LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
Della Volpe, con Marx dalla parte di Galilei
di Michele Prospero (l’Unità 13.07.2008)
Quando, nei primi anni Quaranta, Galvano Della Volpe si accostò al marxismo, aveva già alle sue spalle una assai intensa e molto marcata produzione teorica. Poco italiana si potrebbe anche dire, per via della sua impronta quasi neopositivista. Non si può però in alcun modo parlare di «due» Della Volpe. Il filosofo che, dopo aver varcato i 40 anni, scoprì Marx non compì affatto una rottura con la sua ventennale riflessione. Collocò piuttosto il nucleo del suo precedente lavoro filologico-critico, mirante a rivendicare la positività dell’esperienza sensibile, nelle nuove categorie analitiche che esploravano il mondo dell’empirico sociale.
Non è un caso che il suo Marx sia proprio il giovane autore della Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, opera che Della Volpe lesse come depositaria più d’ogni altra del paradigma scientifico di Marx. Non è per caso che questo sia avvenuto. In fondo le istanze critiche ospitate nel manoscritto del 1843, che della Volpe tradusse e impose a lungo nel dibattito teorico, ricalcavano lo stesso tragitto intrapreso dal filosofo imolese scomparso il 13 luglio del 1968.
A ispirare la radicale critica di Marx alla dialettica hegeliana comparivano infatti l’Aristotele del libro quarto della Metafisica, un certo Kant ostile al razionalismo astratto leibniziano in nome della positività del sensibile, il Feuerbach scopritore dell’oscuro sottofondo teologico della filosofia moderna dopo Cartesio. Insomma, proprio gli stessi riferimenti gnoseologici di Della Volpe (Hume e Galilei a parte). La figura di Marx non poteva che affacciarsi in lui come il compimento di una linea critica e rigorosamente laico-scientifica di interpretazione del reale.
Anche quando Della Volpe si muoveva ancora ben dentro le coordinate dell’idealismo filosofico (più di Gentile che di Croce) non mancavano affatto nelle sue pagine le sollecitazioni feconde di questa sua autentica ossessione per un uso non teologico della ragione. La sua rimostranza verso l’attualismo gentiliano concerneva proprio l’uso della nozione ambigua, e in fondo mistica, della ragione come unità o sintesi originaria degli opposti.
Il programma teorico dellavolpiano di una logica come scienza positiva, annunciato negli anni cinquanta, era già impostato nei suoi pilastri essenziali in un testo fondamentale del 1941 dal titolo Critica dei principi logici. Fra l’altro qui Della Volpe faceva i conti con «il conservatore d’oggi Gentile» e la sua «laica religiosità dello spirito» che ingoiava la formula misticheggiante della verità come precostituita o pretesa unità intemporale. La logica attualistica del concreto falliva in pieno nel render conto dell’empiria o contingenza e annullava l’effettività reale nel puro pensiero pensante o uno.
Il rilievo di Della Volpe era al riguardo molto radicale: «Del mero uno non ci può essere logica, ma soltanto una mistica». Dal misticismo logico, che destituiva il particolare sensibile di ogni positività, si usciva solo recuperando quella che Della Volpe chiamava «la pura, schietta singolarità e conseguente adialetticità del senso», ossia tenendo fermo il tratto, irriducibile al pensiero, del particolare molteplice assunto quale fondamento del giudizio e della storicità del reale.
Per un filosofo antidialettico come Della Volpe il neoidealismo di Croce e Gentile, proprio come quello classico di Hegel, si muoveva in un «soliloquio dell’idea» che tramutava la ragione, da forma o espressività, in autocoscienza o unità immediata di finito e infinito. Il «trascendentale» veniva cioè trasformato da momento formale in trascendenza dello spirito assoluto che annullava repentinamente il particolare, e lo degradava a mero non essere. La realtà cessava così di essere un dato in sé positivo e veniva a dissolversi supinamente nell’unità dell’autocoscienza. La diversità o reale contrarietà tra particolare e forma era poi dissolta e spacciata per contraddizione di un’idea capace di autoscindersi, esprimendo il molteplice come il mero negativo da superare.
Tutta una tradizione teorica, che dall’ontologia mistica di Meister Eckhart (studiata a fondo in un testo apparso nel 1930) passando per l’Hegel romantico e mistico (così si intitola un celebre volume del 1929) perveniva fino a Croce e Gentile, si muoveva entro una dialettica senza discorso o categorialità che dissolveva il sentimento o particolare nell’Idea. E non lo assumeva nella sua irriducibile alterità. Esisteva per Della Volpe una autentica malattia platonica e romantica, che contagiava gran parte della filosofia moderna, incapace di risolvere il problema dell’esperienza o della storicità. Perché l’essere diventava pura idea o unità intemporale sovraordinata al molteplice discreto.
A questa linea platonica, contaminata dalle palesi ascendenze mistiche, Della Volpe contrapponeva un diverso tragitto. La strada che da Hume conduceva a Marx. Con la sua indagine genetica «delle idee dalle impressioni», Hume (così scriveva Della Volpe nel suo libro La filosofia dell’esperienza di Hume licenziato nel 1933) impostava uno «studio fenomenologico della mente» che accantonava l’ontologia metafisica in direzione di una «psicologia della conoscenza». Hume cioè definiva «una specie di meccanica della sfera emotiva» e proprio esplorando le emozioni, i desideri, i meccanismi naturali della psiche, egli spezzava ogni concetto ontologico di unità o sostanza.
Questo lavoro demolitorio dell’antica ontologia metafisica sul piano etico mostrava ricadute enormi. E demolendo l’idea di soggetto portava Hume a definire «il primo sistema di ethica mundana-immanentistica» che poggiava sul fondamento passionale-economico dell’azione. Con la sua «filosofia sperimentale del diritto» inoltre Hume, secondo Della Volpe, ha avuto il merito di abbandonare il problema metafisico dell’inizio per esplorare le reali dinamiche della società. Spiegava Della Volpe che «con questo concetto concreto del fondamento economico della società è fugato, per la prima volta, il mitico homo oeconomicus di marca hobbesiana, l’egoista assoluto, sui cui calcoli sapienti lo stesso suo inventore non riuscì il cimentarsi della società politica, onde dovette ricorrere all’espediente estrinseco empirico di un potere assoluto». Ed è proprio su questo piano dell’indagine sociale che Della Volpe incontrava Marx che, con il suo nesso tra idee e istituzioni sociali, rigettava ogni idea metafisica di Inizio e orientava i riflettori sulla temporalità dell’esperienza intersoggettiva.
Il merito di Marx, secondo Della Volpe, era anzitutto quello di interpretare la società «come termine mediatore degli elementi», ovvero come il medium del generale (etica, cultura) e del particolare (economia, interessi). Con il suo fecondo concetto di astrazione determinata, anche Marx veniva da Della Volpe coinvolto nel grande lavoro critico ingaggiato per «sostituire una logica della ragione-intelletto, o critica, alla logica della pura ragione, o dogmatica». Ai concetti indeterminati e generici, privi di dimensioni temporali precise, Marx opponeva dei calibrati concetti funzionali, che risultavano cioè ritagliati su specifici assetti sociali.
Solo modulando i concetti come funzioni era possibile schivare il rischio nefasto di quella che Della Volpe chiamava «la restaurazione acritica dell’empiria». Un greve empirismo infatti contraddistingueva per lui, in maniera puntuale, tutti i concetti pretesi «puri», intemporali. Che finivano per riempire le astrazioni, in apparenza vuote, di materiali spiccioli grezzi, non filtrati e quindi irrelati, scollegati.
Perciò quello di Della Volpe rimane, a quarant’anni dalla scomparsa, il più grande e affascinante tentativo di cogliere la pregnanza del programma scientifico di Marx, assunto come passaggio essenziale del lavoro moderno di una risoluta critica della metafisica.
Nessuno più di Della Volpe ha decifrato i segreti epistemologici della logica specifica dell’oggetto specifico impiantata dal pensatore di Treviri. E solo la volgarità di questi anni un po’ meschini ha potuto inserire il nome di Della Volpe tra i «redenti», che con disinvoltura passarono dal fascismo al comunismo. Il suo approdo al marxismo avvenne in realtà su un rigoroso e trasparente profilo di scientificità. E solo di questo si deve parlare.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Galvano Della Volpe (Wikipedia).
ORIENTARSI, OGGI - E SEMPRE. LA LEZIONE IMMORTALE DI KANT, DALLA STIVA DELLA "NAVE" DI GALILEI.
Federico La Sala
FLS
LE 21 DONNE DELLA COSTITUENTE |
TEATRO (STORIA) E METATEATRO (METASTORIA): GIUDA E GESU’, E, IL FILO DEL "SERPENTE", LA VIA PER USCIRE DALL’INFERNO DELLA #DIALETTICA TRAGICA (PLATONICO-PAOLINA ED HEGELIANA).
ALLA #LUCE DELLA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SUL TEMA PROPOSTO IN "Cain and Jesus in Gertrude’s Closet, Hamlet 3.4" (Paul Adrian Fried)), forse, è ora di decidersi ad accogliere coraggiosamente che per #Shakespeare, come per #DanteAlighieri, nel cammino verso la #sorgente stessa della Legge, "l’amor che move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145), l’unica possibilità di raggiungere la meta sta proprio nel pensare insieme (dialogicamente e amorosamente) la identità e la differenza tra i #due "fratelli" (al di là "del "bene e del male") e, così, capire che nel "cuore" di "entrambi" si annida (anagrammatica-mente) un "serpent-e" di #speranza, la modalità stessa del "#Trasumanar" (Par. I.70), di andare oltre l’#androcentrismo (e il "#cristocentrismo") della #cosmoteandria della "tragedia" e della "caduta". Rileggere la #Commedia: "E prima, appresso al fin d’este parole, / ‘#Sperent_in_te’ di sopr’a noi s’udì: a che rispuoser tutte le carole." (Dante Alighieri, Par. XXV, 97-99).
ANTROPOLOGIA, “AGRICOLTURA”, E “DISAGIO DELLA CIVILTÀ” (S. FREUD, 1929):
L’«URLO» DI «JUDITH SHAKESPEARE».
A MEMORIA DI VIRGINIA WOOLF, a suo onore e gloria, forse, è bene rimeditare le sue stesse parole, “pronunciate” nella “conferenza” dedicata al tema di “Una stanza tutta per sé” (1929):
“TO BE, OR NOT TO BE - THAT IS THE QUESTION” (“HAMLET, III.1). Se si considera il luogo e la modalità della morte di Virginia Stephen Woolf, con i suoi particolari riferimenti (“appoggia il suo bastone da passeggio sull’argine dell’Ouse e poi si getta nelle acque del fiume”), data la dichiarata “sorellanza” di “Judith” con “William Shakespeare” e la sua “urlata” domanda amletica sul «Chi mai potrà misurare il fervore e la violenza del cuore di un poeta quando rimane preso e intrappolato in un corpo di donna?», come non “registrare” (chissà se mai è stato fatto) la forte “consonanza” con il “racconto” della regina Gertrude sulla morte di Ofelia:
“C’è un salice che cresce di traverso /a un ruscello e specchia le sue foglie /nella vitrea corrente; qui ella venne [...]” (“Amleto”, IV. 7)?!
E, ancora, come non sollecitar-si a una rilettura delle opere degli “Shakespeare” e a una più ampia e profonda riflessione sulla “tragedia” della “zoppicante" e “cieca” questione antropologica, a partire dal “due”, dai “due soli” della "Monarchia” di Dante Alighieri e delle “tre corone” dello “Spaccio della bestia trionfante” di Giordano Bruno?!
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L’IMMAGINARIO COSMOTEANDRICO DEL DEMIURGICO "VASAIO" BIBLICO E PLATONICO (E L’IMPOSSIBILE USCITA DALLA CAVERNA DEL NARCISISMO). *
IL "PADRE" DI ADAMO-PIGMALIONE AL LAVORO:
ADAMO ED EVA
UNA LETTURA PSICOANALITICA
di Gianfranco Ricci (4 apr 2024)
Il racconto di Adamo ed Eva è contenuto nel primo libro della Bibbia, la Genesi.
In particolare, uno dei dettagli più celebri del racconto biblico di Genesi è quello relativo alla creazione di Eva:
Nel corso del Seminario X, “L’angoscia” (1962-1963) e nel Seminario XV, intitolato “L’atto psicoanalitico” (1967-1968), Jacques Lacan commenta il racconto biblico di Adamo ed Eva.
Nel Seminario X Lacan introduce un neologismo: “sépartition” (separtizione). Adamo, l’unico uomo, vede venir meno la sua unità, la coincidenza tra Uno e Altro, perdendo una parte di sé.
Come sottolinea Massimo Recalcati nel libro “La legge della parola”:
La perdita della costola non lascia un segno ma fonda nell’uomo, fin dall’origine, l’esperienza della mancanza, del meno, della perdita.
L’azione di Dio, nella lettura di Recalcati, è definibile come “taglio separtitore”, capace di dividere soggetto e oggetto, separandoli per sempre, a partire da un orizzonte mitico, fuori dal tempo.
Per Lacan il racconto biblico diviene esempio paradigmatico per spiegare la teoria dell’oggetto causa del desiderio, chiamato oggetto piccolo (a).
Per Lacan, la condizione di Adamo, separato da Dio della propria costola e quindi impossibilitato a fare meno del rapporto con l’Altro, è alla base della possibilità stessa di far esistere il desiderio.
Il desiderio, sottolinea Lacan, ha sempre di mira l’oggetto perduto, che il soggetto cerca di ritrovare.
L’azione del linguaggio, che separa l’uomo dal suo oggetto, è a causa del desiderio stesso. Per questo la costola sottratta ad Adamo, e pertanto non più recuperabile, è alla base di due aspetti centrali del desiderio per Freud: l’oggetto è per sempre perduto (Adamo non potrà ottenere di nuovo la sua costola) e il soggetto ricerca il suo oggetto nel luogo dell’Altro (Adamo orienta il suo desiderio verso Eva).
Per Lacan, l’oggetto piccolo (a) è il nome di questo oggetto staccato dal corpo e perduto per sempre.
Per questo, sottolinea Lacan, l’esperienza che Adamo fa di Eva è “etero”: non si tratta di porre l’accento sulla differenza dei corpi, bensì su una non coincidenza, su una diversità di fondo.
Adamo, che ha visto sottrarsi la costola, finisce con il non coincidere più con il se stesso che è stato; dall’altra, Eva, scaturita dalla costola, non può tornare più a far parte di Adamo.
Il mito dell’Uno, dell’unione mitica senza scarti e senza resti, nell’immaginario biblico tramonta per sempre, lasciando spazio al desiderio.
Per questo, Recalcati conclude sottolineando che “il mito biblico della costola perduta è dunque il mito dell’origine del desiderio umano: ricercare nell’Altro la parte più irraggiungibile di me stesso. La relazione con l’eteros sorge dunque da questa urgenza.”
Nel corso del Seminario X, Lacan sottolinea una caratteristica fondamentale dell’oggetto perduto come inteso da Freud: non si tratterebbe di una parte del corpo materno (il seno) staccato dal corpo della madre e portato con sé dal piccolo, bensì dell’esperienza dei “pezzi” del corpo materno vissuti come parte del proprio corpo.
Il bambino quindi vivrebbe il seno materno come parte stessa del proprio corpo, provando profonda angoscia e un vissuto di orrore e perdita nel momento del distacco, come se la separazione fosse, in origine, una mutilazione dei corpi.
Questo dettaglio si accorda con il mito biblico: Eva non sarebbe altro se non una parte del corpo di Adamo, la celebre costola. La perdita di una parte di Sè aprirebbe quindi al rapporto con l’Altro, facendo crollare il mito narcisistico di unità che abita come un fantasma l’animo umano.
* ARTE, TECNOLOGIA, E LETTERATURA: UNA RISATA VI SEPPELLIRA’.
Un "Sillo", una parodia critica della filosofia dell’uomo dell’età delle macchine di Giacomo Leopardi:
"Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi" ("Operette morali", 1827).
Federico La Sala
"HIC SUNT DRACONES" ("HIC SUNT LEONES"): QUI CI SONO ICOSAEDRI E DRAGHI... *
QUESTO E’ UN #PROBLEMA DI #FILOSOFIA DEL #LINGUAGGIO, DI #ANTROPOLOGIA, DI #STORIA DELLA "#TRAGEDIA" DELL’#EUROPA, E DI MILLENNI DI #PLATONISMO.
NEL TEMA SI ANNIDA UNA HAMLETICA QUESTION(E) DI SOLIDI E OCCHI (E SERPENTI), SI TRATTA DI CHI PUO’ ACCEDERE ALL’ACCADEMIA DEL #FILOSOFO-#RE DELL’#OCCIDENTE (E DI TUTTA LA #TERRA), DELLA #SCUOLA DEL REGISTA "#PLATONE".
#SAPERE AUDE! (#KANT). VOLENDO E POTENDO, E’ PROPRIO UNA BELLA #IDEA PER UN’#OPERA DA METTERE IN #SCENA AL "#GLOBE #THEATRE" DI #SHAKESPEARE, ALLA PRESENZA DELLA #REGINA #ELISABETTA I #TUDOR, E VENIR FUORI DA INTERI MILLENNI DI #LABIRINTO (#NIETZSCHE).
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PSICOANALISI ANTROPOLOGIA ANATOMIA E FILOSOFIA: "CLAUSTROFILIA" (ELVIO FACHINELLI, 1983) E "MENTE ACCOGLIENTE. Tracce per una svolta_antropologica" (Federico La Sala, 1991).
Una nota a margine dell’articolo di Gianfranco Ricci - Psicologo sul tema antropologico-psicoanalitico "Il vaso di Lacan" (v. allegato *):
Il "vas [o]" di "Lacan", a ben riflettere sulla "#concezione" lacaniana della donna e della #femminilità, è ancora pieno di memoria tragico-mammonico, di "spirito" #giocastolaio dello storico "compromesso olimpico" (apollineo-platonico-hegeliano e, "cum grano salis", nietzscheano).
PIANETA TERRA. Antropologicamente, e "terronicamente", invece, "uomo" e "donna" ("maschio" e "femmina"), sono, a "#coniugare" bene il discorso di #DanteAlighieri (come #RealdoColombo e #MichelangeloBuonarroti e #GiovanniValverde, e, ancora, di #GiordanoBruno, #GalileoG alilei e Immanuel #Kant), "#dueSoli" in Terra (illuminati) dal terzo "Sole" che è in Cielo. Questo attuale "presente storico", ormai, è, contro ogni evidenza, il tempo della Commedia, della #DivinaCommedia!
Il prossimo #25marzo 2025 è il giorno del #Dantedì, forse, è bene tenerne conto e uscire dal "#letargo" infernale.
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IL VASO DI LACAN
di Gianfranco Ricci (20 mar 2024)
Jacques Lacan ha dedicato oltre trent’anni della sua vita all’insegnamento pubblico della psicoanalisi: le sue lezioni, raccolte nei celebri “Seminari”, erano un vero e proprio evento nella Parigi degli anni Sessanta e Settanta.
Nella sua ricerca, Lacan faceva riferimento ad altri grandi studiosi, come Jacobson, Sartre, Claude Levi - Strauss, Godel e molti altri.
In particolare, Lacan farà riferimento agli studi antropologici e culturali di Levi - Strauss per introdurre in psicoanalisi i tre registri che, per lo strutturalismo, organizzano la realtà: il simbolico, l’immaginario e il reale.
La prima fase dell’insegnamento di Lacan, gli anni della sua giovinezza, vedono al centro il registro dell’immaginario: sono gli anni della ricerca sulla psicosi e dello stadio dello specchio.
Il “Lacan classico” degli anni Cinquanta e Sessanta invece mette al centro della propria ricerca il primato del Simbolico sugli altri due registri: è il Lacan del “Ritorno a Freud” e dell’“inconscio strutturato come un linguaggio”.
Negli anni Settanta invece l’insegnamento di Lacan mette al centro il registro, criptico ed enigmatico, del Reale. Lacan cercherà in ogni modo di trattare il Reale: come definire il Reale? Lacan cerca di “bordarlo” da diversi versanti: il Reale sarebbe l’impossibile a dirsi, la dimensione del godimento, ciò che sfugge al simbolico, la pulsione, il registro della pulsione di morte.
Per affrontare il Reale, Lacan introdurrà la clinica dei nodi, detta anche “clinica Borromea”, in onore del nodo Borromeo. La clinica dei nodi cerca di superare la concezione classica della clinica psicoanalitica, mettendo al centro il modo unico e singolare in cui i tre registri si “annodano” tra loro nell’esperienza di ciascun paziente.
Abbiamo parlato della passione di Lacan per i nodi in questo articolo.
Nel corso del Seminario X, dedicato all’angoscia, Lacan introduce una metafora affascinante per descrivere il Reale; lo fa tramite la figura del vaso.
Come è fatto un vaso? Un vaso è un oggetto che “borda”, che circoscrive uno spazio, con vari scopi: metterci dei fiori e del terriccio, oppure dell’acqua o magari nulla!
L’uso che facciamo del vaso lo rende pieno o vuoto. Ma di per sé, al vaso manca qualcosa?
“Così si dice, per esempio, che il reale è sempre pieno. Fa un certo effetto, ha una certa qual aria che conferisce credito alla cosa, un’arietta come quella che tira dalle nostre parti, quella di un lacanismo di buona lega.
Chi può parlare del reale, se non io? Il guaio è che io non l’ho mai detto.
Il reale formicola di cavità, ci si può persino fare il vuoto.
Io dico una cosa completamente diversa, cioè che al reale non manca nulla.
Ho aggiunto, che se si fanno dei vasetti. anche quando li si fa tutti uguali, è sicuro che siano differenti...
La mia storia dei vasetti continua. Il momento successivo è che la loro identità - ossia ciò che è scambiabile fra i vasetti - è il vuoto attorno al quale un vasetto è fatto.
E il terzo tempo è che l’azione umana ha inizio quando questo vuoto viene barrato per essere riempito con quello che farà il vuoto del vasetto accanto, in altri termini quando per un vasetto essere mezzo-pieno è la stessa cosa che essere mezzo-vuoto.
Sempre che, evidentemente, il vasetto non perde da tutte le parti.
In tutte le culture possiamo essere certi che una civiltà è ormai completa e insediata quando si trovano le prime ceramiche. Talvolta contempo una bellissima collezione di vasi che ho nella mia casa di campagna. Manifestamente per quelle genti, alla loro epoca, come testimoniano molte altre culture, era quello il bene principale.
Anche se non siamo in grado di leggere quanto è magnificamente, lussuosamente dipinto sulla loro superfici, anche se non riusciamo a tradurlo in un linguaggio articolato di riti e miti, c’è una cosa che sappiamo, e cioè che in quel vaso c’è tutto.
Il vaso basta.
Il rapporto dell’uomo con l’oggetto e con il desiderio sta interamente lì, vi è percepibile e lì sopravvive.
È proprio questo a legittimare quel famoso vasetto di senape che ha fatto digrignare i denti ai miei colleghi per più di un anno, a tal punto che io, gentile come sempre, ho finito per riporlo sul ripiano dei vasetti della colla. E dire che mi serviva! Lo portavo come esempio del fatto che a tavola il vasetto di senape è sempre vuoto, come sapete per esperienza.” (Sem X, pag. 201)
Con il suo stile ironico e canzonatorio, Lacan parla del “vasetto in quanto tale”, al di là della sua funzione e del suo uso: in questo senso, fuori dal simbolico della funzione, il vasetto non manca di nulla.
Il vaso è per Lacan metafora della femminilità: i critici della psicoanalisi accusavano Freud di avere declassato la femminilità, riducendola ad una posizione di inferiorità rispetto al maschile, come se le mancasse qualcosa. Lacan farà ordine, ribadendo la natura simbolica e non reale della castrazione.
“Il vaso femminile è vuoto, è pieno? Che importanza ha dato che basta a se stesso, quandanche fosse per consumarsi stupidamente, come si esprime la mia paziente.
Non vi manca niente.
La presenza dell’oggetto è qui, se così possiamo dire, in sovrappiù. Perché? Perché è una presenza che non è legata alla mancanza dell’oggetto causa del desiderio al (-φ), al quale è collegata invece nell’uomo .
L’angoscia dell’uomo è legata alla possibilità di non potere.
Da qui, il mito, tutto maschile, che fa della donna l’equivalente di una delle sue costole. Gli è stata tolta una costola, non sappiamo quale, e del resto non gliene manca nessuna. Ma è chiaro che nel mito della costola si tratta proprio di quell’oggetto perduto.
La donna, per l’uomo, è un oggetto fatto di questo.” (Sem. X, pag. 205)
Per approfondire:
Jacques Lacan, Il Seminario, Libro X, L’angoscia.
Anche in Freud troviamo il vaso come oggetto metaforico per descrivere un aspetto della psiche. Ecco qui l’articolo in cui viene approfondito questo aspetto.
Il reale quindi, per Lacan, "non manca di nulla". Questo è un dettaglio decisivo: se l’immaginario si manifesta per la sua inconsistenza e il simbolico per la presenza stessa della mancanza e dell’incompletezza, il reale invece "non mancherebbe di nulla".
Pertanto, il reale segue una logica propria, quella del godimento e della soddisfazione, facendosi beffe dei limiti imposti dal simbolico.
[Gianfranco Ricci, 20 mar 2024.
ARCHEOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E FENOMENOLOGIA (DELLO "#SPIRITO"): "NICODEMO O DELLA NASCITA" (ENZO PACI).
UNA NOTA in memoria di Edmund Husserl, Paul Ricoeur, Enzo Paci, e Fulvio Papi...
A BEN RIFLETTERE SULLE PAROLE DI HUSSERL:
BISOGNA RICONOSCERE CHE continuiamo, antropologicamente, a procedere su questa strada, con una DOPPIA CECITÀ, sia in MATEMATICA sia in FILOSOFIA (sia in #FILOLOGIA).
C’E’ DA DIRE CHE l’#UOMO DEL #PIANETA TERRA non sa come "orientarsi nel pensiero" (KANT), e nella realtà (#FRANCA ONGARO #BASAGLIA), vive ancora nella "#CAVERNA" POLIFEMICA E PLUTONICA (di #PLATONE, PAOLO DI TARSO, e COSTANTINO: #NICEA, 325-2025), E CHE NON SA (per confessarlo con sant’Agostino) come "FARE LA VERITÀ" (Roberto #Osculati, #Bompiani, 1974).
A mio parere, forse, è meglio fare autocritica sulla "#dotta ignoranza" e, #galileiana-#mente, riprendere il "#dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo", rileggere la husserliana "crisi delle scienze europee" (il Saggiatore ), e rimeditare la "Prefazione alla terza edizione italiana" dell’opera da parte di #Enzo Paci (Milano, 16 settembre 1968), e, al contempo, cercare di ritrovare il filo della riflessione sul "come nascono i bambini", sul problema di "Nicodemo o della nascita" (ricordata da Paci, nel 1973, ma iniziata, con Paul #Ricoeur e compagni, nel Lager di #Wietzendorf, nel 1944.
ANTROPOLOGIA, #INTERPRETAZIONE DEI #SOGNI, E FILOLOGIA DI #PRIMAVERA: EARTHRISE (#20MARZO 2025)
UNA NOTA SUL "COME NASCONO I BAMBINI" E SUL "BUON-MESSAGGIO".
Alla #luce dell’aria primaverile, e del presente storico corrente, forse, è proprio bene ricordare che #Giuseppe, lo #sposo di #Maria, anche senza capire tutto, seppe bene #interpretare il suo #sogno: al #Bambino, "egli pose #nome #Gesù"! (Mt. 1. 25).
DIVINA COMMEDIA. I #Profeti, come le #Sibille (come quelle, legate alla tradizione dei #Carmelitani scalzi e delle Carmelitane scalze di #Teresa d’#Avila, presenti nella Chiesa dedicata alla "#MadonnadelCarmine" nel 1613 di #ContursiTerme: https://www.ildialogo.org/cultura/AppelliInterventi_1331650525.htm ), non si erano affatto sbagliati e sbagliate nel dire quello che avevano detto: è l’#amore "che move il sole e le altre stelle" (#DanteAlighieri, Par. XXXIII, 145).
SCRITTURA E SOCIETÀ: CREATIVITÀ, INTELLIGENZA ARTIFICIALE, E ANTROPOLOGIA.
A PARTIRE DALL’ALFABETO, DALL’#ALFA E DALL’#OMEGA. Se consideriamo che già #Democrito era riuscito (non solo a #ridere, ma anche) a concepire una #cosmologia fondata su atomi-lettere e, quindi, la possibilità di costruire una macchina che potesse "rac-contare" automatica-mente la "storia del cosmo", o, che è lo stesso, che un giorno fosse facile ottenere esatte mappe del cielo del passato, questo ci dice che abbiamo portato avanti un programma "scientifico", imbozzolato nelle coordinate di un vecchio "#storytelling" cosmoteandrico. Aveva ragione #Whitehead (con #BertrandRussell, autore dei "#Principia #Mathematica"): "Tutta la storia della filosofia occidentale non è che una serie di note a margine su #Platone".
Se questo è, che fare, oggi, se non andare oltre l’antico programma, codificato nella "macchina" di "scrittura" della #tragedia, e portarsi fuori dal rapporto sociale di produzione "cinematografico" platonico?
La narrazione di un "mondo come volontà e rappresentazione" cosmoteandrica di un #Autore #Sovrano, a tutti i livelli, è finita, e, se non si vuole restare asfissiati nella sua "#caverna", non si può non seguire #DanteAlighieri e cercare di ritrovare la diritta via della #commedia!
LA PRODUZIONE DEL GRANO (ARATURA, SEMINAGIONE, SARCHIATURA, E TREBBIATURA) E IL "RAPPORTO SOCIALE DI #PRODUZIONE" ("PRENDETE E MANGIATE"). Considerato che la nascita dell’#agricoltura e l’invenzione dell’#aratro "camminano insieme" e, ancora, che la stessa "direzione di scrittura dei Greci fu dapprima bustrofedica (cioè con una direzione alterna: una riga da destra verso sinistra e la successiva da sinistra verso destra, come il tracciato che un aratro trascinato da un bue disegna sul campo) e in seguito essa divenne solamente destrorsa, cioè da sinistra verso destra" (cfr. Francesco De Renzo, "Alfabeto", Treccani, 2005), è bene ricordare lo stravolgimento epocale prodotto dall’aratro nella storia dell’eco-nomia e dell’ecologia (nella "#casa" degli esseri umani):
L’EUROPA, L’ HAMLETICA #QUESTIONE DI UNA ACCA (#H), E UNA "SORPRENDENTE" LEZIONE DALLA #GAIA SCIENZA E DALLA #DIVINA COMMEDIA. Materiali sul tema
"#Sàpere aude!"(#Kant). Siccome, ormai e "finalmente" non solo gli "analfabeti" ma anche i "litterati", tutti e tutte non riescono più a "orientarsi nel pensiero" e nella realtà, nemmeno a capire "un’ acca", o, che è lo stesso, "un’ostia", forse, è il caso di ricominciare dal "principio" (dalla "Alfa") e, possibilmente, cercare di arrivare alla fine (alla "Omega")!
ANTROPOLOGIA #INFANZIA #STORIA E #FILOLOGIA. Come ha scritto in Giorgio #Agamben, in una sua nota su "L’invenzione del nemico" (Quodlibet, 31 maggio 2024), "Se nella religione - con la quale l’Europa si identificava - non credono più nemmeno i preti, anche la politica ha perduto ormai da tempo la capacità di orientare la vita degli individui e dei popoli", significa proprio non riuscire più a distinguere "eu-#carestia" da "eu-#charistia", "dio-mammona" ("#caritas") da "dio-amore" (#charitas), non significa che "Dio è morto", che "non c’è più religione", e che il #nichilismo trionfa e trionferà, alla grande (come ha scritto e chiarito #Nietzsche)?!
Non è meglio rimettersi in cammino e seguire #Dante e i suoi "#dueSoli", il suo "#Virgilio" e la sua "#Beatrice"?! (#Dantedì, #25marzo 2025)?!
STORIA, FILOSOFIA, BIOLOGIA, E MEMORIA DI GIORDANO BRUNO (17 FEBBRAIO 2025): ANDREA CESALPINO E IL PROBLEMA DELLA NASCITA DEGLI ESSERI UMANI (DEL "COME NASCONO I BAMBINI").
DIVINA COMMEDIA. Una nota a margine del #Dantedì (#25marzo) e, in particolare, della indicazione "evangelica" e "comica" dell’ "amor che move il sole e le altre stelle" e dell’#amore come "metodo della conoscenza" (* )
Nel primo capitolo del libro "Antropologia e civiltà nel pensiero di Giordano Bruno" (La Nuova Italia, 1968; e, Liguori Editore, Napoli 2006, con una "Introduzione" di Nuccio Ordine) , intitolato "Il naturalismo divino", Fulvio Papi così scrive:
ANDROCENTRISMO, #GEOCENTRISMO, ED #ELIOCENTRISMO: TRACCE PER UNA #SVOLTA_ANTROPOLOGICA...
ARCHEOLOGIA E FILOLOGIA DELLA TRADIZIONE CULTURALE EUROPEA: CON SHAKESPEARE (DANTE ALIGHIERI E GIORDANO BRUNO), PER UNA ANALISI CRITICA DEL"CESARICIDIO" E UNA COMPRENSIONE ANTROPOLOGICA DELLA #MONARCHIA DEI "#DUE SOLI" ("DIVINA COMMEDIA").
CHE NELLA MODALITA’ IN CUI SHAKESPEARE PRESENTA LA "RESA" DI BRUTO ALLE ARGOMENTAZIONI DI #CASSIO (ALLA "SOCRATE") PER COINVOLGERLO (COME UN "ALCIBIADE") NELL’AVVENTURA DEL "CESARICIDIO", IN CUI APPARE evidente il rinvio critico al "gioco" narcisistico del guardarsi nell’occhio dell’altro per conoscere sé stesso del dialogo di #Platone ("Alcibiade primo", 132c - 133b ), è già ben chiaro che egli pensi al di là del #platonismo e del #paolinismo storico:
"BRUTO
No, Cassio; perché l’occhio non vede se stesso
se non di riflesso, attraverso altri oggetti.
CASSIO
È così;
e ci si rammarica molto, Bruto, che tu non abbia
specchi che volgano ai tuoi occhi il tuo valore
nascosto, così che tu possa vedere la tua immagine
riflessa. Ho sentito molte persone di alta reputazione
qui a Roma - eccetto l’immortale Cesare -
che, parlando di Bruto, e gemendo sotto il giogo
di questa epoca, hanno espresso il desiderio
che il nobile Bruto abbia occhi.
BRUTO
In quali pericoli vorresti spingermi, Cassio,
invitandomi a cercare in me stesso
quello che in me non c’è?
CASSIO
Per questo, caro Bruto, preparati ad ascoltare.
E poiché tu sai di non poterti vedere bene
se non per riflesso, io, il tuo specchio,
rivelerò con discrezione a te stesso
quello che di te stesso tu ancora non conosci.
E non essere sospettoso con me, gentile Bruto.
Se io fossi un buffone qualsiasi, o fossi avvezzo
a svilire con volgari giuramenti il mio affetto
al primo venuto che mi assicuri il suo; se ti risulta
che scodinzolo con le persone e prima le abbraccio forte
e poi le calunnio; o se ti risulta
che, alle feste, io mi professo amico
di tutta la marmaglia, allora ritienimi pericoloso. "
("Giulio Cesare," Atto I, Scena 2).
Shakespeare, nel solco e sul filo della lezione di Dante e di Bruno, sollecita la riflessione sul legame antropologico-politico e teologico dei "due soli" della "Monarchia" di Dante, e delle "#Tre corone" dello "Spaccio della bestia trionfante" di Giordano Bruno: sotto la spinta della #RiformaProtestante (1517) e Anglicana (1534) e della #Rivoluzionescientitica (#Copernico, 1543), egli insegna a "vedere" nella figura di "Giulio Cesare" (e di "Amleto") la unità e la unificazione - nelle mani e nella testa - non solo del sovrano ("cristiano") o della sovrana ("cristiana") ma di ogni "cristiano" e "cristiana", di ogni "cittadino" e di ogni "cittadina", del potere sia politico ("#sovranità universale") che religioso ("#sacerdotalità universale"): "Sàpere aude!" (#Kant, 1784).
#Dantedì, #25marzo 2025
GIORNATA MONDIALE DELLA LINGUA GRECA (2025): UNA QUESTIONE DI GRAZIA ("XAPIS"). DA ARIANNA E DA NASSO ("NAXOS"), UN FILO PER "RI-USCIRE" DAL LABIRINTO DEI "GIOCHI DI PAROLE", E DALLA "PLATONICA" #CAVERNA "POLIFEMICA", E ANDARE INCONTRO ALLE GRAZIE E ALLA #PRIMAVERA CHE SI AVVICINA...
RICORDANDO CHE la parola "Naxos" va letta come "Nacsos", come la parola "Xenos", "Csenos", proprio per rispetto al suo etimo perché rimanda alla parola: ξένος «straniero, ospite». è bene non confondere "Nasso" con la parola "asso", e, la "Filo-xenia", con la Xeno-fobia"!
E’ BENE CHE IL SENSO E IL SUONO DELLA "ICS"("X") NON SIA CONFUSO CON QUELLO DEL "CHI" ("X"), ALTRIMENTI LA "Χαρά (#XAPA)" DIVENTA UNA "XAPA" (cioè, "CSARA") E... SI FINISCE PER PERDERE NON SOLO LA BUSSOLA, LA "XAPA" (cioè, "CHAPA"), E, ANCORA, "LEGGENDO" IN NAPOLETANO E "NEA-POLITANO" ("CHAPIS...ce a me"), PERSINO TUTTA LA PRIMAVERA CON LE SUE GRAZIE (#CHARITES) E LA STESSA GRAZIA!
MITO E #STORIA. "Naxos (detta anche Nasso), isola del mito di Arianna, è la più grande e la più fertile delle Cicladi. [...] Naxos (detta anche Hora, Chora o Naxos #Chora), capitale e porto principale dell’isola [...] Vi siete mai chiesti da dove deriva l’espressione “piantare in asso”? È una contrattura di “piantare in Nasso” e si riferisce alle vicende mitologiche di Arianna, la fanciulla che aiutò Teseo a fuggire dal labirinto del Minotauro.[...]" (v. NAXOS).
COSMOTEANDRIA "POLIFEMICA": #ANDROCENTRISMO, #GEOCENTRISMO ED #ETNOCENTRISMO DI UNA " CHIARA ED EVIDENTE" #CAVERNA PLANETARIA...
PIANETATERRA (2025). Nell’inizio dell’anno del "#Serpente del #legno #verde", per auguri e in omaggio al lavoro di #Stefano #Mancuso e #Alessandra #Viola, "#Verdebrillante. Sensibilità e intelligenza del mondo vegetale" (Giunti Editore, 2013, p. 19), riprendo (e ripropongo all’attenzione)
LA "PIRAMIDE DEI VIVENTI" DI BOVILLUS ( CHARLES DE BOVELLES), TRATTA DAL "LIBER DE #SAPIENTE" (1509-1510).
La generale "nostra considerazione" non solo del mondo della #natura e del mondo dell’#uomo (antropologico, sociologico, economico, politico, e teologico) è, a ben vedere, "ancora molto simile".
LA "#CRISI CLIMATICA" GENERALE, IL #DISGELO, LO SCIOGLIMENTO DI UN "ICEBERG" PIU’ CHE MILLENARIO, E LA #PRIMAVERA IN CAMMINO...
#DISAGIO DELLA E NELLA #CIVILTA’ (S. #FREUD, 1929) ED #EMERGENZA PLANETARIA (#10GENNAIO 2025): USCIRE VELOCEMENTE DALLA #CAVERNA (#PLATONISMO) E DAL #LABIRINTO (#TRAGEDIA):
Tutte le "teste" (coronate e non) della società e della cultura , vale a dire di tutte le istituzioni e di tutte le università, le accademie, e gli organismi di ricerca, ecc., dovrebbero aprire le porte e le finestre alla riflessione e alla discussione ... se ben si considera e si osserva la #profondità della #base dello stesso iceberg *
CAMBIARE ROTTA E PARADIGMA: "ESSERE, O NON ESSERE", "SOCIALISMO O BARBARIE". RIPRENDERE IL FILO DI "ARIANNA" E PORTARSI FUORI DALL’INFERNO (CON DANTE E) MARX:
"[...] La comunità non è altro che una comunità del lavoro e l’uguaglianza del salario, il quale viene pagato dal capitale comune, dalla comunità in veste di capitalista generale. Entrambi i termini del rapporto vengono elevati ad una universalità rappresentata: il lavoro in quanto è la determinazione in cui ciascuno è posto, il capitale in quanto è la generalità riconosciuta e la potenza riconosciuta dalla comunità.
Nel rapporto con la donna, in quanto essa è la preda e la serva del piacere della comunità, si esprime l’infinita degradazione in cui vive l’uomo per se stesso: infatti il segreto di questo rapporto ha la sua espressione inequivocabile, decisa, manifesta, scoperta, nel rapporto del maschio con la femmina e nel modo in cui viene inteso il rapporto immediato e naturale della specie. Il rapporto immediato, naturale, necessario dell’uomo con l’uomo è il rapporto del maschio con la femmina. In questo rapporto naturale della specie il rapporto dell’uomo con la natura è immediatamente il rapporto dell’uomo con l’uomo, allo stesso modo che il rapporto con l’uomo è immediatamente il rapporto dell’uomo con la natura, cioè la sua propria determinazione naturale. Cosi in questo rapporto appare in modo sensibile, cioè ridotto ad un fatto d’intuizione, sino a qual punto per l’uomo l’essenza umana sia diventata natura o la natura sia diventata l’essenza umana dell’uomo. In base a questo rapporto si può dunque giudicare interamente il grado di civiltà cui l’uomo è giunto. Dal carattere di questo rapporto si ricava sino a qual punto l’uomo come essere appartenente ad una specie si sia fatto uomo, e si sia compreso come uomo; il rapporto del maschio con la femmina è il più naturale dei rapporti che abbiano luogo tra uomo e uomo. In esso si mostra sino a che punto il comportamento naturale dell’uomo sia diventato umano oppure sino a che punto l’essenza umana sia diventata per lui essenza naturale, e la sua natura umana sia diventata per lui natura. In questo rapporto si mostra ancora sino a che punto il bisogno dell’uomo sia diventato bisogno umano, e dunque sino a che punto l’altro uomo in quanto uomo sia diventato per lui un bisogno, ed egli nella sua esistenza più individuale sia ad un tempo comunità.
La prima soppressione positiva della proprietà privata, il comunismo rozzo, è dunque soltanto una manifestazione della abiezione della proprietà privata che si vuol porre come comunità positiva. [...]" (K. Marx, "Manoscritti economico-filosofici del 1844", "Proprietà privata e comunismo".
FILOLOGIA STORIA E ANTROPOLOGIA:
CON JEAN-JACQUES ROUSSEAU A SCUOLA DI #CORAGGIO ("#SAPERE #AUDE!"), DA "#GISELE PELICOT", PER UN #BUON 2025...
Una nota di commmento all’articolo di Nicoletta Vallorani ("Gisèle Pelicot. Il posto del coraggio", Le parole e le cose, 27 dicembre 2024).
PIANETA TERRA: UN PANTHEON DA RIPENSARE E IL SOLSTIZIO D’INVERNO. UNA TRACCIA PER UN "RIORIENTAMENTO GESTALTICO" E UNA "#SVOLTA_ANTROPOLOGICA": APRIRE LA "PORTA" DELLA "#TERRA" ALLA #LUCE DEL #SOLE...
ARCHITETTURA ECOLOGIA FILOSOFIA E OCULISTICA. Una nota sull’#occhio del Pantheon:
"[...] L’Oculus è un’apertura nel soffitto della cupola, realizzata con un diametro di oltre 8 metri, e rappresenta l’unica fonte di luce naturale all’interno dell’edificio. La sua creazione risale al I secolo d.C., quando l’imperatore romano Adriano fece ristrutturare l’antico Pantheon, che originariamente risaliva al 1 a.C.
Questo misterioso occhio circolare non solo illumina con la luce del sole l’interno del Pantheon, ma ha anche una funzione simbolica e mistica. L’Oculus rappresenta una connessione tra l’edificio e il cielo, come se un raggio di luce divina scendesse in quel santuario dedicato agli dei.
Inoltre, l’Oculus è stato progettato in modo tale da favorire una perfetta distribuzione dei pesi della cupola, che ha contribuito alla straordinaria stabilità e durevolezza di questo monumento. La cupola è in cemento e la sua costruzione fu una straordinaria opera di ingegneria per l’epoca.
L’Oculus del Pantheon offre anche un affascinante spettacolo naturale durante i giorni di pioggia. La pioggia che entra dal foro forma un effetto suggestivo, simile ad una cascata rovesciata, creando un’atmosfera mistica all’interno del tempio. [...]" (cfr. Accademia Studio Italia, "Il misterioso occhio del Pantheon: un buco nel paradiso!").
FILOLOGIA E ANTROPOLOGIA DELL’ARATRO: IL RATTO DI PERSEFONE (PROSERPINA, KORE), LA MEMORIA ETIMOLOGICA DI #ARTEMIDE (#DIANA DI #EFESO) E LA "CULTURA" DELLA"AGRICOLTURA" SECONDO LA TEOLOGIA POLITICA "PLATONICA" (E "PLUTONICA"). *
Nel "#Cratilo", #Platone, nella lezione sulle etimologie dei nomi degli dei e delle dee, così scrive e così fa dire al suo #Socrate, a proposito della #Diana Efesina:
"Ἄρτεμις" δὲ ‹διὰ› τὸ ἀρτεμὲς φαίνεται καὶ τὸ κόσμιον, διὰ τὴν τῆς παρθενίας ἐπιθυμίαν· ἴσως δὲ ἀρετῆς ἵστορα τὴν θεὸν ἐκάλεσεν ὁ καλέσας, τάχα δ’ ἂν καὶ ὡς τὸν ἄροτον μισησάσης τὸν ἀνδρὸς ἐν γυναικί· ἢ διὰ τούτων τι ἢ διὰ πάντα ταῦτα τὸ ὄνομα τοῦτο ὁ τιθέμενος ἔθετο τῇ θεῷ.
"Ad Artemide poi sembra che il nome sia stato posto per l’artemes (’l’integrità’) per l’ornatezza e per il suo desiderio di verginità. E probabilmente chi le assegnò il nome volle chiamarla esperta di virtù ("aretes histora") o forse anche perché detesta l’aratura ("ton aroton misesases") del maschio nella femmina: o per uno di questi motivi oppure per tutti questi insieme le pose questo nome colui che pose il nome alla dea" (406b).
NOTE:
L’ENIGMA DEL NOME, L’ENIGMA DEL SOGGETTO, L’ENIGMA DEL DESTINO ("ANANKE") E ... L’ENIGMA DI "DIO" ("CHARITAS") *
L’ENIGMA DEL DESTINO
di Gianfranco Ricci*
Lo storico Erodoto di Alicarnasso racconta nelle celebre opera “Storie” che nell’anno 499 a.C., Istieo, avventuriero e tiranno di Mileto, si trovava alla corte del re Dario I e non aveva modo di mettersi in contatto con il suo compatriota e tiranno della città Aristagora.
In quel tempo le città ioniche preparavano la grande ribellione contro il dominio persiano e Istieo voleva comunicargli che era il momento di dare il via alla sollevazione.
Alla fine ebbe un’idea: fece rasare la testa al suo schiavo più fedele e gli tatuò sul cuoio capelluto il messaggio che desiderava trasmettere, poi aspettò che i capelli ricrescessero, in modo da nascondere il messaggio.
Solo allora inviò lo schiavo a Mileto, dove gli rasarono nuovamente la testa e poterono leggere il messaggio. Il procedimento aveva diversi vantaggi, perché neppure il latore del messaggio ne conosceva il contenuto e pertanto non avrebbe potuto rivelarlo neanche se fosse stato sottoposto a interrogatorio o tortura.
Già Freud nello scritto “Isteria” (1888) aveva notato come i sintomi isterici seguissero una logica diversa da quella della mera anatomia. Tra il sintomo e la base organica non vi era un legame diretto, bensì l’emergere di una sorta di “dialetto”, di fenomeno linguistico.
Lacan porterà all’estremo la lettura freudiana, parlando di “crivellatura” del corpo per effetto del significante. Le parole, osserva Lacan, possono essere veri e propri “proiettili” che toccano, feriscono e perforano il corpo.
Abbiamo qui l’aspetto centrale della psicoanalisi: il rapporto fondamentale tra corpo e parola.
Il soggetto viene al mondo parlato dall’Altro, prima ancora di accedere direttamente al linguaggio.
Il primo significante che incontra è spesso il nome proprio, intraducibile per definizione, presente quindi nella sua dimensione di significante che si sgancia da ogni significato.
Tuttavia sappiamo bene che il significato è presente nel luogo dell’Altro e per questo può divenire come un “destino” per il soggetto che lo porta: il nome proprio può essere un destino.
Perché un certo nome? Perché non altri? Nel nostro nome e nelle parole che circolano nella nostra infanzia è evidente l’effetto di scrittura, di incisione che il significante opera su di noi.
Ciascuno di noi assomiglia quindi allo schiavo della storia di Erodoto: portiamo su di noi le tracce di un messaggio che non conosciamo e che ci resta enigmatico, misterioso, inaccessibile.
Compito dell’analisi è svelare questo messaggio inconscio: far emergere il discorso che l’Altro ha fatto per noi e su di noi, per assumere questo discorso e farlo nostro, riformularlo alla luce del nostro desiderio.
Sartre mostra l’importanza di questa operazione nel suo studio sulla vita di Jean Genet: l’intera opera di uno degli scrittori più discussi e controversi del Novecento si organizza intorno ad un significante che ha segnato per sempre la sua vita. Sartre ricostruisce infatti un episodio preciso dell’infanzia del piccolo Genet, quando, sorpreso dalla sua balia, viene ripreso con una parola: “ladro!”.
Come sottolinea Sartre nell’opera “Santo Genet, commediante e martire”, l’intera opera di Genet risponde ad una logica precisa: “il genio non è un dono, ma la via d’uscita che ci si inventa in casi disperati”.
Il lavoro di Sartre ha indagato il ruolo della storia, dell’infanzia e dell’Altro nella vita dell’uomo.
In particolare, questo ambito di ricerca segna un punto di contatto con la pratica e la teoria analitica.
Sartre ha articolato il suo lavoro concentrandosi su due grandi figure dell’universo culturale francese: Jean Genet e Gustave Flaubert.
Entrambi, nella loro vita, sono stati segnati da un marchio indelebile; la storia di questi due autori rappresenta il tentativo singolare di riprendere questa iscrizione originaria, per trasformarla.
In particolare, se nel caso di Genet il significante padrone, S1, è “ladro!”, nella storia di Flaubert vi è “idiota”.
L’opera elefantiaca di Sartre dedicata a Gustave Flaubert si intitola proprio “L’idiota della famiglia”.
Terzo di tre figli, Flaubert si trova gettato, scartato tanto dal desiderio paterno, investito integralmente sul figlio maggiore (divenuto “copia” del padre), quanto di quello materno (destinato interamente alla figlia femmina, tanto voluta).
La sua “idiozia”, destino già scritto dall’Altro familiare, tradotto in un ritardo nell’acquisizione della parola, diviene base di una ripresa singolare, che porterà Flaubert a divenire, a suo modo, uno degli scrittori più importanti della letteratura francese.
*Cfr. Gianframco Ricci, 29 novembre 2023 (ripresa parziale - senza immagini).
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
Federico La Sala
LINGUISTICA ANTROPOLOGIA E FILOLOGIA:
UN FILO PER USCIRE DALL’ORIZZONTE DI UNA LABIRINTICA COSMOTEANDRIA.
ABITARE IL #LINGUAGGIO E LA TERRA ANTROPOLOGICA-MENTE, A TUTTI I LIVELLI: «Il detto greco ‘di tutte le cose è misura l’uomo’ (pánton tôn prámmaton métron ho ánthropos) viene citato per solito per ricordarci il senso della relatività posseduto dai Greci. Non c’è dubbio che l’interpretazione che vede in questo detto una tranquilla e coraggiosa professione di fede laica può essere giusta. Ma forse raramente o mai si pensa che il detto vada preso innanzitutto alla lettera. Non c’è dubbio che l’interpretazione che vede in questo detto una tranquilla e coraggiosa professione di fede laica può essere giusta. L’uomo è effettivamente la misura di tutte le cose, nel senso corrente in cui oggi si dice “a misura d’uomo”, e questa logica sottostante traspare da innumerevoli indizi; le misure delle cose sono corporee (pêkhus ‘cubito’), il linguaggio è visto come un corpo articolato e perfino il tempo è analizzato a volte su un riferimento corporeo» (cfr. #CorradoBologna, "Giorgio R. Cardona: «Assenza, più acuta presenza»", Insula Europea, 6 Gennaio 2023 ).
🌞PER USCIRE DAL "#LETARGO" TEOLOGICO-POLITICO (#DANTE2021) DELL’ "ATTUALE" #PRESENTESTORICO, ORMAI UN PROBLEMA ALL’ORDINE DEL GIORNO DELL’INTERO #PIANETA, FORSE, QUESTA "INDICAZIONE" DI GIORGIO R. CARDONA E’ PROPRIO UN BUON #SEGNAVIA PER PORTARSI OLTRE IL "COMPROMESSO" DI UNA VECCHIA #ALLEANZA CHE COSTRINGE ANCORA PERICOLOSAMENTE TUTTI E TUTTE A VIVERE IN UN CUPO E TRAGICO #LABIRINTO COSMOTEANDRICO.. 🌍
"SONO" O NON "ONOS"?! IDENTITA’ E DIFFERENZA: RICOMINCIARE A PENSARE CON L’ASINO,
RIPRENDERE I SENTIERI INTERROTTI, E PORTARSI OLTRE LA TRAGEDIA...
Se si considera che la #parola #àsino "(lat. asĭnus, der. da un vocabolo preindoeuropeo affine al sumerico #anśu «asino», come il gr. ὄνος «asino»"), in greco è "#onos", guardando-si allo #specchio e "ragliando" in italiano, "onos" diventa "#sono" (nel doppio senso del verbo "#essere" e del verbo "#sonare") e si ritrova (a ben voler-si) l’altra "faccia" di sé... "lO" come "sé" e "I-O" (a mal voler-si), "I-O", "I-O" come "asino".
Non è il caso e il tempo, con #Dante-#Ulisse e #Kant e Nietzsche, andare oltre "Scilla e Cariddi" e oltre le colonne d’Ercole del "bene e del male", e, "imparare ad amare" "sé come un altro" (Paul Ricoeur)?!
Per ripensare la #hamletica questione, forse, è bene rileggere L’asino d’oro", "Le metamorfosi" di #Apuleio, ecc. ecc. fino a passare, poi, dalla strada dell’asino alla strada dell’auto (con Le Corbusier), si cfr. GiordanoBruno, "Cabala del Cavallo Pegaseo con l’aggiunta dell’Asino cillenico"; e, anche, l’ articolo "Una forza umile e inquieta / Giordano Bruno tra asinità e conoscenza" di Ugo Morelli (Doppiozero, #17febbraio 2018).
"COME TI CHIAMI?": LA QUESTIONE DEL NOME, A TUTTI I LIVELLI.
UN "SAUSSURE" DI ANTROPOLOGIA CHIASMATICA ("#CRISTOLOGIA"), #FILOLOGIA, #STORIA, #PSICOANALISI, #PSICHIATRIA, E #LINGUISTICA...
“Bisogna delirare un po’ per trovare il nome giusto”, scrive Pietro Barbetta nel libro "#Follia e #creazione. Il caso clinico come esperienza letteraria" (Mimesis Edizioni, 2012). #Anna Stefi, nella sua recensione (cfr. "Pietro Barbetta. Follia e creazione", "Doppiozero", 13 marzo 2013 ), muove dal #nodo fondamentale del discorso:
Una indicazione e una sottolineatura formidabile, a mio parere, un segnavia per venir fuori dall’orizzonte della tragedia, della #claustrofilia (Elvio Fachinelli, 1983), e aprire la strada a "una #schizofrenia della #salute" (#Rubina Giorgi)!
#STORIAELETTERATURA E #METATEATRO: "THE MOUSETRAP" (#SHAKESPEARE). Questo è il problema amletico su cui riflettere: ne va del proprio "essere, o non essere" ("#Amleto").
CREATIVITA’ E #MENTE ACCOGLIENTE: #COMENASCONOIBAMBINI? Freud dice: "La psicoanalisi è una mia #creatura". Ma "Chi", #Chi (lettera dell’ alfabeto greco: "X"), ha dato il nome a "#PietroBarbetta": al "#bambino" (a tutti gli "esseri" del "mondo")?!
A PARTIRE DA #AMLETO, CON #PIRANDELLO ED #EDUARDODEFILIPPO: «TE PIACE ’O PRESEPIO?» DEL #PIANETATERRA?!
INTRODUZIONE. Si racconta che Saulo / Paolo di Tarso, un "cittadino romano"(At. 22, 25-28), sia stato portato fino al terzo cielo (2 Corinzi 12:2): va bene! Da ricordare, però, che #DanteAlighieri ("Io non Enëa, io non Paulo sono") è andato ben oltre i cieli di #Aristotele, come racconta l’astrofisico Carlo Rovelli, una volta uscito dal "buco nero" in cui lucifericamente era caduto!
#METATEATRO E #STORIOGRAFIA: UNA DOMANDA #HAMLETICA PER "RE-SHAKESPEARE" BENE. Antropologicamente (e cristologicamente), c’è da chiedersi, se Paolo ha visto “Gesù Cristo”, come mai - contriamente a quanto visto e insegnato da #Francesco di Assisi con il suo “presepe” (#Greccio, 1223) - non ha notato, accanto a “Cristo” che lo “sgridava” («Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?»), “Giuseppe” accanto a “Maria”?! Dov’è finito il "Giuseppe", discendente della "casa del #ReDavide" ("de domo David")?
UNA "#IMITAZIONEDICRISTO" ALLA PAOLO DI TARSO DI LUNGA DURATA: #NICEA (325 -2025). La domanda logico-storica è: come mai alla sua proposta di imitarlo e seguirlo, tutti e tutte si sono sbagliati e sbagliate a tal punto da seguire lui, Saulo (Paolo di Tarso), e non Gesù: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e #capo della #donna è l’#uomo [gr. ἀνήρ], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3)?
"ECCE HOMO" (F. #NIETZSCHE, 1888): QUALE #PRESEPE SI VUOLE CONTINUARE ANCORA A "COSTRUIRE", OGGI? Quello di Paolo di Tarso o quello di #FrancescodiAssisi? #Dante, cosa aveva già capito, come anche Shakespeare, e Pirandello e, infine, #Eduardo De Filippo (1931)?
"#SIDEREUSNUNCIUS" (#GALILEOGALILEI, 1610): QUALE FUTURO PER IL "#DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI DEL MONDO" (#GALILEO GALILEI, 1632)?
ANTROPOGENESI FILOLOGIA E FILOSOFIA: CHE GRANDE "PREISTORIA" DELL’INTERA #UMANITA’ DEL PIANETA TERRA!
RIPARTIRE DA CAPO, E IMPARARE A #CONTARE, A #CALCOLARE...
INDIVIDUO E SPECIE: "L’ONTOGENESI RICAPITOLA LA FILOGENESI" (ERNST HAECKEL).
MA QUALE "RICAPITOLAZIONE", COME DA #ANTROPOLOGIA COSMICA, QUALE QUELLA DI #DANTE ALIGHIERI ("L’#AMOR CHE MUOVE IL #SOLE E LE ALTRE #STELLE") O COME QUELLA (DELL’ATTUALE #PRESENTE STORICO) DA #ANDROCENTRISMO TEOLOGICO-POLITICO DA "#CAVERNA" PLATONICA E PAOLINA)?!
"SAPERE AUDE!" (#KANT, 1784). NON E’ IL CASO DI CORRERE AI RIPARI E, FINALMENTE, uscire dall’orizzonte della #tragedia e dal #letargo epistemologico e #correggere un’operazione #matematica "sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (#Franca Ongaro #Basaglia, 1978)!!!
COSMOTEANDRIA E STORIA. LA LEZIONE DI PAOLO DI TARSO:
"Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [ἀνήρ], e capo di Cristo è Dio [ ὅτι παντὸς ἀνδρὸς ἡ κεφαλὴ ὁ Χριστός ἐστιν, κεφαλὴ δὲ γυναικὸς ὁ ἀνήρ, κεφαλὴ δὲ ⸀τοῦ Χριστοῦ ὁ θεός.]"(1 Cor. 11, 1-3).
GIORNATA MONDIALE DELL’#ANATOMIA ("World Anatomy Day"): NON SOLO VESALIO.
GIOVANNI VALVERDE DE AMUSCO E LA "SCOPERTA" DEI "#TESTICOLI DELLE #DONNE" (cfr. allegato: cap. 15 del Libro III dell’ "Anatomia" di #GiovanniValverde, stampata a Roma nel 1560).
COME NASCONO I BAMBINI: #RIVOLUZIONE COPERNICANA (IN #TERRA E IN #CIELO) E #MENSCHWERDUNG. #AL TEMPO DI #FILIPPO II e #TERESA D’AVILA, il medico Giovanni Valverde riconosce alla #donna il ruolo attivo nell’atto del #concepimento e pone le premesse per l’#uguaglianza, per la "#ley de #igualdad".
GIORNATA MONDIALE DELL’#ANATOMIA ("World Anatomy Day"): NON SOLO VESALIO.
GIOVANNI VALVERDE DE AMUSCO E LA "SCOPERTA" DEI "#TESTICOLI DELLE #DONNE" (cfr. allegato: cap. 15 del Libro III dell’ "Anatomia" di #GiovanniValverde, stampata a Roma nel 1560).
COME NASCONO I BAMBINI: #RIVOLUZIONE COPERNICANA (IN #TERRA E IN #CIELO) E #MENSCHWERDUNG. #AL TEMPO DI #FILIPPO II e #TERESA D’AVILA, il medico Giovanni Valverde riconosce alla #donna il ruolo attivo nell’atto del #concepimento e pone le premesse per l’#uguaglianza, per la "#ley de #igualdad".
TEATRO E FILOSOFIA: AMORE, O MORTE? "ESSERE, O NON-ESSERE: QUESTA E’ LA DOMANDA" ("THE QUESTION", III.1.56). CHE #RISPONDERE, "QUI E ORA"?!
SE E’ VERO, COME E’ VERO, come scrive lo stesso #Shakespeare, che "conoscere bene un uomo sarebbe conoscere se stessi" ("#Amleto", V. 2. 139), la sollecitazione a riflettere sui "Sette modi in cui Amleto potrebbe vedere uno specchio di se stesso in Laerte" (cit.), a mio parere, è un ottimo consiglio a pensare ancora, di nuovo, e meglio, all’antico "#programma" metastorico, filosofico e antropologico (di ogni #essereumano), del #conoscere sé stesso della tradizione delfica e dell’ #amare il prossimo come sé stesso della tradizione evangelica.
METATEATRO E METAPSICOLOGIA. Inoltre, il contributo è anche un invito a riconsiderare il lavoro fatto da Otto Rank sia sullo stesso #Amleto ("Das «Schauspiel» in «Hamlet»", 1915) sia sul tema del "Doppio" ("Der Doppelgänger", 1914) ) e, infine, sul più generale e comune tentativo di portarsi con #Freud, oltre l’orizzonte della #Tragedia (Dante Alighieri) e del #Tempo "fuori dai cardini" di Amleto (Shakespeare).
PEDAGOGIA STORIA LETTERATURA E FILOLOGIA: L’INDICAZIONE DELLA SIBILLA TIBURTINA E LA ESORTAZIONE DELLA DEA "LEVANA" ("CONTEMPLATE CHI E’ PIU’ GRANDE DI VOI!") NELL’ORIZZONTE DELLA "MORTE DI DIO" E DEL NICHILISMO.
Una ipotesi di ricerca... *
A) Nella sua "Legenda Aurea", Jacopo da Varagine scrive:
"Narra papa Innocenzo III che il senato voleva adorare come un dio Ottaviano per aver riunito e pacificato tutto il mondo; ma il prudente imperatore non volle usurpare il nome di immortale poiché ben sapeva di essere come uomo, mortale. Insistevano i senatori nel loro proposito onde Ottaviano interrogò la Sibilla per sapere se mai sarebbe nato nel mondo qualcuno più grande di lui.
Era il giorno della Natività di Cristo e la Sibilla si trovava in una stanza, sola con l’imperatore: ed ecco apparire un cerchio d’oro attorno al sole e in questo cerchio una vergine bellissima con un fanciullo in grembo. La Sibilla mostrò questo portento all’imperatore: mentre costui teneva gli occhi fissi alla visione sentì una voce che diceva: - Questa è l’ara del cielo! -. Esclamò allora la Sibilla: - Questo fanciullo è più grande di te; adoralo -.
La stanza dove avvenne tale fatto è stata poi consacrata alla Madonna ed ora si chiama Santa Maria Ara Coeli.
Timoteo ci dice di aver trovato negli antichi libri romani lo stesso fatto raccontato in modo diverso: dopo trentacinque anni di regno, Ottaviano salì in Campidoglio e chiese agli dei chi avrebbe retto l’impero dopo di lui. Udì in risposta queste parole: - Un fanciullo celeste, figlio del Dio vivente, nato da una vergine immacolata -. Ottaviano fece allora costruire un altare e vi fece scolpire queste parole: - Questo è l’altare del figlio del Dio vivente - (...)" (Jacopo da Varagine, "Legenda Aurea", Libreria Editrice Fiorentina, p. 52 s.).
B) Nei "Suspiria de Profundis", a proposito di Levana (e le «Nostre Signore del Dolore»), Thomas De Quincey scrive:
"Spesso a Oxford vidi nei miei sogni Levana. La riconobbi dai suoi simboli romani. Chi è Levana? Lettore, che sostieni di non aver troppo tempo per erudirti, non ti dispiacerà che te lo spieghi. Levana era la dea romana che esercitava per il neonato il primo ministero di nobilitante benevolenza, tipico, nel suo rituale, di quella grandezza che è dappertutto propria dell’uomo e di quella benignità delle potenze invisibili che anche nel mondo pagano scende talvolta a sostenerla. Al momento stesso della nascita, proprio quando il neonato saggiava per la prima volta l’atmosfera del nostro travagliato pianeta, esso era deposto in terra.
Questo gesto si prestava a diverse interpretazioni. Ma immediatamente, affinché una così nobile creatura non restasse in quell’umile posizione più di un istante, o la mano paterna in rappresentanza di Levana, o un parente prossimo in rappresentanza del padre, lo sollevava in alto, gli ordinava di stare eretto quale sovrano di tutto il mondo e ne volgeva la fronte verso le stelle dicendo, forse in cuor suo: «Ammirate ciò che è più grande di voi!» Questo atto simbolico rappresentava la funzione di Levana. E quella dama misteriosa che non rivelò mai il suo volto (salvo a me in sogno) ma sempre agì per procura, traeva il suo nome dal verbo latino (rimasto tuttora nell’italiano) levare, sollevare verso l’alto.
Tale è la spiegazione di Levana. E da ciò è venuto che alcuni intendano per Levana la potenza tutelare che vigila l’educazione nella prima infanzia. Colei che non tollererebbe alla nascita del suo mirabile pupillo nemmeno una sua finta o simbolica degradazione, ancor meno si può ritenere che tollererebbe la vera degradazione inerente al mancato sviluppo delle facoltà che sono in lui. Ella perciò vigila sull’umana educazione. Ora la parola educo, con la penultima breve, è derivata (per un processo che spesso si riscontra nella cristallizzazione delle lingue) dalla parola edùco, con la penultima lunga. Tutto ciò che educe, o sviluppa, educa. Per educazione di Levana si intende, perciò, non il povero meccanismo che è messo in moto da sillabari e da grammatiche, ma il meccanismo che è mosso dal possente sistema di forze interiori nascoste nel profondo della vita umana e che, per mezzo di passioni, lotte, tentazioni, energie della resistenza, agisce continuamente sui fanciulli e non si arresta mai ne giorno né notte, come le stesse ruote possenti del giorno e della notte, i cui istanti, simili a raggi che non hanno sosta, brillano eternamente nel loro ruotare. (cfr. T. De Quincey, "Confessioni di un oppiomane" - con i racconti: "Suspiria de Profundis" e "La diligenza inglese", Garzanti 1987).
ANTROPOLOGIA (KANT), TEATRO (#SHAKESPEARE), E #PSICOANALISI (#FREUD):
IL "MOUSETRAP" DI "AMLETO ED OFELIA" ("HAMLET", III.2) E L’ "ONORA IL PADRE E LA MADRE" ANTROPOLOGICO E "BIBLICO".
QUALE "MODELLO" DI #RELAZIONE IN UNA MODERNA SOCIETA’ DEMOCRATICA? QUALE RAPPORTO TRA LE #GENERAZIONI? CITTADINI SOVRANI E CITTADINE SOVRANE, FIGLI E FIGLIE DI ’MARIA’ E ’GIUSEPPE’, O DI ’GIOCASTA’ E ’LAIO’? O, PER CASO E ANCORA, FIGLI E FIGLIE DELLA LUPA (DI REA SILVIA E MARTE)?
LO "SPETTRO" DI "#GIUSEPPE" SI AGGIRA ANCORA PER LA "#DANIMARCA" ..... MA IN VATICANO NON LO SANNO. Vivono tutti ancora a Tebe, nella città del re Edipo! Con un’antropologia preistorica, la Chiesa Cattolica avanza sicura, verso il tremila prima di Cristo E SI PREPARA A FESTEGGIARE #NICEA (325-2025)!
Fino a quando zoppicheremo con i due piedi?: questa è una domanda - già di molti secoli prima di Cristo - del profeta Elia (1 Re: 18, 21), ma - come si sa - rilanciata da #SigmundFreud, nel XX secolo dopo Cristo! A CHE "GIOCO" SI VUOLE CONTINUARE A GIOCARE?
AMLETO, FREUD E RANK: UN INVITO A RIPRENDERE LA RICERCA SUL TEMA DELLA NASCITA E DELL’ ANTROPOLOGIA PSICOANALITICA E FILOSOFICA.
A CHE #GIOCO SI CONTINUA A GIOCARE? ANCORA A UN #BAMBINO, CONCEPITO COME UN #FETO "TOTALMENTE NARCISISTICO"?! Freud comprese l’importanza antropologica del "gioco del #rocchetto" del nipotino, ma Rank riuscì a meglio comprendere «La "Rappresentazione" nell’Amleto» (1916) di #Shakespeare, il "gioco" della #Mousetrap (della "scena primaria", della "scena madre").
Una nota a margine di un mio vecchio articolo su un grande protagonista della storia della psicoanalisi: Federico La Sala, "Otto Rank, il doppio e la psicoanalisi" ("Psicoterapia e Scienze Umane", Anno III, OTTOBRE-DICEMBRE 1980, 4, pp. 75-79: Vol. 4, 1980, Volume XIV, serie arancione).
A BEN VEDERE, l’opera di Freud, "Inibizione, sintomo e angoscia" è del "1926". Data l’importanza dell’argomento, legato al problema della nascita (e alla "angoscia di castrazione"), forse, vale la pena rileggere con attenzione quesa "citazione":
Essendo tutto il discorso legato polemicamente al "Trauma della Nascita" di Otto Rank (1924), all’ #enigma della #Sfinge (al tragico "#nodo di#Ercole"), e alla questione antropologica sul #comenasconoibambini (#SigmundFreud, 1937), non è il caso di rianalizzare meglio e di più il contributo di Otto Rank e le stesse riflessioni di Freud che toccano infine, anche e ancora Rank, la discussione di lunga durata sulla "Analisi terminabile e interminabile"?
ANTROPOLOGIA CULTURALE PSICOANALISI STORIA E STORIOGRAFIA. Otto Rank, "#Beyond #Psychology" (1941): "[...] Among the subjects investigated in this searching analysis are kingship and magic participation, the institution of marriage, power and the state, Messianism, the doctrine of rebirth, the two kinds of love (Agape and Eros), the creation of the sexual self, feminine psychology and masculine ideology, and psychology beyond the self.".
PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA TEOLOGIA MAMMONICA:
IL"CARINO" DI UNO STUDENTE E IL "CERCATE ANCORA" DI CLAUDIO NAPOLEONI (1990)!
A CHE GIOCO GIOCHIAMO?! Ricordando ancora con stima la sollecitazione #critica di Claudio Napoleoni a non addormentarsi nel #sonnodogmatico dominante, mi permetto di #pensare che lo #studente, nella sua risposta, si riferisse al #costo economico del #libro (non al contenuto) e, al contrario, fosse molto pertinente! A ben riflettere, il "carino" avrebbe dovuto allarmare il prof. e fargli #apriregliocchi e le orecchie sulla "#doppiezza" della "#carità" cattolico-paolina, nel suo significato "mercantile" ("#caritas": "caro-prezzo" e "caro-affetto") e #accogliere con #grazia la ironica sottolineatura dello studente!
"SAPERE AUDE!" (KANT, 1784; MICHEL FOUCAULT, 1984))."Da dove iniziare, volendo recuperare, soprattutto ora, il pensiero e l’opera - complessa, molteplice, culturalmente alta - di Claudio Napoleoni?" (cfr. Lelio Demichelis, "Cercare ancora. Il capitalismo, la tecnica, l’ecologia e la sinistra scomparsa. L’attualità di Claudio Napoleoni", Economia&Politica, 26 Aprile 2020).
ANTROPOLOGIA FILOSOFIA E ANDROCENTRISMO: "ECCE HOMO" (NIETZSCHE, 1888).
LA SFINGE CHIESE AD EDIPO, "CHI SEI ?"; EDIPO "PLATONICAMENTE" RISPOSE: "L’UOMO!" [#ANTHROPOS].
STORIA #LETTERATURA E #STORIOGRAFIA. #PILATO INDICO’ #GESU’ ALLA #FOLLA E DISSE: "ECCE HOMO" ( «Ecco l’uomo», «ἰδοὺ ὁ #ἄνθρωπος»).
TEOLOGIA-POLITICA E #COSMOTEANDRIA. LA LEZIONE DI #PAOLODITARSO:
"PERSONA E DEMOCRAZIA. La storia sacrificale" (M. Zambrano, 1958): "María Zambrano non ha venduto l’anima all’Idea" (Emil M. Cioran, "Esercizi di ammirazione. Saggi e ritratti", Adelphi, 1988).
Sul tema, cfr. "Le parole di Antigone nella riscrittura novecentesca di María Zambrano" (di Camilla Tibaldo, Treccani, 13 gennaio 2020).
Uno "Spirito" ("Ghost") si aggira ancora per l’Europa. Con i "maestri del sospetto" (P. Ricoeur), Marx e Freud e Nietzsche, è bene riprendere la lettura dell’opera di Shakespeare...
"BEN SCAVATO VECCHIA TALPA!" (MARX, 1852): FILOSOFIA "GOLEMANTICA", PEDAGOGIA DEL "CORPO MISTICO" DELLA "MACCHINA" SOCIALE DEL "CAPITALE", E #ANTROPOLOGIA.
KANT (1724-2024). OGGI, ANCORA A #SCUOLA della androcentrica macchina teologico-politica "niceale" (Nicea, 325 - 2025)?!
UN ALTRO "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE" E’ POSSIBILE: "#SÀPERE #AUDE! (KANT, 1784). Una "brillante" e "sorprendente" sollecitazione di #MaurizioFerraris a uscire dal #letargo (#DanteAlighieri) e a riconsiderare il problema della #liberazione, dell’uscita dallo "stato di minorità":
"BEN DETTO, VECCHIA TALPA" ("AMLETO, I.5)! CON SHAKESPEARE, NON E’ TEMPO DI PORTARSI #OLTRE LA TRAGICA DOTTRINA ATEO-DEVOTA DEL "CORPO MISTICO" DEL RE ("GOLEM"), OLTRE IL #PLATONISMO E IL #PAOLINISMO "CATTOLICO", "UNIVERSALE" - SE NON ORA, QUANDO?!
NOTE:
UN’ASSENZA DELL’IO-SONO DI TRE SECOLI: KANT (1724-1804) E LA DANZA DEL PENSIERO, IN COMPAGNIA DI SAMUEL BECKETT, "ASPETTANDO GODOT" ("Dance first. Think later. / It`s the natural order"):
"L’IO ERA ASSENTE
di Pietro Barbetta ("Doppiozero, 11 aprile 2024).
Patologie, il breve testo di Antonella Moscati uscito per la collana storie di Quodlibet, si apre con un ironico omaggio al padre, “medico non medico”, esperto di dermosifilide - dermosifiloiatra, dermosifilologo, che, erroneamente, si autodefinisce dermosifilopatico - in un mondo che sta cambiando: il mondo attraverso cui abbiamo trascorso l’infanzia e l’adolescenza, che ha sostituito il buon senso romantico dell’igiene con la più sicura epidemiologia.
Antonella Moscati racconta la propria storia familiare attraverso la nomenclatura medica, sanitaria e igienica: vi si descrivono scene della quotidianità di una famiglia, con la madre impegnata a tenere insieme le relazioni, il padre, supposto medico, poco accreditato dentro e fuori dalle relazioni familiari, e infine le sorelle, apprensive. Nomenclatura medica ma anche nomenclatura casalinga che riguarda comunque la salute, come l’alimentazione, dove ciò che conta è la sostanza, dalla quale vengono escluse verdura e frutta, prediletta dall’autrice, a vantaggio di carne, pesce e pasta.
Il capo famiglia, nel racconto, combatte il batterio in epoca antibiotica, ma - in un certo senso - nega o ripudia il virus. Si può leggere questa prima parte dell’opera come un glossario sarcastico, a tratti grottesco, della vita quotidiana di una famiglia di “uomini di medicina” - il padre, lo zio, il cognato - e di donne, l’autrice, la madre, le sorelle, che si confrontano, si interessano - tutte a leggere la sera, a letto, il Manuale medico di diagnostica e terapia Roversi - ma che esercitano una doverosa scepsi nei confronti dell’ossessività medica paterna. -Il Roversi sembra essere, nel racconto, la bibbia familiare, pietra miliare della medicina, così come la interpreta il padre. Ma, qui e là nel testo, emerge anche un altro tratto paterno, l’affezione da qualche disordine psichico, che lo porta a essere ossessivo riguardo ad alcune malattie o sintomatologie e del tutto negligente riguardo ad altre - come spesso capita agli ossessivi.
Il testo scorre sotto gli occhi del lettore, rapito dal linguaggio. L’autrice usa il metodo dello straniero, coniato da Alfred Schutz e ripreso dall’etno-metodologia: guardare il mondo come fossi un estraneo, un marziano, che, venendo da fuori, rende il dato-per-scontato, strano e singolare.
Insomma, bisogna leggerlo, questo testo, per sentirsi a casa e per sentire il clima di uno strano paese, l’Italia, in una particolare epoca storica, il secondo dopoguerra. Personalmente, benché cresciuto e allevato da una famiglia nel Nord, ho riconosciuto gli stessi discorsi, gli stessi umori, le stesse classificazioni, benché in famiglia non ci fossero medici. Del resto, in quell’epoca, i medici erano comunque frequentemente dentro casa, si chiamavano medici condotti perché si muovevano dall’ambulatorio, visitavano i pazienti e facevano tutti quei discorsi che Moscati rievoca nel suo racconto. Era un sapere diverso, meno rigoroso, più fantasioso. Oggi che questo mondo se n’è andato definitivamente, non possiamo che ricordarlo con nostalgia, ed è in effetti la nostalgia, assieme all’ironia, l’altra protagonista della prima parte di Patologie: una meravigliosa ironia nostalgica.
La memoria ha molti aspetti differenti, è molteplice. Può essere retrograda, quando si ricordano tempi lontani, o anterograda, quando si ricorda ciò che sta accadendo ora. C’è una memoria episodica, il ricordo di eventi del passato, e una memoria semantica, che permette di riconoscere il significato delle cose. Definiamo una memoria prassica, che permette di suonare il piano anche dopo anni di astinenza dall’esercizio, e una memoria implicita, che permette di ricordare ciò che si dichiara di non ricordare. Vari organi del sistema nervoso, e in particolare della corteccia, concorrono, in maniera complessa, alla formazione della memoria. Ci sono inoltre aree di codifica e decodifica tra loro separate: quanto ricordiamo non è mai precisamente ciò che è accaduto; per ogni decodifica dell’episodio che racconto, nel mio racconto ci sono nuove codifiche che modificano la situazione e le circostanze originarie.
Abbiamo creato la scrittura e, prima della scrittura, i cliché, le rime e la metrica per sovra-codificare quanto accaduto, creare una seconda memoria, come insegna Platone nel Fedro. Ma la memoria ha a che fare con l’immaginario. Per questa ragione ognuno di noi si trova sovente - o forse sempre - di fronte a sensazioni di déjà vu, oppure a quel fenomeno definito da Daniel Schacter nei termini di falsa memoria. Ogni volta che ricordiamo qualcosa, contemporaneamente, immaginiamo qualcosa che si discosta dalla cosa che stiamo ricordando. Insomma: siamo un po’ autori dei nostri ricordi, così come quando traduciamo un testo, siamo un po’ co-autori del testo che abbiamo tradotto.
La questione che pone Moscati è filosofica, ma ha una componente neurologica specifica, si tratta dell’avvedersi, che i filosofi, sulla scorta di Leibnitz, chiamano appercezione. Quando percepisco, nel mio percepire c’è anche la coscienza di essere là a percepire. Moscati traduce una frase di Leibnitz: “La percezione della luce o del colore di cui ci avvediamo (dont nous nous appercevons) è composta, per esempio, da una quantità di piccole percezioni delle quali non ci avvediamo (nous ne nous appercevons pas) e un suono (forse un rumore?) di cui abbiamo percezione, ma al quale non prestiamo attenzione, diventa appercepibile con una piccola addizione, con un piccolo incremento”.
Ci vuole dunque un’addizione, un piccolo incremento, così piccolo da restare, a sua volta, sotto la soglia della consapevolezza. Carlo Emilio Gadda ha chiamato questo fenomeno “cognizione”. William Weaver, traduttore inglese di molti scrittori italiani, ha tradotto “aquaintance”, o meglio “to be aquainted”, che non è propriamente consapevolezza, forse ha più a che fare con l’abitudine, l’habitus. Forse, come suggerisce David Hume, l’io non è che l’abitudine alla ripetizione. Per questo la perdita dell’io, come è accaduto ad Antonella Moscati, è la perdita di un mondo, perché è la perdita di un’abitudine.
Ma da dove viene l’habitus dell’io? Viene da quel piccolo incremento, quella piccola addizione che ci rende coscienti di percepire ciò che percepiamo: l’immaginazione. Le piccole percezioni di cui non ci avvediamo, vengono raccolte, poste sotto l’attenzione, da un’istanza immaginaria. Forse l’inconscio è una relazione tra il caos dell’infinità priva di senso e l’unificazione di questo caos nel senso: caosmos. La quidditas che vediamo, quando guardiamo un cesto, o una mela, quando le riconosciamo, come il suono della voce di Clemens, il compagno di Antonella, dipende dal nostro sistema nervoso. Forse per questo Emily Dickinson aveva composto i versi che seguono, dei quali tento una traduzione a misura della filosofia di Antonella Moscati:
Il cervello - è più grande del cielo -
perché - mettili fianco a fianco -
l’uno l’altro conterrà
facilmente - e anche te
Il cervello è più profondo del mare -
perché - se li tieni - blu su blu -
l’uno l’altro assorbirà
come spugna col secchio fa
Il cervello è proprio il peso di Dio -
perché - alzali - libbra su libbra -
ed essi differiranno - semmai -
come suono da sillaba -
*
VITA E FILOSOFIA E ANTROPOLOGIA: "SAPERE AUDE! (IMMANUEL KANT, 1784 - MICHEL FOUCAULT, 1984). CONTRARIAMENTE a quanto stabilito e codificato dalla storiografia idealistica, già solo le poche indicazioni sopra citate smuovono profondamente l’immagine "accademica" di Kant e sollecitano a rivedere unitariamente (nel trecentesimo anniversario della sua nascita) tutta la sua produzione ( della fase "precritica", come della "critica") e a riconsiderare di nuovo e meglio le sue lezioni sul "che cosa significa orientarsi" con le mani nella realtà e con la coscienza nel pensiero.
Kant, da una parte, è con Cartesio: nell’ordine cronologico, il "Cogito" ("Think") viene prima ("first"), e, dopo ("later"), l’ "ergo sum" ("Dance"); dall’altra parte, per dirla in breve, è con Samuel Beckett, la "Dance" della vita viene prima ("first") e il "Think" dopo ("later"): "It`s the natural order".
L’aver messo per lo più l’accento solo sul lato dell’ "io penso" del lavoro di Kant ha prodotto il totale #insabbiamento storico e storiografico del lato dell’ "Io sono" - con tutte le conseguenze del caso sulla "rivoluzione copernicana" (in filosofia, in antropologia, e in astronomia): un’ assenza dell’Io_sono (almeno) di tre secoli. A che gioco giochiamo? Ancora alla cosmoteandria? Cerchiamo di "non dare i numeri": il "Logos" non è un "Logo", e la "Charitas" non è la "caritas"!!!
LA "RIFLESSIVITÀ" DI BOURDIEU, COME IL "SENSO COMUNE DEGLI SCIENZIATI", ANCORA NELLA "CAVERNA" DI PLATONE E NEL "CERCHIO DEI CERCHI" DELL’ASSOLUTO DI DI HEGEL.
Bourdieu e il senso comune degli scienziati
di Alfonso Maurizio Iacono (Doppiozero, 23 Agosto 2024)
Il ricercatore dovrebbe forse provare per metodo ciò che provò Vitangelo Moscarda guardandosi allo specchio quando si accorse che il suo naso era ben diverso da come pensava che fosse. Ma non deve oscillare tra l’essere uno, nessuno o centomila, deve solo essere sé stesso proprio mentre si vede come altro. Ma in fondo è ciò che dovremmo fare tutti quando ci interroghiamo e poniamo la domanda sul nostro stesso fare. Ma è difficile tanto quanto trovare una buona relazione tra conoscere e fare. È questo il dramma della limitatezza umana, perché noi, come ricorda Giambattista Vico, non possiamo conoscere e fare simultaneamente. Ma possiamo riflettere su questa impossibilità e trasformare il riflettere in un fare.
Un tempo si sarebbe detto che includere l’osservatore nel processo di osservazione sarebbe stata una perdita di oggettività del sapere scientifico, lusso che si sarebbero potuto permettere forse le scienze storico-sociali, ma non certo quelle naturali. Da qui la separazione tra le scienze storico-sociali e quelle naturali oppure la riduzione delle prime al criterio di verità determinata dall’esattezza e dall’evidenza delle seconde. Nel ‘900 invece il tema dell’inclusione dell’osservatore nel contesto dell’osservazione è diventato centrale nell’epistemologia scientifica. Ciò che precedentemente sarebbe stata considerata un’eresia è diventato un interesse metodologico centrale in fisica, in biologia, nelle scienze sociali. Negli anni ’30 del ‘900 Ludwig Fleck aveva già posto il problema dell’osservatore nel campo della ricerca, ma il suo libro, uscito nel 1935, non suscitò alcun interesse, negli anni ’60, il successo del contributo di Thomas Kuhn La struttura delle rivoluzioni scientifiche (Einaudi, Torino 1969), dipese certamente dal fatto che, come si dice, arrivò al momento giusto.
La visione di Giambattista Vico non è poi così lontana da tale interesse metodologico.
Pierre Bourdieu, nel solco del mutamento epistemologico operato da Ludwig Fleck (Genesi e sviluppo di un fatto scientifico, Il Mulino, Bologna 1983) e da Thomas Kuhn, ha chiesto alla sociologia qualcosa di più. Ha posto il problema metodologico dell’oggettività del soggetto scientifico che indaga e ha a che fare, a sua volta, con l’oggettività di ciò che è indagato.
Il libro Sulla riflessività (Edizione italiana a cura di G. Ienna, C. Lombardo, L. Sabetta, M. Santoro, Meltemi, Milano 2024, pp. 117) presenta quattro contributi di Bourdieu sulla riflessività che percorrono un arco della sua ricerca dagli anni ’60 agli anni ’90. Bourdieu chiama questa ricerca dell’oggettività del soggetto riflessività. Cosa significa oggettività del soggetto e cosa significa riflessività? Scrive Bourdieu: “la riflessività non è la riflessione nel senso della cogitatio cogitationis, cioè pensiero di un pensiero, riflessione di un pensiero sul mio pensiero. Non è un semplice ritorno del soggetto conoscente su sé stesso: il soggetto conoscente che prova a conoscersi. La riflessività, così come la intendo io, è effettivamente questo, ma passa attraverso un processo di oggettivazione. Il soggetto conoscente, che si tratti di un sociologo, uno storico, un etnologo e addirittura un economista, è qualcuno che possiede strumenti di conoscenza che può applicare a sé stesso, soggetto conoscente, e più precisamente all’universo sociale in cui questo soggetto conoscente è inserito” (p. 49). Si va dunque oltre l’inclusione dell’osservatore nel contesto di osservazione. Bourdieu aggiunge le condizioni oggettive in cui si trova l’osservatore scientifico quando osserva e fa le sue considerazioni.
In altre parole, la riflessività implica la localizzazione sociale del punto di vista. Si tratta di applicare il metodo sociologico di osservazione allo stesso osservatore. “L’ipotesi, continua Bourdieu, è che il soggetto conoscente non abbia accesso, per semplice riflessione, all’essenziale di ciò che è e di ciò che fa. Per accedere, deve passare attraverso un’esplorazione delle condizioni oggettive in cui è stato prodotto così com’è, e nelle quali fa quel che fa. In altre parole, si tratta di fare sociologia come la facciamo sempre, ma sull’universo delle scienze sociali, sul nostro proprio mondo, sul nostro proprio campo” (ibidem). Bisogna tenere conto degli habitus degli scienziati, di ciò che a loro appare ed è vissuto come ovvio, insomma il loro senso comune che, come direbbe Vico, in assenza di riflessione diventa pregiudizio, e che invece va interpretato criticamente. Husserl e Schutz sono qui presenti con la messa in questione del mondo dato per scontato. Ma si possono anche fare altri due riferimenti teorici, tra i molti indicati da Bourdieu. Il primo è Marx con la sua teoria del rapporto tra ideologia e classe sociale (K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, 1977). Non ci accorgiamo che le idee dominanti, le quali si presentano semplicemente come idee, esprimono l’ideologia della classe dominante. Il secondo è Wittgenstein con la sua critica a Frazer (Note sul ‘Ramo d’oro’ di Frazer, Adelphi, 1975) il quale fa apparire il passaggio dalla magia alla scienza come qualcosa di evolutivamente oggettivo e non come il suo modo di vedere il mondo.
Gli autori della Postfazione (G. Ienna, C. Lombardo, L. Sabetta, M. Santoro) chiamano il metodo di Bourdieu “razionalismo storicista... vera matrice stilistica della riflessività” (Bourdieu, cit. 101). In effetti due concetti importanti che attraversano il pensiero di Bourdieu sono quello di relazione e quello di storia. Richiamarsi alla critica degli habitus sociali e mentali del ricercatore come campo decisivo della riflessione significa richiamarsi alla loro storia e al fatto che le stesse categorie sovrastoriche dell’osservazione scientifica hanno comunque a che fare con la storia. Infine, in Bourdieu troviamo il tema del corpo. “...ci sono due modi di guardare il corpo. C’è quello di guardare il corpo altrui o di guardare il proprio corpo allo specchio come un oggetto, oppure quello che consiste nell’essere in esso, di essere con esso, di essere tutt’uno con il proprio corpo. Il punto di vista scolastico è il punto di colui che guarda gli altri è ha una filosofia dello spettatore. Possiamo andare molto oltre grazie a Maurice Merleau-Ponty e non è fare filosofia. È usare la filosofia per sbarazzarsi della filosofia che si fa quando non si ha alcuna filosofia” (ivi, p. 61). Oggi noi assistiamo a un forte ritorno a una filosofia che si fa quando non si ha una filosofia. Un vecchio tema che risorge ogni qual volta si usa la riflessione sulla conoscenza scientifica più come rassicurazione e bisogno di autorità che come ricerca critica e autonoma.
*
LA RIFLESSIVITA’ DI BOURDIEU COME IL "SENSO COMUNE DEGLI SCIENZIATI" ANCORA NELLA "CAVERNA" DI HEGEL. "Gli autori della Postfazione (G. Ienna, C. Lombardo, L. Sabetta, M. Santoro) chiamano il metodo di Bourdieu “razionalismo storicista... vera matrice stilistica della riflessività” (Bourdieu, cit. 101). In effetti due concetti importanti che attraversano il pensiero di Bourdieu sono quello di relazione e quello di storia." (A. I. Iacono, cit.).
A TRECENTO ANNI DALLA NASCITA DI #KANT, NON E’ IL CASO DI DARE IL VIA A UNA #SECONDA "#RIVOLUZIONECOPERNICANA" E PORTARSI OLTRE IL #PLATONISMO E IL #PAOLINISMO DELLA #DOTTAIGNORANZA E DELLA SUA #COSMOTEANDRIA?!
#PSICOANALISI, #STORIA, E #CRITICA DELLA #RAGIONE "PURA". A mio parere, benché Bourdieu abbia fatto un lavoro eccezionale, di lui, come egli stesso dice di Freud ("mi piace citare la frase di un grande storico"), è possibile dire altrettanto: "[Bourdieu] Freud dimentica che Edipo era un figlio di re."! Non è proprio ora, con #Kafka, come con #Dante, di uscire dalla "#tana", dall’#inferno epistemologico ed antropologico della #tragedia, e ri-scoprire la nostra propria personale e politica #autonomia e #sovranità ?! Se non ora, quando?
PIANETA TERRA (PROMESSA), ONU (=UNO), E "UmaNITÀ" ("HUMANITAS"):
PROFEZIA, ANTROPOLOGIA, E TEOLOGIA-POLITICA.
SE E’ VERO CHE "DA TEMPO I PROFETI PARLANO A UNA CITTA’ CHE NON LI VUOLE PIU’ ASCOLTARE!" (Nicola Fanizza), E’ ALTRETTANTO VERO CHE, DA #TEMPO, DA MOLTO TEMPO, nonostante tutta la #storia (già solo quella) dell’#arte e, in particolare, la grande lezione di #Michelangelo #Buonarroti, che sapeva anche di #anatomia e di "vecchio" e "nuovo" #testamento" , è anche colpa dei #PROFETI che hanno "silenziato" le #Sibille, hanno buttato via la #bilancia (Vermeer ), e vogliono continuare a "pesare" solo "l’ #oro"!!!
CON DANTE ALIGHIERI, GIORDANO BRUNO, GALILEO GALILEI, SPINOZA, FREUD, ED EINSTEIN, #OLTRE. Senza #Kant, solo milioni di milioni di "mille piani", vecchi "ritornelli", e "dotta ignoranza" (1440) a volontà.
NOTE:
ANTROPOLOGIA, MITO, STORIA, E LETTERATURA:
"IL FEMMINILE E L’UOMO GRECO" (NICOLE LORAUX). Un omaggio e una nota a margine del lavoro di Nicole Loraux (1943-2003).
"SAPERE AUDE!" (KANT, 1724-2024). MUOVENDO dal lavoro della brillantissima Nicole Loraux ("Il femminile e l’uomo greco", Laterza 1991, e, Mimesis Edizioni 2024) e, in particolare, dalla sua indicazione, legata alla figura di Tiresia, che «l’uomo non è mai tanto uomo come quando ha qualcosa della donna dentro di sé», forse, è possibile orientarsi meglio sia sui temi fondamentali della sua ricerca storico-antropologica sia del problema del "chi siamo noi, in realtà" (Nietzsche).
COME IN CIELO ("URANO") COSI’ IN TERRA ("GAIA"): MITO E TRAGEDIA (EDIPO). Riconsiderando, il legame tragico (edipico) codificato giuridicamente e teologicamente già nel (prei)storico "compromesso celeste", a partire dal salvataggio e dalla messa in sicurezza da parte della #Madre-#Regina - #Rea, di "#Zeus", del #Figlio, dalle fauci dello Sposo, il Padre-Re #Crono e, poi, nel "compromesso olimpico", dal "matrimonio" tra il "Padre -Re" (Zeus) e la "Madre -Regina" (#Era), rileggere #Amleto (Shakespeare) e riprendere a tutti i livelli la sollecitazione di #Freud (con le "parole" di Era, relative all’Acheronta movebo, citate all’inizio della "Interpretazione dei sogni", bene in mente) di pensare "l’edipo completo", rianalizzare il suo lavoro relativo a "L’uomo dei topi" (e fare attenzione alle sue riflessioni sul "#matriarcato" e sul "#patriarcato") e capire cosa significa la "trappola per topi" ("The Mousetrap") di Amleto ed Ofelia per il "Padre-Re" e la "Madre-Regina" (Shakespeare). Forse, solo così, è possibile ricominciare a pensare sul #comenasconoibambini e a un’altra "Storia universale della natura e teoria del cielo" (Immanuel Kant, 1755).
NOTE:
ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA) E ARTE: UNA NOTA DI ANTROPOGENESI CHIASMATICA (NEXOLOGIA) E DI STORICHE COSTRUZIONI NELL’ ANALISI (S. FREUD, 1937).
I VEGGENTI E L’ IPOTESI DELLA NASCITA DELL’ESSERE UMANO (E DELLA SUA COSCIENZA) DI MICHELANGELO BUONARROTI.
IL "MESSAGGIO" DEI SETTE PROFETI E DELLE CINQUE SIBILLE NELLA VOLTA DELLA CAPPELLA SISTINA E DEI "DUE PROFETI" E DELLE "DUE SIBILLE" DELLA SACRA FAMIGLIA DEL "TONDO DONI".
𝐗𝐗𝐕 𝐂𝐨𝐧𝐠𝐫𝐞𝐬𝐬𝐨 𝐦𝐨𝐧𝐝𝐢𝐚𝐥𝐞 𝐝𝐢 𝐅𝐢𝐥𝐨𝐬𝐨𝐟𝐢𝐚
"Philosophy across Boundaries" / "La filosofia attraversa i confini":
𝐗𝐗𝐕 𝐂𝐨𝐧𝐠𝐫𝐞𝐬𝐬𝐨 𝐦𝐨𝐧𝐝𝐢𝐚𝐥𝐞 𝐝𝐢 𝐅𝐢𝐥𝐨𝐬𝐨𝐟𝐢𝐚 (Roma, 1-8 agosto), organizzato dalla International Federation of Philosophical Societies, dalla Società Filosofica Italiana e da Sapienza Università di Roma.
ANTROPOLOGIA STORIA FILOSOFIA E FILOLOGIA: L’EUROPA E LE OLIMPIADI DI PARIGI 2024.
CON HEGEL (E PAOLO DI TARSO), OLTRE: UN PROBLEMA DI RICONOSCIMENTO, ALL’ORDINE DEL GIORNO DEL PIANETA TERRA.
DOPO IL FORMIDABILE PUNTO FERMO SUL TEMA DELL’#AUTOCOSCIENZA E DEL RICONOSCIMENTO MESSO DA HEGEL NELLA "#FENOMENOLOGIA DELLO #SPIRITO" (1807), una rimemorazione "storiografica" epocale (da #Delfi a #Jena, e da Socrate e Platone allo stesso Hegel), arrivati a #Paris2024, c’è ancora da riflettere ancora e ancora proprio sul "ri-conoscere" ("an_erkennen"), e, possibilmente e urgentemente, fare un passo oltre lo storico "#compromesso olimpico" della #cosmoteandria della #tragedia! Come mai dopo millenni (e, dopo Napoleone, dopo Auschwitz, e dopo Hiroshima e Nagasaki), si continua a "cantare" il #ritornello dell’ «aner», dell’«uomo» di Paolo di Tarso, e dell’universale #paolinismo:
#Achegiocogiochiamo? A quali "Giochi" si vuole continuare ad aggiogare l’intero Pianeta, la "nave" Terra, nell’oceano celeste (#Keplero)?! Non è ora di cambiare rotta?! E, con #DanteAlighieri, uscire dall’#inferno?!
NOTE:
ANTROPOLOGIA #CRITICA (#KANT) E #VITAEFILOSOFIA (#NIETZSCHE, "#ECCEHOMO", 1888): "LA SOCIETA’ APERTA" (KARL #POPPER) O LA SOCIETA’ CHIUSA?!
RICORDANDO la frase di #Hugo: "Io sono parigino di nascita e «parrisiano» nel parlare, dal momento che «parrhisia» in greco significa libertà" ("Notre Dame de #Paris", L. I, cap. III), OGGI, NON POSSIAMO NON DIRCI "POPPERIANI" E, AL CONTEMPO, NON DIRCI "CRISTIANI" (CON #BENEDETTOCROCE): SI TRATTA DI CAMBIARE ROTTA E ANDARE #OLTRE "L’UOMO" , OLTRE L’#ANDROCENTRISMO E LA #COSMOTEANDRIA DELL’ANTICA #ALLEANZA DELL’ORIZZONTE DELLA "CADUTA", DELLA TRAGEDIA (#PLATONE ED #HEGEL), E DEL #PAOLINISMO COSTANTINIANO (#NICEA, 325-2025).
RICONOSCIMENTO (ANERKENNUNG): RICONOSCER-SI. Tra "Parresia" (parlare chiaro e liberamente) e - #Parousia ("Parusia", #presenza del "divino" nel mondo, nell’ottica teologico-politica socratico-platonica e paolino-hegeliana), corre un rapporto "metafisico" strettissimo che dice proprio se si sta parlando con lo #spirito critico ed evangelico (di libertà uguaglianza fratellanza e sorellanza, nel rispetto della differenza e delle differenze), all’aria aperta e alla luce del Sole ("#Logos"), o nel recinto ("#Logo") dell’ombra del "dio" di turno (quale #AlessandroMagno di fronte a #Diogene di Sinope) di una "preistoria" di lunga durata.
SORGERE DELLA TERRA (#EARTHRISE): CONSIDERAZIONI IN-ATTUALI (2001). "Intorno a noi, la Terra, c’è il "cielo puro" e il "libero mare" - come scriveva Nietzsche, non ci sono gli extra-terrestri, che ci verranno a salvare o a distruggere. Gli extra-terrestri siamo noi! Cosa vogliamo fare? Forse ci conviene deporre le armi e cominciare a dialogare in spirito di verità" (Cfr. Federico La Sala, "L’enigma della sfinge e il segreto della piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria in forma di lettera aperta (a Primo Moroni, Karol Wojtyla e, p. c., a Nelson Mandela)", Edizioni Ripostes, Roma-Salerno 2001, p. 48).
CON AMLETO (ED EDIPO), A SCUOLA DA MACHIAVELLI: TEATRO (FILOSOFIA) E METATEATRO (METAFILOSOFIA).
QUANDO IL "TOPO" DIVENTA UN "#GATTO" (UNA "GATTA") E SVELA IL "GOLPE" (DEL "LIONE"). Una traccia per una ri-lettura dell’opera di Shakespeare ...
SHAKESPEARE E COLLODI. Se è vero, come è stato detto da qualcuno, che "L’ Amleto è antiamletico come Pinocchio è antipinocchiesco; totalmente e quindi ambiguamente", c’è da chiarire e precisare che Amleto non diventa un "ragazzino per bene" (un "Pinocchio"), ma vince la sua battaglia (personale e politica), resta fedele a se stesso, alla Legge, e al ricordo del Padre-Re, e restituisce onorevolmente a "Fortebraccio" la #corona della "Danimarca".
UNA QUESTIONE DI #STATO: "IL PRINCIPE". Se la "sconfitta" di Pinocchio passa per la morte e l’impiccagione (cap. XV) prima e poi per la falsa "rinascita" finale (Geppetto: "quando i ragazzi cattivi diventano buoni", cap. XXXVI), al contrario, la "storia" di Amleto passa per il ribaltamento della posizione e la vittoria: "Stasera si recita in presenza del re:/ una scena del dramma s’avvicina ai fatti/che t’ho detto sulla morte di mio padre. /Ti prego, quando vedi cominciare quell’episodio /con tutto l’acume della tua anima osserva mio zio." (III. 2.85-90).
LA VOLPE E IL LEONE. "Sendo, dunque, uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione; perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si defende da’ lupi. Bisogna, adunque, essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi." (N. Machiavelli, "Il Principe", cap. XVIII).
EDUCAZIONE CIVICA E CITTADINANZA ATTIVA E CRITICA: UN GATTO ("THE MOUSETRAP") E UN ("SERPENTE" CAMUFFATO DA) "TOPO". Amleto, ben consapevole (come chiarisce a Orazio) del fatto che, «se la sua [del Re Claudio] colpa occulta non si stana a un certo discorso, è uno spettro dannato quello che noi abbiam visto» (III.2. 90-92), per chiarire a sé stesso e a tutti e a tutte i dubbi, da "cacciato" si fa "#cacciatore" e aziona la "trappola per topi" ("The Mousetrap"), per mostrare come chiarire gli "amletici" dubbi: "Questo dramma è la rappresentazione di un assassinio compiuto a Vienna. Gonzago è il nome del Duca, quello di sua moglie Battista. [...] l’assassino è un certo Luciano, #nipote del Re [...]. Lo avvelena nel #giardino per prendergli il #regno. Il suo nome è Gonzago. La storia è dei nostri giorni, e scritta in italiano scelto. Ora vedrete come l’assassino ottiene l’#amore della moglie di Gonzago" (III.2.247).
NOTE:
CAVOLI E BAMBINI: IL MATERIALE (AGRICOLTURA) E L’IMMAGINARIO (STORIA).
UNA QUESTIONE DI #EDUCAZIONECIVICA ED #EDUCAZIONE #ALIMENTARE: APPUNTI DI #ANTROPOLOGIACULTURALE (#COMENASCONOIBAMBINI), #PSICOANALISI (#EDUCAZIONESESSUALE), #PEDAGOGIA #COSTITUZIONALE, ED #ECONOMIA-#POLITICA...*
"[...] Nel passato, quando i bambini domandavano della loro nascita spesso si narrava della cicogna oppure che i neonati nascono sotto le foglie di questi ortaggi. Nell’Europa centrale, il cavolo (verze, cappucci, cavolfiori, cavolini di Bruxelles) ha rappresentato la principale fonte di vitamine e minerali durante l’inverno. [...]
Considerato simbolo di fecondità e vita (sono ricchissimi di acido folico che favorisce la fertilità), il cavolo veniva raccolto approssimativamente nove mesi dopo la semina, corrispondendo al periodo di gestazione umana. In quell’epoca, i concepimenti erano prevalentemente legati alla primavera, e le nascite avvenivano nell’autunno successivo.
La spiegazione è chiara: i matrimoni venivano celebrati nei mesi invernali, quando non c’era lavoro nei campi, e la decisione di avere un figlio veniva presa in primavera, poiché solo in quel periodo il contadino poteva valutare se i raccolti dell’anno avrebbero garantito un reddito sufficiente per sostenere la famiglia.
Il compito della piantagione, con l’aiuto di un punteruolo di legno, e della raccolta dei cavoli ricadeva sulle spalle delle donne, chiamate levatrici, un termine associato alle figure che assistevano le donne durante il parto. Le contadine avevano l’incarico di tagliare il “cordone ombelicale” che collegava il cavolo alla terra, da cui nacque la leggenda che i bambini potessero trovarsi sotto ai cavoli."
(cfr. SARA GRISSINO, "I BAMBINI NASCONO SOTTO I CAVOLI? PERCHÉ SI RACCONTA...", Giallo Zafferano).
NOTE:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO, E LA FILOSOFIA. UNA NOTA PER NON PERDERE DEFINITIVAMENTE LA BUSSOLA TRA I VARI CATTOLICISMI (ATEI E DEVOTI) E PER "ORIENTARSI NEL PENSIERO", SULLA #HAMLETICA #QUESTIONE ANTROPOLOGICA (#KANT, 1800).
IN VIAGGIO CON #ULISSE: "CONSIDERATE LA VOSTRA SEMENZA" (INF. XXVI, 118), "COME NASCONO I BAMBINI"?
L’ALLEANZA DI #FUOCO, L’AMORE, E LA "DIVINA COMMEDIA": UN SEGNAVIA PER USCIRE DALLA "PREISTORIA"! UNA NUOVA #ANTROPOLOGIA E UNA NUOVA TEOLOGIA-POLITICA: "#MARIA" E "#GIUSEPPE" UGUALI DAVANTI A "DIO" (#AGAPE, #CHARITAS).
RIPARTIRE DAL "#PRESEPE" (#FRANCESCO DI #ASSISI, 1223).
L’AMORE DI "#DUE SOLI" (#DANTEALIGHIERI) E IL
BAMBINO: "ECCE #HOMO" (#CRISTOLOGIA).
NOTE:
INTERPRETAZIONE DEI SOGNI (S. FREUD, 1899) E DEI NOMI (W. STEKEL, 1911): PSICOANALISI, ANTROPOLOGIA, LINGUAGGIO, E REALTA’.
NEL PROPORRE LA TRADUZIONE DELL’ARTICOLO DI WILHELM STEKEL (Vienna 1868 - Londra 1940), "Il vincolo dei nomi" ("Il passo psicoanalitico", 16 giugno 2024 ), #Michele #Lualdi premette una breve nota di chiarimenti storiografici di contestualizzazione per meglio far comprendere sia il lavoro di Stekel sia i rapporti dello stesso Stekel con il lavoro di Freud e degli altri psicoanalisti: l’articolo, proposto per la rivista "Zentralblatt für Psychoanalyse", nata nel 1910 e diretta da Freud, fu pubblicato invece sulla "Zeitschrift für Psychotherapie und Medizinische Psychologie" nel 1911.
MEMORIA. Detto che si tratta di "[...] un breve articolo sul rapporto tra nome (e cognome) di una persona da un lato e sintomi, abitudini, scelte di vita e d’amore dall’altro", Lualdi richiama e ricita da un suo precedente lavoro la interessante testimonianza di Stekel, proprio sul tema della pubblicazione dell’articolo: «“Freud indirizzò il suo primo veto contro di me; concerneva un saggio intitolato Il vincolo del nome”... prevedeva che i lettori avrebbero riso di me e conformemente al nostro accordo esercitò la sua prima opposizione. Allora io pubblicai l’articolo in un’altra rivista psicologica. Non vi furono né scherni né derisioni; al contrario, giunsero conferme da parte di molti ardenti freudiani.” (Lualdi, 2015, 245-56).» (op. cit.).
L’OMBELICO DEL "NOME": UNA QUESTIONE ANTROPOLOGICA, LINGUISTICA, E TEOLOGICO-POLITICA. A cercare di illuminare le ragioni dell’uno (Freud) e dell’altro (Stekel) e di riprendere la riflessione teorica sul "vincolo dei nomi", forse, è opportuno ricollocare la questione all’interno del problema di memoria culturale e antropologica di lunga durata (cfr. #DanteAlighieri, "De Vulgari eloquentia"), che affonda le sue radici nel "biblico" dare il nome alle cose (#Genesi, 2.19) da parte di #Dio e da parte di #Adamo il nome agli animali (#androcentrismo prima della nascita di #Eva e dopo la "cacciata" di entrambi dall’#Eden) , e nella tradizione filosofica greca, nel "#Cratilo" del "so-cratico" e demiurgico #Platone.
L’OMBELICO DEL SOGNO: IL MONDO NON E’ IL MAPPAMONDO. Se si ripensa e si accoglie la scelta di epistemologia critica propria e già di Freud (1899), che «ogni sogno ha un ombelico attraverso il quale è congiunto all’ignoto» ("Interpretazione dei sogni"), riconoscendo ovviamente a Stekel tutto il valore della sua ricerca, oggi, forse, è meglio pensare che i nomi delle persone (i #bambini), come la "rappresentazione" dei #sogni "sognati" (e delle #idee "pensate"), hanno il loro ombelico e, che è opportuno ri-considerare antropologicamente la "nostra semenza" (#Dante, Inf. XXVI, 118 ), come la #semenza altrui (e quella degli stessi sogni e delle stesse idee di ogni essere umano).
NOTA:
COSMOLOGIA E DISAGIO DELLA CIVILTA’: COME NASCONO I BAMBINI? E COME ‘NASCONO’ I GENITORI?! *
Con Dante, Michelangelo e Shakespeare, una nota a margine della questione antropologica (e cristologica).
FREUD (CON SHAKESPEARE), A LONDRA. Contrariamente a quanto si pensa, la lunga ricerca di #Freud, se può apparire (come è apparso per lo più fino ad ora) segnata dalla figura di #Edipo e #Giocasta, dall’altra è molto prossima a quella di #Amleto (#Hamlet), dalla volontà e dal progetto di chiarirsi le idee su di sé, e di suo Padre - di chi è veramente #Figlio: la sua opera, una vera e propria "trappola per topi" ("The #Mousetrap"). Egli, in verità, è andato (come si sa) a "scuola" da Shakespeare, e il problema della sua vita è come quello di Shakespeare, contribuire a sciogliere il #nodo di #Ercole, il nodo della nevrosi ossessiva non solo del caso dell’#uomo dei #topi" (1909), ma "della civiltà" e "nella civiltà" e contrastare il dilagare alluvionale del "marcio nello stato di Danimarca":
RIVOLUZIONECOPERNICANA (KANT2024). Sigmund Freud: "Lichtenberg [1742-1799] osserva: «L’astronomo sa se la luna sia abitata o no, all’incirca con la stessa sicurezza con cui sa chi sia stato suo padre, ma con ben altra sicurezza sa invece chi è sua madre». Un gran progresso della civiltà si compì il giorno in cui l’uomo decise di avvalersi, accanto alla testimonianza dei sensi, della deduzione logica e di passare dal matriarcato al patriarcato. Le figure preistoriche in cui si vede una piccola forma umana seduta sul capo di un’altra più grande rappresentano appunto la discendenza dal padre, Atena senza madre scaturisce dal capo di Giove. Ancor oggi, in tedesco, il testimone che attesta qualcosa davanti a una corte giudicante si chiama #Zeuge [«testimone», letteralmente «generatore»], per la parte che ha il maschio nell’atto di procreazione; già nei geroglifici troviamo rappresentato il testimone con l’immagine dei genitali maschili." (cfr. S. Freud, "Racconti analitici, a cura di Mario Lavagetto, Einaudi 2011).
* Sul tema, cfr. Federico La Sala, "Cosa succede in casa - nella “camera nuziale”, e cosa succede in Parlamento - nella “camera reale”?! Una nota introduttiva alla “Istruzione sessuale dei bambini” (1907) di Sigmund Freud..
NOTE:
"DITELO" CON LE PIANTE ("CAESALPINIA PULCHERRIMA"). ANTROPOLOGIA FILOSOFIA E BOTANICA: RIPRENDERE IL FILO DEL RINASCIMENTO E DELLA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA.
ANDROCENTRISMO, GEOCENTRISMO, ED ELIOCENTRISMO: TRACCE PER UNA #SVOLTA_ANTROPOLOGICA. Considerato che ancora oggi la cultura "accademica" (atea e devota") ha la "#forma #mentis" condizionata (algoritmicamente) dall’#immagine mitizzata della "Scuola di Atene" (Raffaello, 1509 -1511) e della "piramide" (v. allegato) del "Sapiente" (Bovillus, 1509-1510), la rilettura e lo studio dell’opera di Andrea Cesalpino è più che mai fondamentale e #salutare (allegati nei commenti).
NOTE:
LA PSICOANALISI E I QUATTRO "MOSCHETTIERI": FREUD ("L’UOMO DEI TOPI"), ABRAHAMS" (L’UOMO COL MAGNETOFONO"), MUSATTI ("CONDIZIONI DELL’ESPERIENZA E FONDAZIONE DELLA PSICOLOGIA") E FACHINELLI ("IL BAMBINO DALLE UOVA D’ORO". Appunti sul tema...
A sua memoria, "vent’anni dopo" (1989-2009).
FACHINELLI intuì CHE J.-J.ABRAHAMS, L’UOMO COL MAGNETOFONO, ERA UN SINGOLARE (KIERKEGAARD) GATTO, MA GLI SFUGGì il legame CON I TOPI, CON LA "MOUSETRAP" DI "AMLETO" E L’OPERA DI ALEXANDRE DUMAS.
ANTROPOLOGIA PSICOLOGIA E NEXOLOGIA CHIASMATICA: "ACHERONTA MOVEBO". Aprire gli occhi (Freud), tutti e due, è difficile, ma solo sciogliendo il nesso ("nexus") tragico, il nodo edipico, è possibile uscire dall’orizzonte della tragedia e della claustrofilia (Elvio Fachinelli, 1983) e andare oltre le colonne d’#Ercole e, con Virgilio e Dante, oltre... "Sàpere aude! (Orazio-Kant).
PSICOANALISI (NEXOLOGIA) E ANTROPOLOGIA CHIASMATICA: CON KIERKEGAARD ("AUT - AUT"), OLTRE. Mi auguro che le poche indicazioni date siano buone sollecitazioni a riprendere il filo: "L’uomo dei topi" è "radioattivamente" carico di teoria. Freud s’è l’è portato dietro tutta la vita, fino alle "costruzioni nell’analisi" (1937) e oltre.
DA FREUD A FACHINELLI: CON KIERKEGAARD, OLTRE. "L’uomo col magnetofono", fondamentalmente, è lo stesso Fachinelli (v. "La parola contaminata", nel testo), andato a "scuola" di Cesare Musatti, e, al contempo, critico nel rapporto con la Società Psicoanalitica Italiana (che ancora oggi si attarda a parlare alla Platone, "Psiche e Polis").
Federico La Sala
DIVINA COMMEDIA E LETTERATURA. Rileggere i "Tre Moschettieri" con Beniamino Placido (1994)... per imparare a ben distinguere il "giglio" di "Milady" dal giglio della Firenze e di (Maria) Beatrice (di Dante Alighieri). *
IL GIGLIO DI MILADY
di Beniamino Placido ["la Repubblica", 8 settembre 1994] **
Ci sono delle buone ragioni per rileggere, d’ estate, I tre moschettieri? Certo che ce ne sono. Tanto per cominciare, non è poi mica così sicuro che l’ abbiamo veramente mai letto (e quindi tantomeno riletto). Non è improbabile che la nostra prima, appassionata ma approssimativa, conoscenza di quei personaggi sia avvenuta per merito (e demerito insieme) di qualche edizione per ragazzi. Dove la traduzione era abborracciata, la vicenda raccorciata, i nomi scarabocchiati male. Non è improbabile che tutto quel che sappiamo di Athos, Porthos, Aramis e d’ Artagnan, sia dovuto al cinema (il film di George Sidney e Gene Kelly, il film di Richard Lester) piuttosto che al romanzo di Dumas.
Il quale romanzo (seconda ragione per affrontarlo) fu pubblicato a puntate su Le Siècle giusto centocinquant’ anni fa: fra l’ undici marzo e l’ undici luglio del 1844. Abbiamo celebrato, ed onorato di scritti commemorativi, tanti anniversari letterari. Sembra giusto celebrare anche questo.
Tanto più (terza ragione) che di buona letteratura si tratta. Si dà il caso che l’ Editore Adelphi abbia ripubblicato quest’ anno La Poesia di Benedetto Croce. Dandoci modo di rileggere il giudizio che il severo, austero don Benedetto ebbe ad esprimere in proposito: "Da parte mia, non provo il rossore di cui altri sentirebbe inondato il volto nel dire che mi piacciono e giudico condotti con grande brio e spigliatezza i Trois mousquetaires di Alessandro Dumas padre. Ancora molti li leggono e li godono senza nessun’ offesa della poesia, ma nascondendo in seno il loro compiacimento come si fa per gli illeciti diletti, ed è bene incoraggiarli a deporre la loro falsa vergogna e il loro congiunto imbarazzo".
La quarta, la quinta, la sesta, l’ ennesima ragione (ci sono anche quelle) aspettano il loro turno, se mai verrà. Ma una ragione addizionale, e tuttavia fondamentale, per una lettura-rilettura estiva va esplicitata subito. Quest’ estate è stata molto calda. Insopportabilmente calda. Informatevene da chi è rimasto in città, voi che eravate invece ai monti o al mare: ve lo confermeranno.
Quando il termometro sfiora i quaranta gradi ci si fa furbi, bisogna pur sopravvivere. Si trova subito una scusa per mettere da parte i faticosi studi progettati, le serissime letture programmate in gennaio, e raccontare a se stessi: sai che ti dico? Adesso mi leggo o rileggo I tre moschettieri. Anche Benedetto Croce me ne dà il permesso.
Così ho fatto. L’ ho affrontato in una ottima edizione francese - peraltro anche economica, anche maneggevole - della "Pocket" (Parigi, 1993) dotata di tutto. Note, contronote, tavole cronologiche, indice dei luoghi, dei nomi, dei personaggi storici. Dossier fotografico e documentario.
Perché in francese? Intanto, per continuare a tentare di imparare quella lingua. In modo da essere in grado di chiedere senza arrossire: "Che cos’ è questo palazzo?" ("Qu’ est-ce que c’ est que cet édifice?") la prossima volta, a Parigi. E poi lo so per esperienza, che c’ è sempre un premio per chi si sobbarca alla fatica di leggere un libro nell’ originale. Per ricompensarti l’ autore - lusingato - ti offre una, due cose in più da capire.
Per esempio. Tutti lo sappiamo che al centro di questo romanzo ci sono loro quattro, i tre moschettieri Athos, Porthos, Aramis, più d’ Artagnan. E il Re Luigi XIII, quel Re fatuacchione, perennemente annoiato (grazie, non faceva niente tutto il giorno); e il Cardinale Richelieu; e la Regina Anna (fedele? infedele?); e il Duca di Buckingham; ed altre persone ancora.
Ma sappiamo che c’ è soprattutto lei, Milady. La seconda parte del romanzo ne è totalmente dominata. Lei l’ angelica (in apparenza) la perfida, la dolce, la seducente, la spietata, la crudele Milady. Degnamente interpretata da Lana Turner nel film di Sidney e Kelly, che è del 1948. Degnamente interpretata da Faye Dunaway nel film di Richard Lester, che è del 1975.
E’ lei che cerca di far morire tutti (quasi tutti) i personaggi maschili e femminili che le capitano fra le mani - dopo averli variamente sedotti - e quasi sempre ci riesce. E pensare che basta guardarle - con la dovuta ammirazione - le bellissime spalle per capire chi veramente è. Sulla spalla sinistra lei porta impresso a fuoco il marchio del disonore, il giglio di Francia. Che la qualifica - malgrado il fascino, le moine, le lusinghe - come una volgare delinquente.
Così per seicento e passa pagine. Finalmente, al capitolo sessantacinquesimo, quello che comincia con la frase proverbiale, celeberrima: "Era una notte buia e tempestosa" ("C’ était une nuit orageuse et sombre") eccola lì smascherata - finalmente! - e condannata, che sta per essere giustiziata sulle rive della Lys.
Ciò che a un italiano non dice niente. Si trattasse delle rive della Senna, sarebbe per noi assolutamente la stessa cosa.
Ma per un lettore francese, per un lettore del testo originale, in francese, no. Non è la stessa cosa. Perché in francese giglio si dice "lis" (scritto a volte anche "lys"). E questo suggerisce una corrispondenza che sa di contrappasso. Tu, marchiata dal giglio ("lis" o "lys") di Francia sulle rive della Lys dovrai morire, brutta mascalzona.
Corrispondenza rafforzata da alte ricorrenze foniche. Il boia incaricato dell’ esecuzione è il boia di Lilla. Il paese che deve attraversare per raggiungere il luogo dell’ esecuzione si chiama Lillers. E poi c’ è tutto un gioco sottilissimo organizzato intorno al verbo "flétrir" ("far appassire" e insieme "macchiare"); intorno al sostantivo "flétrissure" ("appassimento, avvizzimento", e insieme "marchio d’ infamia").
Come a dire: un giglio, tu? Ma tu sarai tutt’ al più un giglio avvizzito, appassito, maleodorante. Il tuo destino è quello di decomporti adesso, sulle rive della Lys. Un destino che è però anche una resa dei conti, una vendetta. Tutti i personaggi del romanzo, e insieme a loro tutti i lettori del medesimo, si vendicano della perfida donna che li ha tanto sedotti. Tanto insidiati. Che ha fatto morire l’ adorabile Constanza Bonacieux, fidanzata di d’ Artagnan. Che ha tentato di far fuori anche d’ Artagnan. Che ci ha - confessiamolo - sedotti e abbandonati (quando non ammazzati): tutti.
Dove si vede che Alessandro Dumas padre è qualcosa di più del romanziere divertente, spregiudicato (e superficiale?) presentato con benevolenza da Benedetto Croce. Non possiede brio e spigliatezza soltanto. Sa anche giocare con corrispondenze ed assonanze significative, in modo raffinato.
Di più: sa giocare - come nessun altro prima, nessun altro prima di lui - con un tema esplosivo, il tema della vendetta. Lo si vede ne Il Conte di Montecristo, scritto nello stesso periodo. Lo si vede ne I tre moschettieri. Di recente lo scrittore Sebastiano Vassalli ha sostenuto proprio su queste pagine (la Repubblica, 27 luglio 1994) che "Odio ergo sum". Che finché ci sarà odio, in questo mondo, ci sarà il romanzo. L’ odio soltanto? E’ sicuro che basti? Non ci vuole anche - per scrivere un romanzo o per raggiungere, da lettore, la pace dei sentimenti leggendolo - anche un certo appagamento dell’ odio, nella forma di una bella vendetta?
Il romanzo I tre moschettieri è una serie ininterrotta di vendette, dal principio alla fine. C’ è una vendetta ad ogni pagina. Ogni tanto, una esaltazione tutta esplicita della vendetta, definita qualche volta come "le plaisir des dieux", il piacere degli Dei. Addirittura.
Il piacere della vendetta - che alberghiamo dentro, evidentemente - è così intenso da consentire ad Alessandro Dumas un clamoroso colpo di mano, un gioco di prestigio spericolato: ai nostri danni. C’ è un momento, un momento cruciale del racconto in cui ci prende in giro, ci mena per il naso. Spudoratamente.
Ho cominciato a sospettarlo verso la fine. Quando più insistente si faceva la pressione del romanziere sul tema del giglio di Francia e sul gioco di parole fra "lis" e "Lys". Dev’ essere stato il caldo, che rende insofferenti e sospettosi. Dev’ essere stata l’ euforia estiva, che ti mette in testa l’ idea di un incontro sorprendente. Nel mio caso l’ idea di un incontro filologicamente sorprendente con un "luogo" testuale trascurato da altri. Che nessuno si spaventi. Si tratta di filologia estiva, stagionale. E provvisoria, come ho doverosamente avvertito nel precedente articolo dedicato alla biblica storia di Giuseppe (la Repubblica, 1 settembre 1994).
Ma tornate con me a metà del romanzo, al capitolo ventisettesimo. Ecco la svolta. Athos racconta a d’ Artagnan la storia tragica della sua vita. Non è mica nato moschettiere, lui. Lui era un gran nobile un tempo. Era il conte de La Fère. Un giorno nel villaggio che le sue proprietà dominavano si affacciò una fanciulla. Capelli biondi, occhi azzurri, ciglia e sopracciglia nere. Bellissima. Un angelo.
Tu mi capisci d’ Artagnan, avrei potuto averla senza sposarla, ero il signore del luogo; ma me ne innamorai perdutamente, volli sposarla. Quand’ ecco che una mattina, andando a caccia, lei cadde da cavallo e svenne. Corsi a soccorrerla, e siccome la vedevo in affanno le lacerai le vesti con la punta del pugnale, le scoprii una spalla e cosa mi apparve? Mi apparve, impresso sulla di lei spalla il marchio del disonore: il giglio di Francia. Quell’ angelo era un demonio; tu mi capisci, d’ Artagnan.
Stropicciatevi pure gli occhi. Rileggete ancora una volta, se lo ritenete necessario. Ma è proprio così. Dumas vuol darci ad intendere, per i suoi biechi interessi narrativi, che quel marito di nome Athos aveva bisogno dell’ incidente di caccia, della caduta da cavallo, della conseguente difficoltà respiratoria della moglie per guardarle - finalmente - le spalle e scoprire che cosa c’ era stampato sopra. E prima, non aveva avuto nessuna occasione di guardarle, di ammirarle (non oso dire: di toccarle) quelle spalle?
Da quel momento in poi è stata un’ estate di fuoco, nel vero senso del termine. Ho preso a tenzonare con i miei amici francesisti, ne conosco di giovani e bravissimi: e dunque, mi sapete spiegare come mai nessun lettore se ne accorge, se n’ è accorto? Siccome questi accalorati seminari di filologia si svolgevano generalmente intorno ad un tavolo di pizzeria, la sera, vi venivano implicate anche le mogli dei francesisti suddetti.
Che pudicamente suggerivano: forse a quel tempo le donne non si presentavano mai completamente svestite, nemmeno ai mariti. Specie le spalle, le coprivano sempre. E promettevano di interpellare - col dovuto tatto - le loro mamme, le nonne, le bisnonne, le trisavole. Le quali mandavano a dire, dopo qualche giorno, che ai loro tempi effettivamente era tutta un’ altra cosa, tutto un altro senso del pudore.
Suvvia, nonne bisnonne trisavole: nemmeno voi ce la contate giusta. E quando andava a ballare, Milady, anche lì con le spalle rigorosamente coperte? E quando faceva il bagno (ne avrà fatto qualcuno) sotto l’ occhio vigile della "femme de chambre" (o cameriera), e quando si vestiva con l’ aiuto della "femme de charge" (o guardarobiera) e quando si svestiva in compagnia della "suivante" (o dama di compagnia, confidente) e quando si faceva pettinare i lunghi capelli biondi dalla "coiffeuse" (o pettinatrice) nessuno, nessuna se ne accorgeva di quel marchio di infamia sulla spalla? Oltretutto, se il Re di Francia gliel’ aveva fatto imprimere addosso era perché facilmente si vedesse, e denunciasse la portatrice: com’ è che è così facile nasconderlo?
Credo che Alessandro Dumas lo sapesse, di avere la coda di paglia. Difatti in un capitolo successivo, il trentottesimo, prova a mettere le mani avanti. Quel fiore di giglio era - chissà, forse - quasi cancellato ("comme effacée") dagli strati di pomata ("les couches de pate") che Milady ci applicava sopra. Quasi cancellato, non proprio del tutto...
Niente da fare. A noi non la si fa, quando leggiamo i libri nell’ atmosfera irritata, sospettosa dell’ estate. Niente da fare. Al centro nevralgico de I tre moschettieri c’ è un vistoso buco logico, un sostanzioso ammanco di verosimiglianza narrativa.
Perché non ce ne accorgiamo? Perché non vogliamo accorgercene. Perché siamo troppo interessati alla storia, vogliamo che continui, malgrado tutto. Vogliamo goderci tutte le perfidie, tutte le diaboliche seduzioni di Milady, fingendo di detestarle. Vogliamo subito dopo, ma non tanto presto, liberarcene. Condannarla alla decapitazione sulle rive di quel fiume ("Lys") che porta il nome del giglio di Francia ("lis") stampato sulla sua sinistra spalla.
L’ autore lo sa. Ci conosce benissimo. "Hypocrite lecteur!" ci dice. So di poterti portare dove voglio, sfruttando le tue viltà, le tue debolezze. Per concludere, e per quanto mi riguarda: con queste letture, accompagnate da filologici sospetti, è stata una bella estate, malgrado tutto. Adesso mi propongo di continuare ad essere un lettore sospettoso anche d’ inverno. Se proprio è necessario, mi aiuterò alzando al massimo il riscaldamento di casa.
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ANTROPOLOGIA FILOLOGIA E PEDAGOGIA: "SAPERE AUDE!" (ORAZIO-KANT). Ripartire dalla Costituzione e dalle lezioni delle 21 "Moschettrici" dell’Assemblea Costituente: "Avere il coraggio di dire ai nostri giovani che sono tutti sovrani" (don Lorenzo Milani).
FILOLOGIA STORIOGRAFIA, E "VITA NUOVA": USCIRE DALL’INFERNO.
Premesso che la “donna mia” di “Tanto gentile” vale “signora” (del cuore)”, come è possibile continuare a pensare, oggi, anche dopo i maestri del sospetto (Marx, Nietzsche, e Freud), che Dante ami Beatrice, tradisca Gemma Donati, i figli, e la figlia Antonia, suor Beatrice?
Sul tema, si cfr. L’Arca dell’ Alleanza del Logos e il codice di Melchisedech. La Fenomenologia dello Spirito... dei “Due Soli”.Ipotesi di rilettura della “Divina Commedia”.
IL "CORPO MISTICO" (IL MOTTO DEI MOSCHETTIERI: "UNO PER TUTTI, TUTTI PER UNO"), L’ANTROPOLOGIA-POLITICA E LA COSTITUZIONE (L’ISOLA DEL "CONTE DI MONTECRISTO").
"ORIENTARSI NEL PENSIERO" (#KANT2024). Una "vecchia" nota in memoria di Alexandre Dumas, e, delle 21 "Moschettrici" (le Donne, le "Madri della Costituzione" della Repubblica Italiana):
NOTE:
«NON MANGIARE TROPPO»: IL "BANCHETTO" DI SWEDENBORG, I "SOGNI DEL VISIONARIO" ("AEGRI SOMNIA") DELL’«ARTE POETICA» DI #ORAZIO (VENOSA) E LA INTERPRETAZIONE DI KANT (KOENIGSBERG, 1766) DELLA TEOLOGIA-POLITICA DELL’UOMO SUPREMO "EUROPEO".
A) "TEATRO DEL SONNO": LA VISIONE DI SWEDENBORG. «Ero a Londra e stavo pranzando nel mio abituale ristorante. Ero affamato e mangiavo con grande appetito. Verso la fine del pasto mi accorsi che una specie di nebbia mi si faceva davanti agli occhi. La nebbia divenne più fitta e io vidi il pavimento della stanza coperto dei più orribili animali striscianti, serpenti, rospi e simili. Io ero stupefatto, perché ero in piena coscienza. Poi l’oscurità divenne più completa per sparire infine completamente, e ora in un angolo della stanza vidi seduto un uomo che mi terrorizzò con le sue parole. Mi disse infatti: «Non mangiare tanto!».
Poi tutto si oscurò di nuovo, ma di colpo si rifece luce e mi ritrovai solo nella stanza. Questa visione mi indusse a tornare rapidamente a casa. Durante la notte mi si ripresentò lo stesso uomo, il quale mi disse che era Dio, il creatore del mondo e redentore, e che mi aveva scelto per spiegare agli uomini il senso spirituale delle Sacre Scritture; lui stesso mi avrebbe dettato quello che avrei dovuto scrivere su questo soggetto. In quella stessa notte, per convincermi, mi fu mostrato il mondo spirituale, l’inferno e il cielo, dove incontrai parecchie persone di mia conoscenza e di tutti i ceti sociali. Da quel giorno rinunciai a ogni interesse scientifico terreno e lavorai soltanto alle cose spirituali, secondo quello che il Signore mi aveva ordinato. In seguito il Signore aprì gli occhi del mio spirito, così che mi trovai in grado di vedere mentre ero pienamente desto quello che avviene nell’altro mondo, e di parlare con gli angeli e gli spiriti» (cfr. Emanuele Swedernborg, "Cielo e Inferno L’Aldilà descritto da un grande veggente", a c. di Paola Giovetti, Edizioni Mediterrane, Roma 2005; e, anche, cfr. Guido Almansi - Claude Béguin, "Teatro del sonno. Antologia dei sogni letterari", Oscar Mondadori, Milano 1991).
B). L’ARCHIVIO DEGLI ERRORI: L’ "IO SONO" DI KANT E L’ "IO SONO" DELL’"UOMO SUPREMO" (cfr. "Kant, Freud, e la banalità del male", 2010).
STORIA, FILOLOGIA, E FILOSOFIA: L’ OPERA INCOMPIUTA DELL’EUROPA E IL PERDURARE DEL "SONNO DOGMATICO"
Un piccolo invito "filologico" a riaprire la riflessione sulla domanda kantiana del "che cosa posso sapere?" e, possibilmente, cercare, mangiando sano e con gusto, di riprendere il cammino nell’#oceanoceleste (#Keplero, 1611)
SALUTE E SAPERE. L’aver dimenticato la lezione di Orazio ("Chi bene incomincia è già a metà dell’opera; risolviti a diventare saggio: incomincia [dimidium facti, qui coepit, habet: sàpere aude, incipe]") dice di una cosa terribile non solo a ogni persona e a ogni cittadino e a ogni cittadina della luminosa e solare Venosa (Basilicata, Potenza), ma dell’intera Europa (e del Pianeta Terra)!
ANTROPOLOGIA E PEDAGOGIA. "L’UOMO E’ CIO’ CHE MANGIA" (FEUERBACH), A TUTTI I LIVELLI. Materialmente e spiritualmente, è un cosiddetto segreto di "Pulcinella. Il filosofo che fu chiamato pazzo" (Romeo De Maio, 1989), non si sa più nemmeno mangiare e, cosa ancora più grave, non sapendo nemmeno più assaporare e "as-saggiare", si ignora che cosa mangia e "che cosa" sia (diventato) il cosiddetto "uomo", antropologicamente!
COSTITUZIONE, "RAPPORTO SOCIALE DI #PRODUZIONE", E CIBO. Non solo a Casa, ma nelle Scuole e nelle Università e nelle Accademie (atee e devote), cosa insegnano, cosa danno da "mangiare": "Prendete e mangiate", ma che cosa?! Non è il caso di suonare le campane a martello, uscire dal letargo, e decidersi a riprendere lo studio della filologia e della letteratura e della #storia e della filosofia e ad affrontare i lavori dell’Incompiuta, del "Complesso della Santissima Trinità"?!
LA CULTURA EUROPEA, SIGMUND #FREUD, E L’INNO ALLA #GIOIA (F. #Schiller, "An die #Freude", 1785).
MEMORIA, STORIA, E FILOLOGIA. A CHE GIOCO GIOCHIAMO?!
FREUD O LACAN? "SÀPERE AUDE" (ORAZIO - KANT). Nella ricorrenza del XXI Congresso Nazionale della Societa’ Psicoanalitica italiana, RICORDANDO ELVIO FACHINELLI (con le parole di Francesco Marchioro: "Spirito curioso, ironico, indipendente e analista non ortodosso denuncia con forza una sorta di «freudolente» uso della terapia e accusa la sua stessa istituzione di praticare una “psicoanalisi della risposta”, nel senso che si limita a «dare ragione all’esistente, razionalizzare le irrazionalità, tamponare i conflitti», offrire una terapia dell’adattamento invece di essere una psicoanalisi interrogante, capace di sollevare domande radicali sullo statuto del soggetto e la sua relazione alla Lebenswelt, al mondo della vita.": Altoadige.it, 22.12.2019), non è il caso di svegliarsi dal sonno dogmatico e riprendere il filo da Kant (1724-2024), dalla interpretazione dei "sogni di un visionario" (1766), e riprendere coraggiosamente a "servirsi della propria intelligenza ("1784), e, insieme, far un so critico della propria facoltà di giudizio, come ha fatto e sollecitato a fare in prima persona Michel Foucault nel 1984?
La verità e il nome di Dio *
È da quasi un secolo che i filosofi parlano della morte di Dio e, come spesso accade, questa verità sembra oggi tacitamente e quasi inconsapevolmente accettata dall’uomo comune, senza che ne siano tuttavia misurate e comprese le conseguenze. Una di queste - e certamente non la meno rilevante - è che Dio - o, piuttosto, il suo nome - era la prima e ultima garanzia del nesso fra il linguaggio e il mondo, fra le parole e le cose. Di qui l’importanza decisiva nella nostra cultura dell’argomento ontologico, che stringeva insolubilmente insieme Dio e il linguaggio, e del giuramento pronunciato sul nome di Dio, che obbligava a rispondere della trasgressione del vincolo fra le nostre parole e le cose.
Se la morte di Dio non può che implicare il venir meno di questo vincolo, ciò significa allora che nella nostra società il linguaggio è diventato costitutivamente menzogna. Senza la garanzia del nome di Dio, ogni discorso, come il giuramento che ne assicurava la verità, non è più che vanità e spergiuro. È quanto abbiamo visto apparire in piena luce in questi ultimi anni, quando ogni parola pronunciata dalle istituzioni e dai media era soltanto vacuità e impostura. Viene oggi al suo termine ultimo un’epoca quasi bimillenaria della cultura occidentale, che fondava la sua verità e i suoi saperi sul nesso fra Dio e il logos, fra il nome sacrosanto di Dio e i semplici nomi delle cose. E non è certo un caso se solo gli algoritmi e non la parola sembrano ancora custodire un qualche nesso col mondo, ma questo soltanto nella forma della probabilità e della statistica, perché anche i numeri non possono in ultimo che rimandare a un uomo parlante, implicano ancora in qualche modo dei nomi.
Se abbiamo perduto la fede nel nome di Dio, se non possiamo più credere nel Dio del giuramento e dell’argomento ontologico, non è, però, escluso che sia possibile un’altra figura della verità, che non sia soltanto la corrispondenza teologicamente obbligata fra la parola e la cosa. Una verità che non si esaurisca nel garantire l’efficacia del logos, ma faccia in esso salva l’infanzia dell’uomo e custodisca ciò che in lui è ancora muto come il contenuto più intimo e vero delle sue parole. Possiamo ancora credere in un Dio infante, come quel Gesù bambino che, come ci è stato insegnato, i potenti volevano e vogliono a ogni costo uccidere.
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CREATIVITÀ E SOCIETÀ: ARITMETICA, PSICHIATRIA, PSICOANALISI, E COSTITUZIONE (#Europa2024: #Francia)
Una "citazione" in memoria di FRANCO BASAGLIA E DI FRANCA ONGARO:
"un’operazione matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (Franca Ongaro Basaglia, "Donna", Enciclopedia, V, Einaudi, Torino 1978).
NOTE:
PENELOPE-IDEA E COMMEDIA: FILOLOGIA E ANTROPOLOGIA. Con lo spirito dell’opera “The Penelopiad” di Margaret Atwood e della "Divina Commedia" di Dante Alighieri, un segnavia di uscita dall’orizzonte della tragedia...
#STORIAELETTERATURA. Data la immersione totale di tutta la cultura occidentale nell’immaginario dell’#Odissea, "étudier, très succinctement, la technique d’« écriture féminine » de Margaret Atwood, à travers son ouvrage «The Penelopiad» et plus précisément, à travers l’ironie dans son rapport aux «métamorphoses» apportées au texte de l’Odyssée d’Homère" (cfr. Rebecca Plewinski, "La technique d’«écriture féminine» de Margaret Atwood: l’exemple de The Penelopiad») che con mente "penelope-idea" sa catturare e aggiogare persone e popoli con il proprio "canto" e l’ esperienza tragica della sua "fenomenologia dello #spirito".
L’ALBA DELLA MERAVIGLIA ("Earthrise"). Per #Dante, con l’aiuto del "padre" #Virgilio ("Eneide") su sollecitazione della "#bella e beata" #madre Beatrice (sollecitata a sua volta da Lucia, inviata da Maria, madre di Gesù "Cristo"), la "folle impresa" di uscire dalla "selva oscura" e ritrovare la "diritta via", con il vecchio "Ulisse" e con la vecchia "Penelope" sulle proprie spalle, è possibile: è l’amore che muove il sole e le altre stelle.
LA BILANCIA E LA NASCITA...
DIRITTO, DOVERE, E COSTITUZIONE: UNA QUESTIONE DI FILOLOGIA E DI ANTROPOLOGIA (DA PORRE ALL’ORDINE DEL GIORNO, PER EVITARE... UN ARROSSIMENTO GENERALE).
La #bilancia della #giustizia e l’urgenza epocale di una #equilibrazione del #rapporto sociale di ri-#produzione: "un’operazione #matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (Franca Ongaro Basaglia, 1978).
#SAPEREAUDE! (#KANT2024). LIBERARE la #Giustizia dalla benda (v. allegato) è un programma di uscita dallo "stato di minorità" (#Kant, 1784), una sollecitazione antropologica a servirsi della propria facoltà di giudizio, di avere il coraggio di #apriregliocchi (ricordare la difficoltà di #Freud, a riguardo) e di non #giudicare né con gli occhi chiusi né con un solo occhio.
Riconoscere l’#identità e la #differenza di sé con sé, di sé con l’altro da sé, di sé con l’altra da sé, l’#uguaglianza e la #diversità, è proprio una questione di "equilibrazione", di bilancia: ne va della nostra stessa #nascita e della nostra stessa #vita.
L’ESSENZA DEL GENERE UMANO, L’ANTROPOLOGIA, E LA "CLINICA DELLA SINGOLARITÀ":
CON MARX, RIPARTIRE DA DEMOCRITO ("GENDER") E DA EPICURO ("GENRE"), E SEGUIRE DANTE PER USCIRE DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO.
PSICOLOGIA E LETTERATURA. Nel suo recente ed "euforico" saggio, dal titolo "Disforie di genre" ("Kayak. A Philosophical Journey", 11, 2024), Pietro Barbetta, offre una ottima ricognizione sul tema e sul problema del "genere" (e, con esso, ovviamente, anche della "biblica" questione antropologica, quella del "genere umano" ("gattungswesen"), dell’essere umano, di ogni essere umano...
FILOLOGIA E ANTROPOLOGIA. Sembra un passo indietro, ma, a mio parere, è anche una sollecitazione per prendere la rincorsa e saltare meglio: "La traduzione di genere in inglese ha due significanti: genre e gender. [...]. #Genre e #gender sono infatti due visioni opposte dell’essenza: quella ideale, le cui cose materiali non sono che ombre, e quella del motto husserliano “verso le cose stesse”, che ne designa la singolarità e la materialità. Nel primo caso l’accidente è trascurabile, mero aspetto materiale dell’idea, nel secondo l’accidente è linea di fuga dal gender, ciò che, in quanto idiosincrasia, definisce il #clinamen. Il gender è come l’atomo di #Democrito, scende dall’alto verso il basso in modo verticale, senza deviare, il genre è come l’atomo di #Epicuro e Lucrezio, si scontra con altri atomi, deviando costantemente la propria traiettoria" (P. Barbetta, cit.).
STORIA E FILOSOFIA. CONTRARIAMENTE A QUANTO si è per lo più sempre pensato e si continua a pensare nel sonnambulismo cartesiano-hegeliano, il richiamo (non detto) alla tesi di Karl Marx, "La differenza tra la filosofia naturale di Democrito e la filosofia naturale di Epicuro" (1841), non appartiene alla preistoria della "critica dell’economia politica", ma è carica di "radioattività" teorica che può portare fuori dall’#inferno epistemologico della #tragedia platonico-hegeliana e paolina-marxista:
«In Epicuro, quindi, l’atomismo con tutte le sue contraddizioni si è realizzato e completato come scienza naturale dell’autocoscienza. Questa autocoscienza sotto forma di individualità astratta è un principio assoluto. Epicuro ha così portato l’atomismo alla sua conclusione finale, che è la sua dissoluzione e l’opposizione consapevole all’universale. Per Democrito, invece, l’atomo è solo l’espressione oggettiva generale dell’indagine empirica della natura nel suo insieme.» (K. Marx, cit.).
PIANETA TERRA: "LA SCIENZA NATURALE DELL’AUTOCOSCIENZA", DANTE ALIGHIERI, E LA "VECCHIA TALPA" DI SHAKESPEARE ("Amleto", I.5). La mancata chiarezza (claritas) su questa acquisizione e comprensione storiografica e teoretica del giovane Marx ha comportato (e comporta ancora) la "progressiva" incomprensione della lezione di Dante come di Kant (sulla critica della fisica e della metafisica del socratismo, platonismo, paolinismo, ecc.) e la radicale cancellazione della parola "critica" dall’intero discorso dell’economia politica marxiana, fino a fraintendere la stessa dichiarazione "dantesca" (Par. XXXIII, 145) di "Amleto" (II.2) : "Dubita che le stelle siano fuoco, /dubita che si muova il sole, /dubita che la verità sia menzognera, /ma non dubitare mai del mio amore [But never doubt I love]"; e, con il pavimento lastricato di "buone" intenzioni, arrivare a perdere insieme al "paradiso celeste" ("William Blake osserva che coloro che sostengono il bene in generale sono mascalzoni") anche il "paradiso terrestre", e vietare al desiderio stesso della "clinica della singolarità" ogni via di uscita.
Nota:
MEMORIA, ANTROPOLOGIA, E "RAPPORTI SOCIALI DI PRODUZIONE" (27 GENNAIO 2024):
STORIA E FILOLOGIA: IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (NON UN LOGO).
RIMEDITARE INSIEME ALLA LEZIONE DI NIETZSCHE ("Sull’utilità e il danno della storia per la vita"), ANCHE QUELLA DI ESCHILO («i morti uccidono i vivi») E DI MARX ("Il morto fa presa sul vivo!").
Se non ora, quando!?
ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN...
#Earthrise #Kant2024
27 GENNAIO 2024: USCIRE A "RIVEDERE LE STELLE" (DANTE ALIGHIERI, Inf. XXXIV, 139).
A CHE GIOCO GIOCHIAMO, OGGI? IL #PIANETATERRA, L’#ANTROPOLOGIA, L’#ECOLOGIA, E "L’#ECOSOCIALISMO DI #MARX".
Un’intervista a Kohel Saito di Marianna Usuelli, con alcune note a margine. *
ALTRE ECONOMIE / INTERVISTA
Kohei Saito, il filosofo che ha ribaltato l’interpretazione della dottrina di Karl Marx
di Marianna Usuelli (Altreconomie - 8 Gennaio 2024)
Marx è sempre stato considerato lontano dall’ecologia. A torto. Lo dimostra il lavoro di ricerca del filosofo giapponese che ha riesumato gli inediti “Quaderni di scienze naturali” che custodiscono la versione più matura e recente del pensiero dell’economista di Treviri. La sostenibilità è al centro della sua critica al capitalismo
Con centinaia di migliaia di copie vendute in tutto il mondo in numerose lingue, Kohei Saito è il filosofo giapponese che sta ribaltando l’interpretazione convenzionale della dottrina di Karl Marx. Da sempre concepito come pensatore produttivista, utopista tecnologico con un’inflessibile fiducia nel progresso, che promuove il dominio dell’umanità sulla natura, Marx è sempre stato considerato lontano dall’ecologia. Saito, uno dei maggiori conoscitori a livello globale del padre del comunismo, ha riesumato dei manoscritti che Marx non riuscì a riordinare prima di morire. I “Quaderni di scienze naturali” nascondono per Saito la versione più matura e recente del pensiero di Marx e permettono di ricostruire tutta un’altra filosofia, che addirittura pone la sostenibilità al centro della sua critica al capitalismo.
L’ecosocialismo di Karl Marx (Castelvecchi Editore, 2023) è il libro partorito dall’analisi di questi scritti inediti, che affrontando le prospettive dell’agricoltura, della botanica, della chimica e della geologia, contengono fondamentali riflessioni sulla crisi ecologica causata dalle attività umane. Apparso per la prima volta nel 2017, “L’ecosocialismo di Karl Marx” ha reso Saito il più giovane vincitore del Deutscher Memorial Prize, ma è stato pubblicato in italiano solo alla fine del 2023.
KS - Penso che oggi sia difficile negare che il capitalismo sta creando l’attuale crisi ecologica globale. Il problema è che non ci sono molte teorie per criticare sistematicamente l’economia di mercato. La principale è ovviamente quella legata al pensiero di Karl Marx che però è sempre stato accusato di essere anti-ecologico, paladino della modernizzazione e dell’industrializzazione. Dai “Quaderni di scienze naturali” emerge tuttavia la sua profonda attenzione verso fenomeni quali la deforestazione, la desertificazione, l’esaurimento del suolo e addirittura l’estinzione delle specie, che prima d’ora si ignorava completamente. Marx era giunto alla conclusione che il capitalismo non comporta solo lo sfruttamento degli umani ma anche della natura e che sta distorcendo la nostra interazione metabolica con essa. Verso la fine della sua vita Marx rivendicò quindi una società postcapitalistica sostenibile, quello che io chiamo “eco-socialismo”.
KS - Pubblicati solo nel 2020 (Saito è uno degli editori, ndr), i Quaderni di scienze naturali sono stati ignorati per ben 150 anni dalla pubblicazione del primo volume de “Il Capitale”. Una delle ragioni è che nel corso del Novecento i movimenti sociali si sono dedicati prevalentemente alle condizioni di vita dei lavoratori e alla lotta alla povertà, trascurando l’ecologia. Abbiamo creduto che con la tecnologia e lo sviluppo potessimo risolvere il problema della fame. La questione ecologica è stata marginalizzata e lo è tuttora, anche da parte dei movimenti operai. Io penso invece che oggi verdi e rossi dovrebbero imparare gli uni dagli altri e che l’ecosocialismo sia uno dei modi grazie a cui possiamo lottare meglio per ottenere una società più giusta e sostenibile.
KS - Dopo il collasso dell’Unione sovietica molti hanno pensato che il marxismo avesse fallito e non ci fosse alcuna alternativa al sistema capitalistico. A quel punto si è pensato che tutti i problemi -la sostenibilità, l’uguaglianza, la parità di genere- avrebbero dovuto essere risolti all’interno dell’economia di mercato. La nostra immaginazione si è costretta sempre più negli esistenti sistemi economici, istituzioni politiche e norme culturali. Quando ero uno studente sono stato molto ispirato dal filosofo Antonio Negri, scomparso di recente. Lui è stato uno dei pochi a rivendicare apertamente la necessità di immaginare una società oltre il capitalismo, alternativa che chiamava “comunismo”. Molti oggi pensano che il comunismo sia un’utopia, ma è altrettanto utopico pensare che il capitalismo possa risolvere la crisi climatica e portare benessere a tutti. Quindi io credo che abbiamo bisogno di più coraggio e immaginazione per proiettarci oltre il capitalismo ponendo al centro la questione ecologica, e penso che il marxismo ci dia tanti spunti creativi per questo lavoro.
KS - Molti ritengono che il superamento del capitalismo implicherebbe un uso della tecnologia più giusto e una crescita economica più sostenuta e a beneficio di tutti. Ma questa idea non è in linea con il pensiero che Marx ha sviluppato alla fine della sua vita. Infatti era giunto a riconoscere che lo sviluppo della tecnologia nel capitalismo si è verificato a spese di un sempre maggiore sfruttamento degli umani e della natura. Una tecnologia che nasce dallo sfruttamento non è adatta a una società post-capitalistica che aspira all’uguaglianza. Abbiamo bisogno di un diverso tipo di tecnologia e di relazione con la natura. Negli anni Marx è diventato sempre più critico nei confronti del produttivismo e ha sviluppato un’idea di abbondanza slegata dal consumismo e più sostenibile. Penso quindi che dovremmo specificare il concetto di ecosocialismo come “decrescita ecosocialista” o “comunista”, in cui tutti condividiamo la ricchezza di questo Pianeta in un modo uguale e giusto.
KS - Se si rimane nella cornice esistente delle attuali istituzioni politiche, la Cop28 è da leggere come un successo, è andata meglio delle precedenti e ha portato a un risultato storico, così come quando è stato raggiunto l’Accordo di Parigi nel 2015. Se si esce dalla cornice capitalistica, l’intero sistema delle Cop appare come un fallimento: non sta portando la necessaria trasformazione che serve per limitare l’aumento della temperatura a 1,5°C e non sta dando voce alle persone povere e marginalizzate. Da questa prospettiva con la Cop28 abbiamo assistito alla ripetizione delle solite dinamiche politiche e questa è una delle ragioni per cui le persone dovrebbero radicalizzarsi e avremmo bisogno di sperimentare un diverso tipo di movimento sociale e politico.
A CHE GIOCO GIOCHIAMO, OGGI, 18 GENNAIO 2024.
RICORDATO CHE "Il Professor Saito, rovesciando l’interpretazione canonica del “marxismo prometeico”, giunge a sostenere che “non è possibile comprendere tutta la portata della critica dell’economia politica di Marx se si ignora la sua dimensione ecologica”.... CHE FARE?.
BENE, BENISSIMO: UN OTTIMO LAVORO E UN’OTTIMA INDICAZIONE! MA, SICCOME KARL MARX HA GIA’ PENSATO PER PRIMO (CON "PRO_METEO") AL "SOGNO DI UNA COSA" (... E CON FREUD), CHE DIRE?!
L’ECOLOGIA, LA DIMENSIONE ECOLOGICA RIMANDA ALLA CASA, ALLA LEGGE DELLA CASA ("OIKOS" -"NOMIA"), ALLA CRITICA DELL’ ECONOMIA POLITICA DI "MAMMONA" ("DEUS #CARITAS EST"), DOV’E’ LA #CRITICA (KANT) DELLA FAMIGLIA (FUERBACH) E DELLA "SACRA FAMIGLIA" (MARX-ENGELS) E DELLA "SOCIETA’ CIVILE" (ROUSSEAU) E DELLO STATO (HEGEL)?!
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, EDUCAZIONE CIVICA, E PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA: UNA QUESTION HAMLETICA E UNA DOMANDA AI MATEMATICI E ALLE MATEMATICHE.
La crisi della matematica è un problema politico: un’ipoteca sui cittadini del futuro
di RAFFAELE CARIATI (Domani, editoriale, 27 novembre 2023)
In Francia nel 2019 succede questo: «Emergenza matematica repubblicana», dichiara Emmanuel Macron durante il suo primo quinquennio di presidenza in Francia, riconoscendo il problema dell’esclusione dall’insegnamento-apprendimento della matematica. L’esclusione dall’apprendimento della matematica ha un impatto sulla fiducia in sé stessi, induce senso di inadeguatezza, porta i cittadini a delegare sui ragionamenti complessi e a preferire le semplificazioni e le diffidenze ostacolando la formazione di una cittadinanza consapevole.
Il governo francese di Emmanuel Macron pensa di governare centralmente il problema, di migliorare le sorti dell’apprendimento della matematica e di affidarne la soluzione a uno dei nomi più prestigiosi della matematica, Cedric Villani (medaglia Fields 2010, deputato della Repubblica). Il risultato è il “Rapporto Villani” che propone ventuno “misure”, senza però suscitare grandi entusiasmi: tanti buoni propositi, ma una visione elitaria ha iniziato a farsi strada. Infatti, la riforma dei licei à la carte voluta da Jean-Michel Blanquer, ministro dell’Educazione Nazionale, ha come conseguenza la significativa diminuzione della partecipazione all’insegnamento della matematica.
La matematica non fa più parte delle materie insegnate a tutti gli studenti, può essere scelta solo come materia di indirizzo possedendo certi requisiti di ingresso. Il risultato è l’abbandono dello studio della disciplina, gli studenti dal primo all’ultimo anno del liceo perdono il 20% delle ore di insegnamento della matematica. Le intenzioni di Macron si rovesciano nel loro contrario. ll quotidiano Libération denuncia: «È uno scandalo che non scandalizza nessuno». E Le Monde aggiunge: la riforma ha fatto scendere dal 90% al 59% la percentuale di alunni che seguono un insegnamento di matematica durante l’ultimo anno. Ancora più grave: l’abbandono coinvolge in maniera maggioritaria le studentesse.
Questa breve storia triste si conclude con il riconoscimento da parte di Jean-Michel Blanquer di un errore di calcolo e con il tentativo del suo successore, Pap Ndaye, di invertire la tendenza introducendo un’ora e mezza di matematica nel tronco comune.
Qualcosa di simile avviene anche in Italia. Molti hanno dimenticato che una “emergenza matematica” è stata dichiarata anche nel nostro Paese, e che è si è tentato di gestirla con un metodo molto simile alla strategia Villani. Nel 2007 Giuseppe Fioroni, ministro dell’Istruzione, insedia il Comitato nazionale dei Matematici con il compito di definire le iniziative per contrastare quella che definisce, appunto, “emergenza matematica”. L’opinione pubblica è stata investita da semplificazioni e slogan del tipo «matematica bestia nera degli italiani», «italiani asini in matematica», alimentando le forme più feroci di innatismo, impotenza appresa.
La matematica, dunque, è un problema di tutti. Il Comitato, costituito da trenta esperti e presieduto dall’altissimo profilo di Edoardo Vesentini, rettore della Normale di Pisa, già senatore della Repubblica, studia il problema e indica cosa fare. Ma purtroppo il comitato non va avanti, a causa di un’incapacità collettiva. Resta un’occasione persa insieme alla questione: cosa vuol dire politicamente l’emergenza matematica?
Il tema è stato ben argomentato da Martine Quinio-Benamo nell’articolo “Les mathématiques, c’est politique” apparso su Libération nel febbraio 2022: per fare matematica non si tratta solo di calcolare e ragionare, ma anche di distinguere i punti di vista e di comunicare.
Per esempio: «Dall’inizio del quinquennio di governo Macron il potere di acquisto dei più ricchi è aumentato del 4,1% ed è diminuito dello 0,5% quello dei più poveri. Il potere di acquisto è aumentato in media dell’1,6%». La conclusione sull’aumento medio dell’1,6% è stata ripresa con enfasi dai decisori della comunicazione mass-mediatica, ma si riferisce a una media impossibile da verificare in quanto non riflette l’aumento delle disuguaglianze. Pur supponendo che il potere di acquisto sia aumentato in percentuale (il che è falso per i più poveri), un aumento debole di una o due percentuali si traduce in un incremento salariale bassissimo per le classi medie.
Il tema insomma è l’assenza della formazione a un pensiero-atteggiamento matematico.
I giornali spesso non sono in grado di esaminare i dati numerici avanzati dai politici. E le informazioni che contengono dati numerici corretti possono essere smentite da interlocutori mal formati al ragionamento matematico. Il piano del dibattito diventa «Ci mentono tutti!». Ovviamente, non sono i numeri a mentire, ma una loro interpretazione pigra e decontestualizzata. Secondo la professoressa Quinio-Benamo, si fa strada l’ipotesi per cui «l’incompetenza scientifica prevale sulle cattive intenzioni», e se le decisioni sono assunte anche in nome della realtà e dell’interpretazione dei numeri, allora la matematica è politica e il suo insegnamento-apprendimento è una questione politica.
La matematica è quindi politica nella misura in cui si cerca di rispondere alla domanda: cosa può fare la matematica nella nostra comprensione del mondo? Potrebbe essere “fare politica” gestire l’emergenza matematica non focalizzandosi solo sulle abilità matematiche in chiave professionalizzante, ma anche e soprattutto sul processo educativo che stimoli ad assumere un atteggiamento filosofico che supporti la trasformazione delle informazioni in conoscenze e nella capacità emancipatrice di operare scelte.
In Italia la questione è stata ampiamente affrontata da Bruno D’Amore (professore di Didattica della matematica all’Università di Bologna) che definisce l’educazione matematica come «il sistema sociale complesso ed eterogeneo che, in sinergia con l’epistemologia, la sociologia, la psicologia, la semiotica e la pedagogia include la teoria e lo sviluppo e la pratica relativa all’insegnamento-apprendimento della matematica ed include la didattica della matematica come sottosistema».
L’insegnamento-apprendimento della matematica sembra essere in uno stato di crisi cronica, ma il vero problema non è l’insegnare ad insegnare. All’origine di questo fenomeno ci sono molteplici cause, ma il problema ha a che fare con il ruolo che la matematica recita nella società e la sua influenza sul dibattito pedagogico.
Possiamo allora rovesciare la questione: Guy Brousseau nella Théorie des situations didactiques e la teoria del Contrat didactique analizza cosa determini un mancato apprendimento, studia il fallimento elettivo in matematica determinato dalle abitudini specifiche dell’insegnante attese dall’allievo e i comportamenti dell’allievo attesi dal docente. Queste attese sono dovute a una concezione della scuola percepita come direttiva ed essenzialmente valutativa: anche situazioni didattiche proposte come “libere” vengono elaborate e vissute dall’allievo come un test o come un controllo. Queste attese nascono da concezioni sulla matematica (“in matematica bisogna fare solo calcoli”) e soprattutto alla ripetizione di modalità sociali.
Perdiamo “il corpo umano della matematica”! A causa del “si devono fare i calcoli”, si ritiene che le parole non siano importanti, sia sufficiente usare i dati numerici, anche a caso, per fornire risposte formali. Si perde l’obiettivo culturale della matematica, si smarrisce l’agire matematico che si confonde con le richieste degli insegnanti. Soprattutto: l’unica occasione che hanno gli studenti di entrare in contatto con la matematica è la scuola. Ciò alimenta la credenza diffusa secondo la quale i libri di matematica sono le raccolte stereotipate di esercizi presenti nei libri di testo scolastici.
Secondo Bruno D’Amore, «tutto risale all’ignoranza beota di chi distingue le culture creandone una di serie A e una di serie B, facendosi forza talvolta con lo spirito e le parole di Giovanni Gentile secondo cui l’intrusione delle scienze nel mondo scolastico ha arrecato dannosissimi frutti e la matematica, in particolare, è morta, infeconda, arida come un sasso». Come si può contrastare l’accanimento anti-matematico di matrice gentiliana?
Nel testo Faire l’école, faire la classe, il pedagogista Philippe Meirieu delinea lucidamente un principio su cui istituire la scuola che curi l’educazione matematica: «Per poter costruire uno spazio pubblico orientato alla trasmissione delle conoscenze, la scuola deve sospendere violenza e seduzione, collocando al centro della propria organizzazione le esigenze di esattezza, precisione e verità».
ANTROPOLOGIA, PSICOANALISI ("INTERPRETAZIONE DEI SOGNI"), E LETTERATURA ("IL CASTELLO DEI DESTINI INCROCIATI").
DUE NOTE A MARGINE DELLA TRADIZIONE ICONOGRAFICA DEL BASTONE FIORITO DI SAN GIUSEPPE E DEL TEMA DELL’ANNUNCIAZIONE NELLA STORIA DELL’ARTE:
A. - LA STORIA DI UN’ANTICA MEMORIA CARMELITANA PROVENIENTE DAL SUSSEX...
"Bastone fiorito di San Giuseppe venerato a Napoli": [....] Sulla collina di San Potito a Napoli la Congregazione di San Giuseppe dei Nudi detiene una collezione di reliquie unica in Italia. Tra queste, la più importante si trova in un una bella teca di legno cedrino: il bastone fiorito appartenuto a san Giuseppe. Secondo la tradizione Giuseppe, come altri pretendenti (ciascuno munito di una verga), aveva chiesto a Dio un segno su chi dovesse sposare la Vergine Maria, e proprio il bastone di Giuseppe germogliò e fiorì miracolosamente. Venerato da quasi tre secoli, il bastone-reliquia è stato rubato in un convento di padri carmelitani del Sussex, in Inghilterra, dove si trovava esposto fin dal XIII secolo. Alla fine la reliquia si è fermata a Napoli nel 1712 come dono al cantante d’opera Giuseppe Grimaldi, detto Nicolino. Quest’ultimo acconciò a casa propria l’esposizione del bastone per la pubblica venerazione a partire dal 1714. Il 17 gennaio 1795, la reliquia fu definitivamente trasferita nella chiesa di San Giuseppe dei Nudi. (cfr. Marzena Wilkanowicz-Devoud, "Dove si trovano le reliquie di san Giuseppe?", Aleteia, 09.06.2021).
