravano particolarmente preoccupati delle conseguenze, che pure avevano ben presenti, sugli assetti e sulle condizioni di vita del Paese lasciato senza più tutela.
Difficile nascondersi che nessun governo e nessun popolo vuol condurre una guerra senza fine o continuare a vedere i propri soldati cadere e spendere miliardi in operazioni di stabilizzazione senza orizzonte temporale definito. Con prospettive e modalità diverse, era la scelta già compiuta da Barack Obama, malamente concretizzata da Donald Trump e Joe Biden. Non si può dimenticare che l’invasione del 2001 fu motivata dalla volontà di annientare i santuari del terrorismo qaedista, capace dell’impensabile: abbattere le Torri gemelle a New York.
Quella era la missione, che presto poté anche trasformarsi in un’opportunità di ricostruire un Paese povero e segnato da conflitti e infine ingabbiato dal fondamentalismo degli ’studenti di teologia’, vincitori perché in grado di imporre un po’ di ’normalità’ al prezzo della più stretta e opprimente dottrina islamistica. In Afghanistan, si fece una guerra che costò molte vittime, anche civili, e gli occupanti certo non furono subito ben accolti dalla popolazione. In seguito, come gli italiani hanno saputo fare forse meglio di tutti, la presenza dei contingenti stranieri ha permesso di migliorare l’accesso alla scuola e alla sanità, ha restituito diritti alle donne, ha contribuito a rimettere in moto un processo politico aperto e trasparente.
Le prime elezioni democratiche - le presidenziali del 2004 e le legislative del 2005 - con un’alta affluenza considerate le circostanze (allora l’analfabetismo sfiorava il 70%) e quasi metà dell’elettorato femminile - sembrarono un commovente segnale e l’inizio di un cammino senza ritorno. Non era evidentemente così. In vent’anni è cresciuta una nuova generazione di afghani che in buona parte non ha esitato a schierarsi con il rinnovato movimento taleban. La società civile attiva, consapevole dei diritti conquistati, aperta al mondo è rimasta una minoranza, quella forse più visibile o forse quella che preferivamo vedere per convincerci in buona coscienza del risultato positivo della missione internazionale. Ora è la minoranza che più rischia con l’instaurazione del secondo emirato islamico e che, con qualche ragione, si sente tradita dalla frettolosa partenza delle forze occidentali.
Difendere i diritti umani, si dice ora. Chi non è d’accordo? Ma come fare? Che strumenti di pressione rimangono sul nuovo regime, una volta che si sono prese per buone le intenzioni, poi disattese, dei mullah nei negoziati in Qatar e le delegazioni civili sono ora in frettolosa fuga dopo il ritiro dei militari? La sinistra del Partito democratico Usa critica Biden per l’abbandono degli afghani al loro destino, ma in passato era contro la ’guerra imperialista’. Dobbiamo - e speriamo di riuscire a farlo - salvare le centinaia di collaboratori locali che si sono ’compromessi’ con gli invasori. Ma non potremo che assistere impotenti allo strazio di decine di migliaia di persone che pregano per una possibilità di partire.E alla strage dei diritti di donne e bambini e credenti di altre religioni e di un islam diverso da quello dei jihadisti vincitori.
Ci sarà tempo per riflettere su che cosa non ha funzionato in questi vent’anni; per quale motivo è così difficile convincere che il rispetto della libertà e della dignità di ciascuno sia compatibile con la propria fede e la propria tradizione. Oggi è necessario pensare politicamente come agire per evitare che i taleban riportino le lancette degli orologi al 2001, compreso il rischio terrorismo. Si dovrà decidere se isolare il nuovo Afghanistan, come accadde allora, quando solo tre Stati riconoscevano l’esecutivo in carica (Pakistan, Arabia Saudita ed Emirati Arabi).
Proprio il Pakistan, da sempre tutore e sponsor degli ’studenti coranici’, può essere l’obiettivo di azioni diplomatiche (e di eventuali pressioni, anche in forma di sanzioni) affinché spinga i nuovi padroni di Kabul alla moderazione. Non è poi escluso che la Cina, altra grande artefice della repentina riconquista islamica, voglia mantenere l’ordine e un minimo di presentabilità del regime appena insediato al fine di controllare a proprio favore gli equilibri nella regione. Si ripresenta, insomma, il dilemma di tante crisi: cercare di nuovo di strangolare gli oppressori - rafforzandone l’orgoglio e gravando ulteriormente sulla popolazione - o diventare complici passivi e indifferenti?
Di certo, l’esperimento di esportazione sic et sempliciter della democrazia è fallito. Si tratta adesso di evitare che avanzi l’oscurantismo. E non sarà nemmeno questa un’impresa facile.
L’ ITALIA, LE “ROBINSON-NATE”, E LA “POESIA” DEL PRESENTE ... *
“OGGETTO: Per la nostra sana e robusta Costituzione.... ” (Mail, 2002): “[...] Tempo fa una ragazza, a cui da poco era morta la madre e altrettanto da poco cominciava ad affermarsi il partito denominato “Forza Italia”, discutendo con le sue amiche e i suoi amici, disse: “Prima potevo gridare “forza Italia” e ne ero felice. Ora non più, e non solo perché è morta mia madre e sono spesso triste. Non posso gridarlo più, perché quando sto per farlo la gola mi si stringe - la mia coscienza subito la blocca e ricaccia indietro tutto. Sono stata derubata: il mio grido per tutti gli italiani e per tutte le italiane è diventato il grido per un solo uomo e per un solo partito. No, non è possibile, non può essere. E’ una tragedia!”. Un signore poco distante, che aveva ascoltato le parole della ragazza, si fece più vicino al gruppo e disse alla ragazza: “Eh, sì, purtroppo siamo alla fine, hanno rubato l’anima, il nome della Nazionale e della Patria. E noi, cittadini e cittadine, abbiamo lasciato fare: non solo un vilipendio, ma un furto - il furto dell’anima di tutti e di tutte. Nessuno ha parlato, nessuno. Nemmeno la Magistratura!” (Si cfr. RESTITUITEMI IL MIO URLO! ... DALLA CINA UNA GRANDE LEZIONE!).
ITALIA, 2 GIUGNO 2019. A pag. 2 dell’inserto “ROBINSON” (n. 130) di “la Repubblica” del 1° Giugno 2019, in un testo con il titolo “Mia madre, il Re e la cosa di tutti “, e il sottotitolo “Il 2 giugno 1946 l’Italia scelse di non essere più una monarchia. Lessico familiare del Paese che puntò su se stesso”. L’autore - dopo aver premesso che “una persona sola che incarna lo Stato e incarna il popolo intero non può che essere, essere, simbolicamente, una persona «sacra»“, e chiarito che “è per definizione, per ruolo un signore al di sopra delle parti, non rappresenta una frazione, rappresenta l’intero. L’unità. La comunità. (...) la sua carica è elettiva. Non è un raggio divino, e nemmeno il raggio della Storia attraverso l’espediente dinastico, a fargli incarnare «la cosa di tutti»” (...) La repubblica è anti-assolutista anche in questo suo sapiente scegliere gli uomini che la incarnano a seconda dei sommovimenti della politica e della società (...) così si avvia alla conclusione: “Dunque si è repubblicani - o almeno lo sono io - se si ama e si accetta ciò che non è assoluto, NON SIMULA L’ETERNO, ACCETTA IL LIMITE, lo traduce in politica”.
E, INFINE, l’autore così CHIUDE: “Mi rimane da dire che quando Eugenio Scalfari fondò un giornale che si chiamava «la Repubblica» andavo all’università e subito pensai: che bel nome! Che nome giusto per un giornale! Ma come è possibile che a nessuno prima di lui, sia venuto in mente di chiamare così un pezzo di carta che si occupa soprattutto della «res publica», della cosa di tutti, e lo fa tutti i giorni? E’ al tempo stesso un nome umile e alto. Peggio per chi non se ne è accorto prima” (Michele Serra).
POESIA, COSTITUZIONE, E FUTURO RADICALE...: “Come certi capi indiani che si trovarono di fronte al fatto che, una volta entrati nelle riserve, non risultasse più comprensibile cosa fosse un atto coraggioso, quale attività potesse esemplificarlo, visto che le pratiche che sino ad allora avevano dato senso a tali attività erano venute meno - i bisonti scomparsi, le guerre con altre tribù proibite” (Italo Testa - sopra).
ITALIA: “ESAME DI MATURITA’ 2019”. - PER UN CONVEGNO E UNA RIFLESSIONE SUL CONCETTO DI UNITÀ E DI SOVRANITÀ (SOVRA-UNITÀ). Materiali sul tema.
Federico La Sala (20 giugno 2019)
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"SCORPIONE E FELICE". RIDENDO E SCHERZANDO, MARX TROVA "LA PIETRA FILOSOFALE" DEL SUO CAMMINO.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
Federico La Sala
EVANGELO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ... * _______________________________________________
Il caso italiano
Il sacro dovere e la sua torsione populista
di Francesco Palermo (Il Mulino, 31 gennaio 2019)
La Costituzione è il perimetro entro il quale la politica si muove, o meglio, si dovrebbe muovere, con le proprie scelte discrezionali. È il ring nel quale il legittimo conflitto di idee si svolge, o si dovrebbe svolgere, secondo regole prestabilite, la cui interpretazione è affidata ad arbitri, a organismi super partes, i più importanti dei quali sono la Corte costituzionale e il presidente della Repubblica. È, pertanto, non solo legittimo ma anzi doveroso che la politica ricorra ad argomentazioni costituzionali per giustificare le proprie azioni e le proprie tesi, perché solo dentro la Costituzione può svolgersi la politica.
La Costituzione è, per certi aspetti, la versione laica del principio di esclusività tipico della religione: "non avrai altro Dio all’infuori di me". E non può esserci politica al di fuori della Costituzione. Come troppo spesso accade anche con la religione, però, non è raro che i precetti vengano piegati a interpretazioni funzionali alla preferenza politica del momento. E che tale torsione venga compiuta non già dagli arbitri, bensì dai giocatori.
Un esempio di particolare interesse si è registrato in questi giorni, quando il ministro dell’Interno ha invocato l’articolo 52 della Costituzione per giustificare la propria politica in materia di sbarchi. Nelle due vicende, seppur diverse tra loro, della nave Diciotti da un lato (per la quale pende una richiesta di autorizzazione a procedere nei suoi confronti) e della nave Sea watch dall’altro (la cui vertenza, di fatto, è ancora aperta), il ministro Salvini ha rivendicato la scelta di negare l’accesso ai porti italiani come un obbligo costituzionale, fondato sul "sacro dovere" di ciascun cittadino alla "difesa della patria", previsto appunto dall’articolo 52.
Tale disposizione non ha, naturalmente, nulla a che vedere con le questioni di cui si tratta. Il suo ambito di riferimento è esclusivamente la difesa militare, come si evince dai lavori preparatori e dagli altri commi dell’articolo, che prevedono rispettivamente l’obbligatorietà del servizio militare, nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge, e la natura democratica dell’ordinamento delle forze armate. È per questo che l’articolo 52 non fu oggetto di particolare dibattito in assemblea costituente, impegnata a sottolineare il carattere pacifista della Carta. Non a caso, il testo che uscì come definitivo è praticamente identico a quello della prima bozza, caso rarissimo nei lavori della Costituente. Tutti erano d’accordo su una previsione che doveva dare copertura costituzionale al servizio militare e alle forze armate.
Il ministro dell’Interno trasforma invece quella previsione - estrapolandola dal contesto - in una sorta di diritto di resistenza. Peraltro ponendolo in capo al governo, ossia all’organo contro il quale il diritto di resistenza si esercita, nei pochi ordinamenti in cui è previsto. Non solo.
Il richiamo al "sacro dovere" della "difesa della patria" ha una forte portata simbolica. In primo luogo, la formulazione è nota anche ai cittadini meno familiari con la Costituzione, quindi suona plausibile. In secondo luogo, richiama il gergo militare, anche grazie all’espressione ottocentesca della disposizione ("sacro dovere"), figlia di un’epoca in cui la guerra era ancora drammaticamente presente negli occhi e nelle menti dei costituenti.
Soprattutto, l’invocazione di quel segmento dell’articolo 52 è un abile gioco retorico: prima lo stacca dal contesto militare in cui è collocato, poi lo rimette in tale contesto, facendo intuire che "l’invasione" dei profughi sia un atto di guerra nei confronti del Paese, contro cui occorre difendersi. Anche militarmente. Dunque senza essere soggetti alla Costituzione, ma al diritto eccezionale del tempo di guerra, in cui vale quasi tutto.
Il rischio di una simile operazione, per quanto scaltra sotto il profilo politico e mediatico, è quello di depotenziare il carattere normativo della Costituzione, di eroderne il ruolo di perimetro dell’attività politica, di limite e parametro della stessa. Un’erosione di cui questo caso è solo il più recente di una lunga serie di esempi, che porta a cancellare la funzione di garanzia della politica che è il compito principale della Carta costituzionale.
Non può sfuggire la pericolosità di questo crinale (o almeno non dovrebbe sfuggire, ma evidentemente per alcuni non è così). E infatti l’operazione politica che distorce il significato della Carta funziona proprio in quanto alla gran parte degli elettori questo ruolo della Costituzione sfugge.
Si continua così a ballare sulla nave che affonda. Dimenticando che in questo caso non è quella dei migranti, ma quella della Carta su cui si fonda il nostro stesso ordinamento in quanto democrazia. Una nave su cui siamo imbarcati tutti.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
Federico La Sala
Morire allegramente da filosofi: Giulio Cesare Vanini (1619), un Giordano Bruno (1600) salentino ...*
1619-2019
Anticipò Darwin, sfidò la Chiesa: l’«aquila degli atei» che morì da filosofo
Il 9 febbraio di quattrocento anni fa finiva la straordinaria avventura intellettuale e umana di Giulio Cesare Vanini: la lingua strappata, poi strangolato, poi arso sul rogo
di Matteo Trevisani (Corriere della Sera, La Lettura, 03.02.2019)
«Andiamo a morire allegramente da filosofi», disse Giulio Cesare Vanini al suo boia, il pomeriggio del 9 febbraio 1619. Poco dopo gli verrà strappata la lingua, strumento con la quale aveva offeso Dio e il re, verrà strangolato e il suo corpo bruciato sul rogo si consumerà illuminando Place du Sulin, a Tolosa. Aveva trentaquattro anni.
È con quest’atto cruento che si compie, diciannove anni dopo il più famoso rogo di Giordano Bruno in Campo de’ Fiori, l’ultimo tratto della parabola di Vanini, filosofo italiano, principe dei libertini, aquila ateorum.
Mi sono chiesto a lungo che cosa significasse «morire da filosofi» e in che cosa questo differisse dal morire di tutti. Se fosse solo una frase a effetto, la volontà di non mostrarsi vinti del tutto, l’arroganza ultima di chi crede di essere dalla parte della ragione. Ma per capire fino in fondo il significato della morte di Vanini bisognava partire dalla sua vita. La straordinaria storia del più ateo dei filosofi del Rinascimento è fatta di fughe repentine, di abiure, di prigionìe, di spionaggio e diplomazia, ma anche di audacia e coraggio, di una fede perduta e amore per l’essere umano.
Giulio Cesare Vanini nasce a Taurisano, in Salento, nel 1585, in una famiglia piuttosto agiata. Studia diritto a Napoli, dove nel 1603 entra nell’ordine dei carmelitani. Rimarrà nella città partenopea nove anni prima di iscriversi alla facoltà di filosofia a Padova, centro di quell’aristotelismo non allineato che ai dogmi teologici preferisce indagare i misteri della natura. Probabilmente conosceva già l’opera di quello che riterrà il suo maestro: l’aristotelico Pietro Pomponazzi, che nella sua opera più nota aveva sancito l’impossibilità di dimostrare l’immortalità dell’anima.
A Padova si consuma il primo dei molti strappi che saranno la costante del suo peregrinare: dopo alcune prediche contro il maestro del suo ordine, gli viene imposto il ritiro in uno sperduto convento di Calabria. Vanini decide allora di fuggire in Inghilterra, dove la Chiesa anglicana offriva volentieri asilo agli apostati in funzione di propaganda anticattolica. Da quel momento cominciano anni di peregrinazioni e fughe, in cui Vanini e il suo spirito inquieto troveranno rifugio in molte città europee, aiutato dalla diplomazia internazionale e al contempo braccato dal controspionaggio. Quando alla fine il Papa lo richiama a Roma, sa che la sua vita è in pericolo. Fiuta l’inganno dell’Inquisizione e decide di fermarsi a Genova per poi riparare a Lione, dove pubblica il suo Amphitheatrum, seguito l’anno successivo dal De Admirandis, stavolta a Parigi, che gli procura un immediato successo presso i circoli libertini della capitale francese.
Lo strappo, non più ricucibile, è anche filosofico: sotto le spoglie di una forma apologetica e di un lessico platonico, il filosofo teorizza il suo personale e rivoluzionario ateismo, in cui l’uomo viene liberato da ogni dogma e il mondo da ogni vincolo metafisico. Dio non è più il vertice della scala degli esseri, ma una menzogna messa in atto dalle religioni allo scopo di suscitare timore nel popolo, la Bibbia poco più che una favola, Cristo un impostore.
Lo stile dissacratorio di Vanini abbraccia ogni ambito: la visione antropocentrica dell’uomo si dissolve, diventa un essere come gli altri in un universo meccanicistico e l’assoluta autonomia di cui gode la natura non è soggetta a nessuna provvidenza divina. All’interno di questo mondo liberato dal peccato e da ogni superstizione magica il sesso non ha connotazioni negative, perché garantisce il proseguimento della specie: l’innovazione di Vanini sta nell’affidare all’uomo stesso e a lui soltanto la responsabilità della propria condizione. L’anima è mortale, non esiste nessuna volontà organizzatrice e la vita dell’uomo è inserita soltanto nell’orizzonte della natura, niente di più. Niente è eterno, ma tutto è soggetto alle leggi naturali del divenire, e così come tutto ha avuto un inizio, ogni cosa dovrà finire.
Alla fine, sentendosi braccato, il filosofo tenta l’azzardo più grande: sotto falso nome decide di cercare riparo proprio tra le fauci della cattolicissima Tolosa, dove dopo due anni verrà scoperto, arrestato a causa del suo ateismo e condotto al rogo.
Antispecista, preilluminista, predecessore di Darwin e Schopenhauer, cantato da Hölderlin, citato da Hegel, innamorato delle leggi di natura: a quattrocento anni dalla morte, anche se molto è stato detto e scritto su Vanini, la sua fortuna ha vissuto stagioni alterne, tanto che spesso è ignorato perfino dai manuali di storia della filosofia.
Giulio Cesare Vanini ha vissuto tutta la vita non accontentandosi di verità precostituite: al contrario ha visto nella sua esistenza l’opportunità di indagare la natura, liberandosi da ogni facile dogma e promesse di future ricompense. Forse allora è questo che vuol dire, morire da filosofo: sentire la pienezza della vita anche nell’ora più buia, ma senza esserne vinti. Vivere fino alla fine con coerenza e coraggio. Morire da filosofi significa morire da vivi.
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Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
GIORDANO BRUNO, LE "TRE CORONE" E IL VANGELO ARMATO. Nuccio Ordine rilegge la grande opera di Bruno (e fa intravedere impensate connessioni con Dante, Boccaccio, Lessing e noi, tutti e tutte). Intervista di Maria Mantello
CIELO PURO E LIBERO MARE....
ETICA DELL’ATEISMO?! AL DI LA’ DEI FONDAMENTALISMI LAICI E RELIGIOSI: UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA
Federico La Sala
Lo studio dello psichiatra Boris Cyrulnik
Le zone del cervello in cui ha sede lo spirito religioso
di Massimo Ammaniti (la Repubblica, 03.11.2018)
È ben noto che la fede religiosa e la spiritualità aiutano lo stato psichico delle persone che soffrono di depressione e addirittura potrebbero rallentare l’evoluzione dei tumori. Non si tratta di un’ipotesi, la conferma sperimentale viene da una ricerca pubblicata dalla rivista Cancer su un ampio campione di pazienti che presentavano un tumore. Non è ancora chiaro, tuttavia, come la fede possa influire sull’evoluzione dei tumori, se aiuti a cambiare l’attitudine psicologica con cui si affronta la malattia oppure influisca sul funzionamento neurobiologico e immunitario potenziando le difese.
È un tema appassionante approfondito da Boris Cyrulnik, psichiatra francese di origine ebraica, sopravvissuto nella sua infanzia alle persecuzioni naziste.
