Ciò che segue è la QUARTA parte di un piccolo percorso di indagine. Per le prime TRE, si cfr. in nota qui *:
KANT E LA RIVOLUZIONE COPERNICANA. Se è vero, come è vero, che dopo Copernico “l’uomo rotola verso una X” (Nietzsche), è altrettanto vero che il teorico della “rivoluzione copernicana” in filosofia, una volta sepolto sotto le fondamenta dell’idealismo tedesco, ne condividerà le sorti, fino a essere considerato e ‘naturalmente’ criticato come un restauratore super-tolemaico (cfr., ad esempio, John Dewey, nella sua “Ricerca della certezza”, 1929) dell’ “impero” faraonico-idealistico. Il lavoro di Kant , negato e stravolto, scompare sotto un mare di sabbia ‘egiziana’.
E chi ha avuto il coraggio di affrontare la discesa all’Averno, ha realizzato la decisiva interpretazione dei “sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica”, e ha sottoposto ad analisi critica la Ragione sì da portarla fuori dall’infantilismo (egocentrico e super-egoico), diviene per lo più invisibile allo stesso Freud (che pure si è occupato di archeologia e ha osato scendere anch’egli agl’Inferi, e nonostante abbia avuto le sollecitazioni di un kantiano come l’autore delle “Fantasie di un realista”, Josef Popper-Lynkeus), che finisce per non cogliere a pieno (Freud, 1924: "L’imperativo categorico di Kant si rivela così il diretto erede del complesso edipico") la portata antropologica del suo programma di ricerca. E, dopo di lui, come gli storici della psicoanalisi così gli storici della filosofia hanno continuato a camminare senza nemmeno vederlo.
In un lavoro degli anni scorsi (1973) di due psichiatri e psicoanalisti francesi, che sono occupati della “naissance du psychanalyste de Mesmer a Freud” (cfr. Léon Chertok - Raymond de Saussure, “Freud prima di Freud. Nascita della psicoanalisi”, Laterza, Bari 1975) non un solo riferimento a Kant. Molti gli accostamenti e gli approfondimenti sul rapporto Hegel-Freud, ma non su Kant-Freud.
Paradossalmente è solo nel 1984, nella ricorrenza del bicentenario della celebre “Risposta alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo?” (1784), che Foucault (poco prima di morire) si sveglia dal “sonno dogmatico” e lancia l’allarme e un "urlo", con la straordinaria lezione “Che cosa è l’Illuminismo? Che cosa è la Rivoluzione?”.
Habermas è sorpreso e stravolto, la sua “ragione comunicativa” è messa in crisi: “Qui non si incontra - egli scrive - il Kant familiare di Le mots et les choses, il critico della conoscenza che con la sua analitica della finitudine ha dischiuso l’epoca del pensiero antropologico e delle scienze umane. In questa lezione incontriamo un altro Kant (...) Foucault scopre in Kant il contemporaneo che trasforma la filosofia esoterica in una critica del presente che replica alla provocazione del momento storico” (J. Habermas, Una freccia scagliata al cuore del presente. A proposito della lezione di Michel Foucault su “Was ist Aufklerung?” di Kant, Il Centauro, 11-12, 1984, p.238). Il suo orizzonte, troppo segnato dalla “distorsione” hegeliana della “sostanza “ diventata “soggetto” e dall’entusiasmo ateo-devoto della “conciliazione del divino con il mondo”, non comprende a pieno il capovolgimento e la rottura della lezione foucaultiana. E, alla fine, seguendo il filo della “ragione e rivoluzione” hegeliana, continua il sonnolento dialogo con il custode della tradizione ‘cattolica’ (platonico ed hegelo-marxista), l’amico Josef Ratzinger.
“Che cosa è l’Illuminismo? Che cosa è la Rivoluzione?”. Per Foucault, “in Che cosa è l’Illuminismo? emerge per la prima volta la domanda sul presente: che cosa accade oggi? Che succede ora? E che cosa è questa “ora”, al cui interno siamo gli Uni e gli Altri? E chi definisce il momento in cui scrive?”(p.229). E, poco oltre, precisa ancora: “In breve, mi sembra emergere in questo testo kantiano per la prima volta la domanda sul presente come evento filosofico cui appartiene lo stesso filosofo che di esso parla (...) Qui si vede anche che la domanda sull’appartenenza a questo presente non è più assolutamente per il filosofo la domanda sulla sua appartenenza ad una dottrina o tradizione; la domanda non riguarda più la sua appartenenza ad una comunità umana in generale, bensì la sua appartenenza ad un determinato “noi”, un noi che si riferisce ad un qualcosa di culturalmente comune, caratteristico per la sua attualità” (p. 230).
Così l’Illuminismo “per noi diventa qualcosa di più di un episodio di storia delle idee. L’Illuminismo come domanda è iscritto dal XVIII secolo nel nostro pensiero”. E prosegue: “Ci sono dei pensatori che vogliono oggi conservare viva e intatta l’eredità dell’illuminismo. Lasciamoli alla loro devozione: essa è la più commovente forma di tradimento. Non si tratta oggi di custodire le spoglie dell’Illuminismo, si tratta piuttosto di tener viva come interrogazione e come oggetto teoretico la domanda sull’evento e sul suo senso: la domanda sulla storicità dell’idea di generale”(p. 235).
L’ONTOLOGIA DI NOI STESSI. Per Michel Foucault, ora, Kant non è più, non solo e non tanto, il pensatore che ha fondato “la tradizione che muove dalla domanda di quali siano le condizioni che consentono una vera conoscenza”, ma è anche e soprattutto l’inauguratore della tradizione che “pone la domanda: che cos’è attualità? Qual è il campo attuale delle esperienze possibili?”. E qui “non si tratta - scrive Foucault - di una analitica della verità, bensì di una sorta di ontologia del presente, di una ontologia di noi stessi” (M. Foucault, “Che cos’è l’Illuminismo? Che cos’è la Rivoluzione?”, Il Centauro, 11-12, 1984, p. 236). Anzi, a ben vedere, è da qui che bisogna riconsiderare la stessa tradizione dell’analitica della verità e riproblematizzare anche tutta la cosiddetta tradizione critica. E conviene (ne va della nostra stessa auto-comprensione) rileggere Kant di nuovo e da capo - dagli scritti pre-critici fino alla Logica (1800). Con Nietzsche (e contro Nietzsche), bisogna decidersi ad ammetterlo: il “cinese di Konigsberg” (con il suo “Io penso” e il suo “cielo stellato sopra di me” e il suo “Tu devi” e la sua “legge morale dentro di me”) abita il cuore del presente e che la sua strada (ben illuminata) porta a una “montagna” (“berg”), che è “la montagna del Re” (“Konigs-berg”) - della sovranità di tutti gli esseri umani - e non la montagna del Faraone-Dio e dei suoi sacerdoti atei e devoti!
ESSERE GIUSTI CON KANT. Di Kant generalmente e per lo più si ricorda la “Critica della Ragion pura” (1781, 1787) e la “Critica della Ragion pratica (1788, 1792, 1797), e la famosa frase dell’inizio della “conclusione” della “Critica della Ragion pratica”, in cui egli parla delle coordinate fondamentali della sua vita, “il cielo stellato” e la “legge morale” (“Due cose hanno soddisfatto la mia mente con nuova e crescente ammirazione e soggezione e hanno occupato persistentemente il mio pensiero: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”), ma solitamente si dimentica che tali coordinate richiamano da una parte il lavoro di Newton e dall’altro - senza dimenticare la decisiva scossa avuta dalla lettura delle opere di David Hume, che l’ha svegliato dal “sonno dogmatico” - il lavoro di J.-J.Rousseau, si richia (come si è sempre fatto) di tradire profondamente lo spirito di Kant. Uno spirito nient’affatto pedante, ma ricco di infiniti e creativi capovolgimenti in tutto il suo lungo lavoro.
L’INTERPRETAZIONE DEI “SOGNI”(1766).Per evitare riduzionismi ed equivoci, oltre che le trappole interpretative dei soliti “sognatori allucinati con l’aiuto della metafisica”, come terapia, vale la pena riprendere in mano l’ interpretazione dei “sogni” di Kant - e rileggerla di nuovo, e meglio!
Per cominciare, e per sciogliere l’enigma, non è male ricordare (come invita a fare lo stesso Kant) “il sagacissimo Hudibras” (il protagonista di un poema satirico di Samuel Butler) e del “suo modo di vedere”: “quando un vento ipocondriaco rumoreggia negli intestini, tutto sta nella direzione che prende; se va in basso ne viene un peto, se sale, allora è una visione o un’ispirazione santa” ateo-devota (cfr. I. Kant, “I sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica”, BUR, Milano 1982, p. 136).
Che Kant non stia solo a castigare scherzando lo dimostra l’avvio stesso del lavoro, tutto in sintonia con il suo futuro programma critico. Nella “Prefazione”, ed è solo all’inizio, guarda già molto lontano: “Il regno delle ombre è il paradiso dei sognatori. Qui essi trovano un paese sconfinato, dove possano costruire a piacer loro. Vapori ipocondriaci, racconti di balie e miracoli di conventi non lasciano mancare il materiale. I filosofi ne tracciano il piano e lo rimutano o lo respingono, come è loro costume. Soltanto Roma la santa vi ha province redditizie: le due corone del regno invisibile sostengono la terza come il malsicuro diadema della sua altezza terrena, e le chiavi che aprono ambo le porte dell’altro mondo aprono ad un tempo, per simpatia, i forzieri di questo. Simile privilegio del mondo degli spiriti, in quanto l’esistenza sua è fondata sulle ragioni della politica, si eleva di gran lunga sopra tutte le vane obiezioni dei filosofi delle scuole ed il suo uso e abuso è già troppo venerabile perché abbia bisogno di esporsi ad un così disprezzato esame. Ma i racconti ordinarii, che trovano tanta fede o almeno così debole contrasto, perché vanno intorno così inutili od impuniti e penetrano perfino nei sistemi dottrinali, sebbene non abbiano per sé l’argomento che viene dall’utile (argumentum ab utili), che è di tutti il più convincente?” (op. cit., p. 100).
A quanto pare (non solo questo o quello, ma un po’ tutti e tutte) abbiamo dormito alla grande! E ancor oggi, nonostante Foucault, non ci siamo accorti quanto Kant sia nostro contemporaneo! Si preferisce di no, si preferisce non vedere (come scrive e vuole anche Habermas) in Kant “il contemporaneo che trasforma la filosofia esoterica in una critica del presente che replica alla provocazione del momento storico”.
Federico La Sala (12.06.2010)
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3. HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Si cfr. anche:
METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. PIER ALDO ROVATTI INCONTRA ELVIO FACHINELLI.
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
FLS
L’ANTROPOLOGIA, LA #LUCE DEL "#SÀPEREAUDE!" DELL’#ILLUMINISMO, E LA "SECONDA #RIVOLUZIONECOPERNICANA" IN #FILOSOFIA (ALL’O.D.G.).
HABERMAS, TRA HUME E KANT, IN GRAN DIFFICOLTÀ A VENIR FUORI DALL’ORIZZONTE DELLA #COSMOTEANDRIA PLATONICO-HEGELIANA E A FARE PASSI FUORI DALLA #CAVERNA, DALLO "STATO DI MINORITÀ .
ACCOGLIENDO LA CONSIDERAZIONE CHE HABERMAS, nella sua proposta di "Una storia della filosofia", a partire dal "Poscritto" della prima edizione del 2019, "comincia col sottolineare che, nella visione kantiana della postmetafisica, le #quattro domande sulla natura dell’uomo continuano a valere come prima. Anzi più di prima", "anche dopo la fine delle immagini-di-mondo - cioè anche dopo aver integrato al mondo della vita il sapere scientifico della natura - l’uomo allarga decisamente l’orizzonte della sua autoconoscenza",
SI PUO’ BEN CONDIVIDERE CHE ciò che ne segue e consegue non è solo e tanto il fatto che "Il sapere oggettivante della scienza non può non ampliare il rischiaramento soggettivo", ma ancor di più, quanto e proprio che le ragioni illuministiche stanno proprio nel "rischiaramento soggettivo" (da fare, storicamente) sollecitato dallo stesso Kant, con il suo oraziano "#sàpere #aude" (1784), che, forse, come ha intuito #MichelFoucault nel 1984 e meglio compreso, a suo tempo Theodor W. #Adorno, significava già ripartire dalla "quarta #domanda", quella antropologica ("che cosa è l’uomo?").
A PARTIRE DALLE INDICAZIONI della "Logica" (Kant, 1800), a mio parere, è da considerare, storiograficamente, che la domanda antropologica (e "cristologica", si pensi all’ "Ecce #Homo" di #Nietzsche, 1888), al di là delle pretese monoteistiche e androcentriche del #cattolicesimo paolino (un #paolinismo di lunga durata e delle illusioni swedenborghiane diffuse) ha già contribuito ad #aprire il #cantiere di una "#seconda rivoluzione copernicana", ma la cultura europea ha avuto paura di sé e ha preferito continuare sulla "tragica" visione ("monoculare", "ciclopica") dell’idealismo, del positivismo, e della tradizione religiosa paolina e costantiniana (atea e devota). (2 Novembre 2024).
ANTROPOLOGIA (#KANT2024), FILOSOFIA (KURT H. #WOLFF), E STORIOGRAFIA (PAUL RICOEUR).
"COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (S. FREUD, 1937). UN PROBLEMA DI SPIRITO CRITICO E AMORE CONOSCITIVO
"STORIA E VERITÀ" (P. Ricoeur, "Histoire et vérité", 1955 *), IN #SPIRITO DI #CARITÀ:
Un segnavia antropologico e filologico, per ben #comunicare il "risultato" del "#dialogo", dall’opera di #Victor Hugo (in omaggio a #Michel Foucault):
"Io sono parigino di nascita e «parrisiano» nel parlare, dal momento che «parrhisia» in greco significa libertà" ("#Notre Dame de #Paris", L. I, cap. III).
NOTE:
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MUSICA, #FILOSOFIA, E #COSMOLOGIA:
#KANT2024.
"Beethoven nomina Kant due volte nei Konversations-Hefte. Una volta con noncuranza là dove egli commenta la noia delle lezioni universitarie tenute dal filosofo kantiano Johann Gottfried Kiesewetter (1766-1819). Un’altra volta con forte commozione, citando senza commento ma con evidenza anche grafica: “La legge morale in noi, e il cielo stellato sopra di noi. Kant!!!“. [...]" (https://www.lvbeethoven.it/biografia08/ ).
NOTA:
ANTHROPOLOGY, PHYSICS, METAPHYSICS, PSICHOLOGY, ART.
Una nota a margine dell’articolo di Pietro Barbetta (Qeios, Aug 16, 2023),
"[...] It did not happen in Silvaplana - as it did to #Nietzsche - nor in the Death Valley - as it did to #Foucault. I was, maybe I still am, entangled within the middle-class petit-bourgeoise of the sub-province of a European Tribe.
When I felt my mind opening, I started to enjoy Foucault with all my senses. I learned not to get immediately to the point. I learned to avoid the paratactic style, to be curious and remain more focused on the text, as a reader, and writer, to enjoy the style and connect the singularity of each moment with the whole picture on the canvas, going back and forth between the details and the ensemble, coming back to the details with a new gaze. Systemic epistemology, in my view, starts with the History of Systems of Thought, a new topic to be taught - inaugurated by Foucault in 1970 - a new investigation of the social unconscious, the unconscious of the World, the same unconscious, always at work, called by #Deleuze and #Guattari: Desiring Machine.
I started to enjoy the Baroque style of writing, making theatre, movies, and music; following Foucault, #Blanchot, #Joyce, #Deleuze, #Pasolini, #Basaglia, #Magritte, Jackson #Pollock and many other figures of #Modernism; all of them contributed to unveiling the oppressed unconscious of the Weastern World, which is not the branded on and forced upon tiny, private unconscious concerning only the #triangle mom-dad-child.
After more than 50 years of frequenting these authors, and others, moment after moment I acquired the patience to create a space. Blanchot’s space is L’espace literaire. My modest - and less prestigious space - is the therapeutic space, a space where psychotherapy and psychoanalysis, in fleeing the so-called “scientific approach” can become a minor work of art of contemporary times." (cit.).
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ANTROPOLOGIA COSMOLOGIA E PSICOANALISI: "SAPERE AUDE!"(KOENIGSBERG 1784 - KALININGRAD 2023). Ma, dopo Foucault (1984) e con Foucault, non resta ancora da accogliere in prima persona l’illuminante sollecitazione foucaultiana a riprendere la lezione di #Kant sull’illuminismo (1784) e, con #Freud e #Fachinelli, andare oltre l’orizzonte #edipico, "which is not the branded on and forced upon tiny, private unconscious concerning only the triangle mom-dad-child" (cit.), e uscire dallo stato di #claustrofilia e di #minorità planetario?! Non è il caso di ripensare, come ha tentato di fare #UmbertoEco, al "pendolo di [Leon] Foucault" [Parigi, 18 settembre 1819 - 11 febbraio 1868] e, al contempo, con #DanteAlighieri e #GalileoGalilei, portarsi fuori dall’aiuola "che ci fa tanto feroci" e dare il via a una seconda #rivoluzionecopernicana?
Habermas: anche una storia della filosofia
di Leonardo Ceppa (Le parole e le cose, 20 luglio 2021).
1. Una possibile idea di filosofia
Nella Prefazione dell’ultima opera (Auch eine Geschichte der Philosophie, Suhrkamp 2019) si nasconde il sale della gigantesca impresa. Che idea ha oggi Habermas della filosofia? Che compito vuole assegnarle? Nella cultura contemporanea è domanda grandiosa. Di fronte a questo libro ci chiediamo: si tratta del dettagliato racconto di uno sviluppo storico (che perlustra gli stadi secolari attraverso i quali si è formata la proposta di una filosofia postmetafisica) oppure di un’intuizione teorica proiettata all’indietro, che per un verso organizza a posteriori il passato e per l’altro verso si presenta ora (a fine carriera) in tutta la sua potenza come dichiarazione esistenziale, rivoluzione antipositivistica, battaglia argomentativa? Non vogliamo banalizzare la questione al vecchio circolo, tra filosofia e storia della filosofia, di cui prende coscienza ogni matricola studentesca. Come tutti sanno, a differenza delle altre materie scientifiche, della filosofia non si può raccontare la storia senza prima disporne di una implicita idea teorica, ma di tale idea non ci si impadronisce, senza prima averla trafugata (magari senza saperlo) ai materiali di una venerabile storia istituzionale.
Soggettivamente, Habermas si trova impigliato in una trappola. Si vergogna del sollievo (eigentlich unseriös) di non dover daccapo consultare la dilagante letteratura secondaria, di non dover ripetere dimostrazioni più volte sviluppate nei decenni precedenti. Ma sa anche che nessuna tesi filosofica può appoggiarsi sull’impegno soggettivo di chi la pronuncia, per quanto grande sia la sua convinzione. Così nello scavalcare, ponendola al centro, la biforcazione cruciale tra Hume e Kant da lui vista all’origine della spaccatura della modernità - tra necessitarismo scientistico, empiristico e positivistico, da un lato, e costruttivismo linguistico intersoggettivo e comunicativo, dall’altro - egli sceglie una via di mezzo: quella di limitarsi a sottolineare una differenza che sempre si ritrova tra gli opposti partiti. “Nella concorrenza delle impostazioni [mi sono accorto che] si presentava sempre una identica differenza nei loro assunti di fondo (...) le analisi di una parte poggiavano sempre su rappresentazioni e intenzioni individualistiche, singole disposizioni e comportamenti soggettivi, laddove le analisi della parte concorrente partivano dalle stesse questioni facendo però appello a simboli e regole intersoggettivamente condivise, linguaggi, pratiche, forme-di-vita e tradizioni, per poi soltanto alla fine analizzare, nei corrispondenti tipi di discorso, le necessarie condizioni soggettive per poter venire a capo di quelle strutture e di quelle competenze” (p. 10).
La filosofia è una scienza, ma non una scienza come tutte le altre: è una scienza sui generis. Le scienze normali restringono, specializzandolo, il loro campo di azione, la filosofia invece lo allarga. E lo allarga in maniera tanta smisurata da trascinarvi dentro occhio, oculare, e tutti gli strumenti del ricercatore. L’osservatore diventa un mago stregone. Lo scienziato della modernità è il novello Faust. Laddove, dice Habermas, la scienza specialistica lavora “nel dire sempre di più su sempre di meno” (p. 12), la filosofia mantiene tutta la sua faustiana (o hegeliana) presunzione della totalità, tanto da far dipendere il destino dello scienziato (e dell’uomo) dal modificarsi del suo sapere. Sapere del mondo e autocoscienza dell’uomo restano legati insieme dall’uso che l’uomo impara a fare delle sue conoscenze. In questo senso Habermas non separa la “scienza” dall’effetto di “rischiaramento” ch’essa produce. Dal XVIII secolo in poi, Wissenschaft e Aufklärung, scienza e presa di coscienza vanno di conserva, tenute insieme da quel trattino grammaticale (miracoloso nella sintesi tedesca), che lega Selbst- e Weltverständnis in una medesima emissione di fiato.
C’è anche qualcosa di cruciale che il sapere filosofico condivide con le scienze “normali” della nostra epoca: la tendenza alla specializzazione e alla divisione del lavoro. E’ una tendenza inevitabile, feconda, persino desiderabile, la quale tuttavia, nella versione positivistica della filosofia, minaccia di trascinar via (o far dimenticare) quel trattino miracoloso che lega il sapere del mondo sia al destino dell’uomo sia al destino di Dio. Ma perché, agli occhi di Habermas, questo pericolo del positivismo resta una minaccia reale per la filosofia contemporanea? Perché in realtà quest’ultima - per non perdere di vista il rapporto alla totalità - si trova oggi a fronteggiare una preoccupante e smisurata crescita di complessità: moltiplicandosi e arricchendosi il sapere del mondo, la struttura economica della società, le tecniche d’intervento sul corpo e sulla psiche. Con convinzione Habermas ripete la diagnosi di Marx: gli uomini rischiano di diventare le appendici organiche di una scienza e di una tecnica vampiresche, la cui organizzazione umana (il sapere umanistico del cosmo e dell’uomo) diventa sempre più inabbracciabile e inafferrabile (unüberschaubar, p. 12).
Di qui la tentazione (ecco la polemica di Habermas contro il positivismo filosofico) di arrendersi, di rinunciare all’impulso illuministico che ancora animava Kant e Faust, di abbandonare l’impresa umanistica di “dare forma” a sé stessi nella configurazione del mondo (il tema del Gestalten, ricco di risonanze). Allora del progetto moderno resterebbero in piedi soltanto le gloriose rovine. E al filosofo contemporaneo non resterebbe che ripiegare in un atteggiamento di ellenistico disincanto. Un fatalismo dal sapore classicistico verso cui Habermas ha sempre manifestato un orrore palese.
2. Un “processo di formazione” tra la sfida delle contingenze e le speranze della ragione
A che serve, si chiede Habermas a questo punto, ripercorrere nei dettagli - ancora una volta - tutta la storia della filosofia fino al suo punto di arrivo? Questa storia sembra talora diventare il virtuosistico e compiaciuto ricamo su una vicenda mille volte diagnosticata, difesa e omaggiata: il progetto di una modernità in pericolo, la facoltà di trascendere la contingenza nei processi dell’ apprendimento, il peso, infine, che con l’eredità millenaria della religione viene oggi a scaricarsi su una corrente di filosofia postmetafisica. Asse centrale su cui ruota tutto il progetto: la indissolubilità di Aufklärung e Wissenschaft, sapere del mondo e conoscenza dell’uomo, insomma il magico trattino (binde-strich) tra l’uomo e il suo ambiente. Dopo avere scritto, alla fine del libro, il capitolo sui posthegeliani, Habermas si accorge di aver capito una cosa. Il processo delle ramificate controversie teoriche non ha più bisogno di allargarsi: basta mettere in rilievo i presupposti sistematici e metodologici di cui lui si è servito in tutta la sua carriera professionale. La sua tenacia servirà allora a illustrare quella “implicita idea di filosofia” cui ha sempre lavorato, dando ai suoi problemi una impostazione metodologica, che è di di tipo esistenziale e personale, morale e politica, ancor prima che accademica e professionale. Alcuni dettagli diventano secondari e la filosofia-a-360 gradi scende dal cielo prendendo la forma di un Ansatz: di un approccio, di una visione, di un metodo costruito e perfezionato attraverso i decenni. Gli stessi strumenti metodologici illuminano senza sforzo la direzione del cammino: dalla “costellazione occidentale di fede e ragione”, cioè da quella “osmosi semantica” citata nella copertina del primo volume, alla “libertà della ragione” (genitivo soggettivo e insieme oggettivo) auspicata nel secondo volume come obbiettivo postmetafisico del processo.
Nella Prefazione a questi due volumi Habermas ricorda le drammatiche svolte della storia universale: 1) l’età assiale delle religioni mondiali, 2) l’arricchimento reciproco, nell’Europa cristiana, di fede e ragione, cioè quella simbiosi che nella modernità sfocia in scissione, 3) il dissolvimento della falsa metafisica hegeliana nell’impostazione intersoggettiva della pragmatica linguistica.
Le nobili domande della filosofia di Kant - cosa posso conoscere, cosa posso fare, in che cosa sperare - rimangono le stesse, ma presentandosi in un “formato” diverso: muovendo dalla “situatezza” dell’uomo finito queste domande non si camuffano più nella forma di un Assoluto, cioè come fossero formulate da un punto di vista divino oppure positivisticamente scientifico. E proprio l’approccio teorico di Habermas, tra quelli concorrenti oggi nella professione, è quello che più sottolinea la cosa. In questo senso il sistema filosofico di Habermas è personale e professionale nello stesso tempo. Dall’esercizio filosofico resta ineliminabile un momento “performativo” - di responsabilità soggettiva e morale, espressiva e politica - che caratterizza l’autore senza potersi nascondere.
Habermas ce ne dà subito la prova scendendo in lizza con alcuni avversari ( p. 11). Per lui è impossibile, per esempio, prendere sul serio i modelli di Kuhn, Foucault e Feyerabend, perché escluderebbero in via pregiudiziale la possibilità dell’apprendimento, l’occasione di dare al mondo una Gestaltung (un ordine umano). Le rivoluzioni scientifiche di Kuhn contro il falsificazionismo di Popper, il discorso come “maschera del potere” sviluppato da Foucault, l’anarchismo metodologico di Feyerabend, non muovono da una matrice situativo-esistenziale dell’uomo. Queste opzioni renderebbero impossibile concepire le svolte e i cambi-di-paradigma come “risposte fallibili” agli stimoli dell’apprendimento. Il processo di innovazione - sempre aperto agli esiti più diversi perché si impara anche dagli errori - resta per Habermas il campo di tensione intersoggettiva che collega le esigenze della situazione di radicamento - i bisogni della matrice e gli abissi della contingenza - alle risposte e ai tentativi di soluzione proposti da una ragione fallibile. Verso la fine di questa Prefazione, Habermas formula così la sua idea di genealogia: passare sugli abissi dell’esistenza (Abgründe) usando le ragioni (Gründe) come ponti avventurosi, p. 16)
3. Il discorso di “fede e ragione” nell’angolo di mondo chiamato Europa
Il rapporto tra religione e filosofia (che con bella espressione Habermas chiama “osmosi semantica”) incontra nell’occidente europeo un destino particolare. A quella metafisica greca nata nei commerci dell’Egeo e che, nell’era assiale, rappresentava una delle poche significative immagini-di-mondo, toccò in sorte un destino del tutto particolare. Infatti, lungo i secoli del platonismo cristiano che mise radici nell’impero romano, andava realizzandosi uno “doppio attraversamento” di contenuti lungo il confine che divideva la ragione dalla fede, la filosofia dalla religione. Per un verso, credenze sostanziali della narrativa cristiana passavano il confine con la filosofia diventando, in questo campo, saperi razionalmente dimostrabili. In senso contrario, verità metafisiche costruite dai filosofi platonici si trasformavano, appena giunte nel campo della fede, in elaborati teoremi della dogmatica religiosa.
Potremmo addirittura parlare di un destino “secolare e glorioso” se osserviamo come, nella prospettiva con cui Habermas ci racconta il lento formarsi della filosofia postmetafisica, un ininterrotto arco temporale si protende da Agostino fino alla Deutsche Klassik. Infatti, i temi della “autonomia” e della “libertà della ragione” - che caratterizzano la modernità dando sviluppi vertiginosi alla “ragion pratica” postkantiana - non avrebbero mai potuto nascere se non sulla base di quella “osmosi semantica” che Habermas sceglie come guida della sua ricostruzione storica (p. 15). Anzi, il pensiero secolare di un ramo della filosofia postmetafisica contemporanea si è oggi talmente emancipato dalle sue lontane origini teologiche da creare quasi “sproporzione” in favore di una filosofia tanto laica quanto risonante di echi religiosi (basti pensare ad autori come Adorno, Kafka o Levinas), a tutto svantaggio della teologia dogmatico-professionale. Per questo, nel panorama culturale contemporaneo, troviamo sempre piu’ scrittori e filosofi “secolari” (cioè laici e postmetafisici) che trattano temi di pertinenza pseudo-religiosa. Sono persino diventati più numerosi dei laicisti empiristi che, a partire da Hume, riducono psicologicamente la religione a favola consolatoria. Così, quando Habermas polemizza contro la sclerosi laicistica di molta filosofia contemporanea, lo fa anche per mostrare come (pur non essendosi mai interrotta la osmosi semantica tra fede e ragione) si siano oggi spostate le linee dei vecchi confini disciplinari. Nella disordinata polifonia dell’opinione pubblica, tocca spesso ai filosofi laici trattare temi morali, giuridici e politici, che tradiscono evidenti origini bibliche o religiose. E lo fanno più spesso dei filosofi empiristi, che considerano tali temi come superate zavorre oltrepassanti l’orizzonte delle loro divisioni specialistiche.