B - VITA E POESIA: LA NASCITA DI UN ESSERE UMANO. Un bastone fiorito in generale sembra plausibile, e particolarmente adatta al contesto di un’ Annunciazione? Certamente! A mio parere, tutto il tradizionale storico contesto iconografico sul tema dell’Annunciazione appare chiaramente collegato alla figura di Giuseppe e alla cosiddetta "radice Iesse" (Is., 11:1), all’albero di Jesse, alla "Casa di Davide" ("De Domo David") della tradizione ebraica e, al contempo, al senso stesso del messaggio evangelico ("eu-angelico"), al problema di tutti i problemi, al come nascono gli esseri umani, al "come nascono i bambini: vale a dire, alla lezione di Francesco di Assisi (1223), al presepe e alle sue figure fondamentali, memoria di Adamo ed Eva - e Caino, di Giuseppe e Maria - e Gesù.
L’UMANITÀ (ANTROPOLOGIA), IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE" (ECONOMIA POLITICA) E IL PERSISTERE DI UN "PREISTORICO" SIMPOSIO ALL’OMBRA DELLA "EU+CARESTIA"!!!
MINIMALISMO ED ESSENZIALISMO: "SÀPERE AUDE" (DECIDERSI A DIVENTARE SAGGIO, AD AS-SAGGIARE, A USCIRE DALLO "STATO DI MINORITÀ" (ORAZIO E KANT). A ben riflettere sulla "essenza del cristianesimo" di Ludwig Feuerbach, e, al contempo, sul problema della "eucharistia", del cibarsi della grazia ("charis") di Dio ("charitas"), forse, si può meglio cominciare a capire la profondità teologico-politica ed economica della sua "banalizzatissima" considerazione che «L’uomo è ciò che mangia»!
IN UN TESTO BRILLANTISSIMO, all’interno di un "presente storico" di secoli, segnato da una grande carestia filologica e logica, così è scritto: "La vita spirituale - di chi «nasce un seconda volta» aderendo a Cristo - poggia sulla preghiera continua e sull’#eucarestia [...]" (cfr. Flavio Piero Cuniberto, "SUL CRISTIANESIMO COME MITO E COME MISTERO). E, proseguendo; si arriva a fare propria la tesi di #RenéGirard: "L’idea che la morte di Cristo sulla croce sia il prezzo del riscatto («redenzione» da «red-imere», «riscattare») non è che una versione cristianizzata della pratica ancestrale del #bouc #émissaire, il #caproespiatorio di Girard. Una versione mitologica del mistero cristiano." (op. cit.).
IL CANTO DEL CAPRO E LA FENOMENOLOGIA DELLA TRAGEDIA: "ECCE HOMO" (PILATO). Accecati dall’astuzia della ragione platonico-hegeliana, invece di fare chiarezza sul "capro espiatorio", si rinnova la confusione e la condanna a morte proprio dell’agnello (dell’#ariete, del montone) che ha portato Ulisse (e Dante) in salvo, fuori dalla caverna e dall’inferno!
Dopo Nietzsche ("Ecce Homo", 1888), che ha denunciato l’imbroglio storico-antropologico del #paolinismo, a partire dalla morte di Dio, e di Gesù ("Ecce Homo"), chi ha mai più visto sulla Terra un cristiano, una cristiana?
Nonostante Gioacchino da Fiore, Francesco d’Assisi, Chiara di Assisi, Dante Alighieri, e, addirittura, il lavoro iperstorico ("preistorico" e archeologico) sulle radici "Cosmicomiche" della Terra (Italo Calvino), Diogene di Sinope, definito dalla tradizione "Socrate pazzo", continua ad andare con la sua lanterna accesa, alla luce del sole, per i mercati, a cercare l’uomo ("anthropos") e a sognare il #sorgeredellaterra...
#PSICOANALISI E #RINASCITA:
IL PROGRAMMA DI #FREUD DI RIPENSARE L’#EDIPO #COMPLETO (E CAPIRE "COME SI DIVENTA CIO’ CHE SI È") E LA DIFFICOLTÀ PRINCIPALE AFFRONTATA NEL SUO "#MOSAICO" PERCORSO.
Una ipotesi di ricerca...
#BIOGRAFIA E #STORIOGRAFIA: "SAPERE AUDE!" (KANT, 1784). RICORDANDO CHE FREUD ha iniziato la sua discesa nel regno di #Ade, agli #inferi (nel mondo dei "sogni"), con #Virgilio (e con la guida dell’#Eneide) e, in particolare, in sintonia (non con lo spirito di #Afrodite / #Venere ed #Eros / #Cupìdo ma) con lo spirito di #Era / #Giunone - con l’aiuto della "Madre", di cui richiama le parole, polemiche contro lo stesso #Zeus / #Giove - contro lo spirito del "Padre": "Flectere si nequeo Superos", #Acherontamovebo"), forse, è bene richiamare l’attenzione su uno dei primi fondamentali passi "edipici" del giovane "Freud-#Mosè" sulla strada della conoscenza e dell’uscita dallo "#stato di #minorità" (Kant, 1784):
"La notte prima del funerale di mio padre sognai una tabella a stampa, un manifesto o un affisso - pressappoco come i cartelli:
"Vietato fumare" nelle sale d’aspetto delle ferrovie - su cui si leggeva:
Si prega di chiudere gli occhi
oppure
Si prega di chiudere un occhio,
alternativa che sono abituato a raffigurare nella forma seguente:
gli
Si prega di chiudere occhi(o).
un
Ciascuna delle due versioni ha un suo significato particolare e nell’interpretazione del sogno conduce a vie particolari. Avevo scelto il cerimoniale più semplice, perché sapevo che cosa pensasse il morto di tali manifestazioni; ma altri membri della famiglia non erano d’accordo; ritenevano che saremmo stati costretti a vergognarci di fronte agli intervenuti alla cerimonia. Perciò una versione del sogno chiede di "chiudere un occhio" vale a dire di usare indulgenza. " (S. Freud, "L’Interpretazione dei sogni", cap. 6, pf. C).
ONORARE IL PADRE E LA MADRE. Sul "Si prega di chiudere gli occhi", nella lettera a Fliess del 2 novembre 1896, Freud scrive che la formulazione della frase è "a doppio senso e significa in ambedue i casi: bisogna adempiere al proprio dovere verso i morti", in particolare, il dovere filiale di chiudere gli occhi al defunto. Nella "Interpretazione dei sogni", Freud "tace": guardare negli occhi il proprio padre #Jacob (morto) e, addirittura, chiuderglieli, per l’ "Edipo re", evidentemente, è una missione "impossibile".
USCIRE DALL’#INFERNO E #APRIREGLIOCCHI. L’ anno «prima di morire, il 12 maggio 1938, mentre fuggiva da Vienna a Londra per evitare i nazisti, scrisse al figlio Ernst: "Talvolta mi paragono a Giacobbe [così si chiamava il padre] che i suoi figli, quando era già vecchio, portarono in Egitto» (J. J. Spector, "L’estetica di Freud", Mursia, Milano 1972).
A #LONDRA, #SigmundFreud muore il 23 settembre 1939: "L’uomo Mosè e la religione monoteistica" era stato pubblicato ad #Amsterdam l’anno prima, nell’autunno del 1938 (con la data: 1939).
LA POTENZA POETICA DEGLI AILANTI ILLUMINA L’ORIZZONTE DELLA “PREISTORIA” (MARX) E SOLLECITA A SVEGLIARSI DAL “SONNO DOGMATICO”: ANTROPOLOGIA, ECOLOGIA, E “STORIA UNIVERSALE DELLA NATURA E TEORIA DEL CIELO” (KANT)!
RIPRENDENDO IL FILO DALL’INIZIO:
“Dipendenza vitale. Riflettendo sulla natura del lavoro sociale, Karl Marx aveva messo in luce la dimensione ecologica delle comunità umane, mostrando come il lavoro sia la forma specifica attraverso cui si realizza il ricambio organico (Stoffwechsel), il metabolismo tra società e ambiente naturale[1]. In questa prospettiva la dimensione ecologica non è un elemento ulteriore, che si aggiunga ai concetti classici dell’economia e della politica. L’ecologia non investe meri fenomeni locali o marginali, ma aspetti centrali, costitutivi per la produzione e la riproduzione delle nostre società. Non si tratta quindi solo di una questione attuale, legata alla crisi ecologica in corso, e ai rischi catastrofici connessi - esaurimento delle risorse, inabitabilità del pianeta, inaridimento, innalzamento del livello degli oceani, spillover. La consapevolezza legata agli aspetti di questa crisi porta infatti in luce un implicito, che riguarda anche le civiltà del passato, e che ci tocca oggi in un senso più ampio di quello della mutazione in corso. [...]” *( “Le parole e le cose”, 5 ottobre 2023: https://www.leparoleelecose.it/?p=47776.),
PROPORREI PER MEGLIO “ORIENTARSI NEL PENSIERO” (KANT) E NON PERDERSI NELLA “FORESTA” COSMICA (QUESTIONE COSMOLOGICA), DI SERVIRSI DELLA “MAPPA CONCETTUALE”, PRESENTE NELL’ “ILIADE” DI OMERO, DALLA DESCRIZIONE DELLO “SCUDO DI ACHILLE” (XVIII, VV. 664-843), UNA “LAVAGNA” DIDATTICA SU CUI IN UNA SINCRONICA SINTESI VISIVA SONO RAPPRESENTATI LE VARIE ARTICOLAZIONI DEL PROBLEMA “ECOLOGICO” , E, AL CONTEMPO, RIAPRIREI LA DISCUSSIONE SULLA QUESTIONE ANTROPOLOGICA, A PARTIRE PROPRIO DAL MARXIANO CONCETTO DEL “LAVORO IN GENERALE”, E, IN PARTICOLAR MODO, DAL CONNESSO CONCETTO DI “RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE IN GENERALE”.
Sul tema, mi sia lecito, si cfr.:
“CHI” SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE, in: Federico La Sala, “L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria, in forma di lettera aperta - a Primo Moroni, a Karol Wojtyla, e p. c., a Nelson Mandela, Edizioni Ripostes, Roma-Salerno 2001 (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4198).
IL SOGGETTO, LA MASCHERA, E LA SOCIETÀ TRASPARENTE.
Alcune note su "che cosa ha veramente detto GIANNI VATTIMO". *
AUTOIRONIA, "Auto-chiarificazione (filosofia critica)", e Charitas: queste poche parole, forse, possono essere dei segnavia per non perdersi l’essenziale (e, in qualche modo, per distinguere prima e unire poi, quanto ritenuto accoglibile) nel mare della ricchissima produzione culturale e professionale di Vattimo.
UNA NUOVA "FILOSOFIA DELL’AVVENIRE". "«L’uomo è ciò che mangia, ma soprattutto quel che beve». Così Gianni Vattimo, scomparso il 19 settembre scorso, trasformò il celebre motto di Ludwig #Feuerbach, bevendo un calice di rosso della Sila. Di origini calabresi e fama mondiale, il filosofo torinese era autoironico, alleggeriva i discorsi, amava scherzare e porsi con umiltà." (cfr. Emiliano Antonino Morrone, "La ricerca (infinita) della verità e il pensiero “forte” di Vattimo per la sua San Giovanni in Fiore", Corriere della Calabria, 22.09.2023).
Rimettendo storicamente e antropologicamente accanto all’ironia (della dialettica platonico-socratica), anche l’autoironia di Gianni Vattimo, forse, a omaggio delle sue "AVVENTURE DELLA DIFFERENZA" (1980)", in un mondo dove la lanterna è in mano ai #ciechi, è più che opportuno richiamare alla memoria la figura di Diogene di Sinope.
RIPARTIRE DALLA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA DELL’ATTUALE PRESENTE STORICO. Se nel "processo dell’avvento del valore di scambio come metro di misura totalizzante si nasconde il trionfo dell’homo oeconomicus e della tendenza all’illimitazione del capitalismo", e, ancora, come ricorda Francesco Fistetti, "il recupero del valore d’uso e di un progetto di demercificazione dei mondi vitali va reimpostato a quest’altezza ", come è possibile svegliarsi dal "sonno dogmatico" (Kant)?
QUESTIONE ANTROPOLOGICA. Come mi sembra di capire, non è proprio il caso di re-interrogarsi sul tema del "soggetto e della maschera" (Vattimo, 1974) e riprendere la indicazione kantiana del 1784 (riafferrata per i capelli, da Michel Foucault nel 1984), della questione antropologica e ripartire dal "#sàpereaude!", "dal coraggio di servirsi della propria intelligenza"? All’ordine del giorno, oggi, per ri-"orientarsi nel pensiero" (Kant) e per una seconda rivoluzione copernicana (Th. W. Adorno), è augurabile che venga ripresa la lettura dello "Spaccio della bestia trionfante" di Giordano Bruno e del "Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano" del Galileo Galilei, senza queste opere l’uscita dal letargo claustrofilico e terrapiattistico è impensabile.
IL MATERIALISMO DIALETTICO. Superato Kant dialettica-mente (con la hegeliana astuzia della ragione "mascherata" - già di Platone e Cartesio, sia atea sia devota, sia idealistica sia materialistica), si è perso anche il senso e il sottotitolo stesso del lavoro di Marx sul "Capitale" e, con esso, ogni possibilità di portare avanti la stessa "critica dell’economia politica": si tenga presente che per John Dewey, la rivoluzione di Kant è "un ritorno a un sistema di tipo ultra-tolemaico").
LA "COSCIENZA MISTICA", IL "SOGNO DI UNA COSA", E "IL PROBLEMA DELLA LIBERAZIONE". Paradossalmente, e probabilmente, se avessimo letto di più e meglio sia Giambattista Vico sia Kant a questa ora, in occasione della riflessione sul percorso filosofico di Gianni Vattimo, forse, potremmo capire di più la sua reale vicinanza e consonanza con la "Critica dell’idealismo" della "Critica della Ragion Pura" (1787) e il programma giovanile di Marx, il sogno di una cosa (1843) : "Sarà chiaro come non si tratti di tirare una linea retta tra passato e futuro, ma di realizzare le idee del passato. Si vedrà infine come l’umanità non incominci un lavoro nuovo, ma venga consapevolmente a capo del suo antico lavoro."("Annali franco-tedeschi"). Uno dei più importanti contributi in tale direzione di Gianni Vattimo, a mio parere, è proprio il saggio del 1974: "Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione" (Bompiani, 1974). Negli stessi anni, nelle infinite analisi sul rapporto tra il marxismo ed Hegel, correva il ripescaggio del "sapiente" Bovillus e della sua "rinascimentale" antropologia piramidale.
*
FILOSOFIA, FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, POLITICA, E RELIGIONE E STORIA E LETTERATURA.
LA DIAGNOSI HAMLETICA DI SHAKESPEARE E LA DIALETTICA "NAPOLEONICA" DELLO SPIRITO DI HEGEL:
Nonostante Hegel sapesse che "The time is out of joint" (Shakespeare, "Hamlet", I.2), la visione COSMOTEANDRICA di Napoleone a cavallo a Jena (1806) in parte lo accecò e non poté più portarsi fuori dalla DIALETTICA della "strada di Damasco" (e "protestante" e "cattolica"). Con Amleto (e Marx), tuttavia non si può non ripetere: "Ben detto, vecchia talpa!" (I.5).
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, TECNOCRAZIA, E COSMOTEANDRIA: IL"NOVUM ORGANUM" (BACONE). L’ AVANZATA DEL GIGANTE, ormai, con i suoi stivali dalle sette leghe, è diventata inarrestabile: è un "golem-antico" progresso sulla strada aperta dal demiurgico sogno tragico dell’Accademia platonico-socratica, paolina, baconiana-hobbesiana, e schmittiana. "Il parto maschio del tempo ovvero la grande instaurazione del dominio dell’uomo sull’universo" è ormai a "buon" punto.
PSICOANALISI, ANTROPOLOGIA, E COSMOLOGIA:
"IL MOVIMENTO DI UN’ANALISI" (NELLA "STANZA" DI FREUD) E IL "DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI DEL MONDO" (NELLA "NAVE" DI GALILEO GALILEI).
Una nota sul tema, in memoria di Sigmund Freud (1939), Elvio Fachinelli (1989) e di Jean-Bertrand Pontalis (2013).
FACHINELLI E FREUD NELLA “NAVE” DI GALILEI (*). Nella "#culla" di Freud, a ben considerare, c’è la #memoria della #rivoluzionescientifica, e, al contempo, ci sono le #tracce per una ripresa della #rivoluzionecopernicana kantiana e una #svolta_antropologica epocale: la sollecitazione pontalisiana a "trasmettere il movimento di un’analisi" è un grande invito a rileggere il "#Dialogo sopra i #due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano" (#GalileoGalilei, 1632) e riprendere il lavoro nella "stanza" della "grande nave":
PSICOLOGIA, FILOSOFIA, E CRITICA DELLA RAGIONE "PURA":
USCIRE DALLO "STATO DI MINORITÀ"(I. KANT, 1784 - M. FOUCAULT, 1984).
SUL "MOVIMENTO DELL’ANALISI" (J.-B. PONTALIS) E SULLA "MATURITÀ" DELL’ ANALISTA,
QUESTA LA RISPOSTA DI FREUD (1° maggio 1932) A S. H. FOULKES:
#PIANETATERRA: #ANTROPOLOGIA, #FILOLOGIA, E #CRITICA (DELLA #TEOLOGIA ECONOMICA POLITICA PLATONICO E PAOLINA).
RI-PARTIRE DA SE’ - DAL PROPRIO #OMBELICO, PER-RI .#TROVARE L’OMBELICO DEL #MONDO E RI-#PARTECIPARE ALLA #VITA DI UNA #SOCIETA’ #APERTA (NON #CHIUSA).
"HIC RHODUS, HIC SALTUS" ("#Filosofia del #Diritto")! Con #Hegel, #oltre, oltre il #giogo "dialettico" (antinomico) del #Mentitore, "#ora e #qui" ( #now-#here), #31agosto 2023. In memoria di #EnzoPaci e del suo "#Nicodemo o della #nascita" (1944) ...*
SOCIOLOGIA, PSICOANALISI, E CRITICA DELLO "STATO NASCENTE" E DELLO "STATO PUTRESCENTE":
"MOVIMENTO E ISTITUZIONE" (1977) E "INNAMORAMENTO E AMORE" (1979) .... E "LA FRECCIA FERMA. TRE TENTATIVI DI ANNULLARE IL TEMPO" (1979).
Due appunti sulle ricerche di Elvio Fachinelli e di Francesco Alberoni:
A) - "Alberoni, ’Innamoramento e amore’ bestseller internazionale (Adnkronos):
"Era il 1979 quando dall’editore Garzanti usciva il saggio che lo rese il sociologo più famoso d’Italia [...] Dopo un lungo periodo di #ideologie che avevano negato ogni valore alla coppia, all’#innamoramento e ridicolizzato l’esclusività e la gelosia, "Innamoramento e amore" fu come un lampo che fece improvvisamente vedere una realtà nascosta. Ed ebbe un immediato successo con traduzioni in 25 lingue. Criticando le correnti filosofiche e psicologiche dominanti che riducevano l’innamoramento a una #rimozione sessuale o a una #regressione infantile, il libro lo colloca nel #campo dei processi collettivi in cui #due individui si ribellano ai loro legami precedenti e danno origine, attraverso l’entusiasmo dello stato nascente, a una nuova comunità: la coppia innamorata, proiettata sul futuro." (AdnKronos).
B) - STATO "PUTRESCENTE": SOCIETA’ ARCAICA, NEVROSI OSSESSIVA, E FASCISMO. Sul tema, e sul percorso "sociologico" di Francesco Alberoni, forse, è opportuno richiamare anche il contesto storico e riconsiderare il lavoro critico della rivista "L’erba voglio" e il "soprendente" saggio del 1979 dello psicoanalista Elvio Fachinelli, dal filosofico titolo "LA FRECCIA FERMA. Tre tentativi di annullare il tempo" (cfr. la mia recensione su BELFAGOR, 3, 1980, pp. 363-365).
Individuo e società... questione antropologica e paradosso del mentitore:
Sociologia, filosofia, psicoanalisi e critica della ragione "pura", troppo "pura"!
Una nota in ricordo e in omaggio al lavoro del sociologo Francesco Alberoni... *
Nonostante Alberoni abbia scritto un lavoro molto interessante e creativo, a partire dal suo celebre "Movimento e istituzione" (1977), intitolato "Genesi" (1989), l’ambiguità del suo orizzonte sociologico è rimasto per così dire intrappolato nella logica dell’individualismo (e non solo metodologico), ha chiuso un occhio (ricordare anche Freud) e non ha saputo sciogliere il nodo della nascita dell’ in_divi_duo, (dal e) del "due in uno" (da non dividere).
Il problema antropologico epocale è ancora quello evangelico giovanneo (e cristologico) di Nicodemo (Enzo Paci, 1944): "come si ri-nasce", "come nascono i bambini".
Buon ferragosto (15 agosto 2023).
Individuo e società... questione antropologica e paradosso del mentitore:
Sociologia, filosofia, psicoanalisi e critica della ragione "pura", troppo "pura"!
Una nota in ricordo e in omaggio al lavoro del sociologo Francesco Alberoni... *
Nonostante Alberoni abbia scritto un lavoro molto interessante e creativo, a partire dal suo celebre "Movimento e istituzione" (1977), intitolato "Genesi" (1989), l’ambiguità del suo orizzonte sociologico è rimasto per così dire intrappolato nella logica dell’individualismo (e non solo metodologico), ha chiuso un occhio (ricordare anche Freud) e non ha saputo sciogliere il nodo della nascita dell’ in_divi_duo, (dal e) del "due in uno" (da non dividere).
Il problema antropologico epocale è ancora quello evangelico giovanneo (e cristologico) di Nicodemo (Enzo Paci, 1944): "come si ri-nasce", "come nascono i bambini". Buon ferragosto (15 agosto 2023).
* IL LUTTO
Addio a Francesco Alberoni, storico rettore dell’Università di Trento *
Indagò Innamoramento e amore. Sociologo e accademico di fama internazionale, aveva 93 anni
ROMA. Grande cordoglio nel mondo della cultura per la scomparsa di Francesco Alberoni, morto ieri sera all’età di 93 anni a Milano. Rettore dell’Università di Trento tra il 1968 e il 1970, nella sua lunga carriera di sociologo, accademico, scrittore, ha indagato i movimenti collettivi e le comunicazioni di massa, i fenomeni migratori e la partecipazione politica. Ma è stato Innamoramento e amore, il saggio uscito per la prima volta nel 1979, tradotto subito in 25 lingue, in cui analizzava e raccontava l’innamoramento come il processo in cui due individui si ribellano ai loro legami precedenti e danno origine, attraverso l’entusiasmo dello ’stato nascente’, a una nuova comunità, a farne una star internazionale.
Francesco Alberoni si è spento al Policlinico dove era ricoverato da alcuni giorni per una complicazione sopraggiunta durante una terapia alla quale era sottoposto per problemi renali. La data dei funerali non è stata ancora stabilita.
Nato a Piacenza il 31 dicembre 1929, dopo la laurea in Medicina, a Pavia, allarga poi i suoi interessi alla psichiatria e alla psicologia, seguendo le orme di Franco Fornari e poi di padre Agostino Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica, poi ancora ai fenomeni sociali e di costume. Dal 1964 è docente di Sociologia alla Cattolica, ma la sua intensa attività universitaria lo vedrà poi rettore dell’Università di Trento tra il 1968 e il 1970, docente all’Università di Catania e alla Statale di Milano.
Nel 1997 è tra i fondatori dello Iulm di Milano e primo rettore fino al 2001. Ma è anche anche consigliere d’amministrazione della Rai tra il 2002 e il 2005 e presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, dal 2002 al 2012.
I suoi studi si soffermano in particolare sulla formazione e sulla dinamica dei movimenti collettivi (Movimento e istituzione, 1977), ma Alberoni si occupa anche di comunicazioni di massa (L’élite senza potere: ricerca sociologica sul divismo, 1963), di consumismo (Consumi e società (1964), di fenomeni migratorî (Integrazione dell’immigrato nella società industriale, 1967), di partecipazione politica in Italia (L’attivista di partito, 1967).
Dopo il boom di Innamoramento e amore, bestseller da un milione di copie, verranno L’erotismo (1986), Sesso e amore (2005), Lezioni d’amore (2008), il romanzo I dialoghi degli amanti (2009), e ancora acconti d’amore. Curiosi e un po’ irridenti (2010) e L’arte di amare. Il grande amore erotico che dura (2012) fino al più recente L’amore e gli amori (2017).
Tra le sue opere da ricordare anche Genesi (1989), Valori (1993); L’ottimismo (1994); L’arte del comando (2002); Leader e masse (2007). Parallelamente svolge un’intensa attività di editorialista per il Corriere della Sera che dal 1982 al 2011 ospita, ogni lunedì in prima pagina una sua rubrica intitolata Pubblico e privato che diventerà poi un libro per Rizzoli. Nel 2015 pubblica il volume antologico Il tradimento. Come l’America ha tradito l’Europa e altri saggi, mentre è del 2016 il saggio L’arte di avere coraggio. Condivide i suoi ultimi studi e pubblicazioni con Cristina Cattaneo Beretta, scrittrice, psicoterapeuta e giornalista.
*FONTE: ALTO ADIGE, 14 AGOSTO 2023 (RIPRESA PARZIALE).
PIANETA TERRA: ANTROPOLOGIA FILOSOFICA E "APOCALISSE". "SAPERE AUDE!" (KANT): UNA "RIVELATIVA" QUESTIONE DI "CRITICA DELL’ ECONOMIA POLITICA" *
L’eredità del nostro tempo
di Giorgio Agamben (Quodlibet, 31 luglio 2023)
La meditazione sulla storia e la tradizione che Hannah Arendt pubblica nel 1954 porta il titolo, certo non casuale, Tra passato e futuro. Si trattava, per la filosofa ebreo-tedesca da un quindicennio rifugiata a New York, di interrogarsi sul vuoto tra passato e futuro che si era prodotto nella cultura dell’Occidente, cioè sulla rottura ormai irrevocabile della continuità di ogni tradizione. È per questo che la prefazione al libro si apre con l’aforisma di René Char Notre héritage n’est précédé d’aucun testament. In questione era, cioè, il problema storico cruciale della ricezione di un’eredità che non è più in alcun modo possibile trasmettere.
Circa venti anni prima, Ernst Bloch in esilio a Zurigo aveva pubblicato col titolo L’eredità del nostro tempo una riflessione sull’eredità che egli cercava di recuperare frugando nei sotterranei e nei depositi nella cultura borghese ormai in disfacimento («l’epoca è in putrefazione e al tempo stesso ha le doglie» è l’insegna che apre la prefazione al libro). È possibile che il problema di un’eredità inaccessibile o praticabile solo per vie scabrose e spiragli seminascosti che i due autori, ciascuno a suo modo, sollevano non sia per nulla obsoleto e ci riguardi, anzi, da vicino - così intimamente che a volte sembriamo dimenticarcene. Anche noi facciamo esperienza di un vuoto e di una rottura fra passato e futuro, anche noi in una cultura in agonia dobbiamo cercare se non una doglia del parto, almeno qualcosa come una parcella di bene sopravvissuta allo sfacelo.
Un’indagine preliminare su questo concetto squisitamente giuridico - l’eredità - che, come spesso avviene nella nostra cultura, si espande al di là dei suoi limiti disciplinari fino a coinvolgere il destino stesso dell’Occidente, non sarà pertanto inutile. Come gli studi di un grande storico del diritto - Yan Thomas - mostrano con chiarezza, la funzione dell’eredità è quella di assicurare la continuatio dominii, cioè la continuità della proprietà dei beni che passano dal morto al vivo. Tutti i dispositivi che il diritto escogita per sopperire al vuoto che rischia di prodursi alla morte del proprietario non hanno altro scopo che garantire senza interruzioni la successione nella proprietà.
Eredità non è forse allora il termine adatto per pensare il problema che tanto Arendt che Bloch avevano in mente. Dal momento che nella tradizione spirituale di un popolo qualcosa come una proprietà non ha semplicemente senso, in questo ambito un’eredità come continuatio dominii non esiste né può in alcun modo interessarci. Accedere al passato, conversare coi morti è anzi possibile solo spezzando la continuità della proprietà ed è nell’intervallo fra passato e futuro che ogni singolo deve necessariamente situarsi. Non siamo eredi di nulla e da nessuna parte abbiamo eredi ed è solo a questo patto che possiamo riallacciare la conversazione col passato e coi morti. Il bene è, infatti, per definizione adespota e inappropriabile e l’ostinato tentativo di accaparrarsi la proprietà della tradizione definisce il potere che rifiutiamo in ogni ambito, nella politica come nella poesia, nella filosofia come nella religione, nelle scuole come nei templi e nei tribunali.
* Nota:
PIANETA TERRA, 13 AGOSTO 2023.
DOPO MILLENNI DI "RECINZIONI" E DI DIRITTO ALLA "SUCCESSIONE DELLA PROPRIETÀ", L’ APOCALITTICA RIVELAZIONE DI RINO GAETANO: "MIO FRATELLO E’ FIGLIO UNICO" (1976) COMINCIA AD ESSERE ACCOLTA: "FRATELLI TUTTI", E SORELLE TUTTE.
SEMBRA CHE SIA GIUNTA L’ORA DI USCIRE DAL "LETARGO" (DANTE ALIGHIERI), DI SVEGLIARSI DAL "SONNO DOGMATICO" (KANT), E LASCIARSI ALLE SPALLE LA "TERRA" DEL PLATONISMO E DEL PAOLINISMO: SEMBRA CHE SIA GIUNTA L’ORA DI USCIRE DAL "LETARGO" (DANTE ALIGHIERI), DI SVEGLIARSI DAL "SONNO DOGMATICO" (KANT), E DI LASCIARSI ALLE SPALLE LA "RICAPITOLAZIONE" DEL PLATONISMO, DEL PAOLINISMO, E DELL’HEGELISMO:
IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (NON UN LOGO): "IO SONO L’ ALFA E L’OMEGA".
PAOLINISMO, MARXISMO E LENINISMO: STORIA E STORIOGRAFIA.
UNA NOTA A MARGINE DELL’INTRODUZIONE A "IL POLITICO. Da Machiavelli a Cromwell" (Mario Tronti, 1979).
In memoria di Mario Tronti... credo che non sia proprio il caso di lasciar cadere l’importanza dei suoi studi sul tema del "politico" :
MARX- LENIN, CRISTO - SAN PAOLO: A. GRAMSCI, "POSIZIONE DEL PROBLEMA: [...] Marx inizia intellettualmente un’età storica che durerà probabilmente dei secoli, cioè fino alla sparizione della Società politica e all’avvento della Società regolata. Solo allora la sua concezione del mondo sarà superata (concezione della necessità, 〈superata〉 da concezione della libertà). Fare un parallelo tra Marx e Ilici per giungere a una gerarchia è stolto e ozioso: esprimono due fasi: scienza-azione, che 〈sono〉 omogenee ed eterogenee nello stesso tempo. Così, storicamente, sarebbe assurdo un parallelo tra Cristo e S. Paolo: Cristo-Weltanschauung, S. Paolo organizzazione, azione, espansione della Weltanschauung: essi sono ambedue necessarii nella stessa misura e però sono della stessa statura storica. Il Cristianesimo potrebbe chiamarsi, storicamente, cristianesimo-paolinismo e sarebbe l’espressione più esatta (solo la credenza nella divinità di Cristo ha impedito un caso di questo genere, ma questa credenza è anch’essa solo un elemento storico, non teorico)." (A. Gramsci, "Quaderno 7 (VII) § (33)").
PENSARE L’AL DI LA’ DELLA TRADIZIONE TEOLOGICO-POLITICA DI SAN PAOLO. Riaprire l’orizzonte storiografico stretto nei limiti "da Machiavelli a Cromwell" e ripartire, recuperando il filo della lezione di Dante Alighieri ("Monarchia") presente nel lavoro di Mercurino da Gattinara (con Carlo V) e la critica tensione teologico-politica alla base dell elisabettiano "Amleto" di Shakespeare.
ELEUSIS 2023
ANTROPOLOGIA STORIA FILOSOFIA FILOLOGIA E LETTERATURA:
VIRGINIA WOOLF E LA "PUPILLA" ("KORE", "FANCIULLA", "BAMBOLETTA") NELL’OCCHIO E NELLO SGUARDO DI SOCRATE E DI PLATONE. -Alcuni appunti...
A) VIRGINIA WOOLF: "The eyes of others our prisons; their thoughts our cages" ("Short Stories").
B) PLATONE ("Alcibiade primo", 133 e ss.):
"SOCRATE: Rifletti anche tu: se [l’iscrizione delfica] avesse rivolto un consiglio al nostro occhio, come se fosse un uomo, e gli avesse detto: «Guarda te stesso», che supposizione avremmo fatto su ciò a cui ci esortava? Non forse a guardare a quella cosa guardando alla quale l’occhio avrebbe visto se stesso?
ALCIBIADE: è chiaro.
SOCRATE: Riflettiamo: guardando a quale degli oggetti esistenti vediamo quello e contemporaneamente anche noi stessi?
ALCIBIADE: è chiaro, Socrate, che dovremmo guardare a uno specchio o a qualcosa del genere.
SOCRATE: Quel che dici è giusto. Ma nell’occhio col quale guardiamo non c’è qualcosa di questo genere?
ALCIBIADE: Certamente.
SOCRATE: Hai notato dunque che quando guarda nell’occhio il volto si riflette nello sguardo di chi si trova di fronte come in uno specchio, cosa che chiamiamo anche pupilla (72 -> "kore", "còre"), dato che è come un immagine di chi guarda?
ALCIBIADE: Quel che dici è vero.
SOCRATE: Dunque quando un occhio osserva un occhio e guarda in esso ciò che appunto esso ha di più bello, e con cui vede, in tal caso potrebbe vedere se stesso [...]".
C) LA "SORELLA" DI WILLIAM SHAKESPEARE: JUDITH (E LA "INVINCIBILE ARMATA"). Con straordinaria e fulminea eleganza e grande coraggio ("Sàpere aude"), Virginia Woolf prende il nome di Judith ("Una stanza tutta per sé") e taglia definitivamente la testa all’ "Oloferne" della tradizione "mammonica" occidentale e si porta fuori dal tragico e infantile ("stadio dello specchio") dello sguardo socratico-platonico e lacaniano (narcisitico, edipico, golem-antico).
P. S. - QUESTIONE ANTROPOLOGICA E CREATIVITÀ. "Lettere a Virginia Woolf dal XXI secolo". Una raccolta epistolare (a c. di Licia Martella, introduzione di Nadia Fusini) dedicata alla scrittrice:
[LETTERE] Scritte da: Leonetta Bentivoglio, Alessandra Bocchetti, Elisa Bolchi, Maria Grazia Calandrone, Elisa Casseri, Sara De Simone, Viola Di Grado, Donatella Di Pietrantonio, Manuela Fraire, Daniela Gambaro, Cristina Gardumi, Viola Lo Moro, Francesca Mancini, Laura Mazzi, Elena Munafò, Raffaella Musicò, Iolanda Plescia, Galatea Ranzi, Elisabetta Rasy, Maria Serena Sapegno, Carola Susani, Nadia Terranova, Silvia Vegetti Finzi, Sara Ventroni, Maddalena Vianello, Valeria Viganò.
TEATRO, METATEATRO, E CRITICA DELLA TEOLOGIA-POLITICA CATTOLICO-SPAGNOLA:
SHAKESPEARE, CON "AMLETO" (E DANTE), CERCA LA VIA D’USCITA PER PORTARSI OLTRE LUTERO E OLTRE ERASMO E TOMMASO MORO.
SOVRANITA’ E OBBEDIENZA. iN "The Book of Sir Thomas More", Shakespeare prende le distanze dalle posizioni teologiche di Tommaso Moro (ed Erasmo) e chiarisce le ragioni antropologiche, politiche e teologiche della Riforma anglicana.
Sir Thomas Moore
da Maria Borio (Nuovi Argomenti, 18 Dic. 2017) *
The Booke of Sir Thomas Moore è un’opera a più mani pervenutaci in manoscritto in una stesura non definitiva che racconta l’ascesa, il trionfo e la caduta del grande statista e umanista inglese attraverso una serie di episodi secondari o immaginari della sua carriera. Con le sue correzioni e revisioni, il testo ci permette di osservare come lavoravano i drammaturghi del Rinascimento inglese. Il manoscritto contiene le uniche pagine vergate di suo pugno da Shakespeare, il cui contributo è limitato a poche scene del dramma. Una di esse (una parte della Scena 6) è quella qui riprodotta.
Il contesto della vicenda è il cosiddetto Ill May Day (1517), una rivolta del popolino contro i Lombardi, i potenti mercanti e banchieri stranieri attivi a Londra in quell’epoca. Per placare il delirio xenofobo irrompono alcuni nobili e poi Moro, il quale persuade i ribelli ad arrendersi (il fatto è un’invenzione dei drammaturghi). Come ricompensa, viene nominato cavaliere e membro del Privy Council, mentre i rivoltosi vengono imprigionati.
Le parti del testo sottolineate sono quelle cancellate dal censore di stato, Edmund Tilney. In carattere speciale (tipo grassetto) sono invece indicate le annotazioni di una mano diversa da quella dell’autore.
Il libro di Sir Tommaso Moro
di Anthony Munday e Henry Chettle,
con revisioni e aggiunte di Thomas Dekker, William Shakespeare e Thomas Heywood
LINCOLN
Silenzio, ascoltatemi! Chi non vuol vedere un’aringa affumicata a quattro centesimi[ii], il burro a undici centesimi alla libbra, la farina a nove scellini allo staio[iii] e il manzo a quattro nobili[iv] per sei chili, mi ascolti[v].
UN ALTRO GEORGE BETTS
Arriveremo a tanto se continuiamo a tollerare gli stranieri. Dategli retta.
LINCOLN
Per il cibo il nostro è un grande paese; argo[vi], questi mangiano più da noi che in patria.
UN ALTRO CLOWN BETTS
Almeno una pagnotta da mezzo centesimo al giorno, pesata alla francese[vii].
LINCOLN
Loro importano qui verdure straniere giusto per rovinare i poveri apprendisti: cos’è mai una misera pastinaca rispetto al nostro buon cuore?
UN ALTRO WILLIAMSON Schifezze, schifezze! Infiammano gli occhi, e questo basta per impestare la città con un’ondata di paralisi cerebrale[viii].
LINCOLN
Con quella l’hanno già impestata: queste bastarde piante del letame (lo sapete, no? che crescono nel letame!) ci hanno impestato, e la nostra infezione farà tremare tutta la città, cosa che in parte succede a mangiar pastinache.
UN ALTRO CLOWN BETTS
È vero, e anche le zucche.
GUARDIA
Che cosa rispondete alla clemenza del re? La rifiutate?
LINCOLN
Vorreste prenderci in contropiede, non è vero? Niente affatto, non la rifiutiamo. Accettiamo la clemenza del re, ma non avremo compassione degli stranieri.
GUARDIA
Siete gli esseri più ingenui che si siano mai infilati in un pasticcio del genere.
LINCOLN
Che ne dite adesso, apprendisti? Apprendisti ingenui? Diamogli una lezione.
TUTTI
Apprendisti ingenui? Ingenui noi?
SHREWSBURY SINDACO
Fermi, in nome del re, fermi!
SURREY
Amici, maestri, compatrioti...
SINDACO
Silenzio, oh, silenzio! Vi ordino di stare calmi!
SHREWSBURY
Maestri miei, compatrioti...
SHERWIN WILLIAMSON
Il nobile conte di Shrewsbury! Ascoltiamolo!
GEORGE BETTS
Vogliamo sentire il conte di Surrey!
LINCOLN
Il conte di Shrewsbury!
GEORGE BETTS
Vogliamo sentirli tutti e due!
TUTTI I CITTADINI
Tutti e due, tutti e due, tutti e due, tutti e due!
LINCOLN
Silenzio, vi dico, silenzio! Siete persone assennate o che cosa?
SURREY
Tutto quel che volete, tranne che persone di buon senso.
ALCUNI CITTADINI
Non vogliamo sentire lord Surrey!
ALTRI CITTADINI
No, no, no, no, no! Shrewsbury, Shrewsbury!
MORO
Hanno oltrepassato l’argine dell’obbedienza, e così travolgeranno ogni cosa.
LINCOLN
Parla lo sceriffo[ix] Moro! Vogliamo sentirlo, lo sceriffo Moro?
DOLL
Sentiamolo! Il suo è uno sceriffato[x] generoso, e ha fatto diventare mio fratello, Arthur Watchins, attendente del sergente Safe. Sentiamo lo sceriffo Moro!
TUTTI I CITTADINI
Sceriffo Moro, Moro, Moro, sceriffo Moro!
MORO
Secondo l’autorità in vigore fra di voi, ordinategli di ascoltare in silenzio.
ALCUNI CITTADINI
Surrey, Surrey!
ALTRI CITTADINI
Moro, Moro!
LINCOLN e GEORGE BETTS
Zitti, zitti, silenzio, zitti!
MORO
Voi che avete autorità e credito presso la folla, ordinategli di fare silenzio.
LINCOLN
Gli venga un accidente, non vogliono star zitti. Neanche il diavolo può governarli.
MORO
Che incarico spinoso e difficile avete, guidare gente che neanche il diavolo è in grado di governare. Cari maestri, ascoltate le mie parole.
DOLL
Sì, corpo di Cristo, vi ascolteremo, Moro. Siete un buon padrone di casa, e ringrazio vostra altezza per mio fratello Arthur Watchins.
TUTTI GLI ALTRI CITTADINI
Zitti, pace!
MORO
Attenti, voi offendete proprio quello che invocate, cioè la pace. Nessuno di voi sarebbe qui presente, se quando eravate bambini fossero vissuti dei vostri simili che avessero travolto[xi] la pace come voi volete fare adesso; quella pace in cui finora siete cresciuti vi sarebbe stata tolta, e i tempi sanguinari non vi avrebbero permesso di diventare adulti. Poveri voi! Che cosa otterrete se anche vi concediamo quello che cercate?
GEORGE BETTS
Per la Madonna, mandar via gli stranieri, cosa che senz’altro porterà grandissimo vantaggio ai poveri artigiani della città.
MORO
Mettiamo che vengano allontanati, e mettiamo che la vostra baraonda abbia soffocato[xii] tutta l’autorità reale dell’Inghilterra. Immaginate di vedere i disgraziati stranieri trascinarsi verso la costa e i porti per imbarcarsi, con i loro miseri bagagli e i bambini dietro[xiii], mentre voi ve ne state a soddisfare i vostri desideri come sovrani, con le autorità ammutolite dal vostro berciare e voi tronfi nella gorgiera della vostra arroganza: che cosa avrete ottenuto? Ve lo dico io: avrete mostrato come la superbia e la forza possono prevalere e come l’ordine può essere distrutto. Ma in questo schema di cose non uno di voi giungerebbe alla vecchiaia, poiché altri furfanti, seguendo le loro ubbie, con identiche mani, identiche ragioni e identico diritto, vi spolperebbero, e gli uomini si divorerebbero fra loro come pesci voraci.
DOLL
Dio mi sia testimone, questo è vero come il vangelo.
GEORGE BETTS LINCOLN
Sì, questo è uno pieno di buon senso, parola mia. Stiamo attenti a quello che dice.
MORO
Miei cari amici, lasciate che sottoponga un’ipotesi alla vostra riflessione. Se ci pensate bene, vi accorgerete quale forma orribile hanno in sé le vostre novità rivoluzionarie. Anzitutto, è un peccato verso il quale l’Apostolo ci ha ammonito spesso di stare in guardia, raccomandandoci di obbedire alle autorità [xiv: Si riferisce al noto passo di S. Paolo, Romani 13.1-2]; e non sbaglierei se vi dicessi che voi siete insorti contro Dio.
TUTTI I CITTADINI
Santa Vergine, che Dio non voglia!
MORO
Eppure è così, perché al re Dio prestò il proprio ufficio di terrore, giustizia, potere e comando. A lui ingiunse di governare e volle che voi obbediste. E per aggiungere a questo una più ampia maestà, prestò al re non soltanto la sua figura, il trono e la spada, ma gli diede il suo stesso nome, chiamandolo dio in terra. Che cosa fate dunque voi, ribellandovi contro un uomo insediato da Dio in persona, se non ribellarvi contro Dio? Facendo così, che cosa fate alle vostre anime? Oh sconsiderati, lavate di lacrime le vostre menti corrotte; e le stesse mani che da ribelli levate contro la pace, a favore della pace alzatele, e le vostre ginocchia sacrileghe trasformatele in piedi. Inginocchiarsi per il perdono è la guerra [xv] più sicura che potete fare voi, la cui tattica[xvi] è la ribellione. Su, su, tornate a obbedire! Perfino questa sommossa può proseguire solo con l’obbedienza. Ditemi soltanto: quando una rivolta sta per scoppiare, quale capopopolo è in grado di sedare la turba nel proprio nome? Chi vuole obbedire a un traditore? O quanto bene suonerà l’elezione di qualcuno che come titolo abbia solo quello di ‘ribelle’ per definire un ribelle?
Voi volete schiacciare gli stranieri, ucciderli, tagliargli la gola, impadronirvi delle loro case e condurre al guinzaglio[xvii] la maestà della legge, per aizzarla come un segugio. Ahimè, ahimè! Supponiamo adesso che il re, nella sua clemenza verso i trasgressori pentiti, giudicasse il vostro grave reato limitandosi a punirvi con l’esilio: dove andreste, allora? Quale paese vi accoglierebbe vedendo la natura del vostro errore? Che andiate in Francia o nelle Fiandre, in qualsiasi provincia della Germania, in Spagna o in Portogallo, anzi no, un luogo qualunque diverso dall’Inghilterra, vi ritroverete inevitabilmente stranieri.
Vi farebbe piacere trovare una nazione dal carattere così barbaro che, in un’esplosione di odiosa violenza, non vi offrisse dimora sulla terra, affilasse i suoi detestabili coltelli sulle vostre gole, vi cacciasse via come cani, quasi che Dio non vi avesse creati né vi riconoscesse come suoi figli, o che gli elementi naturali non fossero stati fatti per il vostro benessere ma riservati per legge esclusivamente a loro? Che cosa pensereste se vi trattassero così? Questa è la condizione degli stranieri, e questa la vostra barbara disumanità.
TUTTI I CITTADINI
In fede, dice la verità. Facciamo agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi stessi.
TUTTI I CITTADINI LlNCOLN
Ci faremo governare da voi, mastro Moro, se ci sarete amico e ci procurerete il perdono.
MORO
Sottomettetevi a questi nobili signori[xviii], implorate la loro mediazione presso il Re, assumete un comportamento ortodosso, obbedite al magistrato, e senza dubbio troverete misericordia, se la cercate in questo modo.
* Fonte: Nuovi Argomenti, Dic 18, 2017 (ripresa parziale, senza le note).
LETTERATURA, STORIA, ANTROPOLOGIA, E FILOLOGIA:
IL "SOGNO DI UNA COSA" (K. MARX), "IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (S. FREUD), E IL "COME NASCONO I BAMBINI".
Una nota a margine di una citazione da "Furore" di J. Steinbeck:
DANTE 2021. La "lezione" di Steinbeck, purtroppo, non è riuscita a portare i "due uomini" e le loro famiglie fuori dal fosso, fuori dall’orizzonte della biblica "caduta", e dalla tragedia (edipica, platonica e paolina), e la "Valle dell’ Eden" (1953), come "Furore" (1939), ha solo aiutato a non perdere la memoria e a riprendere la ricerca: "timshell". Marx, ai suoi tempi, leggeva ancora la "Divina Commedia" e sapeva (al di là dell’idealismo hegeliano) del "realismo di Dante": uscire dall’inferno è ancora possibile.
LO ZIGOTE DELLA TRAGEDIA. Memoria della Legge di Apollo (Eschilo): «non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda».
L’IMMAGINARIO DEL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO: "Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio"(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, "la Repubblica" del 17 novembre 2000, p. 35).
TEOLOGIA ANTROPOLOGIA E SCIENZA:
COME NASCE LA COSCIENZA? COME NASCONO LE IDEE? COME NASCONO I BAMBINI?!
LA "NAVE" DI GALILEO GALILEI E IL "DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI DEL MONDO" *
La sfida.
E il filosofo vinse sullo scienziato la scommessa sulla coscienza
25 anni fa il neuroscienziato Koch aveva scommesso con il filosofo Chalmers che entro il 2023 si sarebbe scoperto come i neuroni producono la coscienza. Ha pagato con una cassa di porto
di Andrea Lavazza (Avvenire, sabato 1 luglio 2023
Che i filosofi abbiano la meglio sugli scienziati non è esperienza comune nel panorama intellettuale di oggi. Quando poi vincono una scommessa venticinquennale in uno dei campi di ricerca più importanti e significativi per la nostra vita, allora siamo di certo davanti a una grande notizia. Nel 1998, il neuroscienziato Christof Koch aveva messo in palio una ricompensa alcolica con il filosofo David Chalmers, nella certezza che sarebbe stato scoperto entro il 2023 il modo in cui i neuroni del cervello producono la coscienza. Il 23 giugno scorso, in occasione della riunione annuale dell’Associazione per lo Studio Scientifico della Coscienza alla New York University, entrambi i contendenti hanno convenuto pubblicamente che la ricerca nel campo è ben lungi dall’essere giunta a un risultato definitivo e hanno dichiarato Chalmers vincitore. Nessuno nella comunità scientifica ha avuto da obiettare.
La coscienza è ciò di cui facciamo esperienza in prima persona, in modo spesso ineffabile: il gusto del gelato al cioccolato, la rossezza di un pomodoro, il mal di denti o la gioia profonda nel ritrovare un figlio che sembrava scomparso. In sintesi, “l’effetto che ci fa” qualcosa a livello soggettivo. Secondo molti pensatori, ciò che dà significato e valore alla nostra esistenza (ma possiamo scegliere un’azione buona rispetto a una cattiva anche se non proviamo nulla nel compierla). Qualcosa di assolutamente scontato e normale, ma che sembra sfuggire a chiare descrizioni. Tanto che va ancora per la maggiore la definizione proposta da William James: “La coscienza è quella cosa che scompare quando facciamo un sonno senza sogni e ricompare al risveglio”.
Per tanti secoli è stata associata a un elemento immateriale, l’anima o lo spirito, infine la mente. Ma la scienza contemporanea l’ha dichiarata un fenomeno naturale, che non può sfuggire alle leggi fisiche, e perciò indagabile con gli strumenti utilizzati per esplorare il cervello, dove si pensa risieda. Il giovane Chalmers ebbe l’intuizione di distinguere un “problema semplice”, ovvero trovare le basi neuronali della cognizione - alle quali ci stiamo avvicinando - da un “problema difficile”, ovvero come sorgano da un’entità materiale le sensazioni mentali che non sembrano condividere nessuna proprietà con la loro presunta fonte, ovvero le cellule nervose. Koch lavorava con il premio Nobel Francis Crick ed era attivamente impegnato a identificare i correlati della coscienza, ovvero quelle regioni del cervello che appaiono indispensabili per la presenza dei fenomeni coscienti. Di qui la scommessa che nulla aveva a che fare con le convinzioni esistenziali dei proponenti, dato che il “materialista” Koch era allora un cattolico praticante e il dualista Chalmers - ovvero sostenitore alla Cartesio (più o meno) dell’esistenza di due sostanze - un agnostico.
In un quarto di secolo la scienza è andata veloce e diverse teorie che ambiscono a spiegare la nascita e il funzionamento della coscienza sono oggi sul mercato. La circostanza che ha portato oggi a dirimere la contesa fra i due studiosi risiede nel fatto che si è da poco conclusa un’altra sfida legata proprio al tentativo di testare la migliore spiegazione. Sono infatti due le proposte - empiricamente validabili - che si contendono oggi i favori della comunità dei ricercatori. La teoria dell’informazione integrata (IIT), dovuta principalmente a Giulio Tononi e allo stesso Koch, e la teoria dello spazio di lavoro globale (GNWT), sostenuta da Stanislas Daheane e Jean-Pierre Changeux. La IIT sostiene che la coscienza è legata a una “struttura” cerebrale formata da uno specifico tipo di connessioni neuronali che rimane attivo per tutto il tempo in cui si verifica una determinata esperienza, come per esempio la visione di un oggetto. Si ritiene che questa struttura si trovi nella corteccia occipitale, nella parte posteriore del cervello. La GNWT, invece, suggerisce che la coscienza nasce quando le informazioni vengono trasmesse a diverse aree del cervello attraverso una rete interconnessa. La trasmissione avviene all’inizio e alla fine di un’esperienza e coinvolge la corteccia prefrontale, nella parte anteriore del cervello.
Sei laboratori indipendenti, come riferisce “Nature”, hanno condotto il più grande esperimento collettivo in merito, seguendo un protocollo preregistrato e utilizzando vari metodi complementari per misurare l’attività cerebrale. I risultati anticipati - ancora da sottoporre alla revisione per la pubblicazione - non corrispondono perfettamente a nessuna delle due teorie, sebbene il modello dell’informazione integrata appaia leggermente più preciso. John Horgan, “su Scientific American”, è stato più tranchant: i dati sono inconcludenti, alcuni favoriscono la IIT, altri lo spazio di lavoro globale. L’esito non sorprende, posto che il cervello è così complesso e la coscienza così poco definita, mentre la ricerca, lungi dal convergere verso un paradigma unificante, è diventata più che mai frammentaria e caotica.
Ecco che allora i prudenti filosofi, rappresentati da Chalmers, hanno portato a casa una cassa di porto offerta con stile da un Koch pronto a rilanciare per i prossimi 25 anni. Sapremo allora come emerge la coscienza dal cervello o sarà ancora un mistero? Più facile dire “Impossibile” che trovare una spiegazione, obietterà qualcuno. Vero, ma il fatto è che la coscienza pare proprio refrattaria a essere ridotta a un puro prodotto della materia.
* COME NASCE LA COSCIENZA? COME NASCONO LE IDEE? COME NASCONO I BAMBINI?
Appunti sul tema:
A) LA "NAVE" DI GALILEI E IL "DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI DEL MONDO": IL "LABORATORIO" DELLA "CONVERSAZIONE CONOSCITIVA". «Rinserratevi con qualche amico nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio, e quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti: siavi anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vada versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca che sia posto a basso; e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza(...)
Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia mentre il vascello sta fermo non debbano succedere così: fate muovere la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur di moto uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti; né da alcuno di quelli potrete comprendere se la nave cammina, o pure sta ferma. »
(Galileo Galilei, "Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano", 1632 - Salviati, giornata II).
B) COME NASCONO I BAMBINI. EUROPA: "EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva".
C) ANTROPOLOGIA, FILOSOFIA E PSICOANALISI: APPRENDERE DALLA "METAFISICA" DELL’ESPERIENZA...
LA NASCITA DELL’ESSERE UMANO E IL GIOCO DEL ROCCHETTO. Al di là del giogo di Edipo e Giocasta.
Federico La Sala
QUESTIONE ANTROPOLOGICA, ONTOLOGIA DELL’ESSERE SOCIALE, E STORIA:
Una nota a margine di una recensione della ripubblicazione dell’ opera di György Lukács (cfr. Francesco Ceraolo, "Solitudine marxista", 11 giugno 2023, "FataMorganaWeb" ): *
ALLA LUCE DELLA BRILLANTE RIPROPOSTA DELL’OPERA di György Lukács (“Ontologia dell’essere sociale”, a cura di Carlo Formenti, traduzione di Alberto Scarponi, Meltemi Editore, Roma 2023), mi sia lecito, approfitterei dell’occasione storica per riprendere anche la ri-lettura della “Introduzione del ’57” di K. Marx e per re-interrogarsi sul problema della “dialettica” e della «teoria del rispecchiamento» (Widerspiegelungstheorie), prima di tagliarci ogni via di uscita dall’orizzonte infernale del giogo dello specchio ("Dante 2021”).
IL NODO DEL #RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE, "IN GENERALE": "COME NASCONO I BAMBINI". Forse, OGGI, è bene riprendere il filo dai “Prolegomeni ad ogni metafisica futura che si vuole come scienza”, ricordare Nicea (325-2025) e il “Vicisti, Galilaee” a #GalileoGalilei di Keplero (1611), e, ri-illuminare il legame tra le generazioni e tra la Costituzione e la Scuola: “Avere il coraggio di dire ai nostri giovani che sono tutti sovrani” (don Lorenzo Milani, “Lettera ai giudici”, 18 ottobre 1965).
"SALPA L’ÀNCORA RAGAZZO!", PER NON PERDERE IL FILO DI “DEMOCRITO E EPICURO” E LA LEZIONE DELLA “CRITICA DELL’ECONOMIA” TEOLOGICO-POLITICA DI K. MARX.
A) SALPARE L’ÀNCORA!: UN’ESORTAZIONE SULLA STRADA DELL’ ILLUMINISMO KANTIANO. Ad elogio della memoria critica del parlar chiaro e in prima persona (e del Michel Foucault svegliatosi dal “sonno dogmatico”), è bene riprendere la citazione di Epicuro (tramandata da Diogene Laerzio), nel suo senso più preciso: “Salpa l’àncora, ragazzo, e fuggi ogni forma di cultura [paideia]” (cfr. Francesco Adorno, “La filosofia antica”, Feltrinelli, Milano 1991).
Ritengo la “cosa” degna di molta attenzione, per il suo profondo significato antropologico e filosofico: a) per la sua centralità nel più generale problema della “paideia”, b) per la sua “kantiana” sollecitazione ad aver il coraggio di servirsi della propria intelligenza, e, ancora, c) perché è salutare “andare a vedere se di là è meglio” (come recita il primo paragrafo del libro dello stesso Fanizza sulla figura dell’ebreo portoghese “Miguel Vaaz. Il #conte di Mola”, pubblicato dall’Editore Cacucci, Bari 2020).
B) “CHI” SIAMO NOI, IN REALTÀ. PER non perdere il filo e uscire con Dante fuori dall’inferno (come sollecitava anche Marx!), è bene ricordare che la tesi di laurea di Karl Marx è proprio su “Democrito e Epicuro” (1841/1842) e che, oggi, la tradizione critica (ricordando Walter Benjamin) è del tutto immersa nella palude hegeliana della “dialettica” della liberazione (1969), forse, non è meglio - dopo l’epocale “crollo del muro di Berlino” (1989) - interrogarsi ancora e di nuovo su “Chi siamo noi in realtà?” (come voleva Nietzsche) e “SALPARE L’ÀNCORA” . O no?!
C) P. S. - PER NON PERDERE IL FILO DI “DEMOCRITO E EPICURO” E LA LEZIONE DELLA “CRITICA DELL’ECONOMIA” TEOLOGICO-POLITICA, riconsiderare quanto scrive MARX nel suo “romanzo” giovanile “Scorpione e felice”:
E, SULLA BASE DELLA SUA “ILLUMINAZIONE” (sul nodo del maggiorascato), RIPRENDERE E RIMEDITARE la lezione dei “Promessi Sposi”, OGGI. Forse, così, è possibile ricomprendere meglio anche i richiami di Marx, del MARX maturo, quello del “Capitale. Critica dell’economia politica”, a DANTE. O no?!
MONARCHIA, FASCISMO, E RESISTENZA:
LA DIVINA COMMEDIA E IL 25 APRILE.
#ANTROPOLOGIA, #LINGUISTICA, E #POLITICA. A 702 anni dalla morte di #DanteAlighieri, la società italiana mostra ancora grandi difficoltà al suo interno e non riesce a parlare una #lingua #comune, quella propria dei cittadini-sovrani e delle cittadine-sovrane.
#STORIA, #LETTERATURA E #FILOSOFIA. Prima di #Hegel, a tutti i livelli (antropologici e teologici), a cosa alludeva #Dante con la sua paradigmatica proposta della #Monarchia dei #DueSoli?!
LA "MONARCHIA" DEI "DUE SOLI". Se, alla base del "dia-logo" delle due parti in cui l’Italia è divisa (la "destra" e la "sinistra" di "sempre"), non c’è il #Logos (l’accettazione e la condivisione della #Parola della #Legge), ma c’è solo il #Logo di una parte contro e sopra l’altra armata, in una "dialettica" da "#padrone e #servo", dov’è più il #dialogo, dove più la #Costituzione?, dove l’#Italia?!
#EarthDay #Koyaanisqatsi #Ubuntu #Earthrise
MONARCHIA, FASCISMO, E RESISTENZA: LA #DIVINACOMMEDIA E IL #25APRILE.
Una nota a margine della #giornatadellaterra 2023 ... #ANTROPOLOGIA, #LINGUISTICA, E #POLITICA. A 702 anni dalla morte di #DanteAlighieri, la società italiana mostra ancora grandi difficoltà al suo interno e non riesce a parlare una #lingua #comune, quella propria dei cittadini-sovrani e delle cittadine-sovrane.
#STORIA, #LETTERATURA E #FILOSOFIA. Prima di #Hegel, a tutti i livelli (antropologici e teologici), a cosa alludeva #Dante con la sua paradigmatica proposta della #Monarchia dei #DueSoli?!
LA "MONARCHIA" DEI "DUE SOLI". Se, alla base del "dia-logo" delle due parti in cui l’Italia è divisa (la "destra" e la "sinistra" di "sempre"), non c’è il #Logos (l’accettazione e la condivisione della #Parola della #Legge), ma c’è solo il #Logo di una parte contro e sopra l’altra armata, in una "dialettica" da "#padrone e #servo", dov’è più il #dialogo, dove più la #Costituzione?, dove l’#Italia?!
#EarthDay #Koyaanisqatsi #Ubuntu #Earthrise
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ANTROPOLOGIA E RINASCIMENTO, OGGI (26 FEBBRAIO 2023):
ESSERE, O NON ESSERE? LA DOMANDA DI AMLETO E "LA LEZIONE DI "ABO" (Achille Bonito Oliva).
Una nota a margine ... *
"L’ARTE DA SOLA NON ESISTE. Senza un sistema composto da media, collezionisti, mercato, musei, pubblico, le opere in sé non avrebbero valore". Con questo titolo, di forte tonalità hegeliana e marxista, Achille Bonito Oliva, sul "Robinson" ("la Repubblica" del 18 febbraio 2023), sollecita in qualche modo lodevolmente a ripensare "tutto".
SOCIALITÀ CRITICA. A onore di Bonito Oliva, per non lasciar cadere l’ago nel pagliaio e rischiare di non ritrovarlo, tenendo presente che né la "religione" né la "filosofia", come l’arte, esiste da sola, forse, è opportuno allargare l’area della coscienza del tempo presente e riprendere a cercare di capire meglio la situazione storica attuale, a tutti i livelli.
NAPOLI E "LA MADONNA DEL PESCE" DI RAFFAELLO. Considerato che «il Pesce puzza dalla testa» (soprattutto se si continua a confondere inconsapevolmente ICTUS con IXTHUS, "I.X.TH.U.S."), a mio parere, solleciterei una urgentissima riflessione antropologica sulla millenaria e moribonda tradizione del “Pensare l’artista come un demiurgo, produttore isolato d’immagini"!
COSMOTEANDRIA. Continuare così, come precisa Achille Bonito Oliva, "vuol dire non riuscire a comprendere l’esistenza di una condizione filosofica dell’arte e dell’artista" e, al di là delle allusioni e delle illusioni dello stesso "ABO" (relative alla "teoria della catastrofe" e allo "spostamento che raccoglie l’esigenza di una struttura edipica uccidendo il padre, ovvero il movimento precedente"), vuol dire interrogarsi radicalmente sulla figura dell’artista e sull’arte stessa, in quanto "produzione linguistica, e dunque, operatività e pratica culturale", al di fuori della logica cosmoteandrica del mondo attuale, che anche il sistema dell’arte ha contribuito a costruire.
NOTA: FILOLOGIA E ITTICA. "Ichthỳs. Antico simbolo cristiano di Cristo; le lettere greche (ΙΧΘΥΣ) che compongono la parola, formano l’acrostico ᾿Ιησοὸς Χριστὸς Θεοῦ υἱὸς Σωτήρ «Gesù Cristo, figlio di Dio, Salvatore». (Treccani).
#Earthrise #Metaphysics #Anthropology #Eleusis2023 #Roma2024
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PSICOANALISI E FILOSOFIA:
METAPHYSICS ANTHROPOLOGY PSYCHOANALITIC. Shakespeare, dopo Lutero e prima di Nietzsche e Freud, con Amleto s’interroga sul come sia possibile andare oltre la vecchia "imitazione di Cristo". Una nota a margine di un programma di ricerca intitolato “Hamlet’s Bible”... *
TEATRO E METATEATRO. La straordinaria ricchezza di #Hamlet, a mio parere, sta proprio in questo doppio movimento: "The tension or dissonance between these similarities and differences is an important source of irony" (Paul Adrian Fried). Con questo "gioco" il meta-obiettivo di Shakespeare appare essere proprio quello di indicare una direzione di riflessione che possa portare oltre il proprio #tempo e rendere praticabile l’idea di rimettere i suoi cardini in sesto!
Europa e "Globe Theatre": "Ecce Homo". Dato che la posta (storicamente e teologicamente) è epocale, il "gioco" è ancora più importante: qui, nell’Hamlet, il tema è "ripensare" lo #specchio dell’intera "Danimarca".
P. S.
"ECCE HOMO": NIETZSCHE E LA VOLONTA’ DI POTENZA DI JUNG. Carl Gustav Jung ha fatto un brillantissimo lavoro su «Lo Zarathustra di Nietzsche. Seminario 1934-39» , ma alla fine la sua stessa ombra gli ha impedito di giungere a fondo e a capo dell’enigma di Edipo, della domanda (la "question") di Amleto, della "visione e l’enigma di Zarathustra e, infine, di accogliere il bambino nato dalla metamorfosi del cammello e del leone (cfr. Federico La Sala, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica", Antonio Pellicani Editore, Roma 1991).
FILOLOGIA, ARCHEOLOGIA FILOSOFICA, E COSMOLOGIA: IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (NON UN LOGO).
Una breve nota su un labirintico abbaglio, in cui si vive da millenni:
ANTROPOLOGIA O ANDROLOGIA?! Alla fine, pur pulendo "le porte della percezione", l’uomo (l’essere umano - maschio, lat. "vir") non vedrebbe altro e ancora che "il mondo come volontà e rappresentazione" di sé stesso: la visione dell’androcentrico vitruviano macroantropo della tradizione platonico-paolina e schopenhaueriana.
"CHI" ("X") SIAMO NOI, IN REALTÀ: DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVO PRINCIPIO DI CARITÀ.
LA FATTORIA DI PLATONE, IL PIFFERAIO ALGORITMICO, E L’ ARCHEOLOGIA FILOSOFICA:
#STORIA E #MEMORIA. Al #tramonto dell’#Occidente e alla #fine della #storia, qualche musicista constata amaramente che oggi la più bella delle arie d’opera viene utilizzata per #pubblicizzare un profumo. Verissimo, ma questo cosa significa? Non è una "bellissima" realizzazione storica dello #Stato sognato dal pitagorico Platone, quello della famosa teoria del #re filosofo (#sofista) e del filosofo (sofista) re?
#FILOLOGIA E #ANTROPOLOGIA Le #Muse, le #Grazie, le #Sibille, dove sono?! Non sono state rapite come #Persefone da #Plutone e sono tutte rinchiuse nel #Circo (della buon’anima) della #Moira di #Orfeo? Dov’è #Diotima, dove #Arianna? Non è ora di cambiare #musica e uscire dall’Inferno (#Dante2021)?! Se non ora, quando?!
#Eleusis2023 #Earthrise
(*) La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica
Filologia Antropologia, e Cosmoteandria. Dalla Luna, ammirare il sorgere della Terra... *
Se ancora #oggi non è possibile nemmeno il #dialogo di sé con sé stesso, e #nessuno è capace di uscire dall’orizzonte narcisistico-tebano e comunicare abbracciando davvero l’altro, barricato com’è nella millenaria #caverna cosmoteandrica atea e devota (di costruzione platonico-hegeliana e cattolico-paolina), come è possibile entrare in #relazione con l’altro in sé e fuori di sé (es.: con "la gitana con sigaretta", non nel quadro di Edouard Manet, ma dinanzi a sé - nella realtà), se non si sa accogliere un filo del vento "che soffia dove vuole", di cui "puoi udire la #voce, ma non sai né da dove viene né dove va” (Gv. 3,8)? Non è meglio rimeditare l’aoristica lezione dell’Infinito di Giacomo Leopardi, uscire dall’#inferno terrestre (#Dante2021), e ammirare dalla #Luna il sorgere della Terra?
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FILOLOGIA FILOSOFIA PSICOANALISI
"ABBRACCIATEVI, MOLTITUDINI" (F. SCHILLER, "INNO ALLA GIOIA", 1785): "INTERPRETAZIONE DEI SOGNI" (S. FREUD, 1899) DEI NIPOTINI E DELLE NIPOTINE DI PLATONE...
«Che cos’è, o uomini ["anthropoi"], che volete ottenere l’uno dall’altro? [...] Forse è questo che volete: diventare la medesima cosa l’uno con l’altro, in modo che non vi dobbiate lasciare né giorno, né notte? Se è questo che desiderate, io voglio fondervi e unirvi insieme nella medesima cosa, in modo che diventiate da #due che siete #uno solo, e finché vivrete, in quanto venite ad essere in questo modo uno solo viviate insieme la vita, e quando morirete, anche laggiù nell’Ade, invece di due siate ancora uno, uniti insieme anche nella morte. Orsù vedete se è questo che volete e se vi farebbe lieti ottenerlo...» (Platone, Simposio, 192 d-e)
PLATONISMO E TECNOCRAZIA. Dopo interi millenni di letargo, non è meglio svegliarsi e capire che l’intenzione di "Platone" (e di Efesto) è pure lodevole, ma molto, molto artigianale (demiurgica), il suo amore è avido e cieco (Cupìdo) e il suo fare "di due che siete uno solo" sembra voler correggere la divisione fatta da Zeus, ma alla fine fa tutto all’incontrario e fa solo un campo di sterminio, un deserto. All’altezza del 2023, come scriveva Nietzsche, siamo ancora ignoti a noi (stessi e stesse).
MATEMATICA E ANTROPOLOGIA. Forse conviene riprendere il filo da ELEUSI (quest’anno è una delle capitali europee della cultura: Eleusis2023) e cercare di capire il segreto dei misteri eleusini, come nascono i bambini, e, finalmente, scoprire (immergendosi, battesimalmente, nel) l’acqua calda, che ognuno e ognuna è già uno, una, in due; ripartire da sé e riprendere il cammino: "Sàpere aude! (Kant, 1784 - Michel Foucault, 1984). Ricominciare a contare da due, non da uno (dei due, che fa il furbo): "un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (Franca Ongaro Basaglia). In principio era il Logos - non il logo di una "fattoria degli animali"!
ALLA RICERCA DELLA LINGUA D’AMORE: LETTERATURA, PSICOANALISI, E QUESTIONE ANTROPOLOGICA.
Note a margine del carteggio tra Virginia Woolf e Vita Sackville-West e tra Sigmund Freud e Wilhelm Fliess...
PREMESSO CHE "Una stanza tutta per sé" è un saggio pubblicato nell’ottobre del 1929, e il romanzo Orlando ("Orlando: A Biography") era stato pubblicato l’anno prima, nel 1928, forse, può essere una buona traccia per ulteriori approfondimenti porre accanto e "coniugare" il carteggio tra "Judith, la sorella di Shakespeare", Virginia Woolf e Vita Sackville-West (“Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio”, Donzelli, 2019) e il carteggio tra "Guglielmo il Conquistatore", Sigmund Freud e Wilhelm Fliess ("Lettere a Wilhelm Fliess, 1887-1904", Boringhieri, 1986): nel fuoco della relazione e della ricerca delle due coppie sono proprio i temi dell’antropologia e del "disagio della civiltà" (S. Freud, 1929), con le loro profonde tragiche radici nel "Simposio" di Platone e nella tradizione del "platonismo per il popolo" (Nietzsche):
A) ANTROPOLOGIA E PSICOANALISI: «Ho cominciato a considerare con attenzione il concetto di bisessualità e considero la tua idea in proposito come la più significativa per il mio lavoro, dopo quella di "difesa"» (S. Freud a W. Fliess, 04.01.1898).
B) "DE AMORE": L’AMORE E LA PAROLA. "[...] cosa succede e dove si può arrivare considerando il tradimento della tradizione amorosa/letteraria soltanto un punto di partenza? Il risultato naturale di questo anticonformismo - che non si interroga più sul conforme, quanto sull’autenticità di quel che resta, quando il conforme viene spazzato via - ha nell’immediato un nome: Orlando, il romanzo che Virginia scrive proprio in quegli anni (la cui musa è proprio Vita), che trasforma il celebre eroe in un essere che sperimenta il maschile e il femminile [...] La stesura di Orlando è un modo per Virginia di superare una crisi non solo letteraria appunto (in quel momento sta completando a fatica la stesura di alcuni saggi), ma anche il tentativo di sublimare la sua gelosia per Vita, di cui ormai ha imparato a riconoscere/misurare le distanze mutevoli, trasformandola in un personaggio, e dunque in qualcosa di eterno." (Caterina Venturini, "Ti nomino meglio che posso: la lingua d’amore di due donne libere. Sul carteggio tra Virginia Woolf e Vita Sackville-West", Femministerie 26 settembre 2019).
COME NASCONO I BAMBINI. AL DI LÀ DELLA NATIVITÀ EDIPICO PLATONICA... *
IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS ("CHARITAS"): E IL LOGOS SI FECE CARNE:
ECCE HOMO.
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IN NOME DEL LOGOS ("charitas"). «Egli (Cristo), ha detto: “Io sono la verità” (Gv 14,6); del diavolo invece ha detto: “Non rimase nella verità, poiché in lui non c’è verità” (Gv 8,44). Ora, Cristo è talmente la verità che tutto in Lui è vero: Egli è il vero Verbo, Dio uguale al Padre, vera anima (vera anima), vera carne (vera caro), vero uomo (verus homo), vero Dio; vera è la sua nascita (vera nativitas), vera la sua passione ( vera passio), vera la sua morte (vera mors), vera la sua risurrezione (vera resurrectio). Se neghi una sola di queste verità, entra il marcio nella tua anima, il veleno del diavolo genera i vermi della menzogna e nulla rimarrà integro in te» (Agostino, Joh. Ev. tr. 8, 5-7);
IL FIGLIO. «Quegli che con le sue mani tocca il Verbo può farlo unicamente perché “il Verbo s’è fatto carne e abitò fra noi” (Gv 1,14). Questo Verbo fatto carne sino a potersi toccare con le mani cominciò a essere carne nel seno della Vergine Maria (Hoc autem Ver bum quod caro factum est ut manibus tractaretur coepit esse caro ex Virgine Maria)» (Agostino, In Joh. Ep. 1,1);
MARIA E GIUSEPPE, SPOSI NELLO SPIRITO DEL LOGOS ("CHARITAS"). «L’utero della Vergine fu la stanza (del Verbo), poiché è là che si sono uniti lo sposo e la sposa, il Verbo e la carne (et illius sponsì thalamus fuit uterus Virginis, quia in ilio utero virginali coniuncti sunt duo, sponsus et sponsa, sponsus Verbum et sponsa caro). Poiché sta scritto (Gn 2,24): “E saranno i due una sola carne” (et erunt duo in carne una). E anche il Signore dice nel Vangelo (Mt 19,6): “Dunque non sono due, ma una sola carne” (igitur iam non duo, sed una caro)» (Agostino, In Joh. Ep. 1, 2).
PAROLA DEL "VULCANICO" PLATONE. PARLA EFESTO: "NON PIU’ DUE, MA UN’ANIMA SOLA"!
"ARISTOFANE: [...] queste persone che passano la loro vita gli uni accanto agli altri non saprebbero nemmeno dirti cosa s’aspettano l’uno dall’altro. Non è possibile pensare che si tratti solo delle gioie dell’amore: non possiamo immaginare che l’attrazione sessuale sia la sola ragione della loro felicità e la sola forza che li spinge a vivere fianco a fianco. C’è qualcos’altro: evidentemente la loro anima cerca nell’altro qualcosa che non sa esprimere, ma che intuisce con immediatezza. Se, mentre sono insieme, EFESTO si presentasse davanti a loro con i suoi strumenti di lavoro e chiedesse: "Che cosa volete l’uno dall’altro?", e se, vedendoli in imbarazzo, domandasse ancora: "Il vostro desiderio non è forse di essere una sola persona, tanto quanto è possibile, in modo da non essere costretti a separarvi né di giorno né di notte? Se questo è il vostro desiderio, io posso ben unirvi e fondervi in un solo essere, in modo che da due non siate che uno solo e viviate entrambi come una persona sola. Anche dopo la vostra morte, laggiù nell’Ade, voi non sarete più due, ma uno, e la morte sarà comune. Ecco: è questo che desiderate? è questo che può rendervi felici?" A queste parole nessuno di loro - noi lo sappiamo - dirà di no e nessuno mostrerà di volere qualcos’altro. Ciascuno pensa semplicemente che il dio ha espresso ciò che da lungo tempo senza dubbio desiderava: riunirsi e fondersi con l’altra anima. Non più due, ma un’anima sola.
La ragione è questa, che la nostra natura originaria è come l`ho descritta. Noi formiamo un tutto: il desiderio di questo tutto e la sua ricerca ha il nome di amore. Allora, come ho detto, eravamo una persona sola; ma adesso, per la nostra colpa, il dio ci ha separati in due persone, come gli Arcadi lo sono stati dagli Spartani. Dobbiamo dunque temere, se non rispettiamo i nostri doveri verso gli dèi, di essere ancora una volta dimezzati, e costretti poi a camminare come i personaggi che si vedono raffigurati nei bassorilievi delle steli, tagliati in due lungo la linea del naso, ridotti come dadi a metà.
Ecco perché dobbiamo sempre esortare gli uomini al rispetto degli dèi: non solo per fuggire quest’ultimo male, ma anche per ottenere le gioie dell’amore che ci promette EROS, nostra guida e nostro capo. A lui nessuno resista - perché chi resiste all’amore è inviso agli dèi. Se diverremo amici di questo dio, se saremo in pace con lui, allora riusciremo a incontrare e a scoprire l’anima nostra metà, cosa che adesso capita a ben pochi." (Platone, Simposio).
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NEL 2022, ANCORA NEL’OFFICINA DI PLATONE: "ECCE HOMO" (NIETSCHE, 1888)! Chi parla e promette di fare di due un’anima sola, nel racconto di Aristofane, è Efesto (Vulcano), il dio dei fabbri, ed Eros, è il dio dell’amore/desiderio cieco e avido: questi colpisce con le sue frecce e l’altro costruisce le catene per rimettere insieme le due metà! "Disagio della civiltà" (S. Freud, 1929): non è meglio cambiare registro e rileggersi insieme Dante ("Divina Commedia") e Nietzsche ("Crepuscolo degli idoli")?!
FLS
UN PASSO INDIETRO PER SALTARE MEGLIO: TRACCE PER UNA SECONDA "RIVOLUZIONE COPERNICANA"...
Marx nella lettura di Roberto Fineschi
di Sebastiano Taccola* (Contropiano, 3 Agosto 2022),
Negli scorsi anni, anche grazie alle celebrazioni del bicentenario della nascita, in Italia (e nel mondo) si è assistito a un intensificarsi delle pubblicazioni su Karl Marx. Testi nuovi e di carattere diverso - divulgativo e scientifico, ammesso che sia possibile fare una distinzione netta tra questi due piani - hanno riportato Marx e il marxismo sugli scaffali delle novità delle nostre librerie e biblioteche. Una simile vitalità ha probabilmente un valore duplice: da un lato, ha rappresentato un’espressione dell’esigenza di un «ritorno a Marx» fortemente avvertita con la crisi economica del 2007-2008; dall’altro lato ha tentato di dare nuovi spunti critici in grado di entrare in sinergia con i fermenti del presente e dare loro nuova forza.
Se all’estero sono stati soprattutto studiosi come David Harvey o Michael Heinrich a tentare di riportare all’attenzione del grande pubblico la teoria dell’autore del Capitale, in Italia, invece, c’è stata più timidezza (con alcune eccezioni, come ad esempio il Karl Marx di Marcello Musto e la Storia del marxismo curata da Stefano Petrucciani).
Del resto, gli addetti ai lavori conoscono bene la difficoltà di sciogliere e rendere comprensibili i nodi e i passaggi più complessi della teoria marxiana del Capitale, pur essendo altrettanto consapevoli della necessità di compiere questo lavoro. Non si tratta tanto di divulgare Il capitale di Marx, ma di operare nelle maglie della società e della cultura contemporanee per radunare un nuovo pubblico per quest’opera: un’opera di scienza, le cui categorie possono aiutarci a spiegare la riproduzione e l’ampliamento delle più diverse forme di sfruttamento oggi in atto. Le sfruttate e gli sfruttati non mancano. Si tratta di tentare di tessere i fili nella direzione giusta.
Se letto in questo orizzonte problematico, il libro di Roberto Fineschi, Marx può stimolare qualche riflessione produttiva. Si tratta di un profilo introduttivo, che intende tenere la complessità delle questioni sopra evocate, senza perdere la specificità analitica caratteristica di ogni serio lavoro scientifico.
Quando abbiamo a che fare con la lettura del profilo di un autore il rischio è quello di perdere ciò che invece dovrebbe starci più a cuore, vale a dire la specificità del discorso che prendiamo a oggetto. Per quel che riguarda la filosofia, poi, si direbbe che questa specificità ha a che fare con un campo ben definito: la scienza e il pensiero che si vuole scientifico.
L’intera storia della filosofia occidentale, infatti, nei suoi punti più alti (da Eraclito a Platone, da Aristotele a Hegel, da Kant a Spinoza e Marx) può considerarsi come uno sviluppo delle determinazioni di un pensiero, un logos assolutamente impersonale, il quale, proprio a partire da questa sua impersonalità e imparzialità, tende a definire le condizioni della propria scientificità.
Si tratta di una prospettiva spesso relegata in secondo piano, e oggi assolutamente trascurata in forza di una tradizione, che ha dissolto l’unità di fondo della forma del discorso filosofico in una serie discreta di Weltanschauungen, di concezioni del mondo soggettive (e dunque, almeno potenzialmente, arbitrarie). Di qui a concepire l’intera storia della filosofia come un agone in cui si scontrano le personalità dei vari filosofi il passo è breve.
Se questa prima matrice «personalistica» e «agonistica» ha dissolto la logica specifica del pensiero filosofico, una seconda tradizione ha invece portato a perderne la storicità. Si allude qui a quella maniera «storicistica» di fare storia della filosofia, che si limita a resoconti cronachistici delle vicende biografiche di un determinato autore, costruendo nessi consequenziali immediati tra queste e l’elaborazione teorica secondo un ordine temporale cronologico e progressivo.
Si tratta di due matrici non necessariamente parallele; anzi, spesso capita che l’una si innesti sull’altra. È chiaro che cadere da una parte o dall’altra è un rischio effettivamente concreto quando si ha a che fare con la composizione del profilo di un filosofo. A maggior ragione, poi, se questo filosofo è Karl Marx: il pensatore dell’unione di teoria e prassi, la cui esperienza biografica è tanto ricca da intrecciarsi più volte con alcuni passaggi fondamentali dell’elaborazione teorica.
Ecco, un primo tratto di originalità del libro di Fineschi è proprio il suo evitare di correre un rischio simile. Fineschi dà scacco ai resoconti storicisti, cronachistici e personalisti in un paio di mosse: la biografia (per ragioni editoriali) è ridotta a poche pagine iniziali e nettamente separata dal resto; questo «resto», poi, non è nient’altro che la scienza marxiana, e in particolare Il capitale. La parte centrale e più corposa del volume, infatti, è divisa in due sezioni: «Prima del Capitale» e «La costruzione della teoria del Capitale».
La ricostruzione del pensiero marxiano proposta da Fineschi è innanzitutto concettuale e non immediatamente storica. Essa cioè parte dal riconoscimento della forma matura assunta dal discorso scientifico di Marx (la costruzione del sistema della critica dell’economia politica, il cui precipitato principale, sebbene incompiuto, è Il capitale). Questa è la lente analitica attraverso la quale Fineschi fa filtrare il fascio continuo dell’opera omnia marxiana.
Il filo conduttore dell’intera produzione di Marx può essere infatti riconosciuto nel concetto di «critica». Partire, dunque, dalla compiutezza della forma espositiva della critica permette poi di procedere nella direzione di una lettura morfologica e contrastiva del corpus marxiano. Un simile esercizio ermeneutico, come mostra bene Fineschi, non è fine a se stesso, ma permette di cogliere nessi di continuità e discontinuità assai profondi e articolati, non privi di spunti di riflessione per il nostro presente. Un tipo di interpretazione, dunque, scientificamente accurata e fortemente produttiva.
In questo senso, l’intera produzione di Marx può essere interpretata come un «one long argument» (secondo la nota espressione di Darwin), un lungo ragionamento di progressiva penetrazione nel campo della critica dell’economia politica.
Nelle opere giovanili si possono ritrovare i primi germogli di questa scienza, e Fineschi mostra le linee di tendenza e controtendenza di questa maturazione: dalla critica a Hegel, passando per il giovanile avvicinamento al comunismo (La questione ebraica, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, entrambi del 1843) e il primo approccio ai temi dell’economia politica (i celebri Manoscritti economico-filosofici del 1844), fino a un’iniziale abbozzo di materialismo storico (La sacra famiglia, 1844).
In tutti questi scritti, il più grande limite di fondo che grava sull’esposizione marxiana è il retroterra antropologico e feuerbachiano, che porta Marx a pensare le forme dell’emancipazione al di là di ogni storicità specifica, come ritorno a un’essenza originaria della specie umana (Gattungswesen).
Il superamento di questo umanesimo radicale è portato avanti da Marx nel biennio 1845-1847 in opere come L’ideologia tedesca, le Tesi su Feuerbach, la Miseria della filosofia. Opere in cui, tuttavia, l’esposizione complessiva si muove su un piano espositivo ancora troppo dipendente dall’economia politica classica ed è ancora priva di quei lineamenti fondamentali che porteranno Marx ad affinare al meglio le sue armi della critica.
«Tutta la scienza sarebbe superflua se la forma fenomenica e la essenza delle cose coincidessero in maniera immediata». Questa citazione tratta dal terzo libro del Capitale esprime appieno il fondamento epistemologico della critica dell’economia politica, oltre che la sua differenza specifica rispetto a ciò che la precede.
Nella prospettiva marxiana, infatti, la scienza, per essere effettivamente tale, deve avere un carattere anti-empirico, anti-naturalistico e controintuitivo. E ciò significa rimettere in discussione il dato, considerarlo sempre come il risultato di uno specifico processo di genesi e formazione. Ed è su questa strada che Marx si mette in cammino a partire dal 1857 (l’anno in cui inizia la stesura di quel primo abbozzo della teoria del Capitale successivamente noto come Grundrisse).
Da qui in avanti la società, lo Stato, le classi, l’economia, ecc. non sono più entità che possono essere assunte acriticamente, per come si presentano alla superficie della società, quali statici presupposti del nostro agire (pratico o teorico che sia); al contrario, è proprio la loro costituzione, il loro processo genetico e riproduttivo, che devono essere oggetto di analisi critica.
La critica di Marx considera ogni dato sociale come un risultato di un rapporto, che essa aspira a spiegare su base sistematica. E a spiegare a partire da che cosa? Da un’astrazione determinata, che si fa struttura concreta in grado di governare i processi di riproduzione della società attuale tanto da orientarne, se pur con gradi di incidenza diversi, le forme espressive (istituzionali, politiche e giuridiche), l’azione dei soggetti e la maturazione delle soggettività, in base a quelle leggi coercitive che essa sovraimpone agli attori sociali.
A questa struttura Marx dà un nome scientifico: modo di produzione capitalistico. È questo l’oggetto della critica dell’economia politica. A esso sono dedicati i tre libri del Capitale, che Fineschi riassume coraggiosamente, seguendo l’esposizione marxiana nei suoi diversi gradi di astrazione, senza lasciare da parte nessun passaggio cruciale.
Il volume si chiude con due sezioni almeno parzialmente collegate e intitolate, rispettivamente, «Concetti chiave» e «Storia della ricezione». Parzialmente intrecciate perché entrambe evocano la questione del rapporto tra Marx e il marxismo.
In particolare, per quel che riguarda la prima delle due sezioni (che prende in esame concetti assai problematici come «materialismo storico», «materialismo dialettico», «lotta di classe», «rivoluzione», «comunismo», «metodo dialettico», «alienazione e feticismo della merce», «valore-lavoro e trasformazione”), Fineschi opera in maniera quasi chirurgica riportando a Marx ciò che è di Marx ed effettuando una lettura contrastiva tra le categorie effettivamente elaborate da Marx e quelle successivamente sviluppate, approfondite e divulgate dal marxismo.
In queste pagine, Fineschi tocca temi che hanno avuto un peso assai rilevante nella storia del marxismo senza trarre conclusioni affrettate, ma mostrando bene la complessità teorica delle questioni dibattute.
Fineschi sottolinea come su molte di esse sia difficile trovare una risposta definitiva, anche perché Marx si è semplicemente limitato, per così a dire, a lasciarci una «cassetta degli attrezzi», fra l’altro assemblata per uno scopo preciso: l’analisi del modo di produzione capitalistico.
È cosa nota, infatti, che l’edificio teorico della critica dell’economia politica è rimasto qualcosa di sostanzialmente incompiuto (e ciò è vero non solo per i libri secondo e terzo, ma anche per il primo libro del Capitale). A ciò hanno contribuito, oltre che le vicende esistenziali (gli impegni politici, le difficoltà economiche, i problemi di salute), anche la forte sensibilità autocritica e la grande scrupolosità teorica di Marx.
Comprendere a fondo i lineamenti e la maturazione della critica dell’economia politica di Marx, dunque, significa anche seguire il «filo conduttore» dei suoi studi, oltre che confrontarsi con un metodo di lavoro estremamente travagliato, sempre aperto al ripensamento e all’integrazione di nuovi spunti teorici. In questo senso, la nuova edizione storico-critica delle opere complete di Marx ed Engels (la seconda Marx-Engels-Gesamtausgabe, nota con l’acronimo di MEGA2, la cui pubblicazione, ancora in corso, è iniziata nel 1975), insieme a una serie di materiali precedentemente inediti, ha messo sul tavolo anche la necessità di una rinnovata interpretazione di Marx e della sua opera.
La MEGA2 rappresenta dunque uno strumento necessario per approntare nuove lenti analitiche in grado di indagare i lineamenti di fondo e il senso complessivo di quella che, a ragione, può essere considerata l’opera principale di Marx. E ciò è valido non soltanto per quel che riguarda gli studi di carattere storico-filologico (che rimangono un momento fondamentale), ma anche per quelle letture e interpretazioni che tornano a rivolgersi alla teoria marxiana per mostrarne l’attualità, il suo porsi all’altezza delle sfide teorico-pratiche del nostro presente.
Ecco, Fineschi ha lavorato in questa direzione da molto tempo. Gli esiti delle sue ricerche sono raccolti in volumi come Ripartire da Marx (La città del sole, 2001), Marx e Hegel. Contributi a una rilettura (Carocci, 2006), Un nuovo Marx (Carocci, 2008), La logica del Capitale (Istituto Italiano degli Studi Filosofici, 2021), la sua nuova traduzione del primo libro del Capitale (La città del sole, 2011) a partire dall’edizione della MEGA2, più tutta una serie di pubblicazioni e articoli su volumi e riviste scientifiche. Certo, si tratta di pubblicazioni di natura spesso assai specialistica, ma che forniscono linee guida fondamentali per rinnovare il marxismo e impedire che Marx venga considerato alla stregua di un celebre «cane morto».
I risultati degli studi specialistici di Fineschi sono l’intelaiatura fondamentale di questo volume più divulgativo. Un libro che dunque riesce a tenere insieme piani diversi e a rivolgersi a un pubblico variegato (in particolare, a parere di chi scrive, questo profilo potrebbe rappresentare un ottimo strumento per chi si trova a spiegare Marx nelle nostre scuole superiori e che, magari, intenda farlo al di là del senso comune che si è stratificato su di lui).
Oltre a essere un’ottima introduzione al pensiero di Marx, questo libro è anche una testimonianza di come la grande ricerca specialistica possa (e debba, magari) intrecciarsi con la divulgazione scientifica e la formazione della coscienza sociale, culturale e politica. E anche da questo punto di vista, verrebbe da dire che Fineschi ci dà (indirettamente) uno stimolo metodologico importante, su cui è urgente riflettere in tempi come i nostri.
Talvolta tornare indietro ci permette di gettare uno sguardo più lucido in avanti. Si tratta di affinare le nostre lenti analitiche e di sincronizzare il respiro del pensiero. La teoria del Capitale di Marx richiede un serio sforzo di traduzione per i molti, perché non rimanga appannaggio di pochi.
*Sebastiano Taccola ha studiato filosofia presso l’Università di Pisa e la Scuola Normale Superiore di Pisa ed è docente di filosofia e storia nei Licei
NOTA:
UN PASSO INDIETRO PER SALTARE MEGLIO: TRACCE PER UNA SECONDA "RIVOLUZIONE COPERNICANA"...
"«Tutta la scienza sarebbe superflua se la forma fenomenica e la essenza delle cose coincidessero in maniera immediata». Questa citazione tratta dal terzo libro del Capitale esprime appieno il fondamento epistemologico della critica dell’economia politica, oltre che la sua differenza specifica rispetto a ciò che la precede" (Sebastiano Taccola, cit.).... e sollecita a RISTABILIRE IL RAPPORTO CON DANTE ("Divina Commedia), GALILEO GALILEI ("Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo"), KANT ("Critica della ragion pura), e FREUD ("Interpretazione dei sogni"), per ripensare il "sogno di una cosa" (K. Marx, 1843) e portare avanti il lavoro di "critica dell’economia politica" - nella teoria e nella prassi.
Federico La Sala
SCIENZA NUOVA: NUOVO ANNO ACCADEMICO E NUOVO RETTORE ALL’UNIVERSITÀ DI MACERATA. UN OMAGGIO A John McCourt - in ricordo dell’omaggio di James Joyce a Giambattista Vico...
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UNIMC: ORTO DEI PENSATORI E CORTILE DELLA FILOSOFIA. *
Chiarissimo John McCourt, augural-mente, per ben iniziare i lavori e meglio illuminare il cammino nella nuova #direzione, ripensando al profondo legame di James Joyce con Giambattista Vico (vissuto per quasi dieci anni in Lucania, oggi Cilento), forse, non è male ricordare di considerare la particolare rilevanza per il "Dip. di Scienze della formazione, dei beni culturali e del turismo", dell’antica città di Elea - Velia /Ascea), invitare a rileggere il "Poema" di Parmenide e a ripercorrere la strada che portava sull’acropoli, al tempio della Dea Giustizia (Dike): come si sa, la via non passa e non è mai passata attraverso la cosiddetta "Porta Rosa", ma attraverso il ponte, il viadotto che passa appunto sopra la cosiddetta "Porta Rosa" (https://it.wikipedia.org/wiki/Porta_Rosa). Contrariamente a quanto pensava Platone (e hanno pensato nei secoli i suoi "nipotini"), il #Logos della città di Parmenide, non il Logo del padrone di una #caverna, era ed è il fondamento stesso del dialogo, «l’unico ponte tra le persone» (Albert Camus). Moltissimi auguri. Buon inizio...
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ARCHEOLOGIA, PSICOANALISI, E PLATONISMO PER IL POPOLO: "COME NASCONO I BAMBINI". Osare mettere il dito nella "piaga" e interrogarsi sulla storia del nome della "Porta Rosa" (https://it.wikipedia.org/wiki/Porta_Rosa#Storia->). A mio parere, la "cosa" è carica di teoria e qui è opportuno (per capire) ricollegarsi a Freud e andare oltre Lacan: è una questione di immaginario e di una "logica" più che bimillenaria e ... di "fretta". L’Archeologo, probabilmente troppo eccitato dalla scoperta, ha voluto rendere omaggio alla propria compagna, alla luce della propria e generale tragica tradizionale concezione della donna (un vicolo cieco in cui mettere il proprio seme e far fiorire la pianta), senza fare i conti con le spine della Dea Giustizia (Dike) e la Costituzione (il Logos) materiale e spirituale della stessa città di Elea (come della Repubblica Italiana): "Il dialogo è l’unico ponte tra le persone" (Albert Camus)!
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QUESTIONE ANTROPOLOGICA: L’ITALIA, LA CHIESA CATTOLICA, I "TESTICOLI" DELLE DONNE E LA "COGLIONERIA" DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE "PALLE". L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!! E CHE COSA SIGNIFICA ESSERE CITTADINI E CITTADINE D’ITALIA!!!
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA E MATEMATICA. A PARTIRE DA DUE... *
Festival dei Matti, Alberta Basaglia: “Non è tardi per parlare di mia madre Franca Ongaro e del suo ruolo nella rivoluzione che portò alla chiusura dei manicomi”
di Emanuele Salvato *
“Fondamentale”. Con quest’aggettivo Alberta Basaglia, psicologa figlia dello psichiatra Franco Basaglia e di Franca Ongaro, definisce il ruolo avuto dalla madre nel percorso che ha generato enormi mutamenti nella psichiatria italiana culminato nella cosiddetta Legge 180 o Legge Basaglia. Una Legge che ha, di fatto, portato alla chiusura dei manicomi in Italia, luoghi in cui la malattia e i malati venivano nascosti, dimenticati e non curati. Eppure raramente il nome di Franca Ongaro è stato associato alla rivoluzione che Franco Basaglia ha prodotto nel mondo della psichiatria insieme al suo gruppo di lavoro, di cui faceva parte anche la moglie la cui figura viene messa al centro nel libro “Contro tutti i muri” (Donzelli editore) scritto da Anna Carla Valeriano, studiosa di storia della psichiatria e delle istituzioni totali, che verrà presentato sabato 25 giugno al festival dei Matti di Venezia alla presenza, oltre che dell’autrice, anche di Alberta Basaglia, Maria Teresa Sega, presidente dell’associazione rEsistenze-memoria e storia delle donne in Veneto e Federica Esposito, psicologa e psicoterapeuta dell’Associazione Festival dei Matti.
“Non è mai troppo tardi - spiega al fattoquotidiano.it la figlia di Franco Basaglia e Franca Ongaro attualmente vicepresidente della Fondazione Franco e Franca Basaglia - per far emergere la figura di mia madre che con il suo lavoro vicino a mio padre è stata determinante per arrivare a generare quella rivoluzione nel mondo della psichiatria iniziata da Gorizia (città in cui Franco Basaglia diresse l’ospedale psichiatrico nel 1958 e dove iniziò a mettere in pratica le sue idee rivoluzionarie in termini di cura, ndr) in poi. E tutti i libri e gli studi usciti in quegli anni sono stati il frutto della collaborazione fra mia madre e mio padre. Sono convinta che mia madre abbia dato un apporto importante soprattutto in termini di concretezza del discorso teorico”. Aggiunge Alberta Basaglia: “Il fatto che sia sempre passata come ‘la moglie di’ fa parte di un determinato periodo storico in cui per una donna era ancora molto complicato cercare di mettersi in evidenza ed avere la giusta considerazione in un ambito prettamente maschile”. Eppure, come spiega Anna Carla Valeriano nel libro, il suo approccio sociologico all’interno di un’istituzione totale come l’ospedale psichiatrico di Gorizia, il suo interessarsi alle storie dei pazienti è stato fondamentale per arrivare a comprendere l’origine di molti disturbi psichiatrici, spesso generati proprio dal contesto sociale.
A proposito dei lavori e degli scritti realizzati insieme al marito, vale la pena di citare “Morire di classe”, un libro fotografico del 1969, nel quale gli scatti di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin hanno rivelato all’opinione pubblica quale era la condizione dei malati nei manicomi italiani. Fotografie senza filtri, con malati legati ai letti, con gli sguardi persi nel vuoto e abbandonati a loro stessi. Un vero e proprio pugno nello stomaco che contribuì ad accendere una luce su realtà scomode e che mise in evidenza la necessità di attuare quei cambiamenti necessari e non più procrastinabili che Basaglia con la moglie e il suo gruppo di lavorò iniziò ad attuare, facendoli culminare nella realizzazione della Legge 180. Il libro uscì qualche mese dopo un altro documento molto importante e utile a mettere in evidenza quanto drammatica fosse la situazione nei manicomi italiani, il documentario di Sergio Zavoli “I giardini di Abele” mandato in onda da rai Tv7 nell’autunno del 1968 e girato proprio nell’ospedale psichiatrico di Gorizia diretto da Franco Basaglia che aveva iniziato a trasformare l’ospedale facendolo diventare una comunità terapeutica. “Sono cresciuta in un clima - racconta Alberta Basaglia, che quegli anni, seppur piccola li ha vissuti e se li ricorda - in cui vedevo persone intorno a me lavorare per qualcosa in cui credevano e, visti i nostri tempi attuali, non è facile immaginare tutto questo. Ho il ricordo della presenza contemporanea di mia madre e mio padre inseriti e attivi in questo gruppo di lavoro nel quale era evidente la volontà di cambiare il mondo. La rivoluzione di Basaglia nel mondo psichiatrico italiano è stata pensata e realizzata con un gruppo di persone che hanno lavorato senza sosta affinché questa rivoluzione cambiasse davvero qualcosa”. Dopo la morte di Franco Basaglia, l’impegno di Franca Ongaro per attuare concretamente i cambiamenti previsti dalla Legge 180 è proseguito anche in Parlamento dove venne eletta per due legislature, dal 1983 al 1992, nelle fila del gruppo parlamentare di Sinistra Indipendente. Fra le sue principali battaglie si ricorda quella di fare in modo che la Legge 180, promulgata nel 1978, venisse messa in pratica nei territori. In tal senso ha elaborato due disegni di legge rivelatisi poi fondamentali per creare di Dipartimenti di salute mentale.
*Fonte: Il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2022 (ripresa parziale - senza allegati e note).
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89)..
Federico La Sala
ESTETICA, TECNICA, FILOSOFIA E DEMOCRAZIA: SAPEREAUDE! (Kant, 1784 - M. Foucault, 1984).
Jameson legge Benjamin
di Giorgio Mascitelli *
"Non vorrei essere nei panni del recensore del Dossier Benjamin di Fredric Jameson ( trad.it di Flavia Gasperetti, a cura di Massimo Palma, Treccani, Roma, 2022, euro 26) perché sono tali e tanti gli stimoli che questo libro contiene che renderne conto, anche solo per sommi capi, nel breve spazio di una recensione è fatica improba. Eppure è possibile riassumere in maniera immediata il motivo per cui esso è di grande interesse anche per i non specialisti: infatti, sebbene non abbia senso indicare per un autore così poliedrico e improvviso quale Benjamin un erede spirituale, individuale o collettivo, ma tutt’al più una serie di snodi decisivi che sono stati sviluppati e talvolta pienamente compresi solo nelle epoche successive, bisogna indicare in Jameson colui che ha proseguito lo sviluppo di uno dei nodi più importanti. Alludo alla riflessione sugli stretti rapporti che intercorrono tra forme della cultura e dell’arte e quelle dell’esperienza sociale delle rispettive #contemporaneità, la tarda #modernità per il tedesco e la #postmodernità per lo statunitense, colti in una prospettiva analitica e straniante, che potremmo definire al contempo materialista e inattuale.
Il sintomo più eloquente di questa affinità tra i due è la libertà quasi iconoclasta di giudizio con cui Jameson tratta alcune delle opere più acclamate di Benjamin. Per soffermarsi sul discorso, a parer mio, più importante per un operatore culturale e per un artista del XXI secolo, vale la pena di ricordare il giudizio di Jameson su L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, secondo il quale questo testo non ha un vero oggetto né una tesi centrale, quanto piuttosto ‘una serie di temi il cui centro di gravità non fa che oscillare di sezione in sezione’ ( pp.276-77), addirittura tale saggio andrebbe letto come un seguito della meno nota e più settoriale Breve storia della fotografia.
Alla base di queste oscillazioni starebbero lo stesso concetto di aura, che a parere di Jameson indicherebbe da un lato la bellezza, la pura contemplazione estetica, e dall’altro un’esperienza altamente mobile e completamente individuale, e in particolare il vano tentativo benjaminiano di fissarlo entro una categoria astratta coerente ( p.295). Non che in passato siano mancate le critiche anche autorevoli a questo concetto ( per esempio Adorno o Brecht), ma qui Jameson sembra sottolineare i limiti intrinseci ( e al contempo la sua irrinunciabilità) di un termine che aspirerebbe a tradurre in termini sociologici e percettivi un’esperienza estetica che sembra essere apparentata con la dimensione del sublime. L’aura appare il portato di un’esperienza individuale connessa con il sorgere tra il Seicento e il Settecento, a cominciare dalla Francia, dell’idea del buon gusto estetico, che entrerebbe in crisi con l’apparizione delle possibilità di riproducibilità tecnica dell’opera. Giova ricordare che non è la possibilità tecnica in sé, ma i rapporti di produzione entro cui questa opera che determinano la fine dell’aura. Il gusto, per quanto ragione di vita per alcuni di noi, non è per niente più definibile dell’aura in una maniera astratta entro una dottrina estetica, ma è una singolarità storica del tutto congiunturale. Non è forse un caso che Jameson spenda alcune pagine nel VI capitolo per descrivere il debito di Benjamin verso Riegl, che con il concetto di Kunstwollen ha messo in primo piano la possibilità di un giudizio estetico radicalmente storicistico.
La perdita dell’aura in Benjamin non è connotata come inestimabile, nel senso di una nostalgia alla francofortese di un rapporto di fruizione con l’opera d’arte presentato come ideale e assoluto, nonostante sia a sua volta nato in un momento storicamente dato, ma semplicemente come una trasformazione sia tecnologica sia sociale del rapporto di fruizione, che si incrocia pericolosamente con l’ascesa del fascismo e con la sua tendenza all’estetizzazione della politica. Il limite di Benjamin, secondo Jameson, si deve scorgere nel fatto che lo sforzo di collocare il fenomeno della perdita dell’aura entro quelli che sono i rapporti di produzione della società capitalistica produce un cortocircuito perché questo materialismo rigoroso tende a considerarli in maniera troppo statica, non tenendo conto dell’innovatività della tecnologia anche verso direzioni imprevedibili. ( p.334)
In realtà, secondo lo studioso americano, Benjamin in un altro saggio, L’autore come produttore, individua una nozione di tecnica più interessante: sebbene essa non coincida con la tecnologia, ma piuttosto con le pratiche dell’avanguardia, come per esempio il ready made dadaista, essa avrebbe la funzione rivoluzionaria di far uscire l’autore dal paradosso della letteratura impegnata, la cui forma contrasta con il contenuto di denuncia sociale perché la colloca ancora dentro le istituzioni borghesi. In questo caso la tecnica è l’elemento concreto di rottura e di differenziazione che svolge una funzione positiva. Da qui è possibile cogliere un aspetto centrale e fertile e attuale del pensiero benjaminiano ovvero la distinzione tra il progresso, concetto inutile che consiste nel prospettarsi un futuro a immagine e somiglianza delle proprie illusioni storiche o se si preferisce della propria filosofia della storia, e il nuovo che non è nient’altro che il punto di rottura del presente ‘così travolgente da far svanire qualsiasi vaga idea del futuro come le profezie di un mago’ ( p.330). Per Jameson, insomma, la tecnica così intesa può essere strumento di rottura e dell’esperienza del nuovo.
La lettura di Jameson tende in questo modo, da un lato, a staccare definitivamente Benjamin da qualsiasi critica francofortese all’industria culturale, e successive evoluzioni, per esempio la società dello spettacolo debordiana, e dall’altro nel farlo diventare un teorico dell’avanguardia come pratica rivoluzionaria e non solo meramente estetica. Non spetta a me discutere la pertinenza filologica di una simile lettura ( perdipiù relativa a un autore per cui la frammentarietà è una cifra epistemologica ed estetica del proprio discorso), dico solo che questa lettura mette Benjamin strettamente in contatto, sia come sale sulle ferite sia come caffeina, con le contraddizioni del nostro tempo e a questo livello il testo deve essere discusso.
Jameson individua tre circostanze in cui l’aura risorge nella contemporaneità a dispetto di ogni riproducibilità tecnica, anzi grazie a essa. La prima ha a che fare con quella che l’autore chiama l’Erfahrung televisiva collettiva, in cui in occasione di certi eventi, come nel caso dell’omicidio Kennedy, vi è una partecipazione del pubblico che non può essere ridotta a pura passività; il secondo è il lavoro informatico dei programmatori e degli hacker, che ha una sua dimensione di artigianalità; infine le nuove forme televisive delle serie sembrano favorire una nuova forma di hic et nunc che avrebbe una sua dimensione auratica. Innanzi tutto di queste proposte colpisce che due su tre riguardino ambiti non immediatamente estetici, segno che un’estetizzazione diffusa è ormai trionfante.
Ora, per quanto il senno di poi abbia mostrato che l’equazione benjaminiana tra estetizzazione della politica e fascismo funzioni solo negli anni Trenta, credo, in quanto concittadino di Berlusconi, di essere nelle condizioni di poter affermare che l’estetizzazione diffusa comporti anche in assenza di fascismo qualche problema per la democrazia e la politicizzazione delle masse. E del resto lo stesso Benjamin nei citati anni Trenta si trovò nelle condizioni di dover denunciare il ruolo di Marinetti, che, quanto a maestro di nuove tecniche, non fu certo inferiore ai dadaisti e ai surrealisti.
Se confrontiamo questo approccio jamesoniano con quello situazionista, cioè di quell’avanguardia che più sistematicamente ha coltivato quell’idea, e quella prassi, di stretto rapporto tra attività estetica e rivoluzionaria, ciò che colpisce è che in Debord lo spettacolo, il televisivo e forse il visuale in generale sono momenti del falso, di una forma di alienazione della coscienza umana che viene sottomessa dal feticismo delle merci, di cui lo spettacolo è la forma concreta e percepibile, mentre Jameson, pur consapevole di tutti questi elementi, sottolinea gli effetti imprevedibili di pratiche e tecniche magari nate per quelle finalità che i situazionisti denunciavano. Anzi, riconoscendo che la nozione di spettacolo è in qualche modo erede della riflessione benjaminiana sulla fantasmagoria delle merci ( p.245), Jameson tende ad attribuire un aspetto positivo al visuale in Debord, per cui almeno marginalmente la contemplazione avrebbe un effetto di conoscenza e di azione. Qui forse Jameson non tiene sufficientemente in considerazione che nell’autore francese l’azione è sempre azione di un’avanguardia, politica e artistica, che ha caratteri di superiore consapevolezza teorica. Ciononostante bisogna ammettere che la posizione di Jameson è dialetticamente più dinamica e vitale, ma a patto di riconoscere che l’esperienza del nuovo non è destinata di per sé a produrre nessuna dinamica positiva. Per esempio la forma di fruizione delle serie televisive non sembra affatto aver prodotto nuove forme di consapevolezza, abbiamo al contrario una fruizione che ha favorito nuove forme di conformismo ideologico, sia pure progressista, e nella quale l’hic et nunc si traduce in un senso di appartenenza a un club esclusivo di raffinati spettatori di opere cult, secondo i dettami di quel fenomeno postmoderno che è il camp.
Sembra insomma che la lettura di Jameson, in un’opera peraltro assolutamente importante e densa di stimoli, trovi il suo punto di arrivo in una considerazione delle possibilità dinamiche della tecnica come automaticamente e/o tendenzialmente liberatorie.
Vale allora la pena di ricordare che lo stesso Benjamin dell’Autore come produttore trova la possibilità di una dinamica positiva della tecnica in una presa di coscienza della posizione sociale dell’artista nella società che quindi attua consapevolmente la sua azione artistica. Si tratta cioè di un’azione volontaria o militante, se si preferisce, che può trasformare le situazioni create dalla tecnica in qualcosa di imprevedibile al di fuori delle dinamiche sociali vigenti. In altri termini la questione è quella di non affidare alla tecnica un ruolo salvifico oggettivo, prova ne sia che le tecniche dadaiste e surrealiste hanno avuto un significato rivoluzionario laddove gli artisti che le realizzavano erano legati a un’idea e a un prassi di trasformazione sociale, ma usate per esempio poi nella pubblicità hanno perso ogni significato del genere.
*Fonte: Nazione Indiana, 17 giugno 2022.
Nota:
ESTETICA, TECNICA, E DEMOCRAZIA: “SAPERE AUDE! (Kant, 1784 - M. Foucault, 1984).
UNA BUONA INDICAZIONE PER METTERE IN RAPPORTO SPECIALISTI E NON E, AL CONTEMPO, DARE LA DOVUTA ATTENZIONE CRITICA AL “DOSSIER BENJAMIN di Frederic Jameson”, forse, è accogliere la seguente notazione mascitelliana: “[...] per quanto il senno di poi abbia mostrato che l’equazione benjaminiana tra estetizzazione della politica e fascismo funzioni solo negli anni Trenta, credo, in quanto concittadino di Berlusconi, di essere nelle condizioni di poter affermare che l’estetizzazione diffusa comporti anche in assenza di fascismo qualche problema per la democrazia e la politicizzazione delle masse.” (Giorgio Mascitelli, cit.). E, possibilmente, riprendere a tutti i livelli, la critica del sogno tecnologico della ragione pura!
CINEMA, PLATONISMO, E COSTITUZIONE.
L’occhio di Wenders
di Felice Cimatti (Fata Morgana web, 25 Aprile 2022)
«L’occhio» scriveva Jacques Lacan in un breve testo del 1961 dedicato a Maurice Merleau-Ponty, «è fatto proprio per non vedere» (Lacan 2013, p. 183). L’occhio, ovviamente, vede, tuttavia questo non vuol dire che sia fatto per vedere, nel senso usuale del verbo “vedere”. Il vedere, nella nostra tradizione, è il gesto sovrano attraverso cui il corpo del soggetto percettivo prende possesso del mondo; infatti, nella vista l’umano “abbraccia” con lo sguardo il campo del visibile che si offre a lui in tutta la sua estensione. Così lo spettacolo del mondo è l’oggetto che corrisponde al soggetto che lo contempla. Da notare che la posizione del soggetto dello sguardo è esterna rispetto a ciò che sta osservando, come se occupasse da una posizione privilegiata (secondo il Dizionario online Treccani vedere significa appunto “percepire stimoli esterni per mezzo della funzione visiva”). Chi vede è nel mondo, ma come se, in fondo, non ne facesse parte in senso proprio. C’è il mondo, e c’è chi lo vede, il soggetto.
Questo radicale dualismo produce, tuttavia, un effetto inaspettato, e forse è proprio riferendosi a questo effetto che Lacan può sostenere che l’occhio non è fatto per vedere: siccome l’occhio che guarda non ritiene di fare parte del mondo che sta osservando, ne segue che quello stesso occhio, alla fine, non riesce a partecipare veramente a ciò che vede: quest’occhio sovrano finisce per essere un occhio disattento perché troppo lontano da ciò che sta vedendo. Come dice in un’intervista Wim Wenders: «Senza dubbio l’intorpidimento del pubblico si sta estendendo; e i film diventano sempre meno “visibili”, per così dire. Non è un caso che l’ironia o le sottigliezze siano merce sempre più rara. E questo deriva dalla sazietà, dalla mole delle immagini riversate sul pubblico, dal fatto che ascoltando e guardando troppo, tutte le nostre impressioni vengono eccitate al massimo. Ogni genere di complessità, di diversità viene spazzato via» (Wenders 2022, p. 30).
Per vedere la complessità serve tempo, attenzione, pazienza, soprattutto vicinanza. Qualità che l’occhio sovrano non si può permettere, ché anzi può dirsi sovrano solo se rifiuta ogni vicinanza con ciò che sta vedendo. In questo senso il vedere in senso proprio, il vedere tattile, ravvicinato, che si “sporca” con il visibile, è al contrario un vedere che si lascia trasformare da ciò che vede. Si tratta di un vedere che non sa già in anticipo che cosa è che si sta vedendo, un vedere, cioè, che è tanto più libero quanto più è disposto a rinunciare alla posizione esterna e sovrana che, invece, qualifica il vedere che si colloca fuori del visibile. Il cinema, per Wenders, è appunto questo esperimento in cui qualcosa si offre alla vita, ma senza predeterminare che cos’è che si sta offrendo alla vista:
Si tratta di offrire qualcosa alla vista dello spettatore, evitando però che quanto si offre sia così saturo di “visibile” - così pieno di immagini, di sequenze visive, di potenza immaginaria - da impedire, paradossalmente, di vederlo. Il cineasta, per Wenders, lavora con il visibile, ma non per guidare lo sguardo dello spettatore, al contrario, per liberarlo dall’illusione della visione sovrana, piena di sé, lontana e supponente. La posta in gioco è liberare lo sguardo. O, per usare ancora la curiosa formula lacaniana, per liberarlo dalla credenza che l’occhio sia fatto per vedere. È per questa ragione che per Wenders il cinema è così legato alla contingenza, perché il bisogno di evitare la «manipolazione» non vale solo nei confronti dello spettatore, ma anche del regista rispetto al “proprio” stesso film: «Ogni giorno, mi trovo con la macchina da presa in un luogo determinato che mi dà qualcosa, sono profondamente legato, anche esposto, a una realtà che mi nutre. C’è sempre un paesaggio, oggetti, uccelli che volano attraversando il campo di ripresa, c’è qualcuno dietro la macchina da presa, ci sono colori e forme, c’è sempre una realtà presente» (ivi, pp. 57-58). In questo senso il vedere non sovrano, distaccato e dualistico, è un vedere tattile, sempre esposto all’urto imprevedibile con un evento fortuito: «Un paesaggio, oggetti, uccelli che volano attraversando il campo di ripresa».
L’occhio, per Wenders, vede solo se tocca ed è toccato. Solo se, per così dire, si lascia sporcare dal visibile. Allo stesso tempo questo vedere tattile, da scultore più che da pittore, richiede un continuo esercizio di allontanamento dal rischio di assumere una posizione definitiva sul mondo: se il soggetto sovrano è fuori dal mondo, il vedere alla Wenders è un vedere mobile, vagabondo, irrequieto, perché il visibile è sempre più ricco del nostro bisogno di fissarlo in un’immagine, per quanto splendida e definitiva:
Per «poter vedere» occorre allontanarsi dal visibile, ma anche ritornarci. Si tratta di un vedere che riesce propriamente a vedere solo nel movimento fra queste due posizioni, solo oscillando fra partire e tornare, così come una mano, per esplorare un oggetto, lo deve percorrere in tutte le dimensioni. Wenders, così, può rimanere fedele all’esigenza fondamentale di non manipolare lo sguardo dello spettatore solo “costringendolo” (ed è curioso, perché anche questa è una forma di manipolazione) a non fermarsi su un’immagine, solo facendolo “viaggiare” fra le immagini. Si tratta sempre della stessa operazione, rinunciare alla posizione sovrana dello sguardo, rinunciare al proprio potere di tirarsi fuori dal mondo. Si tratta di stare nel mondo, raccontandolo attraverso le immagini. Si tratta, in sostanza, di mettere in movimento le cose, cioè, appunto, liberarle dalla fissità a cui lo sguardo sovrano le costringe:
«Come fare per mettere in movimento le cose?», è questa la domanda fondamentale, e non solo per il cinema di Wenders. Una domanda del tutto analoga a quest’altra: come fare per tornare a vedere il mondo? E quindi, rovesciandola? Che posizione deve assumere il soggetto dello sguardo sovrano perché il mondo possa farsi vedere? In effetti, come dice Wenders, «le città hanno reso invisibile la terra» (ivi, p. 136), ossia, il nostro modo di vedere il mondo come se fosse il nostro mondo, cioè come nient’altro che l’oggetto della nostra sovrana potenza visiva, ha finito per rendere invisibile la terra. Si tratta di invertire questo movimento, restituire la visibilità al mondo, e quindi destituire la posizione privilegiata dello sguardo umano sul mondo:
Torniamo, allora, alla paradossale affermazione di Lacan, di un occhio che non è fatto per vedere, al contrario, di un occhio che deve lasciare al mondo la possibilità di farsi vedere e, soprattutto, di un occhio che si destituisce affinché sia il mondo stesso a vedere. Lo sguardo sovrano vede cose, vede e costruisce oggetti: l’occhio di Wenders, invece, cerca - facendo muovere le cose - di immaginare il movimento contrario; così, parlando ad un congresso di architetti, li esorta a «creare spazi liberi per conservare il vuoto, affinché la sovrabbondanza non ci accechi, e il vuoto giovi al nostro ristoro» (ivi, p. 137). Vedere il vuoto, cioè vedere il vuoto non come assenza di qualcosa, bensì vedere il vuoto come presenza, come pienezza di mondo e di vita: «Per me, vedere significa sempre immergersi nel mondo; pensare, invece, prenderne le distanze» (ivi, p. 72). A che il mondo sia, a questo serve l’occhio. "L’atto di vedere" di Wim Wenders
NOTA:
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PSICOANALISI: LACAN INTERPRETA "KANT CON SADE" E SI AUTO-INTERPRETA CON "L’ORIGINE DEL MONDO" DI COURBET. Due note
"PERVERSIONI". UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LA’ DELL’EDIPO.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
ARITMETICA, CIELO STELLATO, E ANTROPOLOGIA. IL PROBLEMA DELL’UNO...
CERCARE DI NON DARE I NUMERI E IMPARARE A CONTARSI E A CONTARE: UNA POESIA DI TRILUSSA...
I NUMMERI
Conterò poco, è vero:
- diceva l’Uno ar Zero -
ma tu che vali! Gnente: proprio gnente!
Sia ne l’azzione come ner pensiero
Rimani un coso voto e incorcrudente.
Io invece se me metto a capofila
De cinque zeri tale e quale a te,
lo sai quanto divento? Centomila.
E’ questione de nummeri. A un dipresso
è quello che succede ar dittatore
che cresce de potenza e de valore
più so’ li zeri che je vanno appresso
TRILUSSA (Poesie scelte, Mondadori).
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IL PROBLEMA DELL’UNO. UNA DOMANDA AI MATEMATICI: COME MAI "UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia)?! Non è il caso di ripensare i fondamenti?!
Federico La Sala
Dialoghi con la Chimera /1:
MARIA TERESA CARBONE, MADRE/FIGLIO.
A cura di Laura Pugno (Le parole e le cose, 1 Marzo 2022)
Per la verità non so se c’è una storia da raccontare. O forse ce ne sono così tante che non riesco a vederle, smarrita come sono in una foresta di possibilità, anzi in un territorio selvaggio, per citare il titolo del tuo libro sulla poesia come “terzo paesaggio”. Non meno selvaggio, questo territorio - anzi di più - perché è il mio. E allora forse posso cominciare a risponderti con una poesia che ho scritto qualche mese fa:
Che mentre penso
alle persiane rotte e a te che parti
e che penso che sono
me fino in fondo
un’altra me a me inattingibile
mi spinge verso il bagno
che è questa me che regna
sui miei bisogni
sulla vita nuda
che la me a me nota
riveste di pensieri e di intenzioni
Come vedi, qui non c’è la maternità, ma lo spaesamento di fronte a quanto di noi non conosciamo. In fondo, a dispetto delle nostre convinzioni, sappiamo pochissimo di quello che siamo, microscopici puntolini in un universo sconfinato.
E allora, non parto da me, ma dalla parola chimera che deriva dal greco (χίμαιρα) dove inizialmente significava “capra”, anche se molto presto la gentile capretta delle fiabe si è mutata in mostro, testa di leone e coda di drago, “sbuffante terribile fuoco ardente”, come dice Omero. Già in origine, un elemento familiare pronto a trasformarsi e ad atterrirci.
Ti porto due esempi molto contemporanei. Il primo l’ho trovato per caso, cercando l’etimologia del termine “chimera”: nel sito Una parola al giorno, in data 15 febbraio 2012, giusto dieci anni fa, l’anonimo redattore per definire appunto una chimera evocava “la terrifica pandemia annunciata di una qualche influenza animale con zerovirgola casi accertati” - il che, letto oggi, fa una certa impressione. Il secondo è cronaca dei nostri giorni, il recente trapianto del cuore di un maiale in un corpo umano, un intervento che ha prevedibilmente e giustamente aperto un interrogativo cui è difficile rispondere: alleveremo suini (animali cui viene riconosciuta notevole intelligenza, qualsiasi cosa si intenda per “intelligenza”) pur di garantire la sopravvivenza di esseri appartenenti alla nostra specie?
Vedi, il punto per me è che noi stessi - intendo noi umani, ma vale per gli altri animali e le piante e tutto ciò che è vivo - siamo chimere da sempre, frutti di una quantità di incroci avvenuti in ogni fase della nostra storia, ben prima che fossimo o pretendessimo di essere in grado di padroneggiare queste ibridazioni. E torno alla tua domanda, premettendo che le mie conoscenze scientifiche sono limitatissime e quando parlo della “combinazione madre figlio”, come dici tu, mi baso più su sensazioni e sentimenti che su dati certi.
Chiarisco però che lo spunto che aveva dato origine al nostro dialogo, e quindi a questa conversazione, era un’altra scoperta relativamente recente: la presenza di dna maschile nel corpo, e specificamente nel cervello, di donne anche in età molto avanzata che avevano avuto figli maschi - questo è appunto il microchimerismo, e aggiungo per completezza che se ne sono registrati esempi anche in donne che non hanno partorito e che hanno probabilmente acquisito queste cellule allo stato fetale, da gemelli poi riassorbiti dentro di loro. (Spero, se ci saranno studiosi di queste materie fra i lettori di quanto scrivo, che perdoneranno il mio pressapochismo).
Della maternità ho diretta esperienza, e inoltre - come sai - è un argomento che sto studiando nella speranza di affrontarlo in modo non “ideologico” (sarà possibile?), ma forse proprio per questo la osservo con la meraviglia che si prova davanti a un mistero, e quindi senza sorprendermi all’idea che delle cellule dei miei figli - due maschi e una femmina - siano incistate dentro di me a più di trent’anni dalla loro nascita. Perché dovrei stupirmi? Se pure in me c’è qualcosa di “non mio”, cioè di non mio alla nascita, questo “non mio” io non lo conosco, né posso o voglio distinguerlo dal “mio” (“mio” geneticamente e “mio” acquisito dal momento in cui esisto) che, ripeto quello che ho detto all’inizio, mi è altrettanto opaco. Tutt’al più posso rallegrarmi al pensiero che nella continua costruzione di quella persona che io chiamo io, non si ritrovino solo tracce dei miei bisnonni o dei cinodonti del Permiano ma anche particelle del futuro, nella forma del dna dei miei figli, maschi o femmine che siano.
Per quanto ci sforziamo di analizzarci (e ricordiamo, a proposito di etimologie, che “analisi” vuol dire “scomposizione”), sono convinta che il tutto, un tutto in continuo divenire, prevale sulle parti, e questo tutto ci sfugge: ci sono sempre zone in ombra, che non vogliamo vedere, che non sappiamo vedere. Una ignoranza, almeno per me, stupenda e salvifica, perché da un lato ci spinge a conoscere di più, a capire meglio, dall’altro ci nasconde quanto siamo piccoli, irrilevanti, caduchi nella nostra individualità, e dunque ci permette di andare avanti, di vivere.
Sarà un caso allora (e torno a parlare non troppo obliquamente di maternità) che oggi che siamo o ci illudiamo di essere meno ignoranti, il tasso di natalità stia calando - in certi casi crollando - ovunque? Certo, le ragioni sono diverse, e alcune sono molto semplici, concrete, in primo luogo politiche sociali insufficienti, che lasciano i giovani genitori quasi soli a destreggiarsi fra lavori molto spesso precari, e per questo ancora più impegnativi, e la necessaria attenzione alla crescita dei loro figli. Ma mi pare che ci sia una tela di fondo, che il nostro (credere di) sapere di più, mettendoci di fronte ai nostri limiti, ci terrorizzi.
Appartenendo alla generazione di donne che ha affermato “l’utero è mio e lo gestisco io”, oggi mi trovo a ripensare a quella frase, che pure continuo a condividere, da un’altra prospettiva: fino a che punto ognuno e ognuna di noi può dire di possedere il proprio corpo, se smettiamo di vederci come individui e ci pensiamo come appartenenti a una specie?
Oggi si parla tanto delle responsabilità che abbiamo verso chi verrà dopo di noi ed è giusto, giustissimo, ma ho la sensazione che questa responsabilità ci sia troppo gravosa, proprio quando, e forse non è una coincidenza, possiamo (illuderci di) scegliere se/come/quando avere figli.
Ora che i bambini non li portano più le cicogne, non si trovano più sotto i cavoli, che spavento! Tocca a noi decidere e pensa un po’, in un mondo che va malissimo (non che prima andasse alla grande, ma ci facevamo meno illusioni).
Forse la chimera, e quindi la storia, è questa: fino a quando gli umani (parlo soprattutto da donna) saranno disposti ad accogliere quell’assoluto inatteso che è un figlio, una figlia, ibridi come noi eppure già diversi e lontani, come noi proiettati verso una fine che non conosciamo?
Unisco queste due domande, perché davanti alle parole totem e daimon confesso che dovrei costruirmi alla svelta strumenti di cui non dispongo. Ne conosco superficialmente il significato, ma non le uso, non mi appartengono. Ho avuto invece un’educazione cattolica più approfondita di quanto capitasse, anche quando ero bambina, alle mie coetanee e ai miei coetanei. E anche se dalla religione mi sono discostata tanti anni fa, è ancora quella educazione a determinare in larga parte il mio vocabolario, il mio modo di pensare. Per questo, se rifletto sul tempo (mi pare questo, in sostanza, il senso delle tue domande), non posso non fare riferimento a una frase che, da quando l’ho sentita la prima volta, avrò avuto sette o otto anni, continua a risuonare in me: “Prima che Abramo fosse, io sono” (Giovanni, 8:51-59): l’indicativo presente come rappresentazione dell’eterno dove, come su un unico piano, si trova tutto quello che (nella nostra percezione) è stato e sarà.
Se, come ha detto Werner Herzog in Cave of forgotten dreams, a un certo punto della nostra storia “noi umani siamo diventati prigionieri del tempo” (un’altra frase a cui non so rinunciare), vorrei pensare che di tanto in tanto possiamo liberarci da questa schiavitù e riusciamo ad avere accesso a quell’altra dimensione, magari senza rendercene conto, mentre ci abbandoniamo al sonno, mentre sogniamo. Chimere, forse.
DISUGUAGLIANZA, INTOLLERANZA, E PACE PERPETUA...
FINE DELLA STORIA: NON COMPRESA LA LEZIONE DI DANTE ALIGHIERI SUI DUE SOLI E DI GIORDANO BRUNO (17 febbraio1600) SULLE TRE CORONE, DUE CORONE IN TERRA E UNA IN CIELO (“Ultima coelo manet)”, SI VA ANCORA AVANTI CON LE REGOLE DEL GIOCO DELLE TRE CARTE (questa è quella che vince, questa quella che perde, ecc...) e l’espulsione (lo spaccio) dal campo da gioco della BESTIA TRIONFANTE continua ad essere rinviata... USCIRE DAL LETARGO. La Regola, il Logos, non è un "Logo"!
CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA COSMOTEANDRIA. Non sapendo affrontare e non volendo risolvere il problema di Jean Jacques Rousseau (Discorso sull’origine della disuguaglianza: "Il primo uomo che, avendo recinto un terreno, ebbe l’idea di proclamare questo è mio, e trovò altri cosí ingenui da credergli, costui è stato il vero fondatore della società civile") come quello di Sigmund Freud (Il disagio della civiltà: "Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comuni tà critiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori"), non ci resta che lavorare ... "PER LA PACEPERPETUA" (KANT, 1795)!!!
FLS
PSICOANALISI COSMOLOGIA E CIVILTA’: IL SOGNO, IL DESIDERIO, E LA NASCITA. Tracce per una svolta_antropologica...
Qui Bollas, mi sembra che semplifichi troppo e non tenga affatto conto dell’ombelico del sogno: ma tutto il programma di Freud non è proprio quello di dare "la dovuta attenzione alla pulsione profonda che muove l’Io [:] la pulsione a rappresentare il Sé" (C. Bollas), uscire dal gorgo claustrofilico e ad aprire glio cchi?
A mio parere, a questo punto del cammino della ricerca aperta da Freud, forse, è il caso di tornare indietro con lo stesso Bollas e rianalizzare il famoso gioco del bambino con il rocchetto (Freud, "Al di là del principio di piacere", 1920), che tocca questo problema nel profondo e rende possibile capire dove porta il "desiderio umano di rappresentare", dove nasce e dove porta "la pulsione profonda che muove l’Io [...] il principio di piacere della rappresentazione spinge il Sé a comunicare con l’altro, e parte di tale azione complessa è l’investimento inconscio del Sé nella ricerca della propria verità"(Christopher Bollas).
"IL BAMBINO DALLE UOVA D’ORO" (Elvio Fachinelli, 1974). Su questa strada è possibile dare a Freud ciò che è di Freud, a Bollas ciò che è di Bollas, e a Fachinelli ciò che è di Fachinelli.
"Essere giusti con Freud". come ha scritto Jacques Derrida, non è cosi semplice...
A mio parere, ripeto, Christofer Bollas non ha ancora ben pensato e pesato dal punto di vista teorico dell’antropologia e della storia (non solo della geografia) la presenza dello stesso Sigmund Freud a Londra (1938): la questione tocca il problema della nascita, di Mosè, e del Sè!
Detto in altro modo, e per via telegrafica e bibliografica, solo così si riesce a comprendere cosa dice "La frecciaferma", con i suoi "tre tentativi di annullare il tempo" (Elvio Fachinelli, 1979), la "claustrofilia", il "saggio sull’orologio telepatico in psicoanalisi" (Elvio Fachinelli, 1983) e, infine, "La mente estatica" (Elvio Fachinelli, 1989).
UN’ALBA STUPENDA. PARTENDO "DAL LUOGO DELLE ORIGINI" (Donald W. Winnicott, 1986) DEL GENERE UMANO... FINALMENTE LA TERRA E’ DAVANTI A OGNI ESSERE UMANO E IL SORGERE DELLA TERRA MANIFESTA TUTTO IL SUO BRILLANTE SPLENDORE.
COSTITUZIONE, ANTROPOLOGIA, E CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA:
DANTE ALIGHIERI, WILLIAM SHAKESPEARE, E JOHN MAYNARD KEYNES.
La questione dei due soli e "il nostro problema economico"...
ANTROPOLOGIA, TEOLOGIA, ECONOMIA, E FILOLOGIA: "HOMO HOMINI DEUS EST"!
IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS (NON UN LOGO): DEUS CHARITAS EST (NON "DEUS CARITAS EST")!
IL "NOSTRO" PROBLEMA DI MAMMONA. Non potete servire a Dio (charitas - amore e giustizia) e a mammona (caritas - denaro e ricchezza):
24 Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona. 25 Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? 26 Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? 27 E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? 28 E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. 29 Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30 Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? 31 Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? 32 Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. 33 Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34 Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena.
Federico La Sala
CINEMA, FILOSOFIA E ANTROPOLOGIA
IL SORGERE DELLA TERRA E "IL GRANDE PASSO" DELL’UmaNITÀ.
Una lezione della regista Cristina Comencini ... *
Quirinale, l’ironico appello di Cristina Comencini: "Noi donne cediamo il passo: ora un uomo alla presidenza della Repubblica"
La provocazione della regista sulla prossime elezione del nuovo capo dello Stato: "Bisogna dire che siamo state generose e abbiamo già ceduto a qualche singolo rappresentante del genere maschile delle responsabilità ma ora è il momento di fare il grande passo"
di Cristina Comencini (la Republica, 16 Gennaio 2022)
"Le donne italiane chiedono a gran voce finalmente un presidente della Repubblica uomo. Dall’alto della loro secolare esperienza al potere le donne dicono che è l’ora di cedere il passo agli uomini almeno per un tentativo, per una prima volta. Se l’esperienza deluderà, li si escluderà ancora per qualche decennio dalla carica, finché si saranno dimostrati pronti a esercitare con soddisfazione la più alta responsabilità dello Stato. Bisogna dire che siamo state generose e abbiamo già ceduto a qualche singolo rappresentante del genere maschile delle responsabilità ma ora è il momento di fare il grande passo. Ma non abbiate paura, non diamo loro una fiducia cieca, un mandato senza condizioni. Poniamo invece delle caratteristiche e dei valori precisi che non siamo ancora certe siano caratteristiche del loro genere".
"Prima di tutto una grande e estesa cultura, avere esperienza della politica ma anche competenze giuridiche e costituzionali, avere conquistato una stima e un apprezzamento ampio ben oltre i confini di un’area politica, essere in una rete di relazioni pubbliche ma anche nella società civile, avere capacità di mediazione e di pacatezza. Insomma saranno considerati solo i molto meritevoli e non saranno accettati perché uomini ma perché avranno dimostrato di essere eccellenti. D’altronde non cediamo volentieri il potere esercitato per tanto tempo a chiunque, ma siamo obbligate almeno a proporlo, è un fatto di civiltà, non si può aspettare ancora. Siamo d’accordo, in via di principio, che un uomo prenda il posto di una donna, ma intendiamoci non è obbligatorio. Noi siamo talmente forti ed esperte che sarà difficile trovare un uomo all’altezza. Siamo legate una all’altra in un patto d’acciaio consolidato nei secoli. Ma intanto nessuno potrà rimproverarci di non averlo dichiarato, di non essere al passo con i tempi. Allora diciamolo senza paura, tanto non succederà: un uomo alla presidenza della Repubblica. Bisogna guardare il rovescio per capire il dritto".
* IL SORGERE DELLA TERRA E "IL GRANDE PASSO" DELL’UmaNITÀ. Una lezione della regista Cristina Comencini...
Brillante sollecitazione ...
BENE, BENE! “Bisogna guardare il #rovescio per capire il #dritto" - e il DIRITTO. La COSTITUZIONE e l’antropologia, non l’andrologia!
...UN FATTO DI CIVILTÀ. Che si cominci: si tratta di riequilibrare antropo-logica-mente la bilancia stessa dell’esistenza e uscire dall’orizzonte tragico della cosmoteandria - come da indicazioni di Dante 2021 (e da Virgilio-Freud: dall’ Acheronta Movebo, fin nel più alto dei cieli).
EARTHRISE (24 dicembre 1968). Che si sappia e si abbia, finalmente, la visione del Sorgere della Terra...
Che l’Italia viva!
#COSMOTEANDRIA E #ANTROPOLOGIA.
L’#autodeterminazione, la #libertà
di disporre di sé,
è
dell’#uomo come della #donna,
ma l’#Europa pensa come se vivesse
in una #terra piatta, nel suo #mare nostrum.
Non ha ancora visto il #Sorgere della Terra?!
SPINOZA, UN FIGLIO DEL "DEUS", NON UN FIGLIO DEL "LUPUS", (A FIANCO DI KANT, NON DI HEGEL). *
Questioni teoretiche
Cantiere Spinoza
di Maurizio Morini (Ritiri Filosofici, 16 Gennaio 2022)
Così come per qualsiasi altra occupazione, anche in filosofia sono necessari strumenti adeguati per fare bene il proprio lavoro, tali soprattutto da superare le difficoltà che presto o tardi sempre si dovranno affrontare. In questo senso uno dei suoi strumenti principali è il concetto di definizione, stabilire il quale non è neutrale ed implica delle conseguenze decisive. Chi delle definizioni ha fatto l’essenza del proprio filosofare è stato Spinoza il quale ha costruito l’intero suo edificio proprio grazie al metodo geometrico. Molti però, tra gli stessi filosofi, ne hanno dichiarato l’inutilità o addirittura l’artificiosità. Adorno nelle sue lezioni confessava che, di fronte alle definizioni del filosofo olandese, si trovava «del tutto disorientato, come la mucca di fronte alla porta nuova». Il filosofo della Dialettica dell’Illuminismo finiva poi per dichiarare che in filosofia ci sono dei concetti che non sono passibili di definizione con la conseguenza che la sua ricerca era inutile. Adorno si rifaceva esplicitamente a Kant il quale aveva sostenuto a sua volta una ben precisa critica della definizione così come utilizzata in filosofia. Solo al termine delle sue lezioni, guardando ai risultati della filosofia contemporanea, Adorno (in maniera onesta) sembra spezzare una lancia a favore della definizione e addirittura ritirare la propria tesi.
La definizione in Aristotele e in Kant
Da un punto di vista etimologico, la parola definizione è composta dalla preposizione de e dal nome finis: discorso sul limite. La definizione quindi indica i confini entro i quali è racchiusa l’essenza o il concetto di qualche cosa. Essa pertanto deve cogliere gli aspetti comuni o differenziali di una certa cosa: in altre parole, la definizione si intende secondo il genere e la differenza specifica. Questa impostazione risale ad Aristotele il quale affermava che c’è definizione solo quando il termine significa qualcosa di primario, ovvero quando si parla di cose che non possono essere predicate di altre. Il genere è il primo elemento della definizione (dove per genere si intende il complesso di caratteri di un certo tipo riuniti sotto un certo nome); la differenza specifica invece, ciò invece che caratterizza la cosa che si intende definire rispetto a tutte le altre.
Kant, nella Dottrina trascendentale del metodo, assume un’altra prospettiva, per comprendere la quale è necessario distinguere due usi della ragione: il primo riguarda l’uso della ragione in base a concetti; il secondo l’uso della ragione in base alla costruzione di concetti. Al primo uso viene dato il nome di filosofia; al secondo il nome di matematica. In quest’ultima i concetti sono già determinati a priori dall’intuizione pura, senza che via sia necessario alcun dato empirico; la filosofia invece non può prescindere dall’esperienza in quanto essa sta a fondamento dei concetti. Posto ciò, Kant conclude che la fondatezza della matematica poggia su definizioni, assiomi e dimostrazioni, nei confronti dei quali la filosofia deve fare a meno («come il geometra, usando il suo metodo nella filosofia, non può costruire che castelli in aria, così il filosofo, applicando il proprio nella matematica, non dia luogo che a chiacchiere»). Kant sostiene che in filosofia la definizione non può essere utilizzata proprio perché i concetti empirici, più che essere definiti, andrebbero resi espliciti, chiariti, dichiarati (tutti termini che in tedesco fanno riferimento al termine Aufkärung). Sono fuori strada quindi tutti coloro che utilizzano termini come sostanza, causa, diritto: in altre parole una vera e propria stroncatura della filosofia di Spinoza.
La definizione in Spinoza
Cosa diceva Spinoza in merito? «Se si deve conoscere una cosa attraverso la definizione costituita da genere e differenza - scrive nel Breve Trattato - non possiamo mai perfettamente conoscere il genere supremo, che non ha alcun genere sopra di sé» (KV, I, 9). Piuttosto, bisogna seguire la vera logica, ovvero la divisione della natura in natura naturans e natura naturata.
Ma è in una corrispondenza epistolare, quella intrattenuta con un giovane mercante di Amsterdam, Simone De Vries, che Spinoza chiarisce meglio il suo pensiero. Chiesto su che cosa dovesse intendersi per definizione, egli rispondeva che bisogna distinguere la definizione della cosa in senso reale, in quanto fuori dall’intelletto, e la definizione della cosa in quanto è concepita in senso nominale. Alla prima si chiede di essere vera in quanto ha un oggetto determinato; la seconda si propone invece al solo scopo di ricerca. In altre parole: il primo genere di definizione deve essere necessariamente vero in quanto, se io ad esempio voglio definire l’essenza del tempio di Salomone, devo stabilire una descrizione esatta della cosa (altrimenti si ha una cattiva definizione). Il secondo tipo di definizione implica invece che si esplichi la sua progettualità, non importa che essa sia vera o no: in questo caso la definizione o si concepisce oppure non si concepisce. Chiariamo con un esempio: un conto che io debba definire l’orologio a parete che ho di fronte a me; un’altra è che io debba definire un orologio a parete che devo ancora costruire, in cui ciò che importa è che la sua costruzione non sia autocontraddittoria, tale cioè da renderlo inservibile allo scopo.
Il problema, insiste Spinoza, consiste nel fatto che la definizione tradizionale (quella aristotelica, che distingue genere e differenza specifica) riposa essenzialmente sull’esperienza, la quale però «non ci dà alcuna essenza delle cose», sicché noi dell’esperienza non abbiamo mai bisogno per la definizione. Infatti - si potrebbe dire - come si potrebbe definire una cosa soggetta al continuo divenire? Lo potremmo fare solo fingendo, per esigenze legate a questioni pratiche, come quello di intendersi su ciò di cui si sta discutendo. La prospettiva dunque sembra avvicinarsi a quella kantiana per poi però allontanarsi in modo radicale: se il tedesco sosteneva che l’esperienza è l’unico campo della filosofia (e per questo rinunciava alla definizione), l’olandese sosteneva che, proprio perchè l’esperienza non era l’unico campo della filosofia, la definizione era essenziale.
Un sistema aperto non una cattedrale di ghiaccio
Se il dialogo tra Spinoza e il suo giovane amico non può essere considerato un dialogo tra sordi, non si può non riconoscere però che i due parlano linguaggi diversi. Da esso si ricavano alcune impressioni (vedi le lettere 8, 9 e 10 dell’epistolario), soprattutto in merito all’oggetto della loro discussione, cioè le proposizioni dell’Etica.
La prima è che l’intero dialogo sulla definizione (tema piuttosto acceso nel circolo spinoziano, come ammette De Vries) è fondato sull’intelletto come strumento per accedere alla verità: cosa che oggi è talmente lontana dalla nostra sensibilità filosofica che facciamo difficoltà a seguirlo e a comprenderlo pienamente.
La seconda impressione è che, contro la retorica del “cristallo” e della “cattedrale di ghiaccio”, il sistema di Spinoza (riassunto nell’Etica) si rivela essere un cantiere aperto in cui, oltre alla scelta dei materiali, rimane determinante la capacità di costruire dei costruttori.
Questo conduce ad una terza domanda (da cui nasce l’impressione): le definizioni dell’Etica sono definizioni reali oppure definizioni nominali? Qui l’impressione è che Spinoza mescoli le carte, alternando le une alle altre senza un indice preordinato e dove la risposta sembra lasciata all’intelligenza del lettore, il quale è invitato a prendere parte alla costruzione. Diceva Wolfson che «l’Etica non è una comunicazione al mondo; è la comunicazione di Spinoza con se stesso». Questo non significa che le sue definizioni siano lasciate al relativismo delle interpretazioni o peggio al solipsismo. Tutt’altro: ciò significa che ogni definizione impegna il lettore nella forza del ragionamento, perché solo questo può mostrare la verità o la falsità di un asserto. Nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto Spinoza scrive: «ho dimostrato e ancora tendo a dimostrare il buon ragionamento, ragionando bene».
CANTIERE SPINOZA. ETICA, MATEMATICA, E CRITICA DELLA DIALETTICA...
Se è vero, come è vero, che l’Etica di Spinoza è “un sistema aperto non una cattedrale di ghiaccio” e che è necessario sciogliere l’enigma se “le definizioni dell’Etica sono definizioni reali oppure definizioni nominali” (M. Morini, "Cantiere Spinoza", Ritiri Filosofici, 16.01.2022), non si può ricadere nella stesso passo falso dell’analisi del “Discorso del Re” (M. Morini), e portare l’acqua al mulino non di “Amleto” (Shakespeare), ma a quello di Hobbes!
Una interpretazioni riduttiva della “Critica della Ragion pura” e della concezione kantiana della “definizione”, dalla sez. della “Dottrina trascendentale del metodo”, riconduce direttamente e di nuovo il discorso sotto il “principio di Hobbes” (e nell’orizzonte di Hegel e di T. W. Adorno), nell’orizzonte del “Leviatano” (e, al contempo, della dialettica di Hegel e della “dialettica dell’illuminismo” di Adorno), “secondo cui le azioni del sovrano non possono mai essere accusate di ingiustizia dai sudditi e il sovrano non può né essere messo a morte né essere punito dai suoi sudditi” (M. Morini, “ [1]”, Ritiri Filosofici, 02.01.2022).
“HOMO HOMINI LUPUS EST”?! Pur condividendo l’impressione “che Spinoza mescoli le carte, alternando le une alle altre senza un indice preordinato e dove la risposta sembra lasciata all’intelligenza del lettore, il quale è invitato a prendere parte alla costruzione” (M. Morini, cit.), è assolutamente non condisibile una conclusione dell’analisi accogliendo la dichiarazione del “Figlio del Lupo” (“Wolf-son”) e dire davvero con Wolfson che «l’Etica non è una comunicazione al mondo; è la comunicazione di Spinoza con se stesso»! E’ posssibile asservire la “filosofia” (nel senso di Kant) di Spinoza al calcolo e alla matematica di Platone, di Cartesio, di Hobbes, ed Hegel, e dire che questo “significa che ogni definizione impegna il lettore nella forza del ragionamento, perché solo questo può mostrare la verità o la falsità di un asserto” (M. Morini, cit.)?!
Non è il caso di riprendere il discorso dalla figura del “capo”, dal “discorso del re”, e rimeditare la “filosofia” e la “matematica” di Kant?! Se no, come è possibile distinguere tra “essere e non essere”, definire, ragionare e, al contempo, decidere sul “che fare?”, qui ed ora?! Non è meglio uscire dall’inferno della “fenomenologia dello spirito” di Hegel e, con Dante e Virgilio, uscire dalla caverna (Inf. XXXIV, v. 90) e ammirare il “cielo stellato” di Koenigsberg?
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA E PSICOANALISI. LA CRISI DELLE SCIENZE: ENZO PACI, "AUT AUT", E L’ENIGMA DEL SOGGETTO. *
Quel gesto fenomenologico che ha fatto cultura
di Pier Aldo Rovatti *
Se mi chiedessero di dire in una battuta che cosa ha prodotto il settantennio di vita della rivista “aut aut”, messa al mondo nel 1951 dal filosofo Enzo Paci e oggi tutt’altro che estinta, risponderei senza esitazione: “il gesto fenomenologico”.
A tale atteggiamento o pratica di pensiero è stato dedicato anche il fascicolo della rivista attualmente in circolazione, in cui si guarda tanto al lunghissimo passato quanto a un futuro ancora da realizzare: sì, perché siamo ancora lontani dall’avere ben compreso questo gesto e dall’essere riusciti a metterlo in atto.
Di cosa si tratta? È un tentativo di dar corpo alla parola “critica”, forse più facile da collegare a quella cultura che voleva prendere distanza dai dogmatismi e dagli ideologismi del ventennio fascista di quanto sia riconoscibile oggi in una situazione nella quale tutti ci riempiamo la bocca di un’idea di democrazia alquanto superficiale e di tanti propositi culturali che spesso risultano vuoti e dai piedi di argilla. Parliamo infatti di pensiero critico, di responsabilità e di etica pubblica, ma non sembra proprio che riusciamo a dare troppo peso a quello che diciamo, come se dalla bocca di molti intellettuali uscisse soltanto un esile vapore, un flatus vocis che si disperde subito nell’aria.
Il gesto fenomenologico avrebbe invece la pretesa di tenere i piedi ben piantati sulla terra e di non consumarsi subito in una vacua cortina fumogena, come capita alla gran parte dei prodotti dell’attuale mondo della comunicazione, frettolosi e dunque superficiali. Questo gesto è invece qualcosa che ci coinvolge integralmente: non un semplice pensiero, qualcosa che ci passa per la testa e che comunque si riduce all’ambito del mentale, al contrario riguarda la nostra intera soggettività. È un atteggiamento “concreto” che concentra l’insieme delle nostre facoltà e ci mette completamente in gioco.
Detto altrimenti, questo gesto ci espone agli altri, non è una postura comprimibile nella privatezza, perciò ha sempre una dimensione pubblica, nel senso appunto dell’esposizione e del confronto. Siamo lontani dall’idea di una filosofia come disciplina a sé, dotata di una sua autorevolezza, piuttosto siamo vicini a un impegno di pensiero che ci chiederebbe di uscire dal bozzolo di un “io” separato, vale a dire di tentare di liberarci dalla presa di qualunque egoismo (egologia, egolatria) e dunque anche di sospettare di ogni pervasiva psicologia.
Perciò il gesto fenomenologico, così difficile da mantenere, così facile da inquinare e infrangere, dunque raro, è innanzi tutto un atteggiamento autocritico: ciascuno di noi, ogni “soggetto”, dovrebbe cominciare con il togliersi di dosso la camicia di forza dell’egoismo, tentare almeno di farlo, se vuole che il suo gesto agisca come un gesto critico. Non è certo lo scenario che vediamo ogni giorno perché, invece, abbiamo costantemente davanti una scena opposta in cui non si scorge quasi nessuna traccia di tale necessaria critica di sé stessi.
Ma cosa significa quel parolone, “fenomenologico”, che accompagna la parola “gesto”? Qui compare la specificità filosofica che caratterizza i settant’anni della rivista. È chiaro che il rimando è a Husserl e soprattutto alla sua ultima opera La crisi delle scienze. Si parte da una diagnosi di perdita di senso, cioè appunto di “crisi”, che non investe soltanto il mondo scientifico e la sua tecnicizzazione, come aveva fatto negli anni Trenta lo stesso Heidegger (peraltro, inizialmente discepolo di Husserl), ma investe per intero la cultura poiché riguarda lo stile di vita di ciascuno. Il titolo preciso di quest’opera di Husserl, che davvero ha fatto testo per comprendere un’epoca, certo non ancora conclusa, è: La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (in italiano è stata pubblicata dal Saggiatore, lo stesso editore di “aut aut”).
“Fenomenologia” e in più “trascendentale”? Non è poi così difficile arrivare al nocciolo di una frase che potrebbe giustamente allarmare i non addetti (tra i quali, in questo caso, vorrei potermi collocare a mia volta): quel “trascendentale” è lì per dirci che non dobbiamo confondere fenomenologia con fenomeno (o con qualcosa di semplicemente fenomenico) perché ciò che viene messo in gioco è l’idea di soggetto e di soggettività nella sua concretezza non superficiale.
Per mantenere o ritrovare il suo carattere fenomenologico, questa idea non dovrà essere soltanto la meno idealistica, categoriale, metafisica possibile, perché non basta che la concretezza equivalga a ciò che è empirico, ma dovrebbe riuscire a dar corpo a una soggettività che non è mai fissabile attraverso un’etichetta. Perciò il termine fenomenologia risulta essenziale per mettere in primo piano proprio il problema del soggetto.
Aggiungo, per far capire l’importanza di tale problema, che il soggetto che viene così evocato non è mai traducibile in un concetto chiuso, di cui si possa costruire una scienza comunemente intesa. È piuttosto, come diceva lo stesso Husserl, un “enigma” che non possiamo cessare di sondare e di rilanciare, qualcosa che ha a che fare con l’insieme dei nostri vissuti e con la nostra stessa vita.
Qualcosa che fa tutt’uno con lo stile di vita di ognuno di noi, come ha mostrato con chiarezza Paci nelle pagine del suo personale Diario fenomenologico (ora riedito da Orthotes). E proprio da qui discende l’intero corredo critico di “aut aut”, cioè - per indicarne solo qualche aspetto - l’importanza della “sospensione del giudizio” (la famosa epoché, rilanciata anche da Franco Basaglia nella sua critica alla psichiatria ufficiale), l’importanza di non isolare mai il sapere dall’etica con il rischio di svuotare il “gesto” facendolo diventare unicamente una tecnica di pensiero, o anche l’importanza di conservare a ogni costo l’apertura del dubbio e la possibilità del “sempre di nuovo”.
Perché questo gesto non può essere mai considerato un atteggiamento esclusivamente individuale? La tonalità “politica” della rivista, presente fin dal suo inizio, può ritrovarsi nella risposta a quest’ultima domanda, nel senso che non si dà soggettività senza intersoggettività, cioè che nel vissuto personale è sempre presente e attiva l’esperienza dell’“altro” ed è quindi comunque decisiva un’esperienza del noi.
Senza il compito dello stare assieme in una comunità possibile e necessaria di soggetti, il gesto fenomenologico perde il suo significato, letteralmente si annulla nel suo senso e nei suoi obiettivi. Siamo ancora lontani da questo telos, dall’impegnarci seriamente nella pratica di una simile finalità, e allora si comprende perché il tragitto che “aut aut” ha iniziato fin dal primo fascicolo non sia affatto esaurito.
[articolo uscito in versione ridotta su “La Stampa” il 20 settembre 2021]
*Fonte: Aut Aut, 23/09/2021
NOTA:
L’ENIGMA DEL SOGGETTO E LA PROVA DELL’ESISTENZA DI DIO. Note su un dialoghetto "platonico" diffuso in rete:
USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO” (KANT).
COSA PENSANO I due BAMBINI nella pancia della madre "della VITA DOPO IL PARTO"? Ma l’autore "scrittore" di questo "bel" testo (sopra) ha mai sollecitato i "due bambini" a pensare sul come sono ’arrivati’ là dove sono, su come nascono i bambini?, e ha mai visto il Sole? O vive ancora nel pancione della Mamma-Terra, nella caverna di Platone (ama il mondo chiuso e la claustrofilia) e, per il trauma della nascita, si è sempre rifiutato di aprire gli occhi alla luce del Sole e vedere la Terra dalla Luna, dallo spazio?!
"ACHERONTA MOVEBO" (IL "MUOVERE LE ACQUE INFERNALI" DI FREUD) E AFFRONTARE IL TRAUMA DELLA NASCITA (OTTO RANK): SAPERE AUDE! ("IL CORAGGIO DI SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA" DI KANT) !
Senza la critica di Kant del sogno dell’amore cieco e zoppo della ragion pura (di Socrate/Platone) non si può riconoscere a Diotima piena cittadinanza né nell’Accademia né nella Polis. La logica della tragedia (Edipo) porta davvero la peste!
La Sibilla Delfica (dell’oracolo di Apollo) a Socrate disse la verità, ma la storiografia ha preferito credere al sogno della nascita del cigno e alla storia di Platone, figlio di Zeus / Apollo!
Nietzsche perché ha scavato nella nascita della tragedia? Freud cosa cercava a Tebe?! Come Edipo, già a partire dal caso Dora, chiarirsi le idee sulla morte e uccisione del padre ("Interpretazione dei sogni") e sul desiderio incestuoso nei confronti della #madre, fare luce su "L’uomo #Mosè" e sull’esistenza di "Dio"! Con Dante e come Dante ha avuto il coraggio di agitare le acque infernali e uscirne: a Londra, è arrivato!
LA QUESTIONE DEL SOGGETTO, IL TRAUMA DELLA NASCITA, E LA VITA DOPO IL PARTO.
"OTTO RANK, IL DOPPIO E LA PSICOANALISI" (alcune mie note, in "Psicoterapia e Scienze Umane", 4, 1980, pp. 75-79) ). Se Freud osò agitare e rompere le acque infernali ("Acheronta movebo) e riuscì a portare alla luce la psicoanalisi, è da dire, però, che non fu altrettanto attento a riconoscere il trauma della nascita e a portarsi oltre le colonne d’Ercole dell’Edipo.
Andando in America, nel 1909, Freud era ancora fiducioso e ottimista nella possibilità della psicoanalisi di affrontare il diffondersi della peste; ma nel 1924, con la sua parziale comprensione del complesso di Edipo, non riesce ad accogliere la sollecitazione di Otto Rank a riflettere sul trauma della nascita e l’avvenire della sua stessa creatura comincia a oscurarsi.
Elvio Fachinelli (1928-1989) ha saputo vincere la Claustrofilia (1983), si è portato "Sulla spiaggia" (1985), ma l’ Accademia platonica della Filosofia come della Psicoanalisi ha continuato a chiudere un occhio su come nascono i bambini. E il platonismo continua a oscurare il cielo...
Federico La Sala
QUESTIONE ANTROPOLOGICA, ANTROPOLOGIA CULTURALE, ARTE E PSICOANALISI...
L’UOMO VITRUVIANO, LA DIGNITÀ DELL’UOMO, E LA DIGNITÀ DELLA DONNA.
In memoria di Franca Ongaro Basaglia e Ida Magli....
Con l’anno nuovo e l’arrivo dei Magi presso la "sacra famiglia", è proprio bene richiamare l’attenzione sulle parole del Salmo (8: 4-8): “Che cos’è l’uomo che tu n’abbia memoria? e il figliuol dell’uomo che tu ne prenda cura! Eppure tu l’hai fatto poco minor di Dio..”; e, lodevolissimamente, sollecitare a riflettere sul tema e sul significato di "uomo" e di "figliuol dell’uomo".
Ma di quale uomo si parla? Si parla solo di andrologia?
Riprendendo "l’uomo vitruviano", Leonardo ha fatto un disegno, ma l’industria "culturale" di ieri e di oggi ne ha fatto un mito, che associato alla generica e generale parola di "uomo" e "figlio dell’uomo" ha guidato e guida ancora l’immaginazione filosofica, teologica, artistica dei "diritti dell’uomo"!
Ma cosa "nasconde" questa mitizzazione e idolatrizzazione dell’ Uomo Vitruviano (dello stesso tempo di Leonardo e Raffaello, vedere l’altra faccia del quadro (1510), quello del Sapiente di Charles de Bouelles.? Semplimente "l’altra metà del cielo" è confinata nello stadio dello specchio, nello stato di minorità.
Luce Irigaray, in occasione dell’ 8 marzo del 2004, sul "Perché il pianeta donna non è stato ancora esplorato a fondo", ricordava: “[...] Mafalda a suo padre che sostiene che “l’occhio di Dio ci vede tutti uguali”: “Ma chi è il suo oculista?” lei gli chiede“.
IL MONDO E’ UNO. Non è più tempo né di conquistatori (il ’vecchio’ gioco di "Freud o Jung?", alla Eduard Glover) né di colonizzati (Cuernavaca). Una antropologia (e una cristologia) al di là dell’orizzonte edipico e della cosmoteandria andrologica (Dante 2021 insegna) è già nata: Giuditta ha tagliato la testa ad Oloferne e la critica della demitizzazione non solo della "nascita dell’eroe" (Otto Rank) ma anche della stessa figura di Freud e delle strutture chiesastiche della psicoanalisi (si vedano le preziose ricerche e il lavoro investigativo di Michele Lualdi) ha aperto porte e finestre sugli infiniti universi...
Dall’alto della mia ignoranza, non è più il tempo di esportazione né di peste né di democrazia! Sigmund Freud da Londra se ne sta "sulla spiaggia" di Maresfield e guarda compiaciuto il cielo stellato (Kant) e sorride: la claustrofilia è finita e ha capito che "la mente estatica" (Elvio Fachinelli) è la via di una formazione cosmica e di un’amicizia stellare...
DESIDERIO DI CONOSCERE E DIVIETO DI SAPERE ∗
di Paul C. Racamier∗∗
Qualche disturbo di voce mi impedisce purtroppo di presentare direttamente il mio breve lavoro. Mi dispiace anche perché apprezzo molto queste Giornate di Studio. Tuttavia abbiamo la fortuna di ascoltare il mio contributo letto da una voce amica che sarà così gentile da utilizzare la sua voce per ringraziarvi dell’attenzione.
D’altra parte ho solo alcune annotazioni da presentarvi che spero non saranno troppo dispersive. Non stupitevi che questi appunti siano l’eco delle mie preoccupazioni attuali.
Sappiamo bene che il desiderio della conoscenza si alimenta ad una sorgente essenziale, cioè al desiderio di conoscere i segreti della sessualità, partendo da quella dei genitori. Tornerò alla fine sulla questione dei segreti.
Questa curiosità essenziale si origina quindi nella camera dei genitori. Tuttavia la fonte non basta. Essa necessita anche - permettetemi una o due immagini alla mia maniera - di uno spazio e di un letto. Lo spazio consiste in un’area di discrezione che avvolge l’attività sessuale dei genitori in maniera da svolgere una funzione di "para-eccitazione". Senza questa area di discrezione - che é quasi un’area di transizione - non ci sarebbe spazio nel bambino per fabbricare il fantasma e tesserlo; senza questa area di para-eccitazione la sessualità dei genitori sarebbe davvero solo una seduzione invadente, un’effrazione traumatica, come venne descritta da Freud e come la si può incontrare ancora oggi nella pratica clinica.
In tal caso la psiche del bambino viene portata, direi perfino trascinata nel temibile ambito dove il sessuale non psichizzato rimane allo stato grezzo; un ambito dove non rimane spazio per il lavoro dello psichico sul sessuale; un ambito la cui espressione ultima è costituita secondo me dall’incesto e in modo più ampio dall’incestualità, cioé dal corto-circuito e dall’esclusione di qualsiasi elaborazione lipidica, dato che l’incestuale non é altro che il colmo dell’anti-libidinale.
Non anticipiamo troppo. Ma vale la pena di porsi da adesso una domanda: se il desiderio di sapere é per l’uomo un’estensione del desiderio di conoscere i segreti del sesso, bisogna chiedersi a quale condizione tale estensione sia possibile. Come mai questa curiosità si estende ad altri tipi di sapere? Perché ciò avvenga è indispensabile che le sia lasciato lo spazio. Bisogna che quell’area di elaborazione a cui accennavo sia preservata. Ora, l’effrazione genitoriale, se avviene, è traumatica nel senso che invade o distrugge quest’area di discrezione. Perché si sviluppi la voglia di sapere, bisogna prima che il sapere non sia stato piantato come un chiodo nella testa e nel corpo del bambino. Il sapere, per crescere, ha bisogno di essere avvolto da un materasso di silenzio.
Una fonte, dicevo. A questa fonte serve un letto. Questo letto è quello che io chiamo il pensiero delle origini. Mi sembra che questo pensiero giochi una parte essenziale nello sviluppo armonico della vita psichica. Non si limita affatto alla conoscenza o al fantasma delle nostre origini; non consiste nella ricerca delle cause. Rappresenta un’intera modalità del funzionamento psichico e sono tentato di situarla al di sotto dei processi primario e secondario del pensiero senza i quali niente si può apprendere né sapere.
Con "pensiero delle origini" intendo la capacità fondamentale e indelebile di provare, fantasticare, concepire e pensare che ogni cosa, ogni conoscenza, ogni persona, abbiano delle origini che a loro volta hanno altre origini, e così di seguito. L’origine è quello che precede: è a monte. Non ci sono limiti alle origini ma il pensiero delle origini non corrisponde all’onnipotenza perché è riuscito a passare attraverso la strettoia del lutto originario che inaugura la rinuncia all’onnipotenza. E’ lì che inizia il filo della vita e questo filo sarà vissuto come una creazione personale, o piuttosto, secondo il mio vecchio amico Antœdipo, come una coproduzione dei genitori e di se stesso.
Perdonatemi questa escursione in concetti che sembreranno complessi, a meno che vi siano familiari. Tuttavia questa deviazione ci porta a due affermazioni molto semplici.
1. Il bambino o l’adulto che non è riuscito a confezionarsi un pensiero delle origini, che quindi non ha rinunciato alla conoscenza assoluta e alla padronanza onnipotente delle proprie origini e della propria vita, probabilmente non avrà né la voglia di sapere né la disponibilità interiore, area di silenzio di cui bisogna disporre nel proprio mondo interno, necessaria per investire in nuove conoscenze. Tale è il caso dei soggetti con patologia narcisistica grave. Non sopportano di imparare perché in ogni conoscenza nuova vedono meno quello che avrebbero da guadagnare di quello che, essendogli sconosciuto, gli fa difetto e ferisce il loro irresistibile fantasma di onnipotenza e onniscienza. Accettando di imparare sembrerebbe loro di derogare a questo fantasma; tant’è che per imparare bisogna prima ignorare. Ora l’ignoranza non è altro che una vergognosa debolezza quando la si guarda dall’alto di un narcisismo intollerante. I narcisisti più "accesi" hanno una vera anti-voglia di imparare.
2. L’altro punto è più temerario. Non mi sembra azzardato ritenere che l’imparare e il sapere
costituiscano già un atto di creazione. Atto modesto, certo, ma fondamentalmente della stessa
natura della creazione vera e propria, e che presenta alcune delle sue caratteristiche principali.