Il libro Psicoterapia di Dio (Bollati Boringhieri) esplora in vari capitoli l’influenza crescente delle religioni nel mondo occidentale. E questa religiosità riguarda i cristiani, gli ebrei e i musulmani che vivono un’esperienza totalizzante che incide sulle pratiche della vita quotidiana e sulla loro visione del mondo. E mentre la religione ha le proprie cerimonie di culto, la spiritualità indica spesso un vissuto e un viaggio interiore che non necessita di una pratica religiosa.
E se tutto questo aiuta a trascendere le sofferenze della vita quotidiana e raggiungere uno stato di pacificazione personale, la fede troppo esclusiva può anche generare intolleranze, violenze e addirittura guerre che hanno segnato la storia dell’umanità.
L’adesione e l’appartenenza alla religione si costruisce giorno per giorno fin dall’infanzia, come il linguaggio, scrive Cyrulnik. Infatti attraverso l’esempio e le sollecitazioni dei genitori i bambini introiettano la fede che diventa parte integrante della loro identità. Nel film di Woody Allen Crimini e misfatti il protagonista, che appartiene a una famiglia ebraica praticante, racconta che da piccolo i genitori gli ripetevano «Dio ti guarda continuamente qualsiasi cosa fai»: «Forse per questo - commenta ironicamente - sono diventato oculista».
Il sentimento religioso si intreccia fin dall’inizio con l’attaccamento amoroso ai genitori e aiuta a sentirsi più sicuri. Quando si devono affrontare compiti impegnativi oppure si è vittime di traumi e avversità, ci si rivolge a Dio con la speranza che il suo intervento possa essere risolutivo. E anche quando ci si sente soli e disperati la relazione affettiva con Dio può essere consolatoria, aiutando a ritrovare la propria sicurezza personale.
Ma il sentimento religioso non riguarda solo la mente, anche il corpo ne viene coinvolto. Nelle pratiche religiose i fedeli si inginocchiano e si stendono a terra, si battono il petto, si muovono ritmicamente col corpo quasi a rafforzare con un coinvolgimento totale la propria partecipazione religiosa. Lo stesso cervello viene chiamato in causa quando ci si rivolge alla religione, soprattutto quando si raggiungono esperienze di ascesi e di estasi, nelle quali ci si libera del corpo e ci si avvicina a Dio.
Forse nel libro non viene abbastanza approfondito il coinvolgimento del cervello nel vissuto religioso, nonostante negli ultimi anni siano stati pubblicati interessanti studi. Fra questi una ricerca italiana che ha documentato quali aree cerebrali vengono attivate quando ci si immerge nella meditazione e si entra in un mondo trascendente, nel quale si perde il senso del tempo e si raggiunge una fusione ideale. Non sarebbe una singola area cerebrale che spiegherebbe la spiritualità, interverrebbero ampie aree cerebrali che interagiscono fra loro, dalla corteccia frontale a quella parietale e temporale.
Il pregio maggiore del libro consiste nell’affrontare i significati dell’esperienza religiosa con spirito critico, ma anche profondamente rispettoso, anche perché le religioni stanno assumendo una rilevanza sempre più grande nel mondo contemporaneo.
E’ MEZZOGIORNO... L’ ORA DEI VAMPIRI
di PAOLO MAURI (la Repubblica, 14 ottobre 1988)
SE AI TEMPI di Cenerentola non ci fosse stato l’orologio, un orologio in grado di battere le ore, di renderle esplicite per tutti, a mezzanotte non sarebbe successo proprio nulla. Perché il prodigio si compia, infatti, è necessario che scocchi l’ora fatidica, cioè che un segnale particolare la renda reale e sia pure relativamente ad un luogo e ad una comunità universale. L’ora fatidica dei fantasmi e dei vampiri non viene dunque, come comunemente si crede, da molto lontano: è un effetto speciale legato alla misurazione del tempo, una certezza tutto sommato abbastanza moderna.
Anticamente, cioè prima dell’ orologio, la scansione del giorno riguardava soprattutto le ore di luce, con un momento privilegiato: il mezzogiorno. Per quanto oggi possa apparire incredibile, fu proprio il mezzogiorno l’ ora fatidica dei prodigi e dei fantasmi, dei vampiri e dei demoni, delle apparizioni misteriose e del manifestarsi della follia. Il parallelo mezzanotte-mezzogiorno ci dice intanto una cosa fondamentale: che l’uomo ha bisogno di segnare nettamente i confini tra il regno della normalità e quello soprannaturale; colonne d’Ercole mentali, le ore fatidiche segnano il punto di passaggio tra ciò che si conosce e ciò che si teme, perché ignoto e quindi insieme terrifico e fascinoso.
E’ facile intuire perché l’uomo antico scegliesse il mezzogiorno come ora fatidica: intanto era un’ora riconoscibile anche a occhio e determinabile con una certa precisione, badando ad alcuni fenomeni alla portata di tutti. Il sole raggiunge il punto massimo nel cielo e le ombre sulla terra si accorciano fino a scomparire: una sorta di orologio rudimentale, lo gnomone, consiste proprio di un’asta che proiettando un’ombra consente di verificare l’ ora meridiana.
Proprio a I demoni meridiani dedicò uno studio, poco oltre la metà degli anni Trenta, Roger Caillois, ancora oggi ben noto e presente per i suoi lavori sul sacro e sul mito, nonché per le sue teorie sul gioco.
Era un momento delicato, in Europa, per dare spazio all’ irrazionale; e giustamente Carlo Ossola, che ha provveduto oggi a trasformare quello studio disperso in un libretto che esce tra pochi giorni (I demoni meridiani, Bollati Boringhieri, pagg. 128, lire 20.000) si sofferma nell’ introduzione sul clima culturale del tempo e sulle intenzioni del Collège de Sociologie dove Roger Caillois si trovava ad operare.
Il programma di Caillois (e naturalmente del Collège de Sociologie) è assai complesso: si tratta di illuminare i comportamenti degli uomini (anzi dell’ intero regno animale) attraverso i miti, che ne sono una rappresentazione. Devo qui, necessariamente, prendere una scorciatoia, non potendo (come fa Ossola nella sua introduzione) ricapitolare i principali passaggi di un’operazione culturale fascinosa e rischiosa insieme. Non appena il mito tocca il contemporaneo, l’analisi cede il posto alla volontà di fare. La passione di fare diventa bruciante.
Quando, dopo essersi occupato dei demoni meridiani, Caillois si mise a studiare il moderno mito di Parigi, con tutti i suoi corollari di superamento della mediocrità borghese verso una divina (o diabolica) volontà di potenza, il reale (in questo caso il nazismo) ha già fatto largo uso dell’irrazionale per porre le basi del suo progetto di dominio.
Sarà Marcel Mauss ad avvertire gli studiosi del Collège che stanno rischiando grosso: credo che siate tutti in questo momento sbandati, probabilmente sotto l’influsso di Heidegger, bergsoniano attardato nell’ hitlerismo, che legittima l’hitlerismo invasato d’ irrazionalismo....
Di fronte all’hitlerismo, inaccettabile perché razzista, Caillois fa marcia indietro, ed è probabilmente questo uno dei motivi per cui il suo studio sui demoni meridiani non venne da lui più tardi recuperato. Non tanto perché in esso trattasse questioni immediatamente pericolose: in fondo si tratta di una eruditissima ricognizione rivolta al recupero di una dimensione trascurata eppure anticamente assai attiva, ma soprattutto perché in esso stavano due chiavi comportamentali che potevano tranquillamente essere resuscitate anche nell’Europa moderna.
Da un lato, infatti, l’ora meridiana è l’ora dell’acedia, una forma di depressione, di taedium vitae, di spaesamento, che colpisce si tramanda i monaci e gli anacoreti del deserto portandoli a ripudiare il proprio essere monaci, a non capire più, o addirittura a non sopportare più, la propria condizione. L’acedia è la perdita del sacro.
D’ altra parte, a far da contraltare alla passività indotta dall’acedia, c’è la volontà di potenza e di immortalità favorita dall’ allucinazione che il calore meridiano provoca. Nella sua ambiguità la potenza del sole distrugge e feconda, sconfigge i deboli ed esalta, in senso proprio, i forti. C’ è dunque un messaggio di morte e contemporaneamente un accredito vitale nell’ ora fatidica.
Caillois ripercorre passo passo le situazioni topiche dell’ora meridiana: ora centrale del giorno che divideva in due zone ben distinte le cose lecite (o favorevoli) da quelle illecite. Racconta Plutarco, per esempio, che nessun condottiero romano avrebbe mai firmato un trattato o un atto importante dopo mezzogiorno. Sotto altri cieli (in Messico, presso gli aztechi) il mezzogiorno era un’ ora privilegiata per i sacrifici ed è sempre a mezzogiorno che le divinità si manifestano. Caillois ricorda che Pan, il più importante dio dell’Arcadia, era solito comparire appunto a mezzogiorno.
LA LETTURA del lavoro di Caillois mi ha fatto venire in mente un’ altra remota lettura, il libretto di Franz Altheim dedicato al cristianesimo e ai culti solari: si intitolava Il dio invitto e in Italia lo tradusse nel 1960 Feltrinelli. Anche il cristianesimo, che pure ha molto contribuito ad attribuire la luce al bene e le tenebre al male, ha le sue implicazioni con il sole e con i culti solari.
Risfogliandolo dopo tanto tempo ho letto che Costantino ebbe la visione della croce all’ ora meridiana del sole e che alla stessa ora la sua anima salì al cielo. Dunque il mezzogiorno è anche (o meglio soprattutto) l’ora dei morti, non fosse altro che per il fatto dell’ accorciamento e scomparsa dell’ ombra, che presso alcuni rappresentava l’ anima. (L’avventura di Peter Schlemihl ha dunque radici assai remote). L’ora dei morti (seguo sempre Caillois) era riservata alle libagioni in onore dei morti: anche in Sofocle è mezzogiorno quando Antigone viene ad offrire il sacrificio per il fratello. Di qui la credenza, abbastanza diffusa, che si trattasse di un’ora sacra e quindi pericolosa: nei templi si tiravano le tende a quell’ ora fatale, bambini e donne erano invitati a non uscire di casa e i morti senza pace ne approfittavano per manifestarsi. Particolarmente nutrita quest’ultima categoria, come attestano numerose fonti: la guardia forestale con la testa sotto il braccio, il cavaliere senza testa che è stato impiccato, l’uomo senza testa attorniato dai cani... Anche il cadavere che non ha ricevuto gli onori funebri appare a mezzogiorno: lo ricorda anche Stazio nella Tebaide.
Ancora: mezzogiorno è l’ ora della malia incantatrice. L’autore si rifà qui alla leggenda delle sirene, già nell’antichità messe in relazione con Sirio, la stella più brillante del Cane, foriera di spossatezza, di lascivia e quindi di mortale abbandono. Si mescolano qui due temi di lunga durata: il piacere e la morte, sicché s’introduce l’elemento sessuale, nella doppia accezione della fecondazione e dell’ abbandono ai sensi.
MA IL VIAGGIO non è finito: ancora molte sorprese attendono il lettore, che verrà condotto, nell’ora accidiosa della calura, a spiare i pastori emuli di Pan (o Pan ricalcato sulle abitudini lascive dei pastori); sfinito dal canto delle cicale, già immortalate da Platone; sbarcato nella pericolosa terra dei lotofagi, dove le sirene, che reggono un loto, ritornano, quasi a chiudere il cerchio dell’ incantesimo. Si toccheranno, ancora, le spiagge del sonno pericoloso e popolato (in senso classico) di incubi, si toccheranno le soglie della furia allucinata, con l’ apparire delle Ninfe, anch’esse meridiane, protettrici del sacro.
Nella catastrofe finale l’ora fatidica e terrifica sarà ulteriormente gravida di eventi eccezionali: è il terremoto di mezzogiorno, l’oscuramento del sole. Non c’ è bisogno, per questo, di allontanarsi troppo da testi assai noti anche oggi: non è forse il sacrificio di Cristo, consumato tra mezzogiorno e le tre, annunciato da un oscuramento e da un terremoto? A mezzogiorno appaiono gli angeli ad Abramo per annunciargli la nascita di Isacco; a mezzogiorno Giovanna d’ Arco sente le voci; la tradizione ebraica racconta il demone di mezzogiorno come un mostro fatto di scaglie e di capelli, con un occhio solo situato a livello del cuore.
Che il fascino un po’ morboso e misterioso delle ore della massima calura non sia finito con gli antichi, lo testimonia molta letteratura a noi vicina. Caillois aveva sottomano, allora, un romanzo di Paul Bourget, Le démon de midi, ma ben prima di lui Montale s’ era cimentato col sole che abbaglia, nell’ accidia del meriggiare che lo induce a riflettere con triste meraviglia sul significato del vivere; e come non ricordare, pescando un esempio a caso tra quanti vengono alla mente, l’ora della calura, con i suoi corollari di sonno, sesso e indolenza propiziata dal frinire delle cicale, nel film di Tavernier, Una domenica in campagna? Per dire, in buona sostanza, che il viaggio nel sole non è certo finito, ma anche che certi miti bisogna guardarli di traverso e non cedere, supini, al loro culto. La storia ha già dimostrato, meglio della medicina, come siano nefasti certi colpi di sole.
Archivio "la Repubblica", 14 ottobre 1988.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
DELLO SPIRITO DI ALEXANDRE KOJÈVE (Mosca 1902 - Parigi 1968). PORTARE LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DI "DUE IO" AL DI LA’ DELLE MAGLIE DELLA DIALETTICA HEGELIANA.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
MESSAGGIO EVANGELICO E ILLUMINISMO KANTIANO, OGGI.
"SAPERE AUDE!": SOLO AL DI LA’ DELLA DELLA DIALETTICA "SERVO-PADRONE", LA DEMOCRAZIA E’ POSSIBILE...
La parabola dei talenti
di ENZO BIANCHI (Monastero di Bose, 19 novembre 2017)
La parabola dei talenti proposta dalla liturgia odierna è una parabola che, secondo il mio povero parere, oggi è pericolosa: pericolosa, perché più volte l’ho sentita commentare in un modo che, anziché spingere i cristiani a conversione, pare confermarli nel loro attuale comportamento tra gli altri uomini e donne, nel mondo e nella chiesa. Dunque forse sarebbe meglio non leggere questo testo, piuttosto che leggerlo male...
In verità questa parabola non è un’esaltazione, un applauso all’efficienza, non è un’apologia di chi sa guadagnare profitti, non è un inno alla meritocrazia, ma è una vera e propria contestazione verso il cristiano che sovente è tiepido, senza iniziativa, contento di quello che fa e opera, pauroso di fronte al cambiamento richiesto da nuove sfide o dalle mutate condizioni culturali della società. La parabola non conferma neppure “l’attivismo pastorale” di cui sono preda molte comunità cristiane, molti “operatori pastorali” che non sanno leggere la sterilità di tutto il loro darsi da fare, ma chiede alla comunità cristiana consapevolezza, responsabilità, laboriosità, audacia e soprattutto creatività. Non la quantità del fare, delle opere, né il guadagnare proseliti rendono cristiana una comunità, ma la sua obbedienza alla parola del Signore che la spinge verso nuove frontiere, verso nuovi lidi, su strade non percorse, lungo le quali la bussola che orienta il cammino è solo il Vangelo, unito al grido degli uomini e delle donne di oggi quando balbettano: “Vogliamo vedere Gesù!” (Gv 12,21).
Leggiamo allora con intelligenza questa parabola la cui prospettiva - lo ripeto - non è economica né finanziaria; essa non è un invito all’attivismo ma alla vigilanza che resta in attesa, non contenta del presente ma tutta protesa verso la venuta del Signore. Egli non è più tra di noi, sulla terra, è come partito per un viaggio e ha affidato ai suoi servi, ai suoi discepoli un compito: moltiplicare i doni da lui fatti a ciascuno. Nella parabola, a due servi il Signore ha lasciato molto, una somma cospicua - cinque lingotti di argento a uno, due a un altro -, affinché la facciano fruttificare; a un terzo servo ha lasciato un solo lingotto, che comunque non è poco. In tutti egli ha messo la sua fiducia senza limiti, confidando loro i suoi beni. Spetta dunque ai servi non tradire la grande fiducia del padrone e operare una sapiente gestione dei beni, non di loro proprietà ma del padrone, il quale al suo ritorno darà loro la ricompensa. A ciascuno il padrone da in funzione della sua capacità, e il suo dono è anche un compito: custodire e far fruttificare.
Al di là dell’immagine dei talenti, che cos’è questo dono, in definitiva? Secondo Ireneo di Lione è la vita accordata da Dio a ogni persona. La vita è un dono che non va assolutamente sprecato, ignorato o dissipato. Purtroppo - dobbiamo constatarlo - per alcuni la vita non ha alcun valore: non la vivono, anzi la sprecano e la sciupano “fino a farne una stucchevole estranea” (Konstantinos Kavafis), e così si lasciano vivere. Eppure si vive una volta sola e il farlo con consapevolezza e responsabilità è decisivo al fine di salvare una vita o perderla! Secondo altri padri orientali, i talenti sono le parole del Signore affidate ai discepoli perché le custodiscano, certo, ma soprattutto le rendano fruttuose nella loro vita, le mettano in pratica fino a seminarle copiosamente nella terra che è il mondo. Di nuovo, è questione di vita, di “scegliere la vita” (cf. Dt 30,19).
“Dopo molto tempo” - allusione al ritardo della parusia, della venuta gloriosa del Signore (cf. Mt 24,48; 25,5) - il padrone ritorna e chiede conto della fiducia da lui riposta nei suoi servi, i quali devono mostrare la loro capacità di essere responsabili, in grado cioè di rispondere della fiducia ricevuta. Eccoli dunque presentarsi tutti davanti a lui. Colui che aveva ricevuto cinque talenti si è mostrato operoso, intraprendente, capace di rischiare, si è impegnato affinché i doni ricevuti non fossero diminuiti, sprecati o inutilizzati; per questo, all’atto di consegnare al padrone dieci talenti, riceve da lui l’elogio: “Bene, servo buono e fedele, ... entra nella gioia del tuo Signore”. Lo stesso avviene per il secondo servo, anche lui in grado di raddoppiare i talenti ricevuti. Per questi due servi la ricompensa è proporzionalmente uguale, anche se le somme affidate erano diverse, perché entrambi hanno agito secondo le loro capacità.
Viene infine colui che aveva ricevuto un solo talento, il quale mette subito le mani avanti, manifestando il pensiero che lo ha paralizzato: “Da quando mi hai dato il talento, io sapevo che sei un uomo duro, esigente, arbitrario, che fa ciò che vuole, raccogliendo anche dove non ha seminato”. Con queste sue parole (“dalle tue parole ti giudico”, si legge nel testo parallelo di Lc 19,22) il servo confessa di essersi fabbricato un’immagine distorta del Signore, un’immagine plasmata dalla sua paura e dalla sua incapacità di avere fiducia nell’altro: egli considera il padrone come qualcuno che gli fa paura, che chiede una scrupolosa osservanza di ciò che ordina, che agisce in modo arbitrario. Avendo questa immagine in sé, ha scelto di non correre rischi: ha messo al sicuro, sotto terra, il denaro ricevuto, e ora lo restituisce tale e quale. Così rende al padrone ciò che è suo e non ruba, non fa peccato... Ma ecco che il Signore va in collera e gli risponde: “Sei un servo malvagio (ponerós) e pigro (oknerós). Malvagio perché hai obbedito all’immagine perversa del Signore che ti sei fatta, e così hai vissuto un rapporto di amore servile, di amore ‘costretto’. Per questo sei stato pigro, inaffidabile, non hai avuto né il cuore né la capacità di operare secondo la fiducia che ti avevo accordato. Non hai fatto neanche lo sforzo di mettere il talento in banca, dove sarebbe stato fruttuoso, dandomi interessi. Non hai avuto cura del mio bene affidato a te”.
Sì, lo sappiamo: è più facile seppellire i doni che Dio ci ha dato, piuttosto che condividerli; è più facile conservare le posizioni, i tesori del passato, che andarne a scoprire di nuovi; è più facile diffidare dell’altro che ci ha fatto del bene, piuttosto che rispondere consapevolmente, nella libertà e per amore. Ecco dunque la lode per chi rischia e il biasimo per chi si accontenta di ciò che ha, rinchiudendosi nel suo “io minimo”. Questo servo non ha fatto il male; peggio ancora, non ha fatto niente! Dunque davanti a Dio nel giorno del giudizio compariranno due tipi di persone:
chi ha ricevuto e ha fatto fruttificare il dono,
chi lo ha ricevuto e non ha fatto niente.