Questo spiega da ultimo la soverchiante responsabilità che Habermas accolla a quel ramo di filosofia postmetafisica (il ramo kantiano dei 360-gradi, non quello humeano dello sbaraccamento specialistico) che accetta di dialogare - sullo stesso piano - intra moenia coi filosofi ed extra moenia coi teologi. Trattando proprio di quelle questioni che vengono pudicamente evitate dai laicisti rigorosi (chiusi a riccio in quelle specializzazioni “che dicono sempre di più su sempre di meno”). Alla fine Habermas non esita a formulare una tesi coraggiosa di questa portata: “Al di là dei suoi aspetti palesemente postmetafisici, la questione che la filosofia deve sentirsi in grado di affrontare ed elaborare si decide oggi sulla rinnovata eredità del lascito religioso. Anche se questo è problema che riguarda soltanto uno dei rami in cui si è scisso il pensiero postmetafisico” (p. 15 corsivo mio,).
Sembrava infatti che il problema religioso, dopo la moderna scissione tra fede e ragione, dovesse sciogliersi come chiedeva Hume, per via pacifica e senza clamore, passando per la via naturalistica ed empiristica delle considerazioni antropologiche di empiristi e utilitaristi. Invece, scrive Habermas, vediamo con sorpresa scatenarsi nella Sinistra hegeliana una furiosa polemica antireligiosa contro le confessioni del protestantesimo borghese e contro l’assimilazione hegeliana della religione nell’automovimento idealistico dello Spirito. Autori come Feuerbach, Marx e Kierkegaard (ma possiamo anche includere Nietzsche) combattono le consolazioni della religione chiesastica con spirito ardentemente anticlericale. E c’è molto di paradossale, sembra aggiungere Habermas, in questo “anticlericalismo religioso” evocante quelle tracce kantiane di ragion pratica, autonomia e libertà-della-ragione, che paiono disperse lungo la storia di una insopprimibile e irriducibile “emancipazione umana” che rifiuta di sciogliersi in fatalismo stoico.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FLS
Essere giusti con (Kant e) Freud....
PACCOTTIGLIA FREUDIANA
di Sergio Benvenuto *
Molti, e non solo psicoanalisti, votano a Sigmund Freud un vero culto. Per loro Freud non è solo l’inventore di una teoria e di una pratica che hanno marcato la nostra epoca, ma è un genio che raramente si è sbagliato. Il rovescio di questo culto della personalità sono i Freud bashers, quegli autori che non solo attaccano radicalmente Freud e la psicoanalisi, ma dedicano spesso gran parte della loro vita a distruggere il mito di Freud. Ho sempre cercato di sfuggire a questo doppio polo, per confrontarmi con un’immagine del tutto laica - né agiografica né spregiativa - di Freud.
In conclusione. Ho segnalato questi cedimenti intellettuali di Freud per liberarci di una persistente egemonia del pensiero freudiano? Ricordare le concessioni di Freud alla paccottiglia storiografica è parte della campagna per screditare Freud e la psicoanalisi?
No, perché sono convinto che Freud abbia detto alcune cose fondamentali, e che la pratica analitica non è riducibile a una pratica magica o suggestiva. Ma questo a condizione di non prendere Freud alla lettera, di non far parte di una sacrestia psicoanalitica del culto freudiano. Freud era un uomo della propria epoca, con pregiudizi e limiti di certi intellettuali razionalisti della propria epoca, aveva i suoi punti ciechi. Insomma, non si può comprare Freud in toto.
Ma proprio questo dovrebbe permetterci di mettere in luce ciò che in Freud non è effimero, fossero anche solo due o tre cose... Come facciamo del resto con quasi tutti i grandi autori del passato: distinguiamo ciò che resta di un autore, da aspetti transeunti legati alle mode e alle fisime del pubblico dell’epoca, a idiosincrasie personali che oggi non ci dicono più nulla.... Questo è vero per Platone, per Dante, per Molière, per Kant... per tutti. Occorre voltare pagina nella storiografia psicoanalitica: uscire dall’alternativa “ricostruzione pia e pietosa” versus “demistificazione demolitiva”, prendere la giusta distanza da Freud e dalla psicoanalisi. E costruire, anche attraverso Freud, una pratica della soggettività giusta per il XXI° secolo.
* Fonte: Le parole e le cose, 15 febbraio 2021 (ripresa parziale - senza note).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PER LA CRITICA DELLA RAGIONE ATEA E DEVOTA: FREUD CON KANT.
FLS
ANTROPOLOGIA CULTURALE, LETTERATURA, E PENSIERO CRITICO. Lo sciamano che c’interroga..
ANDARE "A SCUOLA DALLO STREGONE" (Carlos Castaneda, 1968) e non capire un’acca ("h"). Alla luce delle dichiarazioni di Arnold Schwarzenegger, attore ed ex governatore repubblicano della California : “Dobbiamo cercare di guarire insieme dal dramma che si è svolto qualche giorno fa”, conclude nel suo videomessaggio, “e dobbiamo mettere la democrazia al primo posto", forse, è meglio rileggere il lavoro di Elémire Zolla, su "I letterati e lo sciamano. Il pellerossa come cattiva coscienza del bianco" e riprendere non solo l’indicazione di Orazio-Kant-Foucault del "Sàpere aude!" , ma anche la lezione di Jim Morrison: "Ognuno di noi ha un paio di ali, ma solo chi sogna impara a volare"; e, infine, per evitare qualche "rimorso d’incoscienza", rimeditare anche la "profezia" di McLuhan.
Federico La Sala
Io esisto perché tu esisti, per farla finita con il colonialismo
di Andrea Staid *
Come donne e uomini nati o cresciuti nella parte occidentale di questo mondo, quando guardiamo alle pratiche culturali e politiche degli “altri” dobbiamo porre molta attenzione a non comportarci da etnocentrici e pensare che la nostra visone di società, nel mio caso libertaria, sia unica ed esportabile in tutto il mondo. Credo che anche in questo caso, per affinare il nostro sguardo sull’alterità culturale, l’antropologia ci possa venire in aiuto con l’approccio relativista.
Ma cos’è il relativismo? È una teoria formulata a partire dal particolarismo culturale di Franz Boas e dall’antropologo statunitense Melville Jean Herskovits secondo i quali, considerato il carattere universale della cultura e la specificità di ogni ambito culturale, ogni società è unica e diversa da tutte le altre, mentre i costumi hanno sempre una giustificazione nel loro contesto specifico. Questo significa che i bisogni umani universali possono essere soddisfatti con mezzi culturalmente e politicamente diversi. Direi che su questo le lettrici e i lettori di Matrika non dovrebbero avere dubbi.
Quindi l’idea che gli elementi di una cultura debbano essere compresi e analizzati a partire dal contesto in cui agisce la specifica cultura porta alla conclusione che non si può considerare una cultura superiore o inferiore ad un’altra. Anche su questo non dovremmo avere dubbi.
È stato l’antropologo Melville Herskovits ad affermare, sulla scia dei precedenti fondamenti espressi da Franz Boas, che la specificità di ogni ambito culturale non consente analisi di carattere generale sul confronto tra culture.
Questa visione del mondo culturale degli “altri” ci mette in crisi e più che certezze fa nascere dubbi, ma questo non ci deve spaventare; l’importante è far diventare questi dubbi la possibilità di risposte nuove, la creazione di corpi politici ibridi e inediti.
Dobbiamo farla finita con il pericoloso e dannoso sguardo coloniale [1] che ancora ci attanaglia, dobbiamo essere in grado di fare i conti con il colonialismo e liberare i nostri sguardi troppo spesso eurocentrici e giudicanti. Per decostruire i nostri immaginari coloniali ci possono aiutare gli studi (post)coloniali, semplificando, potremmo dire che si raccolgono attorno a tre distinti filoni d’indagine critica: il primo, inaugurato da Orientalism di Edward Said nel 1978 ed ispirato alla teoria del discorso di Michel Foucault, si fonda sulla interpretazione del colonialismo come formazione discorsiva alimentato dalle istituzioni materiali dell’Impero; il secondo filone affonda nel pensiero decostruzionista e, come chiarisce Gayatri C. Spivak nel 1990 in The Post-colonial Critic, definisce il discorso coloniale come il prodotto retorico degli assiomi imperialistici che attengono in particolare alle questioni di razza e di genere; il terzo filone, il cui fondamento va ricercato nella psicoanalisi lacaniana che Homi K. Bhabha rilancia in The Location of Culture del 1994, è caratterizzato da una analisi della formazione del soggetto coloniale e dei processi di ibridazione nei quali colonizzati e colonizzatori sono coinvolti.
Anche le antropologhe e gli antropologi hanno sviluppato pratiche e teorie post-coloniali e non egemoniche, dove l’altro non era più una stranezza culturale da studiare ma un soggetto interlocutore con il quale rapportarsi.
Per questo ancora oggi dal mio punto di vista il concetto di relativismo culturale è imprescindibile sul campo. Trovo fondamentale ricordare che è stata una donna, Margaret Mead, che grazie alla sua attività divulgativa, la cui opera più celebre, L’adolescente in una società primitiva, può essere considerata paradigmatica dell’utilizzo di argomentazioni di carattere relativistico come strumento di critica della società occidentale.
Il testo è frutto di una ricerca nelle isole Samoa, nella quale l’autrice sosteneva che le difficoltà personali incontrate dalle adolescenti occidentali, non sono universali e necessarie, ma contingenti e generate prevalentemente dalle costrizioni e dalle imposizioni che gli elementi più tradizionalisti e moralistici della cultura occidentale impongono. Le adolescenti samoane, al contrario, sarebbero lasciate libere di giungere alla maturità fisica, identitaria, sessuale, sociale, senza condizionamenti eccessivi e non soffrirebbero delle crisi e delle difficoltà incontrate dalle occidentali. Questo è un caso particolare, ma paradigmatico per capire il concetto relativista.
L’impegno dell’antropologia, soprattutto nel periodo che va dai suoi esordi fino alla seconda guerra mondiale produce come conseguenza il superamento dell’antitesi tradizionale tra la superiorità della cultura europea e l’inferiorità degli altri popoli. Sono convinto che il pensiero libertario deve abbandonare completamente un approccio etnocentrico; non può pensarsi unico, giusto ed esportabile tout court nel pianeta, dobbiamo comprendere l’importanza di uno sguardo relativista. Il relativismo culturale è una risposta all’etnocentrismo e nega l’esistenza di un’unità di misura universale per la comprensione dei valori culturali e politici, poiché ogni cultura è portatrice di valori e norme che non hanno validità al di fuori della cultura stessa.
L’emergenza del relativismo culturale ha facilitato una comprensione più profonda e meno superficiale delle culture differenti da quella occidentale. Ma facciamo attenzione, quello che io propongo è un metodo per comprendere l’altro, non una sospensione totale del giudizio e del posizionamento politico dell’individuo. Per questo è molto importante fare una distinzione tra relativismo culturale e relativismo etico; il primo è quello che io propongo per meglio comprendere la cultura e la politica degli “altri”.
Il relativismo culturale (metodologico) va tenuto distinto dal relativismo etico: mentre il primo costituisce un approccio metodologico, indica cioè quale debba essere la metodologia corretta per analizzare i fenomeni culturali, il secondo si riferisce ad un atteggiamento di sospensione del giudizio etico e morale circa usanze, politiche e costumi presenti nelle varie culture.
Per il relativismo etico, vale il principio di equivalenza di ogni prescrizione morale; se infatti non esiste una verità assoluta di riferimento in base a cui poter distinguere il bene dal male, allora tutto è lecito, affermazione che pretende di porsi a sua volta come una norma assoluta, a dispetto del presunto carattere “non prescrittivo” del relativismo. Non è tutto relativo, al contrario; ma per comprendere gli “altri” dobbiamo relativizzare il nostro sguardo. (Andrea Staid Blog)
1 Per colonialismo si intende la politica di conquista, invasione e depredazione di territori e risorse (materiali e umane) attuata dalle potenze europee a partire dal XV secolo. Indica inoltre l’insieme dei principi a sostegno di tale politica e, infine, l’organizzazione del sistema di dominio. Lo sviluppo del colonialismo può essere distinto in due fasi: la prima, che parte dal XV secolo fino alla metà del XIX secolo; la seconda, che parte dagli ultimi decenni del XIX secolo e termina a metà degli anni Settanta del Novecento con il crollo del sistema coloniale portoghese. Purtroppo la mentalità colonialista e i soprusi economici e politici colonialisti delle potenze occidentali sono ancora in atto anche se formalmente e storicamente il periodo coloniale dovrebbe essere concluso.
* Fonte: Matrika.
RAGION PURA E RADICI DELL’IO. Introduzione alla Critica della filosofia ...
Che strano modo “storico” di proporre e portare avanti una riflessione sulla “passione” della “critica” e “l’autocritica delle passioni” (cfr. Paolo Costa, “La passione critica è l’autocritica delle passioni”, Le parole e le cose, 21.07.2020)! Come se la “Critica della Ragion Pura”, la “Critica della Ragion Pratica”, e la “Critica del Giudizio”, non fossero state mai scritte?!
Marx scrive (nonostante i “marxisti”) un “commento” continuo sul lavoro di “critica” portato avanti da Kant (da ricordare non solo la “Introduzione alla Critica della filosofia del diritto di Hegel”, ma anche i “Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica”, il “Per la critica dell’economia politica”, e “Il Capitale. Critica dell’economia politica”) e ancora oggi, dopo Freud e Foucault e Derrida, “essere giusti con Kant” è più che difficile?! Boh e bah!?
ESSERE GIUSTI CON KANT E FREUD ....
Nota a margine di “Il male, un’illusione? Intervento al Convegno Internazionale UNESCO” *
A quanto pare, dopo Derrida e dopo Foucault, non è solo difficile “essere giusti con Freud” ma anche con Kant! Immersi nella palude “acherontica” del “monomito” (James Joyce) dell’ultimo uomo (Nietzsche), non riusciamo più a capire la ragione di Kant che riprende, per dare la sua “Risposta alla domanda: che cosa è l’Illuminismo?”, le parole del suo famoso motto (“sàpere aude”) da Orazio (Epistole, I, 2, v. 40) e, per affrontare il problema “della coesistenza del principio cattivo accanto a quello buono o del “male radicale nella natura umana” , nel capitolo primo di “La religione entro i limiti della sola ragione”, (Laterza, 1979), in testa al “§ 3. L’uomo è cattivo per natura”, cita ancora Orazio (Satire, I. 3. 67): “Vitiis nemo sine nascitur” (“nessuno nasce senza difetti”). Non è perché abbiamo perso il “ben dell’intelletto” e, con esso, il filo di Arianna -lo spirito critico e l’amore conoscitivo ?! O no?! Boh e bah?!
* Cfr. Sergio Benvenuto, di “Il male, un’illusione? Intervento al Convegno Internazionale UNESCO” , "Le parole e le cose", 15 giugno 2020.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.... *
L’arte di gettare ponti. Il filosofo del dialogo. Compie novant’anni il pensatore tedesco noto per la teoria dell’agire comunicativo,
di Marina Calloni (Corriere della Sera, La Lettura, 16 giugno 2019)
Crisi delle democrazie, ruolo della fede nelle società secolarizzate, futuro dell’Unione Europea: sono le principali riflessioni a cui Jürgen Habermas ha dedicato l’ultimo decennio. Filosofia, politica e critica della società si intrecciano nella sua vita intellettuale fin dai primi esordi giovanili, attraversando i dilemmi del XX secolo, fino agli scenari globali del nuovo millennio.
A 90 anni, Habermas (nato il 18 giugno 1929 a Düsseldorf) può essere considerato l’ultimo dei pensatori sistematici del Novecento, dove il principio post-metafisico dell’agire comunicativo diventa una filosofia della comunicazione discorsiva, quale «comprensione del mondo e del Sé, una volta abbandonata la competizione con la metafisica, la religione e le scienze esatte». Habermas viene solitamente considerato come un rappresentante della seconda generazione della Scuola di Francoforte, fondata e impersonata da Max Horkheimer e Theodor Adorno.
Tuttavia, nel corso del tempo, Habermas si è molto differenziato dall’impianto della dialettica negativa sostenuta dai «padri fondatori», che ritenevano che la ragione fosse strumentale fin dagli albori dell’umanità. Habermas è venuto piuttosto a sostenere una concezione procedurale e normativa della ragione comunicativa, che si esprime attraverso più voci e mira a conseguire l’intesa attraverso il linguaggio, incarnato nella vita di tutti i giorni.
A dire il vero, Habermas non pensava di diventare un filosofo. Il suo primo intervento pubblico di rilievo fu un articolo del 1953 sulla «Frankfurter Allgemeine Zeitung», molto polemico verso Martin Heidegger. La sua attività come giornalista free-lance si interruppe però nel 1954, quando Adorno lo invitò all’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte a far parte di un progetto su «Studenti e politica», che si concluse nel 1959. I rapporti con il direttore dell’Istituto, Horkheimer, erano intanto divenuti tesi per via di divergenze teorico-politiche, al punto che a Habermas fu impedito di sostenere la propria abilitazione a Francoforte, nonostante l’avesse completata. Fu così che chiese ospitalità a Wolfgang Abendroth (giurista e politologo socialista, esule dalla Germania Est), che gli permise di discutere nel 1961 quel lavoro che ben presto porterà molta notorietà a Habermas: Storia e critica dell’opinione pubblica.
La trasformazione della sfera pubblica illuministica rimarrà uno degli assi portanti per la successiva teoria della democrazia deliberativa. Habermas fu poi accolto a Heidelberg come professore di filosofia (1961-1964) da Hans-Georg Gadamer, il padre dell’ermeneutica contemporanea, che ebbe un’indubbia influenza sulla sua successiva elaborazione dell’interpretazione linguistica. Ma ancora una volta il dibattito politico fece capolino nella vita di Habermas con l’inizio delle rivolte studentesche. E non si sottrasse neppure alle pesanti critiche gli furono mosse per aver usato l’espressione di «fascismo di sinistra» contro alcune posizioni del movimento. Habermas stava allora mettendo a punto un suo originale sistema, dove tradizione filosofica e confronto con altri modelli di pensiero si intrecciavano con la riflessione sulla logica delle scienze sociali, contro l’approccio positivista.
Nel 1968 Habermas aveva scritto un saggio su Lavoro e interazione, dove mise in luce la nozione di riconoscimento come elemento intersoggettivo che precede la relazione materiale fra soggetto e oggetto. La critica all’impostazione marxiana della priorità del lavoro sull’interazione sarà il perno attorno a cui ruoterà la teoria dell’agire comunicativo. Nel 1971, Habermas fu nominato direttore del Max-Planck-Institut di Starnberg per un’indagine sulle condizioni di vita nel mondo tecnico-scientifico. Si trattava di un’ulteriore sfida: lavorare con un gruppo di giovani ricercatori per lo sviluppo di un’inedita teoria sociale e per innovative ricerche empiriche. Da questa esperienza nacque l’imponente Teoria dell’agire comunicativo, dove attraverso i concetti ideal-tipici di sistema e mondo della vita l’autore tematizza i fondamenti di una teoria critica della società.
L’opera fu seguita da innumerevoli critiche, soprattutto da parte di teorici «realisti» che bollavano Habermas come un «idealista» per il fatto di impiegare concetti controfattuali come l’agire rivolto all’intesa, quando in realtà il mondo è diretto da scopi strategici. Ma è proprio per questo, ribatté l’autore, che concetti normativi e intersoggettivi sono fondamentali contro ogni abuso e violazione.
Nel 1983, Habermas fece ritorno a Francoforte con una cattedra di filosofia, che terrà fino al pensionamento nel 1994. Difficile riassumere il decennio francofortese, tanto fu denso sia di pubblicazioni filosofiche (dal discorso sulla modernità, all’etica del discorso, fino al primo libro sul pensiero post-metafisico) che di scritti politici (dall’inclusione dell’altro, alla costellazione post-nazionale, alle rivoluzioni post-socialiste fino al multiculturalismo).
La curiosità intellettuale di Habermas lo portava a gettare ponti, a trovare luoghi di confronto e di scontro con altri modelli di pensiero. Prima di lui nessun filosofo dell’accademia tedesca, post-hegeliana o marxista che fosse, aveva mai tentato un serio raffronto con teorie d’oltreoceano, nel tentativo di spezzare la netta separazione che distingueva la tradizione continentale dalla filosofia analitica, come se fossero mondi cognitivamente inconciliabili.
Invitando a Francoforte i più noti filosofi del tempo, come l’americano John Searle, Habermas mirava a comprendere le ragioni altrui sia per individuare i punti di disaccordo, sia per corroborare ulteriormente la teoria dell’agire comunicativo, correggendo o integrando aspetti specifici, come accadde per il riconoscimento della «dimenticanza» del femminismo come sfera pubblica deliberante e movimento essenziale per il ripensamento della giustizia sociale. La scelta di ritirarsi a 65 anni dall’insegnamento attivo non ha impedito a Habermas di continuare a svolgere conferenze, a sviluppare il pensiero post-metafisico, a scrivere di politica.
I due ambiti principali che hanno ispirato la sua opera negli ultimi anni sono stati la questione della religione e la riflessione sul futuro della democrazia e dell’Ue. L’interesse filosofico verso la religione scaturisce da una doppia ragione, storica e insieme filosofica: a causa della rivitalizzazione nel discorso pubblico della religione dopo il 1989 (come emerge anche dal dibattito del 2004 con l’allora cardinale Ratzinger) e per via della necessità di definire meglio la problematica del sacro nel quadro dell’agire comunicativo, dal momento che era stato fino ad allora semplicemente relegato nella «sfera espressiva». L’attenzione politica verso l’Europa riguarda piuttosto la critica al sistema funzionalistico messo in atto dalle burocrazie comunitarie e insieme la necessità di creare un’alleanza anti-nazionalista, tale che i cittadini possano trovare modalità deliberative in una comune sfera pubblica.
La vera ultima sfida teorica riguarda però il nuovo opus magnum di Habermas che vedrà la luce in settembre presso l’editore Suhrkamp. Si tratta di Anche una storia della filosofia, una ricostruzione della genealogia del pensiero postmetafisico occidentale, allorché la filosofia si è andata secolarizzando, una volta distanziatasi dalla diade di fede e sapere, con l’autonomizzarsi delle sfere di valore del diritto, della morale e della politica, determinate dal mutamento sociale. -Su questi e altri temi, Habermas terrà una lezione pubblica il 19 giugno all’Università di Francoforte, che sarà senz’altro gremita da un folto pubblico. Quando lo conobbi nei primi anni Ottanta, mentre mi apprestavo a scrivere la mia tesi di laurea, ebbi subito l’impressione che Habermas non solo interrogasse con il pensiero le cose del mondo, bensì scrutasse con lo sguardo le persone per carpirne la verità. E questo è ancora il timone che guida i suoi 90 anni.
* Fonte: https://www.ircecp.eu/2019/06/i-90-anni-di-jurgen-habermas.html#more (ripresa parziale).
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI
MICHEL SERRES: L’ART DES PONTS. HOMO PONTIFEX. Una forte sollecitazione ad uscire dal "neolitico" e, ripartendo dal nostro presente storico, a ri-attivare l’umana (di tutti e di tutte!!!) capacità di "gettare ponti" e a riprendere il cammino "eu-ropeuo"!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT O L’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN. Bisogna sempre dire la verità? *
IMMANUEL KANT
Bisogna sempre dire la verità?
di Francesca Rigotti (Doppiozero, 19.10.2019)
Appollaiato sul ramo di una pianta il corvo (corvus), uccello dal piumaggio bianco come la neve, osserva il tradimento di Coronide, amata e resa gravida da Apollo, con il giovane Ischi, e corre a riferirlo al capo. Così narrano le Metamorfosi di Ovidio nel libro II (542-547). Mentre vola alla volta del dio di Delfi suo padrone, l’uccello viene raggiunto dalla cornacchia (cornix) che lo mette in guardia più o meno così: «Attento alle mie parole, corvo. Una volta mi capitò di spiare, nascosta sopra un folto olmo (abdita fronde levi densa speculabar ab ulmo), le tre vergini Pàndroso, Erse e Aglauro che Minerva aveva incaricato di sorvegliare - senza aprirla! - una cesta di vimini. Aglauro però viola l’ordine e disfa i nodi, scorgendovi dentro un bambino, Erictonio - nato dalla terra fecondata da Efesto - con accanto un serpente. Corro a riferire l’accaduto a Minerva e che cosa ottengo in cambio della mia fedeltà? Di essere degradata, di perdere il favore della dea e di essere posposta alla notturna civetta, Nictìmene, che divenne l’uccello sacro alla dea».
Nonostante l’avvertimento a non parlare troppo, il corvo riferì dell’incontro di Coronide con Ischi ad Apollo, che non la prese affatto bene. Il dio uccise infatti Coronide con una freccia, salvando però il figlio dal rogo funebre, e punì il corvo, «che si aspettava un premio per aver detto la verità», facendo diventare nero il suo piumaggio. Non cerchiamo per ora di interpretare il senso del fatto che il bambino salvato dalle fiamme e affidato al centauro Chirone divenne Asclepio, il fanciullo destinato ad apportare salute al mondo intero (salutifer orbi ... puer), e soffermiamoci invece sul castigo del corvo e della cornacchia, puniti dagli dei per... aver detto la verità.
Bisogna sempre dire la verità?
Come avrebbe reagito Kant, il rigoroso filosofo di Königsberg, di fronte a questo episodio? Avrebbe approvato o biasimato il comportamento degli uccelli che parlavano troppo? E che dicevano la verità anche se essa non veniva loro richiesta, come è il caso del corvo che si incarica spontaneamente di farlo per il puro piacere di far andare la sua linguaccia. «Lingua fuit danno», la lingua «fu la sua rovina», commenta il poeta. E lo fu anche della cornacchia, benché questa fosse stata esplicitamente incaricata da Minerva della sorveglianza. Ma posso tacere la verità? O bisogna sempre dire la verità, che è il titolo del libro in cui Andrea Tagliapietra, autore anche del recente Filosofia dei cartoni animati edito da Bollati Boringhieri affronta questa tematica? (Immanuel Kant, Bisogna sempre dire la verità?, a cura di Andrea Tagliapietra, Milano, Cortina, 2019). Un fustigatore della menzogna quale Agostino di Ippona ha a questo proposito un consiglio preciso: «Quello che dici, deve essere assolutamente vero; ma non devi per forza dire tutto quello che è vero».
Agostino, commenta Tagliapietra nel saggio introduttivo, pone dunque il nucleo della bugia necessaria in forma di problema: «Se si rifugia presso di te uno che potrebbe scampare alla morte grazie a una tua bugia, non mentirai?» (Contra mendacium, 18 e 5); lo stesso problema che sarà oggetto dello scambio polemico di opinioni etico-filosofiche tra Benjamin Constant e Immanuel Kant. Dove il Kant precritico, spiega sempre Tagliapietra, pare favorevole all’uso della riserva mentale. Diventerà invece intransigente negli anni successivi, quando la menzogna verrà definita da Kant l’autentica bruttura che macchia la natura dell’uomo, «l’avvilimento, anzi l’annientamento della dignità umana». Le bugie violano la fiducia nell’umanità: «La maggiore infrazione del dovere dell’uomo verso se stesso, considerato unicamente come essere morale (riguardo all’umanità che risiede nella sua persona) è l’opposto della sincerità, vale a dire la menzogna» (I. Kant, La metafisica dei costumi, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 287-288).
Bagatelle e crudeltà
Se guardiamo brevemente ad altri contesti, vediamo che la tradizione della cultura antica - seguo sempre Tagliapietra - ammette qualche forma di menzogna nel caso che essa apporti salvezza: si pensi soltanto alla figura di Ulisse, eroe astuto quanto mentitore. Ammessa è anche la menzogna del migliore verso il peggiore, non comunque del peggiore verso il migliore.
La cultura cristiana poi, continua Tagliapietra, trova mille scappatelle per una bagatella come il peccatuccio della bugia di scusa o peccatillum, da cui deriva il termine bagatella, e questo persino nel caso di pensatori austeri quali, abbiamo visto, Agostino, che ribadisce il principio aristotelico dell’intenzione ma poi assolve la menzogna in caso di pericolo di vita della vittima. Più blanda la posizione di Tommaso d’Aquino, sempre pronto a giustificare chi adotta il male minore per evitare il male maggiore.
Per l’incrollabile Kant invece il comandamento «non devi mentire», fondato sulla sovranità autonoma del soggetto, la quale non ammette eccezioni, è il fondamento dell’etica filosofica. Se si segue il precetto che esorta ad agire in modo da considerare l’umanità, sia nella propria persona sia nella persona di ogni altro, come fine e mai come mezzo, non si deve mentire nemmeno se in quel caso si nuocerà ad altri o si metterà in pericolo la vita di qualcuno o lo si consegnerà al suo assassino. Pensiamo alla terribile scena iniziale di Bastardi senza gloria (Unglorious Bastards, USA-Germania 2009) di Quentin Tarantino, in cui il colonnello nazista interroga il contadino francese, chiedendogli se dia rifugio ai nemici dello stato, la famiglia ebrea dei Dreyfus. Tutti desideriamo che il contadino menta e invece M. La Padite dice la verità e denuncia la famiglia ebrea per proteggere la propria.
Occorre aggiungere che la posizione di Kant era stata preceduta - aggiungo - da Spinoza che nella sua Etica assai chiaramente si pronuncia contro l’uso dell’inganno, il dolus malus (IV, LXXII), tra cui la menzogna, anche nel caso in cui ciò possa salvare una persona dall’imminente pericolo di morte.
Ci sono princìpi e princìpi
Questa verità crudele, questa perversa «macchina logico-veritativa del linguaggio» di Kant ma anche, ribadiamo, di Spinoza, viene respinta da Benjamin Constant in un saggio del 1797, riportato nella racolta di Tagliapietra, allorché il giovane polemista francese osa attaccare l’anziano filosofo tedesco con l’argomento del diverso peso dei princìpi morali: ci sono i princìpi primari, assoluti e universali, e i princìpi cosiddetti intermedi, che fanno discendere i princìpi primi fino a noi, adeguandoli alle nostre situazioni e ai nostri interessi. In questo modo, conclude Constant, il principio morale per il quale dire la verità è un dovere, «se fosse preso in modo assoluto e isolato, renderebbe impossibile ogni tipo di società. Ma ... nessun uomo ha diritto a una verità che nuoce ad altri».