Se non è una creazione vera e propria, fa parte almeno della stessa famiglia. Ogni cosa appresa
ha infatti questo carattere sia personale che universale che nella sua ambiguità, è propria di ogni
cosa creata.
Come ogni creazione nuova, ogni sapere nuovo provoca un ampliamento ed
un’estensione dell’io. Non da ultimo, l’acquisizione del sapere e anche la sua trasmissione, è
creativa nel senso che è il frutto di una coproduzione. Per imparare bisogna prendere e offrire;
non per caso il verbo apprendere (in francese apprendre) può intendersi secondo due modi
diversi: si può insegnare a qualcuno e apprendere da qualcuno; due correnti pulsionali avverse e
complementari che si completano strettamente in questa attività.
Vediamo qui come le strade si incrociano. Se é vero che l’esistenza di ciascuno di noi è il frutto di una coproduzione, dato che la vita ci è stata data ma non cessa di sgorgare in noi stessi, se quindi questo fantasma di fondazione è il perno delle origini; e se questo pensiero delle origini è realmente il letto del desiderio e della capacità di apprendere; se infine l’atto di apprendere è in se stesso una sorta di creazione, allora si vede bene che i nostri concetti si raggiungono nel sapere.
Se mi dite che la conoscenza di se stesso attraverso la relazione psicoanalitica è in se stessa il frutto di una coproduzione, ne converrò sicuramente. Se dite che all’origine dei disturbi del sapere e, più in generale, all’origine delle occlusioni gravi della vita psichica c’è uno sbarramento di vecchia data sul pensiero delle origini, ne converrò anche.
Ma basta con queste grandi idee. Volevo parlarvi del piacere. E per quello vorrei parlarvi dei segreti. Esistono due tipi di segreti. Vi sono i segreti libidici, come i segreti dell’alcova e i segreti di corridoio, che parlano sempre del piacere e che presentano il felice paradosso di circolare tra le generazioni rimanendo nell’ambito del privato: quei segreti sono dei serbatoi di fantasmi, delle macchine per pensare e degli stimoli del sapere. Il culto della verità naviga nelle stesse acque di quello del sapere. Li sospetto entrambi di trarre una forza considerevole dall’auto-erotismo: è proprio quando la verità, che non si incontra comunemente per strada, diventa un oggetto di piacere che l’io le corre dietro: non è vero tra l’altro che la verità viene descritta solitamente come una signora che, quando esce, va in giro svestita?
Al contrario esistono dei segreti anti-libidici. Essi impediscono l’accesso alla conoscenza, alla comprensione, allo scambio e al pensiero così come alla parola. Sono dei segreti inibitori. Di generazione in generazione esercitano i loro effetti paralizzanti. Li incontrerete dappertutto dove regna l’impero incestuale. Ciò significa che li incontrerete spesso. Il regno del segreto esercita un’influenza della peggiore specie. Si tratta di un divieto molto crudele e molto primitivo che ostacola ogni sapere per impedire la scoperta di alcuni saperi. Questo divieto di dire, questo divieto di sapere, questo divieto di pensare si esercita non tramite l’Io ma direttamente sull’Io, nel cuore stesso dell’Io. Perciò penso che sia molto diverso dal Super Io edipico.
Si potrebbe dire che il Super Io edipico prende l’io da parte e gli ingiunge: "Tu, Io, dirai ai tuoi amichetti, i fantasmi erotici, di tenersi tranquilli e di non fare troppo baccano in fondo alla classe". E l’Io obbedisce più o meno. Ecco come si comporta un Super Io di buona compagnia.
In un regime incestuale e sotto l’impero di un narcisismo abusivo e perforante, come quello che abbiamo visto trasgredire le aeree di transizione e di para-eccitazione di cui l’Io ha bisogno per svilupparsi, succede tutt’altro; sembra che una forza pressante prema l’Io da tutte le parti, gli prenda la testa, gli tappi gli occhi e le orecchie e gli imponga gradualmente un divieto assoluto di imparare, e perfino di pensare. "Se sai, dice, se vuoi sapere, se pensi, allora mi fai morire e muori".
Il Super Io edipico vieta l’incesto ma ne lascia passare il desiderio e il fantasma; lascia anche passare il desiderio di sapere e il piacere di desiderare; all’opposto l’oppressione appena descritta e che chiamerei volentieri, usando un neologismo, un super-anti-io, questa oppressione crudele permette l’incesto ma non lascia spazio al desiderio nonché al sapere, alla conoscenza e al pensiero.
Così viene confermato dal suo contrario quello che sappiamo da sempre: che la conoscenza e il piacere sono legati tra di loro e con la vita. La mia lettrice ed io vi ringraziamo per l’attenzione.
∗ Desiderio di conoscere e divieto di sapere di Paul C. Racamier Gennaio - Giugno 2002. Ringraziamo la Sig.ra Racamier per la gentile concessione alla pubblicazione di questo lavoro e l’Editore del “Bulletin de l’ACIRP” che ha pubblicato gli Atti del Convegno “Envie de savoir, envie d’apprendre”, Besançon, 23 marzo 1996.
∗∗ Traduzione in italiano a cura di Josiane Lots.
Fonte: Quaderno di Psicoterapia del Bambino e dell’Adolescente (2002) Vol. 15, pp. 11-15. 2
"ECCE HOMO": MESSAGGIO EVANGELICO E FIGLIO DELL’UOMO ["Filius hominis", "υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου]! - "Allora la folla gli rispose: «Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo?»"(Gv. 12,34).
A SCUOLA DI "ANDROLOGIA" DI PAOLO DI TARSO: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
FLS
L’OPPIO DEI POPOLI E LO SPIRITO CRITICO.
JEAN-LUC NANCY, IL SOFFIO RIVOLUZIONARIO, E I PALLONI IN ARIA...
JEAN-LUC NANCY, in un suo ultimo intervento ad un convegno del maggio scorso, dice: "[...] Quando Marx dichiara che la religione è «l’oppio dei popoli, lo spirito di un mondo senza spirito» [Nella sua "Critica della filosofia del diritto di Hegel"] intende dire da un lato che la religione è un povero surrogato dell’oppio con cui i ricchi si stordiscono, ma anche e allo stesso tempo che c’è da qualche parte uno “spirito” riservato a coloro che ne hanno i mezzi. Beninteso, per lui, tutti gli uomini ne hanno i mezzi, tutti possono partecipare al vero Spirito, a condizione d’essere liberi dall’alienazione. Poiché l’alienazione non consiste essenzialmente nell’estorsione del plusvalore - che ne è piuttosto il segno. L’alienazione consiste nel non essere propriamente sé stessi, tanto in quanto individui concreti che in quanto comunità non meno concrete".
E CONTINUA: "Questo spirito soffia come tutti gli spiriti. Marx usa spesso la parola “soffio” (Atem, respirazione). Ci accontenteremo di un esempio: «Il governo prussiano è infastidito dalla resistenza passiva che incontra ovunque. Attraverso l’apparente apatia, percepisce il soffio rivoluzionario»[...]"(Jean-Luc Nancy, "Essere, Soffio / Être soufflé", Le parole e le cose", 4.10.2021).
IL MESSAGGIO EVANGELICO E IL "FIGLIO DELL’UOMO". "Allora la folla gli [a Gesù] rispose: «Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo ["Filius hominis", "υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου]?»"(Gv. 12,34).
QUESTIONE ANTROPOLOGICA. CHI è questo Figlio dell’Uomo, CHI il "Gesù Cristo" degli Evangelisti? COME è detto nell’Evangelo di Giovanni di "Gesù Cristo"? Ponzio Pilato disse: "«Ecco l’uomo» (gr. «idou ho anthropos», vulg. «ecce homo»)" (Gv. 19, 4).
QUALE SPIRITO? COME è detto nella Prima Lettera dell’Evangelista Giovanni?: "Carissimi, non prestate fede ad ogni spirito, ma mettete alla prova gli spiriti, per saggiare se provengono veramente da Dio [...] Dio è amore." (1 Gv. 4, 1-8).
IL PROBLEMA DEL MENTITORE: CHI È IL "GESÙ CRISTO" DI PAOLO DI TARSO?!: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
PSICOANALISI E CRISTOLOGIA: "OEDIPUS AT VERSAILLES" ED "EDIPO A CUERNAVACA". CHE FARE? Rileggere il testo di "Un frammento inedito di Freud del 1931" e dell’articolo di Franca Ongaro Basaglia ("PM", novembre 1982). SapereAude!
IL VENTO SOFFIA DOVE VUOLE (Gv. 3.8). QUANTI PALLONI IN ARIA ...
Federico La Sala
#Vexilla Regis (If. XXXIV, 1):
a "gambe in sù" (90)!
#Marx
a #scuola da
#Dante
per ritrovare la #strada e
#imparare ad
dalla dialettica
dell’#andrologia di
#Platone
e
#Hegel
#MATEMATICA
E
#COSTITUZIONE
.Se gli esseri umani sono
"fatti della stessa natura del tempo",
e il #tempo avesse l
a forma del coperchio,
la #paura del cielo
direbbe solo del
rifiuto
di uscire dalla
#selva oscura
e
#nascere!
#Fleur Jaeggy!
#EDUCAZIONE CIVICA
#TRAGEDIA
E
#DIVINA COMMEDIA
#oggi.
Dopo #Dante (1321)
e la #rivoluzione delle #sfere celesti
(#Copernico 1543)
e terrestri
(#Giovanni Valverde, #Anatomia 1560),
celebra ancora la
#dotta ignoranza
di
Socrate
e
Niccolò Cusano
"IL GIOCO DELLA PALLA", SECONDO LA LOGICA "ANDROLOGICA" DEL CATTOLICESIMO-COSTANTINIANO...:
#DANTE2021
E
#ANTROPOLOGIA (#HOMO LUDENS):
IL #GIOCO DELLA #PALLA
(#De ludo globi) DI
#NICCOLO’ CUSANO
riguarda «un gioco scoperto da poco che tutti comprendono facilmente e giocano volentieri»
E
LA #DOCTA IGNORANTIA
#FILOLOGIA
E
#STORIA.
#PILATO
(#Ecce Homo gr.: «idou ho #anthropos»),
#SAN PAOLO
(1Cor. 11, 3: "di ogni #uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’#uomo [gr. ἀνήρ]"),
#GIUSEPPEFLAVIO
("Egli era il #Cristo")
Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza (Mc 12,29-30)
#Questione Antropologica.
La cit. di Mc 12, 29-30 ha un senso andrologico (e cosmo-te-andrico) o antropologico,
come il #Padre di ogni essere umano (#PonzioPilato: #Ecce homo),
quell’#Amore (di #Dante Alighieri),
che muove il #sole e le altre #stelle -
e anche la #Terra?!
(BEATO ANGELICO, 1437-1446).
#PONZIO PILATO
(«#Ecce #homo»: gr. «idou ho #anthropos»),
#PAOLO DI TARSO
("di ogni uomo il capo è Cristo, e
#capo della donna è l’uomo [«uomo»: gr. ἀνήρ, ἀνδρός], e
capo di Cristo è Dio" - 1Cor. 11, 1-3),
e
(LEONARDO DA VINCI).
(#Kant - M. #Foucault).
Per evitare ulteriori astratti
particolarismi e universalismi,
interrogarsi con #Dante (Purg XXV)
su
e
reimpostare il problema di
(Hans Joas).
Humberto Maturana e la vita che scorre
di Pietro Barbetta (Doppiozero, 15.05.2021)
Chi era Humberto Maturana? Uno studioso particolare. Uno scienziato vero, lontano dalle pratiche “evidence based”, coltivate dagli odierni carrieristi. Un biologo, uno psicologo e un epistemologo; creatore di nuove lenti per osservare la natura e non solo, anche la mente e la società.
Uno di quegli epistemologi che traggono le proprie riflessioni dalle pratiche scientifiche che elaborano e dalle esperienze che creano, in laboratorio e attraverso l’osservazione della vita e dei suoi percorsi, negli organismi viventi, nei soggetti e nelle comunità.
Assieme a una vasta schiera di longevi - Gadamer, Ricoeur, Dorfles, Morin, che ancora vive a cent’anni, von Foerster e molti altri - Maturana è uno dei saggi della cultura occidentale. Ma è anche, insieme a Francisco Varela - suo allievo, morto prematuramente - un autore che ha pensato al legame profondo tra il corpo, la mente e le loro affezioni, uno Spinoza contemporaneo.
Autopoiesi
Autopoiesi e cognizione, l’opera chiave della sua vita, scritta con Francisco Varela, fu per noi, negli anni Ottanta, una lettura difficile: eravamo immersi nella cultura umanistica - letteratura, filosofia, psicologia e antropologia - e, allora, c’era una scissione radicale tra umanisti e scienziati naturali. Era una grande fatica comprendere il linguaggio di biologi che erano, al contempo, epistemologi.
Vado a memoria, senza citare con precisione, ma ricordo bene alcune frasi di difficile comprensione per noi: l’orientante orienta l’orientato nel dominio cognitivo dell’orientato; i sistemi sono strutturalmente aperti, ma organizzativamente chiusi. Lo stesso per alcuni concetti: deriva strutturale, autopoiesi, accoppiamento strutturale, cibernetica, cibernetica del second’ordine, ecc. Alcune parole sembravano ingegneristiche, altre legate agli studi sulla comunicazione, poi c’era questa “cibernetica”, la scienza dei nocchieri, infine il passaggio alla cibernetica del second’ordine.
Di che si trattava?
Cibernetica
La cibernetica nasce da Norbert Wiener e riguarda la creazione di dispositivi meccanici con retroazione. Significa che questi maccanismi ricevono informazioni dall’ambiente che li regola. Il classico esempio è il termostato, il feed-back è quello strumento che permette ai termostati di autoregolarsi verso una temperatura definita. All’inizio, per noi intellettuali umanisti, era quasi un’offesa: come si permettono costoro di parlare, a noi filosofi, di termostati? In realtà già Gregory Bateson, antropologo e cibernetico, su richiesta di Wiener, era riuscito a pensare, attraverso la cibernetica, una “macchina schizofrenica”. La macchina schizofrenica è una macchina che non rispetta i livelli logici. Usando quella macchina io posso collegarmi con un ipotetico fornitore designato come numero 135, per esempio, e chiedere numero 425 “maiali porto franco”.
La macchina si disconnette dal fornitore 135 e si connette con il fornitore 425.
In altri termini, la macchina mi confonde, mi impedisce di ottenere la soddisfazione del mio bisogno di “maiali porto franco”. In pratica, una macchina schizofrenica non può soddisfare i miri bisogni, è una macchina desiderante, priva di soluzione.
Anni dopo Gilles Deleuze e Felix Guattari fonderanno la schizo-analisi attraverso il concetto di inconscio come macchina desiderante, ispirandosi esplicitamente proprio alle riflessioni di Gregory Bateson.
Cibernetica del second’ordine
Di qui, per Maturana e altri, una riflessione sulla complessità, che dà vita alla cibernetica del second’ordine.
La cibernetica del second’ordine fornisce due principali considerazioni che cambiano in maniera radicale la scienza: innanzitutto l’osservazione delle relazioni e delle connessioni tra le cose, tra gli organismi, tra i soggetti, piuttosto che l’osservazione delle cose, degli organismi e dei soggetti, come enti isolati; in secondo luogo l’attenzione per le connessioni tra chi osserva le relazioni e le descrizioni che fornisce l’osservatore. Non possiamo non pensare a un altro grande autore francese che, in campo storico, fece la stessa operazione intellettuale chiamandola “metodo genealogico”: Michel Foucault.
Amore
Maturana scrisse con Francisco Varela diversi testi, eppure i due autori, fin dall’inizio, non avevano le stesse posizioni, la diversità fu una risorsa, pensavano la complessità, che è in primo luogo, appunto, differenza. L’amore era uno dei temi che li vedeva divergere.
Varela focalizza i suoi studi sperimentali sul tema dell’embodiment, che in italiano viene tradotto con mente incarnata, anche se sarebbe più preciso tradurre “incorporazione”. In questo senso Varela si avvicina ad autori come Gilbert Simondon, Bruno Latour, Bernard Stiegler: l’amore è, per Varela, una manifestazione corporea del campo affettivo.
Maturana invece sviluppa il tema dell’amore come collante nelle relazioni bio-psico-sociali. La psicopatologia potrebbe essere intesa come “corruzione dell’amore”, avvicinandoci al pensiero di Niklas Luhmann (in particolare al saggio L’amore come passione).
Per questo Maturana e Varela furono tra i grandi esponenti della “scienza romantica”, così definita da Alexander Lurjia e ripresa da Oliver Sacks.
Un amico
Ho incontrato varie volte Maturana, negli Stati Uniti, alle conferenze dell’American Society for Cybernetics e in Italia. L’ultima volta fu durante un convegno nell’ambito dell’Esposizione Universale, al padiglione del Cile, nel 2015. Venne a tenere un seminario con Ximena Davila.
In quell’occasione, Maturana invitò il Centro Milanese di Terapia della Famiglia a un confronto, come era accaduto altre volte. Fu una mattina molto particolare, il suo rapporto con i colleghi italiani era disponibile e dolce, mentre negli Stati Uniti, davanti al pubblico, era decisamente più freddo. Forse non aveva chiuso i conti con quel paese che lo aveva ospitato, ma che aveva, attraverso il suo governo, portato al potere la dittatura di Pinochet.
Si racconta di lui che, durante il regime di Pinochet, prima di salvarsi riuscendo ad andare all’estero, fosse stato interrogato perché gli trovarono in casa opere di Marx. Lui rispose che si meravigliava di chi lo interrogava: criticavano Marx senza conoscerlo? Pare che, gli aguzzini, ignoranti e confusi, lo avessero rilasciato momentaneamente, ciò gli permise la fuga dalla sua culla, Santiago, dove era nato il 14 settembre del 1928.
Incontrai Maturana altre volte, per esempio, nel 2002, a un convegno a Torino per commemorare la scomparsa di un altro grande ispiratore della cibernetica del second’ordine: Heinz von Foerster.
In quell’occasione, quasi vent’anni fa, durante la parte della discussione con il pubblico, gli chiesi di spigarmi il concetto di “deriva strutturale”, che non avevo compreso. Lui rispose più o meno così: immaginate di essere su una barca in mezzo al mare e di avere perso i remi. Possedete solo una bussola e una ricetrasmittente. Chiamate, con la trasmittente, il faro più vicino per avere soccorso. Il faro chiederà la vostra esatta posizione per inviarvi una nave da salvataggio. La barca giunge sul posto, ma voi sarete da un’altra parte. La deriva strutturale è la vita che scorre.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PSICOANALISI E FILOSOFIA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana .....
DAL LABIRINTO SI PUO’ USCIRE. FACHINELLI, "SU FREUD".
FLS
ripartendo dal #saperedinonsapere,
Niccolò Cusano
ricade nella #antropologia zoppa e cieca di #Aristotele
e propone nella #Docta Ignorantia (III, 5) del 1440
la visione (#teoria) del trittico di Merode (1427)
San Giuseppe e la trappola per topi
Il Trittico dell’Annunciazione di Robert Campin è una miniera di simboli mariani. Ma la cosa più curiosa è la bottega di San Giuseppe tutto intento a fabbricare una trappola per topi.
Doveva essere devotissimo di san Giuseppe il committente che sta all’origine della Pala di Robert Campin detta comunemente Pala di Mérode, dal nome della famiglia che la ospitava. Lo si vede, con la moglie, nel pannello di destra della pala. Non abbiamo la certezza circa l’identità dei due coniugi. Il Metropolitan Museum, dove risiede l’opera, identifica il committente con un ricco uomo d’affari del tempo, certo Jan Engelbrecht. Per altri era un mercante di stoffe di Colonia, prossimo alle nozze, Peter Inghelbrecht o Engelbrecht. Quel che rimane certo è il cognome: Engelbrecht che significa: breccia dell’Angelo.
Da qui si comprende il tema del pannello centrale: la rappresentazione dell’Annunciazione nel momento in cui, l’angelo, vero protagonista della scena, irrompe nella stanza di Maria.
La casa di Maria è una casa di pietra, sontuosa e solare, a dispetto della bottega di san Giuseppe, piuttosto piccola, raffigurata nel terzo pannello. Il contrasto è voluto e serve anche per mitigare la novità dell’ambientazione scelta per la Vergine annunciata. Se si confronta quest’opera con altre dello stesso periodo si nota come si fosse soliti rappresentare gli eventi dell’Infanzia del Salvatore, specie l’Annunciazione, dentro Chiese o Cattedrali, quasi a sottolineare la sacralità degli eventi. Qui Campin, per primo, registra invece l’assoluta normalità della casa di Maria.
San Giuseppe invece è presentato come un modesto artigiano, abile e capace, che lavora nel contesto di una città rispettabile. E ne vediamo chiaramente uno scorcio dalla finestra aperta. Anch’egli, del resto come si evince dal turbante, è uomo di tutto rispetto. Tra le altre opere di Robert Campin troviamo il ritratto di un anonimo signore facoltoso (e lo capiamo dall’abito foderato di pelliccia) che porta il medesimo turbante indossato da san Giuseppe. Solo il colore si differenzia: mentre nell’uomo ritratto, il copricapo è rosso, colore peraltro che designava l’alto rango, in San Giuseppe è blu, segno distintivo della diversa qualità del rango di San Giuseppe. Egli era nobile nello spirito e la sua dignità è da collocarsi appunto entro il mistero del piano divino. Insomma San Giuseppe è uomo voluto dal Cielo.
Nel XV secolo, molto prima quindi della proclamazione di san Giuseppe quale patrono della Chiesa universale (1621), ci fu un movimento popolare (analogo a quello legato al culto dell’Immacolata) che desiderava propagare il culto di San Giuseppe, collocando il Santo al pari degli Apostoli. Gli anni di punta di tale devozione furono proprio quelli in cui venne realizzata questa pala (tra il 1420 e il 1430).
Promotori di questo movimento giuseppino furono il Card Peter d’Ailly (1350-1425) vescovo di Cambrai e il suo pupillo John Gerson (1363-1429) che, nel concilio di Colonia (1416), proposero appunto di elevare San Giuseppe al livello degli apostoli.
Robert Campin ci permette di entrate nella bottega del Santo raccontandoci nei mini particolari il suo lavoro.
Il desco appare così inclinato, nella sua prospettiva, da dare l’impressione di volersi rovesciare. Siamo così costretti a guardare gli strumenti da lavoro di san Giuseppe: tenaglie, martello, chiodi. Sono chiari riferimenti alla croce, supplizio sopra il quale morirà quel Figlio che sta per essergli dato. Come si narra, appunto nel pannello centrale dell’Annunciazione della Vergine.
Sul desco di Giuseppe, però, c’è un oggetto, che pur riconoscendolo, fatichiamo a comprenderne il senso. Si tratta di una trappola per topi. A ben vedere ve ne sono due: una in via di costruzione e una seconda, in funzione, sul davanzale della finestra. Il senso di un simbolo tanto bizzarro lo spiega Sant’Agostino in uno dei suoi discorsi (256): «Il diavolo ha esultato quando Cristo è morto, ma per la morte di Cristo, il diavolo è stato vinto, come se avesse ingoiato l’esca nella trappola per topi. La croce del Signore era una trappola per il diavolo, l’esca con cui è stato catturato era la morte del Signore». Ecco, dunque, l’ignaro Giuseppe fabbricare quell’elemento che sarà per l’uomo simbolo di liberazione: «dov’è o morte la tua vittoria?». Ripete instancabilmente l’Apostolo: Cristo ci ha liberato. Anche Lorenzo Lotto, in una delle sue natività, colloca la propria firma sopra una trappola per topi.
Il topo, del resto, per la sua facilità riproduttiva e la rapidità del suo agire, è da sempre simbolo di lussuria e di disonestà. Fra il ricchissimo bestiario di Jeronimus Bosch, il topo compare sovente, proprio a significare l’ingannevole audacia del male. Mentre l’uomo si lascia ingannare dal tentatore, Cristo gioca il male sul suo stesso terreno. Il diavolo, infatti, ingannato dall’umanità del corpo di Cristo, addenta la preda, ma il veleno della vita, nascosto nella divinità di Cristo, lo ucciderà.
A questo significato attribuito alla trappola, in riferimento a Cristo e alla sua passione, concorrono altri elementi del pannello. Ai piedi di San Giuseppe c’è una sega, strumento che - secondo la predicazione del tempo - san Pietro usò per tagliare l’orecchio a Malco, nel giardino degli ulivi; mentre, più a lato, vediamo una scure piantata solidamente in un ceppo. «La scure è alle radici», proclama il Battista all’inizio della sua predicazione: di fronte alle malizie del male, cui l’uomo presta il fianco, c’è un giudizio inappellabile che si compie, quello della verità. Ora, con la venuta di Cristo e con la sua passione (come si vede nel pannello centrale dove Cristo raggiunge il grembo della Vergine imbracciando una piccola croce), si compie il tempo definitivo del giudizio sulla storia.
Non possiamo fare a meno di notare però che san Giuseppe è intento a tutt’altro lavoro che apparentemente poco ha a che fare con la trappola in fabbricazione collocata sul desco. San Giuseppe sta forando una tavola di legno con fori a intervalli regolari. Vediamo l’oggetto perfettamente compiuto nella casa di Maria, proprio dietro le sue spalle, Si tratta di un parafuoco. Il soggetto iconografico della Madonna del Fuoco o del parafuoco, è abbastanza frequente in quel secolo, lo stesso Campin ne realizza alcune, e vuole indicare la verginità della Vergine. Sia per il riferimento al roveto ardente che arde senza consumarsi, sia per il riferimento al fuoco della passione che rimase estranea alla Vergine e quindi anche al coniuge, san Giuseppe.
Allora comprendiamo il simbolo: san Giuseppe fu custode non solo del Redentore ma anche della castità di Maria. Il diavolo sapeva, per il versetto di Isaia 7,14, che Cristo sarebbe nato da una Vergine, ma mai si sarebbe immaginato che questa Vergine avrebbe contratto matrimonio. Sposando San Giuseppe e rimanendo illibata con lui nel matrimonio, il diavolo fu confuso e non comprese la natura divina del Cristo. Perciò, non solo Cristo fu trappola per il demonio, ma anche lo stesso San Giuseppe. La sua santità confuse le aberrate prospettive del Maligno, il quale è incapace di comprendere come le straordinarie vie di Dio possano intrecciarsi con l’ordinarietà della vita. Sì, una vita straordinariamente ordinaria quella di questo anziano Giuseppe che lavora placido accanto alla casa della sua futura sposa! Egli sa che il suo ruolo è quello di custode e si prepara, fabbricando quegli oggetti che più profondamente lo possono portare a identificarsi con il piano divino e ad aderirvi con tutta l’obbedienza del cuore.
* Fonte: Monache dell’Adorazione Eucaristica (Adoratrici.it, 15.03.2020 - ripresa parziale, senza immagini).
PER UN "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") COSTITUZIONALE ....
SE E’ VERO CHE, "ANCORA UNA VOLTA, chi trova soluzioni alternative al neoliberismo è bandito dalla stanza dei bottoni", è ALTRETTANTO VERO CHE RIPETERE CON Adorno e Horkheimer, che “la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura”, porta tutti e tutte ancor di più nel buio dell’inferno.
Si è mai chiarito perché il Marx del "Capitale. Critica dell’economia politica", come il Marx della "Prefazione" a "Per la critica dell’economia politica", richiami Dante (è solo l’eco mnemonico di letture giovanili?) o, ancora, in un "banale" ritornello nei suoi lavori associ alla parola "economia politica" sempre la parola "critica"?! Non è perché il suo discorso ha qualche legame con il lavoro del Kant della "Critica della Ragion Pura", "Critica della Ragion Pratica", "Critica del Giudizio"!?
Se "Oggi tutti sono pazzi per Draghi", forse, c’è qualche motivo - per esempio, un motivo storico-costituzionale di lunga durata: "Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiede che siano garantite parità di condizioni competitive tra generi. Intendiamo lavorare in questo senso, puntando a un riequilibrio del gap salariale e un sistema di welfare che permetta alle donne di dedicare alla loro carriera le stesse energie dei loro colleghi uomini, superando la scelta tra famiglia o lavoro" (Mario Draghi, discorso al Senato, 17.02.2021)!
DRAGHI, UN MESSIA "TECNICO"?! NON è TEMPO, FORSE, DI CHIARIRSI LE IDEE SU "CHI SIAMO IN REALTà" e, finalmente, riprendere con Marx la via della CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA" DELLA RAGIONE ATEA E DEVOTA. O no?!
MARX, IL "LAVORO - IN GENERALE", E IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE - IN GENERALE".... *
"CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA" , "CRITICA DELLA RAGION PRATICA" (E MEMORIA DI DANTE ALIGHIERI - ANNO 2021) . Alla luce del fatto che si è persa ogni cognizione dello "stato di cose presente", forse, è opportuno - come voleva Marx - riprendere il filo dalla indicazione delle note "Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione"): "La teoria è capace di impadronirsi delle masse non appena dimostra ad hominem, ed essa dimostra ad hominem non appena diviene radicale. Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso".
Si dice:
CONCORDO. Ma per ripartire bisogna riprendere il filo dalla "Logica" di Kant (non di Hegel, come si recita ancora oggi: http://www.leparoleelecose.it/?p=41116#comment-439785), dalla sua "quarta" (e prima!) domanda: "che cosa è l’uomo?", dalla sua "Critica della ragion pratica", e dal suo "imperativo categorico" (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5635)! La questione è antropologica (non andrologica né ginecologica)! O no?!
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. la "Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni (in memoriam)": "CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4198); su COME NASCONO I BAMBINI? E COME ‘NASCONO’ I GENITORI?!, rileggere la lettera di Sigmund Freud (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2923).
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Controparola/
Donne al futuro
di Francesca Rigotti (Doppiozero, 20 marzo 2021)
Da quando ho scoperto che nella grammatica esistono termini marcati e termini non marcati - me li ha spiegati un illustre linguista amico di tastiera - non dico che non dormo di notte ma quasi. I termini non marcatI, se ho capito bene, sono dominanti e includenti: per esempio il termine «giorno», che comprende il giorno e la notte; notte invece è un termine marcato, giacché designa soltanto il tempo dell’oscurità. Non marcato è uomo (ci avviciniamo al tema) in quanto comprende se stesso e anche la donna, la quale invece, guardacaso, è marcata quale «soltanto» donna.
Dovevo ripensare a questa disparità grammaticale nel leggere Donne al futuro, raccolta di saggi di donne che parlano «soltanto» di altre donne, uscito per il Mulino a cura delle amiche di Controparola. Si tratta di un gruppo di scrittrici e giornaliste, nato nel 1992 per iniziativa di Dacia Maraini, che ha pubblicato diversi libri sulle donne tra i quali Donne del Risorgimento, Donne nella Grande Guerra, nella Repubblica, nel Sessantotto e ora al futuro. Sono Paola Cioni, Eliana Di Caro, Paola Gaglianone, Dina Lauricella, Lia Levi, Dacia Maraini, Cristiana Palazzoni, Maria Serena Palieri, Valeria Papitto, Linda Laura Sabbadini, Francesca Sancin, Cristiana di San Marzano, Mirella Serri, cui si deve Donne al futuro (il Mulino, Bologna 2021). Sempre e soltanto donne. O donne sole, si potrebbe anche dire, che è un’espressione un po’ deprimente ma anche molto divertente, a leggerla con ironia, e con la quale si intendono donne in compagnia di altre donne ma non di uomini. Mentre la dicitura per soli uomini sta per luoghi e/o attività in cui le donne non possono entrare e a cui non devono partecipare (e così è intitolata l’eccellente analisi statistica Per soli uomini. Il maschilismo dei dati, dalla ricerca scientifica al design, appena pubblicata da Codice Edizioni e condotta dalla giornalista Emanuela Griglié e del collega Guido Romeo).
Le donne al futuro di questo libro, soltanto donne marcate nella loro donnità, sono di fatto figure straordinarie, proiettate, come dice il titolo, al futuro o declinate al futuro, visto che siamo partiti dalla grammatica (che innocentemente mi costringe qui a scrivere al maschile benché io sia donna che scrive di donne che scrivono di donne. La lingua sarà anche colpevole ma non nel modo semplificato e a tratti oltraggioso che le attribuiscono le interpretazioni corrive, come spiega puntualmente l’amico linguista il cui nome adesso svelo, Nunzio La Fauci, ma la dice lunga). Donne giovani che lavorano per fabbricare il futuro con l’arte e la musica, l’architettura e l’astrofisica; con l’impegno civile e umanitario (donnitario?), con la ricerca medica, l’economia, la pratica sportiva e l’insegnamento.
Le elenco qui tutte in fila in ordine alfabetico: Alice Pasquini (AliCè), Paola Antonelli, Marica Branchesi, Francesca Bria, Ilaria Capua, Silvia Colasanti, Ilaria Cucchi, Emma Dante, Sara Gama, Rita Giaretta, Giuseppina Multari, Eliana La Ferrara, Laila Abi Ahmed e Isabella Mancini, Barbara Riccardi, Fulvia Signani e le altre, Beatrice Vio. Un ricordo è dedicato alla cittadina del mondo Agitu Ideo Gudeta, uccisa nel dicembre scorso in Trentino, dove si era trasferita e portava avanti la sua attività di imprenditrice.
Non potendo parlare di tutte ho scelto di citarne una sola, l’unica tra l’altro che mi era del tutto ignota, lo confesso e chiedo venia: Sara Gama. Sara Gama, classe 1989, madre triestina e padre congolese, capitana della Nazionale azzurra femminile di calcio nonché vicepresidente dell’Assocalciatori (termine non marcato che comprende anche le calciatrici mentre le calciatrici, marcate dall’essere soltanto donne, non comprendono i calciatori).
Sara Gama, ho scoperto, non soltanto gioca al calcio femminile da quando era una bambinetta ma rivendica anche, per quel calcio di donne, assicurazione sanitaria, previdenze, stipendio e soprattutto dignità. Studentessa liceale, studentessa universitaria - sulla storia del calcio femminile in Europa ha anche scritto la tesi - Sara Gama, che nell’immagine di copertina sembra, coi suoi bei capelli ricci, l’Italia turrita, nel discorso del 4 luglio 2019 al Quirinale, di fronte al presidente Mattarella, ha ricordato l’articolo 3 della Costituzione che sancisce la dignità di tutti i cittadini «senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
E questo grazie alle donne della Costituzione, le madri costituient, che contro l’opinione di alcuni padri della costituzione insistettero affinché nell’art. 3 venisse inserita la specificazione «di sesso», perché senza quella la conquista della parità sarebbe stata ancor più difficile di quanto già lo sia.
TRANSIZIONE CULTURALE... *
Internazionale
Brasile, la profezia di Marielle Franco
Tre anni dopo. Resta senza mandanti l’omicidio della consigliera di Rio, avvenuto il 14 marzo 2018 per mano di due sicari. Ma alle ultime elezioni voti a valanga per 13 donne afrobrasiliane
di Glória Paiva (il manifesto, 14.03.2021)
Oggi il brutale omicidio della consigliera comunale brasiliana Marielle Franco e del suo autista Anderson Gomes compie tre anni. Militante, femminista, nera, residente a Favela da Maré e quinta consigliera più votata a Rio de Janeiro nel 2016, Marielle è diventata un simbolo mondiale della lotta antirazzista, per i diritti umani e lgbt+.
NONOSTANTE IL TEMPO trascorso, rimangono ancora domande sulle circostanze della sua morte. Perché le autorità locali e quelle nazionali non cooperano nella conduzione del caso? Qual è la conclusione dell’indagine relativa all’uso delle armi della polizia federale nel crimine? Chi ha spento le telecamere della strada in cui transitavano quella sera Marielle e Anderson? C’è stato un tentativo di depistaggio delle indagini? E la principale: chi ha ordinato l’omicidio di Marielle e perché?
Queste e altre questioni sono oggetto di un documento pubblicato dall’Istituto Marielle Franco, un’organizzazione creata dalla famiglia di Marielle per perpetuare la sua memoria. La famiglia chiede in modo costante risposte alle autorità di Rio de Janeiro che conducono le indagini. Tuttavia, si trovano spesso di fronte al silenzio: nell’ultima settimana, ad esempio, hanno cercato di incontrare il governatore dello stato, Cláudio Castro, e il procuratore generale, Luciano Mattos, ma non hanno avuto alcun riscontro, come ha riferito Anielle Franco, la sorella dell’attivista, in una conferenza stampa che si è tenuta venerdì 11 marzo.
FINORA, È NOTO SOLTANTO che Ronnie Lessa, poliziotto in pensione, e Élcio Queiroz, ex poliziotto, hanno aspettato l’auto di Marielle e Anderson nella Rua dos Inválidos, nel centro di Rio, prima di sparare contro il veicolo. Entrambi sono in un carcere di massima sicurezza e saranno sottoposti a un giudizio popolare, un processo in cui 25 cittadini, insieme al giudice, decideranno sulla colpevolezza o meno dell’imputato. L’ipotesi principale è che l’assassinio abbia avuto una motivazione politica e che vi abbiano partecipato delle milizie.
Secondo Jurema Werneck, direttrice esecutiva di Amnesty International in Brasile, i successivi cambiamenti negli organi responsabili delle indagini e la mancanza di trasparenza hanno ostacolato un’inchiesta rapida e imparziale. «In questi tre anni abbiamo avuto tre governatori, due procuratori generali, tre capi di polizia, tre pubblici ministeri. Nella pubblica sicurezza di Rio ci sono stati cinque cambi. Le autorità brasiliane non possono inviare un messaggio di impunità e di tolleranza rispetto alla violenza politica», dice Werneck. Che avverte: «Finché i mandanti sono liberi e sconosciuti, nessuno può sentirsi al sicuro».
«NON POSSIAMO ASPETTARE altri dieci anni prima che le donne nere vengano elette», aveva detto Marielle poche ore prima di essere uccisa. Il suo discorso è diventato una profezia: due anni dopo, nel 2020, alle ultime elezioni amministrative brasiliane, 13 donne nere sono state tra i candidati più votati nelle più grandi città del Brasile. Tra i consiglieri eletti, più di 70 si sono impegnati nella cosiddetta Agenda Marielle, che riunisce progetti di legge con pratiche e linee guida anti-razziste, femministe, lgbt + e popolari ispirate al lavoro svolto dall’attivista.
I politici sintonizzati su questi ideali, tuttavia, sono spesso a rischio. A Rio de Janeiro, le quattro donne nere elette con il Partito socialismo e libertà (Psol) hanno già registrato minacce di natura politica. «È necessario proteggere queste donne e inviare un messaggio a chi vuole mettere a tacere l’eredità di Marielle. Le persone che lottano per la giustizia, i diritti, la dignità devono essere protette perché sono un bene della società», dice Jurema Werneck.
Per il deputato federale Marcelo Freixo (Psol), amico ed ex compagno di lotta di Marielle, l’assassinio ha rivelato un lato brutale del Brasile. A cui il mondo ha reagito: «Le manifestazioni contro la morte di Marielle - osserva - mostrano la forza di ciò che lei ha rappresentato. Questa società capace di uccidere Marielle Franco non è la società che vogliamo»,
Il messaggio di Marielle Franco ha fatto il giro del mondo e ha raggiunto anche Firenze. Dal 15 marzo l’attivista sarà la prima donna brasiliana nera ad avere il suo nome in uno spazio pubblico in Italia, sulla terrazza della Biblioteca delle Oblate.
L’intitolazione è frutto della collaborazione tra la Cgil di Firenze e la Casa do Brasil a Firenze che hanno fatto specifica richiesta al Comune. «Questa terrazza non è uno spazio qualsiasi. Con vista sulla cupola del Brunelleschi, è un luogo simbolo del Rinascimento italiano. Possa la memoria di Marielle rinascere qui e offrire ai giovani la chance di riflettere su giustizia, diritti umani, diversità, tutto ciò che Marielle incarnava», commenta Ana Luiza Oliveira de Souza della Casa do Brasil a Firenze.
*SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria" del 2004.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
FLS
SULLA SPIAGGIA. DINANZI AL MARE: MEMORIA , STORIA, E RICERCA ANTROPOLOGICA E FILOSOFICA...
PER RIPRENDERE E PROSEGUIRE, SE SI VUOLE, IL LAVORO E LA RIFLESSSIONE DI ELVIO FACHINELLI ("LA MENTE ESTATICA", FEBBRAIO 1989) E DI FRANCO CASSANO ("APPROSSIMAZIONE", APRILE 1989), CREDO, SIA OPPORTUNO PARTIRE DALLE LORO OPERE: RISPETTIVAMENTE, dal libro "La mente estatica" di Fachinelli (pubblicato da Adelphi nel febbraio del 1989) e, insieme, dal libro "Approssimazione. Esercizi di esperienza dell’altro" di Cassano (pubblicato dalla casa editrice "Il Mulino" nell’aprile del 1989) e, alla luce dei loro particolari programmi di ricerca volti a pensare e a superare "la frontiera", ricordare che la Caduta del Muro di Berlino avviene - senza violenza - nei primi giorni del mese di novembre del 1989.
"DEPORRE L’ELMO". Nel saggio dedicato all’analisi del lavoro di Fachinelli (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1568), contro i vari tentativi di neutralizzare la sua proposta ("Né demonizzare, né omologare"), così annotai :
A distanza di trenta e più anni, non sembrano esserci altre vie, se non quella di deporre l’elmo e uscire dall’orizzonte della dialettica hegeliana, e praticare "esercizi di esperienza dell’altro". O no?!
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#STORIA #STORIOGRAFIA E #DRAGHI: USCIRE DAL #LETARGO (#DANTE2021). #Tracce per una #svolta_antropologica e una #transizione_ecologica. #Dante, la #crisi culturale e #politica dell’#Europa e "l’#antropologia d’#ancien régime" (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5908).
***
Un altro deus ex machina sul piano inclinato della crisi
Draghi e non solo. La via tecnocratica, costruita con sofisticata ingegneria istituzionale, per ricondurre a «ordine» l’anomalia del voto del 2018, ridisegnando il sistema di governo
di Marco Revelli (il manifesto, 16.02.2021)
La Banca sopra la Politica, il Nord sopra il Sud, i maschi sopra le donne. Questa appare, ridotta all’essenziale, la struttura architettonica del nuovo governo: una fotografia perfetta dello stato di cose esistente e delle sue inamovibili gerarchie.
Non può sfuggire a nessuno, intanto, che l’ex governatore di Bankitalia e della Bce ha riservato a sé e ai propri fedelissimi il controllo della cassaforte, in primis del «tesorone» in arrivo dall’Europa, perché la gestissero con l’unica logica che gli uomini di banca conoscono: quella del denaro che rispetta solo se stesso (e che va dove già ce n’è).
E che poi abbia affidato per così dire «d’ufficio» un certo numero di ministeri chiave a quella che può essere considerata un’élite del sapere tecnico. Quasi volesse «mettere in sicurezza» il «cuore dello stato», o del sistema, da una politica malata, per certi versi comatosa, che nelle convulsioni dell’ultimo bimestre ha mostrato a nudo la propria incapacità di venire a capo della crisi che essa stessa aveva scatenato, riservandole un parterre tanto ampio quanto poco qualificato.
Uno spazio di tutti (e del contrario di tutti) da popolare secondo i dettami del manuale Cencelli, in cui le scarse competenze e l’esuberante litigiosità potessero in qualche misura offrire un simulacro di «copertura politica» senza rischiare di danneggiare i gangli vitali del sistema (più che commissariamento, «confinamento» si potrebbe dire).
Questo deve essere stato il pensiero congiunto di Draghi e Mattarella: la via tecnocratica, costruita con sofisticata ingegneria istituzionale, attraverso cui ricondurre a «ordine» l’anomalia selvaggia inaugurata col voto del 2018, ridisegnando il sistema di governo sulla mappa gerarchica del potere reale rispettandone con certosina attenzione le isobare.
Ed è esattamente quel criterio che ha portato a premiare il Nord (18 ministri) a scapito del Sud (appena 4), tanto che verrebbe da dire che, parafrasando la Moratti, i «posti» sono stati assegnati territorialmente in base al Pil: ben 9 ministri vengono dalla Lombardia, 4 dal Veneto, nessuno dalle isole...
Mentre per le donne - 8 su 24 - non è cosa nuova, è l’antropologia d’ancien régime che ha parlato.
Funzionerà? Si può davvero pensare di venire a capo di una grave «crisi di sistema» - quale quella che effettivamente l’Italia vive - con espedienti ingegneristici o con la logica del deus ex machina?
È per lo meno la terza volta che si tenta questa via - la prima con Ciampi, la seconda con Monti, ora con Draghi, peraltro figure assai simili per competenze e profilo tecnico-culturale - e ogni volta se ne è usciti con uno scatto in avanti sul piano inclinato della crisi istituzionale e sociale.
Il governo Ciampi, non dimentichiamolo, fu l’ultimo della Prima Repubblica. Dopo la sua fine dilagò il berlusconismo, espressione di una metamorfosi regressiva dell’elettorato nel suo complesso. Quindici anni più tardi, dopo diciassette mesi di governo Monti emerse il corpaccione grillino al centro di un sistema politico terremotato e sulla superficie di un corpo sociale martoriato, diventato addirittura nel 2018 maggioranza relativa, con una percentuale simile alla vecchia Dc.
Un altro terremoto che sconvolse vecchi e nuovi poteri, istituzionali ed economici, che infatti si misero subito all’opera per ricuperare centralità e controllo. E che oggi festeggiano il ritorno alla casella di partenza in questo gioco dell’oca che già ha percorso due giri a vuoto, nella speranza di fare, finalmente, l’en plein, e di poter sovrapporre al disordine di quel voto «obsoleto» un nuovo ordine venuto dall’alto di un’Europa non più matrigna.
È un’impresa arrischiata. Anche per poteri abituati da sempre a vincere. E nella sua sostanza opaca. Non perché violi, in qualche modo, la lettera della Costituzione: tutto è avvenuto entro i canoni degli articoli 92 e 94 (peraltro molto sobri). Ma perché sfida la «costituzione materiale» di una democrazia rappresentativa nella quale la volontà di rottura di continuità espressa, sia pur in modo convulso e contraddittorio, nell’ultima elezione generale viene neutralizzata (le convulsioni dei 5Stelle, ma anche il triplo salto mortale della Lega, lo testimoniano), per essere infine piegata a una deriva iper-continuista (che difficilmente, pur collocandosi in un’Europa diversa, e pur disponendo degli euro del Recovery, sanerà le ferite sociali e il malessere che produssero la rivolta nelle urne del ’18).
E poi perché crea un governo ibrido, in cui l’élite tecnica siede su un tappeto di macerie costituite da un sistema dei partiti profondamente lesionato dove ogni forza politica si presenta negando una parte di se stessa e ogni cultura politica appare dissolta, rendendo assai improbabile l’efficacia del confinamento.
Un governo che, come tutti i governi omnibus, ospita una pletora di partecipanti, ognuno dei quali non rinuncerà a usare il »posto a tavola» ottenuto come megafono per regolare i conti col proprio vicino: i «polli di Renzo», anzi di Renzi potremmo dire, di cui già Salvini e compagni offrono un bell’esempio usando il podio che l’altro Matteo gli ha offerto per aprire una campagna elettorale permanente.
Fin dall’inizio dei miei studi in Scienza politica ho dovuto imparare che per il buon funzionamento di una democrazia moderna, è necessario che tra il livello della Società e quello delle Istituzioni esista una solida Società Politica, a svolgere il ruolo di canale di comunicazione e di fattore di legittimazione. Se questa avvizzisce o muore, avvizzisce e muore la democrazia.
In questo senso il «miracoloso» governo di Mario Draghi rischia di sfidare le leggi fisiche della politica, con esiti potenzialmente infausti.
La frase con cui Giovanni Agnelli commentò il governo Ciampi - «dopo il governatore, c’è solo un generale, o un cardinale» - potrebbe ritornare di attualità non se Draghi fallisse ma se, completato il mandato, la politica si presentasse ancora nuda alle elezioni del ‘23.
La Consulta: "Il cognome del padre è retaggio patriarcale, basta disparità"
"Non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna"
di Redazione ANSA*
ROMA L’accordo dei genitori sul cognome da dare al figlio può rimediare alla disparità fra di loro se, in mancanza di accordo, prevale comunque quello del padre? Con questo dubbio, la Corte ha sollevato dinanzi a sé la questione di legittimità dell’articolo 262, primo comma, del Codice civile, che detta la disciplina dei figli nati fuori dal matrimonio. L’ordinanza n. 18 depositata oggi (relatore il vicepresidente Giuliano Amato) spiega perché la risposta a questo dubbio sia pregiudiziale rispetto a quanto chiedeva il Tribunale di Bolzano.
L’attuale sistema di attribuzione del cognome paterno ai figli "è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia", e di "una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna". Lo sottolinea, riprendendo una sua pronuncia del 2006, la Consulta, nell’ordinanza con cui ha sollevato davanti a se’ stessa la questione sulla legittimità costituzionale dell’articolo 262 del Codice civile che stabilisce come regola l’assegnazione ai figli del solo cognome paterno.
CHARITÉ: SOCIALISMO O BARBARIE ....
Riccardo Cristiano. Bergoglio o barbarie *
Riccardo Cristiano racconta il suo saggio Bergoglio o barbarie, pubblicato da Castelvecchi nel 2020. L’idea di scrivere questo libro è venuta a Cristiano dopo l’incontro con un teologo che lo invitava ad andare negli Stati Uniti d’America per verificare di persona che l’alternativa a Bergoglio è la barbarie. Un’alternativa che ricordava quella famosa di Rosa Luxemburg tra socialismo o barbarie. Sostituire l’ideologia socialista con una persona come Bergoglio ha mostrato che il problema non era l’idea ma la realtà, perché la realtà è più importante delle nostre idee e il sole è quello che brilla oggi non quello dell’avvenire.
I suoi atti pontificali principali sono stati, secondo Cristiano, il documento di Abu Dhabi sulla fratellanza, che è l’antefatto dell’enciclica Fratelli tutti, l’accordo provvisorio con la Cina e il Sinodo per l’Amazzonia che è un po’ la sintesi del suo pontificato:
Riccardo Cristiano, particolarmente attento al dialogo interreligioso, a lungo coordinatore dell’informazione religiosa di Radio Rai, è fondatore dell’Associazione Giornalisti amici di padre Dall’Oglio e collabora come vaticanista con «Reset» e «La Stampa». Ha pubblicato con Castelvecchi Medio Oriente senza cristiani? (2014), Bergoglio, sfida globale (2015), Siria. L’ultimo genocidio (2017) e ha curato il volume Solo l’inquietudine dà pace. Così Bergoglio rilancia il vivere insieme (2018).
* FONTE: RAI CULTURA/FILOSOFIA
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VICO E MARX CONTRO LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITÀ POMPOSA.
FLS
LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITÀ POMPOSA.... *
Speranze e delusioni in un tornante decisivo del Novecento italiano
L’Orologio di Carlo Levi
di Andrea Mariuzzo (Il Mulino, 02 dicembre 2020])
Il 29 novembre del 1902 nasceva a Torino uno degli intellettuali più brillanti e sottovalutati del Novecento italiano: Carlo Levi. Esponente di quella generazione di figli della buona borghesia del capoluogo piemontese che in tanti casi si sarebbe impegnata nel gruppo cittadino di Giustizia e Libertà sgominato dalla polizia politica fascista nel 1935 a causa della delazione di Dino “Pitigrilli” Segre, Levi fu per tutta la vita attivista politico della sinistra antifascista, ma anche scrittore e giornalista, osservatore con occhio quasi antropologico delle dinamiche sociali piccole e grandi di un Paese, del suo Mezzogiorno più profondo e di una classe politica, e soprattutto pittore molto apprezzato dai suoi contemporanei.
Tuttora, Levi deve la sua fama alle riflessioni nate nel periodo del confino in un villaggio della Lucania, e raccolte in Cristo si è fermato a Eboli, pubblicato da Einaudi subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale e tradotto in tutto il mondo. Ormai quasi dimenticata è, invece, la sua opera letteraria forse più matura, L’Orologio, pubblicato sempre con la casa editrice torinese nel 1950. Eppure, esso rappresenta forse l’unico esempio riuscito, quantomeno tra i pochi applicati a materia relativa all’età repubblicana italiana, di un genere assai raramente praticato nella letteratura italiana, quello del “romanzo politico”.
Riletto oggi, di certo, il libro presenta al pubblico una difficoltà non da poco che pure deve essere affrontata per apprezzarlo, cioè la necessità di immaginarsi come all’epoca e nel contesto della sua stesura un protagonista degli eventi narrati, risalenti a cinque anni prima, potesse rileggerli e guardare criticamente al modo in cui li visse. Vale tuttavia la pena di provarci, per poter godere di una riflessione che ha ancora molto da dirci sull’attualità e sulle sue radici storiche.
L’Orologio, dunque, prende esplicitamente le mosse dalle conclusioni del Cristo si è fermato a Eboli, in alcune pagine citando esplicitamente il libro precedente. Nell’Italia fossilizzata su illusori contrasti all’interno della propria classe dirigente che in realtà celavano la realtà profonda della dialettica di sopraffazione sui “contadini” dei “donluigini”, occorreva ricostruire da zero una comunità nazionale realmente coesa, strutturata attorno a istituzioni davvero al servizio dei cittadini e capaci di accompagnarli nel loro sforzo di elevazione sociale, ma prima di tutto occorreva smantellare fino in fondo gli apparati amministrativi e burocratici dal precedente assetto strutturalmente ineguale. A quegli apparati burocratici i privilegiati di ogni livello, dai grandi imprenditori monopolisti ai piccoli titolari della concessione di una farmacia, erano avvinghiati per ottenere ciò che sanciva in modo inequivocabile la propria condizione di privilegio: una sinecura pubblica, una sovvenzione, una deroga, una norma spudoratamente favorevole.
Su questi rapporti istituzionali e politici malati, che pure lo precedevano di decenni negli interstizi della società italiana, si era retto per vent’anni il regime fascista, e allo smantellamento di questa patologia che era stata una delle basi portanti della dittatura doveva dedicarsi, per completare la sua opera, l’antifascismo vittorioso nel 1945. Era del resto questo l’obiettivo di quella che il Partito d’Azione, allora soggetto politico di riferimento di Carlo Levi nonché interprete più convinto dell’epopea resistenziale, intendeva raggiungere con quella che con un certo understatement era presentata come “riforma della pubblica amministrazione”, ma che in realtà doveva essere una rivoluzione culturale, un lavacro purificatore di tutti i germi socio-culturali alla radice del fascismo. Lavacro purificatore forse utopistico, ragione fondamentale per cui tanta parte delle culture politiche italiane, da quelle raccolte nei partiti di massa della sinistra marxista a quella del cattolicesimo organizzato di governo fino agli opinionisti liberal-conservatori a la Montanelli, avrebbe ricordato il Pda come un partito di anime belle, di illusi sospesi tra il desiderio di crogiolarsi nei loro sogni e la volontà di realizzarli con un colpo di mano giacobino, in definitiva figure storicamente inutili o peggio ancora (per chi guardava da destra) mosche cocchiere per utopie assai meglio armate.
Scrivendo L’Orologio nel 1950, Levi non rinnegava affatto quell’obiettivo ideale, ma in una certa misura ammetteva la necessità di riflettere su quanto esso fosse effettivamente realizzabile, poiché chiariva che esso poteva essere spiegato, e “fatto passare” al pubblico, solo nella forma del romanzo, della scrittura di finzione. Il canovaccio del racconto era però intessuto di fatti reali, poiché l’azione si svolgeva effettivamente tra il 22 e il 24 novembre del 1945, nelle convulse giornate in cui si consumò la crisi del governo guidato da Ferruccio Parri, l’esecutivo in cui gli azionisti avevano riposto le speranze di vedere realizzate le loro istanze di rinnovamento al soffio del “vento del Nord” dell’esperienza resistenziale. Allo stesso modo aveva radici nella realtà anche il ruolo del protagonista e voce narrante, direttore del quotidiano del partito che esprimeva “il Presidente”, proprio come nel novembre 1945 Levi era direttore dell’organo azionista “L’Italia libera”.
In fondo tutto il romanzo è la riflessione su quanto la compagine azionista ed ex-partigiana alla guida del governo chiede troppo a quel “vento del Nord”, per il quale era impossibile soffiare così forte da abbattere abitudini e necessità radicate troppo in profondità nel sentire del Paese, soprattutto delle sue zone più problematiche.
Questa riflessione si dipana, sul piano narrativo, nella forma di due viaggi.
Dapprima il protagonista-narratore si trova a compiere un giro per Roma alla ricerca di esponenti politici più o meno importanti, ma soprattutto alla scoperta di funzionari e impiegati passati dal pre-fascismo al post-fascismo senza mutare di una virgola il loro atteggiamento e il modo di interpretare il loro ruolo. Essi, ai suoi occhi, rappresentavano la vera forza materiale della conservazione, in quanto legati in maniera irremovibile a quei piccoli privilegi che di fatto non permettevano loro null’altro che di galleggiare appena sopra la miseria, ma senza i quali essi non sapevano neppure immaginarsi.
Al protagonista toccò poi compiere un viaggio di andata e ritorno per Napoli che assunse i caratteri di un’odissea tra strade bombardate e paesi ridotti all’inesistenza. Il viaggio di ritorno, in particolare, avverrà in automobile, privilegio che il direttore di un giornale di partito non si sarebbe mai potuto concedere se nel capoluogo campano non avesse ricevuto un passaggio da due esponenti di spicco dei due grandi partiti che si apprestavano a gestire in proprio il governo e il potere: Colombi (figura sotto cui si cela il democratico-cristiano Attilio Piccioni) e Tempesti (il comunista Emilio Sereni).
Proprio nel corso del viaggio due rappresentanti dei grandi partiti di massa, a cui simbolicamente sarebbe passata la responsabilità di guidare il Paese pochi giorni dopo con l’incarico di formare il governo affidato direttamente al leader della Dc Alcide De Gasperi, si rendono protagonisti di un dialogo di cui il protagonista è muto testimone, forse profetico per il dibattito pubblico degli anni successivi: un dialogo in cui moderati e sinistra si confrontano da posizioni opposte, ma portandolo avanti utilizzando le stesse parole e riconoscendo reciprocamente il ruolo l’uno dell’altro. Si manifestava insomma come inevitabile la conclusione che avrebbe condotto all’esito delle elezioni per la Costituente nel giugno 1946, ovvero quella per cui per avere successo nella politica italiana si doveva finire per accettare, e quasi per incorporare e rappresentare, ciò che nel Paese non funzionava, costruendo su tale comune accettazione la collaborazione e il conflitto.
Si chiudeva così la riflessione sul recente passato di Levi, che aveva accompagnato parole e pensieri del protagonista col pensiero ricorrente di un vecchio orologio di famiglia che aveva portato a riparare, ma che non avrebbe più ritirato anche perché nel frattempo gli eventi gliene avevano regalato uno nuovo, come a simboleggiare anche sul piano materiale una netta cesura nel suo percorso esistenziale di attivista politico antifascista che però si stagliava sulla continuità della verità destinata a uscire in modo più evidente dalle pagine del volume: «il nostro [Stato] è una grande organizzazione caritatevole per coloro che ne fanno parte [...]. Qualcuno deve pagare le spese della pubblica carità, le spese di Stato: e questi sono coloro che dello Stato non fanno parte».
Dopo settant’anni queste parole restano allo stesso modo suggestive, anche se l’effettiva partecipazione o meno alla “carità di Stato” si è fatta sempre meno facilmente intuibile.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
VICO E MARX CONTRO LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITÀ POMPOSA. Alcune note su un testo del Muratori
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO" !
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
“Ripartire dal desiderio” di Elisa Cuter (Minimum fax)
Da oscuro oggetto del desiderio a soggetto
di Valeria Finocchiaro *
Non è facile, oggi, scrivere che “Il femminile è l’immagine, il volto angelico, del capitalismo più violento, e allo stesso tempo il testimonial del pacifismo fintamente democratico e ipocrita del capitale”.
In una società che vorrebbe raccontare la donna come vittima eterna e agnello sacrificale, sollevandola sostanzialmente da ogni responsabilità e negandole capacità di giudizio, ribaltare esplicitamente l’immagine di donna passiva con quella di donna consapevole e volitiva espone a dei rischi, fra cui quello di scontentare la pletora di commentatori affezionati all’idea che la donna sia qualcosa da tutelare e di cui prendersi cura.
Il libro “Ripartire dal desiderio” di Elisa Cuter (Minimum fax) sceglie di correre qualche rischio nella speranza di introdurre un disordine propedeutico a scompaginare alcuni dogmi, come quello secondo cui “Un mondo più femminilizzato” sarebbe “garanzia di equità, inclusione, libertà o cooperazione”.
Risposte, a dire il vero, Cuter ne dà poche, ed è proprio quando non tenta di risolvere le contraddizioni del reale con facili soluzioni che diventa potente: il femminismo contemporaneo è già sufficientemente balcanizzato da ortodossie inconciliabili da non avere bisogno di ulteriori manuali di condotta. Questo libro sfugge infatti alla tentazione di fornire l’ultima parola, di costituirsi come breviario, di costruire una regola; eppure allo stesso tempo non rimane nel limbo aleatorio di un flusso di coscienza senza direzione: c’è lo sforzo di mantenersi all’altezza delle sfide che il mondo contemporaneo ci offre. Tenendo fede al compito più autentico della critica, che non è mai edificazione, Cuter pone delle domande e inquadra i problemi senza avanzare la pretesa di risolverli con la semplicità cristallina degli assiomi. In certi momenti, a dire il vero, si avverte il bisogno di trarre le fila di un discorso che in alcuni passaggi rimane aporetico, come quando accenna a un argomento piuttosto scivoloso: quello della servitù volontaria, tema cruciale e affatto nuovo che è però rimasto profondamente attuale fin dalla sua prima codificazione a opera di Etienne de la Boetie più di cinquecento anni fa.
Instagram è pieno di donne (e uomini) che mostrano le proprie foto di nudo o seminudo, per compiacere altri utenti e di rimando nutrire il proprio narcisismo, oppure in altri casi per celebrare la bellezza del proprio corpo, più o meno canonico che sia. Come si può riflettere su questo fenomeno da una prospettiva femminista, cercando di restare equidistanti sia dalla critica bigotta e moralistica, sia dall’individualismo liberale? Fino a che punto la spettacolarizzazione della propria sessualità, dell’erotismo e del piacere, è autentica emancipazione, e quando invece introduce lo sfruttamento capitalistico del sé che ogni individuo ha interiorizzato per stare al mondo?
Ancora una volta si pone il problema della libertà: cosa è, cosa ce ne facciamo. E più in particolare, la domanda che ci poniamo oggi dovrebbe consistere nel chiedersi se siamo capaci di riconoscere la libertà dentro un sistema, il capitalismo liberale, che ha camuffato il dominio sugli individui dietro le sembianze allettanti della libertà e della realizzazione individuale. Difficile stabilire se ci spogliamo su internet perché siamo finalmente libere dopo secoli di oppressione sessuale, oppure perché siamo indotte a mettere a profitto il nostro capitale sessuale, - e quindi nient’affatto libere.
Quello che si chiede il libro, dal mio punto di vista, è esattamente questo: esiste un modo di essere libere che non sia quello che il capitalismo ci offre? Siamo ancora in grado di desiderare qualcosa che ci renda felici, oppure questo desiderio è ormai inevitabilmente compromesso con la logica del profitto neoliberale? Come si fa a guardare il nostro corpo (e quello altrui) mettendo da parte il pensiero egemonico della perfezione e del giudizio? Anche perché, come sappiamo, il problema della libertà nel capitalismo è che, a dispetto di ciò che i corifei del sistema raccontano, questa libertà non è affatto alla portata di tutti: solo chi è più bravo a produrre (e solo fintantoché è in grado di farlo) può essere felice, tutti gli altri esclusi.
Dagli anni Ottanta si è imposta infatti una narrazione che impone alle donne - e a ogni individuo in generale - di contribuire al sistema non solo in veste di consumatrici, ma che premia in particolar modo quelle che sono riuscite nell’impresa, tutt’altro che semplice, di mettere a profitto il proprio capitale sessuale, la propria giovinezza: “la vittoria del femminile è la vittoria dello spettacolo” (che però riguarda tutti) e tra le soubrette e le modelle di Instagram la differenza sta nello storytelling: passività nel primo caso, autodeterminazione nel secondo.
Fin qui, niente di nuovo.
L’autrice però va oltre e si chiede: e se fare così ci fosse convenuto (e pure un po’ piaciuto)? Potrebbe essere il caso delle protagoniste del famoso programma televisivo Non è la Rai, andato in onda nei primi anni ’90, dove ragazzine sui quindici anni venivano istruite a mettere in scena una innocenza infantile a cui nessuno credeva, ma che servì a forgiare le fantasie sessuali di una intera generazione. Dice Cuter: “tante di loro, [...] vissero (o sfruttarono) l’esperienza anche come un trampolino ideale per intraprendere una carriera che dura tuttora”. E questo potrebbe valere, ad esempio, anche per le famose Olgettine, giovani donne note alla cronaca per i rapporti sessuali e i ricatti nei confronti di Berlusconi.
D’altronde è evidente che “in un contesto in cui ci viene continuamente imposto di mettere a mercato i nostri corpi e la nostra sfera più intima e individuale, cosa ci sorprende del fatto che qualcuno utilizzi il sesso per acquistare un po’ di potere?”. Nulla, e infatti in questo contesto, “una donna potrebbe volontariamente accettare per ottenere qualcosa in cambio: potrebbe insomma usare il sesso come moneta di scambio. Una pratica a cui le donne, come abbiamo visto, sono ricorse per secoli” (e a cui ricorrono tutt’ora).
Questa tendenza a mettere “volontariamente” a profitto il corpo, e quindi a renderlo “volontariamente” uno strumento passivo, è però una tendenza che non riguarda solo la donna, ma la società intera: quando si parla di femminilizzazione della società, spiega Cuter, bisogna infatti intendere quel processo paradossale per cui ogni individuo è via via portato a farsi oggetto, a diventare passivo almeno in apparenza, per ottenere qualcosa in cambio (dalla gratificazione narcisistica, al denaro, o al potere di esercitare una forma di dominio sugli altri). Si ricava insomma piacere dal fatto di “diventare un oggetto del desiderio (come una donna), ma anche diventare un oggetto nel senso di essere finalmente qualcosa di totalmente passivo, impotente: sollevato da quelle enormi responsabilità (principalmente verso se stessi) a cui si è costretti perfino se non ci si trova in nessuna posizione di potere”.
Anche se, tradizionalmente, è stata sempre la femmina ad avere “desiderato” di essere oggetto (“Essere femmina è essere un oggetto” scrive Cuter citando Andrea Long Chu), come dimostra l’abilità del genere femminile, perfezionata nel corso dei secoli, nell’arte-di-diventare-oggetto per eccellenza, ovvero quella di abbellirsi, oggi questa tendenza riguarda tutti, indipendentemente dal genere: “è in gioco una competizione tra soggetto maschile e femminile per il ruolo di oggetto”.
Ma se ciò che desideriamo, come soggetti, è quello di essere oggetti (di desiderio), stiamo ancora esercitando una libertà? In altri termini, la volontà di regredire al rango di oggetto (sessuale), è qualcosa che ci può rendere libere? Probabilmente sì, ma in che modo?
Il libro non ha la pretesa di risolvere queste domande, che vengono lasciate senza riposta; l’autrice ha però il coraggio di porle - con un gesto di rottura rispetto al conformismo rassicurante di molto femminismo contemporaneo -, sapendo bene di addentrarsi in una selva oscura: ciò che potremmo trovare all’interno potrebbe non piacerci affatto. Come nel film Stalker di Andrej Tarkowskij, siamo noi stesse, nella maggior parte dei casi, ad avere paura dei nostri desideri, perché questi ci obbligano a fare i conti con l’aspetto più oscuro e inquietante del nostro inconscio. “Il sesso [ma il discorso vale anche per il desiderio] non è una passeggiata, è rischioso, imbarazzante e spesso sgradevole. Sicuramente non è qualcosa di rassicurante”.
Un ulteriore punto di merito è il fatto di non peccare di universalismo astratto: quando si parla di femminismo, infatti, il rischio di confondere la propria esperienza specifica di donne occidentali con l’esperienza universale di donna è molto alto. È ovvio infatti che i percorsi di emancipazione delle donne bianche dei paesi sviluppati sono molto diversi, storicamente, da quelli delle donne nere in quegli stessi paesi, o in altri ancora. Mentre, ad esempio, le donne afroamericane si confrontano tutt’ora con un’esperienza di emarginazione razziale oltre che sessuale, le donne bianche dei paesi occidentali, dopo la grande stagione della lotta per i diritti formali, riflettono oggi soprattutto sul significato di quella libertà che il capitalismo si fregia di avere diffuso, mettendone in discussione premesse e risultati. Questo libro è ambientato in uno spazio e in un tempo specifico, l’Occidente, e precisamente in quella fase di decadenza economica che costituisce la cornice del nostro presente, con le sue ombre e i suoi fantasmi ricorrenti.
Fra questi, l’ossessione parossistica per la propria immagine, con tutto il suo portato di sofferenza e frustrazione, segue a quel ritiro nel privato (senza politica) che costituisce la cifra degli ultimi trent’anni. La cura di sé in Occidente ha preso una piega completamente diversa da quella auspicata da Foucault nel ciclo di lezioni che tenne al Collège de France: mentre il suo era un tentativo di formulare, con l’aiuto degli antichi, una forma di resistenza all’assoggettamento biopolitico, la nostra cura del sé ha preso le sembianze di un ingranaggio consumistico, la cui massima soddisfazione coincide con il massimo dell’exploitation.
C’è però un assente in questo libro, ed è l’amore: l’autrice non accenna quasi mai al rapporto, ben presente e sperimentato da ogni individuo, fra desiderio e amore (inteso qui non in senso monogamico né eterosessuale). Certamente davanti al discorso sull’amore ogni persona di buon senso intimidisce: si è frenati dal terrore di essere banali o stucchevoli o di non riuscire a esprimere con parole semplici qualcosa di complesso come l’esperienza amorosa, o viceversa di non trovare parole complesse a sufficienza per descrivere un’esperienza così semplice.
Eppure, anche se non esplicito, credo che un certo riferimento all’esperienza liberatoria dell’amore sia presente fra le righe, e che agisca in alcuni casi come catalizzatore di quel tipo di desiderio che riesce a fare a meno del dominio (come nel caso del rapporto fra Donna Haraway e il suo cane). Con il desiderio autenticamente liberatorio l’amore condivide il fatto di spezzare quel meccanismo infernale del compiacimento narcisistico illustrato sopra, perché in grado di sospendere la morsa dell’utilitarismo.
L’autrice, naturalmente, non ci dice cosa dobbiamo desiderare per essere persone libere. Né tantomeno le sfugge che il discorso sul desiderio è per sua natura opaco ed equivoco: non basta celebrare la potenza conflittuale del desiderio genericamente inteso - in virtù di un ottimismo deleuziano che funzionava per un’altra stagione politica e per un’altra generazione, ma che oggi si rivela parziale -, per risolvere il problema. Pagine e pagine di letteratura psicanalitica (non solo marxista) ci hanno insegnato che il desiderio senza regole è un’istanza egoica e potenzialmente distruttiva, foriera di squilibri enormi così come il suo pendant moralistico, cioè la repressione puritana.
Dal momento che non esiste alcun desiderio che non sia il prodotto di una serie di condizionamenti culturali e sociali, poiché i “desideri non nascono nel vuoto, [ma] sono frutto della società e delle relazioni in cui viviamo”, ciò su cui è necessario riflettere è fino a che punto, quando crediamo di esercitare un arbitrio, siamo consapevoli del condizionamento che ci deriva dall’essere individui desideranti all’interno di “un contesto in cui tutti, indipendentemente dal loro genere, si percepiscono sempre come merce”, e che quindi al posto di liberare le capacità di ciascun essere umano, le addomestica e le comprime.
Ripartire dal desiderio non significa quindi assecondare ogni desiderio, né tantomeno rifiutare a priori il suo potenziale liberatorio; significa piuttosto tornare a riflettere sul desiderio senza limiti moralistici, come invita a fare questo libro, cioè a metterlo in discussione e interrogarlo in modo radicale. In questo senso, quello di ripartire dal desiderio è compito non soltanto individuale e non soltanto femminista, ma della sinistra intesa come processo collettivo di trasformazione.
I diritti delle donne
Quel corpo è nostro
di Ilaria Romeo (Collettiva, 08.11.2020)
L’8 novembre 1975 la Cassazione dichiara valido il numero di firme raccolte per il referendum abrogativo delle norme che vietano l’aborto. Il voto si terrà l’anno successivo tra polemiche e dibattiti spesso animati da una chiara misoginia come lo scontro tra Italo Calvino che difendeva la libertà femminile e Claudio Magris e Pier Paolo Pasolini, antiabortisti
Per stimolare ed affrettare il Parlamento all’approvazione di una legge sulla interruzione volontaria della gravidanza, nel 1975 il Partito Radicale e il Mld prendono l’iniziativa di raccogliere le firme per un Referendum abrogativo delle norme del Codice penale che vietano l’aborto.
L’8 novembre 1975 la Cassazione dichiara valido il numero di firme per il referendum (se non subentrerà una nuova legge le votazioni dovranno tenersi tra il 15 aprile e il 15 giugno 1976). Scriveva Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera il 19 gennaio di quell’anno:
Un mese dopo anche lo scrittore Claudio Magris interverrà sulle pagine del Corriere esprimendo una posizione fortemente antiabortista e a tratti misogina che arrivava a irridere le misure igieniche in un articolo intitolato Gli sbagliati (nel 1981, imperterrito, Magris, in occasione del referendum sull’aborto, scriverà un altro articolo per il Corriere, schierandosi con gli avversari dell’aborto, come aveva già fatto. In questo caso però la testata aspetterà a pubblicare il pezzo all’indomani del referendum).
A Pasolini - e a Claudio Magris - risponde, a caldo, Italo Calvino:
Non dimentichiamo che fino a non tantissimi anni fa in Italia le donne non potevano votare, non potevano abortire né divorziare, potevano essere licenziate in caso di matrimonio, non potevano - da sposate - usare il proprio cognome, e se venivano uccise non era poi così grave, almeno non se si erano macchiate della colpa di aver leso l’onore maschile. Non dimentichiamo “che sarà sufficiente una crisi politica, economica o religiosa perché i diritti delle donne siano rimessi in discussione”. Non dimentichiamo e soprattutto rEsistiamo, ieri, oggi, sempre.
NATURA, TECNICA, CIVILTÀ: QUALE “SUGGERIMENTO E’ FECONDO”? La mossa di Kant spiazza tutti... *
A). NO GARDEN: “[...] per usare le parole di Donna Haraway, there is no garden and never has been. Il discorso sulla natura è un discorso avvelenato, e, per sua stessa “natura”, un nostro discorso. Invocare la natura, oltre che terribilmente insidioso, rischia di suonare ingenuo, quando non reazionario. Statuire delle nette dicotomie a partire da ciò che è “naturale” ancor peggio [...] Cultura e natura, soggetti e oggetti, persone e cose: noi immaginiamo un mondo di binarismi che non esistono. Ciò che rimane profondamente impensato è la relazione, l’ibrido, che il diritto non riesce a cogliere, fondato com’è sull’individuale. Su questo si sofferma Michele Spanò, curatore del testo e autore del prezioso saggio che tira le fila dei due che lo precedono, proponendo una innovativa terzietà: le azioni. Le procedure, le azioni collettive, sono il terreno di intersezione fra diritti e interessi, banco di prova per diritti soggettivi, del tutto inservibili alla causa della natura, e potenziale terreno fertile per assemblaggi di cose e persone, diretti destinatari entrambi dei danni ecologici. Il suggerimento è fecondo: al posto della vetusta soggettività, implicita nei “diritti della natura”, non dovremmo, forse, ripartire dalla tecnica?” ( cfr. Xenia Chiaramonte, “Fare la natura con le parole del diritto. Note su “L’istituzione della natura” di Y. Thomas e J. Chiffoleau” - Le parole e le cose, 1 Agosto 2020);
B). NO PARTY (“STERMINATOR VESEVO”): “[...] I più grandi pensatori pessimisti sono spesso portatori di una speranza utopica. È così per Leopardi (e per Machiavelli). Farla finita con la retorica dell’“usciremo migliori”, del “tutto andrà a finire bene” (che sembra presa di peso da un film americano di avventure), considerare che la tendenza all’egoismo e alla violenza fa parte della natura animale dell’uomo e nello stesso tempo impegnarsi perché quella alla solidarietà (insita, insieme alla spinta alla sopraffazione, in alcune specie animali, compresa quella umana) prevalga sulle pulsioni di morte, questo ci insegna Leopardi. Quando il fondamento della civiltà è in discussione, è il momento di tornare alle ragioni del patto sociale e al “pensiero” di cui La Ginestra ci parla ” (cfr. Romano Luperini, “Natura e civiltà: Leopardi e il corona virus “, La letteratura e noi, 27 luglio 2020);
C). “GENIO MALIGNO”, “RAGION PURA”, E “RIVOLUZIONE COPERNICANA”: “Con l’interpretazione de “i sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica” (1766), Kant traccia le linee epistemologiche del suo programma di ricerca: egli ha trovato la sua “bilancia” e, come già il Galilei del “Saggiatore”, comincia a usarla ! Non a caso, l’atmosfera che traspare - nel breve testo (un vero e proprio ‘discorso sul metodo’ del lavoro critico da portare avanti) - è quello delle grandi occasioni storiche. Fin dall’inizio (“Parte prima dogmatica. Capitolo 1. Un intricato nodo metafisico che si può a piacere sciogliere o tagliare”), egli mostra di essere ben consapevole di quale sia la posta in gioco, a quali reazioni va incontro (considerate le idee dominanti dell’epoca - sul piano metafisico, teologico-politico, e scientifico), e di quanto dura e lunga sarà la lotta. L’attacco ai “grandi sapienti” è fortissimo e richiama la lezione di Galilei e del “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” (quarta giornata) : “Le chiacchiere metodiche delle alte scuole sono spesso soltanto un accordo per sfuggire con parole ambigue ad una domanda difficile a risolversi, perché il comodo e il più delle volte ragionevole “non so” non si ode facilmente nelle accademie” (I. Kant, I sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica, Rizzoli, Milano 1982, p. 102). Quasi a dire, leggere bene - con attenzione : qui la questione non è più e solo astronomica, è metafisica in senso stretto e i due sistemi del mondo di cui si parla non sono più il “tolemaico” e il “copernicano”, ma il materialismo e il dogmatismo (l’idealismo e lo spiritualismo). La mossa di Kant spiazza tutti [...]” (cfr. Note per una rilettura di “I sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica”).
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr.: Federico La Sala, “Kant, Freud, e la banalità del male” (Academia-edu, 2010).
Una voce
Che cos’è la paura?
di Giorgio Agamben (Quodlibet, 13 luglio 2020)
Che cos’è la paura, nella quale oggi gli uomini sembrano a tal punto caduti, da dimenticare le proprie convinzioni etiche, politiche e religiose? Qualcosa di familiare, certo - eppure, se cerchiamo di definirla, sembra ostinatamente sottrarsi alla comprensione.
Della paura come tonalità emotiva, Heidegger ha dato una trattazione esemplare nel par. 30 di Essere e tempo. Essa può esser compresa solo se non si dimentica che l’Esserci (questo è il termine che designa la struttura esistenziale dell’uomo) è sempre già disposto in una tonalità emotiva, che costituisce la sua originaria apertura al mondo. Proprio perché nella situazione emotiva è in questione la scoperta originaria del mondo, la coscienza è sempre già anticipata da essa e non può pertanto disporne né credere di poterla padroneggiare a suo piacimento.
La tonalità emotiva non va infatti in alcun modo confusa con uno stato psicologico, ma ha il significato ontologico di un’apertura che ha sempre già dischiuso l’uomo nel suo essere al mondo e a partire dalla quale soltanto sono possibili esperienze, affezioni e conoscenze. «La riflessione può incontrare esperienze solo perché la tonalità emotiva ha già aperto l’Esserci». Essa ci assale, ma «non viene né dal di fuori né dal di dentro: sorge nell’essere-al-mondo stesso come una sua modalità».
D’altra parte questa apertura non implica che ciò a cui essa apre sia riconosciuto come tale. Al contrario, essa manifesta soltanto una nuda fatticità: «il puro “che c’è” si manifesta; il da dove e il dove restano nascosti». Per questo Heidegger può dire che la situazione emotiva apre l’Esserci nel «essere-gettato» e «consegnato» al suo stesso «ci». L’apertura che ha luogo nella tonalità emotiva ha, cioè, la forma di un essere rimesso a qualcosa che non può essere assunto e da cui si
cerca - senza riuscirci - di evadere.
Ciò è evidente nel malumore, nella noia o nella depressione, che, come ogni tonalità emotiva, aprono l’Esserci «più originariamente di ogni percezione di sé», ma anche lo chiudono «più recisamente di qualsiasi non-percezione». Così nella depressione «L’Esserci diventa cieco nei confronti di se stesso; il mondo ambiente di cui si prende cura si vela, la previsione ambientale si oscura»; e, tuttavia, anche qui l’Esserci è consegnato a un’apertura da cui non può in alcun modo liberarsi.
È sullo sfondo di questa ontologia delle tonalità emotive che occorre situare la trattazione della paura. Heidegger comincia con l’esaminare tre aspetti del fenomeno: il «davanti a che» (wovor) della paura, l’«aver paura» (Furchten) e il «per-che» (Worum) della paura. Il «davanti a che», l’oggetto della paura è sempre un ente intramondano. Ciò che spaventa è sempre - quale che sia la sua natura - qualcosa che si dà nel mondo e che, come tale, ha il carattere della minacciosità e della dannosità. Esso è più o meno noto, «ma non per questo rassicurante» e, quale che sia la distanza da cui proviene, si situa in una determinata prossimità. «L’ente dannoso e minaccioso non è ancora a distanza controllabile, ma si avvicina. Man mano che esso si avvicina, la dannosità si intensifica e produce così la minaccia... In quanto si avvicina, il dannoso diventa minaccioso, possiamo esserne colpiti o no. Nel farsi più vicino si accresce questo «è possibile ma forse anche no”... l’avvicinarsi di ciò che è nocivo ci fa scoprire la possibilità di essere risparmiati, del suo passar oltre, ma questo non sopprime né diminuisce la paura, anzi l’accresce» (pp. 140-41). (Questo carattere per così dire «certa incertezza» che caratterizza la paura è evidente anche nella definizione che ne dà Spinoza: una «tristezza incostante», in cui «si dubita dell’evento di qualcosa che si odia»).
Quanto al secondo carattere della paura, il temere (lo stesso «aver paura»), Heidegger precisa che non viene prima previsto razionalmente un male futuro, che poi, in un secondo tempo, viene temuto: fin dall’inizio, piuttosto, la cosa che si avvicina è scoperta come temibile. «Solo avendo paura, la paura può, osservando espressamente, rendersi conto di ciò che fa paura. Ci si accorge di ciò che fa paura, perché ci si trova già nella situazione emotiva della paura. Il temere, in quanto possibilità latente dell’essere-al-mondo emotivamente disposto, la paurosità, ha già scoperto il mondo in modo tale, che da esso possa avvicinarsi qualcosa che fa paura» (p. 141). La paurosità, in quanto apertura originaria dell’Esserci, precede sempre ogni determinabile paura.
Quanto, infine, al «per-che», al «per chi e per che cosa» la paura ha paura, in questione è sempre l’ente stesso che ha paura, l’Esserci, quest’uomo determinato. «Solo un essere per il quale nel suo esistere, ne va del suo stesso esistere, può spaventarsi. La paura apre questo ente nel suo essere in pericolo, nel suo essere abbandonato a se stesso» (ibid.). Il fatto che a volte si prova paura per la propria casa, per i propri beni o per gli altri non è un’obiezione contro questa diagnosi: si può dire di «aver paura» per un altro, senza per questo veramente spaventarsi e, se si prova effettivamente paura, è per noi stessi, in quanto temiamo che l’altro ci venga strappato.
La paura è, in questo senso, un modo fondamentale della disposizione emotiva, che apre l’essere umano nel suo essere già sempre esposto e minacciato. Di questa minaccia si danno naturalmente diversi gradi e misure: se qualcosa di minaccioso, che ci sta davanti col suo «per ora non ancora, ma tuttavia in qualsiasi momento», piomba improvvisamente su questo essere, la paura diventa spavento (Erschrecken); se il minaccioso non è già noto, ma ha il carattere dell’estraneità più profonda, la paura diventa orrore (Grauen). Se esso unisce in sé entrambi questi aspetti, allora la paura diventa terrore (Entsetzen). In ogni caso, tutte le diverse forme di questa tonalità emotiva, mostrano che l’uomo, nella sua stessa apertura al mondo, è costitutivamente «impaurito».
La sola altra tonalità emotiva che Heidegger esamina in Essere e tempo è l’angoscia ed è all’angoscia - e non alla paura - che viene attribuito il rango di tonalità emotiva fondamentale. E, tuttavia, è proprio in relazione alla paura che Heidegger può definirne la natura, distinguendo innanzitutto «ciò davanti a cui l’angoscia è angoscia da ciò davanti a cui la paura è paura» (p. 186). Mentre la paura ha sempre a che fare con qualcosa, il «“davanti a che” dell’angoscia non è mai un ente intramondano». Non solo la minaccia che qui si produce non ha il carattere di un possibile danno ad opera di una cosa minacciosa, ma «il “davanti a che” dell’angoscia è completamente indeterminato. Questa indeterminatezza non solo lascia del tutto indeciso da quale ente intramondano venga la minaccia, ma sta a significare che, in generale, l’ente intramondano è “irrilevante”» (ibid.). Il «davanti a che» dell’angoscia non è un ente, ma il mondo come tale. L’angoscia è, cioè, l’apertura originaria del mondo in quanto mondo (p. 187) e «solo perché l’angoscia determina già sempre latentemente l’essere-al-mondo dell’uomo, questi... può provare paura. La paura è un’angoscia caduta nel mondo, inautentica e nascosta a se stessa» (p. 189).
È stato non senza ragione osservato che il primato dell’angoscia rispetto alla paura che Heidegger afferma può essere facilmente rovesciato: invece di definire la paura come un’angoscia diminuita e decaduta in un oggetto, si può altrettanto legittimamente definire l’angoscia come una paura privata del suo oggetto. Se si toglie alla paura il suo oggetto, essa si trasforma in angoscia. In questo senso, la paura sarebbe la tonalità emotiva fondamentale, in cui l’uomo è già sempre a rischio di cadere. Di qui il suo essenziale significato politico, che la costituisce come ciò in cui il potere, almeno a partire da Hobbes, ha cercato il suo fondamento e la sua giustificazione.
Proviamo a svolgere e proseguire l’analisi di Heidegger. Significativo, nella prospettiva che qui ci interessa, è che la paura si riferisca sempre a una «cosa», a un ente intramondano (nel caso presente, al più piccolo degli enti, un virus). Intramondano significa che esso ha smarrito ogni relazione con l’apertura del mondo ed esiste fattiziamente e inesorabilmente, senza alcuna possibile trascendenza. Se la struttura dell’essere-al-mondo implica per Heidegger una trascendenza e un’apertura, è proprio questa stessa trascendenza a consegnare l’Esserci alla sfera della cosalità. Essere-al-mondo significa infatti essere cooriginariamente rimesso alle cose che l’apertura del mondo rivela e fa apparire. Mentre l’animale, privo di mondo, non può percepire un oggetto come oggetto, l’uomo, in quanto si apre a un mondo, può essere assegnato senza scampo a una cosa in quanto cosa.
Di qui la possibilità originaria della paura: essa è la tonalità emotiva che si dischiude quando l’uomo, perdendo il nesso fra il mondo e le cose, si trova irremissibilmente consegnato agli enti intramondani e non può venire a capo del suo rapporto con una «cosa», che diventa ora minacciosa. Una volta smarrita la sua relazione al mondo, la «cosa» è in se stessa terrorizzante. La paura è la dimensione in cui cade l’umanità quando si trova consegnata, come avviene nella modernità, a una cosalità senza scampo. L’essere spaventoso, la «cosa» che nei film del terrore assale e minaccia gli uomini, non è in questo senso che una incarnazione di questa inaggirabile cosalità.
Di qui anche la sensazione di impotenza che definisce la paura. Chi prova paura cerca di proteggersi in ogni modo e con ogni possibile accorgimento dalla cosa che lo minaccia - ad esempio indossando una mascherina o chiudendosi in casa -, ma questo non lo rassicura in alcun modo, anzi rende ancora più evidente e costante la sua impotenza a far fronte alla «cosa». Si può definire, in questo senso, la paura come l’inverso della volontà di potenza: il carattere essenziale della paura è una volontà di impotenza, il voler-essere-impotente di fronte alla cosa che fa paura. Analogamente, per rassicurarsi ci si può affidare a qualcuno cui si riconosce una qualche autorità in materia - ad esempio a un medico o ai funzionari della protezione civile - ma questo non abolisce in alcun modo la sensazione di insicurezza che accompagna la paura, che è costitutivamente una volontà di insicurezza, un voler-essere-insicuro. E questo è tanto vero che gli stessi soggetti che dovrebbero rassicurare intrattengono invece l’insicurezza e non si stancano di ricordare, nell’interesse degli impauriti, che ciò che fa paura non può essere vinto e eliminato una volta per tutte.
Come venire a capo di questa tonalità emotiva fondamentale, nella quale l’uomo sembra costitutivamente sempre in atto di precipitare? Dal momento che la paura precede ed anticipa la conoscenza e la riflessione, è inutile cercare di convincere l’impaurito con prove e argomenti razionali: la paura è innanzitutto l’impossibilità di accedere a un ragionamento che non sia suggerito dalla stessa paura. Come scrive Heidegger, la paura «paralizza e fa perdere la testa» (p. 141). Così di fronte all’epidemia si è visto che la pubblicazione di dati e opinioni certi provenienti da fonti autorevoli era sistematicamente ignorata e lasciata cadere in nome di altri dati e opinioni che non provavano nemmeno a essere scientificamente attendibili.
Dato il carattere originario della paura, si potrebbe venirne a capo solo se fosse possibile accedere a una dimensione altrettanto originaria. Una tale dimensione esiste ed è la stessa apertura al mondo, nella quale soltanto le cose possono apparire e minacciarci. Le cose diventano spaventose perché dimentichiamo la loro coappartenenza al mondo che le trascende e, insieme, le rende presenti.
L’unica possibilità di recidere la «cosa» dalla paura da cui sembra inseparabile è ricordarsi dell’apertura in cui essa è già sempre esposta e rivelata. Non il ragionamento, ma la memoria - il ricordarsi di sé e del nostro essere al mondo - può restituirci l’accesso a una cosalità libera dalla paura. La «cosa» che mi atterrisce, per quanto invisibile allo sguardo, è, come tutti gli altri enti intramondani - come quest’albero, questo torrente, quest’uomo - aperta nella sua pura esistenza. Solo perché io sono al mondo, le cose possono apparirmi e, eventualmente, farmi paura. Esse fanno parte del mio essere al mondo, e questo - e non una cosalità astrattamente separata e eretta indebitamente a sovrano - detta le regole etiche e politiche del mio comportamento. Certo, l’albero può spezzarsi e cadermi addosso, il torrente straripare e allagare il paese e quest’uomo improvvisamente colpirmi: se questa possibilità diventa improvvisamente reale, un giusto timore suggerisce le opportune cautele senza cadere nel panico e senza perdere la testa, lasciando che altri fondi il suo potere sulla mia paura e, trasformando l’emergenza in una stabile norma, decida a suo arbitrio quello che io posso o non posso fare e cancelli le regole che garantivano la mia libertà.
RAGION PURA E RADICI DELL’IO. Introduzione alla Critica della filosofia ...
Che strano modo “storico” di proporre e portare avanti una riflessione sulla “passione” della “critica” e “l’autocritica delle passioni” (cfr. Paolo Costa, “La passione critica è l’autocritica delle passioni”, Le parole e le cose, 21.07.2020) ! Come se la “Critica della Ragion Pura”, la “Critica della Ragion Pratica”, e la “Critica del Giudizio”, non fossero state mai scritte?!
Marx scrive (nonostante i “marxisti”) un “commento” continuo sul lavoro di “critica” portato avanti da Kant (da ricordare non solo la “Introduzione alla Critica della filosofia del diritto di Hegel”, ma anche i “Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica”, il “Per la critica dell’economia politica”, e “Il Capitale. Critica dell’economia politica”) e ancora oggi, dopo Freud e Foucault e Derrida, “essere giusti con Kant” è più che difficile ?! Boh e bah !?
L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT, IL PROGRAMMA DI MARX, E LA BUONA-PRASSI. Introduzione alla Critica della filosofia del diritto di Hegel...
La religione “è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera...
La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo.
Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale...
La critica ha strappato dalla catena i fiori immaginari, non perché l’uomo porti la catena spoglia e sconfortante, ma affinché egli getti via la catena e colga i fiori vivi....
La critica della religione finisce con la dottrina per cui l’uomo è per l’uomo l’essere supremo, dunque con l’imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole”
(Cfr. K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, 1844)
SUL TEMA, mi sia lecito, si cfr. “LEZIONE SU KANT” A GERUSALEMME e, al contempo, LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA “CAPO”!.
La biblioteca di Atlantide /
Lo scambio e il dono
di Vanni Codeluppi *
L’atto di donare degli oggetti ad altre persone svolgeva un ruolo fondamentale all’interno delle società primitive e continua a svolgerlo anche nelle società contemporanee. In molti settori merceologici, infatti, l’acquisto di un oggetto per regalarlo a qualcuno allo scopo di rafforzare la propria relazione con esso rappresenta una delle principali motivazioni che orientano i comportamenti delle persone.
Per comprendere il ruolo sociale svolto dal dono, le riflessioni ancora oggi più interessanti sono quelle sviluppate quasi un secolo fa dall’antropologo francese Marcel Mauss. Questi è partito dalle ricerche di uno dei maestri della sociologia e cioè Émile Durkheim, il quale, dopo aver studiato i comportamenti delle tribù aborigene dell’Australia e di altre società primitive, è giunto alla conclusione che le società producono in continuazione delle forme simboliche utilizzate dagli individui per attribuire al mondo sociale in cui vivono dei significati e un determinato ordine. Gli scambi di doni contribuiscono a questa produzione di forme simboliche, come ha messo in evidenza Mauss, nipote dello stesso Durkheim, nel 1923-24, sulla prestigiosa rivista L’Année Sociologique, all’interno del suo Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, pubblicato in forma di volume in Italia dall’editore Einaudi con una introduzione di Marco Aime.
In tale saggio, Mauss, ha messo in evidenza come nelle società primitive lo scambio di beni si configurasse come uno scambio simbolico, in quanto esprimeva con chiarezza i sentimenti e le relazioni che legano tra loro gli esseri umani. Ciò era apparso evidente a Mauss attraverso l’analisi dell’utilizzo che veniva fatto dei doni in alcune situazioni sociali fortemente ritualizzate. Come ad esempio nel potlatch, un banchetto-festa che veniva organizzato da alcune tribù del Nord-Ovest americano e nel quale ciascun capo-tribù sfidava gli invitati donando loro cibo e oggetti preziosi per dimostrare di essere più ricco e potente. Spesso arrivava anche a distruggere o bruciare tutte le ricchezze possedute. Attraverso il potlatch, dunque, gli oggetti donati o distrutti diventavano dei simboli del valore sociale, del prestigio e del potere e stabilivano o confermavano le gerarchie esistenti a livello sociale. Impiegando lo scambio di doni, le tribù potevano concludere scambi commerciali o stringere alleanze, ma potevano anche arrivare a sfidarsi reciprocamente.
Mauss ha definito gli scambi di doni come «fenomeni sociali totali», in quanto sono in grado di assumere la forma di scambi apparentemente liberi di oggetti, ma in realtà sono caratterizzati da un forte senso di obbligatorietà interindividuale. Il concetto di hau, o «spirito delle cose», gli ha consentito di spiegare tale fenomeno. Ha trovato infatti che presso le tribù Maori esisteva una particolare categoria di beni: i tonga (idoli sacri, stuoie, talismani, tesori, ecc.), che venivano tramandati di generazione in generazione ed erano profondamente legati alla tribù, alla famiglia e al proprietario, tanto da essere animati dal loro stesso hau, ovvero dalla loro forza spirituale. I Maori pensavano che gli oggetti donati possedessero una parte dell’anima del donatore (lo hau appunto) e che, di conseguenza, fosse necessario contraccambiarli per fare ritornare tale anima al suo legittimo proprietario, così come era necessario accettarli quando li si riceveva. Lo scambio di doni comprende pertanto secondo Mauss tre obblighi fondamentali: donare, ricevere e ricambiare. Ostacolare tali obblighi è considerato un rifiuto di instaurare uno scambio sociale, un gesto pericoloso equivalente a una vera e propria dichiarazione di guerra.
In sintesi, si può sostenere che l’aspetto fondamentale dell’analisi sviluppata da Mauss risiede nell’idea che attraverso lo scambio di doni si rafforzano e intensificano le relazioni che uniscono gli individui e perciò si crea la società. E dunque che il sistema sociale ha un bisogno vitale di continuare a contare sulla forza del simbolico, su quell’anima segreta che accomuna le persone e gli oggetti.
Mauss ha anche tentato di mettere a confronto il dono con lo scambio di tipo commerciale, affermando che il dono assume la forma di uno «scambio commerciale differito nel tempo». Riteneva, infatti, che tra i due tipi di scambio le differenze fossero minime, sebbene riconoscesse che lo scambio commerciale è caratterizzato da un certo grado di incertezza, in quanto il donatore non ha mai la sicurezza di essere ricambiato. Ma ciò che è importante è che per Mauss nelle società contemporanee, dove prevale una logica mercantile e utilitaristica, i principi del dono non sono scomparsi. Si sono invece trasformati e sono sopravvissuti in forme di diversa natura: la solidarietà, la carità, il sistema previdenziale dello Stato, ecc.
Gli antropologi venuti in seguito hanno solitamente confermato la validità delle idee espresse da Mauss. Fa eccezione probabilmente soltanto Georges Bataille, il quale ha rifiutato nel volume La parte maledetta di considerare come una componente del dono quella obbligatorietà sociale che ricopre invece un ruolo fondamentale nell’analisi che è stata svolta da Mauss. Per Bataille, cioè, il dono non dev’essere necessariamente ricambiato, in quanto è da considerare come uno spreco e una dépense. A suo avviso, infatti, va enfatizzata la natura eccessiva e gratuita del dono, considerandola strettamente legata a quell’intrinseca necessità di distruggere e sperperare che caratterizza generalmente la produzione all’interno del sistema capitalistico. Bataille era mosso però soprattutto dall’obiettivo di sviluppare una critica del capitalismo e ha trascurato perciò quella potente funzione simbolica che viene svolta dagli scambi di doni all’interno dei sistemi sociali.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VICO E MARX CONTRO LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITÀ POMPOSA.
FLS
Festival di Filosofia
AMORE. Perché quando batte il cuore ci sentiamo veramente più umani
Un romanzo, "L’ imperatore del Portogallo", è un esempio di cosa significa amare. Ma c’è una risposta diversa al modo di diventare umani e l’ha fornita Kojève
di TZVETAN TODOROV *
Uno dei più bei romanzi del ventesimo secolo, L’ empereur du Portugal di Selma Lagerlof, inizia con l’episodio nel quale si descrive la nascita di una bambina così come viene percepita dall’ anima di suo padre Jan. Costui è un povero agricoltore, che non possiede nulla, non ha combinato nulla di rilevante. Si è sposato avanti con gli anni ed ecco che la gravidanza della moglie giunge ora al termine. Jan ha trascorso l’ intera giornata attendendo fuori dalla porta, ha freddo, è stanco, pensa a tutte le piccole seccature che la presenza della neonata comporterà per la sua casa. Tuttavia, alla fine entra nella stanza dove la moglie ha partorito e gli mettono tra le braccia un fagotto, dal quale spuntano un visino un po’ sgualcito e delle esili manine.
All’ improvviso sente il cuore battergli così forte in petto da essere quasi impaurito, e subito chiede aiuto alle altre donne lì presenti. Queste afferrano in un batter d’ occhio la situazione, e scoppiano a ridere. «Non avete mai amato abbastanza qualcuno in precedenza, da provare batticuore soltanto adesso?», gli chiede la levatrice. Jan deve ammettere di no, ma comprende che cosa ha appena vissuto. E Selma Lagerlof commenta: «Colui che non sente il proprio cuore battere, né nella tristezza né nella gioia, non può considerarsi un vero essere umano» (pag. 13).
L’ imperatore del Portogallo è la storia di un amore folle, quello di un padre per sua figlia. Ci si accorge immediatamente che la posta in gioco non è insignificante - né per il protagonista, né per l’ autore: si tratta, né più né meno, di identificare che cosa renda gli uomini davvero umani. L’ interrogativo sull’ identità umana può essere formulato nei contesti più disparati, e ricevere di conseguenza risposte quanto mai diverse. La risposta di Lagerlof si colloca su un piano che potremmo definire antropomorfo, che si estrinseca in una sola parola: l’ amore. Ciò che rende questo essere specificatamente umano è la sua capacità di amare. è facile dire di una simile affermazione che è bella o che è nobile, ma ci si potrebbe spingere ad affermare che è vera? Prima di pronunciarmi a questo proposito, vorrei ricordare un altro tentativo di spiegare la specificità umana, che si situa sul medesimo piano antropologico.
Negli anni Trenta del nostro ventesimo secolo, un giovane filosofo russo emigrato a Parigi, Alexandre Kojève, spiega a qualche attento ascoltatore il senso della celebre «dialettica del padrone e del servitore» nella Fenomenologia dello spirito di Hegel. Dopo la guerra, uno degli ascoltatori presenti nel pubblico, Raymond Queneau, pubblicherà quelle conferenze con il titolo Introduzione alla lettura di Hegel, un’ opera che eserciterà una profonda influenza su numerosi autori contemporanei.
La risposta di Hegel alla specificità umana (così come fu interpretata da Kojève) è molto diversa da quella di Lagerlof. In che cosa consiste la differenza tra l’ animale e l’ uomo? Il primo agisce sempre e soltanto in ragione del proprio istinto di conservazione, e a questo fine si appropria di tutto ciò che gli è necessario (per esempio il cibo), eliminando gli ostacoli (i rivali). Il secondo fa altrettanto, ma non si accontenta di questo, ricerca qualcosa di più della sua semplice soddisfazione fisiologica: aspira a far sì che il suo valore sia apprezzato, e questo non può venirgli se non da altri. Dunque l’umanità ha inizio là dove «il desiderio biologico della conservazione della vita» si asservisce «all’ umano desiderio di approvazione» (pag. 170). Ne consegue che essere umani significa essere pronti a rischiare la propria vita per qualcosa che va al di là di essa. Essere umani significa smettere di considerare la propria vita un valore assoluto. Questa situazione estrema agli occhi di Kojève rivela la verità insita nella ricerca di approvazione: poiché tutti desiderano ottenerla e poiché per ottenere ciò che si auspica di ottenere dagli altri è necessario prima di tutto conquistarli, la vita umana non è altro che una spietata lotta finalizzata ad averla vinta, che sfocia con la comparsa di un padrone - il vincitore - e di un servo - il vinto. La storia dell’ umanità è la storia della loro lotta e delle sue ripercussioni (della lotta di classe, dirà Marx).
Kojève può dunque concludere: «L’ esistenza umana, storica, cosciente di se stessa, non è pertanto possibile se non laddove vi sono - o per lo meno vi sono state - delle guerre sanguinarie, delle guerre per il prestigio». Ciò che è specificatamente umano non è più l’ amore, ma la guerra.
La risposta di Kojève è sicuramente meno attraente di quella di Lagerlof, ma è forse meno vera? Molti contemporanei paiono averla prescelta, temendo senza dubbio che li si possa accusare, in caso contrario, di sdolcinatezza (la verità deve essere sempre amara, questo è uno dei sorprendenti postulati della filosofia occidentale moderna).
Rivolgiamoci allora, per cercare di vederci più chiaro, non tanto alla problematica comparsa della specie umana all’ alba della storia, quanto a quella infinitamente più facile da osservare dell’ individuo umano (che ben descrive il primo capitolo de L’ empereur du Portugal). Alla sua nascita il piccolo d’ uomo non si distingue radicalmente da quelli delle altre specie animali, per esempio le scimmie superiori: il bambino aspira a essere confortato, scaldato e nutrito - ma i piccoli delle scimmie fanno altrettanto. Le differenze tuttavia vi sono, e una tra esse acquisisce un significato del tutto particolare. A un’ età che possiamo collocare approssimativamente intorno alla settima o l’ ottava settimana di vita, il lattante fa un gesto che non ha uguali nel mondo animale: non si accontenta più di guardare la madre (questo lo fa dal momento stesso della sua nascita), ma cerca di catturare il suo sguardo, per esserne guardato. Ricerca e contempla lo sguardo che lo contempla: questo è l’ avvenimento grazie al quale il bambino entra in un mondo inequivocabilmente umano.
Vediamo allora che la tesi di Kojève è accettabile soltanto in parte: in una prospettiva antropologica è corretto affermare che l’ esistenza specificatamente umana inizia con il riconoscimento di noi stessi che riceviamo dall’ esterno, da un altro essere umano. è la stessa cosa che aveva già affermato Rousseau, probabile ispiratore di Hegel a questo proposito: all’ alba dell’ umanità «ciascuno iniziò a guardare gli altri e a volerne essere guardato» (Inégalité, pag. 169).
Ma qualsiasi riconoscimento - e qui occorre voltare le spalle a Kojève - non implica necessariamente una lotta mortale. L’ esistenza dell’ individuo, in quanto specificatamente umana, non inizia su un campo di battaglia, bensì con il neonato che attira su di sé lo sguardo della madre - una situazione, ammettiamolo, che pochi uomini hanno avuto l’ occasione di osservare fino a un passato recente. Grazie a quello sguardo inizia a esistere.
Senza riconoscimento, senza intersoggettività, senza società non vi è umanità. E senza amore? Non sappiamo ciò che la sua assenza determinerebbe a livello di specie, ma sappiamo tutti che alcuni individui arrivano, ahimè, ad attraversare l’ intera vita senza mai conoscere l’ amore. «Signor Hamil, si può vivere senza amore?», domanda il piccolo Momo nel capolavoro di Romain Gary La vie devant soi. «Sì, rispose abbassando la testa, come se provasse vergogna. E si mise a piangere» (pag. 12). Coloro che vivono senza amore sono esseri sfortunati, certo, ma indiscutibilmente sono esseri umani.
L’ amore non è invero necessario né alla conservazione della vita né a quella dell’ esistenza, che nasce dal riconoscimento e non dall’ amore. Selma Lagerlof sarebbe forse in disaccordo con questa conclusione? Non credo, infatti l’ autrice non intendeva suggerire che prima della nascita della sua bambina Jan non fosse, sinceramente parlando, un essere umano. Lei ha inteso dire che grazie all’ amore che Jan prova per la figlia egli ha realizzato la propria potenziale identità, ciò che vi è di più elevato nella condizione umana.
Si deve dunque intendere che un «vero essere umano» non è una constatazione di fatto, bensì un giudizio di valore. La migliore vita umana (non la vita umana in sé e per sé, dunque) è quella che vive nell’ amore, pare dirci Lagerlof. E così dicendo anche lei condividerebbe una delle idee costitutive alla base dell’ amor cortese medievale - «nessun uomo ha virtù senza amore» scriveva Bernard de Ventadour - che avrebbe lasciato delle tracce profonde nel concetto europeo di amore.
Traduzione di Anna Bissanti
IL DESIDERIO, IL “SOGNO D’AMORE”, E LA TRAPPOLA DELLA “TRUFFA ROMANTICA”.
PER CHI HA AVUTO L’OPPORTUNITA’ O IL MODO “di venire a conoscenza, se pur in modo fugace e non dettagliato, della vicenda del fantomatico Mark Caltagirone, promesso sposo virtuale della nota showgirl Pamela Prati”, CONSIGLIO UNA LETTURA ATTENTA DELL’ARTICOLO “La truffa esiste anche in danno alla vita sentimentale” (Laura Vasselli, "InLibertà"), TOCCA UNA QUESTIONE FONDAMENTALE DELLA STESSA VITA DI OGNI PERSONA, NON SOLO SUL PIANO DEI RAPPORTI PRIVATI MA ANCHE DEI RAPPORTI PUBBLICI: “[...] credere che la finzione si confonda con la realtà , [...] perdere la lucidità e il senso di realtà”!
QUANTO TALE “PROBLEMA” SIA DEGNO DI ESSERE PENSATO A FONDO (E A TUTTI I LIVELLI) è chiaramente detto - come scrive l’autrice - nella motivazione della Suprema Corte di Cassazione Penale che, con la sentenza n. 25165/2019 in materia di “truffa romantica” ha stabilito che essa “non si apprezza per l’inganno riguardante i sentimenti dell’agente rispetto a quelli della vittima, ma perché la menzogna circa i propri sentimenti è intonata con tutta una situazione atta a far scambiare il falso con il vero operando sulla psiche del soggetto passivo“ (cit.).
CHE DIRE?! E’ UNA SOLLECITAZIONE A SAPERSI CONDURRE CON SENNO SIA NELLE QUESTIONI PRIVATE SIA NELLE QUESTIONI PUBBLICHE E UN INVITO A NON PERDERE IL SENSO DELLA REALTA’ (sul tema, non sembri strano né casuale, si cfr. l’articolo di Italo Mastrolia, su “#iorestoacasa, Forza Italia”). NE VA DELLA NOSTRA STESSA VITA : E’ UN PROBLEMA DI SANA E ROBUSTA COSTITUZIONE, A TUTTI I LIVELLI.
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CALIPSO, PENELOPE, E LA COSTITUZIONE. PER LA CRITICA DEL “SOGNO D’AMORE” DELLA “RAGION PURA”...
SICCOME, E GIUSTAMENTE, va detto che, oggi, “il fenomeno è sommerso nel senso che molte persone sono vittime attive” (Laura Vasselli, cit), e che il problema è un problema di “psicoanalisi della società contemporanea” e di una società “malata” (si cfr. E. Fromm, “The sane society”, 1955), il mio invito - mi sia lecito - vuol essere solo una piccola sollecitazione a meglio contribuire a portare avanti il critico lavoro di “interpretazione dei sogni” (Freud), del “sogno d’amore”, e non perdere quanto messo a fuoco nella riflessione sul caso “Pamela Prati”.
CONSIDERATO CHE “è attraverso la mediazione delle cause interne - come ricordava ai suoi tempi il presidente della Repubblica popolare cinese, Mao Tse Tung - che quelle esterne producono il loro effetto”, e che le possibilità delle tentazioni e degli inganni sono “infiniti”, forse, vale la pena sfogliare l’album della memoria e ricordare quanto BENIAMINO PLACIDO “Agli amici alla vigilia di un cambiamento, un nuovo lavoro, un viaggio, una storia d’amore seria, amava chiedere: «Sai perché Odisseo non ascolta Calipso e non rimane con lei sull’isola felice, pur davanti alla promessa di diventare immortale, bello, sano e innamorato per sempre? Sai perché rinuncia a quella eterna felicità e si rimette in mare tra mostri, tempeste e nemici ferocissimi, umani e divini?». Di fronte allo sguardo perplesso dell’interlocutore, sgranava gli occhi bulbosi, accennava un sorriso malizioso, alzava l’indice da saggio e scandiva «Perché per noi umani l’identità è più importante dell’immortalità, capisci? Sempre!». L’identità era cambiare, studiare, viaggiare, praticare nuovi mestieri, ma senza cambiare il cuore a nessun costo, neanche in cambio dell’immortalità e di una Dea come amante” (si cfr. G. R., “Beniamino Placido (1929-2010) / Beniamino e il segreto di Odisseo”, "Il Sole-24 Ore", 7 gennaio 2010).
Questo, in altre parole, non vuol dire che solo un “sogno d’amore” con gli occhi aperti e la mente sveglia rende possibile l’«odissea» - e “Itaca”? E che per questo è fondamentale e decisivo la necessità e l’urgenza del lavoro della critica del “sogno d’amore” della “ragion pura” (Kant)?! O no?
CONCILIO DI NICEA I e il CONCILIO DI NICEA - 2025. Materiali sul tema:
2 MAGGIO 2020. Il santo del giorno
Atanasio. Discepolo di sant’Antonio, difensore dell’ortodossia
di Matteo Liut (Avvenire, giovedì 2 maggio 2019)
Sant’Atanasio fu come un ponte per la Chiesa antica: sulle spalle, infatti, portò il “peso” della retta dottrina, dell’ortodossia, traghettandola attraverso un periodo difficile, nel quale sembrava che l’eresia dovesse trionfare.
Era nato ad Alessandria nel 295 e nel 325 era al Concilio di Nicea come diacono del vescovo Alessandro. Lì si stabilì che il Figlio era della stessa sostanza del Padre, Cristo non era “come” Dio, ma era Dio.
Una verità che gli ariani tentavano di negare, mettendo in campo una lotta aspra, spesso fatta di calunnie e strategie politiche.
Nel 328 la gente volle Atanasio come nuovo vescovo di Alessandria e lui, nei suoi 46 anni di episcopato, si dimostrò un saldo difensore della verità. Ma dovette subire attacchi personali e anche esili prima di essere riabilitato. Ebbe come maestro sant’Antonio abate di cui scrisse una Vita. Morì nel 373.
Altri santi. San Felice di Siviglia, martire (IV sec.); sant’Antonino Pierozzi (di Firenze), vescovo (1389-1459).
Letture. At 5,27-33; Sal 33; Gv 3,31-36.
Ambrosiano. At 4,32-37; Sal 92; Gv 3,7b-15.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Federico La Sala
PANDEMIA E “APOCALISSE”. La rivelazione del “lato nascosto” della lezione di Marx: vi è una socialità non capitalistica nel cuore del capitalismo... *
A). A lezione di pandemia: "[...] La pandemia ha funzionato come l’apparizione di un nuovo idolo, terrificante e promettente al contempo, che imprigiona fisicamente ma libera lo spirito, che si presenta come un fenomeno brutalmente naturale - un’ennesima manifestazione della Natura matrigna indifferente all’Umanità - ma fin da subito agisce come enorme costrutto socio-culturale, ricettacolo di proiezioni immaginarie, dai sogni rivoluzionari più rosei agli incubi apocalittici più turpi. Soprattutto ha offerto la possibilità al cittadino di partecipare a un immane (e tragico) esperimento, la sospensione del modello produttivo capitalistico, e di riflettere a come uscire dal confino e al contempo dal mondo precedente, quello che sembrava avviato a un fatale deterioramento delle condizioni di vita sul pianeta. Insomma, il fenomeno virale si è manifestato all’insegna di una costitutiva ambivalenza, che ha messo in scacco tutta una serie di opposizioni concettuali che avevano ampio corso nel mondo precedente [...]"(Andrea Inglese, "A lezione di pandemia: vi è una socialità non capitalistica nel cuore del capitalismo", 14 aprile 2020).
B). "VI è è una socialità non capitalistica nel cuore del capitalismo": “[...] L’idea di - con un’espressione assai approssimativa - una socialità non capitalistica all’interno del capitalismo deriva da una visione antropologica e filosofica non solo del capitalismo, ma da una concezione globale delle società storiche e del loro funzionamento. In quest’ottica, questa idea vale come un dato di fatto. [...] Vi è una sorta di funzionamento solidale e coordinato che precede qualsiasi opzione morale specifica e qualsiasi opzione ideologica specifica. (Ed è questo tessuto sottostante che ha minacciato di rompersi, con l’opzione della moria indiscriminata dei più vulnerabili al virus.)
Detto questo, il discorso si puo’ fare anche rovesciato. Ossia, possiamo dirci anti-capitalistici finché vogliamo, ma ogni giorno il capitalismo, in tutti i suoi aspetti, funziona grazie alla nostra collaborazione, siamo noi che lo portiamo avanti a tutti i livelli dell’organizzazione sociale” (Andrea Inglese - cit. , 18 aprile 2020).
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. “CHI” SIAMO NOI, IN REALTÀ. Relazioni chiasmatiche e civiltà. Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni (in memoriam) - Con Marx, oltre.
SCIENZA, STORIA E MEMORIA. PORTARSI DOPO DEWEY ....
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ALLA LUCE DEL GRANDE “SUCCESSO” NELLA CAPACITA’ DI ANALISI DELLA DIFFUSIONE DEL CORONAVIRUS mostrato dal CNR, il Consiglio Nazionale delle Ricerche (“Coronavirus. Rischio basso, capire condizioni vittime”, 22/02/2020), e della condivisione dei suoi “risultati” da parte di Giorgio AGAMBEN (”Lo stato d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata”, il manifesto, 26/02/2020) , CONDIVIDENDO l’urgenza di accogliere “La sfida del Covid-19 alle scienze umane”, mi sia lecito rinviare ad alcune note dell’anno scorso (2019) proprio sul tema del “processo di apprendimento nelle due culture”. Forse, è proprio ora di uscire dal letargo e riprendere la navigazione “sotto coverta” e “il dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” con Galileo Galilei. O no?!
MUSICA, POLITICA, E PIFFERAIO MAGICO...
PER CARITÀ...
MUSICA, POLITICA, E PIFFERAIO MAGICO: RIATTIVARE LA MEMORIA della TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE, della “Wohl-tätigkeit”, della carità! “THE SHAWSHANK REDEMPTION” : LA “MOS-ART” (“arte di Mosé”)! Una breve sequenza dal film “Le Ali della Libertà”.
PSICOANALISI, POLITICA, E SOCIETA’. "PADRI", "FIGLI", E QUESTIONE ANTROPOLOGICA - "EDIPICA"...*
I giovani infelici
di Pier Paolo Pasolini ("primi giorni del 1975")*
Uno dei temi più misteriosi del teatro tragico greco è la predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri.
Non importa se i figli sono buoni, innocenti, pii: se i loro padri hanno peccato, essi devono essere puniti.
È il coro - un coro democratico - che si dichiara depositario di tale verità: e la enuncia senza introdurla e senza illustrarla, tanto gli pare naturale.
Confesso che questo tema del teatro greco io l’ho sempre accettato come qualcosa di estraneo al mio sapere, accaduto «altrove» e in un «altro tempo». Non senza una certa ingenuità scolastica, ho sempre considerato tale tema come assurdo e, a sua volta, ingenuo, «antropologicamente» ingenuo.
Ma poi è arrivato il momento della mia vita in cui ho dovuto ammettere di appartenere senza scampo alla generazione dei padri. Senza scampo, perché i figli non solo sono nati, non solo sono cresciuti, ma sono giunti all’età della ragione e il loro destino, quindi, comincia a essere ineluttabilmente quello che deve essere, rendendoli adulti.
Ho osservato a lungo in questi ultimi anni, questi figli. Alla fine, il mio giudizio, per quanto esso sembri anche a me stesso ingiusto e impietoso, è di condanna. Ho cercato molto di capire, di fingere di non capire, di contare sulle eccezioni, di sperare in qualche cambiamento, di considerare storicamente, cioè fuori dai soggettivi giudizi di male e di bene, la loro realtà. Ma è stato inutile. Il mio sentimento è di condanna. I sentimenti non si possono cambiare. Sono essi che sono storici. È ciò che si prova, che è reale (malgrado tutte le insincerità che possiamo avere con noi stessi). Alla fine - cioè oggi, primi giorni del ’75 - il mio sentimento è, ripeto, di condanna. Ma poiché, forse, condanna è una parola sbagliata (dettata, forse, dal riferimento iniziale al contesto linguistico del teatro greco), dovrò precisarla: più che una condanna, infatti il mio sentimento è una «cessazione di amore»: cessazione di amore, che, appunto, non da luogo a «odio» ma a «condanna».
Io ho qualcosa di generale, di immenso, di oscuro da rimproverare ai figli. Qualcosa che resta al di qua del verbale: manifestandosi irrazionalmente, nell’esistere, nel «provare sentimenti». Ora, poiché io - padre ideale - padre storico - condanno i figli, è naturale che, di conseguenza, accetti, in qualche modo l’idea della loro punizione.
Per la prima volta in vita mia, riesco così a liberare nella mia coscienza, attraverso un meccanismo intimo e personale, quella terribile, astratta fatalità del coro ateniese che ribadisce come naturale la «punizione dei figli».
Solo che il coro, dotato di tanta immemore, e profonda saggezza, aggiungeva che ciò di cui i figli erano puniti era la «colpa dei padri».
Ebbene, non esito neanche un momento ad ammetterlo; ad accettare cioè personalmente tale colpa. Se io condanno i figli (a causa di una cessazione di amore verso di essi) e quindi presuppongo una loro punizione, non ho il minimo dubbio che tutto ciò accada per colpa mia. In quanto padre. In quanto uno dei padri. Uno dei padri che si son resi responsabili, prima, del fascismo, poi di un regime clerico-fascista, fintamente democratico, e, infine, hanno accettato la nuova forma del potere, il potere dei consumi, ultima delle rovine, rovina delle rovine.
La colpa dei padri che i figli devono pagare è dunque il «fascismo», sia nelle sue forme arcaiche, che nelle sue forme assolutamente nuove - nuove senza equivalenti possibili nel passato?
Mi è difficile ammettere che la «colpa» sia questa. Forse anche per ragioni private e soggettive. Io, personalmente, sono sempre stato antifascista, e non ho accettato mai neanche il nuovo potere di cui in realtà parlava Marx, profeticamente, nel Manifesto, credendo di parlare del capitalismo del suo tempo. Mi sembra che ci sia qualcosa di conformistico e troppo logico - cioè di non-storico - nell’identificare in questo la colpa.
Sento ormai intorno a me lo «scandalo dei pedanti» - seguito dal loro ricatto - a quanto sto per dire. Sento già i loro argomenti: è retrivo, reazionario, nemico del popolo chi non sa capire gli elementi sia pur drammatici di novità che ci sono nei figli, chi non sa capire che essi comunque sono vita. Ebbene, io penso, intanto, che anch’io ho diritto alla vita - perché, pur essendo padre, non per questo cesso di essere figlio. Inoltre per me la vita si può manifestare egregiamente, per esempio, nel coraggio di svelare ai nuovi figli, ciò che io veramente sento verso di loro. La vita consiste prima di tutto nell’imperterrito esercizio della ragione: non certo nei partiti presi, e tanto meno nel partito preso della vita, che è puro qualunquismo. Meglio essere nemici del popolo che nemici della realtà.
I figli che ci circondano, specialmente i più giovani, gli adolescenti, sono quasi tutti dei mostri. Il loro aspetto fisico è quasi terrorizzante, e quando non terrorizzante, è fastidiosamente infelice. Orribili pelami, capigliature caricaturali, carnagioni pallide, occhi spenti. Sono maschere di qualche iniziazione barbarica. Oppure, sono maschere di una integrazione diligente e incosciente, che non fa pietà.
Dopo aver elevato verso i padri barriere tendenti a relegare i padri nel ghetto, si son trovati essi stessi chiusi nel ghetto opposto. Nei casi migliori, essi stanno aggrappati ai fili spinati di quel ghetto, guardando verso noi, tuttavia uomini, come disperati mendicanti, che chiedono qualcosa solo con lo sguardo, perché non hanno coraggio, ne forse capacità di parlare. Nei casi né migliori né peggiori (sono milioni) essi non hanno espressione alcuna: sono l’ambiguità fatta carne. I loro occhi sfuggono, il loro pensiero è perpetuamente altrove, hanno troppo rispetto o troppo disprezzo insieme, troppa pazienza o troppa impazienza. Hanno imparato qualcosa di più in confronto al loro coetanei di dieci o vent’anni prima, ma non abbastanza. L’integrazione non è un problema morale, la rivolta si e codificata. Nei casi peggiori, sono dei veri e propri criminali. Quanti sono questi criminali? In realtà, potrebbero esserlo quasi tutti. Non c’è gruppo di ragazzi, incontrato per strada, che non potrebbe essere un gruppo di criminali. Essi non hanno nessuna luce negli occhi: i lineamenti sono lineamente contraffatti di automi, senza che niente di personale li caratterizzi da dentro. La stereotipia li rende infidi. Il loro silenzio può precedere una trepida domanda di aiuto (che aiuto?) o può precedere una coltellata. Essi non hanno più la padronanza dei loro atti, si direbbe dei loro muscoli. Non sanno bene qual è la distanza tra causa ed effetto. Sono regrediti - sotto l’aspetto esteriore di una maggiore educazione scolastica e di una migliorata condizione di vita - a una rozzezza primitiva. Se da una parte parlano meglio, ossia hanno assimilato il degradante italiano medio - dall’altra sono quasi afasici: parlano vecchi dialetti incomprensibili, o addirittura tacciono, lanciando ogni tanto urli gutturali e interiezioni tutte di carattere osceno. Non sanno sorridere o ridere. Sanno solo ghignare o sghignazzare. In questa enorme massa (tipica, soprattutto, ancora una volta!, dell’inerme Centro-Sud) ci sono delle nobili élites, a cui naturalmente appartengono i figli dei miei lettori. Ma questi miei lettori non vorranno sostenere che i loro figli sono dei ragazzi felici (disinibiti o indipendenti, come credono e ripetono certi giornalisti imbecilli, comportandosi come inviati fascisti in un lager). La falsa tolleranza ha reso significative, in mezzo alla massa dei maschi, anche le ragazze. Esse sono in genere, personalmente, migliori: vivono infatti un momento di tensione, di liberazione, di conquista (anche se in modo illusorio). Ma nel quadro generale la loro funzione finisce con l’essere regressiva. Una libertà «regalata», infatti, non può vincere in esse, naturalmente, le secolari abitudini alla codificazione.
Certo: i gruppi di giovani colti (del resto assai più numerosi di un tempo) sono adorabili perché strazianti. Essi, a causa di circostanze che per le grandi masse sono finora solo negative, e atrocemente negative, sono più avanzati, sottili, informati, dei gruppi analoghi di dieci o vent’anni fa. Ma che cosa possono farsene della loro finezza e della loro cultura?
Dunque, i figli che noi vediamo intorno a noi sono figli «puniti»: «puniti», intanto, dalla loro infelicità, e poi, in futuro, chissà da che cosa, da quali ecatombi (questo è il nostro sentimento, insopprimibile).
Ma sono figli «puniti» per le nostre colpe, cioè per le colpe dei padri. È giusto? Era questa, in realtà, per un lettore moderno, la domanda, senza risposta, del motivo dominante del teatro greco.
Ebbene sì, è giusto. Il lettore moderno ha vissuto infatti un’esperienza che gli rende finalmente, e tragicamente, comprensibile l’affermazione - che pareva cosi ciecamente irrazionale e crudele - del coro democratico dell’antica Atene: che i figli cioè devono pagare le colpe dei padri. Infatti i figli che non si liberano delle colpe dei padri sono infelici: e non c’è segno più decisivo e imperdonabile di colpevolezza che l’infelicità. Sarebbe troppo facile e, in senso storico e politico, immorale, che i figli fossero giustificati - in ciò che c’è in loro di brutto, repellente, disumano - dal fatto che i padri hanno sbagliato. L’eredità paterna negativa li può giustificare per una metà, ma dell’altra metà sono responsabili loro stessi. Non ci sono figli innocenti. Tieste è colpevole, ma anche i suoi figli lo sono. Ed è giusto che siano puniti anche per quella metà di colpa altrui di cui non sono stati capaci di liberarsi.
Resta sempre tuttavia il problema di quale sia in realtà, tale «colpa» dei padri.
È questo che sostanzialmente, alla fine, qui importa. E tanto più importa in quanto, avendo provocato una cosi atroce condizione nei figli, e una conseguente così atroce punizione, si deve trattare di una colpa gravissima. Forse la colpa più grave commessa dai padri in tutta la storia umana. E questi padri siamo noi. Cosa che ci sembra incredibile.
Come ho già accennato, intanto, dobbiamo liberarci dall’idea che tale colpa si identifichi col fascismo vecchio e nuovo, cioè coll’effettivo potere capitalistico. I figli che vengono oggi cosi crudelmente puniti dal loro modo di essere (e in futuro, certo, da qualcosa di più oggettivo e di più terribile), sono anche figli di antifascisti e di comunisti.
Dunque fascisti e antifascisti, padroni e rivoluzionari, hanno una colpa in comune. Tutti quanti noi, infatti, fino oggi, con inconscio razzismo, quando abbiamo parlato specificamente di padri e di figli, abbiamo sempre inteso parlare di padri e di figli borghesi.
La storia era la loro storia.
Il popolo, secondo noi, aveva una sua storia a parte, arcaica, in cui i figli, semplicemente, come insegna l’antropologia delle vecchie culture, reincarnavano e ripetevano i padri.
Oggi tutto è cambiato: quando parliamo di padri e di figli, se per padri continuiamo sempre a intendere i padri borghesi, per figli intendiamo sia i figli borghesi che i figli proletari. Il quadro apocalittico, che io ho abbozzato qui sopra, dei figli, comprende borghesia e popolo.
Le due storie si sono dunque unite: ed è la prima volta che ciò succede nella storia dell’uomo.
Tale unificazione è avvenuta sotto il segno e per volontà della civiltà dei consumi: dello «sviluppo». Non si può dire che gli antifascisti in genere e in particolare i comunisti, si siano veramente opposti a una simile unificazione, il cui carattere è totalitario - per la prima volta veramente totalitario - anche se la sua repressività non è arcaicamente poliziesca (e se mai ricorre a una falsa permissività).
La colpa dei padri dunque non è solo la violenza del potere, il fascismo. Ma essa è anche: primo, la rimozione dalla coscienza, da parte di non antifascisti, del vecchio fascismo, l’esserci comodamente liberarti della nostra profonda intimità (Pannella) con esso (l’aver considerato i fascisti «i nostri fratelli cretini», come dice una frase di Sforza ricordata da Fortini); secondo, e soprattutto, l’accettazione - tanto più colpevole quanto più inconsapevole - della violenza degradante e dei veri, immensi genocidi del nuovo fascismo.
Perché tale complicità col vecchio fascismo e perché tale accettazione del nuovo fascismo?
Perché c’è - ed eccoci al punto - un’idea conduttrice sinceramente o insinceramente comune a tutti: l’idea cioè che il male peggiore del mondo sia la povertà e che quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura della classe dominante.
In altre parole la nostra colpa di padri consisterebbe in questo: nel credere che la storia non sia e non possa essere che la storia borghese.
* Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane. Roma 1991, 5-12.
*SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
FACHINELLI, PASOLINI E IL LORO DIALOGO IN-INTERROTTO ... (Alfabeta 2, 28.06.2018)
CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO FACHINELLI
UN NUOVO UMANESIMO?! Pensare l’ "edipo completo"(Freud), a partire dall’ "infanticidio"!!!
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
MENTE ACCOGLIENTE. DUE SOLI (DANTE): USCIRE DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO, dalla dialettica "tunica di Nesso" ... *
Leader e popolo, una fusione pericolosa
di Lea Melandri **
La politica dell’odio comporta inevitabilmente la ricaduta su un capro espiatorio, ma prevede anche che ci sia un abile manovratore che lo riconosca e lo additi come la causa di tutti i mali. Meno visibile, ma determinante è il sentimento che sta a monte, e cioè il rancore, inascoltato e diffuso quanto basta per fare di un capo autoritario l’espressione ritenuta più genuina della volontà di un popolo. Contraddittoriamente, è proprio la perdita di fiducia dei cittadini nelle istituzioni che dovrebbero rappresentarli - partiti, sindacati, parlamento, amministrazioni, ecc.- a imprimere alle democrazie una svolta sovranista. La saldatura avviene non a caso attraverso un linguaggio che scambia la politica col senso comune, il ragionamento con le emozioni, la verità con la demagogia, la legge con la vendetta.
Se la mozione degli affetti è smaccatamente l’arma preferita dal cinismo politico di Matteo Salvini, pronto ad agitare, per la cattura del suo pubblico, crocefissi, rosari, bambini violati, il malcontento che ha portato alla presidenza degli Usa inaspettatamente un personaggio come Donald Trump, non è molto diverso da quello che sta all’origine del successo elettorale della Lega. In un libro di una decina di anni fa, Il rancore (Feltrinelli 2008), Aldo Bonomi parlava della comparsa nelle fabbriche di “una forma di sordo rancore quale reazione alla frustrazione di un ruolo sociale perduto”.
“Imprenditore politico della paura”, la Lega - commentava Bonomi - non aveva avuto difficoltà a indirizzare le paure e le insicurezze dei “naufraghi del fordismo” contro la “concorrenza sul mercato del lavoro da parte degli immigrati, l’ingiustizia perpetrata a loro danno con la concessione degli alloggi agli extracomunitari, l’impossibilità della convivenza tra soggetti portatori di culture diverse”. Riflessioni analoghe sul legame tra populismo e sovranismo si trovano nella intervista di Eleonora Capuccilli a Wendy Brown (Il Manifesto 7.1.20):
Nel momento in cui si dissolvono i legami che per un secolo hanno strutturato le relazioni sociali, la partecipazione politica e l’azione collettiva, a venire allo scoperto è una moltitudine di singoli, avviati verso un individualismo sempre più competitivo: l’individualismo proprietario o “il capitale umano”, di cui si parla oggi. Le ricadute della globalizzazione sui luoghi della vita quotidiana, la scomparsa del lavoro in una miriade di impieghi sottopagati o gratuiti, a cui va aggiunta la crisi del patriarcato e dei secolari privilegi del sesso maschile, muovono paure, spaesamento, fanno emergere fragilità insospettate, bisogno di protezione e ripiegamento su identità e appartenenze tradizionali, oltre a violenze di matrice sessista e razzista, nostalgie di regimi autoritari.
Dire che oggi “il re è nudo” significa riconoscere il limite della politica separata, la
Dire che la “psiche individuale” è oggi il campo attraverso cui “passano tensioni politiche di un’epoca sospesa tra rancore, chiusure verso il nuovo che avanza e la prefigurazione di forme comunitarie più libere che in passato” (A. Bonomi), significa rendersi conto - come ha fatto il femminismo - che la figura del cittadino non coincide con la “persona”, vista nella sua interezza, corpo e pensiero, e nella appartenenza a sessi diversi.
Nella “viscere della storia” si può pensare che siano rimasti, non indagati, tesori di cultura, insospettate potenzialità antropologiche, così come pulsioni arcaiche, sogni, pregiudizi: un rimosso inferno infantile che preme per la sua reincarnazione.
L’uscita dal dualismo si era affacciata alla coscienza storica con i movimenti non autoritari degli anni Settanta, sintomo essi stessi della modificazione dei confini tra privato e pubblico, e, contemporaneamente, prefigurazione di nuove forme dell’agire politico.
Il problema era di cercare nessi, che ci sono sempre stati, tra un polo e l’altro e spingere le analisi politiche verso una “regione bio-psico-sociologica”. Non si poteva immaginare allora che i nuovi percorsi aperti dal ’68 e dal femminismo come riscoperta della politicità del vissuto personale, uscita dalla passività e dalla delega, partecipazione di coloro che sono sempre stati esclusi dal potere, valorizzazione dei sentimenti e dei sogni, sarebbero stati nel giro di alcuni decenni assorbiti dalle tecnologie digitali, ripresi e piegati a finalità opposte dal populismo di destre autoritarie.
Nell’“acquario Web” si può dire che passano la saldatura tra leader carismatico e popolo, e l’illusione partecipativa. “L’affermazione globale di Internet - si legge nel libro di Alessandro Dal Lago. Populismo digitale (Raffaello Cortina
2017) - rende superflua la distinzione fondamentale tra vita pubblica e vita privata. Chi agisce in rete, come blogger,
come commentatore, acquirente, semplice flaneur o attore politico potenziale, si trova in una situazione privata, perché è a casa sua o comunque isolato, e al tempo stesso pubblica..”.
Tipico del populismo digitale di leader come Trump, Salvini, Grillo, è il coinvolgimento che passa attraverso un linguaggio rozzo, volgarità, sensazionalismo, ammiccamenti ai ceti impoveriti dalla crisi economica, ritorno alle logiche amico-nemico, che si tratti di migranti, omosessuali o femministe. Dell’importanza di un “rapporto emotivo” sembra essersi accorta tardivamente anche la sinistra partitica, oggi all’affannosa ricerca di “un’anima”. Che ci siano movimenti, come quello delle Sardine, a offrirgliene una all’occorrenza, non sembra sufficiente. Si potrebbe invece vedere nel movimento a difesa dell’ambiente e nella rete globale femminista di Non Una Di Meno, oggi protagonisti sulla scena del mondo, la “ripresa” di quella cultura politica che negli anni Settanta ha avviato forme nuove e più libere di convivenza umana.
* *Pubblicato su Il Riformista e qui con l’autorizzazione dell’autrice (Comune-info, 20 Febbraio 2020 (ripresa parziale, senza immagine]).
Non Una di Meno: Appello per la mobilitazione dell’8 marzo e Sciopero femminista e transfemminista del 9 marzo 2020
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA DECAPITAZIONE DI OLOFERNE E LA FINE DELLA CLAUSTROFILIA. UN OMAGGIO A ELVIO FACHINELLI. Una nota sull’importanza della sua ultima coraggiosa opera
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Una nota di Eleonora Cirant (e altri materiali).
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
Silvia Federici, quello che Marx non ha visto
L’intervista . Parla l’accademica e femminista italiana che vive negli Stati Uniti. Autrice del fortunato «Calibano e la strega», il suo «Genere e Capitale» è di imminente pubblicazione per DeriveApprodi. «Il "Moro" ci dice che il capitalismo gronda sangue, ma porta nel mondo una più alta razionalità. Perciò non pensa la riproduzione, un’attività irriducibile alle macchine»
di Paola Rudan (il manifesto, 30.01.2020)
In occasione dell’imminente uscita di Genere e Capitale. Per una rilettura femminista di Marx (con la casa editrice DeriveApprodi), abbiamo raggiunto l’autrice Silvia Federici per un’intervista. A risaltare è il rapporto conflittuale dell’autrice con il pensiero di Marx, considerato tanto fondamentale per la critica del capitalismo quanto insufficiente a coglierne il carattere distruttivo. Centrale è per Federici la necessità di fare i conti con la complessità delle lotte che contestano il dominio del capitale e di cui le donne - indigene, migranti, proletarie - sono oggi protagoniste in ogni parte del mondo.
Che cosa motiva questo ripensamento di Marx, che oggi sembra più aspro e polemico che in passato?
Una motivazione più immediata è relativa alla necessità di rispondere all’ondata di celebrazioni che si sono fatte in occasione dell’anniversario della pubblicazione del Capitale e poi della nascita di Marx. Bisogna celebrare, ma anche domandarsi dove è necessario andare oltre.
La seconda motivazione è più profonda: mentre negli anni Settanta la critica a Marx si concentrava sul fatto che non ha visto tutta l’area della riproduzione, quindi il lavoro delle donne, con il passare del tempo ho compreso che questa sottovalutazione è collegata anche a un limite più profondo del suo pensiero, la sopravvalutazione del capitalismo in una visione storica progressista. Marx ci dice che il capitalismo gronda sangue sporco, ma porta nel mondo una razionalità più alta.
Questo è forse il peccato originale a causa del quale Marx non pensa la riproduzione, perché è un’attività irriducibile alla meccanizzazione, all’industrializzazione, soprattutto per quanto riguarda il lavoro domestico, l’allevamento dei bambini, la sessualità, l’aspetto emotivo. Il confronto allora non è più aspro, ma più profondo. A motivare questo tipo di critica, infine, è la distruzione ambientale causata dalla tecnologia e specialmente dal digitale. Se guardo a quello che succede in Congo, o in Niger, vedo la distruzione e i massacri che si stanno verificando in gran parte dell’Africa e sono dovuti a espropriazioni massicce e brutali funzionali alle compagnie minerarie e petrolifere.
Sono stata sempre polemica con l’idea che la lotta più efficace contro il capitalismo si dà ai livelli più alti dello sviluppo tecnologico, e anche con gli accelerazionisti. Che cosa acceleriamo? I massacri, lo spossessamento delle terre? Sviluppo oggi vuol dire violenza, ma in mille luoghi si sta combattendo contro lo sviluppo capitalistico. Se oggi Marx guardasse queste lotte le considererebbe arretrate?
Lei non pensa al salario solo come retribuzione del lavoro, ma come rapporto sociale di dominio, che coinvolge anche chi non svolge un lavoro salariato, come le casalinghe. Parlando delle esperienze contemporanee di organizzazione autonoma comunitaria sembra però che valorizzi politicamente proprio il carattere non retribuito del lavoro che si svolge al loro interno, come una sorta di esteriorità al capitale.
Costruisco i miei discorsi a partire dalle esperienze di lotta. Il discorso sul salario per il lavoro domestico nasceva in un contesto nel quale esistevano grandi movimenti di donne, soprattutto nere, che già parlavano di lavoro domestico in altri termini. Adesso, guardando a queste esperienze della post-globalizzazione, di milioni di persone che sono state dislocate dalle loro terre, che non sono state integrate nel lavoro salariato ma stanno costruendo qualcosa, allora il discorso si è articolato di più. I due obiettivi fondamentali rimangono il rifiuto del lavoro non pagato e il recupero della ricchezza sociale, che comunque vedo anche in esperimenti comunitari come le villas miserias argentine. C’è un momento di riappropriazione della ricchezza non solo per i terreni occupati, ma anche perché si crea un tessuto sociale più solidale che ti permette di affrontare lo Stato in modo da ottenere dei beni materiali. Questa non è un’alternativa al discorso del salario, ma è una maggiore articolazione.
In quest’enfasi sulle esperienze comunitarie non c’è il rischio di un’identificazione delle donne con il lavoro riproduttivo?
È un discorso complicato. Noi femministe degli anni Settanta siamo state le prime a contestare il discorso identitario, abbiamo detto che la femminilità è una cosa costruita e da sempre la mia posizione fondamentale è che non c’è un significato universale dell’essere donne. Che cosa vuol dire essere donne è sempre diverso ed è una lotta continua per stabilire chi sei, chi non sei, che cosa vogliamo essere. Detto questo, rimane anche vero - ed è qui che si possono generare degli equivoci - che guardando all’esperienza che moltissime donne hanno vissuto in America Latina, per esempio, risulta che siccome sono loro che per prime hanno a che fare con i bambini, con le malattie, con il fare da mangiare, sono anche quelle in prima linea contro i progetti estrattivi.
Le loro però sono esperienze storiche che si collegano all’appropriazione, all’agricoltura, alle sementi, che non riguardano la natura ma la conoscenza. Ci sono conoscenze profonde di che cosa c’è nell’acqua, nella terra, nelle piante, del rapporto con gli animali. Ascoltare queste storie, vedere queste esperienze è quello che alla mia età, dopo aver visto tanto, mi dà coraggio, mi dà forza.
L’altro problema sul quale insiste è quello del razzismo. Fenomeno che si riconfigura in un contesto globale segnato da movimenti di donne e uomini senza precedenti, e contemporaneamente ridefinisce il lavoro domestico e riproduttivo rispetto al passato.
Per me la lotta delle lavoratrici domestiche migranti è uno dei movimenti di donne più importante di questi anni. Porta in sé tutte le rivendicazioni che riguardano sia il discorso sulla riproduzione e la valorizzazione - loro dicono «senza di noi niente si muove» - sia quello della colonialità e del razzismo. Con questo il movimento femminista non si è ancora rapportato in modo reale e decisivo. Per migrare devi sfondare mille porte, devi avere una comprensione dei rapporti internazionali, delle polizie, delle leggi, delle norme sul lavoro, è quindi un movimento molto ricco di conoscenze e di capacità di rottura.
Nel suo lavoro ha sottolineato come oppressione sessuale e razzismo non siano fattori solo culturali. Perciò si concentra sul lavoro delle donne. Oggi i movimenti delle donne stanno contestando in altro modo la distinzione tra il «culturale» e il «materiale», perché considerano la violenza maschile costitutiva dei rapporti sociali.
È vero anche il fatto che le condizioni materiali generano la violenza. L’indebitamento nella famiglia accresce l’intensità della violenza. L’organizzazione del lavoro negli Stati Uniti genera violenza. È difficilissimo sfuggire alle molestie di chi controlla il posto di lavoro. Le cameriere nei ristoranti devono «vendere il corpo» per ottenere mance perché nella maggior parte dei posti di lavoro non ti danno un salario ma vivi di mance. La mancia ti obbliga a mostrare il décolleté, a sporgere i seni, soprattutto alla fine del mese. Cameriere e proletarie dicono che le attrici che hanno animato il movimento #metoo sono privilegiate. Devono combattere con quelli che le toccano, ma da loro dipende la mancia.
Qual è la sua riflessione sul movimento femminista globale che è cresciuto e si è consolidato negli ultimi anni?
Il tema della violenza ha subito una grande trasformazione, agli inizi si è concentrato sulla violenza domestica, ma ora è messa al centro anche la sua dimensione pubblica. L’iniziativa delle donne di Las Tesis in Cile, che dicono allo Stato «lo stupratore sei tu» è il simbolo di questo cambiamento che riconosce la violenza non solo nelle case ma anche quella istituzionale ed economica. Quando si svalorizza una moneta e da un giorno all’altro migliaia di persone non hanno più niente, o si chiude un’azienda e la gente è sul lastrico, o aumentano gli affitti e la gente dorme in strada, questa è violenza. Oggi il movimento vede come violenza lo stupro, il femminicidio, ma anche l’esproprio dalle terre, l’imposizione della miniera, la gentrificazione che ti costringe a vivere per strada, e ormai capisce che è un rapporto che si dà in forme diverse ma a livello globale. È un momento molto importante, per cui se abbiamo i Bolsonaro e i Trump, abbiamo anche una risposta. Anzi, forse i Trump e i Bolsonaro sono loro la risposta: vedo anche la fascistizzazione come una risposta a un forte movimento dal basso. Si rendono conto che il movimento delle donne sta trainando le lotte. Questo è un momento terribile ma c’è anche una grossa agitazione dal basso. Credo che oggi la gran parte del mondo sappia che il capitalismo è un sistema distruttivo, orrendo. Il problema è come organizzarsi.
La versione integrale di questa intervista è pubblicata su connessioniprecarie.org
ERMENEUTICA, PRINCIPIO DI "CARITÀ", E ... CERVELLO FUORI DALLA CAVERNA!
Semplicità insormontabili
La macchina dell’esperienza
di Roberto Casati e Achille Varzi *
Lui (in vacanza, seduto in riva al mare, con fare filosofico). Che bella cosa, la felicità!
Lei. Non ti facevo così saggio.
Lui. Non scherzare. La felicità è una bella cosa e non c’è niente di male nel ripetercelo, di tanto in tanto. E ti dirò di più: gli edonisti avevano perfettamente ragione. Non è forse massimizzando il piacere che si può essere felici? Il piacere provoca felicità, quindi, più si prova piacere, più si è felici.
Lei. Addio saggezza. Guarda che il nesso tra piacere e felicità è ben più spurio di quanto pensassero gli edonisti.
Lui. A me non sembra proprio. Per me è un piacere essere qui, ed è proprio perché sto provando questo piacere che sono felice.
Lei. C’è un argomento di Robert Nozick che dimostrerebbe il contrario. Mai sentito parlare della "macchina dell’esperienza"?
Lui. Sentiamo.
Lei. La macchina dell’esperienza è un vero e proprio prodigio tecnologico. Funziona così: tu entri nella macchina, e quella è in grado di procurarti qualunque esperienza tu possa desiderare. C’è un casco, con degli elettrodi, e se lo indossi ecco che il tuo cervello viene stimolato in modo, appunto, da farti provare le sensazioni che vuoi. Desideri sperimentare che cosa si prova a scrivere una bella poesia, vincere un premio, innamorarsi di una persona, sentirsi ricambiati del proprio amore? Indossa il casco e voilà: proverai esattamente quelle sensazioni in modo assolutamente realistico.
Lui. Ma un conto è provarle davvero, quelle sensazioni; altro conto provarle dentro una macchina del genere.
Lei. Funziona in modo tale che mentre le provi non hai alcuna consapevolezza del fatto di essere all’interno della macchina.
Lui. E se io non desidero niente in particolare?
Lei. Gli ingegneri che hanno progettato la macchina si sono ben documentati e hanno fatto in modo che la macchina disponga, per così dire, di un menù veramente ricco di possibilità. Quindi, se vuoi, puoi davvero provare ogni tipo di esperienza, non solo quelle che ti vengono in mente. E naturalmente il menù è richissimo di esperienze piacevoli, ovvero esperienze di piacere.
Lui. Quindi, se voglio, posso entrare nella macchina e starci dentro tutta la vita, pre-programmando le cose in modo tale da provare piacere per tutti i giorni che mi restano da vivere?
Lei. Esattamente. Il punto è: lo faresti? Entreresti in una macchina così con la garanzia di provare piacere per il resto della tua vita?
Lui. Ovvio!
Lei. Secondo Nozick, no. Non solo non ci entrerebbe lui, ma pensa che nemmeno noi ci entreremmo.
Lui. E perché mai?
Lei. Per tre motivi. Primo: generalmente vogliamo fare certe cose, non solo provare l’esperienza di farle. Anzi, è proprio perché le vogliamo fare che ci sottoponiamo all’esperienza di farle. Invece la macchina fa il contrario. Secondo, vogliamo essere felici di ciò che siamo. Cioè vogliamo essere delle persone felici. Ma che persone saremmo, se ci chiudessimo nella macchina per il resto della nostra vita?
Lui. Beh, per la felicità si può anche rinunciare a essere delle persone...
Lei. Terzo, nella macchina non avremmo alcuna esperienza della realtà: proveremmo esperienze realistiche, ma sarebbero comunque esperienze di una realtà del tutto artificiale, virtuale. Un po’ come i cervelli nella vasca ipotizzati da Putnam, o i personaggi del film Matrix, mentre "combattono" contro l’agente Smith stando sdraiati nelle loro poltrone in laboratorio.
Lui. Vieni al punto.
Lei. Il punto è che provare piacere non basta. Anche ammesso che sia un importante ingrediente in una ricetta per la felicità, bisogna provarlo nel modo giusto.
Lui. Sarà come dici. Però questi esperimenti mentali lasciano un po’ il tempo che trovano.
Lei. A me non pare affatto un esperimento mentale. Non ti sembra che questo nostro mondo si stia trasformando in una grande macchina dell’esperienza, non molto diversa da quella ipotizzata da Nozick?
* Il Sole-24 Ore, 24.11. 2013.
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO
Dipartimento Lettere e Filosofia
Corso di Laurea in FILOSOFIA.
Supervisore: Prof. Varzi Achille Carlo,
Co-Supervisore: Prof. Ghia Francesco,
Laureando: GANDELLINI Francesco
IL PRINCIPIO DI CARITÀ [2016]
Definizione e analisi critica tra ermeneutica e logica
a cura di Francesco Gandellini **
INTRODUZIONE
Il termine “carità” deriva etimologicamente dal latino caritas (acc. caritatem, «benevolenza», «amore», questo da carus, «caro», «costoso», «diletto», «amato»), e a sua volta dal greco χάρις, «grazia». Dal punto di vista dell’etimo, la parola cattura l’idea dell’amore disinteressato ma prezioso verso qualcuno, della benevolenza gratuitamente concessa al destinatario, senza riserve rispetto alla sua condizione. Gli etimologisti latini derivavano il lemma carus dalla prima persona singolare del presente del verbo carēre, ovvero careo, «manco», «sono privo di», e ritenevano di giustificare il valore di una cosa sul metro della mancanza della cosa stessa, in modo tale che tanto più se ne avverte l’assenza, tanto più essa acquista valore e pregio.
Passando per il greco χάρις e dal verbo χαίρω, «rallegrarsi», «provare piacere», si arriva alla radice sanscrita ka = ca (sscr. ka, kan, kam), presente in parole quali kâma, «amore», kamana, «desiderabile», «bello», kamara, «amoroso», kam-e, «desiderò», «amò». Si possono, inoltre, trovare affinità nel lettone kahrs, «cupido», nel gotico hors, da cui il tedesco Hure, «meretrice», ma che si riallaccia al latino quaero, «cercare», «ricercare», «bramare» ciò che è desiderato. Il termine “carità” afferisce, dunque, anche alla sfera dell’amore desiderato, del richiesto perché bramosamente bello e capace di dare piacere e rallegrare.
Il principio di carità rappresenta un criterio prezioso, disinteressato ma richiesto nella logica del dialogo. Esso fornisce una norma fondante, sebbene implicita, per la costruzione di un confronto fecondo e esente da appropriazioni o strumentalizzazioni di qualunque sorta. Il valore apportato dal principio di carità consiste, forse banalmente, nel rendersi disponibile all’ascolto dell’altro e nell’attribuire pregnanza di senso alle sue parole, almeno fino a un evidente punto di non ritorno.
La scelta di trattare il principio di carità come argomento di tesi va incontro alla necessità di indagare l’implicito, il sottinteso, il banale che sovente viene trascurato e passato sotto silenzio, col rischio di dimenticarne la validità e l’utilità concreta e portante nell’ambito dell’umano. Si tratta, perciò, di far riermegere agli occhi della coscienza i fondamenti troppo spesso dati per scontato e, proprio per questo, dimenticati, abbandonati e relegati a relitti a margine dell’edificio del sapere.
È compito primario della filosofia conferire dignità conoscitiva a quanto viene accolto come evidente, ovvio, lapalissiano perché in ciò, e nel suo oblio, si possono rinvenire “proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del destino” 1, ossia quegli interrogativi umani centrali in cui ne va della quotidianità tanto quanto dell’esistenza intera, oltre che di una convivenza pacifica. Spingendo la riflessione in direzione di ciò che pare assodato e fuori di dubbio ai fini della riflessione stessa, si giunge a capire e a rendere ragione di una complessità nuova, nella quale si gioca qualcosa come la comprensione o il fraintendimento tra gli individui.
Il principio di carità è una guida rimasta finora col capo coperto. Esso ha condotto e conduce gli uomini nei meandri tortuosi della comunicazione, del rapporto dialogante e dell’interpretazione reciproca. Può pregiudicare il buon andamento di una discussione, rimanendo nell’anonimato e nell’ombra. Determina e garantisce lo spazio minimo per l’intesa e l’accordo, ma può anche sancirne il definitivo naufragio.
Lo scopo della presente trattazione è di portarne alla luce, in un percorso storico e tematico, le caratteristiche principali, in modo da scoprirne il capo e segnalarne i lineamenti distintivi. La filosofia, nel suo decorso storico, si è raramente rivolta in modo esplicito al principio di carità. Fatta eccezione per Agostino, per il caso isolato dell’illuminista tedesco Georg Meier (che lo chiama principio di equità ermeneutica) e per la riflessione dei logici contemporanei (Wilson, Quine, Davidson), esso non viene pressoché mai menzionato o, almeno, non con questo appellativo con cui, soprattutto recentemente, è tornato alla ribalta.
Si tratta, quindi, e questo è l’intento del lavoro, di rimarcarne gli aspetti costituivi, laddove il criterio sia stato suggerito dagli autori, oppure di ricercare ed enucleare possibili edizioni, implicitamente consegnate dai filosofi alla riflessione sul principio in questione. Per questo la tesi potrebbe soffrire di discontinuità più o meno consistenti, dettate appunto dall’esigenza di scandagliare le profondità del pensiero filosofico, anche mediante salti temporali e concettuali rilevanti, in quei punti ritenuti significativi per una trattazione ampia e pregnante, ma filtrata sempre nel setaccio della carità ermeneutica e logica.
1 E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, il Saggiatore 2008, pag. 35
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA QUESTIONE DELLA "H".... "Capire il comportamento umano. Azione, razionalità, empatia" (di Antonio Rainone).
SANT’AGOSTINO, DOTTORE DELLA GRAZIA ("CHARIS"): "ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS").
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Critica economica.
Il feticismo delle merci che promette l’immortalità
Un saggio rilegge le profetiche analisi economiche di Walter Benjamin e la sua denuncia del capitalismo come “frutto” dell’insinuazione del serpente: «Sarete come Dio»
di Luigino Bruni (Avvenire, venerdì 24 gennaio 2020)
Un classico è sempre attuale. Non perché ha bisogno di essere attualizzato da noi, ma perché costringe chi lo legge a farsi suo contemporaneo. Chi incontra un classico fa un viaggio nel tempo, lo raggiunge dentro il suo spazio e la sua vita, e poi scopre che è anche il suo proprio tempo, il suo spazio, la sua storia e la sua vita. Senza i grandi scrittori e i grandi artisti, il passato sarebbe semplicemente inaccessibile e incomprensibile. Che cosa fosse l’atmosfera del sabato pomeriggio di un villaggio marchigiano di inizio Ottocento, cosa fossero (non solo come si mostravano) i piedi dei popolani romani del Seicento, cosa fosse la miseria dei miserabili francesi. E invece grazie a Leopardi, Caravaggio e Hugo li conosciamo e li capiamo.
I classici affratellano lo spazio e il tempo, li mettono in comunione- comunicazione. È questo, forse, il loro dono più grande. Un classico, poi, è sempre radicale, sbilanciato, eccessivo. Non è ruffiano e quindi non dice le cose che dovrebbe dire per soddisfare i gusti dei consumatori. È partigiano, è parziale come la verità, mai politically correct. Dice qualcosa, non dice tutto, ma quel qualcosa limitato e relativo contiene una goccia capace di bucare il tempo. Non è più buono degli altri uomini e donne, né più vero né dotato di una moralità superiore. È semplicemente abitato da un daimon, sempre eccedente rispetto alla persona che lo ospita; e così una tipica penitenza di questi esseri geniali (genio = daimon) è l’esperienza della inadeguatezza, di non essere all’altezza etica e spirituale delle cose che capisce, scrive, traduce in opere.
Walter Benjamin è certamente un classico. È una delle figure più originali e geniali del pensiero europeo del Novecento. Meno noto era, fino a poco fa, il suo contributo nel dibattito sul capitalismo, sulla sua natura e sul suo destino. Da qualche anno, grazie soprattutto al lavoro di Giorgio Agamben, stiamo tutti riscoprendo le geniali e profetiche intuizioni del filosofo ebreo tedesco, morto suicida nel 1940 sui Pirenei, per sfuggire alla cattura dei nazisti.
Ora, il saggio di Vincenzo Di Marco e Biancamaria Di Domenico, Walter Benjamin. La religione del capitalismo (edizioni Pazzini, pagine 112, euro 12), continua a svelarci i tesori di ’teologica economica’ contenuti nel pensiero di Benjamin, e non solo nel frammento del 1921, Capitalismo come religione, ma anche in opere più classiche, come Angelus Novus e i Passages, dove, leggendo il libro di Di Marco e Di Domenico, scopriamo idee molto importanti sull’economia, sul capitalismo e la sua dimensione sacrale, che ci svelano anche alcune affermazioni misteriose e oscure contenute nel frammento del 1921.
Il saggio affronta molti dei temi che si situano all’incrocio delle idee di Benjamin sul capitalismo, sulla filosofia e sulla religione - dal messianismo, al feticismo delle merci e quindi all’idolatria, la metamorfosi del cristianesimo in un’altra religione: il capitalismo. E lo fa dialogando con i classici che hanno scritto su questo tema, cominciando da Marx e Weber, e finendo con Derrida e Agamben (meno utili sono i molti riferimenti a commentatori contemporanei, che raramente sono all’altezza dei classici, e finiscono spesso per appesantire e complicare la lettura).
Ma nel libro ci sono soprattutto molte parole di Walter Benjamin, alcune stupende e generative di nuove parole per il nostro tempo. Parlando, ad esempio, della natura idolatrica della prostituzione e del gioco d’azzardo, scriveva: «Solo gli idealisti sprovveduti possono credere che il piacere dei sensi, di qualsiasi natura esso sia, possa determinare il concetto teologico del peccato.
Alla base della vera lussuria non c’è altro che questa sottrazione del piacere del corso della vita con Dio, il cui legame con essa risiede nel nome. Il nome stesso è il grido del nudo piacere. Questa cosa sobria, in sé priva di destino il nome - non ha altro avversario che il destino, che prende il suo posto nella prostituzione e crea il suo arsenale nella superstizione» (I passages di Parigi). Non si comprende allora, anche alla luce del passaggio appena citato (per non parlare della tesi di Benjamin che il capitalismo è una religione «senza espiazione»), l’affermazione degli autori che leggiamo a pagina 98: «Nel pensiero di Benjamin manca la nozione di peccato che troviamo invece nel cristianesimo».
Molto spazio è consacrato nel saggio al discorso sul feticismo delle merci (dove ritroviamo e rileggiamo volentieri le splendide intuizioni di Marx), anche perché è un tema centrale nel capitalismo di Benjamin e nel nostro, profondamente legato a un altro tema cardine: l’idolatria.
Infine, gli autori colgono molto bene uno dei punti centrali in Benjamin (e in Adorno) e nella religione capitalistica: la promessa di immortalità. Ma come dice Benjamin, «la promessa di immortalità che le merci incarnano è connessa a un tempo che non vuol saperne della morte, una “età dell’inferno”». Non è l’età del paradiso ma, paradossalmente, quella dell’inferno. Perché un mondo di cose che non muoiono non è l’eden della Bibbia. Nell’eden, l’albero della vita consentiva una immortalità agli uomini, a condizione che non avessero preteso di essere i padroni (di mangiare i frutti) della conoscenza del bene e del male. L’eternità buona dell’uomo non è quella di Dio, perché la sua vita resta inscritta nel perimetro etico che non è generato e consumato dall’uomo stesso.
Il capitalismo, invece, la sua hybris ha immaginato una eternità come frutto dell’onnipotenza degli uomini a partire dalla definizione assoluta (slegata) di cosa sia il bene e di cosa sia il male. C’è anche questo dentro una naturale diffidenza del pensiero cattolico nei confronti delle filosofie del contratto sociale: il bene e il male non si definiscono per contratto, come l’ideologia neoliberale pensa e vuole prima di tutto, perché il bene e il male e i suoi confini non sono negozionabili: sono dono, sono eredità, sono testamento. La promessa di eternità del capitalismo oggi non è tanto l’allungamento della vita, la sostituzione degli organi, la chirurgia estetica, ma è l’antico promessa del serpente: «diventerete come Dio». Benjamin intuiva che il capitalismo sarà religione perfetta quando le imprese vendendoci la sua merce cercheranno di venderci un pezzo di paradiso. E noi ci crederemo.
HANNAH ARENDT E MARTIN HEIDEGGER: VITA E FILOSOFIA. IL PROBLEMA DELLA NASCITA... *
Arendt, sempre al di là del dove, e ora stretta in una striscia
Questioni tedesche/Graphic. Dall’infanzia prussiana, all’università con Strauss, Löwith, Marcuse, Lévinas, alla bohème berlinese, all’esilio parigino, a N.Y. «Le tre fughe di Hannah Arendt» di Krim Krimstein, da Guanda
di Alessandro Dal Lago (il manifesto, Alias Domenica, 13.10.2019)
Nell’opinione comune, i filosofi sono gente reclusa in studi foderati di libri e priva, in sostanza, di biografia e accessi al mondo. Fu Hannah Arendt, per esempio a citare una frase di Heidegger su Aristotele, secondo cui lo stagirita «visse, lavorò e morì». L’immagine del filosofo come essere estraneo alla vita e alla realtà è stata formata nell’Ottocento da un libretto divertente e maligno di Thomas de Quincey, Gli ultimi giorni di Immanuel Kant, in cui il gran saggio è mostrato come un vecchio un po’ rimbambito che vaga per le vie di Königsberg e si sbrodola a tavola.
In realtà, un buon numero di pensatori ebbe una vita turbolenta e attiva. Pitagora esaltava le pratiche sportive e Platone, oltre che essere esperto di lotta, tentò a più riprese di influenzare il governo di Siracusa, per essere infine venduto come schiavo dal vendicativo tiranno Dionisio il vecchio, con cui era entrato in conflitto. Quanto a Cartesio, si sa che prima di chiudersi in una capanna a meditare sul cogito era stato soldato nella guerra dei trent’anni. E non parliamo di Leibniz, matematico, diplomatico ed esperto di miniere, o di Voltaire che corrispondeva con i principi di tutta Europa e interveniva pubblicamente contro la tortura e la pena di morte.
La rinuncia alla filosofia
È forse pensando alla leggenda grigia dei filosofi maldestri e appartati che il cartoonist Krim Krimstein ha dedicato una storia a fumetti o graphic novel a Hannah Arendt, la filosofa che meno corrisponde all’immagine del pensiero solitario ed estraneo al mondo. In Le tre fughe di Hannah Arendt. La tirannia della verità (traduzione di Antonella Bisogno, Guanda, pp. 233, e 20,00) Krimstein realizza il singolare tentativo di fondere la biografia di Arendt con il suo pensiero. L’aspetto più interessante in questa vicenda è l’estraneità di Arendt alla filosofia in senso stretto. Come si legge nel prologo («Umano troppo umano. Introduzione a una vita»): «Come mai questa persona, probabilmente la più grande filosofa del ventesimo secolo, ha rinunciato alla filosofia, e, nonostante questo, il suo pensiero rimane per l’umanità una via praticabile per progredire?».
La domanda rimane senza risposta, nel romanzo a fumetti, e non poteva essere diversamente. Dagli anni Ottanta in poi, la critica, in centinaia di libri e saggi, si è sbizzarrita sulla questione, cercando la soluzione nel tormentato romance di Arendt con Heidegger, il filosofo che cedette al nazismo, nell’incapacità della filosofia contemporanea di pensare la politica e, spiegazione che mi sembra la più ragionevole, in una personalità poliedrica, che cercava la spiegazione dei problemi che la assillavano nella filosofia, certamente, ma anche nella teoria politica, nella storia, nella letteratura e nella poesia. Più che rinunciare alla filosofia, come certamente la stessa Arendt ha affermato, si può dire che la nostra filosofa si sentiva stretta nella galleria soffocante di pensatori accademici, che pure aveva frequentato e variamente apprezzato, da Husserl a Jaspers e allo stesso Heidegger.
Krimstein riversa in immagini la storia di questo personaggio eccentrico, sempre al di là di dove si cerca di fissarla: ebrea, ma affascinata dal pensiero cristiano, allieva dei tre massimi pensatori di area tedesca, ma soprattutto affine al cugino acquisito Walter Benjamin, l’irregolare per eccellenza, attratta dalla dimensione della politica, ma impossibile da classificare in uno schieramento (anarchica e per certi versi tradizionalista, aristocratica e profondamente democratica, sionista in gioventù e critica di Israele e così via).
Tutta questa complessità, d’altronde era giù iscritta nella biografia, che la vede intellettuale a Berlino e studentessa di filosofia a Marburg, perseguitata dai nazisti e fuggiasca in Francia, esule negli Stati Uniti, accademica onorata e infine rigettata dagli intellettuali ebrei e ignorata dagli amici per avere scritto in modo non convenzionale e assai penetrante del processo a Eichmann nel 1961.
Pensatrice fuggiasca per definizione, può Arendt essere inquadrata in modo appropriato da un romanzo a fumetti? Come può il suo pensiero paradossale, ovvero la supremazia dell’azione rispetto al pensiero, che appare nelle sue opere fondamentali (Vita activa e La vita della mente), essere tradotto in vignette?