I servi fedeli entreranno nella gioia del Signore; chi invece è stato “buono a nulla” (achreîos) sarà spogliato anche dei meriti che pensava di poter vantare!
Ma a me piacerebbe che la parabola si concludesse altrimenti: così sarebbe più chiaro il cuore del padrone, mentre il cuore del discepolo sarebbe quello che il padrone desidera. Oso dunque proporre questa conclusione “apocrifa”:
Venne il terzo servo, al quale il padrone aveva confidato un solo talento, e gli disse: “Signore, io ho guadagnato un solo talento, raddoppiando ciò che mi hai consegnato, ma durante il viaggio ho perso tutto il denaro. So però che tu sei buono e comprendi la mia disgrazia. Non ti porto nulla, ma so che sei misericordioso”. E il padrone, al quale più del denaro importava che quel servo avesse una vera immagine di lui, gli disse: “Bene, servo buono e fedele, anche se non hai niente, entra pure tu nella gioia del tuo padrone, perché hai avuto fiducia in me”.
Anche così la parabola sarebbe buona notizia!
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MESSAGGIO EVANGELICO E ILLUMINISMO, OGGI: "SAPERE AUDE! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza" (I. Kant).
LA PAURA DI PENSARE E LA PARABOLA DEI TALENTI. Perché chiudere la nostra vita in una scatola? Una riflessione di Angelo Casati
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
IL MALE E L’ATEISMO
di Sarantis Thanopulos (Psychiatry on line Italia, 16 agosto, 2017)
Secondo uno studio pubblicato su Nature Human Behaviour il 7 Agosto, nel mondo è diffuso il pregiudizio che gli atei sono potenzialmente inclini a compiere azioni dannose e moralmente depravate. L’idea che le persone cedono al male se non temono la punizione dei Dei che vedono tutto sembra ancora dominante. Lo studio condotto da un gruppo internazionale di ricercatori, coordinato da Will. M. Gervais dell’Università del Kentucky, ha interessato 3.000 persone di 13 paesi dei cinque continenti: Finlandia, Nuova Zelanda, Regno Unito, Olanda, Repubblica Cieca, Australia, Isole Mauritius, Hong Kong, Stati Uniti, Cina, Emirati Arabi, Singapore, India. Ad eccezione di Finlandia e di Nuova Zelanda, in tutti i paesi presi in considerazione il pregiudizio nei confronti dell’ateismo è elevato, in particolare negli Stati Uniti, negli Emirati Arabi e in India.
In un epoca in cui crimini orrendi vengono compiuti da fanatici religiosi di vario orientamento, il risultato della ricerca può apparire stupefacente. A pensarci bene esso è, invece, coerente. L’azione fanatica religiosa con la religione di per sé non ha molto a che fare. Il credo religioso corrisponde storicamente all’esigenza dell’uomo di far fronte alla paura della morte e a quella, ad essa strettamente connessa, di sentirsi alla mercé delle forze esterne della natura e/o di quelle interne pulsionali, psichicamente impotente a gestire il loro impatto.
In definitiva Dio è il principio di sicurezza che consente la coesione di un apparato psichico, altrimenti passibile di destabilizzazioni preoccupanti. Ispira la costituzione e il funzionamento di istituzioni investite psichicamente che regolano dall’esterno emozioni, sentimenti, comportamenti e relazioni umane. Vista in questa prospettiva la “religiosità”, non necessariamente legata a una figura divina e spesso associata a un ideale o a un ipotetico “sguardo di Dio”, fa parte di ogni esperienza umana: non è su questo piano che si distingue l’ateo dal credente.
Il fanatico religioso -lo sterminatore che agisce come messaggero di morte- si identifica con il terrore che il credere in un Dio cerca di combattere. Costituisce la punizione come principio di ordinamento e la trasforma da custode delle credenze e dei dogmi in regola a sé stante e implacabile. Visto in questa prospettiva il fanatico è senza Dio, un a-theos.
La distinzione del religioso iperbolico che cade fuori dallo spazio della sua fede, o di colui che fa di un’idea impersonale del mondo un dogma a cui assoggetta il vivere, dall’ateo vero e proprio, il quale non si riconosce in regole della vita provenienti da un’autorità divina o da un principio astratto ordinatore dell’esistenza, è dirimente. Quest’ultimo non affida il senso di equilibrio della sua posizione nel mondo a forze o a principi esterni superiori al suo desiderio. Si avvale, invece, della sua capacità di differenziare tra ciò che dà senso e gusto alla vita e ciò che si rivela morto al gusto del vivere.
Ciò che è difficile riconoscere, e in effetti la grande maggioranza degli intervistati nei 13 diversi paesi non si dimostra in grado di farlo, è la diversa incidenza che hanno nella distinzione tra bene e male, l’imperativo morale che limita preventivamente il desiderio, rendendolo inoffensivo in partenza, e il principio etico di una passione responsabile la cui soddisfazione è intrinsecamente legata alla libertà del suo oggetto.
Il primo definisce il giusto come verità che trascende la propria esperienza e agisce perlopiù come censura. Il secondo lega la verità alle trasformazioni reali del rapporto con l’alterità che richiedono il suo rispetto.
Capitalismo come religione
di Walter Benjamin *
Nel capitalismo va individuata una religione; il capitalismo, cioè, serve essenzialmente all’appagamento delle stesse preoccupazioni, tormenti, inquietudini a cui in passato davano risposta le cosiddette religioni. Dimostrare tale struttura religiosa del capitalismo - e non solo, come ritiene Weber, in quanto costruzione determinata in senso religioso, bensì in quanto fenomeno essenzialmente religioso - condurrebbe ancora oggi nella direzione sbagliata di una smisurata polemica universale. Non possiamo sbrogliare la rete in cui ci troviamo. In seguito, tuttavia, ne avremo una visione d’insieme.
Tre tratti di questa struttura religiosa del capitalismo sono però riconoscibili già nel presente. In primo luogo, il capitalismo è una religione puramente cultuale, la più estrema forse che mai si sia data. Tutto, in esso, ha significato soltanto in rapporto immediato con il culto; non conosce nessuna particolare dogmatica, nessuna teologia. L’utilitarismo acquisisce, da questo punto di vista, la sua coloritura religiosa. A questa concretizzazione del culto è connesso un secondo tratto del capitalismo: la durata permanente del culto. Il capitalismo è la celebrazione di un culto sans [t]rêve et sans merci [“senza tregua e senza pietà”]. Non ci sono “giorni feriali”; non c’è giorno che non sia festivo, nel senso spaventoso del dispiegamento di ogni pompa sacrale, dello sforzo estremo del venerante. Questo culto è in terzo luogo, al contempo, colpevolizzante e indebitante (verschuldend). Il capitalismo è presumibilmente il primo caso di un culto che non consente espiazione, bensì produce colpa e debito (verschuldend). Ed è qui che questo sistema religioso precipita in un movimento immane. Una terribile coscienza della colpa (Schuldbewuβtsein), che non sa purificarsi, ricorre al culto non per espiare in esso questa colpa, bensì per renderla universale, per conficcarla nella coscienza e, infine e soprattutto, per coinvolgere in questa colpa il dio stesso e alla fine rendere lui stesso interessato all’espiazione.
Espiazione che tuttavia non va attesa dal culto stesso, e nemmeno dalla riforma di questa religione - che dovrebbe potersi reggere su qualcosa di saldo in essa - e neanche dal rinnegarla. È nell’essenza di questo movimento religioso - che è il capitalismo - resistere fino alla fine, fino alla finale e completa colpevolizzazione di Dio, al suo indebitamento, fino al raggiungimento dello stato di disperazione del mondo, in cui si arriva persino a sperare. In questo consiste l’aspetto storicamente inaudito del capitalismo: la religione non è più riforma dell’essere, bensì la sua frantumazione. L’estensione della disperazione a stato religioso del mondo è ciò da cui si attende la salvezza. La trascendenza di Dio è caduta. Ma egli non è morto, è incluso nel destino umano. Questo transito del pianeta Uomo per la casa della disperazione, nell’assoluta solitudine della sua orbita, è l’ethos che Nietzsche determina. Questo uomo è l’Übermensch, il primo che comincia consapevolmente a compiere la religione capitalistica. Il cui quarto tratto è che il suo Dio deve restare nascosto ed è permesso invocarlo soltanto allo Zenit della sua colpevolizzazione, del suo indebitamento. Il culto è celebrato al cospetto di una divinità immatura - ogni rappresentazione, ogni pensiero rivolto a essa viola il segreto della sua maturità.
Anche la teoria freudiana appartiene al dominio sacerdotale di questo culto. Essa è concepita interamente in modo capitalistico. Il rimosso, la rappresentazione peccaminosa, è - per una profonda analogia ancora da esaminare - il capitale, che grava di interessi l’inferno dell’inconscio.
Il tipo di pensiero religioso capitalistico si trova espresso grandiosamente nella filosofia di Nietzsche. L’idea dell’Übermensch disloca il “balzo” apocalittico non nell’inversione (Umkehr), nell’espiazione, nella purificazione, nella penitenza, bensì in un potenziamento apparentemente costante, ma che nell’ultimo tratto è dirompente e discontinuo. Pertanto, potenziamento e sviluppo nel senso del “non facit saltum” sono incompatibili. L’Übermensch è l’uomo storico giunto alla sua condizione senza inversione di rotta, cresciuto fino ad attraversare il cielo. Nietzsche ha anticipato questa deflagrazione del cielo per mezzo di un elemento umano potenziato, che (anche per Nietzsche) è e resta in termini religiosi colpevolizzazione. E più o meno lo stesso vale per Marx: il capitalismo che non si inverte diviene - con interessi e interessi composti che sono funzioni del debito (notare l’ambiguità demoniaca di questo concetto) - Socialismo.
Il capitalismo è una religione di mero culto, senza dogma.
Il capitalismo si è sviluppato in Occidente - come va dimostrato non soltanto per il calvinismo, ma anche per le altre correnti cristiane ortodosse - in modo parassitario sul cristianesimo, in modo tale che, alla fine, la storia di quest’ultimo è essenzialmente quella del suo parassita, il capitalismo.
Paragone tra, da un lato, le immagini sacre delle diverse religioni e, dall’altro, le banconote dei diversi Stati. Lo spirito che parla dall’ornamento delle banconote.
Capitalismo e diritto. Carattere pagano del diritto: Sorel, Réflexions sur la violence, p. 262.
Superamento del capitalismo mediante la migrazione: Unger, Politik und Metaphysik, p. 44.
Fuchs, Struktur der kapitalistischen Gesellschaft (o qualcosa di simile).
Max Weber, Ges. Aufsätze zur Religionssoziologie, 2 voll., 1919-1920.
Ernst Troeltsch, Die Soziallehren der chr. Kirchen und Gruppen (Ges. W. I, 1912).
Si vedano le indicazioni bibliografiche di Schönberg II.
Landauer, Aufruf zum Sozialismus, p. 144.
Le preoccupazioni: una malattia dello spirito propria dell’epoca capitalistica. Assenza spirituale (e non materiale) di via d’uscita nella povertà e nel monachesimo di vaganti e mendicanti. Una condizione che è talmente senza via d’uscita da essere colpevolizzante e indebitante. Le “preoccupazioni” sono l’indice di tale coscienza della colpa per l’assenza di via d’uscita. Le “preoccupazioni” sorgono dall’angoscia per l’assenza di una via d’uscita che sia comunitaria e non individuale-materiale.
Il cristianesimo nell’epoca della Riforma non ha favorito l’avvento del capitalismo, ma si è trasformato in capitalismo.
Sul piano metodologico si dovrebbe indagare innanzitutto quali legami il denaro abbia stretto con il mito nel corso della storia, finché non ha potuto trarre dal cristianesimo così tanti elementi mitici da costituire un proprio mito.
Guidrigildo / thesaurus delle buone opere / compenso dovuto al sacerdote. Pluto come dio della ricchezza.
Adam Müller, Reden über die Beredsamkeit, 1816, p. 56 sgg.
Connessione con il capitalismo del dogma della natura dissolutrice del sapere, che ha la capacità al contempo di redimerci e di ucciderci: il bilancio in quanto sapere che redime e che liquida.
Contribuisce a riconoscere che il capitalismo è una religione rammentare che il paganesimo originario ha dapprima compreso la religione non come un interesse “superiore” e “morale”, bensì come il più immediato interesse pratico; in altre parole, non aveva affatto chiaro, come il capitalismo odierno, la sua natura “ideale” o “trascendente”, ma vedeva piuttosto nell’individuo irreligioso o di altra confessione della sua comunità un membro indubitabile di essa, proprio nel senso in cui la borghesia di oggi considera i suoi membri che non guadagnano.
[metà 1921]
Walter Benjamin, Gesammelte Schriften, vol. VI, a cura di Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhäuser, Frankfurt a.M. 1972-1989, pp. 100-103; in Dario Gentili, Mauro Ponzi, Elettra Stimilli (a cura di), Il culto del capitale. Walter Benjamin: Capitalismo e religione, Quodlibet, Macerata 2014, pp. 9-12. Traduzione a cura del Seminario dell’Associazione Italiana Walter Benjamin (AWB).
Vai allo speciale IL CULTO DEL CAPITALE
Marx e Kierkegaard giornalisti
di Fabrizio Denunzio (DoppioZero, 21 giugno 2016)
Cosa hanno in comune due autori così radicalmente diversi come Karl Marx e Søren Kierkegaard? Cosa accomuna il padre del comunismo a quello dell’esistenzialismo? In cosa convergono filosofie che hanno come protagonisti agenti sociali antitetici come quello oggettivo, massificato del proletariato industriale e quello soggettivo, isolato del credente cristiano?
Un’autorevole risposta la troviamo in un classico del pensiero filosofico, Da Hegel a Nietzsche (1941) di Karl Löwith. A parere dell’autore il terreno comune su cui si fondano le riflessioni di Marx e di Kierkegaard è rappresentato dal comune nemico contro cui entrambi combattono: Hegel. Lì dove quest’ultimo, dovendo legittimare lo Stato prussiano, spinge ad accettare la realtà esistente sostenendone l’intrinseca razionalità, di conseguenza mettendo fuori gioco la dialettica oppositiva che anima il conflitto sociale, Marx e Kierkegaard insorgono, di fronte a questa conciliazione reazionaria tornano a separare proprio ciò che Hegel ha unito: la ragione dalla realtà. Lì dove Hegel assicura unità e saldezza al mondo borghese, capitalista e cristiano, tanto Marx, per ciò che riguarda il sistema di produzione, quanto Kierkegaard, per ciò che concerne il sistema della credenza, provvedono a dissolverlo. Il primo con la rivoluzione comunista, il secondo con un profondo rinnovamento della cristianità.
All’autorevole risposta di Löwith ne vogliamo affiancare un’altra, non filosofica ma di ordine comunicativo in grado questa di farci sentire tutta l’attualità di questi autori, un’attualità che spesso, purtroppo, la sola filosofia non riesce a evidenziare in tutta la sua potenza. Ciò che a nostro parere hanno in comune Marx e Kierkegaard è l’aver assistito e l’essere stati travolti dalla nascente industria culturale del loro tempo incarnata dal giornalismo.
Come nel caso di Marx è possibile ripercorrere oggi una significativa parte della sua produzione giornalistica attraverso Dal nostro corrispondente a Londra. Karl Marx giornalista per la New York Daily Tribune (traduzione e cura di G. Vintaloro, Corpo60, ebook, euro 6,99), così anche in quello di Kierkegaard è possibile fare un’operazione del genere grazie ai suoi Scritti sulla comunicazione (a cura di Cornelio Fabbro, pp. 363, euro 25) ripubblicati di recente dalla casa editrice Orthotes.
Il volume, sebbene non raccolga gli articoli scritti dal 1854 al 1855 per il giornale “La Patria”, e debitamente sottratto a una mera lettura specialistica, ci permette di ricostruire nelle sue linee generali il rapporto di Kierkegaard con la stampa: dallo sgomento provato di fronte alla standardizzazione della lettura, quindi alla trasformazione della massa in pubblico prodotta dall’avvento delle testate giornalistiche, alla sua risposta operativa in termini di strategia comunicativa.
Volendo riportare tanto la reazione emotiva quanto la sua corrispondente elaborazione razionale alle teorie sociali del Novecento, diremo che la prima verrà confermata dalla visione apocalittica dell’industria culturale elaborata dalla Scuola di Francoforte, mentre la seconda echeggerà nella concezione del giornalismo di Gramsci. Partiamo dallo sgomento.
L’esistenza della stampa impone un cambiamento di funzione allo scrittore. Dal momento che essa per vivere ha bisogno di una significativa quantità di lettori, il contenuto e la qualità della scrittura si abbassano notevolmente: la prosa giornalistica si caratterizza per astrattezza, impersonalità e superficialità. Questa omologazione verso il basso ha come conseguenza più negativa quella di imporre allo scrittore che non è giornalista, ma che, a suo pari, ha la necessità di essere letto, di adeguarsi allo stato di cose esistenti soprattutto perché, oramai, il pubblico, educato alla lettura secondo le modalità della stampa, si intestardisce nel volere quel tipo di ‘letteratura’. Lo sgomento di Kierkegaard, allora, sta nel fatto che la “letteratura giornalistica abbandona la critica e scrive per la massa”, per la folla, ossia, per “la falsità”.
Sebbene apocalittico, questo sgomento non solo non è estraneo alla storia della cultura - Raymond Williams in Cultura e rivoluzione industria culturale (1958) ha magistralmente dimostrato quanto in realtà esso fosse tipico tra scrittori e poeti inglesi dell’Ottocento e quanto fosse indicativo della loro reazione di fronte all’industrializzazione del mondo sociale - ma ha anche una sua certa lucidità. Permette, ad esempio, guardando attentamente nella sua filigrana, di individuare, allo stato nascente, tratti fondanti dell’industria culturale: “l’interesse finanziario dell’editore”; il “non parlare ad un singolo o a singoli uomini, ma al mondo intero”; “si stampa sempre più in fretta”; “la potenza del momento e la potenza della diffusione”. Capitale culturale, pubblico di massa, alta velocità dei consumi, moda e grande distribuzione. Come dicevamo, quello di Kierkegaard è uno sgomento molto produttivo per capire il momento genetico dell’industria culturale, quei suoi elementi fondativi che, diversamente dosati, continuano ancora oggi a organizzarne il funzionamento.
La cosa molto interessante del filosofo danese è che non lascia questo sgomento a se stesso. Consapevole dello stato in cui si trova la scrittura in seguito all’avvento della stampa, quindi informato dei nuovi termini in cui si configura il rapporto autore/pubblico, decide di elaborarlo razionalmente: “chiunque debba attuare qualcosa, deve conoscere il suo tempo - e così avere il coraggio di affrontare il pericolo d’impiegare il mezzo più sicuro”.
Affrontare il problema del pubblico nell’era del giornalismo, che non sarebbe altro da quello della falsità della folla, significa porre la questione della verità. Anche in questo caso Kierkegaard si ritrova con Marx: infatti il ‘moro’ nel corso della sua attività giornalistica, tanto alla “Gazzetta renana” (1842-1843) quanto alla “New York Daily Tribune” (1852-1861), non aveva fatto altro che praticare un modello di giornalismo animato dal dire la verità che, nel suo caso, significava fare prendere coscienza ai dominati della loro condizione e ribaltarla. Come Marx collegava il suo dire la verità alla critica del sistema produttivo capitalistico, così Kierkegaard la connette a quella della cristianità del suo tempo, con una differenza sostanziale, ammette come possibile l’inganno: “Si può ingannare un uomo per la verità e si può ingannarlo, come faceva il vecchio Socrate, per portarlo alla verità. In fondo non c’è che un modo per portare alla verità un uomo, ch’è preda della fantasticheria: ingannandolo”.
Con una spregiudicatezza inaudita Kierkegaard, fermo nella convinzione che nulla sia più difficile dello scardinare un uomo dalle illusioni in cui vive e che nulla paghi di meno di un attacco frontale a questo mondo illusorio, pratica un modello del dire la verità che fa sue le potenze dell’inganno. Ai simulacri della cristianità in cui crede la folla, Kierkegaard non oppone una verità superiore, tutt’altro, pensa di poterli rovesciare solo con la forza di altri simulacri, per questo motivo, sceso sul mercato editoriale, fa ricorso a una serie infinita di pseudonimi: Victor Eremita, Johannes de Silentio, Frater Taciturnus e così via. Ciò che l’autore si ripromette da un modello di verità di questo tipo, perseguito con il mascheramento, è di collocarsi “esattamente” nel “posto dove si trova l’altro” e, proprio come in seguito farà Gramsci con le nozioni popolari del senso comune (da qui l’affinità tra i due), iniziare a lavorare dall’interno della situazione illusoria per dissolverne, diciamo così, l’illusorietà, in modo tale da “condurlo”, l’altro, “dove ti trovi tu”, che nel caso di Kierkegaard vuol dire in un cristianesimo radicale.