La verità crudele è ricusata anche da Tagliapietra in nome della pietà verso la vittima silenziosa cui nuoce la verità delatoria. Sulla scia di Agamben sostiene infatti Tagliapietra che «la verità ... non è una mera informazione esatta ... ma anche un prendere posizione per ciò che si dice, un esserci in ciò che si afferma». Se confrontata con la fiducia, la verità diventa ai suoi occhi «una forma di vita che non si esaurisce nella sola dimensione dichiarativa del linguaggio» (66-67). Come viene respinta - la posizione di Kant - da molti autori e dalla maggior parte delle persone che adducono argomenti di buon senso e di empatia con le vittime. Dopo il colpo inferto al Kant gnoseologico dal newrealismo, ecco comunque un rinnovato attacco al Kant etico, troppo rigoroso per i nostri tempi edonistici e happycratici.
Verità crudele e nuda
Verità crudele, insostenibile, abbagliante, svelata fino alla nudità. Al repertorio di questa immagine nel pensiero filosofico è dedicato un volumetto postumo che raccoglie gli scritti inediti sul tema a opera del filosofo metaforologo Hans Blumenberg (H. Blumenberg, Die nackte Wahrheit [La verità nuda], a cura di Rüdiger Zill, Berlin, Suhrkamp, 2019).
La verità è orribile - oltre che crudele -. Fortunatamente l’arte ci permette di non affondare con la verità stessa. È Nietzsche che, impostando l’antagonismo tra la noia della scienza e la vitalità dell’arte, sentenzia che arte e cultura velano l’orrore della verità, e che l’illusione può mascherare la conoscenza che uccide l’azione. Variabile è comunque, commenta Blumenberg, il valore culturale della nudità della verità; in Kafka è la crudele mancanza di ogni sorta di corazza, guscio, protezione, casa, e la consegna a condizioni di vita estranea. E del resto, chi potrebbe sostenere la vista della verità - ecco Descartes che interviene, nelle Meditazioni - se Dio ce la presentasse tutta nuda? Eppure l’illuminismo rivendica proprio il diritto alla verità nuda per la quale ogni rivestimento e travestimento è ingiustizia. Mentre il diritto alla verità asciutta, secca (dry truth) di John Locke invoca un linguaggio filosofico univoco dove però le metafore sono considerate indispensabili, non per ornare e abbellire, ma proprio per chiarire e spiegare.
Fino ad arrivare a Kant e ricongiungerci, questa volta attraverso la metafora, alla sua idea di verità, che è lecito illustrare con analogie e metafore purché la cosa in sé sia chiaramente distinguibile dal necessario velo che la ricopre e la protegge. Se poi il velo ostacola la visione della verità, non impedisce però l’ascolto della legge morale, per quanto rigorosa e persino, come sappiamo, crudele.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ESSERE GIUSTI CON KANT. La lezione di Michel Foucault e la sorpresa di Habermas.
L’ASTUZIA DEL LUPO E I SETTE CAPRETTI. "APRITE, APRITE": SONO IL VOSTRO "PAPI"!!!
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN!!!
Federico La Sala
Basta con i sogni della metafisica
Quando Kant si congedò da Platone
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, La Lettura, 09.07.2017)
In filosofia non esistono momenti che segnino decisamente un prima e un poi, non ci sono, come, ad esempio, nella scienza, punti di non ritorno. Tutto viene sempre rimesso in discussione. Altrimenti non leggeremmo oggi i testi di Platone. Questo non vuol dire che, nella storia del pensiero, non si siano delineate vere e proprie svolte. Tra queste si staglia, per la sua luminosità e la sua imponenza, la rivoluzione copernicana di Immanuel Kant.
Ad essere rovesciata è la prospettiva della conoscenza umana. Ma non solo. È stato lo stesso Kant a richiamarsi esplicitamente a Copernico nella prefazione della sua più celebre opera La critica della ragion pura, pubblicata nel 1781. Non è l’intera volta stellare a ruotare intorno all’osservatore; piuttosto, nella nuova visione di Copernico, è l’osservatore che ruota intorno alle stelle. Così come è la Terra che ruota intorno al Sole. Un analogo mutamento va introdotto, secondo Kant, anche nella filosofia. Non è il mondo a ruotare intorno all’uomo che lo contempla immobile per scoprirne il segreto ordinamento. Al contrario è l’uomo che, con il suo moto ordinatore, forma il mondo.
Il soggetto acquista, con la rivoluzione copernicana di Kant, un’importanza che non aveva mai avuto prima. Apparentemente decentrato, è tuttavia il soggetto ad avere un ruolo attivo, a muoversi intorno al mondo degli oggetti, per conoscerli, formarli o - come direbbe Kant - «schematizzarli». Le nostre facoltà, il senso e l’intelletto, non sono neutrali, procedono per schemi, lasciano cioè un’impronta sugli oggetti. È vano illudersi ancora: l’ordine del mondo intorno a cui ruotiamo è per noi inaccessibile, così come non arriveremo mai a conoscere l’oggetto «in sé», nella sua essenza intima.
Kant si dissocia da una lunga tradizione che, già partire da Platone, aveva considerato compito della filosofia portare alla luce l’in-sé degli oggetti, la loro idea, la loro forma precipua. Nulla impedisce che questa essenza degli oggetti esista - ammette Kant. Ma quel che degli oggetti noi conosciamo è il modo in cui si manifestano, in cui sono non in sé, bensì per noi. Noi conosciamo solo i fenomeni, mai gli oggetti in se stessi. Non siamo infatti passivi e organizziamo attivamente tutto quello che andiamo conoscendo secondo le forme del nostro percepire e del nostro intendere. La realtà è già sempre articolata dalle nostre condizione soggettive, dai nostri schemi spazio-temporali. In un certo senso è come se, quando conosciamo la realtà, la spingessimo a parlare la nostra lingua.
Impostori e dogmatici, lestofanti e visionari, architetti di mondi campati in aria, sono per Kant tutti coloro che contrabbandano la propria conoscenza dei fenomeni per la vera essenza della realtà. Basta, dunque, con i sogni della metafisica, che pretendeva di svelare l’ordine universale! Dopo Kant il soggetto rinuncia a una conoscenza che superi le sue possibilità per organizzare il proprio mondo secondo autonome norme etiche e politiche che possono aspirare a un’umana universalità.
KANT (1784), FOUCAULT (1984), E "LA FINE DI TUTTE LE COSE" (KANT, 1794). Una nota ... *
NONOSTANTE LA SOLLECITAZIONE DI FOUCAULT (1984) A ESSERE GIUSTI CON KANT E A RISTUDIARE E A RIPENSARE LA SUA OPERA E LA SUA LEZIONE A PARTIRE DALLA "RISPOSTA ALLA DOMANDA: CHE COSA E’ L’ILLUMINISMO?" (1784), IL LAVORO DELLA GRANDE RESTAURAZIONE IDEALISTICA PRIMA E MATERIALISTICA POI CONTRO LA VIA DELLA “CRITICA” E LA SUA “RIVOLUZIONE COPERNICANA” CONTINUA FEROCE, CALPESTANDO OGNI DECENZA STORIOGRAFICA E ADDIRITTURA IGNORANDO NON SOLO LE OPERE DELLA FASE COSIDDETTA "PRE-CRITICA" (cfr.: Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”) MA ANCHE LE OPERE DELLA FASE "CRITICA" (cfr. I. Kant, "La fine di tutte le cose", 1794 - e in particolare la seconda nota, dove chi si sbizzarrisce in paragoni ripugnanti per rappresentare il nostro mondo terreno, "senza degnare di attenzione la disposizione al bene che vi è nella natura umana, raffigurando la nostra dimora terrena con grande disprezzo: 1) come una locanda - o un caravanserraglio ... 2) come un penitenziario... 3) come un manicomio... 4) come una cloaca, che raccoglie tutti i rifiuti espulsi dagli altri mondi")!!!
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SU KANT (e Freud e la banalità del male), mi sia consentito, si cfr. ALCUNE MIE "NOTE PER UNA RILETTURA": https://www.academia.edu/12356078/KANT_FREUD_E_LA_BANALITA_DEL_MALE.
Federico La Sala
1. Nell’ottobre 1974, in una conferenza sulla progressiva medicalizzazione della società tenuta presso l’Università di Stato di Rio de Janeiro, Foucault introduce il concetto di «bio-storia» per sottolineare che «la storia dell’uomo e la vita sono profondamente intrecciate», dal momento che «la storia dell’uomo» è in grado di modificare, almeno «fino a un certo punto», il «processo» della vita 1. Da allora, a seguito dell’«intrusione di Gaia» - per usare un’espressione di Stengers -, la bio-storia ha assunto una fisionomia molto differente.
Il recente Esiste un mondo a venire? di Danowski e Viveiros de Castro 2 non lascia dubbi al proposito: l’immensa crisi ecologica in corso esercita un tale impatto sulla «storia dell’uomo» da avere definitivamente messo in crisi, oltre all’impianto sociale e allo stile di vita egemoni a livello planetario, una delle più classiche tra le dicotomie su cui si fonda la teologia politica occidentale, quella tra natura e cultura. Come affermano la filosofa e l’antropologo brasiliani, la nostra specie si è trasformata «in forza geologica», «in un oggetto “naturale”» e il «Sistema Terra» in «un agente politico», in «una persona morale» (p. 45).
Il vettore della bio-storia, insomma, non è unidirezionale: se è certo che la “nostra specie” continua a manipolare i processi naturali su scale forse neppure immaginabili fino a poco tempo fa, altrettanto certa è la capacità della storia naturale di sconvolgere a fondo i processi umani; tanto che oggi non è più possibile parlare seriamente di politica senza tenere conto del ruolo politico della “natura”.
Che ci piaccia o meno, grazie alle sempre più continue e terrificanti irruzioni bio-storiche di Gaia «il nostro mondo sta smettendo di essere kantiano». La forza di Gaia nell’arena politica ha definitivamente mandato fuor di sesto «Dio, Anima e Mondo», le «tre grandi idee trascendentali» di Kant (p. 36), destituendole di senso e facendole girare a vuoto: non siamo di fronte a «una “crisi”nel tempo e nello spazio, ma [a] una feroce corrosione del tempo e dello spazio» (p. 52).
2. Esiste un mondo a venire?, allora, non è «solo» un’accurata revisione delle evidenze empiriche della catastrofe in cui siamo già immersi e degli effetti a lunghissimo termine che comunque comporterà. Revisione, sia detto per inciso, sicuramente necessaria vista «la recente e ignominiosa elezione del negazionista Donald Trump» (p. 13) e considerato che - per parafrasare Žižek - un conto è sapere che qualcosa può accadere e un altro è credere che stia accadendo.
Esiste un mondo a venire? è anche, e soprattutto, il tentativo di portare alla luce il clamoroso non dettodelle più recenti narrazioni occidentali - filosofiche, letterarie e cinematografiche; utopiche o distopiche - della fine del mondo: la ripetizione acritica della «dualità mitica “umanità/mondo”» (p. 55). Aspetto questo tutt’altro che trascurabile dal momento che la rigida separazione Uomo/Mondo ha contribuito a forgiare - quantomeno legittimandola - la potenza operativa dell’impresa tecno-scientifica occidentale, principale causa dell’attuale disastro planetario. Anche se a prima vista sembrano contrapporvisi, le «nostre» mitologie della fine del mondo, sia che prevedano «un mondo senza noi» o, all’opposto, «un noi senza mondo», non si smarcano dalla logica più profonda del dualismo gerarchizzante e sezionante che si cela dietro l’«ottimismo “umanista”» (p. 22).
Semplificando molto e senza seguirne le molteplici ramificazioni - che i due autori descrivono in dettaglio e criticano con acume sia che guardino al passato o al futuro, sia che si inseriscano in paradigmi di «sinistra» o di «destra», sia che si presentino come «apocalittiche» o come «integrate» -, ciò che conta è che nessuna di queste visioni ha preso congedo dall’«allucinazione narcisistica» (p. 79) dell’antropocentrismo.
Che il «mondo senza noi» sia inteso come una sorta di mitico giardino dell’Eden prima della Caduta o come il risultato finale della catastrofe ecologica, e che il «noi senza mondo» assuma le tinte fosche di un annientamento su scala globale o quelle deliranti di un’umanità capace di trascendersi riassorbendo il mondo in se stessa, il «mondo che finisce» è sempre «il “nostro” mondo» (p. 98) e il “noi”, che sta parlando e di cui si parla, è sempre «l’“Umano, che lo si chiami Homo sapiens o Dasein» (p. 57).
Detto altrimenti, le «nostre» bio-storie della fine del mondo sono ancora umane, troppo umane, poiché ribadiscono sia l’esteriorità e la singolarità del «mondo» - che servono a naturalizzare la cosmogonia scientifica occidentale - sia l’universalità del «noi» - che in questo caso opera come dispositivo di occultamento del fatto che la crisi ecologica non è attribuibile indistintamente a tutta la specie umana e che i suoi effetti deleteri si estendono, e si estenderanno sempre di più, ben oltre i confini della nostra specie.
3. Come è noto, esistono altre bio-storie oltre alla «nostra», bio-storie meno violente e distruttive che enfatizzano l’intrinseca relazionalità del vivente. Tra queste, Danowski e Viveiros de Castro si concentrano sul prospettivismo amerindio in quanto propone una concezione del «noi» e del «mondo» - ammesso che si possa continuare a usare questa terminologia - diametralmente opposta a quella della modernità umanista.
Per il prospettivismo amerindio all’inizio «tutto era umano» (p. 148) e tutto resta tale anche dopo che i non umani si sono differenziati morfologicamente nel tempo delle trasformazioni. Da un lato, allora, «l’umanità [è] una moltitudine polinomica» che «si presenta [...] nella forma di una molteplicità interna» da cui, solo in un secondo momento, si originano altri individui e altre specie in una sorta di darwinismo invertito (non sono gli umani a evolversi dagli animali, ma gli animali a travestirsi da umani).
E dall’altra il mondo, «quello che noi chiamiamo mondo naturale, o “mondo” in generale, è [...] una molteplicità di molteplicità intrinsecamente connesse. Gli animali e le altre specie sono [...] entità politiche». In breve, «gli amerindi pensano che, tra il cielo e la terra, esistano molte più società [...] di quante ne sognino la nostra antropologia e filosofia. Ciò che noi chiamiamo “ambiente” è per loro una società di società, un’arena internazionale, una cosmopoliteia» (pp. 150-151).
Quest’altra bio-storia che, malgrado tutto, è riuscita a sopravvivere alla fine del suo «mondo» conseguente all’invasione coloniale, permette agli autori, di declinare la crisi ecologica nei termini di una «guerra civile» (p. 195) tra «Umani» e «Terreni», guerra che non coincide con la linea di divisione tra la nostra specie e le altre, poiché non solo è certo, come gli autori affermano, che non tutti gli umani sono «Umani» ma anche che - e questo aspetto non pare essere sufficientemente sottolineato - che la maggioranza dei «Terreni» sono animali.
4. Nella bio-storia di Danowski e Viveiros de Castro gli animali - che sperimentano quotidianamente la fine dei loro mondi - continuano a rivestire un ruolo politico ancora troppo marginale. Sebbene non esitino a definire «l’“eccezionalità umana” [...] un autentico stato d’eccezione ontologico» che legittima «l’immagine prometeica dell’Uomo che conquista la Natura» (pp. 73-74) e a ridicolizzare l’idea secondo cui saremmo animali dotati di un «supplemento spirituale che è “il proprio dell’uomo” - la preziosa proprietà privata della specie» (p. 144), i due autori non riescono a liberarsi completamente dall’antropocentrismo che percorre indisturbato anche il pensiero più critico 3.
Testimonianza di questa tenace persistenza è l’idea discutibile secondo cui antropocentrismo (occidentale) e antropomorfismo (amerindio) rappresentino visioni del mondo diametralmente contrapposte: se è vero, infatti, che «dire che tutto è umano è come dire che gli umani non sono una specie speciale» (p. 155), altrettanto vero è che l’affermazione “tutto è umano” nasconde - volenti o nolenti - un’operazione di appropriazione colonizzante dei mondi non umani. In altri termini, l’umano continua ad essere l’operatore centrale, seppur depotenziato, anche nel caso dell’ antropomorfismo.
Non a caso, allora, pur usando una terminologia corretta per descrivere le loro condizioni di detenzione («La spaventosa legione di animali confinati e torturati in campi di sterminio per l’estrazione di proteine»), i due autori annoverano gli «animali da reddito» tra gli «alleati» degli Umani in quanto «potenti fabbriche di metano» (p. 211) e non esitano a domandarsi: «Quando esauriremo le scorte di pesci?» (p. 243).
Con queste premesse, risulta difficile capire come sia possibile lasciarsi alle spalle le nozioni sezionanti di «Umano-in-sé» e di «Animale-in-sé» (p. 156), passo che Danowski e Viveiros de Castro sembrano considerare necessario per pensare la tanto auspicata «decivilizzazione» (p. 205), per mettersi all’ascolto « dell’eccezionalismo terrestre» (p. 188), per rendersi finalmente «responsabili dinanzi ai Terreni» (p. 235).
5. Pochi dubbi possono sussistere circa il fatto che il motto andino « Vivir bien e no mejor» (p. 163) debba costituire il fine a cui, nel tempo della fine, della «mancanza di scelta» (p. 246), dovrebbe tendere la resistenza dei Terreni alla «logica assolutamente non addomesticabile del capitalismo» (p. 235). Meno certo è invece come tale fine possa trasformarsi in una politica a venire all’altezza dei tempi e del tempo che resta.
Basta il generico «becoming with» di Haraway (p. 237) o il troppo locale «ridivenire-indio» degli autori? O, forse, per trasformare lo «shock» in «evento» (p. 252) è necessario radicalizzare questi divenire nel deleuziano divenire animale? Non è, infatti, il concetto di specie e l’opposizione Umano/Animale l’operatore più tagliente che sta al centro dei meccanismi materiali e simbolici che hanno costruito proprio quella società degli Umani che si vorrebbe combattere?
6. Nel 1955, Deleuze afferma che «L’uomo è un animale che si sta spogliando della specie» 4. L’irruzione di Gaia ha inverato questa intuizione. La questione oggi è come pensare e agire per far sì che questo spogliarsi non si traduca - come finora è accaduto - in spoliazione, ma in esitazione potenziante, gioiosa e creativa. La crisi ecologica in corso, infatti, non è caratterizzata esclusivamente, come pensano i più, dall’urgenza materiale di ridurre, per quanto possibile, i danni - urgenza che, tra l’altro, potrebbe spingere in direzione di un’ulteriore e più salda presa dell’Umano e pertanto «mascherare una grandiosa espansione del vangelo diabolico dello “sviluppo”» (p. 249).
L’ingombrante presenza di Gaia impone infatti un’altra e ancora più decisiva urgenza: il ripensamento radicale delle categorie politiche che ci hanno portato qui dove siamo, nel tempo dell’orrore più estremo, urgenza questa ben più difficilmente digeribile dalle logiche dell’impresa tecno-capitalista. Urgenza più resistente perché libera dal fardello narcisistico dell’antropocentrismo, perché sostenuta dalla consapevolezza che, come sostiene Kojève, «la scomparsa dell’Uomo alla fine della Storia non è [...] una catastrofe cosmica: il Mondo naturale resta quello che è da tutta l’eternità. E non è nemmeno una catastrofe biologica: l’Uomo resta in vita come animale [...]. Ciò che scompare è l’Uomo propriamente detto [...] [e] il Soggetto opposto all’Oggetto [...]. Tutto il resto può mantenersi indefinitamente; l’arte, l’amore, il gioco, ecc.; insomma, tutto ciò che rende l’uomo felice» 5. E questa, ovviamente, è tutta un’altra bio-storia, un mondo a venire che, forse per gli ultimi istanti, sta ancora aspettando un atto di creazione.
1 Michel Foucault, Crisi della medicina o crisi dell’antimedicina?, in Id., Il filosofo militante. Archivio Foucault 2, Milano, Feltrinelli, 2017, p. 210.
2 Le pagine da cui sono tratte le citazioni sono riportate nel testo tra parentesi.
3 Un esempio recente di questa forclusione è il volume di Olivier Razac, Storia politica del filo spinato, Verona, ombre corte, 2017. Il saggio, per altri versi estremamente interessante, si dimentica infatti di porre nella giusta prospettiva il ruolo politico della reclusione degli animali, nonostante il filo spinato sia tuttora uno dei dispositivi di compartimentalizzazione dello spazio centrale nella gestione della vita dei non umani.
4 Gilles Deleuze, Istinti e istituzioni, Milano-Udine, Mimesis, 2014, p. 32.
5 Alexandre Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Milano, Adelphi, 1996, p. 541.
Convivenza senza spada
di Marina Lalatta Costerbosa (Alfabeta-2, 18 maggio 2017)
C’è qualcosa che caratterizza la tortuosa vicenda dell’anarchismo: il suo essere bistrattato, denegato, occultato. La storia dell’anarchismo è la storia di un grande assente: perché non riconosciuto, non rintracciato come tale, oppure perché maliziosamente omesso e ridimensionato, sulla base del pregiudizio della sua irrilevanza. Ma, come spesso accade, il rimosso ricompare via via, sempre di nuovo, lavora sotto traccia; e così, un po’ paradossalmente, l’anarchismo è onnipresente, nella forma delle sue domande, fondamentali e ineluttabili, con una «sorprendente persistenza nel tempo» e la capacità di resistere alle «condizioni “climatiche” più difficili».
Gli interrogativi di fondo dell’anarchismo sono quelli connessi al problema della convivenza sociale sullo sfondo di norme prive di violenza, per recuperare una relazione concettuale individuata nell ’Antropologia di Kant che definì l’anarchia come «Gesetz und Freiheit ohne Gewalt» (legge e libertà senza violenza). Ma, ancora, sono cruciali i quesiti impliciti in quella tensione tra libertà e diritto, che si coniuga con l’ineludibile natura bifronte dell’universo giuridico, come è stato ben colto e cristallizzato nelle pagine di Andrea Caffi. E pure sono decisive le questioni legate alla relazione «non ufficiale» tra anarchia e democrazia: rapporto tormentato, questo, a cominciare dall’ambivalenza della cittadinanza democratica che, per includere ed estendere la partecipazione deliberativa, non può bandire l’incombente vocazione all’esclusione.
Non è all’anarchismo filosofico che si rivolge dunque lo sguardo di Massimo La Torre, bensì all’anarchismo politico. Se l’anarchismo filosofico si limita ad affermare «la mancanza di sostrato normativo forte di pretese che comunque rimangono valide da un punto di vista sociologico o fattuale», l’anarchismo politico, l’anarchismo “classico”, rivendica per sé progettualità; la sua «negazione della giustificazione dell’autorità» si fa costruttiva, proiettiva, lanciata verso un futuro immaginato possibile.
Coerente rispetto alla propria radicalità, attratto dalla profondità e dalla ricerca della verità empirica dei rapporti di potere reali, l’anarchismo difende e legittima il primato della ragione, di una ragione nella quale va riposta fiducia, contro le infinite guise del dominio. Ma «anarchismo» significa immediatamente anche centralità di un sentimento, quello della compassione per il debole che subisce il dominio del più forte. «Il terreno comune del “canone” dell’anarchismo politico» non è tanto o prioritariamente «l’avversione per lo Stato», ma «la pietà per il dominato e l’inferiore, quale che esso sia, come che esso fenomenologicamente possa darsi, con in più il “principio speranza”».
Talvolta si è affiancato l’anarchismo all’anarco-capitalismo, ma La Torre fa ordine e ricolloca tutto al suo posto. Avoca al pensiero anarchico il cuore libertario, e precisa il tratto contingente del punto di sovrapposizione esistente tra anarchismo e anarco-capitalismo: l’avversione all’ordine statale. Sono diversissime le ragioni di tale avversione. All’anarco-capitalista non interessa, anzi egli giustifica, il dominio generato dal fenomeno proprietario e delle sue logiche di profitto; al contrario la ragione del reciso antistatalismo dell’anarchico risiede nel fatto che «è penoso che un essere umano comandi su un altro suo simile, e ancor più penoso è che questo comando si perpetui, si strutturi e si autolegittimi».
La Torre ripercorre la vicenda dell’anarchismo entro una densa trama interpretativa, scandita dalle figure polari di Godwin, Proudhon, Stirner, e poi Bakunin, Kropotkin, Tolstoj, e ancora gli «amici avversari» Malatesta e Merlino. Attraverso la lettura dei capitoli dedicati a questi «anarchici “veri”» si segue il filo di un discorso che forse al termine deve in modo particolare a Francesco Saverio Merlino l’onere e l’onore della sintesi di un progetto «plausibile», che persiste e risuona persino oggi nell’ideale di società di Habermas (il cui progetto di giustizia può essere meglio inteso non trascurando il suo essenziale e dichiarato nocciolo anarchico).
Merlino «rivela l’“anima” del libro e le sue intenzioni», la sua idea di anarchia possibile si staglia preziosa sullo sfondo. È infatti proprio lui - spiega La Torre - che «ritessendo il filo della riflessione proudhoniana, distingue tra Stato, o potere di dominio, e dimensione politica, intendendo con quest’ultima designare un dato strutturale (non contingente, dunque) della società: le sue istituzioni». Ed è sempre lui a sottolineare «la dimensione non tecnica, e sempre normativa, e tuttavia non meramente volontaria, o egocentrica, bensì relazionale, dunque pubblica, dell’azione comune tra gli uomini nella loro convivenza». Convivenza questa che costituisce la condizione di possibilità per la pratica di una libertà intesa «come il diritto uguale di ogni essere umano a partecipare delle condizioni che rendono possibile il benessere di tutti e di ciascuno».
Chi ha iniziato a seguire la riflessione “larga” (per dirla ancora con Kant) di Massimo La Torre cominciando dal saggio su Proudhon degli anni Ottanta, non può non aver atteso da tempo questo suo libro tutto dedicato al pensiero anarchico. Un’attesa felicemente ricompensata dal risultato; perché è un libro bello, importante, per chi crede vi possa essere un’idea alta di politica, una politica che si lega intimamente alla libertà ed «è dialettica di conflitto e d’azione in concerto». Ma, in fondo, anche per chi crede in un’idea nobile della filosofia, come pensiero critico rivolto alla complessità e alla rilevanza del reale.
Nostra legge è la libertà è un libro che con sensibilità rara rende giustizia finalmente all’anarchismo; sin dal titolo, e poi in ogni sua pagina. Un libro che ne coglie il valore e il significato autentico, teorico e umano, che permette di avvertirne il portato più profondo in termini di libertà. Un libro insomma contro i mille fraintendimenti, le volute semplificazioni, i tanti silenzi.
Fino a che punto possiamo interpretare?
Da Foucault a Eco
di Francesco Bellusci (DoppioZero, 05 marzo 2017)
Cinquant’anni fa uscivano in Francia gli atti del Colloquio di Royaumont, svoltosi tre anni prima, che avrebbero segnato i destini della filosofia “continentale” all’insegna della Nietzsche-Renaissance: una rinascita dell’interesse per la figura e l’opera di Nietzsche, definitivamente riscattato dalle strumentalizzazioni naziste, preparata anche dalla pubblicazione nel 1961 del poderoso corso di Heidegger e, soprattutto, dall’edizione critica nel 1964 delle opere di Nietzsche, curata da Giorgio Colli e Mazzino Montinari. Tra gli interventi di quel convegno, quello di Michel Foucault, che, ricordiamolo, poco prima di morire sulle pagine di Les Nouvelles littéraires dichiarerà di essere sempre stato “semplicemente un nietzschiano”, presenta una singolarità. Nietzsche, nel saggio, è in compagnia degli altri “maestri del sospetto”, Marx e Freud, che, a differenza di Ricoeur, non sono visti da Foucault tanto come coloro che dubitano della coscienza trasparente a se stessa, di cartesiana memoria, e l’allargano demistificandone i pregiudizi o i condizionamenti che su di essa operano l’ideologia borghese, le pulsioni libidiche o i valori della tradizione morale e metafisica. Gli autori della Nascita della tragedia e della Genealogia della morale, del Capitale e dell’Interpretazione dei sogni non mettono in campo un soggetto che accede a una verità più profonda di se stesso, ma un nuovo sistema di interpretazione, una nuova possibile ermeneutica, che coglie il senso profondo nell’esteriorità, che decifra, cioè, i segni disposti sulla “superficie” dei rapporti di produzione, dei sintomi e dei lapsus, delle pulsioni vitali alla base di sentimenti morali, idee, valori, che trascendono il soggetto e lo costituiscono. Ma, nello stesso tempo, Marx, Freud e Nietzsche, che fa da capofila in questo, ci consegnano questo compito dell’interpretazione come infinito, senza la possibilità di un compimento che attinga un’origine o un fondamento ultimo. Infatti, scrive Foucault, “se l’interpretazione non può mai giungere a compimento, è semplicemente perché non c’è niente da interpretare. Non c’è niente di assolutamente primario da interpretare, perché in fondo, tutto è già interpretazione, ogni segno è in se stesso non la cosa che si offre all’interpretazione, ma interpretazione di altri segni”.
Quindi, ogni interpretandum è di per sé già intepretans. Così, Marx interpreta i meccanismi del capitalismo interpretati come “naturali” dall’economia politica classica; Freud scopre dietro i sintomi non traumi originari ma fantasmi carichi di angoscia, che sono già nodi interpretativi. In questa prospettiva, l’interpretazione è obbligata ad auto-interpretarsi sempre e a investire l’interprete stesso, chi ha posto l’interpretazione, in un gioco di rimandi speculari e di inversioni (ma anche di lotte), per cui, se Marx ha ragione, Nietzsche è un fenomeno della borghesia del suo tempo, oppure, se Freud ha ragione, bisogna indagare l’inconscio di Nietzsche. E così via. Pertanto, se l’interpretazione precede il segno e il segno è già un’interpretazione che non si dà come tale, “la morte dell’interpretazione - concludeva Foucault - è credere che ci sono dei segni che esistono primariamente, originariamente, realmente, come marche coerenti, pertinenti e sistematiche. La vita dell’interpretazione, al contrario, è credere che non ci sono che interpretazioni.