Krimstein sceglie di privilegiare la biografia rispetto alla teoria, come è inevitabile. E così ci scorrono davanti le immagini dell’infanzia in Prussia, dell’università - in cui frequentò compagni destinati a diventare famosi (Leo Strauss, Karl Löwith, Herbert Marcuse, Emmanuel Lévinas), della bohème berlinese, dell’esilio parigino, della vita intellettuale di New York e infine della solitudine che precedette la morte. Ecco allora che, attraverso la vita di questa filosofa per certi versi inafferrabile, un pezzo di Novecento, con le sue tragedie immani e le sue illusioni scorre davanti agli occhi (si spera) di gente giovane, curiosa e insoddisfatta delle categorie e dei pregiudizi dell’opinione corrente.
Tra le lenzuola di Heidegger
Resta, nell’operazione di Krimstein, qualcosa che probabilmente Arendt non avrebbe troppo apprezzato, e cioè il rilievo eccessivo attribuito alla sua vita intima e sentimentale. Se c’è un aspetto sul quale Arendt rompe con quasi tutta la filosofia del Novecento è la sua critica radicale dell’interiorità. In Vita activa, appare quasi un gesto di disprezzo nei confronti di una certa filosofia, che pretende di chiudersi nella contemplazione della vita soggettiva e dell’anima, invece che del mondo. In questo Arendt si distacca radicalmente dalla fenomenologia e dal suo amato Agostino (Noli foras ire! In interiore homine habitat veritas). Forse Krimstein avrebbe dovuto rammentarlo mentre si accingeva a disegnare Arendt e Heidegger che si scambiano effusioni a letto discettando di morte e verità...
Ma non dovremmo fargliene una colpa. A un periodo di critica, giusta o sbagliata, aspra o apologetica, del pensiero di Arendt è seguita una serie di libri che, in nome della verità biografica, si soffermano sulla sua relazione con Heidegger, ai limiti del gossip filosofico. È mettendo da parte questo genere letterario francamente scadente che il discorso su Arendt può ripartire.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"LA VITA DELLA MENTE. Conclusioni" (H. ARENDT): AUGUSTO, LA SIBILLA TIBURTINA, E LA "MADONNA DI FOLIGNO"
"NICODEMO O DELLA NASCITA": LA ’LEZIONE’ DI ENZO PACI AI METAFISICI VISIONARI (ATEI E DEVOTI) DI IERI (E DI OGGI).
VITA E FILOSOFIA: METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. PIER ALDO ROVATTI INCONTRA ELVIO FACHINELLI.
Federico La Sala
FACHINELLI E FREUD NELLA “NAVE” DI GALILEI. Al di là del "paradosso della ripetizione" ... *
TROVO MOLTO INTERESSANTE l’indicazione di FRANCESCA (vedi - sopra) di mettere i piedi a Terra e guardare la Luna. Al di là dei limiti del percorso di Fachinelli, mia opinione, di ciò che resta fondamentale del suo lavoro è la decisiva messa in evidenza di quanto - antropologicamente - sta al fondamento della rivoluzione (e pratica!) psicoanalitica: "La mente estatica" (1989)! Si possono chiudere porte e finestre all’infinito, ma ora non solo dalla caverna platonica ma anche dall’isola di Creta ("Sulla spiaggia", 1985) si può uscire (cfr. Fachinelli e Freud nella "nave" di Galilei), riprendere la navigazione e guardare dall’Oceano, terrestre e celeste, la Terra ...
IL "GIARDINO" DEVASTATO E LE PIANTE. "Lo sciovinismo antropologico/antropocentrico (e più generalmente zoo-logico/zoo-centrico) che impera su gran parte della filosofia morale e politica dall’antichità ai giorni nostri non ammette un valore delle piante in quanto tali. Per gli esseri umani è molto più facile identificarsi con gli animali che con le piante, la cui fisiologia risulta difficile da comprendere (l’antropomorfismo e lo zoomorfismo vanno facilmente insieme). L’apparente immobilità delle piante, la loro apparente mancanza di differenziazione, il loro essere apparentemente inermi e inette, rendono le piante poco salienti per i sensi degli esseri umani - facilitando così anche la scomparsa della vita vegetale dall’orizzonte dell’etica e della politica.
Quest’oblio è ingiustificato in sé e costituisce anche un problema urgente per l’etica dell’ambiente. Se non si dà valore alle piante, perché le si ritiene prive delle caratteristiche necessarie a generare valore (come l’autocoscienza, l’intelligenza, la capacità di provare sensazioni ed emozioni, di agire, di esercitare la volontà), allora non si potrà dare valore alla natura inanimata, cioè agli ecosistemi e al mondo naturale nel suo complesso, dichiarando così il fallimento di ogni tipo di etica dell’ambiente non fondamentalmente antropo- o zoo-centrica.
Nella pratica, alcuni degli atteggiamenti più rapaci e noncuranti nei confronti della natura potrebbero ben derivare proprio dal nostro rifiuto o incapacità di aprirci alle piante e al loro valore, e addirittura alla stessa ipotesi che abbiano valore. Una buona quota della attuale crisi ecologica, possibilmente la più subdola e insidiosa, potrebbe risultare riconducibile a questa incapacità o rifiuto, e spiegabile attraverso il prisma delle nostre relazioni irrisolte con le piante.
Se si dà valore alle piante si è sulla buona strada per dare valore alla natura tutta, inclusa tutta quella inanimata; e non solo come un insieme indistinto, ma come un ricettacolo di diversità e di specificità e particolarità inesauribile. Una visione del genere terrà conto, per esempio, del fatto che gran parte della natura è roccia, acqua, e piante: la vita animale si attesta, in proporzione, solo al quarto posto - la “nazione delle piante”, come la battezza Stefano Mancuso, è di gran lunga la più popolosa [...]"(dal volume "Etica e politica delle piante", di Gianfranco Pellegrino e Marcello Di Paola, e con contributi di Simone Pollo e Alessandra Viola).
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"ECCE HOMO": (ANTROPOLOGIA, NON "ANDROPOLOGIA" O "GINECO-LOGIA")!!! USCIRE DALL’ORIZZONTE COSMOTEANDRICO DA "SACRO ROMANO IMPERO"... *
La parola può tutto
di Ivano Dionigi (Avvenire, venerdì 3 gennaio 2020)
«Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua». In questa sentenza fulminante di don Lorenzo Milani (Lettera a Ettore Bernabei 1956), ispirata a un deciso afflato di giustizia sociale, trovo il più bel commento al passo in cui Aristotele (Politica 1253 a) riconosce nella parola (logos) la marca che caratterizza l’uomo e lo distingue dagli animali, che ne sono privi (tà zóa á-loga). La parola: il bene più prezioso, la qualità più nobile, il sigillo più intimo. A una persona, a un gruppo, a un popolo puoi togliere averi, lavoro, affetti: ma non la parola. Un divario economico si ripiana, un’occupazione si rimedia, una ferita affettiva si rimargina, ma la mancanza o l’uso ridotto della parola nega l’identità, esclude dalla comunità, confina alla solitudine e quindi riduce allo stato animale. «La parola - continuava il profetico prete di Barbiana - è la chiave fatata che apre ogni porta»; tutto può, come già insegnava la saggezza classica: «spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione» (Gorgia, Elogio di Elena 8). Ma essa è di duplice segno, nella vita privata come in quella pubblica: con i cittadini onesti e i governanti illuminati si fa simbolica (syn-bállein), e quindi unisce, consola, salva; confiscata dai cittadini corrotti e dai demagoghi si fa diabolica (dia-bállein), e quindi divide, affanna, uccide.
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINIANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020).
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A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA": L’ ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO...
di Luisa Muraro e Lucetta Scaraffia *
Su Sette Corriere della sera del 22 novembre 2019 è apparso un articolo di Lucetta Scaraffia, Ida, le molestie e la sconfitta della psicanalisi, chiarissimo in quello che dice. Potete leggerlo qui di seguito. È un testo di notevole interesse perché attira l’attenzione e fa luce sulla parte avuta dalla psicoanalisi nella rivoluzione femminista del ventesimo secolo. L’autrice finisce con un punto di domanda, giustamente, e invita così ad approfondire l’argomento.
Per parte mia ci tengo a dire che la “sconfitta” della psicoanalisi avviene su un antico campo di battaglia, quello dell’autorità della parola, autorità negata alle donne dal regime patriarcale, e campo di battaglia dalle donne tenacemente tenuto aperto attraverso i secoli. Parlo dell’isteria. Dedicandosi alla cura dell’isteria, Freud ha avuto il merito innegabile di essere entrato nel campo di battaglia e di sbagliare, sì, ma in un modo significativo: è il suo inconscio che lo fa sbagliare e lui finisce che se ne accorge. Se possiamo fare festa per la fine del discredito patriarcale e l’affermarsi di autorità femminile nella vita pubblica, qualcosa dobbiamo anche a lui. A sua volta, lui deve qualcosa, o molto, all’umanità femminile. (Luisa Muraro)
Corriere della sera - Sette, 22 novembre 2019
Ida, le molestie e la sconfitta della psicanalisi
di Lucetta Scaraffia *
Quando Ida ha acconsentito alla richiesta del padre, che voleva far curare da Freud i suoi strani disturbi (afonia, svenimenti, tosse continua), la ragazza sperava che il dottore avrebbe creduto alle sue parole, convincendo così anche suo padre che l’amico di famiglia Hanss Zellenka l’aveva molestata con insistenza e pesantemente, per mesi, suscitandole profondo turbamento e paura. Le molestie erano cominciate quando aveva solo tredici anni, e lei si era trovata invischiata in una situazione angosciosa: le vacanze con la famiglia Zellenka sul lago di Garda - dove la madre Pepina l’aveva accolta con un affetto e una simpatia che le mancavano in casa - nascondevano un segreto imbarazzante.
Pepina era in realtà l’amante del padre di Ida, un ricco industriale, che si era portato in vacanza la figlia per mascherare la relazione. E proprio mentre la ragazza cominciava ad accorgersene, diveniva oggetto di corteggiamenti e molestie da parte di Hanss, il marito di Pepina. È questa situazione difficile all’origine dei suoi disturbi di salute ma, come quasi tutte le giovani donne in casi analoghi, Ida ha paura di parlarne e si sente confusamente colpevole, finché un episodio più grave non la induce a raccontare tutto alla madre. Il padre, prontamente informato, convoca Hanss, il quale non solo nega indignato ma ritorce su Ida le accuse, consigliando di mandarla in cura da Freud.
Ferita dall’incomprensione paterna, Ida lo sarà ancor più dolorosamente da Freud che, dopo averla spinta a parlare, comprensivo - finalmente qualcuno la prendeva sul serio! - le aveva spiegato la sua complicata interpretazione dell’episodio. Secondo Freud le parole della ragazza rivelavano un suo amore edipico verso il padre, spostato poi su Hanss, e di conseguenza «lei non aveva affatto paura del signor Zellenka ma piuttosto di se stessa, e più precisamente della tentazione di cedere al signor Zellenka».
Ida reagisce a questa nuova cocente delusione interrompendo la cura con Freud, e proseguendo, sia pure con fatica, nella sua vita di donna che si sarebbe sposata, avrebbe avuto un figlio, avrebbe lavoratoe sarebbe scampata alla persecuzione nazista fuggendo prima a Parigi e poi negli Stati Uniti, dal figlio. Una vita dura e drammatica, che racconta alla nipote, autrice della bella biografia a lei dedicata. La vita di una donna che dal rifiuto dell’interpretazione di Freud ha tratto forza e coraggio. Una posizione totalmente diversa da quella che lo stesso Freud rivela concludendo la narrazione dell’analisi: «Promisi comunque di perdonarla per avermi privato della soddisfazione di guarirla radicalmente». E se invece Ida si fosse guarita da sola rifiutando l’interpretazione di chi non considerava vere le sue parole?
Ida è Dora, la protagonista del primo caso clinico di Freud, che su questo ha costruito la sua ipotesi sulle cause dell’isteria, considerando il caso come prova chiara e convincente della sua teoria del complesso di Edipo.
Agli occhi di una donna di oggi, invece, la vicenda di Ida appare solo come la drammatica storia di una ragazza molestata che non viene creduta dagli uomini ai quali si rivolge per avere aiuto. Il padre, probabilmente anche perché segnato da sensi di colpa nei confronti di Hanss, crede a questi piuttosto che alla figlia, mentre Freud dà credito al padre, e si lascia influenzare dal desiderio di trovare nei desideri edipici rimossi la causa dell’isteria. Le malattie di Ida, invece, rivelano piuttosto la sofferenza di una donna le cui parole non vengono ascoltate né rispettate. Una donna che non viene presa sul serio, proprio come tante altre sue contemporanee - ma anche molte più vicine a noi - che non hanno visto riconosciuto il valore delle loro parole.
La biografia di Ida (scritta dalla pronipote Katharina Adler, Ida, Sellerio 2019) rovescia la storia raccontata da Freud: non si tratta della prima paziente alla quale è stata diagnosticata e curata l’isteria, ma una delle tante - troppe - donne che hanno subito due forme di violenza, quella sessuale e quella contro la loro identità perché le loro parole non vengono credute. È la storia narrata dal punto di vista delle donne, che vedono le cose molto diversamente dagli uomini, ma non sono ascoltate.
C’è voluta una lunga battaglia, combattuta dalle donne, perché le parole delle vittime venissero ascoltate e prese seriamente in considerazione, perché le vittime stesse non fossero sempre considerate possibili complici della violenza - Ida aveva forse provocato, magari anche inconsapevolmente, come insinua Freud, il violento? - e venissero invece aiutate a superare il trauma, e risarcite.
Nell’ordinamento giuridico italiano gli articoli del codice Rocco, vigenti fino al 1996, punivano ogni tipo di violenza o molestia sessuale - sia sulle donne che sui minori - come «delitto contro la morale pubblica e il buoncostume». Tutelavano cioè quello che veniva considerato un bene collettivo e non la vittima. È stato solo nel 1996, grazie alle pressioni del movimento femminista, che viene promulgata la nuova legge per cui lo stupro diventa reato contro la persona, e di conseguenza l’attività sessuale riconosciuta come frutto di una libera scelta perché rientra nel diritto proprio dell’individuo.
Mentre nella fase precedente si collocava al primo posto la condizione di vita della comunità, che per il legislatore costituiva il massimo valore, oggi a essere valorizzata è invece la dimensione individuale di chi subisce il reato, divenuta il bene giuridico protetto dalla legge. Rivendicando la loro posizione di vittime della violenza, le donne capovolgono la situazione di debolezza in cui si trovavano, s’impadroniscono del potere di accusa, le loro parole si caricano di valore, e hanno finalmente diritto di essere ascoltate.
Oggi Ida troverebbe ascolto, Hanss verrebbe punito per molestie su una minore, e Freud non avrebbe più la possibilità di elaborare la sua teoria sull’isteria. Un caso in cui la psicanalisi, elemento fondamentale della nostra modernità, viene forse sconfitta dalla realtà che sta nelle parole delle donne?
(www.libreriadelledonne.it, 29 novembre 2019)
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". La crisi epocale dell’ordine simbolico di "mammasantissima" ("patriarcato": alleanza Madre-Figlio).
DONNE, UOMINI, E DISORDINE SIMBOLICO
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
Federico La Sala
Il libro.
Fermiamo il culto del capitalismo. Quando il denaro si sostituisce a Dio
L’autore del saggio lancia un grido di allarme: la cultura dominante del profitto e del consumismo è ormai diventata una forma di idolatria
di Luigino Bruni (Avvenire, mercoledì 20 novembre 2019)
Pochi anni dopo Marx, nel 1905 Max Weber pubblica i suoi lavori sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo, dove una idea chiave è la de-sacralizzazione del mondo occidentale. Passano pochi anni e il 1921 diventa un anno decisivo per la cosiddetta “teologia economica”. Il filosofo tedesco Walter Benjamin scrive un breve e densissimo testo, oggi noto come Il Capitalismo come religione, e contemporaneamente il teologo e filosofo russo Pavel Florenskij, in un contesto culturale molto diverso, tiene tra l’agosto e l’ottobre del 1921 un corso di lezioni all’Accademia Teologica di Mosca sulla dimensione sacra del capitalismo.
Weber annunciava un mondo de-sacralizzato, Benjamin e a modo suo anche Florenskij dicono invece qualcosa di opposto: il capitalismo non ha eliminato il sacro dal mondo perché è diventato esso stesso un culto, una religione. Due autori vicini anche nella morte: Benjamin muore suicida nel 1940 mentre tenta di fuggire ai nazisti sui Pirenei, Florenskij viene fucilato nel 1937 in un gulag nei pressi di Stalingrado.
Il saggio di Benjamin è stato a lungo trascurato, sebbene contenga un’analisi ancora insuperata del rapporto tra l’economia capitalistica e la religione. Benjamin, anche per le sua cultura ebraica, aveva posto il tema del messianismo al centro della sua riflessione filosofica. Il capitalismo gli appare come una (falsa) risposta alla domanda di salvezza che nell’umanesimo ebraico-cristiano aveva fondato l’Europa. Per Benjamin, allora, «nel capitalismo va individuata una religione; il capitalismo, cioè, serve essenzialmente all’appagamento delle stesse preoccupazioni, tormenti, inquietudini a cui in passato davano risposta le cosiddette religioni».
Questo incipit di Benjamin è chiaro e potente: il capitalismo non nasce soltanto, come diceva Weber, da uno spirito religioso; per Benjamin il capitalismo è una religione: «non solo, come ritiene Weber, in quanto costruzione determinata in senso religioso, bensì in quanto fenomeno essenzialmente religioso».
E quindi sintetizza: «In Occidente il capitalismo - come deve essere dimostrato non solo nel caso del calvinismo, ma anche degli altri orientamenti cristiani ortodossi - si è sviluppato parassitariamente sul cristianesimo, tanto che, alla fine, la storia di quest’ultimo è in sostanza quella del suo parassita, il capitalismo». E poco dopo aggiunge: «Il cristianesimo nell’età della Riforma non ha agevolato il sorgere del capitalismo, ma si è tramutato nel capitalismo».
Molto forte e particolarmente efficace è la metafora biologica del parassita: il capitalismo dal cristianesimo non ha preso solo lo spirito, ha la sostanza ed è cresciuto al punto da assorbirlo interamente. Il capitalismo è un cristianesimo fagocitato e trasformato, una metamorfosi del bruco in farfalla - e le farfalle non ricordano di essere state bruco.
Inoltre, Benjamin rettifica ancora Weber estendendo la metamorfosi dal protestantesimo all’intero cristianesimo, anticipando in questo di qualche anno Amintore Fanfani e le sue analisi sullo spirito “cattolico” e medioevale del capitalismo, un tema sviluppato anche da Giuseppe Toniolo, sebbene avanzando una tesi diversa da quella di Fanfani. È questa la grande e potente tesi di quel piccolo opuscolo del 1921, dove però troviamo molte altre intuizioni di grande valore. Vi è contenuta anche una sorta di profezia: «In seguito, tuttavia, ne avremo una visione d’insieme».
Benjamin conosceva troppo bene Marx per usare la parola “struttura” in senso generico. Per lui la religione, il cristianesimo in particolare, è la struttura del capitalismo, e quindi l’economia capitalistica, che dovrebbe essere la struttura della società capitalistica, è a sua volta una sorta di sovrastruttura di una struttura religiosa più radicale. Noi vediamo economia, ma sotto, nascosta «dall’involucro delle cose », c’è la religione: quale religione? Quali sono i tratti della farfalla-capitalismo nata dal bruco-cristianesimo?
Scriveva Benjamin: «Tre tratti di questa struttura religiosa sono però riconoscibili già nel presente. In primo luogo il capitalismo è una religione puramente cultuale, la più estrema forse che mai sia stata data. Tutto, in esso, ha significato soltanto in rapporto immediato con il culto; non conosce nessuna particolare dogmatica, nessuna teologia. L’utilitarismo acquisisce così la sua coloritura religiosa ».
Tesi forti e dense, e tutte ancora da esplorare, oggi più di ieri. Innanzitutto il capitalismo è definito dal filosofo tedesco come una «religione puramente cultuale», di puro culto, senza teologia, senza dogmi. Benjamin era ebreo, era filosofo, ed era tedesco - la Germania della sua generazione ( Taubes, Buber, Bonhoeffer, Bloch, e molti altri) fu un luogo straordinario e ineguagliato per le riflessioni sull’anima collettiva dell’Europa, per il destino e “tramonto” dell’Occidente e del capitalismo.
Benjamin sapeva quindi che le religioni di puro culto, senza dogmi né teologia, avevano nella Bibbia un nome preciso: idolatrie. Quei culti contro i quali il popolo ebraico, in Caanan e in Babilonia e ancor prima in Egitto, aveva ingaggiato una lotta campale, la lotta più radicale e estesa di tutta la Bibbia.
E che cosa significa, oggi, una religione/idolatria di puro culto? Pavel Florenskij, il grande filosofo e teologo russo, ha scritto cose importanti sul capitalismo come religione/idolatria di puro culto. Sempre nel 1921, anche Florenskij dedicava una specifica attenzione al rapporto tra il capitalismo, il sacro e il culto. Il suo resta un testo di enorme interesse per le intuizioni che vi sono contenute sulla natura sacrale del capitalismo. Scriveva il teologo ortodosso: «La stessa teoria del sacro dice che all’origine dell’economia, così come dell’ideologia, c’è il culto».
Il culto, per Florenskij, è «una sorta di prius. Viene prima il culto, e in seguito gli strumenti e i concetti». E poi aggiunge: «Il punto di partenza della cultura è il culto», giocando anche sulla comune radice delle parole cultura e culto: «In suo favore si pone anche l’analisi filologica». Per questo aggiunge: «È sbagliato pensare che la teoria del sacro sia perduta per sempre. Essa è legata alla coscienza medioevale. Nella vita storica ci sono periodi di laicizzazione e, al contrario, periodi in cui tutta la vita è introdotta nell’alveo del culto».
Il capitalismo è dunque per Benjamin e Florenskij una religione di solo culto, di sola prassi - in realtà, oggi noi sappiamo che nel secolo che è passato dallo scritto di Benjamin la religione capitalistica si è sofisticata e ha prodotto alcuni dogmi e una sua teologia, offerta in buona parte dalla teoria economica e da quella manageriale. Ed è per la necessità di avere un culto per poter creare una cultura che il capitalismo è diventato la vera cultura (o religione) popolare di questo secolo.
La forza culturale del capitalismo sta proprio nel suo essere diventato una esperienza globale, olistica, onnicomprensiva e onniavvolgente - il primo populismo moderno lo ha inventato il capitalismo. È nella sua dimensione di sola prassi quotidiana che, novello Anteo, il capitalismo trae la sua forza.
Il capitalismo crea e rafforza la sua cultura alimentandosi nel culto feriale di miliardi di persone. Ecco perché è diventato il culto universale e globale, che può solo crescere e rafforzarsi nei prossimi decenni - finché altri culti e altre culture non ne prenderanno il posto: speriamo solo che non siano le antiche arti della guerra! Ma da qui deriva anche un corollario interessante: per superare l’idolatria capitalistica occorrono nuove prassi, nuove esperienze.
Non basta scrivere teorie, perché ogni cultura nasce dal culto e dal pane quotidiano. Siamo immersi in pratiche quotidiane, ripetute, reiterate di culti di acquisto, vendita, investimenti. Anche nelle imprese, che nel Novecento erano in genere pensate e vissute sul modello della comunità, sta crescendo la stessa cultura commerciale.
Dal modello comunitario tipico del XIX e XX secolo siamo passati progressivamente all’impresa-mercato, che oggi domina indisturbata la scena. Fino a pochi decenni fa, soprattutto (ma non solo) in Europa, il registro relazionale che fondava imprese e/o cooperative era quello del patto non quello del contratto; anche il “contratto” di lavoro era soprattutto un patto, dove il do-ut-des era solo una delle componenti di quel rapporto fondamentale che fondava il lavoratore e la sua famiglia (il lavoro non era una merce perché quel contratto era essenzialmente un patto).
E invece oggi la cultura che si respira nelle imprese, nei loro culti e nelle loro liturgie, è la stessa cultura che si respira nei grandi centri commerciali, nelle banche, e sempre più anche nei social media. Ed è in questi culti e in queste pratiche, molto più che nelle business school e nelle università, dove si alimenta la cultura-religione- idolatria del capitalismo.
Perché, sempre secondo Florenskij, «il contenuto mistico-religioso dei concetti non si rivela nel pensiero astratto ma nell’esperienza ». Per il pensatore russo, dunque, all’inizio c’è la prassi del culto e da questa prassi nascono i concetti astratti (la cultura): «Tutte le concezioni scientifiche - economiche e simili - si sviluppano attraverso la secolarizzazione: da una parte si definiscono i concetti utilitaristici, dall’altra quelli scientifici».
Per questa stessa ragione, «il mito nasce dal culto... Il mito è il tentativo teorico di spiegare un determinato culto». Infatti, la «realtà originaria, nella religione, non sono i dogmi e nemmeno i miti, ma il culto, ovvero una realtà concreta. Mito e dogma sono astrazioni, teorie».
L’analogia storica più vicina alla cultura capitalista è per Florenskij la christianitas medievale: «Può essere convincente per noi soltanto l’idea medioevale di unità ecclesiale, di penetrazione di tutta la cultura da parte del principio sacrale... Non c’era fenomeno che non abbia un chiaro aspetto ecclesiale. Tutti i fenomeni, in positivo o in negativo, sono orientati all’ecclesialità».
Prassi era il cristianesimo pre-moderno in Europa, prassi è il nostro capitalismo: qui la loro forza, qui la loro vicinanza. Queste di Florenskij sono parole importanti. Per questa sua natura pratico-cultuale, ad esempio, che i filosofi e i teologi fanno molta fatica a comprendere il capitalismo del nostro tempo. Il secondo tratto del capitalismo, legato al primo (religione di puro culto), è per W. Benjamin «la durata permanente del culto».
Cento anni fa non esistevano ancora i negozi 24h7d, né lo shopping online, ma il filosofo ebreo aveva, profeticamente (la grande filosofia ha una dimensione profetica intrinseca e spesso non intenzionale) intuito una dimensione che nel tempo ha mostrato tutta la sua forza: «Il capitalismo è la celebrazione di un culto “senza tregua e senza pietà”. Non ci sono “giorni feriali”; non c’è giorno che non sia festivo, nel senso spaventoso del dispiegamento di ogni pompa sacrale, dello sforzo estremo del venerante».
Il conflitto tra il capitalismo e la domenica (possibile giorno dei negozi chiusi) non va infatti letto solo sul piano pragmatico del business ma su quello religioso dello scontro tra culti. Anche per questa ragione ha un suo senso, se ben inteso, rivendicare per i cristiani la domenica come giorno del Signore e quindi proteggerlo dal culto capitalistico, anche se la battaglia è troppo impari.
L’ebraismo potrà salvarsi da questo capitalismo (che in parte è suo figlio) se continuerà ad essere fedele allo shabbat. C’è poi quello che per Benjamin è il terzo tratto del capitalismo-culto, quello che ha ottenuto più attenzione dagli studiosi (da Giorgio Agamben in particolare): «Questo culto è colpevolizzante. Il capitalismo è presumibilmente il primo caso di un culto che non consente espiazione, bensì produce colpa». Una tesi forte e sempre suggestiva, che apre discorsi appassionanti e rilevanti.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
La domenica di Ratzinger e la "domenica della vita" di Hegel. Una nota di Gianni Vattimo
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.... *
L’arte di gettare ponti. Il filosofo del dialogo. Compie novant’anni il pensatore tedesco noto per la teoria dell’agire comunicativo,
di Marina Calloni (Corriere della Sera, La Lettura, 16 giugno 2019)
Crisi delle democrazie, ruolo della fede nelle società secolarizzate, futuro dell’Unione Europea: sono le principali riflessioni a cui Jürgen Habermas ha dedicato l’ultimo decennio. Filosofia, politica e critica della società si intrecciano nella sua vita intellettuale fin dai primi esordi giovanili, attraversando i dilemmi del XX secolo, fino agli scenari globali del nuovo millennio.
A 90 anni, Habermas (nato il 18 giugno 1929 a Düsseldorf) può essere considerato l’ultimo dei pensatori sistematici del Novecento, dove il principio post-metafisico dell’agire comunicativo diventa una filosofia della comunicazione discorsiva, quale «comprensione del mondo e del Sé, una volta abbandonata la competizione con la metafisica, la religione e le scienze esatte». Habermas viene solitamente considerato come un rappresentante della seconda generazione della Scuola di Francoforte, fondata e impersonata da Max Horkheimer e Theodor Adorno.
Tuttavia, nel corso del tempo, Habermas si è molto differenziato dall’impianto della dialettica negativa sostenuta dai «padri fondatori», che ritenevano che la ragione fosse strumentale fin dagli albori dell’umanità. Habermas è venuto piuttosto a sostenere una concezione procedurale e normativa della ragione comunicativa, che si esprime attraverso più voci e mira a conseguire l’intesa attraverso il linguaggio, incarnato nella vita di tutti i giorni.
A dire il vero, Habermas non pensava di diventare un filosofo. Il suo primo intervento pubblico di rilievo fu un articolo del 1953 sulla «Frankfurter Allgemeine Zeitung», molto polemico verso Martin Heidegger. La sua attività come giornalista free-lance si interruppe però nel 1954, quando Adorno lo invitò all’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte a far parte di un progetto su «Studenti e politica», che si concluse nel 1959. I rapporti con il direttore dell’Istituto, Horkheimer, erano intanto divenuti tesi per via di divergenze teorico-politiche, al punto che a Habermas fu impedito di sostenere la propria abilitazione a Francoforte, nonostante l’avesse completata. Fu così che chiese ospitalità a Wolfgang Abendroth (giurista e politologo socialista, esule dalla Germania Est), che gli permise di discutere nel 1961 quel lavoro che ben presto porterà molta notorietà a Habermas: Storia e critica dell’opinione pubblica.
La trasformazione della sfera pubblica illuministica rimarrà uno degli assi portanti per la successiva teoria della democrazia deliberativa. Habermas fu poi accolto a Heidelberg come professore di filosofia (1961-1964) da Hans-Georg Gadamer, il padre dell’ermeneutica contemporanea, che ebbe un’indubbia influenza sulla sua successiva elaborazione dell’interpretazione linguistica. Ma ancora una volta il dibattito politico fece capolino nella vita di Habermas con l’inizio delle rivolte studentesche. E non si sottrasse neppure alle pesanti critiche gli furono mosse per aver usato l’espressione di «fascismo di sinistra» contro alcune posizioni del movimento. Habermas stava allora mettendo a punto un suo originale sistema, dove tradizione filosofica e confronto con altri modelli di pensiero si intrecciavano con la riflessione sulla logica delle scienze sociali, contro l’approccio positivista.
Nel 1968 Habermas aveva scritto un saggio su Lavoro e interazione, dove mise in luce la nozione di riconoscimento come elemento intersoggettivo che precede la relazione materiale fra soggetto e oggetto. La critica all’impostazione marxiana della priorità del lavoro sull’interazione sarà il perno attorno a cui ruoterà la teoria dell’agire comunicativo. Nel 1971, Habermas fu nominato direttore del Max-Planck-Institut di Starnberg per un’indagine sulle condizioni di vita nel mondo tecnico-scientifico. Si trattava di un’ulteriore sfida: lavorare con un gruppo di giovani ricercatori per lo sviluppo di un’inedita teoria sociale e per innovative ricerche empiriche. Da questa esperienza nacque l’imponente Teoria dell’agire comunicativo, dove attraverso i concetti ideal-tipici di sistema e mondo della vita l’autore tematizza i fondamenti di una teoria critica della società.
L’opera fu seguita da innumerevoli critiche, soprattutto da parte di teorici «realisti» che bollavano Habermas come un «idealista» per il fatto di impiegare concetti controfattuali come l’agire rivolto all’intesa, quando in realtà il mondo è diretto da scopi strategici. Ma è proprio per questo, ribatté l’autore, che concetti normativi e intersoggettivi sono fondamentali contro ogni abuso e violazione.
Nel 1983, Habermas fece ritorno a Francoforte con una cattedra di filosofia, che terrà fino al pensionamento nel 1994. Difficile riassumere il decennio francofortese, tanto fu denso sia di pubblicazioni filosofiche (dal discorso sulla modernità, all’etica del discorso, fino al primo libro sul pensiero post-metafisico) che di scritti politici (dall’inclusione dell’altro, alla costellazione post-nazionale, alle rivoluzioni post-socialiste fino al multiculturalismo).
La curiosità intellettuale di Habermas lo portava a gettare ponti, a trovare luoghi di confronto e di scontro con altri modelli di pensiero. Prima di lui nessun filosofo dell’accademia tedesca, post-hegeliana o marxista che fosse, aveva mai tentato un serio raffronto con teorie d’oltreoceano, nel tentativo di spezzare la netta separazione che distingueva la tradizione continentale dalla filosofia analitica, come se fossero mondi cognitivamente inconciliabili.
Invitando a Francoforte i più noti filosofi del tempo, come l’americano John Searle, Habermas mirava a comprendere le ragioni altrui sia per individuare i punti di disaccordo, sia per corroborare ulteriormente la teoria dell’agire comunicativo, correggendo o integrando aspetti specifici, come accadde per il riconoscimento della «dimenticanza» del femminismo come sfera pubblica deliberante e movimento essenziale per il ripensamento della giustizia sociale. La scelta di ritirarsi a 65 anni dall’insegnamento attivo non ha impedito a Habermas di continuare a svolgere conferenze, a sviluppare il pensiero post-metafisico, a scrivere di politica.
I due ambiti principali che hanno ispirato la sua opera negli ultimi anni sono stati la questione della religione e la riflessione sul futuro della democrazia e dell’Ue. L’interesse filosofico verso la religione scaturisce da una doppia ragione, storica e insieme filosofica: a causa della rivitalizzazione nel discorso pubblico della religione dopo il 1989 (come emerge anche dal dibattito del 2004 con l’allora cardinale Ratzinger) e per via della necessità di definire meglio la problematica del sacro nel quadro dell’agire comunicativo, dal momento che era stato fino ad allora semplicemente relegato nella «sfera espressiva». L’attenzione politica verso l’Europa riguarda piuttosto la critica al sistema funzionalistico messo in atto dalle burocrazie comunitarie e insieme la necessità di creare un’alleanza anti-nazionalista, tale che i cittadini possano trovare modalità deliberative in una comune sfera pubblica.
La vera ultima sfida teorica riguarda però il nuovo opus magnum di Habermas che vedrà la luce in settembre presso l’editore Suhrkamp. Si tratta di Anche una storia della filosofia, una ricostruzione della genealogia del pensiero postmetafisico occidentale, allorché la filosofia si è andata secolarizzando, una volta distanziatasi dalla diade di fede e sapere, con l’autonomizzarsi delle sfere di valore del diritto, della morale e della politica, determinate dal mutamento sociale. -Su questi e altri temi, Habermas terrà una lezione pubblica il 19 giugno all’Università di Francoforte, che sarà senz’altro gremita da un folto pubblico. Quando lo conobbi nei primi anni Ottanta, mentre mi apprestavo a scrivere la mia tesi di laurea, ebbi subito l’impressione che Habermas non solo interrogasse con il pensiero le cose del mondo, bensì scrutasse con lo sguardo le persone per carpirne la verità. E questo è ancora il timone che guida i suoi 90 anni.
* Fonte: https://www.ircecp.eu/2019/06/i-90-anni-di-jurgen-habermas.html#more (ripresa parziale).
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI
MICHEL SERRES: L’ART DES PONTS. HOMO PONTIFEX. Una forte sollecitazione ad uscire dal "neolitico" e, ripartendo dal nostro presente storico, a ri-attivare l’umana (di tutti e di tutte!!!) capacità di "gettare ponti" e a riprendere il cammino "eu-ropeuo"!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
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Dalle lotte operaie fallite alla folla solitaria di Terni
Umbria. Non sarà un caso se quindici anni di lotte cominciate con l’epico sciopero generale del 2004 in questa città storicamente rossa si concludono con la destra al 57% e la Lega vicina al 40% e la fabbrica sempre più ridimensionata e isolata
di Alessandro Portelli (il manifesto, 30.10.2019)
Nel 1970, nel pieno del movimento di lotta per la casa, intervistai un operaio che aveva fatto almeno cinque occupazioni, e ogni volta che lo avevano cacciato era tornato insieme agli altri a occupare. Una storia di dignità, combattività, coscienza. Poi, a microfono spento, aggiunse: ho una figlia brava a scuola ma non ho i mezzi per farla studiare; conosci qualcuno per farla entrare in un collegio o qualcosa del genere?
Non conoscevo nessuno che potesse aiutarlo, non potevo fare niente per loro, e non so se poi lui ha auto la casa e lei un diploma. Ma questa storia non ha smesso di tornarmi in mente e di farmi capire qualche cosa dell’abisso in cui siamo precipitati. Per farla breve: per migliorare la propria vita e quella dei suoi cari, l’operaio con cui parlavo stava, per così dire, puntando su due ruote.
Da un lato, la lotta collettiva, la solidarietà, il cambiamento dei rapporti di potere. Dall’altro, la soluzione individuale attraverso il più simbolico degli strumenti della subalternità e della dipendenza dai potenti, la raccomandazione. Se non ce la faceva insieme con tutti gli altri, non restava che provare a farcela da solo. Saltiamo di mezzo secolo, a Terni, Umbria, 2014. Un durissimo sciopero di tre mesi contro i licenziamenti alle acciaierie ThyssenKrupp si risolve infine quando quattrocento operai, uno per uno, accettano di dimettersi “volontariamente” in cambio di una buonuscita di qualche decina di migliaia di euro. Molti lo fanno con sofferenza (lo racconta un bellissimo romanzo, Inox, di Eugenio Rampi, ex operaio TK), ma hanno la convinzione di non avere scelta. Hanno preso parte alla lotta collettiva, non ce l’hanno fatta, non ci credono più - non per ideologia, credo, ma perché troppe volte è andata male.
Non sarà un caso se quindici anni di lotte cominciate con l’epico sciopero generale del 2004 in questa città storicamente rossa si concludono con la destra al 57% e la Lega vicina al 40% e la fabbrica sempre più ridimensionata e isolata. Devono cavarsela da soli.
La filmmaker ternana Greca Campus ha intitolato un film su queste vicende Lotta senza classe. Qui sta il punto. Da un lato, i rapporti di potere: da almeno due o tre generazioni, le lotte collettive non la spuntano contro il potere invisibile e ferreo del capitale finanziario e della globalizzazione, e le trasformazioni nel modo di produzione sottraggono le basi materiali dell’identità di classe. Dall’altro, l’offensiva ideologica: la classe non esiste, l’unica solidarietà è la beneficenza, non esiste la società ma solo gli individui (Mrs. Thatcher), bisogna farsi “imprenditori di se stessi” come dicevano negli anni’80, il “merito” individuale è la sola misura dell’umanità, la classe retrocede a folla.
E’ la lezione che ripete ancora il liberalismo clintoniano e renziano e che culmina con “uno vale uno” dei cinque stelle (con la patetica parodia Pd del “tu vali tu”).
E’ diventato senso comune, peraltro falso e bugiardo, perché in una società sempre più diseguale è sempre meno vero che uno è uguale a uno. Uno significa semplicemente sei solo, siamo davvero una folla solitaria, in cui sono molto flebili e sempre meno convinte le voci che provano a ricordarci che noi insieme valiamo più della somma dei nostri uno.
Un tempo lo sapevamo. C’è un episodio epico nella storia di Terni, la grande rivolta popolare del 1953 contro i tremila licenziamenti alle acciaierie. A quel tempo, una canzone del poeta operaio Dante Bartolini trasformava la lotta difensiva in una speranza di futuro: “Non è lontana la grande vittoria”, cantava: “lavoratori avanti così”. Già nel 2004 mi accorgevo che le forme della lotta erano le stesse, a volte anche più dure, ma la visione del futuro era scomparsa, la nuova generazione operaia non lottava per liberarsi e andare avanti ma per non andare indietro e non affondare.
Delle due alternative su cui puntava il mio compagno operaio romano, ne resta a portata di mano una sola. Perciò mi addolora ma non mi sorprende vedere che, scomparsa la speranza di liberarsi tutti insieme, chi ha paura di affondare si abbandona subalterno all’affido ai potenti e indirizza le proprie frustrazioni verso capri espiatori alternativi.
Il sogno del sol dell’avvenire è dissolto e insozzato e non siamo stati capaci di sognarne un altro. Dice Bruce Springsteen: “Che ne è di un sogno che non si avvera? Diventa una bugia, una maledizione - o qualcosa di peggio?” Appunto.
LETTERATURA, FILOLOGIA, E POESIA DELLA CAVERNA. Ognuno riconosce i suoi...
APPUNTI SUL TEMA. Con "Ulisse" - al di là della "dialettica dell’illuminismo" e della "dialettica della liberazione", per una "seconda rivoluzione copernicana" (T. W. Adorno)! Si cfr.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE;
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico;
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica;
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 - E DELL ’89.
Federico La Sala
Michel Foucault: “Cosa importa chi parla?”
di Francesco Bellusci (Doppiozero, 15.10.2019)
Dopo un periodo di distaccamento all’Università di Tunisi durato due anni, dal 1° ottobre 1966 alla fine di settembre 1968, Michel Foucault rientra a Parigi, con l’incarico di insediare il dipartimento di filosofia al Centro universitario sperimentale di Vincennes. Agli inizi dell’anno successivo, si ripropone di fronte al parterre intellettuale francese, presso la Société française di philosophie, con una breve e singolare conferenza, intitolata: “Che cos’è un autore?” (oggi in: M. Foucault, Scritti letterari, Feltrinelli 2004, pp. 1-21). Sulle prime, l’esposizione di Foucault appare una professione di ortodossia strutturalista che intona il mantra dell’irrilevanza dell’autore, già inaugurato dalla “nouvelle critique” di Roland Barthes, che prescindeva dalle referenze biografiche e psicologiche dell’autore a favore dell’analisi delle strutture interne del testo e del gioco della loro articolazione interna, e su cui confessa di avere ancora meno remore di quante ne mostrasse in Le parole e le cose di due anni prima, dove l’archeologo del sapere s’immergeva nello scavo del sottosuolo epistemico per rintracciare le “regole” di formazione di concetti e teorie, dentro grandi unità discorsive o campi disciplinari, rispetto alle quali la menzione di autori e persino delle opere appariva ancora la concessione a un vezzo inutile e fuorviante (un tema sensibile per Foucault, visto che implica l’esigenza di mettere in discussione lo statuto stesso della sua parola e la sua posizione rispetto al suo lavoro teorico, come dimostra la prima parte di una “Introduzione” all’Archeologia del sapere, scritta nel 1966 e poi abbandonata, che qui sotto pubblichiamo per la prima volta). Ma, non si tratta adesso di ribadire di nuovo che il discorso precede l’autore, quasi in controcanto al motto (“l’esistenza precede l’essenza”) di quegli esistenzialisti che, con il loro “soggetto” sovrano, sono stati già scalzati sul piano dell’egemonia culturale e travolti dallo Sturm und Drang strutturalista.
La mossa di Foucault è anche politica. Quell’egemonia deve diventare ora accademica e la partita si gioca proprio in quei mesi, sull’onda degli strascichi del movimento studentesco del Maggio 68. Con la contestazione della nozione di autore, Foucault sceglie un tema con cui è consapevole di potersi sintonizzare con lo “spirito” di Maggio 68, che in un primo tempo aveva indotto alcuni, in prima fila Sartre e poi altri come il sociologo e drammaturgo Jean Duvignaud (autore dello slogan “Siate realisti, chiedete l’impossibile!” ed entusiasta sostenitore degli studenti in rivolta), a decretare prematuramente la fine e la morte dello strutturalismo, in nome dell’irruzione della storia, dell’evento, della novità irriducibile e dell’azione creativa e rivoluzionaria. Invece, quando la contestazione giovanile si sposta contro i “mandarini” della Sorbona e dell’accademismo e contro la tradizione imperante degli studi umanistici, proprio per i propugnatori delle scienze umane di stampo strutturalista si apre l’opportunità di uscire dall’anonimato e rivendicare una piena cittadinanza nel sistema universitario. Non solo.
Consapevole di essere di fronte a un uditorio già predisposto benevolmente verso la tesi di fondo della conferenza (tra tutti spicca la presenza di Lacan, oltre che di Goldmann, Ormesson, Ullmo), la seconda mossa di Foucault è di affrontare originalmente il tema. Il filosofo francese si pone come l’uomo folle del celebre aforisma di La gaia scienza di Nietzsche, che s’imbatte con la schiera degli atei sarcastici di fronte al suo annuncio della morte di Dio, a loro modo di vedere superfluo e tardivo. Foucault, infatti, sembra dire: “Bene, avete, abbiamo, assassinato l’autore, ma non ne abbiamo ancora calcolato tutte le conseguenze!” e, quindi, procedere, in ragione di quest’indecisione, a smascherare gli uditori presenti come “strutturalisti incompleti”, così come l’uomo folle di Nietzsche smaschera nella schiera degli atei del suo tempo, presumibilmente positivisti, l’esitazione nascosta dei “nichilisti incompleti”. Lo dimostra la persistenza di nozioni, come quella di “opera”, che ritardano in effetti il congedo definitivo da quella di autore, quantunque ci si prefigga esplicitamente di analizzare l’opera nella sua struttura e architettura, senza preoccuparsi di situarla, e in questo modo rintracciarne il significato, nelle esperienze e nella vicenda dell’autore. Non ci sono, forse, infatti, fogli, documenti, contratti, lettere, narrazioni e così via che non consideriamo “opere”, proprio perché non li colleghiamo a un autore, ma a un firmatario o a un redattore o a un blogger e così via?
Il punto è, secondo Foucault, che se vogliamo abbandonare il fantasma dell’autore, col suo gesto sovrano di soggetto animatore e padrone dei segni, della parola, del discorso e, parimenti, l’immagine speculare dell’opera come ‘espressione’ di questo soggetto (pensiamo alla centralità di questa nozione nell’estetica e critica crociana, così influente in Italia), dobbiamo trattare l’autore come una funzione che permette di classificare un gruppo di discorsi e di descrivere un modo di esistere e di circolare di questi discorsi, in una data società e in una data cultura. Assunta quest’angolazione, l’analisi di Foucault chiarisce come l’autore emerge tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX secolo, quando la necessità di individuare e colpire penalmente il responsabile di discorsi “trasgressivi” dà luogo a un sistema giuridico e istituzionale che, comunque, sancisce e protegge la proprietà dell’opera. Oppure, chiarisce come essa non si esercita uniformemente e nella stessa maniera su tutti i discorsi, in tutte le epoche e in tutte le culture. Infatti, se, fino al Medioevo, l’anonimato non costituisce un problema nel mondo letterario, mentre l’attribuzione delle opere scientifiche a un autore (Ippocrate, Plinio, Aristotele...) è condizione indispensabile per la certificazione di veridicità delle asserzioni in esse contenute, la situazione si rovescia a partire dall’età moderna, quando a diventare insopportabile è l’anonimato letterario, mentre la funzione-autore diventa irrilevante per i discorsi scientifici. E, d’altra parte, più che per individuare una persona reale, la funzione-autore opera come punto di coagulo di un insieme di discorsi, in quanto indice di un’unità stilistica o di una coerenza concettuale o valoriale e, quindi, come nodo di una rete di soggetti parlanti o scriventi quei discorsi.
Ma oltre alla funzione-autore dell’autore del testo di un libro o di un’opera, Foucault pone l’attenzione sui “fondatori di discorsività”, cioè sugli autori di teorie o tradizioni o discipline all’interno delle quali altri libri e altri autori potranno prendere posto, rendendo sempre possibile un ritorno al loro gesto instauratore, anche nelle differenze e trasformazioni e non solo nelle analogie. E fa l’esempio di Marx e Freud. Chiara l’intenzione di Foucault, a questo punto della conferenza, di fare eco ai “ritorni” dello strutturalismo: il ritorno a Saussure dei linguisti; il ritorno a Marx di Althusser; il ritorno a Freud di Lacan. Quest’ultimo, in effetti, trarrà dalla conferenza l’ispirazione e la piattaforma per la sua teoria dei quattro discorsi. Ma ciò che traspare dalla conferenza di Foucault è anche il suo vivo interesse per la presa di coscienza della caducità della categoria di autore così come matura già nella letteratura contemporanea, prima ancora che nello strutturalismo. Il che lo avvicina per tutti gli anni Sessanta allo scrittore Maurice Blanchot, per il quale un’opera non è affatto la forma di espressione di un’individualità particolare, ma comporta sempre, per così dire, la scomparsa stessa dell’autore, nel momento in cui essa s’inserisce in modo autosufficiente nel flusso nudo e anonimo del linguaggio. “Il linguaggio - aveva detto Foucault, qualche anno prima, proprio con ascendenza blanchotiana - ha assunto la sua statura sovrana; sorge come venuto da un altrove, da un luogo dove nessuno parla; ma si dà un’opera solo quando, volgendo indietro al suo proprio discorso, parla nella direzione di quest’assenza” (Dits et écrits I. 1954-1975, p. 230).
Michel Foucault: “Cosa importa chi parla?”
di Francesco Bellusci (Doppiozero, 15.10.2019)
Non è affatto un programma. Tanto meno un bilancio. È pertanto un libro di secondo livello: si definisce interamente per i rapporti che intrattiene con studi già fatti, con altri che saranno compiuti forse un giorno, con altri il cui progetto sarà presto cancellato. Se le cose fossero semplici, sarei al centro del mio lavoro. Abbastanza avanti per dire ciò che ho voluto fare: per riafferrare ed enunciare certe evidenze che non avevo formulato a tempo, sia perché non chiare ai miei occhi, sia perché le ho immaginate, a torto, generalmente molto riconoscibili; per far apparire, in ciò che facevo, ciò che si è effettuato un poco malgrado me, senza che io l’abbia voluto sul momento, ma senza che oggi mi senta il meno di tutti irresponsabile o estraneo; per rigettare ciò che riconoscevo ora come errore, imprudenza, facilità, dimenticanza più o meno compiacente di ciò che mi ero proposto; per restituire una curva laddove c’erano forse solo puntini di circostanze; in breve, per dare la figura d’insieme di ciò che fu, in una misura molto difficile da decidere, per una parte occasione e per un’altra disegno. Dovrò anche poter dominare dall’alto il tempo che mi resta per abbozzare il futuro: circoscrivere da lontano i campi di ricerche, indicare in anticipo ciò che sarà oggetto di studi, mettere in campo i concetti essenziali, dare loro nomi e regole d’uso, enunciare i principi generali che, formulati una buona volta qui, non dovranno più essere ripetuti altrove. Dopo tutto ho quarant’anni. Quindi, mi rendo conto che non sono in questa posizione privilegiata. Non sto a strapiombo né su ciò che ho fatto, né su ciò che posso ancora avere da dire (ma, a pensarci bene, in virtù di quale obbligo, o in obbedienza di quale legge?). Senza dubbio, so che su queste pagine bianche in attesa, al mio fianco, dovrò parlare di ciò che ho scritto altre volte e che è stato pubblicato sotto il mio nome; so che ne parlerò come cose fatte, come libri allineati tra milioni di altri sui ripiani della biblioteca universale. Li tratterò senza dubbio come mi è piaciuto, un tempo, trattare questi libri di economia, di grammatica, di medicina, o questi registri di ospedale o di prigione da cui ho scrollato la polvere e che mi davano l’impressione, illusoria ma piacevole, di aprirsi per la prima volta allo sguardo di un lettore; mi succederà di parlare dei miei libri personali come se, intimo con essi come nessun altro, fossi quasi il solo a conoscerne i segreti; mi succederà pure di evocare progetti come se fossero cantieri già aperti, come se potessi alla cieca riconoscerne da lontano le possibilità e gli ostacoli. Ma, senza dubbio, non sarà niente più che un’apparenza. In questo momento in cui scrivo e in cui mi manca così crudelmente la certezza di poter fare un libro, di riuscire a tenere insieme, sotto una forma coerente e leggibile, le frasi che decido, non cerco di confortarmi voltando la testa e di gettare gli occhi indietro verso questi libri già fatti che potrebbero forse rassicurarmi sulle mie possibilità attuali.
Al contrario: scrivo, oggi e qui, a partire dallo loro inesistenza e dal vuoto che essi hanno lasciato in me. So (e penso che molti nel mio caso lo direbbero o l’hanno già detto) che non ho mai scritto libri. Ciò che nel corso dei giorni (e attraverso un esercizio così faticoso, che lo perseguivo, credo, nella speranza chimerica di raggiungere il momento in cui si trasformerà in gioco o diventerà perfettamente leggero, invisibile, regolare, come la respirazione di chi dorme) ho depositato in segni minuti su fogli di carta, ciò che in una maniera assai sorprendente si è trovato preso nell’istituzione della stampa, dell’edizione, della lettura e della critica, non erano libri, ma questo di sotto della scrittura che doveva rendere possibile un libro. Come molti, credo, scrivo per pervenire a questo libro al singolare. È un sogno che s’incontra facilmente: libro principale a cui tutti gli altri devono ricondursi, - libro eponimo, epopea fondatrice, bibbia, parola di Dio, contratto arcaico di cui ogni libro, qualunque esso sia, può essere solo il commento, la riscoperta, la delucidazione, la ripetizione paziente o il riprovevole tradimento; libro ultimo che rende tutti gli altri inutili, che li rimanda al silenzio e li brucia con la sua luce folgorante, istantanea, definitiva. Potrebbe darsi che il dilemma incendiario di Omar chiarisca ironicamente tutti i libri che si perderanno nelle nostre biblioteche. Per quanto mi riguarda, tutto ciò che ho redatto fino ad oggi non era nient’altro che la condizione per un certo libro. Non mi facevo un’idea di ciò che fosse - né del suo oggetto, né del tipo di discorso al quale appartenesse, neppure del suo stile.
Pensavo solamente (come nelle leggende) che, tra tante brutte copie cominciate, l’avrei riconosciuto non appena fosse stato presente, non appena avrebbe cominciato a prendere forma sulla mia carta. Ingenuamente (e, senza dubbio, con compiacimento) immaginavo che, imponendo a ciò che avevo già fatto la forma usurpata dei libri, entrando nella temibile istituzione dell’edizione e della biblioteca, completavo questa preparazione, avvicinavo il mio lavoro alla sponda promessa, mimavo un po’ maldestramente il vero Libro, imparavo a indovinarne la forma: stava venendo il giorno in cui la prima parola scritta in alto in una pagina bianca avrebbe creato la meraviglia di un libro che, da questo istante iniziale, sarebbe stato aperto per accogliere silenziosamente tutte le frasi a venire. A partire da qui, si sarebbe scritto quasi da solo: le parole già impiegate da me, le frasi già dette si sarebbero ricomposte senza che la mano dovesse insomma intervenire; tutte le cose non dette che scorrevano sotto la mia chiacchiera si sarebbero levate come spontaneamente, esse avrebbero preso corpo da sole, avrebbero acquisito una visibilità perfetta, piena ed energica come i resuscitati di Signorelli; e così, si sarebbe spiegato serenamente come un discorso anonimo. Ora, ciò che mi intraprendo a scrivere attualmente, sostituisce questo libro. Lo sostituisce: vale a dire che non è esso e non ha la pretesa di esserlo. Lo riconosceva come sbarrato per il momento, e senza dubbio definitivamente escluso. Parla della sua impossibilità e a partire da essa; significa che è interamente abitato da questa impossibilità e reso da essa a sua volta quasi impossibile. Dovrebbe essere più vicino di ogni altro al libro di cui tutti gli altri non erano che l’ombra, il frammento, l’indice parziale, lo schizzo lontano; e difatti lo sarà, è già più lontano di ogni altro da ciò che deve essere un libro. Sin da adesso ne ho la certezza: non solamente perché la felicità e la facilità di scrivere mi sfuggono più che mai (al punto stesso che il mio sogno vacilla, che l’età dell’oro promessa si trasforma insensibilmente in paradiso da lungo tempo perduto, e che ho la convinzione, credo menzognera, di essere stato altre volte felice di scrivere), ma soprattutto perché l’anonimato spontaneo in cui vedevo la ricompensa del mio discorso si è rivelato improvvisamente inaccessibile.
Speravo in un testo che si sarebbe intessuto di se stesso, senza alcun riferimento percepibile a colui che sono e che attualmente parla: io che ho cercato sempre di far estendere attraverso le parole altre (anche le meglio datate e situate, le più legate alla posizione del parlante) un discorso senza soggetto, avrei voluto sentirmi attraversato da un tale linguaggio; avrei voluto essere l’invisibile supporto di un testo che non avrebbe avuto nome. E questo linguaggio, il giorno in cui ho allestito abbastanza vuoto intorno a me e in me, per dargli accesso, ecco che mi giunge (con mia sorpresa, debbo dire, più che in mio dispetto) coniugato da un capo all’altro alla prima persona. Ci sono ben dieci pagine e più di una giornata in cui dico «Io», ostinatamente, senza essere capace, mi sembra, di pronunciare una sola frase impersonale. Devo tuttavia riconoscere che si tratta di un «io» astratto. Non è la mia biografia intellettuale che comincio, alla maniera di quell’esercizio intellettuale che le università tedesche un tempo praticavano con tanto compiacimento. Non cerco più di dare linguaggio a ciò che provo attualmente, né di restringere la mia scrittura il più vicino possibile al presente. Senza dubbio ho parlato di ciò che «volevo» fare; di ciò che avevo in «progetto»; di ciò che avevo «riconosciuto», «sperato», «ignorato»; ma se avessi voluto far apparire la mia vita o le mie esperienze (per quanto non siano interessanti, a dire il vero) nello spessore e sotto ciò che ho potuto fino ad oggi scrivere, non è così che avrei parlato. Questo «io» che ora appare un poco contro il mio gradimento, è molto più lontano di quanto non lo temessi quando lo vidi apparire; molto più vicino anche di ciò che ho scritto.
È senza dubbio questo piccolo granello di sabbia, questo minuscolo frammento irriducibile che m’impedisce di accedere a un discorso spontaneamente anonimo. È il supporto indelebile (benché inosservato da questo io, giacché ne distoglievo con ostinazione gli occhi) di tutto ciò che ho detto e di tutto ciò che dirò. Questo «io» non è la presenza della mia vita, l’oscurità della mia presenza che fa irruzione nel mio discorso e che tradisce così la regione inconscia da cui proviene. È una funzione del mio discorso, il compito cieco che gli permette di esistere e di parlare, ma che fa parte del suo tessuto, ne occupa un punto determinato e ne dispone intorno a sé gli elementi. Questo «io» si è fatto spazio fin da quando mi sono messo seriamente a scrivere il libro ed ecco che aveva percorso, senza mostrarsi quasi mai, (salvo infortunio, caso di forza maggiore, e in alcuni istanti di gioco) tutto ciò che avevo scritto; l’aveva reso possibile in un senso; ma in un altro, è interamente preso da questo discorso, infatti non esiste al di fuori di esso. Ciò di cui parlo attualmente, questo «io» a cui miro in quello che dico, ma che è già (o ancora presente) nelle frasi che utilizzo per reperirlo, non sono io: è il soggetto parlante del mio discorso. E proprio come il mio discorso non è l’espressione della mia vita o del mio pensiero, ma appartiene prima di tutto a un universo di discorso in cui trova posto (molto ridotto) e la sua funzione infima, questo «io» che cerco in questo momento di far sporgere, di far uscire dalla sua ombra essenziale, e di costituire come oggetto della mia parola, appartiene anch’esso all’universo dei discorsi, al campo del loro funzionamento e alla rete di tutti i soggetti parlanti che abitano l’insieme dei discorsi. Strano movimento, tutto sommato, che m’inquieta e mi rassicura. Nell’impossibilità in cui mi sentivo di mantenere la promessa di altri miei libri (vale a dire, di accedere finalmente a ciò rispetto a cui essi si davano come la pura e semplice condizione), ho creduto che potrei parlare solo dell’assenza di questo libro.
Ma per un istante ho temuto di poter riempire questo vuoto solo col racconto dei miei tentativi o fallimenti. Infatti, laddove attendevo un discorso puro, capace di ricoprire della sua necessità anonima l’insieme delle mie chiacchiere, è sicuramente un pronome personale che è apparso, ma un pronome senza «persona», un pronome che era condizione e funzione del discorso stesso. Anche se non parlerò «al di sopra» di ciò che ho detto altrove, o di ciò che dirò eventualmente (mettendomi a strapiombo su di esso con una lucidità superiore, o grazie allo sforzo di una ripresa metodologica); non parlerò più «al di sotto» dei miei propri testi per chiarirne il lato vissuto o cercare di scoprirne le determinazioni profonde; parlerò all’interno del mio proprio discorso, e sul suo stesso piano per cercare di dire chi parla in lui: di cosa è fatta questa voce che si esercitò in esso e che pertanto gli dà luogo. Non sarà dunque questione né di «me», né del mio «metodo», ma di questa funzione che è all’opera in ciò che dico, in ciò che si può cominciare a descrivere a partire da qui, ma che non può definirsi indipendentemente dal suo rapporto agli altri discorsi che gli sono anteriori o contemporanei. Ecco perché questa voce può certamente avere qualche singolarità e non essere, a causa di ciò, perfettamente anonima; essa non ha niente, per fortuna, di personale. Poiché è essa senza dubbio a impedire di scrivere il Libro (nella misura in cui è essa che scrive tutti i libri), ebbene, sia essa allora il soggetto di questo: ciò di cui parla e ciò che parla in esso.
La terra brucia - intervista con Naomi Klein
di Alessia Rastelli (Corriere della Sera, "La Lettura" 15.09.2019)
Perché i prossimi undici anni saranno già determinanti?
«Non lo dico io ma un rapporto del 2018 del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell’Onu, l’Ipcc. Il 2030 è l’anno limite per tagliare la metà delle emissioni mondiali, poi si dovrà eliminarle del tutto entro il 2050. Solo così possiamo sperare di mantenere l’aumento del riscaldamento globale rispetto all’era pre-industriale sotto gli 1,5 °C. Abbiamo già riscaldato la Terra di un grado e questo ha portato l’Amazzonia al punto di non ritorno, ha provocato lo scioglimento dei ghiacci dell’Artico e la morte della Grande barriera corallina, un cimitero subacqueo. Il pianeta è al collasso. Non possiamo andare oltre».
Come spiega allora l’atteggiamento negazionista di alcuni leader come Donald Trump e Jair Bolsonaro?
«Penso che in realtà credano nella scienza. Ma che si sentano al sicuro: confidano che il denaro li tutelerà dal cambiamento climatico. Inoltre sono imbevuti di una visione del mondo nella quale potere e ricchezza, soprattutto maschili, controllano il pianeta e la maggior parte dei suoi abitanti. La battaglia per il pianeta richiede un enorme investimento nella sfera pubblica e il divieto per le aziende di fare ciò che vogliono, che si tratti delle società di combustibili fossili a Houston, in Texas, o degli allevatori di bestiame in Brasile. Gruppi ai quali, invece, i due presidenti hanno fatto promesse. Ecco perché licenziano gli studiosi e chiudono i dipartimenti dedicati alla crisi ambientale: la lotta per la Terra non può coesistere con la loro visione del mondo. Ancora più inquietante è vedere leader progressisti che predicano l’ambientalismo e agiscono al contrario».
A chi si riferisce?
«Emmanuel Macron in Francia e il premier canadese Justin Trudeau, ad esempio, hanno criticato Bolsonaro sull’Amazzonia ma ricoprono di sovvenzioni i giganti degli idrocarburi. Il problema è che la crisi climatica pone una profonda sfida al progetto economico neoliberista. Così come al culto del “centrismo”, incarnato da Trudeau e da molti leader europei ed esponenti democratici americani. “Siamo la via di mezzo tra gli estremismi, non facciamo nulla di troppo veloce e radicale”, rassicurano. Ma di fronte all’emergenza la risposta deve essere radicale. In linea, piuttosto, con il Green New Deal proposto negli Stati Uniti da Bernie Sanders, tra i candidati democratici alle primarie: investimenti per oltre 16 mila miliardi di dollari che servirebbero tra l’altro per le energie rinnovabili e per trasformare l’agricoltura, creando anche nuovi posti di lavoro».
In che cosa consiste esattamente il Green New Deal che lei stessa sostiene?
«La definizione s’ispira al New Deal di Franklin Delano Roosevelt, al suo imponente pacchetto di misure per uscire dalla crisi del 1929. Del Green New Deal esistono però diverse versioni, sia in Europa sia negli Stati Uniti, dove appunto i vari candidati democratici stanno elaborando le proprie. E già nel 2009 all’Onu la negoziatrice boliviana Angélica Navarro Llanos usò un altro paragone storico quando chiese “un Piano Marshall per la Terra”. L’idea sottesa a tutte queste iniziative è un programma mondiale che affronti l’emergenza climatica e la povertà allo stesso tempo, che cambi il sistema economico per combattere tutte le diseguaglianze, incluse quelle razziali e di genere. Le crisi planetarie, di tipo finanziario, umanitario, sociale, ecologico, sono interrelate e vanno affrontate in modo olistico. Il capitalismo moderno, fondato sul consumo illimitato, nacque d’altra parte già con gli africani strappati alla loro terra e con gli espropri alle popolazioni indigene: gli stessi individui divennero materia prima da sfruttare, così come le foreste, i fiumi, gli animali. Le fiamme dell’Amazzonia ci mostrano tuttavia che siamo interconnessi e vulnerabili. Un punto che uomini-bambini come Trump e Bolsonaro faticano forse ad accettare».
Quali provvedimenti andrebbero presi nel nuovo corso verde?
«Negli ultimi tre decenni, cioè da quando hanno iniziato a incontrarsi con gli scienziati per discutere la riduzione delle emissioni, i governi sono stati condizionati dal neoliberismo. Le rinnovabili sono finite nelle mani di società private, con l’effetto di aumentare i costi dell’energia per la classe operaia mentre scendevano le tasse per i milionari. Rispetto al passato, il Green New Deal dice chiaramente che la nostra economia non aiuta la maggioranza dei cittadini, che dobbiamo creare occupazione e migliorare i servizi e che dobbiamo farlo riducendo drasticamente le emissioni e creando milioni di posti di lavoro “verdi”. Potremmo ad esempio finanziare del tutto l’assistenza sanitaria e fare in modo che si realizzi con basse emissioni».
Per i critici è una linea utopistica, che comporterebbe una spesa pubblica insostenibile.
«Va ridefinito il concetto stesso di ciò che è possibile. Certo si tratta di una trasformazione difficile, ma è l’unica opportunità di abitare il futuro. E definirà anche il modo in cui lo abiteremo. Il clima, ad esempio, è - e diventerà sempre più - una delle cause della migrazione di massa, che a sua volta viene usata dalla destra xenofoba per aumentare i consensi. Dunque sì, siamo di fronte a una sfida difficile, ma l’alternativa è terrificante. Il neoliberismo ci ha abituato all’idea che il cambiamento collettivo non sia possibile, ci ha imprigionato nell’eredità di Margaret Thatcher. Ma la storia ci viene appunto in soccorso: la mobilitazione durante e dopo la Seconda guerra mondiale, quando cambiarono la produzione nelle fabbriche, la coltivazione del cibo, le politiche degli aiuti, così come l’esperienza del New Deal, testimoniano che si può cambiare, e in fretta».
Naomi Klein nel 2000 interpretò le aspirazioni del movimento no global. Ora condivide con «la Lettura» i temi del suo impegno, affidati al nuovo libro: una rivoluzione verde, un «Green New Deal» tanto ambizioso quanto ineludibile.
«Abbiamo bisogno di leader e l’Europa non ha saputo darceli. Trump e Bolsonaro sono come dei bambini, Macron e Trudeau si dicono ambientalisti ma fanno il contrario. Non bisogna lasciare soli i ragazzi, si deve scioperare ovunque. Utopia? No, va ridefinito quel che è possibile»
Se abbiamo undici anni per dimezzare le emissioni, quanto le presidenziali americane del 2020 saranno cruciali anche per il futuro del pianeta?
«Saranno decisive. Ecco perché mi sono trasferita per tre anni negli Stati Uniti. Resterò fino al 2020 perché voglio fare il possibile per non far vincere Trump. Sono figlia di americani, potrò votare».
Chi è il suo candidato?
«La prima scelta è Bernie Sanders perché il suo Green New Deal è appunto il più ambizioso. Prevede anche di aiutare i Paesi in via di sviluppo a convertirsi all’energia verde e a combattere il cambiamento climatico, il che è pure un modo per non costringere a migrare chi non lo vorrebbe. Il contrario di Trump, che ha tagliato milioni di dollari in fondi all’America Centrale, inclusi quelli ai contadini colpiti dalla siccità. Anche Elizabeth Warren ha un piano verde, in ogni caso chiunque vinca le primarie democratiche va sostenuto. Incluso Joe Biden, pure lui un neoliberista del quale non sono una fan, ma che aiuterei comunque, sperando che poi un forte movimento dal basso lo spinga al Green New Deal».
Lei ha fiducia nei movimenti dal basso. Possono davvero cambiare le cose?
«Devono trovare un’espressione politica. Negli Stati Uniti c’è una donna, la più giovane mai eletta al Congresso, Alexandria Ocasio-Cortez: nata nel 1989, l’anno scorso ha preso le idee dei giovani nelle strade e le ha trasformate in una proposta di legge per un Green New Deal. Oggi quelle idee sono entrate nella maggioranza dei programmi dei candidati alle primarie democratiche. Il cambiamento può avvenire in fretta se c’è una vera leadership. Ocasio-Cortez non può partecipare alle presidenziali, servono 35 anni, ma ha rifiutato di seguire la linea del partito e ha ridisegnato la mappa politica a una velocità incredibile. Il cambiamento, inoltre, avviene pure a livello locale: le città possano fare da modello».
Oggi l’emergenza ambientale riempie le piazze. Effetto Greta Thunberg?
«Il principale motivo è che il mondo è in fiamme. L’Italia ha ospitato alcune tra le proteste più partecipate. Il prossimo passo è non lasciare soli i ragazzi, scioperare in fabbrica, nei porti, nei municipi».
L’Europa può giocare un ruolo nella lotta per il pianeta?
«Abbiamo bisogno della leadership dell’Europa, deve fare da modello, ma finora non è accaduto. Il vostro ex ministro dell’Interno, Matteo Salvini, incarnava piuttosto quella che io chiamo “barbarie climatica”: le ideologie tossiche che si scatenano a seguito dei flussi migratori, dovuti come abbiamo detto anche al clima. Di fronte a questo, Salvini e altre forze di destra pensano solo al proprio Paese e lasciano morire i più deboli. È ciò che accade nel Mediterraneo e lo stesso Trump si è ispirato a Salvini. Non credo che questa politica rispecchi il sentire della maggioranza degli italiani. Il vostro Paese ha bisogno della sua rivoluzione politica, del suo Bernie Sanders».
Nel libro lei riconosce il coraggio di Papa Francesco nel «rinfacciare ai governi l’indifferenza ecologica» ma non nasconde una certa delusione.
«Ho grande rispetto per il Pontefice, in ambiti come clima e migranti è l’unico leader globale. Ma il Vaticano non ha dato finora una risposta forte sugli abusi sessuali. La profonda crisi del nostro tempo va affrontata su tutti fronti».
A quasi vent’anni da «No Logo» la destra si è appropriata della critica alla globalizzazione. Che cosa è successo?
«In Europa e Nord America quel movimento ha iniziato a crollare dopo l’11 settembre, mentre l’agenda contro cui protestavamo è andata avanti. Anzi, la crisi finanziaria ha compromesso ancora di più la sicurezza economica. Il punto non è che le nostre idee vengano usate dalla destra, ma che il centrosinistra non abbia saputo dare risposte. Si è creato un vuoto e lì si è inserita la destra».
La Rete è utile nella battaglia per la Terra?
«Perdiamo tempo prezioso a guardare i social, eccellenti per trovarsi rapidamente ma pessimi per capire che cosa fare dopo. I giovani che scioperano li usano ma poi fanno bene a vedersi faccia a faccia, a radunare i loro corpi. Meglio cercare un meccanismo democratico per prendere decisioni insieme che usare algoritmi programmati per scatenare invidia e rabbia. La crisi climatica smaschera ancora di più la crisi tecnologica».
Se tutto è in crisi, c’è speranza?
«Si conquista con il lavoro. Bisogna meritarsela. E tutti dobbiamo impegnarci, perché la posta in gioco è altissima».
Messaggio.
Umanità più fraterna, il Papa invita i Grandi per un nuovo patto educativo *
L’appuntamento il 20 maggio nell’Aula Paolo VI per una "società più accogliente". L’annuncio della Congregazione per l’educazione cattolica. Francesco: dialoghiamo su come costruire il futuro
Il Papa convoca a Roma per il 14 maggio 2020 personalità di tutto il mondo insieme ai giovani per una serie di iniziative, dibattiti, tavole rotonde per una "società più accogliente". La Congregazione per l’Educazione Cattolica spiega il motivo di questo evento mondiale che si svolgerà in Vaticano nell’Aula Paolo VI: "Sono invitate a prendere parte all’iniziativa proposta le personalità più significative del mondo politico, culturale e religioso, ed in particolare i giovani ai quali appartiene il futuro. L’obiettivo è di suscitare una presa di coscienza e un’ondata di responsabilità per il bene comune dell’umanità, partendo dai giovani e raggiungendo tutti gli uomini di buona volontà".
"L’iniziativa - spiega ancora la Congregazione per l’Educazione Cattolica in una nota - è la risposta ad una richiesta. In occasione di incontri con alcune personalità di varie culture e appartenenze religiose è stata manifestata la precisa volontà di realizzare una iniziativa speciale con il Santo Padre, considerato una delle più influenti personalità a livello mondiale e, tra i temi più rilevanti, è stato da subito individuato quello del Patto educativo, richiamato più volte dal Papa nei suoi documenti e discorsi. Il quinto anniversario dell’enciclica Laudato sì, con il richiamo all’ecologia integrale e culturale, si offre come piattaforma ideale per tale evento".
In un messaggio il Pontefice rinnova "l’invito a dialogare sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta e sulla necessità di investire i talenti di tutti, perché ogni cambiamento ha bisogno di un cammino educativo per far maturare una nuova solidarietà universale e una società più accogliente". Ricorda ancora Bergoglio che "in un percorso di ecologia integrale, viene messo al centro il valore proprio di ogni creatura, in relazione con le persone e con la realtà che la circonda, e si propone uno stile di vita che respinga la cultura dello scarto. Un altro passo è il coraggio di investire le migliori energie con creatività e responsabilità".
Sul tema, bel sito, si cfr.:
"AVREMMO BISOGNO DI DIECI FRANCESCO DI ASSISI". LA RIVOLUZIONE EVANGELICA, LA RIVOLUZIONE RUSSA, E L’ "AVVENIRE" DELL’UNIONE SOVIETICA E DELLA CHIESA CATTOLICA. Le ultime riflessioni di Lenin raccolte da Viktor Bede
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Un governo per difendere la Costituzione
M5S-Lega. Il dovere delle forze democratiche è quello di dar vita a un governo che ripari i guasti prodotti proprio da chi quelle politiche velenose contro la vita e la dignità delle persone ha praticato e intende riproporre con più forza ove vincesse le elezioni
di Luigi Ferrajoli (il manifesto, 25.08.2019)
C’è una ragione di fondo che impone alla sinistra la formazione di un governo giallo-rosso: la necessità, prima di porre termine alla legislatura, di disintossicare la società italiana dai veleni in essa immessi da oltre un anno di politiche ferocemente disumane contro i migranti. La Lega di Salvini intende «capitalizzare il consenso» ottenuto a tali politiche pretendendo nuove elezioni e chiedendo al popolo «pieni poteri».
L’idea elementare della democrazia sottostante a questa pretesa - poco importa se per analfabetismo istituzionale o per programmatico disprezzo delle regole - è la concezione anticostituzionale dell’assenza di limiti alla volontà popolare incarnata dalla maggioranza e, di fatto, dal suo capo: dunque, l’esatto contrario di quanto voluto dalla Costituzione, cioè la negazione del sistema di vincoli, di controlli e contrappesi da essa istituito a garanzia dei diritti fondamentali delle persone e contro il pericolo di poteri assoluti e selvaggi.
Non dimentichiamo quanto scrisse Hans Kelsen contro questa tentazione del governo degli uomini, e di fatto di un capo, in alternativa al governo delle leggi: «la democrazia», egli scrisse, «è un regime senza capi», essendo l’idea del capo al tempo stesso non rappresentativa della complessità sociale e del pluralismo politico, e anti-costituzionale perché in contrasto con la soggezione alla legge e alla Costituzione di qualunque titolare di pubblici poteri.
Di fronte a queste pretese, il dovere delle forze democratiche - di tutte quelle che si riconoscono non già nell’idea dell’onnipotenza delle maggioranze ma in quella dei limiti e dei vincoli ad esse imposte dalla Costituzione - è quello di dar vita a un governo che ripari i guasti prodotti proprio da chi quelle politiche velenose contro la vita e la dignità delle persone ha praticato e intende riproporre con più forza ove vincesse le elezioni.
Dunque un governo di disintossicazione dall’immoralità di massa generata dalla paura, dal rancore e dall’accanimento - esibito, ostentato - contro i più deboli e indifesi.
Non un governo istituzionale o di transizione, che si presterebbe all’accusa di essere un governo delle poltrone, ma al contrario un governo di esplicita e dichiarata difesa della Costituzione che ristabilisca i fondamenti elementari della nostra democrazia costituzionale: la pari dignità delle persone, senza differenze di etnia o di nazionalità o di religione, il diritto alla vita, il rispetto delle regole del diritto internazionale, prima tra tutte il dovere di salvare le vite umane in mare, il valore dei diritti umani e della solidarietà, il rifiuto della logica del nemico, come sempre identificato con i diversi e i dissenzienti e immancabilmente accompagnato dal fastidio per la libera stampa e per i controlli della magistratura sull’esercizio illegale dei poteri.
Su questa base non ha nessun senso condizionare il governo di svolta a un no a un Conte-bis o alla riduzione del numero dei parlamentari.
L’alternativa possibile è un governo Salvini, preceduta dalla riduzione dei parlamentari ad opera di una rinnovata alleanza giallo-verde, e poi chissà quante altre e ben più gravi riforme in tema di giustizia, di diritti e di assetto costituzionale.
Una probabile maggioranza verde-nera eleggerebbe il proprio capo dello Stato e magari promuoverebbe la riforma della nostra repubblica parlamentare in una repubblica presidenziale. Di fronte a questi pericoli non c’è spazio per calcoli o interessi di partito.
Antropologia.
La modernità? Per Dumont è il primato della proprietà sull’uomo
Esce l’integrale di “Homo aequalis” di Louis Dumont, esame del passaggio dalle società tradizionali, regolate dal rapporto tra gli uomini, a quelle moderne dove vince quello tra uomini e cose
di Simone Paliaga (Avvenire, domenica 1 settembre 2019)
«Nella maggior parte delle società e in primo luogo nelle civiltà superiori o, come dirò più spesso, nelle società tradizionali, i rapporti fra gli uomini sono più importanti e hanno un valore più alto dei rapporti fra gli uomini e le cose. Questo primato è capovolto nel tipo moderno di società, dove invece i rapporti fra gli uomini sono subordinati a quelli fra gli uomini e le cose». E queste sono le società che «valorizzano innanzitutto l’essere umano individuale» afferma Louis Dumont in quell’immane tentativo di ricostruzione della genealogia delle idee e valori sottesi alle società moderne.
Gli esiti della sua ricerca trovano la definitiva (anche se purtroppo non conclusa) formulazione in Homo aequalis. I Genesi e trionfo dell’ideologia economica - II L’ideologia tedesca (pagine 642, euro 36,00), che raccoglie sia la prima tappa di questo percorso di studi, già tradotta trent’anni fa, sia la seconda, per la prima volta pubblicata in italiano, entrambi nei prossimi giorni in libreria per Adelphi in un unico volume.
A Louis Dumont (1911-1998) non spetta certo l’alloro dei maître à penser con cui si sono agghindati tanti intellettuali del Novecento. Eppure, mentre la perspicuità di questi s’è estinta nel volgere degli eventi che speravano di orientare, il lavoro di Dumont è una bussola ancora oggi indispensabile per comprendere dove vanno le società occidentali.
Nato a Salonicco, Dumont, durante gli studi universitari, ha modo di frequentare non solo le lezioni di etnografia tenute da Marcel Mauss al Collège de France ma anche gli incontri al Collège de sociologie du sacré incrociando figure come Michel Leiris e Roger Caillois. Poi arriva la Seconda guerra mondiale e il campo di prigionia tedesco nei pressi di Amburgo dove però studia il tedesco e il sanscrito. Alla fine del conflitto, deluso dalle esperienze politiche novecentesche, riprende i suoi studi a Parigi.
Nella seconda metà degli anni Quaranta comincia a lavorare al Musée de l’Homme dedicandosi inizialmente alle tradizioni popolari francesi come la Tarasque e aiutando Claude Lévi-Strauss a trascrivere a macchina la bozza delle Strutture elementari della parentela.
La svolta però avviene a partire dal 1949 quando mette a frutto la conoscenza del sanscrito e cominciano i suoi frequenti soggiorni in India per occuparsi del sistema delle caste. Il frutto sarà nel 1955 l’imponente Homo hierarchicus, la prima tappa di quell’immane tentativo di comparazione tra le società tradizionali improntate all’olismo e le società moderne, le sole nel corso della storia a provare a organizzarsi intorno ai valori individualisti. Da qui nasce Homo aequalis, il tentativo di «chiarire il nostro tipo moderno di società, la società egualitaria, partendo dalla società gerarchica».
«La maggior parte delle società valorizza - sostiene Dumont - innanzitutto l’ordine, e dunque la conformità di ogni elemento al suo ruolo nell’insieme, in breve, alla società come un tutto unico; io chiamo questo orientamento generale dei valori olismo». Eppure a partire dal XVIII secolo prende piede un tipo diverso di società che «valorizza innanzitutto l’essere umano individuale: ai nostri occhi ogni uomo è un’incarnazione dell’intera umanità e come tale è eguale a ogni altro uomo, e libero. Questo è ciò che io chiamo individualismo».
Nelle società tradizionali i bisogni dell’uomo sarebbero subordinati al tutto mentre nelle società moderne i bisogni della società si trovano sottomessi alle esigenze dell’individuo. «Nella maggior parte delle società - abbiamo già visto come annoti Dumont - in primo luogo nelle civiltà superiori o, come dirò più spesso, nelle società tradizionali, i rapporti fra gli uomini sono più importanti e hanno un valore più alto dei rapporti fra gli uomini e le cose». Nel Settecento però la situazione si capovolge e si arriva al primato della proprietà sulla relazione con gli altri uomini.
Nella lunga carrellata che da Quesnay e i fisiocrati passa per Adam Smith e John Locke e arriva fino a Marx, l’antropologo francese fa emergere i passaggi intellettuali che consentono la nascita del moderno tipo di società, dove il rapporto con la proprietà prevale sul rapporto con gli altri uomini. Eppure l’ideologia moderna, pur essendo il sostrato culturale diffuso nei paesi europei, si declina in modo diverso a seconda della realtà dove attecchisce.
Ovunque l’individualismo non viene assorbito allo stato puro. Subisce un processo di acculturazione generando un ibrido particolare. In particolare nella ideologia tedesca Dumont riscontra questa ibridazione attraverso «la forte predominanza dell’olismo, la decisiva influenza formatrice della riforma luterana e la sopravvivenza sino ai giorni nostri dell’idea di sovranità universale».
Per quanto presente in tutti i fenomeni culturali tedeschi la contaminazione tra olismo e individualismo diventa dirompente nel 1933 quando «emersero un partito e un capo singolari, i quali avevano trovato una via d’uscita alla crisi, che consisteva nel fondare la rivendicazione al dominio non più sullo Stato, bensì sulla razza, subordinando lo Stato al principio razzista e correlativamente ogni legittimità alla pura forza».
Se il totalitarismo è visto da Dumont come una «malattia moderna» nata da una contaminazione deforme di individualismo e olismo, sarebbe interessante oggi capire come continuerebbe la sua diagnosi e come leggerebbe il frangente di storia che attraversiamo in cui «la diffusa confusione tra diritto e fatto, tra moralità e diritto istituzionalizzato, tra giustizia e tirannia, tra pubblico e privato equivale a un ritorno alla barbarie».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana"
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
Federico La Sala
di Andrea Cortellessa (Alfabeta-2, 21 luglio 2019)
Non so se ve ne eravate accorti ma da quest’anno, ufficialmente, viviamo nel futuro. Nell’anno 2019, infatti, è ambientato il film di fantascienza più influente degli ultimi cinquant’anni, Blade Runner, che nel 1982 Ridley Scott trasse da un romanzo del 1968 di Philip K. Dick intitolato Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, proponendo quello che, letto con gli occhi di oggi, è un vero e proprio manifesto postmodernista. Il 2019 del film di Scott - cioè il futuro immaginato nel passato, che abbiamo appena raggiunto come nostro presente e che si avvia a diventare, per noi, a sua volta passato - è alquanto diverso dal 2019 che conosciamo, o crediamo di conoscere. Questa rincorsa fra prospettive temporali comporta pure che vada “aggiornato”, il futuro di ieri. Non è un caso che l’ambientazione del discusso sequel di Denis Villeneuve, uscito l’anno scorso, la si sia dovuta spostare in avanti di un altro trentennio: in previsione di quando, arrivati a raggiungere anche il 2049, Zenone e la Tartaruga del vecchio apologo sofistico sull’irrealtà del tempo, tanto caro a Jorge Luis Borges, dovranno lanciarsi in avanti verso una nuova meta.
Ma il futuro per noi è passato anche e soprattutto in un altro senso, culturale e politico. È un sentimento condiviso da molti, ma che meglio di tutti ha sintetizzato, paradossalmente, uno scrittore considerato di science-fiction e che, in quanto tale, dovrebbe ambientare le sue storie appunto nel futuro (ma che, sintomaticamente, da un certo momento in avanti ha smesso di farlo; e quello che ci ha mostrato nella seconda fase della sua opera è piuttosto un presente accelerato, o iperbolico). In una data non casuale come il 1989 ha scritto infatti James G. Ballard: «il futuro morì in qualche momento negli anni ’50. Forse con l’esplosione della bomba all’idrogeno. Negli anni ’30 e ’40 la gente aveva un grande interesse per il futuro, vedevano il futuro come un mondo moralmente superiore a quello in cui vivevano. Tutti i grandi movimenti politici, il New Deal, il Socialismo, il Fascismo, il Comunismo erano fortemente programmatici, sintomi di un futuro migliore. [...] Ma poi [...] la gente ha smesso di avere a che fare con una scala del tempo che vada al di fuori dell’immediato presente. [...] Si è immersa nella pienezza dei suoi bisogni o delle sue soddisfazioni. [...] Così il tempo è stato smantellato».
Credo si debbano in primo luogo al discredito, alla sfiducia profonda che il postmoderno ha elaborato nei confronti del futuro, le insistenti leggende metropolitane secondo le quali le riprese televisive dal suolo della Luna, quella certa famosa notte di cinquant’anni fa, sarebbero state invece realizzate in uno studio della NASA, a San Bernardino in California, da Stanley Kubrick. La prova definitiva del contrario è rappresentata dalle foto ad alta definizione scattate dallo spazio, sul sito dell’Allunaggio dell’Apollo 17, dalla sonda giapponese Kaguya che l’ha sorvolato nel 2007 (a meno di non voler considerare, si capisce, l’ipotesi di un secondo complotto, o meta-complotto).
Commemorando l’Allunaggio un decennale fa, in una «Bustina di Minerva» del 2009, Umberto Eco ricordava un bon mot di Gilbert K. Chesterton: da quando hanno smesso di credere in Dio, non è vero che gli uomini non hanno più creduto in niente; piuttosto, hanno cominciato a credere a tutto (e ha aggiunto che coloro che avrebbero avuto tutto l’interesse a svelare il complotto dell’allunaggio degli americani, e avrebbero fra l’altro anche avuto i mezzi per farlo, ossia i sovietici che a lungo tentarono di competere con loro, non si sognarono neppure di farlo).
La leggenda nera dell’Allunaggio mancato trova una sintesi suggestiva in un film diretto da Peter Hyams nel 1978, Capricorn One: che prudentemente ambienta però il suo plot, anziché in un passato recente in cui non si fosse sbarcati sulla Luna, in un futuro vicino contrassegnato da un viaggio annunciato, e poi a sua volta mancato, ma su Marte. Ma è anche la materia di un divertente mockumentary intitolato alla maniera dei Pink Floyd, The dark side of the moon, e realizzato nel 2002 da William Karel: il quale non si sa come riuscì a convincere personaggi come l’allora onnipotente Segretario di Stato Henry Kissinger, o la non meno inaccessibile vedova Kubrick, a rilasciare false interviste che coonestavano la leggenda del complotto. Ed è soprattutto la premessa, da ultimo, del più bel film di fantascienza degli ultimi anni, Interstellar di Christopher Nolan (2014): in cui s’immagina che, appunto a causa del discredito che ha finito per ricoprire la NASA, in una Terra catastroficamente impoverita, ridotta a un interminabile campo di granturco, e desolatamente deprivata di senso dell’Avventura, ci si spinga sino a insegnare a scuola - come versione ufficiale della Storia - proprio la bufala del complotto dell’Allunaggio.
La scelta appunto di Kubrick, di siglare la sua Odissea nello Spazio con la musica di Così parlò Zarathustra di Richard Strauss (1896), allude in realtà alla filosofia di Nietzsche sulla figura dello übermensch: sul trascendimento dell’umano, cioè, in una prospettiva anticristiana e radicalmente materialista. La vicenda narrata nel primo, magnifico episodio del film - ambientato in una Terra primordiale abitata da scimmie antropoidi - è quella appunto dell’acquisizione della tecnica, che segna il balzo evolutivo che i filosofi post-nietzscheani hanno poi definito antropogenesi (la mano della scimmia che impugna un osso e lo usa come un’arma e un martello: quella del «filosofo col martello» era la divisa che amava indossare Nietzsche).
Se torniamo a quei giorni di fervore, mediatico ma anche reale, troviamo fior di artisti e scrittori che parevano non pensare ad altro. Pablo Picasso - dando voce a un diffuso malcontento “a sinistra” (era pur sempre quella a stelle e strisce, in tempi di relativo appeasement ma pur sempre durante la guerra fredda, la bandiera piantata dai conquistatori sul suolo della Nuova Terra) - annunciò che la sera della mondovisione si sarebbe collegato alla diretta, sì, ma con la schiena rivolta allo schermo televisivo. Al contrario Giuseppe Ungaretti si dichiarò entusiasta («È bello, è il più bel paesaggio che sia mai stato visto. Queste luci, queste ombre, questo silenzio...») e, colla vocazione istrionica che ben gli si conosce, si prestò a un fantastico fotoreportage realizzato dal rotocalco Epoca, che uscì sul numero successivo alla notte del 20-21 luglio, facendo il tifo davanti alla tivù.
Al dibattito sulla corsa alla Luna prendono parte anche altri dei nostri maggiori scrittori. Sul finire del ’67 sempre il «Corriere» pubblica per esempio un sintomatico scambio epistolare fra Anna Maria Ortese e Italo Calvino. Scrive, in toni inevitabilmente leopardiani, la futura autrice di Corpo celeste: «l’immensità dello spazio che si apre al di là di qualsiasi orizzonte» ha sempre suscitato interrogativi senza risposta: ma «gli stessi silenzi che scendevano di là erano consolatori». Ora invece, conclude, quel simbolo di silenzio e inaccessibilità «diventerà fra breve, probabilmente, uno spazio edilizio. O nuovo territorio di caccia, di meccanico progresso, di corsa alla supremazia, al terrore».
Calvino non nutre a sua volta illusioni sulle, ancora una volta leopardiane, «magnifiche sorti cosmonautiche dell’umanità»: che considera anche lui «episodi d’una lotta di supremazia terrestre». Eppure spezza una lancia in favore del processo di conoscenza che comporterà l’«uscita dal nostro quadro limitato e certamente ingannevole» del «rapporto tra noi e l’universo extraumano»: «la luna, fin dall’antichità, ha significato per gli uomini questo desiderio, e la devozione lunare dei poeti così si spiega». «Chi ama la luna davvero non si contenta di contemplarla come un’immagine convenzionale»; «vuole vedere di più nella luna, vuole che la luna dica di più» (e conclude con un inno alla «precisione ed evidenza», ma anche alla «rarefazione lirica», delle pagine sulla Luna di Galileo: che tanto avevano nutrito l’immaginazione proprio di Leopardi).
Ma l’autore che levi i più “apocalittici” lai contro «l’amara esplosione di stupidità umana, che è stata l’impresa lunare del 21 luglio 1969», e in generale «le frecce di Apollo» per lui apportatrici di «peste», è senza dubbio Guido Ceronetti, il “filosofo tascabile” da poco scomparso: che alla «volgarità pura» e ai «prodigi di arte demoniaca senza sapienza, illusionismo di Stato per alte vertigini, un pugno di calcoli incredibilmente esatti e una spaventosa povertà di mente, una nullità che terrifica», che sono per lui «tutte le imprese spaziali, con o senza partecipazione umana», dedica una buona metà di un libro che fa uscire nel 1971 presso l’editore di punta, allora, del reazionarismo più colto e brillante, Rusconi: dandogli il titolo memorabile di Difesa della Luna. Sono retoricamente spettacolari, ma ideologicamente tutto sommato prevedibili, le sue tirate sulla «spudoratezza degli ottimisti», che «perde gli ultimi ritegni alla vista del piede di Neil Armstrong», lasciandosi andare a «una spettacolosa voglia generale di sporcare i cieli, di ferire corpi astrali, di costruire orinatoi orbitali».
Ma la testimonianza più eloquente - ancorché o forse proprio perché offerta in forma allusivamente “esoterica”, diffusa come fu in forma privata e in ciclostile, col già ermetico titolo Gli Sguardi i Fatti e Senhal - è rappresentata da uno straordinario poemetto composto da Andrea Zanzotto fra il ’68 e il ’69: in cui le macchie sul volto dell’astro, che tanto sollecitarono gli estri di Galileo, sono associate a quelle del test psicologico di Rohrshach, e a quel terebrante modo interpretate dal novissimo aruspice. Per Zanzotto lo “sbarco” tecnologico-militare sulla Luna equivale a uno «stupro», che dissacra un simbolo mitologicamente (cioè antropologicamente) contrassegnato proprio dalla sua intangibilità, come tale cantato appunto da Leopardi e da tanta poesia romantica.
La Luna è in questo caso sineddoche dello spazio siderale: la cui distanza dai nostri affanni sublunari non per caso si nasconde, com’è noto, nell’etimo stesso della parola de-siderio. Secondo questa etimologia, infatti, quello che desideriamo è lontano come le stelle, i sidera disegnati sulla volta del firmamento, ed è proprio tale lontananza ad accendere il nostro desiderio. Per dirla con la sintesi estrema di Antonio Prete, «il cielo è quel che manca». Naturale quindi che, una volta preso possesso dell’astro che quelle cifre misteriose segnate in cielo sussume, nella nostra anima quel desiderio - fatalmente - si sia spento. (Questa sarebbe pure la spiegazione più suggestiva forse, e certo la meno ingenerosa, della perdurante fantasia collettiva secondo la quale quel viaggio, in effetti, non l’avremmo mai davvero compiuto.)
È il fotogramma-simbolo del Viaggio nella luna, il film che Georges Méliès trasse nel 1902, con somma libertà, dal libro di Verne. Il cinema ha appena sette anni di vita quando il grande illusionista realizza questo breve film che oggi ci appare deliziosamente rétro ma, per quanto possa apparirci bizzarro, allora parve invece straordinariamente verosimile: al punto che Méliès, ricorda Antonio Costa (Viaggio sulla luna, Mimesis 2013), «ha più volte raccontato, divertito, che gli spettatori delle fiere credevano che, per il fatto di essere stato filmato, il viaggio sulla Luna fosse davvero avvenuto»: proprio come quelli dei suoi rivali “realistici”, i fratelli Lumières del pionieristico Arrivo del treno alla stazione di La Ciotat erano rimasti terrorizzati dalla prospettiva del bolide lanciato verso di loro. Una credulità uguale e contraria all’incredulità degli spettatori televisivi del luglio 1969... Il film di Méliés è stato fatto oggetto, di recente, di due magnifici remakes, o piuttosto d’après: quello di Martin Scorsese, Hugo Cabret, è stato pluripremiato agli Oscar 2012 (Méliès vi è interpretato da Ben Kingsley), mentre l’opera video di William Kentridge, Journey to the Moon, è del 2003.
In entrambi i lavori è anzitutto la proto-tecnica del tempo, avveniristica allora quanto archeologica oggi, ad accattivarsi l’affettuosa ironia degli artisti del tempo di dopo. Ma il video bellissimo di Kentridge - che ho visto alla mostra La Lune. Du voyage réel aux voyages imaginaires, in corso sino a domani al Grand Palais a Parigi: mostra invece, nel suo complesso, piuttosto deludente - introduce altresì un sotto-tema, quello della presenza-assenza baluginante di un Eterno Femminino Lunare, interpretato dalla moglie dello stesso artista, che a un italiano evoca la «donna che non si trova», che Leopardi «cerca tra le idee di Platone, la cerca nella luna, nei pianeti del sistema solare, in quei de’ sistemi delle stelle». Così scrive il poeta a proposito della più petrarchizzante e platonizzante delle sue canzoni, quella Alla sua Donna. Aggiungendo autoironico che «se questa Canzone si vorrà chiamare amorosa, sarà pur certo che questo tale amore non può dare né patir gelosia, perché, fuor de l’autor, nessun amante vorrà fare all’amore col telescopio». Se ne ricorderà Calvino quando darà il nome appunto di un telescopio, quello dell’osservatorio californiano di Palomar, al suo ultimo avatar (celando in quel nome il senhal di un remoto amore anni Cinquanta: «Paloma» era il nomignolo di Elsa de’ Giorgi...).
L’occhio della Luna umanizzata di Méliès è deflorato da un razzo ovviamente fallico. Giocoso, ma non per questo meno perturbante. Ci si ricorda allora che Zanzotto fra l’altro ha tradotto Georges Bataille, e sullo «stupro dell’occhio» ha scritto nei primi anni Sessanta una delle sue poesie più belle, la Quinta delle IX Ecloghe...; anche Ceronetti paragona il cerchio luminoso a un «grande Occhio di conoscenza»; e, aggiunge con un frizzo dei suoi, «un missile Saturno non è un collirio». (Va detto che il 12 settembre 1959 il primo oggetto terrestre che raggiunse il suolo lunare, una delle sonde sovietiche Lunik, vi si schiantò in modo non troppo più delicato, in effetti, di quanto avessero immaginato Verne e Méliès.) Alle spalle tanto di Zanzotto che di Ceronetti c’è, direi, una scena celebre del film surrealista di Luis Buñuel, Un chien andalou, 1929: in cui lo stesso regista osserva il disco lunare tagliato in due da una nuvola sottile, e poi lo si vede intento a squarciare con un rasoio l’occhio spalancato di una donna, all’improvviso materializzatasi al suo fianco.
Ha detto l’astronauta Bill Anders: «Abbiamo fatto tutta questa strada per esplorare la Luna, e la cosa più importante è che abbiamo scoperto la Terra». È proprio così. Ancor prima dell’Allunaggio vero e proprio, infatti, l’immagine della Terra vista «da Fuori», grazie alle prime fotografie scattate dalle sonde orbitanti senza equipaggio attorno alla Luna (le prime le diffuse la sonda Lunar Orbiter il 23 agosto 1966), rese accessibile a tutti ciò che scientificamente sapevamo dai tempi di Copernico e Keplero, ma che in effetti non avevamo mai visto.
Immagini capaci di produrre un vero choc culturale: lo scacco definitivo all’antropocentrismo delle religioni e dei miti, appunto, già messo in ridicolo dal Leopardi delle Operette morali. In un’intervista del 1966 il pensatore che più abbia riflettuto sulla «tecnica», Martin Heidegger, si disse «spaventato» dalle «fotografie della Terra scattate dalla Luna [...]: lo sradicamento dell’uomo è già cosa fatta [...]. Non è più la Terra quella su cui oggi l’uomo vive». Assunto-base del suo pensiero è infatti il risiedere dell’uomo su un suolo ben individuato, la «patria più quieta della stirpe»; vedere l’intero pianeta dall’esterno significa al contrario percepirlo come «astro errante»: sito fra i tanti (e anzi gli infiniti), anziché sostegno perenne dalla necessitante unicità. Ma Heidegger non fu il solo né il più originale dei pensatori che cercarono di elaborare il senso profondo di quella grande rivoluzione. Lo ha mostrato il filosofo napoletano Carmelo Colangelo in un bel libro uscito nello scorso decennale col titolo La verità errante. Viaggi spaziali alla prova del pensiero (Liguori 2009): si misurarono nell’impresa anche il maestro (da lui rinnegato) e la maggiore allieva di Heidegger (che mai invece lo rinnegò), cioè Edmund Husserl e Hannah Arendt.
Ma è stato un critico d’arte geniale, Alberto Boatto, in un libro altrettanto geniale del 1981, Lo sguardo dal di fuori (Castelvecchi 2009), a spiegare meglio di tutti come per la nostra specie abbia rappresentato uno choc gnoseologico, esistenziale e persino ontologico - Boatto lo definiva «spaesamento ecumenico» - il contemplare per la prima volta le immagini del pianeta che abitiamo riprese, appunto, dall’esterno della sua atmosfera. Giungeva così al “grado zero”, diciamo, la «fine dei viaggi» segnalata con tristezza da Claude Lévi-Strauss - che già negli anni Cinquanta aveva concluso come la millenaria storia dell’uomo come viaggiatore, e dunque scopritore dell’Ignoto, si fosse ridotta ad appiattente turismo che dappertutto getta la sua «sozzura» sul «volto dell’umanità» (non si chiamava ancora “globalizzazione” ma l’avevano già intuita, un secolo prima di Lévi-Strauss, tanto Leopardi che Baudelaire; mentre quattro anni prima dell’Allunaggio pronosticherà il nume tutelare di Boatto, Ernst Jünger, che saranno appunto spazzature, «verosimilmente», «anche le prime tracce che l’uomo lascerà dietro di sé sulla Luna»).
Non solo; riproducendo la propria immagine, aggiunge con eretico lacanismo Boatto, la Terra entra così nel suo «stadio dello specchio»: sancendo il congedo del genere umano, o forse finalmente über-tale, dalla superficie «duplicata e spaesata» di quella che era stata «un tempo la vecchia Madre, tremenda e soccorrevole». La duplicità della superficie terrestre che si specchia sul cielo della Luna è anche «il conturbante pareggiamento fra immaginario e reale» che si produce quando «la fantascienza», «realizzandosi nella tecnologia spaziale e nelle sue imprese», «“è già passata”». E data appunto alla prima foto della Terra vista dal di fuori, Boatto, «l’ingresso unanime nella nuova condizione postmoderna».
di Andrea Cortellessa (Alfabeta-2, 21 luglio 2019)
Nel 1978 un fotografo dalla matrice concettuale che la sua attuale voga quasi pop oblitera pour cause, Luigi Ghirri, spiegò come l’origine appunto concettuale del suo lavoro andasse cercata proprio in quelle foto della Terra vista dalla Luna. Era quella «la prima fotografia del Mondo», comprensiva di tutte le sue «immagini precedenti, incomplete [...]: graffiti, arabeschi, dipinti, scritture, fotografie, libri, film»: da questo senso di inclusione, e diciamo pure di reclusione, del mondo dentro la sua immagine deriva il tema strutturale della cornice, che dominerà sempre l’immaginario di Ghirri. Come ha sottolineato Franco Farinelli risponde a un caso, ma è un caso eloquente, che il primo collegamento in rete fra i computer di quattro università americane - prima che sul progetto ARPANET mettano le mani i militari - venga realizzato proprio negli stessi giorni dell’Allunaggio: così ponendo le premesse dell’attuale «Mondo dentro il Capitale», come l’ha chiamato Peter Sloterdijk.
Al contrario di Heidegger e di tanti scrittori “apocalittici” di quel tempo, Maurice Blanchot ed Emmanuel Lévinas videro nell’avventura astronautica una possibilità straordinaria. Il primo definì «disastro», ma in positivo (dis-astro), l’«irrevocabilità, per l’uomo, di un’erranza indefinita». Anziché radicarsi nei «luoghi» celebrati da Heidegger, la «verità» per Blanchot non può che essere «nomade». Cioè, puntualizza l’ebreo Lévinas, sottratta a una «maternità della terra» la quale «determina tutta la civilizzazione occidentale di proprietà, di sfruttamento, di tirannia politica e di guerra».
Il paradosso (che non sfugge peraltro a Lévinas) è che questa trascendentale lezione di libertà e di pace si renda possibile appunto in seguito a un’operazione tecnologica dagli evidenti risvolti militari, quella appunto del complesso militar-industriale statunitense, mirata alla proprietà e allo sfruttamento. Ma certo la fase ascensionale dell’umanità - in quest’intreccio mai lineare di fini e di moventi - era stata contrassegnata dalla tensione a un luogo «fuori», a un’«oltranza» che, una volta conseguita e realizzata, pare aver perso definitivamente il suo millenario appeal. Già nel 1928, peraltro (quando il suo connazionale Wernher Von Braun si cominciava a baloccare coi primi razzetti), Walter Benjamin lamentava la perdita, da parte dell’uomo moderno, della «dedizione a un’esperienza cosmica».
Nel 1977 proprio la notizia della morte del pioniere della missilistica, fa tornare ancora una volta Italo Calvino sul tema, con un articolo dal titolo di nuovo leopardiano, Il tramonto della luna. Calvino si accorge di come, appena otto anni dopo l’Allunaggio, i toni siano improntati ormai alla «rievocazione di un’epoca già lontana»: «Von Braun muore in un momento in cui la conquista dello spazio, cui egli dedicò tutta la sua vita, appare come qualcosa di incongruo, un diversivo costoso e fuori luogo, confrontato alle preoccupazioni che tengono in ansia il mondo». La lotta per la supremazia spaziale, che per un ventennio ha visto contrapposti i colossi industriali e militari degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, non dissimula più la profonda crisi, valoriale prima che economica, che attanaglia entrambi. Ma soprattutto, conclude Calvino con una clausola che pare diametralmente rovesciare l’enfasi sulla conoscenza che gli avevamo ascoltato appena dieci anni prima, «c’è qualcosa che non funziona, qualcosa che manca perché questa nuova potenza del sapere sia vero sapere, sia vera potenza».
A distanza di altri quarant’anni, l’idea oggi corrente - che la Luna non sia più la meta dell’Avventura per antonomasia bensì, al più, di uno sfruttamento turistico-commerciale - parrebbe il segno definitivo che per il nostro tempo «un altro mondo», davvero, non è più possibile.
È un fatto che dopo il dicembre del ’72 - quando Eugene Cernan della missione Apollo 17 calpesta per l’ultima volta il suolo lunare - questo sguardo dal di fuori non si sia più potuto realizzare (col crack petrolifero seguito alla Guerra del Kippur, giusto nel ’73, l’economia mondiale entra in una fase recessiva dalla quale - nonostante il prolungato anticiclo degli anni Ottanta e Novanta - non è mai davvero uscita).
In un tempo che è agli esatti antipodi culturali del nostro, il Sessantotto, proprio la conquista della Luna è vista al contrario come la madre di tutte le profezie, la letteralizzazione di tutte le metafore. Il 4 luglio 1969, nella chiesa sconsacrata di San Nicolò a Spoleto, va in scena il più iconico e decisivo spettacolo teatrale del secondo Novecento: l’Orlando Furioso nella riduzione di Edoardo Sanguineti, per la regia di Luca Ronconi. Lungamente annunciato, è il momento in cui cade di schianto non solo il diaframma fra tradizione e avanguardia, ma anche quello fra avanguardia e pubblico. Ogni separazione fra attori e spettatori è rimossa da Ronconi, il quale occupa con le sue strabilianti macchine e i suoi paladini duellanti l’intero spazio a disposizione, per poi debordare anche da quello e, irresistibile, dilagare nelle piazze italiane di un’estate indimenticabile. Memorabili le immagini riportate da un vecchio libro di Franco Quadri, Il rito perduto, con gli spettatori che, issatisi sulle assi-pedane lanciate da Ronconi sulle piazze d’Italia, soccorrono con amorevole urgenza i paladini “caduti” in duello: immagine vibrante dell’uscita, evidentemente non solo del teatro ma di un’intera società, da cardini che sembravano fissati da sempre, e per sempre.
La rivista della Neoavanguardia, «Quindici», celebra l’evento sul suo ultimo numero, uscito giusto nell’agosto ’69, con un lungo saggio di Cesare Milanese che definisce il viaggio del duca anglosassone Astolfo in sella al cavallo alato, alla ricerca del senno perduto del cavaliere Orlando, appunto «un gesto d’uscita». Anche se l’allunaggio di Armstrong e soci trova la sua più irriverente celebrazione nell’ultimo manifesto allegato alla stessa «Quindici», col logo della missione Apollo semicancellato dalle scritte furiose della protesta operaia: «tutti ci dicono che questa impresa è una grande conquista dell’umanità | ma chi è questa umanità?». La domanda, fatta pure la tara alla foga della retorica-slogan, non cessa di interrogarci: «dove è andato a finire il progresso? [...] il progresso, come sempre, è finito nelle tasche dei padroni».
Ma a prevalere, nella cultura d’avanguardia di quel mirabilis Sessantotto-Sessantanove, era viceversa un sentimento di fiducia, di seppur sospesa speranza. Opera-emblema di questo spirito d’avventura è per me quella di un artista che ha legato il suo nome piuttosto, appunto nel decennio successivo, a sentimenti tragici di dolente rilettura della traumatica storia del Novecento. Siamo ancora lontani da quelle atroci pantomime sul fascismo e la Shoah quando Luna, proprio, s’intitola l’allestimento presentato da Fabio Mauri al memorabile “Teatro delle mostre” genialmente organizzato da Plinio de Martiis, alla galleria romana della Tartaruga, nella primavera del 1968.
È in generale il vettore dell’Uscita, si è detto, quello proposto dagli artisti di quel tempo (inaugurando un ciclo si spostamenti e deterritorializzazioni che culminerà nel ’72-73 colla mostra Contemporanea, inabissata da Achille Bonito Oliva nel sotterraneo del parcheggio di Villa Borghese). Si pensi ai 12 cavalli vivi di Jannis Kounellis, all’Attico di Fabio Sargentini nel gennaio del ’69, colla wilderness, la nuda vita nella sua dimensione creaturalmente “selvatica” che fa irruzione nello spazio chiuso della Galleria d’arte. O, sempre al Teatro delle mostre di de Martiis, all’ultima performance del settembre del ’68, quella dedicata ai Muri della Sorbona da Nanni Balestrini: che prima detta al telefono perché vengano tracciate sulle pareti della galleria, e poi coll’ultimo aereo da Orly fa in tempo ad arrivare per tracciare di suo pugno, appunto le scritte viste coi propri occhi sui muri di Parigi.
Ma l’opera poeticamente più memorabile resta la Luna di Fabio Mauri: che anticipa di qualche mese la passeggiata di Neil Armstrong ricoprendo lo spazio espositivo, alla Tartaruga, di un mare di non meno ironiche palline di bianchissimo polistirolo. Un’Odissea nello spazio ridotta a Kindergarten: che anticipa curiosamente, peraltro, gli atteggiamenti infantili assunti dai moonwalkers che, tutti, scopriranno subito che per camminarci, sulla Luna, bisogna in effetti ballonzolare; che (come John Young dell’Apollo 16) fanno buffi saltelli quando devono mettersi sull’attenti davanti alla bandiera a Stelle e Strisce; o che addirittura (come Alan Shepard dell’Apollo 14) contrabbandano sulla Luna, a insaputa della NASA, una mazza da golf per sparare così, in assenza di gravità, il più lungo drive della storia.
Come ha scritto Stefano Catucci (nel suo bel libro Imparare dalla Luna, Quodlibet 2013), fu questo «il miglior modo per restituire all’impresa un valore di universalità che ridimensionasse il provincialismo delle bandiere e neutralizzasse i codici della narrazione militare». Gli astronauti americani non lo potevano sapere, insomma, ma sulla Luna si stavano comportando proprio come Ercole e Atlante nell’operetta di Leopardi: con i corpi celesti giocavano a palla.
Mi dicono gli psichiatri infantili che non è neurologicamente possibile (e va ascritta con ogni probabilità, dunque, alla casistica del “ricordo di copertura”) la mia convinzione, peraltro assai insistente, che mio primo ricordo cosciente sia appunto la diretta televisiva della notte fra il 20 e il 21 luglio 1969 (avevo appena compiuto un anno, un mese e un giorno). Viceversa sono certo che fu proprio il gioco da bambini allestito da Mauri quello con cui, appunto bambino, feci il mio primo e per me incancellabile incontro con l’arte contemporanea: qualche anno dopo, giusto alla vecchia GNAM dove la Luna di polistirolo di Fabio Mauri figurava in una qualche mostra collettiva, facevo anch’io il mio piccolo, grande balzo dell’umanità. Il Sessantotto, a me che in quell’anno ero nato, aveva davvero regalato un futuro possibile. Se quel futuro - come ci pare di vedere oggi, mezzo secolo dopo - risulta essere stato sprecato, ciò si deve solo a noi; solo a me.
L’EUROPA, “SOCRATE E ARISTOFANE", E “LE “REGOLE DEL GIOCO” DELL’OCCIDENTE ... *
Leo Strauss, i classici greci per capire il rapporto tra filosofia e politica
di Matteo Moca (Alfabeta-2, 14.07.2019)
«La nostra Grande Tradizione include la filosofia politica e perciò sembra garantirne la possibilità e la necessità. Secondo la medesima tradizione, la filosofia politica è stata fondata da Socrate. Dal momento che Socrate non ha scritto libri o discorsi, la nostra conoscenza delle circostanze in cui, o delle ragioni per cui, la filosofia politica è stata fondata, dipende interamente dai resoconti di altri uomini». Così, squadernando una questione di grande importanza e difficile soluzione, si apre l’introduzione che Leo Strauss scrisse per il suo Socrate e Aristofane, pubblicato adesso come primo volume - curato e introdotto da Marco Menon - della nuova importante collana “Straussiana” delle Edizioni ETS, diretta da Carlo Altini, Raimondo Cubeddu e Giovanni Giorgini, una collana che si propone, anche scorrendo i titoli che risultano in preparazione, di dare un nuovo e maggiore spazio editoriale a uno dei pensatori più importanti del Novecento. Socrate e Aristofane rappresenta certamente una summa del pensiero filosofico di Strauss, e dunque una privilegiata porta di accesso alla sua filosofia, per molteplici motivi: innanzitutto per l’andamento e la forma precisa e minuziosa dell’interrogazione del testo antico, che pare assecondare quel dialogo con gli autori che deve precedere la lettura dell’opera, ma anche perché l’analisi del testo di Aristofane mette in gioco i temi principali della sua riflessione, ovviamente riscontrabili nelle altre sue opere, come la relazione tra la filosofia e la politica, l’analisi della religione e il rapporto tra la politica e l’arte.
L’interesse per Aristofane e per i classici greci nell’orizzonte della ricerca sulla filosofia politica, come ricostruisce precisamente nella prefazione Marco Menon, diventa per Strauss sostanzioso a partire dalla fine degli anni Trenta: questa attenzione prende la direzione dell’analisi del rapporto tra Aristofane, Senofonte e Platone, come testimonia chiaramente una lettera di Strauss del 1947 che fa bene intendere su cosa si stia assestando la sua ricerca: «Sto studiando ancora la Repubblica. Penso che la querelle tra filosofia e poesia possa essere intesa nei termini di Platone; filosofia significa la ricerca della verità; [...] poesia significa qualcos’altro, ad esempio, nel migliore dei casi, la ricerca di un tipo particolare di verità». All’interno di questa discussione emerge la centralità della figura di Aristofane, perché Strauss rintraccia come il suo attacco a Socrate, rintracciabile non solo nelle Nuvole ma in molte delle sue commedie, si concentri proprio sulla questione della superiorità della filosofia o della poesia. Tentare di comprendere la centralità di Socrate nella filosofia politica, come emerge anche dal passo dell’Introduzione precedentemente citato, implica la lettura di Aristofane: via privilegiata per comprendere la vera natura di Socrate sarà il confronto tra il ritratto platonico e quello aristofaneo, l’autore del Simposio ammirava Socrate, Aristofane no, (l’attenzione di Strauss si concentra anche su Senofonte, che insieme a Platone e Aristofane conobbe Socrate di persona): si tratta però di uno studio che sottende un discorso al presente e non si limita solo allo studio dell’antichità. Su questo punto è preciso Strauss quando scrive di come, dopo gli attacchi di Nietzsche a Platone e a Socrate, il suo ritorno alle origini «è diventato necessario a causa della radicale messa in discussione di quella tradizione».
Socrate e Aristofane viene concluso da Strauss, dopo una lunga fase preparatoria e di studio, nel 1965, ma la sua pubblicazione è accolta con freddezza anche da parte dei suoi corrispondenti più stretti (Karl Löwith per esempio, a cui Strauss scriverà dopo aver ricevuto uno stringato commento: «La sua frase sul mio capitolo sulle Nuvole mi ha rallegrato molto: è quasi l’unica parola di incoraggiamento che ho sentito da molti anni! Ma non vorrebbe leggere anche gli altri capitoli?»), nonostante questo testo si concentri, come sottolinea Menon, sulla questione fondamentale della differenza tra physis e nomos, «che riveste un ruolo costruttivo per la filosofia stessa» e trascenda ben presto, pur nell’organicità della lettura, i testi di Aristofane per addentrarsi tra i sentieri speculativi a lui più cari, come la natura del teatro drammatico e il suo ruolo edificante, la dualità tra illuminismo e tradizionalismo, la vita nella città o l’imprescindibile ruolo della politica. -Strauss espone come le fonti platoniche e aristofanee su Socrate siano divergenti (Senofonte è invece considerato da Strauss come un testimone più solido in quanto continuatore delle storie di Tucidide): nei dialoghi del primo, Socrate è idealizzato ed è molto difficile distinguere nettamente ciò che Socrate ha pensato e quello che gli viene attribuito da Platone, utilizzando invece le Nuvole di Aristofane è possibile conoscere il Socrate presocratico, e cioè analizzare il passaggio dalla filosofia stricto sensu alla filosofia politica e dunque, ancora, andare a ricercare nei territori che sono alla base della disciplina filosofica.
La lettura di Strauss si articola in numerosi capitoli, ognuno dedicato a una delle commedie di Aristofane: attraverso una lettura filologica, in queste testi emergono alcuni temi centrali della filosofia di Strauss, come il discorso sugli dei, già precedentemente evocato, nella lettura di Uccelli, Rane e Pluto, dove Aristofane solleva problematiche centrali per la definizione della divinità, oppure la riflessione sul rapporto tra Atene e Gerusalemme, nome di uno dei suoi libri più importanti ma soprattutto metafora della scelta tra filosofia e Bibbia, tra due città sacre.
Lo spazio maggiore è dedicato a Nuvole, nonostante comunque ognuna delle commedie venga messa in relazione da Strauss con le altre, costruendo un vero e proprio studio organico sull’opera di Aristofane, perché Nuvole rappresenta il luogo centrale per l’indagine sul giudizio aristofaneo su Socrate. Attraverso questa dettagliata analisi, Strauss arriva alla conclusione, se di giudizi definitivi si può in questi casi parlare, che Aristofane si credeva superiore a Socrate, «in virtù della sua conoscenza di sé e della sua prudenza»: infatti, scrive Strauss, «se da una parte Socrate è totalmente indifferente nei confronti della città che lo mantiene, dall’altra Aristofane si occupa molto della città» e, ancora, se Socrate «non rispetta le necessità fondamentali della città, o non vi si attiene, dall’altra Aristofane lo fa».
La saggezza di Aristofane assume la sua forma attraverso la parola del poeta, sia esso comico o tragico: le sue commedie sono «il vero Discorso Giusto» che tratta le cose comicamente (questa la chiave utilizzata da Strauss, che anche in un lettera a Kojéve scrive di come il suo libro potesse divertire un filosofo: «Ho appena finito di dettare un libro, Socrate e Aristofane. Credo che qua e là le strapperà un sorriso, e non solo per le battute di Aristofane e le mie parafrasi vittoriane») e che, «presentando come ridicoli non solo gli ingiusti ma anche i giusti, riesce a far sì che la sua commedia sia totale». Solo in questa maniera e attraverso questo filtro a lui congeniale, è possibile tratteggiare ciò che altrimenti sfuggirebbe o trascenderebbe ogni possibilità.
* NOTA
LA LEZIONE DI NIETZSCHE - E DI DIOTIMA. Con Socrate ha inizio l’avventura dell’Occidente! Leo Strauss condivide con Nietzsche l’analisi, ma non riesce a portarsi oltre e a risalire la corrente! E la filosofia è ancora immersa, come denunciava Kant, nel suo profondo “sonno dogmatico” (cfr. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN)!
“NeÌla sua cecità e protervia, l’uomo Platone è l’incarnazione più propria del sogno “diabolico” di Adamo e della sua donna Eva: diventare “come Dio”. contro Dio stesso. I Greci sapevano. Platone sa di ciò che è avvenuto in tempi remotissimi, ma non ha la mente come da una sua battuta contro il grande Diogene di Sinope per comprendere (...) Il racconto è di Aristofane, nel Simposio, e, come si può vedere, ricalca abbastanza fedelmente il racconto biblico relativamente al prima e al dopo del peccato originale, e indica anche la via ... per restaurare I’antica natura. L’indicazione del Commediografo è più che chiara e non è affatto (non fraintenderlo, “non volgerlo al comico”, egli ripete a chi ascolta il suo discorso - noi abbiamo sempre sottovalutato le sue Nuvole, ma egli aveva visto molto bene che cosa Socrate stava preparando) una boutade. Platone non comprende nulla, stravolge e continua, con il suo Eros (avido, cieco e saettante) e con lasua filosofia, sulla strada del padre. Titanicamente, come Zeus, spaccato tutto in due, tenterà di rimettere insieme i cocci, con la forza - una storia di steminata e “incurabile” follia. Aristofane parla della nostra mente, della nostra anima e della nostra vita e Platone taglia e ricuce - a specchio, “divinamente” (...) (Cfr. L’EUROPA, LE “REGOLE DEL GIOCO” DELL’OCCIDENTE, E LA LEZIONE DI NIETZSCHE).
LA COMUNE DI PARIGI, IL DESIDERIO DI RIVOLUZIONE, E IL “LADRO DI FUOCO”. Cento anni dopo (!971), una “risposta” alla “Lettera del Veggente” di Arthur Rimbaud *
mi dispiace ma l’offerta di un’ora di letteratura nuova non mi interessa. Sarò esecrabile ma Io non posso risponderti. Se lo facessi mi malediresti per tutta la vita... Ti ‘salverei’ ma tradirei me stesso e te pure. Non ti spedirò queste mie considerazioni-risposte. Le ragioni stanno soprattutto in chi fa l’offerta.
Io non ho bisogno di veggenti-preti, né voglio essere un poeta-prete. Non ho dato incarichi a nessuno.
Potrei pure considerare la Lettera un prodotto-merce e venderla bene, ma Io cosa ne otterrei, altre ore di letteratura, un po’ di soldi per te... e lo snaturamento del discorso stesso. I vecchi imbecilli continuerebbero a trovare dell’Io il significato falso, e tanti egoisti a proclamarsi autori. No, non ti risponderò!
Non mi importa dei tuoi ragionati esercizi di s-regolamento. L’ignoto è ignoto, non si vende né si compra. Sì, la proprietà è un furto! E il poeta-veggente è un ladro! Viva la lotta rivoluzionaria! Viva viva la Comune!
Per i nostri tempi non serve più il ladro di fuoco. Lo sai. Perché continui con vecchie teorie? “Il poeta è un ladro di fuoco” ... ma non è il fuoco, non produce fuoco. E noi oggi abbiamo bisogno di fuoco o, almeno, di scintille che diano fuoco alla pianura... Né di ladri, né di sognatori. La Comune insegna come si fa l’assalto al cielo. Fare come Prometeo rende schiavi e colpevoli, non libera.
Tu proponi una vecchia pratica, ricadi nella trappola dell’autore-egoista, anche se cambi il segno al movimento: l’Io è un altro! Chi parla non è qui, chi è qui non parla. Il linguaggio è votato allo scacco, tu all’impotenza. Il resto è sempre là fuori altrove inattingibile, laggiù-lassù. La muda del serpente: una pelle vuota e senza vita.
Lo so, lo so, caro Arthur, quanto bruci, ma la tua-mia lettera - dobbiamo rendercene conto - agli altri non fa né caldo né freddo. Perché? Perché a bruciare bruci da solo e poi mandi la cenere agli altri. Tutt’al più si possono riscaldare, ma come possono accender-si? Come vuoi che ti rispondano? È chiaro che essi - anche se saranno esecrabili - non ti daranno (come non ti darò Io) risposta.
È inutile che fai il disperato presuntuoso buffone: “Davanti a molti uomini, parlai a voce alta con un istante di una delle loro altre vite. - Fu così che amai un porco” (“Alchimia del Verbo”). La tua pretesa universalizzante di essere anima del mondo danna e pretifica. Il silenzio degli uomini è la severa condanna: l’aquila rode il fegato a Prometeo...
Per bruciare bisogna bruciare insieme. Per nascere bisogna nascere insieme. E per avere risposte bisogna porre domande... Ma, ma... ora capisco! Tu mi chiedi di risponderti! Tu poni domande! E io che non capivo... io che vedevo solo risposte. Sì, sì, ho capito! E’ possibile “trovare una lingua”: è possibile bruciare-nascere insieme!
Legato al mio-tuo piccolo-io, non vedevo il tuo-mio Io, di tutti e di nessuno: il Logos, il Verbo - il cerchio e la linea di Langue e Parole (Saussure)! Non ponevo a me stesso la domanda “dove sono Io?” e non riuscivo a venir “fuori testo”! In quel “Je est un autre” non ho visto esser-ci insieme la trappola-soluzione. Quando il dito indica la luna, l’imbecille guarda il dito. Nel capire che dinanzi a un altro occorreva porsi la domanda dov’ero, dove sono Io, ho trovato l’uscita e la soglia, la soluzione e la liberazione. Sono divenuto veggente-veggente, ho visto dov’ero, dove sono Je, tutt’intero. Scusami, non avevo capito, non mi conoscevo! Ti risponderò...
*
Federico La Sala (Salerno, 1971).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
(...) Ancora oggi, ci sono studiosi che sembrano “prendere sul serio il profetismo di Heidegger” e insistono a dare credibilità ai sogni dei visionari e dei metafisici (...)
Qualcuno, nel commentare la Lettera di Rimbaud, ha scritto: “Questa volta il ‘rubare’ del poeta rende l’uomo alla sua fonte, nel movimento (inverso al furto dominante) di andare verso il basso rianimando il linguaggio elementare - “i p a e s a g g i d e l p o s s i b i l e” (Alchimie du Verbe)” (cfr. R. Giorgi, Alla ricerca delle nascite (lingua e manìa), La Nuovo Foglio editrice, Pollenza-Macerata 1978, p. 82).
Io non sono d’accordo. Il fuoco rubato “la-bas” è un furto ‘capovolto’ ma ancora furto e ancora dominante! Il fuoco laggiù è preso ancora con lo stesso movimento metafisico. Se Dio è morto ... resta il Diavolo (da santificare). Ed è il Diavolo che Rimbaud trova “la-bas”. Altro che paesaggi del possibile. Perciò la distruzione, la morte, e la non risposta degli uomini... L’operare del poeta-veggente è ancora un operare mistificatorio e dominante. La pretesa idealistica-pretesca dell’universale, a carico degli uomini degli animali delle pietre, trapassa immediatamente - ove è sottoposta a critica - nella rabbia (auto-)distruttiva del dannato-mercante (di armi, in Africa): dagli idealismi autoritari di società perfette alla realtà infernale della società civile, della lotta di tutti contro tutti. La tentazione e il furto (appropriazione-produzione ‘privata’) del fuoco, la perdita-cacciata dal paradiso (pretesa universalizzante), la caduta all’inferno (disperazione, distruzione, e morte) sono le figure di questo ‘movimento’ oscillante tra Dio e Diavolo.
Il poeta-veggente è la maschera del prete. È l’illusione-mistificazione di uno svuotamento-sregolamento totale per lasciar parlare l’altro - lasciar affiorare la lingua di “la-bas”. Ancora il dominio ‘nascosto’ dell’uomo sull’uomo, l’appropriazione-espropriazione del fuoco-possibile dell’altro uomo. Il ‘prete’ è una figura del dominio: un ladro e un parassita. A chi ruba? Dove ruba? Cosa ruba? - A tutti. A tutti noi. All’intero sociale: il desiderio e il corpo, la forza e la gioia. Figura alienata e dominante il poeta-veggente produce l’estraneazione e, al contempo, l’espropriazione della parola di tutti: il silenzio di ognuno.
Guai al tempo senza poesia, ma chi ha bisogno dei poeti-preti? La ‘religione’ della poesia come la “religione della libertà” (di crociana memoria) rende l’impresa impossibile! “L’emancipazione del proletariato sarà opera del proletariato stesso” - o non sarà. Fare la rivoluzione significa (anche e soprattutto) “realizzare la ragione stessa per cui è necessario farla: realizzare la felicità, fare in modo, cioè, che ciascuno possa dire io” (J.-P. Dollé, “Desiderio di rivoluzione”, Edizioni Dedalo, Bari 1975) - significa proprio e finalmente cominciare “a ruotare attorno a se stesso” (E. Bloch, “Karl Marx”, Il Mulino, Bologna 1972, p. 159).
Rimbaud, pur nel suo prometeico fallimento - svolgentesi tra i poli di una esaltazione e disfatta terribile - ci ha posto di fronte alla nostra alienazione totale. La domanda che egli pone a ognuno è: dove sono Io?, dove siamo noi? È, diversamente, la stessa di Nietzsche: “chi siamo noi, in realtà?”. A questa domanda occorre rispondere, se davvero “vogliamo essere uomini” (sulle fabbriche occupate nel maggio ’68). Non angeli, non demoni, né bestie: uomini.
Se Dio è morto, resta il Diavolo... Questa ‘logica’ si ritrova (e agisce sotterranea) identica e negli avvii e negli esiti dell’opera di Freud. Il motto in esergo a “L’interpretazione dei sogni” lo dichiara a chiare lettere e ad alta voce, prometeicamente: “Se non riuscirò a piegare le divinità celesti, muoverò l’Acheronte”, ossia le potenze infernali, il Diavolo; e la teorizzazione della pulsione di morte , nei modi in cui l’ha fatta (“il principio di piacere sembra essere in realtà al servizio delle pulsioni di morte”), portano Freud allo stesso risultato di Rimbaud, impotenza e scacco.
Geza Roheim, analizzando l’articolo di Freud sulla possessione diabolica e chiarendo il tipo di dinamica sottesa alle componenti psichiche in gioco, rileva che “il patto con il Diavolo è perciò realmente un patto con il superio inteso non ad aiutare gli esseri umani a ottenere queste cose ma a impedire loro di ottenerle (cfr. D. Bakan, “Freud e la tradizione mistica ebraica”, Comunità, Milano 1977, pp.213-214). E ricorda quanto sugli inizi della psicoanalisi pesi fortissima la preoccupazione da parte di Freud di risolvere il problema del guadagnarsi da vivere, di risolvere i suoi problemi finanziari: “la psicoanalisi come strumento di guadagno” (op. cit.)!
In una lettera dell’11 marzo del 1902, all’amico Fliess, Freud è esplicito come mai più lo sarà in seguito: “[...] Tornato da Roma, trovai che dentro di me la voglia di vivere e di operare era aumentata, quella del martirio, in vece un po’ diminuita. La clientela un po’ striminzita... Volevo rivedere Roma, curare i miei malati e conservare ai miei figli la serenità. Così decisi di farla finita con il rigorismo morale e di compiere i passi necessari, come fanno le altre creature umane... Sono diventato una persona rispettabile... Ho imparato che questo vecchio mondo è retto dall’autorità, come il nuovo dal dollaro. Ho fatto il mio primo inchino all’autorità, dunque mi è lecito sperare di essere ricompensato... Se avessi fatto questi pochi passi tre anni fa, sarei stato nominato allora, e mi arei risparmiato diverse amarezze. Altri sono ugualmente furbi senza bisogno di andare a Roma... “ (S. Freud, “Le origini della psicoanalisi: lettere a Wilhelm Fliess 1887-1902”, Boringhieri, Torino 1968). L’oro del Diavolo - come si sa - diventa regolarmente escremento. La psicoanalisi non è diventata, forse, più che scienza, ideologia, strumento di dominio?!
Il ‘discorso’ sin qui fatto ruota unitariamente sul modo di produrre conoscenze e, in particolare, sul lavoro intellettuale. Aprire gli occhi su questo è altrettanto quanto sul modo di produzione delle altre ‘cose’, tanto più che le forme della produzione culturale - anche in campo marxista, al di là di indicazioni generiche - non sono state mai decisamente analizzate e radicalmente viste all’interno della forma di produzione sociale dominante (per un primo tentativo in tale direzione, cfr. A. Sohn-Rethel, “Lavoro intellettuale e lavoro manuale”, Feltrinelli, Milan 1977).
Questa ‘dimenticanza’ non è casuale: è servita e serve ancora da una parte a non mettere in discussione il ruolo del produttore di conoscenze e dall’altra a perpetuare forme di dominio borghese sul proletariato stesso. “ Come la filosofia trova nel proletariato le sue armi materiali, così il proletariato trova nella filosofia le sue armi intellettuali” (Marx): in tale ‘paradigma’ a “filosofia” è stato sostituito “marxismo”, ma la “struttura” è rimasta identica fino a oggi. Essa rimanda all’ideologia prometeico-illuministica dell’intellettuale ladro-portatore di fuoco, ideologia che ha come sua ‘faccia nascosta’ la considerazione del proletariato come “massa” - materia bruta da redimere-reprimere - o, come “masso” - pietra da lanciare contro ‘qualcosa-qualcuno’! Non indebitamente - come ormai si va acquisendo nella coscienza critica generale - hanno dedotto i vari Kautskij, Lenin, ecc. (riguardo al problema dell’organizzazione, del Partito, e della coscienza), riconfermando così tutte le tradizioni autoritarie del passato.
Marx, non avendo fatto chiarezza sul modo di produzione del suo stesso lavoro, ha lasciato irrisolti problemi di estrema rilevanza (di cui ora cominciamo a vederne tutta la portata e tutte le conseguenze). Uno dei fondamentali, se non il fondamentale, è proprio quello della formazione della coscienza: come si ‘produce’ la coscienza-conoscenza critica? La “critica dell’economia politica” spiega la determinazione della coscienza da parte dell’essere sociale, ma non spiega il contrario, il capovolgimento essere-coscienza. I “filosofi” hanno [finora] solo diversamente interpretato il mondo! Ma [ora] si tratta di trasformarlo. E questo è un altro problema!
Federico La Sala (Milano, 1978).
CAMBIARE IL MONDO, TRASFORMARE LA VITA. Desiderio di rivoluzione ... *
“Abbiamo bisogno di cambiare il mondo, ed è urgente”
di Rachel Kushner (Alfabeta-2, 30 giugno 2019)
Un mio amico di Milano, il primo italiano con cui mi è capitato di parlare di Nanni Balestrini, ha detto: “Nanni? Quando stava per essere arrestato, l’ho portato in macchina in val d’Aosta per aiutarlo a scappare. È passato in Francia con gli sci e io l’ho ripreso a Chamonix”. Con questo amico pensavo che avremmo semplicemente discusso la poesia di Nanni, la sua arte, i suoi romanzi. Forse la sua politica, non una vita in fuga. Ma la vita, e la politica, e l’arte, sono in qualche modo perfettamente fuse nello spirito di Nanni, per cui sentire che il mio amico lo aveva aiutato a salvarsi in Francia nel giro di vite dei tardi anni ’70 non avrebbe dovuto sorprendermi.
In realtà a colpirmi davvero è stata l’idea che Nanni sapesse sciare abbastanza bene da passare il Monte Bianco in sci. In seguito ho saputo che insieme a lui c’era un istruttore. Più volte con Nanni ho cercato di sapere di più su questo fatto, ma a Nanni non sempre piacevano le domande. Una domanda per lui era spesso una scorciatoia per la banalità. Quando l’ho incontrato la prima volta, l’ho subissato di domande sulle persone che aveva conosciuto, sulla sua scrittura, sulla politica dell’autonomia, ma lui mi ha posato una mano sul braccio e ha detto: “Ascolta, parliamo del vino da scegliere. Questo è un pranzo. Siamo a pranzo. Siamo in un ristorante. Comportiamoci da persone civili. Decidiamo cosa mangiare, cosa bere, magari parliamo del tempo. Il resto può aspettare”.
In quel pranzo, quando alla fine siamo arrivati a parlare di politica, è stato molto serio, e astuto, e si è concentrato sulla vita oggi, e sulla vita nel futuro, senza nostalgia, anche se non ha avuto esitazioni nel parlare del passato. Come mi ha detto in seguito, quando l’ho intervistato in modo più formale: “Più che nostalgico, mi considero fortunato per essere vissuto in un periodo straordinario e felice. Ma sarebbe insensato cercare in quel periodo qualcosa che anticipi o qualcosa che possa servire oggi, in una situazione completamente diversa quale è quella in cui ci troviamo, quarant’anni dopo. Tutto è diverso, tutto è cambiato. A servirci sono nuove idee, ed è un obiettivo sempre più difficile da raggiungere. Quegli anni ci offrono solo uno stimolo, o meglio un imperativo: che abbiamo bisogno di cambiare il mondo, e che questo è possibile, necessario, urgente”.
Quel giorno, dopo che abbiamo finito di mangiare, siamo andati nel suo studio per guardare i suoi lavori, i suoi libri. Diverse ore più tardi, mi ha accompagnato a piedi alla stazione. Ci siamo salutati al varco che possono superare solo i passeggeri muniti di biglietto. Ho continuato a voltarmi e Nanni era lì, fermo dove ci eravamo congedati. È rimasto finché il mio treno è arrivato e io sono salita. In qualche modo, in quel momento prolungato in cui lo osservavo fermo a guardarmi, sapevo che non lo avrei più rivisto e mi sono sentita molto triste, e insieme fortunata.
Nanni non ha mai risposto alla domanda per me più importante su Vogliamo tutto. Volevo saperne di più su Alfonso, la persona che ha ispirato quella voce. Ora, guardandomi indietro, non so bene perché lo considerassi così importante. Il punto, credo, è che non riuscivo a capire come Nanni avesse scritto un romanzo così perfetto, un’epopea che assume una voce che canta con tanta forza e comicità e rabbia, e tuttavia ci dà il senso di migliaia, di moltitudini di Alfonso. Chi era questo tizio, Alfonso, com’era davvero? In un certo senso, pensavo che leggere Vogliamo tutto significava immergersi nello spirito di quest’uomo speciale, il leggendario Alfonso. E più ne avessi saputo, più mi sarei calata in lui. Ma Nanni è stato molto cocciuto nel suo rifiuto di dirmi qualcosa su Alfonso. Ha detto: “Tu cerchi di costringermi a ridare ad Alfonso la sua individualità. Questo è l’opposto di quello che io volevo fare nel libro, dove lui non ha nome. Non posso farlo”. Pure, io mi stupisco all’idea che un imperativo artistico sia un imperativo assoluto. Per Nanni Balestrini, non c’è differenza e non c’è compromesso.
CAMBIARE IL MONDO, TRASFORMARE LA VITA....
BRILLANTISSIMO testo e brillantissima "testimonianza" di Rachel Kushner. La scrittrice statunitense, nata nel 1968, mette coraggiosamente il dito su un’operazione artistica e politica tragica: fa emergere ora (2019) ciò che era già chiaro allora, qualche anno dopo la sua nascita, nel 1971, quando fu pubblicato "Vogliamo tutto".
"QUARANTA ANNI DOPO", sollecitato dalla scrittrice, Nanni Balestrini a quanto racconta ( “Più che nostalgico, mi considero fortunato per essere vissuto in un periodo straordinario e felice. Ma sarebbe insensato cercare in quel periodo qualcosa che anticipi o qualcosa che possa servire oggi, in una situazione completamente diversa quale è quella in cui ci troviamo, quarant’anni dopo. Tutto è diverso, tutto è cambiato. A servirci sono nuove idee, ed è un obiettivo sempre più difficile da raggiungere. Quegli anni ci offrono solo uno stimolo, o meglio un imperativo: che abbiamo bisogno di cambiare il mondo, e che questo è possibile, necessario, urgente”) e, contro il suo stesso "cocciuto" rifiuto a rispondere alla domanda su "Vogliamo tutto" ("Volevo saperne di più su Alfonso, la persona che ha ispirato quella voce"), alla fine, è "costretto" ad aggiungere e ad ammettere: “Tu cerchi di costringermi a ridare ad Alfonso la sua individualità. Questo è l’opposto di quello che io volevo fare nel libro, dove lui non ha nome. Non posso farlo”.
La risposta è chiara, ma Rachel Kushner resta "ipnotizzata" e finisce per condividere: "Pure, io mi stupisco all’idea che un imperativo artistico sia un imperativo assoluto. Per Nanni Balestrini, non c’è differenza e non c’è compromesso"!!! E se, invece di Alfonso, "la voce" fosse stata di Rachel?! Dov’è l’imperativo assoluto e l’imperativo artistico di Alfonso e di Rachel - e quello di Adamo ed Eva, e di Maria e Giuseppe?! Ma che "Dio" era quello di Balestrini?! E che "Dio" è quello di Kushner?! E’ un "desiderio di rivoluzione" questo o che?! Boh e bah?!
P. S. Ricordando di Nanni Balestrini, non posso non ricordare anche di Primo Moroni. Sul tema, mi sia lecito, cfr. "CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. Relazioni chiasmatiche e civiltà. Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni (in memoriam).
“SMONTARE LA GABBIA”! USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”....
CONSIDERATO "[...] lo stato in cui versa attualmente l’antispecismo: se tale movimento sembra infatti aver chiaro quali siano la prima e l’ultima lettera del suo alfabeto - l’organizzazione ingabbiante delle logiche che regolano e perpetuano l’antropocentrismo e una società in cui tutti gli animali, umani e non umani, possano vivere liberi -, è però incapace di articolare le altre - discorsi e prassi che indichino, nella materialità della storia, come smontare le gabbie, simboliche e materiali, in cui, seppure con intensità e rigore variabili, tutti i viventi sono rinchiusi indipendentemente dalla specie di appartenenza [...]” E, ANCORA, CONSIDERATO CHE “In 1905, riferendosi alla discrepanza tra le previsioni del marxismo scientifico e le vicissitudini storiche contingenti che, saltando a piè pari la fase di presa del potere da parte della borghesia, avevano portato alla rivoluzione proletaria in un paese feudale come la Russia zarista, Trotskij scrive: “La prima lettera è presente, e così anche l’ultima, ma tutto il mezzo dell’alfabeto è mancante” [...]”, SPUNTA (non esplicitata) LA CONNESSIONE CON L’INVENZIONE DELLA “TAVOLA PERIODICA DEGLI ELEMENTI” di Dmitrij Ivanovič Mendeleev,
CREDO CHE SIA NECESSARIO E OPPORTUNO AMPLIARE L’ORIZZONTE e RICONSIDERARE DALLE RADICI la “«piramide dei viventi» che da secoli continuiamo a portarci dietro”, quella contenuta nel «Liber de sapiente» (Libro della sapienza), pubblicato nel 1509 da Charles de Bovelles (1479-1567)” (come sollecita Stefano Mancuso con Alessandra Viola, nel lavoro “Verde brillante”, Giunti 2015, p. 18 - e, non il vecchio “marxista” Lucio Colletti, nel suo famoso “Il marxismo e Hegel”, Laterza 1969)! E, ANCORA E SOPRATTUTTO, “SMONTARE LA GABBIA” DELLA SISTEMATICA DI LINNEO!
E, benché siano passati 160 anni dalla pubblicazione, nel 1859, dell’«Origine delle specie», l’opera fondamentale che Charles Darwin ci ha regalato per comprendere la vita sul nostro Pianeta (Stefano Mancuso, cit.), USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA TEOLOGIA MAMMONICA. CON KANT, E CON MARX, OLTRE ...
Federico La Sala
COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA. PERDERE LA COSCIENZA DELLA LINGUA ("LOGOS") COSTITUZIONALE ED EVANGELICA GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI ... *
Politica.
Che cos’è il populismo? L’inganno della parte che vuole essere il tutto
Il politologo Yves Mény: le democrazie rappresentative si fondano sul popolo ma lo relegano a osservatore. Ma non c’è reale alternativa: un vero potere popolare finirebbe nelle mani dell’uomo forte
di Yves Mény (Avvenire, giovedì 20 giugno 2019)
Le democrazie sono al centro del desiderio politico. O almeno lo sono state per molto tempo e si sono identificate con la libertà, l’autonomia, l’auto-governo, con la vittoria della maggioranza e del numero sul singolo sovrano. La democrazia è, potremmo dire in sintesi, il desiderio della multitudine di sostituirsi al re, al dittatore o a un gruppo ristretto ma dominante, alle élites, alla casta, all’establishment. Ma la folla, le masse, l’aggregazione dei singoli, si trova di fronte ad un impasse, che nel mio recente libro pubblicato dal Mulino, Popolo ma non troppo ho denominato “malinteso democratico”.
Come unire infatti tutti questi atomi, attraversati da aspirazioni, interessi, emozioni cosi diversi da impedire loro di fatto di unirsi? Nel corso della storia molti sono stati i tentativi: ridurre, ad esempio, la dimensione territoriale della città per rendere possibile la conoscenza e l’unione di tutti. È il sogno greco, rivisto da Rousseau; ma non possiamo scordare la deriva delle colonie greche di Sicilia dove il despota finisce per incarnare il demos.
Una variante diversa è offrire una visione alternativa del popolo. È il realismo senza pietà di Hobbes dove il sovrano, sulla copertina del suo libro, è rappresentato da mille corpi di cittadini assorbiti, ingoiati e capovolti per dar corpo all’unità. C’è poi il sogno-incubo della rivoluzione russa di dare il potere a una classe unica al prezzo di eliminare qualche privilegiato; e c’è il realismo all’inglese che “inventa” il principio rappresentativo per incanalare le aspirazioni di molti nella fattibilità pratica del governo di pochi; e c’è la non meno realistica e fredda osservazione di Gaetano Mosca sull’ineluttabilità delle élites, la doccia fredda sul desiderio.
"Unirsi in un popolo" è il desiderio che continuamente si ripresenta di trasformare la diversità in una unità metafisica. «L’Italia è fatta, bisogna fare gli italiani» constatava Massimo d’Azeglio; Eugen Weber descrive la trasformazione dei francesi di fine Ottocento «da contadini a cittadini»; Benedict Anderson evoca la nazione come «comunità sognata». Per farla breve, il “popolo” non smette di desiderare di diventare anche una realtà sociale e non soltanto un’utopia magica.
Purtroppo la contraddizione interna è sempre in agguato: il popolo come concetto è indispensabile per legittimare l’accesso al potere. Anche le dittature pretendono di governare in nome e per il bene del popolo. E questo popolo che le democrazie hanno posto sul piedestallo per poi relegarlo nel ruolo di osservatore degli atti dei governanti si rivolta sempre di più per far avverare l’utopia di Lincoln «Government of the people, by the people, for the people».
In altre parole, il popolo americano, ma anche tutti gli altri, fanno proprie le tre prime parole della costituzione americana «We the People...», che è una splendida frase per parlare di legittimazione, ma è una pia illusione quando si tratta di governare.
Si potrebbe ricordare la reazione di un francese chiamato ad approvare la costituzione scritta da Napoleone: «Che c’è nella costituzione?» E la risposta fu «Bonaparte»...
Non c’è alternativa alla necessità della rappresentanza: non vi è mai stato un “vero” potere popolare e se ci fosse si correrebbe il rischio di radunarsi di fatto sotto le ali di un uomo forte, di un salvatore. Dio ci salvi da questa fatalità! Il desiderio di sentirsi uniti in un popolo non è soltanto forte, inganna, inebria.
Qualunque gruppo può pretendere di essere il popolo anche quando si tratta di una parte di popolo molto ridotta, come quella che vota sulla piattaforma Rousseau o quando i Gilets jaunes che da sei mesi pretendono di essere il «popolo» prendono più o meno 1,5% dei voti alle elezioni europee. La parte pretende cioè di essere il tutto.
Ovviamente ci sono anche buone ragioni per portare avanti le proprie rivendicazioni perché il sistema rappresentativo è sempre (al meglio) il governo della maggioranza o, più spesso, appoggia su una minoranza sociologica trasformata in maggioranza politica grazie ai miracoli dei sistemi elettorali. La situazione non sembra particolarmente felice.
Ma bisogna essere lucidi: l’unanimità, che sulla carta sembra il sistema più rispettoso della volontà del popolo è un sistema “blocca-tutto” ed esiste soltanto nelle piccole tribù primitive, benché sia attivo anche là dove la ricerca del consenso si trasforma in molteplici veti incrociati: l’Italia ne sa qualche cosa...
Ricordiamoci che l’unanimismo sfocia nella dittatura e soprattutto nella dittatura delle menti. Il populismo, «l’ideologia del popolo» rischia quindi di essere una grande illusione e un inganno. Riconosciamogli però un merito: rimescola le carte e spesso pone fine a quello che il poeta Paul Eluard chiamava «il duro desiderio di durare».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
MESSAGGIO EVANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER (E DI TUTTI I PAPI).
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA (E DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO DELL’ "UOMO SUPREMO"): INDIVIDUO E SOCIETA’ E COSTITUZIONE, IERI COME OGGI...
LE PAROLE, LE COSE, E LE PERSONE: "Identità. Poche settimane fa l’europarlamentare Eleonora Forenza (area di Rifondazione di Potere al Popolo) ha scatenato una piccola bagarre nel minuscolo stagno della sinistra italiana. Forenza ha bollato, su Twitter, la Brexit come “pasticcio di maschi”, non negando una certa solidarietà ‘femminista’ a Theresa May e alla gatta da pelare che i colleghi “maschi” le avrebbero rifilato. L’uscita infelice di Forenza non è cosa nuova (ma preoccupa che venga da una gramsciana). È parte integrante di un certo orientamento della sinistra diritto-civilista e culturalista, cioè di quella sinistra che, pur non escludendo le questioni legate al mondo del lavoro e della produzione, individua ormai nei diritti civili la principale chiave d’intervento sociale e, proprio a causa di tale scelta, si ritrova fatalmente irretita all’interno di un uso distorto del concetto di “identità”. Tale posizionamento (largamente maggioritario anche nel Partito Democratico) è stato spesso già portato a critica". Così inizia la riflessione di Mimmo Cangiano su “Intersezionalità, identità e comunità: a che punto siamo a sinistra” ("Le parole e le cose", 10 giugno 2019).
CONSIDERATO CHE ORA COME ORA proprio perché, come scrive l’autore,
nel condividere e nell’accogliere l’invito gramsciano citato in esergo (“quando tutto sembra perduto bisogna / mettersi tranquillamente all’opera / ricominciando dall’inizio”) e, INSIEME, nel RICORDARE che FORENZA è VICINO ACERENZA, in BASILICATA (là dove fu confinato l’Autore di "Cristo si è fermato ad Eboli"),
sul problema di lunga durata del nostro presente storico, IO CONSIGLIEREI DI RIPRENDERE IL DISCORSO proprio da "CAPO", da GRAMSCI.
FORSE è TEMPO di interrogarci un po’ più radicalmente! La sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico è già "vecchia" ed uscire da uno "stato di minorità" in cui versiamo da millenni, intrappolati come siamo in una logica adamitica ("Adamo ed Eva"!) di un cieco, cainico, teologico-dialettico, edipico, molochiano, capitalistico "familismo amorale" non è un gioco da "ragazzi"!
Bisogna aprire gli occhi (non "chiudere un occhio"!) su "«chi» siamo noi in realtà e, nello stesso tempo, saper sognare il sogno di una cosa. Forse non è (ancora!) possibile?! Boh e bah...
Federico La Sala
FILOSOFIA, SCIENZA, E STORIA. PER UN NUOVO CNR. Il problema della comunicazione più importante di quello della produzione ....
NOTE A MARGINE DELLA LETTERA "Al CNR la storia è una scienza? Una risposta all’intervento di Gilberto Corbellini"
1. PER LA STORIA DELLLA SCIENZA E PER LA SCIENZA DELLA STORIA, FORSE, E’ MEGLIO RI-DISCENDERE “SOTTO COVERTA DI ALCUN GRAN NAVILIO” E RIPRENDERE IL LAVORO GALILEANO DELLA CONVERSAZIONE E DELLA CONOSCENZA 29 Maggio 2019 :
2. STORIA, SCIENZA, ED ECLISSI. Da Galileo Galilei ad Albert Einstein 30 maggio 2019...
Al di là delle pretese “mitideologiche” (atee e devote) del “post-positivismo” contemporaneo (Paolo Fabbri) di dare il via a un’ epoca in cui la storia del mondo dev’essere riscritta secondo l’indicazione rosenberghiana!), ricordiamo che il 29 maggio 1919 Arthur Eddington provò sperimentalmente la teoria della relatività (cfr. : Franco Gabici, “Cento anni fa l’eclissi che diede ragione a Einstein” - https://www.avvenire.it/agora/pagine/cento-anni-fa-leclissi-che-diede-ragione-a-einstein). Buon lavoro!
3. COSTITUZIONE E CNR. UN PROBLEMA STORIOGRAFICO (SCIENTIFICO) DI LUNGA DURATA 31 Maggio 2019...
CONDIVIDO LA PREOCCUPAZIONE E, AL CONTEMPO, LA CONSAPEVOLEZZA dei firmatari della lettera. La “provocazione” - da parte di chi dirige il Dipartimento del CNR, “al cui interno operano decine di storici, storici della filosofia, giuristi e altri ricercatori nel campo delle scienze umane e sociali” - evidenzia il sintomo non tanto e non solo “di un profondo problema culturale e scientifico”, ma anche e soprattutto di un problema politico-filosofico (metafisico), costituzionale, di CRITICA della “ragion pura” (di questo parla il “principio della relatività galileiana”, condensato nel “Rinserratevi” del “Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano”)!,
DOPO GALILEI, DOPO KANT, DOPO EINSTEIN, DOPO LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA... UNA “PROVOCAZIONE” al CNR DA ACCOGLIERE!
Strana “coincidenza”, oggi!:
Prima che sia troppo tardi, che fare?! Alle studiose e alle studiose di scienze umane e sociali (del CNR e non solo), consiglierei (mi sia permesso) la ri-lettura del “Dialogo sopra i due massimi sistemi iolemaico e copernicano” di Galileo Galilei, la ri-lettura dei “Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica” di Immanuel Kant, e, infine, la rilettura dei “Principi” della Costituzione della Repubblica Italiana - e, alla luce della “ferocissima” provocazione, ri-prendere il lavoro storiografico-scientifico con più grande entusiamo e responsabilità di prima!
VIVA IL CNR,
VIVA L’ITALIA!
4. PER UN NUOVO CNR! ALL’INSEGNA DI ERMES: “IO VORREI PENSARE CON IL CERVELLO INTERO”. IN MEMORIA DI ENRICO FILIPPINI E DI MICHEL SERRES 3 Giugno 2019 ...
“[...] all’insegna di Ermes, che per me è il simbolo della scienza contemporanea”.
In che senso? “Nel senso che Mercurio, a cui ho dedicato ben cinque libri, è il dio della comunicazione. A differenza di quanto pensavano i marxisti, io ritenevo che il problema della comunicazione fosse più importante di quello della produzione, e che l’ economia stessa fosse più una questione di comunicazione che di produzione. Sono fiero di quell’ assunto, mi scusi la superbia: infatti, i paesi che hanno scommesso in questo senso, per esempio il Giappone, hanno evitato la crisi”.
Ma comunicazione che vuol dire? “All’ inizio, all’ epoca dello strutturalismo, davo del termine “struttura” un’ interpretazione algebrica, esatta. Poi, studiando il XIX secolo, la fisica ottocentesca, e cioè essenzialmente la termodinamica, finii per attribuire un ruolo centrale alla teoria dell’ informazione. In fondo, se del mio lavoro dovessi tracciare un profilo, ecco: per tutta la vita ho cercato di tenermi al corrente, da filosofo, del sapere scientifico (il che in Francia è raro), e insieme di non dimenticare la tradizione letteraria: ho scritto su Zola e su Jules Verne. Ecco, ho cercato di tenere unite, con le due mani, la scienza e la letteratura, di passare dall’ una all’ altra. E’ quello che chiamo, nel quinto volume dedicato a Mercurio, il Passaggio a Nord-Ovest: passaggio difficile, pericoloso, tempestoso, ma passaggio. Per me la filosofia è questa alleanza. In Italia ciò dovrebbe essere comprensibile”.
In Italia c’ è stata una forte tradizione idealista e marxista. L’ interesse per la scienza tende a diventare scientismo. “Come nel mondo anglosassone. Ma il fatto è che nella letteratura c’ è spesso più rigore che nella scienza. In Tito Livio c’ è più epistemologia che in Popper. Il mio sogno è di scrivere un’ opera che compia la riconciliazione enciclopedica, proprio alla maniera di Diderot e di D’ Alembert, ma non solo nel senso storico (per cui si pensa sempre soltanto nel solco della propria tradizione), anche nel senso del concetto: quello è il campo che si percorre e che si deve percorrere. La filosofia ha perduto troppo non sapendo nulla di scienza, ma oggi che ne sa qualcosa, ha perduto la dimensione culturale. E’ come un cervello tagliato in due. Io vorrei pensare col cervello intero”.
Ora sta scrivendo qualche cosa? “Un libro sui cinque sensi, e, appunto, in una forma letteraria, anche se sono partito da un sistema rigorosamente formale. E’ un tentativo di alleanza tra le due forme di sapere, è anche il tentativo di ritrovare, come diceva Edmund Husserl, le radici profonde della cultura europea. Lei conosce La crisi delle scienze europee?”.
L’ ho tradotta in italiano da studente. Ma Husserl parlava appunto di “crisi” di quell’ idea e di quella tradizione. C’ è il problema della tecnicizzazione della scienza. E poi c’ è la difficoltà della estrema specializzazione dei settori scientifici [...]
(cfr. ENRICO FILIPPINI, “Il mio amico Mercurio”, “la Repubblica”, 15 giugno 1984: https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1984/06/15/il-mio-amico-mercurio.html).
5. STORIA E SCIENZA: “VICISTI, GALILAEE” (KEPLERO, 1611) 5 Giugno 2019.
La rotazione della Terra rimescola le acque del lago di Garda ... http://www.ansa.it/canale_scienza_tecnica/notizie/terra_poli/2019/06/05/la-rotazione-della-terra-rimescola-le-acque-del-lago-di-garda-_8cbe9d78-1459-4088-a0a4-12016cd675b9.html.
6. PER UNA "RIVOLUZIONE KEPLERICANA": "IL LINGUAGGIO DEL CAMBIAMENTO. ELEMENTI DI COMUNICAZIONE TERAPEUTICA". Note per orientarsi nel pensiero [7 giugno 2019]...
Dal momento che (a quanto pare) è stata persa la "bussola", è opportuno, forse, riprendere il "cervello in una vasca" (Hilary Putnam: https://it.wikipedia.org/wiki/Cervello_in_una_vasca), riportarlo nella "nave" di Galilei ("Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano"), e rileggere (sia consentito) la mia nota sul lavoro di Paul Watzlawick ("Il linguaggio del cambiamento. Elementi di comunicazione terapeutica", Milano, Feltrinelli, 1980), dal titolo "LE DUE META’ DEL CERVELLO" ("Alfabeta", n. 17, settembre 1980, p. 11: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/IMG/pdf/LE_DUE_META_DEL_CERVELLO_0001-2.pdf); e, infine, rimeditare ancora e di nuovo la lezione di Kant su “Che cosa significa orientarsi nel pensiero” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4837).
Federico La Sala
Commenti
Marx per ripensare l’alternativa oggi
Marxismo. Gli argomenti che più hanno appassionato i partecipanti, perché per molti versi i più nuovi, quello dell’Ecologia e quello di Genere
di Luciana Castellina (il manifesto, 19.05.2019)
La sala più grande di Pisa, quella del Polo didattico Carmignani, a Piazza dei Cavalieri, proprio alle spalle della leggendaria Normale, è gremita già prima dell’inizio. “Esagerati”, avevano detto tutti a Marcello Musto, grande artefice dell’evento, che aveva insistito per quella localizzazione.
E invece c’è persino gente in piedi. Tutti lì per Carlo Marx a 201 anni dalla sua nascita: e se si trattasse di un nuovo vagito della sinistra? Potrebbe persino darsi, perché sono restati tutti tutti e tre i giorni in cui al microfono si sono susseguiti 25 relatori, provenienti da 14 paesi di quattro continenti.
I lavori aperti da una non programmata ragazzina che, a nome degli studenti, si felicita per questa occasione di confronto ( che - dice - ormai non c’è più nell’università) e poi attacca diretta il presidente della regione Enrico Rossi - lì per inaugurare la conferenza - perché ha finanziato un convegno di quelli delle famiglie e invece lesina i soldi per l’istruzione.
Un giusto inizio perché questa conferenza su Marx pur ad alto livello marxologo (salvo me e Landini) non è stata affatto un evento accademico. Il titolo, del resto, lo aveva annunciato: “Ripensare l’alternativa”. E cioè: andiamo a scovare quello che il nostro vecchio compagno di Treviri ha detto e si è spesso perso per strada e solo ora, grazie a Mega ( la strepitosa edizione che fin dai tempi della Germania est - è in corso a Berlino, in cui compaiono una quantità di sconosciuti inediti) viene fuori e vediamo a cosa ci può ancora servire. Insomma:non siamo qui per interesse archeologico ma per trovare argomenti per il che fare di oggi.
E in effetti da tanti inediti che i relatori ci hanno fatto conoscere è emerso un Marx solo sospettato, molto più ricco e vicino alle nostre attuali problematiche di quanto sia stato quello un po’ rozzo tramandatoci dalla vulgata del movimento operaio. Soprattutto un Marx molto politico. Non per caso fra i relatori c’è anche Maurizio Landini, accolto da tutti con grande entusiasmo, che ci legge Marx nel presente del lavoro, di cui fa una impietosa disanima.”Ho incontrato lo sfruttamento prima di avere incontrato Marx” - esordisce.
Non cercherò neppure di entrare nel merito di quanto è stato detto, sarebbe impossibile in un articolo di quotidiano. E però voglio riportare i titoli e almeno un concetto delle diverse sezioni in cui la conferenza si è articolata per dare un’idea dell’attualità della riflessione:
Dopo una prima seduta inaugurale che ha affrontato il tema generale “Capitalismo”, con Landini, appunto, e poi - prima oratrice - Silvia Federici (Hofstra University, Usa), che ha offerto il primo contributo da una prospettiva femminista; Bob Jessop (Lancaster University, UK) “Il capitale come relazione sociale: dall’analisi alla lotta di classe”, e cioè il rapporto fra persone viene mediato dalle cose, che lo nascondono ; e, infine, una preziosa relazione di Maurizio Iacono (Università di Pisa ma anche fra i fondatori de Il manifesto), intitolata “La merce entra in scena nel teatro del postmoderno”, in cui, richiamando i “tavoli danzanti” di Flaubert, ha ripercorso il processo che dal legno arriva al tavolo, e poi però nessuno cerca il loro autore come avrebbe fatto Pirandello, ma anzi nasconde il lavoro sociale collettivo che è servito a crearli, lo rende invisibile, merce separata. che incorpora lavoro transitato dalla soggezione al dispotismo aziendale a quello mascherato della merce.depurata dal lavoro nella camera oscura.
La seconda giornata è cominciata con tre contributi sul tema “nazionalismo” : di George Comninel (York University Toronto), il nostro Alberto Burgio (Università di Bologna, ex deputato di RC, autore fra i tanti di un libro su Gramsci dedicato a Lucio Magri): “Gli operai non hanno patria”, nazionalismi e internazionalismo tra XX e XXI secolo, una lucida e impietosa descrizione di come e perché sia andato emergendo l’attuale sovranismo. ( “Mentre il mercato globale si espande, si soffia sul fuoco dei particolarismi, nascondendone la gerarchia”).
Stesso tema - “Il nazionalismo nel 18 brumaio di Luigi Bonaparte. Il primo contrattacco contro il socialismo”- trattato da un relatore un po’ speciale, perché il solo proveniente dall’est Europa e proprio da uno dei paesi oggi portabandiera del nuovo nazionalismo, l’Ungheria, dove insegna alla Central European University:Gaspar Tamàs. (“Il soggetto, individuale o collettivo, è sempre in sé plurale, contiene contraddittorietà ineliminabili; solo che oggi questo è più dirompente perché si è affievolita la coscienza di classe”).
A seguire “Democrazia”, con Mauro Buccheri, un ormai anziano siciliano da 50 anni alla York University di Toronto;Terrel Carver (University of Bristol,UK) e Michael Brie (Fondazione Rosa Luxemburg), alle prese con il complicato tema del rapporto democrazia e socialismo, “il filo del rasoio”, come l’ha definito Carver, o, più pessimisticamente Brie,“un compito irrisolto”. Molto ricco di narrazioni ( e considerazioni ) il tema della Migrazione, dove Davud Smith, (Kansas Uniuversity Usa) ha riferito del pensiero di Marx su accumulazione e migrazione forzata quale appare nel Capitale ma soprattutto nei suoi ultimi manoscritti; Piero Basso (università di Ca’Foscari) sull’esercito di riserva, le migrazioni forzate iniziate con la tratta degli schiavi, la necessità oggi di battersi per il diritto a non dover emigrare, più che per quello di emigrare. E Ranabir Samaddar (gruppo di ricerca di Calcutta) , che ci ha parlato del passato e del presente: le migrazioni nell’era del globalismo.
E ancora il Lavoro, dove ho avuto l’onore di tenere anche io una relazione che ho intitolato “il becchino frantumato”, ma dove soprattutto è stato analizzato il lavoro moderno quale risulta essere quello di due paesi del Sud, le Filippine ( Sarah Raymundo, Dillman University Manila) e Ricardo Antunes (Unversità Campinas Brasile), che ha affrontato il tema del lavoro immateriale ( che, ha detto fra l’altro, presuppone quello materialissimo dei minatori che estraggono la materia prima con cui si fanno i nostri apparecchi digitali) caratterizzato in realtà da un modo di estrazione del plus valore del tutto simile a quello delle epoche più antiche. Anche in questo caso molte osservazioni di Marx su quanto oggi chiamiamo post-industria, che continua a produrre plus valore.
Oltre a due interessanti contributi sul tema Religione, uno di Stefano Petrucciani (Sapienza) e uno di Michael Loewy (Centre de la recherche scientifique, Francia) su aspetti del feticismo in Marx, ma anche su quello attualissimo della Teologia della Liberazione , la grande preziosa corrente della Chiesa sudamericana.
Gli argomenti che più hanno appassionato i partecipanti, perché per molti versi i più nuovi, quello dell’Ecologia e quello di Genere.
Sul primo hanno parlato tre relatori venuti ciascuno da una diversa parte del mondo: Kohei Saito dal Giappone (Osaka University), Gregory Claeys (Royal Holloway University UK), Razmig Keucheyan ( nome palesemente armeno ma Università di Bordeaux). Tutti e tre hanno in qualche modo affrontato il tema dal lato dei bisogni, citando gli scritti dei due principali teorici dell’argomento, André Gorz e Agnes Heller, ma mettendoli in rapporto con le tantissime e quasi sempre ignorate riflessioni di Marx sulla rapina della natura, così come sulla liberazione del tempo (Manoscritti del ’44, Ideologia tedesca, Critica alla filosofia del diritto di Hegel, Grundrisse,lo stesso Capitale).