Se in Marx la critica dell’economia politica presuppone la critica dell’ideologia della classe dominante nelle forme (anche giornalistiche) della presa di coscienza, in Kierkegaard la critica della cristianità istituzionale si basa a sua volta su una critica della falsità portata avanti con la forza (anche giornalistica) del simulacro.
Giordano Bruno, a firma di Aldo Masullo. Nessun capo è assoluto, solo la diversità ci salva
di Salvatore Balasco (Agenzia Radicale, 17 Febbraio 2016)
Giordano Bruno ci avvia alla grande riflessione etica della modernità, che poi con Emanuele Kant si compie. L’inaudita idea cosmologica bruniana della pari dignità di tutti i centri porta in sé implicita l’idea kantiana del nesso emancipazione-responsabilità.
A rimarcarlo è il filosofo Aldo Masullo, nel libro ’Giordano Bruno maestro di anarchia’, oggi in libreria per le Edizioni Saletta dell’Uva (Caserta, pp. 120, euro 10.
Il volume, che esce proprio nell’anniversario del rogo di Campo dei Fiori (17 febbraio 1600), è pubblicato nella Collana ’Le uova del Drago’ diretta da Gerardo Picardo, e presenta quattro approfondimenti sul pensiero inquieto del Nolano: ’Il confusissimo secolo’, ’Il mondo rinversato’, ’Convertiamoci alla giustizia’ e ’Il Bruno di Gentile e una critica di Sasso’.
In queste pagine di grande intensità, Masullo indaga il pensiero di un filosofo che gli ha fatto sempre compagnia. Ragione e fondamento della responsabilità non è il passato ma il futuro: il pensiero che dalla nostra decisione dipende il futuro non solo nostro ma di altri, o addirittura dell’umanità intera.
Scrive il professore emerito di Filosofia morale all’Università di Napoli: "La filosofia di Bruno, secondo cui ogni luogo dell’infinito universo è centro, e ogni uomo, in quanto vita di ragione, dunque libero, ha pari dignità con ogni altro, è la base speculativa dell’idea politica della democrazia. Tutti liberi in forza della ragione, che li caratterizza come uomini, gli individui sono costitutivamente comunicanti ossia, come scrive Bruno nello Spaccio della bestia trionfante, partecipi del «campo del Convitto, Concordia, Communione». Insomma l’umano è contrassegnato dalla non separatezza degl’individui, dalla loro relazione".
Il Nolano pensa insieme l’idea cosmologica e il principio etico, che fondano la modernità politica, la forma democratica dell’ordine civile. Per lui ogni individuo umano, in quanto centro irriducibile tra infiniti centri irriducibili, con cui non può non essere sempre aperto a comunicare, è portatore di responsabilità piena. Ma proprio perciò nessun capo è assoluto. L’ordine umano è anarchico.
C’è ordine in una società, solo quando tutte le diversità sono ugualmente rispettate. La dignità umana comporta il rifiuto dell’unità e la ricerca dell’unione.
Capire Bruno è capire il suo tempo espresso nei suoi pensieri. Ma, poiché nel capire noi pensiamo secondo il nostro tempo, così com’esso nei nostri pensieri si esprime, una ed una sola criticamente legittima ‘attualizzazione’ di Bruno si può concepire, ovvero il confronto tra i suoi pensieri del suo tempo e i nostri pensieri del nostro tempo.
Allora, dato che il tempo di Bruno è la «crisi radicale», in cui nacque la modernità, e il nostro tempo la «crisi radicale», in cui la modernità agonizza, va attentamente considerato se possano cogliersi strutture problematiche di fondo, comuni - non certo per identità ma per analogia - all’uno e all’altro tempo, di volta in volta espresse nei pensieri di Bruno e nei nostri pensieri.
Nel caso in cui tali strutture effettivamente si presentassero, Bruno per noi non più soltanto rappresenterebbe un forte personaggio storico - pensatore geniale, strenuo polemista, radicale innovatore, raro carattere d’intellettuale fermezza (eroico, o forse patetico in un mondo di accomodante nicodemismo) - ma si rivelerebbe, nel suo tempo, il compagno di tutti noi, nel nostro tempo.
Il pensiero di Bruno è il canto della ragione, la quale non può rinunciare alla prospettiva in cui la sua essenza consiste. Se non pensiamo la questione dei ‘diritti umani’ come centrale struttura problematica del presente, non possiamo comprendere il nostro tempo nei nostri pensieri.
Tra la struttura problematica del tempo di Bruno, in cui egli pensa la ragione intendendola come paritaria dignità degl’infiniti centri di soggettività, e la struttura problematica del tema dei ‘diritti umani’, in cui noi oggi pensiamo il nostro tempo, l’analogia è evidente. È questo uno dei motivi per cui Bruno, nel suo tempo, ci è compagno, nel nostro tempo.
Salvatore Balasco
SCHEDA:*
Giuseppe Cantillo & Mariapaola Fimiani, Il fondamento nascosto. L’etica attiva di Aldo Masullo
Nell’immaginato Dialogo di Giordano Bruno e un Procuratore di Stato Aldo Masullo fa dire al Nolano: «Il generale buon senso non sempre è buono. Può essere bonario, accomodante, ma non perciò buono, ossia vero. La filosofia non è che l’esercizio della libertà del pensiero. Non pretende di possedere il vero, ma non si stanca di smascherare e denunciare il falso, e così rendere più libero l’uomo. Ma questo la rende invisa al potere».
In queste proposizioni affiorano già alcuni dei principi cardine della filosofia di Masullo esposti in questo libro: la filosofia come pensiero critico, irriducibile a strumento del potere, il nesso profondo di verità e bene, vale a dire una concezione «esistenziale», «non teoreticistica» della verità, intesa come la ricerca sempre aperta del «fondamento nascosto», della «relazionalità originaria», su cui poggia la dimensione etica, la responsabilità del soggetto di corrispondere all’appello dell’altro. Mantenendo vivo il fuoco del fondamento la filosofia si fa «etica attiva», il cui compito è sottrarre l’uomo all’angustia delle regole e dell’abitudine, per riaprire lo spazio al novum e alla «dialettica [che] è Eros, amoroso desiderio dell’originario, del vivo comunicare, e lotta contro ogni forza che tenta di corromperlo e di soffocarlo»: sfida estrema per difendere la libertà dinanzi al pericolo dello smisurato dominio della tecnica.
Giuseppe Cantillo & Mariapaola Fimiani, Il fondamento nascosto. L’etica attiva di Aldo Masullo, Orthotes Editrice, Napoli-Salerno 2016, 120 pp., 15 euro (collana: Ethica)
"Condividere sì, ma non troppo. Altrimenti diventa tirannia"
Giulio Giorello: "Giusto collaborare per risolvere i grandi problemi, purché non sia imposto dall’alto. E dobbiamo difendere le nostre zone d’ombra"
di Eleonora Barbieri ( Il Giornale, Dom, 03/04/2016)
Condivisione, professor Giorello, è la parola del momento. Forse troppo?
«Ci sono due modi diversi di intendere la condivisione. Il primo, che approvo, è quello teorizzato a suo tempo da Spinoza, il grande filosofo».
Sarebbe?
«Che di fronte alle sfide dell’ambiente, diciamo così, e ai pericoli del mondo in cui viviamo, dalle catastrofi alle risorse insufficienti, dai problemi alimentari alle emergenze, è bene collaborare, perché da soli si fa poco».
La condivisione di fronte ai problemi?
«Certo. È alla base della collaborazione: condividi alcuni obiettivi e accetti la fatica e il lavoro da fare insieme per raggiungerli. Molto meglio che la lotta titanica e disperata di uno solo. Poi, oggi, accade che non ci sia solamente una condivisione dei singoli dentro lo Stato, che peraltro si basa sulla condivisione, ma anche fra alcuni Stati».
Che cosa condividono?
«Metodi e progetti. Per intenderci, l’esempio più interessante è quello della scienza: ognuno può dire ciò che pensa, deve solo essere in grado di sostenerlo, e la critica stessa è una forma di condivisione».
È un modello?
«È una lezione di democrazia e di meritocrazia, perché non contano la religione, i soldi che hai, la classe sociale a cui appartieni, per quale squadra di calcio tifi: contano competitività e capacità. Quindi democrazia, nel senso buono del termine, non quella tirannia della maggioranza che non mi piace per niente».
Che cos’è la tirannia della maggioranza?
«Nel 1623 Galileo Galilei scrisse: la gente voterebbe tutta per Tolomeo contro Copernico. Ma la ricerca scientifica è una gara: conta che il cavallo sia più veloce. E, soprattutto, la scienza va condivisa e resa pubblica. In questo senso, il Cern è un modello».
Che cosa ci insegna?
«Si è dimostrato capace di competere a livello internazionale con strutture metastatali come quelle americane e russe. In piccolo è quello che l’Europa dovrebbe essere e che non è, perché l’Europa politica non è all’altezza».
Un grande esempio di condivisione...
«Non riesce nemmeno a condividere i problemi più pressanti, come l’ondata di migranti. Né è in grado di prendere una direzione comune in politica estera, per esempio in Medio Oriente, dove il buon vecchio zar Putin è più bravo di noi».
Che cosa dovrebbe fare l’Europa?
«Guardi, io sono europeista. Dovrebbe trovare forme di condivisione ispirate alle sue tradizioni migliori. Quello che si riesce a fare nella scienza, cioè trovare elementi comuni, problemi e metodi da condividere, dovrebbe essere traslato in campo politico e sociale. Un’idea che peraltro non è mia, era già di Thomas Jefferson, il ribelle della Virginia».
Che cosa diceva Jefferson?
«Diceva che, come gli scienziati condividevano le loro intuizioni, così dovevano fare i singoli stati della Federazione: ciascuno fa del suo meglio e poi lo mette in comune».Sembra facile.«Jefferson era un pensatore politico e un filosofo vero. Altro che tutte quelle chiacchiere retoriche sull’empatia e la condivisione. Il fatto è che bisogna condividere i problemi e gli strumenti per risolverli, non tutto».
Condividere tutto non va bene?
«Io sono contrario. È una forma di condivisione per me poco interessante e deleteria, l’altro modo di intenderla. Mi ricorda un’opera teatrale di Paul Claudel, ambientata nel Medioevo cupo dell’immaginario in cui c’è una donna fortunata e opulenta la quale, per condividere, bacia un lebbroso. Ecco, questo atteggiamento mi fa schifo».
Addirittura?
«I lebbrosi non si baciano, si cercano gli strumenti adeguati per curarli. Condividere non è assumere la sofferenza degli altri su di sé, bensì trovare modi razionali per ridurla o eliminarla. La condivisione sofferta della religione non mi interessa».
Che altro non le interessa?
«Sono un individualista e ci sono un mucchio di cose che non voglio condividere: gusti, credenze non religiose ma generali, filosofia, piccoli vizi, perfino il tifo, anche se non tifo e l’unica partita che abbia visto era di calcio gaelico, giocava il Donegal».
Ma quindi condividiamo troppo?
«Ci sono scelte interiori che non vedo la necessità di esplicitare, o che altri condividano. E non voglio che altri attingano alla mia riserva di whisky, per esempio. Tutt’altro conto è condividere problemi seri, farcene carico comune come è giusto e condividere i metodi per affrontarli, i quali di solito ce li indica la scienza applicata».
Un esempio di questi metodi?
«Se in un Paese c’è scarsità di acqua serve un sistema razionale per non sprecarla. E, se funziona bene, puoi anche riuscire non solo a risparmiarla, ma a esportarla. È quanto avviene in Israele, e così ne beneficiano anche i popoli vicini, che per inciso sono palestinesi e giordani».
Questa è la condivisione che le piace?
«Sì, una condivisione laica, non populista. In questo, un sano individualismo ci salva da qualunque progetto di condivisione imposto dall’alto. Contro la tirannide io rispondo come sosteneva Jefferson: con le pistole».
Ma condivisione e libertà come si conciliano?
«Se non c’è libertà, la condivisione è oppressione. Non è facile conciliarle ma, diceva Spinoza, le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare. Conciliarle è una cosa eccellente: proviamoci».
Altri buoni esempi oltre alla scienza?
«La cultura, per esempio, è condivisione: mica scrivo un libro per leggermelo da solo. Sono contento di venderlo e di condividere le mie idee, anche se le criticano. Essere letto è un modo di essere condiviso, anche nello scontro di idee».
Alcuni dicono che in tanta condivisione si perda il senso della comunità reale.
«Ho poca simpatia per le comunità tradizionali. Preferisco le navi dei pirati, quelli del Settecento, in cui si condivideva tutto, anche la morte, però le gerarchie non erano troppo rigide e, soprattutto, quando uno era stufo poteva andarsene, senza che nessuno avesse il diritto di trattenerlo».
Serve un diritto di fuga?
«Sì. Le comunità che non lasciano praticare il diritto di exit sono dispotiche. Io vorrei sempre il diritto di uscita da una comunità, un po’ come all’università: se ero annoiato da una lezione mi alzavo e andavo a seguirne un’altra».
Non è un diritto difficile da applicare?
«Gli Stati Uniti ci hanno fatto una guerra civile... Però in realtà evita ribellioni pericolose. Io voglio condividere per simpatia, umana solidarietà e consapevolezza che possiamo fare di più. Ma guai se c’è una autorità che ci obbliga. Per esempio, perché devo rispondere a tutte le telefonate che ricevo? Per fortuna posso spegnere questo cellulare... Bisogna tenersi le zona d’ombra, anzi, rafforzarle».
Perché la democrazia non può non dirsi atea
Ethos pubblico “senza Dio” nel saggio di Paolo Flores d’Arcais
di Giovanni De Luna (la Repubblica, 22.10.2013)
C’è una “santa alleanza” che coltiva il proposito di chiedere aiuto Dio per superare la crisi di valori che attanaglia le democrazie occidentali; uno schieramento eterogeneo in cui è possibile trovare il manifesto antilluminista di Joseph Ratzinger, l’impegno di Jürgen Habermas perché la religione ritrovi un ruolo importante nello spazio pubblico della cittadinanza, Tariq Ramadan pure decisamente contrario a fare della religione un fatto privato, papa Wojtyla e la sua crociata contro il relativismo etico. Tutti accomunati nella condanna dell’illuminismo («la superbia luciferina con cui l’homo sapiens rinnova il peccato originale») e nel sostenere che, in assenza del Sacro, l’uomo sia irrimediabilmente condannato a una deriva materialistica che lo scaraventa in un deserto etico, condannandolo a una perpetua carestia morale.
Contro questo schieramento, con lucida intransigenza, scende ora in campo Paolo Flores d’Arcais: «O Dio o il cittadino, due sovrani non possono coesistere». Floresnon ha dubbi: la democrazia è imprescindibilmente atea; «la religione resta un fatto di coscienza che ha diritto di manifestarsi in forma pubblica solo come culto, senza velleità e pulsioni di colonizzare o comunque colorare una sfera pubblica che per essere democratica deve restare atea».
Non solo la democrazia non ha bisogno di Dio per sopravvivere, ma anzi “senza Dio” è la condizione necessaria e sufficiente perché essa possa prosperare. Introdurre la religione nello spazio pubblico - afferma Flores inLa democrazia ha bisogno di Dio: falso! - finirebbe per mettere a rischio ogni forma di coesione, sovrapponendo alla fisiologica conflittualità del pluralismo politico laico le tensioni distruttive delle dispute religiose, con le varie confessioni tese a enfatizzare il proprio Dio contro quello degli altri.
Come si vede, è un discorso di grande attualità oggi in Italia, anche alla luce della svolta di papa Bergoglio. Prescindendo però dalle ultime novità pontificie, Flores, contro la presenza sempre più invasiva della Chiesa, propone l’autonomia di una sfera pubblica fondata su un ethos repubblicano «diffuso in modo pervasivo tra i cittadini » e che riconosce come beni irrinunciabili «l’esercizio inesausto del confronto politico razionalmente argomentato » e «il rispetto di ogni stile di vita che non comporti imposizioni ad altri ». I valori che ispirano questo ethos sono quelli “minimi” costituzionali, desunti dal principio “una testa un voto” che è all’origine storica della democrazia liberale.
Proprio pensando all’Italia, sembra però che l’ethos pubblico così come viene definito nel libro non basti a rafforzare la sovranità del cittadino tenendola a riparo da quella di Dio. L’ethos pubblico è una costruzione culturale, nasce dalla capacità della classe politica di costruire un recinto virtuoso in cui i cittadini possano riconoscersi in interessi e in valori comuni. Valori legati ad esempio a un “patto di memoria” che ritrovi nel nostro passato la forza di una tradizione repubblicana, sottolinei le virtù di una democrazia che è nata sulle rovine della dittatura fascista con una impronta “militante” molto accentuata e niente affatto minimalista. Nella Seconda Repubblica i valori sono stati invece schiacciati sugli interessi.
E una volta che questo succede, i guasti possono essere irreparabili. Lo spiega bene una citazione di Tocqueville (dello stesso Flores): «La passione del benessere spinge a un ardore insensato verso i beni materiali e porta una nazione a chiedere al suo governo esclusivamente il mantenimento dell’ordine». Una democrazia ridotta ai minimi termini, segnata da un asfittico pragmatismo e colonizzata dalle ragioni dell’economia sembra destinata ad arrendersi a un discorso religioso che, con papa Francesco, si ripropone con grande autorevolezza.
Quant’è astratta la democrazia atea
Flores d’Arcais vuole relegare i credenti in una condizione di minorità politica
di Marco Ventura (Corriere della Sera, 07.10.2013)
«La democrazia è atea, imprescindibilmente». Paolo Flores d’Arcais pianta la sua tesi al centro del libro «La democrazia ha bisogno di Dio» Falso! (Laterza). La sbatte in faccia ai tanti per i quali, da Tocqueville in poi, la democrazia non sta in piedi senza Dio. La democrazia di Flores d’Arcais è il regno dell’autonomia e dell’autosufficienza dell’uomo. Si fonda su un «ethos repubblicano» che è «potere-di-tutti-e-di-ciascuno». È una società di «liberi/eguali» in cui valgono solo fatti, logica e razionalità; una comunità «che si dà da sé la propria legge», dove il cittadino argomenta «sotto la propria responsabilità, con la propria testa, utilizzando i soli strumenti che lo rendono con-cittadino».
Ne discende l’incompatibilità con la democrazia di fonti d’ispirazione superiori, «dogmatica volontà irrelata», sovranità divina alternativa a quella umana. Se vuole stare nella dinamica democratica, non resta al credente che abbandonare ogni pretesa di dedurre norme direttamente o indirettamente dalla propria fede. Dio può sopravvivere alla democrazia, secondo l’autore, solo accettando l’«esilio dorato nella sfera privata della coscienza» e ingiungendo ai suoi rappresentanti in terra di non interferire col governo repubblicano. Dio, infatti, non può che dividere la società e drammatizzare i conflitti; producendo una «ghettizzazione reciproca di stampo iper-feudale, cuius religio eius lex», oppure una «guerra civile di religione, per imporre come legge, erga omnes, la volontà del proprio Dio».
Giacché sempre di questo si tratta, scrive il filosofo: di ammantare della Maestà di Dio le proprie «ubbie, frustrazioni e altri spurghi dei fondali psichici». I tentativi di sostenere il contrario, per Flores d’Arcais, sono fallaci; o peggio, pericolosi. Vengono dall’intransigenza cattolica di Wojtyla e Ratzinger, dal cripto islamismo di Tariq Ramadan; soprattutto, dai «democratici stanchi di lottare», come l’«agnostico» Habermas. L’ambizione di legittimare Dio nella sfera pubblica è invariabilmente, per l’autore, «mero revival di tradizionalismo teocratico», rinuncia all’autodeterminazione, «atavico richiamo di nostalgia gregaria stratificata nella più antica materia grigia, pronto a riemergere con prepotenza non appena vacilli la speranza».
Nella logica repubblicana, il credente è «civicamente minus habens perché incapace di interiorizzare autonomamente la scelta pro-democrazia e in grado di riconoscerla solo affidandosi» all’autorità religiosa di riferimento. Se vuole integrarsi nel sistema democratico, egli deve pertanto appendere Dio all’attaccapanni, come fa lo scienziato prima di entrare in laboratorio: uscendo così dalla propria «condizione permanente di minorità».