Mi sembra che bisogna comprendere bene questa cosa che troppi nostri contemporanei dimenticano: l’ermeneutica e la semiologia sono due feroci nemiche. Una ermeneutica che si pieghi di fatto su una semiologia crede all’esistenza assoluta dei segni: abbandona la violenza, l’incompiuto, l’infinità delle interpretazioni, per far regnare il timore dell’indizio, e sospettare il linguaggio. Riconosciamo qui il marxismo dopo Marx. Al contrario, un’ermeneutica che si avvolge su di sé entra nel campo dei linguaggi che non cessano di auto-implicarsi, la regione mitica della follia e del puro linguaggio. È qui che riconosciamo Nietzsche”. Si può dire che, per Foucault, l’evento della filosofia nietzschiana non coincideva con l’ultimo atto della storia della metafisica, secondo la nota lettura di Heidegger emersa in quegli anni, ma nell’approdo più consapevole e coerente di due “sospetti” che hanno sempre accompagnato le culture indo-europee: il sospetto che il linguaggio voglia dire altro rispetto a ciò che dice e il sospetto che ci sia linguaggio all’infuori del linguaggio. Fedele fino alle estreme conseguenze al “lieto messaggero” della morte di Dio, che decretò anche la fine della “cosa in sé” e dell’esistenza dei fatti in nome del gioco infinito e conflittuale delle interpretazioni, Foucault opponeva allora l’ermeneutica, con il suo portato demolitore rispetto alla concezione della verità come corrispondenza alle “cose” fuori di essa, alla semiologia di stampo desaussuriano, dove c’è un codice a stabilire l’equivalenza tra segno e significato già dati.
Sempre alla fine degli anni sessanta, Umberto Eco avviava però gradualmente una rifondazione della semiotica, facendo riferimento non tanto a De Saussure ma a Peirce, lungo la parabola che lo porterà, da La struttura assente (1968) al Trattato di semiotica generale (1975), a vedere nel segno ciò che interpreta un altro segno, a sua volta ancora interpretabile, in un processo illimitato di semiosi, che coinvolge sempre triadicamente il segno, l’oggetto e l’“interpretante”, inteso come costrutto culturale o convenzione socialmente pattuita. Ma, a differenza del Foucault di Royaumont, questo percorso conduce Eco a ritenere che la condizione di possibilità dell’ermeneutica stia nei limiti che l’essere o il reale pongono al discorso interpretativo piuttosto che nella loro assenza: “Se assumessimo che dell’essere si può dire tutto non avrebbe più senso l’avventura nella sua interrogazione continua. Basterebbe parlarne a caso. L’interrogazione continua appare ragionevole e umana proprio perché si assume che c’è un Limite” (Kant e l’ornitorinco, 1997). Infatti: davvero non c’è “nulla” da interpretare e non si dà mai un interpretandum? Davvero l’interpretazione è sempre risucchiata in un circolo infinito nel quale può solo riprendere continuamente se stessa e generarsi, per così dire, per partenogenesi? Se non c’è una “realtà” che si offra all’interpretazione per essere decifrata nel suo senso ultimo, non c’è forse almeno una realtà che c’impedisce certe interpretazioni e certi percorsi di senso?
È proprio quest’ultima, infatti, la tesi di Umberto Eco. Una certa conformazione del nostro corpo c’impedisce d’interpretare il cacciavite come qualcosa di utile per grattarci un orecchio; l’esperienza c’impedisce di interpretare un grave come qualcosa capace di muoversi alternativamente verso il pavimento o il soffitto della nostra casa (lo può fare un poeta, ma in riferimento a un mondo possibile). In questi casi, il reale si oppone e resiste a certe nostre interpretazioni, che dovranno prendere altre direzioni; in altri termini, non c’è una “cosa in sé”, ma di sicuro si manifesta una “cosa che dice no”. In conclusione, per Eco, “ogni ipotesi interpretativa è sempre rivedibile (e come voleva Peirce sempre esposta al rischio del fallibilismo) ma, se non si può mai dire definitivamente se una interpretazione sia giusta, si può sempre dire quando è sbagliata. Ci sono interpretazioni che l’oggetto da interpretare non ammette” (Di un realismo negativo, 2012).
Ma a parte la differenza sul modo di intendere, in senso assoluto o limitato, il compito infinito dell’interpretazione, è indubbio che entrambi, Foucault ed Eco, hanno incarnato con il loro lavoro non solo scientifico, ma giornalistico, civile e politico, due esempi di quel “coraggio di dire il vero”, inteso come abito intellettuale e comportamentale, di quello stile parresiastico, in attrito con il “vero” imposto dai poteri dominanti e dall’ordine del discorso, a cui Foucault s’interessò anche nei suoi lavori genealogici, durante i corsi al Collège de France, poco prima della morte.
Questo sì, da intendere a maggior ragione come un compito infinito, per Foucault, perché, come dichiarò in una delle sue ultime interviste, “niente è più inconsistente di un regime politico che è indifferente alla verità; ma niente è più pericoloso di un sistema politico che pretende di prescrivere la verità. La funzione del ‘dire il vero’ non deve prendere la forma della legge, così come sarebbe vano credere che risieda a pieno titolo nei giochi spontanei della comunicazione. Il compito del dire il vero è un lavoro infinito: rispettarlo nella sua complessità è un obbligo di cui nessun potere può fare economia. Salvo il caso in cui s’imponga il silenzio della servitù” (Le souci de la verité, “Magazine littéraire”, maggio 1984).
di Francesco Bellusci *
“Posso andarmene in capo al mondo, nascondermi sotto le coperte la mattina, farmi il più piccolo possibile, posso pure liquefarmi al sole su una spiaggia, lui sarà sempre là dove sono io”. Chi è questo compagno assiduo che anticipa e mette sotto scacco ogni mio tentativo di separarmene? Chi o cos’è questa presenza con cui sono condannato a condividere sempre il mio spazio, le mie destinazioni, i miei soggiorni, persino i miei nascondigli? Chi o cosa non m’impedisce di cambiare posto, di andare altrove, eppure mi rende impossibile prenderne congedo?
La risposta che Michel Foucault dà in una delle due conferenze radiofoniche sugli “spazi altri”, trasmesse nel dicembre 1966 (Le corps utopique - Les hétérotopies, Éditions Lignes, trad. it. Utopie. Eterotopie, Cronopio 2004 ) e poi riprese in un intervento presso il Cercle d’études architecturales nel marzo 1967, è semplice, facilmente intuibile, ma è anche l’ingresso nella prima di tante piccole e sorprendenti stanze di un testo tra i più belli, nonché tra i più trascurati, di un autore che pure annovera, come pochi, una bibliografia smisurata su quasi ogni pagina della sua variegatissima produzione. La risposta è: il “mio” corpo. Di quale corpo ci sta parlando Foucault?
Non è il corpo segregato del folle o il corpo medicalizzato del malato, di cui ha parlato nei libri precedenti. Non è nemmeno il corpo investito dai dispositivi del potere disciplinare o del biopotere, di cui parlerà in seguito: il corpo sorvegliato, punito, addestrato, curato, sessuato. Non sono, cioè, i segni del potere sul corpo, né il rapporto tra il potere e il corpo, ma il rapporto tra l’io e il corpo, il “suo” corpo, che Foucault prende in esame.
E lo fa, appunto, parlando in prima persona, con una mossa che spiazza sicuramente quanti, dopo la pubblicazione de Le parole e le cose avvenuta lo stesso anno, lo considerano già uno dei quattro moschettieri dello strutturalismo, insieme con Lévi-Strauss, Lacan e Althusser.
Mossa singolare che, forse, è all’origine del cono d’ombra sotto cui il testo cadrà, per effetto della sua, almeno di primo acchito, inspiegabile e improvvisa biforcazione rispetto ad un percorso che, fino a quel momento, ha posto l’accento sul soggetto come l’effetto e l’“oggettivazione” di strutture (epistemiche, discorsive, istituzionali) e non come la sorgente originaria delle sue esperienze e del senso.
In verità, come sempre accade in Foucault, si tratta di oscillazioni che sono il sintomo di direzioni più profonde della sua ricerca, più squisitamente filosofiche, solo episodicamente esplicitate da Foucault e, sovente, più nelle interviste che nei suoi saggi.
Si muove e mi fa muovere, dunque, il mio corpo, ma, impedendomi di uscire dal suo involucro, mi condanna a un luogo “fisso”, a uno spazio circoscritto e invalicabile, che corrisponde sempre al suo. “Spietata topia”: il corpo appare il contrario di ogni u-topia.
Eppure, se si guarda al corpo realmente vissuto, quel corpo-prigione che bloccherebbe sempre il mio passaggio da un “qui” a un “altrove”, quel corpo a cui appartengo più di quanto esso appartenga a me (ad esempio, quando la mattina, di fronte allo specchio, se potessi, deciderei volentieri di farne a meno o di averne un altro) si rivela inaspettatamente uno stimolo, una rampa di lancio verso i lidi dell’utopia.
All’inizio, è proprio il corpo a suscitare in me l’utopia, a spingermi a riscattarmi da esso, cancellando o contrastando la sua oggettività pesante, la sua materialità spessa. Ecco, allora, che mi ritrovo in un paese favoloso di folletti, fate, geni, maghi, principi e principesse, con corpi belli, splendenti, saettanti, invulnerabili, all’occorrenza invisibili: “È ben possibile - scrive Foucault - che l’utopia prima, quella più impossibile da sradicare dal cuore degli uomini, sia proprio l’utopia di un corpo incorporeo”. Oppure, mi ritrovo in una città sepolcrale, dove i corpi assumono le fattezze eternamente intatte della mummia o quelle marmoree, solide, figurative, di un dio.
Dalle tombe egizie agli abitanti del bosco di Sogno di una notte di mezza estate, dal bassorilievo della giovinetta sepolta del canto XXX di Leopardi al Mausoleo di Lenin, l’utopia del corpo incorporeo attraversa, inossidabile, innumerevoli secoli e civiltà della storia umana. Ma, dal fondo silenzioso di quella città, dal buio della terra cimiteriale, i corpi possono risorgere con lo stigma dell’incorruttibilità che non possedevano prima, come avviene ne
La resurrezione della carne di Luca Signorelli, affresco amato e menzionato da Foucault nella prima versione dell’introduzione all’Archeologia del sapere, intitolata “Le livre et le sujet” (Cahier Foucault, L’Herne 2011), poi derubricata. E cosa permette questa resurrezione se non la più potente tra le utopie che vorrebbero elidere il corpo stesso? Appunto, il mito dell’anima, che alberga nel corpo, dal quale difende e preserva la sua purezza e al quale, alla fine, sopravvive.
Ma queste utopie fiabesche, metafisiche, religiose, non nascono, a guardar bene, dal rigetto della gabbia del corpo o dal cercare di fuggire alla sua fragilità e corruzione nel tempo, bensì, proprio dalla sua costitutiva ambiguità, di cui facciamo sempre esperienza. Già di suo il “mio” corpo è curiosa intersezione di visibile e invisibile, aperture e chiusure, opacità e luminosità: non posso vedere il mio occhio che vede; non posso vedere la mia schiena, la mia nuca, ma solo sentirle appoggiate o toccate; ci sono cavità insondabili che tuttavia comunicano con l’esterno; la mia stessa nudità integrale resta imponderabile e captabile solo per frammenti nel miraggio effimero dello specchio. E così questo corpo è pieno di risorse per la mia fantasia, per le mie proiezioni e “irrealizzazioni” immaginarie, come avrebbe detto Sartre.
Per giunta, scopro che il mio corpo è trascendenza, è sempre fuori di sé, non è mai veramente solo “qui”, come una cosa tra le cose, ma aperto, proteso, impegnato nel mondo e su ciò che esso gli offre, verso le cose che si dispongono e si ordinano rispetto a lui: a destra e a sinistra, in alto e in basso. È qui e altrove, è qui e verso le cose dello spazio esterno che può usare, manipolare, evitare, desiderare, immaginare, e, quindi, anche verso le cose che esistono senza avere un luogo reale, che non si trovano da nessuna parte, ovvero si trovano in spazi fuori dal mondo, meravigliosi, levigati, misteriosi, terrifici, utopici.
È il corpo l’“attore principale di tutte le utopie”, ci dice Foucault, quando, ad esempio, si maschera, si trucca, si colora di tatuaggi, si dilata nella danza, persino quando si veste, per entrare in comunicazione con poteri segreti, codici cifrati e forze invisibili: “È al centro del mondo - scrive ancora Foucault - questo piccolo nucleo utopico a partire dal quale sogno, parlo, procedo, immagino, percepisco le cose al loro posto e anche le nego attraverso il potere infinito delle utopie che immagino. Il mio corpo è come la Città del Sole, non ha luogo, ma è da lui che nascono e si irradiano tutti i luoghi possibili, reali o utopici”. Un fuoco di utopie, che, nate al suo interno, può rivolgere contro se stesso, si rivela, infine, allora, quel corpo che all’inizio avevo percepito in opposizione a ogni utopia.
Ma per Foucault esistono delle esperienze che, seppure momentaneamente, placano la tensione utopica del corpo, lo riportano a rinchiudersi su di sé, gli assegnano uno spazio che lo limitano: la morte, lo specchio, l’amore. Il mio cadavere e la mia immagine riflessa nello specchio restano degli “altrove” inaccessibili e mi costringono a fare corpo col frammento di spazio che è il mio corpo. Analogamente, “nell’amore il corpo è qui”, perché nell’intimità con l’altro o l’altra, sono le sue dita, le sue labbra, che rivelano il mio corpo a se stesso, in tutta la sua densità.
Come si situa, ora, questa narrazione sul corpo originariamente esposto al mondo, punto zero del mondo, in quanto punto in cui si convogliano tutti i punti di riferimento spaziali, immaginari, temporali, sempre fuori di sé, sorgente e volontà di utopia, nella topografia teorica e concettuale di Foucault?
Nel 1980, in occasione di un’importante pubblicazione americana a lui dedicata (H. L. Dreyfus, P. Rabinow, Michel Foucault: Beyond Structuralism and Hermeneutics, The University of Chicago Press 1982), Michel Foucault riassume il senso del lavoro svolto in due decenni come la ricerca storica su tre differenti modi di soggettivazione degli esseri umani nella nostra cultura.
Il soggetto che parla, vive, lavora, codificato dai discorsi che hanno vantato uno statuto scientifico. Il soggetto folle versus il soggetto normale, il malato versus il sano, il criminale versus il “bravo ragazzo”, così divisi dai dispositivi disciplinari e biopolitici. Infine, il soggetto che si costruisce nel rapporto di sé con sé, di cui l’ultimo Foucault rintraccia un esempio nelle forme della “cura di sé” dell’antichità greco-romana e ne auspica il reinnesto nel nostro tempo.
In tutti questi casi, il soggetto è immesso in “giochi di verità”, in altri termini è assoggettato oppure perviene a una verità su se stesso, comprendendosi, razionalizzandosi, dando uno sbocco teorico e pratico alla sua volontà di sapere la verità su se stesso.
Eppure, come ha messo bene in luce Davide Tarizzo (Il pensiero libero. La filosofia francese dopo lo strutturalismo, Raffaello Cortina Editore 2003), l’uomo foucaultiano reca con sé non solo l’impronta ontologica di un uomo orientato alla verità, ma anche quella di un fondo irriducibile di libertà, che lo porta, nel contempo, a non cristallizzarsi nei giochi di verità che l’oggettivano in un determinato soggetto, a resistere, a dislocarsi, a rimettere in movimento la sua stessa volontà di verità, di per sé inappagabile, per pensare, fare o essere diversamente.
Questa libertà, che Foucault non ha mai tematizzato direttamente ma sempre agitato come l’ombra dei processi di soggettivazione volta per volta descritti e storicamente contestualizzati, si esprime nella “follia” (intesa non come malattia mentale, “s-ragione”, ma come oscura sospensione del rapporto con la verità), come ragione critica, esemplare nella diagnosi kantiana dell’illuminismo, e, possiamo aggiungere, attraverso la dispersione e il potere utopico del corpo.
Sicché, se è vero che Foucault ha messo al centro delle sue ricerche non il potere ma il soggetto, come egli stesso ha rivendicato in modo insistente negli anni precedenti la sua prematura scomparsa, non avremmo tutti i torti a pensare che questo equivalga a dire che al centro delle sue ricerche c’è la libertà, considerato che, come scrive sempre nel suo contributo al libro di Dreyfus e Rabinow, “nel cuore della relazione di potere, e a provocarla costantemente, c’è la resistenza della volontà e l’intransigenza della libertà”.
Filosofia politica
Una società civile e religiosa
In «Verbalizzare il sacro» Habermas dice che lo Stato liberaldemocratico è secolare mentre la religiosità va sviluppata nella società
di Sebastiano Maffettone (Il Sole-24 Ore, Domenica, 05.06.2016)
Jürgen Habermas è il più grande pensatore sociale e politico vivente. Tedesco, professore emerito presso l’Università Goethe di Francoforte, è autore prolifico oltre misura (credo che nessuno sia riuscito a leggere tutto quello che ha scritto). La cosa notevole, però, è che a tanta quantità Habermas aggiunge una profondità e direi una densità di pensiero ineguagliabili.
Ciò rende la lettura di ogni suo libro - anche per chi come il sottoscritto lo conosce da decenni - un’impresa ardua. Quasi sempre, però, lo sforzo viene ricompensato da quanto si apprende leggendolo. Questa premessa sarebbe necessaria per tutte le opere del nostro, ma lo è particolarmente per questo suo volume dedicato a Verbalizzare il sacro.
Ciò per almeno tre ordini di motivi: (i) il tema dell’uso pubblico della religione è centrale nell’ambito del pensiero politico contemporaneo; (ii) il libro in questione è un misto di scritti programmatici e di scritti di occasione (risposte ai critici, interviste, commenti ad altri autori); (iii) nelle tre parti in cui il volume e diviso il tema dell’uso pubblico della religione appare trattato in maniera diversa, anche se ovviamente con sovrapposizioni non banali.
Di questi tre punti, ritengo si possa evitare di discutere il secondo che pure rappresenta una difficoltà per il lettore, anche perché - come nel caso dell’intervista a Mendieta - Habermas riesce talvolta negli scritti minori a dire le stesse cose che sostiene in quelli maggiori ma in maniera più esplicita e diretta. Restano i punti (i) e (iii), che sono tra l’altro collegati tra loro. Cominciamo dall’uso pubblico della religione in quanto tale, inteso come possibilità di adoperare temi e linguaggi di ispirazione religiosa nell’ambito del dominio politico.
Da questo punto di vista, Habermas ripete all’incirca quanto sostenuto da Rawls in Liberalismo politico: lo stato liberaldemocratico è e deve essere secolare, ma lo stesso non vale per la società civile. Quest’ultima si rivela spesso e volentieri permeata di religiosità, e non si può pretendere che le visioni religiose dei cittadini siano oscurate in politica. Questa situazione di fatto rende necessaria una qualche forma di traduzione del discorso religioso quando diventa istituzionale. Cosa che vale per altro anche per il discorso laico ideologicamente interpretato.
Fin qui, dunque, niente di nuovo sotto il sole, se non la consueta capacità di Habermas di esplorare il problema in tutta la sua complessità, facendo per esempio ricorso anche al lavoro dei teologi.
Le cose si complicano, invece, quando prendiamo sul serio gli altri due approcci che Habermas affronta con l’usuale dovizia di argomenti. Si tratta della teologia politica alla Carl Schmitt, su cui il nostro è sostanzialmente liquidatorio (definisce Schmitt «il giurista del Führer»).
Interessantissimo, ma oltremodo complesso, è infine il terzo approccio alla questione, sarebbe a dire il modo in cui il rito di ispirazione religiosa apre a quel mondo della vita da cui dipendono i processi di identità individuali e collettivi. Su questo punto l’invito è a una riflessione ulteriore che potrebbe coinvolgere il meglio del pensiero politico anche in Italia.
Le regole della libertà nascono dal riconoscimento
SAGGI . «L’idea di socialismo» del filosofo tedesco Axel Honneth per Feltrinelli. Le proposte di rilancio di una politica di emancipazione sociale passano attraverso un sistema di diritti. Un’analisi sulle ragioni della sconfitta che evita la visione consolatoria di individuarle nel crollo del socialismo reale
Gianpaolo Cherchi (il manifesto, 27.05.2016)
La veloce transizione odierna verso forme di democrazia illiberale, accompagnata da un tutt’altro che anomalo ritorno del nazionalismo populista (soprattutto in seguito al recente boom elettorale del Fpoe in Austria, giunto dopo le vittorie delle destre sovraniste in Ungheria, Polonia e Francia), se da un lato sembra fare terra bruciata attorno ad ogni possibilità di trasformazione sociale, dall’altro ha reintrodotto la necessità di tornare a parlare di socialismo, con il recupero del termine da parte di Bernie Sanders, che lo ha posto al centro della sua campagna elettorale per le prossime elezioni presidenziali.
Trattato spesso come un relitto vergognoso del passato, e relegato per troppo tempo all’ambito ristretto e autoreferenziale del dibattito accademico, il socialismo sembra suscitare oggi un nuovo interesse, e la recentissima pubblicazione in italiano dell’opera di Axel Honneth, uno dei più acuti filosofi contemporanei e voce più autorevole dell’odierna Scuola di Francoforte, dal titolo L’idea di socialismo. Un sogno necessario (Feltrinelli, p. 154, euro 18), è da accogliere con curiosità e interesse. Il suo contributo giunge in un momento storico caratterizzato da un profondo iato fra la consapevolezza di ciò che risulta scandaloso e insostenibile nell’attuale condizione sociale e la contemporanea incapacità di presentare elaborazioni critiche che possano indicare una possibile direzione per una sua trasformazione.
Tale assenza di prospettive non può essere imputata unicamente alla fine della Guerra Fredda e al crollo dei regimi del socialismo reale, come vuole una interpretazione ormai classica e allo stesso tempo screditante del socialismo, che ancorando il nucleo di quell’idea all’esperienza storica dell’Unione Sovietica, riesce a trovare terreno fertile per decretarne la definitiva bancarotta non soltanto pratica ma anche teorica. La causa della sua inattualità deve essere ricercata, secondo Honneth, volgendo uno sguardo al passato, ritornando quindi alle elaborazioni teoriche di Owen, Fourier, Proudhon e Marx: in questo modo è possibile comprendere i motivi del deficit di appeal cui il socialismo è andato incontro, e comprendere quali siano le trasformazioni teoriche necessarie per far sì che esso possa tornare a persuadere i soggetti del fatto che ciò che oggi appare come assolutamente necessario e ineluttabile «potrebbe invece essere trasformato e migliorato grazie all’impegno collettivo».
Fin dalla sua elaborazione originaria il socialismo avrebbe infatti precluso a sé stesso la possibilità di un riconoscimento normativo nella misura in cui, in linea generale, i soggetti collettivi e i singoli avrebbero dovuto acquisire la libertà sociale solo ed esclusivamente mediante la loro produzione e collaborazione cooperativa, senza preoccuparsi della propria autodeterminazione individuale.
Il binario su cui si svolge il discorso di Honneth è dunque quello dell’intreccio fra le esigenze di trasformazione sociale da un lato e il loro riconoscimento normativo dall’altro. Già fin dalla pubblicazione di Capitalismo e riconoscimento (Firenze University Press), e ancor di più ne Il diritto della libertà (Codice edizioni), il filosofo aveva mostrato come le trasformazioni sociali debbano oggi essere giocate sul piano dei diritti, e dunque all’interno di un orizzonte di riconoscimento codificato da norme. Ne L’idea di socialismo Honneth tenta allora di applicare questa metodologia del riconoscimento normativo attraverso il recupero della filosofia del diritto hegeliana, per mezzo della quale vi sarebbe la «possibilità di pensare i diritti di libertà liberali non come ostacoli, ma piuttosto quali premesse necessarie di tutte quelle libertà sociali» cui il socialismo aspira e che, tuttavia, si sarebbe impedito da solo di realizzare.
Il quadro che emerge dall’analisi di Honneth è quello di un socialismo che deve guardare al sistema capitalistico come ad un’opportunità, come «una forma istituzionale trasformabile e in costante mutazione, di cui si possa testare la riformabilità anzitutto per mezzo di esperimenti reiterati». Il socialismo può essere ancora attuale (questa la conclusione cui Honneth perviene) solo se è in grado di rintracciare il futuro laddove «alcuni elementi dell’agognato progresso nella estensione della libertà sociale sono già precipitati in conquiste istituzionali, in modifiche legislative e in cambiamenti di opinione ormai forse stabilmente acquisiti».
Se l’appello alla sfera dei diritti non è nuovo nell’ambito della teoria socialista (basti pensare a Lefebvre), la proposta teorica di Honneth manifesta tuttavia i propri limiti nella misura in cui il meccanismo di riconoscimento normativo avviene unicamente attraverso una regolazione istituzionale, la quale deve tuttavia tenere ferme le esigenze di governamentalità del sistema. A gettare ulteriori dubbi sulla effettiva possibilità di riformare il sistema per via istituzionale vi è l’esperienza delle sinistre di governo, le quali hanno privilegiato in misura sempre maggiore l’impegno per i diritti civili a discapito della tutela dei diritti sociali, relegati sempre più sullo sfondo e progressivamente distrutti. Sarebbe perciò sufficiente una piccola rotazione di prospettiva per recuperare la possibilità critica di una trasformazione sociale, ovvero svolgendo la lotta per i diritti non sul terreno normativo del riconoscimento, ma su quello ben più decisivo e risolutivo di una resistenza votata all’affermazione e all’appropriazione.
L’eterno ritorno del teorema Foucault
La riscoperta (anche editoriale) del filosofo che più di ogni altro ha scavato nei meccanismi punitivi e seduttivi del potere
“Quando Michel entrava in una stanza provocava un campo magnetico”, racconta Gilles Deleuze
Fa sue e poi supera le lezioni di Hobbes e di Nietzsche applicando alcune loro intuizioni al sistema capitalistico
di Roberto Esposito (la Repubblica, 19.05.2016)
Gilles Deleuze racconta che Michel Foucault non era percepito come una persona, ma come un moltiplicatore di effetti: «Quando entrava in una stanza provocava un cambiamento di atmosfera, una specie di evento, si determinava un campo elettrico o magnetico». A questa capacità di modificare opinioni consolidate, di sollecitare nuovi sguardi sulla realtà, è legata la forza e la durata del suo pensiero. Certo, la sua influenza si è spostata di livello nel corso del tempo. Se negli anni Settanta, quando egli stesso era impegnato nella lotta per la riforma delle istituzioni carcerarie, ha influenzato in maniera diretta soggetti e movimenti politici, successivamente la sua voce è parsa affievolirsi nell’ambito della sfera pubblica. Ma poi, poco alla volta, è tornata a insediarsi al centro del dibattito teorico, fino a diventare forse la più influente nella filosofia continentale.
A cosa si deve tale presenza? E, più in generale, cosa resta oggi vitale all’interno della sua opera? La traduzione del Corso al Collège de France del 1972-73, edita per Feltrinelli con il titolo La società punitiva, a cura di Pier Aldo Rovatti e Deborah Borca, con una postfazione di Bernard Harcourt, può costituire l’occasione per rispondere a questi interrogativi.
Quel corso, anticipando i temi del libro apparso due anni dopo, Sorvegliare e punire, è dedicato a una ricerca sul ruolo sociale dell’istituzione carceraria a partire dagli inizi dell’Ottocento. Ma, come sempre avviene in Foucault, l’analisi storica, o più propriamente genealogica, sul passato, getta un intenso fascio di luce sul presente. È questo singolare incrocio tra erudizione profonda e potenza teoretica, tra storia e attualità, il tratto più caratteristico del suo pensiero, che ne fa il riferimento obbligato per l’apertura di sempre nuovi cantieri di ricerca.
Il punto di partenza del libro è la domanda su quali siano i rapporti di potere che, alla fine del XVIII secolo, hanno reso possibile l’emergenza storica di qualcosa come la prigione. Prima di allora essa esisteva, ma con una funzione più detentiva che punitiva. Mentre le punizioni si inscrivevano sul corpo del colpevole con un effetto terribilmente teatrale - gogna, rogo, supplizi, esecuzioni di piazza - a partire dai primi dell’Ottocento l’intero sistema penale inizia a ruotare intorno al sistema carcerario. Più che alle teorie riformiste in campo penale, come quelle di Beccaria e di Brissot, tale trasformazione risponde per Foucault a un’esigenza funzionale dell’organizzazione capitalistica. Benché la prigione non facesse affatto diminuire il numero dei criminali, anzi spesso lo aumentasse, essa aveva un doppio ruolo strategico nella società del tempo. Quello di controllo e sorveglianza. E quello di un disciplinamento sociale della manodopoera confacente al modo di produzione capitalistico.
A partire da tali premesse prendono forma gli elementi più generali di ciò che, adoperando un suo stesso termine, potremmo definire il “dispositivo Foucault”. Al suo centro vi è un decisivo spostamento nell’analitica del potere, che prende le distanze da tutte le interpretazioni classiche. Il primo passaggio di paradigma riguarda la sua relazione intrinseca con ciò che Foucault chiama “guerra civile”. Diversamente da quanto sostiene Hobbes, il potere non solo non interviene per mettere fine al conflitto, ma da esso si genera, prima di riprodurlo a sua volta. La guerra civile non coincide con lo stato naturale, ma è interna e costitutiva dell’ordine politico. Ciò non significa che il ruolo di legittimazione della legge venga meno, ma esso, anziché situarsi a monte, è l’esito delle lotte e dei rapporti di forza che di volta in volte queste determinano.
Il secondo vettore che dal testo di Foucault si irradia nella filosofia contemporanea è costituito da una radicale applicazione del programma avviato da Nietzsche ne La genealogia della morale. All’origine della transizione del sistema penale dalla messa in morte pubblica nell’ancien régime alla carcerazione moderna vi è la moralizzazione della criminalità operata dai quaccheri che, in rottura con la tradizione inglese della pena di morte, affidano alla prigione un compito di redenzione del condannato.
È a partire dalla secolarizzazione di tale concezione che la borghesia crea una società disciplinare destinata a reprimere ogni deviazione rispetto alle nuove esigenze produttive. In questo modo l’antico dissidente diventa un vero e proprio criminale. Egli non è più punito perché offende il re, ma perché ostacola il meccanismo di produzione sociale. È allora che gli illegalismi dei ceti più poveri, prima tollerati o addirittura favoriti nelle pieghe del codice giuridico, vengono repressi e sanzionati con una sorta di legge del contrappasso: come il salario compensa il tempo del lavoratore regolare, così il carcere sequestra il tempo di chi rompe le norme sociali, condannandolo all’inoperosità.