E dunque insistendo sul fatto che occorre sottrarsi al consumismo imposto dal modo di produzione capitalista ( l’imbroglio del capitalismo) e invece qualificare i propri bisogni ,non moltiplicarli. Un mutamento possibile tuttavia solo se si libera tempo dal lavoro per lo sviluppo della creatività, proprio quello che il capitale nega. Greta è stata naturalmente molto citata, e però come ha detto Claeys, dobbiamo risponderle in fretta, ma non abbiamo ancora elaborato le linee della rivoluzione necessaria ad affrontare il problema.
L’ultimo round è stato per il Genere con Humani Bannerji (indiana ma York University Toronto) e di Elvira Concheiro (Unam,Mexico). Nel riprendere il più recente dibattito femminista molto si è insistito su quello che è stato definito “incontro possibile con Marx”, e cioè sulla connessione della battaglia delle donne con quella anticapitalista. E per questo molto si è parlato del lavoro non pagato di riproduzione e di cura.
Per questo più volte citato il nuovo manifesto femminista americano scritto da Nancy Fraser e Cinzia Arruzza ( giovane siciliana ma docente universitaria a new York), intitolato “Patriarcato e capitale, alleanza criminale”.
Il discorso di chiusura ha rappresentato un evento eccezionale. A pronunciarlo è stato Alvaro Garcia Linera, vicepresidente della Bolivia dal 2006, il paese altissimo sulle Ande presieduto dal leggendario indio Morales. Linera ha una storia diversa, è un raffinato intellettuale marxista, che ha trascorso come tanti nel suo continente molti anni in prigione. Ha tenuto una relazione lunga, argomentata e colta, spiegando come stanno provando a fare un socialismo diverso da quello che abbiamo chiamato “reale”.
Insistendo sulle necessarie forme di democrazia e sulla socializzazione dei beni (il famoso bencomunismo) al posto delle statalizzazioni. Non provo neppure a darne una traccia, ma spero si sarà in grado di pubblicarlo al più presto. Linera è venuto apposta a Pisa, per poche ore, fra un impegno a Barcellona e uno a Parigi. Voleva esserci, e noi della sua partecipazione siamo stati orgogliosi e commossi .(Particolarmente io perché mi ha parlato subito de Il Manifesto ).
Ringraziando tutti a nome dell’Università di Pisa a conclusione della Conferenza Maurizio Iacono ha detto: “Ricucire, pur mantenendo la necessaria tensione dialettica, tempo lungo della ricerca, della storia e dell’immaginazione, e tempo breve dell’azione civile, politica e della vita quotidiana, nella consapevolezza che non ci può essere libero sviluppo delle facoltà individuali senza la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sulla donna, dell’uomo sulla natura.E’ questo che abbiamo imparato da Marx e che deve presupporre ogni tentativo di ripensare l’alternativa e ogni lotta per la dignità e l’uguaglianza.”
Nel bicentenario della sua nascita /
Leggere Marx come sottotesto del nostro tempo
di Moreno Montanari (Doppiozero, 05.05.2019)
In Sconfitta e utopia. Identità e feticismo attraverso Marx e Nietzsche (Mimesis, Milano_Udine, 2018, pp 236, euro 20), Romano Màdera riprende un discorso iniziato nel 1977, prima data di uscita del cuore di questo testo rivisto e ampliato in questa nuova edizione. All’epoca l’autore usciva con le ossa rotte dalla lotta politica, ma non aveva rinunciato “al sogno di una cosa”, all’utopia di una condizione umana maggiormente consapevole e realizzata in una società più giusta e solidale. Non si trattava, né si tratta, dunque di abbandonare Marx, almeno non in toto, ma di restare fedeli alle istanze che avevano dato forma a un desiderio capace di incendiare gli animi, rivedendone la forma.
Secondo Màdera, quella di Marx fu “una perfetta diagnosi, una mediocre prognosi e una terapia inconsistente”. Se la prima va rilanciata perché è tuttora assolutamente attuale, la seconda va corretta e la terza, la rivoluzione comunista condotta dalla classe proletaria e da quanti si schiereranno con essa, decisamente abbandonata. L’idea dell’unione di tutti proletari in vista della rivoluzione comunista, osserva Màdera, risulta del resto del tutto slegata dall’impianto teoretico dell’opera marxiana e quasi giustapposta ad essa. La sua necessità scientifica, potremmo dire, appare piuttosto una necessità morale, nel senso kantiano del termine.
Secondo l’autore, la straordinaria fama de Il manifesto del partito comunista ha posto l’attenzione sul Marx politico finendo per sottostimare l’importanza “del filosofo-sociologo-antropologo critico che bisogna saper leggere nel suo lessico hegeliano riformato”. Al centro della proposta marxiana Màdera scorge il tentativo di educare alla formazione di una “coscienza enorme” che sia consapevole dell’interdipendenza di tutto da tutti e di ciascuno da tutto, e che diventi per questo capace di denaturalizzare i fenomeni sociali avvertiti come inevitabili e validi in sé, siano essi il capitalismo, la famiglia, la morale o i rapporti di produzione, perché “il capitale fabbrica, tra gli altri suoi prodotti, anche il prodotto umano”, con la formidabile capacità di “rendere perfettamente omogeneo a se stesso ogni preteso avversario”. La questione è dunque la produzione sociale, di merci e di identità, “senza coscienza e senza controllo, le qualità assenti che costituiscono il Feticcio-Golem, automa collettivo guidato da una sistematica del caos”.
Al Marx strutturalista, che leggeva la storia come esito inevitabile di forze che ne determinano il corso, Màdera affianca, per integrarne la prospettiva, la dimensione biografica e individuale al centro dei lavori di Nietzsche e di Freud. Nessuno dei due possedeva la visione d’insieme delle determinazioni storiche propria di Marx, né la sua “spinta ideale e amorosa verso il prossimo”, ma entrambi avevano il merito di evidenziare l’irriducibilità del singolo alle forze che certo lo innervano e lo condizionano ma che, tuttavia, non lo determinano. Uniti e integrati, i “tre filosofi del sospetto”, come li definì Ricoeur, potevano offrire una sintesi capace di facilitare una diversa percezione della realtà, dunque di sé e del mondo, coniugando la dimensione individuale alla dimensione collettiva che li innerva sin nel midollo, senza tuttavia annullarne la particolarità biografico-esistenziale. Si scorgono qui i primi segni della proposta etico-terapeutico-esistenziale che Màdera ha chiamato “analisi biografica a orientamento filosofico" e che considera il suo “personale modo di continuare a fare politica con altri mezzi”. Ad animarlo è l’idea è che “l’analisi”, critica o analitica, “non basta, ci vuole un esercizio per trasformarsi e autotrasformarsi, una sorta di disciplina personale e di gruppo, tailor-made, adatta alla biografia di ogni individuo e insieme capace di convivere e cooperare in un collettivo”. In questa prospettiva le speranze che animavano Marx non vengono meno ma cessano di essere mete che si vorrebbe concretizzare per rivelarsi principi e valori per i quali vale la pena vivere, nella consapevolezza che: “non si lavora per vedere la costruzione del Tempio, ma per partecipare, portandoli proprio mattone, alla speranza che un Tempio, dedicato a un’umanità redenta da se stessa, e dal suo retaggio di orrori, ci possa mai essere”. La sconfitta, insomma, non annulla l’utopia; insegna a viverla diversamente.
Ma torniamo al Marx filosofo e critico della società: secondo Màdera il cuore della sua proposta critica sta nell’aver colto con straordinario acume che “il feticismo costituisce il codice genetico della società dell’accumulazione” sul quale si fondano “non solo la teoria del valore e la sua forma, ma anche la teoria generale dei rapporti di produzione e di scambio, nonché la critica dell’economia politica”. È su di esso che poggia quella che Màdera definisce «La religione consacrata del consumo mantiene della religione l’inattingibilità delle sue origini e l’ordine sacrificale della sua scala di valori: proprio perché “incarnato” nell’uso, il valore di scambio che in esso si realizza diventa “naturale”, innervato dentro le dinamiche del bisogno organico e psichico, qualcosa la cui rinuncia risulta innaturale e disapprovata dalla coscienza collettiva».
Appare dunque chiaro come la reificazione denunciata da Marx non si limiti a far scadere le persone a funzioni, mere cose tra le cose, proprio mentre infonde personalità alle merci elevandole a feticci dotati di quel magico valore spirituale, che gli antropologi chiamano mana; essa “struttura i rapporti di potere, le relazioni tra persone, la psicologia collettiva, i valori, gli ideali, i simboli,” operando una vera e propria rivoluzione antropologica che chiama l’individuo ad una coscienza non più, o non soltanto, di classe ma, più ampiamente, esistenziale. La coscienza enorme auspicata da Marx dovrà essere olistica e portare il soggetto a riconoscere “nella sua corporea individualità, l’universalità che è, dissolvendo l’identificazione feticistica” che lo porta a scambiare la parte per il tutto (questo è appunto un feticcio), per riconoscere, sulla scia di Nietzsche, la propria identità come irriducibilmente molteplice, in divenire e in permanente coabitazione con un Altro che le ricorda, freudianamente, che “l’io non è il padrone di casa”. Permettendo di comprendere come anche la stessa identità sia un feticcio di cui si dimentica la natura intrinsecamente dialettica che non va confusa con una sterile ipseità, Freud e Nietzsche offrono all’indagine marxiana la considerazione della dimensione irriducibilmente biografica di ogni vicenda umana; da parte sua Marx ricorda alla psicoanalisi che “l’assoluta incongruenza delle nostre vite non dipende affatto da una qualche psicopatologia, anzi fa spesso parte della loro eziologia, poiché favorisce uno stato permanente di dissociazione”.
Il filosofo tedesco Marx cercava compagni di viaggio che si lamentava di non aver trovato, tanto da sostenere che avrebbe potuto fondare un partito con lui e l’amico Friedrich Engels come unici iscritti; Nietzsche e Freud l’hanno volutamente ignorato e si sono pensati enormemente distanti dal suo pensiero, solo perché lontani dalla sua proposta strettamente politica. Chissà se ora che quella proposta ha palesato tutti i suoi limiti, questi tre spiriti non possano agitarsi insieme per il mondo.
NEL REGNO DI EDIPO: "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE", L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO. Come nascono i bambini e le bambine... *
Appello di una femminista alle donne cristiane che sono contro il Congresso mondiale delle famiglie
di Luisa Muraro (Libreria delle donne, 29 Marzo 2019)
Care amiche, vorrei sottoscrivere il vostro Appello contro il Congresso delle famiglie a Verona. Sono d’accordo con quello che dite, in primo luogo che la famiglia non è un’entità naturale ma un’istituzione culturale, che quasi sempre mostra una forte impronta patriarcale.
A me e a voi, suppongo, è chiaro che prima della famiglia, comunque intesa, c’è la diade formata da una donna e dalla creatura che lei ha concepito e portato al mondo. È un rapporto molto speciale, che precede i dualismi tipici della cultura maschile: la donna che accetta di entrare nella relazione materna, alla sua creatura dà la vita e insegna a parlare, le due cose insieme. Ed è un “insieme” che si tende, come un ponte insostituibile, sopra l’abisso della schizofrenia umana.
Vorrei ma non posso sottoscrivere il vostro Appello perché, nella difesa delle nuove forme familiari, non c’è una critica di quelle che si costituiscono da coppie che, sfortunatamente o naturalmente sterili, invece di adottare, si fanno fare la creatura a pagamento.
Da donne cristiane, mi aspettavo una calorosa difesa dell’adozione e un’energica richiesta della sua estensione a persone e coppie finora escluse dalla legge. Ma, ancor più, essendo voi donne, mi aspettavo una difesa della relazione materna libera e responsabile così come oggi è diventata possibile. Invece, parlate solo di genitorialità, usate cioè una parola tipica del linguaggio neutro-maschile. E a voi che parlate del corpo femminile come luogo di spiritualità incarnata, chiedo: che famiglia è mai quella che nasce con il programma esplicito, messo nero su bianco, di cancellare la relazione materna che si sviluppa con la gestazione in un intimo scambio biologico e affettivo?
Voi, a differenza di tanti cattolici, leggete la Bibbia e sapete che la cosiddetta gravidanza per altri, ossia la donna che partorisce senza diventare madre, corrisponde pari pari ad antiche usanze del patriarcato, usanze che sembravano superate. Le ultime pagine del Contratto sessuale di Carole Pateman, parlano proprio di questo sostanziale arretramento. Detto alla buona, ci sono “nuove” famiglie che di nuovo hanno solo la tecnologia.
A proposito: che cosa pensano di tutto questo gli uomini vicini a voi, i vostri compagni di fede e d’impegno politico? Perché non compaiono nel vostro Appello? Mi è venuto un sospetto, di ritrovarmi davanti a quel noto comportamento maschile che è di nascondersi dietro a una o più donne quando si vuol far passare pubblicamente qualcosa che è contro le donne. Devo portare degli esempi? Ma, se questo non fosse vero, scusatemi.
(www.libreriadelledonne.it, 28 marzo 2019)
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Cultura e civiltà. L’ordine simbolico della madre.....
NEL REGNO DI EDIPO. L’ordine simbolico di "mammasantissima"
"L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": L’ALLEANZA CATTOLICO-"EDIPICA" DEL FIGLIO CON LA MADRE!!!
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
"DUE SOLI" IN TERRA, E UN SOLO SOLE IN CIELO: "TRE SOLI".... *
Storia.
Il sogno di Napoleone: l’archivio dell’impero
Bonaparte aveva capito che, controllando la memoria dei popoli, li si teneva in pugno e si poteva scrivere la storia come prova della legittimità del proprio potere
di Edoardo Castagna (Avvenire, giovedì 11 aprile 2019)
Del saccheggio napoleonico di opere d’arte, con i lunghi strascichi relativi alle restituzioni o alle mancate restituzioni, molto si è scritto. Assai meno del saccheggio di uomini, della “carne da cannone” razziata come e più di quadri e statue in ogni angolo d’Europa, per finire seppellita tra le colline boeme o nelle steppe di Russia. Tutti iscritti all’anagrafe della storia come “francesi” sebbene in gran parte francesi non fossero affatto, come lo stesso Napoleone si premurò poi di rimarcare. Ma le appartenenze nazionali, così come le tradizioni storiche e le memorie collettive, si costruiscono. Ed è per questo che tra i tanti saccheggi napoleonici uno, perseguito con particolare tenacia, si concentrò sugli archivi delle varie capitali via via occupate e inglobate nell’Impero.
Vicenda meno nota di altre, ben ricostruita da Maria Pia Donato nel suo L’archivio del mondo. Quando Napoleone confiscò la storia (Laterza, pagine 170, euro 19,00). La sua versione dell’eterno sogno della biblioteca universale si declinò utilitaristicamente verso la condensazione sotto un unico controllo di quella che avrebbe dovuto essere la fonte primaria sia per la scrittura della storia nei secoli a venire, sia per la costruzione di una tradizione e di un’identità comune a tutta l’Europa posta sotto lo scettro di Napoleone, in ideale rimando all’unità medievale dei “due soli” a cui esplicitamente tale operazione si ispirò. Furono infatti la conquista, nel 1809, degli archivi del Sacro Romano Impero e del Papato a mettere in moto la macchina accentratrice dell’archivio dell’Impero.
Come in tante altre occasioni, la storia seguiva la propria strada indipendentemente dalla volontà degli uomini, tanto che l’idea di centralizzare gli archivi europei, sottolinea la Donato, seguì e non precedette l’inizio della sua realizzazione: il suo Napoleone è perfettamente tolstojano, in balìa di quegli stessi eventi epocali che si illude di governare. Stando al trattato con l’Austria nel 1809, avrebbero dovuto passare sotto controllo francese soltanto gli atti relativi ai territori ceduti agli occupanti: i quali invece, con militaresca ruvidità, prelevarono in blocco le carte conservate a Vienna, quali che fossero e di ogni epoca. Furono riempite oltre 2.500 casse, caricate sui carri e spedite a Parigi.
Simile fu la brutalità con la quale si procedette al- l’acquisizione degli archivi di Roma, il cui sequestro in realtà fu, almeno inizialmente, funzionale alla volontà di Napoleone di mettere sotto pressione il Papa: tanto che nel 1813, quando l’imperatore credette di averla spuntata su Pio VII, ordinò la restituzione delle carte. Per rimangiarsela, naturalmente, quando mutò nuovamente idea sul conto del Pontefice. Nel frattempo però, e anche in contraddizione con i tatticismi politici del momento, maturava in lui e nei suoi collaboratori «l’idea di creare un sito centrale della memoria per l’impero, anzi una grandiosa raccolta delle testimonianze scritte della civiltà», nota la Donato; via via furono acquisiti gli archivi olandesi, spagnoli, piemontesi, belgi, della galassia di staterelli tedeschi.
A sovrintendere al tutto fu l’archivista capo Pierre-Claude-François Daunou: ex prete, ex illuminista, ex fervente repubblicano, infine comodamente adagiato nell’ordine bonapartista (al quale peraltro sarebbe sopravvissuto). Nella sua opera trasfuse, al pari di quella contemporanea e simmetrica dei curatori del Louvre, del Jardin des plantes o della Biblioteca nazionale di Parigi, l’ideale e l’ambizione enciclopedici degli Idéologues illuministi. «Fu elaborata sul campo - nota la Donato - la dottrina che Édouard Pommier ha chiamato “la teoria del rimpatrio”, ossia l’idea che solo nella Francia rigenerata le opere delle scienze e delle arti avrebbero potuto sprigionare il loro potenziale di conoscenza ed emancipazione».
Daunou aveva ben servito Napoleone compilando un Saggio storico sul potere temporale dei papi tutto teso a mostrare le malefatte plurisecolari del Papato e le buone ragioni di un imperatore nel volerlo ridurre alla sua mercé; il Saggio venne ripetutamente riveduto e ampliato proprio grazie alle nuove fonti archivistiche divenute disponibili. Ma Daunou non era un mero cortigiano, anzi: nella sua opera di gran maestro dell’archivio napoleonico diede indubbie prove di capacità organizzative, di intelligenza pratica (fu l’inventore di quelle “schede”, uniformi per formato e ordine delle informazioni, divenute poi di uso universale fino all’avvento della digitalizzazione) e anche di un po’ di visionarietà.
Non ci fu il tempo di costruire l’immenso palazzo che avrebbe dovuto ospitare i Grandi Archivi, ma quello per affermarne la centralità storica sì: non solo, prosegue la Donato, «furono l’invenzione simbolica di un impero in cerca di radici», ma offrivano anche l’occasione di coltivare la storia pragmatica che era stata degli Idéologues. L’archivio serviva (anche) a scrivere la storia», e per questo esserne i controllori significava essere i controllori della memoria dei popoli. Nelle carte degli archivi si trovano i mattoni fondamentali per erigere quei monumenti umani collettivi che sono le identità naziona-li: una lezione, questa, che gli Stati- nazione che sarebbero sorti dopo il tramonto dell’età napoleonica, e che rientrarono in possesso dei rispettivi archivi, avrebbero ben messo a frutto.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA" -Nel 200° anniversario della pubblicazione della "Fenomenologia dello Spirito" di Hegel (1807)
Federico La Sala
NEL REGNO DI EDIPO: "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE", L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO... *
Appello di una femminista alle donne cristiane che sono contro il Congresso mondiale delle famiglie
di Luisa Muraro (Libreria delle donne, 29 Marzo 2019)
Care amiche, vorrei sottoscrivere il vostro Appello contro il Congresso delle famiglie a Verona. Sono d’accordo con quello che dite, in primo luogo che la famiglia non è un’entità naturale ma un’istituzione culturale, che quasi sempre mostra una forte impronta patriarcale.
A me e a voi, suppongo, è chiaro che prima della famiglia, comunque intesa, c’è la diade formata da una donna e dalla creatura che lei ha concepito e portato al mondo. È un rapporto molto speciale, che precede i dualismi tipici della cultura maschile: la donna che accetta di entrare nella relazione materna, alla sua creatura dà la vita e insegna a parlare, le due cose insieme. Ed è un “insieme” che si tende, come un ponte insostituibile, sopra l’abisso della schizofrenia umana.
Vorrei ma non posso sottoscrivere il vostro Appello perché, nella difesa delle nuove forme familiari, non c’è una critica di quelle che si costituiscono da coppie che, sfortunatamente o naturalmente sterili, invece di adottare, si fanno fare la creatura a pagamento.
Da donne cristiane, mi aspettavo una calorosa difesa dell’adozione e un’energica richiesta della sua estensione a persone e coppie finora escluse dalla legge. Ma, ancor più, essendo voi donne, mi aspettavo una difesa della relazione materna libera e responsabile così come oggi è diventata possibile. Invece, parlate solo di genitorialità, usate cioè una parola tipica del linguaggio neutro-maschile. E a voi che parlate del corpo femminile come luogo di spiritualità incarnata, chiedo: che famiglia è mai quella che nasce con il programma esplicito, messo nero su bianco, di cancellare la relazione materna che si sviluppa con la gestazione in un intimo scambio biologico e affettivo?
Voi, a differenza di tanti cattolici, leggete la Bibbia e sapete che la cosiddetta gravidanza per altri, ossia la donna che partorisce senza diventare madre, corrisponde pari pari ad antiche usanze del patriarcato, usanze che sembravano superate. Le ultime pagine del Contratto sessuale di Carole Pateman, parlano proprio di questo sostanziale arretramento. Detto alla buona, ci sono “nuove” famiglie che di nuovo hanno solo la tecnologia.
A proposito: che cosa pensano di tutto questo gli uomini vicini a voi, i vostri compagni di fede e d’impegno politico? Perché non compaiono nel vostro Appello? Mi è venuto un sospetto, di ritrovarmi davanti a quel noto comportamento maschile che è di nascondersi dietro a una o più donne quando si vuol far passare pubblicamente qualcosa che è contro le donne. Devo portare degli esempi? Ma, se questo non fosse vero, scusatemi.
(www.libreriadelledonne.it, 28 marzo 2019)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Cultura e civiltà. L’ordine simbolico della madre.....
NEL REGNO DI EDIPO. L’ordine simbolico di "mammasantissima"
"L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": L’ALLEANZA CATTOLICO-"EDIPICA" DEL FIGLIO CON LA MADRE!!!
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
PIANETA TERRA. 8 MARZO 2019: IL GRADO DI CIVILTA’ CUI L’UOMO E’ GIUNTO .... *
"[...] Nel rapporto con la donna, in quanto essa è la preda e la serva del piacere della comunità, si esprime l’infinita degradazione in cui vive l’uomo per se stesso: infatti il segreto di questo rapporto ha la sua espressione inequivocabile, decisa, manifesta, scoperta, nel rapporto del maschio con la femmina e nel modo in cui viene inteso il rapporto immediato e naturale della specie.
Il rapporto immediato, naturale, necessario dell’uomo con l’uomo è il rapporto del maschio con la femmina. In questo rapporto naturale della specie il rapporto dell’uomo con la natura è immediatamente il rapporto dell’uomo con l’uomo, allo stesso modo che il rapporto con l’uomo è immediatamente il rapporto dell’uomo con la natura, cioè la sua propria determinazione naturale.
Cosi in questo rapporto appare in modo sensibile, cioè ridotto ad un fatto d’intuizione, sino a qual punto per l’uomo l’essenza umana sia diventata natura o la natura sia diventata l’essenza umana dell’uomo.
In base a questo rapporto si può dunque giudicare interamente il grado di civiltà cui l’uomo è giunto. Dal carattere di questo rapporto si ricava sino a qual punto l’uomo come essere appartenente ad una specie si sia fatto uomo, e si sia compreso come uomo; il rapporto del maschio con la femmina è il più naturale dei rapporti che abbiano luogo tra uomo e uomo.
In esso si mostra sino a che punto il comportamento naturale dell’uomo sia diventato umano oppure sino a che punto l’essenza umana sia diventata per lui essenza naturale, e la sua natura umana sia diventata per lui natura. In questo rapporto si mostra ancora sino a che punto il bisogno dell’uomo sia diventato bisogno umano, e dunque sino a che punto l’altro uomo in quanto uomo sia diventato per lui un bisogno, ed egli nella sua esistenza più individuale sia ad un tempo comunità [...]".
* K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844. Sul tema, si cfr.: CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
ARACNE, FILOMELA, E TRE ARAZZI. Arte e resistenza: ascoltare la voce della spoletta ... *
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Tessere come smascheramento: disfare la violenza dello stupro
La tela di Aracne apre il libro sesto delle Metamorfosi, la storia di Filomela lo chiude.
Per entrambe queste donne, tessere rappresenta lo smascheramento dei "misteri sacri" e il disfare la violenza dello stupro. Prima che la dea adirata Atena (Minerva) stracci la stoffa tessuta da Aracne, la tessitrice, donna mortale, racconta su di essa una storia molto particolare: quella delle donne stuprate da dèi che si mutano in bestie. Prima dell’intervento della dea gelosa, Aracne è il centro di una comunità femminile.
Insuperabile nella sua arte, Aracne è così piena di grazia che donne da ogni luogo vengono da lei per vederla cardare, filare, tessere. Attorno a lei si radunano altre donne che guardano, parlano, lavorano, riposano. Qui il telaio rappresenta un’occasione per creare comunità e pace, un contesto in cui è possibile, per il piacere, essere non violento e non possessivo.
In questo Aracne ricorda Saffo, che pure era il centro di una comunità di donne e a cui similmente Ovidio riserva un vicolo cieco, adottando la tradizione che tenta di sminuire la poetessa facendola morire suicida poiché respinta da un uomo. Ciò che sopravvive del lavoro di Saffo e gli studi successivi respingono come falsa questa ipotesi.
E’ solo facendo uno sforzo di interpretazione che noi oggi possiamo suggerire che Aracne, la donna artista, non si impiccò come ci racconta la storia, ma fu linciata. Il suicidio è un surrogato dell’omicidio. Aracne è distrutta dal suo stesso strumento quando esso è nelle mani della dea irata.
Ma chi è Atena? Non realmente femmina, giacché emerge, priva di madre, dalla testa del padre, una fantasia maschile che si fa carne, che strangola la voce delle donne reali. Lei è la figlia vergine il cui scudo è la testa di un’altra vittima donna, Medusa. Atena è la pseudo-donna che racconta la storia del giusto ordine.
Centrali, nel suo arazzo, sono gli dei in tutta la loro gloria, ma ai quattro angoli della tela, all’interno del bordo di rami d’olivo, Atena tesse un ammonimento alla donna artista, affinché essa non resista all’autorità ed alla gerarchia: in colori brillanti, quattro figure dicono "Pericolo!".
L’errore di Aracne è solo apparentemente l’orgoglio per la propria arte (che è pienamente giustificato: Aracne vince la gara); in verità, lei è in pericolo perché racconta una storia pericolosa. Fra le donne rappresentate nel suo arazzo c’è la stessa Medusa.
Raccontare lo stupro di Medusa da parte di Poseidone è suggerire ciò che può nascondere il mito per cui la donna muta gli uomini in pietra. Il luogo del crimine era l’altare di un tempio di Atena. Il retroterra del crimine era la necessità della città di scegliere un dio per darsi nome e ciò che usualmente viene rappresentato come una rivalità fra Poseidone ed Atena per ottenere tale onore.
Medusa fu stuprata o sacrificata sull’altare di Atena? Fu la donna "punita" da Atena, o fu uccisa durante una crisi, come offerta della città di Atene ad una dea "adirata", proprio come Ifigenia fu sacrificata ad una Artemide assetata di sangue? Dietro alla testa decapitata della donna, che Perseo usa per mutare gli uomini in pietra, c’è l’antica Gorgone, la maschera apotropaica rituale che segnava gli angoli dei camini nelle case ateniesi.
La Medusa mitica può ricordare una reale vittima sacrificale: dietro la testa che tramuta in pietra gli uomini, potrebbe esserci una donna lapidata a morte dagli uomini. E, anche qui, la responsabilità deve cadere su un’altra "donna", Atena.
La storia viene erotizzata dal collocare la violenza fra uomini e donne, e Freud, nella sua equazione "decapitazione = castrazione" rinforza e sviluppa la misoginia presente nel sacrificio mitico. Se Medusa è divenuta una figura centrale con cui ogni donna artista deve fare i conti è perché, ella stessa ridotta al silenzio, Medusa è stata usata per ridurre al silenzio altre donne.
Aracne, narrando sulla tela le storie delle donne stuprate da dei mutati in bestie, demistifica gli dei (il sacro) e li rivela come bestie (la violenza). Ovidio può raccontare la sua versione della storia solo perché la versione della donna è stata strappata in pezzi e lei stessa ricondotta ad uno stato "naturale".
Proprio come Freud, terrorizzato dalla "donna-come-madre" e dalla donna tessitrice, usa la psicoanalisi per riportare le donne ad un’identificazione con la "natura", così il mito usa Atena affinché trasformi Aracne in un ragno repellente, che potrà tessere tele puramente letterali, disegni incomprensibili. La metamorfosi, così come la psicoanalisi nelle mani di Freud, rovescia la direzione della violenza: Medusa, come Aracne, spaventa e minaccia gli uomini.
Il ragno femmina intrappola e divora i maschi che si accoppiano con lei... Lo strumento della tessitrice, la spoletta, viene usato per ridurla al silenzio. Ma non viene usato per zittire l’artista maschio, che si appropria dell’abilità femminile quale metafora per la propria stessa abilità.
Quale strumento di violenza, Atena è un’estensione di Zeus. La vendetta sulla donna artista, che usa il telaio per raccontare storie che non ci è permesso di udire se non sono mediate dagli uomini, non è una vendetta degli dei, è una vendetta culturale.
Quando Filomela comincia a tessere durante il suo lungo anno di prigionia, non è solo la sua sofferenza che la muove ad un nuovo uso del telaio, ma lo specifico scopo di essere udita da sua sorella. Come strumento che lega e connette il telaio (o la spoletta che è una sua parte) ri-membra e aggiusta ciò che la violenza riduce in pezzi: il legame fra sorelle, il potere della donna di parlare, la forma della comunità, la comunicazione. La guerra ed il tessere sono antitetici.
Ma il mito ci chiede di credere che, dopo il suo lungo e paziente sforzo, Filomela sia disposta a trasformare il suo lavoro al telaio in vendetta immediata. Ci si chiede di credere, dopo che Filomela ha trasformato la prigione in laboratorio e la disciplina domestica in un anno di lotta, che tutto ciò l’ha lasciata immutata, che la sua scoperta non ha il potere di cambiare nulla.
E il mito ci chiede di credere che dopo un anno di pianto sulla tomba della sorella, Procne sia disposta non ad un rito di riunione, ma ad uno di omicidio. L’alternativa più importante suggerita dall’arazzo di Filomela non è mai stata considerata: il potere del testo di insegnare all’uomo a conoscere se stesso.
E’ il barbaro Tereo o è il cittadino greco che risponde alla storia tessuta dalla donna con la violenza? All’interno della tradizione greca, il mito è stato usato per insegnare alle donne il pericolo insito nella nostra capacità di vendicarci. Ma se il mito istruisce, così come è istruttivo l’arazzo di Filomela, allora ci dice anche che possiamo insegnare a noi stesse, all’interno del potere dell’arte, le forme della resistenza.
E’ il tentativo di negare che il tessere di Filomela poteva avere altri fini a parte la vendetta che rende il mito così pericoloso, perché esso tenta di persuaderci al considerare la violenza inevitabile e l’arte debole... ma è lo stesso mito a testimoniare contro se stesso, perché se l’arte di Aracne e Filomela fosse davvero stata così debole, non sarebbe stata repressa con violenza così estrema. [...]
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Federico La Sala
A novant’anni dal Concordato firmato da Mussolini e Pio XI
Stato-Chiesa, i nodi irrisolti
di Chiara Saraceno (Il Mulino, 11 febbraio 2019)
Sono trascorsi novant’anni da quando, l’11 febbraio 1929, i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica sono stati regolati da un concordato. Un tempo sufficientemente lungo per consentire un bilancio e per verificare se non sia opportuna una nuova revisione, dopo quella operata nel febbraio 1984 sotto il governo Craxi, con la duplice parziale correzione sia dei Patti lateranensi sia del concordato vero e proprio. Una revisione e una correzione, peraltro, dagli esiti ambigui.
In primo luogo, ancora oggi rimane in vigore la norma secondo la quale - nel matrimonio concordatario - in caso di annullamento la norma canonica prevale su quella civile, nonostante i criteri (oltre che i giudici) che presiedono all’annullamento religioso siano difformi da quelli che presiedono all’annullamento civile.
Inoltre, l’eliminazione della clausola che riconosceva alla religione cattolica la condizione di religione di Stato non ha eliminato affatto l’obbligo per lo Stato di garantire l’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche e, anzi, lo estendeva alle scuole materne, escludendo solo l’università. Il costo finanziario per lo Stato di tale obbligo - sotto forma di stipendi pagati a insegnanti reclutati non dallo Stato bensì dalla Chiesa cattolica - è stato stimato in 1,25 miliardi di euro l’anno. Per mantenere una schiera numerosa di insegnanti di religione a fronte di una crescente diminuzione di coloro che ne frequentano l’insegnamento, raramente viene utilizzata la possibilità, pure prevista dalle modifiche del 1984, di accorpare le classi.
Peraltro, anche la modifica da una condizione di obbligatorietà per gli studenti a partecipare alle lezioni di religione, salva una richiesta di esenzione, alla facoltà di decidere se avvalersene o meno è rimasta in condizione di ambiguità.
L’insegnamento di religione, infatti, fa parte a pieno titolo dell’orario scolastico e può essere collocato in qualsiasi posizione, a prescindere dal numero di studenti per classe che se ne avvale. L’insegnante di religione partecipa a pieno titolo al collegio dei docenti e il suo voto "fa media". Quanto agli studenti che scelgono di non frequentare religione, inclusi i bambini della scuola materna, sono loro a dover uscire di classe per partecipare ad attività alternative più o meno fasulle, lasciate alla discrezione e alla buona volontà dell’insegnante loro assegnato. Ma senza avere l’alternativa di un’ora di scuola in meno, salvo che casualmente l’ora di religione sia messa alla prima o all’ultima ora. Una situazione apparentemente migliore rispetto a quando gli "esonerati" passavano l’ora di religione in corridoio.
Di fatto, tuttavia, chi "non si avvale" dell’insegnamento della religione cattolica continua ad avere meno diritti, in termini di risorse dedicate, di chi "si avvale". Mentre i loro genitori - tramite le imposte - finanziano l’insegnamento della religione cattolica.
Del tutto in contrasto con l’obiettivo del finanziamento da parte dei fedeli si è rivelato il meccanismo dell’8 per mille. In linea di principio, il passaggio dalla congrua - ovvero dal sostentamento del clero direttamente a carico dello Stato, appunto al finanziamento da parte dei fedeli tramite la devoluzione di una quota delle imposte dovute - è stato molto positivo.
Tuttavia, la formulazione di questa norma si è prestata nel tempo e tuttora si presta a un enorme imbroglio a carico dei contribuenti.
In base alla legge 222/85, infatti, ogni cittadino che presenta la dichiarazione dei redditi può scegliere la destinazione dell’8 per mille del proprio gettito Irpef a un’istituzione religiosa che con lo Stato ha stipulato vuoi, come nel caso della Chiesa cattolica, un concordato, vuoi un’intesa, oppure scegliere di destinarlo allo Stato. Mentre all’inizio l’opzione era ristretta a quella tra Stato e Chiesa cattolica, oggi si può scegliere tra tredici alternative: Stato (per scopi sociali e assistenziali), Chiesa cattolica, Unione chiese cristiane avventiste del 7° giorno, Assemblee di Dio in Italia, Unione delle chiese metodiste e valdesi, Chiesa evangelica luterana in Italia, Unione comunità ebraiche Italiane, Unione buddhista, Unione induista, Chiesa apostolica, Sacra diocesi ortodossa d’Italia, Unione cristiana evangelica battista d’Italia e infine, dal 2017, l’istituto buddista italiano Soka gakkai.
Il problema è che non viene attribuita a ciascuna istituzione solo la quota dell’8 per mille per la quale i contribuenti hanno effettuato una scelta precisa - come avviene per il 5 per mille destinato a associazioni non profit - ma anche la quota non specificamente attribuita viene suddivisa in base alle percentuali delle scelte effettuate. Chi non sceglie, ritenendo ingenuamente che il suo 8 per mille rimanga allo Stato, di fatto subisce le preferenze di chi invece lo ha fatto. Stante che negli anni il numero di coloro che effettuano una scelta è progressivamente diminuito ma la priorità delle scelte è rimasta per la Chiesa Cattolica, questa si prende anche il grosso della quota di chi non ha inteso designarla come beneficiaria.
In base agli ultimi dati disponibili - riferiti alle dichiarazioni dei redditi effettuate nel 2015 - solo il 44% degli oltre quaranta milioni di contribuenti aveva espresso una scelta e solo il 35% per la Chiesa cattolica, la quale, tuttavia, in base a una distribuzione proporzionale dell’intero ammontare dell’8 per mille ne ha ricevuto l’81,21% , pari a 1.005.390.045 euro. Anche le altre Chiese ricevono beneficio da questo meccanismo a dir poco ambiguo, anche se si tratta di briciole. Si aggiunga che, a differenza di quanto fanno molte Chiese, lo Stato non pubblicizza neppure l’opzione a proprio favore, e tantomeno esplicita a che cosa destinerebbe l’eventuale gettito, contribuendo all’opacità del tutto e generando sfiducia.
Non vi è, inoltre, l’opzione di destinare il proprio 8 per mille ad associazioni che si battono per la laicità dello stato o che sostengono l’ateismo, mettendo, di nuovo, i cittadini in condizioni di disuguaglianza rispetto alla possibilità di sostenere finanziariamente il proprio orientamento rispetto al fenomeno religioso. Possono farlo solo destinando il 5 per mille, che è normato diversamente.
Alla luce di questi e altri aspetti altamente problematici per la laicità dello Stato, l’uguaglianza dei cittadini (anche minorenni), la trasparenza nei rapporti tra Stato e cittadini, in questi giorni un gruppo di 150 esponenti del mondo della cultura e difensori dei diritti civili ha firmato un appello al Parlamento, al governo, alle forze politiche, affinché - in attesa di tempi più favorevoli a una radicale revisione, se non al superamento, del Concordato - si intervenga per dare almeno piena attuazione alle finalità degli accordi del 1984, con l’abolizione dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica e la revisione degli attuali criteri di ripartizione della quota "non destinata" dell’8 per mille. A queste due richieste si aggiunge quella di un’azione determinata per dare attuazione alla recente sentenza della Corte europea, recuperando nella misura del possibile l’Ici non pagata in passato, 4-5 miliardi di euro. Si tratta, a me pare, di proposte civili e rispettose della reciproca autonomia tra Stato e Chiese. Ma sono sicura che - se non sepolte dal silenzio imbarazzato dei media "laici" - saranno oggetto di anatemi di vario tipo.
Dovremmo tutti leggere Aleramo
di Lea Melandri (Comune-info, 17 Gennaio 2019)
Il 13 gennaio 1960 moriva Sibilla Aleramo. Alla studio e alla rilettura dei suoi Diari ho dedicato molti anni e grande è stato l’incidenza che i suoi “frammenti di lucida intuizione” hanno avuto nella mia vita e nel mio percorso femminista. A lei è dedicata la parte centrale del mio libro Come nasce il sogni d’amore (Rizzoli 1988, Bollati Boringhieri 2002) e molti saggi pubblicati in altri libri e riviste. Riporto qui una relazione (molto lunga, ma chi è interessata/o so che non si fa scoraggiare) destinata a un convegno a cui non ho potuto partecipare e mai pubblicata negli Atti che avrebbero dovuto fare seguito. Sibilla Aleramo. Una coscienza femminile anticipatrice
L’incontro con Sibilla Aleramo avviene alla fine degli anni Settanta, sulla spinta di un movimento di donne che aveva messo al centro della propria riflessione e della propria ricerca politica le problematiche del corpo, favorito anche da ragioni autobiografiche (l’inizio di un’analisi). Quindi:il mio non è un interesse strettamente letterario. Già la ripubblicazione di Una donna (Feltrinelli 1975) rientrava in questa riscoperta. Ma è soprattutto l’uscita dei diari (Diario di una donna, Feltrinelli 1978 e Un amore insolito, Feltrinelli 1979) a far emergere l’originalità dell’Aleramo: il carattere quasi esclusivamente autobiografico della sua opera, il particolare rapporto tra scrittura e vita, che viene da una coscienza anticipatrice, attenta alla costruzione di un’individualità femminile sottratta al suo destino storico di moglie e madre.
È l’Aleramo stessa a fornire questa chiave di lettura, quando, al di là dei suoi sforzi rivolti alla poesia, si rende conto che c’è in lei una “sotterranea seconda vita”, una corrente tacita di pensieri e sentimenti, che non può essere tradotta in poesia “se non violentandomi, disumandomi, forse uccidendomi”,(1) che chiede perciò un altro tipo di scrittura. Questa consapevolezza, con cui l’Aleramo torna a guardare le migliaia di pagine che si è lasciata dietro, appare esplicitamente nei diari, ma se ne possono trovare le tracce già nel romanzo Una donna. L’Aleramo è stata sicuramente buona interprete e profetessa di sé.
“Nel futuro, nel futuro. La certezza di un tale avvenire mi si era andata formando inavvertitamente, forse dall’adolescenza, forse prima... A tratti un senso di ammirazione, quasi di estranea mi prendeva per il cammino da me percorso; avevo la rapida intuizione di significare qualcosa di raro nella storia del sentimento umano, d’essere tra i depositari di una verità manifestatesi qua e là a dolorosi privilegiati... E, pensosa, mi chiedevo se sarei riuscita un giorno ad esprimere per la salvezza altrui una parola memorabile”. (2)
“E la mia poesia è stata tutta generata così. E le migliaia di pagine che ho scritto per narrarmi, per spiegarmi. Fino a questa d’oggi. Un furore d’autocreazione incessante.” (3)
“Tutto getto di me... e chi mai se n’è accorto? Nessuno realmente, quando il libro uscì... Chi lo scoprirà, quando sarò morta? ... Fra venti, cinquanta, cent’anni chi farà giustizia alla donna che in queste pagine, e in tante altre, s’è così immolata?” (4)
“Chi leggerà tutte queste pagine, dopo la mia morte? Deciderà di distruggerle tutte? O potrà ricavarne qualche frammento di lucida intuizione?” (5)
Quelle che per le altre scrittrici sono le vie secondarie, i viottoli della scrittura letteraria - lettere, diari, note sparse - per l’Aleramo diventano il tracciato portante che convoglia anche il testo della sua opera: il romanzo, la poesia. Niente letteratura, pochissima arte, piuttosto: un flusso irrefrenabile di vita. Non è nella storia della letteratura che l’Aleramo si pensa come “qualcosa di raro”, ma “nella storia del sentimento umano”.
La scrittura è il luogo in cui si rovescia una “somma enorme di vita”, ma anche quello in cui si interroga la vita (“per spiegarmi”,”per riconoscermi”), e in cui il percorso della vita e della scrittura, riletti a più riprese, operano una specie di svelamento. Per questo il narrarsi dell’Aleramo appare, più che un’autobiografia, un’autoanalisi: si parla di veli tutti da sollevare, di un “pudore selvaggio”, di “una selvaggia nudità”, di una “rappresentazione del mondo aprioristicamente ammessa, poi compresa per virtù d’analisi” (6).
L’analisi dei modelli interiorizzati sarà al centro del femminismo negli anni Settanta (la “violenza invisibile”), ma mentre i gruppi femministi si sono soffermati soprattutto sulla sessualità, l’Aleramo opera questo svelamento sul sogno d’amore. L’immagine dello svelamento ci aiuta a capire, innanzitutto, un tratto dominante, nella vita come nella scrittura: l’alternarsi di sogno e lucidità di analisi. Ma in qualche modo mostra anche le molteplici contraddizioni che lo accompagnano: nonostante la ridda dei suoi tentativi amorosi, non c’è, negli scritti, quasi nessuna traccia della sessualità. Spudorata, l’Aleramo lo è rispetto al sogno d’amore, portato sulla scena pubblica;
molti sono gli amori, ma modellati su un unico amore, quello che prende forma dalla vicenda originaria (fusionalità, composizione degli opposti) e che viene riportato anche nella ricerca di interezza e nella creatività; la patina di romanticismo (letteratura rosa) e l’essere coscienza anticipatrice nella ricerca di autonomia dell’essere femminile;
il pieno di presenze (amici, amanti) e la solitudine, intesa come il “fastidioso obbligo di vivere per sé”; la fama di cui godette e la sua povertà, il nomadismo; la partecipazione intensa alla vita culturale del suo tempo, e l’aspetto astorico della sua tematica dell’amore; il tratto comune e insieme eccezionale della sua esperienza: da cui il carattere immolatorio, l’idea di essere portatrice di una verità.
Forse non è un caso che anche i giudizi che sembrano andare più vicino all’originalità dell’Aleramo non sono giudizi letterari, e neanche quelli benevoli:
“... anche voi dovreste mutare fondamentalmente il vostro atteggiamento verso la vita. Non faccio il moralista a buon mercato; e intendo e scuso perfino il fallo commesso nell’impeto della giovinezza sensuale e fantastica quando avete abbandonato vostro marito e vostro figlio... Comunque il fatto era fatto; e voi avevate avuto un’ottima occasione per formarvi una nuova vita; quando stavate col Cena. Ma voi volevate amare il Cena, quando il vostro dovere era invece di aiutarlo e sacrificarvi a lui.” (Benedetto Croce) (7)
“Allora perché non si decide ad accettare di essere sola, come un uomo silenzioso, chiuso, pronto agli incontri? Sola come una puttana intellettuale...pigli pure l’amore quando le viene ma senza amplificazioni, come un artista da un albero riceve un’immagine... Vergine e silenziosa come la Regina Elisabetta, essendo poi quanto le pare erotica: ma padrona di sé, sé sola: non quella che si pubblica, ora di questo ora dell’altro. Più carne e più cervello.”(Emilio Cecchi) (8)
“È “un sogno” che voi perseguite! Un sogno irrealizzabile, mia cara Sibilla! Un sogno che voi avete avuto l’illusione di mutare in realtà, già più volte, e che s’è evaporato come una bolla di sapone. Il tempo della passione non dura. Non potrebbe durare.” (Marguerite Monclaire) (9)
Il sogno d’amore
Lo svelamento riguarda soprattutto il sogno d’amore. La definizione che ne dà l’Aleramo corrisponde all’idea che gli uomini hanno avuto da sempre della felicità e della perfezione: fusione di due esseri in uno, equilibrio dei contrari, armonia di sensi e ragione, “il miracolo che di due esseri complementari fa un solo essere armonioso”. Ma questa ideale ricomposizione, se per un verso richiama l’unità a due dell’origine (appoggiandosi perciò all’esperienza femminile della maternità), dall’altro è il mito che l’uomo ha costruito per ricongiungere ciò che la sua stessa storia ha diviso: natura-cultura, corpo-mente, maschile-femminile. La figura dell’androgino, presente nei miti e nelle fantasie originarie di ogni individuo, è congiungimento di maschile e femminile dove però il polo dominante è maschile, lo spirito che prende corpo (come del resto nel mito cristiano).
Lo svelamento che l’Aleramo opera rispetto al sogno d’amore è perciò doppiamente interessante: perché sottrae al silenzio e all’insignificanza storica, in cui è stata lasciata la vita intima, una vicenda come l’amore, che interessa tutti gli umani ma che è stata identificata con la donna, madre e amante (corpo erotico, corpo che genera). Calandolo nella mischia l’Aleramo lo sposta sulla scena storica, nella vita pubblica, lo può additare non più solo come fatto privato ma come sentimento umano. Nella vicenda autobiografica costringe a vedere il tracciato di una storia generale non ancora indagata come merita.
Mostrando il sentire della donna, le sue illusioni, le sue attese, nel rapporto d’amore, rivela contemporaneamente anche la parte che vi ha l’uomo; perché, portato alla luce, il sogno d’amore si lascia guardare, analizzare, e quello che si può vedere è che l’idea di felicità agisce su vari piani (non solo nella relazione amorosa), impronta esperienze diverse: i miti dell’infanzia, che vogliono ricomposti i volti di un padre e di una madre (la “divinità duplice”), l’idea di interezza del proprio essere (corpo e mente) e di interezza riportata sulla civiltà (riunificazione dei due rami divisi dell’umano) che finora è stata segnata solo dall’uomo; la rappresentazione del fare creativo. Ma soprattutto, quello che appare chiaro, è che il sentimento d’amore, in tutte le sue forme, se poggia per un verso sull’esperienza originaria (la nascita) è comunque dalla storia dell’uomo (dalle sue paure, dai suoi desideri, dalle separazioni, differenziazioni che ha imposto) che prende forma, come ricomposizione sul polo maschile. Questo spiega perché l’Aleramo dice di sé di sentirsi come Adamo che aspetta che gli sorga a fianco Eva; fa capire perché il suo incessante sforzo autocreativo diventi, per larga parte della sua vita, fino all’ultimo “amore” per Franco Matacotta, figlio e amante, impegno di energie proprie per far crescere l’individualità dell’altro, linfa vitale che si travasa nell’altro, lasciandola ogni volta senza vita propria. Finché non le diventa chiaro che la maternità come sacrificio di sé, impronta tutta l’esperienza delle donne: l’amore, l’impegno sociale, la creatività artistica, costringendole a riporre la loro grandezza e il loro potere nel rendersi indispensabile all’altro, illudendole di poter “foggiare se stesse foggiando l’altro”. (10)
Questo svelamento (o “presa di coscienza”) avviene ovviamente nella vita, ma è la scrittura dei Diari che lo trattiene e lo prepara. È lì che si dà, in modo evidente, questo andirivieni tra illusione, rapimento e lucidità di analisi, tra smarrimento nell’altro e ritorno a sé. Mentre nel romanzo Una Donna l’Aleramo costruisce l’immagine idealizzata di sé - umanità in cammino, terra fertile, fecondante per la sterile libertà dell’uomo - nei migliaia di foglietti che scrive a margine annota lucidamente la centralità dell’uomo, della sua visione del mondo, la sua incuranza per l’anima femminile, la riduzione della donna a equilibrio organico (il corpo che lo nutre, lo riscalda).
“Poco fa guardavo lui che scriveva: egli non può darmi ciò che mi manca. Ma io posso dare a lui, che possiede il genio, la limpida pace che gli permetta di non smarrirsi mai nell’interpretazione della vita. Io debbo stargli accanto, io ho una ragione di esistere anche se non posso individualmente tradurre pensieri e sensazioni”. (11)
“Voi siete i forti perché tutto vi è facile, perché nulla vi costa sforzo, perché la vostra forza non la spendete... io che ho voluto dar voce alla mia lingua muta, che ho voluto portar fardelli, più gravi del mio stesso peso... io sono la debole, perché tutta questa lunga immane fatica mi mette infine alla vostra mercé, di voi... che ignorate l’atto del rialzarsi e del proseguire dopo essere stati colpiti”. (12)
“Non hai bisogno della mia anima... mi dicevo guardandolo dormire... e perché dovresti accorgerti che soffre? Hai la tua da alimentare, da conservare, da difendere. Ci credi uno e siamo due. Sei tu al centro del mondo, tu con la tua visione ormai immobile nella casa ben salda della tua mente. Ti mancava soltanto questo, povero bimbo grande, l’equilibrio organico, e con me l’hai ottenuto. Riposi così tutte le notti con la mano sul mio cuore: e ti basta il suo bel respiro. Tale è il tuo amore, senza struggente sete di dedizione, senza voluttà di sconfinamento. Non sai la vertigine di me che sono pronta a sparire se tu lo voglia, se debbo farlo, se lo esige la tua missione, il tuo maggior bene. Questo annegare lucido del mio essere... Confondermi volevo con il tutto e son da tutto così staccata!”. (13)
A un certo punto i due percorsi, quello che va più aderente al modello interiorizzato
l’immagine androgina, il sacrificio materno, il potere del rendersi indispensabile - e quello che registra scostamenti, resistenze, insediamento in una individualità propria, quell’”autonomia dell’essere femminile”, che può apparire all’inizio “tragica”, perché allontana da tutto ciò che si è amato e in cui si è creduto, finiscono per convergere.
Mentre sta scrivendo il secondo Diario, l’Aleramo costata di non riuscire più a scrivere poesia, perché in quello sforzo di convogliare tutta la sua esperienza nell’atto creativo - bruciare una materia di sentimenti, pensieri, per arrivare all’incandescenza della mente - si era sentita via via cancellare dalla vita.
È a quel punto che parla di una “sotterranea seconda vita” che non può essere tradotta in poesia. È il diario invece che può raccoglierla, sopportando che l’altalena di estasi e gelo, che era stata la sua scrittura d’amore, diventi l’annotazione quotidiana di una “mestissima libertà”, un’armonia, un ordine che non ha più bisogno di appoggiarsi alle figure del maschile e del femminile.
Nell’Aleramo è evidente che il narrarsi è stato, forse è ancora, un percorso obbligato per la donna che non voglia affacciarsi alla scena storica come un duplicato dell’uomo; difficile è inoltre sottrarre la narrazione di sé alle vicende con cui è stato identificato il femminile - l’amore, la maternità, la sessualità. Ma è anche narrandosi, mostrandosi a se stessa e agli altri nei suoi sogni, nei suoi contraddittori desideri (“come s’io sognassi”) che la donna può cominciare a costruirsi come individualità, fuori dagli stereotipi di genere, da modelli imposti. Paradossalmente si può affermare che la narrazione di sé - come modulazione consapevole di un pensiero, delle sue radici in un corpo, in un sesso, in una storia personale - porta fuori dell’autobiografismo obbligato, ritenuto “connaturato” al femminile.
Il paradosso della ripetizione
La vicenda amorosa si modella sempre su due poli contrapposti: il rapimento (illusione, estasi), la delusione (il gelo) cui segue la lucidità dell’analisi. All’origine: il rapporto idealizzato di lei bambina col padre, e di lei donna col figlio (l’aspetto originario dell’amore come fusionalità). La “ridda” degli amori successivi appaiono come la ripetizione o la ripresa di quella vicenda originaria, fino all’ultimo amore che, riproponendo la figura della madre e del figlio, svela anche gli altri.
Alcuni passaggi
Una donna: dopo l’estasi, fusione col figlio, la constatazione di essersi immolata per lui; segue la rinascita di un sé ideale, la missione rigeneratrice della donna. Ma anche l’incontro con l’uomo che sostituisce nell’amore il figlio (Damiani, Cena ) la lascerà delusa. Alla passione subentra presto l’abitudine. Nella donna l’uomo cerca solo il suo equilibrio organico.
“In verità, al di fuori della somma di energie ch’io spendevo attorno al bambino, era in me un’incapacità sempre maggiore di vedere, di volere, di vivere: come una stanchezza morale si sovrapponeva a quella fisica, lo scontento di me stessa, il rimprovero della parte migliore di me che avevo trascurata... In me la madre non si integrava nella donna”. (14)
“Perché avevo pensato tanto naturalmente alla morte quando mio figlio era in pericolo? Non esistevo io dunque indipendentemente da lui, non avevo, oltre al dovere di allevarlo, oltre alla gioia di assisterlo, doveri miei altrettanto imperiosi? “(15)
“Perché nella maternità adoriamo il sacrificio? Donde è scesa a noi questa inumana idea dell’immolazione materna?”. (16)
“Mia creatura, mi diceva, eppur talora si dissolveva come un bimbo fra le braccia della madre al buio”. (17)
“Sensazione costante della donna moderna della propria sopravvivenza: esteriore aggraziato che implica debolezza e schiavitù, impulsi intimi di dedizione, compiacenza nel donarsi e nel far felice l’essere amato anche senza gioia propria”. (18)
Dovremmo tutti leggere Aleramo
di Lea Melandri (Comune-info, 17 Gennaio 2019)
[...]
Boccioni
Il rapporto con Boccioni è particolarmente rivelatore. L’”uomo forte” che rifiuta le sue spinte fusionali, che non si lascia plasmare, la costringe a ripensarsi, a reinterrogare il suo bisogno di gioia, il vuoto, la ferita d’amore, l’orfanità che si nasconde dietro la potenza materna. Ma rivelando se stessa rivela anche l’uomo che trova il suo equilibrio nella complementarità dei ruoli.
“Avete passato molto, troppo tempo a comunicare forza e coraggio a esseri malcostrutti, corrosi all’interno e indecisi all’esterno... Vi siete cullata in un’introspezione, in un’analisi corrosiva cercando di comunicare ciò che non è comunicabile cercando di condividere ciò che deve restare indivisibile personale individuale fino alla ferocia. Avete creduto che aggiungendo la vostra personalità a un’altra scaturisse un’unità... Errore gravissimo... Ci vuole una grande idea e lavorare per quella unilateralmente. Mentre vi scrivo mi vengono a fior di mente mille problemi di vita interna, angoscie, possibilità, fusioni, affinità, passione, sacrificio ed altre belle cose... Butto tutto dalla finestra con disgusto”. (19)
“C’eravamo visti, avevamo chiacchierato, c’eravamo amati, andava finché andava... senza altre complicazioni... tu invece vedi doppio, vedi fantastico, terribile quello che è chiaro limpido sereno, transitorio... Vedi che ti parlo sinceramente come non ti hanno parlato forse tutti gli altri. O forse lo hanno fatto, ma in loro cuore avevano il bacillo dell’amore unico, turbinoso, che fonde, innalza, e al quale io non credo. Infatti Papini ha moglie, Gerace la prende e tentativi di collage hanno fatto altri che tu sai e che io non nomino. Io non posso amare nessuna donna. Ho delle grandi tenerezze ma mi guardo bene di entrare nella vita della donna che incontro. Se vi entrassi sarebbe troppo da padrone, insaziabile e ingiusto senza risultato... tutte le donne che ho amato appartenevano ad altri... Che cosa può interessarmi tutta la complicazione interna quando in questi giorni le forme e i colori mi appaiono incerti?“. (20)
“Hai parlato sul serio della mia troppa aderenza alla vita... Sì, sono donna, sono umana. Tutto ciò che la mia intelligenza ha riconosciuto dacché s’è destata, tutto ciò che il mio spirito ha dominato, non impedisce alle mie fibre di mantenersi materne, non impedisce che io abbia un senso di calore e di tenerezza e di rispetto per tutto quanto è vita semplice, vita genuina... Può darsi che ci sia davvero qualcosa alla fin fine di ripugnante in questo mio pertinace naturalismo... O questo risultato tocca i tuoi nervi più che altro per un di quegli apriorismi che in altre circostanze condanni? -Disprezzo della natura? Amico mio! Ma il giorno in cui io entro nel tuo studio e trovo la tua giovinezza creatrice e ti ascolto parlarmi di forme... e tu mi conduci davanti a tua madre, bella mentre ti prepara la cena, e l’abbracci perché ti dico che è bella, amico, dove pensi tu che io distingua fra arte e natura, fra spirito e sangue? Io ho in quel giorno di te un senso totale... E tu mi hai amata proprio per la mia sensibilità, per la mia assurda passionalità, per il mio ingenuo, credulo e mai stanco cuore. E le mie virtù sono forse due sole, la sincerità e il coraggio”. (21)
“Grazie di tutte le vostre lettere... anche troppe... siete incorreggibile! Non fate la donna cataclisma o ciclone o epidemia... Siate ragionevole e non infantilmente e letterariamente esaltata”. (22)
“Tu sei al mondo per dipingere e per scolpire, io sono al mondo per comprendere... La sola realtà è che esistiamo io e te... io e te, soli”. (23)
“Nessuno mi ha mai vista dormire. Ho vegliato io tanti sonni...quante vite ho respirato! Lo sai che sei il solo uomo forte che ho incontrato? Era necessario che io mi foggiassi illudendomi di foggiare altrui, ch’io mi accanissi come tu mi hai scritto, a costruire su sabbie mobili: cercavo unicamente me stessa”. (24)
“Ho tanto bisogno di gioia!Mi tendo alla gioia come una appena nata...In queste ultime settimane m’ero riaggrappata alla vita, perché speravo di ritrovarti..-Che vale l’orgoglio? Perché mentire? Senza amore non si vive. Ti amo...Ho bisogno di te...Tu non piangi, è vero, mentre io ho ore come queste...Ma non è inferiorità la mia...sono donna, sono una madre che ha perduto il figlio, sono la bambina che è stata violata inconsapevolmente...quando piango è tutto il mio passato ch’io ho -vinto che si vendica”. (25)
““La mia amicizia vi deve bastare non so cosa dirvi mia buona amica se non: lavorate”. (26)
Matacotta
Il sogno d’amore si può porre come fusionalità, unione di due esseri in uno, osmosi reciproca, solo finché è tenuto fuori della storia, nel sogno. Portato nei rapporti reali diventa evidente il sacrificio materno. È nel rapporto col giovane Matacotta che il sogno d’amore, proprio perché torna a modellarsi sui protagonisti dell’origine (madre e figlio), sembra per un verso avvicinarsi di più alla fusione con l’altro, per l’altro invece lascia allo scoperto la “schiavitù” che si nasconde dietro l’istinto di grandezza della donna madre, la pretesa di infanzia per sé che si nasconde dietro il prodigarsi per l’altro. Al “gelo” e all’”estasi” della passione amorosa subentra il “mesto e lucido sguardo”, Sibilla comincia a ricostruire la sua individualità, il “fastidioso obbligo di vivere per sé”.
Negli ultimi anni a sorreggerla sarà “l’amore per l’idea”, la “lotta insieme ai compagni”, ma l’impegno politico di Sibilla resta sfocato. Nel Diario Sibilla parla di una “sensazione di ordine, di intima onestà e armonia”, di una “vecchiaia limpida e serena”, che richiama la sua giovinezza “limpida e gagliarda”. Ma l’armonia non è più il frutto dell’istinto di grandezza, dello sforzo titanico di comporre gli opposti; al contrario è un senso di “ricchezza” e di “verità” che si dà solo decantando i poli della dualità.
“Che cosa vuoi tu, per me... Ch’io mi liberi da tutte le contingenze e mi dissolva infine negli spazi come musica e come luce... O prepari per me, in codesto silenzio sacro come quello che precede l’alba nei cicli, un nuovo stato inaudito, dov’io appena mi riconoscerò, tanto sarò alleviata da ogni ansia?“. (27)
“Cos’è quest’affetto per lui più forte del mio istinto vitale? Il mio istinto mi dice che devo riconquistarmi, che devo avere la forza di lasciarlo mentre ancora m’ama... Ma l’immagine dei giorni che verranno per me senza di lui... di libertà totale, libertà, silenzio, lenta creazione in me stessa di vita esclusivamente mia, questa immagine mi atterra, mi stempera, come dinanzi a un cadavere”. (28)
“Ho bisogno di essere necessaria a un’altra creatura viva per vivere. Questa è la mia verità. Quando Franco era qui, fino a quell’ultima settimana di esasperazione crudele, mi pareva a tratti, l’ho già detto, che la sua partenza mi sarebbe stata di sollievo, mi pareva d’anelare alla solitudine e alla libertà, e che ritrovandole, quelle mie antiche compagne, avrei ripreso a lavorare... Ma appena rimasta sola ho compreso. Ecco, l’amore è questo: l’attaccamento a una persona alla quale ci si crede necessari. L’amore nella donna, almeno, e in quegli uomini nei quali predomina l’elemento femminile. Per otto anni io ho dato tutto di me a Franco... ho compiuto quest’atto, sacrilego dal punto di vista della individualità, perché amavo quel fanciullo che cresceva della mia sostanza... morivo e rinascevo in lui ogni giorno, felice e infelice, ma ubbidendo a una sorte, a una legge, e anche, sì, a una musica, a un’armonia misteriosa, di là d’ogni contrasto”. (29)
“Ero tornato, ma potevo anche ripartire o soltanto scendere, senza dirle più dove andavo, andare sulla strada, o più lontano per una mia cosa qualunque, forse una donna. Quant’era facile questa parte di figlio. E che agio estremo muoversi come figlio in quella stanza piena della sua intelligenza serena di madre, solo che lei madre si rassegnasse a riconoscersi”. (30)
Sibilla e il femminismo
Anticipatore è anche il giudizio che Aleramo dà sul femminismo di inizio secolo, un giudizio a posteriori, poiché ai primi del Novecento è ancora orientata a cercare l’armonia fra i rami divisi del tronco umano, “divina funzione della donna”. Il femminismo nasce dalla coscienza di un “malessere diffuso e oscuro”, ma subito per fretta e per paura sceglie altre strade. L’emancipazione viene intesa come gara materiale con l’uomo, imitazione ed emulazione dell’uomo. Sibilla riconosce che è “logico e giusto” che la donna pretenda “un uguale compenso ed un uguale rispetto”,”gli stessi diritti civili e politici”, visto che ha dimostrato di saper resistere come l’uomo alle “fatiche manuali e intellettuali”. Ma sa anche che tutto questo “avviene specialmente per forza di cose, e forse spesso contro lo stesso desiderio intimo della donna”, “è il prodotto dei tempi, della civiltà industriale e democratica, non della rivoluzione”. (31)
È interessante allora capire che cos’è questo desiderio intimo della donna, se non è proprio da lì che nasce il malessere oscuro e quindi la spinta al cambiamento. Sicuramente ha a che fare con “l’atavismo muliebre”, la difficoltà a rinunciare a “prerogative antiche” (quella, per esempio, che l’ha vista al centro della casa), ma va messo in relazione anche col fatto che la donna si è accontentata finora di una rappresentazione del mondo fornita dall’intelligenza maschile, aprioristicamente ammessa, poi compresa per virtù d’analisi. Questo sforzo per adattare la propria intelligenza a quella dell’uomo ha impedito alla donna di ascoltare se stessa, di dire ciò che sentiva, intuiva, di ascoltare i comandi del suo organismo e della sua psiche, trovare in sé elementi di genialità.
L’individualità femminile - sensi e ragione - è perciò ancora da costruire, come ricerca di una “interiore autonomia”, sapendo che questo risveglio sarà molto doloroso perché vuol dire prendere distanza da tutto ciò che esse hanno amato e in cui hanno creduto: “tragicamente autonome”. Tanto che l’Aleramo si chiede se “l’esser desta” non si prospetti più triste del “lungo sonno”. Per questa costruzione di sé era necessario però non avere fretta né paura, ma “saper sostare prima alquanto e interrogarsi”.
Infine, una notazione sul linguaggio: i nomi, dice Sibilla, di cui ci serviamo per tutte le cose sono stati creati da altri, tutti i nomi, per sempre, ma quel che importa non è nominare, è mostrare le cose, con il linguaggio che ci è dato. Si potrebbe dire che Sibilla ha mostrato l’”innominabile”.
Note
1) Sibilla Aleramo, Un amore insolito, Feltrinelli 1979, pag.125.
2) Sibilla Aleramo, Una donna, Feltrinelli 1979, p. 183.
3) Sibilla Aleramo, Un amore insolito, cit., pag.21.
4) Sibilla Aleramo, Diario di una donna, Feltrinelli 1980, pag.263.
5) Ibidem, pag. 441.
6) Sibilla Aleramo, Andando e stando, Mondadori 1942, pag.126.
7) Sibilla Aleramo e il suo tempo. Vita raccontata e illustrata a cura di Bruna Conti e Alba Morino, Feltrinelli 1981, pag. 84.
8) Ibidem, pag. 142.
9) Ibidem, pagg. 179-180.
10) Sibilla Aleramo e il suo tempo, cit.,pag. 100.
11) Sibilla Aleramo. La donna e il femminismo.,Editori Riuniti 1978, pag.170.
12) Ibidem, pag.178.
13) Sibilla Aleramo, Il Passaggio, Mondadori 1932, pagg.115-116-117.
14) Sibilla Aleramo, Una donna, cit., 74-75.
15) Ibidem, pag.143.
16) Ibidem, pag. 182.
17) Sibilla Aleramo, Il passaggio, cit., pag.95.
18) Sibilla Aleramo. La donna e il femminismo, cit., pag.176.
19) Sibilla Aleramo e il suo tempo, cit., 89.
20) Ibidem, pag.89-90.
21) Ibidem, pag.83.
22) Ibidem, pag. 90.
23) Ibidem, pag.100.
24) Ibidem, pag.100.
25) Ibidem, pag. 10-103.
26) Ibidem, pag.104.
27) Sibilla Aleramo, Amo dunque sono, Mondadori 1982, pag.42.
28) Sibilla Aleramo, Un amore insolito, cit., pag.46.
29) Ibidem, pag. 291.
30) Sibilla Aleramo e il suo tempo, cit., pag.283.
31) Sibilla Aleramo. La donna e il femminismo, cit., pag.181.
MARX, IL "LAVORO - IN GENERALE", E IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE - IN GENERALE".... *
L’alienazione come concetto da ridiscutere
A proposito dell’ultimo numero di «La società degli individui», a cura di Ferruccio Andolfi e Giovanni Sgro’
di Marco Gatto (il manifesto, 11.01.2019)
Il quadrimestrale di filosofia e teoria sociale La società degli individui dedica il suo ultimo numero a una rilettura del tema dell’alienazione depositato in quel testo tanto importante quanto discusso che è la raccolta dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Karl Marx. Ferruccio Andolfi e Giovanni Sgro’, nelle pagine introduttive, spiegano perché sia necessario ripensare adeguatamente il Marx umanista, dopo una lunga stagione che, da più versanti, ha inteso ribadire la centralità del Marx scienziato dell’economia, allestendo così una scissione assai problematica nell’opera del Moro che è alla base anche del più recente dibattito storiografico e filosofico.
Per i curatori, che si riallacciano a una più generale ripresa del concetto di alienazione proveniente da pensatori quali Axel Honneth e Rahel Jaeggi, ma che ne considerano la problematicità sia nel suo crinale critico-negativo, sia in quello propositivo di ripensamento della centralità individuale, gli attuali «fenomeni di spossessamento del sé continuano ad attirare l’attenzione anche dopo il superamento delle ingenuità utopico-essenzialiste» ormai date per scontate nel cammino riflessivo di Marx.
DEL RESTO, se è vero che il capitalismo contemporaneo produce forme di vita devote alla superficie o a uno sradicamento del concreto verso i registri distorsivi dell’astratto, che sovente sposano l’interezza delle retoriche neoliberali sul lavoro, una riflessione sulle nuove modalità di estraneazione sembra farsi all’ordine del giorno. Quelle oggi concepite come patologie sociali possono comunque definirsi attraverso concetti che rappresentano una dislocazione, una dissociazione dell’individuo dall’ambiente sociale, e dunque un suo autonomizzarsi dai legami; nello stesso tempo, questo distacco presuppone, per alcuni, una positiva esperienza critica e dunque l’apertura a una nuova modalità di conoscenza ed esperienza: una doppia accezione, insomma, che rende problematico il quadro filosofico legato al concetto di alienazione.
IL NUMERO è assai denso; i contributi - a firma di Mario Cingoli, Marcella D’Abbiero, Enrico Donaggio, Roberto Fineschi, Paulo Denisar Fraga, Stéphane Haber, Stefano Petrucciani, Eleonora Piromalli, Yvon Quiniou, Emmanuel Renault e Massimiliano Tomba - problematizzano le questioni rilevandone diversi gradi di prospettiva; non manca una riflessione, allestita da Sgro’, sull’interpretazione che dei Manoscritti avevano offerto Herbert Marcuse ed Erich Fromm, dei quali il numero presenta due scritti sul materialismo storico e sul socialismo. È ovviamente legata a questa riconsiderazione critica del Marx umanistico la proposta, messa in campo ancora da Andolfi e Sgro’, di una nuova edizione commentata dei Manoscritti, appena uscita presso l’editore Orthotes, e calibrata sulla nuova Marx-Engels-Gesamtausgabe, con un testo di accompagnamento assai puntuale che guida la lettura passo dopo passo.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
COSMOLOGIA E CIVILTÀ. "PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA" DELLA RAGIONE ATEA E DEVOTA
KARL MARX RISPONDE A SALVATORE VECA, PRENDE LE DISTANZE DA ENGELS E RENDE OMAGGIO A FULVIO PAPI.
"PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA" DELLA RAGIONE ATEA E DEVOTA ...
VICO E MARX CONTRO LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITÀ POMPOSA.
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".... *
Una ribellione diversa
di Lea Melandri *
Sabato 12 gennaio si terrà a Milano, nella Casa della donne, l’assemblea di “Non una di meno” in preparazione dello “sciopero delle donne dell’8 marzo“.
Una giornata di sciopero delle donne ha un evidente significato forte per diversi motivi.
Sovverte un ordine che, dato come “naturale”, ha permesso di protrarre per secoli il dominio di un sesso sull’altro, la consegna delle donne al ruolo di madri, mogli, figlie, sorelle “di”, custodi della famiglia e della continuità della specie; la cura e il lavoro domestico possono finalmente essere visti per quello che sono sempre stati: “un grande aggregato dell’economia” (per dirla con Antonella Picchio), il sostegno materiale, psicologico, affettivo all’impegno “civile” dell’uomo.
“Per secoli - come scrive Virginia Woolf - le donne sono state gli specchi magici in cui si rifletteva la figura dell’uomo raddoppiata. Senza questa facoltà, la terra probabilmente sarebbe ancora palude e giungla”. Questi specchi sono stati “indispensabili ad ogni azione violenta ed eroica”.
Favorisce la presa di coscienza che “vivere per l’altro e attraverso l’altro” è stata la conseguenza dell’espropriazione di esistenza propria che le donne hanno subito, asservimento dei loro corpi e dei loro pensieri, cancellazione del loro tempo, confuso con l’immobilità delle leggi naturali.
Afferma visibilmente, con migliaia di presenze nelle strade e nelle piazze, che le “porte di casa”, le solitudini “private”, si aprono solo attraverso la costruzione di una socialità inedita tra donne, fatta di amicizia, amore, azione, intelligenza di sé e del mondo sottratta a modelli imposti e interiorizzati;
Lo sciopero delle donne, inoltre, porta allo scoperto la cultura e le pratiche politiche che fanno del femminismo la “rivoluzione più lunga”, ma anche la più “radicale” nello svelamento del sessismo - eterosessismo, superiorità maschile, ecc.- come fondamento di tutte le forme di dominio, servitù, violenza, disuguaglianza, che la storia ha conosciuto finora.
Denunciare, infine, la violenza maschile contro le donne in tutte le sue forme manifeste o invisibili, non deve impedirci di fare dell’8 marzo 2019 una giornata di lotta “creativa”.
Per tutte queste ragioni, mi sembra importante che ci poniamo alcune domande.
Su che posto riusciamo a dare nel nostro agire politico alla soggettività - l’esperienza, il vissuto delle singole donne (ragioni, ma anche sentimenti, sogni, pregiudizi, ecc.) - senza la quale è difficile avviare processi di identificazione necessari all’allargamento della rete e della sua azione.
Su come riprendere, in quella giornata, alcuni punti essenziali del Piano contro la violenza, in modo particolare per quanto riguarda la violenza in ambito domestico e il rapporto della cultura femminista con la scuola.
Su come evitare la sorte toccata ad altri movimenti, quando hanno creato un linguaggio e modalità di militanza chiusi e comprensibili a poche attivisti, finendo per diventare “fortezze nel deserto”.
Su come mantenere e approfondire i collegamenti internazionali senza perdere la specificità della situazione italiana.
* Insegnante, giornalista, scrittrice e saggista, riferimento per il movimento delle donne italiano. Tra i suoi libri: L’infamia originaria; Come nasce il sogno d’amore; Le passioni del corpo. La vicenda dei sessi tra origine e storia; La perdita; Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà. Altri suoi articoli sono leggibili qui.
* Comune Info, 10 gennaio 2019 (riproduzione parziale - senza immagini).
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO ---- UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
LE PAROLE DEL SESSANTOTTO: RIVOLUZIONE
di Guido Mazzoni (Le parole e le cose)
Il Sessantotto è stato due cose diverse, due cose che per circa un decennio sono apparse indistinguibili, ma che in seguito si sono progressivamente separate.
1. È stato l’ultimo episodio dell’età delle rivoluzioni sociali moderne, quelle fondate sull’idea di giustizia distributiva e sulla secolarizzazione della teodicea, cioè sull’idea che il male abbia una causa storica e umana sulla quale la politica può intervenire costruendo una società nuova.
È un’epoca scandita da una sequenza di date allegoriche: 1789, 1848, 1871, 1917. Il 1968 rappresenta l’ultima cifra della serie; chi è sceso in piazza e ha occupato le università dell’Europa occidentale lo ha fatto con bandiere, striscioni e slogan che rimandavano a quella sequenza. L’utopia di fondo cui questo Sessantotto si richiama è il comunismo. Contro il modello fallito del socialismo reale il movimento recupera il mito della Comune, dei Soviet, dei consigli operai. A queste forme alternative di gestione della cosa pubblica, a queste scene deliberative del passato si ispira la più importante scena deliberativa del Sessantotto: l’assemblea. Benché il movimento sia nato come mobilitazione di studenti di origine borghese, il soggetto politico cui questa parte del Sessantotto guarda rimane lo stesso del comunismo storico: il proletariato, e in particolare l’operaio maschio.
Nel corso degli anni Settanta la concezione del proletariato cambia; alla classe operaia di fabbrica si affianca il proletariato sociale, diffuso, ma il significante-guida non muta. Il proletariato è la classe universale, come dice Marx, quella che, difendendo i propri interessi particolari, lavora per abolire lo sfruttamento di tutti, la divisione in classi, l’alienazione, e per consentire a ognuno di esprimere pienamente la natura umana nella sua interezza. Scopo ultimo è l’uscita della specie dalla preistoria, dall’epoca millenaria nella quale gli individui hanno agito come automi mossi da un potere estraneo, e non come soggetti liberi.
Gli elementi preistorici che il Sessantotto vuole abbattere sono la gerarchia (l’idea che ogni sistema sociale comporti necessariamente dei rapporti di subalternità), l’alienazione del lavoro (il lavoro salariato moderno come equivalente capitalistico del lavoro degli schiavi) e l’isolamento (l’idea che il capitalismo spezzi ogni forma di solidarietà separando le persone e mettendole le une contro le altre). Le più importanti parole d’ordine del Sessantotto - il rifiuto dell’autorità, il rifiuto del lavoro alienato, il rifiuto dell’individualismo borghese - provengono da questo nucleo.
2. Il Sessantotto è stata una rivoluzione interna alle società capitalistico-liberali. Ha ridefinito i rapporti fra le età della vita, il rapporto con l’autorità genitoriale e pastorale, il rapporto fra i sessi, il rapporto col sesso e col corpo, l’ethos, l’habitus, i costumi, la relazione fra Super-io e Es. Lo spirito di questa rivoluzione è libertario, privato, individualistico e anarchico: anarchico nel senso lato e etimologico di an archè: assenza di governo, di autorità originaria. Il Sessantotto segna il passaggio da una società borghese superegotica, ancora legata a un ethos religioso palese o secolarizzato, fondata sull’ascesi intramondana, sul controllo di sé e degli altri, sull’etica del sacrificio, su un a priori in cui le norme collettive di comportamento contano molto e l’individuo vive sotto lo sguardo degli altri, a una società che funziona bene, anzi meglio, senza questa corazza - una società che ha ancora una struttura di fondo di tipo borghese, ma che ha reso autonomi alcuni comportamenti privati. Se il tempo di lavoro resta organizzato secondo i principî severi della razionalità strumentale, gli stessi che dominano il capitalismo, l’esercito o la burocrazia, il tempo libero sfugge a un occhio collettivo regolatore e diventa sempre meno disciplinato nelle scelte personali e nei costumi. Questa rivoluzione è stata per lo più vissuta come un’emancipazione: pochi vorrebbero tornare indietro, sicuramente non io.
Per alcuni aspetti tutto questo coincide con l’immagine dell’emancipazione presente nei testi fondamentali del marxismo, e tuttavia è molto diversa dall’idea marxista classica di giustizia sociale: si articola in modo diverso, parla a soggetti sociali diversi, ma soprattutto è compatibile col capitalismo, ne è anzi un portato, una conseguenza. Se si definiscono la destra e la sinistra sulla base dei parametri che valgono per l’età delle rivoluzioni sociali, la rivoluzione libertaria non è, in linea di principio, né di destra né di sinistra - e infatti, a partire dagli anni Ottanta, circola in versioni di sinistra e in versioni di destra. -La tesi che Berlusconi sia il compimento del Sessantotto (Perniola, Magrelli, e prima di loro Žižek), provocatoria quanto si vuole, coglie un dato reale. Il Sessantotto annuncia una metamorfosi interna alle società capitalistiche, la sostituzione della vecchia borghesia perbenista con una nuova middle class obbediente sul lavoro ma anarcoide nel privato. Aron, Lasch e Pasolini in tempo reale, Houellebecq e Boltanski-Chiapello trent’anni dopo l’hanno detto molto chiaramente. Lo spirito del Sessantotto è diventato parte della nuova società di massa nata dalla mutazione antropologica e parte del nuovo spirito del capitalismo, che concede, in forma privata e diluita, alcune di quelle conquiste che il comunismo prometteva come risultato di una rivoluzione sociale collettiva. Le concede a patto che non si tocchino il funzionamento del sistema, che non si immagini una società diversa.
In questo senso lo spirito del Sessantotto libertario è diventato parte fondamentale del sistema di governo contemporaneo. Ciò non significa che le sue conquiste non siano tali: lo sono. Lo sono all’ombra di una struttura di potere che, nelle sue grandi architetture, rimane intonsa. Sono conquiste, ma non portano là dove il primo lato del Sessantotto pensava che portassero.
E tuttavia hanno cambiato la vita di miliardi di persone, hanno permesso alle donne e alle persone omosessuali di acquisire libertà e diritti, hanno prodotto la più grande ridefinizione dei rapporti fra i sessi e fra le generazioni che la storia umana abbia conosciuto. Sono oggettivamente rivoluzionarie, producono forme di giustizia, ma rimangono estranee al progetto di una rivoluzione fondata sull’idea di giustizia sociale che era alla base del primo Sessantotto, sia perché frantumano le solidarietà universali valorizzando le differenze, sia perché esaltano gli individui e rendono difficile accettare quella componente di alienazione che è necessaria per agire collettivamente, sia soprattutto perché accettano il capitalismo, danno ragione alla sua capacità di creare spazi di libertà privata, di emancipazione individuale. La versione liberal di questo secondo Sessantotto ha rinunciato a un’idea che per il primo Sessantotto era ovvia e decisiva: che la rivoluzione vera è quella che abolisce lo stato di cose presente, non quella che si limita a creare spazi di autonomia al suo interno.
La prima rivoluzione ha perso. O meglio: è stata usata, in Francia, in Italia e in Germania, da forze che il movimento del Sessantotto non amava, i sindacati e i partiti della sinistra tradizionale, per ottenere alcune classiche conquiste socialdemocratiche, per raggiungere risultati straordinari che col tempo si sono rivelati insostenibili nel nuovo assetto neoliberale generato dal capitalismo negli stessi anni del lungo Sessantotto. La verità è che il primo Sessantotto doveva fallire, era necessario che fallisse o che diventasse altro. La sua utopia, che poi è l’utopia comunista, contrasta con i meccanismi di funzionamento delle società moderne, estese nei numeri e nello spazio, differenziate, culturalmente plurali, fondate su una divisione del lavoro capillare e su una costitutiva alienazione. Gli unici meccanismi di gestione degli aggregati umani che società simili ammettono sono lo Stato e il mercato. Questi ultimi sono forme della tecnica, dispositivi della razionalità strumentale consustanziali alla modernità. Il sogno delle comuni, dei soviet, delle assemblee è illusorio. Il campo delle possibilità politiche reali, durevoli, oscilla fra gli estremi del liberismo puro e del socialismo reale, con in mezzo svariate forme di Welfare State, di socialdemocrazia o di cristiano-democrazia. Tutto il resto non può durare. Nessuno potrà mai eliminare la gerarchia implicita nei meccanismi statuali e mercantili, o la divisione del lavoro, o la separazione del mondo comune in mondi particolari, o l’antitesi fra interesse pubblico e interesse privato, o la necessità del lavoro obbligato, il ponos, il labor, il lavoro che, potendo scegliere, non si vorrebbe fare. Nessuno potrà governare uno Stato (o un comune, o un quartiere) in modo assembleare o pianificare l’economia in ogni suo aspetto, o abolire le mille forme di comando, di soggezione, che sono necessarie perché ci sia ordine e le forze produttive si sviluppino.
Invece la seconda di queste rivoluzioni ha vinto. Ha cambiato la vita delle masse, ha portato con sé delle conquiste cui oggi non vorremmo rinunciare. Ha anche comportato la crisi della politica come utopia, la fine dell’illusione che si potesse uscire dalla preistoria. La prima rivoluzione andava contro lo Zeitgeist, che è poi il nome con cui indichiamo la connessione impersonale delle cose; l’altra lo assecondava. Tutta la mia simpatia va alla prima. La gerarchia, l’alienazione, l’isolamento che abbiamo accettato dopo la fine dell’età delle rivoluzioni, in cambio di una sfera preziosa di benessere e autonomia privata, frustrano alcuni desideri umani profondi e non meno reali del principio di realtà che ce li fa considerare delle illusioni. Una volta fallita l’utopia, la scissione fra desiderio e realtà rimane aperta e lascia spazio a tonalità emotive cariche di realismo, disincanto, rinuncia e impliciti segni-meno: la felicità o più spesso la tranquillità privata, l’ironia, il fatalismo, il cinismo, il disagio, il risentimento, la malinconia, la nostalgia, la tragedia o una disperata vitalità. Oggi siamo attraversati da queste Stimmungen, ne adottiamo una o un’altra a seconda di come siamo collocati nello spazio sociale o a seconda del temperamento, le sovrapponiamo e le cambiamo nel corso degli anni o della giornata. Possiamo immaginare che lo stato di cose presente crolli nel disordine, come nei racconti della nostra fantascienza distopica, ma non abbiamo più alcuna utopia paragonabile a quella che animava l’età delle rivoluzioni. Nessuno pensa che un altro mondo sia possibile. Nessuno ci crede più veramente.
Per un Marx al presente
Comunismi. C’è da chiedersi quanto, perfino nelle meno odiose tra le società occidentali, non siano stati visti i bisogni operai in crescita intellettuale e morale rispetto ai loro bisogni materiali, affidati essenzialmente alla distribuzione
di Rossana Rossanda (il manifesto, 12.12.2018)
Non credo che, nell’interessante rassegna degli studi su Marx apparsa sul manifesto, si possa rimproverare alla ricerca svolta da Marcello Musto un eccesso di attenzione per le peripezie della coppia Marx-Jenny von Westhfalen. Non so se esse siano fin troppo note, ma sono quelle che danno a questa ricerca un carattere di molto più vicino umanamente e di comprensibile anche per lo sviluppo scientifico del pensatore di Treviri.
Se mai riterrei utile approfondire una ricerca sul presente. Considerato che Marx non ha mai rinunciato a ritenere la classe operaia industriale delle fabbriche come il soggetto «rivoluzionario» per eccellenza, sarebbe utile capire su quale strato o gruppo sociale sia passato questo protagonismo in una fase in cui l’industria è nettamente in calo.
Non sembra che si possa attribuire questo compito al crescente precariato giovanile. Né mi sembra decisivo il passaggio al lavoro di servizio alla persona da parte della maggior quantità di donne, tantomeno per il lavoro di cura su cui si è soffermata Alisa Del Re, ma che interessa gran parte del femminismo italiano. Non è semplice considerarlo lavoro produttivo di merci che si possono scambiare, alimentando la accumulazione capitalistica: in generale si tratta di «competenze» soprattutto di carattere affettivo o relazionale e di vendita del proprio «tempo disponibile».
Ne deriva una trasformazione permanente della figura del lavoro, specie femminile, ma non mi pare del meccanismo di produzione di merce vendibile, a meno che non si tratti di grandissimi aggregati di servizi direttamente o indirettamente alla persona, come si possono individuare ancora nella fenomenologia cinese o in certe produzioni, specialmente di carattere medico, americane o tedesche.
Altrettanto interessante mi sembra il discorso che ne deriva per le società dell’Est, soprattutto per quanto riguarda la libertà: in generale sembrerebbe di poter raccogliere attorno a quella fenomenologia la natura di società particolarmente chiuse e autoritarie; perfino la definizione di stato sempre intollerabile, propria di Bakunin, sembra potersi attribuire specialmente alle società dell’Est, più odiose addirittura delle nostre.
Di qui anche l’errore compiuto dai vari «marxismi-leninismi» di considerare come obiettivo principale unico la distribuzione di beni soprattutto materiali ai lavoratori, obiettivo fatto proprio anche dalla maggior parte dei partiti comunisti.
L’avere privilegiato esclusivamente i beni materiali di consumo - che appare tuttora la scelta della Repubblica popolare cinese - è stata rilevata anche dal lavoro di Ernesto Screpanti per la manifestolibri, ed è al centro della ricerca di Rita Di Leo (L’età della moneta), trascurando (non a caso) la trasformazione dei rapporti fra uomini invece che fra cose, che ha caratterizzato anche il modello sovietico e ora sembra caratterizzare quello cinese.
Nella ricerca di Musto è interessante il rilievo dato al «plusvalore», cioè all’appropriazione da parte del padronato del tempo rubato gratuitamente agli operai, trascurando i loro bisogni di acculturazione e in genere di libertà nei rapporti sociali. C’è da chiedersi quanto, perfino nelle meno odiose tra le società occidentali, non siano stati visti i bisogni operai in crescita intellettuale e morale rispetto ai loro bisogni materiali, affidati essenzialmente alla distribuzione. Ne deriva l’ignoranza dei motivi ricorrenti di crisi nelle società dell’Est, mentre Marx riconduce esplicitamente ad una idea della «classe» come composta essenzialmente da individui necessariamente diversi l’uno dall’altro. Questo filone di ricerca mi sembra urgente.
Dentro la rivoluzione del mercato mondo
Marxismo. «200 Marx. Il futuro di Karl». Si apre oggi al Macro di Roma un convegno internazionale che celebra, con lo sguardo al futuro, il bicentenario del Moro. Anticipiamo un ampio stralcio di un testo che sarà presentato nella sessione «Per la critica del capitalismo globale» in programma domani
di Sandro Mezzadra (il manifesto, 13.12.2018)
Intervenire a un convegno su Marx (o meglio sul suo «futuro») in una sessione intitolata Per la critica del capitalismo globale comporta qualche esitazione. Di che cosa siamo chiamati a parlare? Della critica del nostro presente facendo tesoro della lezione di Karl? O piuttosto della critica che quest’ultimo ha articolato nel corso della sua vita, in un tempo ormai lontano, di un modo di produzione capitalistico fin dalla sua origine «globale»? Non è per me una domanda retorica.
Trascorsa l’epoca della damnatio memoriae, quando la semplice menzione di Marx (in particolare in Italia) determinava commiserazione o alzate di ciglia, è bene resistere alla tentazione di applicare linearmente all’analisi del presente le categorie da lui elaborate. Profondamente «intempestivo», secondo l’azzeccata definizione di Daniel Bensaïd, Marx ha intrattenuto un rapporto complesso - di adesione e di scarto, di appropriazione e di sottrazione - con il proprio tempo. Il suo pensiero ne è fortemente segnato: leggere (o rileggere) oggi le sue opere significa esporsi a questa intempestività.
LA NOSTRA RICERCA «deve mettere Marx a confronto non con il suo tempo, ma con il nostro tempo. Il Capitale deve essere giudicato sulla base del capitalismo di oggi. Ma sarà opportuno aggiungere una postilla: affinché questo sia possibile, è essenziale comprendere e apprezzare la storicità specifica delle categorie marxiane, non tanto per liberarle dalle incrostazioni di un’epoca ormai trascorsa quanto per riattivare quell’urto contro i limiti del suo tempo (e del suo stesso pensiero) che le costituisce.
C’è qui per me un principio di metodo: l’«attualità di Marx» non coincide necessariamente con l’attualità del suo sistema; risiede nei vuoti oltre che nei pieni del suo pensiero, nei suoi scacchi così come nei suoi trionfi «scientifici» - nei problemi che ci aiuta a pensare e non soltanto nelle soluzioni che ci propone. La nostra interpretazione di Marx, in altri termini, deve essere da un lato filologicamente rigorosa, dall’altro «trasformativa», come ha scritto di recente Étienne Balibar.
Ora, che vi sia qualcosa di invariante nel capitalismo è evidente. Ma questa formulazione riduce la critica dell’economia politica al terreno della logica e azzera il rilievo di intere sezioni del Capitale - quella sulla «cosiddetta accumulazione originaria», ad esempio, ma anche e soprattutto l’analisi della transizione dalla manifattura alla «grande industria», che costituisce metodologicamente un modello per la messa a fuoco dei caratteri specifici assunti dal capitalismo in un’epoca storica (la metà dell’Ottocento) e in un luogo (l’Inghilterra) determinati.
PIÙ IN GENERALE, oscura un fatto per me cruciale, che Marx ha definito (fin dalle pagine dedicate alla borghesia nel Manifesto con una chiarezza senza pari: ovvero il carattere rivoluzionario dell’oggetto della sua critica rivoluzionaria, il capitalismo. Nei Grundrisse il «mercato mondiale» appare come sintesi e condizione di possibilità (come «presupposto e risultato») della «rivoluzione permanente» attuata dal capitale, della sua strutturale determinazione espansiva: «la tendenza a creare il mercato mondiale», scrive qui Marx, «è data immediatamente nel concetto di capitale. Ogni limite si presenta qui come ostacolo da superare».
ECCO DUNQUE un primo elemento «invariante» da inserire in una definizione di capitalismo coerente con la critica marxiana (non senza avvertire che il concetto di capitalismo non rientra nel lessico di Marx, che parlava piuttosto di «modo di produzione capitalistico» o di «formazione sociale» capitalistica). Il capitale come rivoluzione permanente costruisce la sua storia come «storia mondiale» e produce i propri spazi nell’orizzonte del «mercato mondiale». Una volta posto quest’ultimo come «invariante» risalta immediatamente, tuttavia, il carattere astratto di questa invarianza. Il «mercato mondiale» cambia radicalmente nella storia, a partire dal momento della sua apertura attraverso la conquista, il colonialismo e il genocidio descritti nel capitolo 24 del primo libro del Capitale.
Nel mio lavoro con Brett Neilson ho cercato di cogliere la «differenza specifica» del capitalismo contemporaneo sottolineando come oggi siano preminenti (nella stessa composizione del «capitale complessivo», nell’orientamento di quelle che Marx chiamava le «rivoluzioni di valore»), operazioni di carattere essenzialmente estrattivo. Abbiamo cercato di sostanziare questa tesi (che in modi diversi è condivisa da altri autori, da Michael Hardt e Toni Negri a Saskia Sassen per esempio) con un’analisi delle operazioni del capitale nel settore estrattivo in senso stretto, nella logistica e nella finanza.
PARLIAMO DI SPECIFICHE operazioni del capitale, per indicare che il capitalismo oggi non si riduce alle sue determinazioni estrattive, per quanto queste ultime esercitino una funzione di comando e di sincronizzazione sull’insieme dei processi di valorizzazione e di accumulazione. E in particolare cerchiamo di dimostrare che il capitalismo contemporaneo non è caratterizzato (al contrario di una tesi ampiamente diffusa ad esempio nei dibattiti latinoamericani sul cosiddetto «neo-estrattivismo») da un assoluto primato dello «spossessamento», impiegando il termine nel senso attribuitogli da David Harvey. Quel che ci sembra piuttosto importante analizzare e comprendere è la combinazione di «spossessamento» e «sfruttamento» in quella che oggi occorre tornare a definire, con tutte le sue differenze, la condizione e l’esperienza proletaria globale.
È QUASI INUTILE sottolineare come oggi il mondo della finanza, nel tempo dell’High Frequency Trading per fare un solo esempio, sia completamente diverso da quello in cui si muoveva il «capitale produttivo di interesse» analizzato da Marx nel terzo libro del Capitale. C’è tuttavia in questa analisi un punto che mi pare molto interessante, anche indipendentemente del significato che deve essere attribuito alla categoria di «capitale fittizio» da lui impiegata in questo contesto: per Marx, la finanza è sostanzialmente una gigantesca «accumulazione di diritti, titoli giuridici, sulla produzione futura». Questa determinazione in ultima istanza politica della finanza, il suo essere caratterizzata da una pretesa sulla produzione futura, rimane decisamente attuale. E mostra, in particolare laddove si analizzino le forme dell’indebitamento di massa - tanto pubblico quanto privato - che coinvolgono popolazioni povere e lavoratrici, come il contenuto del debito contratto nel rapporto con il capitale finanziario sia l’obbligo a partecipare alla «produzione futura», la coazione a un lavoro quale che sia.
Il capitale finanziario estrae, preleva valore attraverso la diffusione molecolare nel tessuto della cooperazione sociale di questa coazione - che corrisponde indubbiamente a specifici processi di «spossessamento». Ma nel momento in cui la coazione si traduce in pratica (in altre parole: nel momento in cui, per ripagare il debito, la singola proletaria mette all’opera la propria forza lavoro, si entra necessariamente in rapporto con diverse figure del capitale le cui operazioni sono caratterizzate da specifici processi di «sfruttamento».
ECCO DUNQUE la combinazione di spossessamento e sfruttamento di cui ho parlato prima. E occorrerà aggiungere, restando a questo esempio molto semplificato, che la nostra proletaria ha di fronte a sé uno spettro molto ampio e profondamente eterogeneo di prestazioni lavorative (di modalità attraverso cui mettere in opera la propria forza lavoro) tra cui scegliere: potrà andare a lavorare in una fabbrica o in uno sweatshop, in un supermercato o in una casa, potrà fare la massaggiatrice o vedere droga per strada. È un punto fondamentale, che andrebbe argomentato con ben altra ampiezza, inseguendo le metamorfosi e le infinite combinazioni di spossessamento e sfruttamento che si presentano: mi limito qui a dire che ai processi di finanziarizzazione, e più in generale al primato delle operazioni estrattive del capitale, corrisponde quella che io e Brett Neilson abbiamo chiamato moltiplicazione del lavoro.
IL PROGRAMMA DEL CONVEGNO
Da oggi fino a domenica a Roma (presso la sede del Macro in via Nizza 136) il convegno «200 Marx. Il futuro di Karl», inserito nelle iniziative per il bicentenario della nascita.
Il programma (consultabile sul sito www.marx200.it) si aprirà oggi alle 14 con la sessione « Rivoluzione della politica», con interventi di Aldo Tortorella, Paolo Ciofi, Maria Luisa Boccia, Alfonso Maurizio Iacono, Giacomo Marramao, Marina Montanelli, Marcello Musto, Mario Tronti.
Venerdì sarà la volta di un panel dedicato a «Storia e storie», con Adolfo Pepe, Francesco Giasi, Enrico Donaggio, Chiara Giorgi, Vittorio Morfino, Peter Kammerer, Stefano Petrucciani. Infine «Per la critica del capitalismo globale», con Michael Braun, Riccardo Emilio Chesta, Sandro Mezzadra, Laura Pennacchi, Benedetto Vecchi, Carlo Vercellone, Ursula Huws.
Sabato 15, si chiude con «Vite, parole, corpi», insieme a Vincenzo Vita, Franco Ippolito, Roberto Ciccarelli, Donatella Dicesare, Roberto Finelli, Cristina Morini.
Karl Marx impigliato nel futuro
Percorsi. Un sentiero di lettura, in cinque libri di recente pubblicazione, per orientarsi nel bicentenario del pensatore di Treviri. Un modo per rimettere al lavoro il Moro, evidenziandone i «punti di stress»
di Benedetto Vecchi (il manifesto, 07.12.2018)
Due secoli separano il presente dall’anno di nascita di Karl Marx. In termini di anni (duecento), l’immagine evocata è quella di un uomo e di un’opera di altri tempi, ottocentesca. Eppure la sua critica all’economia politica, la sua antropologia filosofica, la sua militanza politica hanno condizionato gran parte del Novecento. Era quindi prevedibile che studiosi - marxisti e non solo - facessero i conti con la sua eredità teorica. Molte sono state le pubblicazioni dedicate al Moro. Difficile individuarne contorni netti, tuttavia. Ne esce semmai una costellazione tematica, talvolta sfuggente.
In primo luogo, emergono quelli che David Harvey ha chiamato i «punti di stress» dell’opera marxiana. La teoria del valore lavoro, la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo, la definizione della necessità di una organizzazione politica che valorizzasse l’autonomia della classe operaia. La polarità tra una tendenza globale del capitale (la formazione di un mercato mondiale, o per usare una espressione di Etienne Balibar di «capitalismo assoluto») e una «nazionalizzazione» della base economica del capitalismo stesso.
Marx, va da sé, nazionalista mai lo è stato. Negli scritti indirizzati all’Associazione internazionale dei lavoratori o nei pamphlet «politici» ha infatti sempre criticato ferocemente ogni cedimento nazionale dei gruppi militanti. Trovarlo descritto, come ormai spesso accade, sia a destra che a sinistra, come un «sovranista» restituisce solo la miseria della filosofia politica contemporanea.
CHI SI PROPONE di gettare un po’ di luce su questa costellazione è Roberto Finelli in Karl Marx. Uno e bino (Jaca Book, pp. 287, euro 25), che con una felice idea scandisce la riflessione, interrompendo la linea che dal passato porta al futuro, invertendo cioè il ritmo: c’è prima il futuro, poi il presente (lo stato dell’arte della critica marxista al capitalismo) per infine chiudere sul passato (il marxismo storico).
Il futuro di Finelli è la dichiarazione di un percorso di ricerca in divenire, ma del quale alcune tappe sono state comunque segnate. Il filosofo dell’astrazione reale segnala in primo luogo la irrinunciabile necessità di rompere lo schema evoluzionista, determinista di una filosofia della storia marxista che fa del comunismo una sorta di approdo obbligato, dettato da leggi di movimento oggettive che cancellerebbero la tensione a una libertà radicale per la quale serve mettere al lavoro la coppia filosofica «individuazione e riconoscimento di sé».
Individuazione significa fare i conti con l’antropologia della povertà e dello sfruttamento nel capitalismo, mentre il riconoscimento del sé significa un esercizio della differenza che tiene aperta, appunto, la possibilità di una libertà radicale. Da qui l’evocazione della psicoanalisi come elaborazione «altra», propedeutica alla produzione di soggettività politiche adeguate al presente.
IL BANDOLO DELLA MATASSA ha però fili e fila da tirare, come quello della biografia di Marx. Paolo Ferrero e Bruno Morandi si inoltrano così su quel tornante, facendo leva su una evidente attitudine pedagogica rispetto le sue opere (Grundrisse e Capitale), convinti i due autori che la desertificazione politica di questi anni abbia quasi azzerato la conoscenza dell’opera marxiana. Il loro libro Marx. Oltre i luoghi comuni (DeriveApprodi, pp. 240, euro 14) passa in rassegna la perigliosa e romantica vita del Moro, ma anche la teoria del valore lavoro, il ruolo della finanza, dello stato. Di tutt’altro spirito, ma con evidenti punti di contatto metodologici con questo volume è poi l’ambiziosa monografia di Marcello Musto su Karl Marx (Einaudi, pp. 326, euro 30).
Sono anni che Marcello Musto svolge un lavoro certosino sulle fonti del pensiero marxista. In questo libro ci sono pagine dedicate ai pamphlet incendiari come il Manifesto del partito comunista, La critica al programma di Gotha, le vicende e gli scontri feroci che videro Marx e Engels battagliare contro anarchici, repubblicani (Giuseppe Mazzini era disprezzato dal Moro), socialisti utopisti. Un libro che smentisce l’immagine di un Marx autoritario e settario, restituendo invece la profonda convinzione che la liberazione della classe operaia potesse venire solo dalla classe operaia stessa e non da qualche dirigente illuminato o da un gruppo selezionato di giacobini, per quanto comunisti fossero.
I TANTI LIBRI USCITI segnalano, tuttavia, un certo prosciugamento del bacino di lavoro intellettuale su Marx. Conferisce evidenza a questa difficoltà il tono un po’ mesto di molti interventi presenti nel volume curato da Stefano Petrucciani Il pensiero di Karl Marx (Carocci editore, pp. 381, euro 35), dove compaiono autori che si ritrovano anche in quello curato da Chiara Giorgi per manifestolibri (Rileggere il capitale, pp. 245, euro 20).
Il libro si caratterizza per un tentativo di rompere lo schema da una certa scolastica marxista. Stefano Petrucciani, ad esempio, affronta il tema della libertà, all’interno di un disegno nel quale le proposte politiche di Marx vengono qualificate come una anticipazione - tesi molto azzardata - del welfare state novecentesco. Il diritto borghese diseguale individuato dall’autore è funzionale alla lunga transizione che dovrebbe portare all’operatività, ma solo alla fine, della massima «a ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno a secondo la sua capacità». Fino ad allora, il diritto non può che essere contraddittoriamente diseguale.
COSA FARNE ALLORA dell’eredità marxiana? Con una mossa a sorpresa, felicemente inaspettata, Sandro Mezzadra e Mario Espinoza Pino invitano a aprire laboratori marxiani facendo tesoro degli scritti giornalistici, legati alla contingenza, di Marx. Il giornalismo, quello sulle lotte di classe in Francia, sulla Comune, sulle corrispondenze per lo statunitense New York Tribune è interpretato come un laboratorio dove il Moro ha messo a fuoco i problemi da sciogliere nella sede adeguata - i tempi lunghi della riflessione - ma alla luce delle necessarie messe di dati, fondamentali per lo sviluppo delle sue categorie.
I due autori segnalano inoltre che sono scritti giornalistici che rompono la gabbia dell’accusa di eurocentrismo rivolta Marx, giungendo ad abbozzare - in base a quanto stava accadendo in Cina, Russia, India, Africa - una vision «multilineare» dello sviluppo capitalistico. In questa direzione va il saggio di Etienne Balibar contenuto nel libro curato da Chiara Giorgi ( ).
Il filosofo francese prova a individuare i punti di stress della teoria marxiana per poi sviluppare una concezione del «capitale assoluto» e del «debito ecologico».
Un vento lieto lo portano infine altri due testi, Quelli di Alisa Del Re e Giso Amendola. La prima introduce i temi del lavoro di riproduzione, di cura, relazionale, del lavoro semplice e gratuito.
UNA PROSPETTIVA femminista che entra in rotta di collisione con l’economicismo di molto marxismo ortodosso. Aria fresca, specialmente quando la filosofa italiana dice che la ricchezza degli anni Settanta non sta solo nell’immaginare e praticare altre relazioni sociali, ma nel saper tenere insieme diritti civili e sociali, spezzando cioè la gabbia che separa individuale e collettivo. Le singolarità e la loro irriducibilità a sintesi governate dall’alto. Il partito politico di massa, tanto nelle sue varianti socialdemocratiche che leniniste, non è stato messo in scacco solo dal perfido capitale ma è stato sottoposto alla critica roditrice del conflitto di classe. Pensare di ricostruirlo come se niente fosse accaduto, consegna chi lo propone a risibili risultati elettorali e politici da prefisso telefonico.
LIBERTÀ INDIVIDUALE e libertà collettiva, dunque. Da inventare, praticare. È quello che fa lo «stato di agitazione permanente» delle donne di questi ultimi anni, che sgombera il campo da polarità tra i muscoli esibiti in qualche riot metropolitano scandito da gilet gialli e l’autodeterminazione di chi pensa che il proprio «lavoro elementare» (di cura, riproduttivo) con la ricchezza abbia molto a che fare. E sulla tensione tra produzione di soggettività e astrazione insiste Giso Amendola, mettendo in rapporto Marx e Foucault, stabilendo assonanze e dissonanze, foriere di inediti e proficui sviluppi. Sono due testi che chiariscono molte delle dinamiche sociali, culturali, politiche dentro questo vischioso presente. Hanno inoltre il pregio di sgomberare il terreno dalle sciocchezze sui «conflitti di identità», la retorica delle «guerre culturali», invitando a immaginare e prendere in considerazione che la singolarità e frammentazione del lavoro vivo dentro il conflitto del capitale non necessariamente fa suo il lessico della rivendicazione economica, ma indugia - e quindi valorizza - su quello delle forme di vita, della relazionalità in divenire.
IL NODO, all’interno questo scenario, resta quindi quale organizzazione politica darsi. Il modello reticolare è una opzione, certo, senza però chiudere gli occhi: quella che sembra costituire una soluzione può rivelarsi, come accaduto nei movimenti globali di queste due decadi del nuovo millennio, un problema aggiuntivo.
VA DUNQUE RESPINTA ogni tentazione di scolastica marxista, di riattraversamento di tradizioni politico-culturali che non aiutano a comprendere il presente. È questo l’unico modo per mettere nuovamente al lavoro Marx. Riprendere cioè il lavoro della talpa. Per rompere la gabbia di un eterno presente. E aprire, con quel gusto per il paradosso e l’azzardo teorico e politico tipicamente marxiano, una strada che dia vita a una prassi teorico politica radicale. E comunista.
Se il capitale diventa una seconda natura
Non Una Di Meno. Si è aperta una breccia nell’economicismo della vulgata marxista, che ha resistito al movimento delle donne e alla progressiva femminilizzazione del lavoro. La garanzia di poter contare su un tempo liberato dall’aziendalismo potrà venire da quello che oggi Non Una di Meno ha definito un «reddito di auto-determinazione»
di Lea Melandri (il manifesto, 16.11.2018)
Una volta che si riconosce che l’economia si è imposta in tutte le sfere dell’agire e del pensiero umano, che cosa significa parlare di forza lavoro come «facoltà che appartiene agli individui», espressione di libertà e autodeterminazione di uomini e donne, che lavorino o non lavorino? «La forza lavoro - scrive Roberto Ciccarelli nel suo Capitale Disumano (manifestolibri, 2018) - diventa una merce a seguito della sua vendita. Ma - prosegue - resta comunque una facoltà del suo possessore». E aggiunge che, in quanto tale, «è universale e comune». Difficile non vedere l’analogia con la definizione marxiana della «passione dell’uomo», intesa come il bisogno di una «totalità di manifestazione di vita umana» di ogni vivente.
VIENE immediata l’osservazione che, finché resta una potenza indipendente dalle offerte di mercato che risuona nel fondo di ogni vita come semplice diritto all’esistenza la forza lavoro così distinta dalla sua oggettivazione in merce, assomiglia allo stato di natura di Rousseau, e al concetto di inesistenza delle donne, da cui è partito il femminismo degli anni Settanta: in entrambi questi casi, si era evidentemente ritenuto necessario restituire all’individuo la consapevolezza che, dietro le imposizioni e i modelli, a cui ha dovuto assoggettarsi, non si era mai eclissata la possibilità di esercitare le diverse funzioni del corpo, della ragione, dell’immaginazione.
VERREBBE da dire che finalmente, anche nell’analisi del lavoro, si è aperta una breccia nell’ombra lunga dell’economicismo che ha segnato la vulgata marxista, resistendo all’urto della rivoluzione culturale e politica del movimento delle donne e, in tempi più recenti, alla progressiva femminilizzazione del lavoro. Forse non è un caso che lo scarto, rispetto a una critica dell’economia catturata dal suo stesso oggetto, avvenga in un momento in cui è saltata la divisione tra il lavoro produttivo e tutta la somma di vita che, riduttivamente, impropriamente, è stata così a lungo collocata sotto la voce «riproduzione», nel senso che Marx stesso gli ha dato, e cioè come riproduzione della forza lavoro in quanto merce. Assenti le donne e la materialità di esperienze corporee e intellettuali ritenute «naturali» del genere femminile.
LA CADUTA dei confini, che hanno tenuto separate e in guerra tra loro la «potenza dell’amore» e la «coercizione al lavoro» (Freud), non ha segnato solo la femminilizzazione della sfera pubblica - la vita in quanto tale messa a produrre valori economici, sociali, cognitivi, attività di cura malpagate o gratuite, l’economia che diventa oikonomia, economia domestica -, ma un passaggio più inquietante a quel perverso connubio di autoimprenditorialità e autosfruttamento che ha preso corpo, pur nella sua astrazione, nel figura del capitale umano». In corrispondenza con la crisi del lavoro da tempo si moltiplicano gli inviti a diventare imprenditori di noi stessi. Il nuovo imperativo è pensare la vita come se fossimo tutti manager.
L’IO DIVENTA, al medesimo tempo, datore di lavoro e lavoratore di se stesso, viene a ricoprire un doppio ruolo: quello di chi comanda e di chi obbedisce. La libera scelta diventa la manifestazione di una subordinazione.
Con questo ultimo cambiamento nei rapporti che ci sono sempre stati tra sfere tra loro divise e contrapposte, il divoramento avviene su un versante e sull’altro: il capitale ingurgita la forza lavoro separandola dal vivente, ma il vivente, a sua volta, incorpora il capitale e le sue leggi, si fa oggetto e attore della propria alienazione.
SE IL FEMMINISMO degli anni Settanta aveva messo a tema le problematiche del corpo e contrastato l’economicismo dominante nella sinistra extraparlamentare, con l’idea che si dovessero cercare o nessi tra sessualità e politica, sessualità e economia, oggi la naturalizzazione del sistema capitalistico, neoliberista, è avanzata a tal punto da assomigliare alla sorte toccata nel corso di secoli alla donna: l’interiorizzazione, sia pure forzata e inconsapevole, della rappresentazione maschile del mondo, e compresa, per usare le parole di Sibilla Aleramo, «solo per virtù di analisi».
QUANDO i rapporti di potere toccano la vita intima - intreccio, confusione, sovrapposizione-, entrano fatalmente nella vita psichica. È accaduto per le donne, legate a un dominatore che era anche figlio, marito, padre, fratello, amante, piegate per ragioni di sopravvivenza o per amore al sacrificio di sé, alla dedizione all’altro, costrette a considerare malattia, colpa, inadeguatezza propria gli effetti della colonizzazione del loro sesso. Oggi, pur con qualche differenza, può toccare a chi è spinto, fin dagli anni della scuola, a interiorizzare la dialettica servo-padrone, a reinventare la subordinazione, che non trova nella società, come fatto psicologico. Non molto diversa è la richiesta che è fatta alle donne - e che le donne stesse sono tentate di vedere come un riconoscimento e una occasione di far valere la loro «differenza»- di investire le loro «risorse», i loro «talenti» per rivitalizzare un’economia in crisi. Non vittime, ma soggetti che oggettivizzano il loro corpi, come corpi erotici corpi materni.
CONTRO un’emancipazione che vuole oggi uomini e donne attori del loro asservimento, e li ritiene responsabili quando falliscono, non resta che aprire la strada a quella ricerca di autonomia e libertà, su cui si erano incamminati il movimento non autoritario nella scuola e il femminismo. La garanzia di poter contare su un tempo liberato dall’aziendalismo potrà venire da quello che oggi Non Una di Meno ha definito un «reddito di auto-determinazione». Per scostarsi da una illusoria onnipotenza figlia dello sfruttamento capitalistico, ci vorranno comunque modi nuovi e più incisivi dell’agire politico.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’, APRIRE GLI OCCHI: C’E’ DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", E FAMIGLIA E "FAMIGLIA" .... *
Dello spirito di famiglia
di Cesare Beccaria ("Dei delitti e delle pene", 1764)
Queste funeste ed autorizzate ingiustizie furono approvate dagli uomini anche piú illuminati, ed esercitate dalle repubbliche piú libere, per aver considerato piuttosto la società come un’unione di famiglie che come un’unione di uomini. Vi siano cento mila uomini, o sia ventimila famiglie, ciascuna delle quali è composta di cinque persone, compresovi il capo che la rappresenta: se l’associazione è fatta per le famiglie, vi saranno ventimila uomini e ottanta mila schiavi; se l’associazione è di uomini, vi saranno cento mila cittadini e nessuno schiavo.
Nel primo caso vi sarà una repubblica, e ventimila piccole monarchie che la compongono; nel secondo lo spirito repubblicano non solo spirerà nelle piazze e nelle adunanze della nazione, ma anche nelle domestiche mura, dove sta gran parte della felicità o della miseria degli uomini. Nel primo caso, come le leggi ed i costumi sono l’effetto dei sentimenti abituali dei membri della repubblica, o sia dei capi della famiglia, lo spirito monarchico s’introdurrà a poco a poco nella repubblica medesima; e i di lui effetti saranno frenati soltanto dagl’interessi opposti di ciascuno, ma non già da un sentimento spirante libertà ed uguaglianza. Lo spirito di famiglia è uno spirito di dettaglio e limitato a’ piccoli fatti. Lo spirito regolatore delle repubbliche, padrone dei principii generali, vede i fatti e gli condensa nelle classi principali ed importanti al bene della maggior parte.
Nella repubblica di famiglie i figli rimangono nella potestà del capo, finché vive, e sono costretti ad aspettare dalla di lui morte una esistenza dipendente dalle sole leggi. Avezzi a piegare ed a temere nell’età piú verde e vigorosa, quando i sentimenti son meno modificati da quel timore di esperienza che chiamasi moderazione, come resisteranno essi agli ostacoli che il vizio sempre oppone alla virtú nella languida e cadente età, in cui anche la disperazione di vederne i frutti si oppone ai vigorosi cambiamenti?
Quando la repubblica è di uomini, la famiglia non è una subordinazione di comando, ma di contratto, e i figli, quando l’età gli trae dalla dipendenza di natura, che è quella della debolezza e del bisogno di educazione e di difesa, diventano liberi membri della città, e si assoggettano al capo di famiglia, per parteciparne i vantaggi, come gli uomini liberi nella grande società.
Nel primo caso i figli, cioè la piú gran parte e la piú utile della nazione, sono alla discrezione dei padri, nel secondo non sussiste altro legame comandato che quel sacro ed inviolabile di somministrarci reciprocamente i necessari soccorsi, e quello della gratitudine per i benefici ricevuti, il quale non è tanto distrutto dalla malizia del cuore umano, quanto da una mal intesa soggezione voluta dalle leggi.
Tali contradizioni fralle leggi di famiglia e le fondamentali della repubblica sono una feconda sorgente di altre contradizioni fralla morale domestica e la pubblica, e però fanno nascere un perpetuo conflitto nell’animo di ciascun uomo. La prima inspira soggezione e timore, la seconda coraggio e libertà; quella insegna a ristringere la beneficenza ad un piccol numero di persone senza spontanea scelta, questa a stenderla ad ogni classe di uomini; quella comanda un continuo sacrificio di se stesso a un idolo vano, che si chiama bene di famiglia, che spesse volte non è il bene d’alcuno che la compone; questa insegna di servire ai propri vantaggi senza offendere le leggi, o eccita ad immolarsi alla patria col premio del fanatismo, che previene l’azione. Tali contrasti fanno che gli uomini si sdegnino a seguire la virtú che trovano inviluppata e confusa, e in quella lontananza che nasce dall’oscurità degli oggetti sí fisici che morali. Quante volte un uomo, rivolgendosi alle sue azioni passate, resta attonito di trovarsi malonesto!
A misura che la società si moltiplica, ciascun membro diviene piú piccola parte del tutto, e il sentimento repubblicano si sminuisce proporzionalmente, se cura non è delle leggi di rinforzarlo. Le società hanno come i corpi umani i loro limiti circonscritti, al di là de’ quali crescendo, l’economia ne è necessariamente disturbata. Sembra che la massa di uno stato debba essere in ragione inversa della sensibilità di chi lo compone, altrimenti, crescendo l’una e l’altra, le buone leggi troverebbono nel prevenire i delitti un ostacolo nel bene medesimo che hanno prodotto.
Una repubblica troppo vasta non si salva dal dispotismo che col sottodividersi e unirsi in tante repubbliche federative.
Ma come ottener questo? Da un dittatore dispotico che abbia il coraggio di Silla, e tanto genio d’edificare quant’egli n’ebbe per distruggere. Un tal uomo, se sarà ambizioso, la gloria di tutt’i secoli lo aspetta, se sarà filosofo, le benedizioni de’ suoi cittadini lo consoleranno della perdita dell’autorità, quando pure non divenisse indifferente alla loro ingratitudine. A misura che i sentimenti che ci uniscono alla nazione s’indeboliscono, si rinforzano i sentimenti per gli oggetti che ci circondano, e però sotto il dispotismo piú forte le amicizie sono piú durevoli, e le virtú sempre mediocri di famiglia sono le piú comuni o piuttosto le sole.
Da ciò può ciascuno vedere quanto fossero limitate le viste della piú parte dei legislatori.
La scoperta della libertà
di Maurizio Viroli (Il Fatto, 18 aprile 2017)
Per molti della mia generazione la lettura degli scritti di Antonio Gramsci ha avuto l’effetto di una liberazione dal marxismo-leninismo banale e dogmatico che teneva banco, alla fine degli anni Sessanta, fra i movimenti della sinistra extraparlamentare. Non ho prove storiche da offrire, ma credo che molti giovani si siano avvicinati al Pci anche perché quel partito si proclamava erede di Gramsci e si impegnava attivamente a farne conoscere gli scritti.
Nel 1975 esce infatti per Einaudi, sotto l’egida dell’Istituto Gramsci, la prima edizione critica dei Quaderni del carcere, a cura di Valentino Gerratana. Su quei quattro volumi furono promosse molte iniziative e si aprì un importante dibattito culturale e politico sul concetto di egemonia, sul rapporto fra democrazia e socialismo, sul ruolo e la natura del partito, sulla Rivoluzione d’Ottobre, sugli intellettuali, sulla storia d’Italia, sulla questione meridionale.
A Gramsci va riconosciuto il merito storico di aver avviato nel mondo comunista la consapevolezza che non era possibile in Italia seguire la via della Rivoluzione d’Ottobre. Lo ha fatto con l’unico argomento che poteva essere efficace, vale a dire la considerazione realistica delle condizioni storiche.
Sarebbe sbagliato sostenere che Gramsci aveva capito che la trasformazione socialista della società deve avvenire soltanto nel pieno rispetto delle libertà civili e delle regole democratiche. Ma una volta dichiarato che la via sovietica non poteva essere percorsa, che il proletariato “può e deve essere dirigente [vale a dire ottenere il consenso degli altri gruppi sociali] già prima di conquistare il potere governativo”, e che deve continuare a essere dirigente anche dopo la conquista del potere, restava aperta, di fatto, soltanto la via democratica.
L’intuizione più felice di Gramsci è, a mio giudizio, l’idea della “riforma intellettuale e morale”. In un passo delle Noterelle sul Machiavelli, la descrive come “elevamento civile degli strati depressi della società”, simile, per la sua capacità di coinvolgere ampi strati delle classi subalterne, alla Riforma protestante e all’Illuminismo, ma capace di conservare e rielaborare “i caratteri di classicità della cultura greca e del Rinascimento italiano”.
E giustamente sottolinea che la riforma intellettuale e morale “non può non essere legata a un programma di riforma economica, anzi, il programma di riforma economica è appunto il modo concreto con cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale”.
“Banditore” della riforma intellettuale morale doveva essere per Gramsci, il “moderno Principe”, il partito comunista, che diventa, nella sua visione, non più un’avanguardia volta esclusivamente al lavoro di agitazione e organizzazione in vista della conquista del potere politico, ma un partito educatore e formatore di coscienze, una vera e propria scuola dove gli elementi migliori delle classi subalterne imparano a dirigere il complesso della vita sociale alla luce di ideali di emancipazione.
Il limite dell’idea gramsciana della riforma intellettuale e morale non risiede nella sua concezione del partito politico come educatore e formatore di coscienze, ma nella sua convinzione che il partito della classe operaia debba essere il punto di riferimento del giudizio morale e politico: “Il moderno Principe sviluppandosi sconvolge tutto il sistema dei rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso e scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo”.
Il Principe, conclude Gramsci, “prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico” (Quaderni del carcere, vol. III, p. 1561). Ma la coscienza personale è e deve rimanere rigorosamente individuale: può accogliere l’imperativo morale o la divinità, ma mai lasciare entrare come sua guida suprema un soggetto collettivo, non importa se è lo Stato, o il partito o una chiesa. Se la coscienza personale accetta la guida o l’autorità di un soggetto collettivo non è più pienamente libera e non può costruire né uno Stato né una società liberi.
In quegli stessi anni, nel confino di Lipari, Carlo Rosselli scriveva su Socialismo liberale: “Non esistono fini della società che non siano, al tempo stesso, fini dell’individuo, in quanto personalità morale; anzi questi fini non hanno vita se non quando siano profondamente vissuti nell’intimo delle coscienze. [...] Uno Stato libero vuole prima e soprattutto uomini liberi. E uno Stato socialista spiriti socialisti. Io non esito a dichiarare che la rivoluzione socialista sarà tale, in ultima analisi, solo in quanto la trasformazione della organizzazione sociale si accompagnerà a una rivoluzione morale, cioè alla conquista, perpetuamente rinnovantesi, di una umanità qualitativamente migliore, più buona, più giusta, più spirituale”. Carlo Rosselli partiva da Giuseppe Mazzini; Gramsci da Karl Marx e da Lenin.
Per arrivare all’idea del socialismo come trasformazione sociale sorretta da una riforma intellettuale e morale capace di realizzare l’elevamento civile delle classi subalterne, aveva percorso una lunga strada grazie alla libertà morale e intellettuale che gli diede la forza di andare contro le idee prevalenti nel suo stesso partito, senza paura di affrontare, anche nelle terribili condizioni del carcere, l’ostilità degli stessi compagni comunisti che lo giudicavano un traditore della causa. La sua è una testimonianza di libertà, per tutti i tempi.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETA’. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA.
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!! FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Per uscire dal buio
Decalogo *
Parole rifondative: di un progetto, un’identità, una speranza di futuro. Nelle prossime settimane si riuniranno in tanti, a sinistra o da quelle parti: si comincia questa domenica con la marcia della pace Perugia-Assisi, cinquant’anni dopo la morte di chi la sognò, Aldo Capitini, scomparso il 17 ottobre 1968. Seguiranno nel Pd la Piazza Grande del nuovo aspirante leader Nicola Zingaretti, a Roma il 14 ottobre; e la Leopolda dell’ex ma sempre incombente Matteo Renzi, una settimana dopo. E le manifestazioni del 13 ottobre in tutta Europa, comprese molte città italiane, «contro il nazionalismo, per un’Europa unita» (www.13-10.org).
Si discuterà di nomi, sigle, contenitori, per provare a riempire il vuoto di presenza, il deserto di alternativa visibile. Quello che ancora manca è la battaglia di idee: una sida politica e culturale, popolare e non elitaria. Qualche settimana fa l’Economist ha offerto ai suoi lettori un manifesto per ripensare il liberalismo.
L’Espresso, nel solco di questo dibattito italiano e europeo, ha chiesto ad alcune sue firme, diverse per cultura e esperienza, un decalogo di parole-chiave (altre ne seguiranno). Da “Noi e Tu” di Massimo Cacciari a “Tutti” di Francesca Mannocchi, il nostro alfa e omega. Un segno di luce, per uscire dal buio.
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Lavoro
di Aboubakar Soumahoro
Prima il lavoro, si dice, d’accordo. Ma prima del lavoro c’è il lavoratore. E, prima ancora, gli esseri umani. Oggi, nei convegni e nelle relazioni prodotte dai centri studi, si parla dei lavoratori come se fossero macchine, corpi senza anime, robot. Lavoratori senza legami sociali, atomizzati. Lavoratori isolati, ognuno per sé, senza una dimensione collettiva, senza relazioni umane in grado di creare solidarietà.
Si parla di intelligenza artificiale, ma sono gli esseri umani a finire progressivamente trasformati in automi. Partire dal lavoro significa allora restituire alle persone i loro diritti e la loro dignità, ma anche la possibilità di sentirsi protagonisti di una costruzione sociale. Il lavoro è impoverito, e impoveriscono i lavoratori, oppure è dequalificato, giovani iper-laureati oggi svolgono lavori dequalificati.
Nell’era digitale il lavoro ti impedisce di realizzare le tue aspettative e al tempo stesso colonizza il tempo di vita. Vale per tutti i lavoratori, gli operai e i braccianti, i precari, per quelli impegnati nel privato e per quelli che si muovono nella sfera del pubblico, dove anni di privatizzazioni, blocco delle assunzioni, appalti all’esterno di funzioni che appartengono allo Stato hanno creato una situazione di precarietà di vita e non soltanto di condizioni lavorative. Uno Stato che partecipa a fenomeni di sfruttamento e di abbrutimento.
Parlare del lavoro, dunque, significa parlare delle persone, nella loro quotidianità, nelle loro spese, nella fatica di portare a termine la giornata, non soltanto dal punto di vista economico. I bisogni vitali delle creature, come diceva Giuseppe Di Vittorio. Creature: è la parola più tipicamente umana, contiene in sé ogni cosa. Noi siamo da questa parte, lo dico anche nell’ottica di un sindacalista contemporaneo che vive in questo tempo e in questa stagione. Siamo dalla parte delle persone, senza disparità di pelle o di genere, dovrebbe essere la normalità, ma oggi sta avvenendo il contrario. Lavoro oggi significa cultura, emancipazione, rispetto, giustizia sociale. Significa battersi per evitare che il lavoro torni a coincidere con lo sfruttamento degli esseri umani, la loro alienazione. Vuol dire ricomporre valori comuni, oggi spezzati. Ricucire.
* l’Espresso, O7.10.2018
Nelle viscere della storia
di Lea Melandri*
Nelle “viscere della storia” non c’è solo la barbarie o la disumanità. Ci sono anche “prospettive impensate”, “tesori di cultura”. Basta cercarli. È questa la lezione della rivista “L’erba voglio”.
Il pericolo che molti vedono incombere sulla democrazia nel nostro Paese raramente viene associato alla crisi, più generale e più datata della politica: la modificazione lenta ma inarrestabile dei confini che per secoli hanno circoscritto e confuso lo spazio pubblico con il suo governo, le sue istituzioni, le sue leggi, i suoi linguaggi, e, prima ancora, con il dominio di un sesso solo.
Se la nostra cultura non si fosse dimostrata finora così ottusamente refrattaria ad accogliere analisi attente ai nessi tra corpo e politica, tra virilità e costruzione storica della sfera pubblica, risulterebbe evidente che la norma e la trasgressione, l’ordine e la perdita di controllo, la legge e la sua sistematica violazione, il bene collettivo e l’egoismo individuale, la civiltà e la barbarie, non hanno mai smesso di affrontarsi e confondersi nello spazio pubblico, sotto la spinta di contesti economici e politici mutevoli, ma ubbidendo nel medesimo tempo a quella “invariante” della storia che è l’identificazione dell’umano perfetto con la maschilità, e tutte le contrapposizioni che ha prodotto tra l’amico e il nemico, il cittadino e lo straniero
L’irruzione del “femminile” nella vita pubblica - inteso non solo come presenza quantitativa delle donne nel luogo da cui sono state tradizionalmente escluse, ma come protagonismo e rivalsa di tutto ciò che è stato identificato col “sesso debole” - non poteva non intaccare i fondamenti della politica, mettere in discussione i concetti di libertà, democrazia, uguaglianza, fraternità, diritto, ridefinire in modo meno astratto la figura del cittadino.
Se l’occasione di portare al centro della responsabilità collettiva la vita nella sua interezza si sta trasformando in “antipolitica” - rovesciamento dei rapporti tra ordine e caos, realtà e immaginario, ragione e sentimenti - è perché si continuano ad ignorare i percorsi di liberazione e di allargamento dell’impegno politico aperti dalle culture alternative degli anni Settanta, in particolare dal femminismo, e oggi dalle associazioni di uomini che si interrogano sulla storia dal punto di vista del sesso che ne è stato protagonista.
Quello che molti di noi scoprirono allora, come insegnanti, operatori sociali, studenti, operai, nel momento in cui si abbandonavano gli strumenti tradizionali del controllo e della repressione, avrebbe dovuto allarmare molto più delle forze conservatrici che ci fecero guerra.
Le pratiche non autoritarie nella scuola, negli asili autogestiti, nelle assemblee autonome sorte all’interno delle fabbriche, che generalmente vengono additate da destra e da sinistra come la causa remota del degrado attuale, sono state, al contrario, il primo svelamento della massificazione precoce, la denuncia del caos che si cela dietro i sistemi istituzionali di controllo e sicurezza.
Erano segnali piccoli ma inequivocabili, portati allo scoperto dalla consapevolezza delle mutilazioni che si era inflitta la politica, e dall’idea che bisognasse partire da lì, da quei corpi che arrivano all’asilo “già rattrappiti e coartati”, per trovare nuove forme d’amore e di convivenza umana.
La crisi dell’autorità paterna nell’ambito famigliare, e il declino delle istituzioni della vita pubblica, avrebbero poi subìto un’accelerazione imprevista sotto l’urto della società dei consumi, della sua potenza invasiva e divorante, della sua indifferenza per norme e limiti di ogni specie. Così è accaduto che, quando ancora le donne muovevano i primi passi da cittadine sotto tutti gli effetti, a farla da vincitore fosse il “femminile” costruito dall’uomo, la visceralità che la storia si è portata dietro e che insidia da sempre il suo processo di incivilimento.
Oggi si scopre che l’inconscio collettivo, che si è espresso “democraticamente” nel voto della maggioranza, è reazionario. Non era poi così difficile da immaginare: tutto ciò che è stato sepolto nella zona più oscura della vita dei singoli, identificato con la natura o con la parola rivelata di un Dio, per potersi modificare ha bisogno innanzi tutto di essere riconosciuto, narrato e analizzato, restituito alla cultura e alla politica con cui è sempre stato in rapporto, sia pure un rapporto alienato, strumentale, distruttivo della politica stessa e delle sue conquiste democratiche.
L’“immensa esperienza negativa” che si è accumulata nelle “viscere della storia” nel corso dell’ultimo secolo, come conseguenza del fatto che sono stati considerati condizione quasi esclusiva del cambiamento i rapporti di produzione, oggi esce allo scoperto attraverso la retorica populista delle destre occidentali. Ma, se non ne abbiamo paura e, soprattutto se non abbiamo fretta di cancellarla o imitarla, forse è l’occasione per dare finalmente cittadinanza a “esperienze essenziali del vivere umano”.
L’esperienza della rivista “L’erba voglio” ha significato fare cultura attraverso tutto ciò che la cultura tradizionale considera “rifiuti”, “scarti”, “tabù”, prendere distanza dalla continuità del “noto”, dal rapporto ottimistico che la cultura occidentale ha intrattenuto con le sue mete tecno scientifiche, non aver paura di addentrarsi nel “caotico mondo dell’antiragione”, aprirsi a “prospettive impensate”.
Prima che la barbarie, come ritorno a forme arcaiche di violenza, prenda il sopravvento, dovremmo tentare - come è stata per la generazione “imprevista” di giovani e donne nel Sessantotto -, a farci noi “barbari”, estranei e creativi, rispetto a una civiltà esaurita e sempre più disumanizzante.
*Insegnante, giornalista, scrittrice e saggista, riferimento per il movimento delle donne italiano. Tra i suoi libri: L’infamia originaria; Come nasce il sogno d’amore; Le passioni del corpo. La vicenda dei sessi tra origine e storia; La perdita; Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà. Altri suoi articoli sono leggibili qui.
I dialoghi. Vittorio Lingiardi e Benedetto Farina
Dottor Freud aiutaci a cooperare
La psicoterapia è una forma di cooperazione e la cooperazione è una forma di psicoterapia
di Vittorio Lingiardi (la Repubblica, 12.09.2018)
La psicoterapia è una forma di cooperazione e la cooperazione è una forma di psicoterapia. Sono giunto a questa conclusione dialogando con un collega che ha una formazione diversa dalla mia. Non che parlare di "scuole" abbia sempre senso, ma la mia educazione, psicoanalitica, e quella del mio interlocutore cognitivista Benedetto Farina, docente all’Università Europea di Roma e allievo di Giovanni Liotti, uno dei padri del cognitivismo italiano, sono oggettivamente diverse. Cose importanti però ci uniscono: siamo entrambi clinici e ricercatori. Benedetto fa ricerca soprattutto da una prospettiva neuroscientifica; io parto dai trascritti delle sedute di psicoterapia per valutare la qualità dell’alleanza terapeutica: rotture, riparazioni, negoziazioni...
Entrambi siamo cresciuti studiando la teoria dell’attaccamento di Bowlby, che pone basi etologiche e motivazionali all’origine delle relazioni e dello sviluppo della personalità. Forse l’unica teoria che ha saputo raccogliere attorno a sé, mettendole in dialogo, discipline tra loro diverse e litigiose. «Oggi - dice Farina - potremmo metterla così: la tua psicoanalisi e il mio cognitivismo considerano la relazione con il paziente il principale strumento terapeutico. Ma non è forse questo il fattore comune che secondo la ricerca spiega l’efficacia di tutti i trattamenti?».
Vittorio Lingiardi: Sì, l’esito di una terapia è in gran parte associato alla qualità della relazione che si stabilisce tra paziente e terapeuta. Detto questo, le variabili in gioco sono molte. Anche perché molte sono le psicoanalisi e molti i cognitivismi. Nonostante il marchio di fabbrica, un paziente in cerca di terapia non sa mai esattamente quello che trova. E poi ci sono le diverse tipologie, anche caratteriali, di terapeuta. Un terapeuta riservato e uno espansivo funzionano nello stesso modo? Con tutti i pazienti? Per tornare alla relazione come fattore terapeutico, mi domando se è più in gioco l’accudimento o la cooperazione, pur sapendo che il bravo clinico sa dosare il loro contributo.
Benedetto Farina: È un tema che appassionava Liotti, il quale ha sempre sostenuto che è più efficace impostare la terapia sul piano cooperativo, soprattutto con pazienti gravi che hanno alle spalle un’infanzia traumatica. Stimolare troppo il sistema dell’attaccamento è rischioso, può riattivare memorie traumatiche di accudimenti mancati o distorti. Molte ricerche dimostrano che la promozione di un clima di cooperazione favorisce invece la capacità di provare empatia, di sintonizzarsi con i pensieri degli altri, di comprendere il funzionamento della mente propria e altrui e di lavorare sugli aspetti che portano a soffrire.
VL: È quello che in psicologia viene chiamato mentalizzare, una funzione che inizia a svilupparsi nei primi anni e ci accompagna tutta la vita. Ed è il pane quotidiano di molte terapie. La sua complessità sta nel riuscire a "tenere in mente" i nostri stati mentali e quelli degli altri. Sofisticate tecniche di registrazione simultanea dell’attività cerebrale di due individui che interagiscono mostrano che l’attività elettrica dei loro cervelli, nelle aree evolutivamente più recenti come la corteccia frontale, si sincronizza quando devono compiere azioni coordinate e cooperative.
BF: Molte discipline indicano che l’eccezionale espansione del cervello e lo sviluppo delle funzioni cognitive e culturali di cui l’uomo è capace sono il risultato di una traiettoria evolutiva finalizzata alla relazione e alla cooperazione. La spinta motivazionale alla cooperazione ha richiesto lo sviluppo di capacità cognitive sempre più sofisticate come il linguaggio, l’empatia, la condivisione di scopi e decisioni, l’insegnamento.
VL: E dunque delle strutture cerebrali per sostenerle. Ma se la capacità di instaurare legami cooperativi è così fondata sul piano etologico e biologico, come può essere tanto in disgrazia sul piano sociale? Il discorso va affrontato sul piano dell’evoluzione. Proprio Liotti ci insegnava a non perdere di vista la tripartizione evolutiva e gerarchica del nostro cervello e dei nostri sistemi motivazionali. Il livello più arcaico presiede le condotte non-sociali legate alla regolazione delle funzioni fisiologiche, alla difesa dai pericoli, al controllo del territorio, ecc. Quando è molto attivato può avere la meglio. Il secondo livello corrisponde all’attività delle reti neurali che definiscono le condotte di attaccamento, accudimento, richiesta/offerta di cura, ecc. Il terzo livello, prerogativa della specie umana, è nella neo-corteccia e riguarda le dimensioni cognitive dell’intersoggettività e della costruzione di significati. Regola i livelli più arcaici ed è influenzato dalla cultura di appartenenza.
BF: Ed è proprio qui che poggia il sistema cooperativo paritetico. La spinta a cooperare non solo ha promosso le nostre capacità empatiche e intellettuali, ma ha anche favorito la nascita della cultura. Il vantaggio di condividere ciò che si è appreso dall’esperienza individuale è alla base delle capacità culturali che caratterizzano la nostra specie.
VL: Ha dunque ragione l’antropologo Robert Boyd quando sostiene che il nostro successo nell’adattamento è dovuto alla capacità di imparare dagli altri, una capacità che ci permette di accumulare informazioni tra le generazioni e sviluppare strumenti, credenze e pratiche che sarebbe troppo complesso per il singolo individuo concepire durante l’arco della vita. La cosiddetta social brain hypothesis ci spiega infatti che, nei primati, l’espansione del cervello è avvenuta per gestire rapporti sociali sempre più complessi e cooperare al meglio. Un fatto che ci aiuta a capire lo sviluppo di tutte quelle relazioni non finalizzate alla riproduzione, "cognitivamente" impegnative e specificamente umane, come quella psicoterapeutica. Se la mente umana si è sviluppata per cooperare non sorprende che, quando si ammala o soffre, la sua cura non possa che basarsi su una relazione cooperativa.
L’aspetto più "miracoloso" dell’evoluzione è forse proprio l’abilità di generare cooperazione in un mondo competitivo. Al punto che c’è chi sostiene che, alla mutazione e alla selezione naturale, andrebbe aggiunta la cooperazione come terzo principio fondamentale dell’evoluzione.
CULTURE
Scoprì le stelle pulsar ma il Nobel andò al suo professore: 44 anni dopo, l’astrofisica si prende la sua rivincita
Jocelyn Bell Burnell era solo una studentessa di Cambridge negli anni ’70 e, per di più, donna. Come "risarcimento" riceverà un premio da 3 milioni di dollari
di Huffington Post (07.09.2018)
Per la scoperta delle stelle pulsar - merito suo - l’astrofisica britannica Jocelyn Bell Burnell non ricevette alcun premio. Anzi, il Nobel per la Fisica, che le spettava, invece che a lei andò al suo professore. D’altronde lei era solo una studentessa di Cambridge, giovane e per di più donna. Oggi, però, la scienziata si è presa una rivincita: in USA le è stato assegnato lo "Special Breaktrough Prize", un premio finanziato dai miliardari della Silicon Valley, del valore di 3 milioni di dollari.
Basterà questo risarcimento tardivo a compensare lo "scippo" del Nobel? "Sono rimasta assolutamente senza parole", ha affermato Jocelyn ai media dopo aver appreso la notizia, "e chiunque mi conosce sa che non sono mai senza parole. Non era mai entrato neppure nei miei sogni più bizzarri".
Jocelyn Bell Burnell fu autrice di una delle maggiori conquiste scientifiche del XX secolo. Nata nel 1943 in Irlanda del Nord, Jocelyn era arrivata all’università di Cambridge per un dottorato. Fu proprio durante il periodo di studio, precisamente nel 1967, che fece l’importante scoperta: mentre esaminava i dati provenienti da un radiotelescopio che aveva aiutato a costruire, si accorse di un segnale insolito, onde radio che pulsavano a intervalli regolari. "Me ne sono accorta perché ero molto attenta, molto precisa, a causa della ’sindrome dell’impostore’", ha raccontato al Guardian. Il riferimento è a quella sensazione di essere sempre in errore: Jocelyn dubitava delle proprie capacità e temeva di poter essere cacciata da Cambridge.
Fu il professore il primo a "smontarla": le disse che quel segnale era semplicemente un’interferenza, di origine umana.
Lei non si arrese: raccolse ulteriori dati e rilevò tre diversi impulsi radio provenienti da diverse parti della galassia. Questi provenivano da stelle pulsar, le quali, quando ruotano su se stesse, emettono onde radio che si diffondono nello spazio come da un faro cosmico.
La scoperta fu talmente sensazionale da guadagnarsi il Nobel, che però non andò a Jocelyn ma al suo professore. "Ero soltanto una studentessa", commenta oggi la scienziata. Come per riscattare il torto subito, l’astrofisica donerà i 3 milioni vinti per finanziare gli studi scientifici delle giovani donne.
ARITMETICA E ANTROPOLOGIA. UNA DOMANDA AI MATEMATICI: COME MAI "UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia)?! Non è il caso di ripensare i fondamenti"? ..... *
Antropologia.
Caleb Everett: Siamo tutti figli dei numeri
Sono fondamentali per lo sviluppo della civiltà, delle relazioni umane e della coscienza di sé. Parla l’antropologo che ha studiato le società primitive che non ne fanno uso
di Eugenio Giannetta (Avvenire, mercoledì 15 agosto 2018)
Che ore sono? Quanto è alto? Quanto pesa? Domande semplici, che richiedono una risposta semplice, perlopiù racchiusa in un numero. Eppure ci sono società, popoli diversi dal nostro, che vivono senza i numeri per come li conosciamo e utilizziamo quotidianamente. Tutto ciò è al centro del lavoro di Caleb Everett, docente di Antropologia all’Università di Miami, che ha ripercorso le tappe dell’invenzione dei numeri:
«Un insieme fondamentale di innovazioni di carattere linguistico che hanno contraddistinto la nostra specie in modi che non hanno trovato adeguato riconoscimento».
I numeri in effetti sono un’invenzione umana che di fatto ha trasformato l’evoluzione della nostra esperienza, a partire appunto da domande semplici.
«Nella popolazione Munduruku dell’Amazzonia - spiega Everett -, non esistono parole esatte per i numeri superiori al ’due’. Nel caso di un altro popolo amazzonico, i Piraha, le parole per indicare i numeri non esistono affatto, nemmeno per il numero 1. Gli individui di queste popolazioni come fanno allora a rispondere alla domanda ’quanti anni hai?’, o ad altre domande che si basano sul concetto di numero e che per la maggior parte delle persone della nostra società riguardano aspetti fondamentali della vita?». Everett ricorda come i numeri siano protagonisti nel nostro presente, ma anche nel nostro passato, poiché segnano la cronologia degli eventi e la percezione del trascorrere del tempo. La sua analisi, però, non si limita a questo, tocca infatti altri aspetti, come quello simbolico, le concezioni numeriche di bambini in età pre-linguistica e le capacità numeriche di alcune specie animali.
È un lavoro antropologico tout court, che attraversa la storia dei numeri e del linguaggio, e che ne definisce appunto il tratto numerico e il valore della quantità, a partire da misurazioni primitive, quindi da unità di misura indicate inizialmente con parti del corpo umano, fino a un diverso e più sviluppato livello di astrazione. Il risultato finale di queste ricerche, che hanno portato Everett in Amazzonia e Nicaragua,- è il saggio I numeri e la nascita della civiltà. Un’invenzione che ha cambiato il corso della storia (Franco Angeli, pagine 282, euro 25), di cui abbiamo parlato con l’autore, la cui tesi, riferita già dal prologo del volume, rivela come i numeri abbiano nel tempo consentito una fioritura di tecnologie materiali e comportamentali:
«Nella vita quotidiana ci affidiamo a conoscenze che non sono propriamente nostre, che possiamo ricavare dalle menti altrui, e che in molti casi sono state acquisite casualmente e in modo violento nel corso dei millenni. Pensate ad alcuni esempi della vostra cultura: non avete dovuto inventare l’automobile, gli impianti di riscaldamento o il modo più efficiente per sfilettare il pollo: sono tecnologie e comportamenti che avete ereditato. Le vostre azioni sono state modellate attraverso gli altri e siete stati educati ai vostri comportamenti, sia in modo formale che informale, attraverso il linguaggio».
Riflessioni, quelle dell’autore, che sono il risultato di un approfondimento capillare di ulteriori studi condotti da archeologi, linguisti e psicologi, che negli ultimi anni hanno provato a mostrare come i numeri siano un’invenzione in primo luogo linguistica, spesso creati a partire dalla parola mano, che ha consentito di definire le quantità con minore approssimazione. Un passaggio non distante, ad esempio, da quanto accadde con l’invenzione delle parole per definire i colori.
Proviamo a immaginare: che cosa potrebbe accadere a una popolazione che si ritrovasse improvvisamente senza numeri?
«Ci vorrebbe molto tempo, a meno che non siano stati cancellati anche dalla mente delle persone, oltre che dalla lingua parlata e scritta. Ma presumendo che siano magicamente scomparsi, dovremmo lottare per gestire molte delle tecnologie che ci circondano, che richiedono una certa consapevolezza di quantità precise. Ad esempio, non saremmo in grado di comunicare il tempo in modo preciso, il che avrebbe un impatto su qualsiasi altra cosa. Le popolazioni anumeriche, o quelle con pochi numeri, non tengono traccia di cose come ore, minuti e secondi».
Senza i numeri, come sarebbe la nostra vita?
«Senza numeri le nostre vite sarebbero probabilmente molto più simili a quelle delle persone di cui parlo nel libro. Probabilmente saremmo cacciatori, raccoglitori e non indu-strializzati, dal momento che sia l’agricoltura che l’industrializzazione si basano sugli strumenti concettuali che chiamiamo numeri».
I suoi genitori erano missionari e si sono occupati della traduzione della Bibbia in varie lingue, cosa che le ha dato la possibilità di passare molto tempo tra le tribù dell’Amazzonia. La sua esperienza da bambino in quei luoghi e con quelle culture ha ispirato questo lavoro?
«Certamente, mi ha dato un’esperienza di prima mano con un gruppo di persone che non ha numeri, che alla fine mi ha portato a interessarmi a questo argomento, come ricercatore, anni dopo».
È possibile che cambi la cultura numerica di una popolazione?
«Le culture numeriche cambiano continuamente. Basta considerare quanto sia cambiata la cultura numerica dell’Europa, o più specificamente la regione che ora è l’Italia. Durante l’impero romano fu usato un insieme di numeri completamente diverso, che aveva alcuni svantaggi rispetto al sistema numerico indù-arabo che ora usiamo. Fibonacci lo riconobbe nel XIII secolo e, in parte per via del suo lavoro, i numeri che ora usiamo arrivarono alla diffusione in tutto il mondo. E hanno svolto un ruolo importante nella rivoluzione scientifica».
Nella nostra epoca numeri e dati sono sempre più importanti, basti ragionare sul concetto di big-data. Quanto emerge questo aspetto dal suo lavoro?
«Faccio ricerche anche su altri argomenti, ad esempio sui suoni prodotti dagli esseri umani. E questa ricerca richiede l’utilizzo di big data. In un recente lavoro con migliaia di linguaggi, ad esempio, il mio lavoro suggerisce che il clima potrebbe influire sul modo in cui le lingue evolvono».
È possibile pensare a numeri scollegati dalla loro rappresentazione linguistica?
«Potrebbe essere possibile, ma possiamo dire con certezza che, prima di essere annotati o espressi in altri modi non verbali, in ogni cultura i numeri venivano prima pronunciati».
C’è una differenza tra tradizione orale e scritta riguardo ai numeri?
«La tradizione orale ha il primato, ma tornando a Fibonacci, ad esempio, i numeri che ha introdotto avevano una storia diversa rispetto ai numeri parlati italiani»
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ARITMETICA E ANTROPOLOGIA. UNA DOMANDA AI MATEMATICI: COME MAI "UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia)?! Non è il caso di ripensare i fondamenti?!
CHI SIAMO NOI IN REALTA’? Relazioni chiasmatiche e civiltà: UN NUOVO PARADIGMA.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ. Al di là dell’Egoismo etico e dello Stato etico .... *
La questione Stirner
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, Domenica, 06 maggio 2016)
Quando a metà degli anni Quaranta dell’Ottocento in Germania uscì “L’Unico e la sua proprietà” di Max Stirner, pseudonimo di Johann Caspar Schmidt, la censura non intervenne. I funzionari che dovevano vigilare sulla circolazione delle idee ritennero l’opera incomprensibile, frutto di una mente folle, malata o qualcosa del genere; decisero perciò di non bloccarla, perché nessuna persona normale avrebbe potuto ricevere danno da questo professore di un istituto femminile di 39 anni. Il quale, dopo l’uscita del libro, avrebbe perso il posto.
L’”Unico” non passò inosservato. Marx ed Engels ne scrissero subito, anche se le loro pagine saranno pubblicate soltanto all’inizio del Novecento; la cerchia degli amici che con Stirner avevano seguito le lezioni di Hegel, non tacque; per le correnti anarchiche divenne ben presto un riferimento. Negli Stati Uniti Warren, in Francia Proudhon, in Russia Bakunin e poi Kropotkin, per ricordare alcuni classici riferimenti di questa corrente, tennero necessariamente conto di codeste pagine.
Un’opera che a volte si ripete ma che è sempre dominata da una tensione senza eguali. Si apre e si chiude con un’affermazione forte: “Io ho fondato la mia causa su nulla!”. E non è difficile incontrare frasi come questa: “Io che al pari di Dio e dell’umanità sono il nulla di ogni altro, io che sono il mio tutto, io che sono l’unico!”.
Max Stirner distrugge la filosofia del suo tempo, esalta l’egoismo (“nessuna cosa mi sta a cuore più di me stesso!”), sbugiarda il potere, attacca ogni religione, propone qualcosa di irrealizzabile ma tutti i grandi lo mediteranno, a cominciare da Dostoevskij e Nietzsche.
E oggi? Un libro, curato da Marcello Montalto e pubblicato da Mimesis con il titolo “La questione Stirner” (pp. 224, euro 20), raccoglie i primi critici dell’”Unico”. Si tratta di preziosi e poco noti testi ottocenteschi scritti da Moses Hess (un precursore del sionismo), Feuerbach, Kuno Fischer, Szeliga (ovvero Franz Zychlin von Zychlinski, che diventerà generale dell’armata prussiana) e le repliche dello stesso Stirner: mostrano tutti i fraintendimenti a cui fu soggetta l’opera e il suo autore.
Montalto ricorda nell’ampia e documentata introduzione che Stirner era tutt’altro che astratto dalla realtà e ignaro dei meccanismi sociali ed economici (critica di Hess), soprattutto rammenta un’intuizione di Carl Schmitt che in un giudizio lapidario e tagliente affermò: “Max sa qualcosa di molto importante. Sa che l’io non è più oggetto di pensiero”.
Che aggiungere? Fichte, il gran sacerdote dell’io, era morto da tempo e anche i dogmi della filosofia idealistica tedesca ormai avevano lasciato i cuori e abitavano soltanto nelle biblioteche. Stirner mostrò il mondo attuale: egoista, senza ideali, pronto a diventare nulla.
Egoismo etico. Sullo sfondo del problema dell’emancipazione umana, ritorno di interesse per il filosofo tedesco in un’epoca in cui la questione dell’individuo è ridiventata centrale
Quell’asociale di Stirner
di Michele Ciliberto (Il Sole-24 oRE, Domenica, 19.08.2018)
Alla morte di Hegel, come si sa, la sua scuola si spezzò in due tronconi : da un lato, la destra; dall’altro la sinistra, della quale fecero parte, con autonomia e originalità di pensiero, personalità di primissimo piano come Bruno Bauer, Carlo Marx, Max Stirner, autori di opere che hanno lasciato un solco profondo nella storia del pensiero del XIX secolo. Escono, in generale, tra la fine degli anni trenta e i primi anni quaranta, ed hanno in genere al centro la critica della religione , come principio di una riflessione generale sulla condizione umana. L’Unico di Stirner viene pubblicato nel 1844 (sul frontespizio si legge però 1845); la Tromba dell’ultimo giudizio contro Hegel ateo e anticristo. Un ultimatum, di Bauer, nel 1841, mentre al 1843 risale un’altra sua opera fondamentale, La questione ebraica che, a sua volta, è oggetto di una immediata , e dura, discussione da parte di Marx, il quale pur riconoscendo il valore dell’avversario, ne critica a fondo le tesi, alla luce delle posizioni messe a fuoco in un’altra opera essenziale di questo periodo, la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico. Qui Marx utilizza, e sviluppa sul piano politico, la critica che Feuerbach aveva rivolto alla filosofia hegeliana mettendo al centro della sua analisi il rovesciamento tra soggetto e predicato operato, a suo giudizio, da Hegel.
L ’essenza del cristianesimo, come si intitola il libro di Feuerbach, esce nel 1841 - lo stesso anno del testo di Bauer - ed ebbe uno straordinario successo. Come dice Federico Engels, molti anni dopo, leggendolo diventammo tutti “feuerbachiani”, rievocando il senso di liberazione che il testo di Feuerbach aveva generato in lui come in tutta la sua generazione.
Del resto, basterebbe leggere la Critica della filosofia del diritto hegeliano o le pagine finali della Questione ebraica di Marx per comprendere in presa diretta quanto Feuerbach abbia inciso a fondo sui principali esponenti della sinistra
hegeliana, a cominciare proprio da Marx: la critica della politica e della concezione della figura del legislatore di Rousseau che chiude la Questione ebraica e la critica della filosofia hegeliana attuata nella Critica hanno come riferimento principale da un lato la concezione dell’uomo come “ente generico”; dall’altro, la critica del rovesciamento tra soggetto e predicato- entrambi architravi del pensiero di Feuerbach. Come a suo tempo dimostrò Cesare Luporini in un saggio memorabile, è Feuerbach l’interlocutore principale di Marx in questi testi.
In tutti questi pensatori - da Bauer a Marx a Stirner - il problema centrale è quello della emancipazione umana, con un conseguente spostamento della critica dal piano della religione a quello della politica. E questo sia per motivi sia teorici che di ordine storico: nel 1840 era asceso al trono di Prussia Federico Guglielmo IV, figura complessa e contraddittoria, che attutì, non valutandone le conseguenze, la censura sulla stampa, come conferma la nascita , in questo periodo, di riviste importanti ma nettamente critiche dell’esistente, quale la Reinische Zeitung, pubblicata a Colonia dal gennaio 1842 al marzo 1843, alla quale collaborano sia Marx che Stirner. Sono, questi, anni di straordinarie battaglie in Germania per l’emancipazione religiosa, politica e sociale.
Se il problema è quello della emancipazione si tratta però di comprendere di quale emancipazione abbia bisogno l’uomo, ed è qui che le strade divergono in modo radicale : per Bauer, nella Questione ebraica, l’emancipazione non deve essere dell’ebreo in quanto ebreo, ma dell’uomo in quanto uomo, e deve essere essenzialmente di tipo politico; per Marx l’emancipazione deve essere di ordine sociale: è solo agendo su questo piano che l’uomo può effettivamente emanciparsi, oltrepassando la separazione moderna tra stato e società civile, tra borghese e cittadino; per Stirner occorre andare al di là sia della politica e dello stato che della società, dello stesso concetto dei “diritti umani”- tutti fantasmi, spettri,astrattezze di cui liberarsi - assumendo come principio della liberazione il concetto dell’Unico, quale archetipo di una nuova concezione dell’uomo e del suo destino. A Stirner non interessano né la comunità, né la società: gli altri sono mezzi e strumenti da adoperare come proprietà del singolo.
Rispetto a interlocutori del calibro di Marx e Bauer, Stirner, stravolgendo in chiave individualistica “egoistica” e nihililistica il concetto moderno di potere, e connettendolo a quello di proprietà, si situa in un punto di vista totalmente altro, suscitando per la radicalità delle sue posizioni l’interesse di pensatori come Nietzsche, che ne riprende il concetto di volontà di potenza. Anche se - come ha scritto Roberto Calasso - è quella di Stirner «la vera “filosofia del martello” , che Nietzsche non sarebbe mai riuscito a praticare , perché troppo irrimediabilmente educato...».
«Si dice di Dio:”Nessun nome ti nomina”. Ciò vale anche per me: nessun concetto mi esprime, niente di ciò che di indica come mia essenza mi esaurisce: sono soltanto nomi..» . L’Unico di Stirner agisce solo per sè, situandosi al di fuori di qualunque apparato costruttivo: l’ Unico, se lo ritiene opportuno, può associarsi , ma il concetto di associazione è del tutto diverso da quello di stato, il quale non ha alcuna legittimità e al quale Stirner è totalmente avverso . Come è avverso al nazionalismo, al liberalismo, allo statalismo, al comunismo, ed anche all’umanismo....In Stirner il nihilismo si realizza in maniera compiuta :«Io - scrive, riprendendo un verso di Goethe - ho fondato la mia causa sul nulla..».
Si capisce che Marx nella Ideologia tedesca abbia sottoposto a una critica radicale il pensiero di San Max, come lo chiama : sono posizioni polari. Non è concepibile per Marx l’opposizione tra individuo e società, l’uomo si determina nei rapporti sociali. E si capisce anche perché Stirner abbia avuto fortuna presso posizioni di tipo anarco-individualistiche, ed anche perché il suo pensiero susciti particolare interesse in un tempo come il nostro nel quale sono in crisi tutti i principi “moderni“ contro cui Stirner conduce una lotta senza quartiere, e quella dell’individuo è ridiventata una questione centrale.
In questo senso, le sue pagine sono singolarmente attuali e possono essere rilette in modo nuovo, al di fuori di vecchi e nuovi pregiudizi . È stato perciò assai opportuno ripubblicare, con testo tedesco a fronte, questo grande libro nella “bella” e “fedele” traduzione di Sossio Giametta, che vi ha premesso anche una originale e limpidissima Introduzione. Stirner ha messo a fuoco aspetti della condizione umana che oggi, mentre un intero mondo si dissolve, appaiono in piena luce. Molto più di quanto sia apparso in passato. Come diceva il vecchio Hegel, è la fine che illumina il principio e il suo sviluppo.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". Dalla democrazia della "volontà generale" alla democrazia della "volontà di genere". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
CRITICA DELL’ECONOMIA TEOLOGICO-POLITICA. " Me ne stavo seduto pensieroso, misi da parte Locke, Fichte e Kant e mi dedicai a una profonda ricerca per scoprire in che modo una lisciviatrice può essere connessa al maggiorascato, quando mi trapassò un lampo (...)" (K. Marx, "Scorpione e Felice").
GIOACCHINO, DANTE, E LA "CASTA ITALIANA" DELLO "STATO HEGELIANO" - DELLO STATO MENTITORE, ATEO E DEVOTO ("Io che è Noi, Noi che è Io"). Appunti e note
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
AUTOSTRADE PER IL CIELO: CARTE TRUCCATE E "PONTE PERICOLANTE". L’*AMORE* Di MARIA E GIUSEPPE E LA "PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018" :
PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018 *
Dio, nostro Padre,
Siamo fratelli e sorelle in Gesù, tuo Figlio,
Una famiglia unita dallo Spirito del tuo amore.
Benedici ognuno di noi con la gioia dell’amore.
Rendici pazienti e gentili,
Amorevoli e generosi,
Accoglienti con i bisognosi.
Aiutaci a vivere il tuo perdono e la tua pace.
Proteggi tutte le nostre famiglie con il tuo amore,
Specialmente coloro che ti affidiamo ora con la nostra preghiera:
[facciamo un momento di silenzio per pregare per i membri della famiglia e altre
persone che ci stanno a cuore, ricordandoli per nome].
Aumenta la nostra fede,
Rendi forte la nostra speranza,
Conservaci nel tuo amore,
Aiutaci ad essere sempre grati del dono della vita che condividiamo.
Ti chiediamo questo nel nome di Cristo, nostro Signore,
Amen
Maria, madre e guida nostra, prega per noi.
San Giuseppe, padre e protettore nostro, prega per noi.
Santi Gioacchino e Anna, pregate per noi.
San Luigi e Zelia Martin, pregate per noi.
*Fonte: https://www.worldmeeting2018.ie/WMOF/media/downloads/prayerA4-IT.pdf
* L’Incontro mondiale. «Famiglia, sfida globale». Ecco il senso dell’incontro di Dublino. L’arcivescovo Martin, primate della Chiesa d’Irlanda: Amoris Laetitia, messaggio di misericordia nella complessità. Uno spazio dedicato anche al soloroso tema degli abusi (di Luciano Moia, Avvenire, venerdì 17 agosto 2018: https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/famiglia-sfida-globale-ecco-il-senso-di-dublino).
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala (18.08.2018)
IL MESSAGGIO EVANGELICO, IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, E LA CATASTROFE DELL’EUROPA.
"PERCHE’ NON POSSIAMO NON DIRCI CRISTIANI", 0GGI.. In memoria di (Benedetto Croce), alcune note a margine del discorso di Papa Francesco, all’Angelus del 12 agosto 2018 d. C. ... *
PAPA FRANCESCO
ANGELUS
Piazza San Pietro
Domenica, 12 agosto 2018
Cari fratelli e sorelle e cari giovani italiani,
buongiorno!
Nella seconda Lettura di oggi, San Paolo ci rivolge un pressante invito: «Non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste segnati per il giorno della redenzione» (Ef 4,30).
Ma io mi domando: come si rattrista lo Spirito Santo? Tutti lo abbiamo ricevuto nel Battesimo e nella Cresima, quindi, per non rattristare lo Spirito Santo, è necessario vivere in maniera coerente con le promesse del Battesimo, rinnovate nella Cresima. In maniera coerente, non con ipocrisia: non dimenticatevi di questo. Il cristiano non può essere ipocrita: deve vivere in maniera coerente. Le promesse del Battesimo hanno due aspetti: rinuncia al male e adesione al bene.
Rinunciare al male significa dire «no» alle tentazioni, al peccato, a satana. Più in concreto significa dire “no” a una cultura della morte, che si manifesta nella fuga dal reale verso una felicità falsa che si esprime nella menzogna, nella truffa, nell’ingiustizia, nel disprezzo dell’altro. A tutto questo, “no”. La vita nuova che ci è stata data nel Battesimo, e che ha lo Spirito come sorgente, respinge una condotta dominata da sentimenti di divisione e di discordia. Per questo l’Apostolo Paolo esorta a togliere dal proprio cuore «ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenza con ogni sorta di malignità» (v. 31). Così dice Paolo. Questi sei elementi o vizi, che turbano la gioia dello Spirito Santo, avvelenano il cuore e conducono ad imprecazioni contro Dio e contro il prossimo.
Ma non basta non fare il male per essere un buon cristiano; è necessario aderire al bene e fare il bene. Ecco allora che San Paolo continua: «Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo» (v. 32). Tante volte capita di sentire alcuni che dicono: “Io non faccio del male a nessuno”. E si crede di essere un santo. D’accordo, ma il bene lo fai? Quante persone non fanno il male, ma nemmeno il bene, e la loro vita scorre nell’indifferenza, nell’apatia, nella tiepidezza. Questo atteggiamento è contrario al Vangelo, ed è contrario anche all’indole di voi giovani, che per natura siete dinamici, appassionati e coraggiosi. Ricordate questo - se lo ricordate, possiamo ripeterlo insieme: “E’ buono non fare il male, ma è male non fare il bene”. Questo lo diceva Sant’Alberto Hurtado.
Oggi vi esorto ad essere protagonisti nel bene! Protagonisti nel bene. Non sentitevi a posto quando non fate il male; ognuno è colpevole del bene che poteva fare e non ha fatto. Non basta non odiare, bisogna perdonare; non basta non avere rancore, bisogna pregare per i nemici; non basta non essere causa di divisione, bisogna portare pace dove non c’è; non basta non parlare male degli altri, bisogna interrompere quando sentiamo parlar male di qualcuno: fermare il chiacchiericcio: questo è fare il bene. Se non ci opponiamo al male, lo alimentiamo in modo tacito. È necessario intervenire dove il male si diffonde; perché il male si diffonde dove mancano cristiani audaci che si oppongono con il bene, “camminando nella carità” (cfr 5,2), secondo il monito di San Paolo.