L’alternativa dell’autore, la democrazia «priva di fondamenti», sembra a sua volta una fede, prodotta dalla medesima immaginazione che partorisce Allah o Shiva. Flores d’Arcais afferma invece che la sua è «una ideologia» sopra le parti, che «fa corpo unico con la democrazia», un «habitus psicologico e morale» che non ha pretesa di universalità, agli antipodi delle tante divinità che soggiogano l’uomo.
Il limite della proposta di Flores d’Arcais sta nel suo dualismo. Nella divisione del mondo in due emisferi: i credenti da una parte; i non credenti dall’altra. E nel destino inevitabile di ciascun universo: il credente dovrà liberarsi negando l’Altro da sé con cui si relaziona; mentre spetterà al non credente respingere la tentazione di contemplare alcunché oltre la «nuda identità astratta» della cittadinanza.
Si tratta di un dualismo potente, radicato, i cui argini sono tuttavia rotti ogni giorno dalle correnti della realtà. Credenti e non credenti si mischiano. Fedi religiose e fedi secolari si confondono. Gli dei si moltiplicano. In seno alla stessa comunità, spesso all’interno della stessa persona. Chi è emancipato? Chi responsabile? Chi capace di decidere «con la propria testa»? È succube o consapevole la ragazza francese che porta il velo? È emancipato o schiavo il redentorista che langue in una cella cinese? È cittadino o fedele l’ateo che idolatra Wall Street? Le categorie «credente» e «non credente» fotografano solo in piccola parte la realtà. Lo stesso autore deve issarsi sopra la fenomenologia del credere, costruendo un’astrazione che funzioni a prescindere, un ideale che si sottrae al giudizio della realtà.
La provocazione di Flores d’Arcais non è per questo meno stimolante: sfida il credente a dimostrarsi libero e il non credente a onorare il sogno dell’autore; riposa su un’esigenza di emancipazione, di non «indifferenza etica», che innesca una competizione virtuosa. Potrebbe mettere fuori gioco i credenti, l’autore, nella pagina finale, quando condanna l’«illusione che un Altro ci possa salvare in luogo del nostro impegno, della faticosa passione di essere cittadini». È invece una conclusione che abbracceranno molti credenti non inquadrabili nella categoria di chi ha privatizzato Dio per farsi cittadino. Perciò può servirci, la democrazia atea di Flores d’Arcais, per mettere in discussione schieramenti e ideologie. Ma non ci è utile per capire e governare un mondo che centrifuga credenti e non credenti, scompigliando ogni fede. Se prescindono da questa realtà, non ci servono né la democrazia atea, né quella religiosa.
La devozione atea di Flores D’Arcais
In realtà la democrazia ha bisogno di tutti, persino di Dio. il «religioso» può aiutare a riconoscere la kantiana dignità della persona, coi relativi corollari: lavoro, accoglienza, critica al dominio, giustizia. E questo Papa, al contrario dei suoi predecessori, pare fin qui andare in tale senso
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 09.10.2013)
LA DEMOCRAZIA HA BISOGNO DI DIO? FALSO! DICE FLORES D’ARCAIS Ed è una risposta recisa, che benchè suggerita dalla formula di scuderia Laterza nella collana «Idòla» (frase seguita dalla chiosa «falso!») corrisponde in pieno all’ateistismo dell’autore. In realtà la democrazia ha bisogno di tutti, persino di Dio. Purché non sia un Dio geloso ed esclusivista, e si lasci «contare» alle elezioni. E purché chi lo professa, ciascuno a suo modo, si lasci contare e non voglia tagliare teste, invece di contarle. Sicché a queste condizioni ben venga il Signore alle urne.
Il punto è che Flores d’Arcais vuole addirittura negarlo il certificato elettorale a Dio e ai suoi fedeli. arrivando addirittura a sostenere che il credente è «civicamente un minus habens(sic!) perché incapace di interiorizzare autonomamente la scelta pro-democrazia, e in grado di riconoscerla solo affidandosi all’autorità religiosa di riferimento». Perciò, conclude Flores, il credente attacchi Dio «all’ataccapanni», ed entri in democrazia come lo scienziato in laboratorio, spogliandosi da minorità e pregiudizi.
Francamente ci pare una posizione artificiosa, oltre che insolente e intollerante. Perché la democrazia è il contrario di certe intimazioni totalitarie e discriminatorie. Essa è conflitto regolato su valori e interessi divergenti. Dove la regola statuisce l’eguale dignità di ciascuna persona e del suo progetto di vita, senza lesione dell’altrui dignità.
Certo, la religione non può essere pretesa civile, né Norma fondativa, a meno di non ledere l’eguaglianza dell’altro e dei suoi convincimenti. E tuttavia anche il «religioso» può aiutare a riconoscere la kantiana dignità della persona, coi relativi corollari: lavoro, accoglienza, critica al dominio, giustizia. E questo Papa, al contrario dei suoi predecessori, pare fin qui andare in tale senso.
Raccogliamone da laici la sfida. Il resto è vecchia ideologia giacobina. Caricatura rovesciata del confessionalismo e Devozione Atea.
Liberali, laici e credenti
di Pawel Gaiewski
in “Riforma” - settimanale delle Chiese Evangeliche Battiste Metodiste e Valdesi - del 20 settembre 2013
Il carteggio Scalfari-Bergoglio è già entrato nella storia del pensiero contemporaneo e ho l’impressione che presto leggeremo un instant book contenente l’intera documentazione. Si tratta in ogni caso di un’operazione mediatica senza precedenti. È stato il fondatore del quotidiano La Repubblica con il suo editoriale del 7 luglio ad aprire il dibattito sull’enciclica Lumen Fidei . Dopo un mese esatto Eugenio Scalfari pubblicava nuovamente un testo particolarmente denso, ponendo «al papa gesuita» tre domande «da illuminista» circa la possibilità di salvezza di un non credente, l’assolutezza della verità e il concetto di Dio, inteso come proiezione della mente umana.
Le risposte del papa dovevano dunque arrivare e ovviamente i tempi sono stati calcolati perfettamente: la lettera è datata 4 settembre ed è stata pubblicata esattamente una settimana più tardi. Per dovere di cronaca è giusto segnalare che ad agosto c’è stato anche uno scambio epistolare tra il pastore Peter Ciaccio ed Eugenio Scalfari (si può leggere all’indirizzo Internet http://vociprotestanti . it/2013/08/11/la-risposta-di-eugenioscalfari- al-pastore-peter-ciaccio/).
La risposta di Francesco contiene elementi inediti per un papa ma ben elaborati da altre scuole del pensiero cristiano finora non molto apprezzate dal Vaticano: teologia femminista, teologia della liberazione, teologia del pluralismo religioso. Si tratta prima di tutto della problematizzazione dell’assolutezza della verità a favore della sua dimensione relazionale e del primato della coscienza individuale e di conseguenza della possibilità di salvarsi aperta a chi non crede o crede «diversamente». Entrambi gli argomenti nella teologia contemporanea sono oggetti di un dibattito che è ancora lontano da qualunque conclusione definitiva. La coscienza intesa nel senso della Critica della ragion pratica di Immanuel Kant è un tema caro anche a chi si professa agnostico o ateo.
Chi invece legge la lettera del papa attraverso la lente del pensiero protestante non può che apprezzare l’enfasi sull’amore salvifico e la chiara impostazione cristocentrica dell’intero ragionamento che rasentano i Sola Gratia e Solus Christus della Riforma.
La dimensione in cui bisogna collocare in ogni caso sia la lettera di Bergoglio a Scalfari sia l’enciclica Lumen fidei (redatta, di fatto, dalla coppia Ratzinger-Bergoglio) non è quella del confronto con il pensiero protestante. Il vero problema è l’illuminismo; l’enfasi sulla luce non è casuale.
Tra le pieghe di questo documento, precisamente nel paragrafo 14, il documento critica la celebre esclamazione contenuta nell’ Émile di Jean-Jacques Rousseau: «Quanti uomini tra Dio e me!». Ecco la frase con cui l’enciclica commenta il pensiero del filosofo illuminista: «A partire da una concezione individualista e limitata della conoscenza non si può capire il senso della mediazione».
Non mi sembra giusto attribuire a Rousseau «una concezione limitata della conoscenza» e ravviso in questo atteggiamento intellettuale una notevole distanza tra le posizioni protestanti e quelle di Ratzinger e Bergoglio. Qualunque forma di mediazione nel rapporto tra Dio e l’essere umano è stata respinta con forza dalla Riforma. Successivamente il motto ginevrino Post tenebras lux e il nostro valdese Lux lucet in tenebris sono stati elaborati in chiave illuminista, dando luogo a un cristianesimo dialogante e accogliente.
Grazie all’influsso del pensiero illuminista le nostre chiese si impegnano oggi per la totale neutralità confessionale dello Stato e delle sue istituzioni, invocando con convinzione gli stessi diritti e doveri per tutte le comunità di fede. In tutto questo siamo «orgogliosamente liberali», parafrasando il succo del discorso tenuto dal moderatore Eugenio Bernardini alla fine dell’ultimo Sinodo. Liberali e laici ma al tempo stesso credenti che annunciano con convinzione Gesù Cristo.
È una cosa che Scalfari e i cosiddetti laici italiani sembrano non comprendere. Scalfari nel suo articolo del 7 agosto (quello contestato dal pastore Peter Ciaccio) liquida il protestantesimo con la seguente definizione: «sette luterane che non hanno impedito la laicizzazione anzi ne hanno favorito l’espansione».
Nel suo commento alla lettera di Francesco, pubblicato il 12 settembre, pur citando l’inizio del Vangelo secondo Giovanni, il nestore del giornalismo italiano esprime una sorta di speranza quasi escatologica concentrata sulla persona di questo papa. Non metto in discussione che Francesco sia un ottimo pastore d’anime e un eccellente comunicatore. La sua empatia è profonda.
Mi preoccupa soltanto il Solus Franciscus che comincia a diffondersi dentro e fuori della Chiesa cattolica romana.
Preghiere laiche
L’elezione del Papa ha rinnovato, anche nei non credenti, l’interesse per la Chiesa
Ma una verità fondata sul credo non può essere riconosciuta dagli eredi dell’illuminismo
L’incontro tra fede e ragione è nel distacco dall’Io
di Marco Vannini (la Repubblica, 15.04.2013)
Chi passa in questi giorni in libreria resta colpito dalla quantità di libri di e sul nuovo papa: tra editori piccoli e grandi, di area cattolica (San Paolo, Jaca Book ecc.) e non (Rizzoli, Giunti, Mondadori ecc.), sono presenti più di una decina di titoli, alcuni dei quali ai vertici delle classifiche di vendite. L’elezione di Francesco e i suoi primi gesti hanno riacceso nell’opinione pubblica l’interesse per la Chiesa. Un interesse fatto di stupore, di fronte alla inaspettata vitalità dell’antica istituzione, ma anche con una notevole dose di più o meno esplicita ammirazione, che fa venire alla mente l’osservazione di un uomo non certo sospetto di apologetica cattolica: «La finezza dell’alto clero - le figure più nobili della società umana, ove domina il superiore disprezzo per la fragilità del corpo e della sorte, come è degno del soldato nato - ha sempre dimostrato per il popolo le verità della fede».
Quello che Nietzsche, perché di lui si tratta, chiama disprezzo per le vicende della propria vita fisica e della sorte, non è altro che il distacco dall’Io, ovvero quella rinuncia a se stessi che è il nucleo dell’insegnamento evangelico, e con la quale si apre la dimensione dello spirito.
È il frutto di una conversione, nel senso etimologico, ovvero di un rivolgersi non più verso il mondo e i suoi valori, e di una fede nell’assoluto. Chiunque, laico o religioso che sia, avverte, tanto istintivamente quanto profondamente, la nobiltà, la bellezza di questo distacco e di questa fede, ovunque si manifestino. Peraltro, non si tratta qui affatto di adesione a un credo. Infatti questo sentimento di rispetto e ammirazione viene meno, anzi si converte in un moto di ripulsa quando sente proclamare una dogmatica, una teologia, con i suoi risvolti morali e finanche politici.
Quali sono allora le verità della fede «dimostrate per il popolo» da quelle aristocratiche figure? La risposta non è semplice. Per alcuni le verità sono la dogmatica tradizionale, come più o meno si recita ancora nel Credo, ma certo non è così per molti altri, sia pure cristiani, nei quali il passaggio per la scienza contemporanea, che chiameremo illuminismo, non è avvenuto invano.
Prendendo ancora a prestito le parole di Nietzsche, «quando la mattina di domenica udiamo le campane ci chiediamo: ma è mai possibile? Ciò si fa per un ebreo crocifisso, che diceva di essere il figlio di Dio, un Dio che genera figli con una donna mortale, un saggio che incita a non lavorare più, a non pronunciare più sentenze, a badare invece ai segni della prossima fine del mondo, una giustizia che accetta l’innocente come vittima vicaria; qualcuno che comanda ai suoi discepoli di bere il suo sangue; peccati commessi contro un Dio, espiati da un Dio... chi crederebbe che una cosa simile viene ancora creduta?».
È qui che il laico prende le distanze, difende la verità, guardando con commiserazione alla fede come credenza, rispettata solo per un politicamente corretto senso di tolleranza, ma in realtà considerata cosa da bambini, da sciocchi o, peggio, da ipocriti. Il problema sta infatti proprio nel concetto di fede come credenza, che, in quanto tale, confligge spesso con la verità storica, scientifica e assume perciò le vesti di una inaccettabile finzione. In realtà la fede non è affatto credenza, ma il contrario: è distacco, ovvero il movimento del pensiero che, rivolto all’assoluto, spazza via ogni credenza, riconoscendone la finitezza.
Come insegna san Giovanni della Croce, la fede non produce credenza o scienza alcuna, ma conduce nella “notte”, nel “nulla” - ovvero fa il vuoto di ogni presunto sapere, rendendo l’intelligenza finalmente libera da ciò che la teneva legata. Questa è propriamente la verità della fede, non delle cosiddette “verità di fede”, intese come credenze sostitutive della scienza o integrative della medesima, come se la fede completasse la scienza con chissà quale strumento.
Il patrimonio della tradizione religiosa fornisce alimento alla riflessione senza per questo dover diventare verità di scienza. Anzi, non vuole affatto diventare tale, dal momento che il suo spazio proprio è l’interiorità, il luogo della riservatezza, del silenzio, che è, anche etimologicamente, il mistico.
Così ad esempio, il racconto biblico di Abramo, che abbandona la sua patria e parte per una terra sconosciuta, sulla fiducia nella parola di un Dio che gli comanda addirittura il sacrificio del figlio, ha nutrito la profonda riflessione di filosofi come Hegel e Kierkegaard. E ciò anche se sappiamo che si tratta di un mito fondatore di una comunità, anche se non v’è mai stato un Abramo e il sacrificio del primogenito rimanda a una pratica allora comune a molti popoli semiti.
O, ancor più significativamente, il racconto evangelico della concezione verginale di Gesù fa riflettere sulla nascita di un Dio che è spirito e deve perciò generarsi non al di fuori, ma nel più profondo di noi stessi. Pensare invece che descriva un “miracolo” per convincere gli increduli della verità del cristianesimo, in primo luogo riduce la fede a credenza in storie esteriori, la trasforma in una teologia, ovvero ideologia, con un dio-ente tappabuchi, supposto come trascendente, ma in realtà a servizio dell’interesse particolare.
In secondo ma non secondario luogo, se anche la ragione cade nell’errore di considerare la fede come credenza e resta priva della fede come riferimento all’assoluto, che è ciò che la fa davvero ragione in senso pieno, si situa anch’essa sul medesimo piano della credenza, ideologia a servizio del piccolo Io e dei suoi molteplici interessi. Tutto ciò è stato descritto magistralmente da Hegel, nelle pagine sul conflitto tra l’illuminismo e la superstizione della sua Fenomenologia dello spirito (attenti al titolo!). L’illuminismo combatte la fede sul terreno della storia, della scienza, e vince il confronto, perché in quel campo ha ragione. Così, magari dimostrando la falsità di un documento o di un fatto storico, sul quale la fede si basa, crede di averla sconfitta.
Il punto è però che quella non è fede (Glauben), ma superstizione (Aber-glauben), perché la fede non è affatto una credenza, bensì un sapere, conoscenza non di fatti esteriori ma dello spirito e nello spirito, che non dipende da questo o quel documento o fatto storico. Il dramma è che tutto ciò è ignoto non solo alla raison illuministica, ma anche alla fede, che resta quasi sempre a livello di superstiziosa credenza e perciò genera una teologia come presunto sapere.
Il conflitto ragione-fede esiste dunque solo quando la prima non è vera ragione e la seconda non è vera fede. Alla riflessione hegeliana che abbiamo appena evocato fa perciò eco la antica parola della Chandogya Upanishad: «Solamente quando si ha fede si pensa. Chi non ha fede non pensa. Pensa solamente colui che ha fede». Quanto tutto questo sia compatibile con le forme di cristianesimo e di chiesa oggi storicamente presenti costituisce - credo - il vero problema religioso del nostro tempo. Ben oltre lo stupore e l’ammirazione, peraltro passeggeri, che abbiamo ricordato all’inizio.
La spiritualità di chi non crede
di Enzo Bianchi (la Repubblica, 13.12.2012)
Non sorprende che in un paese come il nostro - dove non esiste più da quasi trent’anni una “religione di stato”, ma dove non c’è ancora una legge specifica sulla libertà religiosa - ogni discussione sulla laicità dello stato e sui diritti dei credenti rischi di provocare un corto circuito. Si aggiungono aggettivi qualificativi alla laicità o la si rinchiude nel peggiorativo laicismo, rendendo quasi impossibile lo sviluppo e l’adattamento alle mutate condizioni sociologiche del nostro paese di quella convergenza di intenti e di valori che il legislatore costituente aveva sapientemente saputo ricostruire sulle macerie della guerra.
A furia di ridurre la presenza dello stato e nel contempo di chiedergli di farsi garante di un’etica religiosa specifica, a furia di confondere la somma di beni privati con il bene comune, la coesione sociale viene a mancare e si atrofizza quello spazio comune garantito in cui ciascun soggetto individuale o sociale - può contribuire alla crescita umana e spirituale dell’insieme della società.
Lo stato laico, infatti, non può limitarsi alla funzione di chi regola il traffico di una società civile che si muoverebbe secondo direttive proprie, molteplici e slegate da un interesse collettivo. È indispensabile invece trovare e utilizzare modalità laiche per discernere cosa è ritenuto bene per l’insieme della popolazione e cosa danneggia la convivenza, quali adattamenti escogitare affinché il meglio sognato non uccida il bene possibile.
Un’etica condivisa non è utopia: si tratta allora di individuarla, perseguirla, garantirla con mezzi consoni a uno stato non confessionale che si faccia carico di una società ormai plurale per religioni e culture.
Non dimentichiamoci che l’umanità è una, che di essa fanno parte religione e irreligione e che, comunque, in essa è possibile, per credenti e non credenti, la via della spiritualità, intesa come vita interiore profonda, come ricerca di un vero servizio agli altri, attenta alla creazione di bellezza nei rapporti umani.
Sono sempre stato convinto che esiste anche una spiritualità degli agnostici, di quanti sono in cerca della verità perché insoddisfatti di verità definite una volta per tutte: è una spiritualità che si nutre di interiorità, di ricerca del senso, di confronto con l’esperienza del limite e della morte.
Si tratta, di essere tutti fedeli alla terra e all’umanità, vivendo e agendo umanamente, credendo all’amore, parola oggi abusata fino a svuotarla di significato, ma parola unica che resta nella grammatica umana universale per esprimere il “luogo” cui l’essere umano si sente chiamato.
Del resto la fede - questa adesione a Dio sentito come una presenza soprattutto a causa del coinvolgimento che il cristiano vive con Gesù Cristo - non sta nell’ordine del “sapere” e neppure in quello dell’acquisizione: si crede in libertà, accogliendo un dono che non ci si può dare da sé.
Analogamente gli atei, nell’ordine del sapere non possono dire “Dio non c’è”: è, infatti, un’affermazione possibile solo nell’ambito della convinzione. Del resto, il cristianesimo riconosce che il Dio in cui crede è presente e agisce anche nella coscienza di chi non crede, perché ogni essere umano è stato creato a immagine e somiglianza di Dio e ha in sé la fonte del bene.
La laicità dello stato è allora quella opzione di fondo che consente di reinventare continuamente strumenti condivisibili e linguaggi comprensibili da tutti, di garantire presidi di libertà e di non sopraffazione, di difendere la dignità di ciascuno, a cominciare da quelli cui viene negata, di consentire a ciascuno di ricercare, anche assieme ad altri, la pienezza di senso per la propria vita.