A questo spostamento dal regime sovrano - ancora legato ai rituali dei pubblici supplizi - alla società disciplinare, volta al controllo normativo delle anime e dei corpi, si connette il terzo orientamento che gli studi contemporanei assorbono dalla lezione di Foucault. Si tratta dello spostamento dell’analisi del potere dai piani alti della politica a quello, meno in vista ma più esteso, delle dinamiche sociali. Il potere non passa solo per gli apparati ideologici dello Stato, come voleva Althusser, ma anche e soprattutto per i luoghi quotidiani della famiglia, del lavoro, della sessualità, della scuola. Esso non si concentra in un singolo punto, ma è diffuso lungo tutto lo scenario della vita quotidiana.
Nel successivo saggio La volontà di sapere e nei contemporanei corsi sulla biopolitica il progetto di Foucault trova la sua espressione più compiuta, investendo l’intero ambito dell’esperienza contemporanea. Il potere va colto, assunto o combattuto, non tanto nel suo effetto repressivo, ma in quello produttivo. Ciò che conta non è quanto impedisce, ma quanto sollecita. Non i suoi divieti, ma le sue seduzioni. Non è questo l’enigma intorno al quale ruota ancora la nostra vita, senza riuscire a venirne a capo?
Sentieri critici. Un percorso di letture, alcune cruciali e altre discutibili, sull’opera di Michel Foucault, a partire dal confronto aperto con Marx che invita a un controverso «corpo a corpo»
di Girolamo De Michele (il manifesto, 11.02.2016)
La pubblicazione degli ultimi corsi e alcuni convegni hanno reso densa la bibliografia critica su Michel Foucault: dai volumi collettivi Usages de Foucault e Marx & Foucault a Le sujet des normes di Macherey, dalla monografia di Chignola Foucault oltre Foucault ai capitoli foucaultiani di Confini e frontiere di Mezzadra e Neilson e di La razón neoliberal. Economía barrocas y pragmática popular di Verónica Gago. Prova a staccarsi da questo panorama il volume curato da Daniel Zamora Critiquer Foucault. Les années 1980 et la tentation néolibérale (edizioni Aden, Paris), che si propone di svelare, attraverso la comprensione degli «anfratti più ambigui della gauche intellettuale», una compromissione con il pensiero neoliberale di Foucault nel suo «ultimo periodo di lavoro», che sarebbe «relativamente poco sottolineata e spesso ignorata», e che sarebbe un significativo indice della deriva della gauche post-68.
In verità, è curiosa la descrizione di un Foucault misconosciuto in un volume del quale sono parte preponderante Michael C. Behrent, Michael S. Christofferson e Jan Rehmann, dei quali le critiche a Foucault sono note da anni: tant’è che buona parte del volume è costituito da testi già pubblicati lo scorso decennio, o riscritture di cose già dette. Vale a dire: testi che precedono non solo il «Foucault greco» (falsificandolo in una sorta di riposo del guerriero conseguente alla sua abdicazione neoliberale), ma anche i corsi sulle istituzioni penali e la società punitiva, dai quali si evince la presenza di Thompson e Porchnev nelle letture del Foucault preteso pre-politico.
Insomma, un «ultimo Foucault» che inizia e finisce dove piace ai suoi «demistificatori». Cui si aggiunge spesso il mancato uso sistematico dei Dits et écrits, sostituiti da un utilizzo dei testi e delle citazioni secondo il metodo dei morceaux choisis. Così del corso sulla biopolitica Behrent fornisce una faziosa genealogia, che elenca l’ingresso in Francia del neoliberalismo senza fornire alcun nesso causale fra le traduzioni di Hayek e Friedman e il lavoro di Foucault: si allude a una concomitanza che si insinua essere non casuale, omettendo di ricordare che quegli stessi anni coincidono con episodi di militanza attiva, o con intense attività seminariali delle quali esiste una testimonianza inoppugnabile in un lontano e prezioso fascicolo del 1978 di «aut aut» (n. 167-168).
Così come viene riscritta la biografia intellettuale di Foucault con scivoloni marchiani, come quello che accade a Christofferson per aver preso per buona senza verifica l’affermazione che «le parole capitalista e proletariato non appaiono in alcuna opera di Foucault prima del 1970» (Eric Paras): affermazione falsa - e molte sorprese avrebbe lo sciatto lettore se cercasse anche bourgeois, o addirittura Marx; e soprattutto che non comprende l’intrinseca politicità del Foucault studioso degli enunciati e dei rapporti fra cose e parole.
Quanto alla tentazione neoliberale, essa è resa credibile con lo scorporo del corso del 1979 da quello del 1976, nel quale Foucault chiariva l’intenzione di avviare, enunciando delle fondamentali «precauzioni di metodo», a un’analitica del potere tutt’altro che accondiscendente; di scorporare il corso sulla biopolitica dal conseguente sviluppo in direzione dei processi di soggettivazione non solo come assoggettamento, ma altresì come resistenza al potere; e di spacciare la lettura del neoliberalismo - o l’analisi della dottrina fiscale di Stoléru (Zamora) - per un’adesione ideologica. Ignorando, come sottolinea Laval nel suo contributo a Usages de Foucault, che Foucault ha chiarito in un’intervista inedita recuperata dallo stesso Laval (ma anche in Non au sex du roi, compreso nei Dits et écrits), come la sua «analisi positiva» delle forme di potere, in analogia con le pagine di Marx sulla questione dei furti di legna, non comporta alcun giudizio favorevole agli «aspetti negativi» del liberalismo, ma al contrario la loro comprensione come «effetti negativi di una nuova figura di potere».
Lotte trasversali
È Rehmann a esemplificare, suo malgrado, il livello di questa pretesa critica, laddove, riferendosi a Bread and roses di Ken Loach, osserva che lo spettatore «avrebbe difficoltà a identificare le sottili tecniche di condotta di sé, ma vi troverà molte caratteristiche di un feroce «dispotismo del capitale» che gli studi foucaultiani bypasserebbero (con buona pace di Chakrabarty, che si serve proprio di Foucault per attualizzare quel concetto marxiano). Il fatto è che Foucault non negava (si veda il dibattito con Chomsky del 1971) il carattere classista dello sfruttamento: aggiungeva però che la determinazione economica, da sola, non è sufficiente a individuare i luoghi e le forme in cui si esercita questo «potere di classe».
È Rehmann, per contro, a non riuscire a vedere i processi di soggettivazione presenti nel bel film di Loach: dalle lotte dei migranti nel settore dei servizi che mettono in questione la centralità e le pratiche del sindacalismo tradizionale, alle soggettivazioni di genere e alle pratiche di assoggettamento. Ciò che sfugge a questi critici è che il corso sulla biopolitica non chiude, ma riapre la ricerca foucaultiana: in direzione del rapporto fra liberalismo, biopolitica e regimi di veridizione, e del rapporto fra neoliberalismo, ragione calcolante e società del controllo.
Tutta qui, dunque, la loro capacità interpretativa? Sì e no. Perché se gli strumenti sono davvero rugginosi e spuntati, il vero scopo di questo libro appare piuttosto la costruzione di una grunf-filosofia al servizio di quella politica grunf-grunf che vede nelle forme di lotta e conflitto del tempo presente il tradimento di un programma materialistico in stile-Diamat, del quale si indicano i responsabili in Foucault e nei Nietzscheani di sinistra - così Rehmann nel libro omonimo, non per caso introdotto in Italia da Stefano Azzarà, da anni intento a riscrivere il capitolo su Nietzsche del De Ruggero-Canfora. Quasi che non sia stato Foucault a studiare le lotte trasversali al loro manifestarsi, ma i soggetti di queste lotte ad aver agito sobillati dalla lettura di Foucault, Nietzsche e Deleuze.
Non stupisce allora che sia l’autore del saggio più teoreticamente debole, Jean-Loup Amselle, a costruire (come fece Cacciari nel 1977) una «sinistra post-moderna» a suo uso e consumo nella quale ribollono assieme Negri e Aubry, Agamben e Halloway, Occupy Wall Street e gli Indignados, la cui strategia riformista consisterebbe nella svendita all’austerità e all’abbattimento dei livelli di vita in cambio di qualche «leccalecca» come il matrimonio per le coppie omosessuali.
Nondimeno, questi autori sfiorano una questione aperta: quella del mancato incrocio tra Foucault e il marxismo. Che non avvenne perché in Francia il marxismo «ufficiale» reagì chiudendosi a testuggine verso quegli intellettuali che ne mettevano in discussione i presupposti ortodossi, a partire dalla centralità della nozione di soggetto. La stessa polemica contro lo strutturalismo fu caratterizzata dalla creazione di un oggetto polemico, nel quale erano unificati Lacan, Althusser, Lévi-Strauss e Foucault, in reazione al tentativo di rinnovamento del pensiero di Marx. In altri termini, quel marxismo, costretto a «mollare la presa» di una critica che non poteva più tenere al guinzaglio, difendeva con ottusa protervia la Fortezza Bastiani da quel «fertile sconvolgimento dell’orizzonte scientifico dei rivoluzionari» in atto - così Negri nel 1978 - al quale anche Foucault contribuiva.
Il potenziale dirompente
Diversa era la situazione in Italia, dove un altro marxismo aveva cominciato a dialogare con Foucault - attraverso la rivista «aut aut», ma anche in quelle pagine del Marx oltre Marx dove Negri descriveva la circolazione e distribuzione delle merci come distribuzione analitica delle funzioni di potere, concatenando di fatto un certo Marx col Foucault dell’analitica del potere. Come sia stata interrotta quella ricerca teorico-pratica, è noto. Ma quei fili erano destinati a riallacciarsi, e di fatto cominciano ad esserlo: lo testimoniano i testi già citati, e in particolare quelli del colloquio Marx & Foucault curati da Laval, Paltrinieri e Taylan. Dove al Foucault lettore di Marx, con saggi, in particolare quelli di Chignola e Laval, che praticano già un uso marxiano di Foucault, succedono tentativi, spesso riusciti, di avviare una rilettura di Marx a partire da Foucault (Negri, Sibertin-Blanc, Dardot, Giardini).
Non si tratta di elevare la foucaultiana diagnostica del presente a un «insieme di consegne che il filosofo-maestro di verità donerebbe ai suoi discepoli», come sottolineano nel proprio intervento - che conclude il volume - Nicoli e Paltrinieri, ma di usare la critica per mostrare «il potenziale dirompente e le trappole che minacciano la pratica delle lotte», senza reintrodurre la figura dell’intellettuale che pretende di sottomettere le lotte alle ingiunzioni di verità: per quello, i grunf-grunf bastano e avanzano.
Il tempo della guerra e il tempo della storia
di Massimo Campanini (Il Mulino, 23 novembre 2015)
È venuto il tempo della guerra, pare, ma è venuto anche il tempo della parresia. Del dire la verità. Michel Foucault, nella prolusione di apertura dei suoi corsi al Collège de France nel 1970, come sempre avanzava un’idea geniale ma, come al solito, non arrivava a trarne tutte le conseguenze. Da una parte, infatti, notava giustamente che uno dei più potenti meccanismi di controllo e di esclusione esercitati dal potere nella società contemporanea è quello della manipolazione del discorso e del controllo sulla parola. D’altro canto, l’esigenza che sottende al dire, l’esigenza che spinge gli uomini a parlare è la volontà di verità, ma questa volontà di verità - e qui Foucault sbagliava - avrebbe l’implicazione negativa di alimentare l’esclusione, grazie al suo stesso essere assertivo. In parte ciò è vero, ma se non si cerca la verità, o almeno “una” verità provvisoria, per manifestarla con la parola, come si può riuscire a smascherare il meccanismo del controllo e dell’esclusione?
È quello che accade oggi con l’islam su cui l’unico discorso veramente lecito è quello dell’esecrazione e del sospetto, sulla base della convinzione che si tratti di un pericolo mortale per la civiltà (dell’Occidente ovviamente, come se ce ne fosse una sola). Se volessimo applicare la parresia che viene stimolata dalla volontà di verità, potremmo ritornare alla conoscenza e alla storia, e accorgerci che ciò che sta accadendo a partire dagli anni Novanta del secolo scorso non è l’erompere irrazionale di forze magmatiche che risalgono dalle profondità dell’inferno, di un inferno dove Maometto veniva atrocemente punito da Dante come seminatore di scisma (nel Medioevo l’islam era spesso dipinto come un’eresia cristiana). Il jihadismo invece ha una storia, un perché.
L’opinione pubblica in Occidente si ferma attonita davanti ai suoi morti, ma deve imparare a ragionare freddamente, deve imparare a individuare le radici della malattia per combatterla. E queste radici non stanno nell’intrinseca violenza dell’islam come farneticano alcuni intellettuali, politici e opinion makers. Anche se ci volessimo fermare al testo base, il Corano, disconoscendo le conquiste di scienza, d’arte e di pensiero dell’islam lungo quindici secoli, il Corano contiene sì versetti bellicosi, ma anche versetti come il seguente: «O uomini, invero Noi [è Dio che parla, NdA] vi abbiamo creato da un maschio e da una femmina e abbiamo fatto di voi popoli e tribù perché vi conosceste a vicenda» (49,13). Dunque, il pluralismo e il rispetto reciproco sono voluti da Dio, sono insiti nell’islam.
Pertanto non vale richiamare ridicoli parallelismi tra il Corano e il Mein Kampf, se non si dice la verità storica, se non si formula un discorso storico che smaschera il meccanismo dell’esclusione. Perciò è necessario cominciare col colonialismo tra Ottocento e Novecento, con l’espropriazione violenta della libertà e della cultura dei popoli afro-asiatici (e musulmani) in seguito all’espansione imperialistica. L’impatto violento, attraverso il colonialismo, sulla visione del mondo musulmana da un lato le ha fatto (in parte) smarrire l’identità, dall’altro ha suscitato reazioni di antagonismo anche radicale.
L’atteggiamento colonialista dell’Occidente in realtà non è mai finito, anche dopo che i Paesi musulmani hanno conquistato l’indipendenza. La pesante ingerenza euro-americana in Medioriente, fino agli ultimi anni, dall’Afghanistan all’Iraq alla penisola araba, ha dato una motivazione a Bin Laden nell’organizzare al-Qaeda. Il jihadismo si è poi alimentato nel marasma delle dissoluzioni delle statualità mediorientali, come in Libia, in cui la caduta di Gheddafi è stata determinata decisivamente dall’intervento franco-britannico.
Nello stesso orizzonte si colloca naturalmente la questione israelo-palestinese, una ferita mai sanata dal 1948 (nascita dello Stato di Israele) fino ad oggi, con tutto quanto ha comportato in termini di guerre, destabilizzazione regionale, sradicamento di popoli, fronti del “rifiuto”.
Sul piano interno ai Paesi arabi-musulmani, i regimi dittatoriali - per decenni sostenuti proprio dall’Occidente che ipocritamente predica una democrazia a suo uso e consumo - hanno annientato la società civile, rendendola fragile e incapace di sviluppare anticorpi efficaci contro la negazione dei diritti. E infine, last but not least, una devastante crisi economica e sociale, favorita dall’applicazione di un liberismo selvaggio, iniziata già a partire dalla fine degli anni Settanta, ha depauperato le classi medio-basse.
In questo humus, la propaganda aggressiva di predicatori estremisti, il richiamo al jihad di organizzazioni spesso, se non create, alimentate per fini egemonici da Paesi strategicamente importanti (leggi l’Arabia Saudita), l’insipienza della strategia occidentale (leggi la miope emarginazione dell’Iran) e le stesse divisioni interne tra i Paesi chiave (come gli Stati Uniti e la Russia) hanno preparato il terreno a un incancrenirsi del jihadismo che rischia di affascinare ampi settori di popolazione, soprattutto giovanile, disadattata e in cerca di un Welfare che la società di mercato non offre più.
La parresia storica dunque fornisce una chiave di interpretazione credibile e non semplicistica. La ponderazione degli elementi che compongono questo quadro, la correzione delle storture che ne emergono sono gli unici veri mezzi per andare alle radici di quello che chiamiamo, con un termine che non spiega nulla, ma si limita ad accrescere spavento e insicurezza, “terrorismo”. A ciò dovranno aggiungersi la conoscenza e l’educazione, nelle scuole, nelle università, nei mass-media che plasmano l’opinione pubblica ma che finora consentono, come diceva Foucault, un solo tipo di discorso lecito.
Attualità delle Lettere persiane
Rileggere Montesquieu
Cosa rischiano i paesi dell’Occidente se cedono al fascino del modello cinese di capitalismo antidemocratico
di Gabriele Pedullà (Il Sole-24 Ore, Domenica, 25.10.2015)
Pochi filosofi del passato sono presenti nella nostra vita di tutti i giorni quanto Montesquieu. Le nostre costituzioni sono modellate sul principio della separazione dei tre poteri, legislativo esecutivo e giudiziario (formulata per la prima volta nello Spirito delle leggi). Ogni discorso sulla possibilità di esportare la democrazia nei paesi non occidentali è, consapevolmente o meno, debitore delle sue riflessioni sul dispotismo.
Ma anche quando ci confrontiamo con un libro e un film che adopera deliberatamente un punto di vista “alieno” per presentarci un ambiente o un mondo, secondo il così detto principio dello “straniamento”, è soprattutto alla grande lezione di Montesquieu che, una volta di più, conviene risalire, e al suo capolavoro romanzesco, Le lettere persiane, con la geniale intuizione di rappresentare l’Europa del primo Settecento attraverso le impressioni di un piccolo gruppo di viaggiatori orientali. Al posto dei persiani potremo incontrare un bambino, un extraterrestre o magari un migrante pakistano, ma il meccanismo - da allora ripetuto infinite volte - rimane essenzialmente lo stesso. Il Sé colto nell’occhio dell’Altro.
Come tutti i grandi pensatori, Montesquieu rischia però di essere ricondotto a una manciata di idee e di formule di straordinario impatto. Il migliore antidoto, in questi casi, è sempre tornare direttamente ai testi, e per farlo oggi disponiamo di uno strumento straordinariamente utile: la recentissima edizione di tutte le opere del presidente del parlamento di Bordeaux approntata da uno dei suoi massimi specialisti, Domenico Felice.
Il volume comprende, tra l’altro, tutti e tre i capolavori di Montesquieu: per l’appunto, Le lettere persiane (1721), Le considerazioni sulla causa della grandezza e della decadenza dei Romani (1734) e Lo spirito delle leggi (1748); un secondo tomo, con tutti i testi pubblicati dopo la morte di Montesquieu (abbozzi, frammenti, progetti incompiuti) dovrebbe uscire a breve, offrendo ai lettori italiani quella che è destinata a rimanere per lungo tempo l’edizione di riferimento, anche in virtù del ricco apparato di note e del testo originale francese a fronte.
Il saggio introduttivo di Felice costituisce da solo una piccola monografia, dove la militanza pluridecennale del curatore negli studi su Montesquieu si coglie soprattutto dal modo in cui riesce a far dialogare i testi più celebri e più vulgati con una miriade di altri scritti noti esclusivamente a chi da molto tempo ha eletto le sue opere a propria residenza permanente. In particolare, anche se forse Felice non tributa sempre al talento di romanziere di Montesquieu tutte le lodi che esso merita e preferisce insistere sui contenuti della sua unica ma mirabile prova narrativa, è assai importante che questa edizione rivendichi con forza la sostanziale unità dell’opera del pensatore francese.
Qui potrà essere aggiunto almeno un altro tassello. Le lettere persiane sono lette tradizionalmente come un geniale gioco di rovesciamento a due termini: l’Europa e l’Asia, l’Occidente e l’Oriente, dove il mondo cristiano cui appartiene Montesquieu viene osservato, parzialmente frainteso ma anche sostanzialmente demistificato dall’apparizione di un Altro che si rivela capace di comprenderlo proprio in virtù della propria estraneità.
Bene, in realtà, a leggerlo attentamente, il romanzo chiama in causa un terzo polo decisivo: la moglie del saggio viaggiatore persiano Uzbek, rinchiusa assieme ad altre compagne di sventura nel suo serraglio privato. Alla fine del volume Roxane, che nel frattempo ha ingannato e tradito Uzbek, si suiciderà, non senza però aver inviato prima al marito una lettera nella quale smaschera a sua volta la sua apparente giustizia. Pure il saggio straniero si rivela allora nella sua natura di despota; ma con questo ribaltamento Montesquieu sembra anticipare in chiave romanzesca quello che sarà il principio guida dello Spirito delle leggi: un potere senza limiti (come quello di cui Uzbek dispone sulle mogli-schiave del suo harem) è sempre cattivo, anche se a esercitarlo fosse il re-filosofo di Platone.
Eppure leggere oggi Montesquieu può essere importante non solo per ripercorrere la genealogia di alcune idee contemporanee o per passare qualche decina di ore in compagnia di una intelligenza superiore. I problemi di Montesquieu ci riguardano perché ci aiutano a vedere anche con più chiarezza ciò che i paesi occidentali potrebbero perdere per effetto del crescente fascino che il modello cinese di capitalismo anti-democratico esercita su fasce sempre più estese delle élite economiche internazionali.
In un libro recente, forse la più acuta diagnosi della cesura provocatasi all’interno della tradizione liberale con l’avvento del così detto neo-liberalismo, Pierre Dardot e Christian Laval hanno mostrato come il modello della nuova razionalità politica promosso dai discepoli di Lippmann, von Mises e von Hayek non sia lo sguardo reciproco del bilanciamento dei poteri di Montesquieu ma il Panopticon e il Codice costituzionale di Bentham.
Bentham, un democratico radicale, aveva teorizzato infatti una prigione nella quale tutti i presenti si sentissero sempre potenzialmente spiati da un unico guardiano posto al centro di una immaginaria circonferenza e un ufficio nel quale i dipendenti venissero perennemente osservati dalla popolazione nello svolgimento dei loro compiti.
È a questo modello di sorveglianza (sterilizzato dei suoi tratti politici democratici e radicali) che secondo Ducrot e Laval si ispirano le retoriche attuali dei nuclei di valutazioni, delle agenzie di controllo e del rating che stanno ridisegnando le nostre istituzioni e pratiche politiche, consegnando il potere a una casta di controllori a loro volta sottratti a ogni controllo. Esattamente il contrario del modello teorizzato da Montesquieu sul quale (almeno formalmente) ancora si reggono le nostre costituzioni.
Ducrot e Laval sono due marxisti foucaultiani e Montesquieu non figura tra i loro punti di riferimento. Eppure - viene da pensare - proprio dalle sue pagine avrebbero potuto trarre più di un suggerimento per il loro ammirevole La nuova ragione del mondo (DeriveApprodi).
Nelle ricostruzioni storiografiche tradizionali Montesquieu è il pensatore dei liberali, laddove la tradizione socialista ha preferito guardare piuttosto a Rousseau e alla sua teoria, in fondo già così romantica, della “volontà popolare”.
Oggi però siamo finalmente in grado di vedere come Montesquieu sia stato invece probabilmente il più conseguente continuatore (per quanto in chiave moderata) del grande progetto di repubblicanesimo radicale di Niccolò Machiavelli.
Le parole d’ordine sono le stesse: rifiuto di qualsiasi potere sprovvisto di vincoli (per Machiavelli l’eccezione necessaria è il legislatore al momento della fondazione o rifondazione dello stato); accorto bilanciamento dei poteri attraverso la costituzione mista già teorizzata, tra gli antichi, da Polibio e soprattutto da Dionigi di Alicarnasso; valutazione positiva dei conflitti intestini regolati (un’altra idea di Dionigi lasciata da Machiavelli in eredità al pensiero politico moderno).
Il risultato di questo seminale fraintendimento di Montesquieu ha fatto sì che, quando non si è accontentata di facili slogan anarcoidi, la tradizione socialista abbia rinunciato ad affrontare la questione dello stato, limitandosi ad annunciare il suo imminente superamento per poi - già con Lenin - promuoverne invece l’espansione illimitata (secondo l’idea di Stato e Rivoluzione, che, prima di estinguersi del tutto, lo stato dovesse brillare un’ultima, gigantesca vampata, proprio come una fiamma).
Oggi, Ducrot e Laval, riconoscono che la teoria socialista non è mai riuscita a elaborare una sua idea di governamentalità alternativa rispetto a quelle dell’esercito e dell’azienda che hanno dominato l’Occidente moderno.
Montesquieu non trova posto nella loro cassetta degli attrezzi, ma c’è da pensare che, magari integrato e corretto con il suo “maestro” Machiavelli, anche i due filosofi francesi potrebbero trarre dalle sue pagine più di uno spunto decisivo per provare a pensare un governo degli uomini ispirato ai tre fini della vita associata secondo lo Spirito delle leggi: libertà, giustizia, mitezza.
Radio Kapital: Jean-Luc Nancy
Saper ascoltare il silenzio degli intellettuali
di Jean-Luc Nancy
(trad.effeffe)
Ci rammarichiamo della scomparsa degli intellettuali organici della Repubblica, in grado di dire il giusto, il buono e il vero - anche se a volte criticando la stessa Repubblica. Deploriamo che al loro posto riecheggino bagliori sospetti, derive mal identificate e battage a tutto spiano, dispensatore di prediche ad ogni grado. Genera dibattito, foto, fa rumore. Ma non bisogna farsi indurre in errore. Bisogna ascoltare il silenzio e guardare quanto non si mostri.
Ci sono tanti intellettuali - per meglio dire: persone che pensano - alle prese con cose più serie dei proclami ripetuti delle certezze acquisite. Ce ne sono molti più di quanto non si pensi, alcuni noti, altri meno o per nulla: tutti quelli per cui le vere questioni contano più della firma ( il benedetto nome!) in calce agli articoli o petizioni. Non v’è dubbio che a volte bisogna riaffermare delle cose evidenti che paiono offuscate per alcuni, mentre per altri sembrano ripetitive: bisogna ( per quel che significhi “bisogna”) dare asilo ai rifugiati, che la loro fuga è causata dalle convulsioni di un mondo che non protegge più nulla dai propri appetiti più feroci, e di conseguenza dalle proprie devastazioni, e che dare rifugio significherebbe anche accogliere le questioni che vengono con il disastro ambulante.
Però bisogna innanzitutto valutare bene la posta in gioco. Non si tratta di un po’ più o un po’ meno di sovranità, d’Europa, di umanismo e di fratellanza. Si tratta di questo, del fatto che ognuna di queste parole, una per una, e di molte altre dopo di esse, non abbiano più alcun significato intelligibile. Oppure che non abbiamo più l’intelligenza del loro senso. Noi, tutti noi, tutti coloro che pensano (che se ne compiacciano o meno, che lo sappiano o meno) e per primi quelli la cui qualità d’”intellettuale” deve mettersi al servizio del senso e delle condizioni in cui un senso è possibile o meno.
Anche il pensiero conosce migrazioni, esilii, mutamenti, tracolli, fughe e asili. La postura sicura di sé della soluzione è quella di colui che decide, non del pensatore. Ci devono essere certo delle persone che decidono- ci deve essere anche chi sia in grado di criticarli. Ma non bisogna far passare come decisioni possibili vecchi significati che non sappiamo più argomentare - tanto “umanismo” che ” sovranità” o “popolo” o perfino “politica”.
Alcuni lo hanno detto e lo hanno scritto ormai sono molti anni: siamo entrati in un mutamento di civiltà. Vale a dire di questa civiltà occidentale diventata l’armatura globale di un’espansione tecnica e ideologica a cui si oppongono, nient’altro che i furori generati dallo sconvolgimento globale. È con questo che dobbiamo fare i conti: con un mondo che sei secoli di progresso hanno fatto crescere al punto che ogni crescita raggiunge: il punto di apoplessia o obsolescenza.
Altre civiltà ci sono passate. Maya, Ittiti, Micenei, Romani, Mongoli, molti altri hanno vissuto gli orrori della decomposizione e dello smarrimento. Le loro forze profonde hanno subito una metamorfosi. Questi mutamenti sono così ampi e lunghi che non si potranno cogliere che a posteriori. Ma è possibile, è necessario pensare a partire da questo orizzonte o prospettiva.
Il che non impedisce di pensare al presente. Al contrario. Questo offre per esempio ottime ragioni per vedere nei rifugiati dei messaggeri non solo di crisi e di guerra, ma anche e soprattutto di storia, della nostra storia, di quel che accade a noi e spinge noi stessi in una migrazione silenziosa, attiva e vigilante.
«Voglio sapere di cosa si tratta».
Sull’esperienza morale della sessualità, l’ultima intervista di Michel Foucault
Di Redazione LC 25 giugno 2014 *
André Scala, Gilles Barbedette: Ne L’uso dei piaceri, forse per la prima volta, lei manifesta la necessità di ritornare sui passi di alcune sue opere precedenti.
Michel Foucault: Molte cose rimaste implicite, nelle mie opere precedenti, non avrebbero potuto d’altronde essere rese in maniera più esplicita in ragione del modo stesso di porre il problema. Mi sembra, tuttavia, di aver sempre cercato di individuare tre grandi tipi di problemi: il problema della verità, il problema del potere e il problema della condotta individuale. Questi tre ambiti - che sono poi i grandi ambiti dell’esperienza - non possono essere compresi se non l’uno in relazione all’altro e ciascuno di essi è incomprensibile senza gli altri due. E questo è anche ciò che mi ha più volte ostacolato... A me è sempre sembrato di individuare tra essi una linea retta e che non ci fosse alcun bisogno di ricorrere a certi metodi, leggermente retorici, attraverso i quali, di solito, li si analizza.
A.S., G.B.: In che modo lo “stile” assurge a grande questione filosofica e non solo estetica?