Cari giovani, in questi giorni avete camminato molto! Perciò siete allenati e posso dirvi: camminate nella carità, camminate nell’amore! E camminiamo insieme verso il prossimo Sinodo dei Vescovi. La Vergine Maria ci sostenga con la sua materna intercessione, perché ciascuno di noi, ogni giorno, con i fatti, possa dire “no” al male e “sì” al bene.
Dopo l’Angelus
Cari fratelli e sorelle,
rivolgo il mio saluto a tutti voi, romani e pellegrini provenienti da tante parti del mondo.
In particolare saluto i giovani delle diocesi italiane, accompagnati dai rispettivi Vescovi, dai loro sacerdoti ed educatori. In questi giorni, avete riversato per le strade di Roma il vostro entusiasmo e la vostra fede. Vi ringrazio per la vostra presenza e per la vostra testimonianza cristiana! E ieri, nel ringraziare, ho dimenticato di dire una parola ai sacerdoti, che sono quelli che vi sono più vicini: ringrazio tanto i sacerdoti, ringrazio per quel lavoro che fanno giorno per giorno, ringrazio per quella pazienza - perché ci vuole pazienza per lavorare con voi! La pazienza dei sacerdoti ... - ringrazio tanto, tanto, tanto. E ho visto anche tante suore che lavorano con voi: anche alle suore, grazie tante.
E la mia gratitudine si estende alla Conferenza Episcopale Italiana - qui rappresentata dal Presidente Cardinale Gualtiero Bassetti - che ha promosso questo incontro dei giovani in vista del prossimo Sinodo dei Vescovi.
Cari giovani, facendo ritorno nella vostre comunità, testimoniate ai vostri coetanei, e a quanti incontrerete, la gioia della fraternità e della comunione che avete sperimentato in queste giornate di pellegrinaggio e di preghiera.
A tutti auguro una buona domenica. Un buon rientro a casa. E per favore, non dimenticate di pregare per me! Buon pranzo e arrivederci!
* Appunti di commento sul tema, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
IL MESSAGGIO EVANGELICO, IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, E LA CATASTROFE DELL’EUROPA. “Come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
LA LEZIONE CRITICA DI KANT. Alcune luminose pagine da "La fine di tutte le cose"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
FILOSOFIA E ANTROPOLOGIA.
di Giorgio Agnisola («Avvenire», 24 luglio 2018)
I1 titolo, peraltro suggestivo, dell’ultimo libro di Aldo Masullo, L’Arcisenso, può far supporre una disamina attorno ai disperanti sensi dell’incomunicabilità. In realtà il novantaseienne filosofo italiano declina nella sua opera una differente definizione della solitudine, essendo al centro della sua riflessione i concetti di relazione e intersoggettività, da sempre suoi luoghi di approfondita indagine. Nello specifico il libro raccoglie scritti di epoche differenti opportunamente rivisti, puntando l’autore, in definitiva, a una sintesi del suo pensiero.
In principio Masullo pone il significato di "paticità". Essa muove, secondo il filosofo, ogni atto e sentire umani. «Nulla si compie, nulla avviene nella coscienza se non nel segno del patire». In questo senso gioia e dolore sono facce di una stessa essenza umana; «sicché questo patire, diciamo sentire profondamente implicato col sentirsi, con il sensus sui, è unico e inviolabile. Io posso dire al mio simile ciò che penso, posso spiegarmi e spiegare, posso in sostanza comunicare, ma non posso trasmettere a chi mi ascolta, pur desiderandolo, il mio personale sentire». «Toccare un altro non è toccarlo ma sentirsi mentre lo si tocca».
In sostanza non si esiste, scrive Masullo, se non si sente di esistere, ma il sentire dell’altro mai io posso sentirlo. Il mio sentire resta incomunicabile, ostinatamente e imprescindibilmente legato al mio sé: dunque «Il sentir-si, l’Arcisenso, è l’Intoccabile».
Da qui la solitudine di leopardiana memoria (a Leopardi l’autore dedica un affascinante capitolo), il sentire la solitudine del sentirsi. Che non è dunque solo una condizione dello spirito, ma anche un’esperienza del corpo. L’attitudine morale e lo stesso valore della politica, afferma Masullo, derivano da questo principio. Ora questa solitudine può condurre al male, può corrompersi nell’odio e cedere alla castrante paura dell’intimità. Ma può essere una preziosa chance.
La solitudine infatti, scrive ancora il filosofo, può dirsi in definitiva una condizione positiva della natura umana, giacché dalla solitudine deriva il bisogno di comunicare, di cercare strategie di convivenza, di operare nel sociale, di condividere.
Con questa premessa Masullo rilegge temi fondanti della filosofia contemporanea, come il relativismo, a cui assegna un valore politico. Il relativismo, afferma il filosofo, viene sovente letto in termini negativi. Viceversa «è proprio dalla certezza del relativo che può nascere la volontà, il bisogno di una strategia di adattamento e di mediazione».
Il conclusivo capitolo del libro dal titolo «Nei labirinti della soggettività» ha un valore emblematico. In esso il filosofo recupera la storia della sua ricerca in una prospettiva autobiografica. Sembrerebbe un capitolo eccentrico rispetto al contesto dell’opera. In realtà scorrendolo si comprende che esso fa da legante al testo, in qualche misura ne spiega i nessi, tra tema e tema, e li riassume nel profondo della straordinaria storia umana del maestro.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Questione antropologica
IL PROGRAMMA DI KANT. DIFFERENZA SESSUALE E BISESSUALITA’ PSICHICA: UN NUOVO SOGGETTO, E LA NECESSITA’ DI "UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA".
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
FILOSOFIA, BIOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E SOCIETA’..... *
Confini. L’elmento maschile, in una panoramica generale, si presenta in modo sporadico e occasionale, e dunque accessorio
La fine del sesso
I successi delle biotecnologie interrogano su una questione: declino e limiti di «rapporti naturali» e riproduzione sessuata
di Carlo Alberto Redi (Corriere della Sera, La Lettura, 05.08.2018)
Una delle domande trabocchetto negli esami del corso di laurea in Scienze biologiche è quella relativa alla definizione di sesso. Lo studente impreparato cade nell’errata semplificazione antropocentrica di definire il sesso come potrebbe fare la mitica casalinga di Voghera (Arbasino docet): l’insieme delle contrastanti e complementari caratteristiche (anatomiche, fisiologiche, psicologiche) che mostrano gli individui delle specie a riproduzione sessuata, dissertando poi di sesso genetico, cromosomico, gonadico e precisando tutti i caratteri apprezzabili, primari (ovaio e testicolo), secondari (peli, barba e mestruazioni), terziari (aspetti psicologici e di genere). La corretta definizione fa riferimento al processo della ricombinazione genetica dei caratteri ereditari: nella produzione dei gameti, uova e spermatozoi, la molecola di Dna viene tagliata e ricucita, mescolando i caratteri genetici e creando variabilità nell’assortimento degli stessi. Il grande vantaggio evolutivo della riproduzione sessuata consiste così nel creare un’alta variabilità genetica, sulla quale si esercita la selezione darwiniana; gli individui che hanno ereditato le associazioni di caratteri più favorevoli per l’ambiente in cui vivono sono in grado di accedere con maggiore successo alle risorse ambientali e quindi di riprodursi (fitness).
Due le grandi ipotesi che tentano di spiegare l’origine della riproduzione sessuata, la tangled bank e la «Regina rossa». La prima fa riferimento a Charles Darwin, che nell’ultimo paragrafo della sesta e ultima edizione dell’Origine delle specie, usa l’espressione tangled bank per descrivere l’ambiente come una «banca ingarbugliata», ricco di un enorme assortimento di tante e diverse creature tutte in competizione tra loro; creando alta variabilità genetica tra gli individui, la riproduzione sessuata assicura loro un vantaggio nella competizione per le risorse. La critica più ovvia è legata al fatto che i batteri presentano una scarsissima variabilità, pur essendo sul pianeta Terra da miliardi di anni.
Anche l’ipotesi della «Regina rossa» incontra difficoltà teoriche. La formula è di Leigh van Valen, che nel 1973 la riprese dal romanzo di Lewis Carroll Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, quando la «Regina rossa» spiega che «se si vuole andare da qualche altra parte, si deve correre almeno due volte più veloce».
Fu William Donald Hamilton a esplicitare la metafora in lavori scientifici che sono veri capisaldi concettuali della teoria genetica dell’evoluzione del sesso (e dell’altruismo, della sociobiologia, in particolare per le relazioni preda/predatore e parassitato/parassita): gli individui delle varie popolazioni che compongono una specie debbono sempre «correre», evolvere in continuazione, per sopravvivere; in altre parole, la ricombinazione genetica (il sesso) assicura al parassitato di evolvere rapidamente caratteristiche capaci di difenderlo dall’attacco del parassita, ma... anche il parassita, grazie al sesso, è in grado di evolvere nuove combinazioni di caratteri tali da permettergli di parassitare di nuovo, così perpetuando in continuazione l’infinita rincorsa.
La riproduzione asessuata è molto diffusa sia tra gli animali sia tra i vegetali; associata a un’alta capacità di rigenerazione dell’individuo, assicura la procreazione di cloni genetici. Si realizza per scissione binaria o per frammentazione e rigenerazione del corpo: chi tra i lettori non ha mai compiuto un’operazione di riproduzione asessuata di un vegetale strappando un pezzo di foglia, ramo, radice per riprodurlo, tramite talea rigenerativa, a casa propria? Negli animali è presente in moltissimi gruppi, dai Protozoi unicellulari ai Metazoi pluricellulari come i Poriferi (le spugne).
È materia del contendere se la riproduzione sessuata si sia originata da quella asessuata o viceversa. Oggigiorno si tende a preferire l’ipotesi che sia la riproduzione asessuata a essersi originata dalla primigenia sessuata (in molti libri di testo è ancora favorito il caso inverso), considerando il fatto che tutta la macchina enzimatica che assicura il taglia-e-cuci del Dna nel corso della ricombinazione genetica è essenzialmente quella impiegata nei meccanismi molecolari del taglia-e-cuci utili alla riparazione della doppia elica del Dna; questi erano già attivi nel mantenere l’integrità della molecola di acido nucleico dell’ultimo antenato universale comune di tutti gli esseri viventi (in sigla Luca, Last Universal Common Ancestor).
Comunque originato, il sesso è determinato da specifici geni che nel corso dell’evoluzione si sono raccolti su singoli cromosomi, i cromosomi sessuali X e Y (Mammiferi) oppure Z e W (Uccelli). Anche l’ambiente (temperatura, durata del periodo d’illuminazione giornaliera, densità di popolazione, risorse trofiche...) influenza la determinazione del sesso, come nelle tartarughe ove una temperatura superiore ai 30°C determina la nascita di femmine. Il sesso primario nell’uomo si stabilisce intorno alla quinta settimana di sviluppo, quando l’embrione indifferenziato sviluppa i testicoli con l’accensione del gene Sry (sul cromosoma Y) o l’ovario grazie al gene Wnt4 (sul cromosoma 1). Si intuisce chiaramente che un processo così altamente complesso possa alterarsi e produrre uno spettro di caratteristiche sessuali (intersessualità) che trascende rigide categorizzazioni. L’intersessualità non va confusa con l’ermafroditismo, ove un solo tipo di individui è portatore delle gonadi dei due sessi e produce sia uova sia spermatozoi (sebbene a fasi alterne e quindi gli ermafroditi debbono comunque accoppiarsi).
Un aspetto assai curioso e paradossale della riproduzione sessuata è che il sesso maschile, in una panoramica biologica generale, si presenta qui e là in modo sporadico e occasionale. Pur tralasciando la visione sociobiologica che assegna un «costo» al mantenimento dei maschi (costituiscono la metà della popolazione, non partecipano in modo significativo all’allevamento dei piccoli, non li generano direttamente), il sesso maschile risulta dunque un sesso accessorio e non obbligatoriamente presente, non indispensabile nell’accadere della riproduzione sessuata, che può essere tranquillamente portata a termine dalle sole femmine grazie alla partenogenesi, una modalità di riproduzione sessuata uniparentale.
La partenogenesi può produrre solo femmine oppure solo maschi o entrambi i sessi e può essere un modo obbligatorio di riproduzione oppure può comparire accidentalmente ed essere del tutto facoltativa; le varie modalità sono in relazione ai contesti di variazione delle condizioni ambientali e negli insetti stecco (Fasmidi) e negli Imenotteri sociali (api, vespe...) viene studiata in dettaglio. È possibile anche indurre la partenogenesi, artificialmente, con stimolazioni chimiche dell’oocita così da indurlo a riassorbire un piccolo globulo polare (un falso spermatozoo!) e ricostituire l’integrità del genoma.
L’intervento delle biotecnologie in ambito riproduttivo risale all’abate Lazzaro Spallanzani e al 1786, con la prima fecondazione artificiale realizzata nel cane (il clamore fu mondiale) per giungere alla nascita del primo baby in provetta (Louise Brown, nel 1978 ad opera del Nobel sir Robert Edwards). Se la fecondazione artificiale è pratica accettata, con gli attuali circa 400 mila bimbi che ogni anno nascono in provetta, di fatto la sessualità umana si interroga dinanzi alle attuali possibilità e pratiche di selezione del sesso con risvolti drammatici in alcune società orientali (Cina, India) ove è abitudine diffusa l’aborto delle femmine, al punto di aver prodotto un eccesso di maschi nella società degli adulti.
Di grande interesse l’analisi di questi problemi a livello internazionale realizzata dalla banca mondiale in relazione alle cause che li influenzano (guerre, migrazioni, politiche riproduttive). In che termini le biotecnologie riproduttive possano ridisegnare l’umanità e rendere obsoleto il sesso, permettendo di eliminare patologie e scegliere caratteristiche fisiche e mentali del nuovo individuo (il «bambino disegnato») è un fatto ancora tutto da sviluppare, poiché, mentre avanzano le conoscenze scientifiche, resta da decidere quale possa essere il limite delle loro applicazioni. Oggi da una semplice biopsia di cellule della pelle si possono ottenere, in vitro, cellule staminali pluripotenti e differenziarle in spermatozoi e uova; la gran parte dei benestanti potrà avere figli geneticamente propri in un ampio spettro di possibilità, inclusa la uniparentalità, grazie alla produzione di gameti artificiali e alla produzione incrociata di gameti (uova da maschi e spermatozoi da femmine). Tralasciando ectogenesi, per lo sviluppo dell’individuo al di fuori dell’utero, e clonazione, ancora proibita in ambito umano in tutte le legislazioni, già oggi la multigenitorialità è assicurata dalle pratiche di gestazione surrogata (utero in affitto) e la omogenitorialità dagli scambi di gameti.
È tempo che su questo quasi inevitabile futuro i decisori politici (in fatto di eguaglianza), i giurisperiti (per gli aspetti di responsabilità) e i filosofi (in relazione al post-umanesimo) diano il via alla discussione per capire se abbiamo già imboccato l’autostrada che porta alla fine del sesso con un totale investimento sociale sulla cura corpo, sui problemi della senescenza e sul godimento ormonale grazie al sesso virtuale. Tanta parte della filosofia è ancora attardata a riflettere sulle conquiste della fisica e non a sviluppare nuove visioni e pensieri su chi è oggi un individuo, sul destino del singolo, sulla genitorialità come progetto affettivo di legame sociale consapevole ed elettivo, non sessual-riproduttivo (quindi ascrittivo, non voluto), sulla costituzione del nucleo familiare, sul significato delle storie, dei miti e della psicoanalisi circa i «legami di sangue».
Tutte queste opportunità legate allo svolgersi della sessualità interrogano sulla obsolescenza del sesso «naturale» e sui limiti della riproduzione sessuata, sulle possibili pratiche odierne di sesso assicurate dalla realtà virtuale: la sezione della mostra Human+. Il futuro della nostra specie (chiusa a Roma il 1º luglio al Palazzo delle esposizioni) dedicata a questo tema impressionava coloro che (come lo scrivente) ancora sono amanti di inviti e corteggiamenti. La psicologia evolutiva potrebbe aiutare a dipanare lo smarrimento e lo stupore che i maschi provano dinnanzi alla meravigliosa capacità femminile di generare, a capire la genesi dei meccanismi di costrizione del fisico femminile messi in atto storicamente dai maschi per controllare quel corpo generante: e se Sigmund Freud avesse preso una cantonata con la storia dell’invidia del pene da parte femminile? E se fosse invidia del maschio della capacità riproduttiva delle femmine? Altri aspetti, forse meno impegnativi, attendono di essere chiariti: esiste una base chimica per l’attrazione sessuale? La bellezza è davvero negli occhi di chi guarda o nelle ghiandole sudoripare delle femmine? Sono soprattutto le femmine selettive nella scelta sessuale?
La risposta a quest’ultima domanda è la più facile: sì, in tutte le specie a fecondazione interna, dalle mosche all’uomo, la femmina è ben più discriminativa dei maschi nella scelta del partner sessuale. Ne conseguono alcuni avvertimenti, soprattutto per i maschi più giovani: i fiori non si mandano mai prima, ma solo dopo aver vinto la mitica «battaglia dei sessi». Con alcuni corollari: se la corteggiata è una biologa fate attenzione, i fiori sono organi genitali. State regalando ovari e testicoli... prudenza!
Il «testo sacro»
De Beauvoir spezzò le catene delle donne
di Cristina Taglietti (Corriere della Sera, La Lettura, 05.08.2018)
Nel 2019 saranno passati 70 anni dalla pubblicazione de Il secondo sesso di Simone De Beauvoir (in basso). Il testo della scrittrice di cui quest’anno ricorrono i 110 anni dalla nascita è una poderosa riflessione spesso ridotta allo slogan «Donna non si nasce, lo si diventa» perché - scrive Simone de Beauvoir - «nessun destino biologico, psichico, economico definisce l’aspetto che riveste in seno alla società la femmina dell’uomo; è l’insieme della storia e della civiltà a elaborare quel prodotto intermedio tra il maschio e il castrato che chiamiamo donna».
Testo sacro del femminismo che un editto Vaticano nel 1956 mise nell’indice dei libri proibiti (in Italia lo pubblicò il Saggiatore nel 1961), Il secondo sesso è una riflessione filosofica che, a partire dalla dialettica hegeliana, applica l’esistenzialismo di Sartre ai temi dell’emancipazione femminile, sottraendo la donna a un destino biologico che la esclude dalla storia, ma anche all’interpretazione fallocentrica di Freud e a quella del materialismo storico che pone la categoria economica al di sopra di tutte le altre.
Il secondo sesso, libro dal forte impianto filosofico, letto da migliaia di donne, passa in rassegna i ruoli attribuiti dal pensiero maschile alla donna mettendoli in relazione con i miti ancestrali, i costumi, i tabù, la sessualità studiata in ogni fase della vita femminile, dall’infanzia all’iniziazione sessuale, dalla maturità alla vecchiaia.
Il settantesimo anniversario sarà ancora un’occasione di dibattito tra chi vorrebbe rinchiudere quel testo, insieme alla sua autrice, nel recinto dell’inattualità e chi ritiene che sia stato ingiustamente messo da parte. Di certo Il secondo sesso fu un libro rivoluzionario: oggi si può metterlo in discussione, non ignorarlo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. ... *
Disobbedienza, cattolici più avanti della sinistra
di Michele Prospero (il manifesto 27.07.2018)
Vade retro, Salvini si presenta ai lettori con questo titolo, forte e pieno di coraggio civile, il settimanale Famiglia cristiana. Il ministro degli interni lepenista è affrontato senza remore. Con il suo volto in copertina, il leader padano viene indicato come bersaglio esplicito di un mondo cattolico che non tentenna neanche ora che i sondaggi danno il governo oltre il 62 per cento e pure le toghe sono in sintonia con il vento nuovo della destra al comando.
Famiglia cristiana non è sola nella sua azione di denuncia. Anche sul quotidiano Avvenire, molto sensibile ai temi sociali, la comprensione critica del fenomeno delle destre di governo è molto acuta.
Le stesse pratiche di resistenza civile, abbozzate nei giorni scorsi dalle camicie rosse, sono state promosse da don Ciotti e hanno visto quindi la presenza in prima fila del cattolicesimo. Molti e autorevoli sono poi i pronunciamenti di prelati e della stessa gerarchia, che non rimane indifferente alle prove di regime, con tracce inequivoche di etnopopulismo sperimentate nei palazzi del potere.
C’è, in questo impressionante esercizio dell’etica della convinzione da parte dell’universo cattolico, un fatto di straordinaria rilevanza e novità: la fede come assunzione di responsabilità pubblica contro gli abusi del potere che nella costruzione del nemico indossa i simboli del sacro. I cattolici non avvertono esitazione alcuna a scagliarsi contro un potente che, in maniera blasfema, brandisce il rosario per incitare all’inimicizia verso l’altro.
Nessuna giustificazione è possibile per chi, coltivando le ambizioni di un consenso facile, gioca con la vita dei profughi. L’indignazione dell’uomo di fede è incontenibile quando il vice presidente del consiglio, che vuole il censimento degli zingari giusto per esibire la forza persuasiva della ruspa sui loro campi, e si scaglia contro il buonismo della «Corte di Strasburgo sui diritti dei rom», per fondare su solide basi etiche il respingimento dei naufraghi propone di esibire un crocefisso nei porti chiusi.
Scrittori, sindacalisti, intellettuali di sinistra hanno votato in gran numero per il non-partito padronale di Casaleggio e ora sono afoni dinanzi alle regressioni di civiltà promosse dal governo del cambiamento. La confusione è così grande, sotto il cielo di una sinistra ormai perduta nelle idee, che lo scrittore Domenico Starnone si meraviglia perché «nel decreto dignità ci sono un bel po’ di cose che così di sinistra ce le eravamo dimenticate».
Le apparenti (e modiche) aperture in campo sociale sono sempre necessarie alle destre radicali quando inaspriscono il volto repressivo del potere e conferiscono una pericolosa curvatura etnica alle loro politiche. I cattolici questo nesso eversivo lo hanno colto e per questo si indignano dinanzi a un governo che nella gestione del potere esibisce i simboli del sacro per delimitare una comunità etnica che si ritrova solo se si difende dallo straniero. A sinistra invece si balbetta sui principi e non manca chi contrappone l’anima sociale (!) del governo a una componente più di destra e suggerisce di differenziare e civettare con i grillini per impedire che la mucca si trasformi in toro.
Si spiega con la riluttanza ad assumere le implicazioni definitive del contratto di governo, l’incapacità della sinistra di rispondere alle provocazioni della destra con il gusto della rottura simbolica, della disobbedienza. Al potere ci sono due forze, le unisce una sola cultura, che ha i tratti inconfondibili di una destra postmoderna. Le ossessioni a sfondo etnico di Salvini, che intende destinare alla polizia i soldi tolti ai rom e ai migranti, sono le stesse di Grillo che nel suo blog difese la sacralità dei confini e scrisse che le invasioni dei rom erano la vera «bomba sociale».
Peraltro quando l’imprenditore Casaleggio prospetta che solo tra qualche lustro il parlamento deve essere chiuso come un ente inutile, svela con trasparenza assoluta la vocazione illiberale del suo non-partito a proprietà privata: alla fine della guerra, urlava già Grillo nelle piazze, solo uno deve rimanere. E appunto la chiusura di Montecitorio evoca un mondo ideale senza più partiti, pluralismo, organizzazioni in conflitto. Uno solo al potere, con il popolo passivizzato che fa un clic sulla piattaforma e nel cassetto conserva una pistola.
Per tornare al popolo e riconquistare le periferie a sinistra c’è chi pensa persino di scoprire il nucleo di verità del salvinismo che denuncia una mutazione antropologica degli italiani per le invasioni dei neri.
La strada più giusta è quella indicata da settori di un mondo cattolico che non va verso il popolo, sfida il suo popolo sedotto dal male, come è necessario in fasi di regressione etico-politica.
La sinistra deve fare lo stesso, organizzarsi come minoranza dalle grandi idealità che punge il governo e strattona il suo popolo di un tempo e la sua classe dormiente che ora inneggia a Salvini e a Grillo. La disobbedienza, il terreno della resistenza culturale e civile, in attesa che si riscaldi quello sociale, sono i cardini di una controffensiva possibile dopo la catastrofe che prepara una democratura a cemento etno-populista.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA TEOLOGIA DI "MAMMONA" ("caritas"), LA LEZIONE DI MARX, E IL MESSAGGIO EVANGELICO ("Charitas").
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
IL SONNO MORTIFERO DELL’ITALIA. In Parlamento (ancora!) il Partito al di sopra di tutti i partiti.
Federico La Sala
GUARIRE LA NOSTRA TERRA. MANDELA E LA FILOSOFIA...
Quella pedagogia della «mite vendetta»
Un’inchiesta a tre voci sulla giustizia riparativa instaurata da Nelson Mandela per «punire» gli aguzzini dell’apartheid
di Lucia Capuzzi (Avvenire, martedì 12 giugno 2018)
«Sapevo che l’oppressore è schiavo quanto l’oppresso, perché chi priva gli altri della libertà è prigioniero dell’odio, è chiuso dietro le sbarre del pregiudizio e della ristrettezza mentale. L’oppressore e l’oppresso sono entrambi derubati della propria umanità. Da quando sono uscito dal carcere è stata questa la mia missione: affrancare gli oppressi e gli oppressori». Con queste parole Nelson Mandela concluse la propria autobiografia scritta durante quasi tre decenni di prigionia e pubblicata nel 1994. La memoria del dolore patito era fin troppo viva in lui e nel resto di quanti avevano subito l’apartheid. Il muro d’odio della segregazione era stato distrutto.
Dietro i calcinacci, ora, spuntavano con chiarezza le sagome dei carnefici e dei loro sostenitori. Per potersi guardare reciprocamente negli occhi, senza i filtri del razzismo e dell’ideologia, occorreva sciogliere finalmente i nodi del passato, saturo di orrori. L’esperienza storica pregressa poneva il Sudafrica di fronte a un bivio. O puntare sull’amnistia generale, una sorta di colpo di spugna per ripartire, o sulla punizione dei colpevoli attraverso i tribunali ordinari. Nessuna di queste due direzioni fu intrapresa.
Nei dodici anni tra il 1990 e il 2002, il Paese ’inventò’ e sperimentò un modo diverso di giustizia o un modo di giustizia diversa. Di tipo ’riparativo’.
A incarnarla la Commissione per la verità e la riconciliazione. Non una corte tradizionale. Bensì un luogo in cui i carnefici (gli aguzzini del regime e i loro complici ma anche quanti, nella lotta antisegregazionista, si erano macchiati di delitti) erano chiamati a dare testimonianza piena, di fronte alla vittime, dei loro atti, compresi i più aberranti. In cambio, potevano ottenere, in una seconda fase, l’amnistia per quanto avevano confessato.
Al di là dell’aver evitato il bagno di sangue e aver interrotto la spirale perversa dei regolamenti di conti, la Commissione, pur con tutti i limiti di un Paese ancora in cammino verso una democrazia matura, ha segnato uno spartiacque. Non solo nella cultura giuridica internazionale. Bensì nella cultura tout court, intesa come ethos delle società. In tale prospettiva ampia scelgono di analizzarla, Luca Potestà, Claudia Mazzucato e Arturo Cattaneo in Storie di giustizia riparativa. Il Sudafrica dall’apartheid alla riconciliazione, edito da Il Mulino (pagine 256, euro 22,00). I tre studiosi dell’Università Cattolica appartengono ad ambiti differenti: Podestà è uno storico del cristianesimo, Mazzucato è una giurista e Cattaneo è un esperto di letteratura inglese. Ad accomunarli, una visione multidisciplinare dell’intreccio tra giustizia, riconciliazione, convivenza nel mondo globale. Interpretata alla luce di quello che il filosofo Tzvetan Torodov definiva «il problema dell’altro».
«È dalla scoperta-conquista dell’America, con la prima globalizzazione, che l’Europa inizia a considerare ’l’altro’ come nemico. Gli imperi dell’antichità, nonostante il grado di violenza, erano stati inclusivi rispetto alle popolazioni annesse. Le moderne potenze coloniali, al contrario, hanno fatto dell’esclusione il proprio paradigma», sostiene Cattaneo. E aggiunge: «Tale fenomeno assume proporzioni estreme nell’apartheid sudafricana. Per questo, il suo superamento inedito acquista un valore allegorico».
Per esprimere l’opposto del regime segregazionista, la Commissione - e il corpus giuridico prodotto in quegli anni - ha voluto e dovuto creare una giustizia in grado di evitare la mimesi del male. Una giustizia che ripara invece di punire, responsabilizzando vittima e carnefice. Poiché il reato non è solo trasgressione a una norma, bensì offesa a una persona da parte di un’altra. In entrambe si incarna il precetto: l’incontro ne ricompone le biografie, dando riparazione all’offeso e obbligando l’offensore a farsi carico del dolore provocato.
«È stata ’un’iniziativa profetica’. Con cui non è solo utile ma direi necessario fare i conti in questo momento storico, in cui la cultura dell’inclusione sembra essere stata sostituita da quella dei muri», sottolinea Podestà. L’esperienza sudafricana, dunque, è un messaggio potente per questo tempo di fratture. Poiché riconosce come fondativa per l’io, la relazione con l’altro. Qualunque esso sia. Un concetto che gli africani chiamano ubuntu.
’Non importa quanto diverso, lontano, difficile, scomodo, problematico o ’cattivo’ l’altro possa essere: la sua presenza e la nostra capacità di accettarlo, nonostante tutto, costituiscono la nostra stessa umanità. Senza di lui ci perdiamo. Senza di lui, non posso essere io. L’affermazione dell’ubuntu, della centralità della relazione laddove c’era stata massima separazione, è stata la vera vittoria sull’apartheid», aggiunge Mazzucato.
A dare un risalto ancora maggiore al ’caso Sudafrica’, il fatto che siano state le vittime, una volta ottenuto il potere, a ’fare il salto’, in nome della coerenza per ciò per cui avevano lottato: uguali diritti e piena cittadinanza a tutti, a partire da quanti le avevano troppo a lungo negate loro.
È quest’ultima la «mite vendetta» di cui parlava Albie Sachs, giurista-simbolo della lotta anti-apartheid, in cui aveva perso un braccio.
«L’idea dell’occhio per occhio, dente per dente, braccio per braccio mi riempie d’angoscia - affermava -. È questo ciò per cui combattiamo? Un Sudafrica pieno di gente senza braccia e senza occhi? C’è un’unica vendetta che può mitigare la perdita del mio braccio ed è di natura storica: la vittoria di ciò per cui abbiamo lottato, il trionfo dei nostri ideali».
VERITA’ E RICONCILIAZIONE. LA SAGGIA INDICAZIONE DEL SUDAFRICA DI MANDELA, DI TUTU, E DI DECLERCK
MANDELA E LA FILOSOFIA. Lettera a Primo Moroni (in memoria) da ’Johannesburg’
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
IL RAZZISMO E LA LEZIONE DI VICO
Una commissione contro il razzismo
di Liliana Segre (la Repubblica, 05.05.2018)
Cari ragazzi e ragazze della Nuova Europa, ci sono molti modi per impegnarsi, efficacemente, nella materia, enorme e delicata, della discriminazione, ed io non cerco scorciatoie. Per dirla con parole antiche (Giambattista Vico) i rischi di una deriva autoritaria sono sempre dietro l’angolo. Lui, l’autore dei corsi e ricorsi storici, aveva visto lungo. Arrivo subito al punto consegnando a voi, che siete su un’isola, un “messaggio in bottiglia”: il mio primo atto parlamentare.
Intendo infatti depositare nei prossimi giorni un disegno di legge che istituirà una Commissione parlamentare d’indirizzo e controllo sui fenomeni dell’intolleranza, razzismo, e istigazione all’odio sociale. Si tratta di raccogliere un invito del Consiglio d’Europa a tutti i paesi membri, ed il nostro Paese sarebbe il primo a produrre soluzioni e azioni efficaci per contrastare il cosiddetto hate speech.
Questo primo passo affianca la mozione che delibera, anche in questa legislatura ( la mia firma segue quella della collega Emma Bonino) la costituzione di una Commissione per la tutela e l’affermazione dei diritti umani. C’è poi il terzo anello del discorso, l’argomento che più mi sta a cuore e che coltivo con antica attitudine: l’insegnamento in tutte le scuole di ogni ordine e grado della storia del ‘900. In una recentissima intervista, la presidentessa dell’Anpi, Carla Nespolo, ha insistito sullo stesso punto: «La storia va insegnata ai ragazzi e alle ragazze perché raramente a scuola si arriva a studiare il Novecento e in particolare la seconda guerra mondiale. Ma soprattutto non si studia che cosa ha significato per interi popoli europei vivere sotto il giogo nazista e riconquistare poi la propria libertà». Ora che le carte sono in tavola rivolgo a voi un invito molto speciale.
Un appello per una rifondazione dell’Europa, minacciata da “autoritarismi e divisioni” che segnalano l’emergere di una sorta di “nuova guerra civile europea”.
Il vento che attraversa l’Europa non è inarrestabile. Riprendete in mano le carte che ci orientano, che sono poche ma buone: in quelle righe sono scolpiti i più alti principi della convivenza civile, spetta a voi battervi perché trovino applicazione: grazie alla nostra Costituzione (70 anni fa) siamo entrati nell’età dei diritti e gli articoli 2 e 3 della Carta sono lì a dimostrarlo, il passaporto per il futuro.
La carta europea dei diritti fondamentali (che ha lo stesso valore dei trattati) è l’elevazione a potenza europea di questi principi, intrisi di libertà ed eguaglianza che abbiamo, orgogliosamente, contribuito a esportare.
Se vogliamo impastare i numeri con la memoria direi che siamo passati, in un solo “interminabile” decennio, dalla difesa della razza (1938) alla difesa dei diritti (1948). Il futuro deve essere orientato diversamente nel solco dei diritti inalienabili ecco perché, concedetemi la citazione, a cinquant’anni dal suo assassinio, Martin Luther King diceva che occorre piantare il melo anche sotto le bombe. È questo il momento giusto!
La feconda storia di un lessico critico
Tra passato e presente. Un’anticipazione dal libro «Il sogno di una cosa. Per Marx», che esce con DeriveApprodi e viene presentato sabato al festival di Bologna, organizzato dalla casa editrice
di Alberto Burgio (il manifesto, 04.05.2018)
Nello schema che Marx consegna alla «Prefazione» a Per la critica dell’economia politica riflettendo sulla vicenda delle rivoluzioni borghesi, un processo di transizione da una «formazione economico-sociale» a un’altra si verifica in quanto nel quadro dei processi riproduttivi di una data «formazione sociale» hanno luogo dinamiche conflittuali dirompenti: tali da provocarne - in capo a uno svolgimento di lungo periodo - lo scardinamento e la sostituzione da parte di una «formazione economico-sociale» basata su un diverso «modo di produzione». (...) Questa pagina della «Prefazione» del ’59, oggettivamente centrale nell’architettura complessiva della teoria marxiana, ha sempre attratto attenzione e suscitato riserve.
UNA POLEMICA RICORRENTE, e a prima vista consistente, concerne la (apparente) «centralità del terreno economico», che Marx sembrerebbe considerare in ogni epoca determinante. Come se l’assunto-base della filosofia storico-materialistica (la «costante» funzione fondativa attribuita all’«attività produttiva» nei confronti dell’«organizzazione sociale» e della sfera politico-istituzionale) disperdesse la consapevolezza storica dell’essenziale diversità delle logiche riproduttive proprie delle singole «formazioni sociali». (...)
Hannah Arendt, la studiosa delle rivoluzioni e della «condizione umana», sostiene per esempio che, prendendo «a prestito» da Hegel «l’idea secondo cui ogni vecchia società contiene i semi delle successive», Marx affermi la «sempiterna continuità del progresso nella storia». Lo stesso Debord, per solito concorde senza riserve con la posizione marxiana, ritiene che lo sforzo di legittimare l’aspirazione rivoluzionaria della classe operaia evocando rivoluzioni già avvenute (a cominciare da quelle borghesi) «offuschi, dai tempi del Manifesto, il pensiero storico di Marx, facendogli sostenere un’immagine lineare dello sviluppo dei modi di produzione» (...).
UN’ALTRA CRITICA, connessa con questa, prende di mira le implicazioni del suo (presunto) economicismo. La stessa Arendt rivolge a Marx proprio questa critica. Convinta della superiorità dell’agire politico (l’unico a suo giudizio degno dell’essere umano), vede nell’analisi marxiana una manifestazione della patologia della modernità consistente nell’esaltazione della dimensione produttiva del lavoro umano e nella conseguente tragica illusione demiurgica che la prosperità materiale e lo sviluppo tecnico siano garanzie di progresso. (...)
Questa critica costituisce in una qualche misura un corollario integrativo della prima in quanto esplicita il presupposto del naturalismo imputato a Marx. Il quale paradossalmente assolutizzerebbe la realtà borghese perché «travolto», al pari di altri grandi interpreti della modernizzazione (Locke e Adam Smith), «dalla produttività senza precedenti del mondo occidentale». (...)
SI TRATTA DI ARGOMENTAZIONI a prima vista fondate. (...) È tuttavia inverosimile che proprio Marx abbia potuto «perdere di vista» quella specificità della borghesia e del capitalismo che, prima di chiunque altro, ha colto e analizzato. (...) Bisogna quindi cercare di capire come e perché la precisa percezione della cesura storica prodotta dalla dominanza del rapporto sociale capitalistico non impedisca a Marx di «assumere come fondamento di tutta la storia» - così l’Ideologia tedesca - l’ambito delle relazioni connesse alla «produzione materiale della vita immediata». Forse una spiegazione di questa apparente inconseguenza c’è, meno complicata di quanto si possa immaginare.
MARX PENSA che in ogni epoca storica lo svolgimento delle attività attraverso cui le società umane si riproducono generi effetti decisivi ai fini della costruzione (e della specifica configurazione) della forma sociale complessiva (...). Al tempo stesso, segnala che la borghesia è l’unica classe sociale che dell’attività produttiva fa (con crescente consapevolezza) il cuore della propria identità, della propria cultura, del proprio mondo, della propria azione storica. A ben guardare, non vi è contraddizione tra le due tesi, poiché la prima concerne un aspetto oggettivo (la logica generale dello sviluppo storico in relazione alla quale il momento economico marca quella che Lukács definisce una «priorità ontologica»); la seconda, aspetti soggettivi (gli stili di vita e la mentalità specifici della borghesia). Se la centralità del produrre è «oggettivamente» una costante dell’intero processo (un fattore «trans-storico» invariante), essa compie un salto di qualità nella modernità in quanto nella «formazione economico-sociale» borghese (capitalistica) l’insieme delle attività produttive diviene «anche soggettivamente» l’epicentro della vita individuale e collettiva, la principale fonte di senso e di valore dell’esistenza.
Quel che conta - se questa interpretazione è corretta - è cogliere l’intuizione sottesa a questa posizione. Con ogni probabilità Marx intende sostenere che la borghesia sia il primo soggetto sociale la cui cultura materiale e il cui mondo simbolico e valoriale coincidono con la logica oggettiva dello sviluppo storico. Mentre faraoni, imperatori e sovrani competevano per la potenza militare e per l’onore, dal XV secolo e con crescente coerenza ed efficacia mercanti e banchieri, maestri d’arte e capitani d’industria competono invece per il profitto e per l’espansione dei propri imperi economici, col vantaggio non trascurabile di consacrare ogni sforzo all’attività «in ultima istanza» determinante ai fini della dinamica sociale. Non è improbabile che tale sintonia tra fattori soggettivi e oggettivi abbia contribuito in misura rilevante alla particolare duttilità e resistenza del potere borghese: al suo dinamismo e alla sua capacità di adattamento.
RIMANE DA SPIEGARE perché mai Marx privilegi il terreno delle attività produttive, al punto di ritenerle in ogni epoca decisive ai fini della configurazione delle forme di vita sociali. (...) Che Marx ponga il «produrre» al centro della dinamica storica è innegabile. Che ciò consegua alla sopravvalutazione della dimensione economica sembrerebbe altrettanto evidente. (...) Nondimeno, l’accusa di economicismo in generale e le argomentazioni arendtiane in particolare trascurano un aspetto cruciale del problema e affrontano quest’ultimo sulla base di una petizione di principio.
Come abbiamo visto, nel riflettere sulla logica del processo storico Marx parla di «attività produttiva», non soltanto di economia. Parla di lavoro, non certo esclusivamente di merci e scambi mercantili. Ciò non deve sembrare casuale né banale, poiché questa scelta lessicale riflette un aspetto teorico di primaria importanza. Essa è indice del fatto che l’ipotesi storico-materialistica pone al centro - rovesciando, a guardar bene, la prospettiva economicistica - la complessità e la ricchezza specifiche (benché di norma soltanto potenziali) del produrre umano: precisamente il suo (virtuale) eccedere l’ambito ristretto (economico) dell’elaborazione materiale dei mezzi di sussistenza e degli strumenti utili a garantire il dominio dell’uomo sulla natura.
Per Marx - qui più che mai attento alla lezione hegeliana - la «produzione» è anche costruzione di conoscenze e abilità, di pensieri e strategie pratiche. È di certo anche «necessità» imposta dalla natura, dalla dinamica di riproduzione della vita; ma è altresì elaborazione di soggettività nei diversi ambiti in cui gli esseri umani hanno modo di esprimersi, agire e interagire. Quindi anche produzione di rapporti sociali. (...)
ASSISTIAMO COSÌ, come accade quando non si intende la cifra critica di un’argomentazione, a un interessante paradosso. L’estensione e valorizzazione della categoria di «produzione» e la sua collocazione al centro della dinamica storica sono, nella prospettiva di Marx, mosse critiche decisive. Volte a fare emergere, in generale, la brutale mortificazione imposta al lavoro umano nel corso dell’intero sviluppo storico e, in particolare, la reificazione del lavoro subordinato nella società moderna. Non comprendere il senso di questo gesto comporta una serie di conseguenze imbarazzanti.
Non solo implica che si fraintenda di sana pianta l’intenzione critica sottesa al paradigma storico-materialistico. Non soltanto comporta l’attribuzione a Marx - a dir poco implausibile - di quegli stessi errori (il naturalismo, il riduzionismo, il determinismo economicistico) che Marx per primo e con ineguagliata potenza critica ha individuato al fondamento della tradizione economico-politica. Ma soprattutto impedisce di lavorare produttivamente nel solco della sua ricerca e di metterne a valore la potenzialità critica ancora inespressa.
Due secoli di Marx
Un dio chiamato Capitale
Non è stata l’economia politica il cuore della rivoluzione del grande pensatore. Ma l’Economico come categoria dello spirito. La vera potenza che mette all’opera il mondo
di Massimo Cacciari (l’espresso, 29.04.2018)
Tacete economisti e sociologi in munere alieno. Marx non è affare vostro, o soltanto di quelli di voi che ne comprendano la grandezza filosofica, anzi: teologico-filosofica. Marx sta tra i pensatori che riflettono sul destino dell’Occidente, tra gli ultimi a osare di affrontarne il senso della storia. In questo è paragonabile forse soltanto a Nietzsche. Ma “Il Capitale”, si dirà? Non è l’economia politica al centro della sua opera? No; è la critica dell’economia politica. Che vuol dire? Che l’Economico vale per Marx come figura dello Spirito, come espressione della nuova potenza che lo incarna nel mondo contemporaneo. L’Economico è per Marx ciò che sarà la Tecnica per Heidegger: l’energia che informa di sé ogni forma di vita, che determina il Sistema complessivo delle relazioni sociali e politiche, che fa nascere un nuovo tipo di uomo. Nessuna struttura cui si aggiungerebbe una sovra-struttura a mo’ di inessenziale complemento - l’Economico è immanente in tutte le forme in cui l’agire e il pensare si determinano; ognuna di esse è parte necessaria dell’intero.
Marx è pensatore del Tutto, perfettamente fedele in questo al suo maestro Hegel. Il Sistema è più delle parti, irriducibile alla loro somma. Chi intende l’Economico come una struttura a sé, autonoma, che determinerebbe meccanicisticamente le altre, non ha capito nulla di Marx. Marx non è pensatore astratto, e cioè non astrae mai l’Economico dall’intero sistema delle relazioni sociali, culturali, politiche.
La sua domanda è: quale potenza oggi governa l’Intero e come concretamente essa si esprime in ogni elemento dell’Intero? L’Economico è infinitamente più che Economico. Esso rappresenta nel contemporaneo la potenza che mette all’opera il mondo.
Il mondo della “morte di Dio”. Ogni opera deve essere valutata sul metro del lavoro produttivo di ricchezza e ogni uomo messo al lavoro per questo fine. Non è concesso “ozio”; nessuno può essere “lasciato in pace”. Il processo stesso di specializzazione del lavoro viene compreso in questo grandioso processo: più avanza la forma specialistica del lavoro, più l’Opera appare complessiva e distende il proprio spirito sull’intero pianeta; più il lavoro appare diviso, più in realtà esso funziona come un unico Sistema, dove ogni membro coopera, ne sia o meno consapevole, al fine universale dell’accumulazione e riproduzione. Fine che si realizza soltanto se al lavoro è posto prioritariamente il cervello umano. La vera forza del lavoro sta infatti nell’intelligenza che scopre, inventa, innova. La differenza tra teoretico e pratico si annulla nella potenza del cervello sociale, Intelletto Agente dell’intero genere, che si articola in lavori speciali soltanto per accrescere sempre più la propria universale potenza.
Per Marx è questo il “nuovo mondo” che il sistema di produzione capitalistico crea, non certo dal nulla, ma certo sconvolgendo dalle radici forme di vita e relazioni sociali, insomma: l’ethos dell’Occidente, la “sede” in cui l’Occidente aveva ino ad allora abitato È il mondo dove il Logos della forma-merce si incarna in ogni aspetto della vita, per diventarne la religione stessa. E Marx ne esalta l’impeto rivoluzionario. È questo impeto che per lui va seguito, al suo interno è necessario collocarsi per comprenderne le contraddizioni e prevederne scientificamente l’aporia, e cioè dove la strada che esso ha aperto è destinata a interrompersi - per il salto a un altro mondo. Qui bisogna intendere bene: la contraddizione non viene da fuori, da qualcosa che sia “straniero” al Sistema.
Contraddittorio in sé è il capitalismo stesso. Il capitalismo è crisi, è fatto di crisi. Funziona per salti, che ogni volta mettono inevitabilmente in discussione gli equilibri raggiunti. Non vi è riproduzione senza innovazione. Questo è noto anche agli economisti.
Ma Marx aggiunge: il capitalismo è crisi perché si costituisce nella lotta tra soggetti antagonisti. Il capitale è la lotta tra capitalisti e classe operaia. In quanto forza-lavoro la classe operaia è elemento essenziale del capitale stesso - ma quell’elemento che ha la possibilità di assumere coscienza di sé e lottare contro la classe che detiene l’egemonia sull’intero processo, che lo governa per il proprio profitto, metro del proprio stesso potere.
È anche e soprattutto in forza di questa intrinseca contraddizione che il capitalismo è innovazione continua, produzione di merci sempre nuove e produzione del loro stesso consumo (la produzione più importante, quest’ultima, dice Marx). Tuttavia, ecco la metamorfosi: proprio diventando cosciente di questa sua funzione la forza-lavoro si fa soggetto autonomo rispetto al capitale, autonomo rispetto al carattere rivoluzionario di quest’ultimo. La lotta di classe di cui parla Marx è lotta tra rivoluzionari. Vera guerra civile.
Questa contraddizione muove tutto. E ognuno è imbarcato in essa. L’idea di poterne giudicare “dall’alto” costituisce per l’appunto quella ideologia, che Marx sottopone a critica in dalle prime opere. Se la realtà dell’epoca è contraddizione inscindibilmente economica e politica, ogni interpretazione che la riduca a fatti naturalisticamente analizzabili la mistifica. Non è possibile cogliere la realtà del Sistema che collocandosi in esso, e dunque collocandosi nella contraddizione. Soltanto in questa prospettiva l’Intero è afferrabile. Non si comprende la realtà del presente se non in prospettiva e perciò a partire da un punto di vista determinato. Impossibile oggi un sapere astrattamente neutrale. La pretesa all’avalutatività è falsamente scientifica; l’epoca costringe a prender-parte, all’aut-aut. A porsi in gioco, alla scommessa anche. Il momento, o il kairòs, della decisione politica viene cosi a far parte della stessa potenza dell’Economico, resta immanente in essa.
È l’ideologia propria del pensiero liberale, per Marx, che cerca di convincere a una visione de-politicizzante dell’Economico, a separare Economico e Politico, conferendo appunto all’Economico l’aspetto di un sistema naturale di relazioni.
Poiché concepisce la storia dell’Occidente come conflitto, e conflitto determinato dal suo carattere di classe, e poiché intende il presente alla luce dell’intrinseca contraddittorietà della stessa potenza rivoluzionaria del Sistema tecnico-economico, Marx pensa di aver posto saldamente sui piedi il pensiero dialettico dell’idealismo. Le epoche della Fenomenologia hegeliana dello Spirito non trovano conclusione in un Sapere assoluto che tutte accoglie e accorda, in una suprema Conciliazione, ma nella insuperabile contraddizione tra la potenza universale del Lavoro produttivo divenuto cosciente di sé e la sua appropriazione capitalistica. Si tratta di ben altro che di calcoli su valore e plusvalore.
L’analisi del meccanismo dello sfruttamento, tanto bombardata dagli economisti e da filosofi dilettanti, sarà pure la parte caduca della grande opera di Marx. Ciò che conta in essa è la questione: il prodotto di questa umanità al lavoro (e questo significa “classe operaia”, altro che semplice “operaismo”!), di questo cervello sociale che inventa e innova, appartiene a chi? Come se ne determina la distribuzione? Chi la comanda? Può la sua potenza rinunciare a esigere potere? E se essa funziona riducendo sempre più il lavoro necessario per unità di prodotto o di prestazione, non si dovrebbe pensare nella prospettiva di una liberazione tout-court da ogni forma di lavoro comandato?
Il comunismo risponde per Marx a queste domande. È l’idea della suprema conciliazione del soggetto col suo prodotto; il compito di superare nella prassi ogni estraneità. Comunismo significa la stessa “missione dell’uomo”. In questo senso, il capitalismo opera per il suo stesso superamento, poiché il suo sistema si fonda su quel cervello sociale-classe operaia che per “natura” è destinato a non sottostare ad alcun comando. Che deve diventare libero. Il comunismo è il Sistema della libertà.
Marx sembra non avvedersi che tale “risoluzione” dell’aporia del capitalismo riproduce esattamente la conclusione della Fenomenologia hegeliana e, forse ancor più, del Sistema della scienza di Fichte. Ed è l’idea di un potere assoluto sulla natura, in cui la “comunità degli Io” sottopone al proprio dominio tutto ciò che le appaia “privo di ragione”.
La quintessenziale volontà di potenza dell’uomo europeo ispira perciò in tutto anche Marx e la sua violenza rivoluzionaria. Marx appartiene all’Europa “rivoluzione permanente”, all’Europa “leone affamato” (Hegel). Il suicidio di questa Europa lungo il tragico Novecento spiega lo spegnersi dell’energia politica scaturita dal marxismo assai più di quelle colossali trasformazioni sociali e economiche che hanno segnato il declino del soggetto “classe operaia”.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 ...
Il Sessantotto incompiuto di Alain Badiou
di Marco Assennato (Il manifesto, 01.03.2018)
Saggi. «Ribellarsi è giusto! L’attualità del Maggio 68» per le Edizioni Orthotes, a cura di Alberto Destasio
«In occasione del cinquantenario del Maggio 68», Alain Badiou prende la parola per rompere la doppia morsa della celebrazione ebete e della condanna all’oblio. In questione sono tanto «l’idea vaga che troneggia in testa agli articoli-anniversari» - il 68 come ribellione di costume, «ultima utopia», «danza della storia a suono di rock» - quanto l’immagine del 68 come premessa dell’individualismo neoliberale contemporaneo.
«L’attualità del Maggio 68» si disegna invece come «riserva di coraggio» da scagliare contro due dispositivi di accecamento contemporanei: la morale del capitale umano, del merito e del successo atomizzante, da una parte; e dall’altra le prediche apocalittiche e reazionarie secondo cui «è più semplice ormai immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo».
LA PUBBLICAZIONE di questo piccolo pamphlet - Ribellarsi è giusto! L’attualità del Maggio 68 (pp. 112, euro 14) per le Edizioni Orthotes è quindi opportuna e coraggiosa: è una bella immagine questa del filosofo che rivendica una carica di speranza contro tanti corvacci stanchi.
Si tratta insomma di tornare ad interrogare l’evento, innanzitutto per restituirgli la sua intrinseca complessità. Il 68 non è stato un fenomeno unitario, piuttosto una molteplicità eterogenea. «Ci sono stati tre maggio 68», scrive Badiou, a volte in polemica tra loro, spesso effimeri, e tuttavia certamente potenti: il maggio studentesco - che ha segnato una forma radicale di critica alla democrazia rappresentativa; quello operaio - scosso da «scioperi selvaggi» e «insubordinazione» alle istituzioni tradizionali della sinistra storica, tanto socialista quanto comunista; e quello libertario, deposito prezioso di un profondo rinnovamento delle pratiche teoriche, artistiche e culturali. Ma, aggiunge Badiou, fornendo così una torsione decisiva al suo pensiero, in «questa effervescenza contraddittoria» la componente «essenziale» è costituita da «un quarto Maggio 68, che prescrive il nostro avvenire».
C’È UN’ARIA di rinnovamento che percorre queste pagine badiousiane, come se il filosofo tendesse a fare i conti con il reale. Se fino alla sua celebre riscrittura della Repubblica di Platone, Badiou aveva tolto di mezzo ogni possibilità di concretare il kairòs in qualsivoglia cristallizzazione storica osservabile, questo suo 68 si vuole invece come evento esemplificato. Di più: esso si inscrive in una genealogia - le lotte operaie che attraversano la Normandia e le periferie francesi lungo il 1967 - e si stende nei due decenni successivi. «L’evento - nota correttamente Alberto Destasio nella postfazione del volume - non è sciolto dal plesso con la storia, non è incondizionato. Ogni evento è storico». Più che esaltarne l’emergenza, si tratta insomma di misurarlo con «la tenacia delle sue conseguenze». Il quarto Maggio è quello che decreta la fine delle vecchie forme della politica e interroga le sue nuove e necessarie dimensioni: «che cosa è la politica» oggi? Quale forma organizzativa dobbiamo inventare, dentro la crisi della democrazia, per «farla finita con le leggi del profitto»? Ecco l’eredità viva del Maggio francese.
TUTTAVIA, giunti al punto massimo di tensione, il platonismo di Badiou torna pesantemente e precipita indietro il percorso svolto. Di nuovo, manca radicalmente ogni idea della produzione, tanto dei beni quanto dei soggetti. Anzi: è proprio a partire dalla completa obliterazione di ogni «agente soggettivo» che si manifesta la «distensione nichilista» di Alain Badiou. La politica comunista è una «Pura Idea», necessaria alla vita.
Dopo un elogio sperticato, e un poco ridicolo, del maoismo francese, il quarto Maggio vola nell’Iperuranio: urge «la ricerca di un’altra politica, illuminata dalla presenza immanente degli intellettuali», che - come insegna il comandante della lunga marcia - restituiscano alle masse «in modo preciso» ciò che esse consegnano «in maniera confusa». Nessuna inchiesta sulle singolarità antagoniste, anzi. Il filosofo non insegue le pratiche di lotta, né la sua conoscenza deriva da esse, piuttosto le chiarisce esattamente in forza della propria separatezza. Torna così l’ipotesi del comunismo come ideologia, utopia metafisica, radicalmente esterna all’agire collettivo, che già conosciamo. Dalla cattedra, tuttavia, non è possibile alcuna virtù, tantomeno quel «coraggio di ribellarsi» che attraversa tutto il libro.
COME REPLICARE a Badiou? C’è un celebre testo, scritto da Gilles Deleuze - cui Badiou rende un fuggitivo omaggio - e Felix Guattari, nel 1984, che varrebbe la pena accostare a questo libretto, per sbloccarne l’impasse. Anche lì era questione di evento. Notavano allora Deleuze e Guattari: il 68 non nasce da una crisi, è piuttosto la - lunghissima - crisi attuale che nasce dall’incapacità della società europea di operare una riconversione soggettiva di quanto accaduto cinquant’anni fa. Gli autori di Mille Plateaux ci hanno insegnato a rileggere il desiderio comunista come qualcosa che si costruisce dentro all’ammodernamento delle forme produttive, come fame di ricchezza e gioia della riappropriazione. «L’evento - scrivevano Deleuze e Guattari - crea una nuova esistenza, produce una nuova soggettività». Oppure non si genera. Perché non si dà critica fuori dalla densità di un agente storico e forse, ormai, non si dà neppure filosofia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Pianeta Terra. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi......
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
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FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
PSICOANALISI, ANTROPOLOGIA, E MISTICISMO. Uscire dallo Stato di minorità (superiorità) ...
LA BALLATA DI COLAPESCE ("DER TAUCHER") DI SCHILLER E LA "LEZIONE" DI FREUD A BRUNO GOETZ E A ROMAIN ROLLAND.
FILOSOFIA, PSICOANALISI E MISTICA. Indicazioni per una seconda rivoluzione copernicana ..
FREUD, IL MARE, E "LA MENTE ESTATICA". Un invito a ripensare il lavoro di Elvio Fachinelli
IL PUNTO DI SVOLTA. Proseguendo nel suo «viaggio attraverso la psicanalisi, e oltre», Fachinelli è giunto finalmente dinanzi al mare. «Sulla spiaggia», questo è il titolo del primo e più originale scritto de "La mente estatica".
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ...
La critica radicale del presente: l’eredità di Marx
di Maurizio Viroli (Il Fatto, 28.04.2018)
Non saprei dire quanti altri giovani della mia generazione misero in soffitta Karl Marx dopo aver letto l’articolo Esiste una teoria marxista dello Stato? che Norberto Bobbio pubblicò nel 1975 su Mondoperaio, e ripubblicò nel 1976 nel libro Quale socialismo?, ma sospetto siano stati molti.
La risposta di Bobbio era netta: negli scritti di Marx e di Friedrich Engels, “una vera e propria teoria socialistica dello Stato non esiste”. A nulla valsero le centinaia di pagine scritte dagli intellettuali ‘organici’, come si diceva allora, al Partito comunista per confutare Bobbio e salvare Marx. Se Marx non aveva fornito una teoria dello Stato, come poteva essere guida intellettuale di un partito che aspirava a guidare lo Stato democratico?
Messo da parte Marx, cercammo altri maestri che potessero aiutarci a credere nel socialismo senza essere marxisti. Trovammo per nostra fortuna Carlo Rosselli e il suo Socialismo liberale che proprio Bobbio aveva curato in una bella edizione Einaudi del 1973. La prima pagina di quel libro aveva il valore di una rivelazione o di una conferma di quanto già pensavamo, vale a dire che il limite maggiore della teoria sociale e politica di Marx era la pretesa (rafforzata e popolarizzata dal buon Friedrich Engels) di essere dottrina scientifica : “L’orgoglioso proposito di Marx fu quello di assicurare al socialismo una base scientifica, di trasformare il socialismo in una scienza, anzi nella scienza sociale per definizione [...] Doveva avverarsi, non poteva non avverarsi; e si sarebbe avverato non per opera di una immaginaria volontà libera degli uomini, ma di quelle forze trascendenti e dominanti gli uomini e i loro rapporti che sono le forze produttive nel loro incessante svilupparsi e progredire.”
Rosselli capì che il Manifesto del Partito comunista aveva immensa forza d’ispirazione perché era profezia travestita da scienza: “Quale pace, quale certezza dava il suo linguaggio profetico ai primi apostoli perseguitati! “
Ma già agli inizi del Novecento, dopo la disputa sul revisionismo aperta dal libro di Eduard Bernstein, uscito nel 1899 (che Laterza ha pubblicato in traduzione italiana nel 1974 con il titolo I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia), i più intelligenti giudicarono la scienza di Marx del tutto incapace di spiegare la realtà economica e sociale, e non trovarono più né conforto né guida nella profezia ormai irrigidita in stanche formule ripetute meccanicamente. Eppure, molte pagine di Marx, soprattutto del giovane Marx, offrono ancora, se le leggiamo senza i vecchi condizionamenti ideologici, elementi per una teoria dell’emancipazione sociale.
La lettera che Marx spedisce ad Arnold Ruge da Kreuznach, nel settembre del 1843, poi pubblicata nei Deutsch-Französische Jahrbücher del 1844, ad esempio, è un testo che ci insegna i lineamenti di una critica sociale e politica intransigente: “Costruire il futuro - scrive Marx - e trovare una ricetta valida perennemente non è affar nostro, ma è certo più evidente ciò che dobbiamo fare nel presente: la critica radicale di tutto l’esistente”. Critica radicale perché senza riguardi, senza paura né dei suoi risultati né del conflitto coi poteri attuali. E ci insegna che la lotta per la libertà e per la giustizia deve essere in primo luogo lavoro paziente di educazione delle coscienze: “Indi il nostro motto sarà: riforma della coscienza, non con dogmi, bensì con l’analisi della coscienza mistica, oscura a se stessa, in qualunque modo si presenti (religioso o politico)”.
L’emancipazione politica e sociale non era per il giovane Marx risultato di tendenze oggettive della storia, ma conquista di coscienze emancipate che sanno riscoprire il sogno o la profezia di giustizia che l’umanità ha coltivato in varie forme nella sua lunga storia: “così si vedrà che da tempo il mondo sogna una cosa, di cui deve solo aver la coscienza per averla realmente. Si vedrà che non si tratta di tracciare una linea fra passato e futuro, ma di realizzare le idee del passato. Si vedrà infine come l’umanità non inizi un lavoro nuovo, bensì attui consapevolmente il suo antico lavoro”.
Nello stesso fascicolo (l’unico che vide la luce) Marx pubblicò anche un’Introduzione a Per la critica della Filosofia del diritto di Hegel, dove sostiene che il proletariato è la sola classe sociale che emancipando se stessa emancipa l’intera società e che la filosofia può trovare nel proletariato “le sue armi materiali”. La filosofia (ovvero gli intellettuali) è dunque la “testa di questa emancipazione”; “il suo cuore è il proletariato”. Due illusioni nobili, queste del giovane Marx, ma pur sempre illusioni.
Il proletariato, allora come oggi, è una classe oppressa e umiliata, ma resta una classe particolare che nella sua storia ha lottato e sofferto per finalità di emancipazione generale, ma ha anche sostenuto demagoghi autoritari. Attribuire al proletariato il semplice ruolo di cuore e forza materiale dello sforzo di emancipazione e agli intellettuali quello di cervello, significa aprire la strada, come la storia ha abbondantemente dimostrato, a freddi professionisti della rivoluzione e del governo, incapaci di condividere le sofferenze e le speranze degli oppressi e dunque pronti a diventare non compagni di lotta, ma nuovi dominatori.
In questo saggio, nato in un contesto segnato da appassionati dibattiti su religione e emancipazione sociale (ben documentato dalla recente biografia scritta da Gareth Stedman Jones, Karl Marx. Greatness and Illusion, Harvard University Press, 2016) Marx ha consegnato alla storia la sua celebre critica dell’alienazione religiosa: “L’uomo fa la religione, e non la religione l’uomo. [...] Essa è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera. La lotta contro la religione è dunque mediatamente la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l’aroma spirituale. La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo”. Sarebbe facile osservare che la religione, in particolare la religione cristiana, ha sostenuto importanti esperienze di liberazione politica e sociale.
Ma dalla critica alla religione, Marx trae due conclusioni di straordinario valore morale e politico: la prima consiste nel principio che “l’uomo è per l’uomo l’essere supremo”; la seconda nell’“imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole”. Un principio e un imperativo da riscoprire in questo nostro tempo che ha completamente perso l’idea stessa, e anche la speranza, dell’emancipazione sociale.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO STATO DEL FARAONE, LO STATO DI MINORITA’, E IMMANUEL KANT "ALLA BERLINA" - DOPO AUSCHWITZ
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO". Il ’sonnambulismo’ di Hannah Arendt prima e di Emil Fackenheim dopo.
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
COLLOQUIO. Nasceva duecento anni fa l’autore del «Manifesto del partito comunista»: sul suo pensiero abbiamo interpellato il sociologo Immanuel Wallerstein, che ne rivendica l’attualità. Non può fare a meno di lui una sinistra globale che voglia rappresentare l’80% più povero degli abitanti della terra
«Il capitalismo non è eterno. E Marx è ancora necessario»
conversazione tra Marcello Musto e Immanuel Wallerstein (Corriere della Sera, La Lettura, 08.06.2018)
Immanuel Wallerstein, senior research scholar alla Yale University (New Haven, Usa) è considerato uno dei più grandi sociologi viventi. I suoi scritti sono stati molto influenzati dalle opere di Karl Marx ed egli è uno degli studiosi più adatti per riflettere sul perché quel pensiero sia ritornato, ancora una volta, di attualità
MARCELLO MUSTO - Professor Wallerstein, quasi trent’anni dopo la fine del cosiddetto «socialismo reale», in quasi tutto il globo tantissimi dibattiti, pubblicazioni e conferenze hanno come tema la persistente capacità da parte di Marx di spiegare le contraddizioni del presente. Lei ritiene che le idee di Marx continueranno ad avere rilevanza per quanti ritengono necessario ripensare un’alternativa al capitalismo?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Esiste una vecchia storia su Marx che dice che ogni volta che si cerca di buttarlo fuori dalla porta, lui rientra dalla finestra. È quanto sta accadendo in questi anni. Marx è ancora fondamentale per quanto scrisse a proposito del capitalismo. Le sue osservazioni furono molto originali e completamente diverse da ciò che affermarono altri autori. Oggi affrontiamo problemi rispetto ai quali egli ha ancora molto da insegnarci e tanti editorialisti e studiosi - non certo solo io - trovano il pensiero di Marx particolarmente utile in questa fase di crisi economica e sociale. Ecco perché, nonostante quanto era stato predetto nel 1989, assistiamo alla sua rinnovata popolarità.
MARCELLO MUSTO - La caduta del Muro di Berlino ha liberato Marx dalle catene degli apparati statali dei regimi dell’Est Europa e da un’ideologia sideralmente lontana dalla sua concezione di società. Qual è il motivo centrale che suscita ancora tanta attenzione verso l’interpretazione del mondo di Marx?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Io credo che, se chiedessimo a quanti conoscono Marx di riassumere in una sola idea la sua concezione del mondo, la maggior parte di essi risponderebbe «la lotta di classe». Io leggo Marx alla luce del presente e per me «lotta di classe» significa il perenne conflitto tra quella che io chiamo la «sinistra globale» - che ritengo possa ambire a rappresentare l’80% più povero della popolazione mondiale - e la «destra globale» - che rappresenta l’1% più ricco. Per vincere questo scontro bisogna conquistare il restante 19%; bisogna cercare di portarlo nel proprio campo e sottrarlo a quello dell’avversario. Viviamo in un’era di crisi strutturale del sistema mondo. Credo che il capitalismo non sopravvivrà, anche se nessuno sa con certezza da che cosa potrà essere sostituito. Io sono convinto che vi siano due possibilità. Una prima è rappresentata da quello che chiamo lo «spirito di Davos». L’obiettivo del Forum economico mondiale di Davos è quello di imporre un sistema sociale nel quale permangano le peggiori caratteristiche del capitalismo: le gerarchie sociali, lo sfruttamento e, soprattutto, il dominio incontrastato del mercato con la conseguente polarizzazione della ricchezza. L’alternativa è, invece, un sistema più democratico e più egualitario di quello esistente. Per tornare a Marx, dunque, la lotta di classe costituisce lo strumento fondamentale per influire sulla costruzione di ciò che, in futuro, sostituirà il capitalismo.
MARCELLO MUSTO - Le sue riflessioni circa la contesa per ricevere il sostegno politico della classe media ricordano Antonio Gramsci e il suo concetto di egemonia. Tuttavia, credo che per le forze di sinistra la questione prioritaria sia come ritornare a parlare alle masse popolari, ovvero quell’80% a cui lei fa riferimento, e come rimotivarle alla lotta politica. Questo è particolarmente urgente nel «Sud globale», dove è concentrata la maggioranza della popolazione mondiale e dove, negli ultimi tre decenni, a dispetto del drammatico aumento delle diseguaglianze prodotte dal capitalismo, partiti e movimenti progressisti si sono indeboliti. Lì l’opposizione alla globalizzazione neoliberista è spesso guidata dai fondamentalismi religiosi e da partiti xenofobi, un fenomeno in crescita anche in Europa. La domanda è se Marx può aiutarci in questo scenario. Libri di recente pubblicazione offrono nuove interpretazioni della sua opera. Essi rivelano un autore che fu capace di esaminare le contraddizioni della società capitalista ben oltre il conflitto tra capitale e lavoro. Marx dedicò molte energie allo studio delle società extra-europee e al ruolo distruttivo del colonialismo nelle periferie del sistema. Allo stesso modo, smentendo le interpretazioni che assimilano la concezione marxiana della società comunista al mero sviluppo delle forze produttive, l’interesse per la questione ecologica presente nell’opera di Marx fu ampio e rilevante. Infine, egli si occupò in modo approfondito di numerose tematiche che molti studiosi spesso sottovalutano o ignorano quando parlano di lui. Tra queste figurano le potenzialità emancipatrici della tecnologia, la critica dei nazionalismi, la ricerca di forme di proprietà collettive non controllate dallo Stato, o la centralità politica della libertà individuale nella sfera economica e politica: tutte questioni fondamentali dei nostri giorni. Accanto a questi «nuovi profili» di Marx - che suggeriscono come il rinnovato interesse per il suo pensiero sia un fenomeno destinato a proseguire nei prossimi anni - potrebbe indicare tre delle idee più conosciute di Marx a causa delle quali questo autore non può essere accantonato?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Innanzitutto, Marx ci ha insegnato meglio di chiunque altro che il capitalismo non corrisponde al modo naturale di organizzare la società. Già in Miseria della filosofia , pubblicato quando aveva solo 29 anni, schernì gli economisti che sostenevano che le relazioni capitalistiche si fondavano su «leggi naturali, indipendenti dall’influenza del tempo». Marx scrisse che gli economisti avevano riconosciuto il ruolo svolto dagli esseri umani nella storia quando avevano analizzato le «istituzioni feudali, nelle quali si trovavano rapporti di produzione del tutto differenti da quelli della società borghese». Tuttavia, essi mancarono di storicizzare il modo di produzione da loro difeso e presentarono il capitalismo come «naturale ed eterno». Nel mio libro Il capitalismo storico ho tentato di chiarire che il capitalismo è un sistema sociale storicamente determinato, contrariamente a quanto impropriamente sostenuto da alcuni economisti. Ho più volte affermato che non esiste un capitalismo che non sia capitalismo storico e, a tal proposito, dobbiamo molto a Marx. In secondo luogo, vorrei sottolineare l’importanza del concetto di «accumulazione originaria», ossia l’espropriazione della terra dei contadini che fu alla base del capitalismo. Marx capì benissimo che si trattava di un processo fondamentale per la costituzione del dominio della borghesia. È un fenomeno che persiste ancora oggi. Infine, inviterei a riflettere di nuovo sul tema «proprietà privata e comunismo». In Unione Sovietica, in particolare durante il periodo staliniano, lo Stato deteneva la proprietà dei mezzi di produzione. Ciò non impedì, però, che le persone fossero sfruttate e oppresse. Tutt’altro. Ipotizzare la costruzione del «socialismo in un solo Paese», come fece Stalin, costituì una novità mai considerata in precedenza, men che mai da Marx. La proprietà pubblica dei beni di produzione rappresenta una delle alternative possibili, ma non è l’unica. Esiste anche l’opzione della proprietà cooperativa. Tuttavia, se vogliamo costruire una società migliore, è necessario sapere chi produce e chi riceve il «plusvalore» - altro pilastro fondamentale della teoria di Marx. È questo il tema centrale. Va completamente mutato quanto si viene a determinare nei rapporti capitalistici di produzione.
MARCELLO MUSTO - Il 2018 coincide con il bicentenario della nascita di Marx e nuovi libri e film vengono dedicati alla sua vita. Quali sono gli episodi della biografia di Marx che lei considera più significativi?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Marx trascorse una vita molto difficile, in perenne lotta contro una povertà terribile. Fu molto fortunato ad avere incontrato un compagno come Friedrich Engels, che lo aiutò a sopravvivere. Marx non ebbe nemmeno una vita affettiva semplice e la sua tenacia nel portare a compimento la missione che aveva assegnato alla propria esistenza - ovvero la comprensione del meccanismo di funzionamento del capitalismo - è davvero ammirevole. Marx non pretese né di spiegare l’antichità, né di definire come avrebbe dovuto essere la futura società socialista. Volle comprendere il suo presente, il sistema capitalistico nel quale viveva.
MARCELLO MUSTO - Nel corso della sua vita, Marx non fu soltanto lo studioso isolato dal mondo tra i libri del British Museum; fu un rivoluzionario sempre impegnato nelle lotte della sua epoca. Da giovane, a causa della sua militanza politica, egli venne espulso dalla Francia, dal Belgio e dalla Germania e, quando le rivoluzioni del 1848 vennero sconfitte, fu costretto all’esilio in Inghilterra. Fondò quotidiani e riviste e appoggiò, in tutti i modi, le lotte del movimento operaio. Inoltre, dal 1864 al 1872 fu il principale animatore dell’Associazione internazionale dei lavoratori, la prima organizzazione transnazionale della classe operaia, e nel 1871 difese strenuamente la Comune di Parigi, il primo esperimento socialista della storia.
IMMANUEL WALLERSTEIN - Sì, è vero, è essenziale ricordare la militanza politica di Marx. Egli ebbe un’influenza straordinaria nell’Internazionale, un’organizzazione composta da lavoratori fisicamente distanti tra loro, in un’epoca in cui non esistevano mezzi che potessero agevolare la comunicazione. Marx fece politica anche attraverso il giornalismo, impiego che svolse per tanta parte della sua vita. Certo, lavorò come corrispondente del «New-York Daily Tribune» prima di tutto per avere un reddito, ma considerò i propri articoli - che raggiunsero un pubblico molto vasto - come parte della sua attività politica. Essere neutrale non aveva alcun senso ai suoi occhi - il che non vuol dire che mancò di rigore nelle sue analisi. Fu sempre un giornalista impegnato e critico.
MARCELLO MUSTO - Lo scorso anno, in occasione del centesimo anniversario della rivoluzione russa, alcuni studiosi sono ritornati a discutere sulle distanze tra Marx e alcuni suoi autoproclamatisi epigoni che sono stati al potere nel XX secolo. Qual è la maggiore differenza tra loro e Marx?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Gli scritti di Marx sono illuminanti e molto più sottili e raffinati di molte interpretazioni semplicistiche delle sue idee. È sempre bene ricordare che fu lo stesso Marx, con una famosa boutade , ad affermare dinanzi ad alcune interpretazioni del suo pensiero: «Quel che è certo è che io non sono marxista». Marx, a seguito dei suoi continui studi, non di rado mutò idee e opinioni. Si concentrò sui problemi che esistevano nella società del suo tempo e, a differenza di tanti che si sono richiamati al suo pensiero, fu profondamente antidogmatico. Questa è una delle ragioni per le quali Marx è una guida ancora così valida e utile.
MARCELLO MUSTO - Per concludere, che messaggio le piacerebbe trasmettere a quanti, nella nuova generazione, non hanno ancora letto Marx?
IMMANUEL WALLERSTEIN - La prima cosa che vorrei dire ai più giovani è di leggere direttamente gli scritti di Marx. Non leggete su Marx, ma leggete Marx. Solo pochi - fra tutti quelli che parlano di lui - hanno veramente letto le opere di Marx. È una considerazione che, peraltro, vale anche per Adam Smith. In genere, con la speranza di risparmiare tempo, molte persone preferiscono leggere a proposito dei classici del pensiero politico ed economico e, dunque, finiscono per conoscerli attraverso i resoconti di altri. È solo uno spreco di tempo! Bisogna leggere direttamente i giganti del pensiero moderno e Marx è, senza dubbio, uno dei principali studiosi del XIX e XX secolo. Nessuno gli è pari, né per la molteplicità delle tematiche da lui trattate, né per la qualità della sua analisi. Alle giovani generazioni dico che è indispensabile conoscere Marx e che per farlo bisogna leggere, leggere e leggere direttamente i suoi scritti. Leggete Karl Marx!
Chi è il numero uno?
Eugen Rosenstock-Huessy e il ruolo della prima persona.
di Damion Searls (Il Tascabile, 03.04.2018) *
Può essere sconvolgente rendersi conto, all’improvviso, che qualcosa a cui non avevi mai pensato - qualcosa che avevi sempre accettato come reale - è solo un articolo di fede. Spesso è il linguaggio a far accendere la lampadina: qualcuno ridefinisce la realtà con una nuova parola (mansplaining, Rebecca Solnit) o mostrando i poteri nascosti e le interconnessioni di una parola antica (debito, David Graeber). Raramente la rivelazione riguarda il linguaggio in sé.
La citazione è di Eugen Rosenstock-Huessy (1888-1973), un teorico del Cristianesimo dell’età moderna molto particolare. (Tutte le traduzioni sono dal volume The Language of the Human Race: An Incarnate Grammar in Four Parts [Die Sprache des Menschengeschlechts: Eine leibhafte Grammatik in vier Teilen].) Rosenstock-Huessy ha ispirato alcuni connoisseur, tra cui W. H. Auden e Peter Sloterdijk, ma possiamo dire in tutta tranquillità che è ancora poco conosciuto. È difficile capire cosa pensare di lui. Di sicuro trovo fastidiosa la palese importanza della nascita di Cristo - o della Missione Divina - che inserisce regolarmente nei suoi ragionamenti filosofici. (Auden: “Chi lo legge per la prima volta può trovare, come è capitato a me, certi aspetti della sua scrittura un po’ difficili da accettare... Per quanto mi riguarda, posso solo dire che ascoltando Rosenstock-Huessy, io sono cambiato”). Il dogma grammaticale a cui fa riferimento - e contro cui si è battuto a morte in un libro di oltre 1.900 pagine - è la lista all’apparenza innocente che risale ai Greci: la prima persona, la seconda persona, la terza persona. Io amo, tu ami, egli ama, o, se avete studiato Latino, amo, amas, amat.
Non sta dicendo che dovremmo aggiungere una forma per la “quarta persona”, come per esempio la distinzione tra terze persone in Ojibwe, oppure una “persona zero” per le costruzioni impersonali come in Finlandese. Sta dicendo che rendere “io” la prima persona è il peccato originale non solo della linguistica, ma della filosofia, della scienza e della stessa vita sociale. E lo intende davvero. Teoricamente, appiattisce l’esperienza vissuta in resoconti freddi e asettici, assimilando tutto all’“affermazione” di un “dato” in terza persona che non richiede alcun coraggio personale, non ha alcuna rilevanza sociale.
Empiricamente, la lista Greca commette un errore: la “prima persona” infatti non arriva per prima. L’io di un bambino si sviluppa quando gli viene rivolta la parola, da un genitore o da un’altra persona che si prende cura di lui. Qualcuno deve dire “tu” nel modo giusto perché un “io” non folle possa di fatto esistere. (Vedi Neither Sun Nor Death di Peter Sloterdijk, p. 30, dove ho sentito parlare di Rosenstock-Huessy per la prima volta). Dal punto di vista psicologico, neurocognitivo e dello sviluppo, “io” è l’ultima persona. Sei un bravo bambino. La bottiglia è lì. Ho fame.
È questa la rivelazione che mi ha tanto colpito. La prima persona non è la prima. Non esiste nessuna lista, a parte quelle che inventiamo. Che aspetto avrebbe il mondo se potessi vedere al di fuori di questo schema? Se prima venisse un legame tanto forte da darti l’autorità di giudicare l’esperienza di qualcun altro - tu ami, tu hai fame, sei carino oggi, ti stai comportando male - e poi venisse una visione condivisa del mondo, e solo successivamente un’espressione di sé? L’idea Cartesiana, “penso dunque sono”, e tutte le distinzioni tra mente/corpo/io/altro avrebbero potuto non emergere mai se Cartesio non fosse stato indottrinato con l’idea che “io” viene per primo. Esistono romanzi in prima e in terza persona, ma la seconda è un’anomalia, proprio come nella vita reale non possiamo prenderci la libertà di parlare per una seconda persona come faremmo di noi stessi in quest’era dell’espressione di sé. Quanto altro ancora della natura del romanzo, e della percezione della mia vita, risale essenzialmente alla grammatica greca di duemila anni fa?
Vale la pena notare che scrisse questi pensieri sulla tirannia nel 1945. E che l’uso del “lui o lei”, ben avanti sui tempi, è suo.
Rosenstock-Huessy fa risalire tutto a questo peccato, dai conflitti con l’autorità a scuola alla schizofrenia, e avanza delle rivendicazioni impressionanti per un proprio “metodo grammaticale” che riconfiguri il linguaggio. Come dicevo, non so cosa pensare al riguardo. Ma è qui, presentato per voi sotto forma di paragrafi alternati da me e da lui. Voi siete la prima persona. Fatene quello che volete.
Traduzione di Alessandra Castellazzi. Si ringraziano l’autore e The Paris Review per la pubblicazione dell’articolo.
* Damion Searls traduce dal tedesco, dal norvegese, dal francese e dall’olandese. Ha tradotto classici come Proust, Rilke, Nietzsche, e Ingeborg Bachmann. Il suo ultimo libro è Macchie d’inchiostro - Storia di Hermann Rorschach e del suo test.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Il giovane Marx. Come si diventa rivoluzionari
Esce sugli schermi italiani in questi giorni di aprile il film di Raoul Peck sulla turbolenta giovinezza di Karl Marx e il suo decisivo incontro con Friedrich Engels: tutto nel segno del “comune” dalla polemica sui furti di legna alla stesura del Manifesto
di Augusto Illuminati (Dinamo Press, Cult, 5 aprile 2018)
Il bel film (2017) del regista haitiano, autore di Lumumba (2000) e I Am Not Your Negro (2016), tratta gli anni giovanili di Marx (Augusto Diehl) ed Engels (Stefan Konarske) e delle loro compagne, l’aristocratica Jenny von Westphalen (Vicki Krieps) e l’operaia irlandese Mary Burns (Hannah Steele) - dai primi articoli marxiani del 1842-1843 sulla “Rheinische Zeitung” di Colonia e sui “Deutsch-franzősische Jahrbücher” editi da A. Ruge a Parigi fino alla stesura a quattro mani del Manifesto del partito comunista nel 1847-1848, passando per tutte le peripezie degli anni di Parigi, Bruxelles, Londra: espulsioni, censure, polemiche, congressi fondativi, scissioni e vicende familiari.
Peck, che è anche sceneggiatore insieme a P. Bonitzer e P. Hodgson, non tratta Marx ed Engels come “personaggi concettuali” - riservando tale veste piuttosto al “comunismo” nelle sue varie e contraddittorie declinazioni (dal “furto” di legna iniziale all’umanitarismo della Lega dei Giusti, dalle astrazioni proudhoniane alle pratiche di lotta operaia e alla definizione del Manifesto) - ma ne restituisce un’immagine pubblica e privata molto sciolta e bohémienne, mostrandoli come esponenti di una controcultura romantica in via di rapida politicizzazione.
Tale era infatti la cerchia dei giovani hegeliani e dei loro corrispondenti europei. Approccio che risalta nei dettagli aneddotici - la ribellione contro la censura prussiana, le fughe dai controlli polizieschi di Guizot, la partita a scacchi di Marx con Courbet, le turbolente riunioni nelle osterie del Fbg. Saint-Antoine, le incursioni dell’innamorato Engels nei bassifondi di Manchester, il sogno schilleriano in cui i contadini della Mosella rimossi dagli usi civici ritornano in sogno come briganti alla notizia dell’attentato a re di Prussia - e naturalmente colorisce anche i rapporti dei due protagonisti con le donne, segnandoli in modo diverso.
Qui subentra un elemento più analitico e sostanziale, così come nel rapporto fra le due donne, la moglie Jenny e la compagna Mary - che implica in sottinteso anche quello fra Jenny e la fedele cameriera e altro, Lenchen, abbreviativo di Helene Demuth.
Entrambe le donne (e pure Lenchen) furono prodighe non solo di cure ma anche di informazioni e consigli politici ai due redattori del Manifesto e il ruolo di Mary nell’ideazione stessa nel 1845 della Situazione della classe operaia in Inghilterra di Engels (fondamentale per la svolta di Marx dalla filosofia all’economia) è stata ampiamente riconosciuto, in primo luogo dallo stesso autore. Engels non mancò di tributare un elogio, nel 1890 in occasione dei funerali, anche al contributo di Lenchen, che aveva preso in casa dopo la morte di Marx. Per di più, nel 1851, aveva riconosciuto come proprio il figlio che Lenchen aveva avuto da Marx, Freddy rinnegato per non rovinare con uno scandalo l’armonia e il prestigio familiare...
Nel film la complicità fra Jenny e Lenchen addolcisce una brutta storia patriarcale, così come vengono forse migliorati i rapporti fra Karl e Mary, occultando l’egoismo marxiano, che si manifestò in modo penoso alla notizia della morte di Mary - ben oltre i limiti cronologici del film. Che in compenso insiste molto anche sui suggerimenti di Jenny, omaggio di stagione al femminismo su una materia che certamente Marx si guardò bene dal documentare. -Nel grande dialogo d’invenzione sulla spiaggia di Ostenda fra Jenny e Mary, la prima esprime una prospettiva tradizionale su figli e famiglia, mentre la seconda rivendica il suo diritto alla libertà da quei vincoli e vuole restare povera come è nata per essere rivoluzionaria (la prima, invece, accetta di impoverirsi per amore di Karl).
Passano sullo schermo Ruge, Hess, il sarto Weitling, profeta della fratellanza mistica della Lega dei Giusti, Proudhon, Bakunin e tanti altri, vediamo la fabbrica della famiglia Engels che è insieme la fonte di reddito di Marx e il modello reale della sua teoria economica - decisiva fu infatti la spinta di Friedrich per far passare Karl dalla critica filosofica della società e dello stato alla critica dell’economia politica borghese. Das Kapital restituisce gli esborsi di capitali dell’amico e compensa storicamente (non individualmente) la parte egocentrica e convenzionale della personalità dell’autore.
Nel film il passaggio decisivo (l’effetto Manchester, l’effetto Friedrich e Mary) è il congresso del giugno 1847, quando Marx ed Engels trasformano a forza la Lega dei Giusti in Lega dei Comunisti, di cui il Manifesto sarà il programma. Non più fratellanza egualitaria ma rapporti di produzione e lotta di classe, non più “umanità” ma “proletariato”: comunismo è il movimento reale che sopprime lo stato di cose esistenti e dunque si rinnova ogni volta contro ogni stato di cose, contro ogni processo di accumulazione per recinzione del comune ed estrazione del valore dalla cooperazione sociale. Da allora a oggi, mai ripetendosi. Dunque si passa dai volti dei proletari d’epoca alle scene delle lotte del Novecento su scala mondiale, mentre in colonna sonora, dopo le citazioni salienti del Manifesto e i titoli di coda, scorre il dylaniano Like a Rolling Stone, un susseguirsi sempre aperto, di rimbalzo in rimbalzo, delle immagini di Vietnam, ’68, Allende, Mandela, riots Usa, Lumumba, Guevara...
Dalla parte della storia
La giovinezza di Marx ed Engels, raccontata in un film solo all’apparenza biografico, ma che si concentra sulla congiuntura per mostrare il punto singolare dell’emergenza di una storia, individuale e collettiva
di Pietro Bianchi (Dinamo Press, Cult, 5 aprile 2018)
Bruxelles, 1848, ovvero il momento in cui Karl Marx e Friedrich Engels scrivono il manifesto del Partito Comunista. È così che finisce Il giovane Karl Marx di Raoul Peck: un biopic atipico, sentimentale, fatto da un regista haitiano tra i più intelligentemente politici degli ultimi anni e che riprende giusto una manciata di anni nella vita di Marx durante gli anni Quaranta dell’Ottocento fino appunto alla redazione del più famoso manifesto programmatico della storia moderna.
Fare un film su una figura così ingombrante come Marx è un progetto che metterebbe paura a chiunque (Ėjzenštejn, per dire, non c’era riuscito) eppure Raoul Peck riesce a passare dalla porta stretta che vi è tra la fedeltà alla ricostruzione storica (il racconto è molto più meticoloso, anche nei dettagli secondari, di quanto ci si potrebbe attendere da una produzione del genere) e un racconto di estrema semplicità e efficacia su un giovane intellettuale e militante che attraversa uno dei momenti cruciali della storia europea. L’idea è proprio quella di togliere a Marx quelle sembianze da icona che ci sono state tramandate dalla celebre fotografia con la barba lunga e di ricollocarlo invece nella contingenza della storia.
Ecco che allora Marx e Engels - il centro del film è la storia della loro amicizia - sono due giovani bohémiens che passano da Parigi a Londra, da Bruxelles alla Germania per organizzare e conoscere quel proletariato che per la prima volta si era affacciato in quegli anni sulla scena della storia e stava cambiando definitivamente la realtà che si aveva di fronte agli occhi. Ma nel film non ci sono solo le fabbriche di Manchester o le assemblee della Lega dei Giusti, i dibattiti con Proudhon e quelli con Wilhelm Weitling: ci sono anche i bar frequentati dagli operai tra risse e fiumi di alcol, le burrascose relazioni sentimentali e le improvvise colluttazioni con le autorità di giustizia.
Perché come è stato scritto da Lorenzo Rossi su Cineforum il rischio di un film che vuole rappresentare dei personaggi tanto rilevanti dal punto di vista storico è quello di pensare che abbiano avuto una sorta di incontro inevitabile con il proprio destino. È il tipico inganno di vedere le cose après-coup, a partire dai loro effetti: ed ecco che allora l’impressione che abbiamo è che quello che è accaduto non poteva non accadere. Se noi però portiamo il nostro sguardo sul presente della scelta - come avviene in questo film - le cose acquistano un aspetto molto diverso, perché tutto “sarebbe potuto essere diverso da quello che poi è stato”.
Vedere allora Marx seduto a un tavolo che scrive “un fantasma si aggira per l’Europa” ha l’effetto non tanto celebrativo di illustrare un momento che poi si rivelerà storico, quanto quello di far vedere che la storia si costruisce sempre a partire da una radicale contingenza. Insomma, le cose sarebbero anche potute andare diversamente e in ogni singolo momento la scelta si è sempre compiuta sullo sfondo di una sospensione radicale di ogni garanzia o necessità. Ecco che allora lo sguardo che Peck ci spinge ad adottare non è quello di chi ha costruito la storia perché “non poteva che andare così”, ma di chi è stato in grado di farlo solo perché vi era immerso completamente.
È per questo che Il giovane Karl Marx è un film tanto riuscito, nonostante la difficile restituzione della ricchezza del dibattito filosofico di quegli anni (che rimane quasi sempre sullo sfondo), nonostante il “vero” Marx - quello che ha davvero innovato la modernità con un’analisi inedita nel metodo e nel merito del modo di produzione capitalistico - inizi soltanto dopo il 1848, quando cioè il film finisce. Nel film quello che emerge è molto più semplicemente il fatto che Marx e Engels volessero qualcosa che andasse oltre a una prospettiva blandamente egualitaria di fratellanza tra gli uomini, come veniva espressa ne La lega dei Giusti (organizzazione socialista-utopista di cui il film ricostruisce splendidamente il momento del Congresso del giugno 1847 in cui cambia il nome in Lega dei Comunisti) e che il comunismo dovesse porre il problema di un soggetto sociale che per la prima volta mostrava nella storia i paradossi e i limiti dell’egualitarismo borghese: il proletariato.
Alla fine, quando la lettura di alcuni passi de Il Manifesto del Partito Comunista si sovrappone a dei tableau vivant di proletari del 1848 che guardano in macchina, il film termina con uno splendido cartello che dice quella che è forse la verità più decisiva del film: Marx dopo il 1848 inizia a lavorare alla sua opera più importante, Il Capitale, che rimarrà incompiuta, proprio perché l’oggetto di cui si occupa è costantemente in movimento nella storia.
L’opera di Marx insomma non è una dottrina, ma un’opera aperta, e ciò che Il giovane Karl Marx ci spinge a fare è di non ridurre la vita Marx a un’agiografia ma di essere fedeli allo spirito della sua vita: cioè, pensare quell’oggetto storico che chiamiamo capitalismo non con la freddezza e il distacco del ricercatore, ma con la partecipazione di qualcuno che sa che di quella storia è inevitabilmente parte.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"SCORPIONE E FELICE". RIDENDO E SCHERZANDO, MARX TROVA "LA PIETRA FILOSOFALE" DEL SUO CAMMINO.
IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), IL CATTOLICISMO ("DEUS CARITAS EST"), LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA FILOSOFIA HEGELIANA (MARX), E LA POSTERITÀ SPIRITUALE DI GIOACCHINO DA FIORE .... *
Filosofi? Solo nel weekend
Relazioni. Il rapporto dialettico tra servo e signore, evocato da Hegel e analizzato da Kojève, chiama gli intellettuali all’impegno fuori dai loro circoli chiusi. Ma forse i pensieri più originali sono invece frutto dell’ozio, dei momenti in cui ci si distacca dalle preoccupazioni mondane
di Mauro Bonazzi (Corriere della Sera, La Lettura, 25.03.2018)
«È stato terribile. Alla conferenza si sono presentati più di 300 giovani, si è dovuto cambiare sala, e ciò nonostante la gente era seduta per terra. Se si pensa che una cosa del genere capita solo per le conferenze di Sartre!». Gli inizi erano stati ben diversi. «E sì che quando ho iniziato a parlare all’École (l’École Pratique des Hautes Études, una delle grandi istituzioni francesi, ndr ) erano presenti a malapena una dozzina di persone!». Ma che dozzina: in quell’auletta si confondevano, tra occhiali rotondi, odore di lacca e colletti inamidati, con tutto il loro bagaglio di piccole perfidie e grandi idee, Jacques Lacan e Hannah Arendt, Raymond Queneau e Raymond Aron, Maurice Merleau-Ponty ed Eric Weil, George Bataille e Roger Caillois, e forse anche André Breton e Leo Strauss. Figure eccentriche, in quel momento, quasi tutti giovani, in fuga da qualcosa o da sé stessi, ma destinati a ben altro futuro. Le lezioni erano estenuanti - «il corso mi ha sfinito, annientato, ucciso dieci volte», scriveva Bataille - un commento pressoché infinito di alcune pagine di uno dei testi in assoluto più difficili mai scritti, la Fenomenologia dello Spirito di Hegel.
A officiare, in un rito che si sarebbe rinnovato ogni settimana per sei anni (dal 1933 al 1939), era Alexandre Kojève, un giovane emigrato russo nato nel 1902, esule in fuga dalla rivoluzione bolscevica, ma forse una spia dei servizi segreti sovietici, nipote di Vasilij Kandinskij, seduttore implacabile - di lui si è detto tutto e il contrario di tutto -, senza dubbio il signore assoluto della scena filosofica parigina.
A questo gruppo, davvero inimitabile, è dedicato il bel saggio di Massimo Palma, appena pubblicato da Castelvecchi, Foto di gruppo con servo e signore.
Più precisamente, tutto girava intorno a poche pagine. Pagine oscure, astruse, a volte incomprensibili; ridicole e tragiche allo stesso tempo: così come ridicola e tragica allo stesso tempo è la vita degli esseri umani, che era poi il tema di fondo di quelle lezioni e di quel libro. Si raccontava il viaggio della coscienza (che poi saremmo noi) in cerca del significato della propria esistenza, di un posto nell’universo, e del bisogno di essere riconosciuti: perché in un mondo senza più Dio, senza più un Dio che ci osserva, è solo così, vale a dire nel riconoscimento reciproco, che potremo dire di essere vissuti realmente.
Diversamente è la natura che si ripete eternamente identica a sé stessa, bellissima ma silenziosa, indifferente, estranea: «Senza alcun dubbio la singola mosca muore, ma queste mosche qui sono le stesse dell’anno passato. Quelle dell’anno passato sono forse morte? Può essere, ma nulla è scomparso. Le mosche restano uguali a sé stesse come le onde del mare» (Bataille). Non basta, non può bastare. La storia nasce come negazione di questa unità indistinta della natura, quando questi esseri inquieti che sono gli uomini iniziano la loro battaglia contro l’angoscia del nulla, alla ricerca di sé stessi, per dimostrare che non siamo qui per caso, come mosche o foglie.
Per questo cerchiamo gli altri, ne abbiamo bisogno, come di uno specchio che rifletta e ci riveli nella nostra inimitabile specificità, nel nostro valore. «La realtà umana è sempre sociale», scrive Kojève, l’uomo è l’animale politico: solo gli dèi e le bestie vivono da soli; «l’uomo reale e vero è il risultato della sua interazione con altri». Il problema, però, è che questo desiderio di riconoscimento è sempre foriero di conflitti e tensioni: la mia affermazione, il riconoscimento della mia importanza, passa per la negazione dell’altro. È la dialettica tra servo e padrone, il cuore della Fenomenologia: solo chi osa, chi è pronto a mettere tutto in discussione, potrà affermarsi. «Conflitto è padre di tutte le cose, e alcuni li fa liberi altri schiavi»: persino l’oscuro Eraclito diventava chiaro grazie a Hegel e Kojève. Con una sorpresa finale, un’inversione paradossale dei ruoli: il padrone, affidando tutto al suo sottoposto, finisce per dipendere da lui, che in questo modo scoprirà la sua forza, prendendo il sopravvento. E via di seguito, di rovesciamento in rovesciamento: così procede la storia, quando i vinti rialzano la testa.
Teorie astruse? Forse, ma non prive di una loro attualità. Perché in fondo trasmettevano un insegnamento molto semplice: che non esistono anime belle, che quello che siamo dipende dal rapporto che costruiremo con gli altri, dalla determinazione con cui affronteremo le sfide della vita. Solo agendo, esponendosi al rischio dell’insuccesso (della morte, scriveva Hegel), si può sperare di realizzare qualcosa.
Era anche una critica sferzante agli intellettuali, chiusi nei loro giardini e nelle loro parrocchie, sempre intenti a discutere tra loro: schiavi dunque dei loro pregiudizi così come la tanto vituperata folla dei non iniziati lo è dei propri; e per questo incapaci di comprendere la realtà che li circonda; destinati a essere superati dal corso degli eventi. Niente male come lezione, mentre le truppe naziste si apprestavano a marciare su Parigi.
Poi tutto era cambiato. Sempre funambolico, ma in fondo coerente con le sue idee, dopo la guerra Kojève aveva repentinamente abbandonato il mondo accademico, entrando nell’amministrazione, al ministero degli Affari economici, dove divenne in breve tempo un’eminenza grigia della politica commerciale francese, invincibile nelle negoziazioni internazionali («quando le altre delegazioni vedevano arrivare Kojève, e in special modo se lo vedevano arrivare solo, era il panico», ricordò dopo la sua morte un funzionario che gli era stato collega per anni). Sembrava il Talete di cui aveva parlato Platone, quello che cade nel pozzo perché assorto nella contemplazione del cielo. Si era rivelato come il Talete di Aristotele, che, grazie alla conoscenza del cielo e dei fenomeni atmosferici, aveva preso il controllo di tutti i frantoi, «dimostrando che per i filosofi avere successo è veramente facile - se solo lo vogliono». Per la filosofia non restava ormai che il fine settimana: e «filosofo della domenica» Kojève sarebbe diventato per tutti, secondo la folgorante definizione di Raymond Queneau.
Del resto - e questo è l’ultimo paradosso di un pensatore che viveva di paradossi - è in fondo proprio la domenica il giorno decisivo, quando finalmente ci si ferma e la cosa più importante forse si rivela. La saggezza, la serenità raggiunta. L’avevano inseguita tutti, la trovò forse il solo Queneau, tra tutti l’allievo più imprevedibile, lo scrittore capace di esprimere la filosofia del maestro in forma di romanzi (ed è a lui che si deve tra l’altro la trascrizione e pubblicazione dei corsi all’École Pratique - e dunque la creazione del mito di Kojève). E se tutto questo affannarsi nelle azioni e questo correre dietro alle parole non portasse da nessuna parte? E se la saggezza non fosse altro che la capacità di sorridere dello spettacolo d’arte varia (questo è Paolo Conte) e strampalata che sono gli uomini e le loro vite? Né servi né padroni, senza bisogno di essere riconosciuti o di riconoscere?
Lo aveva ammesso persino il grande Hegel, in un momento di rara lucidità: «In questa sfrenatezza priva di preoccupazioni è implicito il momento ideale: è la domenica della vita, che tutto uguaglia e che allontana ogni cattiveria; persone che sono così cordialmente di buon umore non possono essere del tutto cattive o basse». Anche Kojève alla fine gli aveva dato ragione: «Queneau ha riassunto la Fenomenologia dello Spirito scrivendo Zazie nel metro. Zazie era venuta a Parigi per vedere la metropolitana. Ma la sola volta in cui ci andò, s’addormentò e non vide nulla. Ecco il romanzo della saggezza». Se fosse proprio così, e tutto qui? I pensieri più impertinenti vengono quando si ozia - di domenica, insomma - e forse sono i migliori.
O forse non è così, e neppure questa soddisfazione - una «negatività senza impiego», diceva Bataille - riuscirà a placare l’ansia tutta umana di agire, combattere, costruire? La mosca non smette di ronzare, disturbando il pensiero; la storia continua...
La rivoluzione fuma l’oppio
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, La Lettura, 25.03.2018)
Se si guarda in faccia la crisi del pensiero rivoluzionario senza cercare scuse consolatorie, l’unica alternativa alla rassegnazione è la riscoperta della dimensione religiosa. Semplificando al massimo, si può riassumere così la densa riflessione che Romano Màdera, filosofo e psicoanalista, ha premesso alla riedizione del suo saggio Identità e feticismo del 1977, riposto ora con altri scritti dalle edizioni Mimesis con il titolo Sconfitta e utopia (pp. 236, e 20). La prospettiva millenaristica indicata da Karl Marx, nota Màdera, non discende affatto dalla sua pur lucida descrizione del capitalismo. Può quindi ritrovare un senso solo se reinnestata nel solco della tradizione giudaico-cristiana e indirizzata verso una «riforma della spiritualità mondiale». Che rivincita, per l’«oppio del popolo».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
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PER LA CRITICA DEL CAPITALISMO E DELLA SUA TEOLOGIA "MAMMONICA" (Benedetto XVI, "Deus caritas est", 2006).
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
N. Fraser, Scales of Justice. Reimagining Political Space in a Globalizing World, Polity Press, Cambridge (UK) 2008, pp. 224, ISBN 978-07456-4486-8 *
di Brunella Casalini (Jura Gentium. Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale)
Giocando sulla plurivocità semantica del termine inglese "scales", con il titolo Scales of Justice Nancy Fraser evoca due immagini: la bilancia come simbolo classico della capacità della giustizia di agire in modo imparziale e lo spazio cui necessariamente deve far riferimento qualsiasi teoria della giustizia. Sia il concetto di imparzialità sia la dimensione spaziale della giustizia sono oggi oggetto di una contestazione radicale. La contrapposizione tra paradigma redistributivo e paradigma del riconoscimento si è mossa oltre la problematica della risoluzione equa dello scontro tra rivendicazioni conflittuali; è infatti la sostanza stessa dell’idea di giustizia ad essere messa in discussione da coloro che si dividono sulla priorità di redistribuzione e riconoscimento, presentandole come istanze incommensurabili che non possono trovare risposta semplicemente pesandole sulla stessa bilancia.
Una teoria della giustizia che tenga conto delle diverse concezioni sostantive della giustizia oggi presenti nel dibattito politico, qualora ritenga che ciascuna di esse colga aspetti importanti e diversi del fenomeno dell’ingiustizia, secondo la Fraser, deve rispondere a due sfide: la prima consiste nel vedere cosa possa essere salvato dell’ideale dell’imparzialità e come esso possa essere riformulato, la seconda nel decidere contestualmente, accettando l’esistenza di una pluralità di prospettive, a quale visione della giustizia dare di volta in volta maggiore attenzione.
Da Justice Interruptus (1997) all’acceso confronto con Axel Honneth, contenuto in Recognition or Redistribution?, la Fraser ha tentato di superare la contrapposizione tra paradigma del riconoscimento e paradigma redistributivo, mediante due operazioni principali: 1) una teorizzazione del riconoscimento incentrata sulla differenza di status, che tende a separare la politica del riconoscimento dalla politica dell’identità, e a vedere nel mancato riconoscimento un’ingiustizia, un impedimento alla parità partecipativa, e non un ostacolo all’autorealizzazione e una ferita psichica (come nei modelli di Honneth e Taylor); e 2) la formulazione di un dualismo di prospettiva capace di cogliere analiticamente tanto le dinamiche di esclusione connesse alle caratteristiche intrinseche del sistema economico capitalistico quanto quelle legate al sistema simbolico-culturale, così da poter proporre soluzioni di volta in volta diverse a seconda delle specifiche condizioni di particolari gruppi sociali e dei presupposti necessari a garantire la parità partecipativa.
Accusata di aver dimenticato il ruolo autonomo della sfera politico-giuridica e l’importanza delle discriminazioni che avvengono sul piano prettamente giuridico e politico, a cominciare dal saggio Redefining Justice in a Globalizing World (2005, qui ripubblicato), Nancy Fraser ha posto accanto alla dimensione culturale del riconoscimento e alla dimensione economica della redistribuzione, una terza dimensione specificamente politica: la dimensione della rappresentanza.
Il criterio della rappresentanza risponde a una questione decisiva oggi nei dibattiti intorno alle diverse teorie della giustizia, dibattiti che non vertono più sul "che cosa" la giustizia deve riconoscere, ma sempre più su "a chi" deve riconoscerlo, su quali sono e come si determinano i confini della comunità cui una teoria della giustizia intende applicarsi.
La theory of justice as parity of participation della Fraser viene così a configurarsi come una teoria tridimensionale, che costituisce una sorta di ripresa e revisione della triade weberiana di classe, status e partito - cui, del resto, l’autrice esplicitamente si è richiamata fin dall’inizio nella sua ridefinizione del paradigma del riconoscimento.
L’aggiunta della terza dimensione appare inscindibile dall’attenzione per la questione del framing, dell’inquadratura dello spazio entro cui si pongono problemi di giustizia. In un contesto post-socialista, post-fordista e soprattutto post-westphaliano le ingiustizie sono insieme incentrate su questioni di misrecognition, misredistribution e misframing. Distribuzione e riconoscimento potevano essere considerate come le due dimensioni cruciali della giustizia finché il quadro di riferimento dello stato-nazione era dato per scontato.
Con la globalizzazione e la contestazione della cornice keynesiano-westphaliana, la dimensione politica emerge come la terza dimensione fondamentale nell’ambito delle teorie della giustizia. Domanda cruciale diviene infatti se la teoria della giustizia debba continuare a muoversi nello spazio della cittadinanza nazionale, se debba divenire cosmopolitica o se debba venire a riguardare le "comunità transnazionali del rischio".
La Fraser si è sentita inizialmente vicina alle posizioni di coloro che - come Iris Marion Young - hanno cercato di arrivare alla formulazione di una concezione transazionale mediante l’individuazione dei soggetti destinatari della giustizia in base al c.d. "all affected principle", ovvero in base ad un principio che fa riferimento alla possibile co-implicazione oggettiva di soggetti anche lontani tra loro in una rete di relazioni causali che può scavalcare i confini nazionali. Ora, Fraser riconosce due limiti a questa soluzione teorica: da un lato, il rimando a reti causali oggettive sembra delegare alle scienze sociali l’individuazione dei soggetti interessati; dall’altro, a causa del paradosso prodotto dal c.d. butterfly principle, per cui siamo tutti influenzati da tutto, rischia di non riuscire a delimitare lo spazio di relazioni sociali rilevanti.
Per ovviare a questi inconvenienti, l’autrice propone quale alternativa il c.d. all subjected principle, in base al quale chi è soggetto ad una data struttura della governance (concepita in senso lato in modo da poter comprendere non solo gli stati, ma anche, per esempio, le organizzazioni non governative e agenzie come il WTO e il IMF), ha diritto ad essere riconosciuto come destinatario di giustizia da parte di quella medesima struttura. Il principio all subjected individua non un unico "chi" destinatario della giustizia, ma una pluralità di "chi" collocati a livello locale, nazionale, regionale e, in alcuni casi, globale.
L’individuazione dei soggetti destinatari della giustizia transazionale può avvenire soltanto lasciando voce alla contestazione e al dialogo ai diversi livelli e creando canali istituzionali formali che consentano di arrivare a decisioni vincolanti. In questa direzione, la Fraser guarda al ruolo che rivestono oggi i movimenti sociali globali: la loro contestazione del quadro westphaliano è insieme un modo per rivendicare il diritto a determinare il "chi" della giustizia e il "come" arrivare alla sua definizione.
Sbagliano tuttavia, secondo la Fraser, i sostenitori delle visioni populiste, à la Negri e Hardt, che collocano il nesso contestazione/decisione nella società civile, perché le formazioni presenti nella società civile non sono da sole capaci di trasformare le loro proposte in decisioni politiche stringenti e perché esse mancano di rappresentatività e democraticità per poter rivendicare il diritto a ridisegnare i confini della giustizia. Una giustizia transnazionale richiede adeguati canali istituzionali che rispondano alla società civile, ma funzionino al tempo stesso secondo eque procedure e un sistema di rappresentanza che ne assicuri il carattere democratico dando legittimità alle decisioni prodotte. I tratti delle nuove sfere pubbliche transnazionali e delle nuove istituzioni democratiche globali rimangono, tuttavia, al momento, estremamente vaghi nel disegno della Fraser, che evita qui, per altro, di confrontarsi criticamente con le istituzioni sovranazionali esistenti, con i loro limiti e le loro possibilità di riforma.
* La bilancia della giustizia. Ripensare lo spazio politico in un mondo globalizzato di Nancy Fraser edito da Pensa Multimedia, 2012
Le contraddizioni sociali del capitalismo
di Nancy Fraser (che fare, 24 marzo 2017
Come il regime liberale prima di esso, così anche l’ordine statal-capitalistico si dissolse nel corso di una crisi prolungata. A partire dagli anni Ottanta, gli osservatori lungimiranti potevano vedere emergere i lineamenti di un nuovo regime, destinato a diventare il capitalismo finanziario dell’epoca presente.
Globale e neoliberale, sta promuovendo tagli pubblici e privati del welfare nello stesso momento in cui recluta le donne nella forza lavoro salariata. Sta dunque scaricando il peso del lavoro di cura sulle famiglie e sulle comunità, mentre diminuisce la loro capacità di svolgerlo. Il risultato è una nuova organizzazione dualistica della riproduzione sociale, mercificata per coloro che possono permettersela e privatizzata per quanti non possono farlo, visto che alcune componenti della seconda categoria forniscono lavoro di cura per coloro che appartengono alla prima in cambio di (bassi) stipendi. Nel frattempo, la combinazione della critica femminista e della deindustrializzazione ha definitivamente privato il “salario familiare” di ogni credibilità. capitalismo
Quell’ideale ha fatto così posto all’attuale e più moderno principio del “doppio reddito familiare”.
Il vettore principale di tali sviluppi e la caratteristica distintiva di questo regime è l’inedita centralità del debito. Il debito è lo strumento con cui le istituzioni finanziarie globali fanno pressione sugli stati affinché taglino la spesa sociale, applichino misure di austerity e, in generale, colludano con gli investitori nell’estrarre valore da popolazioni indifese.
È in larga misura attraverso il debito, inoltre, che i coltivatori del sud del mondo vengono espropriati da una nuova serie di annessioni di suolo da parte di aziende che mirano ad accaparrarsi provviste energetiche, acqua, terra coltivabile ed “emissioni di carbonio”. È sempre più attraverso il debito, inoltre, che l’accumulazione prosegue nel suo centro storico. Così come il lavoro sottopagato e precario nel settore dei servizi sostituisce quello industriale sindacalizzato, i salari scendono al di sotto dei costi socialmente necessari alla riproduzione; in questa “economia del precariato” [“gig economy”], la spesa duratura da parte del consumatore richiede un debito diffuso, che aumenta esponenzialmente.
È sempre più attraverso il debito, in altre parole, che il capitale oggi cannibalizza il lavoro, colpevolizza gli stati, trasferisce ricchezza dalla periferia al centro ed estrae valore dalla sfera domestica, dalle famiglie, dalle comunità e dalla natura.
L’effetto è quello di intensificare le contraddizioni intrinseche al capitalismo tra produzione economica e riproduzione sociale.
Mentre il regime precedente spronava gli stati a subordinare gli interessi a breve termine delle società private all’obiettivo di lungo termine di un’accumulazione duratura, stabilizzando la riproduzione attraverso investimenti pubblici, quello attuale autorizza il capitale finanziario a vincolare gli stati e l’opinione pubblica in funzione degli interessi immediati degli investitori privati, richiedendo anche tagli pubblici alla riproduzione sociale. E mentre il regime precedente aveva sancito un’alleanza tra mercatizzazione e protezione sociale contro l’emancipazione, questo genera uno scenario ancora più perverso, nel quale l’emancipazione si allea con la mercatizzazione per indebolire la protezione sociale.
Il nuovo regime emerse dalla decisiva intersezione di questi due gruppi di lotte. Un gruppo contrappose un partito in ascesa di liberisti, determinati a liberalizzare e globalizzare l’economia capitalistica, contro il movimento operaio in declino nei paesi del centro; la più forte base di sostegno della democrazia sociale di un tempo è oggi sulla difensiva, se non del tutto sconfitta.
L’altro gruppo di lotte contrappose i “nuovi movimenti sociali” progressisti, avversi alle gerarchie di genere, di sesso, “razza”, etnia e religione contro le popolazioni intente a difendere mondi di vita e privilegi consolidati, oggi minacciati dal “cosmopolitismo” della nuova economia. Al di là della collisione di questi due gruppi di lotte, emerse un risultato sorprendente: un neoliberalismo “progressista” che celebra la “diversità”, la meritocrazia e l’“emancipazione” proprio mentre smantella le protezioni sociali ed esternalizza nuovamente la riproduzione sociale. Il risultato non comporta soltanto l’abbandono delle popolazioni indifese alle predazioni del capitale, ma ridefinisce anche l’emancipazione in termini mercatisti.
I movimenti di emancipazione hanno preso parte a questo processo. Tutti, incluso l’anti-razzismo, il multiculturalismo, il movimento di liberazione LGBT e l’ecologismo, hanno dato vita a correnti neoliberali favorevoli al mercato.
La traiettoria femminista si dimostrò tuttavia decisiva più di altre in tale processo, dato il consueto intreccio di questioni di genere e di riproduzione sociale nel capitalismo. Al pari di ogni regime precedente, il capitalismo finanziario istituzionalizza la divisione fra produzione e riproduzione sulla base del genere. A differenza dei precedenti, però, il suo immaginario dominante è liberal-individualista ed egualitario dal punto di vista del genere - le donne sono considerate alla pari degli uomini in ogni sfera, degne di eguali opportunità di realizzare i propri talenti, inclusi - forse soprattutto - quelli nella sfera produttiva. La riproduzione, al contrario, appare un residuo arretrato, un ostacolo al progresso che deve essere estirpato in un modo o nell’altro lungo la strada verso la liberazione.
A dispetto - o forse a causa - della sua aura femminista, questa concezione compendia l’attuale forma della contraddizione sociale del capitalismo, che assume un’inedita intensità.
Non pago di ridurre gli aiuti pubblici mentre recluta le donne nel mondo del lavoro salariato, il capitalismo finanziario ha cioè anche ridotto i salari reali, aumentando il numero di ore di lavoro casalingo pagato necessario a supportare una famiglia e inducendo a fare i salti mortali per trasferire su altri il lavoro di cura.
Per colmare il “vuoto di cura” [care gap], il regime importa lavoratrici migranti dai paesi più poveri a quelli più ricchi. Generalmente si tratta di donne connotate dal punto di vista razziale e/o provenienti da regioni rurali e povere, che accettano di svolgere il lavoro riproduttivo e di cura precedentemente eseguito da donne più privilegiate. Per fare questo, tuttavia, le migranti devono trasferire le loro responsabilità familiari e comunitarie ad altre badanti, ancora più povere, che a loro volta devono fare lo stesso - e così via, in “catene della cura globale” sempre più lunghe. Lungi dal colmare il “vuoto di cura”, l’effetto finale consiste dunque nella sua dislocazione dalle famiglie più ricche a quelle più povere, dal nord al sud del pianeta.
Questo scenario si adatta alle strategie basate sul genere degli stati postcoloniali indebitati, con problemi finanziari soggetti ai piani di “aggiustamento strutturale”. Alla ricerca disperata di una valuta forte, alcuni di essi hanno attivamente promosso l’emigrazione delle donne per svolgere all’estero un lavoro di cura pagato in vista delle rimesse, mentre altri, attraverso la creazione di zone di trasformazione per l’esportazione, hanno attratto investimenti esteri diretti, spesso in industrie - come quelle che assemblano tessuti e materiali elettronici - che preferiscono impiegare lavoratrici donne. In entrambi i casi, le capacità socio-riproduttive sono ulteriormente compresse.
Due recenti tendenze negli Stati Uniti compendiano la gravità della situazione.
La prima è la crescente popolarità del “congelamento di ovuli”, una procedura il cui costo normalmente si aggira intorno ai 10.000 dollari, ma che ora viene offerta gratuitamente da imprese informatiche come benefit per impiegate altamente qualificate. Desiderose di attrarre e trattenere queste lavoratrici, imprese come Apple e Facebook forniscono loro un forte incentivo a posticipare la gravidanza, di fatto dicendo: “aspetta e avrai i tuoi figli a 40, 50 o anche 60 anni; dedica a noi i tuoi anni più energici e produttivi”.
Un secondo sviluppo, egualmente sintomatico della contraddizione tra riproduzione e produzione negli Stati Uniti, consiste nella proliferazione di distributori meccanici costosi e altamente tecno- logici, per tirare e conservare latte materno. Tale è la “dose” di scelta in un paese con un alto tasso di partecipazione della forza lavoro femminile, senza maternità pagata o congedi parentali, e infatuato della tecnologia. Un paese, inoltre, in cui l’allatta- mento resta la prassi, ma è cambiato radicalmente. Non essendo più necessario allattare il bambino al seno, oggi molte donne “allattano” tirandosi meccanicamente il latte e mettendolo da parte perché in seguito una qualche bambinaia possa allattare dalla bottiglia. In una congiuntura storica di acuta povertà, tiralatte doppi che funzionano senza bisogno delle mani sono considerati la cosa più desiderabile, poiché consentono di tirare il latte da entrambi i seni in una volta sola, mentre si sta guidando la macchi- na in autostrada per andare al lavoro.
Alla luce di pressioni come queste, non c’è da stupirsi se, in questi ultimi anni, sono esplose lotte su questioni relative alla riproduzione sociale. Le femministe del nord descrivono spesso il loro punto di vista all’insegna di un “equilibrio tra famiglia e lavoro”.
I conflitti sulla riproduzione sociale, tuttavia, comprendono molto di più - i movimenti locali per la casa, la salute, la sicurezza alimentare e un reddito di base incondizionato; le lotte per i diritti dei migranti, dei lavoratori domestici e dei lavoratori pubblici; campagne per sindacalizzare coloro che svolgono un lavoro di assistenza sociale in residenze per anziani, ospedali e centri di assistenza all’infanzia; le lotte per i servizi pubblici come l’assistenza diurna e l’assistenza per gli anziani, per una settimana lavorativa più corta e per una maternità e congedi parentali generosamente remunerati. Nel loro insieme, tali rivendicazioni equivalgono alla richiesta di una riorganizzazione massiccia della relazione tra produzione e riproduzione, a favore di assetti sociali che potrebbero dare la possibilità a persone di ogni classe, genere, orientamento sessuale e colore della pelle di combinare attività socio-riproduttive con un lavoro sicuro, interessante e ben remunerato.
Le lotte di confine sulla riproduzione sociale sono centrali per l’attuale congiuntura, quanto lo sono i conflitti di classe sulla produzione economica.
Rispondono anzitutto a una “crisi della cura” che è radicata nelle dinamiche strutturali del capitalismo finanziario.
Globalizzato e mosso dal debito, il capitalismo neoliberale sta sistematicamente espropriando le capacità necessarie a sostenere le relazioni sociali. Proclamando il nuovo e più moderno ideale del “doppio reddito familiare”, recupera il favore dei movimenti per l’emancipazione, che si uniscono ai fautori della mercatizzazione per contrapporsi ai sostenitori della protezione sociale, oggi sempre più in preda al risentimento e allo sciovinismo. Cosa potrebbe emergere da questa crisi?
[...] Cosa si profila all’orizzonte della congiuntura presente? Le attuali contraddizioni del capitalismo finanziario sono abbastanza gravi da segnalare una crisi generale; dovremmo perciò aspettarci un’altra mutazione della società capitalistica?
L’attuale crisi innescherà lotte di un’ampiezza e di una radicalità sufficienti a trasformare il regime presente? Una nuova versione di “femminismo socialista” potrebbe riuscire a interrompere l’infatuazione della corrente dominante del movimento per la mercatizzazione e plasmare al tempo stesso una nuova alleanza fra emancipazione e protezione sociale? E se così fosse, in vista di quale fine? Come potrebbe essere reinventata oggi la divisione fra riproduzione e produzione e cosa potrebbe sostituire il doppio reddito familiare?
[...] Gettando le basi che consentono di porre queste domande, ho però tentato di fare luce sulla congiuntura attuale. Nello specifico, ho suggerito che le radici dell’attuale “crisi della cura” risiedono nelle contraddizioni sociali intrinseche al capitalismo - o, piuttosto, nella forma acuta che la contraddizione assume oggi, nel capitalismo finanziario. Se ciò è corretto, allora questa crisi non sarà risolta tentando di aggiustare le politiche sociali. La via per risolverla può passare solo attraverso una profonda trasformazione strutturale dell’ordine sociale. Ciò che è necessario, prima di tutto, è il superamento dell’avida sottomissione, da parte del capitalismo finanziario, della riproduzione alla produzione - ma questa volta senza sacrificare né l’emancipazione, né la protezione sociale. A sua volta, ciò richiede di reinventare la distinzione fra produzione e riproduzione e di re-immaginare l’ordine di genere. Resta da vedere se il risultato sarà compatibile o meno con il capitalismo.
Michelle Perrot, quando la storia è sessuata
Un’intervista con la militante, attivista e intellettuale francese. Cruciale la sua «Storia delle donne in Occidente», insieme a Georges Duby per Laterza nel 1990
di Francesca Maffioli (il manifesto, 02.03.2018)
Nel 1973 Michelle Perrot, insieme a Pauline Schmidt e Fabienne Bock intitolano il loro primo corso all’Università Paris-Diderot: Les femmes ont-elles une histoire? (Le donne hanno una storia?). Tale interrogativo, provocatorio, rappresentava il mezzo per affermare l’esistenza di un campo di conoscenza e di studio pressoché sconosciuto. La seconda generazione della scuola storiografica delle Annales aveva rinnovato le prospettive d’osservazione e d’analisi della storia, comprendendo la storia economica, quella sociale e la considerazione delle categorie oppresse, tra le quali spiccavano le donne. Tuttavia, nei primi anni Sessanta la storia insegnata anche in ambito universitario restava una disciplina tendenzialmente asessuata.
L’INTERROGATIVO delle giovani studiose aveva messo a fuoco la questione dell’invisibilità delle donne nella storia e aveva condotto a domande sui tempi, i luoghi e le modalità dell’oppressione e della dominazione maschile. La storia di questa dominazione aveva cominciato a mettere in risalto la place degli uomini attraverso i secoli, guardando al loro ruolo in quanto soggetti non universali né neutri, ma maschili. In tal senso era stato necessario esaminare e riflettere sul confronto e lo studio della differenza tra i sessi, al fine di consentire una visione più ampia, rinnovata, diremmo più completa, della storia.
Negli anni Novanta la pubblicazione dei cinque volumi della Storia delle donne in Occidente, opera curata dalla stessa Michelle Perrot e da Georges Duby, costituisce uno spartiacque di riconoscenza della legittimità di una storia delle donne. È da ricordare che tale pubblicazione venne proposta e sostenuta dall’editrice italiana Laterza, solo a seguito della quale l’opera venne editata anche in Francia. La riflessione epistemologica attorno alla storia delle donne resta ancora valida, sebbene da una storia in cui le donne sono le protagoniste assenti si è passati a una storia sessuata del mondo intero. Ne chiediamo conto proprio a Michelle Perrot, oggi professoressa emerita all’Università Paris-Diderot, autrice di numerosi testi sulla storia delle donne, tra i quali Mon histoire des femmes (Seuil, 2006) e direttrice, con Georges Duby, del già citato Histoire des femmes en Occident, (Plon, 1991-1992).
La sua opera sulla storia delle donne in occidente ha conosciuto un grande successo. Si tratta di un frutto monumentale - sulla storia della rappresentazione delle donne e sulla storia dei rapporti tra i sessi attraverso i secoli. Quale il legame, quale la connessione, nella storiografia femminile, tra la storia della vita privata e quella pubblica?
È doveroso riconoscere la lungimiranza della casa editrice italiana Laterza, la quale chiese a Georges Duby, ed egli a me, di scrivere una storia delle donne. In realtà l’equipe che lavorò all’opera si era formata molto prima, circa 10 anni, e le nostre riflessioni erano già arrivate a un certo livello di maturazione. Per me e l’equipe (una settantina di persone) fu prioritario che il titolo portasse il sostantivo «donne» al plurale, per rappresentare un panorama tanto composito.
Bisogna tener conto che Duby codiresse precedentemente un’opera a più volumi che trattava della «storia della vita privata», dall’impero romano fino ai giorni nostri; questo aspetto dimorava ampiamente nella sua prospettiva di ricerca. Certo, quando si pensa alla storiografia femminile l’aspetto «del privato» non può essere trascurato, in ordine al legame intrinseco, secolare, tra donne-famiglia-casa; tuttavia a me interessava descrivere in che modo il legame tra le donne e la dimensione pubblica poteva costituirsi come dispositivo per rendere visibili le donne e la loro parola alla luce di una «storia pubblica» che le ignorava. Significava andare oltre la questione privata dei legami e delle strutture della parentela ad esempio, significava distaccarsi da Lévi-Strauss. Per me si trattava anche di una sorta di evoluzione rispetto al debutto dei miei studi: sono stata allieva di Ernest Labrousse, storico e militante anarchico, poi socialista e con lui mi ero specializzata sulla questione degli scioperi in seno al movimento operaio. Non senza stupore da parte del mio maestro sono passata a occuparmi della storia delle donne. Nonostante le polemiche a tal proposito, in particolare mi riferisco a quelle che hanno visto il femminismo degli anni Sessanta «traditore» delle istanze della lotta operaia, sono convinta che le due prospettive non siano da considerarsi in opposizione o inconciliabili. Anzi il contrario.
Fare la storia delle rappresentazioni e dei discorsi maschili riguardo le donne può rischiare di farci dimenticare le donne in quanto soggetto?
Non posso negare che il rischio sia presente, anche in misura piuttosto decisiva. In effetti la storia delle rappresentazioni e dei discorsi maschili mette in luce una prospettiva parziale e circoscritta. Tuttavia possiamo analizzare lo stesso attraverso la differenza dei sessi, possiamo cercare di interrogarlo, di decostruirlo. Faccio un esempio: invece di studiare il tema della «bellezza femminile» attraverso i secoli, secondo la prospettiva dello sguardo maschile, si può farlo chiedendosi come le donne hanno reagito a tale sguardo e qual è il loro. Si tratta di essere in grado di capovolgere delle prospettive attraverso la consapevolezza della loro parzialità. Credo che il recente movimento del #me too possa a tutti gli effetti rappresentare un esempio del capovolgimento di prospettiva e una rideterminazione del ruolo delle donne, a fronte dell’invisibilizzazione e del silenziamenento forzato. Non esito a ribadire che protestare contro le violenze, le più subdole, vuol dire rideterminare il proprio ruolo e reimpossessarsi della propria voce e del proprio corpo in quanto soggetti.
Da quale momento, nella storia delle donne in occidente, possiamo cominciare a parlare di «svolte storiche» per i rapporti tra i sessi? E a partire da quale momento si comincia a percepire il mondo e la storia come sessuate?
Questo interrogativo mi consente di dichiarare a piena voce che il mio punto di vista riguardo a queste svolte storiche coincide con quello di Michel Foucault esposto nella sua Histoire de la Sexualité (1976-1984). Credo infatti che una grande svolta sia stata quella che ha coinciso con la maturazione del pensiero sulla sessualità sviluppato nei testi dell’antichità cristiana; non il pensiero sessuato greco-romano ma soprattutto quello dei padri della Chiesa, in particolare S. Agostino. L’incisività di quest’ultimo limitatamente alla peccaminosità dell’atto sessuale o all’imposizione del velo definiscono la sua auctoritas sul pensiero del rapporto tra i sessi. Tengo a sottolineare quest’ultimo aspetto, per ribadire «il primato» della patristica a fronte delle polemiche che da anni si susseguono a tal proposito. Anche il XVII secolo, di prospettive sorprendentemente egualitarie, rappresenta una svolta storica: penso a François Poullain de La Barre e a Marie de Gournay - in che misura il loro razionalismo ha prodotto delle svolte di pensiero sull’eguaglianza dei sessi. Bisogna sottolineare che si può assistere anche a regressi in tal senso: un esempio è stato il secolo successivo, il XVIII, che ha rimesso in discussione quanto sembrava acquisito, con un ritorno al biologismo più basilare e alla «re-naturalizzazione».
Che ne pensa della tendenza a concepire una storia delle donne attorno alle grandi figure, secondo «un sostenersi» alle singolarità, alle biografie di donne più o meno celebri? Mi riferisco in tal senso alla recentissima traduzione francese di «Storie della buonanotte per bambine ribelli» (Mondadori), ma anche a «Ni vues ni connues» (Hugo doc-Les Simone) del collettivo Georgette Sand...
È un modo come un altro di scrivere la storia delle donne. Tuttavia io trovo che facilmente possa incorrere nel rischio di integrarsi a una tradizione decisamente datata. Mi riferisco a quel biografismo che si attiene a fatti curiosi: penso al biografismo «delle regine, delle sante e delle cortigiane». In questo senso si rischia di perdere la ricchezza della complessità e la storia delle donne rischia di diventare aneddotica.
Cosa ci resterebbe della «Nouvelle Histoire» e della scuola delle «Annales»?
Credo che tale formula possa funzionare solo nella misura in cui l’orizzonte di osservazione delle storiche e degli storici sia aperto. Intendo dire che lo studio delle biografie e degli avvenimenti rivela certi limiti; penso che invece di soffermarsi su individui o eventi eccezionali sarebbe auspicabile studiare le «strutture» e recuperare nuovi soggetti storici, più ribelli e dimenticati.
Non voglio essere troppo severa, anche a me è capitato di redigere capitoli o testi in cui un certo biografismo predominava, tuttavia l’ho sempre fatto col beneficio degli apporti delle scienze umane, che considero espedienti irrinunciabili. La storia dovrebbe avere priorità collettive e problematizzare lo studio sulle differenze tra i sessi, come fanno ad esempio gli studi femminili e di genere.
DAL MOVIMENTO OPERAIO AL FEMMINISMO
Storica e militante femminista, MIchelle Perrot nasce nel 1928 a Parigi. Nel 1947 comincia i suoi studi alla Sorbona; la sua tesi, diretta da Ernest Labrousse, tratta il tema degli scioperi operai. Fin dalla pubblicazione de «Il Secondo sesso» di Simone de Beauvoir desidera avvicinarsi alle scritture delle donne, fino a creare (nel 1974) insieme a Françoise Basch il Ged (Gruppo di studi femministi), sui temi dell’aborto, della violenza sessuale, del lavoro domestico, dell’omosessualità. Professoressa emerita di storia contemporanea all’università Paris VII - Denis Diderot, ha contribuito in maniera decisiva alla nascita degli studi sulle donne e sul genere ed è stata insignita nel 2014 del Prix Simone-de-Beauvoir per la libertà delle donne. Tra le sue opere tradotte in italiano figurano i cinque volumi della «Storia delle donne in occidente» (Laterza), «Immagini delle donne» (Laterza e «Storia delle camere» (Sellerio).
DIO, MONDO, UOMO - OLTRE!!! BASTA CON LE ROBINSONATE.... *
Il negativo è il limite che attraversa la vita
Storia delle idee. «Politica e negazione. Per una filosofia affermativa» di Roberto Esposito, pubblicato da Einaudi. Il filosofo si interroga su un’inarrestabile deriva nichilista e esplora le radici dell’alternativa di un pensiero affermativo. Una riflessione che porta la vita alla sua massima espansione senza sottrarsi a nessun conflitto. La scoperta di Spinoza per il quale la sapienza è una meditazione sulla vita, non un pensiero sulla morte. Quello del filosofo non è incauto ottimismo, né cieco volontarismo. Conosce la potenza che ci abita
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 28.02.2018)
In giorni oscuri torniamo a interrogarci sulla negazione. L’avevamo rimossa, avevano detto che la storia era finita e avremmo vissuto in un eterno presente pacificato. Ci siamo risvegliati in una specie di guerra civile mondiale dove la negazione è intesa come distruzione della vita: il terrorismo jihadista che rivendica il potere di dare la morte in maniera indiscriminata. Oppure lo stragismo fascista e razzista contro gli immigrati, rovescio diabolico di una risposta uguale e terribile.
ABBIAMO PERSO il contatto con l’idea per cui il negativo sia l’anima del reale, ciò che lo spinge a rovesciare la contraddizione e affermare la vita. Il negativo è invece inteso come una negazione senza rimedio. Oltre il suo «non» c’è il niente. Il «negare» ritrova la sua lontana origine latina: «necare», uccidere. Tutto sembra essere stato assorbito da un dominio di un potere assoluto che non salva, ma uccide anch’esso. Sfumano così le distinzioni che hanno costruito la politica moderna: quella tra guerra e pace, tra il militare e il civile, tra il criminale e il nemico. Anche davanti a fenomeni meno estremi - il lutto, l’afasia, il dolore, la precarietà, la contraddizione più acuta - sembriamo incapaci di afferrare il negativo con categorie diverse dalla distruzione della differenza che abita l’essere.
SIAMO IN UN’«INARRESTABILE deriva nichilista di una negazione sfuggita di mano a chi l’ha teorizzata - scrive Roberto Esposito nel suo ultimo libro Politica e negazione. Per una filosofia affermativa (Einaudi, pp. 207, euro 22) - La logica del nichilismo si traduce in un’ontologia dell’inimicizia». E «l’annientamento diventa auto-annientamento». L’altro va distrutto per affermare un’identità tanto autentica, quanto fittizia e mortifera: l’identità nazionale e «sovrana», oppure la proprietà e la concorrenza tra individui atomici e disperati.
C’E’ STATO UN TEMPO in cui si è ritenuto che il nemico fosse chiaro, almeno dal punto di vista della razionalità politica. Questa logica, in realtà, non era così ferrea, tanto è vero che lo stesso Carl Schmitt in Teoria del partigiano ne ha indicato i limiti. Se a Lenin è stata riconosciuta una superiorità politica per avere trasformato il Capitale da «vero nemico» in «nemico assoluto» (ricambiato dall’altra parte), la deriva nichilistica dell’annientamento non è stata fermata. Anzi, si è intensificata.
POLITICA E NEGAZIONE è alla ricerca di un’alternativa. Esposito riparte dal significato di «negazione» e conduce un corpo a corpo con Hegel, il grande pensatore di questa categoria. Non c’è dubbio che il negativo sia l’essere altro da sé, il superamento verso qualcosa che non ritorna all’identico. Il punto è che non è l’espressione di una negatività di fondo dell’essere, un divenire privo di determinazioni che non siano quelle rispetto a se stesso. Il negativo fa parte della vita: è la sua necessità. Per questo va contestualizzato, non generalizzato. È una forma dell’affermazione, non l’elemento originario che annulla l’essere.
IL NEGATIVO RIGUARDA anche l’azione, il modo in cui concepiamo le relazioni e la politica. Non è un ostacolo o una forza contraria che si oppone alla libera volontà di chi vuole affermare qualcosa. Il «non» - ovvero il conflitto, la contraddizione - non è esterno al soggetto, ma è interno ad esso. Il negativo è il limite che attraversa la vita costretta tra necessità e finitezza. E tuttavia non è la fine di qualcosa, ma l’indice di ciò che potrebbe essere. Non è l’annichilimento della vita, ma «il punto vuoto che spinge il presente oltre se stesso», scrive Esposito. Lo scopo di questo approfondimento vertiginoso è modificare la nostra disposizione verso la vita. Se la vita è imprigionata nel negativo, allora è immobile povera e paranoica. Se invece è un momento determinato di un divenire storico che si sporge oltre se stesso, allora diventa una pratica.
PER AFFRONTARE questa impresa Esposito si è rivolto a Spinoza, l’unico filosofo che ha dato una definizione affermativa della negazione. Spinoza, il grande eretico aggredito da Hegel e sistematicamente travisato dai suoi posteri. Per lui la sapienza è una meditazione sulla vita, non un pensiero sulla morte. È una meditazione su ciò che può fare una vita, non su ciò a cui deve rinunciare per sopravvivere. Questa è ancora oggi la sua gloria: avere una grande fiducia nella vita e denunciare tutti i fantasmi del negativo.
OGGI POSSIAMO INTUIRE quanto contro-corrente possa essere un simile atteggiamento. Ma questa è la vocazione «inattuale» del filosofo. Il suo non è incauto ottimismo, né cieco volontarismo. Conosce la potenza che ci abita, a dispetto del negativo che ci circonda. Ha fiducia nelle potenzialità della vita, come nell’amore per il mondo e per chi lo vive.
L’APPRODO ALLO SPINOZISMO di un filosofo importante come Esposito non è improvvisato. Già in passato aveva parlato di «biopolitica affermativa». Oggi parla di «filosofia dell’affermazione». Una definizione rilevante in un panorama culturale come quello italiano dove prevale un «pensiero del negativo» che porta ad esiti impolitici, elitari o addirittura teologici. Il pensiero affermativo non è un positivismo del fatto compiuto, né una stanca decostruzione. Indica la strada per una nuova forma di materialismo, istanza che sembrava remota, o riservata a poco, fino a poco tempo fa.
SUL PIANO POLITICO questa filosofia mette in discussione la «sovranità», il fantasma di tutti i dibattiti politici o economici. Con «sovranità» si allude a uno Stato che nega l’inimicizia degli uomini e impone il monopolio della violenza. Esiste, invece, un’altra concezione dello «Stato» che incanala la potenza istituzioni capaci di salvaguardarne l’esistenza. In questo modo «il governo degli uomini non passa per una denaturazione della vita», ma da una forma immanente di auto-governo che mira al raggiungimento del «punto massimo della propria espansione». È la differenza che passa tra una politica sulla vita e una politica della vita, per usare le categorie di Esposito.
UNA «FILOSOFIA DELL’AFFERMAZIONE» non nega l’esistenza del conflitto - il negativo - né allude a una pacificazione come fa la retromania che devasta il dibattito pubblico attuale. Il conflitto è un elemento della relazione, oltre che della creazione di nuove istituzioni. Per renderla concreta è necessaria una politica dell’amicizia.
NELLA POLITICA novecentesca l’amicizia è stata considerata una categoria parassitaria dell’inimicizia. O amici, non ci sono amici in questo mondo. E così il mondo si scopre popolato solo da nemici. Davanti a questo paradosso va sperimentata una prassi politica che metta insieme corpo e intelletto, materia e spirito, vita e forma, e non rifugga ma abbracci il conflitto. Una politica dell’amicizia consiste nel costruire opere comuni, nel saperle difendere e nell’affermarle.
LA SOLIDARIETA’ E LA FRATELLANZA vanno riscoperti come strumenti affermativi, non come mezzi per attaccare il diverso. Creano legami, non impongono vincoli. Se intesi come strumenti del conflitto servono a liberarsi da ciò che impedisce di godere insieme di quello che abbiamo: la carne, la nascita, il corpo, la differenza e, più in generale, l’idea che la norma (giuridica, politica, sociale) nasca dalla vita in comune. L’amicizia è capace di affermare qualcosa che è in potenza e a disposizione di tutti. È tempo di imparare a coglierne i frutti.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DIO, MONDO, UOMO - OLTRE!!! BASTA CON LE ROBINSONATE. A partire da due, e non da uno!!! Una nota su una polemica tra "esportatori di democrazia" e di "libertà" (Giovanni Sartori e Gian Maria Vian) e la proposta di una Fenomenologia dello Spirito di "Due Soli". Con Rousseau, Kant, Marx, Freud e Dante, oltre Hegel, per una seconda rivoluzione copernicana.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. MARX, IL "LAVORO - IN GENERALE", E IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE - IN GENERALE".
Federico La Sala
Per un Manifesto della Sinistra letteraria
di Fausto Curi (Alfabeta2, 25.02.2018)
È noto che in Italia non esiste un’unica Sinistra politica. Le Sinistre son più di una, né mostrano la capacità di congiungersi e di unirsi. Meschine lotte interne, rivalità personali e, in primo luogo, incapacità di elaborare un programma veramente “di sinistra”, solido e unitario, mantengono divisi i diversi fronti. Senza che molti si rendano conto che fino a che le Sinistre continueranno a guardare al Centro e a accordarsi con il Centro, non esisterà mai una vera Sinistra. Il Centrosinistra non è la Sinistra. È il Centrosinistra. Che spesso ha ereditato gli aspetti peggiori della Democrazia Cristiana e della Socialdemocrazia senza farne propri i migliori (posto che questi esistessero). Ma soprattutto senza cercare di salvare e mettere a frutto tutto quello che sarebbe stato necessario preservare e utilizzare del Partito comunista italiano. Ora le Destre, anche esse per fortuna divise, minacciano di conquistare la maggioranza parlamentare. E di questo sembrano essere ben consapevoli molti membri delle Sinistre, che però non trovano il modo di rompere ogni rapporto con il moderatismo e di unire la diverse forze di sinistra. Senza dimenticare, naturalmente, che i fascisti sono ancora una volta usciti dalle fogne e stanno ancora una volta spargendo ovunque il loro puzzo immondo.
Esiste, in Italia, una letteratura di sinistra? Credo di no. E su questo vale forse la pena riflettere. Noi - dico coloro ai quali ora mi rivolgo - siamo tutti genericamente e variamente “di sinistra”, ma non costituiamo una letteratura di sinistra non dico organizzata, ma ideologicamente e programmaticamente omogenea. Che esista una stretto rapporto fra società e letteratura non vuol dire che una letteratura di sinistra sia immediatamente identificabile. Non basta, per essere di sinistra in letteratura, essere antifascisti, essere a favore delle lotte dei lavoratori, guardare con simpatia gli immigrati, essere contro il moderatismo in ogni campo e contro quelle che oggi, non avendo più il coraggio di parlare di sfruttamento, ci si accontenta di chiamare “ineguaglianze”.
Stiamo parlando di letteratura, non di altro. Cerchiamo, per prima cosa, di evitare certi errori del passato, quando bastava parlare di operai, o di partigiani, per essere automaticamente “di sinistra”. I contenuti sono certamente importanti, ma non bastano a fare letteratura. Un giorno però Alfredo Giuliani parlò di “neo-contenuto”. Non fu capito, temo, ma aveva ragione.
Proviamo a mettere a confronto Capriccio italiano di Sanguineti, o Tristano di Balestrini, con Un borghese piccolo piccolo di Vincenzo Cerami. Le differenze sono enormi, ma non sono solo di struttura, sono anche di contenuto, e sono importanti. Un borghese piccolo piccolo, che piacque a Pasolini e, purtroppo, anche a Calvino, è davvero un romanzo piccolo piccolo, meschino, angusto: manca l’aria, là dentro.
E se mi si obbietta che è proprio questo il risultato che l’autore voleva ottenere, rispondo che una sinistra letteraria degna di questo nome deve, in primo luogo, con ogni traccia di piccola borghesia, liquidare ciò che è piccolo piccolo, stento, gretto, misero, soffocato. Sinistra letteraria deve voler dire il nuovo che irrompe, e il nuovo non può mai essere piccolo piccolo. In Capriccio italiano e in Tristano l’acqua è profonda e si nuota bene, non solo per merito della struttura. E non si tratta, sia chiaro, di “grande stile”.
Cerchiamo anche di evitare gli eccessi di anarchismo. Una buona dose di anarchismo giova alla letteratura e, in generale, alle arti, una dose eccessiva distrugge ogni cosa e non consente di costruire niente. Parlando della poesia di Balestrini mi è capitato di trovare una formula che credo a Nanni non sia dispiaciuta.
Il disordine in quanto tale, il puro disordine non serve a niente. Occorre progettare e elaborare, come Nanni ha fatto, un’ordinata gestione del disordine. Fra il puro disordine e l’ordinato disordine passa la stessa differenza che passa fra la rivolta e la rivoluzione.
È anche vero che - a parte qualche inutile eccesso anarcoide guardato con simpatia da qualche nuovo-vecchio letterato che crede ancora all’efficacia delle bombe - i tempi ci costringono a temere il contrario del disordine: la moderazione, le mezze misure, la correttezza.
Non è dunque la moderazione che sto consigliando, sono gli strumenti idonei, una strategia appropriata che mi permetto di segnalare. Essendo ben consapevole che, se poi mancano le condizioni oggettive necessarie, discorsi e progetti non servono a niente.
Di questa strategia, naturalmente, deve essere parte importante lo stile, la scrittura, il modo di costruire il testo. Niente “grande stile”, si è detto. Occorre però evitare anche - soprattutto in campo critico e saggistico - che il linguaggio sia scorretto, incerto, confuso, perché - mi scuso per l’ovvietà - la mancanza di correttezza, purtroppo sempre più frequente, finisce per provocare equivoci, confusione, oscurità, fastidio, noia, l’impossibilità di intendersi. Non dico la rivoluzione - che, oggi, lo sappiamo bene, non è alla nostra portata, neppure se fosse soltanto una rivoluzione letteraria - ma una efficace letteratura di sinistra ha bisogno di chiarezza, deve farsi intendere chiaramente.
Dico chiarezza ma intendo soprattutto cultura, consapevolezza, vivacità, efficacia. Bisogna saper bene come scrivere male, diceva Sanguineti (Ancora l’ordine nel disordine, come si vede). Ma molti, oggi, sanno male come scrivere male. Scrivono male e basta, insomma.
Un testo efficace nei diversi generi non nasce però soltanto dall’ingegno. Nasce anche dallo spessore della cultura di chi scrive. Una cultura molto ampia è certo augurabile, ma ciò che conta è che la cultura sia adeguata al lavoro che si deve compiere. Se il lavoro è nuovo, nuova deve essere la cultura. E io non so immaginare una cultura di sinistra che non sia nuova. Ma dove trovare, oggi, una cultura nuova? Non mi pare di vedere, oggi, splendere nuovi paradigmi, nuovi modelli di cultura pienamente degni di attenzione. Non resta, forse, che trovare nelle nostre stesse esigenze i mezzi di cui abbiamo bisogno.
Potrebbe bastare, forse, a identificare la letteratura di sinistra, il greve tentativo di restaurazione che sta cercando di compiere la destra letteraria. Che non solo esiste, ed è agevolmente riconoscibile, ma si fa ogni giorno non dico più aggressiva, ma certo più presuntuosa e più baldanzosa. Tace, vilmente, delle proprie pretese, ma cerca di operare concretamente.
Sia chiaro, non contano, nel caso, le appartenenze politiche, nella destra letteraria non mancano probabilmente persone che votano per la sinistra, o per quella che si crede sia la sinistra. Cerco di spiegarmi con qualche esempio. -Io non mi dolgo né mi indigno - e credo che nessuno debba dolersi e indignarsi - se su giornali e riviste si commemora il centenario della nascita di Bassani, di Cassola, di Fortini. È giusto che coloro che credono alla validità di questi scrittori li commemorino.
Credo anzi che l’occasione sarebbe propizia a un giusto, equanime atto storiografico, che però non mi pare, in generale, si compia. Io stesso, invitato, ho partecipato a una commemorazione di Bassani, chiarendo quello che era giusto chiarire, precisando quello che era opportuno precisare.
Precisando, per esempio, che la frase sulle “Nuove Liale” non era un insulto, non era una battuta acrimoniosa bensì un giudizio critico. Devo aggiungere che ho trovato negli altri partecipanti alla commemorazione rispetto e piena comprensione. Ancora, di mia iniziativa ho dedicato a Franco Fortini un articolo né benevolo né malevolo, aspro dove era giusto essere aspro, nel quale ho cercato di interpretare in chiave psicologica certi aspetti di quello scrittore, nemico delle avanguardie italiane, ma molto ammirato da certa sinistra politica e culturale.
Quando però sono costretto a constatare che ci sono alcuni, anzi, molti, che, senza dichiararlo apertamente, cercano di passare dalla commemorazione all’apologia; che ci sono molti, anziani e giovinastri, che stanno facendo il possibile per nascondere il lavoro di Sanguineti, di Balestrini, dei Novissimi, dei migliori narratori della Nuova avanguardia; che c’è chi, cercando di fare lo storico senza esserlo, riesuma e cerca di consacrare un poeta mediocre pur di non riconoscere i poeti che sono stati e sono veramente significativi; quando sono costretto a constatare l’esistenza di tutto questo, e a verificare la presenza di altri sintomi inequivoci, allora penso che, per la sinistra letteraria, non solo c’è una ragione di esistere, ma c’è anche una ragione di manifestarsi e di operare proprio come sinistra letteraria.
Mi riesce facile immaginate che ci sarà qualche amico, qualche compagno che obbietterà che i tentativi della Destra sono soltanto miserabili velleità e che non è il caso di preoccuparsi. Io non mi preoccupo, perché conosco bene la forza vitale delle opere in cui credo e nelle qual molti altri credono. Credo però anche che nulla sia indelebile. E che le piccole aggressioni, le vili omissioni di cui è solo capace la Destra letteraria possano a lungo andare, se non ledere quelle opere, certo impedirne o ostacolarne la circolazione.
La destra letteraria, si dirà, fa il suo mestiere di Destra. Commette però un errore grossolano dal momento che non ha ancora capito chi è quello che essa ha eletto a proprio avversario o a nemico. Se, in primo luogo, nemico vi è, è il nemico dell’imbecillità e dell’ignoranza. Perché la Destra letteraria scambia per nemico la storia. Scambia ancora per tendenze, per fazioni da combattere ciò che da tempo è diventato saldamente storia. Si accanisce contro la storia credendo di accanirsi contro i Novissimi o contro il Gruppo 63.
La Destra letteraria vuole imporre silenzio alla storia. Storia è ciò che accade e rimane vitale. O è ciò che accade e non passa, non tramonta, non scompare, inquieta il presente. Certo, anche Pasolini è storia. Ma perché la Destra vuole far tacere Sanguineti e lascia invece pienezza di parola a Pasolini se non perché Sanguineti “dà fastidio”? Ma quel “fastidio” provocato da Sanguineti non sarà un segno di vitalità che la Destra non tollera?
Nel trentennio che va dal 1950 al 1980 in Italia non si è scritto qualche bella poesia o qualche bel romanzo. Sono state fatte, invece, interessanti ricerche e sperimentazioni con il fine di raggiungere una nuova condizione della poesia e della narrativa, come tutti desideravano senza che tutti possedessero gli strumenti idonei. Una nuova e varia cultura, attingendo alle fonti più diverse, fu, in quella occasione, elaborata dai protagonisti, che ebbero il merito di mostrare con la ricchezza dei risultati conseguiti che non si dà letteratura nuova senza una nuova cultura. -In quel trentennio, la cultura e la letteratura italiana hanno acquistato una nuova consapevolezza, nuovi modi di essere e di comunicare, e una strumentazione che il Novecento italiano non aveva prima mai conosciuto.
E’ in quegli anni che la letteratura come ispirazione è morta e, assumendo come modello il grande lavoro compiuto dal Joyce di Finnegans Wake, gli scrittori danno vita a una letteratura come questione, o, se si preferisce, come problema, mettendo in fuga il vecchio lirismo, sostituendo il plurilinguismo al monolinguismo, la mescidazione alla purezza, la discontinuità del montaggio alla continuità della sintassi, l’ordinato disordine all’ordine.
Non si trattò di prestazioni effimere, si trattò e si tratta di risultati che hanno un rilievo storico. È questa storicità dell’Avanguardia che la destra letteraria, fra ignoranza e cattiva coscienza, cerca ora di negare e di occultare. Senza disporre di modelli da contrapporre efficacemente ai modelli la cui validità la storia ha da tempo sancito.
È pur vero, d’altra parte, che ben poco si è fatto, fino a oggi, non dico per contrastare la sciagurata tendenza della Destra, ma per affermare con serietà le ragioni di una poesia nuova, di una narrativa nuova, di una nuova cultura. -Dove sono gli eredi dei Novissimi? C’è qualcuno che, smettendo di dichiarare di ammirarlo, abbia appreso qualcosa da Giorgio Manganelli, qualcuno che, smettendo con l’accusa idiota di “giornalismo”, abbia appreso qualcosa da Alberto Arbasino? Laborintus, Postkarten, Capriccio italiano di Sanguineti, Come si agisce, Caosmogonia, Tristano di Balestrini, per citare solo alcuni titoli, rimangono oggetti misteriosi, affidati all’interpretazione della critica ma operativamente sterili. Come è possibile tanta inerzia? Che non è inerzia dei modelli, è inerzia dei potenziali fruitori.
Spero sia chiaro che non sto parlando di imitazione. Parlo di paradigmi, di modelli. Perché la letteratura nuova, e l’avanguardia, non diversamente dalla letteratura classica, si sono istituite sempre su modelli. Apollinaire aveva come modello principalmente Picasso; Tzara, Breton avevano come modelli Rimbaud e Lautréamont; Sanguineti e Giuliani avevano come modelli Pound e Eliot. Ciascuno, poi, ha usato il modello con assoluta libertà, mettendo a frutto ciò che gli conveniva, costruendo una poesia del tutto nuova e originale.
Una letteratura di sinistra non può accontentarsi dell’esistente. Bisogna, per prima cosa, far fronte ai subdoli attacchi della Destra. Occorre, poi, contro l’aridità e la sterilità del tempo, riflettere sul Nuovo e, se se ne ha la forza e l’opportunità, progettare il Nuovo. *
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Nota (di commento): "Sapere aude!": orientarsi nel pensiero, con coraggio...
Federico La Sala
La sinistra che c’era è andata a destra
di Furio Colombo (Il Fatto, 25.02.2018)
La destra e la sinistra non esistono più. La frase, che circola anche nei migliori partiti, è come una benda gettata all’improvviso sugli occhi dei cittadini per costringerli a un gioco a mosca cieca. Dovunque cerchi, non trovi. L’epoca, affollata di computer e robot, non ha ricordi. Che senso ha cercare la destra del mercato e del capitale, se non esiste più (non conta niente) il sindacato della lotta di classe? Se sei italiano, però, prima di rispondere alla domanda su destra e sinistra, devi tener conto di un fatto.
L’Italia ha due destre, una di interessi economici e di difesa dei capitali, con la sua visione conservatrice. L’altra destra è ideologica, è fondata sulla violenza e sul potere, che trucca, tradisce, condanna, reprime, se ha il potere. -Qual è la destra che non esiste più, al punto che vi dicono: la parola non ha più senso? Evidentemente la prima, che partecipava al gioco con la sinistra sapendo di avere sempre delle buone carte in mano, ma anche interessata (la pace sociale costa meno) a non rompere i ponti. Il fatto strano, almeno per l’Italia, è che è stata la sinistra ad alzarsi dal tavolo e ad abbandonare il gioco, imperfetto ma funzionante, delle due parti con interessi diversi e la comune convenienza.
Mille convegni non hanno spiegato perché la sinistra se ne è andata o si è sempre più travestita da destra, arrivando a spingere più in là di quel che le imprese volevano. Qui è accaduto un effetto collaterale che forse la sinistra non aveva calcolato: il suo popolo, sentendosi non più rappresentato se n’è andato alla spicciolata, lasciando un largo spazio vuoto. Perché quello spazio vuoto sia tuttora celebrato come “il popolo della sinistra” non si sa.
Certo che se c’è stato un tempo in cui la destra erano Agnelli e Pirelli e la sinistra erano Pertini e Berlinguer, stiamo parlando di un universo perduto. Ora c’è la sala vuota della Confindustria, ci sono i circoli chiusi del Pd e qualcuno ha la faccia tosta di organizzare la Festa dell’Unità dopo avere fatto morire, deliberatamente, il giornale di Gramsci.
Il fenomeno però non è così simmetrico come sembra. Impossibile negare che la sinistra non c’è più, nel Paese in cui domina l’anelito di tagliare le pensioni e diminuire i salari (vedi Fornero e Whirpool).
Ma, delle due destre, ne è rimasta una, quella ideologica e del potere, quella fascista. È viva negli Usa, con il suo presidente che vuole armare gli insegnanti, con il capo dell’estrema destra (alt right) Steven Bannon che è appena un passo dalla Casa Bianca, con i misteriosi contatti con Putin. È viva nei Balcani e nell’Europa dell’Est (dall’Ungheria all’Austria alla Polonia). E dove sembra che non ci sia fascismo compare un Breivik niente affatto povero e marginalizzato, un fascista abbiente e bene armato, che uccide in un paio d’ore cento giovani socialisti di una scuola di partito.
Se pensate che il fascismo, per tornare a crescere, abbia bisogno di un popolo abbandonato dalla sinistra, ecco l’idea: dedicarsi a diffondere e far crescere la paura dell’immigrazione. Gli stranieri sono gente impura, non cristiana, sconosciuta, diversa, con cui vorrebbero obbligarti a dividere la vita fino a sottometterti. Poiché questo è ciò di cui bisogna occuparsi, anche con la forza, se necessario: qualcuno sta organizzando l’invasione di una immensa quantità di stranieri in Italia e dunque sta creando un grave pericolo per la pura razza italiana.
Se pensate di non aver notato nulla di così sconvolgente, ma solo povera gente terrorizzata da fame, guerra e dal pericolo di annegare in mare, se temete che ci sia una falsificazione o una esagerazione dei dati, ecco la vera notizia, il complotto. Come aveva previsto Umberto Eco ne Il pendolo di Foucoult, ne Il cimitero di Praga e nel bellissimo testo Il fascismo eterno, arriva la notizia del complotto.
Qualcuno trama per la sostituzione dei popoli, i neri (i neri!) prenderanno, qui, nel nostro Paese di pura razza italiana, il posto dei bianchi. Naturale che i popoli non si sostituiscono da soli. Ci vuole il miliardario canaglia che, come è naturale in un mondo fascista, è ebreo. Si tratta di un certo Soros, e anche se persino Minniti o Salvini o Meloni o Lombardi (il cuore d’oro del M5S) non hanno ancora rivelato la causa di questo complotto (ci impongono di accettare nuovi schiavi o nuovi padroni?), il complotto c’è e vi partecipano persino (quando non sono in Siria a salvare bambini o in mare a salvare naufraghi) le Ong, compresi i “Medici senza frontiere” onorati dal presidente della Repubblica. E l’invasione continua. Non dite vanamente che l’invasione non c’è. Nessun partito importante in queste elezioni vi starebbe a sentire.
Abbiamo dunque alcune certezze. La sinistra non c’è. Ma la destra, con il coraggio di dirsi fascista, c’è e conta.
La frase finale di Berlusconi
risponde Furio Colombo (il Fatto, 14.05.2013)
CERTO, IL COMIZIO di Brescia in difesa di un imputato di reati gravi, condannato per reati gravi, in attesa di imminente sentenza per reati gravi, appena raggiunto da un rinvio a giudizio per reati gravi, non era né una festa né un evento politico. Il fine era chiaro e indiscutibile: creare una barriera insormontabile, tra un imputato e i suoi giudici. Lo ha fatto il capo di quello che, al momento, risulta il partito più grande.
E quel capo ha mobilitato per l’occorrenza il ministro dell’Interno e vice primo ministro, mentre sta governando in una presunta “grande coalizione” con un partito che dovrebbe essere il principale antagonista. Purtroppo non ci sono segnali dal governo di coalizione, non ci sono segnali dal partito antagonista, e i media trattano la materia come una notizia interessante, ma non meritevole di allarme, di denuncia e di condanna. Così i cittadini sono autorizzati a pensare che forse è normale che tutta la forza di un esecutivo (uno dei tre poteri della democrazia) venga lanciato contro la magistratura, ovvero un altro potere indipendente, nel silenzio del terzo potere, il Parlamento.
Per capire il rischio che stiamo correndo, si riveda la frase conclusiva del monologo di Berlusconi, nel suo comizio a due piazze (una gremita di sostenitori più o meno spontanei, l’altra di disciplinati obiettori).
La frase era: “Nessuna sentenza e nessuna prepotenza della magistratura potrà impedirmi di essere capo di un popolo che mi elegge con milioni di voti”. Non parlava di legame ideale o affettivo. Dichiarava la superiorità dei voti sulle sentenze, come se ci fossero democrazie in cui il votato non è più come tutti gli altri, ma qualcuno esente da ogni giurisdizione e giudizio. Ovvio che Berlusconi non parlava di democrazia, parlava di sé e del suo progetto di rivolta, in caso di altre condanne. E ci ha ricordato che non gli si può rimproverare il sotterfugio.
Berlusconi si comporta da fuorilegge e lo dice prima. Eppure, non vi sono risposte politiche o risposte istituzionali. E i segnali non sono buoni. La giudice Fiorillo ha visto segnato il fascicolo della sua carriera da una censura del Csm per avere smentito quanto detto da Berlusconi e quanto dai complici sulla vicenda Ruby. Berlusconi ha potuto tenere il suo comizio di minaccia alla Repubblica senza che seguisse, per decenza, almeno un “pacato” cenno di dissenso.
UN PASSO AL DI LÀ DEL NARCISISMO E DELL’EDIPO: "SÉ COME UN ALTRO". OSSERVARE SE STESSI, SE STESSE ... CON "SIMPATIA"! *
Il tizio che mi guarda dallo specchio
di Paolo Godani (Alfabeta-2, 11.02.2018)
L’attuale eclissi della psicanalisi, cioè la marginalizzazione della sua posizione epistemologica e della sua funzione sociale in favore delle scienze cognitive, è un’ottima notizia per almeno due ragioni. Innanzitutto perché, come alcuni segni già invitano a immaginare, c’è la possibilità che la psicanalisi stessa, da una posizione di minorità, torni a produrre qualcosa di interessante. Ma anche perché può ora riapparire, in tutto lo splendore che la bolla psicanalitica aveva lungamente offuscato, l’immenso patrimonio della ricerca psichiatrica, soprattutto francese, cresciuta nella seconda metà del XIX secolo.
Jean-Martin Charcot, Théodule Ribot, Alfred Binet, Pierre Janet, solo per nominare gli autori un tempo più celebri di questa età dell’oro della psicologia francese, non sono stati soltanto curiosissimi ricercatori sperimentali, ma anche e soprattutto inventori di ipotesi, spiegazioni, concetti che ancora sfidano l’asfissia della cultura contemporanea.
Lo dimostra brillantemente Barbara Chitussi che in un saggio appena uscito da Meltemi non solo, quasi come in un romanzo, mette in scena i casi clinici, le storie fantastiche di personalità multiple di cui si sono occupati gli psichiatri francesi, ma ne trae il materiale teorico per costruire una vera e propria filosofia della personalità. «Se mi sono occupata dell’analisi di questi casi - spiega l’autrice fin dall’introduzione - è stato per studiare in una prospettiva filosofica le strategie con le quali il soggetto si è pensato e costruito nella forma di un rapporto con sé, accettando di essere un personaggio, assumendo l’inautenticità della propria immagine, aprendosi al dominio della finzione attraverso l’imitazione dell’altro, o meglio osservandosi come uno spettatore osserva uno spettacolo».
Tutto è iniziato, si potrebbe dire, negli anni che seguono il 1875, quando la Francia sembrava attraversata da un’epidemia di personalità multipla. Tra i casi anonimi, raccolti dal dottor Krishaber e analizzati da Émile Littré, c’è chi «voleva parlare, ma fu costretto a interrompersi, tanto il suono della sua voce lo stordiva», chi credeva di «non essere di questo mondo», chi sentiva in sé stesso «un io che pensa e un io che esegue». Ma, come accade spesso, il brusio delle voci senza volto finisce per raccogliersi nel fulgore di un nome che quelle voci, tutte, le fa risuonare assieme. «Racconterò - spiega in un articolo del 1876 il chirurgo-psicologo Eugène Azam - la storia di una giovane donna la cui esistenza è tormentata da un’alterazione della memoria che non ha precedenti nella scienza; l’alterazione è tale che è lecito chiedersi se questa giovane donna non abbia due vite».
La ragazza di cui parla Azam si chiama Félida, è «bruna, di statura media», molto intelligente e piuttosto istruita, seria, taciturna, grande lavoratrice, «di carattere triste e persino cupo». O meglio, triste e cupa Félida appare di solito sino al momento della sua crisi. Le accade infatti, talvolta, di cadere improvvisamente nel sonno e di risvegliarsi in uno stato che non è più quello nel quale si era addormentata: «solleva la testa e aprendo gli occhi saluta sorridendo i nuovi arrivati, la sua fisionomia si illumina emanando allegria». Dopo il sonnellino o la catalessi, insomma, «il suo carattere è completamente cambiato; da triste è diventata allegra e la sua vivacità raggiunge l’impetuosità, la sua immaginazione è più esaltata». Per spiegare che cosa significhi e come possa accadere che la malinconica Félida-1 lasci il posto all’estroversa Félida-2, gli psicologi si lanciano nell’invenzione di nomi e concetti: amnesia periodica, raddoppiamento o sdoppiamento della vita, doppia coscienza o doppia esistenza, per arrivare alla nozione più carica di conseguenze: sdoppiamento della personalità.
Come nota con finezza Barbara Chitussi, gli psicologi che a proposito del caso di Félida iniziano a parlare di doppia personalità, operano a loro volta uno sdoppiamento dello stesso termine di personalità. Non più sinonimo di coscienza o di vita, la personalità torna ora a riavvicinarsi al significato originario del latino persona: avere una personalità significa ormai «indossare una maschera, avere un particolare modo di essere». Passaggio decisivo, con ogni evidenza, che consentirà a Pierre Janet di verificare la distinzione tra un moi interiore e un moi esteriore, tra un sentimento della pura esistenza di sé, cioè di un’esistenza indipendente da qualsivoglia attributo, qualità o maschera, e un sentimento della propria personalità, che come tale è complessa e variabile, nonché esteriore rispetto al mero sentimento dell’esistenza. Ma passaggio decisivo, questo, lo è soprattutto perché stabilisce che la personalità di ognuno non è un che di sostanziale, ma semmai un modo, una maniera di essere, una postura, un’immagine che può essere assunta o rigettata, un abito che si può indossare, ma anche cambiare e sostituire.
Da qui in avanti, il percorso dell’autrice attraversa una molteplicità di campi all’interno dei quali la questione della personalità, confrontata con problematiche diverse come lo sdoppiamento nel sogno, la costruzione immaginaria di un sé ideale in quello che si chiamerà «bovarismo», le questioni della co-coscienza e della doppia moralità, assume nuove connotazioni. Ma questa varietà di campi problematici - ognuno con i suoi casi singolari che rendono Lo spettacolo di sé così avvincente (fra cui non si può passare sotto silenzio l’affascinante e riottosa Sally, una delle personalità della «famiglia Beauchamp», analizzata da Morton Prince) - non toglie nulla alla compiutezza filosofica del testo.