Siamo realisti, riconosciamo che l’etica è soggettiva
Nel dibattito sul “New realism” interviene Flores d’Arcais: Putnam ha torto, la divisione tra giudizi di fatto e di valore è invalicabile
Non ci sono valori veri (o falsi) ma solo valori creati. Siamo noi i signori del bene e del male
di Paolo Flores d’Arcais (La Stampa, 11.12.2012)
Se il New realism si limitasse a rivendicare semplicemente - contro la tesi ermeneutica che «non ci sono fatti, solo interpretazioni» - l’esistenza «là fuori» di una realtà che prescinde da noi, saremmo alla banalità, al«pensiero debole» sostituito dal «pensiero futile». Che ci saranno lombrichi e galassie, anche quando non ci saremo noi, lo ammette per primo Vattimo, immagino. Ma il New realism, ci dice Putnam, afferma molto di più, non riguarda solo la verità (meglio: l’accertabilità) degli asserti scientifici, bensì il rifiuto di riconoscere una divisione di principio tra giudizi di fatto (scienza) e giudizi di valore (etica). Perché entrambi riscontrabili nella realtà. E invece no. Il New realism di Putnam ha torto (ma il New realism di Eco o di Ferraris è già differente), quel confine è intransitabile.
In primo luogo è semplicemente falsa l’affermazione di Putnam secondo cui «la scienza presuppone sempre valori epistemici come la coerenza o la semplicità». Quei valori possono influenzare, motivare o addirittura guidare il ricercatore nello «scremare» fra le ipotesi, ma alla fine contano solo gli esperimenti cruciali, che corroboreranno come scientifica una teoria anche se meno elegante delle ipotesi concorrenti(il bosone di Higgs, per dire, è sommamente inelegante e complicato).
In secondo luogo «valori epistemici» e «valori morali» non hanno nulla in comune, poiché è l’aggettivo a fare la differenza essenziale. E la questione fondamentale è proprio se i valori morali abbiano una realtà oggettiva come i fatti empiricamente accertabili, o siano invece creati dai diversi gruppi umani (e infine dai singoli individui) e dunque ineludibilmente relativi a ciascuno di essi.
Per il New realism di Putnam sono legati all’oggettività, sostenere il contrario è un errore (p. 37 di Fatto/valore, fine di una dicotomia, ed. Fazi). Quando usiamo aggettivi come crudele e malvagio o sostantivi come crimine intrecciamo inestricabilmente scopi normativi e accertamento descrittivo (p. 40). Dire perciò che «il signor X è crudele» sarebbe riscontrabile nel fatto stesso del suo comportamento. La cui valutazione sarebbe «intersoggettivamente cogente» (se la parola «oggettivo» disturba i puristi) quanto l’affermazione «la composizione chimica dell’acqua è H2O» (più «impurità residue», altrimenti qualche sofista obietta).
Ma, purtroppo per Putnam, mentre questa seconda affermazione è vera (intersoggettivamente accertabile in modo cogente), la prima è strutturalmente soggettiva, relativa ai valori morali (che possono essere agli antipodi) di chi la pronuncia. Diamo un nome al «signor X»: l’indimenticabile top model Verusckha racconta come a scuola (siamo già nel dopoguerra) venisse isolata e ingiuriata sottovoce come figlia del traditore, poiché suo padre, il conte Henrich von Lehndorff, aveva preso parte al fallito attentato a Hitler del 20 luglio 1944. Quell’attentato, che per Putnam e per me è stato «eroico», è invece «crimine»per due o tre generazioni di tedeschi (che probabilmente leggono Goethe e ascoltano Beethoven), milioni dei quali approvavano i Lager per i «malvagi» ebrei, zingari e comunisti.
Insomma, da un insieme di fatti accertabili non si potrà mai dedurre un giudizio di valore univoco, poiché i valori fondamentali che guidano i nostri giudizi morali non sono dati in natura, non sono conoscibili come i fatti, e meno che mai sono scolpiti eguali e indelebili in tutti i cuoriumani. Della specie Homo sapiens fanno parte allo stesso titolo (ahimè) tanto Francesco d’Assisi quanto Adolf Hitler, tanto la «volontà di eguaglianza» quanto la «volontà di potenza», tanto i fautori della democrazia quanto quelli della teocrazia o del Führerprinzip.
Perciò non esistono valori veri (o falsi), ma solo valori creati. Di cui ciascuno di noi è esistenzialmente responsabile, proprio perché la nostra responsabilità non si limita (come vorrebbe Ratzinger e ogni altro cognitivista etico, religioso o meno che sia) a riconoscere valori «oggettivamente» dati (dove?): siamo i creatori e signori «del bene e del male» secondo scelte incompatibili ( aut la democrazia aut la teocrazia o il Führerprinzip: non è questione di conoscenza, ma di lotta). Questa responsabilità abissale ci terrorizza, ma è ineludibile.
L’ateo che voleva essere Benedetto
di Moni Ovadia (Il Sole 24 Ore, 12 giugno 2011)
Il grande filosofo e pensatore del l’ebraismo Emanuel Levinas, nel suo memorabile commentario intitolato Amare la Torah più di Dio, esegesi a uno degli scritti più sconvolgenti di tutto il pensiero ebraico del novecento (Yossel Rakover si rivolge a Dio) scrive: «Sulla strada che porta al Dio unico c’è una stazione senza Dio. Il vero monoteismo ha il dovere di rispondere alle legittime esigenze dell’ateismo. Un Dio per adulti si manifesta per l’appunto attraverso il vuoto del cielo infantile». A mio parere l’ebraismo non ha difficoltà con l’ateismo. Un ebreo può essere un ottimo ebreo anche senza riconoscere l’esistenza dell’Eterno. L’ebraismo non ha dogmi e neppure l’esistenza del Santo Benedetto lo è.
Il rapporto fra Ebraismo e ateismo è ben spiegato con acume da questa storiella: «Un pio ebreo, un venerdì sera si reca in sinagoga in prossimità del tramonto e a bruciapelo domanda al suo rabbino se creda in Dio. Il rabbino dopo un istante di esitazione prega il suo congregante di ritornare la Domenica. L’ebreo abbozza e ritorna la domenica successiva per porre al rabbino la stessa domanda: "Rabbino tu credi in Dio? - con decisione il rabbino risponde - no!». Stupefatto l’ebreo esclama: «Se ne sei tanto sicuro perché non me lo hai detto subito venerdì sera?» Al che il rabbino ribatte: «Scusa non pretendevi mica che ti dicessi che Dio non esiste la sera di Shabbath».
Il grande commentatore del Talmud Adin Steinalz è solito dire: «Ah! Potere incontrare un vero ateo, che cosa sublime, ma è così raro che non se ne trovano neppure fra i rabbini». Forse Steinsalz sarebbe rassicurato se avesse l’opportunità di incontrare il professor Piergiorgio Odifreddi, grande matematico, splendido divulgatore, pensatore di vasta cultura scientifica, umanistica e filosofica. Il suo ultimo libro Caro Papa ti scrivo ne dà un’ampia misura.
Ho avuto il piacere di presentarlo ai lettori di Milano e ho accettato con piacere di scriverne, anche se sono sprovvisto di competenze tecniche, per dare il mio piccolo contributo al fine di contrastare i pregiudizi e i luoghi comuni con cui si cerca di liquidare il professor Odifreddi, che è invece personalità di grande rilievo, portatore di una Weltanschauung atea di cui il nostro sinistrato paese ha grande bisogno per confrontarsi con le proprie mediocri routine. Soprattutto in una scialba epoca di opinionisti, tuttologi, sproloquiatori, chierici d’assalto e atei devoti che sembrano usciti da qualche immaginario bestiario borgesiano.
Odifreddi gode fama di mangiapreti, anticlericale ed enfant terrible dei miscredenti senza Dio. Ora, è pur vero che il "matematico impertinente" ha scritto un paio di pamphlet di tono molto sarcastico e beffardo un po’ nello stile del suo celebre grande collega, il filosofo Bertrand Russell di Perché non sono cristiano e lo ha fatto senza mediazioni, con piglio tranchant. Ma come non capirlo?
L’Italia vive nell’anomalia di pseudo ideologie di impianto feudale, come ha dimostrato il recente fallimento di un progetto di legge contro l’omofobia. Questo démi-penser ideologico si fonda sull’autovittimismo dei religiosi più intolleranti, criminalizza i laici, gli agnostici e gli atei accusandoli di laicismo o di relativismo grazie a un’accezione perversa di questi termini. Ma proprio perché al di là delle polemiche e delle intemperanze stilistiche lo scopo di Piergiorgio Odifreddi qui è ben altro che il motto ironico o sarcastico. Il lettore, che sulla base del sentito dire o del rifiuto di essere messo in crisi sulle sue convinzioni, omettesse di leggere o giudicasse sommariamente questo suo ultimo libro farebbe un grave torto a se stesso.
Caro Papa ti scrivo è un’opera seria e profonda, sempre argomentata con un linguaggio ricco, preciso e inventivo. La sua esposizione ha vastità di respiro culturale, scientifico, filosofico e teologico. Il lettore attento che si ponga davanti a quest’opera con onestà intellettuale vi sentirà vibrare una spiritualità che scaturisce da quell’umanesimo dello scienziato che ha reso celebre Albert Einstein. Il libro è una sorta di dialogo che l’autore intavola con il papa teologo Benedetto XVI attraverso l’analisi e la lucida, incalzante confutazione di passi salienti di alcuni testi che hanno reso celebre Papa Ratzinger come teologo, in particolare, Introduzione al Cristianesimo e Gesù di Nazareth.
Caro Papa ti scrivo si apre con un capitolo memorabile in cui la vicenda umana di Odifreddi e Ratzinger si caratterizzano per una paradossale contiguità. L’autore racconta di sé bimbo che mesmerizzato dalla prima rudimentale televisione che entrava nelle case italiane e portava nella sua i due personaggi che la definivano: l’uomo dei quiz, Mike e il Papa ieratico Pio XII. Scelse come modello il Pontefice e progettò da grande di fare il Papa. Il progetto poi si infranse sulla via del dovere di ubbidienza gerarchica, insostenibile per lo spirito ribelle del futuro matematico.
Ratzinger teologo ci viene introdotto invece per mezzo di una singolare citazione che lui stesso nella sua Introduzione al Cristianesimo sceglie per descrivere la posizione del teologo nel nostro tempo. La citazione è un aneddoto "protestante" che paragona il teologo a un clown il cui circo che si è insediato nelle periferie di una città brucia per lo scoppio di un incendio. Il clown corre a chiedere aiuto ma gli abitanti della città non lo prendono sul serio e, credendo che sia una rappresentazione inscenata per portarli al circo, ridono, e più il clown si dispera più loro ridono. Così è il teologo oggi, ci avverte Ratzinger.
Il cardinale e il filosofo
di Armando Torno (Corriere della Sera, 15.09.2010)
Il cardinale e il filosofo. Carlo Maria Martini e Giulio Giorello. Dialogo sulla fede. Giorello non cerca di demolire con ogni mezzo l’idea di Dio, ma si ricorda come essa sia viva nell’uomo da quando è apparso sulla terra. Non fa dell’ateismo facile. Lo scopo, dice, è «liberare Dio da quelli che ne parlano troppo, anche a vanvera». Il cardinal Martini definisce le argomentazioni di Giorello utili a capire la mentalità dei non credenti.
Domani uscirà il saggio di Giulio Giorello, epistemologo ed erede di Ludovico Geymonat all’Università di Milano, Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo. Noto per le sue tendenze laiche e, tra l’altro, per aver partecipato alla Cattedra dei non credenti istituita a suo tempo dal cardinale Carlo Maria Martini, non ha scritto un libro - se ne contano dozzine - che cerca di demolire con ogni mezzo l’idea di Dio, ma si ricorda come essa sia viva nell’uomo da quando è apparso sulla terra.
Non fa dell’ateismo basso o volgare, di quel genere che crede di liberarsi dal problema con formule o battute, cerca piuttosto - di autore in autore - una via. Nelle sue pagine vi sono figure di atei convinti quali Sade o Feuerbach, non disdegna però di mettere in gioco le proprie convinzioni con Pascal o Kierkegaard. Il filosofo a cui guarda con più simpatia è Spinoza, che non si può certo definire ateo. Questo lo pensavano Bayle - che comunque credeva alla possibilità di una società di atei diversamente da un Voltaire che riteneva necessario il vincolo religioso - e pochi altri.
L’ateismo di Giorello si basa su una scelta di vita: egli rappresenta l’uomo che non sopporta alcuna autorità sopra di sé. Accetta Dio come amico, non come padrone. Il suo è ateismo pratico. Non nasce da deduzioni epistemologiche ma da quelle - il termine è inattuale, in tal caso però vale la pena spenderlo - esistenziali. Nel quarto capitolo lo chiama «ateismo metodologico», perché prova una forte indifferenza verso ogni assoluto (in tal caso riprende uno spunto di Jean Petitot).
Si direbbe anzi che il fine a cui tende quest’opera non sia quello di liberarci da Dio, ma di liberare Dio da quelli che parlano troppo sovente a vanvera nel suo nome e, in tale veste, fanno la loro parte per dar forza agli argomenti dell’ateismo volgare. Inoltre vengono denunciate tutte le «chiacchiere» sulla religione civile, ultimo esercizio da salotto televisivo.
È altresì vero che Giorello prova una discreta dose di nervosismo anche nel sentir nominare la religione della libertà (con il dovuto rispetto a Croce). Insomma, il libro è rivolto a un mondo senza imposizioni. In esso l’ateo può essere compagno di strada del credente e diventa un fatto naturale chiedersi come si possa vivere, agire, lottare, morire quando si conta solo su se stessi. È la sfida per un nuovo Illuminismo, nel quale si avverte il bisogno d’amore a cui un tempo si dava il nome di Dio. Da «ateo protestante» (così si è dichiarato l’autore), Giorello non cerca di dimostrare l’assenza dell’Essere Assoluto, ma di definire l’orizzonte di un’esistenza senza di esso, rifiutando rassegnazioni e reverenze, ritrovando i piaceri della sperimentazione nella scienza e nell’arte, riscoprendo infine la libertà, soprattutto quando essa appare eccessiva alle burocrazie di qualsiasi «chiesa».
Morale: Giorello spinge il lettore verso un ateismo non dogmatico, utilizzabile anche da un credente stanco dei vari fondamentalismi, gli stessi che alla Grazia del Signore hanno sostituito la repressione e l’intolleranza. Una sua battuta? «Non credo molto a slogan tipo Comunione e liberazione; se proprio devo sceglierne uno, preferisco Libertà e individualismo».
La sfida ai tiranni e il bisogno di amore: il nuovo Illuminismo
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 15.09.2010)
Il volume di Giulio Giorello Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo di cui anticipiamo un brano è edito da Longanesi (pp. 232, € 15)
La più significativa differenza tra la libertà dell’ateo e il fondamento nella «carità»: soffrirà di «una crisi di leadership» (come ha detto Hans Küng), ma occorre riconoscere che Joseph Ratzinger l’ha colta con chiarezza (diversamente da vari pensatori più o meno «cattolici»): l’unica garanzia di libertà, ci dice, è «la fedeltà alla verità» (Caritas in veritate), e la libertà non può che essere «al servizio della verità». Sicché, nel mettere in guardia contro la sopravvalutazione dello sviluppo tecnologico («come elemento di libertà assoluta»), Benedetto XVI conclude che «a partire dal fascino tecnico esercitato sull’essere umano, si deve recuperare il senso vero della libertà, che non consiste nell’ebbrezza di una totale autonomia, ma nella risposta all’appello dell’essere». E se preferissimo restare «ebbri»? Siamo stanchi dei vari Pastori dell’Essere (con la maiuscola o meno).
L’autonomia è la condizione che conquistiamo per noi stessi nella fatica quotidiana - dalle scelte esistenziali alla ricerca scientifica (in tal senso oggi l’autonomia non è però «assoluta»; potrà sempre venir ampliata e rafforzata domani): per questo l’ateismo può rendere un buon servizio perfino a Dio, impedendo che venga ridotto a un oppressore (...). Per il fatto di essere prive di giustificazione teologica saranno meno significative le nostre azioni, nelle nostre singole esistenze come nella vita associata, specie se intese alla cooperazione di individui liberi con altri individui liberi? Si potrà obiettare che non sapremo mai se queste nostre azioni sono «buone»! Lo concediamo, non lo sapremo mai con certezza, e le nostre valutazioni non saranno che fallibili congetture, rivedibili e migliorabili.
Tuttavia, «il problema di come vivere, agire, lottare, morire
quando non ci si può affidare che a congetture» (per dirla con Imre Lakatos) costituirà - questo sì!
la sfida per un nuovo Illuminismo, inteso non solo come uno strumento di difesa dalle forme di
dispotismo con cui saremo chiamati a confrontarci ma come un buon compagno di strada anche per
quelli che ancora avvertono il bisogno di amore che in passato è stato chiamato Dio. Un fine
«reazionario» quale Joseph de Maistre avrebbe bollato l’intera faccenda come la beffa ispirata da un
«orgoglio feroce e ribelle». Le sue «serate» in quel di Pietroburgo, dopo il caldo estivo del
pomeriggio, abitualmente si concludevano con la ritirata degli amabili conversatori nelle loro
stanze, mentre cominciava a spirare il vento freddo della sera. Chissà se i suoi personaggi, ovvero il
Cavaliere, il Conte e il Senatore, dormivano sonni tranquilli, non visitati dallo spettro dell’ateismo
che a loro parere portava seco il germe dell’anarchia? Tutti i fondamentalisti - religiosi o politici
che siano - nutrono la convinzione di potere esorcizzare quel fantasma. Ma non si accorgono
(parola di Hegel) che «quanto più solido è l’edificio eretto dalla loro religione, tanto più impetuosa
è la pressione della vita, per fuggire via verso la libertà».
POLONIA
Copernico sepolto con onore
Tregua tra Chiesa e Scienza
L’astronomo che sfidò l’autorità ecclesiastica sepolto nella cattedrale di Frombork. I resti individuati con il Dna di ossa scoperte nella cattedrale confrontati con frammenti di capelli trovati nei libri dello scienziato *
Niccolò Copernico, l’astronomo polacco che nel XVI secolo ebbe il coraggio di sfidare la Chiesa sul dogma della centralità della Terra - e quindi dell’Uomo - nell’universo, è stato sepolto oggi tra grandi onori nella cattedrale di Frombork, a nord della Polonia, dove per secoli le sue spoglie hanno giaciuto nell’anonimato. Se le autorità vaticane avevano già riabilitato l’opera di Copernico, come avvenuto per quella del nostro Galileo, la sepoltura dignitosa dei resti dell’eretico studioso dei cieli si deve alla riuscita collaborazione tra la volontà ecclesiastica e l’azione della sua compagna di una vita: la scienza.
LE FOTO Copernico sepolto con onore
La chiave di volta della vicenda, ancora una volta, è racchiusa in una sigla di tre lettere: dna. Copernico fu sepolto nella cattedrale di Frombork nel 1543, in una tomba priva di un nome o di un qualsiasi segno che potesse segnalare dietro la pietra le spoglie del padre dell’Eliocentrismo, il sole al centro del sistema solare e della vita. Su richiesta del vescovo locale, gli scienziati hanno iniziato le ricerche della tomba di Copernico nel 2004, scoprendo le ossa e il cranio di un uomo deceduto all’età approssimativa di 70 anni. Quella che Copernico aveva il giorno della sua morte, quando prima di spirare gli fu consegnata una copia del De Revolutionibus Orbium Coelestium, il suo trattato "sulla rivoluzione delle sfere celesti", appena pubblicato.
Da quelle ossa, dai denti in particolare, è stato tratto il Dna da confrontare con quello di alcuni frammenti di capelli ritrovati nei libri che appartennero all’astronomo, matematico e medico polacco. Il codice genetico era lo stesso, di qui la conclusione che le spoglie dello scienziato erano finalmente uscite dall’oblio della storia. Così, 467 anni dopo la sua morte, i resti di Niccolò Copernico sono stati nuovamente inumati nella cattedrale di Frombork. Ma questa volta ai piedi di una tomba nuova di granito nero, con incisa la rappresentazione di un modello del sistema solare. Nel corso della cerimonia religiosa che ha accompagnato l’evento, l’arcivescovo Jozef Zycinski, nuovo primate polacco, ha deplorato gli "eccessi di zelo dei difensori della Chiesa" e ha ricordato la condanna dell’opera dell’astronomo da parte di Papa Paolo V nel 1616.