M.F.: Il problema dello stile occupa, in effetti, una posizione centrale nella mia opera: stile d’azione, stile di relazione... Gli antichi non hanno mai smesso di porsi il problema di sapere se fosse possibile stabilire la scoperta di uno stile che accomunasse i soggetti tra loro e se, a fronte della scoperta di questo stile, fosse possibile pervenire a una nuova definizione del soggetto. Ho però anche l’impressione che gli stessi antichi non abbiano praticamente mai descritto questo problema. Una morale dello stile appare soltanto verso il II e il III secolo, sotto l’Impero romano - una morale che tenta di definire le congiunture e le intenzioni interne dell’uomo. [...] L’uso che faccio io del concetto di stile lo devo in larga misura alla riflessione di Peter Brown, anche se ciò che dirò ora, che non ha nulla a che vedere con Peter Brown, è tutta farina del mio sacco e di conseguenza tutte le sciocchezze [sottises] che dirò sono da imputare a me soltanto e non a lui [ride]. La nozione di stile come io la uso mi sembra di rilevanza cruciale per la comprensione della storia e della morale degli antichi; per quanto mi riguarda, ho sempre detto le cose peggiori della morale degli antichi, ma ora mi piacerebbe invece provare a parlarne bene, nel senso che reputo che vi siano, in quella morale, una serie di elementi estremamente importanti per la comprensione del passato. Inoltre, per via del fatto che questa morale antica si indirizzava, tutto sommato, a un numero ristretto di individui, ciò significa che non si trattasse di una morale dall’afflato universale, mirante cioè a ottenere che tutti iniziassero a percorrere lo stesso cammino, bensì di una morale riservata a una piccola minoranza tra la popolazione, e anche a una piccola minoranza di uomini tra gli uomini, affinché questa morale forgiasse uomini nuovi ad esempio all’interno di una piccola città greca. Ciò che appare interessante, se si segue la storia di questa morale, è che essa è stata nutrita a poco a poco di valori riguardanti un numero sempre crescente di persone. All’epoca di Seneca o di Marco Aurelio, ad esempio, questa morale poteva già ambire a una validità universale. Tuttavia, se anche questa morale fosse stata valida per tutti, non si trattava tanto di renderla un “obbligo”, quanto piuttosto una “scelta”. Tutti potevano condividere questa morale e scoprirne i principali meccanismi, ma non era che una scelta personale, e ciò rende molto difficile sapere chi, sotto l’Impero, la condividesse. Nei primi stoici si può ravvisare un’idea della filosofia perfettamente in equilibrio tra una certa concezione della conoscenza, una certa concezione della politica e una certa concezione della condotta individuale; a poco a poco, dal III secolo a.C. fino al II d.C. le persone smettono di porsi domande circa la filosofia, in generale, facendo cadere nel dimenticatoio soprattutto le questioni sul potere politico, ma non tuttavia quelle sulla morale [...].
A.S., G.B.: Sembra che la scrittura fosse una pratica del sé particolarmente rilevante, privilegiata, presso i Greci...
M.F.: È vero che la questione della scrittura di sé fosse assolutamente centrale, molto importante per la formazione individuale. Mettiamo da parte Socrate, dal momento che lo conosciamo attraverso Platone, e soffermiamoci proprio su Platone. Il minimo che possiamo dire è che Platone non ha molto coltivato la pratica di sé come pratica scritta, come pratica della memoria, come pratica della redazione del sé a partire dai ricordi. All’opposto, Platone ha invece scritto molto di numerosi argomenti politici e metafisici, e questi scritti testimoniano, in qualche modo, anche nel suo discorso, della presenza di una qualche relazione con il sé [...]. A partire dal I secolo d.C. si assiste a una proliferazione di testi che sembrano tutti obbedire a un certo stile di scrittura e che fanno della scrittura una modalità fondamentale di relazione con il sé. Troviamo scritti interi di raccomandazioni, da parte di un certo numero di autori, di consigli e avvertimenti indirizzati ai propri giovani allievi, come se si trattasse di lezioni date da grandi capi. Successivamente, e solo successivamente, questi autori insegnano agli allievi a porsi delle proprie domande, a dare delle proprie opinioni, e poi a formulare queste opinioni sotto forma di singole lezioni e, infine, sotto forma di didattica. Ciò è rinvenibile nei testi, tra loro differenti, di Seneca, di Epitteto o di Marco Aurelio. Questo mi porta a sostenere che la morale degli antichi non sia stata una morale della cura di sé per tutto il corso della sua storia, ma lo sia divenuta solo a partire da un certo momento, quando il cristianesimo vi ha introdotto delle perversioni, o delle modificazioni, considerevoli, allestendo funzioni penali su larga scala che implicavano il dar conto di sé e il dar conto di sé agli altri, ma non in forma scritta. [...] Il diario cristiano del XVI secolo era molto diverso da quello del IV o del V. Non rispondeva alla stessa questione. Non si trattava di pervenire alla conoscenza delle stesse cose, e non cercava di trattare lo stesso tipo di problema.
A.S., G.B.: E che dire delle Confessioni di Sant’Agostino?
M.F.: Sono qualcosa di curioso. Peter Brown ha scritto un intero libro sulla questione [...]. Bisogna innanzitutto ricordare che Sant’Agostino colloca il cristianesimo occidentale intorno al V secolo, fine del IV, e bisogna anche ricordare che il cristianesimo occidentale praticamente non esisteva fino a quel momento. Con ciò non voglio dire che non esistessero i cristiani, chiaramente, ma che non vi fosse una cultura cristiana. Anche perché è stato proprio Sant’Agostino a costruire, letteralmente, quel cristianesimo che si è instaurato, ad esempio in Francia, nel corso dei secoli XVI e XVII.
A.S., G.B.: Ne Le parole e le cose lei pone un interrogativo sullo statuto della letteratura. Scrive: «Che cos’è questo linguaggio che non dice niente e che non tace mai che chiamiamo letteratura?». La letteratura è forse una maniera, una tecnica del sé?
M.F.: Credo che la letteratura abbia rivestito questo ruolo per un certo periodo, tra il XV e il XVI secolo, e, più tardi, intorno al XIX, ma credo anche che la letteratura stia ora perdendo quel ruolo di forma della coscienza di sé a una velocità straordinaria.
A.S., G.B.: Ciò di cui si fa un gran parlare oggigiorno, che potremmo definire “cultura del sé”, non ha nulla a che vedere con ciò di cui lei parla nei suoi libri?
M.F.: Sì e no. D’altronde, se ci limitiamo a leggere le cose nella loro stretta formulazione filosofica, che sia la morale dell’antichità romana o greca o la morale della società contemporanea, esse sembrano non avere nulla in comune con noi. Al contrario, se si considera la morale antica nei termini di ciò che prescrive, di ciò che inclina, di ciò che suggerisce, si può percepire quanto essa sia straordinariamente vicina a noi e quanto i suoi consigli siano, se non somiglianti, quanto meno nettamente prossimi alla morale attualmente popolare. È proprio questo che si tratta di far apparire: la prossimità, la differenza e, attraverso questo gioco della prossimità e della differenza, mostrare come gli stessi consigli offerti dalla morale antica possano operare in maniera diversa in uno stile della morale contemporaneo.
A.S., G.B.: Vi è poi la questione del rapporto del sé con sé, e della costituzione del sé mediante il sé, che si solleva quando si parla della sessualità come esperienza... Vi è già presso i Greci questo tema della delizia, del delirio amoroso, della perdita di sé, del rapporto con l’altro?
M.F.: A me sembra che nei testi della filosofia greca del III e II secolo a.C., fino al III secolo d.C., non vi sia affatto una concezione dell’amore la cui validità possa rappresentare questa esperienza a cui voi fate riferimento, esperienza che comunque era già nota, ossia l’esperienza della grande passione amorosa.
A.S., G.B.: Nemmeno nel Fedro di Platone?
M.F.: Io penso di no. Ora, non vorrei allontanarmi troppo dall’oggetto della nostra discussione, ma a me sembra che, nel Fedro, troviamo al contrario l’esperienza di coloro che, attraverso l’esperienza amorosa, approdano all’esperienza in sé. Essi in sostanza ignorano quella che potrebbe apparire come una pratica corrente e costante della loro epoca per pervenire a un tipo di sapere che consentirà loro, da un lato, di continuare ad amarsi l’un l’altro e, dall’altro, di essere, davanti agli occhi della legge e in ragione dei propri doveri di cittadinanza, conformi a ciò che deve essere il comportamento degli individui. Dunque non credo che si possa parlare di quel tipo di esperienza a cui voi alludete. Possiamo iniziare a vederla forse solo in Ovidio. Nei suoi testi, mi sembra corretto dire... troviamo la possibilità, l’apertura di un’esperienza nella quale l’individuo, in qualche modo, perde completamente la testa. Non sa più chi è, perde la propria identità. Si lascia attraversare dall’esperienza amorosa come in perpetuo oblio del sé. E credo che questa esperienza dell’amore non corrisponda minimamente a quella del IV secolo a.C., quale quella di Platone o Aristotele.
A.S., G.B.: Relativamente ai Greci, quando Heidegger sostiene che i filosofi non sono coloro che amano la conoscenza, bensì coloro che hanno conoscenza dell’amore... si riferisce secondo lei a questo?
M.F.: Sì, sicuramente. I filosofi sono coloro che hanno conoscenza dell’amore. Detto questo, non mi pare di trovare, nell’esperienza filosofica greca che è pervenuta a noi (quella del IV secolo, contenuta nei discorsi di Platone), l’elemento in grado di mettere l’esperienza dell’amore all’esterno dell’esperienza del sapere.
A.S., G.B.: La rilettura degli antichi può essere il sintomo di una crisi del pensiero? La volontà di un ritorno alle origini?
M.F.: Mi sembra corretto dire che in questo movimento di rilettura dei Greci, che peraltro si fa spesso, vi sia senz’altro una sorta di nostalgia, un tentativo di recuperare una forma originaria del pensiero, e soprattutto un tentativo di concettualizzare la cultura greca al di fuori di tutti i fenomeni cristiani. Si tratta di un tentativo che ha preso in realtà molte forme. Ad esempio, nel XVI secolo consiste nel ritrovare, attraverso il cristianesimo, e in funzione della preservazione del cristianesimo, un tipo di filosofia greco-cristiana. Ma in Hegel, o ancora in Nietzsche, questo tentativo consiste invece nel recupero dei Greci attraverso l’elisione del cristianesimo. Oggigiorno mi sembra che il tentativo di ripensare i Greci non consista tanto nell’elevare la loro morale a morale per eccellenza, a elemento imprescindibile per qualunque forma di pensiero, quanto piuttosto nel fare in modo che la filosofia europea possa in qualche modo ripartire, come esperienza in grado di guardare ai Greci, ma anche in grado di sentirsi dinanzi a loro totalmente libera.
A.S., G.B.: Lei ha detto questo, del suo lavoro: «Ho cambiato strada», «Non sono riuscito a fare ciò che avevo annunciato». Pensa di essere stato imprudente o pensa piuttosto che le cose siano talmente cambiate, per gli intellettuali e per i ricercatori, da aver reso necessarie certe precauzioni...
M.F.: Quando ho scritto il primo volume [della Storia della sessualità, La volontà di sapere, N.d.T.], ormai sette o otto anni fa, avevo assolutamente l’intenzione di scrivere questa storia della sessualità, questi studi di storia sulla sessualità, a partire più o meno dal XVI secolo [...]. In parte penso di averlo fatto. Tuttavia, proprio mentre portavo avanti la mia opera, iniziavo a rendermi conto di quanto questa non filasse, per via di un certo numero di problemi molto importanti che non avevo preso in considerazione, come ad esempio l’esperienza morale della sessualità. È in quel momento che mi sono detto: «Voglio sapere di cosa si tratta». Ho dunque messo da parte gli studi che avevo condotto sul XVI e il XVII secolo e sono tornato indietro. Sono tornato indietro fino al V secolo, pressappoco, fine del IV e inizi del V, per essere precisi, a quello che ritenevo l’esordio dell’esperienza cristiana [...]. Ho poi cercato di capire cosa è successo nel periodo immediatamente successivo [...] e mi sono sentito quasi obbligato, ormai da tre anni a questa parte, a mettermi a studiare la sessualità tra il V e il IV secolo. È stata dunque la necessità di spiegarmi alcune cose che mi ha condotto a cambiare interamente il mio percorso, rispetto alla sua forma originaria. Forse voi mi domanderete ora se non si sia trattata di pura disattenzione da parte mia, all’inizio, o forse solo di un desiderio segreto, rimasto represso e rivelato solo alla fine. Non lo so. E vi confesso di non volerlo nemmeno sapere. La mia esperienza, come ora mi appare, è questa. Questa storia della sessualità, non avrei indubbiamente potuto condurla correttamente se non a condizione di mettermi sulle tracce di ciò che è successo in quei secoli a noi lontani, per vedere come l’universo della sessualità sia stato vissuto, manipolato, perpetuamente modificato [...]. Stando così le cose non avrei potuto condurre uno studio di qualità se mi fossi limitato al solo XIX secolo. Mi sarei potuto certo limitare a includere nella mia analisi i secoli XVII e XVIII, sempre a partire dal XIX, ma questo lavoro mi avrebbe forse preso troppo tempo inutilmente. Con i classici, ne ero sicuro, mi sarei divertito di più.
Diventare adulti
Obbedire o ribellarsi?
di Francesca Rigotti (Il Sole-24 Ore - Domenica, 14.06.2015)
Nel 1784 Immanuel Kant pubblicò un opuscolo dal titolo Was ist Aufklärung? destinato a diventare il manifesto della ragione illuminata. È un’esortazione all’uso della propria intelligenza, un elogio del rischiaramento dei nuovi tempi, un inno al coraggio e all’azione. Tale «rischiaramento» coincide con l’uscita dalla autocolpevole minorità, che viene premiata col passaggio alla condizione di adulto caratterizzata da libertà, autonomia e indipendenza soprattutto economica.
Da questa particolare uscita prende le mosse Curi, nella sua personale e originale ricognizione del transito alla maggiorità quale processo mai concluso ma che si rinnova, si potrebbe dire, ogni giorno. Per assumere la nuova postura priva di sostegni e abbandonare il girello per bambini di cui parla Kant occorre «osare sapere», ovvero rapportarsi al padre. (Ben consapevole del carattere sessista del linguaggio, Curi lo demolisce subito chiarendo fin dalle primissime pagine che non terrà conto della distinzione di sesso).
Si esce dalla minorità disobbedendo al padre o uccidendolo, commettendo dunque parricidio, come farà Edipo, colui che risolve l’enigma dei piedi perché ha il piede nel nome. La nostra tradizione è ricca di eroi giovani che instaurano il nuovo ordine distruggendo il vecchio, e ricavano da questo atto la legittimità del pensare con la propria testa e agire di propria iniziativa. La faccenda sembra lineare, la soluzione univoca. Si uccide il padre e si eredita il regno, vedi, con le varianti del caso, Amleto, o il Prigaioniero de I Fratelli Karamazov.
Ma con Curi le cose non sono mai semplici e lineari e soprattutto non univoche, perché è proprio Curi che da tempo ci ripete che la condizione dell’essere umano è di essere uno e molti, di avere i tanti piedi di cui parla l’indovinello della Sfinge. E infatti, ecco che il passaggio alla maggiorità segue un altro modello, antitetico al primo: non la ribellione ma l’obbedienza al padre. L’obbedienza di Abramo, Gesù, Francesco d’Assisi, Giovanni della Croce. Obbedienze attive condotte in piedi guardando in faccia il padre con amore. Eppure nemmeno questa è la soluzione, dal momento che la porta di Curi rimane, per quanto stretta, sempre aperta. Anche davanti a chi a uscire dalla minorità non ci pensa nemmeno; è il caso di Bartleby, lo scrivano del racconto di Melville, che alla proposta di modificare la sua banale mansione, risponde pacatamente: «Preferirei di no», affermando la sua libertà di non obbedire né uccidere.
Tutti kantiani, anche a nostra insaputa
Il filosofo umiliò la ragione, ma solo per salvarla e liberarla: perché siamo noi a dar forma al mondo (senza crearlo)
di Donatella DI Cesare (Corriere della Sera - La Lettura, 14.06.2015)
Si apre in Germania la «decade kantiana». Durerà fino al 22 aprile 2024, data in cui ricorre l’anniversario della nascita del grande filosofo di Königsberg (1724-1804). Numerosissime sono le iniziative previste in tutto il mondo. È andato infatti crescendo ovunque l’interesse per il suo pensiero, anche nelle università cinesi. Grazie all’Accademia delle Scienze di Berlino dovrebbe, fra l’altro, essere portata a termine l’edizione critica di tutta l’opera postuma. Per la prima volta si è mobilitato anche il mondo della politica, che promuoverà dibattiti e convegni.
Ma che cosa resta di Immanuel Kant a quasi trecento anni dalla nascita? Occorrerebbe congedarsi una volta per tutte dalle sue idee? Perché la sua «rivoluzione copernicana» divide ancora i filosofi? E che cosa ne è oggi della riflessione sulla «pace perpetua»?
Fu durante la consueta passeggiata per le vie di Königsberg che un giorno, distratto dalle speculazioni metafisiche, gli venne in mente il progetto del suo capolavoro: la Critica della ragion pura. Per anni si dedicò alla scrittura con quella costanza ossessiva e quella dedizione quasi maniacale così rispondenti ai ritmi ferrei della sua vita quotidiana. Quando l’opera uscì - nel 1781 - fu una rivoluzione per la filosofia.
Il nome di Kant non indica solo un’epoca, segna uno spartiacque nella storia del pensiero. C’è un prima e un dopo Kant. Pur senza saperlo, siamo tutti kantiani. Anzitutto perché leggiamo la filosofia, o meglio, la metafisica precedente, da Aristotele a Cartesio, già avvertiti e messi in guardia dalla critica implacabile di Kant. È possibile discettare sull’esistenza di Dio, sull’immortalità dell’anima, insomma su tutto quel che va al di là della nostra esperienza? O non si tratta di vacue visioni, castelli in aria, contrabbandati per filosofia?
Kant comprese quel che stava accadendo nel suo secolo. Mentre i suoi colleghi si arrovellavano intorno a illusorie costruzioni, e si compiacevano di sterili analisi, le scienze sperimentali, saldamente ancorate all’esperienza, avevano raggiunto risultati epocali. Al punto che, non solo si erano emancipate dalla filosofia, ma l’avevano lasciata in una posizione di retroguardia. Cominciò, anzi, a diffondersi scetticismo, se non ostilità: a che cosa avrebbe mai dovuto servire la filosofia? Se non voleva trasformarsi in scienza sperimentale, era destinata a restare nella ridondanza analitica. Da un canto, dunque, il torpido sonno dei dogmatici, dall’altro il borioso trionfo del sapere sperimentale. L’avvenire della filosofia sembrava ormai pregiudicato.
Non sarà un caso che Heinrich Heine, forse esagerando, abbia chiamato Kant il Robespierre della filosofia. Ma il tribunale istituito dal mite professore di Königsberg era quello dove aveva deciso di chiamare in causa la ragione. Si trattò, certo, di una circostanza tragica. Kant parlò di un «malinteso» della ragione con se stessa: quando abbandonava l’esperienza, avventurandosi nella metafisica, la ragione si ingannava, finiva per credere che fossero realtà le proprie chimere. Il tribunale di Kant dichiarò illegittime, una volta per tutte, le pretese della ragione umana incapace di accettare i propri limiti. Il processo alla ragione non fu allora del tutto tragico, perché Kant riuscì, anzi, a rilanciare la filosofia. Ne ridisegnò, però, i confini; richiamò i filosofi alla modestia, li rinviò al senso comune. Solo su quel fondamento avrebbero potuto costruire un solido edificio.
Quell’ascesi del limite, a cui aveva improntato la sua esistenza, schiva e austera, diventò un modello filosofico. Se umiliò la ragione, fu solo per evitare che inseguisse ancora il sogno metafisico di un sapere totalizzante. La ragione umana doveva finalmente riconoscere di essere finita.
Questa grande lezione di Kant ebbe enormi ripercussioni. La più celebre è forse la rivoluzione copernicana nella conoscenza. Crediamo che sia il mondo a ruotare intorno a noi, che lo contempliamo immobili per scoprirne il segreto ordinamento; invece siamo noi, con il nostro moto ordinatore, a dar forma al mondo. Il che non vuol dire che il pensiero crei il mondo - come alcuni vogliono fraintendere. Kant non nega che il mondo abbia la sua realtà. Dice solo che noi non possiamo conoscerla in sé, nella sua interezza. Perché questa sarebbe di nuovo una presunzione metafisica. Conosciamo le cose solo attraverso i nostri schemi e solo nel modo in cui ci appaiono, in cui sono per noi.
Se la ragione deve ammettere i propri limiti, già nell’ambito della conoscenza, allora non è astratta, ma è situata nel tempo. Ecco che per la prima volta, nella sua storia, la ragione umana si accorge di avere una storia. È questa idea sovversiva di una ragione storica, cioè esposta all’errore, consegnata all’erranza, a inaugurare la modernità. Cartesio aveva preteso di dare inizio a una nuova epoca con il suo dubbio metodico; ma a ben guardare aspirava ancora a una filosofia perenne, definitiva, in grado di ergersi oltre il tempo e oltre la storia. Un abisso lo separa perciò da Kant che, con audacia senza precedenti, riconosce invece il carattere storico della propria riflessione. In tal senso Kant è il nome della nostra modernità.
« Sapere aude ! - abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza!». In questo motto Kant sintetizza la sua epoca. Ma il suo saggio Che cos’è l’Illuminismo? non è solo il tentativo di delineare filosoficamente il proprio secolo. Come ha sottolineato Michel Foucault, è la prima riflessione critica sul proprio presente, è quella che, nella filosofia contemporanea, si chiama una «ontologia dell’attualità». Che cosa accade oggi? E che cos’è questo oggi, in cui siamo immersi, rispetto alle altre epoche, passate e future? Sta qui la preoccupazione della modernità.
Mentre la filosofia si immerge nel vortice della storia, e nei suoi avvincenti interrogativi, la ragione umana, rinviata al proprio limite, scopre la sua destinazione morale, guarda alla sua vocazione cosmopolitica. L’agire assume un rilievo che prima non aveva. Sarà allora la ragione pratica a guidare ogni essere libero, chiamato a rispondere di sé e delle proprie azioni. Con la rivoluzione di Kant l’etica diventa filosofia prima.
Non ci sembra oggi irrealizzabile il suo imperativo categorico? L’obbligo di agire in modo che la propria azione sia d’esempio, divenga anzi legge universale, è incondizionato, irriducibile, non può essere piegato a nessun calcolo. Perché ne va dell’umanità. Agire moralmente significa trattare l’umanità propria e quella altrui sempre come fine, mai come mezzo. Servirsi dell’altro come strumento vuol dire asservire anche se stessi, mancare quell’attimo in cui, con il rispetto dell’umano, irrompe la libertà. Non è un caso che Kant sia stato il pioniere dei diritti umani, che abbia delineato un ordinamento cosmopolitico, imperniato sull’ospitalità, e con il celebre saggio Per la pace perpetua abbia lanciato un monito volutamente ambiguo: se una «società delle nazioni» non avesse amministrato la pace tra gli Stati, a prevalere sarebbe stata una pace ben diversa, quella eterna della morte.
In un mondo segnato da due guerre mondiali e dai genocidi di massa, dominato dalle armi nucleari, attraversato da conflitti diffusi e imponderabili, il limpido universo di Kant, retto da una ferma fiducia nel progresso, appare incommensurabilmente lontano. Non si può rievocare, senza una inquieta nostalgia, il cielo stellato a cui il filosofo guardava con ammirazione. D’altronde la sua Königsberg non esiste più. Fu cancellata in pochi giorni, nella primavera del 1945; oggi si chiama Kaliningrad e non fa parte della Germania. Eppure Königsberg resta un luogo irrinunciabile della filosofia.
Le riflessioni di Kant sono pietre miliari, le sue idee sono insieme richiami e promesse all’umanità, da cui è impossibile retrocedere. Dopo Kant nulla è più stato come prima. Il congedo dalla metafisica resta il grande tema della filosofia contemporanea. E se c’è chi si fa tentare dall’illusione di conoscere la realtà in sé, c’è invece chi ha radicalizzato la sua critica, mostrando che la ragione è sempre già impura, perché non può fare a meno del linguaggio, anzi delle lingue, e perciò è estranea a se stessa, segnata dall’alterità, consegnata all’altro. Da Hannah Arendt a Emmanuel Lévinas: non si comprenderebbe, nella filosofia degli ultimi decenni, il primato dell’agire etico senza Kant. La sua rivoluzione non è ancora compiuta.
La nostra società ha prodotto un’integrazione senza differenze
Solo il rispetto delle identità religiose e sociali può condurre a un mondo pacifico
di Wael Farouq (La Stampa, 10.02.2015)
Negli Anni Trenta del Novecento, i giapponesi consideravano l’imperatore Hirohito pari ad un dio che li aveva condotti alla rinascita economica e alla costruzione di una forza militare in grado di dominare vaste regioni del mondo. Dopo la disonorevole sconfitta del Giappone in guerra, l’imperatore mantenne la sua sacralità, ma quest’ultima perse tutto il suo significato, anche perché l’imperatore aveva guidato la sua gente verso la distruzione altrui, prima ancora che alla distruzione del proprio Paese. Fu così che i giapponesi presero a chiamarlo «il sacro nulla» (Patrick Smith, Japan: a Reinterpretation, Knopf Doubleday Publishing Group, 2011). Il «sacro nulla» è l’espressione che meglio descrive i valori della civiltà occidentale di oggi. Sia sul piano pratico che culturale, questi valori sono svuotati del loro significato, sebbene tutti quanti li sacralizzino, come nel caso del valore della libertà.
Tutto è effimero
Purtroppo, la faccenda non si limita alla fallita esportazione di questi valori all’esterno, ma si estende anche al loro svuotamento di significato all’interno, sul piano intellettuale e pratico. Nella cultura contemporanea l’effimero è diventato centrale. Nulla reca un segno di distinzione, un significato, perché tutto è fugace. L’attenzione della cultura contemporanea si è così spostata dall’essere nel mondo al divenire, o al transitare, nel mondo. Questo è il mondo del transitorio e dell’effimero. Le ideologie sono cadute, ma la paura dell’altro è aumentata. Il nichilismo ha fatto marcia indietro, ma il suo posto è stato occupato da una neutralità passiva verso ogni cosa. Il termine «post», anteposto a ogni parola che indica un aspetto della conoscenza umana (come in post-industriale, post-storico, post-moderno, eccetera), non implica altro che l’incapacità di attribuire un significato alla condizione umana presente.
Jürgen Habermas vede in questo una conseguenza dell’esclusione della religione dalla vita pubblica. Ed è vero che tutte le sfide sociali cui dobbiamo far fronte sono fondamentalmente riconducibili all’incapacità di dare alla vita un significato, una fonte del quale è rappresentata proprio dalla religione.
L’uniformità
I post-modernisti ritengono di aver liberato l’umanità dalla prigionia di binomi intellettuali quali bene-male, presenza-assenza, io-l’altro, ma in realtà sono solo passati dal contrapporre gli elementi di questi binomi al porli sullo stesso piano - e all’incapacità che ne deriva di formulare giudizi, che a sua volta porta all’interruzione di ogni interazione con la realtà e all’uniformizzazione dell’identità individuale e collettiva.
Il post-modernismo ha combattuto contro l’esclusione dell’altro, il «diverso», operata dal modernismo, ma non ha trovato altra via per farlo che escludere la «diversità», poiché è opinione diffusa che la convivenza pacifica non possa avere successo se non escludendo l’esperienza religiosa ed etica dalla sfera pubblica. Questo, tuttavia, implica l’esclusione della differenza e, quando l’esperienza religiosa è uno degli elementi più importanti dell’identità, l’esclusione della differenza, in realtà, diventa esclusione del sé.
Ma questa laicità estremista è riuscita a realizzare il proprio obiettivo?
Non c’è metropoli europea, oggi, che non ospiti una «società parallela», dove vivono gli immigrati musulmani. Tentativi affrettati d’integrare gli immigrati hanno finito solo per rendere i confini culturali e religiosi invisibili nello spazio pubblico. In Francia è stata promulgata una legge che proibisce l’esibizione dei simboli religiosi nello spazio pubblico. Di conseguenza, la Francia è diventata uno Stato la cui Costituzione protegge la differenza e il pluralismo religioso, ma le cui leggi ne criminalizzano l’espressione.
Gli immigrati
L’esclusione della diversità dallo spazio pubblico ha fatto sì che l’adattamento, e non l’interazione, diventasse il quadro entro il quale s’inscrive la relazione degli immigrati con la loro nuova società. Questo e altri fattori di natura soggettiva, cioè relativi alla cultura degli stessi immigrati, hanno dunque portato alla creazione di società parallele in conflitto con l’ambiente circostante che rimane, per loro, un ambiente alieno, straniero.
In questo contesto culturale, se qualcuno chiedesse «cos’è la libertà?», la risposta sarebbe: qualsiasi cosa. Ma una libertà che significa qualsiasi cosa non è niente. La libertà vera ha un volto, un nome, dei confini rappresentati dall’esperienza umana, che tuttavia non può essere tale se alla persona si strappano la sua identità, la sua storia, la sua esistenza e il suo scopo. Diverrebbe una forma svuotata di significato e contribuirebbe, assieme alla cultura islamica contemporanea, all’esclusione della persona, della sua esperienza e della sua identità. Nel qual caso, passeremmo dal «sacro nulla» al «nulla è sacro». Infatti, nulla è sacro finché la forma sta al centro e la persona al margine.
Nel Corano, come nella Bibbia, Adamo inizia a relazionarsi con il mondo attribuendo un nome alle cose. L’Adamo contemporaneo, invece, perde ogni giorno un pezzo del suo mondo, perché dimentica i nomi delle cose, perché non dà più loro alcun nome, e perché nemmeno gli importa di dar loro un nome. L’uomo, oggi, è diventato un post-Adamo. Mentre per affrontare la sfida dell’oggi abbiamo bisogno come non mai di tornare al senso religioso, all’esperienza personale. Al vero Adamo.
(Traduzione dall’arabo di Elisa Ferrero)
di Pankaj Mishra (la Repubblica, 08.02.2015)
L’ILLUMINISMO divenne possibile in Europa quando, secondo la definizione di Kant, gli individui cominciarono a «osare di sapere » - a impiegare la loro ragione, senza l’intercessione di una qualsiasi autorità. La Rivoluzione francese realizzò la grande svolta intellettuale dell’Illuminismo: la separazione tra il politico e il teocratico. La Rivoluzione contribuì anche a creare quella che Jacob Burckhardt ha chiamato la «volontà ottimista» - la fede nel progresso, nella ragione e nel cambiamento, che gli eserciti rivoluzionari francesi diffusero in tutta Europa e perfino in Asia. Con il progredire del XIX secolo, le innovazioni, le norme e le categorie dell’Europa raggiunsero un’egemonia universale.
Istituzioni politiche come lo stato-nazione, forme estetiche come il romanzo, ideologie come nazionalismo, liberalismo e socialismo, e processi come la scienza, la tecnologia, il capitalismo industriale divennero i punti di riferimento per la valutazione di ogni altra forma di vita umana, passata e presente.