La sua tesi fondamentale è che il soggetto è un rapporto, cioè che la formazione soggettiva di ognuno avviene sempre e soltanto attraverso lo sdoppiamento di sé, prendendo distanza da ciò che si è o si crede di essere, trattando se stessi come altri. In questo senso, il sé figura come una contrattazione continua, come un campo sul quale si alternano una pluralità di caratteri o personaggi, nessuno dei quali può affermare di essere l’autentico rappresentante del soggetto.
«Ripensare il paradigma della personalità-maschera - spiega di conseguenza l’autrice - significa [anche] disancorare nuovamente la vita personale [...] dall’ottusa identità della vita biologica». Infine, è ancora un’etica della non-coincidenza con sé, quella che Barbara Chitussi definisce, quando spiega che «l’identificazione con la maschera [...] non dà mai la felicità, mentre nello spazio che abbiamo imparato a chiamare rapporto conoscere se stessi significherà osservarsi e godere di sé come l’attore che prova per il proprio ruolo un sentimento di “simpatia”».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE..
NUOVO REALISMO: LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
Per ben agire e ben comunicare (anche solo con se stessi o con stesse!), come insegna Dante, ci vogliono TRE SOLI (la cosiddetta - impropriamente - teoria dei "due soli")!!!
Federico La Sala
FILOSOFIA DELLA RIVELAZIONE. "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": "GENERARE DIO". L’immaginario del cattolicesimo romano....
Narciso e l’arte di restare a galla: una lezione di Massimo Cacciari
di Luisa Muraro *
Narciso non sapeva niente di narcisismo. Il pastorello vanitoso si sporge per specchiarsi, casca nello stagno e annega. Doveva venire in Italia a imparare dai nostri uomini di spicco. Specchiarsi e, soprattutto, restare a galla, è un’arte. Per esempio, come fa il narciso italiano quando succedono cose notevoli che lo mettono ai margini? Aspetta un po’ che passino ma se non passano, come sta succedendo con il femminismo?
Massimo Cacciari, intervistato sul suo ultimo libro risponde con una lezione esemplare.
Il suo libro è di argomento teologico ed è il giorno di Natale. Il Professore si vanta di aver fatto una scoperta filosofica, teologica e politica su Maria di Nazareth. L’intervistatore, Nicola Mirenzi, è ammirato ma mostra incredulità. L’intervistato ammette di non essere stato il primo e fa il nome di un grande teologo del passato. L’intervistatore chiede: come mai neanche le femministe si sono dedicate a pensare la grandezza di Maria? Neanche loro, conferma il professore. Dice il falso ma lui non teme che la verità gli secchi la lingua perché non la sa, lui di femminismo non ha mai voluto saper niente con un minimo di precisione. L’ignoranza, però, non basta più con i tempi che corrono, ci vuole un tampone e Cacciari l’ha pronto. Ripete un elogio del femminismo fatto da altri (sempre lo stesso, “ultima vera rivoluzione” ecc.). Intanto pensa: nessuno può lontanamente aver visto quello che ho visto io! E a voce alta dice: le femministe “sono rimaste vittime della lettura maschilista dell’incarnazione, hanno guardato Maria come una figura servile, totalmente oscurata dal rapporto tra padre e figlio, non riuscendo a scorgere quello che c’è oltre”. Questa è la mossa classica dell’intellettuale italiano: s’inventa una posizione “femminista” fasulla, che gli pare verosimile e che trova facile da eliminare.
Termina così l’intervista; la trovate su Huffington Post, che in seguito ha pubblicato l’intervento di Nadia Lucchesi su questo argomento; lo trovate anche qui.
Inventarsi un femminismo finto, dopo quasi mezzo secolo di un movimento che sta modificando i tratti di una civiltà, e uno studioso di chiara fama che crede di poterlo fare impunemente, tutto questo non sarebbe possibile senza la complicità dei suoi pari e dei mass-media che vanno per la maggiore. È questo un andazzo che è durato troppo e danneggia il nostro paese. Da notare però anche, in questo caso, un certo desiderio maschile di mettersi alla luce della differenza femminile. Nadia Lucchesi e le sue amiche sono intervenute a smentire il Professore con molta serenità, come se, sotto le sue arie da grande pensatore, riconoscessero uno dei pastori che andarono alla grotta di Betlemme. (Luisa Muraro)
Il commento di Nadia Lucchesi e amiche all’intervista di Massimo Cacciari
Se i filosofi hanno ignorato Maria, le filosofe ne hanno invece valorizzata la figura, liberandola dagli stereotipi e dalle incomprensioni della tradizione. Penso, per nominarne alcune, a María Zambrano, a Simone Weil e a Edith Stein. Le femministe hanno guardato ben oltre la lettura maschilista dell’incarnazione: come scriveva Luisa Muraro nel 2011 «Data la scarsa conoscenza del femminismo, dovuta più alla novità delle idee che all’ignoranza delle persone, vi capiterà di leggere che noi femministe eravamo contro la figura di Maria. No, non solo la mariologia fu un terreno di coltura del femminismo cattolico, ma anche le agnostiche si sono dedicate a strappare Maria alla devozione di tipo patriarcale. Penso al Magnificat di Rosetta Stella (Marietti)... Di Maria si è enfatizzato il protagonismo, la mobilità, l’autonomia. La sua verginità è stata interpretata in termini d’indipendenza simbolica dagli uomini. Fondamentale è stato l’apporto di Luce Irigaray, che, dagli anni Ottanta, ha contribuito a diffondere un nuovo linguaggio religioso...» (Maria. Il latte della Vergine, Madre di Dio e Dio lei stessa, Il manifesto - Alias, 24 dicembre 2011).
Infatti, Luce Irigaray ha pubblicato nel 2010 «Il mistero di Maria» (Edizioni Paoline, 2010), mentre nel 2002 Nadia Lucchesi aveva dato alle stampe «Frutto del ventre, frutto della mente: Maria, madre del Cristianesimo» (Luciana Tufani, Ferrara 2002).
Nel 2014 si è svolto a Venezia il convegno «Rivisitazione di Maria. Per una teologia in lingua materna», a cura di Laura Guadagnin e Grazia Sterlocchi delle associazioni Settima Stanza e Waves in collaborazione col Centro Donna, mentre a Roma, all’interno del progetto speciale culturale Biblioteche di Roma 2014 «Presenza e mistero di Maria», Annarosa Buttarelli e Suor Michela Porcellato sono intervenute sul tema: «La sovranità di Maria di Nazareth».
Raffaella Molinari e Monica Palma, relatrici di un intervento dal titolo «Maria della Sororità, Nostra Signora Nostra Sorella» continuano il lavoro straordinario di Ivana Ceresa, fondatrice della Sororità, un ordine religioso posto sotto l’autorità di Maria, concepita come figura di donna potente.
Da più di cinquant’anni, inoltre, Angela Volpini diffonde un’immagine di Maria che rappresenta l’umanità realizzata e ci insegna la “via della felicità sulla terra”.
Non parlo dei tantissimi contributi delle teologhe cattoliche e non, che hanno interpretato in modo non tradizionale la figura della Vergine, della Maestra di Sapienza: cito, per nominarne solo una, Elisabeth Schüssler-Fiorenza, teologa statunitense, femminista cattolica, autrice di due opere fondamentali: «In memoria di Lei» (Claudiana, Torino 1990) e «Gesù, figlio di Myriam, profeta della Sophia» (Claudiana, Torino 1996).
* www.libreriadelledonne.it, 19 gennaio 2018
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO". Una riflessione di Massimo Cacciari su "cosa significa ereditare il passato"
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI. In memoria di Kurt H. Wolff.
Federico La Sala
Denuncia Onu. Il quarto che manca agli stipendi delle donne. Campagna social mondiale
Arriva #stoptherobbery ovvero «stop al più grande furto della storia». Mediamente gli stipendi rosa sono inferiori del 23% di quelli degli uomini.
di Antonella Mariani (Avvenire, sabato 20 gennaio 2018)
Un hashtag (il cancelletto che definisce l’argomento sui social network) tira l’altro. Dopo #MeToo, “anch’io”, il movimento contro le molestie sessuali che si è guadagnato il titolo di Persona dell’anno e la copertina del settimanale Time, arriva #stoptherobbery. Il messaggio della campagna dell’Onu è un po’ brutale ma perlomeno è chiaro e concreto: stop al «più grande furto della storia», quello ai danni dei portafogli femminili.
Nel mondo le donne saranno anche l’altra metà del cielo, ma guadagnano in media il 23% in meno degli uomini, a parità di incarico: il dato è stato diffuso ieri dall’economista indiana Anuradha Seth, consigliere dell’Un Women, il dipartimento Donne delle Nazioni Unite creato nel 2011. Dunque, Seth ha riproposto quel che si sapeva già, e cioè che in tutto il mondo le donne guadagnano 77 centesimi per ogni dollaro guadagnato da un uomo. I motivi sono ampiamente analizzati da economisti e sociologi da almeno un ventennio. La stessa Seth ne elenca alcuni, riscontrati in tutti i Paesi del mondo: il livello più basso di qualifiche, la minor rappresentanza nei gradi gerarchici più alti, la iniqua distribuzione delle cure domestiche e familiari che spinge le donne verso impieghi informali, saltuari o a orario ridotto. Secondo stime dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), a ogni figlio che mettono al mondo, le donne perdono il 4% del loro stipendio rispetto agli uomini.
A queste differenze «strutturali» si aggiunge la più classica delle discriminazioni, quella salariale: a parità di incarico «non esiste un solo Paese né un solo settore in cui le donne abbiano gli stessi stipendi degli uomini». L’obiettivo della campagna social dell’Onu (tutte le informazioni su www.23percentrobbery.com) è di aumentare il livello di consapevolezza, in modo da spingere i governi a impegnarsi per colmare la distanza. Il modo più rapido, suggeriscono gli esperti dell’Organizzazione mondiale del lavoro, è la fissazione per legge di livelli salariali minimi e l’estensione di misure di protezione sociale.
Il «grande furto» del reddito femminile offre anche un orizzonte simbolico: un quarto in meno di stipendio significa un quarto in meno di libertà per le donne. Di opportunità. Di autostima, talvolta. Continuando nella lista: un quarto in meno di possibilità di decidere. Di scalfire il famigerato soffitto di cristallo che lascia intravvedere la vetta, ma non consente di raggiungerla. Di cambiare le cose per sé e per le proprie figlie. Molti progressi sono stati compiuti negli ultimi decenni, e la crescente partecipazione femminile nel mondo del lavoro e della politica è un dato di fatto. Non si parte da zero, resta però quell’ultimo miglio che non sono solo i soldi guadagnati sul lavoro, ma è l’essere considerate pari agli uomini, valutate e stimate solo per le idee e per l’impegno, per la creatività e per la passione. È un quarto ancora. Ce la possiamo fare: non da sole, ma con gli uomini al fianco.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Pianeta Terra. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi......
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA.
DONNE, UOMIMI, E VIOLENZA: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO...
Cosa potremmo imparare dalle donne?
Raúl Zibechi *
di Raúl Zibechi *
Prendersi cura dell’ambiente o della Madre Terra, è cosa di donne, secondo un recente studio della rivista Scientific American pubblicato a fine dicembre, dove si sottolinea che “le donne hanno superato gli uomini nel campo dell’azione ambientale; in tutte le fasce di età e in tutti i paesi”.
L’articolo intitolato “Gli uomini resistono al comportamento verde in quanto poco maschile”, giunge a questa conclusione dopo aver realizzato un’ampia indagine tra duemila uomini e donne statunitensi e cinesi. Lo studio afferma che, per i maschi, comportamenti tanto elementari come quello di utilizzare borse di tela per fare la spesa invece che quelle di plastica, è considerato “poco maschile”.
Il lavoro è incentrato sul marketing, con l’obiettivo di conseguire un risultato per il quale i maschi si sentano virili anche comprando articoli “verdi”, e arriva a conclusioni penose come quella secondo cui “gli uomini che si sentono sicuri nella loro virilità si sentono più a loro agio comprando verde”.
Tuttavia, riesce a tracciare alcuni comportamenti che consentono di andare un po’ oltre, nel senso di comprendere come il patriarcato sia una delle principali cause del degrado ambientale del pianeta. Donald Trump non è un’eccezione, nel negare il cambiamento climatico e incoraggiare comportamenti distruttivi, dalle guerre al consumismo.
Propongo tre punti di vista che possono essere complementari e che riguardano il mondo dei maschi, non affinché adottiamo comportamenti politicamente corretti (con la loro dose di cinismo e di ambiguità), bensì per contribuire al processo di emancipazione collettiva dei popoli.
Il primo è correlato al capitalismo di guerra o accumulazione per spoliazione/quarta guerra mondiale che attualmente subiamo. Questa virata del sistema, che nell’ultima decade ha avuto un’accelerazione, non solo provoca più guerre e violenze ma un profondo cambiamento culturale: la proliferazione dei “maschi alfa”, dai pezzi grossi dei grandi e potenti Stati, fino ai boriosi machos dei quartieri che pretendono di marcare il loro territorio e, ovviamente, i “loro” dominati e, soprattutto, le dominate.
Mostrare forza muscolare geopolitica consente di avere una posizione in questo periodo di decadenza dell’impero egemonico, che viene integrata dalla comparsa di un’infinità di piccoli maschi alfa nei territori dei settori popolari, dove i narcos e i paramilitari vogliono sostituire il prete, il commissario e il “padre di famiglia” nel controllo della vita quotidiana degli abajo (quelli che stanno sotto, ndt).
Il secondo punto di vista viene insinuato dallo studio citato, quando conclude che “le donne tendono a vivere uno stile di vita più ecologico” poiché “sprecano di meno, riciclano di più e lasciano un’impronta di carbonio più piccola”.
Questo è direttamente correlato con la riproduzione, che è il punto cieco delle rivoluzioni, impegnate in un produttivismo a oltranza per, presumibilmente, superare i paesi capitalisti. La produzione manifatturiera e l’operaio industriale sono stati elementi centrali nella costruzione del mondo nuovo, da Marx in poi. In parallelo, la riproduzione e il ruolo delle donne non sono mai stati considerati.
Non possiamo combattere il capitalismo né il patriarcato, né prenderci cura dell’ambiente o dei nostri figli e figlie, senza assumere la prospettiva della riproduzione che è, precisamente, la cura della vita. Capisco che la riproduzione possa essere anche una questione degli uomini, ma questo richiede una politica esplicita in questa direzione, come sottolineano le comandantas che convocano l’incontro delle donne nel caracol Morelia.
Come dice il comunicato di convocazione del Primo Incontro Internazionale, Politico, Artistico, Sportivo e Culturale delle Donne che Lottano, gli uomini zapatisti “si occuperanno della cucina e di pulire e di tutto il necessario”.
Forse queste mansioni sono meno rivoluzionarie che stare in piedi su un palco “dando istruzioni sulla linea” (come diciamo nel sud)? Ci danno meno visibilità, ma sono i compiti oscuri che rendono possibili le grandi azioni. Per coinvolgerci nella riproduzione, noi maschi abbiamo bisogno di un forte esercizio per limitare il nostro ego, specialmente se si tratta di un ego rivoluzionario.
Il terzo è forse il più importante: cosa possiamo imparare noi, maschi eterosessuali e di sinistra, dai movimenti femministi e dalle donne?
La prima cosa sarebbe riconoscere che le donne, nelle ultime decadi, sono andate più avanti di noi. Quindi, essere un po’ più umili, ascoltare, chiedere, imparare a farci da parte, a stare in silenzio affinché altre voci possano essere ascoltate. Una delle questioni che possiamo imparare è come loro si siano sollevate senza avanguardie né apparati gerarchici, senza comitati centrali e senza la necessità di occupare il governo statale.
Come hanno fatto? Forse organizzandosi tra di loro, tra uguali. Lavorando sul patriarca interiore: il padre, il dirigente ben educato, il leader. Questo è molto interessante, perché le donne che lottano non stanno riproducendo gli stessi ruoli che combattono, poiché non si tratta di sostituire un oppressore uomo con un oppressore donna, né un oppressore di destra con un oppressore di sinistra. Per questo dico che sono andate molto avanti.
La seconda questione che possiamo apprendere è che la politica, in grande, in scenari ben illuminati e mediatici, con programmi, strategie e discorsi magniloquenti, non è altro che la riproduzione del sistema dominante. Loro [le donne], hanno politicizzato la vita quotidiana, il preparare il cibo, la cucina, il prendersi cura di figli e figlie, le arti della tessitura e della guarigione, tra le tante altre. Credere che tutto questo sia poco importante, che esistano gerarchie tra l’una e l’altra dimensione, è come continuare a cercare maschi alfa che ci emancipino.
Sicuramente ci sono molte altre questioni che possiamo apprendere dai movimenti delle donne, che ignoro o che dobbiamo ancora scoprire. Quello che importa non è avere la risposta già pronta, bensì predisporci con semplicità e umiltà a imparare da questo meraviglioso movimento di donne che sta cambiando il mondo.
Pubblicato su La Jornada con il titolo Patriarcado, Madre Tierra y feminismos
Traduzione per Comune-info: Daniela Cavallo
* Comune-info,->https://comune-info.net/2018/01/cosa-possiamo-provare-imparare-dalle-donne/] 11 gennaio 2018 (ripresa parziale senza immagini).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO DONNE, UOMINI E VIOLENZA
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Una nota di Eleonora Cirant (e altri materiali).
Federico La Sala
PIANETA TERRA. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi......
Il tabù delle mestruazioni: quello che le donne ora dicono
Un evento naturale che è da sempre circondato da imbarazzi e superstizioni. Ma dall’Europa al Nepal le cose stanno cambiando. Abbiamo cercato di capire quanto
di Silvia Bencivelli *
Questo articolo parla di mestruazioni. Non di “cose”, fiori, zie, marchesi, baroni rossi, visite da Roma, cardinali, nature, giacomine e caterine varie. Tantomeno di impurità, immondizie, affari schifosi, mostruosi e oscuri. Parla semplicemente di mestruazioni: quell’evento poco meno che mensile che tra il menarca (la prima volta) e la menopausa (l’ultima) segna senza particolari patemi la vita delle donne in età fertile.
Oggi, tolti di mezzo i pudori, sappiamo che la segna senza macchiarla, per circa 2.400 giorni nel corso di una vita. E sappiamo anche perché avvenga, cioè perché quattro o cinque giorni ogni ventotto le donne in età fertile perdano sangue dalla vagina. Lo si trova persino nei libri di terza media: è il ciclo mestruale, che dipende dall’equilibrio tra alcuni ormoni che regolano la produzione di una cellula uovo al mese. Se questa non viene fecondata (ed è la cosa largamente più frequente) l’epitelio dell’interno dell’utero, che era pronto ad accogliere l’embrione, si sfalda, quindi si ha il sanguinamento e cioè la mestruazione.
Prima di capirlo, però, consideravamo quei giorni un momento spaventosamente misterioso. Così le vite delle nostre antenate, delle nostre nonne, delle nostre madri, e un po’ anche le nostre, sono state afflitte da leggende secondo le quali in quei giorni facevamo appassire i fiori e impazzire la maionese, mandavamo il vino in aceto e rendevamo acida la conserva di pomodoro.
Ce lo ricordano due libri che raccontano superstizioni e tabù di un passato non troppo passato. Il primo è di Marinella Manicardi, attrice e regista che sulle mestruazioni ha fatto uno spettacolo teatrale dal titolo Corpi impuri per il Festival della Filosofia di Modena, e oggi ha scritto un libro dallo stesso titolo per la casa editrice Odoya. Il secondo è in uscita per Einaudi: Questo è il mio sangue, della giornalista francese Élise Thiébaut, che sarà in libreria dal 23 gennaio.
L’idea di fondo dei due libri è simile: di mestruazioni non si parla, e questo ha contribuito, e contribuisce ancora, alla discriminazione di genere. Thiébaut annuncia una prossima e necessaria “rivoluzione mestruale”, che darà alle donne consapevolezza del proprio corpo e della propria identità. Manicardi parte invece dalla letteratura: Anna Karenina non ha mai le mestruazioni e non le ha mai neppure Emma Bovary. -C’è un’unica eccezione: Margherita, la signora delle camelie. Ma era una prostituta. E la ragione per cui, ogni mese, le sue camelie erano cinque giorni rosse e gli altri bianche Alexandre Dumas la lascia solo intuire. «Se i tempi sono cambiati? Beh, mica tanto» dice Manicardi. Quanto alla nuova pubblicità in cui il sangue viene finalmente rappresentato da un liquido di colore rosso, invece dell’azzurro alieno degli spot precedenti, c’è poco da festeggiare. «È la prima, appunto, e siamo nel 2017».
Oltre agli spot e ai libri, ci sono però anche le provocazioni artistiche, come quella della tedesca Elone, che ha riempito le vie di Karlsruhe di assorbenti con scritte frasi contro la violenza sulle donne, o quella della portoghese Joana Vasconcelos, che ha costruito un lampadario con 14 mila assorbenti interni. E soprattutto ci sono le provocazioni politiche, come il movimento free bleeding, che propone di non usare assorbenti e di lasciare che il sangue si mostri.
Nel 2015 l’attivista statunitense di origine indiana Kiran Gandhi ha corso così la maratona di Londra (quindi 42 chilometri), e ha spiegato: «L’ho fatto per le mie sorelle che non hanno accesso agli assorbenti e per quelle che li nascondono». In India, infatti, una ragazza su dieci considera il ciclo una malattia e una su quattro al raggiungimento della pubertà è costretta a lasciare la scuola. Mentre in Nepal solo ad agosto di quest’anno è approvata una legge che punisce la pratica millenaria del chhaupadi, cioè la reclusione delle donne mestruate in capanne isolate, in cui non mangiano e non bevono, e possono essere morse dai serpenti.
Anche da noi il pregiudizio antimestruazioni è antico: «Dai tempi di Ippocrate in poi il corpo femminile è sempre stato considerato la versione imperfetta di quello maschile» racconta Francesco Paolo de Ceglia, storico della scienza all’Università di Bari. «Gli organi della generazione sono introflessi, e il tutto viene descritto come umido, molle». Questa “umidità” femminile si credeva destinata a nutrire il bambino, «e si diceva che venisse espulsa con le mestruazioni, una specie di liberatorio salasso naturale». L’idea dell’impurità arriva dalla religione. Ma, prosegue de Ceglia, «la scienza la assorbe. Così si giunge al concetto per cui le mestruazioni sono un po’ come escrementi».
Però poi la scienza è avanzata, vero? «Sì, certo» concede Carlo Flamigni, ginecologo, scrittore e saggista, «ma mica tanto tempo fa». Sono solo sessant’anni che conosciamo la questione dell’utero e dell’ovaio. Flamigni si è laureato nel 1959 e racconta che anche nei libri universitari su cui ha studiato «le mestruazioni servivano a espellere le sostanze tossiche accumulate nel corpo femminile, e segnatamente una che si chiamava menotossina». Quindi, aggiunge, «se il tabù esiste ancora, credo che per superarlo debba scomparire un’intera generazione, la mia».
Solo sessant’anni significa che le nostre nonne venivano considerate così pericolosamente instabili da non avere accesso alla magistratura. Fino al 1963 lo diceva proprio la legge italiana, nero su bianco: «Fisiologicamente tra un uomo e una donna ci sono differenze nella funzione intellettuale, e questo specie in determinati periodi della vita femminile». Indovinate quali.
Alla fine della fiera è difficile dire se qualcosa degli antichi pregiudizi rimanga anche nelle nostre teste, o se siamo vicini alla fine del tabù. «Che io sappia non ci sono dati o rilevazioni affidabili che ci permettano di esprimerci sull’esistenza del tabù» commenta Paola Borgna, sociologa dell’Università di Torino. Ognuno potrà avere le proprie impressioni: «La mia è che il tabù a sfondo religioso sia stato sostituito dalla medicalizzazione. Ed è un aspetto di un processo di medicalizzazione del corpo e delle società più generale, che dà origine a nuove forme di controllo delle nostre vite».
Un dato di fatto è che, oltre alle donne giudice, oggi possiamo avere le donne astronauta, come Samantha Cristoforetti, che considera gli assorbenti l’ultima delle sue preoccupazioni, terrestri ed extraterrestri: «Se mi chiedono come si viva con le mestruazioni nello spazio? A dire il vero non tanto spesso». Un giorno però Carla ha mandato la domanda al suo blog avamposto42, e Samantha ha risposto così: «Beh, non vorrei fare a cambio con la necessità di radermi il viso tutte le mattine in assenza di peso!». Come dire: l’età adulta e gli ormoni della fertilità propongono modeste seccature. Per i maschi si tratta di farsi
barba e baffi più o meno ogni mattina. Le femmine in fondo se la cavano con quattro o cinque giorni al mese, e nel 2017 non devono più nemmeno fare la fatica di inventarsi giri di parole: sono mestruazioni, semplicemente mestruazioni.
* la Repubblica, 15 dicembre 2017
SUL TEMA NEL SITO, SI CFR.:
IL PROGRAMMA DI KANT. DIFFERENZA SESSUALE E BISESSUALITA’ PSICHICA: UN NUOVO SOGGETTO, E LA NECESSITA’ DI "UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA".
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
Federico La Sala
CHI E’ DIO? CHI E’ IL "PADRE NOSTRO"?! Chi è il Papa? Chi induce in tentazione .... *
A
GUGLIELMO DI OCKHAM
Chi è il Papa? Un eretico
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, 13 settembre 2015)
Chi avesse cercato, magari in una biblioteca, l’edizione del Dialogo sul papa eretico di Guglielmo di Ockham, si sarebbe visto recapitare un volume ponderoso, in un latino non da parroco. In Rete l’ipotetico lettore qualcosa avrebbe trovato, rischiando però di peggiorare la comprensione: se fosse finito, putacaso, nel sito della Bayerische Staatsbibliothek, dove c’è la riproduzione digitale dell’editio princeps di Parigi del 1476, alle difficoltà della lingua avrebbe aggiunto quelle per la lettura dell’incunabolo. Aggirare l’ostacolo con una versione? Eccolo in un vicolo cieco: non ci sono traduzioni integrali in una lingua moderna. Eppure se il solerte bibliotecario avesse, per esempio, mostrato l’edizione di Francoforte del 1614, la curiosità sarebbe arrivata alle stelle, ché l’editore a pagina 957 aggiunse un Compendio degli errori di papa Giovanni XXII. Un’altra opera di Ockham, d’accordo, ma ne rafforzava le tesi.
Da qualche giorno tali preoccupazioni fanno parte del passato: Alessandro Salerno ha tradotto integralmente per la prima volta nella serie «Il pensiero occidentale» di Bompiani, con il testo latino a fronte, il Dialogo sul papa eretico di Ockham, che morì nel 1349 o nel 1350. Con tutta l’acutezza e la conoscenza di cui disponeva (era noto come il Doctor invincibilis), il celebre francescano tentò di dimostrare - senza allontanarsi dai punti fermi del cristianesimo - la possibilità dell’eresia del vicario di Cristo, mettendo in discussione tutte le relazioni tra papato e impero. La questione non era di poca importanza, giacché il sovrano diventava giudice naturale del pontefice, anzi avrebbe addirittura potuto invocare la difesa della fede per giustificare il suo intervento negli affari della Chiesa.
Certo, il papa a cui frate Guglielmo guardava, ovvero Giovanni XXII sedente in Avignone, non era una mammoletta e i francescani mal lo sopportavano. Basti ricordare che nel 1322, durante il suo pontificato, la disputa sulla povertà di Cristo e degli Apostoli appassionava dotti e semplici fedeli, tanto che un professore del convento dei minori di Narbona, Berengario, difese con forza un tale accusato di aver sostenuto che Cristo e i suoi seguaci nulla possedevano, né in comune né in proprio. Quando fu invitato a ritrattare, decise addirittura di appellarsi alla Santa Sede. Berengario invocò la decretale Exiit qui seminat di Nicola III (agosto 1279), nella quale la tesi era anzi obbligatoria. Giovanni XXII fece arrestare l’entusiasta difensore appena giunto ad Avignone; propose pubblicamente la questione della povertà di Cristo e, siccome Nicola III aveva comminato la scomunica per chi avesse cercato di intenderla in altro modo, con la bolla del 26 marzo di quell’anno, Quia quorundam, sospese la restrizione. La cosa andò avanti e nel dicembre successivo revocò la decretale del predecessore. Bonagrazia da Bergamo, anch’egli francescano, cercò di impugnare tali decisioni: finì a sua volta in prigione.
In un simile contesto nasce il Dialogo di Ockham, in sette libri, scambio di idee tra un maestro e un discepolo. L’opera pone questioni quali «A chi spetta definire la verità cattolica o l’eresia?» o «Esiste un giudice del papa?». Le domande sono radicali e tutto il sesto libro è dedicato alla condanna del pontefice eretico con pagine che recarono grande gioia all’imperatore. Due quesiti (meglio leggerli senza punto di domanda): «Il papa deve essere sottomesso all’autorità come lo fu Cristo» o «Se il papa oppone resistenza all’indagine sul suo conto, è lecito arrestarlo, detenerlo e metterlo in catene». Nella sua introduzione, poco meno di 200 pagine, Alessandro Salerno inquadra l’opera e offre un’analisi del sintagma «papa eretico» (compare circa 1200 volte a partire dal libro quinto). Pone in evidenza ironie e maschere, esamina i concetti di verità e potere, propone considerazioni sull’infallibilità.
Il “papa eretico” riapparirà nella storia della Chiesa con accusatori che non avranno l’acume di Ockham. Qualche storico chiamerà così Alessandro VI, e lo stesso Savonarola lo vide tale; altri, come il presbitero e teologo tedesco Ignaz von Döllinger, lo sussurrarono dopo la proclamazione del dogma dell’infallibilità pontificia con Pio IX. Ma questi sono dettagli. Ockham, scomunicato, accolto dall’imperatore Ludovico il Bavaro, passò la parte finale della vita a combattere i papi avignonesi con i suoi trattati. I quali, anche se non furono graditi o odoravano di zolfo, restano dei capolavori di intelligenza.
B
Papa Francesco vuole cambiare il ’Padre Nostro’: "Traduzione non è buona, Dio non ci induce in tentazione"
Uno dei passaggi più noti potrebbe presto cambiare, come già successo in Francia *
CITTÀ DEL VATICANO - Il testo in italiano della preghiera più nota, il ’Padre Nostro’ , potrebbe presto cambiare. A farlo intendere è lo stesso papa Francesco: "Dio che ci induce in tentazione non è una buona traduzione. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice ’non mi lasci cadere nella tentazione’. Sono io a cadere, non è lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito".
Il pontefice lo ha spiegato nella settima puntata del programma ’Padre nostro’, condotto da don Marco Pozza, in onda su Tv2000. Francesco dialoga con il giovane cappellano del carcere di Padova nell’introduzione di ogni puntata. "Quello che ti induce in tentazione - conclude il Papa - è Satana, quello è l’ufficio di Satana".
Della controversia sulla preghiera più nota del cristianesimo - fu insegnata da Gesù stesso ai suoi discepoli che gli chiedevano come dovessero pregare - si è parlato in queste settimane quando in Francia si è detto appunto addio al vecchio ’Padre Nostro’. Dopo anni di discussioni sulla giusta traduzione, la nuova versione francese non include più il passaggio ’ne nous soumets pas à la tentation’ - ’non sottometterci alla tentazione’ -, che è stato sostituito con una versione ritenuta più corretta: ’ne nous laisse pas entrer en tentation’, ’non lasciarci entrare in tentazione’.
Secondo quanto ha scritto Le Figaro, la prima formula - ’non sottometterci’ - ha fatto credere a generazioni di fedeli che Dio potesse tendere in qualche modo una sorta di tranello, chiedendo loro di compiere il bene, li ’sottometteva’ alla tentazione del male. "La frase attuale lasciava supporre che Dio volesse tentare l’essere umano mentre Dio vuole che l’uomo sia un essere libero", ha commentato il vescovo di Grenoble, monsignor Guy de Kerimel, citato dal giornale. Dopo mezzo secolo - la controversa versione venne introdotta il 29 dicembre 1965 - la Conferenza episcopale transalpina ha quindi optato per la nuova traduzione del Notre Père. Per aiutare i fedeli a memorizzarla, la nuova preghiera è stata distribuita in decine di migliaia di copie nelle chiese di Francia. Il cambio ufficiale è avvenuto due giorni fa, domenica 3 dicembre.
Per la verità, anche in Italia, nella versione della Bibbia della Cei (2008), il passo ’et ne nos inducas in tentationem’ è tradotto con ’e non abbandonarci alla tentazione’; l’edizione del Messale Romano in lingua italiana attualmente in uso (1983) non recepisce tuttavia questo cambiamento. Ora però è il Papa a sostenere pubblicamente che si dovrebbe cambiare.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL MAGISTERO DI MENZOGNA DELLA CHIESA CATTOLICA: IL "PADRE NOSTRO" CHE INDUCE IN TENTAZIONE. Una nota di Henri Tincq - con premessa.
IL NOME DI DIO. L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Di donne non ne abbiamo?
di Roberta Carlini (Lunedì, 04 Dicembre 2017)
Liberi e uguali, avete un problema. Non mi dite che quella foto non ha urtato anche voi. Piero Grasso, Roberto Speranza, Nicola Fratoianni, Pippo Civati. Quattro su quattro, foto evento della nascita di un partito, tutta al maschile - persino nel presentatore, un giornalista. Compagni, amici, fondatori, fratelli. Qualche pagina più avanti, o un altro clic, e spunta la foto della rielezione di Giorgia Meloni alla presidenza di Fratelli d’Italia, insieme a Daniela Santanché che passa con lei - c’è anche Isabella Rauti, a fare politica nella dirigenza di quel partito.
Perché? L’ascesa delle donne nei movimenti di destra, estrema destra, populisti, xenofobi, è un fenomeno a sé che merita e ottiene grande attenzione. Mentre abbiamo accettato, digerito, sepolto nell’irrilevanza la scomparsa delle donne dalla leadership dei partiti progressisti, di sinistra, socialdemocratici, democratici.
Il caso Mdp fa particolarmente impressione. Perché è un movimento al quale guarda, con interesse o rabbia, con passione o sconforto, chi non accetta l’ordine delle cose. Fa impressione non solo che non ci sia una donna nella prima foto di gruppo, ma anche e soprattutto che la cosa non faccia problema per nessuno dei quattro, o dei 5000 che erano lì.
Di nuovo: perché? Non si risponda - come fece Monti, dicono, quando formò un governo ipermaschile e dovette rimediare all’ultimora - “di donne non ne abbiamo”; perché tra i fondatori di Mdp ce n’è una seria, preparatissima, nientemeno che un’economista, addirittura proveniente dalla società civile (università), ossia Maria Cecilia Guerra. Che magari, come molte donne e al contrario di molti uomini, non ama andare in giro a parlare di cose che conosce poco, ma può dire molto di quelle che conosce bene (qui il suo lavoro politico): politica economica, occupazione, sicurezza sociale... cosette importanti, diciamo, per un soggetto di “liberi e uguali”. Uguali a chi?
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Pianeta Terra. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi......
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
PERDITA DELLA MEMORIA FILOLOGICA E TEOLOGICA: LA “X” (“CHI”, GRECO) DIVENTA “X” (“ICS”, LATINO; E, SEMPLICEMENTE, "C", IN ITALIANO) E GESU’, IL FIGLIO DELLA GRAZIA EVANGELICA ("CHARITAS") DIVENTA IL "TESORO" DI "MAMMONA" ("CARITAS") E DI "MAMMASANTISSIMA" DEI FARAONI ...
opinioni
La dittatura della X fra affetti e affari
di Vittorio Zucconi (la Repubblica D, 25.11.2017)
Il Medioevo italiano la mise al bando, ma ora si usa ovunque, perché, evidentemente, attira l’attenzione. Che si tratti di business o di baci
ATTESO DA ALMENO cento milioni di esseri umani, molti dei quali in fila da giorni, è arrivato l’ultimo totem per il villaggio globale: l’iPhone X della Apple. Niente di misterioso in quella X, solo la celebrazione in numeri romani del decimo anniversario dell’iPhone lanciato da Steve Jobs: così dicono dalla Mela, ma mentono sapendo di mentire. Per segnalare il decennale, avrebbero potuto benissimo chiamarlo iPhone 10, come i predecessori 6, 7 o 8.
I geni del marketing hanno scelto la X per lo stesso motivo che ha spinto i concorrenti della Microsoft a chiamare la loro scatola da giochi XBox e (nell’ultima edizione diffusa negli stessi giorni dell’iPhone X, per tormentarci il Natale) addirittura XBoxOneX. Tre X al prezzo di una. Non è necessario essere geni dell’enigmistica e dei cruciverba per notare la fissazione per una lettera-simbolo che, da secoli e mai come ora, è uscita dal recinto dell’algebra per invadere i territori del commercio, dell’immaginazione, del calcio e del sesso, pardon, del sex.
La X vende, piace, intriga, nella sua invadenza. L’epidemia di questa lettera (che, nel Medioevo, l’alfabeto italiano aveva escluso, insieme con K e Y, presenti invece nell’alfabeto latino) è naturalmente partita dagli Stati Uniti ed è un indizio del dominio culturale anglofono. È ovunque e le femmine ne hanno pretese addirittura due nei propri cromosomi, XX, lasciando a noi maschi l’umiliazione di quella Y solitaria.
S’insinua nella vita di ogni paziente, che ha sicuramente inghiottito una pillola il cui nome conteneva una X o è stato esposto ai raggi X. Ci sono almeno 50 farmaci da ricetta che la esibiscono, dal tranquillante Xanax, che raddoppia per sembrare più efficace, all’antibiotico Ciprofloxacina, somministrato a milioni di persone afflitte da infezioni delle vie urinarie.
Qualche linguista Usa ha cercato di spiegare l’attrazione con il Cristianesimo, partendo dalla croce che i Romani usavano per uccidere i nemici più pericolosi e che era fatta appunto a X, e non a T come nell’iconografia ufficiale. Ma non c’è nulla di mistico in banali varietà musicali come X Factor, copiato anche in Italia. Dubbi religiosi riaffiorano in dicembre, quando gli americani, sempre impazienti, abbreviano Christmas, Natale, in XMas. Ma poi si sprofonda nel prosaico esercizio del voto, che utilizzò quel segno affinché anche gli analfabeti potessero manifestare sulle schede le scelte politiche.
Resta in esso sempre il brivido del mistero, dell’incognita, come nelle equazioni o nella fantascienza della serie X-Files. Sa di frutto proibito, nei film porno classificati come XXX o nei commerci erotici, in quei Sex Shop che, se si chiamassero "botteghe del sesso", farebbero ancora più schifo. Diventa il richiamo alla morte e alla ferocia dei pirati, con le ossa incrociate a forma - che altro? - di X sotto il teschio. È uno dei molti simboli satanici, ma anche di tenerezza, nella stenografia da chat o da sms, dove sta per "baci", insieme con O, per "abbracci": XOXO, "ti mando baci e abbracci". Tende a essere estremista nell’abbigliamento, con le taglie XS, XL o addirittura, aiuto!, XXL. Anche l’immagine che guardiamo sul televisore, sul computer o sullo schermo dello smartphone paga un tributo, essendo formata da pixel.
Non ha colpe, né meriti questa lettera prepotente, immigrata senza autorizzazione fra di noi, ma qualche segreta e scaramantica influenza negativa forse sì. Soltanto uno, fra i 45 presidenti degli Stati Uniti in 200 e più anni, ha osato avere una X nel proprio nome, Richard Nixon. Finì infatti, primo e unico dimissionario nella storia, crocefisso alla vergogna delle proprie colpe.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata... MURATORI E RATZINGER. "DEUS CARITAS EST": FINE DEL CRISTIANESIMO. TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITÀ E SULLO SPIRITO CRITICO, OGGI. "X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"!
Federico La Sala
IL MITO DELL’AUTONOMIA INTELLETTUALE, ROBINSON, E LE ROBINSONATE ....
DOPO 170 ANNI DALLA BRILLANTISSIMA “Introduzione del ’57”, ove Marx scrive parole assolute e definitive (“La produzione dell’individuo isolato al di fuori della società è una rarità che può capitare ad un uomo civile sbattuto per caso in una contrada selvaggia, il quale già possiede in sé potenzialmente le capacità sociali - è un tale assurdo quanto lo è lo sviluppo di una lingua senza individui che vivano insieme e parlino tra loro”), è più che lodevole ricordare ai cittadini e alle cittadine della Repubblica non solo quello che Marx, nel 18 Brumaio e ne L’ideologia tedesca, chiama “il processo di putrefazione dello spirito assoluto”, e, quello che Lukàcs, sulle orme di Marx, chiama “la prassi dell’individuo isolato” (cfr. Mimmo Cangiano, Il mito dell’autonomia intellettuale, "Le parole e le cose", 28.11.2017), ma anche quello che gli intellettuali di "la Repubblica" si preparano a fare per festeggiare il fatto che “Robinson compie un anno (: hai tutti i numeri? Mandaci una foto della tua collezione. Domenica 10 dicembre inviteremo uno dei lettori a visitare l’Arena Robinson, lo stand del nostro settimanale a "Più libri più liberi"”).
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
In principio era il Logos, non il "logo" ...
DIO, MONDO, UOMO - OLTRE!!! BASTA CON LE ROBINSONATE. A partire da due, e non da uno!!! Una nota su una polemica tra "esportatori di democrazia" e di "libertà" (Giovanni Sartori e Gian Maria Vian) e la proposta di una Fenomenologia dello Spirito di "Due Soli" - Con Rousseau, Kant, Marx, Freud e Dante, oltre Hegel, per una seconda rivoluzione copernicana
Federico La Sala
L’ETICA CATTOLICA E LO SPIRITO DEL CAPITALISMO NARRATIVO. IL "CARISMA" E LA SINDROME PARASSITARIA...
Far vivere l’albero degli ideali
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 11 novembre 2017)
Le comunità, le associazioni, i movimenti, le istituzioni e le imprese vivono grazie a molte forme di capitali. Una di queste è il capitale narrativo, una risorsa preziosa in molte organizzazioni, che diventa essenziale nei momenti di crisi e nei grandi cambiamenti dai quali dipendono la qualità del presente, la possibilità del futuro, la benedizione o la maledizione del passato. È quel patrimonio - cioè munus / dono dei padri - fatto di racconti, storie, scritti, a volte poesie, canti, miti. È un autentico capitale perché, come tutti i capitali, genera frutti e futuro. Se gli ideali della organizzazione o della comunità sono alti e ambiziosi, come accade in molte Organizzazioni a Movente Ideale (OMI), anche il suo capitale narrativo è grande. È una risorsa preziosa durante le prime difficoltà, quando raccontarsi l’un l’altro i grandi episodi di ieri dà il coraggio per continuare a sperare, credere, amare oggi.
Il capitale narrativo, poi, è anche il primo meccanismo di selezione dei nuovi membri dell’organizzazione o della comunità. Noi amiamo molte cose, ma soprattutto amiamo le storie meravigliose, quelle che risvegliano la parte più profonda e vera dell’anima, che ci fanno diventare migliori semplicemente ascoltandole. Più grandi sono i nostri ideali, più grande la nostra anima, più grande deve essere la promessa contenuta nel capitale narrativo per attivarci e farci diventare parte di quella stessa storia. Le storie piccole attraggono persone con desideri e ideali piccoli, le grandi storie conquistano le anime grandi, storie straordinarie attirano persone straordinarie.
Nei primi tempi della fondazione questo capitale narrativo è l’unico bene che una comunità possiede, soprattutto quelle comunità-movimenti che nascono da ideali spirituali - dentro e fuori le religioni. Ci si nutre della vita che si genera, delle prime storie e dei "miracoli", della vita e le parole dei fondatori che si vivono e si raccontano.
La nuova vita è immediatamente un vangelo, una buona nuova novella. Chi viene raggiunto da quella storia generativa vi riconosce il suo proprio racconto, passato e futuro. In quei primi tempi il tasso di accumulazione del capitale narrativo è molto alto, e la sua crescita è esponenziale. Nei primissimi anni, a volte nei primi mesi o giorni, si forma la gran parte di questo patrimonio speciale. La sua "produttività" è straordinaria e sbalorditiva: è sufficiente evocare, in ogni ambiente, quei primi racconti per assistere ad autentici miracoli, come e (a volte) più impressionanti dei primi. Dire e ripetere le frasi e i fatti dell’inizio produce effetti letteralmente straordinari, che oltre a far crescere la comunità alimenta in chi annuncia la convinzione della verità e forza dell’ideale annunciato, in un circolo virtuoso (storie-annuncio-frutti-rafforzamento-nuovo annuncio...) potentissimo e mirabile.
Se il "carisma" all’origine di queste esperienze è ricco e innovativo, e il fondatore è generoso e creativo, ci si può nutrire per decenni - per secoli - delle storie e delle parole dei primi tempi, senza avvertire il bisogno di aggiungerne neanche una nuova. Ma è dentro questa ricchezza che si sviluppa la cosiddetta sindrome parassitaria. Quasi inevitabilmente e sempre inintenzionalmente gli immensi frutti che generano i racconti del passato diventano un ostacolo alla creazione di nuovo capitale narrativo. E si comincia oggi a vivere con le rendite di ieri - come quell’imprenditore che smette di innovare e generare nuovo reddito perché vive molto bene delle rendite dei capitali del passato. Più è grande il primo capitale narrativo più lunga è la fase della vita alimentata dalla rendita. È questa una forma del cosiddetto "paradosso dell’abbondanza" (o "maledizione delle risorse"), quella trappola nella quale cadono Paesi ricchissimi grazie a una sola risorsa naturale, che finiscono per impoverirsi proprio a causa di quella enorme ricchezza.
Un fondatore e un carisma spiritualmente ricchissimi possono, senza né volerlo né saperlo, trasformarsi da "benedizione" in "maledizione" se la ricchezza spirituale del suo carisma fa scattare più facilmente e più velocemente la sindrome parassitaria (che può iniziare già durante la vita degli stessi fondatori che smettono di innovare per nutrirsi soprattutto del proprio passato). Perché, paradossalmente, più grande è la ricchezza spirituale, più è probabile che si attivi la sindrome parassitaria. Comunità con fondatori e carismi semplici hanno altri problemi, ma non conoscono la sindrome parassitaria, che è una tipica malattia della ricchezza.
Ma a differenza dei capitali finanziari o immobiliari, che possono consentire un flusso costante o crescente di rendita, i capitali narrativi se non vengono aggiornati e rinnovati iniziano a invecchiare e a ridursi. Per loro è massimamente vera la frase di Edgar Morin: «Ciò che non si rigenera degenera».
Un’obsolescenza/degenerazione che nei momenti di accelerazione della storia (come è il nostro) può essere estremamente e drammaticamente rapida. Da un giorno all’altro ci si ritrova con una grave carestia di storie da raccontare. Quei primi racconti che fino a ieri convincevano e convertivano, che erano il nostro grande tesoro, che ci avevano incantato e avevano fondato la nostra vita individuale e collettiva, diventano muti, freddi, morti. La distanza tra il linguaggio e le sfide del presente e i racconti del passato diventa enorme - i giovani sono, anche qui, sentinelle, i primi che segnalano la malattia.
Nelle storie ideali e carismatiche le prime storie continuano a parlare nella seconda e nelle future generazioni solo se accompagnate dalle seconde e terze storie. I francescani hanno tenuto vivo il francescanesimo e il cristianesimo aggiungendo le storie di Francesco a quelle dei Vangeli, e i francescani di oggi tengono vivo Francesco (e il Vangelo) aggiungendo i loro "atti" a quelli del Poverello di Assisi. Il primo patrimonio, il dono narrativo dei padri, non basta per continuare a vivere: è indispensabile anche il dono dei figli - che è anche dono per i padri, che riescono a non morire per sempre.
L’esaurimento del capitale narrativo è la causa più comune di crisi e di morte di una OMI. Non è facile sfuggire da questa sindrome mortale. Spesso ci si ammala e si soffre senza riuscire ad arrivare neanche alla diagnosi, e si attribuisce la crisi ad altre cause (mancanza di radicalità dei giovani, la cattiveria del mondo...). Altre volte si capisce che la crisi ha a che fare con la nostra incapacità di narrazione del cuore del carisma, si constata che il capitale narrativo non (ci) parla più, o non parla abbastanza, o parla alle persone sbagliate, ma si sbaglia la cura.
La cura errata più comune è l’aggiunta di nuove storie più facili da comprendere nel "secolo presente", ma che non hanno più il Dna della prima storia. Tanti finalmente capiscono, perché, semplicemente, stiamo raccontando un’altra storia. Così accade che una comunità nata da un carisma che voleva evangelizzare il mondo della famiglia, di fronte alla difficoltà di continuare a spiegare a loro stessi e a loro mondo le parole evangeliche della prima generazione, col tempo inizia a occuparsi di politiche familiari, adozioni, metodi naturali.
Queste nuove storie sono molto più vicine alla mutata sensibilità culturale, molto più facili da spiegare e da capire, più adatte per trovare finanziamenti e sostenitori. Ma il problema decisivo che si nasconde in simili operazioni, oggi comunissime, riguarda direttamente il capitale narrativo. La nuova associazione non può più utilizzare il primo capitale narrativo, che resta una risorsa per i soli archivi o per qualche frase per i biglietti di Natale. Qui non c’è innesto di nuove storie sul vecchio albero, ma soltanto la sostituzione del primo capitale narrativo con il nuovo. In certi casi, che sono una specie di questo stesso genere, in una prima fase la nuova parte del capitale narrativo cerca di mantenere il contatto con la sua componente originaria. Ma progressivamente le nuove storie di maggiore successo erodono le vecchie, fino a consumarle interamente.
Per molte persone queste trasformazione ed evoluzioni sono insite nella natura delle cose e della storia, ci sono sempre state, e sempre ci saranno. Altri, invece, vi vedono un problema grave e decisivo. Il nuovo capitale narrativo, semplice e facilmente comprensibile, non attrae vocazioni. La prima generazione era stata capace di conquistare persone disposte a dedicare la vita per quell’ideale, perché affascinate dalla profezia e dalla radicalità della promessa. Se la grande difficoltà di spiegare il primo messaggio genera progressivamente parole più semplici da capire perché depotenziate di carica ideale, ciò che accade è la trasformazione del tipo di persone attratte da quel messaggio. Quella persona che nella prima generazione aveva fatto di quell’ideale la o una dimensione identitaria della sua vita (questa è l’essenza di ogni vocazione) poco a poco scompare e al suo posto arrivano membri con una adesione sempre più leggera. In altre parole, il nuovo capitale narrativo non seleziona più vocazioni ma simpatizzanti, o lavoratori impiegati nelle opere (si spende la vita per Dio o per un mondo senza povertà, non per la "responsabilità sociale dell’impresa").
È così che si stanno estinguendo migliaia di comunità carismatiche e movimenti spirituali nati nel Novecento e nei secoli passati. Qualche volta dalla loro morte nascono nuove istituzioni, altre volte muoiono e basta, quando di fronte al probabile snaturamento dell’identità la comunità e i suoi responsabili reagiscono ostacolando o impedendo ogni aggiornamento del primo capitale narrativo. Si continuano a raccontare le prime storie, con lo stesso linguaggio, con le stesse parole che non affascinano più nessuno.
Un terzo esito, altrettanto infelice, è il riassorbimento del carisma dentro la tradizione che quel carisma avrebbe voluto innovare e cambiare. Di fronte alla difficoltà di spiegare, a se stessi e agli altri, il portato carismatico della propria comunità, si rinuncia alle componenti specifiche e nuove, e si "torna" a fare quelle stesse attività tradizionali che si volevano innovare - da giovani si voleva annunciare ad altre religioni e a non-credenti, da adulti si torna a fare catechismo per la cresima.
Questi e molti altri ancora sono gli scenari che approfondiremo e sviscereremo nelle prossime puntate di questa nuove serie. Cercheremo di capire quali buone strade di futuro esistono perché gli ideali possano continuare a nutrire la coscienza del mondo, perché l’innesto delle nuove storie sulle prime funzioni generi una nuova fioritura, nuovi frutti, nuovi colori. Ci chiederemo: è possibile davvero aggiornare, rigenerare, i capitali narrativi delle nostre comunità? Oppure la loro morte è inevitabile? Quali sono le trasformazioni generative? Come capire se stiamo tradendo la promessa o se la stiamo avverando? Domande e risposte difficili e rischiose, ma soprattutto necessarie.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CARISMA, COSTITUZIONE, E POLITICA: AL DI LA’ DELLA TRAPPOLA ATEA E DEVOTA.
LA CHIESA DI COSTANTINO, L’AMORE ("CHARITAS") E LA NASCITA DELLA DEMOCRAZIA DEI MODERNI. LA "CHARTA CHARITATIS" (1115), LA "MAGNA CHARTA" (1215) E LA FALSA "CARTA" DELLA "DEUS CARITAS EST" (2006).
PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA TEOLOGIA "MAMMONICA" (Benedetto XVI, "Deus caritas est"). Al di là della semantica e del paradigma degli affari e del "caro-prezzo" ("caritas").
PER UNA "ECONOMIA CIVILE" E UNA TEOLOGIA "CIVILE"!!!
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
MESSAGGIO EVANGELICO E ILLUMINISMO, OGGI: "SAPERE AUDE!" (I. Kant). AL DI LA’ DELLA LOGICA E DELLA DIALETTICA "SERVO-PADRONE"...
La parabola dei talenti
di ENZO BIANCHI (Monastero di Bose, 19 novembre 2017)
La parabola dei talenti proposta dalla liturgia odierna è una parabola che, secondo il mio povero parere, oggi è pericolosa: pericolosa, perché più volte l’ho sentita commentare in un modo che, anziché spingere i cristiani a conversione, pare confermarli nel loro attuale comportamento tra gli altri uomini e donne, nel mondo e nella chiesa. Dunque forse sarebbe meglio non leggere questo testo, piuttosto che leggerlo male...
In verità questa parabola non è un’esaltazione, un applauso all’efficienza, non è un’apologia di chi sa guadagnare profitti, non è un inno alla meritocrazia, ma è una vera e propria contestazione verso il cristiano che sovente è tiepido, senza iniziativa, contento di quello che fa e opera, pauroso di fronte al cambiamento richiesto da nuove sfide o dalle mutate condizioni culturali della società. La parabola non conferma neppure “l’attivismo pastorale” di cui sono preda molte comunità cristiane, molti “operatori pastorali” che non sanno leggere la sterilità di tutto il loro darsi da fare, ma chiede alla comunità cristiana consapevolezza, responsabilità, laboriosità, audacia e soprattutto creatività. Non la quantità del fare, delle opere, né il guadagnare proseliti rendono cristiana una comunità, ma la sua obbedienza alla parola del Signore che la spinge verso nuove frontiere, verso nuovi lidi, su strade non percorse, lungo le quali la bussola che orienta il cammino è solo il Vangelo, unito al grido degli uomini e delle donne di oggi quando balbettano: “Vogliamo vedere Gesù!” (Gv 12,21).
Leggiamo allora con intelligenza questa parabola la cui prospettiva - lo ripeto - non è economica né finanziaria; essa non è un invito all’attivismo ma alla vigilanza che resta in attesa, non contenta del presente ma tutta protesa verso la venuta del Signore. Egli non è più tra di noi, sulla terra, è come partito per un viaggio e ha affidato ai suoi servi, ai suoi discepoli un compito: moltiplicare i doni da lui fatti a ciascuno. Nella parabola, a due servi il Signore ha lasciato molto, una somma cospicua - cinque lingotti di argento a uno, due a un altro -, affinché la facciano fruttificare; a un terzo servo ha lasciato un solo lingotto, che comunque non è poco. In tutti egli ha messo la sua fiducia senza limiti, confidando loro i suoi beni. Spetta dunque ai servi non tradire la grande fiducia del padrone e operare una sapiente gestione dei beni, non di loro proprietà ma del padrone, il quale al suo ritorno darà loro la ricompensa. A ciascuno il padrone da in funzione della sua capacità, e il suo dono è anche un compito: custodire e far fruttificare.
Al di là dell’immagine dei talenti, che cos’è questo dono, in definitiva? Secondo Ireneo di Lione è la vita accordata da Dio a ogni persona. La vita è un dono che non va assolutamente sprecato, ignorato o dissipato. Purtroppo - dobbiamo constatarlo - per alcuni la vita non ha alcun valore: non la vivono, anzi la sprecano e la sciupano “fino a farne una stucchevole estranea” (Konstantinos Kavafis), e così si lasciano vivere. Eppure si vive una volta sola e il farlo con consapevolezza e responsabilità è decisivo al fine di salvare una vita o perderla! Secondo altri padri orientali, i talenti sono le parole del Signore affidate ai discepoli perché le custodiscano, certo, ma soprattutto le rendano fruttuose nella loro vita, le mettano in pratica fino a seminarle copiosamente nella terra che è il mondo. Di nuovo, è questione di vita, di “scegliere la vita” (cf. Dt 30,19).
“Dopo molto tempo” - allusione al ritardo della parusia, della venuta gloriosa del Signore (cf. Mt 24,48; 25,5) - il padrone ritorna e chiede conto della fiducia da lui riposta nei suoi servi, i quali devono mostrare la loro capacità di essere responsabili, in grado cioè di rispondere della fiducia ricevuta. Eccoli dunque presentarsi tutti davanti a lui. Colui che aveva ricevuto cinque talenti si è mostrato operoso, intraprendente, capace di rischiare, si è impegnato affinché i doni ricevuti non fossero diminuiti, sprecati o inutilizzati; per questo, all’atto di consegnare al padrone dieci talenti, riceve da lui l’elogio: “Bene, servo buono e fedele, ... entra nella gioia del tuo Signore”. Lo stesso avviene per il secondo servo, anche lui in grado di raddoppiare i talenti ricevuti. Per questi due servi la ricompensa è proporzionalmente uguale, anche se le somme affidate erano diverse, perché entrambi hanno agito secondo le loro capacità.
Viene infine colui che aveva ricevuto un solo talento, il quale mette subito le mani avanti, manifestando il pensiero che lo ha paralizzato: “Da quando mi hai dato il talento, io sapevo che sei un uomo duro, esigente, arbitrario, che fa ciò che vuole, raccogliendo anche dove non ha seminato”. Con queste sue parole (“dalle tue parole ti giudico”, si legge nel testo parallelo di Lc 19,22) il servo confessa di essersi fabbricato un’immagine distorta del Signore, un’immagine plasmata dalla sua paura e dalla sua incapacità di avere fiducia nell’altro: egli considera il padrone come qualcuno che gli fa paura, che chiede una scrupolosa osservanza di ciò che ordina, che agisce in modo arbitrario. Avendo questa immagine in sé, ha scelto di non correre rischi: ha messo al sicuro, sotto terra, il denaro ricevuto, e ora lo restituisce tale e quale. Così rende al padrone ciò che è suo e non ruba, non fa peccato... Ma ecco che il Signore va in collera e gli risponde: “Sei un servo malvagio (ponerós) e pigro (oknerós). Malvagio perché hai obbedito all’immagine perversa del Signore che ti sei fatta, e così hai vissuto un rapporto di amore servile, di amore ‘costretto’. Per questo sei stato pigro, inaffidabile, non hai avuto né il cuore né la capacità di operare secondo la fiducia che ti avevo accordato. Non hai fatto neanche lo sforzo di mettere il talento in banca, dove sarebbe stato fruttuoso, dandomi interessi. Non hai avuto cura del mio bene affidato a te”.
Sì, lo sappiamo: è più facile seppellire i doni che Dio ci ha dato, piuttosto che condividerli; è più facile conservare le posizioni, i tesori del passato, che andarne a scoprire di nuovi; è più facile diffidare dell’altro che ci ha fatto del bene, piuttosto che rispondere consapevolmente, nella libertà e per amore. Ecco dunque la lode per chi rischia e il biasimo per chi si accontenta di ciò che ha, rinchiudendosi nel suo “io minimo”. Questo servo non ha fatto il male; peggio ancora, non ha fatto niente! Dunque davanti a Dio nel giorno del giudizio compariranno due tipi di persone:
chi ha ricevuto e ha fatto fruttificare il dono,
chi lo ha ricevuto e non ha fatto niente.
I servi fedeli entreranno nella gioia del Signore; chi invece è stato “buono a nulla” (achreîos) sarà spogliato anche dei meriti che pensava di poter vantare!
Ma a me piacerebbe che la parabola si concludesse altrimenti: così sarebbe più chiaro il cuore del padrone, mentre il cuore del discepolo sarebbe quello che il padrone desidera. Oso dunque proporre questa conclusione “apocrifa”:
Venne il terzo servo, al quale il padrone aveva confidato un solo talento, e gli disse: “Signore, io ho guadagnato un solo talento, raddoppiando ciò che mi hai consegnato, ma durante il viaggio ho perso tutto il denaro. So però che tu sei buono e comprendi la mia disgrazia. Non ti porto nulla, ma so che sei misericordioso”. E il padrone, al quale più del denaro importava che quel servo avesse una vera immagine di lui, gli disse: “Bene, servo buono e fedele, anche se non hai niente, entra pure tu nella gioia del tuo padrone, perché hai avuto fiducia in me”.
Anche così la parabola sarebbe buona notizia!
*
MESSAGGIO EVANGELICO E ILLUMINISMO, OGGI: "SAPERE AUDE! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza" (I. Kant).
LA PAURA DI PENSARE E LA PARABOLA DEI TALENTI. Perché chiudere la nostra vita in una scatola? Una riflessione di Angelo Casati
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
DUE CRISTIANESIMI: COSA RESTA?! IL CRISTIANESIMO DEL "DEUS CHARITAS EST" O IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO DEL "DEUS CARITAS EST"?! O nessuo dei due?!
*** "Solo la carità cristiana insegna la prassi del Bene metafisico: Boni metaphysici praxim una CHARITAS christiana docet" (G.B. VICO, De constantia iurisprudentis, 1721). ***
INNANZITUTTO UN GRAN PLAUSO al prof . Armando Polito per il coraggioso intervento chiarificatorio sul tema (cfr. "Mesagne: Luca Antonio Resta, il vescovo e l’Affumicato":Fondazione Terra d’Otranto, 08/11/2017) e, al contempo, un modesto invito a riconsiderare i termini di una questione filologica e teologica di rilevantisima portata che ha il suo luogo di riferimento innanzitutto nei testi dell’evangelista Giovanni e poi nel famoso "INNO ALLA CARITÀ" di Paolo di Tarso, il romano persecutore dei cristiani (cfr.: MEMORIA FILOLOGICA E TEOLOGICA. GESU’, IL FIGLIO DELLA GRAZIA EVANGELICA ("CHARITAS") O IL "TESORO" DI "MAMMONA" ("CARITAS") E DI "MAMMASANTISSIMA" DEI FARAONI ?!!)
Come sappiamo da sempre, non si possono servire "due padroni", la Verità e la Menzogna contemporaneamente, "Dio Amore" e Dio Mammona" nello stesso tempo!!! Ciò che è in gioco è la questione delle questioni, quella stessa dell "ragione" e della "fede" unitamente, a tutti i livelli.
"CHARITAS" o "CARITAS"? COSA RESTA?!
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori.
MURATORI E RATZINGER: "DEUS CARITAS EST"!!! FINE DEL CRISTIANESIMO: TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
SE UN PAPA TEOLOGO SCRIVE LA SUA PRIMA ENCICLICA, TITOLANDOLA "DEUS CARITAS EST" ("CHARITAS", SENZA "H"), E’ ORA CHE TORNI A CASA, DA "MARIA E GIUSEPPE", PER IMPARARE UN PO’ DI CRISTIANESIMO; E CERCHI DI SAPERE "CHI" SIAMO NOI IN REALTÀ.
Federico La Sala
L’ITALIA, IL SEDILE, LA SELLA CURULE, LA "X" DI "REX" E "DUX", HENRY W, LONGFELLOW, E IL "DVX" DEL FASCISMO.... *
AD AMPLIARE e a contribuire a rendere più comprensibili ed evidenti i nessi tra i vari livelli del brillante lavoro di Armando Polito sul SEDILE di Nardò (Lecce), è bene tenere presente e ricordare cosa era la SELLA CURULE nella società dell’antica Roma:
"La sella curule (in lat. sella curulis) era un sedile pieghevole a forma di "X" ornato d’avorio, simbolo del potere giudiziario, riservato inizialmente ai re di Roma e in seguito ai magistrati superiori dotati di giurisdizione, detti perciò "curuli".
I magistrati solevano portare con sé la sella curulis assieme agli altri simboli del loro potere (fasci, verghe e scuri) e ovunque disponessero questi simboli, lì era stabilita la sede del loro tribunale.
Durante il periodo della Repubblica, il diritto di sedere sulla sella curule era riservato a: consoli, pretori, edili curuli, sacerdoti massimi, dittatori e al magister equitum. In epoca imperiale l’uso della sedia curule fu ampliato anche all’imperatore, al praefectus urbi e ai proconsoli.
Il simbolo di potere rappresentato dalla sedia curule affonda le sue radici nell’antica Etruria; infatti già gli Etruschi consideravano lo scranno pieghevole a forma di sella una prerogativa di chi poteva esercitare il potere (giudiziario ed esecutivo) sul popolo. Fu portato a Roma dal quinto re, Tarquinio Prisco.[1]
RICORDARE CHI ERA HENRY W. LONGFELLOW:
"Henry Wadsworth Longfellow (Portland, 27 febbraio 1807 - Cambridge, 24 marzo 1882) è stato uno scrittore e poeta statunitense, tra i primi letterati americani ad assurgere alla fama mondiale.
Longfellow fu il più famoso poeta della scena del New England nell’’800 e scrisse numerose opere tra cui Evangeline e Il faro.
Fu un acceso promotore dell’abolizione della schiavitù negli anni prima e durante la Guerra Civile Americana insieme ad altri intellettuali che gravitavano nell’orbita di Harvard e soprattutto insieme all’allora Governatore del Massachusetts John Andrew.
Intorno al 1862 insieme ai letterati James Russell Lowell, Oliver W. Holmes e George Washington Greene diede vita al cosiddetto "Circolo Dante", atto a promuovere la conoscenza della Divina Commedia di Dante Alighieri negli Stati Uniti. Insieme ai suoi colleghi del circolo, Longfellow ne portò a termine la prima traduzione statunitense in inglese nel 1867.
Da allora il successo dell’opera di Dante in America fu costante ed in seguito il Circolo diventò la "Dante Society", una delle più famose associazioni di dantisti nel mondo [...]" (cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Henry_Wadsworth_Longfellow).
LE PAROLE ("DVX-LVX, REX-LEX") SCRITTE SULLA "CROCE" INSCRITTA NEL "CERCHIO" SULLA TOMBA DI LONGFELLOW sicuramente - via Dante Alighieri (e probabilmente anche via Dante Gabriele Rossetti) - si ricollegano al filo della tradizione religiosa cristiana, e sono riferite a CRISTO, concepito come LUCE, LEGGE, RE, DUCE.
E, ANCORA, per capire come e perché siano apparse le scritte "REX" e "DVX" sulla parete del SEDILE di Nardò (Lecce), bisogna RICORDARE chi era MARGHERITA GRASSINI SARFATTI e rileggere il suo "DVX" (sul tema, mi sia consento, cfr IL MITO DELLA ROMANITÀ E IL FASCISMO: MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE).
E, INFINE, PER CAPIRE MEGLIO, E ALLA LUCE DEL SOLE ("INVICTUS"), IL SENSO DELLE "QUATTRO PAROLE" (LVX, LEX, REX, DVX), LEGGERE E RILEGGERE E ANCORA RILEGGERE LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA ....
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
EDUCAZIONE? AL DI LA’ DELLA DIALETTICA "PADRONE-SERVO"! CHI EDUCA CHI: INSEGNARE A VOLARE. I SOGGETTI sono DUE, e tutto è da ripensare...
Pur condividendo con l’Autore di "Una domanda eterna: che cosa significa educare?" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/09/10/domanda-eterna-cosa-significa-educare/), la linea strategica della sua riflessione ("della libertà faccio il perno centrale dell’educazione, un perno che ricomprende l’idea di educazione come introduzione alla realtà, il punto che sussume tutti i percorsi e le esperienze attivate per educare i cittadini di domani a una vita virtuosa"), credo che sia necessario e opportuno (anche sul filo delle sue stesse accennate indicazioni di Aristotele, Rousseau, Kant) portarci oltre e RIFLETTERE su quanto nella domanda è "nascosto", vale a dire su "CHI" educa "CHI" - a tutti i livelli! I SOGGETTI sono DUE, e tutto è da ripensare...
Se di Rousseau non vogliamo (continuare a) farne un teorizzatore dell’e-duc-azione autoritaria ( "ex-DUX-azione"), dobbiamo problematizzare proprio la sua frase finale, (ripresa dall’ "Emilio"), sull’uomo virtuoso, sul diventare "padrone di se stesso", e sul comandare al proprio "cuore", e, con lo stesso Rousseau, reinterrogarci sulla nostra condizione: "L’uomo è nato libero, e ovunque è in catene. Anche chi si crede padrone degli altri, non è per questo meno schiavo degli altri" ("Il contratto sociale"); e, insieme, sul tema del "CAPO" (preziosa al riguardo la "lezione" di Gramsci del 1924, si cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5154).
La questione è "eterna" ed è ... intrecciata con la questione delle Sibille e dei Profeti di Copertino (cfr. Pierpaolo Parsi: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/30/copertino-si-scopre-casa-delle-sibille/), con la filologia e l’affresco di sant’Agostino di Nardò (cfr. M. Gaballo: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/28/laffresco-di-santagostino-nella-cattedrale-di-nardo/), e, ancora e in particolare, con il lavoro di Sigmund Freud. Non a caso in un mio lavoro su questi temi (cfr.: "Della Terra, il brillante colore. Parmenide, una "Cappella Sistina" carmelitana con 12 Sibille (1608), le xilografie di Filippo Barberi (1481) e la domanda antropologica", Prefazione di Fulvio Papi, Milano 2013), un capitolo è dedicato al problema J.-J. ROUSSEAU: "Al di là della cecità edipico-parmenidea e al di là della "società civile". J.-J. Rousseau: una coscienza aperta e una triplice fedeltà" (pp. 101-110).
PER ANDARE AVANTI democraticamente occorre rimeditare (come Pierpaolo Tarsi sollecita a fare) la lezione kantiana racchiusa nell’immagine della colomba della "Critica della Ragion Pura", occorre INSEGNARE A VOLARE. E, su questo, il contributo di KANT è enorme. Se si vuole uscire dallo "stato di minorità", non si può non tenerne conto!
ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN (si cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829)!
Federico La Sala
La durezza del Capitale
Ricorrenze. L’11 settembre l’opera di Karl Marx compirà i suoi primi 150 anni. La stesura del libro, iniziata nel 1862, venne funestata dalla povertà economica dell’autore e dalla sua precaria salute
di Marcello Musto (il manifesto, 08.09.2017)
L’opera che, forse più di qualunque altra, ha contribuito a cambiare il mondo, negli ultimi centocinquant’anni, ebbe una lunga e difficilissima gestazione. Marx cominciò a scrivere Il capitale solo molti anni dopo l’inizio dei suoi studi di economia politica. Se aveva criticato la proprietà privata e il lavoro alienato della società capitalistica già a partire dal 1844, fu solo in seguito al panico finanziario del 1857, iniziato negli Stati Uniti e poi diffusosi anche in Europa, che si sentì obbligato a mettere da parte le sue incessanti ricerche e iniziare a redigere quella che chiamava la sua «Economia».
CON L’INSORGERE della crisi, Marx presagì la nascita di una nuova stagione di rivolgimenti sociali e ritenne che la cosa più urgente da fare fosse quella di fornire al proletariato la critica del modo di produzione capitalistico, presupposto essenziale per il suo superamento. Nacquero così i Grundrisse, otto corposi quaderni nei quali, tra le altre tematiche, egli prese in esame le formazioni economiche precapitalistiche e descrisse alcune caratteristiche della società comunista, sottolineando l’importanza della libertà e dello sviluppo dei singoli individui. Il movimento rivoluzionario, che egli credeva sarebbe sorto a causa della crisi, restò un’illusione e Marx non pubblicò i suoi manoscritti, consapevole di quanto fosse ancora lontano dalla piena padronanza degli argomenti affrontati. L’unica parte data alle stampe, dopo una profonda rielaborazione del «Capitolo sul denaro», fu Per la critica dell’economia politica, testo che uscì nel 1859 e che venne recensito da una sola persona: Engels.
Il progetto di Marx era quello di dividere la sua opera in sei libri. Essi avrebbero dovuto essere dedicati a: capitale, proprietà fondiaria, lavoro salariato, Stato, commercio estero, mercato mondiale. Quando, però, nel 1862, a causa della guerra di secessione americana, la New York Tribune licenziò i suoi collaboratori europei, Marx - che aveva lavorato per il quotidiano americano per oltre un decennio - e la sua famiglia ritornarono a vivere in condizioni di terribile povertà, le stesse patite durante i primi anni del loro esilio londinese. Non aveva che l’aiuto di Engels, al quale scrisse: «ogni giorno mia moglie mi dice che vorrebbe essere nella tomba con le bambine e, in verità, non posso fargliene una colpa, poiché le umiliazioni e le pene che stiamo subendo sono davvero indescrivibili».
La sua condizione era così disperata che, nelle settimane più buie, vennero a mancare il cibo per le figlie e la carta per scrivere. Cercò anche di ottenere un impiego in un ufficio delle ferrovie inglesi. Il posto, però, gli venne negato a causa della sua pessima grafia. Pertanto, per poter fare fronte all’indigenza, il lavoro di Marx continuò a subire grandi ritardi.
Ciò nonostante, in questo periodo, in un lunghissimo manoscritto intitolato Teorie sul plusvalore, compì un’accuratissima disamina critica del modo in cui tutti i maggiori economisti avevano erroneamente trattato il plusvalore come profitto o rendita. Per Marx, invece, esso costituiva la forma specifica mediante la quale si manifesta lo sfruttamento nel capitalismo. Gli operai trascorrono una parte della loro giornata a lavorare gratuitamente per il capitalista.
QUEST’ULTIMO CERCA in tutti i modi di generare plusvalore mediante il pluslavoro: «non basta più che l’operaio produca in generale, deve produrre plusvalore», ovvero deve servire all’autovalorizzazione del capitale. Il furto di anche solo pochi minuti sottratti al pasto o al riposo di ogni lavoratore significa lo spostamento di un’immensa mole di ricchezza nelle tasche dei padroni. Lo sviluppo intellettuale, l’adempimento di funzioni sociali, il tempo festivo sono per il capitale «fronzoli puri e semplici». Après moi le déluge! era per Marx - anche in considerazione della questione ecologica (da lui presa in considerazione come pochi altri autori del suo tempo) - il motto dei capitalisti, anche se poi, ipocritamente, si opponevano alla legislazione sulle fabbriche in nome della «piena libertà del lavoro». La riduzione dei tempi della giornata lavorativa, assieme all’aumento del valore della forza-lavoro, costituivano, dunque, il primo terreno sul quale andava combattuta la lotta di classe.
NEL 1862, Marx scelse il titolo per il suo libro: Il capitale. Credeva di poter dare subito inizio alla stesura in forma definitiva, ma alle già durissime vicissitudini finanziarie si aggiunsero i gravissimi problemi di salute. Comparve, infatti, quella che la moglie Jenny definì «la terribile malattia», contro la quale Marx avrebbe dovuto lottare per molti anni della sua vita. Fu affetto dal carbonchio, un’orrenda infezione che si manifestava con l’insorgenza, in più parti del corpo, di una serie di ascessi cutanei e di estese, debilitanti foruncolosi. A causa di una profonda ulcera, seguita alla comparsa di un grande favo, Marx fu operato e «rimase, per parecchio tempo, in pericolo di vita». La sua famiglia fu, più che mai, sull’orlo dell’abisso.
IL MORO (era questo il suo soprannome), però, si riprese e, fino al dicembre del 1865, realizzò la vera e propria stesura di quello che sarebbe diventato il suo magnum opus. Inoltre, a partire dall’autunno del 1864, partecipò assiduamente alle riunioni dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, per la quale redasse, durante otto intensissimi anni, tutti i principali documenti politici. Studiare di giorno in biblioteca, per mettersi al passo con le nuove scoperte, e portare avanti il suo manoscritto nel corso della notte: fu questa la sfibrante routine alla quale si sottopose Marx fino all’esaurimento di ogni energia e allo sfinimento del suo corpo.
Anche se aveva ridotto il suo progetto iniziale di sei libri a tre volumi sul capitale, Marx non voleva abbandonare il proposito di pubblicarli tutti insieme. Scrisse, infatti, a Engels: «non posso decidermi a licenziare nulla prima che il tutto mi stia davanti. Quali che siano i difetti che possono avere, questo è il pregio dei miei libri: essi costituiscono un tutt’uno artistico, risultato raggiungibile soltanto grazie al mio sistema di non darli alle stampe prima che io li abbia interamente davanti a me».
Il dilemma di Marx - «ripulire una parte del manoscritto e consegnarla all’editore o finire di scrivere prima tutto completamente» - venne risolto dagli eventi. Marx fu colpito da un altro attacco di carbonchio, il più virulento di tutti, e fu in pericolo di vita. A Engels raccontò che ne era «andata della pelle»; i medici gli avevano detto che le cause della sua ricaduta erano stati l’eccesso di lavoro e le continue veglie notturne: «la malattia veniva dalla testa». A seguito di questi avvenimenti, Marx decise di concentrarsi sul solo Libro Primo, quello inerente il «Processo di produzione del capitale».
TUTTAVIA, I FAVI continuarono a tormentarlo e, per intere settimane, Marx non fu nemmeno in grado di stare seduto. Egli tentò persino di operarsi da solo. Si procurò un rasoio ben affilato e raccontò a Engels di essersi «estirpato lui stesso quella cosa dannata». Stavolta, il completamento dell’opera non venne procrastinato a causa «della teoria», ma per «ragioni fisiche e borghesi».
Quando, nell’aprile del 1867, il manoscritto venne finalmente ultimato, Marx chiese all’amico di Manchester - che l’aveva aiutato incessantemente per un ventennio - di inviargli il denaro per poter disimpegnare «il vestiario e l’orologio che si trovano al Monte dei pegni». Marx era sopravvissuto con il minimo indispensabile e senza quegli oggetti non poteva partire per la Germania, dove era atteso per la consegna del manoscritto da dare alle stampe.
Le correzioni delle bozze si protrassero per tutta l’estate e quando Engels fece notare a Marx che l’esposizione della forma del valore risultava troppo astratta e che «risentiva della persecuzione dei foruncoli», questi gli rispose: «spero che la borghesia si ricorderà dei miei favi fino al giorno della sua morte».
Il capitale venne messo in commercio l’11 settembre del 1867. Un secolo e mezzo dopo la sua pubblicazione, è annoverato tra i libri più tradotti, venduti e discussi della storia dell’umanità.
Per quanti vogliano comprendere cosa sia davvero il capitalismo, e anche perché i lavoratori debbano lottare per una «forma superiore di società, il cui principio fondamentale sia lo sviluppo pieno e libero di ogni individuo», Il capitale è, oggi più che mai, una lettura semplicemente imprescindibile.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. MARX, IL "LAVORO - IN GENERALE", E IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE - IN GENERALE".
DELLO SPIRITO DI ALEXANDRE KOJÈVE (Mosca 1902 - Parigi 1968).
PORTARE LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DI "DUE IO" AL DI LA’ DELLE MAGLIE DELLA DIALETTICA HEGELIANA.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
Federico La Sala
FILOLOGIA E FILOSOFIA/TEOLOGIA. AMORE, RESPONSABILITÀ, E SESSUALITÀ... *
IN MEMORIA DI SANT’AGOSTINO (E IN ONORE DEL LAVORO DELLA FONDAZIONE "TERRA D’OTRANTO").
Lode a Marcello Gaballo per questa bellissima e preziosa nota su "L’affresco di sant’Agostino nella cattedrale di Nardò" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/28/laffresco-di-santagostino-nella-cattedrale-di-nardo/#_ftn1) - e il lavoro di De Giorgi: la sua trascrizione della scritta sul cartiglio (ormai scomparsa) "iuste/et cas/te viv/ere et/ xarita(te)" - contrariamente alla protervia che ha portato allo "sproposito maiuscolo" e alla brutta abitudine instauratasi almeno a partire da Ludovico A, Muratori di una "caritas" latina! - conserva ancora la memoria del legame della tradizione dell’evangelo (non: "vangelo"!) con la lingua greca ("charis", "charites"... "charitas").
FILOLOGIA E FILOSOFIA/TEOLOGIA. Giambattista Vico ("De constantia iurisprudentis", 1721) giustamente e correttamente e onestamente così pensava e scriveva: "Solo la carità cristiana insegna la prassi del Bene metafisico"("Boni metaphysici praxim una charitas christiana docet"). Sapeva che Gesù ("Christo") aveva cacciato i mercanti FUORI dal tempio, e non aveva autorizzato i sacerdoti a vendere a "caro-prezzo" (lat.: "caritas") la "grazia" (gr.: "Xapis", lat.: "Charis") di Dio (lat.: "Charitas")!!! Due padroni: Dio "Charitas" o dio "Caritas"?!, Dio Amore o dio Mammona?! In questo bivio ("X") ancora siamo, oggi - e ancora non sappiamo sciogliere l’incognita (""x")!
Sul tema, mi sia consentito, si cfr. la seguente nota:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori.
MURATORI E RATZINGER. "DEUS CARITAS EST": FINE DEL CRISTIANESIMO. TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
ALLA LUCE DEL lavoro di ARMANDO POLITO e MARCELLO GABALLO SU "SANTA MARIA DI CASOLE E LE SUE SIBILLE" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/24/santa-maria-casole-copertino-le-sue-sibille/), all’affresco di Sant’Agostino (databile forse più precisamente nella seconda metà del sec. XV), mi augurerei una rinnovata e maggiore attenzione non solo a tutta la figura dell’affresco ma, in particolare, all’immagine del bastone-pastorale con i suoi DUE SERPENTI. Essa richiama, con chiarezza, non solo la figura di Mosè ma anche e soprattutto la figura di ERMETE TRISMEGISTO con il suo caducèo (e, con essa, della Sibilla Pizia, di Apollo, e di Delfi).
L’affresco di Sant’Agostino nella cattedrale di Nardò, a mio parere, è un luminosissimo segno "manifesto" della diffusione della concezione umanistico-rinascimentale nella Terra d’Otranto e, insieme, del grande lavoro che porterà infine la Chiesa e Michelangelo a celebrare le Sibille (5) insieme ai Profeti (7) nella Volta della Cappella Sistina: ovvero, dice chiaramente del ruolo "giocato" dalla figura di Agostino nella costruzione dell’ orizzonte ecumenico umanistico e rinascimentale.
Sul tema, si cfr., unitamente al già citato lavoro di A. Polito e M. Gaballo, la mia nota sul
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
NEL LIBRO DI Marcello Gaballo e Armando Polito, "Santa Maria di Casole a Copertino (Lecce) ed altri repertori di Sibille" (Fondazione Terra d’Otranto 2017), è ripreso l’intero capitolo 23 del Libro XVIII del "De civitate Dei" (per eventuali approfondimenti, si cfr. sant’Agostino, "La città di Dio": http://www.augustinus.it/italiano/cdd/index2.htm)
PER MEGLIO CAPIRE il filo che lega l’ecumenismo umanistico-rinascimentale (Niccolò Cusano, "La pace della fede", 1453) con l’ecumenismo del presente attuale (nuovo Concilio di Nicea, 2025) e, insieme, la portata simbolica del particolare PASTORALE di sant’Agostino nell’affresco della Cattedrale di Nardò, mi sia consentito rinviare all’immagine del pastorale del Patriarca di Costantinopoli e all’intervista relativa all’ INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5791).
Federico La Sala
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Amore e responsabilità (Karol J. Wojtyla) - e "caritas" (J. Ratzinger) !!! Fonti cattoliche a confronto...
MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?!
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
Chi ha paura di Jorge Mario Bergoglio
di Riccardo Cristiano (Articolo 21, 1 settembre 2017)
Le anticipazioni di un libro intervista che contiene la trascrizione di dodici dialoghi con il sociologo Dominique Wolton (titolo: “Politique et sociétéˮ, edizioni L’Observatoire) riferiscono che Papa Francesco ha detto di essere andato per alcuni mesi da una psicanalista. In queste ore non sono pochi i giornali che riferiscono le condanne preconciliari della psicanalisi. Forse è il bisogno di trovare qualcosa di “inaudito” in quanto ha detto Bergoglio. Eppure a partire da Pio XII, passando attraverso gli apprezzamenti positivi del Vaticano II nei confronti della psicologia del profondo, si è giunti al riconoscimento di Paolo VI - nella Sacerdotalis coelibatus (1967) - della possibile necessità di un aiuto psicanalitico per i sacerdoti in difficoltà. Questa evoluzione è stata facilitata da una schiera di psicoanalisti dichiaratamente cattolici.
C’è un saggio, ad esempio, del professor Bresciani sul debito della Chiesa verso la psicoanalisi e Sigmund Freud nel quale possiamo leggere: “Freud, nonostante proponesse una vera e propria antropologia, militava decisamente per l’alleanza terapeutica con il malato; mettendosi a livello del sofferente si prestava ad un ascolto profondo e ad una partecipazione alla sua vita emotiva. [Un studio del professor] Ancona vede qui un Freud vicino alla pedagogia cristiana più di quanto egli stesso pensasse. Il suo ideale di uomo come colui che è capace di «amare e lavorare», la sua posizione sulla possibilità di sublimazione della sessualità, la conclusione della sua opera di ricerca con l’affermazione che la coscienza «resta la sola luce che nelle tenebre della vita psichica ci illumina e ci guida», erano posizioni passibili di sviluppi meno conflittuali.”
Passa in ombra così l’usuale coraggio di Jorge Mario Bergoglio, che anche in questa “confessione” di essere andato per sei mesi da una psicanalista ebrea, che lo ha molto aiutato, sembra stare in questo: anch’io sono un uomo, e tutti gli uomini hanno bisogno di aiuto. Lo dice lui, noi lo diciamo molto più difficilmente. -L’epoca buia dello scontro tra religione e psicanalisi è andata in soffitta da tempo. Ma siccome siamo in un’epoca che si fa nuovamente buia, intrisa di odio per l’altro, di pregiudizio, fondamentalmente di paura, sono moltissime le affermazioni fatte da Papa Francesco che colpiscono. E che per leggere bene dovremmo avere il suo stesso coraggio, cioè quello di toglierci il paraocchi e leggere per quel che sono. Un invito ad andare oltre gli steccati di oggi, oltre quei confini che ci chiudono in ghetti tanti asfittici quanto rassicuranti.
Leggiamo alcuni altri passaggi fondamentali delle sue riflessioni, partendo dall’ Africa e i migranti.
“[...]L’Europa ha sfruttato l’Africa ... non so se possiamo dirlo! Ma alcune colonizzazioni europee... sì, hanno sfruttato. Ho letto che un capo di stato africano appena eletto come primo atto di governo ha presentato al Parlamento una legge per il rimboschimento del suo paese - ed è stata promulgata. Le potenze economiche del mondo avevano tagliato tutti gli alberi. Rimboschire. La terra è secca per essere stata sfruttata e non c’è più lavoro. La prima cosa da fare, come ho detto alle Nazioni Unite, al Consiglio d’Europa in tutto il mondo, è trovare qui fonti per creare di posti di lavoro, investire. È vero che l’Europa deve investire anche a casa propria. Anche qui esiste un problema di disoccupazione. L’altro motivo per la migrazione è la guerra. Possiamo investire, le persone avranno una fonte di lavoro e non dovranno partire, ma se c’è guerra, dovranno ancora fuggire. Ora chi fa la guerra? Chi dà le armi? Noi.”
Per un uomo come Papa Francesco generalizzare è sempre difficile, ma se proprio deve farlo non generalizza sulle “razze”, ma sulle azioni degli Stati e le loro conseguenze. Per condannare? No, per esortare a invertire tendenza, a non cercare scorciatoie, a non vedere nelle vittime degli esseri inferiori, ma delle vittime.
Passiamo a Laicità e religioni. “Lo stato laico è una cosa sana. C’è una laicità sana. [...] Credo che la Francia - questo è il mio parere personale, non quello ufficiale della Chiesa - dovrebbe “elevareˮ un po’ il livello della laicità, nel senso che deve dire che anche le religioni sono parte della cultura. Come esprimerlo in modo laico? Attraverso l’apertura alla trascendenza. Ognuno può trovare la sua forma di apertura.” Come si vede, come si legge, qui non c’è una pretesa di superiorità del credente, ma la rivendicazione della spiritualità dell’uomo, del suo bisogno “naturale” di trascendenza.
Quarto punto, l’Europa. “Non vedo più Schumann, non vedo più Adenauer... L’Europa, in questo momento, ha paura. Chiude, chiude, chiude... L’Europa ha una storia di integrazione culturale, multiculturale come dice lei, molto forte. I Longobardi, i nostri Longobardi oggi, sono barbari che sono arrivati molto tempo fa... E poi tutto si fonde e abbiamo la nostra cultura. Ma qual è la cultura europea? Come definirei oggi la cultura europea? Sì, ha importanti radici cristiane, è vero. Ma non è sufficiente per definirla. Ci sono tutte le nostre capacità. Queste capacità per integrarsi, per ricevere gli altri. C’è anche la lingua nella cultura. Nella nostra lingua spagnola, il 40% delle parole è arabo. Perché? Perché erano lì per sette secoli. E hanno lasciato il segno... Credo che l’Europa abbia delle radici cristiane, ma non sono le uniche. Ci sono altre che non possono essere negati. Tuttavia, credo che sia stato un errore non citare le “radici cristianeˮ nel documento dell’Unione europea sulla prima Costituzione, e questo è stato anche commesso dai governi. Era un errore non vedere la realtà. Questo non significa che l’Europa debba essere interamente cristiana. Ma è un patrimonio, un patrimonio culturale, che abbiamo ricevuto.”
C’è qualcosa di enorme in queste parole, in questa capacità di ricordarci che quel che è stato vero ieri è vero anche oggi. Non esiste purezza, esiste contaminazione. La purezza è delle pietre, la contaminazione è della vita. Anche se non vogliamo più capirlo qualcuno, per fortuna, ce lo ripete.
L’insistenza sulla morale «sotto la cintura». “Ma noi cattolici, come insegniamo la moralità? Non puoi insegnarla con precetti del tipo: “Non puoi farlo, devi farlo, devi, non devi, puoi, non puoiˮ. La morale è una conseguenza dell’incontro con Gesù Cristo. È una conseguenza della fede, per noi cattolici. E per altri, la moralità è una conseguenza dell’incontro con un ideale, o con Dio, o con se stessi, ma con la parte migliore di se stessi. La morale è sempre una conseguenza... C’è un grande pericolo per i predicatori, quello di cadere nella mediocrità. Condannare solo la morale - la prego di perdonare l’espressione - “sotto la cinturaˮ. Ma degli altri peccati, quali l’odio, l’invidia, l’orgoglio, la vanità, l’uccisione dell’altro, prendere la vita, non se ne parla. Entrare nella mafia, fare accordi clandestini...”
Il Vaticano, se posso dir così, è apparso a lungo strabico: l’etica vista dalla Città del Vaticano sembrava riguardare l’inizio e la fine della vita, la morale limitata alla sfera sessuale... Ora l’etica torna a riguardare tutta la vita, dal momento in cui si concepisce a quando si muore, passando però per tutti i momenti della nostra esistenza: da quando sfruttiamo a quando veniamo sfruttati, da quando siamo vittime a quando facciamo nostra vittima un altro. Poco?
Amoris laetitia e rigidità. “La tentazione è sempre quella dell’uniformità delle regole... Prenda ad esempio l’esortazione apostolica Amoris laetitia. Quando parlo di famiglie in difficoltà, dico: “Dobbiamo accogliere, accompagnare, discernere, integrare...ˮ e poi ciascuno vedrà le porte aperte. Quello che sta realmente accadendo è che le persone sentono dire la gente: “Non possono fare la comunione”, “Non possono farlo”: la tentazione della Chiesa è lì. Ma “noˮ, “noˮ e “noˮ!”
Papa Francesco parla di uniformità delle regole, si potrebbe dire che allora la sua Chiesa non si pensa un giudice eterno ed esterno alla storia. Poco?
«L’aborto rimane un peccato grave». “ L’estensione del potere di assolvere il peccato dell’aborto a tutti i sacerdoti, «attenzione, questo non significa banalizzare l’aborto. L’aborto è grave, è un peccato grave. È l’omicidio di un innocente. Ma se c’è peccato, è necessario facilitare il perdono.” Un papa non poteva fare un esempio più rilevante e drammatico per indicare la portata rivoluzionaria della misericordia. Che non è “cancellare il peccato”, ma rigenerare la vita del peccatore. La misericordia così appare la vera cultura alternativa all’odio e, quindi, al terrorismo.
Reciprocità con i musulmani. “Non accettano il principio della reciprocità. Alcuni paesi del Golfo sono aperti e ci aiutano a costruire chiese. Perché sono aperti? Perché hanno lavoratori filippini, cattolici, indiani... Il problema in Arabia Saudita è che è davvero una questione di mentalità. Con l’Islam, comunque, il dialogo sta andando bene, perché non so se lo sa, ma l’Imam di Al-Azhar è venuto a trovarmi. E ci sarà incontro: vado. Penso che farebbe bene a loro fare uno studio critico sul Corano, come abbiamo fatto con le nostre Scritture. Il metodo storico e critico di interpretazione li farà evolvere.”
E’ questo il punto per me più importante, più forte. Senza nessuna pretesa di superiorità, né religiosa né culturale, Bergoglio indica la strada della salvezza dell’islam, in una parola: ermeneutica. Non esita a far presente ai suoi interlocutori il punto decisivo, il punto “critico”, ma lo fa per il bene dell’islam, dei musulmani. E questo, francamente, è commovente.
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SUL TEMA, BEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
EUROPA ED EVANGELO. LA ’CROCE’ DI CRISTO ("X" = lettera alfabeto greco) NON HA NIENTE A CHE FARE CON IL "CROCIFISSO" DELLA TRADIZIONE COSTANTINIANA E CATTOLICO-ROMANA.
Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è morto.
INDIETRO NON SI TORNA: GIOVANNI PAOLO II, L’ULTIMO PAPA. PER IL DIALOGO A TUTTI I LIVELLI: UT UNUM SINT.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
L’URLO ("HOWL") DI FINNEGANS: "WAKE", "SVEGLIARSI"!
DOMANDE, SAPERE, E POTERE (TEOLOGICO POLITICO PEDAGOGICO E SESSUALE): ...
“FAQ”, “FAKE”, “FUCK”: ATTENZIONE A QUESTE TRE PAROLE ormai di uso comune. Facendo interagire la loro scrittura, la loro pronuncia, e i loro significati, viene alla luce un prezioso invito ad “avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza” (Kant) e a porre “domande su tutto!” (Confucio).
Alle "domande poste frequentemente" (“Frequently Asked Questions, meglio conosciute con la sigla FAQ - pronuncia, in inglese: “F”, “A”, “Q”), CHI risponde (?!), se SA, dà le risposte che sa (fa il suo dovere, e si ferma!), ma, se NON sa e pretende di sapere (come spesso accade - in un abuso di autorità permanente e, ovviamente, di non rispetto di CHI pone le domande), dà solo risposte “false e bugiarde” (FAKE - parola inglese, pronuncia “feik”, che sta a significare "falso", "contraffatto", "alterato". Nel gergo di internet, un fake è un utente che falsifica in modo significativo la propria identità), che cercano solo di ingannare, fregare, fottere in tutti i sensi ( FUCK - parola inglese, pronuncia “fak” - "fach", " faq!": come interiezione equivale all’italiano - cazzo!, come sostantivo: scopata, come verbo: scopare, fottere!).
Non è meglio sapere CHI siamo e cercare di uscire dalla caverna - con Polifemo, Ulisse e compagni (come con il Minotauro, Teseo e Arianna) - senza "fottere" Nessuno e senza mandare Nessuno a farsi “fottere”! O no? La tragedia è finita da tempo!
Federico La Sala
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A) James Joyce, Finnegans Wake (Libro Primo V-VIII, Oscar Mondadori, Milano 2001, pp. 195-195 bis):
"He lifts the lifewand and the dumb speak
Quoiquoiquoiquoiquoiquoiquoiq"
"Egli brandisce la bacchetta della vita e i muti parlano
Quoiquoiquoiquoiquoiquoiquoiq" *
Quoì-quoì-quoì-quoì-quoì-quoì-quoì...
Quà-quà-quà-quà-quà-quà-quà-quà-quà...
B) Gesù - nel messaggio evangelico, cfr. Marco 7, 31-37:
Di ritorno dalla regione di Tiro, passò per Sidone, dirigendosi verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.
E gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano.
E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: «Effatà» cioè: «Apriti!».
E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
C) KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
D) A SCUOLA CON JOYCE. LEGGERE E RILEGGERE FINNEGANS WAKE.
E) "CHI" SIAMO: LA LEZIONE DEL PRESIDENTE MANDELA, AL SUDAFRICA E AL MONDO.
Federico La Sala
CROCE “CRISTIANO” , VICO “ATEO”, E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA... *
La prosa clericale di un laico antico
di Giorgio Pecorini (il manifesto, 25 agosto 2012)
La pagina conclusiva dei «Coni d’ombra» in cui Marco D’Eramo (il manifesto del 18 agosto) ha perpetrato quel «crimine di lesa crocianità» di cui molto si è doluto Massimo Raffaeli (21 agosto), inviata a farsi. Non m’avventuro certo in astrattezze filosofiche o esegesi storiche: conto soltanto sulle capacità osservatorie del mio mestiere di cronista. Incoraggiato e aiutato questa volta dalle osservazioni di Norberto Bobbio sul «giustificazionismo intrinseco» ricordate dallo stesso D’Eramo nella sua replica (sempre il 21). E torno, recidivo, al famoso Perché non possiamo non dirci cristiani pubblicato da Benedetto Croce su La Critica del 20 novembre 1942 e due anni dopo ristampato in fascicolo, sempre nel pieno delle seconda guerra mondiale.
In quel suo saggio il filosofo si dichiara impegnato a scrivere con libero spirito laico «né per gradire né per sgradire agli uomini delle chiese». Rivendica come «legittimo e necessario» l’uso di quel nome anche da parte di chi non appartiene ad alcuna chiesa. Vuole «unicamente affermare, con l’appello alla storia, che noi non possiamo non riconoscerci e non dirci cristiani e che questa denominazione è semplice osservanza della verità. (...) Il cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non meraviglia che sia apparso e ancora possa apparire un miracolo, una rivelazione dall’alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo».
Il trionfo del genocidio
Ma se davvero non possiamo non dirci cristiani, allora non possiamo neppure non tenerci corresponsabili di una serie di errori e crimini del cristianesimo. Misurandoli col proprio metro razionale laico, il filosofo liberale assolve la «chiesa cristiana cattolica per la corrutela che dentro di sé lasciò penetrare e spesso in modo assai grave allargare», dato che «ogni istituto reca in sé il pericolo della corrutela». E anzi la elogia per aver animato «alla difesa contro l’Islam, minaccioso alla civiltà europea». Le riconosce infine il merito, «continuando nell’opera sua», di aver riportato «i trionfi migliori nelle terre di recente scoperte del Nuovo mondo». Il fatto che quel «trionfo» sia consistito in un genocidio cristianissimo distruttore assieme alla vita della cultura e della dignità di un intero popolo è soltanto uno fra i tanti accidenti del generale processo storico con le sue crisi, e amen. Se poi gli abitatori originarii di quel Nuovo mondo non hanno gioito di quel «trionfo», non se ne sono almeno contentati se non addirittura rallegrati fra una tappa e l’altra di un genocidio cristianissimo che la loro cultura non s’è limitato a minacciarla: l’ha distrutta, assieme alla loro storia e alla loro stessa identità, dipende dalla loro mancante sensibilità eurocentrica e occidentalocentrica, che li autorizza, unici, a non dirsi cristiani. Il «famigerato giustificazionismo intrinseco» all’analisi crociana denunciato da Bobbio, appunto.
Perché non possiamo non dirci cristiani è uno smilzo opuscoletto di appena una ventina di pagine ma dense di analisi e di riferimenti a meditazioni e conclusioni precedenti dell’autore. Tanto dense che molti credenti anziché leggerle si contentano del titolo, per sbatterlo in faccia ai miscredenti: se persino un grande filosofo e critico liberale e ateo come Croce dice così.
Avessero la pazienza di leggerlo, ci andrebbero più cauti nel prenderlo e cercar di imporlo come assoluzione laica dei dogmatismi religiosi. Riconosciuta la «nuova qualità spirituale» di quella rivoluzione, cioè l’aver agito «nel centro dell’anima, nella coscienza morale» dell’uomo, Croce sùbito la ridimensiona: «non fu un miracolo che irruppe nel corso della storia e vi si inserì come forza trascendente e straniera (...) fu un processo storico, che sta nel generale processo storico come la più solenne delle sue crisi».
Il saggio di Croce è del 1942, conviene ripeterlo: nel pieno della seconda guerra mondiale. Mezzo secolo giusto dopo, 1992, chiusa anche la guerra fredda, nel cinquecentenario della presunta scoperta dell’America da parte dell’Europa e dell’inizio del genocidio delle popolazioni americane indigene da parte degli europei in nome della civiltà e del Vangelo, il Nobel per la pace viene assegnato a una donna guatemalteca di 33 anni, discendente dei rari scampati ai massacri: Rigoberta Menchù.
La scelta della giuria del premio sembra ad alcuni un contentino fra il paternalistico e il demagogico al risentimento degli amerindi e dei loro pochi sostenitori bianchi per l’enfasi e la retorica con cui l’Occidente andava celebrando l’impresa di Cristoforo Colombo. Alcuni altri si indignano: per gente di mondo smaliziata, ricca di esperienza e di efficienza pragmatica, è una scelta che suona resa e bestemmia:
«Per compiacere la pseudocultura dell’ultimo anticolonialismo abbiamo messo la sordina a una delle più straordinarie vicende della storia europea. È assurdo che il papa, a Santo Domingo, si sia scusato pubblicamente come un qualsiasi uomo politico giapponese; ed è ridicolo che i discorsi commemorativi abbiano fatto ipocrite concessioni agli umori dominanti del terzomondismo pacifista. Ma che i giurati di Oslo abbiano scelto il cinquecentesimo anniversario di una grande epopea occidentale per dare l’insufficienza a Cristoforo Colombo ci pare francamente risibile». Firmato: Sergio Romano, ex ambasciatore della Repubblica italiana presso alcune fra le maggiori capitali del mondo, da molti anni oracolo dei migliori radio e telegiornali italiani pubblici e privati, abituale commentatore politico oggi del Corriere prima della Stampa. (La frase qui citata era sul quotidiano torinese del 17 dicembre ’92, in un articolo intitolato: «Se il Nobel boccia Colombo»).
Lo spirito dei tempi
Per compiacere l’eterno pragmatismo della chiesa postcostantiniana, l’Europa e l’Occidente dovrebbero insomma rivendicare gli sbudellamenti fatti in nome di Dio dalle crociate all’Iraq, i roghi delle streghe e degli eretici, le benedizioni ai regni e agli eserciti, le indulgenze, le scomuniche eccetera: tutto quanto a quelle radici è intrecciato.
Il papa assimilato con disgusto a «un qualsiasi uomo politico giapponese» era il polacco Wojtyla. Per schivare un eguale rischio, il suo successore tedesco, Ratzinger, ci chiede di non giudicare il passato col metro dell’oggi: bisogna tener conto dei diversi contesti, delle percezioni e sensibilità mutate. E come si faccia a farlo ce lo ha mostrato in concreto lui, con la visita e i discorsi ai campi di sterminio nazisti in Polonia.
S’arriva così sullo scivoloso terreno del «segno dei tempi» e alla vecchia storia delle condanne seguite dalle riabilitazioni. Vicende emblematiche di quelle tecniche riappropriatorie, di quelle smanie di normalizzazione che, accompagnate da sapienti manipolazioni censorie e da cauti sondaggi santificatorii, presiedono sempre all’interno di ogni chiesa, religiosa, culturale o politica, a ogni operazione riabilitatoria. Tecniche e smanie vecchie (si pensi soltanto a Galileo) ma che con aggiustamenti minimi continuano a funzionare. Con l’obiettivo di far credere che ad aver bisogno di perdono e riabilitazione sia il perseguitato, non il persecutore. Al quale va sempre riconosciuto lo stato di necessità o almeno l’attenuante del «segno dei tempi».
Segno talmente vago ed elastico da dover tener conto persino del «livello medio della cultura dominante da non contraddire, non urtare, non rovinare», pensa Ferdinando Camon, scrittore cattolico. Che pazientemente ci spiega: «la condanna di Galileo fu pronunciata dalla chiesa come intermediaria del senso comune». (editoriale sul supplemento Tuttolibri de La Stampa, 16 novembre 1995).
Ecco dove si finisce, a furia di non potersi non dichiarare cristiani. Al laico don Benedetto va bene così, convinto com’è che il «reale è razionale», sempre e comunque. Ma ecco anche perché un altro filosofo e matematico ateo, Piergiorgio Odifreddi, ha preso e rovesciato proprio la strausata sentenza di Croce per farne il titolo di un proprio libro contro tutte le radici dei possibili fondamentalismi religiosi: Perché non possiamo essere cristiani. E per scrupolo di maggior chiarezza ci ha aggiunto tra parentesi: (e meno che mai cattolici).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
TEORIA E STORIA DELLA STORIOGRAFIA. IL PROBLEMA GIAMBATTISTA VICO E IL PROBLEMA DELLA COSTITUZIONE
CROCE “CRISTIANO” , VICO “ATEO”, E L’UOMO DELLA PROVVIDENZA.
RENZO DE FELICE E LA STORIA DEL FASCISMO: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
CRISTIANESIMO E COSTITUZIONE (DELLA CHIESA E DELL’ITALIA). PERDERE LA COSCIENZA DELLA LINGUA ("LOGOS") COSTITUZIONALE ED EVANGELICA GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI ...
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?".
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
DOMANDE, SAPERE, E POTERE (TEOLOGICO POLITICO PEDAGOGICO E SESSUALE): “FAQ”, “FAKE”, “FUCK” ...
“FAQ”, “FAKE”, “FUCK”: ATTENZIONE A QUESTE TRE PAROLE ormai di uso comune. Facendo interagire la loro scrittura, la loro pronuncia, e i loro significati, viene alla luce un prezioso invito ad “avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza” (Kant) e a porre “domande su tutto!” (Confucio).
Alle "domande poste frequentemente" (“Frequently Asked Questions, meglio conosciute con la sigla FAQ - pronuncia, in inglese: “F”, “A”, “Q”), CHI risponde (?!), se SA, dà le risposte che sa (fa il suo dovere, e si ferma!), ma, se NON sa e pretende di sapere (come spesso accade - in un abuso di autorità permanente e, ovviamente, di non rispetto di CHI pone le domande), dà solo risposte “false e bugiarde” (FAKE - parola inglese, pronuncia “feik”, che sta a significare "falso", "contraffatto", "alterato". Nel gergo di internet, un fake è un utente che falsifica in modo significativo la propria identità), che cercano solo di ingannare, fregare, fottere in tutti i sensi ( FUCK - parola inglese, pronuncia “fak” - "fach", " faq !": come interiezione equivale all’italiano - cazzo!, come sostantivo: scopata, come verbo: scopare, fottere!). Non è meglio sapere CHI siamo e cercare di uscire dalla caverna - con Polifemo, Ulisse e compagni (come con il Minotauro, Teseo e Arianna) - senza "fottere" Nessuno e senza mandare Nessuno a farsi “fottere”! O no? La tragedia è finita da tempo!
Federico La Sala
"X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA.....
"CHI" SIAMO NOI IN REALTA’. Relazioni chiasmatiche e civiltà...
Possono esistere delle (nuove) tecnologie conviviali?
di Tiziano Bonini *
Stavo ascoltando la radio. Era un mese fa, il 7 giugno. Su Radio3 sento la voce di Derrick De Kerckove che parla di datacrazia, della supremazia dei dati. Mi fermo all’ascolto, poi interviene Belpoliti. Capisco che è un dibattito sulla memoria e sugli strumenti per preservarla, ma che verso la fine ha preso altre strade. La discussione è molto interessante, e come al solito, lascia più domande che risposte. La potete riascoltare per intero qui.
La discussione parte da un articolo di De Kerckhove pubblicato da La Stampa, in cui afferma che
Come ritrovare un equilibrio tra oblio e memoria, si chiede il terzo ospite al telefono, Maurizio Bettini? Belpoliti prova a rispondere che è collettivamente difficile, ma individualmente più facile.
Dovremmo darci più tempo, ridare valore agli intervalli di tempo che De Kerchove afferma essere stati azzerati dal digitale. È vero, abbiamo bisogno di più tempo per poter ricordare le cose, fissarle nella memoria, rielaborarle. Ma davvero basta imporsi una nuova “morale digitale”? o anche solo una personale, e difficilissima, autodisciplina? Belpoliti suggerisce che dovremmo passare più tempo da soli, annoiarci, passare qualche tempo in silenzio, riscoprire il valore dell’intervallo. Ricorda da vicino alcuni dei consigli contenuti nel felice libro di Sherry Turkle (di cui abbiamo parlato qui), anche lei suggeriva una nuova disciplina del rapporto tra individui e tecnologie di comunicazione mobile, basata su una maggiore consapevolezza individuale dei momenti in cui essere presenti insieme agli altri e dei momenti in cui ci si può assentare in comunicazioni con persone distanti da noi. Anche lei suggeriva la riscoperta del silenzio, della solitudine, dell’importanza di spazi di vita non mediati da tecnologie.
Tutti consigli sani, condivisibili, ragionevoli. Ognuno di noi prova a darsi delle regole, a disciplinare il proprio comportamento nei confronti di applicazioni che ci inondano di messaggi e notifiche (email, tweet, facebook, whatsapp, instagram). Da una parte non possiamo più farne a meno per gestire i diversi flussi di comunicazione che ci uniscono alle diverse reti sociali alle quali apparteniamo, dall’altra rischiamo di esserne troppo dipendenti e perdere tempo prezioso.
Belpoliti suggeriva la possibilità di una risposta individuale, ma credo che tutte queste forme di resistenza individuali assomiglino al vano tentativo di svuotare il mare con un bicchiere.
Forse, sul piano individuale, alcuni di noi possono anche trovare un equilibrio tra spazi di vita non mediati e spazi di immersione nei flussi comunicativi in mobilità, ma sul piano collettivo, l’onda provocata dalla diffusione di queste tecnologie è destinata a spazzare via vecchie abitudini e riconfigurare il nostro rapporto col tempo, con gli altri e con la memoria.
A meno che.
A meno che.
E qui vengo al mio timido argomento.
Le risposte individuali sono sicuramente utili, ma solo a noi stessi. Come coloro che provano a rispondere al cambiamento climatico attraverso un consumo consapevole delle risorse, a prendere di meno l’automobile e usare di più la bici, anche coloro che provano a sperimentare un consumo più consapevole dei media digitali, stanno cercando un complicato equilibrio che, se mai fosse possibile, serve soprattutto a chi lo ha trovato, ma non alla collettività. Cambiare abitudini di consumo può servire come esempio per gli altri, può essere il sintomo di un cambiamento collettivo, certamente, ma da solo questo cambiamento fa star bene solo noi stessi (è già qualcosa), rafforzando la nostra identità.
Servono risposte collettive. Provo qui ad abbozzare una risposta, che potrebbe diventare collettiva. Ma non è una proposta originale, perché non farò altro che recuperare e reinterpretare le parole di un vecchio pensatore scomparso, molto famoso negli anni settanta-ottanta ma ora un po’ dimenticato: Ivan Illich. In particolare, mi servirò del suo pensiero espresso in Tools for Conviviality (1973).
In questo libro Illich affermava che per rendere gli uomini più autonomi, più liberi, più capaci di realizzare i propri desideri, bisognava innanzitutto progettare strumenti (tecnologie, istituzioni, relazioni) al servizio dell’uomo, strumenti in grado di liberare le potenzialità e la creatività umana, strumenti che non dividessero gli uomini in master e slaves, in padroni e schiavi. Questi strumenti, Illich li chiamava “conviviali”, in opposizione al modo di produzione industriale (fosse esso capitalista o socialista).
Una società conviviale, proseguiva Illich, è una società che garantisce ad ogni suo membro il più ampio e libero accesso possibile agli strumenti in possesso della sua comunità.
Gli strumenti sono conviviali nella misura in cui possono essere facilmente usati da tutti per raggiungere obiettivi direttamente scelti dagli utenti stessi. Non richiedono una certificazione preventiva (un diploma, una laurea, un attestato) per essere utilizzati.
Illich fa alcuni esempi di strumenti conviviali. A noi interessano di più quelli legati ai media: il telefono per esempio, sarebbe uno strumento conviviale, perché permette a chiunque di dire ciò che si vuole a chi si vuole, senza che i burocrati possano restringere questa possibilità o si debba passare da un centro, un gatekeeper, per poter parlare con qualcuno. La televisione invece sarebbe uno strumento non conviviale. Seguendo il suo ragionamento, uno strumento sarebbe conviviale quando può essere liberamente manipolato e adattato ai bisogni di chi lo usa, non è sottoposto a un controllo centralizzato, può essere usato da tutti e amplifica la creatività di ognuno.
Teniamoci per ora questa definizione, poi ci servirà più avanti.
C’è una frase chiave nel libro di Illich che per me rappresenta la possibile risposta collettiva al bisogno individuato da Belpoliti, De Kerckhove e Bettini durante la loro discussione radiofonica: “Invertire la struttura profonda degli strumenti che utilizziamo” (p. 10).
Tradotto: non basta provare a darci delle regole individuali nella gestione delle tecnologie mobili che utilizziamo ogni giorno, perché quelle tecnologie sono progettate, a monte, per massimizzarne il consumo da parte nostra, come ha notato un noto interaction designer della Silicon Valley, Tristan Harris. Harris ha pubblicato su Medium un articolo dal titolo “How Technology Hijacks People’s Minds - from a Magician and Google’s Design Ethicist” in cui sostiene che i social media replicano il meccanismo delle slot machine. Il meccanismo psicologico che sta dietro le slot machine, prosegue Harris, è quello delle “intermittent variable rewards”, cioè delle ricompense intermittenti di natura variabile. Quando tiro la leva non so che tipo di ricompensa riceverò. Se i designer di tecnologia vogliono massimizzare la dipendenza, quello che devono fare è collegare l’azione di un utente (come tirare la leva della slot) con una ricompensa variabile. Tu tiri una leva e immediatamente ricevi in cambio un bel premio o anche niente.
La dipendenza è massimizzata quando la ricompensa è la più varia possibile: “diversi miliardi di persone hanno una slot machine nelle loro tasche: quando tiriamo fuori i nostri cellulari per controllare le notifiche stiamo tirando la leva di una slot machine. Quando clicchiamo “refresh” per aggiornare le nostre email, stiamo tirando la leva di una slot machine. Quando facciamo scivolare il nostro indice lungo lo schermo del telefono per aggiornare la bacheca di Instagram, stiamo giocando con una slot machine. Quando scorriamo i profili di potenziali partner su Tinder stiamo giocando con una slot machine.”
Se le tecnologie attorno a noi sono progettate per incanalare le nostre azioni entro determinati comportamenti di numero limitato, che possono essere misurati e quindi analizzati, gestiti e trasformati in previsioni di consumo futuro, ecco che il nostro potere contrattuale nei confronti di queste tecnologie è molto basso, e i nostri sforzi, la nostra “risposta individuale”, il tentativo di resistere alle affordances previste dalle tecnologie risulta debole, o irrilevante.
Qualcuno di noi potrà anche riuscire a trovare un giusto equilibrio personale tra i benefici delle tecnologie digitali e il tempo che succhiano e rubano ad altre attività più socievoli, ma questi tentativi non saranno che eccezioni.
La risposta collettiva, per me centrale, è invece quella di “invertire la struttura profonda degli strumenti che utilizziamo”, riappropriarci di questi strumenti, reclamarne il controllo, la possibilità di manipolarli, di deciderne le sorti, hackerarne non solo i contenuti, ma anche l’architettura con i quali sono stati progettati.
Un autista di Uber o un rider di Deliveroo non hanno alcuna voce in capitolo sulla piattaforma digitale che gli assegna il prossimo cliente. Non possono nemmeno reclamare se la piattaforma li blocca perché sono scesi sotto un certo livello reputazionale. Queste piattaforme digitali, di proprietà di un’unica corporation che ne controlla ogni minimo dettaglio, imponendone il funzionamento a tutti i suoi utenti, sono piattaforme anti-conviviali, direbbe Illich.
Dove gli utenti non hanno voce (tradotto: potere) nella progettazione di piattaforme e nei processi decisionali si creano i presupposti per la creazione di beni, flussi e servizi di tipo autoritario, top-down. E questo è ancora più pericoloso perché in molti settori e mercati, da quello del trasporto urbano (Uber), dell’ospitalità (Airbnb), della comunicazione interpersonale (Facebook), della logistica (Amazon), questo tipo di piattaforme autoritarie e anti-conviviali stanno guadagnando posizioni di monopolio (come spiega questo articolo del New York Times), all’interno delle quali gli utenti non avranno alternative. Per la comunicazione interpersonale dovremo sottostare al recinto di regole di Facebook, per il trasporto urbano a quelle di Uber e così via.
Nessuna di queste piattaforme ci permette di modificare gli algoritmi sui quali sono fondate o di fissare liberamente il prezzo del mio servizio di tassista o della mia casa in affitto.
La risposta collettiva è una risposta che ha a che fare con il design delle cose che usiamo, con un cambio di paradigma dei modi di progettazione delle tecnologie che usiamo e deve passare per una maggiore apertura della cultura del design, in parte già avvenuta, verso processi di progettazione più partecipativi. Dalla politica all’agricoltura, passando per la progettazione di piattaforme digitali, per realizzare una società più conviviale, bisogna aprire alla co-progettazione. In politica tramite la sperimentazione di processi di democrazia diretta (civic crowdfunding, per esempio?), in agricoltura seguendo le sperimentazioni d’avanguardia di un genetista italiano, Salvatore Ceccarelli, che propone il miglioramento genetico partecipativo dei semi, nelle piattaforme digitali lo sviluppo del platform cooperativism, che prevede lo sviluppo di piattaforme aperte e gestite in forma cooperativa.
Anche nella produzione e distribuzione dei contenuti, per esempio, si potrebbe applicare il concetto di convivialità. Può esistere un servizio pubblico dei media “conviviale”? Con Ivana Pais avevamo provato ad immaginarlo in questo articolo. Possono esistere algoritmi conviviali, co-progettati dagli utenti insieme ai designers e manipolabili ogni giorno? Pensate di aprire un servizio come Netflix e avere la possibilità di riprogrammare autonomamente l’algoritmo di Netflix perché quella sera avete voglia solo di film di registi brasiliani della new wave anni settanta, magari tramite un controllo vocale, o restringere l’offerta musicale di Spotify soltanto alla musica degli anni Novanta, e “mi raccomando, escludi per favore tutti i cantanti italiani”.
Se invertiamo la struttura profonda degli strumenti, forse possiamo esserne meno schiavi e ricavarne maggiori benefici. Ma questo significa invertire la struttura profonda del sistema di produzione di questi strumenti, ovvero, marxianamente, invertire l’economia politica che governa la produzione di questi argomenti e sostenere la creazione di tecnologie no profit, co-gestite, in varie forme tutte da sperimentare, dagli utenti stessi (come l’idea di trasformare Twitter in una cooperativa di proprietà degli utenti). Se il capitalismo di piattaforma conquisterà il monopolio delle piattaforme digitali disponibili sul mercato, la struttura profonda di questi strumenti risponderà a un solo imperativo, e sarà molto, molto lontano da quell’idea di società conviviale, attiva, socievole, “gracefully playful” che immaginava Ivan Illich.
p.s. Mi sono appassionato solo da qualche anno alla lettura di Ivan Illich. Sono nato nel 1977, quando già Illich aveva 51 anni e non l’ho mai conosciuto. La sua figura è molto controversa e discutibile (ho apprezzato molto il racconto di Franco La Cecla in Ivan Illich e la sua eredità, Medusa, 2013) e ci sono molte persone che conoscono il suo pensiero meglio di quanto possa averlo capito io, che mi sono avvicinato a lui dopo aver tradotto Making is connecting di David Gauntlett, un sociologo inglese che ha ripreso Illich per interpretare la nuova ondata di creatività supportata dalle tecnologie digitali. Credo però che tutti dovremmo rileggere La convivialità per trovare una risposta collettiva, più complessa e sistemica, alle domande che ci pongono le tecnologie digitali, sia come consumatori che come lavoratori. Invece di resistere loro, imponendoci un’ora di “disconnessione” o un mese di “detox” digitale, dovremmo lavorare di più con i designers, e progettarne altre, con altre regole, non fisse, discutibili e flessibili, ritagliabili sui nostri bisogni personali. Dovremmo poter essere proprietari dei nostri dati e decidere cosa farne e con chi condividerli. Dovremmo essere più liberi di quanto già adesso le tecnologie non ci fanno sentire.
È un discorso lungo e discutibile. Vorrei poterne parlare con designers, progettisti, sviluppatori, utenti. To be continued. O come scriveva Luther Blissett nell’ultima pagina di Q, “non si prosegua l’azione secondo un piano”.
* DoppioZero, 22.07.2017 (ripresa parziale - senza immagini).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. MARX, IL "LAVORO - IN GENERALE", E IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE - IN GENERALE".
POLITICA, CONFLITTO D’INTERESSE, E ... "UNDERSTANDING MEDIA" ("GLI STRUMENTI DEL COMUNICARE"). I nuovi media non sono giocattoli e non dovrebbero essere messi nelle mani di Mamma Oca o di Peter Pan.
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA.
PER LA CRITICA DELLA FACOLTÀ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITÀ DELL’ "UOMO SUPREMO" (KANT).
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO. Storiografia in crisi d’identità ...
In base a un regio decreto emanato il 28 agosto 1931 i docenti delle università italiane avrebbero dovuto giurare di essere fedeli non solo allo statuto albertino e alla monarchia, ma anche al regime fascista. L’idea dell’inserimento della clausola di fedeltà al fascismo viene attribuita al filosofo Balbino Giuliano, che ricopriva in quegli anni la carica di Ministro per l’Educazione Nazionale nel governo Mussolini[1].
In tutta Italia furono solo una quindicina di personalità, su oltre milleduecento docenti, a rifiutarsi di prestare giuramento di fedeltà al fascismo perdendo così la cattedra universitaria. Il numero effettivo delle persone che non si sottoposero al giuramento oscilla di qualche unità a seconda delle fonti. L’indeterminazione è dovuta anche ad alcune situazioni particolari, di docenti che vi si sottrassero per vie diverse: Vittorio Emanuele Orlando, ad esempio, andò anticipatamente in pensione, mentre altri, come Giuseppe Antonio Borgese, si allontanarono dall’Italia fascista andando esuli all’estero[1]. Allo stesso modo non si sottopose al giuramento il docente ed economista Piero Sraffa, già da alcuni anni esule a Cambridge[1] .
I nomi dei docenti furono:
Ernesto Buonaiuti (storia del cristianesimo)[2]
Giuseppe Antonio Borgese (estetica)[3]
Aldo Capitini (filosofia)
Mario Carrara (antropologia criminale)
Antonio De Viti De Marco (scienza delle finanze)
Gaetano De Sanctis (storia antica)
Floriano Del Secolo (lettere e filosofia)[4]
Giorgio Errera (chimica)
Giorgio Levi Della Vida (lingue semitiche)
Piero Martinetti (filosofia)
Fabio Luzzatto (diritto civile)
Bartolo Nigrisoli (chirurgia)
Errico Presutti (diritto amministrativo)[3]
Francesco Ruffini (diritto ecclesiastico)
Edoardo Ruffini Avondo (storia del diritto)
Lionello Venturi (storia dell’arte)
Vito Volterra (fisica matematica)
Molti degli accademici vicini al comunismo aderirono invece al giuramento seguendo il consiglio di Togliatti[1], con la giustificazione che il prestare giuramento permettesse loro di svolgere, come dichiarò Concetto Marchesi, «un’opera estremamente utile per il partito e per la causa dell’antifascismo»[5]. Analogamente, la maggior parte dei cattolici, su suggerimento del Papa Pio XI, ispirato probabilmente da Agostino Gemelli[1], prestò giuramento «con riserva interiore»[1][5].
Vi fu chi accondiscese al giuramento, tra questi Guido Calogero e Luigi Einaudi, seguendo l’invito di Benedetto Croce, «per continuare il filo dell’insegnamento secondo l’idea di libertà»[5] a impedire che le loro cattedre - secondo l’espressione di Einaudi - cadessero «in mano ai più pronti ad avvelenare l’animo degli studenti»[6].
* FONTE. Da Wikipedia, l’enciclopedia libera. (ripresa parziale - senza note).
Federico La Sala
La rivincita della socialità del Sud
di Amador Fernández-Savater *
di Amador Fernández-Savater *
Negli anni ’70, il regista italiano Pier Paolo Pasolini propose di considerare il conflitto politico come uno scontro fondamentalmente antropologico: tra diversi modi di essere, diverse sensibilità e idee di felicità. Una forza politica non è niente (non ha alcuna forza) se non è radicata in un “mondo” che compete con quello dominante, in termini di forme di vita desiderabili.
Mentre gli “uomini politici” della sua epoca (dirigenti di partito, militanti di avanguardia, teorici critici) guardavano al potere statale come al luogo privilegiato per avviare una trasformazione sociale (si prende al potere e si cambia la società dall’alto) Pasolini avvertiva - con sensibilità poetica, sismografica - che il capitalismo stava avanzando attraverso un processo di “omologazione culturale” che stava logorando i “mondi altri” (contadini, proletari, sottoproletari), contagiando i valori e i modelli di consumo “orizzontalmente”: attraverso la moda, la pubblicità, l’informazione, la televisione, la cultura di massa ecc.
Il nuovo potere non emana, irradia o discende da un punto centrale, si propaga invece “indirettamente, nel vissuto, nell’esistenzale, nel concreto” diceva Pasolini. Nei vestiti e nelle posture, nella serietà e nei sorrisi, nei gesti e nei comportamenti, il poeta decifrava i segni di una “mutazione antropologica” in corso: la rivoluzione del consumo. Frenarla dal potere politico sarebbe stato come tentare di contenere un’inondazione con un piccolo tubo. Non è possibile imporre altri contenuti o finalità all’interno di un contesto inalterato di accumulazione e crescita. Piuttosto è il contrario: sarà il modo di produzione-consumo a determinare i margini di manovra del potere politico. Una civiltà si ferma solo con l’arrivo di un’altra. -Sono necessari altri vestiti e altre andature, un’altra serietà e altri sorrisi, altri gesti e altri comportamenti.
La contesa politica (che non è un semplice gioco di troni) esprime un “disaccordo etico” tra diverse idee di vita o, ancor meglio, di buona vita. Non sono idee fluttuanti, enunciate in maniera retorica, ma idee pratiche incarnate, materializzate, contenute nei gesti e nei dispositivi più quotidiani (Facebook, Uber o Airbnb sono figure del desiderio, da qui deriva la loro forza). Che cosa potrebbe svelarci sulla politica uno sguardo antropologico? Quali sono i mondi in collisione oggi? A quali disaccordi etici sulla buona vita potrebbero giungere delle azioni politiche trasformatrici?
Il vecchio spirito del capitalismo
Facciamo prima un passo indietro. Dove è nata l’idea di organizzare la vita intera attorno al lavoro, l’efficienza e la produttività? Secondo Max Weber, la cultura borghese trova le sue origini, il suo motore e il suo combustibile nell’etica protestante (soprattutto il protestantesimo ascetico). Attraverso la ri-concettualizzazione del lavoro come “professione” e la teoria della predestinazione (solo nel successo terreno è possibile riconoscere i segni della nostra salvezza), si produce una soggettività che mette al centro della vita il denaro e l’arricchimento, che aspira alla “razionalizzazione” dell’intera esistenza (la relazione con il tempo, il corpo, l’onore, l’educazione dei figli), che condanna la povertà ad essere il peggiore di tutti i mali (“scegliere la povertà è come scegliere la malattia”), ecc.
Questa soggettività non è un “riflesso automatico” dell’oggettività economica, ma un elemento decisivo della “cultura capitalista” senza la quale semplicemente non c’è il capitalismo. Solo un nuovo tipo di immaginario e di soggettività (una nuova organizzazione del desiderio) poteva avere la forza necessaria per frantumare la “mentalità tradizionalista” (allora imperante) secondo la quale non si vive per lavorare (che sarebbe assurdo), ma si lavora per vivere e, se si dispone di ricchezza (per lavoro proprio, altrui o per puro caso), ci si dedica allora alla contemplazione o alla guerra, al gioco o alla caccia, a dormire tranquilli o al godimento sensuale della vita, ma non ci passerebbe mai per la testa di reinvestirla per continuare ad accumulare.
La cultura borghese nasce pertanto dalla potenza di un immaginario religioso, che viene successivamente abbandonato, laicizzando i suoi valori: il senso di responsabilità individuale, il self made man, la meritocrazia, il credito, il progresso, la sensibilità puritana e severa, ecc. La modernità è stata in misura predominante una “cultura del Nord” : anglosassone, maschile, bianca e protestante. Il dominio di questo immaginario (vivere per lavorare, investire i guadagni per ottenerne degli altri, sottomettere tutti gli aspetti della vita a un controllo regolamentato e sistematico, ecc.) non è però mai stato del tutto completo.
La socialità del Sud
Secondo il sociologo (della vita quotidiana) Michel Maffesoli, una “socialità del Sud” è sempre esistita, da sempre persiste e resiste. È una socialità diffusa, sommersa e occulta, difficile da vedere, ma presente, capace di ribellarsi e attivarsi quando si sente minacciata. Una dinamica informale (forme di legame, di appartenenza soggettiva, di fare nella pratica) determinante nella vita di tutti i giorni, come un substrato o uno “strato freatico“ dell’esistenza collettiva.
In cosa consiste questa socialità del Sud? È prima di tutto un impulso vitale, a-razionale. È una volontà di vivere, un voler vivere. Non di vivere come capita, ma affermando invece un tipo di legame, un tipo di esistenza, una certa idea di felicità: uno stare-insieme antropologico. È anche un insieme di saperi e di strategie per riprodurre quegli stessi legami e forme di vita.
Questo “Sud” originariamente e storicamente si riferisce ai paesi mediterranei e latinoamericani, ma nell’opera dell’autore diventa un concetto più versatile, che allude più a “valori” e “climi affettivi“, che a una localizzazione geografica. In questo senso, ci sarebbe un “Sud nel Nord”, così come un “Nord nel Sud”. Colonia (vivace, allegra, loquace, proletaria) sarebbe il “Sud” in Germania mentre la Francoforte della finanza sarebbe il “Nord”.
Possiamo dedurre cinque “valori” (ciò che conta) per questa socialità del Sud:
• In primo luogo, il presente: la vita non si proietta “verso avanti” (un futuro di salvezza, di perfezione), ma si afferma “ora”. Questa leggerezza verso il domani non esclude (paradossalmente?) un’ostinazione a riprodursi e a durare. La temporalità della socialità del Sud è intensa e non estesa, ma non si impegna a “perseverare nel suo essere”.
• In secondo luogo, il legame: la vita c’è in continuità con gli altri, intersecata con gli altri, intrecciata con gli altri. Non solo per necessità, ma anche per il piacere di condividere. Il legame più apprezzato è quello vicino, prossimo, a portata di mano (il tatto è un valore). Questo “qui” non ci separa da ciò che sta “lì” (cioè che è lontano), al contrario: a partire da ciò che viviamo “qui”, ci può suonare familiare qualcosa “lì”.
• In terzo luogo, l’aspetto tragico: la consapevolezza dell’anarchia di ciò che c’è, di ciò che è. Non si tratta di “risolvere” o “ superare” ciò che è dato (incerto, buio, molteplice), ma piuttosto di sapersi “destreggiare” in esso. Un’altra relazione quindi con il male, il rischio o la morte, che non sono qualcosa da sradicare (secondo le logiche imperanti di controllo, sicurezza e totale prevedibilità), ma sono invece un aspetto della vita (e possono anche essere forza, leva, se siamo capaci di ingegnarci).
• In quarto luogo, l’aspetto dionisiaco: non è la vita chiusi in sé stessi (lavoro, successo, progresso), ma una vita “estatica” che cerca di uscire da sé attraverso il pieno godimento del corpo, il gusto per la maschera e il travestimento (le apparenze), la fusione con l’altro nelle celebrazioni collettive (musicali, sportive, religiose), ecc. Eccesso, spreco, vertigini, abnegazione, distruzione: l’aspetto dionisiaco è un tentativo di approccio con l’alterità.
• Infine, il doppio gioco: non la passione per ciò che è dritto, frontale ed esplicito, ma per la deviazione, l’astuzia, l’improvvisazione, l’ingegno, la fatica, la duplicità, la dissimulazione, il gioco con la legge e la norma, le strategie non convenzionali di conservazione e sopravvivenza (mia e dei miei). Non la passione di correggere e indirizzare, ma di tirare a sorte, contrattare, dribblare e burlarsi.
La crisi come occasione
Gli economisti neoliberali offrono la loro lettura “antropologica” del mondo e concludono che la crisi economica del 2008 ha a che vedere con “l’insufficiente mobilità geografica”, il “limitato spirito imprenditoriale”, “la famiglia come ancora di sicurezza”, il “lavoro informale” o “l’indifferenza (o persino il rifiuto) verso l’arricchimento”, aspetti che caratterizzano ancora troppo i paesi del Sud (i cosiddetti PIGS: Portogallo, Italia, Grecia e Spagna, nessuno dei quali, per altro, è un paese protestante). Alla luce di queste analisi, vediamo come opera la socialità del Sud.
È possibile leggere la gestione neoliberale della crisi come un tentativo di sopprimere in ultima istanza tutte queste “inadeguatezze culturali” e accelerare in questo modo “il divenire mondo del capitale” (Laval e Dardot)? La crisi del debito sarebbe in questo senso l’occasione perfetta per scatenare la “distruzione creativa” di tutto ciò che, dentro e fuori di noi, ci fa diffidare dei pensieri e delle azioni che ci vogliono semplici atomi sociali, particelle egocentriche svincolate, macchine del calcolo egoista. Abitudini e vincoli, affetti e solidarietà.
Eliminando le protezioni sociali, indebolendo i diritti associati al lavoro, favorendo l’indebitamento generale di studenti e famiglie, allargando la precarietà, riducendo i salari e la spesa sociale, non si fa altro che fomentare il “si salvi chi può” e distruggere tutto quello che garantiva alle persone un certo margine di libertà rispetto al mercato. Tutto ciò che c’è “tra” i viventi e che li rende qualcosa di più che semplici “particelle elementari” in competizione: legami di ogni sorta, diritti conquistati, luoghi vivi, risorse pubbliche e comuni, reti di solidarietà e mutuo soccorso, circuiti non commerciali di beni e servizi, ecc. La base materiale di qualsiasi autonomia. Governare oggi consiste esattamente nel corrodere questo “tra”, questa trama densa di legami, affetti, mutuo aiuto...
Ma proprio quando si vorrebbe “estirpare”, ecco che la socialità del Sud si tende e si attiva. Nella Spagna della crisi sono proliferati, per esempio, dei micro-gruppi informali di solidarietà e mutuo soccorso (familiari, di vicinato, tra amici) che hanno mitigato gli effetti devastanti della gestione neoliberale della crisi: paura, solitudine e abbandono. Una proliferazione che racchiude in sé il paradigma liberal-individualista: “ognuno ha la propria vita”.
Proprio quando ci hanno detto che “avevamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità” e che si doveva espiare e pagare, i valori del Sud si prendono una rivincita, affermando e diffondendo altre idee di ricchezza e felicità: basate più nel presente che nel futuro, più nei legami che nella solitudine, più nel tempo disponibile che nella vita per il lavoro, più nell’empatia che nella concorrenza, più nel godersi la grazia che nell’espiare la colpa per il debito.
Il nuovo spirito del capitalismo
Ancora più difficile. Secondo alcuni autori, oggi staremmo attraversando il passaggio verso il superamento (intensificazione, radicalizzazione?) del vecchio “spirito” del capitalismo, di cui Weber studiò le origini.
Per esempio, secondo Franco Berardi (Bifo), la borghesia “viveva ancora nei legami” (con una comunità, dei luoghi, dei beni fisici, una classe lavoratrice che non poteva sopprimere, la relazione tra valore e tempo del lavoro). Tuttavia, il capitalismo finanziario è molto più astratto: non si identifica con un luogo, con una popolazione concreta, con una classe lavoratrice, con una regola, anche se le sue decisioni hanno conseguenze (devastanti) su luoghi, popoli, lavoratori, ecc.
D’altra parte, secondo Christian Laval e Pierre Dardot, questa logica di accumulazione infinita del capitale è diventata oggi una “modalità soggettiva”. Cosa vuol dire questo? Significa che l’“homo œconomicus” (definito per la sua prudenza, la sua ponderazione, l’equilibrio negli scambi, la felicità senza eccessi, il bilanciamento tra sforzi e piaceri) è stato sostituito “dall’imprenditore di sé stesso” (definito per la competizione e l’auto-superamento continuo: vivere nel rischio, andare oltre i propri limiti, avere uno squilibrio costante, non riposare o fermarsi mai, riversare tutto il piacere nell’auto-superamento). Esiste un’espressione, secondo gli autori francesi, che riassumerebbe il tratto soggettivo del capitalismo attuale: “sempre di più”. Il piacere di non avere limiti.
In questa trasformazione bisognerebbe rivalutare la resistenza della “socialità del Sud”, oggi che, per esempio, la cultura capitalista non esige più la repressione dell’aspetto affettivo/passionale, ma piuttosto una sua completa strumentalizzazione al servizio della logica del guadagno: la strumentalizzazione dell’intimo. Senza dubbio, l’espressione “una vita che basta a sé stessa” continua ad essere assolutamente sovversiva (oggi più che mai?). Una vita che non vuole estrarre e accumulare “sempre di più”, ma che vive nel piacere di prendersi cura e di condividere, il più vicino possibile, ciò che ci è stato dato, qui e ora. L’insurrezione della socialità del Sud consisterebbe nell’affermare politicamente quest’altra idea di felicità, questa potenza sotterranea, questo mare di fondo.
Riferimenti bibliografici:
Cartas luteranas (Trotta) y Escritos corsarios (Ediciones del Oriente y el Meditarráneo), de Pier Paolo Pasolini.
A nuestros amigos y Ahora (ambos en Pepitas de Calabaza), del Comité Invisible.
La ética protestante y el “espíritu” del capitalismo (Alianza), de Max Weber.
La sublevación (ediciones castellanas en Hekht y Artefakt), de Franco Berardi,Bifo.
La pesadilla que nunca acaba (Gedisa), de Christian Laval y Pierre Dardot.
El tiempo de las tribus (Icaria), La tajada del diablo (Siglo XXI) y La transfiguración de lo político (Herder), de Michel Maffesoli.
Articolo pubblicato su El diario. es con il titolo: Una vida que se basta a sí misma: la revancha de los “valores del sur”
Traduzione per Comune-info: Sofia Begotto
* Comune-info, 18 luglio 2017 (ripresa parziale - senza immagini)).
SUL TEMA NEL SITO, SI CFR.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.... *
INTERVISTA
L’invito di Alain Badiou: i filosofi imparino (dal)la matematica
La crociata di Alain Badiou: non basta avere opinioni per essere pensatori, occorre conoscere le scienze.
L’«Elogio» a teoremi e calcoli pubblicato da Mimesis
di STEFANO MONTEFIORI, corrispondente a Parigi *
«Chiunque è ormai considerato un filosofo», protesta Alain Badiou. «Oggi è sufficiente avere delle opinioni (e relazioni mediatiche giuste) per farle credere universali, benché assolutamente banali». Il filosofo de L’essere e l’evento (il Melangolo, 1995) a 80 anni critica l’abitudine contemporanea, specialmente francese, a confondere tra le figure del filosofo e dell’opinionista. «Non si può certo dominare l’intero campo delle scienze ma si può, e si deve, averne una conoscenza sufficiente, un’esperienza abbastanza approfondita e ampia. Invece, oggi sono numerosi i “filosofi” ben lontani da questo requisito minimo e, in particolare, lontani dal sapere matematico che, da sempre, è stato il più importante per la filosofia». Così nasce Elogio delle matematiche (Mimesis), il libro con il quale Badiou reagisce a quella che ritiene l’usurpazione della qualifica di «filosofo». Il discrimine è lo studio e la conoscenza della matematica: «Con lei è impossibile barare». La matematica come via per il rigore filosofico dunque, e come fonte di gioia intellettuale per tutti.
Da dove deriva la sua fascinazione per la matematica?
«Si tratta senza dubbio di una tripla origine. Famigliare, per cominciare: mio padre era professore di matematica, e fino alla sua morte ha continuato a risolvere problemi per il semplice piacere di farlo. Un’origine scolastica, poi: ho avuto molti insegnanti di matematica capaci di entusiasmare la classe, in particolare mettendo in evidenza la raffinatezza e la formidabile inventiva che una dimostrazione, anche apparentemente semplice, può contenere. E un’origine filosofica, infine: ho dovuto constatare che, nella storia della filosofia, la matematica occupa un posto decisivo e questo dall’inizio, a cominciare da Platone. Due grandissimi filosofi moderni, Cartesio e Leibniz, sono anche dei grandissimi matematici. Pure Hegel, secondo il quale i matematici riescono a pensare solo un ”falso infinito”, consacra loro un capitolo molto brillante della sua Logica. Mi inscrivo in questa tradizione. Mi oppongo dunque, in ragione della stessa origine della mia passione, a due correnti contemporanee: quella che trascura completamente la matematica o addirittura la disprezza, corrente che ha come iniziatore e leader senza dubbio Nietzsche; e la corrente che tributa alla matematica un culto accademico, sviluppando una filosofia molto povera, ovvero la filosofia analitica americana».
Lei si dedica con regolarità alla matematica?
«Sì. Lo faccio adesso in legame stretto con lo sviluppo della mia costruzione filosofica. Lo studio dettagliato della teoria moderna degli insiemi, con i magnifici teoremi di Gödel e di Cohen, ha accompagnato tutta la concezione e la scrittura de L’essere e l’evento (edito in Francia nel 1988, ndr). Mi sono immerso in seguito nella visione recente della matematica rappresentata dalla teoria delle categorie, secondo la quale non ci sono oggetti matematici in senso proprio ma solo delle relazioni. Faccio il bilancio filosofico di questo studio nelle Logiche dei mondi (2005). In questo momento sto completando un terzo libro sistematico, L’immanenza della verità, per il quale ho studiato a fondo la teoria contemporanea dei ”grandi infiniti”. Tutto questo rappresenta, mi creda, un numero di ore, giorni, o mesi, davvero considerevole»
Esiste un atteggiamento tipico, tradizionale, del filosofo nei confronti del matematico? Magari una diffidenza basata sull’incomprensione? E viceversa?
«La filosofia è nata in Grecia con la matematica, come dicevo prima, nello stesso movimento, e questa vicinanza si è mantenuta, sotto forme diverse, fino a oggi. È vero che una corrente empirista, esistenzialista, vitalista, spesso legata alla psicologia, ha sviluppato un disprezzo diffidente nei confronti della matematica, soprattutto dopo la fine dell’Ottocento. Ma penso che questo atteggiamento, anche in Sartre che fu uno dei miei maestri, è fondato nella maggior parte dei casi sull’ignoranza. Il dramma, in Francia, è che i due grandi pensatori della matematica a metà del secolo scorso, Cavaillès e Lautman, hanno scelto senza esitazione, durante la guerra, il campo della Resistenza e sono stati entrambi uccisi dai nazisti. Questo ha prodotto un ritardo importante, in Francia, nel legame fondamentale che deve esistere tra l’invenzione matematica più recente e la creazione filosofica. Possiamo dire che con il compianto Jean-Toussaint Desanti abbiamo cercato di contribuire all’eliminazione di questo ritardo. Peraltro, in un certo senso, c’è una risposta molto semplice alla sua domanda: chi pratica, davvero, la matematica, non può che amarla. Chi non la ama dimostra per questo stesso fatto di ignorarla»
Pensa che i filosofi potrebbero o dovrebbero trarre maggiore ispirazione dal rigore dei matematici?
«Certo! La filosofia è una disciplina argomentativa, anche se si autorizza retorica politica, transfert sulla persona del Maestro, e le risorse seducenti della poesia. Tutto questo si trova nel fondatore di quel che ancora oggi noi chiamiamo ”filosofia”, ossia Platone. Detto questo, c’è un limite. La matematica propone un modello rigoroso di dimostrazione, del quale conosciamo tutte le regole logiche, dove tutte le nozioni sono chiaramente definite, e che può pure essere formalizzato in una lingua artificiale. La filosofia, che opera nella lingua ordinaria, e che tratta dei problemi fondamentali della vita umana, individuale e collettiva, evidentemente non può pretendere questa trasparenza formale. Ma deve proporre degli argomenti quanto più rigorosi è possibile».
Una figura come Alexandre Grothendieck, con le sue prese di posizione filosofiche e politiche, potrebbe essere considerata come un esempio della relazione possibile tra i due mondi?
«È vero che per intendersi bisogna essere in due. Il legame tra filosofia e matematica deve, se possibile, coinvolgere anche i matematici. Ma è difficile. Era più facile ai tempi di Cartesio e Leibniz, che erano allo stesso tempo grandi filosofi e creatori matematici. È vero che alcuni giganti della matematica, come Poincaré, Gödel o, in effetti, proprio Grothendieck, hanno manifestato un reale interesse per la nostra disciplina. Non sono sicuro, tuttavia, che siano andati lontano quanto avrebbero potuto in questa direzione. Quello di Grothendieck è un caso limite, perché possiamo supporre che convinzioni di natura polito-filosofica lo abbiamo in qualche modo sviato dalla carriera matematica. In generale, tuttavia, la forza dimostrativa della matematica affascina molti filosofi ma la debolezza dimostrativa, inevitabile, della filosofia, i cui fini abbordano il destino umano nel suo insieme, delude i matematici. È normale che sia così...».
Un filosofo del passato come Spinoza è stato influenzato dalla matematica?
«Nel Seicento, il modello matematico ha un tale ascendente che alcuni grandi filosofi tentano di presentare il loro sistema sotto la forma deduttiva che troviamo nel più antico trattato di matematica conosciuto, ovvero gli Elementi di Euclide. Si dice allora che la presentazione della filosofia si fa ”more geometrico”, al modo della geometria. Cartesio ha affermato così i ”principi” della sua filosofia. Leibniz ha anche cercato, per tutta la vita, una lingua in qualche modo assolutamente pura e universale, una ”Mathesis Universalis”, per esprimervi ugualmente le sue scoperte matematiche come il suo sistema filosofico. Il grande libro di Spinoza, l’Etica, che parla di Dio, delle Idee, delle Passioni, della vera vita, è scritto dall’inizio alla fine sotto forma di assiomi, di definizioni, e di proposizioni seguite dalle dimostrazioni. Ma questo non ha assicurato a Spinoza un’adesione universale. Esistono, prima e dopo Spinoza, molteplici orientamenti filosofici, spesso conflittuali, e una sola matematica che è, tranne in qualche periodo di crisi, del tutto consensuale».
Sempre più spesso, soprattutto in Francia, la carriera scolastica di un allievo è determinata dai suoi risultati in matematica, principale strumento di selezione. La cultura generale «respirata in famiglia», come direbbe Pierre Bourdieu, vi gioca un ruolo inferiore rispetto alle scienze umane? La matematica potrebbe dunque essere un’arma di democrazia e di parità delle opportunità, ma viene accusata al contrario di accentuare la separazione delle élite.
«Questo ruolo selettivo della matematica è una piaga. Non c’è niente di più egalitario della matematica perché normalmente, con un po’ di attenzione, una dimostrazione esposta chiaramente, e nella quale il linguaggio sia stato precisato in modo corretto, può convincere chiunque, ovunque si trovi, alla sola condizione che questi appartenga all’umanità. Inoltre, c’è un aspetto ludico nella matematica, perché risolvere un problema è un gioco appassionante. Penso che la matematica possa e debba essere imparata e praticata a lungo e da tutti, tutta la vita, e tenuta lontana dai processi sociali di selezione e di gerarchia. La matematica deve essere considerata come la più bella musica della quale sia capace il pensiero puro».
Perché la matematica può renderci felici? E in che modo?
«Mi piace paragonare il lavoro matematico a un’escursione in montagna. La partenza può essere faticosa, su una salita ripida. La cima può sembrare lontana. Dopo un tornante, eccone un altro, e si perde il respiro. Ci si può perdere, e cercare la direzione su una bussola di fortuna. In matematica, allo stesso modo, l’enunciato del problema può apparire complesso. I teoremi già conosciuti sui quali appoggiarsi sfuggono alla nostra memoria. A un certo punto, ti accorgi che hai seguito una pista sbagliata, che devi ricominciare. Ma quando il camminatore arriva sulla cima, che gioia immensa! Che vittoria! Con la matematica succede la stessa cosa. Quando alla fine hai risolto il problema, ti trovi davanti a un paesaggio mentale illimitato, ammiri in te stesso ciò di cui è capace il pensiero. Provi allora quel che Spinoza chiamava “la beatitudine intellettuale”».
* Corriere della Sera, 13 luglio 2017 (modifica il 14 luglio 2017 | 22:34) (ripresa parziale - senza immagini).
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ARITMETICA E ANTROPOLOGIA. UNA DOMANDA AI MATEMATICI:
COME MAI "UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia)?! Non è il caso di ripensare i fondamenti?!
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
KANT, FREUD, E LA BANALITÀ DEL MALE.
Filosofi per lo ius soli *
Ci rivolgiamo alle senatrici e ai senatori della Repubblica affinché venga approvata la legge che conceda finalmente la cittadinanza italiana ai figli degli immigrati non solo per ius soli, ma anche - com’è giusto che sia - per ius culturae. È una legge di civiltà, che supera quel «diritto del sangue» che ancora prevale.
Sono tanti gli adolescenti giunti nel nostro paese che, dopo aver frequentato le scuole italiane per anni, attendono un segno concreto di ospitalità.
Occorre riconoscere i loro diritti, che sono anche i nostri. Non approvare questa legge sarebbe una sconfitta, prima ancora che per loro, per noi che ci definiamo «italiani», che veniamo dalla tradizione dell’umanismo, che non possiamo dimenticare l’esempio della «cittadinanza» romana, che vorremmo nel futuro prossimo avere più voce in Europa.
Remo Bodei, Donatella Di Cesare, Roberto Esposito Alessandro Dal Lago, Michela Marzano, Mauro Bonazzi, Adriana Cavarero, Salvatore Veca, Giacomo Marramao, Paolo Flores d’Arcais, Massimo Donà, Marta Fattori, Adriano Fabris, Nicola Panichi, Eugenio Mazzarella, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Caterina Resta, Piergiorgio Donatelli, Marcello Mustè, Simona Forti, Leonardo Caffo, Elettra Stimilli, Dario Gentili, Fabio Polidori, Luca Taddio, Leonardo Amoroso, Massimo Adinolfi, Davide Tarizzo, Laura Bazzicalupo, Massimo De Carolis, Giulio Giorello, Giusy Strumiello, Gian Luigi Paltrinieri, Olivia Guaraldo.
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO:
CITTADINANZA E "DIRITTO DEL SOLE" ("IUS SOLIS"): AL DI LA’ DEL DIRITTO DEL SANGUE ("IUS SANGUINIS") E DELLA TERRA ("IUS SOLI").
LA LEZIONE DI MANDELA: [GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ.
INDIVIDUO E SOCIETÀ E COSTITUZIONE, IERI COME OGGI. USCIRE DALLO STATO DI MINORITÀ, APRIRE GLI OCCHI ..
Il presente che nutre il fascismo
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 12.07.2017)
IL FASCISMO non è mai morto. Rappresenta il bisogno di certezza comunitaria e gerarchica in una società individualistica. E nonostante i simboli sbandierati, non è un ritorno al passato. L’ombra del fascismo si stende sulla democrazia, anche quando, come la nostra, è nata nella lotta antifascista. La ragione della sua persistenza non può essere spiegata, semplicisticamente, con il fatto che non ci sia sufficiente radicamento della cultura dei diritti. Si potrebbe anzi sostenere il contrario. Ovvero, che sia proprio la vittoria della cultura dei diritti liberali (e senza una base sociale che renda la solitudine dell’individuo sopportabile) ad alimentare il bisogno di identità comunitaria. Un bisogno che il fascismo in parte rappresenta, tenendo conto che non è solo violenza e intolleranza per i diversi (anche se questi sono gli aspetti più visibili e preoccupanti).
Il fascismo rinasce un po’ dovunque nell’occidente democratico e capitalistico - le fiammate xenofobiche e nazionalistiche che gli opinionisti si ostinano a chiamare blandamente “populismo” sono il segno di una risposta, sbagliata, alla recrudescenza di un sistema sociale che funziona bene fino a quando e se esistono reti associative, capaci di attutire i colpi di un individualismo che è apprezzato solo da chi non ha soltanto le proprie braccia come mezzo di sussistenza. Senza diritti sociali i diritti individuali possono fare il gioco contrario.
La democrazia nata nel dopoguerra su una speranza di inclusione dei lavoratori si è arenata di fronte al totem di un ordine economico che non ne vuol più sapere di riconoscere limiti solidaristici alla propria vocazione accumulatrice. È nata sulle macerie di una guerra mondiale, ma non probabilmente sulle macerie dell’etica comunitaria che aveva cementato la società nazionale nel ventennio.
Nei paesi di cultura cattolica, dove il liberalismo dei diritti si è fatto strada con grande difficoltà, la dimensione corporativa è ben più di un residuo fascista. È il cardine di una struttura sociale retta su luoghi comunitari, come la famiglia o la nazione. Questi luoghi sono diventati gusci vuoti con la penetrazione dei diritti individuali. I quali sono certo un progresso morale, ma non sufficienti, da soli, a garantire una vita esistenziale appagata.
I diritti sono costosi, non solo per lo Stato che deve farli rispettare, ma anche per le persone che li godono. Un diritto è un abito di solitudine - definisce la relazione di libertà della persona in un rapporto di opposizione con gli altri e la società. Senza relazioni sociali strutturate - senza quei corpi intermedi associativi, dalla famiglia al mutualismo locale - essi sono sinonimo di una libertà troppo faticosa. Ecco perché i nostri padri fondatori più lungiumiranti, i liberalsocialisti, erano attenti a mai dissociare la libertà dalla giustizia sociale, dalla dimensione etica che riannoda i fili spezzati dai diritti individuali.
Non si vuole con questo giustificare la rinascita del fascismo e dell’esaltazione dei simboli del passato. Quel che si vuol dire, invece e al contrario, è che quel che sembra un ritorno nostalgico al passato è un fenomeno nuovo e tutto presente, dettato da problemi che la società democratica incontra nel presente. Sono tre i luoghi dove questi problemi si toccano con mano e che sarebbe miope non vedere.
Il primo corrisponde al declino di legittimità della politica, che ha smarrito il senso etico e di servizio per diventare, a destra come a sinistra, un gioco di personalismi, con i partiti che fanno cartello per blindare leadership e lanciare candidati, cercando consenso retorico ma senza voler includere i cittadini nella vita politica - la rappresentanza assomiglia sempre di più a un notabilato.
Il secondo luogo corrisponde al declino delle associazioni di sostegno che hanno accompagnato la modernità capitalistica opponendo alla mercificazione del lavoro salariato e alla disoccupazione (che è povertà) reti di solidarietà e di sostengo, ma anche alleanze di lotta, di contrattazione, e di progetto per una società più giusta.
Il terzo luogo è il mondo largo e complesso abitato dalla solitudine esistenziale connessa alla scomposizione della vita comunitaria.
In altre parole, il pericolo numero uno della società orizzontale è rappresentato dall’atomizzazione individualistica, dalla solitudine delle persone, dall’isolamento perfino cercato di soggetti che ritengono di poter dare, per citare Ulrick Beck, «soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche». Con la conseguenza, questa palpabile a seguire i social e a sentire molti nostri politici, di veder cadere ogni rapporto con la storia, con la memoria, con l’eredità proveniente dalle generazioni che ci hanno preceduto, come se il futuro potesse avere gambe sue proprie. Il rischio, è stato detto molto spesso, è quello di vivere in un eterno presente, che può anche significare riciclare simboli del passato fuori del loro contesto di significato.
Ora, se le cose stanno così, se la nostra società ha questa forma orizzontale innervata nei diritti, pensare di rimediare ritornando ai modelli gerachici fascisti e al vecchio ordine di sicurezza del comando patriarcale non solo si rivela anacronistico, ma in aggiunta oscura tutti questi nuovi rischi; non ci fa vedere quel che dovremmo riuscire a vedere bene per comprenderlo e correggerlo: l’erosione dell’eguaglianza economica, dell’integrazione sociale e del potere politico dei cittadini democratici.
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RIPENSARE L’UNO E I MOLTI ("UNO"), L’IDENTITA’ E LA DIFFERENZA!!! CONTIAMO ANCORA COME SE FOSSIMO NELLA CAVERNA DI PLATONE. NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ....
UNITÀ D’ITALIA E FOLLIA: EMERGENZA LOGICO-POLITICA EPOCALE.
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
ROMOLO AUGUSTOLO: L’ITALIA NON E’ NUOVA A QUESTI SCENARI. C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO": MUSSOLINI E LENIN A CONFRONTO. L’analisi di Gramsci (già contro derive staliniste!), una bussola per non naufragare e una lezione di vita e di libertà
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ.
AL DI LA’ DELL’ORIZZONTE DEMIURGICO. "X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA
“Così capiamo la forza che lega insieme l’Universo”
di Nicla Pancera (La Stampa, 07.07.2017)
«Non era mai stata osservata sperimentalmente, ma sapevamo che prima o poi l’avremmo trovata, perché la sua esistenza era prevista dalle teorie attuali». È orgoglioso Alessandro Cardini,responsabile dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare dell’esperimento LHCb, uno dei quattro montati sul l Large Hadron Collider del CERN (gli altri sono ATLAS, ALICE e CMS) che ha osservato la nuova particella, chiamata X_cc^(++) (Xicc++) la cui peculiarità è quella di essere composta da due quark charm, pesanti, e da un quark leggero, e di essere quindi molto pesante, quattro volte più del protone. «Protoni e neutroni sono composti da tre quark, di cui solo uno pesante, ma le teorie fisiche prevedevano da tempo la possibilità di ottenere particelle formate da più quark pesanti».
Come è nata la vostra scoperta?
«Dal 2015 a oggi, nel corso del secondo periodo di funzionamento di LHC, il Run2, abbiamo osservato 300 particelle Xicc++ e un altro centinaio sono state riconosciute a posteriori negli esperimenti del Run1».
Finora ci avevano già provato, senza successo, altri esperimenti, come «BaBar» in California e «Belle» in Giappone.
«Anche al CERN, quindici anni fa, sembrò di avere visto qualcosa, ma le conferme non erano mai arrivate».
Come mai era così difficile?
«Capita spesso che fluttuazioni statistiche vengano interpretate come prova dell’esistenza di quanto si sta cercando. Solo dettagliate misurazioni spettroscopiche possono dire con certezza cosa abbiamo davanti».
Quindi, pur non essendo una vera e propria new entry nello zoo delle particelle, Xicc++ è motivo di grande orgoglio per i ricercatori. Vederla è stato possibile solo adesso. Perché?
«Grazie a una grande capacità degli strumenti di identificazione delle particelle e alla potenza dell’acceleratore, di 13 TeV, che ci ha consentito di acquisire dati di una purezza particolare».
«Trovare un barione con due quark pesanti è di grande interesse - aggiunge Giovanni Passaleva, il nuovo coordinatore della collaborazione LHCb - Perché può fornire uno strumento unico per approfondire la cromodinamica quantistica, la teoria che descrive l’interazione forte, una delle quattro forze fondamentali», cioè quella, ancora misteriosa, che tiene unite le particelle al nucleo atomico.
I ricercatori sono già al lavoro per misurare i meccanismi di produzione e di decadimento e la durata di vita della nuova particella. La speranza è che poterla vedere «nascere» e «morire» porti verso una maggior comprensione delle regole che creano la materia dell’Universo.
La “Particella Xi”
Ecco che cosa unisce la materia
Inseguita da anni, l’ha trovata il Cern grazie al Large Hadron Collider Servirà per capire una delle forze fondamentali della natura
di Piero Bianucci (La Stampa, 07.07.2017)
L’anagrafe del mondo subnucleare registra una nuova particella, annunciata ieri a Venezia in apertura del convegno della Società Europea di Fisica. Si chiama Xi ed è esotica rispetto alla materia di cui siamo fatti. Mentre tutto il mondo che conosciamo è costruito con due tipi di quark leggeri, Up e Down, la particella Xi è costituita da due quark più pesanti, chiamati Charm, e da uno «normale», un quark Up. La cosa eccitante per i fisici è che mai finora due quark Charm erano stati osservati insieme. Singolare è anche l’assetto delle tre particelle che formano la Xi: i due quark Charm stanno al centro come un minuscolo sole e il quark Up gira loro intorno come un pianeta.
Nell’insieme, Xi è una particella alquanto massiccia. Pesa 3,6 GeV, cioè quasi 4 volte un protone. Ora i fisici cercheranno di produrre un grande numero di Xi per osservarne il comportamento e comprendere meglio i meccanismi dell’interazione forte, cioè la forza che regola i rapporti tra adroni, nome collettivo che si dà alle particelle pesanti. E poiché l’estremamente piccolo e l’estremamente grande dipendono strettamente l’uno dall’altro, alla fine potrà uscirne una migliore conoscenza dell’evoluzione stessa dell’universo.
La scoperta di Xi è interessante ma non rivoluzionaria. Anzi, l’esistenza di questa particella era prevista dalla teoria del Modello Standard e c’erano già indizi della sua esistenza. Non siamo dunque di fronte a una nuova fisica ma piuttosto a una conferma. L’importanza di Xi sta nelle possibilità di indagine che apre ad una sempre più robusta definizione del Modello.
L’osservazione di Xi è frutto di uno dei grandi esperimenti distribuiti lungo il gigantesco collider LHC del Cern di Ginevra, un anello di magneti superconduttori lungo 27 chilometri nel quale vengono fatti scontrare protoni che corrono in direzioni opposte a una velocità vicina a quella della luce. L’energia delle collisioni è la massima mai raggiunta in un laboratorio: LHC lavora a 14 TeV, cioè 14mila miliardi di elettronvolt. Per farsi un’idea di che cosa significa, l’energia in gioco nella vita quotidiana, per esempio quella dei fotoni della luce solare, è dell’ordine di un elettronvolt. A 14 TeV si ricreano le condizioni di energia che esistevano nell’universo miliardesimi di secondo dopo il big bang, un miscuglio di quark, elettroni, neutrini.
I quark previsti dal Modello Standard sono sei: l’ultimo, il quark Top, è stato trovato al Fermilab di Chicago nel 1995. I sei quark possono combinarsi in vari modi, alcuni consentiti e altri proibiti dalle leggi della fisica. Nel mondo ordinario, i nuclei atomici sono costituiti da protoni e neutroni, i quali a loro volta sono combinazioni di quark Up e Down. Solo in un mondo super-energetico compaiono gli altri quattro tipi di quark, le cui combinazioni sono in parte da esplorare. Xi è un passo in questa direzione. Non cambia niente nella nostra vita, non ci sono applicazioni immaginabili. Quello che è si è ottenuto è tassello di conoscenza pura. Il piacere della scoperta per la scoperta.
L’esperimento che ha rivelato Xi è noto tra i fisici come LHCb ed è pensato per indagare su violazioni della simmetria nelle particelle elementari, in particolare la simmetria di carica elettrica e destra/sinistra. Una terza simmetria è quella rispetto al tempo. Nella maggioranza dei casi le simmetrie sono rispettate. Ma sono le rare violazioni ad essere interessanti: si ritiene che una di queste violazioni abbia prodotto la scomparsa dell’antimateria e quindi l’universo che ora ci ospita.
Cern, scoperta la particella Xi: "Inseguita da anni, ci aiuterà a capire cosa tiene insieme la materia"
La scoperta, annunciata nella conferenza della Società Europea di Fisica in corso a Venezia è avvenuta grazie all’acceleratore più grande del mondo, il Large Hadron Collider (Lhc)
di ELENA DUSI *
VENEZIA - Scoperta al Cern la particella Xi: inseguita da decenni, potrà aiutare a studiare la ’colla’ che tiene unita la materia e capire una delle quattro forze fondamentali della natura: la forza forte, la più intensa ma anche quella con il raggio di azione più piccolo, che agisce solo a livello delle particelle subatomiche. La scoperta, annunciata nella conferenza della Società Europea di Fisica in corso a Venezia e in via di pubblicazione sulla rivista Physical Review Letters, è avvenuta grazie all’acceleratore più potente del mondo, il Large Hadron Collider (Lhc), in particolare a uno dei suoi quattro rivelatori: LHCb, coordinato dall’italiano Giovanni Passaleva dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare.
La particolarità di "mister Xi" è di avere al suo interno due quark pesanti. Pur essendo prevista dalla teoria, la presenza di due "pesi massimi" all’interno della stessa particella è stata osservata solo oggi per la prima volta. La sua massa, di conseguenza, è particolarmente grande: oltre 3.600 Mev, quasi quattro volte quella del protone. Anche la carica elettrica positiva è doppia rispetto al protone. Quindici anni fa il laboratorio americano Fermilab annunciò un’osservazione simile (ma con margini di incertezza molto più alti rispetto a oggi), ma con una massa molto diversa rispetto a quanto teorizzato. L’osservazione del Cern invece rispetta esattamente le previsioni, e dissipa le ansie che il precedente americano poteva aver sollevato.
"Trovare una particella con due quark pesanti è di grande interesse perché può fornire uno strumento unico per approfondire la cromodinamica quantistica, la teoria che descrive l’interazione forte, una delle quattro forze fondamentali", spiega Passaleva. "Queste particelle contribuiranno così a migliorare il potere predittivo delle nostre teorie". La "nuova arrivata" non esiste normalmente in natura. "E’ molto instabile" conferma Passaleva. "Viene prodotta negli acceleratori o quando i raggi cosmici, ad esempio protoni prodotti da una supernova che viaggiano nello spazio, raggiungono l’atmosfera e la colpiscono con tutta la loro energia". La vita di questa particella è molto breve: circa un millesimo di miliardesimo di secondo. Poi "mister Xi" decade in particelle più leggere.
La maggior parte della materia che vediamo intorno a noi è composta da barioni, particelle comuni composte da tre quark. I più noti sono protoni e neutroni, ma poiché in natura esistono sei tipi di quark diversi, teoricamente le combinazioni di barioni possibili sono molto numerose. Non tutte, però, sono state osservate nella realtà. All’appello mancavano proprio le particelle composte da più di un quark pesante (detto quark charm). Il terzo componente della nuova particella (il cui nome completo è Xicc++) è un quark up. "Trovata questa particella, ora cercheremo di osservare anche le sue due sorelle" aggiunge il fisico fiorentino che guida LHCb. "Quella con il terzo quark di tipo down oppure di tipo strange".