Il ricordo di tanto oscurantismo non poteva essere cancellato in un giorno. Così, prima della solenne sepoltura, una bara di legno contenente i resti di Copernico ha viaggiato per alcune settimane attraverso la Polonia, è stata esposta a Olsztyn e nelle città con cui ebbe legami nella sua vita. E Wojciech Ziemba, arcivescovo della regione di Frombork, ha finalmente detto che la Chiesa cattolica è fiera che Copernico abbia lasciato alla regione l’eredità del suo "duro lavoro, della sua devozione e soprattutto del suo genio scientifico".
* la Repubblica, 22 maggio 2010
«Il martirio è la sconfitta di ogni eclissi di Dio, il suo ritorno in pienezza attraverso l’offerta della vita da parte dei suoi figli»
DI ANGELO SCOLA (Avvenire, 12.12.2009) *
Qual è la risposta suscitata dal Dio che si è reso a noi familiare e ci parla lasciandosi dire nella lingua umana? L’uomo, oggi come sempre, non può che percorrere, a sua volta, la strada del Testimone degno di fede. Di fronte a Colui che ci ha amati per primo e ci ama in ogni istante come se fosse l’ultimo, gli uomini sono chiamati a coinvolgersi.
Se Cristo è venuto per rendere testimonianza alla verità, all’uomo tocca dar testimonianza a Lui e di Lui, Verità vivente e personale, di fronte alla sempre risorgente pretesa di «incanalare quest’acqua selvaggia nelle turbine dell’umanità a vantaggio di quest’ultima» (Von Balthasar). Invece la «ferita inferta alla storia del mondo con l’apparire di Cristo continua a suppurare». Per questo l’«in-contro » con il fratello uomo non potrà mai evitare il «contro», vale a dire l’urto di una originalità irriducibile ad ogni tentativo di addomesticare la novità che viene da Dio.
Di tale irriducibile novità però nessuno dovrà avere timore se i cristiani, resistendo alla tentazione dell’egemonia, sapranno fare della loro differenza la via di una proposta umile e tenace. Essa è propria del soggetto cristiano personale e comunitario in cui, per dirla con Guardini, la Chiesa avviene nelle anime (persone).
Parliamo di un soggetto capace di assumere la dimensione ecumenica e quella del dialogo interreligioso come intrinseche alla vita di fede. Questo soggetto può proporre senza pretese egemoniche, in una società plurale, l’avvenimento di Cristo in tutte le sue implicazioni antropologiche, sociali e cosmologiche.
La grammatica del narrare Dio è la grammatica testimoniale che domanda un cambiamento radicale di mentalità nella pratica e nella concezione della vita.
Diventa allora necessario liberare la categoria di testimonianza dalla pesante ipoteca moralista che la opprime perché la riduce, per lo più, al tema della coerenza di un soggetto. La testimonianza brilla invece in tutta la sua integrità, come metodo di conoscenza pratica e di comunicazione della verità e come valore primario rispetto ad ogni altra forma di conoscenza e di comunicazione: scientifica, filo-sofica, teologica, artistica, eccetera.
In concreto per il cristiano la testimonianza consiste nell’obiettiva sequela di Gesù, carica del coraggio di riconoscerlo di fronte al mondo, come fece Lui stesso chiamato a giudizio da Pilato.
Solo la testimonianza degna di fede com-muove la libertà dell’altro e lo invita efficacemente alla decisione. La narrazione che Dio fa di sé e quella che permette a noi di fare su di Lui e a suo nome, trova così nel martirio cristiano, «col quale il discepolo è reso simile al suo maestro» (LG 42), la sua piena manifestazione.
Il martirio, grazia che Dio concede agli inermi e che nessuno può pretendere, è un gesto insuperabile di unità e di misericordia. Il martirio è la sconfitta di ogni eclissi di Dio, è il suo ritorno in pienezza attraverso l’offerta della vita da parte dei suoi figli. Una consegna di sé che vince il male, perfino quello «ingiustificabile», perché ricostruisce l’unità, anche con colui che uccide.
Come Gesù prende il nostro male su di sé perdonandoci in anticipo, così il martire abbraccia in anticipo il suo carnefice in nome del dono di amore di Dio stesso, da tutti riconoscibile almeno come assoluto trascendente (verità).
Restano sempre commoventi, a questo proposito, le parole del testamento spirituale di padre Christian de Chergé, priore del monastero trappista di Notre-Dame de l’Atlas in Tibhirine (Algeria), da lui scritto ben tre anni prima di venir trucidato con i suoi monaci: «Venuto il momento, vorrei poter avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di chiedere il perdono di Dio e quello degli uomini miei fratelli».
* Sul tema, nel sito, ai cfr.:
Il Samaritano e re Artù
Sull’esistenza di una morale laica
di Saverio Caruso
La gentile fantasia della condivisione delle fragili sorti delle creature e un viso chino sul dolore del mondo sono nel samaritano che soccorre sulla solitaria via di Gerico, resa più deserta dal passaggio di uomini di fede che, frettolosi e indifferenti, non si fermano a porgere aiuto. È proprio Gesù, nel racconto evangelico di Luca, ad attribuire al samaritano, uomo non religioso, il merito della compassione e il gesto di farsi prossimo e di soccorrere. Uno dei comandamenti del Cristianesimo, forse quello che dà più chiara identità alla fede cristiana, l’amore del prossimo, ha fondamento nella volontà buona di un uomo che trova in se stesso, nel suo essere umanità, il motivo di prendersi cura dell’altro.
La compassione, l’amore del prossimo, la bontà, la reciprocità hanno un’ampiezza di universalità che non può essere rinchiusa in una professione di fede o in una ideologia: non sopportano appartenenze. Le parole di Gesù sul buon samaritano (Luca, 10,25-37) fondano la natura universale e laica della tensione verso l’Altro e la speranza che, nonostante le immani forze immisericordi presenti nel mondo, non sarà mai vinta la nostra volontà di restare umani dentro e oltre ogni fede.
La volontà buona rende vivibile questa terra e l’universo, perché il suo contenuto morale (giustizia, uguaglianza, libertà, ricerca della verità, rispetto e attenzione verso gli altri nel riconoscimento dei diritti naturali e sociali) mette in armonia.
Il cuore dell’uomo è piccolo, ma sente grida di aiuto e porge aiuto, perché il compito di fondare il mondo umano appartiene a tutti. Allora un anonimo fiammingo del sec. XV si esprime così: “Cristo non ha più mani / ha soltanto le nostre mani / Cristo non ha più voce / ha soltanto la nostra voce”. Le mani e la voce di tutti gli uomini di volontà buona.
Allora grande è il piccolo cuore dell’uomo, capace di una piccola bontà che soccorre e crea legami, ed è, per lo scrittore Vasilij Grossman, “il punto più alto a cui lo spirito sia pervenuto...Essa è invincibile. Quanto più è stupida, insensata, quanto più è impotente, tanto più è infinita. Davanti ad essa, il male non può nulla...I profeti, i leaders, i riformatori sono impotenti davanti a lei...È la bontà della vecchia che porta un pezzo di pane a un prigioniero, del soldato che dà da bere dalla sua borraccia al nemico ferito...., del contadino che nasconde nel fienile il vecchio ebreo”. Questa bontà è senza testimoni, “una piccola bontà senza ideologia. La si può chiamare bontà insensata. La bontà degli uomini fuori dal bene religioso o sociale (“Vita e destino”).
Anche l’ateismo appare provvidenziale nella ricerca di una morale assolutamente umana. In uno dei racconti chassidici pubblicati da Martin Buber si legge: “Rabbi Moshe Löb diceva: Non esiste qualità o forza dell’uomo che sia stata creata inutilmente. Ma a che scopo sarà stato creato l’ateismo? Perché quando uno viene da te e ti chiede aiuto, tu non devi raccomandargli di avere fiducia e di rivolgere la sua pena a Dio. Ma devi agire come se Dio non ci fosse, come se in tutto il mondo ci fosse uno solo che può aiutare quell’uomo: e quell’uno sei tu”.
Nel suo ultimo recente romanzo “Il dono”, la scrittrice Toni Morrison racconta di una madre nera che offre, a un mercante (ma non di uomini) che è passato a esigere un credito presso un proprietario di terre e di schiavi (cattolico), la sua bambina per salvarla da un futuro di schiavitù.
Questa madre ha colto negli occhi dell’uomo una luce di bontà, uno sguardo umano, come dice lei stessa alla fine del libro: “Ho detto te. Di prendere te, mia figlia. Perché ho visto che l’uomo alto vedeva in te una bambina umana, non dei pezzi da otto. Mi sono inginocchiata davanti a lui. Sperando in un miracolo. Ha detto sì. Non è stato un miracolo donato da Dio. È stata una misericordia. Offerta da un essere umano. Sono rimasta in ginocchio. Nella polvere dove il mio cuore rimarrà ogni notte e ogni giorno finché non capisci quello che so e che tanto vorrei dirti: ricevere il dominio su un altro è difficile, lottare per il dominio su un altro è sbagliato; cedere il dominio di sé a un altro è male”.
È stata una misericordia offerta da un essere umano che non ha ceduto il dominio di sé, cioè la propria coscienza, ed è rimasto umano. Non questa o quella fede, non questa o quella ideologia, ma la coscienza è il fulcro di ogni morale. In essa vivono o deperiscono tutti i principi che fanno il mondo etico e la comunità umana. E uomini e donne sono disposti a dare la vita per la giustizia, la libertà e l’uguaglianza, la solidarietà, per i propri simili senza diritti, e spesso sono guidati da convinzioni non religiose, anzi sono costretti a muovere, per conquiste umane e sociali, contro i poteri religiosi. Il filosofo cattolico Charles Taylor scrive (in “L’età secolare”) che “ci sono molti modi per fondare una teoria dei diritti umani, e quella religiosa non è migliore, più sicura, rispetto ai tentativi dei laici”.
Per una straordinaria commistione di amore del prossimo e di crudeltà, è stata data legittimazione religiosa alla schiavitù nei tempi moderni (i negri non hanno anima?); per una strana commistione di dolcezza (il suono delle campane) e crudeltà, le campane delle chiese inglesi hanno suonato a lutto all’annuncio dell’abolizione della schiavitù nelle colonie britanniche. Spesso le fedi stanno nelle corti del mondo, a sostegno del potere, e mostrano un’altra strana commistione: quella tra amore del prossimo e amore per le dittature. E a lungo la richiesta della libertà dei singoli e dei popoli è stata dichiarata dalla Chiesa un’idea demoniaca.
La cultura laica - anche di uomini profondamente religiosi - fondata sulla coscienza-dominio di sé autonoma di minoranze generose e illuminate, ha redento il mondo, seppure mai in via definitiva, perché permangono su questa terra gli istinti che ci fanno disumani.
Ampi e profondi sono i rapporti tra cultura religiosa e cultura laica e c’è chi sostiene che illuminismo e marxismo sono eresie cristiane. Gabriella Caramore (“La fatica della luce. Confini del religioso”) dice che oggi più che mai “ci è chiesto di comprendere, con intelligenza, che chi non crede in Dio, può credere però, a pieno titolo, a quelli che dentro i testi delle Scritture (da quelle ebraiche a quelle cristiane a quelle dell’islam) sono chiamati, in maniera più o meno indiretta, i ‘nomi’ di Dio: la giustizia e la misericordia, la libertà e la pace, la verità e la fedeltà, la bellezza e l’umiltà, la rettitudine e l’intelligenza. Per tutti - credenti e non - si tratta di far sì che non siano nomi vuoti, parole con cui si copre il proprio deserto, maschere per la propria inettitudine. Ma un vero esercizio di ricerca, un banco di prova per la propria umanità”.
L’ampiezza di questi rapporti è presente anche nelle idee di quegli uomini illuminati che nell’antichità, intorno al V sec. a.C., apparvero quasi contemporaneamente in varie parti del mondo. Richiamandosi a un fondamento religioso mai enunciato compiutamente, essi hanno elaborato contenuti di civiltà centrati su una elevata moralità nei rapporti umani.
Uno di loro è Maestro Kung (Confucio), che percorre la Cina dicendo di ispirarsi a una “Via del Cielo” che non si può definire né insegnare e di cui, come lamenta qualcuno dei discepoli, egli non parla mai. Egli è spirito profondamente religioso e inscrive i principi morali nei “Decreti del Cielo”, ma non formula una teologia e non fonda una istituzione della fede. Le testimonianze dei discepoli ci dicono che le parole di Confucio contengono una delle più grandi esaltazioni laiche della carità, della sincerità, della giustizia, della misura.
La figura del saggio, tramandata fino a noi, è quella di un uomo che indica come regola di vita la reciprocità e così la enuncia: “Ciò che non vuoi sia fatto a te non fare agli altri”; che nell’impegno ininterrotto di autoperfezionamento “vuole progredire verso l’alto”, mentre “l’uomo volgare progredisce verso il basso”. Il saggio “perfeziona le qualità migliori dell’uomo, non le peggiori. L’uomo volgare fa tutto l’opposto”. Solo l’uomo volgare ama “l’amicizia con uomini abili nel servilismo”, mentre “il saggio è accondiscendente ma non servilmente concorde”. Il saggio sa che può sbagliare nel conoscere e nell’agire, ma “l’errare del saggio è come un’eclissi di sole o di luna: quando sbaglia tutti lo vedono, quando si corregge tutti guardano a lui”. Al contrario, “i suoi errori, l’uomo volgare sicuramente li abbellisce”.
Quanti, tra gli uomini che cercano notorietà di guida, quanti tra gli uomini che professano fedi sono permeati dalla fresca universalità di questa saggezza?
Mi sorprende, il sopraggiungere, nel discorso di molti credenti, di una sorta di incurvatura dell’anima, che li porta a non riconoscere, nella società umana, l’esistenza di una morale laica. Si tratta di una rinuncia a rapportarsi con alcuni dei più alti contenuti di civiltà dell’uomo. È vero che essi sono stati raggiunti anche contro il potere religioso, ma spesso un modo coraggioso di vivere la fede ha prodotto laicità all’interno di una religione.
Il samaritano è un laico e, come laico, cioè uomo dotato di coscienza autonoma che ha a cuore ciò che è umano, è innalzato da Gesù, che lo indica come esempio a coloro che vogliono meritarsi il regno dei cieli. Anche un laico, allora, può dare significato alla vita di un credente. La via delle ostinate rinunce non è feconda di patti di grazia tra gli uomini. Molti, che dicono di aver ascoltato la voce di Dio, si agitano per uccidere tutti i nomi di Dio e fanno soffrire, con dovizia di mezzi, gli esseri umani e gli angeli. Sono in balia di una disumanità che vanifica il loro stesso nome. La volontà buona crea legami anche tra diversi. Essa è il fiore di una intelligenza che non cede a nessuno, mai, il dominio di sé, la propria libertà.
La coscienza libera di fare il bene, che non si fa lusingare da richiami di appartenenza né diminuire da ostinate inerzie dottrinarie, respira “chiacchierando con gli angeli alla mattina presto / chiacchierando con gli angeli in quella terra. / Io voglio far parte di quella orchestra / e chiacchierare con gli angeli tutto il giorno”. Così dice il canto composto da una signora inglese, canto adagiato su una musica di allegra dolcezza, che io ho sentito dalla voce di un bambino di nome Arty, il nome di quel grande re, insieme laico e credente, che visse tra cavalieri senza macchia, in continuo perfezionamento di sé verso l’alto e dediti ad alleviare le sofferenze dei più deboli, a soccorrere la fragilità del mondo.
Saverio Caruso
"Io, la religione e la lettura biblica"
di Marco Vannini (la Repubblica, 26 gennaio 2010)
Repubblica del 19 gennaio, ha pubblicato un articolo di Vito Mancuso sul mio Prego Dio che mi liberi da Dio, in cui mi si accusa, tra l’altro, di antigiudaismo. È un’accusa che respingo fermamente, chiamando a testimonianza la mia intera vita di studioso, che ha passato anni a tradurre commentarii biblici: in Israele, nella foresta Giovanni XXIII-Jules Isaac, ci sono cinque alberi piantati in mio onore dall’Amicizia Ebraico-Cristiana di Roma (Keren Kayemeth Leisrael). Tale accusa si fonda infatti sul metodo di citare frasi mutile, avulse dal contesto, o addirittura di attribuire a me quelle che sono invece citazioni di ben più alte autorità. Quest’ultimo è, ad esempio, il caso della teologia definita come "animalesca": non da me, ma da Meister Eckhart (da cui il libro stesso prende il titolo), e il contesto spiega bene in che senso: bestialità in quanto ignoranza, giacché la teologia è presuntuoso discorso su Dio, che è invece al di là di ogni possibile discorso. È anche il caso del «cristianesimo purificato dall’eredità di Israele»: citazione, questa, di Simone Weil, altro punto di riferimento fondamentale del libro - e meraviglia che Mancuso lo taccia, visto che le ha dedicato un suo libro: forse teme l’accusa di "sinistro antigiudaismo"?
Mi viene soprattutto rimproverato, a proposito della condanna di Gesù, l’errore di parlare di "ebrei", senza specificare che si trattava dei soli sadducei collaborazionisti, mentre invece proprio nella riga precedente a quella incriminata si dice che Gesù fu condannato dal «potere sacerdotale ebraico, alleato di quello politico dei romani», ovvero lo stessa tesi che sostiene Mancuso. È comunque evidente da tutto il contesto che non intendo affatto attribuire assurde responsabilità storiche collettive, ma solo sottolineare che il cristianesimo si è costituito sull’affermazione della identità tra Gesù e il Padre - bestemmia, questa, per l’ebraismo, che marcava in modo netto l’opposizione tra le due religioni. Che la storia biblica sia costruita su falsità - invenzione i Patriarchi, invenzione l’Esodo, invenzione il Tempio, invenzione la Legge, ecc. - e che ciò sia stato fatto per fini politici, è un dato acquisito dalla più moderna ricerca storico-critica (nel mio libro si cita tra gli altri Mario Liverani, Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele, Laterza), e che si sia così costruita «una comunità chiusa non solo per religione ma anche per razza» (ibid. p. 391), lo è altrettanto.
Perché non si tratta infatti di criticare un libro biblico piuttosto che un altro, accettando ciò che piace e rifiutando quel che dispiace, ma di riconoscere che «la vera suprema bestemmia è chiamare sacro ciò che proviene da mano umana», come diceva l’umanista Cornelio Agrippa. Nel momento in cui il maggiore editore cattolico italiano presenta la Bibbia come «via, verità, vita» attribuendo a un libro ciò che Cristo dice di se stesso, credo sia legittimo parlare di religione come menzogna, accanto a religione come verità. Di questo, e non d’altro, tratta il mio libro, che perciò rivendica l’importanza della fonte greca, e del platonismo in particolare, nella formazione del cristianesimo.
Platonismo significa il primato dell’interiorità contro l’esteriorità; significa non costruire teologie/mitologie, ma cercare di "farsi simili a Dio" nella giustizia. Significa conoscenza della malizia insita nell’io, nel suo quasi insopprimibile egoismo, e dunque della necessità di una conversione, di una "morte dell’anima", ossia di un radicale distacco dall’egoità. Significa, in conclusione, l’esperienza tanto della natura quanto della grazia, e del primato di quest’ultima - ed è su questo che il cristianesimo si è fondato - e che la mistica - unica vera erede della filosofia greca- ha mantenuto nei secoli.
Non si tratta quindi di me o di Agostino, col suo "gelido pessimismo", come vuole Mancuso, quanto e soprattutto di Cristo stesso: odiare la propria anima/vita, rinunciare a se stessi, morire a se stessi come muore il chicco di grano e esperimentare la rinascita e la nuova vita nello spirito, sono infatti i passi e i tratti essenziali del messaggio evangelico e le condizioni della sequela Christi. Se si cancellano questi, Gesù, ormai solo uomo, viene ridotto a un maestro new-age, e il cristianesimo (ma ha senso chiamarlo così?) a una melassa insulsa e insignificante.
L’attualità di Claudio Napoleoni
di Sandro Del Fattore (il manifesto, 04.12.2008)
Lo scorso 21 novembre il Centro per la riforma dello stato (Crs) ha promosso un incontro pubblico su Claudio Napoleoni a venti anni dalla sua scomparsa. Del suo straordinario contributo teorico e politico ne hanno discusso Mario Tronti, Raniero La Valle, Fausto Bertinotti, Luciana Castellina, Gian Luigi Vaccarino. Lavoro teorico e impegno politico: due campi difficilmente separabili per Claudio Napoleoni che, infatti, diceva «Io non avrei mai affrontato in vita mia una questione teoretica se non fossi stato spinto a farlo da un interesse politico». La politica, quindi, vista come attività verso la quale finalizzare lo studio e la ricerca, ma anche come «lo strumento di una liberazione».