La laicità è stata uno dei principi europei moderni più influenti nel suo considerare la religione tradizionale inferiore ai nuovi modi razionali di comprendere e migliorare la società umana. Di fronte a questa potenza europea senza precedenti, morale e intellettuale, ma anche militare, gli uomini nelle società asiatiche e africane si sono adattati oppure hanno opposto resistenza. In entrambi i casi, hanno finito col disporre antichi modi di vita, codici etici di condotta e culture, come il buddismo, l’induismo e l’islam, secondo le linee europee moderne.
C’è stata molta più secolarizzazione nel mondo dal XVIII secolo, quando alcuni filosofi europei e americani proposero un futuro nel quale gli individui, armati di ragione e diritti, avrebbero portato il progresso.
Non tutto è andato come previsto. La storia post-illuminista d’Europa ha reso inaccettabile gran parte dell’intemerata mancanza di rispetto di Voltaire per la religione - per esempio, la sua denuncia degli ebrei come fanatici nati che «meritano di essere puniti». Le politiche di assimilazione nell’Europa secolarizzata non sono riuscite a garantire i diritti degli ebrei, o a salvarli dalla discriminazione e dal disprezzo, inducendo un disperato Joseph Roth a esclamare che preferiva la vecchia «paura di Dio» europea al suo «cosiddetto umanesimo moderno». L’astratta nozione illuminista dell’uguaglianza di diritti si è rivelata debole rispetto agli imperativi della sovranità territoriale e nazionale.
Non c’è bisogno di essere cattolici o marxisti, per rendersi conto che l’Europa è circondata da problemi seri: disoccupazione alle stelle, crisi irrisolta dell’euro, crescente ostilità contro gli immigrati e una scioccante e diffusa perdita di speranza nel futuro dei giovani europei - eventi resi intollerabili per molti da invisibili detentori di titoli, da banchieri che godono di gratifiche esorbitanti e dal vizio della venalità che si diffonde in tutta l’oligarchia politica europea.
In queste circostanze, la supposizione non detta che, mentre tutto il resto cambia nel mondo moderno, le norme europee debbano rimanere autosufficienti e immutabili, meri- tandosi una sottomissione incondizionata da parte degli stranieri arretrati, ci costringe a fermarci un attimo.
Come ha dimostrato Tony Judt nel suo magistrale Dopoguerra, la nozione dell’Europa come l’incarnazione della democrazia, della razionalità, dei diritti umani, della libertà di parola, dell’uguaglianza di genere doveva sopprimere le memorie collettive di crimini brutali nei quali quasi tutti gli stati europei erano stati complici. Né non si può dire che abbiano dato nuovo vigore ai valori dell’Illuminismo negli ultimi anni.
Gli stati nazione europei, anche quelli che non hanno partecipato alle guerre e alle occupazioni anglo- americane, hanno permesso esecuzioni extragiudiziali, torture e estradizioni illegali, che in origine erano sanzionati in nome della ragione, della libertà e della democrazia.
La nostra epoca è caratterizzata da stati-nazione pesantemente armati, da potenti corporazioni e da ciò che sembra essere una disuguaglianza strutturale inestirpabile, insieme a una dilagante depoliticizzazione causata da una ampiamente avvertita perdita della sovranità individuale e collettiva.
I valori illuministici della libertà individuale si manifestano meglio in singoli atti di critica e di sfida. La maggior parte dell’arte e della letteratura moderne emerge da questo ethos critico dell’Illuminismo, dall’implacabile messa in discussione delle rivendicazioni del progresso e della civiltà.
Le élite egoiste, oggi ossessionate da premonizioni di declino, e intrappolate nello scontro tra la democrazia locale e il capitalismo globale, devono affrontare un’altra sfida, più esistenziale: è l’assenza, come disse lo storico Mark Mazower nel 1998, di «un avversario contro il quale i democratici possano definire ciò che rappresentano».
Gli attacchi terroristici dell’11 settembre hanno fornito un sostituto al nazismo e al comunismo: il «totalitarismo islamico». Questo grande concetto intellettuale è stato incautamente applicato a un gruppo sciolto di megalomani, fanatici, delinquenti e disadattati, la maggior parte dei quali ha prosperato nell’ecosistema dell’estremismo (scuole, moschee, giornali, canali satellitari) originariamente istituiti dai cittadini di un fedele sostenitore dell’alleanza con l’Occidente e della teocrazia, l’Arabia Saudita. Ha raggiunto un certo potere persuasivo solo dopo l’invasione e l’occupazione angloamericana dell’Iraq, che ha radicalizzato un numero significativo di musulmani, provocando attacchi di rappresaglia nelle città europee e la devastazione di gran parte dell’Asia e dell’Africa. Quella guerra disastrosa ora ha generato una culto nichilistico della morte, che ricorda gli Khmer Rossi, in Iraq e in Siria.
Il pericolo del totalitarismo islamico ha dimostrato, almeno in Europa, di essere un mediocre surrogato rispetto alla minaccia rappresentata dal comunismo dotato di armi nucleari. Putin, tornando ad assumere una posizione anti-occidentale, si è preso più territorio europeo e ha ucciso più persone; uno dei più grandi attacchi terroristici in Europa è stato messo in atto non da al-Qaeda, ma da un blogger norvegese islamofobo.
I musulmani, come gli indù e i buddisti, hanno intrapreso da tempo una transizione di tipo illuminista dal mondo sacralizzato dei simboli e dei segni significativi a un mondo disincantato di fatti neutrali, in cui la ragione e il giudizio individuali sono guide più affidabili dell’autorità trascendente. Tutti i popoli di quello che una volta era conosciuto come il Terzo Mondo sono «condannati alla modernità», come ha scritto una volta Octavio Paz.
I musulmani in Europa portano a compimento questo destino non come una borghesia commerciale che trionfa su un’élite religiosa e aristocratica, ma come una povera minoranza soggetta agli obblighi e ai pregiudizi di uno stato laico aggressivo con cui condividono una storia lunga e oscura.
La morale razionale dell’Illuminismo, come ammette anche Jürgen Habermas, il suo più eloquente difensore, «è finalizzata alla comprensione degli individui, e non favorisce alcun impulso ver- so la solidarietà, cioè verso l’azione collettiva guidata dalla morale». In un’epoca in cui il denaro è più che mai la misura di tutte le cose, la secolarizzazione può apparire troppo simile alla despiritualizzazione, se non alla disumanizzazione: una ricetta per l’inautenticità.
E il conflitto è sempre probabile se le minoranze asiatiche e africane sono costrette a rispettare le norme europee di secolarizzazione, che non solo comportano la retrocessione di simboli di identità religiosa, come il velo, allo «spazio privato», ma possono anche bruscamente stabilire che, come dice uno slogan molto citato dopo gli attentati di Parigi, «nessuno ha il diritto di non essere offeso».
Il problema per le persone condannate alla modernità «non è tanto sfuggire a questo destino», ha scritto Paz, «ma scoprire una forma meno disumana di conversione», che «non implichi, come adesso accade, la doppiezza e la scissione psichica».
Riconoscere che ci sono molti modi di passare alla modernità, ognuno con le proprie complesse tensioni, è muoversi verso una visione meno unilaterale dell’umanità, e, forse, verso una forma più accomodante di laicità e democrazia, sempre più necessaria in un’Europa irrevocabilmente multietnica.
I tentativi di definire l’identità francese o europea separandola violentemente dal suo presunto «altro» storico, e con la creazione di opposizioni - civili e arretrati, laici e religiosi - non può avere successo in un’epoca in cui questo «altro» possiede anch’egli il potere di scrivere e di fare la storia.
La globalizzazione economica, inducendo all’interdipendenza, sembrava in un primo momento minare il solipsismo nazionalista o di civiltà. In realtà, come rivela la recrudescenza del discorso sullo scontro di civiltà, siamo lontani dal superare nozioni obsolete e sempre più rigide di appartenenza e di identità.
La necessaria discussione di nozioni flessibili di cittadinanza e di sovranità o di identità fluide - imperative nell’era della globalizzazione - è rapidamente compromessa dal gettare la colpa sulla natura incorreggibilmente medievale delle persone religiose e sulla loro incapacità di apprezzare le virtù della modernità laica.
Come scrive il filosofo canadese Charles Taylor, «la nostra identità è in parte modellata dal riconoscimento o dalla sua assenza, spesso da un falso riconoscimento degli altri, e così una persona o un gruppo di persone può subire un danno reale, una vera distorsione, se la gente o la società che li circonda gli rimanda un’immagine limitata o un’immagine umiliante o spregevole di se stessi».
Non è necessaria un’ampia esplorazione della differenza tra la semiotica cristiana e quella islamica per capire che se molti musulmani si offendono personalmente per le immagini degradanti del profeta è perché egli è per loro un esempio di umanità nobile più che una figura distante autorevole e severa - uno il cui più piccolo atto è degno di emulazione.
Vivendo in un mondo diverso e instabile, e condividendo un presente comune pur venendo da retroterra diversi, tanto i non-musulmani che i musulmani sono chiamati a rinunciare, come ha scritto Hannah Arendt, non alla loro «tradizione e al loro passato nazionale», ma «all’autorità vincolante e alla validità universale che la tradizione e il passato hanno sempre preteso».
Senza questa rinuncia qualificata, il nostro stato di solidarietà negativa può diventare soltanto «un peso insopportabile», provocando «apatia politica, nazionalismo isolazionista, o una disperata ribellione contro tutti i poteri costituiti». La triste profezia della Arendt sembra realizzarsi oggi in molte rivolte e esplosioni di violenza in tutto il mondo.
Abbiamo sentito parlare molto dopo l’11 settembre di quella che Rushdie definisce la «mutazione letale nel cuore dell’Islam». Ma abbiamo sentito parlare relativamente poco dell’aumento dell’odio tribale verso le minoranze in tutto il mondo - la principale patologia del capro espiatorio suscitata dalle crisi politiche ed economiche - anche oggi che il mondo è molto più legato dalla globalizzazione.
La rinascita di questi fanatismi confessionali non implica tanto la vitalità della religione medievale quanto delle tristi mutazioni nel cuore della modernità laica. Michel Houellebecq è colpevole di un’esagerata autocommiserazione quando annuncia che «l’Illuminismo è morto, riposi in pace» e che l’Islam è una «immagine del futuro».
Ma la società laica contemporanea nei suoi cupi romanzi - caratterizzati da estrema disuguaglianza, perdita di comunità, egocentrismo narcisistico e indifferenza al dolore - sembra un vicolo cieco che molti di coloro che stanno attraversando il loro Illuminismo e elaborando la transizione verso il disincantato mondo moderno cercano di evitare.
La vecchia promessa di stati-nazione europei omogenei - dove se ti integri godrai del privilegio di una società basata sul concetto dei diritti individuali - non sembra più adeguata, anche se può essere interamente recuperata. Sembra indispensabile che queste diverse società ridefiniscano i loro principi in modo da ammettere esplicitamente visioni diverse, religiose e metafisiche, del mondo.
La pensatrice francese Simone Weil, che non ignorò mai le minoranze di Francia nelle sue riflessioni di ampio respiro, riconobbe presto che il vecchio modello standardizzato di progresso doveva essere sostituito, perché i valori dell’individualismo e dell’autonomia che in origine avevano dato vita all’uomo moderno erano giunti a minacciare la sua identità morale e spirituale.
In La prima radice, un libro scritto nel 1943 per chiarire le lezioni della capitolazione della Francia alla Germania nazista, Weil giunse al punto di abbandonare il linguaggio dei diritti. La difesa dei diritti individuali era stata fondamentale per l’espansione del commercio e di una società basata sul contratto nell’Europa occidentale. All’indomani della catastrofica sconfitta della Francia, Weil sosteneva che una società libera e radicata dovrebbe essere costituita da una rete di obblighi morali. Abbiamo il diritto di ignorare le persone che muoiono di fame, disse, ma dovremmo essere costretti a non lasciarle morire di fame.
Habermas è arrivato a credere che la «sostanza dell’umano» può essere salvata solo da società che «sono in grado di introdurre nel dominio secolare i contenuti essenziali delle loro tradizioni religiose». La profonda svolta di Habermas è un segno tra i tanti che l’identità dell’uomo laico moderno, che è stata costruita sulle nozioni esclusiviste della laicità, della libertà, della solidarietà e della democrazia in Stati nazionali sovrani, si è disfatta, e richiede una definizione più ampia.
Bisogna rinegoziare un nuovo spazio comune. Lo Stato militarmente e culturalmente interventista, favorevole alle imprese ma per il resto minimalista e che vuole spacciare una certa ideologia di crescita economica, non lo farà. Questa mancanza potrebbe anche giocare un ruolo nelle mani dei fanatici che vogliono distruggere il più prezioso lascito dell’Illuminismo: il distacco tra il teocratico e il politico.
Dovremmo recuperare l’Illuminismo, così come la religione, dai suoi fondamentalisti. Se l’Illuminismo è «l’emancipazione dell’uomo dalla sua immaturità auto-imposta», allora questo «compito» e «obbligo», come Kant lo definì, non è mai definitivamente compiuto; deve essere continuamente rinnovato da ogni generazione nel continuo cambiamento delle condizioni sociali e politiche. Sostenere la necessità di maggiore violenza e di altre guerre di fronte al fallimento ricorrente appartiene più al fanatismo che alla ragione.
Il compito per coloro che hanno a cuore la libertà è quello di ripensarlo - attraverso un ethos di critica unita alla compassione e a un’incessante consapevolezza di sé - nelle nostre società irreversibilmente miste e fortemente disuguali e nel più ampio e interdipendente mondo in cui viviamo. Solo allora saremo in grado di difendere la libertà dai suoi veri nemici.
Traduzione di Luis E. Moriones © Pankaj Mishra
Diritto naturale.
I lemmi di Kant
È stata completata l’edizione critica dei corsi che il filosofo tenne nel semestre estivo del 1784 a Königsberg. Un’opera monumentale
di Riccardo Pozzo (Il Sole-24 Ore, Domenica, 11.01.2015)
In tre volumi, è stata completata la nuova edizione critica lemmatizzata di un importante manoscritto di Kant sul diritto naturale, noto come Naturrecht Feyerabend dal nome dello studente che trascrisse le lezioni. Il testo riporta l’intero corso che Kant tenne nel semestre estivo del 1784 all’Università Albertina di Königsberg, commentando secondo l’usanza del l’epoca la quinta edizione del manuale in latino di Gottfried Achenwall, Ius naturae (Göttingen 1763). Nel Naturrecht Feyerabend gli studiosi trovano la prima esposizione completa della filosofia del diritto kantiana, ben tredici anni prima della prima parte della Metafisica dei Costumi, la Dottrina del diritto.
L’importanza di questa edizione è molteplice: si tratta infatti dell’unica trascrizione pervenutaci dei dodici corsi annunciati da Kant sul diritto naturale (a partire dal 1767). Era già stata pubblicata nell’edizione dell’Accademia delle opere di Kant, ma in appendice a un volume, senza apparato critico e soprattutto con una trascrizione dal manoscritto approntata in gran fretta dal curatore, Gerhard Lehmann, lasciando sul campo una quantità notevole di errori, anche gravi, che rendevano il testo poco utilizzabile (e finora poco esaminato, nonostante la sua importanza).
Frutto di una rilettura integrale del manoscritto, la nuova edizione ci restituisce il testo in una versione affidabile, con un ampio apparato critico di note, indici e concordanze, che consentono un inquadramento assai preciso del corso del semestre estivo del 1784, preparato in un anno decisivo per la genesi della Critica della ragion pratica, precisamente negli stessi mesi che Kant dedicava alla stesura finale di Che cos’è l’illuminismo? e della Fondazione della metafisica dei costumi, usciti rispettivamente nel 1784 e 1785. I tre testi contemporanei s’illuminano a vicenda su temi decisivi come la libertà e la dignità dell’uomo. Tra pochi mesi uscirà presso Bompiani l’edizione italiana, bilingue, a cura di Hinske e Sadun Bordoni. Va segnalato che la traduzione in inglese prevista anni fa nel quadro della Cambridge Edition of the Works of Immanuel Kant è stata sospesa in attesa di questo nuovo testo critico, che sarà tradotto presto anche in francese, spagnolo, portoghese e altre lingue.
Leggiamo nell’introduzione del Naturrecht: «Nel mondo come sistema di scopi deve esserci uno scopo ultimo, e questo è l’essere razionale. Se non ci fosse alcuno scopo, anche i mezzi sarebbero inutili e non avrebbero alcun valore. - L’uomo è scopo, ed è pertanto contraddittorio che egli possa essere semplicemente mezzo. \ - L’uomo, cioè, è scopo in se stesso, e può pertanto avere solo un valore intrinseco, cioè avere dignità, nessun equivalente del quale può essere posto. Le altre cose hanno un valore estrinseco, ovvero un prezzo, onde ciascuna cosa, che è parimenti funzionale a un certo scopo, può essere posta come equivalente. Il valore intrinseco dell’uomo si fonda sulla sua libertà, sul fatto che egli possiede una propria volontà.
Dato che egli deve essere il fine ultimo, la sua volontà non deve dipendere da null’altro» (p. 5 - KgS 27/2/2:1319s.). In queste righe troviamo annunciato da Kant per la prima volta il grande tema della dignità dell’uomo, oggi più che mai da porre al centro del nostro orizzonte morale.
Il Naturrecht Feyerabend sarà presentato a Roma presso l’Aula Marconi del Consiglio Nazionale delle Ricerche, Piazzale Aldo Moro 7, il 13 gennaio alle ore 16,00 con interventi di Agata Amato, Francesco D’Agostino, Tullio De Mauro, Tullio Gregory, Giacomo Marramao e Loris Sturlese. Saranno presenti gli autori.
Heinrich P. Delfosse, Norbert Hinske, Gianluca Sadun Bordoni, Stellenindex und Konkordanz zum "Naturrecht Feyerabend", Forschungen und Materialien zur deutschen Aufklärung, vol. III/30, Frommann-Holzboog, Stuttgart Bad Cannstatt 2010-2014, 3 voll., p. XLI-206; CXXXV-174; LXI-617; ISBN 9783772815607, 9783772825910, 9783772826580.
Il sapere. Corso su Michel Foucault (1985-1986)
di Gilles Deleuze (Alfabeta2, 15 giugno 2014
Dalla prima lezione (22.10.1985)
Oggi vorrei cominciare tastando in qualche modo il terreno. Vi faccio una richiesta, una richiesta a fidarvi dell’autore che studiate. Fidarsi dell’autore significa procedere tastando il terreno. Prima di comprendere a fondo i problemi che un autore pone è necessario, diciamo... rimuginare un bel po’. Bisogna assemblare e raggruppare le varie nozioni che ha inventato. Bisogna mettere a tacere le voci interne che muovono obiezioni, quelle che dicono troppo presto: “Ma qui c’è qualcosa che non va”. Insomma, bisogna lasciarlo parlare. Per capire bene il senso che dà alle parole, si deve analizzare la frequenza con cui esse compaiono. Bisogna inoltre mostrare sensibilità nei confronti del suo stile e delle sue ossessioni, anche se non è mai semplice. Ma anche il pensiero di Foucault non è semplice, perché è un pensiero che inventa le proprie coordinate e si sviluppa secondo i propri assi. A mio parere, il primo di questi assi è quello che Foucault chiama “archeologia”. L’archeologia è la disciplina degli archivi. Foucault cercherà di spiegare che cosa sono gli archivi in uno specifico libro, L’archeologia del sapere. Ma non prendiamo tutto alla lettera.
Il primo periodo di Foucault, direi da Storia della follia a Sorvegliare e punire, ruota attorno agli elementi che ci permetteranno di definire l’“archivio”. Senza dubbio l’archivio ha qualcosa a che fare con la storia, ha per oggetto una formazione storica. Gli archivi rinviano a formazioni storiche. A prima vista, questi sembrano solo giri di parole che non ci fanno fare passi avanti. L’archivio è sempre l’archivio di una formazione. Che cos’è una formazione storica? Foucault in L’uso dei piaceri, dunque in uno dei suoi ultimi libri, afferma che i suoi lavori sono “studi di ‘storia’”, “ma non lavori di ‘storico’” 1.
Foucault era in stretti rapporti con i fautori della nouvelle histoire, in sostanza gli allievi di Braudel, la cosiddetta “Scuola delle Annales”. Ma un rapporto può essere molto complesso. Foucault lo dice esplicitamente: non sono uno storico, sono e resto un filosofo. Eppure un’ampia parte del suo lavoro riguarda le formazioni storiche. Foucault replica: d’accordo, sono studi di storia, ma non il lavoro di uno storico. Che cosa vuole dire? L’affermazione viene precisata sempre in L’uso dei piaceri: “Non aspettatevi da me né una storia dei comportamenti né una storia delle mentalità” 2. Qui l’allusione è chiara. Infatti la Scuola delle Annales, o almeno una parte, proponeva una storia dei comportamenti e delle mentalità. Che cos’è, per esempio, una storia dei comportamenti? Anche qui abbiamo solo cenni molto sommari. Penso però a un libro di storia molto interessante, Les hommes et la mort en Anjou aux XVIIe et XVIIIe siècles 3. Come si muore in Anjou? Ottima domanda: questa è la storia di un comportamento, il comportamento della morte. Si potrebbe anche scrivere una storia su come si nasce. Per esempio, come si nasce in Piccardia in un dato periodo storico. Capite bene come per tutto ciò siano necessari gli archivi.
Ma Foucault ci dice: “non scrivo una storia dei comportamenti”. Si può pensare una storia dell’istinto materno, è stato già fatto. Insomma, il potenziale campo per una storia dei comportamenti è infinito. Come si mangia? Come si muore? Come ci si sposa? Come si crescono i figli? Come si partorisce? E così via. Ci può essere sia una storia dei comportamenti sia una storia delle mentalità. Credo che in molti all’inizio abbiano preso il lavoro di Foucault come una storiografia di tale genere. Per questo il nostro autore è stato associato così strettamente alla nouvelle histoire.
Ma Foucault ci dice chiaramente: non ho nulla a che vedere con tutto ciò. Questo non significa affatto che egli sostenga che tali argomenti non siano interessanti, ma solo che non sono il suo problema.
Ma allora che cosa gli interessa? All’improvviso, ecco una luce, che compare se avete letto un po’ di Foucault, o meglio ancora se l’avete letto molto. Se quello che gli interessa non sono i comportamenti, allora che cosa gli sta a cuore? Il “vedere”. Le ricostruzioni storiche di Foucault ruotano sempre attorno al “vedere”. Voi direte che oltre ai comportamenti non c’è nulla da vedere. Non per Foucault.
Procediamo con calma, la questione è molto complicata. Per Foucault, il vedere e i comportamenti cadono sotto due categorie ben diverse. Che cosa gli interessa quindi? Il “parlare”. Ma, si potrebbe aggiungere: “Le parole non rispecchiano forse mentalità?” Non per Foucault. È addirittura il contrario. Anche se non sarà facile, bisogna abituarsi all’idea che il vedere non è un comportamento come tutti gli altri, ma la condizione di tutti i comportamenti di una determinata epoca.
Il parlare non è l’espressione di una mentalità, è la condizione delle mentalità di un’epoca. In altre parole, quando scrive di parlare e vedere, Foucault vuole superare una storia dei comportamenti e delle mentalità per innalzarsi a considerare le condizioni dei comportamenti storici e delle mentalità storiche. Che cosa può giustificare una simile ambizione? Sta a noi cercare di scoprirlo.
Per Foucault il parlare e il vedere non sono variabili dei comportamenti o delle mentalità, ma condizioni alla loro base. La sua è una ricerca delle condizioni delle formazioni storiche. Che cosa si “dice” e che cosa si “vede” in una certa epoca? Per il momento definiamo un’epoca con parole molto inesatte (ma cambierà man mano che procediamo). Ogni epoca può venire definita, ci sembra, prima di tutto in base a ciò che vede e fa vedere, e in base a ciò che dice. -Vedere, far vedere e dire non si collocano sullo stesso livello del comportarsi in un certo modo o dell’avere questa o quella idea. Un regime del dire è la condizione di tutte le idee di un’epoca. Un regime del vedere è la condizione di tutto ciò che fa un’epoca. Ovviamente, ancor prima di aver capito, dieci o dodici obiezioni ci balzano alla mente. Calma! Aspettiamo. Erigere il vedere e il parlare a “condizioni” è cosa molto insolita. Indaghiamo. Dopotutto, può darsi che io mi sbagli. Se mi sbaglio, quello che dico non troverà conferma. Cerchiamo allora delle conferme. Proviamo a fare uno schema. Metto “vedere” da un lato e “parlare” dall’altro. Provo a completare lo schema in modo da essere sicuro di non tradire Foucault ancora prima di cominciare.
Mi rivolgo immediatamente, tralasciando l’ordine cronologico, a Le parole e le cose. Voi mi direte: ma le cose non sono solamente ciò che è visibile? Le parole e le cose, che dualismo strano! In fin dei conti, le cose sono visibili e le parole sono dicibili. Evidentemente questo non basta. Foucault sarà il primo a sconfessare il titolo del libro. Dirà: non è stato affatto capito quel che intendevo con “le parole e le cose”, questa espressione non significa le parole e non significa le cose. Il titolo deve essere inteso in chiave ironica 4. L’ironia è sfuggita al primo sguardo.
Una volta alle scuole elementari c’erano due discipline fondamentali: la lezione sulle cose e la lezione sulle parole, quella di grammatica. C’era l’ora in cui si studiavano le saline, e si mostrava una salina, o meglio l’immagine di una salina. La salina visibile, o l’ombrello visibile o, diciamolo pure, la pipa visibile. Questa era la lezione sulle cose. Il maestro diceva: questo è una pipa, questo è una salina. Poi nell’ora successiva c’era la lezione di grammatica, e allora si entrava nell’ordine del dire, diverso da quello del vedere. E se il dire è cosa diversa dal vedere, il dire “questo è una pipa” necessariamente si legge “questo non è una pipa”. Ovvero il dire non è il vedere.
La lezione sulle cose e la lezione di grammatica rinviano al libretto di cui parlavo, quello in cui Foucault commenta Magritte. Il quadro di Magritte, il disegno di una pipa, è la lezione sulle cose. Il titolo del quadro è Questo non è una pipa. Giocoforza, “questo è una pipa” diventa “questo non è una pipa”, nella misura in cui dire non è vedere. Se quello che vedo è una pipa, quello che dico, necessariamente, non è una pipa. Presto capiremo che cosa significa. Da cose e parole (prima coppia), siamo slittati a lezione sulle cose e lezione di grammatica (seconda coppia), o, se preferite, il disegno e il testo, come Foucault ci dirà in Questo non è una pipa. Arriviamo dunque a una terza coppia: disegno-testo. Il tema della terza coppia, “visibile-enunciabile”, torna costantemente in uno specifico libro di Foucault: Nascita della clinica. Che cosa rende visibile la malattia, all’epoca di cui il libro tratta? Il sintomo è ciò che fa vedere una malattia. Allo stesso tempo, la malattia non è solo l’insieme dei sintomi, cioè il visibile. È anche l’enunciabile, è una combinazione di segni. Tanto quanto il sintomo è visibile, il segno è leggibile. Il “visibile” e il “leggibile” non sono la stessa cosa. Il visibile e l’enunciabile, sul piano delle malattie, ma anche su quello della formazione della clinica e dell’anatomia patologica, costituiscono l’oggetto di Nascita della clinica.
Gilles Deleuze
Il sapere
Corsi su Michel Foucault (1985-1986)/1
Introduzione di Massimiliano Guareschi
ombre corte (2014), pp. 269, € 23,00
NOTE
Foucault, L’uso dei piaceri, cit., p. 14. Quella di Deleuze è una parafrasi. Il testo della traduzione italiana è: “Gli studi che seguono, come altri che avevo intrapreso precedentemente, sono studi di ‘storia’ per il campo che investono e i riferimenti che assumono; ma non sono lavori ‘di storico’”.
Foucault non parla propriamente di “mentalità”, ma di “comportamenti”. Cfr. Foucault, L’uso dei piaceri, cit., p. 9.
François Lebrun, Les hommes et la mort en Anjou aux XVIIe et XVIIIe siècles. Essai de Démograpfie et de psicologie historique, Mouton, Paris-La Haye 1971.
Michel Foucault explique son dernier livre (Intervista con J.-J. Brochier), in “Magazine littéraire”, 28, aprile-maggio 1969; ora in Michel Foucault, Dits et écrits (1954-1988), tome I: 1954-1975, Gallimard, Paris 2001.
Leggendo il filosofo tedesco e Platone si capisce meglio
La società dei minorenni
Ne bamboccioni né “choosy”
I giovani d’oggi ce li spiega Kant
di Umberto Curi (Corriere La Lettura, 02.12.2012)
Il copyright è saldamente nelle mani di Tommaso Padoa-Schioppa. Nell’ottobre del 2007, l’allora titolare del ministero dell’Economia nel secondo governo Prodi aveva infatti definito «bamboccioni» quei giovani che, sulla soglia dei trent’anni, continuavano a vivere in casa con i genitori. Benché duramente contestata, quella espressione era destinata ad aprire la strada a un vero florilegio di definizioni, analoghe nel contenuto, anche se differenti nella forma.
Nel giro di pochi anni, malgrado l’avvicendarsi dei governi, i giovani sarebbero stati chiamati «mammoni» (Brunetta, ministro del governo Berlusconi), «sfigati» (Martone, viceministro del governo Monti), «monotoni» (Monti, presidente del Consiglio), «choosy», più o meno: schizzinosi (Fornero, ministro del governo Monti), solo perché non avevano ancora conseguito la laurea, o perché aspiravano a un posto fisso, in un mercato del lavoro in cui la flessibilità è in realtà un eufemismo per indicare la precarietà.
Non si può dire che le polemiche divampate dopo queste esternazioni siano state un modello di eleganza o di rigore concettuale. Eppure, al fondo di un dibattito culturalmente desolante vi sarebbe in realtà una questione tutt’altro che banale o trascurabile. La si potrebbe riassumere nei termini seguenti: come si diventa maggiorenni? Assodata l’insufficienza del criterio puramente anagrafico, in base al quale la maggiore età coinciderebbe con il raggiungimento dei 18 anni, a quali parametri razionalmente definibili ci si può riferire per valutare la fuoriuscita dalla minorità? E poi: davvero basta abitare da soli, o essere disponibili a cambiare lavoro, per allontanare da sé l’infamante epiteto di choosy?