Perché è importante riprendere la linea di ricerca di Claudio Napoleoni e provare a scavare attorno alle sue ultime e drammatiche domande? Proprio su questo sono stati diversi gli spunti di riflessione emersi nel corso del convegno. Qui ci soffermiamo solo su una questione. È possibile individuare un filo conduttore nella ricerca teorica e nel lavoro politico di Claudio Napoleoni?
Rispondendo a tale quesito, infatti, è possibile capire meglio la sua attualità. Ci sono studiosi che individuano quale possibile filo conduttore della sua opera la polemica costante e ricorrente di Napoleoni contro la rendita e il parassitismo visti come tratti peculiari del capitalismo italiano. Lotta alla rendita, quindi, come terreno di iniziativa della stessa sinistra e del movimento operaio. Questo tema nel lavoro di Napoleoni indubbiamente c’è. Come però ci ricorda Lucio Magri nell’intervento al convegno di Biella (pubblicato poi su Critica Marxista), a 10 anni dalla scomparsa di Napoleoni, il suo contributo non può essere racchiuso in questo ambito. E infatti ciò è del tutto evidente se si riflette su alcune tappe importanti del suo lavoro teorico e del suo impegno politico.
Già nella «Rivista Trimestrale» fondata con Franco Rodano (fine anni ’50) prende corpo un’analisi critica del consumismo quale tratto saliente del nuovo capitalismo. A questa critica si coniuga una proposta di politica economica che, a partire dai bisogni sociali e collettivi, possa determinare nuove scelte e opportunità di investimento. Già allora, quindi, emergeva la critica alle nuove forme che il capitalismo veniva assumendo e l’esigenza di battersi per un diverso sviluppo e una diversa programmazione dell’economia. Questione, questa, che si riproporrà alla fine degli anni ’60, arricchita da un elemento decisivo: proprio i contenuti avanzati delle lotte operaie di quegli anni e le forme di democrazia diretta davano la possibilità di fondare la programmazione e l’intervento pubblico nel vivo della società e dei suoi conflitti.
Nel 1978 - con Luciana Castellina e Stefano Rodotà - dà vita alla rivista Pace e Guerra. E proprio sul primo numero della rivista, riflettendo sul tema dell’austerità, Napoleoni scrive che quanto si aspettano «i destinatari» di quella proposta (cioè i soggetti sociali protagonisti delle lotte in particolare degli anni ’60-’70) «non è soltanto una migliore amministrazione dell’esistente ma un inizio di superamento sia della condizione implicita del lavoro salariale sia dei modi di consumo impliciti nella produzione mercantile». Come si vede, anche da questo passo emerge una critica al modello capitalistico di sviluppo e l’esigenza del suo superamento.
Negli anni ’80 la riflessione di Claudio Napoleoni si trova di fronte due questioni assai delicate e gravide di conseguenze: cominciano a dispiegarsi le politiche neoconservatrici con i loro effetti sull’economia ma anche su quei soggetti protagonisti delle lotte degli anni ’60-’70; in secondo luogo, si apre una discussione nel Pci proprio su come affrontare e contrastare quelle politiche.
Nel 1986 in un seminario promosso dal Cespe e dal Crs Napoleoni si chiedeva perché mai la sinistra dovesse assumere come propri gli obiettivi del risanamento finanziario e della «stabilizzazione del ciclo economico intorno a un trend positivo». La leva del bilancio pubblico andava utilizzata, secondo Napoleoni, non per produrre una spesa inflazionistica ma per «dirigere risorse verso quei settori che sono più suscettibili di allentare la nostra dipendenza dall’estero». O verso una politica di investimenti «per grandi programmi di modificazione del territorio che hanno valore in se stessi e che possono essere giudicati dei beni finali e non dei beni strumentali a altro». Investimenti, quindi, per ridurre l’inquinamento, produrre servizi, risanare le città e le aree urbane.
Sappiamo come questa discussione si è conclusa. La domanda radicale che Napoleoni si pone negli ultimi anni della sua vita porta forse il segno di una riflessione che risente molto della sconfitta che la sinistra subisce proprio a partire degli anni ’80. Si chiede infatti Napoleoni «posto che la storia contemporanea culmina in una società dominata da uno sviluppo nuovo del capitalismo che per l’uomo ha un carattere distributivo, è possibile una uscita da essa per via puramente politica?». È il dubbio che lo assillava negli ultimi anni della sua vita. E proprio a fronte di questo dubbio sollecitava, nel suo ultimo libro, «cercate ancora».
Quel filo conduttore di cui abbiamo parlato all’inizio e che troviamo in tante parti della sua riflessione teorica e politica sta proprio nella critica radicale del moderno capitalismo a cui si associa una costante ricerca delle strategie che - pure in presenza di vincoli e condizionamenti che il sistema produce - portino a un suo superamento. L’attualità del suo lavoro e dei problemi che esso pone sta proprio qui. E infatti guardiamo a ciò che oggi sta avvenendo.
Quel capitalismo così «pervasivo» che distrugge l’ambiente e ingenti risorse è nel pieno di una crisi drammatica non solo della finanza. È una crisi che tocca e riguarda in primo luogo l’economia reale. Così il tema della redistribuzione del reddito verso il lavoro torna a essere centrale. Ma c’è di più. Paradossalmente la necessità dell’intervento pubblico in economia viene riconosciuta da tutti. Ma, ecco il punto, l’intervento pubblico non può limitarsi a tamponare gli effetti più devastanti della crisi per poi tornare alla condizione precedente. C’è l’esigenza, invece, che quell’intervento sia funzionale a un progetto capace di modificare la qualità della produzione e dell’occupazione. E ciò è possibile se si risponde alle tante domande inevase che ci sono nella società e su di esse si orienta uno sviluppo diverso: risanamento del territorio e delle aree urbane, nuove politiche energetiche e nuove politiche industriali, progetti per una mobilità sostenibile etc. Non sta anche in questo l’attualità del pensiero di Claudio Napoleoni? Forse una costituente per un nuovo soggetto della sinistra dovrebbe partire anche da lì.
Safouan, il Corano è tollerante, siamo noi a non essere liberi
L’intellettuale franco-egiziano, psicanalista e traduttore arabo di Freud, ci racconta i legami tra politica della scrittura (sacra) e terrorismo religioso.
intervista di Alessandra D’Andria (il Riformista, 5.12.2008)
«Non è l’Islam ad essere incompatibile con la democrazia ma la strumentalizzazione di questa religione da parte delle elite al potere». Pronuncia ogni singola parola con lentezza Moustapha Safouan, come se volesse imprimerla nella mente di chi lo ascolta. Perché la sua è una convinzione profonda, che nasce da anni di studio sulla questione - sempre attuale - del rapporto tra Corano e libertà. Tema a cui lo psichiatra franco egiziano - famoso tra le altre cose per aver tradotto in arabo L’interpretazione dei sogni di Freud - ha dedicato il saggio Perché il mondo arabo non è libero, appena pubblicato da Spirali. Un titolo provocatorio. Del resto, Safouan - in Italia per un ciclo di presentazioni - non ha timore di turbare la sensibilità degli «oltranzisti del politicamente corretto«. L’anziano medico - abituato a indagare nei meandri dell’inconscio - ama demolire falsi miti e luoghi comuni. Safouan è un intellettuale "senza mezze misure". Proprio come il suo nuovo libro, dal titolo controcorrente.
Safouan, perché il mondo arabo non è libero?
Devo fare una puntualizzazione. Il titolo originario - con cui l’opera è stata pubblicata in Gran Bretagna - è Perché gli arabi non sono liberi. L’editore francese, temendo di ferire la sensibilità dei Paesi islamici, ha trovato questa forma edulcorata. La nuova traduzione araba si chiamerà Perché noi non siamo liberi - che mi sembra il nome più adatto - dato che è un arabo a parlare. Quanto alle motivazioni dell’assenza di libertà nel mondo arabo queste derivano da ragioni storiche. Ben più antiche della colonizzazione. Spesso i nostri governanti puntano il dito contro gli stranieri - che di certo hanno sfruttato le colonie per i loro interessi - ma non si assumono le loro responsabilità.
Quali sarebbero?
La religione islamica non delinea una forma di organizzazione politica. È, però, vero che il Corano lascia irrisolta una questione fondamentale: quella della successione. Maometto è l’ultimo Profeta, nessuno può sostituirlo. Tale affermazione si iscrive in un contesto politico in cui ancora esiste la "forma stato" come la conosciamo ora. I popoli della regione, dunque, si sono dovuti ispirare all’unica forma di governo che conoscevano, ovvero il modello persiano dell’Imperatore-Dio. Una modalità di organizzazione del potere importata da fuori e, dunque, estranea all’Islam come religione. Il punto è che la divinizzazione del potere s’è conservata nei secoli, ha plasmato la mentalità dei popoli musulmani. Grazie alla manipolazione dei testi sacri operata dai vertici dei regimi. In Egitto, ad esempio, da Nasser in poi, il presidente nomina i rappresentanti del potere religiosi, i responsabili della fatwa, i rettori universitari.
In che modo è stata realizzata questa mistificazione?
La lingua ha un ruolo fondamentale in questo. L’arabo è una lingua "duale". Da una parte c’è l’idioma dei testi sacri, quello letterario, fisso e immutabile, dall’altra c’è la lingua parlata dal popolo. La prima resta, però, inaccessibile per il popolo. D’altra parte, chi detiene il potere non ha interesse a diffonderne la conoscenza. «Il Corano dice questo», ripetono i governanti ma la gente ignora che cosa realmente affermino le scritture. Si realizza, così, quella che io definisco una "censura non dichiarata". Perché il Corano è molto più tollerante di come i regimi arabi ce lo fanno apparire. Perché allora, specie negli ultimi tempi, sembra prevalere l’estremismo? Il fondamentalismo è il prodotto della repressione operata dai governi islamici. L’opposizione non ha modo di esprimersi, l’unico canale che ha per affermarsi è la violenza. Una violenza assoluta e brutale quanto - o spesse volte di più - quella dei sistemi politici che si trovano a combattere. Anche questi movimenti di resistenza "manipolano" il Corano per legittimarsi. Utilizzano gli stessi meccanismi dei governi al potere. Che vengono definiti "infedeli", mentre gli estremisti si autoproclamano i detentori "dell’ortodossia". Non a caso, l’integralismo colpisce non solo l’Occidente ma anche i regimi arabi. La religione, tuttavia, non c’entra. È una lotta per il potere.
sentire la speranza
Dignità umana, una scoperta infinita
di Roberto Mancini (Avvenire, 04.11.2008).
L’ incontro con la verità può avvenire in molti modi. Nella tensione della speranza verso una meta positiva per la vita; nelle esperienze di dono e nella comunione che dischiudono; nel riconoscersi coprotagonisti di un sogno e di una promessa che interpellano la nostra identità profonda; nelle scoperte offerte a chi non ha paura del dialogo; nell’ospitalità del silenzio. Ma perché si dia una reale relazione con la verità bisogna giungere a un incontro essenziale.
Quello con la dignità umana. Non tanto come concetto, quanto come presenza viva data anzitutto nell’altro. Emmanuel Lévinas, testimone rigoroso dell’incondizionato valore della dignità, mostra che solo nella responsabilità verso gli altri, uno per uno, impariamo che essa ha luogo nella fraternità. L’altro nella sua unicità incarna una differenza che io non posso assimilare.
Scrive Lévinas: « Il fatto che tutti gli uomini siano fratelli non è spiegato dalla loro somiglianza, è costituito dalla mia responsabilità di fronte a un volto che mi guarda come assolutamente estraneo ». Senza risvegliarsi a questa prima radice che, come dice Simone Weil, è data nella dignità, non c’è apertura alla verità. Resta solo la malafede del pensiero guidato dalla violenza. Le oscillazioni della filosofia occidentale tra assolutismo cognitivo e relativismo derivano proprio dall’incapacità di pensare alla verità nella prospettiva della relazione. La verità infatti, chiunque o qualunque realtà sia, è sì se stessa autonomamente, ma vive nella relazione con la persona umana e viene riconosciuta solo quando la dignità delle persone è onorata.
Il viaggio del riconoscimento storico della dignità rimane complesso e rischioso. Sia perché essa rivela con il tempo aspetti prima incompresi. Sia perché è stata ostinatamente negata, sottomessa al potere, all’ideologia, alla razza, al denaro, al culto delle identità esclusive. Nelle vicende di questo viaggio spicca la svolta di metà Novecento, quando tra il 1945 e il 1948, dopo le distruzioni dei decenni precedenti, popoli e governi cercarono il fondamento per una civiltà di pace.
Il criterio fu colto, da allora, nell’intrinseca dignità dell’essere umano. Non si tratta di un valore isolato, ma di una costellazione di dimensioni. La prima consiste nel valore incondizionato della persona, al di là dei criteri del merito, dell’interesse e della colpa. La seconda dimensione è quella per cui la dignità è nel contempo il legame interumano originario, l’appartenenza di chiunque all’umanità come unica famiglia. La terza dimensione ha il nome di responsabilità: quella di esistere nella libertà e senza complicità con il male, in modo creativo e non distruttivo. C’è poi la dimensione della dignità come percorso di apprendimento, che chiede a ciascuno di imparare a rispettare gli altri, ma anche di scoprire il proprio valore di persona umana.
Agire al di sotto della costellazione della dignità significa consegnarsi al delirio. Come accade esemplarmente in ogni omicidio, da Caino fino a oggi. Egli letteralmente non sa quello che fa ed è sopraffatto dall’immensità negativa del suo gesto. La prima condizione di risveglio alla verità per la politica, l’economia, le culture, le religioni e i sistemi educativi sta nella fedeltà quotidiana alla costellazione della dignità. La sua traduzione storica è un compito ineludibile per diventare noi stessi e per sperare la felicità piena, salvata dal male, come la verità nascosta nel nostro doloroso cercare qualcosa di più che la sopravvivenza.
Vent’anni dopo
di Piero Stefani (Koinonia-Forum, n. 171, 08 novembre 2009)
Per ricordare il crollo del comunismo ci sia lecito percorrere, sia pure ingenuamente, un largo tratto del pensiero occidentale, confrontando tra loro Kant, Hegel e Marx.
Verso la fine della sua vita, Kant scrive un piccolo trattato dal titolo ambizioso: Per una pace perpetua. Quelle pagine non si limitano a individuare le modalità di tregue prolungate che possano garantire una tranquilla convivenza tra gli stati: esse prospettano un esito più alto in cui la pace sarà condizione permanente per tutta l’umanità. Il libretto non ha l’andamento del sogno, al contrario assume piuttosto la veste di progetto, fornendo regole per fondare un diritto cosmopolitico (noi diremmo internazionale) in grado di garantire a tutti una pacifica convivenza. Esse sono presentate come idee razionali e non già come fantasie, per questo possono diventare un modello.
Nelle ultime righe dell’opera Kant scrive: «Se è un dovere, ed anche una fondata speranza, realizzare uno stato di diritto pubblico [vale a dire attuare le condizioni che consentono di stabilire un effettivo diritto internazionale], anche se solo con una approssimazione progressiva all’infinito, allora la pace perpetua, che succederà a quelli che sono stati sino a ora falsamente denominati trattati di pace (propriamente, armistizi), non è idea vuota». Dovere e fondata speranza assumono l’aspetto di tangenza all’infinito: non li si raggiungerà mai, ma ci si può avvicinare sempre. La vera meta diviene così un continuo camminare. Proprio l’aver rinunciato a un definitivo congiungimento evidenzia il carattere laico e progettuale del pensare di Kant.
A molti pensatori del XIX sec., a cominciare da Hegel, questo modo di procedere non sembrò né razionale, né realistico e l’idea apparve davvero vuota. Il punto di incontro tra l’agire umano e quanto accade perché deve accadere non è la speranza: è la storia. Il grande bacino di raccolta di tutte le acque lo si trova lì. I rivoli delle azioni di individui, collettività e stati scorrono inevitabilmente verso il mare della storia che li rimescola facendone un tutt’uno. Ogni fiume perde la propria specificità per realizzare la sua destinazione più autentica: fornire il proprio contributo perché si realizzi l’immensa e unitaria distesa delle acque. Nella sua accezione più autentica il termine «storia» va sempre coniugato al singolare.
Tenendo conto di ciò il pensoso sguardo di Hegel si rivolse dunque al presente e al passato (dal mare ai fiumi), non al futuro. I confini del mare non si possono tracciare, né conoscere in modo preventivo. La filosofia non può prevedere, il suo compito è di comprendere il presente e il passato. Assieme allo slancio utopico, in tal modo è riposto nel cassetto anche ogni senso forte legato al dover essere. Possiamo avere grandi ideali, ma essi da soli non ci garantiscono che diverranno realtà. A darci ragione deve essere in primis la storia. Tuttavia è regola aurea affermare che la storia ci dà ragione solo se noi diamo ragione ad essa.
Nel corso dell’Ottocento a qualcuno parve che la meta ultima della storia, più che come pace perpetua fondata su un diritto internazionale, dovesse essere pensata come l’avvento di una società giusta. È vano parlare di pace là dove vi sono ricchi che sono tali in virtù del loro sistematico sfruttamento del lavoro dei poveri. È ingannevole prospettare un’uguaglianza formale di diritti politici là dove la disuguaglianza sociale celebra i propri trionfi. L’affermarsi di una società giusta e ugualitaria va spogliata dall’aspetto, insoddisfacente, di tangenza all’infinito. Quell’esito doveva essere fondato solidamente sulla storia, la quale era dalla nostra parte appunto perché noi siamo dalla sua. Marx e il socialismo furono le punte di diamante di questa maniera di pensare e di agire.
Molte e non lievi furono le differenze di intendere i modi in cui la storia avrebbe confermato quella prospettiva. Per alcuni l’esito era a tal punto iscritto nell’ordine delle cose che bastava attendere che il sistema capitalista crollasse a motivo delle sue insanabili contraddizioni interne; per altri occorreva passare attraverso le doglie di una rivoluzione violenta. Per tutti la storia avrebbe comunque dato ragione a loro e torto agli altri. Milioni di persone hanno ritenuto che davanti a loro splendesse realmente il bel sol dell’avvenire. Per questo hanno vissuto e combattuto.
Nel XX sec. alcuni stati hanno sperimentato quello che si è definito il socialismo reale. Il potere è passato in quelle mani, ma la società giusta non si è realizzata. Per un certo periodo si è detto che si trattava di un’epoca di transizione e che a poco a poco le società socialiste avrebbero dimostrato la loro solidità e la loro superiorità storica. L’avvenire era ancora da quella parte. Verso lo scadere del secolo contraddizioni insanabili e collassi interni hanno travolto i sistemi socialisti e non quello capitalista. Il socialismo reale è crollato: la storia gli ha dato torto. Con esso sembra definitivamente tramontata anche la prospettiva di poter conseguire una società giusta. Tuttavia poiché il nesso tra giustizia e pace appare ancora inscritto nell’ordine delle cose, la mancanza del primo termine comporta anche quella del secondo: a essere perpetua è la guerra, non la pace.
Qualcuno però ancora si interroga se davvero la nascita, lo sviluppo e la scomparsa del socialismo reale abbiano costituito la fine senza rimedio di ogni speranza di conseguire una società giusta. A questa domanda si può rispondere in modo affermativo, aggiungendo però che ciò vale per quel tanto in cui il socialismo si è appoggiato sulla storia ed ha affidato a essa il compito dell’ultima conferma. Chi crede di avere ragione dalla storia non ha scampo quando essa gli dà invece torto. L’ideale è crollato per quel tanto che si è voluto presentare come reale.
Il nesso tra pace e giustizia e la volontà di non rassegnarsi a società profondamente e strutturalmente ingiuste è tuttora il fronte su cui si misura una politica alta, degna di questo nome. Si tratta, ai nostri giorni, di merce rarissima. È tale anche perché a essa è precluso di operare secondo i termini otto-novecenteschi di storia, progresso, sviluppo, crescita.
La politica internazionale deve assumersi a pieno titolo un compito inedito per le passate generazioni umane e alieno alla mentalità sia capitalistica sia socialista: salvaguardare, per quel che è ancora possibile, le condizioni nelle quali la terra possa essere un habitat confacente alla specie umana. Su questo fronte Hegel e Marx non hanno nulla da dirci; altro è il discorso per il significato del limite perno su cui ruota il pensiero kantiano.
Piero Stefani