Una risposta appena un po’ meno occasionale a questi interrogativi può essere rintracciata in due testi filosofici, la cui importanza - anche per la comprensione di alcuni temi legati alla diatriba di cui parliamo - è abitualmente ignorata, o almeno non adeguatamente valorizzata. Da una secca definizione della minorità prende le mosse anzitutto un saggio di Immanuel Kant, tanto rilevante quanto per lo più negletto, anche perché offuscato dalla risonanza suscitata dalle tre Critiche. Essa non dipende affatto, secondo il filosofo, dall’età, ma consiste piuttosto in una carenza decisiva, quale è «l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro».
È opportuno sottolineare che lo scritto kantiano compare originariamente non in una rivista filosofica specializzata, ma in quello che si potrebbe definire un periodico di «varia umanità», quale era la «Berlinische Monatsschrift», in risposta a un interrogativo proposto nel fascicolo precedente da un religioso, il quale chiedeva che qualcuno si prendesse la briga di spiegare «che cos’è l’Aufklärung».
Conservare, almeno provvisoriamente, il termine tedesco non è una inutile civetteria, ma corrisponde all’esigenza di evitare i fraintendimenti ai quali ha dato luogo la traduzione italiana corrente, e gravemente negligente. Mentre, infatti, nel testo originale Aufklärung indica insieme quel movimento culturale che è stato chiamato «Illuminismo» e il «rischiaramento», inteso come processo mediante il quale è possibile «fare chiarezza», la traduzione italiana appiattisce l’ambivalenza del termine tedesco, rendendolo univocamente con «Illuminismo».
Mentre è del tutto evidente che l’iniziativa assunta da Kant con la sua Risposta, pubblicata nel gennaio del 1784, non è motivata dalla volontà (che sarebbe poco comprensibile) di offrire una definizione tecnica di un movimento filosofico, quanto piuttosto dalla ben più significativa esigenza di spiegare in che modo si possa realizzare il «rischiaramento» intellettuale.
Ne è prova il testo del saggio, scritto in maniera limpida e particolarmente incisiva, senza alcuna concessione a «tecnicalità» filosofiche, presumibilmente inadatte al pubblico eterogeneo a cui si rivolgeva la rivista. Aufklärung - scrive Kant - è uscire dallo stato di minorità, è avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza, senza soggiacere alla guida di altri. Più esattamente, essa si identifica con una decisione - quella di diventare Selbstdenker, vale a dire letteralmente «uno che pensa con la propria testa». Né questo monito deve apparire scontato o pleonastico.
Al contrario, secondo il filosofo, «la stragrande maggioranza degli uomini ritiene il passaggio allo stato di maggiorità, oltre che difficile, anche pericoloso», e dunque preferisce sottrarsi a quella «fastidiosa occupazione» che richiede l’uso libero delle proprie capacità intellettuali. «È così comodo - sottolinea ancora l’autore delle Critiche - essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che valuta la dieta per me eccetera, non ho certo bisogno di sforzarmi da me».
Di qui una conclusione linearmente deducibile dalle premesse poste: se si vuole diventare maggiorenni, è necessario sottrarsi alla custodia di quei tutori che costantemente invitano a non ragionare («L’ufficiale dice: non ragionate, fate esercitazioni militari! L’intendente di finanza: non ragionate, pagate! L’ecclesiastico: non ragionate, credete!»), usando invece sistematicamente la propria intelligenza, senza soggiacere alla presunta autorità altrui. Insomma, minorenni - o se si preferisce «bamboccioni» - si può essere a qualunque età. Lo è anzi chiunque fra noi eviti di pensare con la propria testa, delegando di conseguenza ad altri questa «fastidiosa occupazione».
Un ragionamento convergente con quello contenuto nel saggio kantiano si ritrova già in uno dei Dialoghi platonici più noti, anche se spesso misinterpretato. Al centro del Sofista, infatti, vi è la ricerca, condotta da due personaggi presumibilmente «giovani» (tale è se non altro con certezza Teeteto, mentre il suo interlocutore, presentato come lo Straniero, proveniente da Elea, è giovane se non altro nel senso della sua condizione di discepolo rispetto al «grande» Parmenide), impegnati a fornire una definizione della figura del sofista.
L’indagine a due voci prosegue a ritmo serrato, e con esiti apparentemente soddisfacenti, fino a che i protagonisti si imbattono in una difficoltà che minaccia di compromettere radicalmente l’impresa nella quale si stanno cimentando.
Per poter sostenere la conclusione alla quale sono pervenuti, e cioè che il sofista è colui che esercita l’arte di far apparire ciò che non è, essi dovrebbero implicitamente riconoscere che anche il non essere, da un certo punto di vista è, mentre l’essere, sia pure da un certo punto di vista, non è. Ma questa affermazione contraddice frontalmente un divieto, quello proveniente dal «padre» Parmenide, secondo il quale il non essere è «inesprimibile», «impronunciabile», «illogico».
La situazione nella quale si vengono a trovare Teeteto e lo Straniero appare dunque inchiodata a un’alternativa drammatica: piegarsi all’osservanza della proibizione parmenidea, con ciò tuttavia privandosi del logos, e dunque perdendo la possibilità di dire alcunché, ovvero avere il coraggio di epitíthesthai tó patrikó lógo - «dare l’attacco al discorso paterno».
L’impiego di una metafora bellica non è casuale nel contesto di un dialogo in cui ritornano insistentemente termini desunti dal lessico polemologico. Serve a sottolineare quanto delicata sia la scelta che si è chiamati a compiere, quanto sia letteralmente vitale - «questione di vita o di morte», si legge nel testo platonico - la posta in gioco.
È noto il compimento di questo percorso. Onde riprendere la possibilità di parlare e di pensare, i due interlocutori saranno indotti a «torturare» il padre e a «usare violenza» su di lui, giungendo al punto da sfiorare il parricidio.
Per quanto temerario possa apparire questo esito, esso resta l’unica possibile via da percorrere, l’unico modo per riguadagnare il cammino, uscendo dalla mancanza di strada, dall’a-poria, dunque, in cui ci si era imbattuti. Mentre, infatti, Parmenide vorrebbe «trattarci da bambini», «raccontandoci delle favole» e «dialogando con noi con atteggiamento di sufficienza», è imperativo per noi riprenderci il logos, e assoggettare a un vaglio rigoroso le affermazioni «paterne».
Dopo questa autentica svolta, improntata alla rinuncia a ogni filiale subordinazione, la ricerca che si era incagliata può riprendere, giungendo speditamente alla sua conclusione. Teeteto e lo Straniero sono diventati maggiorenni. Non subiranno più i divieti del padre «venerando e terribile». Non accetteranno di farsi trattare da bambini, né si accontenteranno di ascoltare delle favole.
Il compimento dell’intenso drama descritto da Platone ci riporta alla Risposta kantiana. Essere maggiorenni non è un dato di carattere anagrafico, né una condizione statica, nella quale si possa dire di risiedere stabilmente. È una conquista, che impegna energie morali, come il coraggio e la decisione, e risorse intellettuali. Ed è la meta, mai definitivamente raggiunta, di una lotta anzitutto con se stessi, con la viltà di chi preferisca affidarsi alla tutela altrui.
E forse allora si può comprendere fino in fondo il senso dell’affermazione kantiana quando rileva, con un realismo spinto fino al disincanto, che minorenne è ancora la stragrande maggioranza degli uomini. Insomma, per quanto possa apparire paradossale, i giovani che al giorno d’oggi stanno lottando per guadagnarsi la loro autonomia sono meno bamboccioni di coloro che ripetono acriticamente le formule imposte da altri.
Manca un mediatore tra le generazioni
Teeteto e lo Straniero sono diventati maggiorenni. Non subiranno più i divieti del padre "venerando e terribile". Non accetteranno di farsi trattare da bambini, né si accontenteranno di ascoltare delle favole.
di Corrado Ocone (Corriere della Sera La Lettura, 02.12.2012)
Non c’è dubbio che il dibattito pubblico italiano degli ultimi tempi sia come attraversato da una retorica giovanilista, spesso fatta propria da quelle persone anziane e ben collocate che a tutto pensano fuorché a farsi da parte. È una retorica che riproduce, col segno cambiato, il modo di ragionare di certe stucchevoli apologie della vecchiaia come età della saggezza, di cui parla Bobbio nel suo De Senectute.
Il filosofo torinese, a ben vedere, ci dà anche la chiave per ragionare sulla dicotomia giovani-vecchi, invitandoci a considerare la questione almeno sotto tre aspetti: l’età anagrafica, quella biologica e quella psicologica o soggettiva. Non dimenticando che oggi essere o sembrare giovani è diventato quasi un obbligo, sicuramente una moda, e comunque una tendenza che l’industria dei consumi asseconda promuovendo diete, lifting, modi di vivere che ci facciano sembrare sempre giovani.
Però l’aspetto più rilevante della questione è che, nel giovanilismo diffuso e praticato, si sia come persa l’importante funzione di elaborazione e trasmissione del sapere che un tempo regolava il rapporto fra le generazioni. E che quasi accompagnava per mano i giovani nel crescere. Una funzione che si esplicava in istituzioni appositamente create per adempiere a questo scopo. Le quali oggi, anche se continuano ad esistere formalmente, si sono di fatto, tranne pochissime eccezioni, svuotate dell’aura che la funzione esercitata finiva per conferire loro.
Era inimmaginabile ad esempio che chi facesse politica non si fosse formato nelle scuole di partito, o lavorando a fianco di un politico navigato. Le carriere nella pubblica amministrazione, ma anche nel privato, seguivano percorsi ben definiti, che potevano certamente essere accelerati da coloro che erano dotati di un particolare ingegno, ma che comunque non potevano essere ignorati come accade oggi nelle assunzioni per «chiamata diretta».
Per non parlare dell’Università, ove era sempre il docente che cooptava, ma allora lo faceva avendo cura di scegliere i più bravi: sia perché teneva al prestigio derivante dall’autorevolezza morale, sia per continuare la tradizione di pensiero con cui si identificava e a cui spesso aveva dedicato la sua vita di studioso. Il Maestro, come veniva chiamato (nessuno avrebbe osato chiamarlo barone), non aveva certo bisogno, per individuare i continuatori del suo impegno, degli astratti metodi quantitativi oggi in voga, fatti apposta, sembrerebbe, per avvalorare nuovi imbrogli. Persino le parrocchie e le scuole religiose svolgevano una funzione di «educazione alla vita».
Ora, con tutto questo non si vuole certo esaltare il buon tempo antico, che aveva anch’esso i suoi limiti e i suoi difetti. Anche perché di acqua ne è passata tanta sotto i ponti e non si può pensare di fermare il mondo, il che, oltre che stupido, sarebbe anche ingiusto: oggi già un adolescente si trova immerso in una rete di dati ed è sottoposto all’azione di una quantità di «agenzie formative» (diciamo così con un eufemismo).
Quel che si vuole constatare è semplicemente un fatto, che tocca a noi capire e regolare, o (se lo riteniamo) contrastare: il problema del rapporto fra giovani e vecchi riguarda anche la generale scomparsa del «terzo», nella fattispecie dei luoghi di mediazione e di formazione in cui giovani e meno giovani, interagendo, potevano reciprocamente arricchirsi e completarsi, perché anche chi non è più giovane ha bisogno di rinfrescare il suo sapere, di sottoporlo alle naturali e irriverenti forze vitali che rompono le incrostazioni o le abitudini consolidate.
Scomparsa del «terzo» è anche il rinchiudersi delle generazioni in loro stesse: i leader non vogliono mollare il potere perché non danno per garantito che i nuovi continuino la loro opera; i giovani vogliono semplicemente quel potere, dimentichi che il vero nuovo deve porsi in rapporto dialettico con il vecchio, «superandolo» e non semplicemente «rottamandolo». «Il Partito democratico invece di rinnovarsi si limita a cambiare di nome, laddove i nomi dei suoi dirigenti restano invariabilmente gli stessi», osserva Antonio Funiciello nel libro A vita (Donzelli).
Ma il discorso non riguarda solo la politica. Può una società funzionare a lungo con il «principio del terzo escluso»? Il rapporto fra le generazioni, senza un luogo di mediazione, non rischia di porsi su un terreno aspramente conflittuale? E a chi giova un antagonismo fra vecchi e giovani non sulle idee, come in passato, ma solo sulle posizioni di potere da occupare? Più in generale: è possibile sottrarre il rapporto fra generazioni a una logica dicotomica che trascura il carattere chiaroscurale del mondo? Introdurre qualche elemento di consapevolezza è già un primo tentativo di risposta a queste domande.
Il futuro dell’Unione tra crisi e populismo
I filosofi e l’economia, simposio a Parigi
di Jurgen Habermas (la Repubblica, 10.11.2011)
Sul breve termine, tutte le attenzioni devono essere concentrate sulla crisi. Ma al di là di questo, gli attori politici non dovrebbero dimenticare i difetti di costruzione che sono alla base dell’unione monetaria e che potranno essere rimossi non più solo attraverso un’unione politica adeguata: l’Unione Europea non dispone delle competenze necessarie per armonizzare le economie nazionali, che presentano divergenze marcate sul piano della competitività. Il «patto per l’Europa» appena ribadito serve solo a ribadire un difetto antico: gli accordi non vincolanti fra capi di governo sono o inefficaci o antidemocratici e per questa ragione devono essere sostituiti da un’incontestabile istituzionalizzazione delle decisioni comuni.
Da quando l’embedded capitalism è tramontato e i mercati globalizzati della politica stanno evaporando, diventa sempre più difficile per tutti gli Stati dell’Ocse stimolare la crescita economica e garantire una ripartizione giusta degli introiti, e garantire la sicurezza sociale della maggioranza della popolazione. Dopo la liberalizzazione dei tassi di cambio, questo problema è stato disinnescato dall’accettazione dell’inflazione. Dal momento che questa strategia comporta dei costi elevati, i governi utilizzano sempre più la scappatoia delle partecipazioni ai bilanci pubblici finanziate con il credito. La crisi finanziaria che va avanti dal 2008 ha fissato anche il meccanismo dell’indebitamento pubblico a spese delle generazioni future; e nel frattempo non si capisce come le politiche di austerity - difficili da imporre sul fronte interno - possano essere conciliate sul lungo periodo con il mantenimento di un livello sopportabile di Stato sociale.
Dato il peso dei problemi, ci si aspetterebbe che i politici, senza rinvii e senza condizioni, mettano finalmente sul tavolo le carte europee, in modo da chiarire esplicitamente alle popolazioni la relazione fra costi a breve e utilità reale, vale a dire il significato storico del progetto europeo. Dovrebbero superare la loro paura dei sondaggi di opinione e affidarsi alla potenza persuasiva dei buoni argomenti. Invece strizzano l’occhio a un populismo che loro stessi hanno favorito occultando un tema complesso e impopolare. Sulla soglia dell’unificazione economica e politica dell’Europa, la politica sembra esitare e tirarsi indietro. Perché questa paralisi? È una prospettiva prigioniera del XIX secolo, che impone la risposta nota del demos: un popolo europeo non esiste e dunque un’unione politica degna di questo nome sarebbe costruita sulla sabbia. A questa interpretazione vorrei contrapporne un’altra: una frammentazione politica duratura nel mondo e in Europa è in contraddizione con la crescita sistemica di una società mondiale multiculturale e blocca qualsiasi progresso nel campo della civiltà giuridica costituzionale dei rapporti di forza fra Stati e dei rapporti di forza sociali.
Fino a questo momento l’Ue è stata portata avanti e monopolizzata dalle élite politiche e il risultato è stata una pericolosa asimmetria tra la partecipazione democratica dei popoli ai benefici che i loro Governi «ricavano» per sé stessi sul remoto palcoscenico di Bruxelles e l’indifferenza, per non dire assenza di partecipazione, dei cittadini dell’Ue rispetto alle decisioni del loro Parlamento di Strasburgo. Questa osservazione non giustifica una sostanzializzazione dei «popoli». Solo il populismo di destra continua a proiettare la caricatura di grandi soggetti nazionali che si chiudono a vicenda e bloccano qualsiasi formazione di volontà transnazionale.
Negli Stati territoriali si è dovuto cominciare installando l’orizzonte fluido di un mondo della vita diviso in grandi spazi e attraverso relazioni complesse, e riempirlo con un contesto comunicativo rilevante della società civile, con il suo sistema circolatorio delle idee. Va da sé che una cosa del genere si può fare soltanto nel quadro di una cultura politica condivisa che resta abbastanza vaga. Ma più le popolazioni nazionali prendono coscienza, e più i media fanno prendere loro coscienza, della profonda influenza che le decisioni dell’Ue esercitano sulla loro vita quotidiana, più crescerà il loro interesse a esercitare anche i loro diritti democratici in quanto cittadini dell’Unione. Questo fattore di impatto è diventato tangibile con la crisi dell’euro. La crisi costringe anche il Consiglio europeo, a malincuore, a prendere decisioni che possono pesare in modo squilibrato sui bilanci nazionali.
La conseguenza di un «governo economico» comune, che piace anche al Governo tedesco, significherebbe che l’esigenza centrale della competitività di tutti i Paesi della comunità economica europea si estenderebbe ben al di là delle politiche finanziarie ed economiche e arriverebbe a toccare i bilanci nazionali, intervenendo fino al ventricolo del muscolo cardiaco, cioè fino al diritto dei Parlamenti nazionali di prendere decisioni di spesa.
Se non si vuole violare in modo flagrante il diritto vigente, questa riforma in sospeso è possibile solo trasferendo altre competenze degli Stati membri all’Unione. Angela Merkel e Nicolas Sarkozy hanno raggiunto un compromesso tra il liberalismo economico tedesco e lo statalismo francese che ha contenuti ben diversi. Se ho ben capito, cercano di trasformare il federalismo esecutivo implicito nel trattato di Lisbona in un predominio del Consiglio europeo (l’organo intergovernativo dell’Unione) contrario al trattato. Un sistema del genere consentirebbe di trasferire gli imperativi dei mercati sui bilanci nazionali senza alcuna reale legittimazione democratica.
L’Unione deve garantire quello che la Legge fondamentale della Repubblica federale tedesca chiama (art. 106, comma 2): «l’omogeneità delle condizioni di vita». Questa «omogeneità» fa riferimento solo a una stima delle situazioni della vita sociale che sia accettabile dal punto di vista della giustizia distributiva, non a un livellamento delle differenze culturali. Un’integrazione politica fondata sul benessere sociale è indispensabile se si vuole proteggere la pluralità nazionale e la ricchezza culturale del biotopo della «vecchia Europa» dal livellamento nel quadro di una globalizzazione che avanza a ritmo sostenuto.
© Le Monde (tradotto da Denis Trierweiler e Fabio Galimberti)
L’eclisse della modernità
vite precarie oltre l’ordine costituito
"In due libri di Zygmunt Bauman l’ambivalenza e il consumo sono la chiave di accesso alla comprensione di società che sacrificano la libertà in nome della sicurezza. Ma occorre pensare criticamente la trasformazione della realtà".
di Benedetto Vecchi (il manifesto, 11.06.2010)
Il Novecento è stato il secolo delle promesse non mantenute. Secolo tremendo, certo, ma che lascia un’eredità respinta da molti contemporanei: la convinzione, cioè, che fosse possibile abolire il regno della necessità dove vivono la maggioranza degli uomini e delle donne per instaurare quello basato della libertà. Una promessa che non va iscritta solo al socialismo, l’esperienza più congrua all’idea di progresso maturata agli albori della modernità, ma anche alle società capitaliste. Perché se a Est dell’Elba quell’orizzonte così vicino, ma al tempo stesso lontanissimo di libertà ha legittimato regimi politici autoritari, nell’Europa figlia della grande filosofia tedesca e francese il capitalismo ha invitato uomini e donne a marciare compatti verso un avvenire in cui la sicurezza economica era in armonia con i diritti civili, politici e sociali.
Il socialismo e il capitalismo potevano inoltre fare leva su uno strumento davvero efficace nel trasformare in realtà la promessa di libertà, e di felicità. Lo stato-nazione, infatti, come un buon giardiniere era legittimato a estirpare tutte le erbacce che potevano infestare la nazione nel processo di costruzione di una società perfetta.
Alla fine del Novecento di quella promessa si vedono solo le macerie. Ma sbaglierebbe chi pensasse solo ai detriti lasciti dalla caduta del Muro di Berlino, perché è il progetto moderno che ha subito uno smacco, una sconfitta, perché il giardiniere, cioè lo stato, ha fallito nel suo progetto di edificare la società perfetta. Il disordine, il ritorno di credenze che si pensavano definitivamente archiviate grazie all’uso della ragione occupano ormai la scena stabile sia nelle realtà nazionali postsocialiste che nell’opulento capitalismo.
La retorica postmoderna
A scrivere del fallimento della modernità non è un incallito decostruzionista folgorato dagli scritti di Jacques Derrida o un nichilista sui generis, ma l’appassionato studioso della modernità Zygmunt Bauman in un volume scritto nel 1991 e finalmente tradotto dalla casa editrice Bollati Boringhieri (Modernità e ambivalenza, pp. 347, euro 25). Scritto cioè negli anni segnati dalla caduta del Muro e dall’annuncio di una guerra, quella del Golfo: due eventi, per usare un’espressione che lo studioso polacco giustamente usa con molta parsimonia, che hanno davvero cambiato il panorama mondiale.
Bauman, tuttavia, non è né un nostalgico delle democrazie popolari e ha ancora ben forte il ricordo della seconda guerra mondiale per rigettare culturalmente e politicamente il ricorso agli eserciti per dirimere i conflitti tra stati. Scrive il saggio mettendo i due eventi sullo sfondo, perché vuol fare i conti con la retorica, allora imperante, sulla fine delle grandi narrazioni e con quel minimalismo teorico che è stato chiamato postmoderno.
Termine quest’ultimo che Bauman usa sempre con circospezione per alcuni anni, per poi abbandonarlo e sostituirlo con «modernità liquida», espressione diventata così di moda che in tempi recenti, come nel libro pubblicato una manciata di settimane prima di quello sull’ambivalenza (L’etica in un mondo di consumatori Laterza, pp. 235, euro 16), preferisce laasciarla cadere nell’oblio, perché corrosa nella sua capacità descrittiva dal rumore di fondo che caratterizza la discussione pubblica.
Nonostante siano separati da vent’anni, i due libri sono tuttavia complementari, perché nel primo sono definiti tutti i nodi teorici che nel secondo saggio trovano una parziale soluzione, laddove Bauman afferma che viviamo ancora in una modernità che continua a inseguire il sogno di una libertà tanto radicale quanto foriera di felicità. Ma lo strumento per trasformare quel sogno in realtà non attiene più allo stato-nazione, ma al consumo, dove il principio del piacere regna sovrano. Peccato, però, che il consumo non consente che una misera libertà, quella appunto di essere plasmati dalla merce che si acquista e si getta via dopo poco tempo, perché si rischia di essere «disconnessi» dalla società.
In altri termini, per Bauman, il consumo è la forma attraverso il quale viene esercitato un impalpabile dominio. In questo caso, però, la categoria dell’ambivalenza torna utile. Da una parte il consumo è sì la forma socialmente definita per ratificare l’assoggettamento al regno della necessità, ma per chi vive precariamente sul confine tra inclusione e esclusione sociale è il modo per ottenere il riconoscimento di alcuni diritti civili e sociali.
Ma se nel libro Modernità e ambivalenza lo studioso di origine polacca voleva fare i conti i conti con le contraddizioni del progetto moderno, nel saggio dedicato al consumo preferisce svelare l’inganno che si cela dietro la centralità assegnata al principio del piacere, in base al quale ogni uomo o donna può recidere ogni legame e rapporto di reciproca responsabilità con i suoi simili. Insomma, due momenti di un movimento della prassi teorica di Bauman dove i fratelli gemelli della società contemporanea - il caos e l’ordine - sono ricondotti alla comune matrice racchiusa nel progetto di «buona società».
Il tratto saliente della modernità, afferma Bauman, è la continua battaglia contro l’ambivalenza, che non è, come sostengono alcuni filosofi, un limite del linguaggio nel nominare una realtà sfuggente, bensì il sentimento dominante di qualsiasi forma di vita sociale. Ogni azione, ogni scelta ha una sua ambivalenza, cioè sono azioni e scelte aperte a esiti tra loro sempre confliggenti. Per questo la modernità ha come pilastri l’attitudine a catalogare, classificare, definire, manipolare quei comportamenti tanto individuali che collettivi per impedire all’ambivalenza di manifestare il suo potere, alimentando così il caos. E così, mentre si appresta a realizzare un così ambizioso progetto, la modernità svela anche il suo lato oscuro, coercitivo, autoritario. Un lato oscuro che nel Novecento ha talvolta preso il sopravvento, mettendo in discussione e spesso all’angolo le aspirazioni alla libertà, all’eguaglianza e alla fraternità.
In difesa del flâner
Questa «dialettica dell’illuminismo» ha avuto, ma questo è noto, la sua massima manifestazione nelle baracche e nei forni allestiti a Auschwitz per sterminare gli ebrei. Nei lager, infatti, le arti della catalogazione, della pianificazione per cancellare ogni forma di ambivalenza sono state coltivata con un’attitudine moderna. Da questo punto di vista, l’ambivalenza strutturale delle figure dello straniero e dell’ebreo ha costituito la condizione mimetica di una resistenza al principio ordinatore della modernità. Lo straniero e l’ebreo, figure distinte, ma spesso coincidenti, sono infatti gli «indecidibili», cioè vivono in una società che non li vuol mai sentire parte integrante della nazione. E per quanti sforzi facciamo, gli stranieri e gli ebrei, per essere assimilati, rimangono sempre incarnazione di una estraneità. Meglio di un’ambivalenza considerata ostile per chi definisce le regole dell’ordine sociale.
La resistenza alla funzione ordinatrice della modernità mette così in discussione il suo lato oscuro, oppressivo, assieme al concetto stesso di società. Da questo punto di vista è del tutto condivisibile il richiamo a Georg Simmel, lo studioso tedesco che ha messo al centro della sua analisi sulle forme di vita metropolitane proprio il concetto di ambivalenza in quanto carattere immanente della socialità, cioè di quell’attitudine solo umana al vivere insieme per produrre le condizioni necessarie alla riproduzione della specie.
Il flâner e il conseguente atteggiamento blasè studiati da Georg Simmel, e da Walter Benjamin, sono quindi da considerare come il rifiuto dell’imposizione di una verità che la modernità vuole universale. Ma la verità, come l’universalismo dei valori, hanno una funzione sociale, sono cioè i termini in cui si manifesta il rapporto asimmetrico di potere tra dominanti e dominati. E questo il secondo smacco che la modernità conosce, perché la critica al concetto di verità e dell’universalismo dei valori nasce proprio nel cuore della modernità, in quella Europa e in quegli Stati Uniti che si sono investiti del ruolo civilizzatore del mondo.
La forza dissacrante del postmoderno risiede dunque nell’aver usato tutti gli strumenti della modernità per criticarla. E proprio quando celebra la fine della modernità, il postmoderno ne riafferma una delle caratteristiche principali, l’esercizio della critica e la potenza della ragione rispetto alle credenze particolari. Nulla di nuovo, dunque, sotto il sole. Non fine della modernità, ma l’eclissi di quella fiducia nel progresso che avrebbe avuto al capolinea della storia .la società perfetta tanto agognata.
Più prosaicamente, annota amaramente Bauman, è ormai il consumo la linfa vitale delle società contemporanee. Attraverso il consumo uomini e donne inventano la loro identità, che si può cambiare allorquando arriva sul mercato un’altra linea di abbigliamento o telefono cellulare. Ed è attraverso il consumo che si combattono, infine, le battaglie per il riconoscimento, dopo che le appartenenze sociali hanno perso il potere ordinativo.
Identità prêt-à-porter
È in questa situazione che lo stato-nazione ha dismesso i panni del giardiniere e si è riconvertito al mestiere di guardiano affinché la santa trinità delle società tardomoderne - securitè, paritè, reseau, cioè sicurezza, parità e rete - sia al riparo dalla potere potenzialmente distruttivo dell’ambivalenza. L’ambivalenza va quindi addomesticata, facendola diventare la leva per alimentare la spinta a nuovi consumi che «l’essere malinconico» della tardomodernità viva la sua condizione di infelicità e di oppressione come tollerabile.
Lo stato garantisce quindi la sicurezza, aggiornando continuamente la tassonomia degli stranieri e degli indesiderabili in nome della sicurezza nazionale. Al mercato il compito di garantire la parità non delle condizioni sociali, ma di essere sulla stessa linea di partenza nella corsa all’acquisto, attraverso una merce griffata, di uno stile di vita e di una identità. Ai singoli spetta il compito di costruire la propria appartenenza, attraverso una effimera rete di legami che non vincola niente e nessuno.
Celebrato come uno dei massimi sociologi della contemporaneità, Bauman è uno studioso che ha sempre privilegiato l’ottimismo della ragione rispetto al pessimismo della volontà. Se critica va fatta ai suoi testi riguarda il rifiuto di considerare l’ambivalenza un fattore potenzialmente sovversivo della realtà.
L’ambivalenza non come ambiguità, ma come condizione aperta alla possibilità di trasformare la realtà.
Accanto alle figure dello straniero e dell’ebreo andrebbe infatti aggiunta anche quella del «precario». Il precario e la precarie sono infatti l’incarnazione dell’ambivalenza. Oscillanti tra lavoro e non lavoro, sono costretti nella camicia di forza di un lavoro salariato spogliato però di quei diritti sociali che lo avevano reso condizione sopportabile. Non vincolato a nessuna stabile e duratura gerarchia, ma tuttavia costretti a inventaris il suo reseau sociale. Ma questa condizione ambivalente è aperta alle possibilità della trasformazione sociale.
Di questo programma di lavoro teorico e politico Bauman sorriderebbe. Ha attraversato il Novecento e ha sperimentato nella Polonia il vecchio adagio che le strade dell’inferno sono lastricate sempre da buone intenzione. In questo caso non ci sono però buone intenzione, né la ricerca della strada per il paradiso. Semmai c’è l’urgenza teorica e dunque politica di riprendere il cammino verso il regno della libertà.