"In contrasto con le altre particelle finora note, in cui i tre quark eseguono una elaborata danza l’uno attorno all’altro, ci aspettiamo che il barione con due quark pesanti agisca come un sistema planetario, dove i due quark pesanti giocano il ruolo di stelle che orbitano l’una attorno all’altra, mentre il quark più leggero orbita intorno a questo sistema binario", ha aggiunto Guy Wilkinson, ex-coordinatore della collaborazione. Proprio ieri, il 4 luglio, cadeva il quinto anniversario dell’annuncio della scoperta del bosone di Higgs, sempre grazie all’acceleratore di particelle Lhc del Cern di Ginevra.
* la Repubblica, 06 luglio 2017 (ripresa parziale - senza note).
L’ITALIA, LA CHIESA CATTOLICA, I "TESTICOLI" DELLE DONNE E LA "COGLIONERIA" DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE "PALLE". L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!!:
Lettere
Quanto è atavica la mentalità maschile
La donna che non genera è esposta a un dubbio logorante.
Ed è guardata ancora con sospetto
Risponde Umberto Galimberti *
Alla parità tra maschi e femmine non si arriverà mai, perché, non essendo in grado di generare, i maschi capiscono del mondo femminile unicamente quello che loro ritengono sia proprio della donna, e precisamente ciò che per natura a loro non è concesso. Svincolati dai ritmi della natura, i maschi, per occupare il tempo e non morire d’inedia nell’ozio, hanno inventato la storia, e in questa storia hanno inserito la donna come generatrice, madre dei loro figli, prostituta per le loro soddisfazioni sessuali e, a sentire Lévi-Strauss, il più grande antropologo del ’900, come merce di scambio nei loro traffici.
Un altro antropologo, Bronislaw Malinowski, riferisce che gli abitanti delle numerose tribù da lui visitate ignoravano il ruolo maschile nella generazione, e pur tuttavia, le donne da lui interrogate, rispondevano che tutti i figli assomigliano al padre, mentre la madre, genitrice riconosciuta dai suoi figli, non ha con essi alcuna somiglianza. La coppia parentale, "paritetica" nella riproduzione sessuale, diventa "gerarchica" nella rappresentazione sociale. A questo schema non sfugge neppure Aristotele per il quale "la femmina offre la materia e il maschio la forma", e neanche il mito cristiano di Maria Vergine, che con il suo corpo mette al mondo il figlio di Dio che di sé dice: "Io e il Padre siamo una sola cosa" (Gv. 10,30).
Questo impianto ideologico, che affonda negli abissi del tempo e della storia, governa ancora la mentalità maschile, che da qui prende spunto per esercitare il suo potere sul mondo femminile ridotto al rango di "materia", a proposito della quale Aristotele scrive: "La femmina desidera il maschio come la materia desidera la forma, il brutto desidera il bello".
A questo punto il dominio dell’uomo sulla donna appare come perfettamente "naturale", perché non c’è niente di più naturale e di più evidente del suo corpo fatto apposta per la generazione. Ebbene, proprio nella differenza tra il corpo dell’uomo e il corpo della donna si trova la prova inconfutabile del dominio del primo sulla seconda, di cui sono convinti non solo gli uomini, ma anche le donne che per secoli hanno trovato naturale il dominio esercitato su di loro da parte dell’uomo. Com’è noto, infatti, il potere non sta tanto nell’esercizio della sua forza, ma nel consenso dei dominati alla propria subordinazione.
È da questo consenso, quello dei subordinati, che lei si deve liberare. E liberandosi potrà persuadere la mente di qualche uomo e di qualche donna che la donna non è solo materia per la generazione e i piaceri sessuali, ma al pari dell’uomo può generare anche a un altro livello, quale può essere la realizzazione di sé nel mondo lavorativo, in quello culturale, persino in quello sessuale senza doversi ridurre alla pura e semplice opacità della materia. E se sente sopra di sé la disapprovazione di molti tra quanti le stanno intorno, sappia che dobbiamo fare a meno di mezzo mondo per poter generare il nostro mondo, che non è deciso solo dalla biologia al servizio della specie, perché la specie, come sappiamo, è interessata agli individui unicamente per la sua sopravvivenza. E dopo che hanno generato, nella sua crudeltà innocente, li destina alla morte, perché altri individui, nascendo e generando, le assicurino la sua vita.
Adam Smith sbagliava perché le reti sociali precedono l’economia
Siamo figli del dono e non del baratto
di Adriano Favole (Corriere della Sera, La Lettura, 18.06.2017, p. 9)
Il dono assomiglia a uno di quei corpi celesti che in teoria dovrebbero esistere, di cui si danno cioè segni di presenza, ma che risulta impossibile vedere con certezza. Guy Nicolas (Alfredo Salsano, Il dono perduto e ritrovato, Manifestolibri, 1994) lo definiva la faccia nascosta della modernità: se la ricerca dell’interesse, il calcolo, il profitto, insomma l’economia di mercato ha un carattere evidente, lineare e misurabile, il dono - che pur sorregge e struttura le relazioni sociali - è quanto mai sfuggente. Non poche narrazioni oggi riportano a galla le economie del dono, ma per intendere che cosa?
Il dono è il gesto disinteressato e generoso, l’anonimo che contribuisce a una campagna di raccolta fondi per i poveri oppure è quel principio di reciprocità mosso dalla triplice legge del dare-ricevere-ricambiare come diceva Marcel Mauss (Saggio sul dono, Einaudi, 2002) che non esclude in realtà il perseguimento dell’interesse e l’ostentazione del dare? Uno scambio di oggetti, servizi, favori è dono e non mercato quando manca la garanzia della restituzione o, meglio, quando essa è affidata al legame sociale e non a un contratto; è dono quando non c’è una misurazione oggettiva del valore. Il dono in questo caso è reciprocità ma tutto ciò ha ben poco a che fare con il dono «puro» e disinteressato.
Diversi libri pubblicati di recente provano a svelare il pianeta nascosto del dono, in una contemporaneità dominata dal paradigma economicista. Cosimo Marco Mazzoni per esempio considera il dono ambivalente, oscuro, contradditorio e lo definisce un «dramma» (Il dono è il dramma, Bompiani 2016). La gratuità in effetti induce sospetto: «Se è gratis c’è l’inganno», pensiamo; essa nasconde spesso dinamiche di potere per cui il donare apparentemente liberale schiaccia chi lo riceve. La beneficenza è un prodotto di società della diseguaglianza, in cui prima si accumula la ricchezza in poche mani che in seguito si presentano come generose (Jean Starobinski, A piene mani, Einaudi, 1995).
Abitante straniero di un continente dominato dal mercato, il dono presenta molti lati oscuri. Mazzoni però contribuisce a spiegarne la forza e la persistenza nella modernità: il dono consente riconoscimento e ri-conoscenza (reciproca). Soprattutto nella figura maussiana del dare, ricevere, ricambiare, donatori e riceventi si riconoscono a vicenda, ribadiscono attraverso la circolazione degli oggetti la loro «presenza» sulla scienza sociale. Il dono, in questo senso - ed è un vecchio tema dell’antropologia economica - fonda la persona relazionale.
Anche il libro di Matteo Aria I doni di Mauss (Cisu, 2016), che ricostruisce puntualmente i dibattiti che hanno accompagnato il dono all’interno della storia dell’antropologia culturale, ne mostra ambiguità e contraddizioni. Fin dal Saggio di Mauss, il dono oscilla tra interesse e gratuità, tra reciprocità e assenza di restituzione. I critici del dono lo vedono come un «camuffamento» della logica di mercato, come una testa d’ariete di un tardo capitalismo edulcorato e travestito. Donando, gli esseri umani perseguirebbero i propri interessi con altre modalità. Gli entusiasti del dono, riuniti nel movimento che porta l’acronimo M.A.U.S.S. ( Mouvement anti-utilitariste dans les sciences sociales) vi vedono invece l’ultima forma di resistenza contro la diffusione della specie invasiva dell’ homo oeconomicus, fattosi macchina calcolatrice e distruttrice di ambienti e relazioni sociali. Un tesoro nascosto fatto di volontariato, collaborazione informale, rapporti inter-generazionali che regge la vita delle società post-welfare state, dove è grazie ai rapporti di reciprocità che si supplisce al venir meno dello Stato madre che si prende(va) cura dei figli.
Per diradare le nebbie, Aria distingue il dono dalla «condivisione», nozione più adatta a esprimere quelle situazioni caratterizzate dallo «stare» e dal «fare» insieme, anche a prescindere dallo scambio. Si delineano così quattro diverse logiche dell’agire economico: la condivisione, la reciprocità (o dono), lo scambio-mercato e la redistribuzione garantita dallo Stato o comunque da un centro politico.
Un modo di avvicinarsi al pianeta del dono può consistere nel ritornare agli originali lidi oceaniani che ispirarono Mauss. Serge Tcherkézoff, antropologo francese, tra i più importanti esperti europei di Oceania, ha di recente pubblicato Mauss à Samoa (Pacific-Credo, 2016). I samoani, anche oggi, si scambiano cibo, stoffe di corteccia e soprattutto finissime stuoie ottenute intrecciando foglie di pandano, soprattutto nel corso dei riti di passaggio (nascita, primo tatuaggio, matrimonio, accesso al ruolo di «capo villaggio», funerale). Il termine samoano più vicino all’idea di «dono» è sau. A Samoa, ci dice Tcherkézoff, sau significa «la felicità del donare e la capacità di creare la vita». Come sintetizzò un capo di alto rango a Tcherkézoff all’inizio degli anni Ottanta: «La nozione di sau è legata alla persona. Noi diciamo il sau della vita. Vuol dire: il tuo arrivo, il tuo essere qui è il sau della mia vita», per questo all’arrivo di qualcuno o di uno straniero gli si fa un dono.
Nella cultura samoana i doni, soprattutto le stuoie, simboleggiano la capacità dell’essere umano di «nutrire», avvolgere e dare la vita. L’economia dei doni esprime la dimensione relazionale dell’essere umano, la centralità del legame sociale che va anche oltre la dimensione dell’esistente, perché unisce i viventi con gli antenati e con coloro che stanno per nascere.
Si potrebbe dire che se i soldi non si portano nella tomba, i doni tutto sommato sì! E così oggi, la diaspora samoana verso la Nuova Zelanda, il Regno Unito e la costa pacifica degli Usa, si accompagna alla diffusione delle stuoie di pandano che simboleggiano la profondità genealogica dei gruppi e la rete orizzontale che lega tra loro le famiglie samoane.
Fin qui antropologi, giuristi, sociologi: ma che ne pensano gli economisti del dono? Quale spazio gli riservano nei loro studi? Nel recente Economics as social science (Routledge, 2016), Roberto Marchionatti e Mario Cedrini ribaltano la tesi di Adam Smith: «La scoperta di Mauss - scrivono - è la mano invisibile dello scambio dono, vale a dire la fondazione socio-politica delle società, da cui dipende la loro dimensione economica (e razionale)».
L’errore di Adam Smith, replicato all’infinito dai suoi discendenti, è stato quello di porre all’origine delle economie umane il baratto, concepito come una forma arcaica di logica di mercato che dimostrerebbe l’universale (e immutabile) natura umana, ovvero il perseguimento dell’utile e dell’interesse individuale.
In realtà, come già ha chiaramente argomentato David Graeber (Il debito, Il Saggiatore, 2011), all’origine furono il dono e il debito, non il baratto. L’economia è incastonata nelle reti sociali e non viceversa. Uscire dall’imperialismo della scienza economica che da tempo si è chiusa in un’isola separata dalle altre scienze sociali, significa insomma mettere al centro nozioni come quelle di dono, condivisione e redistribuzione, la cui complessità rende ragione di un essere che «ancora non è diventato una macchina calcolatrice», come scriveva Mauss.
COSÌ VA IL MONDO: NOAH CHOMSKY, KANT, E LA CREATIVITÀ.
Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico (e un omaggio a G.B. Zorzoli): *
[...] Kant è il punto di svolta: le condizioni di possibilità della conoscenza non vengono “più ricercate in qualcosa di preesistente, in un modello ontologico ideale, o in un luogo di modelli ideali, che - soli - consentono di parlare del mondo reale come appare e come è conosciuto”. Ciò che ancora non abbiamo capito è che Kant va alla radice e ci porta fuori del vecchio programma centrato sul “come conosciamo”: il suo problema - come è possibile la conoscenza scientifica (e non)? - è la risposta più radicale, e più adeguata, all’altezza della nuova Terra e del nuovo Cielo, scoperti dalla nuova fisica, e alla navigazione dell’umanità nell’“oceano celeste” (Keplero a Galilei, 1611).
[...] Compresa con Chomsky tutta l’importanza della distinzione tra la creatività sotto un codice dato (la “rule-governed creativity”) e la creatività “nel senso pieno del termine” (la “rule-changing creativity”), si rende - sulla spinta dei contributi di Antonucci e De Mauro - di quanto e di come sia necessario portare il problema oltre la chomskiana “struttura profonda”, “in quanto struttura già linguistica”, in una struttura intesa “non più come qualcosa di linguisticamente omogeno, quanto piuttosto come un dispositivo eterogeneo, linguistico e non-linguistico, per esempio anche intellettuale e psicologico”, e così scrive e precisa: “In altre parole, si tratta non di una presa di posizione antichomskiana, o più in generale antigenerativa, ma di un suo approfondimento ulteriore, che tende a portare al di là del linguaggio. (Si intende al di là del linguaggio, non nell’aldilà della speculazione)”. E a questo punto, con il conforto e e la spinta del contributo di Hogrebe, la via a e di Kant è riaperta e ripresa! Non è che l’inizio: Kant è ancora tutto da rileggere, a partire dalla “Storia universale della natura e teoria del cielo” e dai “Sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica”.
* SI CFR.: "CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico".
Federico La Sala
SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITÀ E SULLO SPIRITO CRITICO, OGGI. "X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA...
Maghe, streghe, sciamane, guaritrici: le artiste alla Biennale d’Arte di Venezia 2017
Aperta ai Giardini e all’Arsenale la 57esima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, diretta dalla francese Christine Macel
inserito da Flavia Matitti *
Sono maghe, streghe, sciamane, guaritrici. Consolano, curano, condividono, ma quando svelano ansie e minacce dei nostri giorni diventano perturbanti. Appaiono così le artiste presenti alla 57esima Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, aperta ai Giardini e all’Arsenale dal 13 maggio al 26 novembre 2017.
L’edizione 2017 della Biennale di Venezia, del resto, conta su una marcata presenza femminile. A cominciare dalla direzione artistica, affidata alla storica dell’arte parigina Christine Macel (n.1969), curatrice capo al Centre Pompidou, convinta che: “L’arte di oggi, di fronte ai conflitti e ai sussulti del mondo, testimonia la parte più preziosa dell’umanità, in un momento in cui l’umanesimo è messo in pericolo”. Nella sua mostra intitolata “Viva Arte Viva” (una programmatica dichiarazione di fiducia nel potere rigenerante dell’arte) Christine Macel ha inserito oltre quaranta artiste su un totale di 120 nominativi.
Tra queste vi sono alcune figure leggendarie come Maria Lai (1919-2013), sarda, custode del bagaglio culturale della sua isola, autrice di poetici lavori incentrati sull’uso del filo. Qui è rievocata anche la performance collettiva “Legarsi alla montagna”, realizzata dall’artista con gli abitanti del suo paese, Ulassai, l’8 settembre del 1981, un esempio di come l’arte possa innescare un processo di partecipazione e condivisione.
Singolare la coincidenza con il lavoro della coreografa americana Anna Halprin (n.1920), attiva dalla fine degli anni ’30, che nel 1981, in seguito allo shock provocato dall’assassinio di sette donne sui sentieri del Monte Tamalpais, vicino San Francisco, sviluppa una danza rituale di gruppo, per riconciliare la montagna con la comunità, poi divenuta la “Planetary Dance”, una danza per la pace che viene ripetuta annualmente ed eseguita in mostra nei giorni del vernissage.
Tra i tanti lavori esposti spicca ai Giardini la bella sala dedicata a Kiki Smith (n.1954), popolata di sculture e delicati disegni a inchiostro su carta nepalese, mentre all’Arsenale si segnalano la vivace installazione, fatta di balle colorate, dell’americana Sheila Hicks (n.1934), che ama definire le sue opere “tessiture senza pregiudizi” e il lavoro della polacca Alicja Kwade (n.1979), attiva a Berlino, una raffinata installazione che sfida le nostre capacità percettive.
Numerose sono anche le artiste chiamate a rappresentare il loro Paese attraverso progetti individuali concepiti appositamente per i rispettivi padiglioni nazionali, che quest’anno sono 86, sparsi tra i Giardini, l’Arsenale e il resto della città. Per il Padiglione della Germania, ad esempio, Anne Imhof (n. 1978) ha ideato “Faust”, un lavoro cupo sul tema del controllo e della sicurezza, col quale il padiglione tedesco si è aggiudicato il Leone d’oro per la migliore partecipazione nazionale.
L’artista ha trasformato lo storico edificio ai Giardini in un bunker recintato e sorvegliato all’esterno da guardie accompagnate da cani feroci, mentre l’interno appare come un carcere, in cui un team di performer mette in scena episodi di arbitrio e autorità, resistenza e libertà.
La sensazione di trovarsi in un luogo minaccioso si avverte anche nel Padiglione del Brasile (premiato con una menzione speciale), dove Cinthia Marcelle (n.1974) ha realizzato il progetto “Hunting Ground”, sostituendo al pavimento delle grate metalliche disposte secondo piani inclinati.
Il Padiglione della Gran Bretagna appare invece invaso da sculture informi e colorate, festose e inquietanti, secondo il progetto “Folly” di Phyllida Barlow (n.1944).
Kirstine Roepstorff (n.1972) vorrebbe al contrario rassicurare e dal Padiglione della Danimarca invita, tramite un’esperienza immersiva, ad accettare la precarietà, l’ignoto e la trasformazione come componenti naturali del processo di crescita. L’artista ha allestito un teatro nel quale il visitatore si impegna a trascorrere mezz’ora, al buio, in un’oscurità mistica evocatrice dell’utero materno, del cosmo o dell’aldilà, mentre una voce sussurra: “Hai tutto dentro di te, devi essere disposto a cambiare completamente dal vecchio sistema di orientamento al nuovo: l’oscurità è il vuoto gravido da cui sorge e nasce ogni cosa”. -Tracey Moffatt (n.1960), la prima artista indigena a rappresentare l’Australia con una mostra individuale, presenta il progetto “My Horizon”, che attraverso fotografie, filmati e video affronta, tra realtà e finzione, il tema dei migranti e dello spaesamento quale condizione esistenziale.
Tra l’altro si può vedere un vecchio filmato (Tracey Moffatt dice di averlo recentemente riscoperto) girato dai popoli indigeni australiani nel 1788, quando le prime navi della flotta britannica entrarono nel porto di Sidney.
La Romania dedica per la prima volta a una donna, Geta Brătescu (n.1926), una mostra individuale, offrendo così l’occasione per conoscere il lavoro di quest’artista, che attraverso disegni, collage, fotografie, oggetti e film conduce una riflessione affascinante sulla soggettività femminile.
Vale la pena ricordare, infine, Jesse Jones (n.1978) col suo progetto video “Tremble, tremble” per il Padiglione dell’Irlanda in cui recupera, con la straordinaria performer Olwen Fouéré, la figura della strega quale archetipo femminista ed elemento di rottura in grado di trasformare la realtà. Il titolo riprende lo slogan delle femministe italiane degli anni ’70 “Tremate, tremate, le streghe son tornate!” e invoca una trasformazione dei rapporti tra Chiesa e Stato nell’Irlanda di oggi.
Spesso anche la direzione artistica dei padiglioni nazionali è donna, come nel caso del Padiglione Italia, senza dubbio uno dei migliori di questa edizione. Da notare che la curatrice, Cecilia Alemani, ha voluto richiamare il tema della magia fin dal titolo della sua mostra - “Il mondo magico” (dal libro di Ernesto de Martino) - un tema che i tre artisti invitati (Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey) hanno declinato magnificamente, ciascuno a suo modo.
Su proposta di Christine Macel, inoltre, il Leone d’oro alla carriera è andato quest’anno all’americana Carolee Schneemann (n.1939), pioniera della performance femminista fin dagli anni ’60. “Schneemann - si legge nella motivazione - ha utilizzato il corpo nudo come forza primitiva e arcaica in grado di unificare le energie”.
Come sempre, durante la Biennale, sono innumerevoli gli eventi organizzati in città, ma sulle artiste si segnalano in particolare: la piccola mostra-dossier sulla pittrice surrealista danese Rita Kernn-Larsen (1904-1998), una riscoperta promossa dalla Collezione Peggy Guggenheim (fino al 26/6); l’esposizione “The Home of My Eyes”, che presenta 26 fotografie e il toccante video “Roja” (2016) dell’iraniana Shirin Neshat al Museo Correr (fino al 26/11); i raffinati progetti site specific realizzati da Marzia Migliora, in collaborazione con la Fondazione Merz, per le sale di Ca’ Rezzonico (fino al 26/11) e da Elisabetta Di Maggio (fino al 24/9) e Maria Morganti per gli spazi della Querini Stampalia.
Da non perdere, infine, la mostra collettiva “Intuition” a Palazzo Fortuny (fino al 27/11), che spazia da Hilma af Klint a Marina Abramovic, e “Future Generation Art Prize@Venice 2017” a Palazzo Contarini Polignac (fino al 13/8).
In quest’ultima spiccano la misteriosa installazione rituale dell’artista sudafricana Dineo Seshee Bopape, vincitrice di questa quarta edizione del premio istituito dal mecenate ucraino Victor Pinchuk, e la fiabesca opera multisensoriale “Mutumia” (donna in Kikuyu) dell’artista kenyota Phoebe Boswell, vincitrice del premio speciale.
Biennale di Venezia 2017- didascalie
1. Sheila Hicks, Scalata al di là dei terreni cromatici, 2016-17, Arsenale, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva (Photo Flavia Matitti)
2. Alicja Kwade, WeltenLinie, 2017, Arsenale, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva (Photo Flavia Matitti)
3.Tracey Moffatt, Madre con bambino, dalla serie Traversata, 2017, Padiglione dell’Australia, Giardini, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia (Photo courtesy the Artist, Australia Council for the Arts).
4. Una veduta esterna del Padiglione della Germania trasformato da Anne Imhof, Giardini, 57. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia (Photo by Flavia Matitti).
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LA BIENNALE DI VENEZIA - Noi Donne, 15 Maggio 2017 (ripresa parziale).
Massimo De Carolis, la libertà e il suo doppio
di Paolo Godani *
Nelle ultime pagine delle Origini del totalitarismo, riflettendo sulle condizioni che possono predisporre l’avvento di un regime totalitario, Hannah Arendt individua in particolare quella che chiama loneliness (termine che viene distinto sia da isolation sia da solitude). La desolazione, cioè la situazione in cui un singolo si sente “abbandonato [deserted] da ogni umana compagnia”, è ciò che, se inizia a presentarsi come un sentimento ordinario e diffuso in una società ancora non totalitaria, “prepara gli uomini alla dominazione totalitaria”. Non si tratta semplicemente della solitudine anonima di cui si può fare esperienza per esempio negli spazi, al contempo sempre affollati e sempre deserti, dei centri commerciali o delle tangenziali congestionate dal traffico, bensì della sensazione per cui ogni condivisione, ogni comunanza sembra divenuta per principio impossibile.
Non c’è da stupirsi che un sentimento del genere sia ancora ben presente nelle nostre società contemporanee, se è vero che può essere considerato come il risultato di una serie di dispositivi che, negli ultimi trent’anni almeno, hanno promosso la distruzione sistematica non solo di ogni organizzazione sociale e politica, ma quasi della stessa possibilità di pensarsi in comune. La logica e la strategia di questi dispositivi di individualizzazione è evidente: dissolvere aggregazioni collettive potenzialmente capaci di mettere in discussione l’ordine stabilito, ed evitare che si ricostituiscano. Meno evidente è come tali dispositivi funzionino e, soprattutto, da dove traggano la loro efficacia.
Prendendo sul serio il pensiero neoliberale, evitando cioè di derubricarlo a mera ideologia della classe dominante e considerandolo invece come un vero e proprio progetto di società nato per contrastare la sconfitta del liberalismo classico di fronte al totalitarismo novecentesco, Massimo De Carolis (in un libro della cui ricchezza e profondità di analisi non potremo qui dare interamente conto) mostra con precisione come e perché il neoliberalismo veda nell’atomizzazione sociale un presupposto necessario allo sviluppo di una società libera.
Il principio di fondo del neoliberalismo è che nessuna autorità di sorta possa pretendere di dar luogo al “governo razionale” di una società complessa e pluralista, se non a scapito della molteplicità delle opportunità e delle scelte che costituiscono la potenza di quella stessa società. In questo senso, la decisione politica neoliberale consiste nel negare la legittimità di ogni decisione politica, per lasciare campo libero all’interazione sociale nella sua perfetta autonomia. Quest’ultima, però, ha luogo solo dal momento in cui si mettono in azione tutta una serie di meccanismi capaci di neutralizzare ogni possibile stratificazione che si sovrapponga alla mera interazione tra individui. Ogni singolo deve poter agire esclusivamente in vista dei propri desideri e degli interessi che suppone siano i suoi, senza che alcuna sovrastruttura di sorta venga a impedire o a complicare la possibilità della sua azione. L’ordine sociale migliore - ed è questo il filo di continuità con il liberalismo classico - sarà quello in cui il governo si limiti a garantire questa prassi, eliminando ogni possibile intralcio al suo dispiegarsi.
Questa concezione si fonda su un presupposto antropologico implicito, secondo il quale la vita umana libera, cioè non sottomessa ad alcun potere di coercizione, può implicare un solo genere di relazione tra individui: “il do ut desformalizzato dal mercato”. Oltre questa relazione “mercantile” non ci sarebbe altro che dominio e sottomissione. Conseguentemente a questo presupposto, la governance neoliberale si dà come funzione propria non certo quella di governare o dirigere il mondo degli scambi, quanto piuttosto quella di mettere in atto tutti i dispositivi necessari affinché l’unica relazione sussistente tra gli individui resti quella fondata sul do ut des.
De Carolis spiega con grande chiarezza come sia proprio da qui che discende quel “governo della vita” già individuato da Foucault come cardine della biopolitica neoliberale. La governance mira a dissolvere tutti gli elementi che possono ostacolare il libero dispiegarsi del processo sociale, ma per far questo deve intervenire sulle convenzioni tacite, sulle abitudini sociali, sui modi di vita, sui legami affettivi e sulle modalità di relazione e comunicazione, deve cioè “fare molto di più che limitarsi a ritoccare le singole norme: [deve] prendere come bersaglio la normalità in sé stessa”. Questo tipo di intervento, diversamente da quello sovrano, non si manifesta esemplarmente nei momenti d’eccezione ma, proprio in quanto prende di mira lo stesso costruirsi della normalità sociale nella continuità e nella contingenza del suo divenire, ha necessariamente la forma di un’eccezione che diviene regola. In questo senso, come Il rovescio della libertà sottolinea in maniera molto convincente, il neoliberalismo si distingue dal modello liberale classico per la sua convinzione che l’ordine spontaneo del mercato possa fondarsi su “regole che sono interamente il risultato di una progettazione deliberata”.
I dispositivi di individualizzazione, dunque, funzionano secondo il criterio della riduzione delle relazioni sociali all’unica forma libera di relazione, ricalcata sul modello dello scambio. Ma da dove derivano la loro efficacia? E perché, di conseguenza, il progetto neoliberale è riuscito, in pochi decenni, a imporsi in maniera così assoluta e pervasiva, sino a presentarsi come l’unico modello possibile di convivenza civile? La risposta di De Carolis, a questo proposito, è tanto realistica quanto dubbia: il successo del neoliberalismo, spiega, “è dipeso dalla capacità di intercettare un genere di desiderio, che i processi di dinamizzazione stavano rendendo sempre più profondo e più diffuso: il desiderio di vedere riconosciute e realizzate le proprie potenzialità, esponendo i propri sogni alla prova dei fatti, perché, in un mondo dominato dalla contingenza, è questo l’unico modo di assodarne l’autentico valore”. Al di là delle possibili obiezioni “antropologiche”, il problema - come del resto lo stesso De Carolis non esita a riconoscere - è che i dispositivi di potere del neoliberalismo contemporaneo producono in realtà un contesto sociale a cui “ci si può solo adattare, per non essere esclusi del tutto da una vita sociale la cui dinamicità apparente diventa il velo sottile di una riproduzione sempre più rigida e sempre meno generosa”.
È indubbio, certo, che nel corso degli anni Sessanta e Settanta le società europee e americane manifestassero desideri di liberazione dalle antiche forme del dominio sociale e della sovranità politica e nazionale, ed è possibile sostenere che il neoliberalismo abbia sfruttato queste istanze per altri fini. Ma mi pare altrettanto certo che le ragioni di fondo dell’imporsi del neoliberalismo si trovino piuttosto nel tentativo di impedire che “l’avanzata di una controcultura dai toni minacciosamente rivoluzionari” mettesse in questione non tanto l’ordine “cosmico” quanto, più prosaicamente, l’ordine economico e sociale costituito.
Che il progetto neoliberale sia riuscito vittorioso è evidente, come anche il fatto che “il tramonto del neoliberalismo sia il vero evento cruciale di questa epoca ”. Il dubbio legittimo è che questo tramonto, decretato dal ritorno di aggregazioni neofeudali radicate solo nella paura e nel risentimento, cioè sugli ultimi sentimenti che restano in un contesto di desolazione, sia solo l’altra faccia che lo stesso ordine costituito presenta quando deve affrontare le proprie crisi ricorrenti. E che un’“alleanza politica [...] autenticamente rivolta alla costruzione di un progetto di vita condiviso” non possa darsi riconoscendo come irrinunciabile il fondamento individualista della “nuova idea di civiltà” neoliberale, ma solo a condizione di saltare fuori dall’orizzonte prodotto dai suoi dispositivi.
* Alfabeta2, 2 maggio 2017 (ripresa parziale).
LA DIALETTICA DELLA LIBERAZIONE (1968),IL SENSO DELLA POSSIBILITA’” (1988), E ... L’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’ (2018)! *
SE è VERO CHE “nel corso degli anni Sessanta e Settanta le società europee e americane manifestassero desideri di liberazione dalle antiche forme del dominio sociale e della sovranità politica e nazionale, ... CHE “l’avanzata di una controcultura dai toni minacciosamente rivoluzionari” mettesse in questione non tanto l’ordine “cosmico” quanto, più prosaicamente, l’ordine economico e sociale costituito”;
CHE “il progetto neoliberale sia riuscito vittorioso è evidente, come anche il fatto che “il tramonto del neoliberalismo sia il vero evento cruciale di questa epoca ”,
E SE è, ALTRETTANTO, VERO CHE “un’“alleanza politica [...] autenticamente rivolta alla costruzione di un progetto di vita condiviso” non possa darsi riconoscendo come irrinunciabile il fondamento individualista della “nuova idea di civiltà” neoliberale, ma solo a condizione di saltare fuori dall’orizzonte prodotto dai suoi dispositivi”,
NON SI PUO’ NON RIPRENDERE IL FILO DELLA RIFLESSIONE E DELLA RI-ORGANIZZAZIONE, DALLE INDICAZIONI E DALL’ORIZZONTE DELLA DISCUSSIONE DELLA “DIALETTICA DELLA LIBERAZIONE” (cOOPER, CARMICHAEL, SWEEZY, LAING, MARCUSE, GERASSI, BATESON E altri, EINAUDI 1969) E DA “IL SENSO DELLA POSSIBILITA’” (ATTILIO MANGANO, Antonio Pellicani Editore, roma 1998).
SU QUANTO E COME sia necessario SALTARE FUORI dall’ORIZZONTE TEORETICO E STORIOGRAFICO dato, mi sia lecito, si cfr. le note su:
RENZO DE FELICE E LA STORIA DEL FASCISMO: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA “CAPO”! (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5889);
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4790).
Lo sguardo di Selma James
Intervista. La storica femminista, coordinatrice internazionale del Global Women’s Strike
di Geraldina Colotti (il manifesto, 24.03.2017)
Selma James è la coordinatrice internazionale del Global Women’s Strike (Sciopero Globale delle Donne), la cui strategia per il cambiamento è «investire nella cura della vita, non nella morte».
È co-autrice di Potere Femminile e Sovversione Sociale. Il suo libro più recente è Sex, Race and Class, (Pm Press, Usa e The Merlin Press nel Regno Unito). L’attività di Selma ha per base il Crossroads Women’s Centre a Londra.
Una lunga storia di femminismo. Quali sono stati gli assi di riflessione più importanti?
Sono entrata nel gruppo giovanile del Workers Party, quando avevo 15 anni, in parte perché mia sorella era nel partito. Faceva parte di una minoranza, la Johnson-Forest Tendency, Cyril Lione Robert (CLR) James, era Johnson e io mi sono trovata in quella minoranza nel giro di pochi mesi.
Non capivo molto, ma la Johnson-Forest era molto meno astratta e intellettuale e molto più rispettosa del resto del partito verso gli operai. Il partito parlava dell’Unione sovietica come di uno «Stato operaio degenerato». Per CLR, si trattava di un capitalismo di Stato: il partito che aveva diretto la rivoluzione - diceva -, dopo aver preso il potere, lo aveva usato contro di noi. Mi sembrava chiaro.
Quello che imparai, e che non avevo mai saputo prima, fu che, se la classe operaia non si tiene stretto il proprio movimento anziché dipendere da un partito - vale oggi anche per le Ong e gli individui ambiziosi che vogliono usare il movimento per i propri interessi - il capitalismo non sarà mai sconfitto.
Anni dopo, questo dovevo leggerlo in Marx. Questo è stato il mio punto di partenza per l’organizzazione all’interno dei movimenti anti-imperialisti e anti-razzisti e nel movimento delle donne, esplosi nel Regno unito, negli Usa, in Italia e nei Caraibi dagli anni ’60 in poi.
CLR sostenne sempre la mia attività nel movimento delle donne. Venne deportato dagli Usa sotto il maccartismo. Lo raggiunsi nel Regno unito un paio di anni dopo con mio figlio. Poi, CLR tornò a casa nei Caraibi di lingua inglese e lavorammo insieme per l’indipendenza e la federazione delle isole.
L’esperienza della lotta anti-imperialista dei Caraibi trasformò la mia vita. Dappertutto le donne, anche se molto diverse, condividevano una prospettiva. Il loro contributo a quella lotta non è stato ancora riconosciuto.
Come vede questo nuovo movimento femminista? Quali sono gli elementi di continuità e di rottura con la prospettiva del grande Novecento?
Tutte noi abbiamo dovuto elaborare molte questioni fondamentali poste dal movimento delle donne e per estensione da ogni movimento, esploso negli anni ’60 e ’70.
La prima: qual è il rapporto di ciascun settore con il capitale? Entro il 1970, dopo aver letto la maggior parte del Primo volume del Capitale in un gruppo di studio, scoprii la cosa ovvia: che le donne producevano e riproducevano la singolare merce del capitale, la forza lavoro, il fattore della produzione che, in maniera unica, produce di più, molto di più, di quello che consuma.
Vidi anche come il sessismo e il razzismo e altre discriminazioni produttive fossero parte della gerarchia all’interno della classe operaia, e permettessero al capitale di dominarci. Il che mi portò alla seconda questione: come può un movimento che abbraccia molti strati servire gli interessi dei più sfruttati? Queste sono le questioni che alcune di noi affrontarono lavorando insieme.
La prospettiva che emerse per dare potere alle donne contro la produzione di persone che poi sarebbero state schiave del capitale e contro questo lavoro che rende schiave anche noi (come sempre siamo state), era il salario per il lavoro domestico: per tutte le donne, pagato dallo stato.
Adesso siamo in un momento diverso. Molte donne che erano casalinghe a tempo pieno vanno a lavorare fuori per paghe basse, sono oppresse da due lavori, e sono stanche. Allo stesso tempo, alcune sono salite in alto, qualche volta molto in alto, rompendo non solo il tetto di cristallo, ma quello di classe che divide le donne più profondamente che mai. E noi dovremmo celebrare la loro ascesa come una vittoria? Fortunatamente il movimento Occupy ci offre le parole per descrivere come la società sia divisa in classi. Noi siamo il 99% e loro, l’1%.
Il femminismo si divide tra quelle il cui obiettivo si basa su questa struttura e quelle che sono entrate nell’1% o sono indecise se entrarci e calpesteranno chiunque per «arrivare». Le «gonne d’oro» (come vengono chiamate nei paesi nordici) con le donne e gli immigrati che le servono e permettono loro di realizzare le proprie ambizioni, sono spesso le femministe più celebrate.
Ma un femminismo nuovo sta sbocciando, come i fiori in primavera. È anti-capitalista, quindi a favore della razza umana e, in maniera determinante, di quelle che la creano e se ne prendono cura e si prendono cura del pianeta.
Lo Sciopero Internazionale delle Donne si è diviso su questa questione. O piuttosto, alcune donne hanno mancato di citare il lavoro più universale che ci si aspetta che le donne facciano - il lavoro di cura - o la povertà a cui questo lavoro non salariato ci condanna. Altre, a cominciare da noi stesse, spingono perché il riconoscimento economico sia compreso tra le rivendicazioni, e questo è stato accettato.
Una prospettiva molto diversa si è vista, per esempio, in Argentina, dove il riconoscimento della cura della razza umana è stata una rivendicazione. E poi ci sono state rivendicazioni internazionali offerte dal movimento per il salario del lavoro domestico (che questo lavoro dev’essere sostenuto economicamente), accettate specialmente perché molte donne di colore le hanno fatte proprie.
Questa rottura dell’equazione tra il femminismo per poche nei corridoi del potere a spese dell’avanzata di tutte le altre donne è l’onda del futuro. È il femminismo del 99% e invita le donne a unirsi per trasformare la società .
Lei ha guardato molto all’America latina del socialismo del XXI Secolo. La costituzione bolivariana del Venezuela riconosce il valore sociale del lavoro domestico. Come valuta il protagonismo delle donne del continente latinoamericano?
Quando il Global Women’s Strike visitò Caracas ai tempi di Chávez vedemmo dei servizi fantastici che casalinghe del posto avevano organizzato e che venivano pagati dalle entrate del petrolio. E sapevamo che l’Art. 88 della costituzione riconosceva il lavoro di casa come produttivo, dando diritto di pensione alle casalinghe. Le donne raccontarono di aver organizzato ogni giorno un gigantesco picchetto durante la preparazione dell’Assemblea costituente per farvi includere questa e altre clausole anti-sessiste.
In Argentina incontrammo le Madri della Plaza de Mayo, che con il loro lavoro per la giustizia - un’estensione del lavoro di cura - avevano posto il primo chiodo sulla bara della dittatura. Le loro azioni condussero ai processi di molti dei militari che avevano assassinato, fatto sparire e rubato i loro figli e nipoti. Un esempio del lavoro di cura delle donne, una vittoria di verità e giustizia per tutti, che dovrebbe essere più conosciuto dalle femministe.
Lo slogan «Ni una menos, con vida nos queremos» (Non una di meno, vive ci vogliamo) è una continuazione di quella lotta. È anche l’equivalente femminista di Black Lives Matter (Le Vite Nere Contano) negli Usa e del nostro slogan All Women Count (Tutte le Donne Contano).
Tre milioni di donne hanno marciato negli Usa contro Trump, eletto perché la gente è stata privata di Bernie Sanders, l’unico candidato anti-establishment per cui avrebbe voluto votare: un socialista che ripudiava la corruzione e il sadismo omicida dei politici Usa. Parte di quella delusione e di quella furia è esplosa nella massiccia reazione al suo attacco contro le donne, i musulmani, gli immigrati.
Quali sbocchi vede per questo nuovo femminismo?
Lo Sciopero è stato un’estensione del movimento che si stava già sviluppando in numerosi paesi - Argentina con «Ni Una Menos», Polonia e Irlanda contro il cappio della chiesa cattolica sui diritti riproduttivi, gli Usa e il Regno unito contro Trump (e contro la donna primo ministro del Regno unito, che si teneva per mano con lui). . .
L’aspetto più significativo è che delle donne del Sud spingono altre ad adottare una prospettiva anti-capitalista, e a includere le lavoratrici maggiormente ridotte al silenzio e le più discriminate: madri, contadine, lavoratrici domestiche, lavoratrici delle piccole imprese, lavoratrici del sesso, disabili, lgbtq, trans. . . in Bangladesh, Haiti, America latina, Thailandia, Sudafrica: in realtà in ogni paese.
Le donne dappertutto prenderanno inevitabilmente in considerazione non solo se sono anti-capitaliste ma in che modo il prossimo sciopero possa coinvolgere tutte noi.
Capitalismo come religione
di Walter Benjamin *
Nel capitalismo va individuata una religione; il capitalismo, cioè, serve essenzialmente all’appagamento delle stesse preoccupazioni, tormenti, inquietudini a cui in passato davano risposta le cosiddette religioni. Dimostrare tale struttura religiosa del capitalismo - e non solo, come ritiene Weber, in quanto costruzione determinata in senso religioso, bensì in quanto fenomeno essenzialmente religioso - condurrebbe ancora oggi nella direzione sbagliata di una smisurata polemica universale. Non possiamo sbrogliare la rete in cui ci troviamo. In seguito, tuttavia, ne avremo una visione d’insieme.
Tre tratti di questa struttura religiosa del capitalismo sono però riconoscibili già nel presente. In primo luogo, il capitalismo è una religione puramente cultuale, la più estrema forse che mai si sia data. Tutto, in esso, ha significato soltanto in rapporto immediato con il culto; non conosce nessuna particolare dogmatica, nessuna teologia. L’utilitarismo acquisisce, da questo punto di vista, la sua coloritura religiosa. A questa concretizzazione del culto è connesso un secondo tratto del capitalismo: la durata permanente del culto. Il capitalismo è la celebrazione di un culto sans [t]rêve et sans merci [“senza tregua e senza pietà”]. Non ci sono “giorni feriali”; non c’è giorno che non sia festivo, nel senso spaventoso del dispiegamento di ogni pompa sacrale, dello sforzo estremo del venerante. Questo culto è in terzo luogo, al contempo, colpevolizzante e indebitante (verschuldend). Il capitalismo è presumibilmente il primo caso di un culto che non consente espiazione, bensì produce colpa e debito (verschuldend). Ed è qui che questo sistema religioso precipita in un movimento immane. Una terribile coscienza della colpa (Schuldbewuβtsein), che non sa purificarsi, ricorre al culto non per espiare in esso questa colpa, bensì per renderla universale, per conficcarla nella coscienza e, infine e soprattutto, per coinvolgere in questa colpa il dio stesso e alla fine rendere lui stesso interessato all’espiazione.
Espiazione che tuttavia non va attesa dal culto stesso, e nemmeno dalla riforma di questa religione - che dovrebbe potersi reggere su qualcosa di saldo in essa - e neanche dal rinnegarla. È nell’essenza di questo movimento religioso - che è il capitalismo - resistere fino alla fine, fino alla finale e completa colpevolizzazione di Dio, al suo indebitamento, fino al raggiungimento dello stato di disperazione del mondo, in cui si arriva persino a sperare. In questo consiste l’aspetto storicamente inaudito del capitalismo: la religione non è più riforma dell’essere, bensì la sua frantumazione. L’estensione della disperazione a stato religioso del mondo è ciò da cui si attende la salvezza. La trascendenza di Dio è caduta. Ma egli non è morto, è incluso nel destino umano. Questo transito del pianeta Uomo per la casa della disperazione, nell’assoluta solitudine della sua orbita, è l’ethos che Nietzsche determina. Questo uomo è l’Übermensch, il primo che comincia consapevolmente a compiere la religione capitalistica. Il cui quarto tratto è che il suo Dio deve restare nascosto ed è permesso invocarlo soltanto allo Zenit della sua colpevolizzazione, del suo indebitamento. Il culto è celebrato al cospetto di una divinità immatura - ogni rappresentazione, ogni pensiero rivolto a essa viola il segreto della sua maturità.
Anche la teoria freudiana appartiene al dominio sacerdotale di questo culto. Essa è concepita interamente in modo capitalistico. Il rimosso, la rappresentazione peccaminosa, è - per una profonda analogia ancora da esaminare - il capitale, che grava di interessi l’inferno dell’inconscio.
Il tipo di pensiero religioso capitalistico si trova espresso grandiosamente nella filosofia di Nietzsche. L’idea dell’Übermensch disloca il “balzo” apocalittico non nell’inversione (Umkehr), nell’espiazione, nella purificazione, nella penitenza, bensì in un potenziamento apparentemente costante, ma che nell’ultimo tratto è dirompente e discontinuo. Pertanto, potenziamento e sviluppo nel senso del “non facit saltum” sono incompatibili. L’Übermensch è l’uomo storico giunto alla sua condizione senza inversione di rotta, cresciuto fino ad attraversare il cielo. Nietzsche ha anticipato questa deflagrazione del cielo per mezzo di un elemento umano potenziato, che (anche per Nietzsche) è e resta in termini religiosi colpevolizzazione. E più o meno lo stesso vale per Marx: il capitalismo che non si inverte diviene - con interessi e interessi composti che sono funzioni del debito (notare l’ambiguità demoniaca di questo concetto) - Socialismo.
Il capitalismo è una religione di mero culto, senza dogma.
Il capitalismo si è sviluppato in Occidente - come va dimostrato non soltanto per il calvinismo, ma anche per le altre correnti cristiane ortodosse - in modo parassitario sul cristianesimo, in modo tale che, alla fine, la storia di quest’ultimo è essenzialmente quella del suo parassita, il capitalismo.
Paragone tra, da un lato, le immagini sacre delle diverse religioni e, dall’altro, le banconote dei diversi Stati. Lo spirito che parla dall’ornamento delle banconote.
Capitalismo e diritto. Carattere pagano del diritto: Sorel, Réflexions sur la violence, p. 262.
Superamento del capitalismo mediante la migrazione: Unger, Politik und Metaphysik, p. 44.
Fuchs, Struktur der kapitalistischen Gesellschaft (o qualcosa di simile).
Max Weber, Ges. Aufsätze zur Religionssoziologie, 2 voll., 1919-1920.
Ernst Troeltsch, Die Soziallehren der chr. Kirchen und Gruppen (Ges. W. I, 1912).
Si vedano le indicazioni bibliografiche di Schönberg II.
Landauer, Aufruf zum Sozialismus, p. 144.
Le preoccupazioni: una malattia dello spirito propria dell’epoca capitalistica. Assenza spirituale (e non materiale) di via d’uscita nella povertà e nel monachesimo di vaganti e mendicanti. Una condizione che è talmente senza via d’uscita da essere colpevolizzante e indebitante. Le “preoccupazioni” sono l’indice di tale coscienza della colpa per l’assenza di via d’uscita. Le “preoccupazioni” sorgono dall’angoscia per l’assenza di una via d’uscita che sia comunitaria e non individuale-materiale.
Il cristianesimo nell’epoca della Riforma non ha favorito l’avvento del capitalismo, ma si è trasformato in capitalismo.
Sul piano metodologico si dovrebbe indagare innanzitutto quali legami il denaro abbia stretto con il mito nel corso della storia, finché non ha potuto trarre dal cristianesimo così tanti elementi mitici da costituire un proprio mito.
Guidrigildo / thesaurus delle buone opere / compenso dovuto al sacerdote. Pluto come dio della ricchezza.
Adam Müller, Reden über die Beredsamkeit, 1816, p. 56 sgg.
Connessione con il capitalismo del dogma della natura dissolutrice del sapere, che ha la capacità al contempo di redimerci e di ucciderci: il bilancio in quanto sapere che redime e che liquida.
Contribuisce a riconoscere che il capitalismo è una religione rammentare che il paganesimo originario ha dapprima compreso la religione non come un interesse “superiore” e “morale”, bensì come il più immediato interesse pratico; in altre parole, non aveva affatto chiaro, come il capitalismo odierno, la sua natura “ideale” o “trascendente”, ma vedeva piuttosto nell’individuo irreligioso o di altra confessione della sua comunità un membro indubitabile di essa, proprio nel senso in cui la borghesia di oggi considera i suoi membri che non guadagnano.
[metà 1921]
Walter Benjamin, Gesammelte Schriften, vol. VI, a cura di Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhäuser, Frankfurt a.M. 1972-1989, pp. 100-103; in Dario Gentili, Mauro Ponzi, Elettra Stimilli (a cura di), Il culto del capitale. Walter Benjamin: Capitalismo e religione, Quodlibet, Macerata 2014, pp. 9-12. Traduzione a cura del Seminario dell’Associazione Italiana Walter Benjamin (AWB).
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Al di là del principio di prestazione
di Moreno Montanari (Doppiozero, 26.02.2017)
La psicoanalisi è un fenomeno di cui si può parlare solo al plurale e ben oltre i differenti indirizzi delle sue principali scuole (freudiana, junghiana, lacaniana) perché la sua pratica è sempre legata all’unicità di “due persone che s’incontrano in una stanza”. Senza mai venir meno alla sua originale vocazione clinica, la psicoanalisi si è sempre vissuta anche come una teoria critica, uno straordinario armamentario di chiavi ermeneutico-simboliche per leggere le diverse dinamiche che innervano il mondo umano, si è apertamente proposta come un’etica del riconoscimento dello straniero e del minaccioso che ci abitano, come una pratica di comprensione ed elaborazione della propria Ombra e come luogo in cui esercitarsi a coltivare la possibilità di dirsi la verità, di prendere sul serio le proprie fantasie, di guardare in faccia le proprie illusioni, di prendersi cura del destino del proprio desiderio, facendo al contempo i conti con un serio esame di realtà. In questa sua feconda ed irriducibile polimorficità è possibile scorgere quella che, con una bella formula, Nicole Janigro chiama “un’eredità al futuro” (Psicoanalisi. Un’eredità al futuro, Mimesis).
Questa “scaturisce dalla sua capacità ineguagliata di mettere in relazione, leggere e legare, le soggettività”, dalle quali è nata e sempre rinasce e nella quale, spiega l’autrice, rischia a volte di arenarsi, di relegarsi, mettendo tra parentesi il mondo. “Arte artigiana”, pratica clinica, chiave interpretativa, fonte di ispirazione di correnti letterarie - il romanzo analitico, ricorda l’autrice, ha attraversato il Novecento - ed essa stessa espressione narrativa, la psicoanalisi “può partecipare ad un discorso critico integrato dove l’io e il noi siano capaci di passare da mondi esterni e interni, autisticamente chiusi e scissi, da un o/o che procede per differenze e opposti, a incontri di un e/e che fluidifica e avvicina”.
Contro i pregiudizi che ancora l’accompagnano, Nicole Janigro - con un taglio in cui la dimensione biografica e quella sociologica s’intrecciano arricchendosi vicendevolmente - rivendica “l’andare in analisi (...) come la continuazione della politica con altri mezzi” che rovescia “lo slogan il privato è politico”. Ma la stanza di analisi si rivela al contempo “un luogo linguistico, di un piacere legittimo e riconquistato” fatto di parole che nutrono, che orientano, danno voce a quanto altrimenti resterebbe inespresso, all’altrimenti indicibile o a quel silenzio che rischiamo di non sapere più ascoltare. Poiché, come spiegava già nel 1939 Jung, “è caratteristica della psiche non soltanto di essere matrice e fonte di ogni attività umana, ma anche di esprimersi in tutte le forme e le attività dello spirito, (...) lo psicologo (...) non riuscirà a catturare la psiche nel chiuso del suo laboratorio né nello studio del medico, ma dovrà seguirne le tracce in tutti quei campi che pure possono risultargli estranei, ove essa si manifesta”. La personale sensibilità di Janigro la porta ad indagare in particolare due canali privilegiati: il romanzo e le forme artistiche in generale.
La porta di Magda Szabó, Vite che non sono la mia di Emanuel Carrère, ad esempio, ma nel solco di quanto già affermava Freud per il quale “nella psicoanalisi si ritrovano e si compendiano, trasposte in gergo scientifico, le maggiori scuole letterarie del secolo decimonono: Heine, Zola e Mallarmé si congiungono in me sotto il patronato di mio vecchio maestro, Goethe”. Nella letteratura che chiama il lettore a prendere parte allo svolgimento emotivo della narrazione, a empatizzare con i personaggi, a interrogarsi su quanto farebbe al loro posto, Janigro scorge un’analogia con la seduta di psicoanalisi nella quale “l’idea e l’immagine originale nascono in due” e in cui “il momento estetico”, come scrive Bollas, “evoca in noi una sensazione profonda di essere stati in rapporto con un oggetto sacro (...) in un’esperienza dell’essere e non della mente”. Così, mentre Lacan invitava gli aspiranti analisti ad esercitarsi a risolvere i cruciverba, Janigro ritiene che “analizzante e analista possono farsi l’orecchio” alle conversazioni che intrattengono con se stessi, con “la poesia, la narrativa e la musica”.
Insieme a questo esercizio, ampiamente suffragato da citazioni di diversi indirizzi analitici che ne confermano l’importanza, l’autrice propone un lavoro sulle immagini - oniriche, emerse dal gioco della sabbia, scaturite dall’immaginario collettivo, profondamente individuali, reminiscenze del passato e prefigurative del futuro - che “in quest’epoca di inflazioni di immagini dove il tutto-detto, tutto-esposto è privato di ogni possibilità simbolica”, si fa sempre più urgente, delicato ed importante. In questo contesto la centralità del lavoro immaginale di Jung incontra la lezione americana sulla Visibilità di Calvino e porta l’essere umano in una dimensione che apre all’al di là del principio di prestazione - titolo dell’ultimo capitolo del libro.
Superare questo imperativo categorico del nostro tempo e fare i conti con le proprie incapacità e debolezze, non più vissute come deficit ma come tratti personali umanizzanti, può fare della psicoanalisi, come scrive Franco Borgogno, un laboratorio esistenziale dove sperimentare “un’educazione alla vita e al vivere (...) un apprendimento dell’esperienza delle emozioni e delle relazioni, che quando funziona genera una nuova fiducia e un nuovo inizio”, che ha radici antiche che affondano in un patrimonio terapeutico non meno che culturale di cui il libro ci offre una breve ma puntuale sintesi, appassionata che, senza nascondere le polemiche e i colpi bassi che hanno attraversato la sua storia, si muove, anche biograficamente, alla ricerca di punti d’incontro che ne rilancino la funzione e l’attualità, al di là degli aridi steccati dei particolarismi.
L’altra economia di Bergoglio
di Paolo Cacciari (eddyburg, 10 febbraio 2017)
Papa Bergoglio con un discorso pronunciato in Vaticano il 4 febbraio scorso ha compiuto un passo decisivo nella definizione del suo pensiero in materia di economia. L’occasione è stata un’udienza con il movimento dell’Economia di Comunione che si ispira a Chiara Lubich, un’imprenditrice che negli anni ’70 in Brasile dette vita ad esperimenti di imprese organizzate in “cittadelle” industriali che si sono date la regola di ripartire i profitti a beneficio dei dipendenti e di “coloro che sono nel bisogno”. Anche in Italia, a Loppiano in Toscana, esiste un Polo produttivo di imprese che seguono i principi dell’Economia di comunione e una Scuola di Economia civile coordinata dall’economista Luigino Bruni.
La novità del discorso di Bergoglio, rispetto alla stessa enciclica Laudato si’ (Papa Francesco, Laudato si’. Enciclica sulla cura della casa comune, Edizioni San Paolo, 2015) e a tutta la Dottrina sociale della Chiesa (Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, 2004), è che questa volta il Papa non si è limitato a denunciare i peccati (gli eccessi, gli effetti collaterali indesiderati) dell’economia, ma ha chiamato il peccatore per nome: il capitalismo. “Quando il capitalismo fa della ricerca del profitto l’unico suo scopo, rischia di diventare una struttura idolatrica, una forma di culto”. E ancora: “Il capitalismo continua a produrre scarti”, cioè poveri, emarginati, esclusi dalla società. Non mi pare che dalla Chiesa romana sia mai giunta una condanna così esplicita del capitalismo.
Vediamo alcuni passaggi dell’impegnativo discorso pubblicato sull’Avvenire di domenica 5 febbraio con il significativo titolo di prima pagina a 4 colonne: “Altra economia, ora”. Gli imprenditori che applicano i principi e le regole dell’“economia di comunione” operano un “profondo cambiamento del modo di vedere e di vivere l’impresa. L’impresa non solo può non distruggere la comunione tra le persone, ma può edificarla, può promuoverla”. Tre i temi scelti: il denaro, la povertà e il futuro.
Sul denaro Bergoglio ricorda il Gesù di Giovanni della cacciata dei mercanti dal tempio e prosegue con un bagno di realismo: “Il denaro è importante, soprattutto quando non c’è e da esso dipende il cibo, la scuola, il futuro dei figli. Ma diventa idolo quando diventa il fine (...) [quando] l’accumulo di denaro per sé diventa il fine del proprio agire”.
La soluzione: “Il modo migliore e più concreto per non fare del denaro un idolo è condividerlo con altri”. Per Bergoglio la lotta alla povertà (“curare, sfamare, istruire i poveri”) ha bisogno di istituzioni pubbliche efficaci fondate sulla solidarietà e il reciproco soccorso. Qui sta “la ragione delle tasse” come forma di solidarietà e la condanna morale all’“elusione e alla evasione fiscale”.
Ma attenzione, l’assistenza ai bisognosi non deve servire a nascondere le cause della povertà: “questo non lo si dirà mai abbastanza - il capitalismo continua a produrre gli scarti che poi vorrebbe curare. Il principale problema etico di questo capitalismo è la creazione di scarti per poi cercare di nasconderli o curarli per non farli più vedere”.
Il ragionamento di Bergoglio riguarda il funzionamento dell’economia in senso generale e ridicolizza i puerili tentativi con cui un certo capitalismo tenta di riparare i danni arrecati alle persone e all’ambiente naturale. Lo scritto è davvero magistrale: “Gli aerei inquinano l’atmosfera, ma con una piccola parte dei soldi del biglietto piantano alberi, per compensare parte del danno arrecato. Le società dell’azzardo finanziano campagne per curare i giocatori patologici che esse creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è ipocrisia!”.
Più avanti precisa: “Il capitalismo conosce la filantropia non la comunione”. Leggendo queste parole a me sono venute in mente tanta parte della cooperazione internazionale, la fondazione Bill&Melinda Gates che pretende di insegnare agli africani come vivere, ma anche le illusioni distribuite a piene mani dalle industrie della green economy, dai “fondi di investimento etici”, dei certificati di Responsabilità sociale delle imprese e così via, tentando di umanizzare il capitalismo.
Prosegue quindi Bergoglio più chiaro che mai, quasi a voler richiamare i suoi bravi interlocutori imprenditori dell’economia di comunione ad un impegno ancora più profondo: “Bisogna allora puntare a cambiare le regole del gioco del sistema economico-sociale. Imitare il buon Sammaritano non è sufficiente”. E ancora: “Occorre agire soprattutto prima che l’uomo si imbatta nei briganti, combattendo le strutture del peccato che producono briganti e vittime”. Verso la fine torna sul concetto: è necessario “cambiare le strutture per prevenire la creazione delle vittime e degli scarti”.
Infine il tema del futuro; come comportarsi per apportare cambiamenti.“Non occorre essere in molti per cambiare la nostra vita”, dice Bergoglio. “Piccoli gruppi” possono funzionare da seme, sale ed enzima per il lievito. “Tutte le volte che le persone, i popoli e persino la Chiesa hanno pensato di salvare il mondo crescendo nei numeri, hanno prodotto strutture di potere, dimenticando i poveri”. Dono e amore, reciprocità e condivisione sono le leve del cambiamento. “Il ‘no’ ad un’economia che uccide diventi un ‘sì’ ad un’economia che fa vivere”, conclude. Per quanti si occupano in vario modo e in varie forme di economia solidale questo discorso del Papa appare molto incoraggiante.
Papa: capitalismo scarta i più deboli, no a evasione e gioco d’azzardo
di Jorge Maria Bergoglio (eddyburg, 08.02.2017)
«Sconfiggere l’idolatria del denaro alimentata da un’economia centrata solo sul profitto. E’ il monito lanciato da Francesco nell’udienza ai partecipanti all’Incontro "Economia di Comunione", promosso dal Movimento dei Focolari. Il Papa ha messo in guardia dal “sistema dell’azzardo” che sta distruggendo milioni di famiglie. Ancora ha affermato che l’evasione fiscale viola la legge “basilare della vita”: “il reciproco soccorso”. Infine, ha esortato a mettere sempre la persona, soprattutto se debole o povera, al centro del sistema economico. Il servizio di Alessandro Gisotti:
Unire “economia e comunione”, raccogliendo l’invito di Chiara Lubich. Papa Francesco ha sottolineato l’importanza dell’esperienza promossa dal Movimento dei Focolari, 25 anni fa in Brasile. E subito ha constatato con amarezza che la cultura attuale tende a separare l’economia e la comunione con conseguenze disastrose.
No al capitalismo che fa del denaro un idolo, contrastare sistema dell’azzardo
Innanzitutto, ha avvertito, bisogna guardarsi dal fare del denaro un idolo. “Il denaro - ha tenuto a precisare - è importante, soprattutto quando non c’è e da esso dipende il cibo, la scuola, il futuro dei figli. Ma diventa idolo quando diventa il fine”:
“Quando il capitalismo fa della ricerca del profitto l’unico suo scopo, rischia di diventare una struttura idolatrica, una forma di culto. La ’dea fortuna’ è sempre più la nuova divinità di una certa finanza e di tutto quel sistema dell’azzardo che sta distruggendo milioni di famiglie del mondo, e che voi giustamente contrastate. Questo culto idolatrico è un surrogato della vita eterna. I singoli prodotti (le auto, i telefoni...) invecchiano e si consumano, ma se ho il denaro o il credito posso acquistarne immediatamente altri, illudendomi di vincere la morte”.
Ecco perché, ha soggiunto, è di grande “valore etico e spirituale” la “scelta di mettere i profitti in comune”. E ha soggiunto che “il modo migliore e più concreto per non fare del denaro un idolo è condividerlo con altri, soprattutto con i poveri”. Ricordarsi sempre, ha soggiunto, che non si possono servire due signori, due padroni e che “il diavolo entra dalle tasche”.
L’evasione delle tasse viola la legge basilare del reciproco soccorso
Ha così rivolto il pensiero al tema della povertà. Il Papa ha rilevato che ci sono sempre state forme di aiuto verso i poveri ma nonostante gli aiuti, gli scarti della società “restavano molti”:
“Oggi abbiamo inventato altri modi per curare, sfamare, istruire i poveri, e alcuni dei semi della Bibbia sono fioriti in istituzioni più efficaci di quelle antiche. La ragione delle tasse sta anche in questa solidarietà, che viene negata dall’evasione ed elusione fiscale, che, prima di essere atti illegali sono atti che negano la legge basilare della vita: il reciproco soccorso”.
Il capitalismo crea scarti e non riesce più a vedere i suoi poveri
Francesco ha così denunciato che il capitalismo “continua a produrre gli scarti che poi vorrebbe curare”. “Il principale problema etico di questo capitalismo - ha ripreso - è la creazione di scarti per poi cercare di nasconderli o curarli per non farli più vedere. Una grave forma di povertà di una civiltà è non riuscire a vedere più i suoi poveri, che prima vengono scartati e poi nascosti”:
“Gli aerei inquinano l’atmosfera, ma con una piccola parte dei soldi del biglietto pianteranno alberi, per compensare parte del danno creato. Le società dell’azzardo finanziano campagne per curare i giocatori patologici che esse creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è l’ipocrisia!”.
A tutto questo, ha affermato, si contrappone l’economia di comunione che non scarta mai la persona. Per il Papa, “bisogna allora puntare a cambiare le regole del gioco del sistema economico-sociale”, non basta comportarsi come buoni samaritani. E ha sottolineato che il grande lavoro da svolgere è “cercare di non perdere il principio attivo” che anima l’economia di comunione, puntando sulla qualità, non sulla quantità:
“Tutte le volte che le persone, i popoli e persino la Chiesa hanno pensato di salvare il mondo crescendo nei numeri, hanno prodotto strutture di potere, dimenticando i poveri. Salviamo la nostra economia, restando semplicemente sale e lievito: un lavoro difficile, perché tutto decade con il passare del tempo”.
Mettere al centro la comunione, il capitalismo conosce solo la filantropia
“L’economia di comunione - ha ripreso - avrà futuro se la donerete a tutti e non resterà solo dentro la vostra ‘casa’. Donatela a tutti, e prima ai poveri e ai giovani, che sono quelli che più ne hanno bisogno”, perché “il denaro non salva se non è accompagnato dal dono della persona”:
“Il capitalismo conosce la filantropia, non la comunione. È semplice donare una parte dei profitti, senza abbracciare e toccare le persone che ricevono quelle ’briciole’. Invece, anche solo cinque pani e due pesci possono sfamare le folle se sono la condivisione di tutta la nostra vita. Nella logica del Vangelo, se non si dona tutto non si dona mai abbastanza”.
“Il ’no’ ad un’economia che uccide - ha concluso Francesco - diventi un ’sì’ ad una economia che fa vivere, perché condivide, include i poveri, usa i profitti per creare comunione”.
Le donne ancora ai margini della ricerca, si lavora per cambiare
Giornata internazionale per le donne e le ragazze nella scienza
di Redazione ANSA *
Grandi assenti dai vertici della ricerca, in Italia come in molti altri Paesi, le donne vivono ancora nell’ombra nei laboratori scientifici e nelle universita’. Nonostante molte ricercatrici siano esempi di eccellenza riconosciuti a livello internazionale, la maggior parte di esse non riesce ancora ad emergere come meriterebbe. E’ un problema sentito in tutto il mondo e che affonda le radici nella cultura. Fare in modo che il loro ruolo esca allo scoperto e che abbiano i riconoscimenti che meritano e’ l’obiettivo della Giornata Internazionale per le donne e le ragazze nella scienza promossa dalle Nazioni Unite.
L’iniziativa e’ nata nel 2015 allo scopo di portare le donne ad ottenere parita’ di accesso e partecipazione nella scienza. Scienza e uguaglianza di genere sono infatti, secondo le Nazioni Unite, entrambe vitali per raggiungere gli obiettivi per lo sviluppo concordati a livello internazionale, compresi quelli previsti dall’agenda 2030 dell’Onu per lo Sviluppo Sostenibile.
"Donne e ragazze continuano ad essere escluse da una piena partecipazione nella scienza", rileva sul suo sito il Centro regionale di informazione delle Nazioni Unite. La conferma di questo scenario arriva da una ricerca condotta in 14 Paesi sulla carriera universitaria delle ragazze indica che solo il 18% consegue la laurea triennale, l’8% quella specialistica e appena il 2% arriva al dottorato di ricerca.
Se poi consideriamo in dettaglio la situazione in Italia il quadro e’ ancora meno edificante: una recente indagine europea condotta dalla Fondazione L’Oreal per le donne e la scienza ha indicato che l’Italia e’ il Paese europeo con piu’ pregiudizi nei confronti delle donne nella ricerca: addirittura 7 italiani su 10 sostengono che le donne non possiedano le capacita’ necessarie per accedere a occupazioni di alto livello in ambito scientifico.
In Italia come in molti altri Paesi la presenza delle donne negli studi scientifici segue un andamento a piramide, con una base nella quale fin dalle scuole superiori le ragazze rappresentano oltre il 50% degli studenti e che si assottiglia inesorabilmente procedendo verso il vertice: le disparita’ crescono man mano che si avanza verso posti di responsabilita’ e potere decisionale. E’ cosi’ che le donne sono il 30% dei professori associati, il 20% dei professori ordinari e fra gli 80 rettori le donne sono appena 4 o 5.
Per sollecitare il dibattito le Nazioni Unite hanno organizzato per domani, nel quartier generale dell’Onu, un forum nato dalla collaborazione tra il Royal Academy of Science International Trust (Rasit) e il Dipartimento dell’Onu per gli Affari economici e sociale della Divisione per la politica sociale e lo sviluppo (Desa-Dspd). Tra le iniziative in Italia, quella dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn), che decida alle studentesse delle scuole secondarie una mattinata in compagnia delle ricercatrici e dei ricercatori impegnati in un campo affascinante come la ricerca sulle particelle.
Viktor Frankl, L’amore per la vita, nonostante tutto
di Daniele Bruzzone (Alfabeta2, 27.01.2017)
Quello sui campi di concentramento è il secondo libro pubblicato da Viktor Frankl, una volta rientrato a Vienna nell’aprile del 1945, dopo due anni e mezzo di prigionia. Era stato deportato nel settembre del 1942 a Theresienstadt, in Boemia. Sarebbero seguiti Auschwitz, in Polonia, poi Kaufe- ring III e Türkheim (due filiali di Dachau), in Baviera 1.
Già nei mesi precedenti la deportazione Frankl aveva apprestato il manoscritto del suo lavoro più rappresentativo, Ärztliche Seelsorge (Cura medica dell’anima), che secondo un illustre psichiatra dell’epoca, Oswald Schwarz, avrebbe offerto alla storia della psicoterapia un contributo paragonabile a quello rappresentato dalla Critica della ragion pura di Kant per la storia della filosofia. Frankl conservò, finché gli fu possibile, questa prima stesura del suo lavoro e, quando fu trasferito ad Auschwitz, la nascose nella fodera del cappotto nella segreta speranza di poterla un giorno dare alle stampe. Naturalmente quel manoscritto andò perduto, e lo stesso Frankl rammenta che, nelle gelide notti trascorse nei Lager, in preda alla febbre, una delle cose che lo tennero in vita fu proprio la volontà di ricostruire il manoscritto perduto, stenografandone i contenuti su piccoli foglietti di carta sottratti di nascosto alle SS 2. Dopo essere rientrato a Vienna, su suggerimento del nuovo Ordinario di Psichiatria dell’Università, il prof. Otto Kauders, Frankl riscrisse il libro e lo pubblicò presso la casa editrice Deuticke nel marzo del 1946 3.
Subito dopo iniziò a comporre le sue memorie, che comparvero ancora in quella primavera del ’46, con il titolo Ein Psycholog erlebt das Konzentrationslager («Uno psicologo nei campi di concentramento»), per i tipi di Jugend und Volk. Tra i due lavori pubblicati in quell’anno corre un intimo legame: se da un lato le intuizioni di Frankl sulla psicoterapia, così come sono state sviluppate nel primo libro, erano precedenti alla deportazione, dall’altro l’esperienza dei Lager ne costituiva, paradossalmente, la riprova empirica più inconfutabile. Auschwitz, in un certo senso, era stato il vero experimentum crucis delle sue teorie.
Qui le capacità propriamente umane dell’autotrascendenza e dell’autodistanziamento, sulle quali ho richiamato l’attenzione più volte negli ultimi anni, furono verificate e convalidate in termini esistenziali. Quest’empiria, nel significato più ampio del termine, confermò il survival value, per parlare con la terminologia psicologica americana, che spetta a ciò che io chiamo “volontà di senso” o autotrascendenza, ossia l’orientamento dell’esistenza umana al di là di sé, verso qualcosa che non è se stessa 4.
La prima edizione uscì anonima. In soli nove giorni e nove notti, un misterioso medico viennese deportato dai nazisti aveva sottoposto i lunghi anni di inaudite sofferenze al vaglio saggio e paziente della scrittura, costringendo la congerie di ricordi e il carico emotivo di cui erano intrisi a incanalarsi in una rigorosa operazione di analisi e riflessione. Ciò che ne scaturì non era un trattato, beninteso, ma non si poteva neppure considerare un semplice memoriale della deportazione: si trattava di un documento umano di straordinario valore, il cui successo, evidentemente, non è dovuto tanto all’oggetto del discorso, quanto alla particolarissima prospettiva con cui viene affrontato. Da questo punto di vista, il titolo della prima edizione è significativo: rappresentava il tentativo, da parte di uno psichiatra, di sezionare con metodo scientifico la propria esperienza, per restituirne una comprensione più profonda.
Tuttavia, in quella fase di faticosa ripresa postbellica, nessuno voleva (ancora) ricordare il passato, bensì trovare prospettive di fiducia e di speranza per il futuro. Non a caso, quando il libro, alcuni anni dopo, venne ribattezzato ... trotzdem Ja zum Leben sagen (Nonostante tutto dire sì alla vita) 5, conobbe quel successo di pubblico che immediatamente non aveva raccolto 6 . In effetti, il nuovo titolo riusciva, più del precedente, a comunicare l’essenza del messaggio frankliano: che, cioè, la vita vale la pena di essere vissuta in qualunque situazione, o meglio, che l’essere umano è capace, anche nelle peggiori condizioni della vita, di “mutare una tragedia personale in un trionfo” 7. Proprio questo aspetto costituisce uno dei motivi dell’inossidabile attualità dello scritto di Frankl: esso, infatti, pur narrando i tragici eventi a cui si riferisce, li trascende per incentrarsi sull’esplorazione della natura umana e delle sue potenzialità. E, in questo senso, ciò che dice vale non solo per l’esperienza della detenzione, ma anche e a maggior ragione per tutte le altre “situazioni-limite” (la sofferenza, la malattia, la disabilità, il lutto, ecc.) che, in certo qual modo, sfidano la capacità umana di resistere e di sopravvivere.
Ogni singolo lettore, pertanto, può trovare in questo libro un riflesso di sé: non necessariamente di ciò che è stato, ma magari di ciò che può diventare. Leggere Frankl, infatti, è un’esperienza di rivelazione: ci induce a scoprire i lati migliori di noi stessi 8.
Del resto, il libro di Frankl non è solo un’incursione in una delle pagine più dolorose della nostra storia, ma un vero e proprio viaggio alla ricerca dell’essenza dell’umanità. Questa è forse la ragione principale per cui il suo contributo si distingue dalle altre - ancorché inestimabili - memorie della Shoah. Egli non si limita (pur facendolo) a raccontarci le efferatezze compiute nei Lager, né è interessato (benché li descriva in modo accurato) a restituire oggettivamente i fatti più salienti.
Il suo intento è tutto orientato a comprendere dall’interno l’esperienza del deportato, sviluppando una fenomenologia dell’internamento che, per molti versi, converge con altre analisi psicologiche effettuate sui detenuti di diversi regimi. Soprattutto, però, Frankl non si accontenta di descrivere e spiegare i modi in cui progressivamente le persone, in quelle condizioni estreme, si adattavano al contesto, perdevano gradualmente la loro umanità e, infine, soccombevano al destino; egli infatti è assai più incuriosito dai motivi per cui alcune di esse (non necessariamente quelle fisicamente più robuste) resistessero più a lungo e, soprattutto, si opponessero al quel processo di disumanizzazione che in tali situazioni apparirebbe, se non proprio inevitabile, quanto meno prevedibile e ampiamente giustificato. La domanda sorgeva spontanea: che cosa consentiva a queste persone di resistere e di non smarrire la dignità e la speranza?
La risposta a questo interrogativo ci conduce a una revisione delle più consuete teorie motivazionali con cui tendiamo a interpretare - o addirittura a prevedere - il comporta- mento umano. Contrariamente a quanto si potrebbe supporre, infatti, gli interessi spirituali delle persone che si trovano in situazioni di deprivazione radicale sul piano psico-fisico non regrediscono fino a scomparire, ma possono acuirsi e perfino manifestarsi laddove sembravano sopiti. Come dire: proprio laddove la natura umana è ricondotta e ancorata implacabilmente alla sua “bassezza”, il suo spirito è capace di elevarsi a un’“altezza” (intellettuale, morale, religiosa) altrimenti forse insospettata.
Ciò che Frankl mette a fuoco nel suo scritto è l’incredibile “forza di resistenza dello spirito” (una sorta di resilienza ante litteram) che, proprio nei momenti più difficili, permette alle persone di opporsi al proprio destino e - pur non potendolo mutare esteriormente - le rende capaci di dominarlo dall’interno. In tal modo, con l’autorevolezza dello scienziato e la credibilità del testimone, lo psichiatra sopravvissuto ai Lager sostiene che le persone sono capaci non solo di resistere, ma perfino di crescere, nonostante gli “urti” della vita e talvolta grazie ad essi 9. Questo aspetto costituisce altresì il principale motivo di distinzione dell’interpretazione frankliana rispetto alle altre descrizioni psicologiche dei campi di concentramento. Ad esempio quella di Bruno Bettelheim, che fu deportato nel 1938, venne rilasciato nel 1939, si rifugiò negli Stati Uniti dove insegnò psicologia per trent’anni e poi morì suicida: laddove Bettelheim vede il trionfo dell’istinto di morte sulla pulsione di vita, Frankl scorge invece la possibilità di “dire sì alla vita” nonostante tutto10.
Dagli abissi della sofferenza emerge l’intuizione che la libertà interiore e la responsabilità (la capacità, cioè, di rispondere al proprio destino) sono l’intimo baluardo della dignità umana contro la spersonalizzazione e il fatalismo:
Che cos’è, dunque, l’uomo? Noi l’abbiamo conosciuto come forse nessun’altra generazione precedente; l’abbiamo conosciuto nel campo di concentramento, in un luogo dove veniva perduto tutto ciò che si possedeva: denaro, potere, fama, felicità; un luogo dove restava non ciò che l’uomo può “avere”, ma ciò che l’uomo deve “essere”; un luogo dove restava unicamente l’uomo nella sua essenza, consumato dal dolore e purificato dalla sofferenza.
Che cos’è, dunque, l’uomo? Domandiamocelo ancora. È un essere che sempre decide ciò che è. Un essere che porta in sé contemporaneamente la possibilità di abbassarsi al livello degli animali o di innalzarsi al livello di una vita santa. L’uomo è l’essere che ha inventato le camere a gas, ma è anche l’essere che è entrato in esse a fronte alta, sulle labbra il Padre nostro o la preghiera ebraica per la morte 11.
Forse il pessimismo e la disperazione che hanno insidiato l’esistenza di tanti superstiti (incluso, forse, il nostro amato Primo Levi) fino a spegnere in loro il desiderio di vivere, sono dovuti a una domanda che li ha assillati ogni giorno, rodendone l’anima dall’interno come un tarlo: Perché ha potuto accadere tutto questo? Perché abbiamo dovuto soffrire? Perché così tanti sono morti nell’indifferenza del mondo?
Anche Frankl esce dai campi di concentramento chiedendosi perché, ma la sua è una domanda molto diversa. Egli non si chiede perché abbia dovuto soffrire, né pretende di sapere perché abbia dovuto perdere le persone più care (il padre Gabriel, la madre Elsa, il fratello Walter e la giovanissima moglie Tilly morirono nei campi); si domanda piuttosto: Perché io sono tornato indietro? Perché a me la vita è stata risparmiata? La differenza è evidente: la risposta al perché del male e della morte non è in nostro potere, e la domanda è destinata a infrangersi contro il silenzio (o la morte) di Dio; la risposta alla domanda sul perché della vita, invece, dipende interamente da noi: sta a noi, infatti, decidere per chi o per che cosa siamo disposti a vivere, soffrire e perfino morire.
Questo spiega anche, almeno in parte, il carattere di Viktor Frankl: la sua instancabile dedizione al lavoro, il suo spiccato senso dell’umorismo, la sua irriducibile passione per le sfide che la vita, ad ogni età, poteva presentargli. Non si trattò, probabilmente, di una consapevolezza immediata, ma di una conquista progressiva, l’esito di un lungo lavoro su di sé. Dalle lettere che Frankl inviò agli amici nei mesi immediatamente successivi alla liberazione si evince lo stato di profonda prostrazione in cui era precipitato. Il 14 settembre 1945 scriveva a Wilhelm e Stepha Börner:
Forse il farmaco per questo malessere fu proprio la scrittura. Scrivere, probabilmente, gli consentì di metabolizzare la materia grezza del dolore trasformandola in nutrimento per l’anima. In questo senso, si potrebbe dire che il libro non è solo il ricettacolo di una sofferta saggezza, ma anche lo strumento con cui è stata distillata.
Il risultato sta sotto gli occhi di ogni lettore. L’esperienza della sofferenza poteva spegnere in Viktor Frankl l’amore per la vita oppure farlo divampare come un fuoco inestinguibile. Sono passati 70 anni da quando queste pagine hanno visto la luce per la prima volta. Bruciano ancora.
1 Per un’introduzione alla vita e al pensiero di Frankl, si rimanda a D. Bruzzone, Viktor Frankl. Fondamenti psicopedagogici dell’analisi esistenziale, Carocci, 2012. Per un avvicinamento al modello clinico della logoterapia e analisi esistenziale, cfr. D. Bellantoni, L’analisi esistenziale di Viktor E. Frankl, 2 voll., LAS, 2011.
2 Alcuni di questi esemplari sono tuttora conservati come reliquie al museo recentemente inaugurato del Viktor Frankl Zentrum di Vienna, al numero 1 di Mariannengasse, proprio nell’appartamento adiacente a quello in cui Frankl ha vissuto ininterrottamente dal suo ritorno a Vienna fino alla sua scomparsa, il 2 settembre del 1997.
3 L’edizione italiana, tradotta da Danilo Cargnello nel 1953 e successivamente rivista da Eugenio Fizzotti, reca il titolo Logoterapia e analisi esistenziale ed è pubblicata dall’editrice Morcelliana di Brescia. Solo alcuni anni dopo la sua morte, nell’archivio di casa Frankl, è stata rinvenuta la prima stesura del ’42 (probabilmente Frankl aveva affidato una copia del manoscritto a un amico, prima dell’arresto) e ciò ha permesso di mettere al confronto le diverse stesure, raccolte nel IV volume delle Gesammelte Werke, a cura di A. Batthyany, K. Biller e E. Fizzotti (Böhlau, Wien, 2011).
4 V. E. Frankl, Ciò che non è scritto nei miei libri. Appunti autobiografici sulla vita come compito, FrancoAngeli, 2012, p. 100.
5 Si trattava del titolo di una delle prime conferenze tenute da Frankl presso l’Università Popolare di Ottakring nel 1946.
6 Quando poi nel 1959, per volere dell’allora Presidente dell’American Psychological Association, Gordon W. Allport, ne venne pubblicata la traduzione in lingua inglese (dapprima con il titolo From Death-Camp to Existentialism e poi con il titolo tuttora in vigore Man’s Search for Meaning), il volume divenne rapidamente un bestseller, tanto che gli studenti universitari americani lo elessero più volte “libro dell’anno” e la Library of Congress di Washington D.C. lo ha decretato “uno dei 10 libri più influenti d’America”. Alla morte di Frankl, l’opera era stata tradotta in 24 lingue e aveva venduto oltre 10 milioni di copie.
7 V. E. Frank l , La sfida del significato. Analisi esistenziale e ricerca di senso , a cura di D. Bruzzone e E. Fizzotti, Erickson, 2005, p. 119.
8 Si veda, a questo proposito , P. Versari, Dalla « bella vita» a una vita bella. Colmare i vuoti di senso alla scuola di Viktor E. Fr ankl , Ares, 2015.
9 Da questo punto di vista l’intuizione frankliana anticipa e ispira le successive ricerche sulla capacità di resilienza e i fattori di protezione e di rischio che la condizionano, ma si lega anche al costrutto, più recentemente definito, della “crescita post-traumatica”, secondo cui una persona può esibire un grado di consapevolezza, di maturità e di integrazione personale, non solo pari a quello che possedeva prima del trauma, ma addirittura superiore.
10 Per approfondimenti si rinvia a D. Bruzzone, Ricerca di senso e cura dell’esistenza, Erickson, 2007, pp. 37-59.
11 V. E. Frankl, Homo patiens. Soffrire con dignità, Queriniana, 1998, pp. 97-98.
12 V. E. Frankl, Lettere di un sopravvissuto.Ciò che mi ha salvato dal lager, a cura di E. Fizzotti , Rubbettino, 2008, pp. 137-138.
di Franco Berardi Bifo (alfapiù, 21 gennaio 2017)
In singolare e spiritosa coincidenza con l’inizio della prima presidenza del Ku Klux Klan, comincia oggi a Roma una conferenza dal titolo C17. Si svolge in parte al centro sociale ESC, dove parlerà una folta schiera di pensatori contemporanei, da Saskia Sassen a Silvia Federici a Christian Marazzi e tanti altri. E in parte si svolge alla Galleria d’arte moderna dove ci saranno performance di vario genere, a cominciare con Franco Piperno che ci insegna come leggere il cielo e ci racconta come si è letto il cielo nel corso dei secoli e dei millenni. Guardare il cielo in modo consapevole e immaginativo è il modo migliore di cominciare, perché così il tema del comunismo si ripresenta nella sua cornice più vasta, quella che contiene la sensibilità, l’immaginazione e il desiderio (che d’altra parte è parola che scende etimologicamente dalle stelle).
La questione del comunismo ritorna?
Il comunismo del ventesimo secolo è morto, questo è fuori discussione.
La tragedia del secolo passato ha avuto tre attori protagonisti: il comunismo il fascismo e la democrazia. Il fascismo apparve sconfitto, morto e sepolto dopo la fine della seconda guerra mondiale. Poi venne l’epoca della guerra fredda: i due attori sopravvissuti si contesero l’egemonia sul mondo fino al collasso finale del comunismo sovietico e al trionfo della democrazia.
Il comunismo apparve allora definitivamente liquidato, irreversibilmente condannato perché la democrazia prometteva di rispondere alle domande cui il comunismo sovietico non aveva dato risposta: benessere, pace, allegria.
Il decennio novanta cominciò però subito con una spiacevole sorpresa. Invece della pace promessa la democrazia americana lanciò la guerra nel Golfo.
E nel secolo nuovo anche la promessa di benessere economica è andata svanendo, così che la miseria si è diffusa insieme alla rabbia e all’impotenza.
Molti hanno allora cominciato a pensare che la democrazia non può convivere a lungo con il capitalismo senza diventare un’odiosa ipocrisia.
L’odio per l’ipocrisia democratica ha allora riportato il fascismo sulla scena.
E poiché le sorprese non finiscono mai, in pochi anni partiti razzisti, autoritari quando non apertamente fascisti si sono impadroniti del potere in gran parte del mondo.
Hitler ritorna? Se ritorna è moltiplicato per dodici e per di più ha la bomba nucleare. E poiché la democrazia si è rivelata un’illusione, una maschera dietro cui si nasconde la violenza economica del capitalismo finanziario globale, dobbiamo riconoscere che il comunismo è urgente.
L’urgenza la sentono molti, forse la maggioranza della società, ma molto pochi chiamano quest’urgenza con il suo vero nome: comunismo.
La sofferenza si diffonde, ma pochi sanno che la cura non è farmacologica, perché la cura si chiama comunismo.
Artisti attivisti e pensatori si sono quindi dati appuntamento a Roma, e sarebbe bello se riuscissero a trovare parole, gesti e forme capaci di nominare questa urgenza.
Ci riusciranno?
Io sono andato a leggermi alcuni documenti che introducono questa conferenza e particolarmente le pagine che sono uscite sul Manifesto una settimana fa, una intervista di Benedetto Vecchi con Sandro Mezzadra e una di Francesco Raparelli con Toni Negri.
Confesso che entrambe queste interviste mi hanno molto deluso, come chi fosse invitato ad un pranzo succulento e si trovasse a dover sorbire un’insipida minestrina da ospedale.
Negri ci ha ripetuto negli ultimi anni che la moltitudine si oppone all’impero. Ma la moltitudine oggi si esprime votando per i peggiori nazionalisti o respingendo i profughi che fuggono dalla guerra e dalla fame, e costruendo campi di concentramento lungo le coste del Mediterraneo.
Ora, in questa intervista sul Manifesto dice che occorre trasformare la sofferenza del bisogno in un noi desiderante, e siamo tutti d’accordo naturalmente. Ma questa frase, che è il centro del suo ragionamento, è un’ovvietà poco interessante, perché vorremmo sapere come questo passaggio dalla miseria psichica e sociale dell’oggi può trasformarsi in solidarietà felice.
Mezzadra ripete alcune cose che abbiamo sentito mille volte negli ultimi anni ma sembra dimenticarsi che nel frattempo, proprio in questo ultimo anno, in questo maledetto anno dell’apocalisse 2016, tutte la parole degli ultimi decenni sono diventate vecchie perché il razzismo si è impadronito del governo del mondo.
Negri e Mezzadra (e tutti i documenti che introducono questo appuntamento C17) dimenticano di pronunciare il nome dell’uomo del Ku Klux Klan che proprio in questi giorni si insedia al governo del mondo.
La rimozione non ci sarà di nessun aiuto, eppure è sotto il segno della rimozione che questo appuntamento comincia.
La sintesi di queste interviste sembra essere in un titolo scelto dal Manifesto: I movimenti saranno una spina nel fianco del potere.
Ma questa sintesi è sconsolante. La spina? Il fianco? Ma di che stiamo parlando?
I movimenti sono scomparsi e non ritorneranno, perché sono stanchi di essere una spina in un fianco tanto pingue che della spina neppure se ne accorge.
Speriamo che questi giorni di discussioni e di sperimentazioni ci permettano di intravvedere un orizzonte un po’ più originale ed efficace di questo.
NOTA:
LE SPINE DEL "C17" 0 DEL "C22"?! CHI SIAMO NOI IN REALTA’?!
CONCORDO PIENAMENTE CON L’INTERVENTO DI BIFO ...
A PRIMO MORONI, IN MEMORIA. E ALLA SUA LIBRERIA "CALUSCA", IN UNA BREVE "LETTERA", nel marzo del 2000, così scrivevo:
=[...] "Caro Primo, su questa strada, mi sembra, è la via d’uscita (sul tema, cfr. Michael Walzer, Esodo e rivoluzione, Milano, Feltrinelli, 1986) dall’Egitto capitalistico e la ‘chiave’, consegnataci dal Dio dei nostri padri e delle nostre madri, per entrare nella Terra... promessa e abitarla in spirito di pace, giustizia, e amicizia. Il comunismo è la cosa semplice, più difficile a farsi.
Dar vita a quello che Tu, nella piccola terra-libreria - lo specchio della tua identità e della tua libertà, il grande spazio aperto e accogliente della Calusca prima e della Calusca City Lights dopo, superando difficoltà e mai perdendo il coraggio e la lucidità, hai saputo far accadere, e mostrarne la possibilità: esseri umani che si incontrano nella libertà, nel rispetto reciproco, e, amichevolmente, fanno Uno (la Relazione Chiasmatica) e questo Uno illumina, spezza le catene e apre i recinti, trasforma le relazioni (a riguardo, ricordo la ‘magica’ giornata - una per tutte, simbolicamente - in cui, in [via] Conchetta, si presentò e si discusse il lavoro di Giorgio Antonucci, Critica al giudizio psichiatrico, Roma, Edizioni Sensibili alle foglie, 1993), e realizza un nuovo rapporto sociale di produzione (di esseri umani, di idee, e di cose), apre a una nuova, chiasmatica, prassi e a una nuova misura di tutti gli affari umani.
Nonostante gli inevitabili errori e inciampi, molti sono stati i LUMHI (Libera Università di Milano e del suo HInterland “Franco Fortini”), i nuclei di microutopie (cfr. Sergio Bologna, Due parole tanto per..., in AA. VV., Lezioni sul revisionismo storico, Cox 18 Books, Calusca City Lights, Milano 1999), da te accesi e disseminati per le strade (del mondo e) della Milano che fa male [...]
Forse è bene riprenderla e rileggerla, questa Lettera. Il suo titolo è proprio sul tema "Chi siamo noi in realtà. Relazioni chiasmatiche e civiltà" (cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3920). E, fondamentalmente, non lo sappiamo ancora!
Federico La Sala
L’ultimo Marx
di Alfio Neri (Carmilla, 24 dicembre 2016)
Non era solo un vecchio malandato. La salute di Marx era malferma ma il suo cervello funzionava. Avere problemi fisici non significa essere rincoglioniti.
La tradizione marxista lo descrive come un vecchio infermo, un santo laico che aveva appena fatto in tempo a finire la sua immane opera.
La verità è diversa. Il vecchio tabagista non mollò mai, anche dopo aver smesso di fumare. Marx non fu mai la sfinge granitica dei monumenti sovietici e non ebbe mai la triste certezza dogmatica dei suoi peggiori seguaci.
Diffidò sempre delle dottrine tascabili sfornate dai suoi seguaci più ottusi.
Non recitò mai la parte del profeta barbuto che indica il sol dell’avvenire.
Dalle lettere si vede molto bene che non si fidava di parecchia gente; spesso gli stessi che, più avanti, avrebbero fatto del marxismo il loro mestiere.
Di Kautsky pensava che fosse una “mediocrità”1. Il suo giudizio sul futuro massimo dirigente della socialdemocrazia tedesca mostra il suo enorme intuito.
La leggenda che, alla fine della sua vita, il vecchio ex-tabagista avesse soddisfatto la propria curiosità intellettuale è falsa. Marx continuò a studiare e a proporre soluzioni nuove fino alla fine dei suoi giorni.
Nelle opere complete stanno per essere pubblicati gli ultimi duecento quaderni.
Il lavoro filologico ha riportato alla luce gli appunti personali di questi anni. Da questi materiali emerge un autore diverso da quello consueto. Il profilo intellettuale appare completamente nuovo.
I nuovi documenti e l’implosione dell’URSS hanno liberato Marx dalla necessità di interpretarlo alla luce della ragion di stato e del dogmatismo dottrinario.
Il rinnovato interesse sulla sua figura e il nuovo materiale fanno pensare che la reinterpretazione della sua opera sia destinata a continuare. Il punto di svolta ermeneutico, per Marcello Musto, inizia con la rilettura della parte terminale della sua opera.
In questa sede non bisogna adagiarsi sull’elegia.
La dignità della sua morte ricorda le trame di un racconto ottocentesco in cui le tragedie personali si intrecciano nelle grandi tempeste della storia moderna.
Tuttavia, al di là della questione umana, leggere la storia dell’ultimo Marx come il racconto storico di un uomo dalla vita romanzesca, non ha molto senso.
Per quanto si possa perdonare chi legge l’ultimo Marx con le lenti dell’analitica della finitudine umana, non è lecito proporre la vicenda intellettuale del vecchio Marx nell’ottica di un’estetica del tramonto. Il materiale mostra che il vecchio scorbutico (era davvero molto scorbutico) continua a combattere e studiare.
Nei suoi ultimi due anni, Marx studia antropologia, non passa il tempo a leggere romanzetti rosa.
La nascita di un movimento socialista in Russia lo pone di fronte a nuove importanti questioni. Vera Zasulič (fuggita dopo aver tentato di assassinare lo Zar) gli chiede se, nella sua opinione, sia possibile arrivare al socialismo senza passare per una fase di egemonia borghese.
Per dare una risposta alla questione inizia a studiare in profondità l’argomento ed entra in campi di studio che fino ad allora aveva trascurato.
I manoscritti inediti e le bozze delle lettere (inviate e non inviate) indicano che non era per niente soddisfatto delle risposte teoriche che aveva già formulato. Si accorge che la comunità rurale slava poteva essere lo strumento adeguato per passare dal feudalesimo al socialismo senza passare per il capitalismo2.
Marx non pubblica nulla di rilevante ma lo svolgimento dei materiali che elabora è antitetico a quello del marxismo storico.
Il percorso dialettico del suo pensiero gli evita di avvicinarsi alla questione in modo dottrinario e gli fa vedere subito cose che i suoi futuri seguaci non sarebbero mai stati capaci di comprendere.
Del resto è evidente che non si fidava di quelli che dicevano di ispirarsi ai suoi scritti. Sconfessa Hyndman perché era riformista3, ma le sue parole per i sedicenti discepoli ‘ortodossi’ non erano poi tanto diverse.
Di fronte a chi si dichiarava suo seguace, rispondeva con ironia “quel che è certo è che io non sono marxista”4. Il punto di partenza per rileggere Marx sono queste sue ultime parole.
Adesso è finalmente possibile fare un bilancio perché tutta la sua opera sta diventando finalmente accessibile5. Le nuove interpretazioni di Marx non possono che iniziare da qui, dalle sue ultime ricerche.
Nessuna elegia funebre, nessun interesse antiquario, nessuna estetica del tramonto, la posta in gioco è sempre la trasformazione del mondo.
Note
1. Cfr. p. 46. Nell’epistolario Marx definisce Kautsky saccente, sputasentenze e di vedute ristrette; per quanto diligente per Marx rimane un mediocre. Engels definisce Kautsky un pedante, un dottrinario e un cavillatore nato. Come lato positivo trova che abbia un gran talento nel bere. ↩
2. Cfr. pp. 49-75. ↩
3. Cfr. pp. 84-87. ↩
4. Cfr. p. 25. ↩
5. Fra le opere che possono essere un nuovo punto di partenza critico segnalo il notevole E. Dussel, L’ultimo Marx, manifestolibri, 2009 (dimostra come l’opera di Marx sia costitutivamente aperta) e il pionieristico M. Rubel, Marx critico del marxismo, Cappelli, 1981. ↩
Nazional-Operaismo e guerra razziale
di Franco Berardi Bifo*
Cerchiamo di capire cosa è successo. Come fece nel 1933, la classe operaia si vendica di chi l’ha presa per il culo negli ultimi trent’anni. Uno schiavista che per sua stessa ammissione non ha mai pagato le tasse, un violentatore seriale è diventato Presidente degli Stati Uniti d’America. Hanno votato per lui coloro che sono stati traditi dalla sinistra, in America come in Europa.
La più urgente azione da compiere ora sarebbe linciarli, coloro che hanno aperto la strada al fascismo mettendosi al servizio del capitale finanziario e della riforma neo-liberale: Bill Clinton e Tony Blair, Massimo d’Alema e Matteo Renzi, Giorgio Napolitano, François Hollande, Manuel Valls e Sigmar Gabriel. Chiamiamoli per nome i mascalzoni che per cinismo e per imbecillità hanno consegnato alle grandi corporation finanziarie il governo sulla nostra vita, e hanno aperto la porta al fascismo che ora dilaga, alla guerra civile globale alla quale ora non c’è più modo di porre argini.
Nel Regno Unito e in Polonia, in Ungheria e in Russia e ora negli Stati Uniti, ha vinto il Nazional-Operaismo. La classe operaia bianca, umiliata negli ultimi trent’anni, ingannata dalle promesse riformiste dei suoi rappresentanti, impoverita dall’aggressione finanziaria, porta uno schiavista violentatore alla Casa Bianca.
Dato che la sinistra ha tolto dalle mani dei lavoratori le armi per difendersi, ecco la versione fascista e razzista della lotta di classe: Wall Street è riuscita a sconfiggere Bernie Sanders alle primarie, e ora un uomo del Ku Klux Klan sconfigge la rappresentante di Wall Street.
I prossimi dieci anni saranno tremendi, è bene saperlo. Il crollo della globalizzazione capitalista è l’inizio di una guerra nella quale poco di ciò che chiamammo civiltà è destinato a sopravvivere. «Zero Hedge», il giornale online in cui scrivono gli intellettuali trumpisti ha pubblicato qualche giorno fa un articolo che sintetizza benissimo quello che sta accadendo e anticipa quello che accadrà:
È la classe media demoralizzata e disillusa che ha perduto di più, depredata dalla Federal Reserve, con salari che languiscono dagli anni Ottanta. Gli interessi a zero hanno punito lavoratori pensionati e risparmiatori mentre hanno beneficiato i milionari della finanza. Il prossimo collasso finanziario, che è dietro l’angolo provocherà una guerra di classe nelle strade.
Trump ha vinto perché rappresenta un’arma nelle mani dei lavoratori impoveriti, dato che la sinistra li ha consegnati disarmati nelle mani del capitale finanziario. Purtroppo si tratta di un’arma che si rivolgerà presto contro i lavoratori stessi, e li porterà a una guerra razziale. L’altra faccia dell’Operaismo trumpista è infatti il Nazionalismo bianco. Scrive ancora «Zero Hedge»: «Alle elezioni le persone bianche, sposate, rurali e religiose si scontrano contro le persone nere, senza padre, e non religiose».
La minaccia di guerra razziale è del tutto esplicita nelle posizioni del Nazional-Operaismo americano. Sconfitti sul piano sociale dal capitalismo finanziario, gli operai bianchi si riconoscono come razza degli sterminatori e degli schiavisti.
Il movimento Black Lives Matter sponsorizzato da Soros ha creato il caos nelle città americane, spingendo giovani neri a uccidere ufficiali di polizia, e portando all’estremo il programma di riparazioni ispirato da Obama. Ma se provano a uscire dai loro ghetti urbani creati dai democratici e se provano a venire nelle zone dell’America rurale incontreranno i possessori legali di armi che gli spareranno addosso. La guerra razziale si concluder presto e non c’è dubbio su chi sarà il vincitore. I bianchi moderati e conservatori sono stufi marci del programma liberal e del vittimismo nero. La risposta che daremo è: fatela finita di fare figli fuori dal matrimoni, andate a lavorare, educatevi. La vita è dura. Imparatelo. Nessuno vi deve nulla.
Aspettando la seconda guerra civile americana, in questi giorni mi trovo a Mosca per una conferenza. Mentre parlavo in una galleria d’arte ai fighetti come me e come i lettori di Operaviva, fuori, nel gelido nevischio della metropoli il popolo russo festeggiava. Cosa? Cosa si celebra, e si ricorda all’inizio del mese di Novembre in Russia? Non la rivoluzione sovietica del 1917 ma la cacciata dei polacchi nel 1612. Il fascismo russo ha salutato l’erezione della statua di Vladimiro il savio, cristianizzatore della patria 18 metri di altezza. Molte donne e molti bambini vestono con uniformi militari e inneggiano ai peggiori assassini che la storia ricordi, da Ivan il Terribile a Stalin il massacratore di comunisti.
La razza bianca in armi prepara un finale spaventoso per la storia spaventosa del colonialismo moderno. Riusciremo a sfuggire a questo finale già scritto nei libri dell’Armageddon che il capitalismo finanziario ha preparato e cui la sinistra riformista ha aperto la strada?
* Ha aderito alla campagna Facciamo Comune insieme. Questo articolo è stato pubblicato su operaviva.info
Carta di responsabilità e impegno
Scelte evangeliche per un cammino di liberazione
Siamo sacerdoti, religiosi e religiose impegnati da anni con le nostre comunità e i nostri gruppi a far incontrare le fatiche degli uomini con la tenerezza di Dio,
ci sentiamo sollecitati dal Magistero e dall’azione di Papa Francesco a favore degli ultimi e degli emarginati, ci poniamo sulla scia dell’impegno sottoscritto nel “Patto delle catacombe” da numerosi vescovi partecipanti al Concilio Vaticano II,
ci ritroviamo alla fine di un percorso di riflessione e di preghiera che dura da molti mesi, nel Monastero San Magno di Fondi, luogo di antica spiritualità benedettina olivetana e di un’attuale presenza di Fraternità e preghiera,
consapevoli che il momento attuale, portatore di grandi e profondi mutamenti, chiedendo la fatica della conversione, genera un diffuso clima di sospetto e spesso di chiusura e di indifferenza di fronte alla vita,
provocati dall’evangelista Luca che parlandoci di Maria nel viaggio verso Elisabetta scrive, secondo una traduzione più fedele del termine greco anastàsa, “risorta, Maria in piedi”, indicandola dunque come la prima tra i risorti e prima del Risorto stesso,
con lo stile di Maria, da figli del Risorto,
insieme alle nostre comunità ci impegniamo
a non tacere dinanzi alle ingiustizie e ad ogni tipo di illegalità,
a camminare al fianco delle vittime innocenti delle mafie e di quanti subiscono violenze e sopraffazioni, condividendo il loro dolore e la loro richiesta di giustizia e di verità,
a contrastare ogni forma di corruzione perché cancro della civiltà e della democrazia,
a leggere la Storia e la strada con lo sguardo dei contemplativi,
ad evitare qualunque forma di religiosità ritualistica e alienante che deturpa il volto paterno di Dio,
a vivere ogni manifestazione di pietà popolare nella logica della semplicità e della radicalità evangelica affinché non si trasformino in esaltazione di personaggi potenti e boss mafiosi, e in mortificazione di poveri ed ultimi,
ad accompagnare il cammino di coloro che intendono pentirsi del male compiuto distinguendo il peccato dal peccatore,
a realizzare luoghi nei quali trovino accoglienza uomini e donne senza nessun pregiudizio di tipo religioso, etnico e sociale,
a vivere la misericordia come risposta ad ogni tipo di violenza e come accoglienza agli ultimi, ai poveri, agli emarginati e ai migranti,
a promuovere e ad affermare i principi di una cultura di ecologia integrale,
a sentirci parte integrante dell’ambiente perché ogni aggressione ad esso venga vissuto come una ferita inferta a ciascuno di noi,
a denunciare ogni tipo di connivenza anche istituzionale che favorisce il degrado ambientale agevolando gli affari delle ecomafie,
a vivere nella libertà ogni tipo di rapporto con la politica per non cadere nelle maglie di facili strumentalizzazioni,
a promuovere l’affermazione di un’informazione che cerchi sempre la verità e tuteli gli ultimi,
a liberarci e a liberare da una concezione economicistica della terra, dell’ambiente, del lavoro e delle relazioni umane,
a denunciare quella finanza che uccide i poveri e crea disuguaglianze sociali su scala planetaria,
a lavorare nell’educazione ad una finanza etica e giusta, e ad un’economia di pace
a vivere il rapporto con il denaro nella logica della trasparenza e della competenza perché non si alimentino favoritismi né si assicurino privilegi,
ad orientare le risorse economiche sempre verso il bene comune e mai verso interessi di pochi individui o di singoli gruppi, anteponendo il primato della destinazione universale dei beni ai principi della proprietà privata,
ad accompagnare i passi dei giovani scommettendo ulteriormente sulle sfide educative e sostenendo percorsi concreti che generino un lavoro che aiuti più a cooperare che a competere,
a tutelare i principi costitutivi della nostra Carta costituzionale,
a difendere la sacralità della laicità,
a promuovere percorsi virtuosi e responsabili di cittadinanza attiva.
Certi che questi impegni già caratterizzano ogni credente radicato nel Vangelo e che tanti altri fratelli e sorelle, sacerdoti, religiosi e laici vogliano sottoscriverli insieme a noi, sentiamo la responsabilità di ribadire insieme le nostre scelte, e con le nostre comunità, come Maria, vogliamo impegnarci a riconoscere e ad essere strumenti dell’azione misericordiosa e capovolgente di Dio che “rovescia i potenti dai troni e rimanda a mani vuote i ricchi” (Lc 1,52-53), perché anche noi come il profeta Geremia nello scrutare questi orizzonti incerti, con gli occhi pieni di speranza vogliamo sussurrare al mondo: “vedo un ramo di mandorlo” (Ger 1,11).
Fondi, Monastero San Magno
8 settembre 2016
Festa della Natività della Beata Vergine Maria
Luigi Ciotti, Francesco Fiorillo, Marcello Cozzi, Giorgio De Checchi, Ennio Stamile, Giuseppe Fiorillo, Sandra Rosina, Giancarlo Loriggio,
Pierluigi Di Piazza, Mario Vatta, Aldo Antonelli, Pasquale Mascaro, Giorgio Moriconi, Alfredo Micalusi, Pino Demasi, Salvatore Larocca, Luigi Tellatin, Tonio Dell’Olio, Luca Facco, Marco Galletti, Gabriele Pipinato, Giuseppe Gobbo, Tommaso Scicchitano, Giorgio Pisano, Livio Gaio, Narciso Del Poz, Pasquale Aceto, Giovanni D’Andrea, Domenico Francavilla, Mimmo Nasone, Luigi Pellegrino, Tonino Palmese.
Così Feuerbach inventò il motto "L’uomo è ciò che mangia".
La frase più celebre del padre del materialismo tedesco fu ispirata da un trattato del fisiologo Jakob Moleschott. Che ora viene ripubblicato insieme a un saggio del filosofo in cui replica alle accuse degli idealisti.
di Marino Niola (la Repubblica, 23.08.2016)
«L’uomo è ciò che mangia». È l’aforisma sul cibo più citato di sempre. Al punto da diventare un tormentone. Non solo per noi, che siamo costretti a sorbircelo in tutte le salse e spesso a sproposito. Ma soprattutto per il suo autore, il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach, che passò tutta la vita a struggersi perché della sua poderosa opera non veniva ricordata che questa frase. E per di più al solo scopo di accusarlo di aver leso l’onorabilità del pensiero tedesco. Sporcando le astrazioni dell’idealismo con il suo materialismo che riduceva tutto a pappa e ciccia.
La frase incriminata compare per la prima volta in una recensione che Feuerbach dedica al Trattato dell’alimentazione per il popolo del medico e fisiologo olandese Jakob Moleschott, pubblicato in Germania nel 1850. Un’opera rivoluzionaria, perché fa della nutrizione il principio motore della storia umana. Ponendo il cibo all’origine della società, del pensiero, della religione e persino delle differenze culturali e di classe.
Il Trattato, tradotto in italiano nel 1871 da Giuseppe Bellucci per l’editore Treves di Milano, viene adesso ristampato da Volumnia Editrice (pagg. 171, euro 22) con un utilissimo apparato di testi di antropologi, nutrizionisti, scienziati. E con un bel saggio di Luciano Giacchè che ricostruisce mirabilmente il contesto della vicenda e ne mostra l’attualità, alla luce della cibomania contemporanea.
Ma la vera chicca dell’edizione Volumnia è la riproposizione del saggio Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia, che Feuerbach scrive nel 1862, dodici anni dopo la sua discussa recensione, per rispondere agli attacchi che gli erano piovuti addosso. Il risultato è una magistrale ricapitolazione del materialismo feuerbachiano.
La forza dirompente del Trattato per Feuerbach sta nel fatto che fa da supporto a una nuova filosofia, dimostrando scientificamente che il pensiero comincia proprio dalla pancia e poi arriva alla testa. Ma l’autore va ancora più in là. E partendo dall’affermazione, decisamente positivista, di Moleschott secondo cui «senza fosforo non c’è pensiero» ci regala un’altra affermazione passata ormai nel senso comune. «Perché tu introduca qualcosa nella tua testa e nel tuo cuore è necessario che tu abbia messo qualcosa nello stomaco». Un missile contro quella filosofia che ha sempre messo le idee al principio di tutto, dimenticando che a produrle è il corpo. Come dire che è la materia a generare lo spirito e non il contrario.
Ma non si tratta di una semplice disputa filosofica. Quello che hanno a cuore sia il medico che il filosofo è la ricaduta sociale e politica delle loro affermazioni. Entrambi concordano sul fatto che alla base del progresso delle nazioni non sono certo le prediche, che disseminano la vita di principi, ma la giusta distribuzione del carburante. L’operaio inglese, spiegano, è più efficiente perché mangia meglio del popolano napoletano. Fra l’altro vale la pena di ricordare che Moleschott nel 1861 fu chiamato per chiara fama da Francesco De Sanctis, allora ministro della Pubblica istruzione del primo governo Cavour, alla cattedra di Fisiologia all’università di Torino e divenne anche senatore del Regno d’Italia.
Lungi dal tessere l’elogio della gola, i due fanno un discorso radicale che rimette in discussione il dualismo che divide l’uomo dall’altra parte di se stesso. Il corpo e la mente, l’anima e la carne. Per Feuerbach l’unità dell’essere umano sta proprio nell’alimentazione. Che è il trait d’union tra natura e cultura. E questo vale per gli uomini come per gli animali. E d’altra parte il Trattato di Moleschott inizia proprio constatando che se il nutrimento ha trasformato il gatto selvaggio in gatto domestico, da carnivoro a onnivoro, perché dovremmo stupirci se l’alimentazione influenza la natura dell’uomo e delle sue istituzioni? Compresa la religione: gli alimenti che gli uomini, di tutte le fedi, sacrificano da sempre sugli altari ne sono la prova.
Per Feuerbach, l’immortalità degli dei deriva dal fatto che, come racconta Omero, non si nutrono di pane e vino ma di cibi non umani come nettare e ambrosia, ovvero la materia stessa dell’immortalità. Insomma anche Dio è ciò che mangia.
E che mangiare e vivere siano la stessa cosa, per Feuerbach, sta scritto in parole come bios, che in greco antico significava vita, ma anche generi di sopravvivenza. E una traccia di questa familiarità rimane anche nel nostro vitto, dal latino victum, voce del verbo vivere. Ma anche in termini come viveri e vettovaglie, che hanno la stessa radice. Insomma se Feuerbach non avesse assimilato e digerito Moleschott probabilmente il suo pensiero non sarebbe stato lo stesso. Evidentemente anche il filosofo è ciò che mangia.
Il Graal dell’autentico. Una nuova ecologia culturale
di Jonathan Nossiter (Che fare, i21 luglio 2016)
Autenticità è una parola desueta. Saccheggiata da tempo dalle variegate perfidie politiche. Che di volta in volta ne fanno uno strumento reazionario, il nome di una purezza malsana o un freno per la crescita. Nell’ultimo caso, l’autenticità è un limite all’industrializzazione, fondata sulla riproduzione a grande scala e sulla pubblicità, la valorizzazione menzognera di un prodotto. Priva di valore intrinseco, nelle società industriali e postindustriali dominate dalla finanza l’autenticità è un peso morto. Come immaginare che un banchiere che specula su prodotti derivati si ponga il problema dell’autenticità del non- prodotto o del sistema di non-prodotti che deve vendere?
Come può una società volta al consumo di oggetti e alimenti sempre più artificiali, inutili e distanti dai nostri bisogni biologici (ma non dai nostri bisogni psicologici), preoccuparsi all’autenticità? Ma da quale luogo oscuro proviene l’ultimo chiodo per sigillare definitivamente la bara di questa parola, di questo ideale omerico? Omerico perché mitologizzante, volontariamente «primitivo» in apparenza ma in realtà al centro del significato della civilizzazione umana: essenziale, per coloro che vogliono pensarci. Martello e chiodo arrivano da un certo postmodernismo, partner ideale perché palesemente contrapposto, con la sua predilezione per i giochi intellettuali, la sua concezione della forma considerata sostanza e il suo progetto di negazione della sostanza delle cose.
È possibile che le molteplici forme d’impegno dei viticoltori naturali siano una risposta solida, materiale e spirituale alla ricerca di questo Graal passato di moda. È ciò che in loro mi tocca. Gian Luca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna (e uno dei protagonisti di Resistenza Naturale), discorreva a Pacina con Giovanna Tiezzi del rifiuto della commissione incaricata di attribuire la Doc «Chianti» ai vini di Giovanna, rifiuto motivato con il fatto che i suoi vini sarebbero storicamente atipici (il che è esattamente il contrario della realtà dei fatti). Farinelli reagiva con queste parole: «La storia non è mai fissa. La verità culturale non esiste, perché la cultura è in continua mutazione». Vi sono tribù che hanno conservato gli stessi gesti per periodi lunghissimi: meno contatti avevano con le altre culture e più potevano preservare i propri gesti, comportamenti e sistemi di pensiero. Ma in Occidente la storia è una lunga serie di episodi di contaminazioni e mutamenti.
Per questo la parola «autenticità» induce domande complicate. Semanticamente, è quasi un ossimoro. Può essere impiegata per difendere un’idea passatista, quanto essere evocata come vettore di un progresso durevole. Ma per molti è soprattutto il nome di quel che fugge, di ciò che si è perso, di un paradiso perduto. Come molte persone della mia età, ho spesso l’impressione di assistere alla scomparsa delle ultime tracce di gesti autentici.
Una preoccupazione scandita da circa diecimila anni di storia, e che si ripete a ogni generazione: «Ai miei tempi la cose erano più autentiche...». Ma stavolta, nella nostra epoca, il ritmo dei cambiamenti ha accelerato in modo folle, in via esponenziale: e la scomparsa delle vitamine dalla frutta non è un’illusione creata dal passare degli anni.
Prendiamo l’esempio della Borgogna: il vino prodotto nel 200 a.C., quello fatto dai romani durante i due o tre primi decenni dell’era cristiana e il vino del Medioevo non si assomigliavano affatto. E di certo ci sono notevoli differenze tra i vini medioevali, quelli bevuti dai principi de Conti nel Seicento e il vino oggi prodotto da Aubert de Villaine alla Romanée Conti. Nessuno è in grado di descriverli con precisione, ma si può affermare con certezza che ogni trasformazione importante si è prodotta nell’arco di un centinaio d’anni. Esiste così una curva dell’evoluzione nel gusto e della concezione culturale del vino che accompagna tranquillamente l’arco della vita di un uomo... e spesso anche dei suoi figli. Il tempo si iscriveva nel vino, come il vino nel tempo. Non si nasceva con una verità per morire con la verità opposta. Le cose andavano più piano e una vita non bastava a esaurire il campo di un sapere tecnico.
La lacerazione è di questi ultimi anni, e ha portato con sé un cambiamento che si svolge nell’arco di mezza generazione anziché tre o quattro. Cioè nel bel mezzo della vita di un uomo. Nel mondo tecnologico sono gli adolescenti a spiegare agli adulti, rovesciando così l’ordine della trasmissione. E ciò a cui assistiamo ci spinge a immaginarne che questo effetto non farà che aumentare. Proprio come aveva previsto il padre di Giovanna, Enzo Tiezzi, come conseguenza dello scontro tra tempo biologico - della terra e dell’uomo - e tempo storico imposto dalla volontà dell’uomo.
Autentico ed etico
Per quanto riguarda il vino naturale e come per ogni atto culturale, non basta parlare di sincerità. La sincerità non garantisce alcuna autenticità. La sincerità appartiene solo al soggetto che compie l’atto, si misura in relazione a esso, ma è possibile essere sinceri e sbagliarsi completamente, essere ingiusti.
Al contrario, se si è sinceri e si considera il proprio gesto come qualcosa che non ci appartiene, ma che esiste al di fuori di noi (che è quindi «altro», come la natura per il viticoltore o la realtà filmica per il cineasta), se lo si integra dentro di sé rispettando ciò che è, allora entriamo un ambito etico, caratterizzato dall’incontro tra questo altro e il proprio sé. E in un gesto etico l’elaborazione intellettuale e la sincerità spontanea vengono a trovarsi mischiate, perché la qualità «etica» di un gesto è prodotta dalla sinergia tra una cornice sociale e un’intenzione personale. Nell’etica c’è l’idea di incontro tra una sincerità soggettiva e una realtà oggettiva e condivisa, una realtà che appartiene a chi agisce - certo - ma anche agli altri.
Non si può fare il vino da soli, non si possono avere uve o vini autentici che corrispondano alla propria immagine, come un quadro di Friedrich. Lì dovrà esserci il rispetto dell’alterità. Non si può fare un film da soli. Che sia per un documentario o una fiction, il film attinge la propria materia dalla realtà filmata.
Occorre anche distinguere la morale dell’autenticità dall’etica dell’autenticità. La prima porterebbe a produrre un vino ideologico, a partire da una verità universale e dalla ricerca di una formula da applicare. Non finiremmo così granché lontani da un sempre pericolo concetto di purezza e dai dogmi religiosi.
Tra i fautori di un ritorno all’autentico, c’è chi assume un atteggiamento morale e afferma che un vino non può essere naturale quando contiene anche solo un milligrammo di zolfo aggiunto. Chi vuole imporre regole ferree che garantiscano la purezza del vino naturale, anche a costo di fargli perdere sincerità e allontanandolo dal gusto di chi lo produce (e che sceglie di subordinare la propria sensibilità a questo dogma).
Per quanto riguarda il cinema, c’è l’esempio dei danesi «Dogma 95»: i quali, a forza di ricercare una purezza cinematografica per gli autori che hanno aderito al loro complesso di intransigenti divieti (benché mai del tutto rispettati), hanno finito per produrre immagini palesemente artificiose, nelle quali il reale si è ridotto a una semplice posa. Eppure ho apprezzato alcuni dei film che ne sono scaturiti, come Gli Idioti che resta per me il più grande film di Lars Von Trier, l’unico dove ho l’impressione che lui non si nasconda. È la storia di un gruppo di emarginati bohémien - potremmo quasi dire di troubadour - che in una cittadina sono dediti alla provocazione: truffano, bluffano, raccontano balle, fanno gli sbruffoni per in- durre la «verità» nell’altro, negli innocenti.
Incuriosito dal risvolto autobiografico di von Trier e spinto dalla sensazione di averlo visto finalmente a nudo, ho chiesto all’attore Stellan Skarsgard, che è un nostro grande amico comune, di chiedergli conferma. Sei mesi dopo mi arriva una telefonata: «Ciao, sono Stellan. Ti chiamo dall’aeroporto di Copenhagen. Ho ap- pena preso un taxi con Lars. Così gli ho chiesto se Gli Idioti fosse un film autobiografico». Silenzio. «E allora?» gli chiedo io. «Be’... non mi ha risposto. Ma ha riso per cinque minuti».
Al contrario del vino «morale», quello che è frutto di un’etica dell’autenticità non è un vino ideologico, definito e limitato dai dogmi. È un vino libero, in grado ad esempio di sopportare un po’ di zolfo quando serve, senza dogmatismo ma senza concessioni sull’equilibrio tra convinzioni personali e considerazione del prossimo.
Opposto al discorso industriale, che parla del vino come di un oggetto fine a se stesso, il vino naturale non tiene un discorso sul vino, ma sulle relazioni umane e sulla relazione dell’uomo con la natura. Non è un vino che parla del vino, ma un vino che parla di quel suo «altro» che è la natura.
I margini infuocati del mondo
Gayatri Chakravorty Spivak. Un’intervista con la teorica femminista indiana, presenza fondamentale dei postcolonial e subaltern studies. Disapprendere il proprio privilegio significa imparare a costruire una relazione etica e politica tra i viventi
di Francesca Maffioli (il manifesto, 23.06.2016)
Contestare l’occupazione da parte dell’Occidente e della filosofia occidentale riguardo la posizione di Soggetto cardine del discorso è sempre stato un punto fondamentale dell’analisi di Gayatri Chakravorty Spivak. Così anche in un recente incontro pubblico tenutosi presso la sede dell’University of Paris, e titolato emblematicamente Il presente in dissolvenza, la filosofa e femminista ha sottolineato la presa di parola da parte dei «soggetti subalterni», secondo una logica di decostruzione di questa dinamica gerarchizzata e ignorante della diversità.
Il soggetto che le interessa è sessuato, femminile, messo a margine da un sistema di valori centralizzato, in cui l’Occidente è sovrano e l’altra esiste in quanto oggetto da analizzare, da rappresentare e da controllare, anche nel momento della locuzione.
Quando alla «subalterna» è concessa la parola si tratta, infatti, di una parola che mima le aspettative del Soggetto che le ha permesso la libertà di espressione. La finalità della presa di parola del «soggetto subalterno donna», in comunicazione con il soggetto femminista occidentale, dovrebbe passare, secondo Spivak, dal superamento e dalla decostruzione dei rapporti gerarchici e dalla (ri)costruzione di un dialogo tra agenti parlanti. Si tratta di articolare un’agentività che implica un’egemonia non convenzionale, oltre i sistemi simbolici prestabiliti - in uno spazio dove la comunicazione si costituisce in quanto atto performativo.
Quanto, disporci all’ascolto di un «Other Knowledge», può renderci aperti a spazi di comunicazione che consentano di cogliere le opportunità per un dialogo con le voci marginalizzate? In che misura mettere in discussione la credibilità e la significatività di categorie teoretiche apprese agevolerebbe i requisiti per instaurare una comunicazione che ci volga alla comprensione dell’altra e dell’altro, della subalterna e del subalterno?
Abbiamo incontrato Gayatri Chakravorty Spivak per porle qualche domanda a riguardo.
Il suo monito «unlearn one’s privilege as one’s loss», ovvero «disimparare il proprio privilegio perché è una perdita», l’ha portata a riconsiderare il privilegio, anche di carattere gnoseologico, per (auto)instillare il dubbio critico e stabilire un rapporto etico con l’altro e l’altra - nell’obiettivo cioè di apprendere ad ascoltare le voci marginalizzate. Crede che oggi sia ancora valido?
Voglio partire dalla mia esperienza biografica, dalla storia della mia condizione di soggetto privilegiato in un contesto esplicitamente e sfacciatamente non-egualitario: il sistema delle caste hindu. Questo sistema, apparentemente imprescindibile, i ruoli sociali occupati dalla mia stessa famiglia di origine, costituiscono l’esemplificazione di privilegi millenari profondamente radicati. Ciò per dire che vi è una radicata struttura di potere in cui sono consapevole di essere attualmente collocata, riguardo per esempio il mio ruolo accademico negli Stati Uniti. Questa breve premessa che introduce ai privilegi che ho conosciuto, vuole essere però funzionale a ciò che intendo quando convoco il senso del disapprendere. Disimparare il privilegio significa allora costruire la risposta a un modello teorico a partire dalla mia esperienza di donna privilegiata, cresciuta in una famiglia facoltosa, in un sistema di diseguaglianze non celate.
La decostruzione dei propri privilegi può allora condurre ad una comunicazione autentica e a farci attori ed attrici di una pratica dialogica relazionale, definibile come relazionalità etica?
Il disapprendimento dei propri privilegi non significa la loro decostruzione. Sarebbe stata una posizione eccessivamente narcisistica da parte mia quella dell’insistenza, negli anni, verso il non riconoscimento e l’inconsapevolezza dei miei privilegi. Sarebbe stato come ripiegarsi nella negazione, riconoscere solo come perdita il privilegio di essere nata in una famiglia facente parte della casta dei brahmani (la casta sacerdotale, la prima delle quattro caste della società induista, ndr). A partire da un esatto momento della mia vita ho smesso di considerare i miei privilegi come perdita: ho trasformato questa presa di coscienza in un vettore di chance per la ricerca, in una pratica di utilizzo volta al dialogo con i soggetti meno ascoltati, i soggetti per cui l’identità e la parola sono forcluse. La necessità di «unlearn one’s privilege as one’s loss» deve essere rivista, completata secondo il fluire trasformativo del mio pensiero, che nel tempo ha subito delle evoluzioni. Devo confessare che questa considerazione l’avevo concepita precocemente, ben prima di entrare nel cuore dei temi che poi ho trattato nella mia attività di ricerca. In altre parole, credo sia fondamentale focalizzarsi sui privilegi, ma invece di disapprenderli, o prima ancora di imparare a disapprenderli, è necessario vedere dove essi si situano, riconoscerli e «to use them»: vedere e usare un privilegio in maniera funzionale, per volgersi a nuove pratiche di apprendimento e di comunicazione.
I riferimenti a questi interrogativi, come lei ce li descrive, sono suggeriti anche dalle intuizioni dalla filosofa e femminista postcoloniale Sara Ahmed che nel suo «Declarations of Whiteness: The Non-Performativity of Anti-Racism» sostiene come le stesse culture dell’apprendimento siano modellate esattamente sul privilegio...
Disapprendere il privilegio deve infatti trasformarsi in «learning to learn by below». Imparare a imparare dal basso, disattendendo le aspettative e le risposte che ci saremmo aspettati di ricevere e modificando i meccanismi di apprendimento, diventa un processo attivo per minare i meccanismi di dominazione e di controllo. Ammettere il privilegio significa cambiare la propria prospettiva d’osservazione, rappresenta il tentativo di ruotare l’angolo d’apprendimento attraverso cui ci hanno insegnato si debba guardare; significa andare oltre la tradizione che ha limitato le opportunità per una conoscenza alternativa. La prima fase per mettersi in ascolto dell’altro, per consentire che alle nostre orecchie la sua parola non sia muta, è dunque il riconoscimento critico del proprio privilegio.
* BIOGRAFIA E RICEZIONE - Al centro del dibattito internazionale e fuori commercio in Italia
Dal 2007, Gayatri Chakravorty Spivak, insegna alla Columbia University e fa parte dell’Institute for Comparative Literature and Society. Teorica della letteratura e critica femminista, è riconosciuta come una delle figure di spicco degli studi post-coloniali.
Si deve al suo contributo in quanto traduttrice l’introduzione della filosofia contemporanea francese - e in particolare di Jacques Derrida - nell’accademia statunitense. Ha partecipato alla fondazione a Dehli nel 1982 della rivista «Subaltern Studies» e nel 1988 ha codiretto la pubblicazione del celebre Selected Subaltern Studies.
Si deve a Spivak inoltre la pubblicazione di uno degli articoli fondatori degli studi post-coloniali, intitolato «Can the Subaltern Speak» del 1983: la filosofa ha contribuito infatti a rilanciare il termine di «subalterno» che Ranajit Guha aveva ripreso direttamente dalla concezione marxiana di Gramsci, per riconfigurarlo nella prospettiva della voce della donna subalterna e non in quella della storia raccontata dagli altri, il patriarcato o gli stati coloniali.
Tra le sue opere più note si ricordano: «A Critique of Postcolonial Reason: Toward a History of the Vanishing Present» (1999), «Death of a Discipline» (2003) e «An Aesthetic Education in the Era of Globalization» (2012).
In Italia, grazie alle traduzioni e le cure di Ambra Pirri, Angela D’Ottavio, Patrizia Calefato, Vita Fortunati, Lucia Gunella, Sandro Mezzadra e altri, alcuni suoi titoli, molti dei quali ormai fuori commercio, sono stati pubblicati per le case editrici Meltemi e ombre corte.
Il 6 giugno l’University of Paris, l’Institut Humanités et Sciences de Paris (Université Paris Diderot) e il CIPh (Collège International de Philosophie) hanno organizzato una giornata dedicata alla filosofa: «Pensée post-coloniale et genre. Rencontre autour de Gayatri Chakravorty Spivak». Il titolo della sua conferenza è stato «The Vanishing Present».
La condizione animale del desiderio
Saggi. L’ultimo saggio di Roberto Marchesini «Etologia filosofica», uscito per Mimesis
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 05.07.2016)
L’intento dell’ultimo saggio di Roberto Marchesini è certamente filosofico. Per sua stessa ammissione infatti l’atto deliberato con cui ha pensato di costruire Etologia filosofica (Mimesis, pp. 121, euro 12) è quello di indagare «l’ontologia animale» partendo dal congedo dell’ipotesi meccanicistica e quella basata sulla inconoscibilità animale da parte di un eterospecifico. In relazione alla soggettività animale, su cui ruota questa breve ma tagliente dissertazione, Marchesini sostiene l’inconcludenza dell’algoritmo meccanicistico. D’altra parte, sporge e propone un’etologia filosofica capace di riflettere sulla «condizione di animalità come meta-componente che va oltre l’appartenere a una particolare specie».
Con questo, Marchesini considera anche di riportare il termine cognitivo al suo precipuo significato-valore etimologico di «mappa della conoscenza» che si rende disponibile a più utilizzi. Per farlo si devono assumere almeno due presupposti; il primo è che non può esserci analogia con la macchina agognata da Descartes per definire la condizione animale; il secondo punto è che bisogna trovare un paradigma all’altezza dello scardinamento del dualismo cartesiano. Ciò che preme all’autore non è tuttavia soffermarsi sulla giustapposizione di una res cogitans alla res extensa, bensì soffermarsi su quest’ultima - chiaramente rinominandola.
Pensiamo perché desideriamo e non il contrario, ed è su questa constatazione che Marchesini chiama il primo movimento della cognizione. «Essere animale - prosegue Marchesini - significa desiderare: pensare, sognare, agire, comunicare perché si desidera».
Fronteggiare questi elementi sotto il profilo filosofico significa allora ordinare un’etologia che faccia ritorno a Lorenz, senza per questo cedere a presupposti descrittivi. Nei tre secchi capitoli che compongono il volume, Marchesini va dunque a interrogare numerosi luoghi concettuali anzitutto filosofici. Dal fantasma della macchina alla titolarità dell’esistenza animale non più legata a un principio tradizionalmente trascendente e ordinatore. Si schiude quindi una condizione dell’essere-animale come meta-predicativa e la centralità di riappropriarsi di una sovranità del soggetto, lambirne almeno lo statuto, dichiararsene partecipi.
La postfazione di Felice Cimatti a Etologia filosofica è in forma di elogio. Un elogio, anche qui, dotto di riferimenti che tuttavia distillano i passaggi della filosofia classica intorno all’animalità e all’animismo. Se è quindi plausibile oltre che veritiero rendere conto della soggettività animale come vivente desiderante, Cimatti radicalizza il quesito spostandolo anche alle cose, sostenendo che «la distinzione, a cui siamo così tenacemente attaccati, fra vivente e non vivente, fra chi sente e ciò che non sente, forse non è che l’ultimo baluardo dell’antropocentrismo».
SCHEDA *
La città divisa
Nicole Loraux
Neri Pozza Editore, pagg.448, Euro 40,00
IL LIBRO - Questo libro è il capolavoro di Nicole Loraux, la grande antichista francese da poco scomparsa. Esso tenta di ripensare da capo la polis greca, questo modello prestigioso di tutta la tradizione politica occidentale. La scoperta della Loraux è che a fondare la città greca, a fungere da paradigma alla democrazia, non sono né la libertà, né l’unità, né la comunità, ma qualcosa come un paradossale legame attraverso la divisione. Si tratta, cioè, di ripensare Atene sotto il segno della “stasis”, della guerra intestina, che divide e insanguina non solo la città, ma anche, l’”oikos”, la famiglia -o, piuttosto, circola, in un movimento incessante, dalla famiglia alla città, dai fratelli rivali ai cittadini nemici. La guerra civile non è, però, soltanto rottura e anomia, ma costituisce il legame politico segreto che anima e segna profondamente la vita e le istituzioni della democrazia greca, dal giuramento all’amnistia, dalla vendetta alla riconciliazione. Una città divisa deve essere, infatti, capace non solo di ricordare, ma anche di dimenticare, di ricomporre attraverso l’oblio (l’amnistia) l’unità perduta. E a poco a poco, come in ogni grande libro di storia, l’analisi del passato permette di guardare in una nuova luce le divisioni e i conflitti, la memoria e la smemoratezza della società in cui viviamo.
DAL TESTO - “La città degli antropologi [...] non agisce nel tempo dell’evento, ma in quello ripetitivo delle pratiche sociali - il matrimonio, il sacrificio -, in cui fare è ancora un modo di pensare. Di pensare se stessi assegnando (tentando di assegnare) un posto all’altro, a tutti gli altri e, di conseguenza, al medesimo: ricollegando i margini al centro, a quegli “andres” che sono la città ma hanno bisogno, per esempio, delle donne per costituirla veramente. Così il matrimonio fonda la città assicurandone la riproduzione. Dopodiché, una volta costituitasi la “polis” in società umana, la si può situare in rapporto a un altrove. O meglio: di questo altrove, tempo degli dei, mondo selvaggio delle bestie, la città proclama la distanza per meglio farlo, mettendolo al posto opportuno. La città ha assorbito il suo fuori, e il sacrificio fonda la “polis”: lontani dagli dei, ma dotati della cultura, gli uomini sacrificano loro un animale, e questo gesto distribuisce il sistema di esplosioni e integrazioni intorno al nucleo degli “andres”. Dal taglio sacrificale e della sua interpretazione in atto nascerebbe a ogni cerimonia il politico: ugualitario come la condivisione, isomorfo... Diremo anche neutralizzato? Il politico come circolazione immobile, o la città a riposo”.
L’AUTORE - Nicole Loraux (1943-2003) ha insegnato «Histoire et anthropologie de la cité greque» presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales dal 1981 al 1994. Dei suoi numerosi libri, in italiano sono apparsi: “Come uccidere tragicamente una donna” (Laterza, 1988), “Il femminile e l’uomo greco” (Laterza, 1991), “Le madri in lutto”(Laterza, 1991), “Nati dalla terra. Mito e politica ad Atene” (Meltemi, 1998) e “La voce addolorata. Saggio sulla tragedia greca”(Einaudi, 2001).
INDICE DELL’OPERA - Introduzione, di Gabriella Pedullà - Prefazione - La città divisa: sopralluoghi - I. L’oblio nella città - II. Ripoliticizzare la città - III. L’anima della città - Sotto il segno di Eris e di alcuni suoi figli - IV. Il legame della divisione - V. Giuramento, figlio di Discordia - VI. Dell’amnistia e del suo contrario - VII. Su un giorno vietato del calendario ateniese - Politiche della riconciliazione - VIII. La politica dei fratelli - IX. Una riconciliazione in Sicilia - X. Della giustizia come divisione - XI. E la democrazia ateniese dimenticò il “kratos” - Ringraziamenti - La guerra nella famiglia
* http://www.archiviostorico.info/Rubriche/Librieriviste/recensioni6/Lacittadivisa.htm
In un’epoca di incertezza diffusa in cui Amico e Nemico si scambiano continuamente i ruoli, l’unica strada possibile per sottrarsi alla barbarie è riflettere sulla genesi filosofica della parola “conflitto”. Rileggendo Eraclito
La grande illusione della guerra giusta
Oggi è sparita la dimensione politica degli sforzi bellici: non sappiamo nemmeno per quale pace combattiamo
di Massimo Cacciari (la Repubblica, 11.06.2016)
Quando altro non è possibile affermare se non che la forma della guerra si è andata radicalmente modificando e che nessun Sovrano sembra oggi in grado di porla in una qualche forma giuridico-politica, proprio allora, forse, diventa più necessario ritornare a pensare i termini fondamentali del problema. Nulla appare oggi scontato o di per sé evidente; nessun paradigma regge alla esperienza fattuale. Allora tutto dovrebbe reimpo-starsi, appunto, dalle fondamenta. E qui troviamo una parola originaria della nostra civiltà, sul cui sfondo hanno continuato a proiettarsi i diversi e, almeno all’apparenza, contrastanti modi in cui l’Occidente ha detto e fatto la guerra. Essa ritorna per forza propria; noi non facciamo che trarla fuori dal suo “eterno passato”, a farne cioè, letteralmente, esegesi, ogni volta che facciamo la guerra.
Questa parola dice: «Polemos (il Colli non lo traduce; Diano: il conflitto; Marcovich: guerra) è padre di tutte le cose, di tutte è re, e gli uni édeixe (valore gnomico: ha mostrato e sempre mostra) dèi, e gli altri uomini, gli uni epoíese (come prima per édeixe: ha fatto e fa) schiavi, gli altri liberi» (Eraclito). Polemos non “sostituisce” Zeus, ma stabilisce un Principio a tutti gli essenti comune, un Principio cui tutti per necessità obbediscono, anche se non lo sanno, quel Principio che parla nel Logos stesso di Eraclito. Tale Principio è pater, cioè potens, solo esso ha patria potestas effettiva. La sua potenza, cioè, non si manifesta distruggendo, ma ponendo: essa costituisce gli uni come dèi, gli altri come uomini; essa rende gli uni schiavi, gli altri liberi. Il Principio-Polemos genera distinguendo, ovvero tutti accomuna proprio nel costituirli come differenti. Polemos pone gli opposti e tra gli opposti deve esservi contesa, éris. La guerra individua, fa emergere il carattere-dèmone di un individuo contra l’altro, entrambi nel loro opporsi manifestano questo comune: il porsi, cioè, di ciascuno come se stesso nella sua differenza dall’altro.
Nello spasmo in cui si è trasformato e serrato in sé il nostro spazio-tempo, popoli e culture vanno incrociandosi e affastellandosi gli uni con gli altri, eliminando ogni “amicizia” o “prossimità”. Più ci si meticcia semplicemente e meno ci si ospita. Sono movimenti tellurici, zolle di crosta terrestre alla deriva, che oggi danno di cozzo. La guerra perde ogni forma. Dove si svolge? Al centro o alla periferia del “comando”, alle porte di Roma o a Palmira? In qualsiasi punto in cui esploda, il conflitto può farsi catastroficamente centrale. È guerra diffusa, policentrica; ogni esplosione minaccia di travolgere il tutto. L’ordinato gioco tra parte e intero, che ci era apparso nell’idea di Polemos, è travolto. Non solo il concetto di guerra giusta crolla definitivamente, ma la stessa definizione di Nemico si fa ardua. Essa diviene preda dell’occasionalità più nuda.
Amico e Nemico si scambiano i ruoli con “insostenibile leggerezza”, rendendo esercizio di scuola il paradigma schmittiano. L’assenza di limiti della guerra contemporanea si era già imposta con il tramonto dello ius belli; le grandi guerre civili mondiali dell’altro secolo avevano già fatto crollare ogni differenza tra combattenti e non combattenti, avevano già fatto uso di ogni strumento ideologico per demonizzare il nemico e ricorso a ogni mezzo terroristico. (Nulla rende più evidente la confusione che regna oggi in questo campo dello scriteriato uso del termine “terrorismo”, applicato indistintamente a ogni azione che sfugga a una logica classica di affrontamento tra eserciti. Terrorismo significa terrorizzare le popolazioni “innocenti”; i combattenti non sono terrorizzabili per definizione).
Oggi questa assenza di limiti assume una forma diversa, totale: da un lato, tende a sparire il “campo di battaglia”; dall’altro, Amico e Nemico si fanno interscambiabili. Ma soprattutto assenza di limiti viene a significare l’assoluta impotenza a definire la guerra in termini morfogenetici. Per la sua capacità di produrre nuove forme politiche, nella sua dimensione costituente, si era sempre potuto parlare di arte della guerra e di una virtus bellica. Questi timbri erano anche avvertibili nell’arcaico termine Polemos. Oggi è la stessa politicità della guerra (la comune radice di pólemos e pólis) che non riesce più a esprimersi. Quale ordine si intende difendere dal presunto attacco? E quale costituire dopo l’auspicata disfatta dell’aggressore? Insomma: per quale pace si fa la guerra? Se non si sa chi sia il Nemico e dove stia, e tantomeno si conosce chi sia l’alleato, la guerra finirà con l’essere condotta con i mezzi più disparati, e con efficacia scarsa o nulla.
Così Polemos, non più pater, finisce con l’apparire sempre ingiusto. Non sapendo dare più al termine “guerra” un significato, si tenta di rimuoverne l’esistenza stessa derubricandola alla famiglia del “sorvegliare-e-punire”, ad azione di intelligence e di polizia. E si sogna che tra politica e guerra si possa scavare l’abisso. Compaiono spezzoni delle antiche “grandi forme”, dei tradizionali “eroici” tentativi di mettere in forma il Gioco crudele - come relitti sulle nostre spiagge abbandonati dalla colossale risacca dell’ultimo secolo.
Con fiducia particolare ci si abbarbica all’idea di “giusta guerra difensiva”. Ma che significa? Difesa del territorio? E quali ne sono i confini reali? Difesa dell’onore? E come impedire, allora, che essa possa farsi anche preventiva, se entra in gioco l’onore di uno Stato? Defensio innocentium? Ma quale Stato non ha da più di due secoli reso “colpevoli” i suoi cittadini? Quale “scala di valore” può affermare se stessa assoluta? Dove siede il Tribunale dell’Umanità? Spezzoni, frammenti, balbettii che si inseguono nel nostro mondo successivo al crollo della forma politico-militare imposta dai grandi Titani usciti vincitori dalla seconda Grande guerra.
Ripetere frammenti e balbettii non renderà più chiara la visione. Tantomeno se si crederà di uscire da questa fase epimeteica inseguendo di nuovo il sogno del supremo Tribunale, capace di ridurre ogni conflitto a formalismo giuridico e a perseguire come un crimine la guerra. Questo sogno non fa che esprimere l’indisponibilità europea, e ormai sempre più di tutto l’Occidente, ad affrontare la “prova del fuoco”. In Polemos il dissidio, in tutte le sue forme, era concepito e affrontato come segno di Dike, della Necessità, e perciò i distinti nel loro opporsi erano anche sempre visti nel Comune, cui appartengono e il cui Logos è pre-potente rispetto a ogni loro manifestazione di potenza. Questa prospettiva appartiene al nostro linguaggio più originario e non può perciò essere definita utopistica. Forse essa ci indica ancora una non vana, non cieca speranza per conferire un senso costituente, morfogenetico all’attuale tumulto, anche se ignoriamo per quali vie e attraverso quali tragedie essa potrà mai realizzarsi.
Siamo davvero in grado di autodeterminarci?
Secondo il Grande Inquisitore di Dostoevskij cerchiamo un potere a cui consegnarci
Un uomo solo è schiavo due amici sono liberi
di Vito Mancuso (la Repubblica, 21.05.2016)
Siamo davvero in grado di autodeterminarci? Oppure come sembrano suggerire i dati dello neuroscienze si tratta di un’illusione? Tra letteratura, filosofia e religione, l’idea controversa della salvezza umana
Possiamo iniziare a chiederci quanto nella storia si sia effettivamente data la presenza allo stato puro del binomio dittatura- schiavitù e del suo opposto democrazia-libertà: forse né gli schiavi dell’antica Grecia e dell’antica Roma erano così privi di libertà come in prima battuta si ritiene (per rendersene conto basta pensare alla figura del servus callidus nelle commedie di Menandro e di Plauto), e forse noi cittadini delle democrazie contemporanee non siamo esenti da forme di servitù a volte così pesanti da trasformarsi in autentiche schiavitù.
La questione del grado di libertà della nostra esistenza diviene poi ancora più complessa se si prendono in esame i diversi livelli di cui si compone la vita, e oltre al livello economico- sociale e a quello politico si considera quell’intricato labirinto che chiamiamo coscienza individuale. Ognuno di noi rispetto a se stesso (rispetto al codice genetico, alle determinazioni familiari e ambientali, alle esigenze corporee, al carattere, alla psiche, all’inconscio...) è libero o schiavo? Siamo veramente dotati di libero arbitrio oppure si tratta di un’illusione, come sembrano suggerire i dati delle neuroscienze e della microbiologia? Aveva ragione Erasmo da Rotterdam che contro Lutero scrisse nel 1524 il De libero arbitrio, oppure aveva ragione Lutero che a Erasmo replicò nel 1525 con il De servo arbitrio?
Né si può evitare un’altra domanda: gli esseri umani vogliono davvero esseri liberi? Oppure in realtà non cercano altro che una grande potenza a cui consegnare tutti insieme questa scomoda e inquietante condizione detta libertà? È quanto Dostoevskij sostiene nella celebre Leggenda del Grande Inquisitore: il cardinale capo dell’Inquisizione riconosce Cristo tornato sulla terra, lo imprigiona e nella notte gli tiene una vera e propria lezione di psicologia e di filosofia del potere in cui sostiene che gli esseri umani sono mossi da un angoscioso interrogativo: «Dinnanzi a chi inchinarci? ». Essi infatti non cercano la libertà, perché «nulla mai è stato per l’uomo e per la società più intollerabile della libertà». Secondo questa prospettiva la schiavitù non è una prigione in cui gli uomini, originariamente liberi, sono stati condotti, ma è un’oscura quanto originaria condizione dell’esistenza fisica e psichica.
La questione a questo punto diviene di natura squisitamente filosofico-teologica: lo scopo della vita è di essere liberi in quanto autonomi e indipendenti, oppure è di legarsi a qualcosa di più grande di noi che ci libererà veramente da noi stessi e dalle nostre angosce? E in questo secondo caso, come far sì che tale legame, di natura inevitabilmente asimmetrica, non si trasformi in schiavitù ma generi liberazione e vera libertà?
Questo è lo sfondo teoretico su cui porre la questione del rapporto religione-schiavitù, a proposito del quale la situazione è alquanto contraddittoria. Che la religione abbia incrementato la schiavitù non vi sono dubbi, la cosa appare evidente già nella Bibbia a partire da una delle sue pagine più note, il cosiddetto sacrificio di Abramo. Perché Dio chiede ad Abramo di uccidere il piccolo Isacco, generando nell’intimo del bambino un tale terrore da cui mai più sarebbe guarito (non a caso due volte nella Genesi Dio è designato “Terrore di Isacco”)? La risposta è una sola: per ottenere la più assoluta sottomissione. Non c’è nulla infatti per un uomo di più prezioso di un figlio, e Dio proprio quello richiede ad Abramo.
Come denominare il comportamento di Abramo? Fede? Se lo è, lo è nella forma della più totale schiavitù. Questa fede, se può portare a uccidere il proprio figlio, chissà quale violenza può generare verso i presunti nemici della propria religione. Se la religione ha versato, e continua a versare, tanto sangue, è a causa di questo modello di fede, un’obbedienza così totale e sottomessa da essere in realtà schiavitù.
È a questa prospettiva che a mio avviso sono riconducibili i fenomeni degenerativi e violenti che hanno a lungo accompagnato il cammino delle religioni, per la Chiesa cattolica si pensi all’Inquisizione, all’Index librorum prohibitorum e alla sistematica opposizione contro l’affermarsi dei diritti umani, tra cui libertà di coscienza e di stampa, suffragio universale, emancipazione femminile, laicità dello Stato.
Non deve quindi sorprendere che la Chiesa cattolica giunse persino a pronunciarsi contro l’abolizione della schiavitù. La cosa avvenne nel 1866, quando in risposta ad alcune questioni del vicario apostolico in Etiopia, Pio IX firmò un documento, tecnicamente denominato Instructio, in cui si legge: «La schiavitù in quanto tale, considerata nella sua natura fondamentale, non è del tutto contraria alla legge naturale e divina. Non è contrario alla legge naturale e divina che uno schiavo possa essere venduto, acquistato, scambiato o regalato».
L’anno prima gli Stati Uniti d’America avevano abolito la schiavitù. È altrettanto vero però che la religione ha anche contribuito a combattere, teoreticamente e praticamente, la schiavitù. Per il primo aspetto si pensi a san Paolo che scrive: «Non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né maschio né femmina» (Galati 3,28); per la dimensione pratica si pensi al chiaro appello alla ribellione contro la dominazione romana presente nell’ultimo libro del Nuovo Testamento: «Ripagatela con la sua stessa moneta, retribuitela con il doppio dei suoi misfatti. Versatele doppia misura nella coppa in cui beveva » (Apocalisse 18,6).
Oltre a inquisitori e amici dei dittatori, il cristianesimo ha generato gente come Gioacchino da Fiore e Francesco d’Assisi, i movimenti pauperistici e radicali che hanno sempre portato avanti l’idea dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani, e nell’epoca moderna Tolstoj, Bonhoeffer, Capitini, don Milani, Romero, Camara, Balducci, Turoldo, Arturo Paoli e gli esponenti della teologia della liberazione (riabilitata da papa Francesco dopo le persecuzioni di Giovanni Paolo II e dell’allora cardinal Ratzinger).
A questo punto però occorre ricollegarsi alle considerazioni iniziali sulla forma più insidiosa di schiavitù, quella interiore, e comprendere che è a questo livello che la vera religione dà il meglio di sé contribuendo alla liberazione dall’ego. L’atto fondamentale dell’autentica religio è la conversione dell’io, che si libera dalla schiavitù verso di sé svuotandosi della volontà di potenza ed entrando nella logica della relazione armoniosa. Qui c’è superamento dell’ego ma non schiavitù, la quale non c’è perché non c’è più signoria ma una forma nuova di relazione, che, con le parole del Vangelo («vi ho chiamato amici» - Giovanni 15,15), si può chiamare amicizia.
* IL FESTIVAL Vito Mancuso partecipa a èStoria “Schiavi”, il festival internazionale della storia, ideato e diretto da Adriano Ossola, a Gorizia fino a domani. Info: www. estoria. it
Il fondamentalismo religioso vuol cancellare il protagonismo della libertà femminile
di Lea Melandri (il manifesto, 21.05.2016)
Non si può negare il fatto che la religione sia un prezioso archivio della memoria degli individui e della specie, di vicende che stanno ai confini tra inconscio e coscienza. C’è la stupidità del fanatismo, ma ci sono anche sublimi simbolizzazioni, interrogativi che vanno alla radice dell’umano. È su questa stratificazione di simboli che va portato lo sguardo, riconoscendoli come proiezioni del modo in cui viviamo.
Il pensiero laico e il pensiero religioso sono in realtà imparentati, anzi «consanguinei», come dice Stefano Levi nel suo Laicità, grazie a Dio (Einaudi) che alcuni anni fa presentammo al Festival delle Letterature di Mantova: se la religione è quella che cerca le «cause occulte» delle cose, lo stesso fanno la filosofia e la metafisica. E la religione sembra avere la precedenza.
Ora, riflettere sul pensiero, sulle forme che ha preso nelle sue costruzioni, laiche o religiose che siano, vuol dire chiedersi innanzi tutto chi è il soggetto del pensiero e come si è configurata, nella storia che abbiamo conosciuto - opera di una comunità di soli uomini - la sua nascita. La consanguineità fra la religione e le altre costruzioni simboliche sta prima di tutto nel fatto di discendere dalla stessa matrice: quel «principio maschile» che - come scrive Bachofen ne Il matriarcato - «nell’ambito dell’esistenza fisica è al secondo posto, subordinato al principio femminile».
Da ciò si deduce che la «consanguineità» tra pensiero laico e religioso è molto più di una «contaminazione»; discende dal fatto che traggono la loro origine da quel soggetto unico maschile, da quella visione unica del mondo che ha violentemente e astrattamente differenziato - complementarizzato e posto secondo un ordine gerarchico- materia e spirito, natura e cultura, individuo e genere, corpo e pensiero, identificando e confondendo l’uscita dall’animalità e la nascita del linguaggio con il destino del maschio e della femmina.
La «consanguineità» sta dunque in quello che Otto Weininger - singolare figura di intreccio tra filosofia e religione, posta all’inizio del Novecento ed espressione della crisi della ragione occidentale, nel momento in cui avanza l’emancipazione femminile - chiama l’enigma del dualismo, collegandolo col peccato originale. Il corpo, la sessualità, comparendo sulla scena pubblica - sono gli anni della scoperta della psicoanalisi -, rappresentano una minaccia per quello che era stato il fondamento etico, filosofico/religioso della cultura occidentale, greca-romana-cristiana. In questo discorso appare chiaro come la trascendenza, su cui la religione costruisce il mistero di Dio, l’Essere perfetto, il Valore assoluto, è imparentata con la trascendenza che si è attribuita l’Io maschile. Alla donna, che rappresenta la sessualità, la materia, il non essere, e che perciò incarna per l’uomo la caduta, la colpa, si impongono regole morali superiori a quelle dell’uomo: la purezza, la verginità. Per essere «redentrice» dell’uomo deve «essere uccisa e riportata in vita». L’Io maschile e Dio si pongono così su una linea di continuità: L’Io (Dio) come tempo è volontà. La volontà diventa valore (l’uomo diventa Dio) quando esce dal tempo. Per concludere allora, l’essenza dell’idea di Dio e la sua importanza per l’umanità, è che «Dio è l’uomo perfetto», e l’uomo perfetto, come Gesù Cristo, è Dio.
Le figure e i gesti che la mente religiosa proietta sull’oscurità del mistero parlano dunque dell’origine della civiltà maschile, del modo con cui ha inteso differenziarsi dalla natura, dal corpo femminile che genera e che porta perciò i segni dei limiti mortali dell’umano. Parlano della ri-nascita o ri-generazione del mondo spostata sul versante di un principio maschile spirituale: una genealogia di padre in figlio dove la donna è mediazione simbolica, contenitore.
Forse è proprio in queste rappresentazioni così vicine all’origine e a quelle domande insopprimibili dell’umano, che hanno a che fare con la nascita, la morte, il diverso destino toccato all’uomo e alla donna, che la religione esercita un fascino così duraturo. Nella rappresentazione del sacro, si può dire che il soggetto maschile della storia ha tentato di dare un senso, volgendolo a proprio favore, al mistero della nascita e della morte, all’uscita della coscienza dall’animalità, all’angoscia dell’originaria in distinzione col corpo della madre, al bisogno di differenziarsi e di controllarne la potenza.
La rivalsa delle religioni oggi può essere legata alla crisi delle istituzioni politiche, ma anche al protagonismo che hanno preso il corpo, la sessualità e la libertà femminile.
Si può pensare che la durata e il fascino della religione venga dal fatto che l’aspetto sessuato e sessuale lì è esplicito - non rimosso -, teatralizzato e spettacolarizzato.
Vi si possono leggere confusi amore e violenza, il sogno di armonia degli opposti e il sessismo, il razzismo. Ecco perché non stupisce leggere il recente interesse giornalistico sul rapporto fra donne e religioni, soprattutto monoteistiche, nel volume appena pubblicato da Giuliana Sgrena, con il titolo provocatorio Dio odia le donne (Il Saggiatore).
La religione parla di madri, figli, padri, nascite, morti e resurrezioni, dannazione e riscatto della carne, dell’umano, del femminile. La religione sublima in modo evidente il rapporto tra i sessi, le figure di genere nella loro ambiguità: figure che strutturano rapporti di potere ma anche d’amore, che tengono dentro la complementarietà e la spinta alla riunificazione. Affrontando le problematiche del corpo, dei sessi, il femminismo ha portato la laicità al suo fondamento primo. Ma non ha affrontato la religione direttamente, nelle sue costruzioni simboliche, così come non ha affrontato il sogno d’amore, la fusionalità, l’unione mistica. Forse è proprio da ricercare in questa ambiguità la ragione prima del consenso di cui la religione gode anche presso le donne.
La trappola della verginità
Tempi presenti. «Dio odia le donne», il nuovo libro di Giuliana Sgrena, uscito per Il Saggiatore. Una ricognizione, anche in chiave autobiografica, sulle ambiguità e le efferatezze delle religioni perpetrate ai danni del corpo (e della mente) femminile
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 21.05.2016)
Si intitola Dio odia le donne (pp. 2014, euro 18) ed è il nuovo libro di Giuliana Sgrena pubblicato di recente da Il Saggiatore. Fin dall’introduzione si apprende che non si tratta di un pamphlet, né è un lavoro che desideri offrire una nuova esegesi delle fonti o una disquisizione teologica. La disposizione attraverso cui leggere questo volumetto, agile e al contempo solido, equipaggiato di dati ma godibile nella scrittura tagliente e svelta, si adegua allora a ciò che la stessa Sgrena dichiara di aver effettuato: una narrazione di carattere esperienziale, frutto di una ricerca personale che l’ha portata ad analizzare l’immaginario e le ricadute sociali che emergono nel confronto tra le tre religioni monoteiste e il sesso femminile.
La ricognizione è ampia e si innerva nella stessa biografia dell’autrice. A essere messe a nudo non sono solo le contraddizioni interne alle singole religioni che, secondo Sgrena, hanno sostenuto il patriarcato; ciò che appare è la manipolazione costante della laicità e dei suoi simboli da parte di chi perpetra e piega a proprio uso e consumo testi, scritture e fonti spesso lette malamente con l’unico scopo di controllare e mondare la sessualità e i corpi. In questo senso, il libro colpisce fin dall’immagine del fotografo russo Oleg Dou scelta per la copertina. Un primo piano di una figura non ben identificabile e liscia nei lineamenti che allude al nome dell’opera, «nun» ovvero suora, intercettabile solo dal copricapo.
La figura ambivalente della suora apre e chiude il volume, dapprima legata all’infanzia di Sgrena che si è misurata con delle scuole cattoliche e che, in considerazione del padre comunista, veniva costantemente avvisata delle preghiere per lei. Così alla fine, quando racconta che una suora incontrata per caso le rammenta che in molte e molti hanno pregato durante la sua prigionia. Ma lei no, certo grata per la solidarietà, tuttavia non ha mai pregato neppure in quelle ore di dolore: «anche quando sentivo la morte vicina, ogni volta che i miei guardiani giravano la chiave nella toppa della porta e pensavo potesse essere arrivata la mia fine, quando avevo paura all’idea che mi potessero sgozzare». Il punto è è complesso, perché a restituire un approccio «neutrale» e da atea sulle religioni è una donna che ha contezza del suo sesso. E che osserva i meccanismi e gli attraversamenti storico-politici di oppressione senza per questo tacere i guadagni delle forme di autodeterminazione e libertà femminili, con quel rovesciamento dello sguardo quando negli anni ’70 racconta dei primi gruppi di self-help dopo la dirompenza del ’68.
Il libro si dipana per temi, ciascuno dei quali è sgranato al dritto e al rovescio. Ciò che rappresenta oggi la verginità non è più quella restituitaci da Margaret Mead; risente invece, secondo i vari e distinti contesti, di ulteriori e ben più terrestri storture nella sua appropriazione. Lo racconta la giornalista che ha intervistato alcune giovani musulmane e che hanno accusato il disagio di non poter vivere con agio la propria sessualità. Esistono in questa configurazione, ad altre latitudini, vere e proprie «fabbriche della verginità», che propongono per esempio l’imenoplastica; a Parigi nella clinica di Marc Abecassis, per 2000 dollari, o dalla società Gigimo, con sede a Shangai, che confeziona per 15 dollari un imene artificiale con accluse gocce rosse, simili al sangue.
Al di là di queste annotazioni, il tema della verginità richiama quello più vasto del controllo proprietario della sessualità femminile; i dati sconcertanti sono pubblicati nel 2013 dall’università di Cambridge dalla rivista di criminologia Aggressive Behaviour, secondo uno studio condotto in Giordania in cui un terzo degli studenti ascoltati si sono dichiarati d’accordo con il delitto d’onore. Retaggi culturali duri a morire, come quello legato alla piaga ancora devastante delle mutilazioni genitali. Sgrena riferisce i dati di ciò che accade ancora in Somalia, nonostante la strenua battaglia intrapresa da Edna Adan Ismail che da parecchi anni riesce a sottrarre molte bambine a questo efferato rito di iniziazione, insieme ad altre attiviste in tutto il mondo; basti pensare alle testimonianze della scrittrice egiziana Nawal El Saadawi.
L’appropriazione della sessualità si attaglia, drammaticamente, a quella dell’aborto, con la presenza degli obiettori di coscienza che hanno contribuito allo svuotamento qui in Italia della 194. Se allora è in nome della fede che si sdoganano pratiche simili, sarà il caso di soffermarsi ancora e di discutere nel profondo altri nodi, ancora irrisolti. Perché all’odio, tutto umano, si possa rispondere con l’agire politico.
Storie congetturali che raccontano l’inaudito
SAGGI. «Il contratto sessuale» di Carole Pateman pubblicato per Moretti&Vitali. I fondamenti nascosti della società moderna in un libro che dopo quasi trent’anni fa ancora discutere
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 14.05.2016)
Dare conto di ciò che Carole Pateman ha prodotto in relazione al pensiero politico moderno è decisivo. Al centro di numerose discussioni pubbliche, sia accademiche come docente al dipartimento di Scienze Politiche dell’università della California, sia politiche per le sue caustiche critiche alla democrazia liberale, tra i molti volumi e interventi che ha scritto nel corso della sua lunga vita soltanto uno è stato tradotto in italiano. Unico però, in tanti sensi - di cui il primo è l’aver costituito un punto di non ritorno. Si tratta di The sexual contract, pubblicato nel 1988 (Stanford U.P.) e tradotto per la prima volta in Italia nove anni dopo (Editori riuniti). Ormai nel dimenticatoio dei tanti «fuori commercio», è allora più che lodevole la sua recente ristampa.
Il contratto sessuale (Moretti&Vitali, pp. 339, euro 21, traduzione di Cinzia Biasini, collana «Pensiero e pratiche di trasformazione») è pietra miliare della teoria politica contemporanea, così scrive Olivia Guaraldo nell’ottima introduzione di questa nuova edizione, inquadrando il lavoro che Carole Pateman ha condotto non solo sotto il rilievo del dibattito femminista, ma anche nel senso di inaggirabilità che ha assunto nella scolarship internazionale da parte di chi si occupa di contrattualismo. A osservare la diversità di ricezione in Italia e all’estero, non potrà sfuggire che in altri paesi del mondo le ristampe sono proseguite costanti in questi decenni.
L’inganno iniziale
La discontinua ricezione de Il contratto sessuale ne perimetra tuttavia la circolazione, tracciando il terreno in cui hanno attecchito le tesi di Pateman, ovvero quasi esclusivamente nell’ambito della riflessione del pensiero della differenza sessuale (di cui l’esito più recente in merito è Sovrane, di Annarosa Buttarelli per Il Saggiatore). Avere l’occasione di rileggere un testo simile significa oggi ribadire con forza intanto la tesi iniziale, e cioè che esiste un momento precedente al contratto sociale - così chiaro nello stesso titolo - che non è stato compreso dai teorici sei-settecenteschi (Hobbes, Locke, Rousseau e poi lo stesso Kant) quando si sono prodigati dapprima a stabilire l’esistenza di quel patto secondo loro originario - e poi a descrivere con minuziosa tenacia le forme della vita associata. Tornare a Pateman non è solo consigliabile a chi desidera rispolverarne il tenore teorico-pratico.
Assistere allo svelamento dell’inganno iniziale vuol dire stanare il rimosso, misurarsi con una radicalità che può costruire un ragguardevole equipaggiamento per leggere il presente. La storia «congetturale» a cui si affida Pateman serve certo all’avanzamento rivoluzionario della sua tesi; al contempo e per converso, dispone anche la cifra di ciò che è stato «il racconto più autorevole dell’età moderna».
Molti sono allora gli elementi da rimarcare della conquistata libertà civile. Intanto non è universale, visto che il contratto originario istituisce sia la libertà che il dominio, bensì ha un attributo maschile e dipende dal diritto patriarcale.
E se massiccia è stata la decostruzione operata da Pateman intorno alla radice democratica moderna, individualista e proprietaria, la narrazione ha a che fare con la genesi del diritto politico inteso come «diritto patriarcale o diritto sessuale, ossia in quanto potere che gli uomini esercitano sulle donne»; da qui viene proposta la tesi secondo cui il contratto sessuale si mantenga su un patto tra fratelli, un «fratriarcato». Seguendo la lezione di Adrienne Rich, anche Pateman si posiziona nella certezza che esista una «legge del diritto sessuale maschile». Tale diritto è, sostanzialmente, quello coniugale.
Assunzioni materiali
Eppure, se nella separazione tra contratto sociale e contratto sessuale si viene a delineare una precisa rappresentazione (il primo è tangente alla sfera pubblica e il secondo alla sfera privata), ignorando la metà della storia si cade facilmente in equivoco. Alla fine degli anni ‘80, cioè quando Pateman scrive, ha in mente di fare luce sulle strutture istituzionali di Gran Bretagna, Australia e Stati Uniti per chiarire come, attraverso l’interezza della storia del contratto originario, si verifichino comunanze patriarcali insospettabili.
In questa direzione, l’autrice analizza diversi tipi di contratto, da quello di matrimonio, disossato in verità da numerosi contributi soprattutto da parte di teoriche femministe, a quello di lavoro, come anche quello che viene a definirsi tra prostituta e cliente. Tutte assunzioni che andrebbero discusse, e che infatti lo sono state possibilmente piegandole ai vari contesti, transitori e pur sempre materiali. Se i contratti presi in esame sono connotabili da iter che ne prevedono regolamentazioni o proibizioni da parte della legge, è chiaro come si tratti di particolari forme ascrivibili alla proprietà che si ritiene ciascuno e ciascuna abbiano sulle proprie persone. Ciò nonostante, «il contratto sessuale è il mezzo attraverso il quale gli uomini trasformano il proprio diritto naturale sulle donne nella sicurezza civile patriarcale».
Contingenze complesse
A restituire gradi di attualità che il testo non solo conserva ma intuisce con puntuale efficacia, il riferimento è a una clausola su cui Pateman si sofferma alla fine del settimo capitolo e che è da tenere presente nel contratto sessuale: la maternità surrogata, definita «una nuova forma di accesso e di uso del corpo femminile da parte degli uomini».
Questo per dire come il dibattito intorno alla «surrogazione», fosse il caso di tenerlo a mente quando imperversa spesso non privo di strumentalità e costruzione di blocchi identitari, aveva assunto già alla fine degli anni ‘80 una declinazione cruciale. Il caso sollevato da Pateman accenna alla celebre sentenza disposta dalla corte del New Jersey (1986 ma in due fasi e l’una contraddittoria rispetto l’altra) passata poi alla storia come «il caso Baby M.» in cui la «madre surrogante» cambiò idea e decise di non separarsi più dalla bambina. Se il carattere vincolante dello statuto giuridico di questi contratti poneva infatti delle questioni complesse in uno scenario come quello in cui già diverse erano le agenzie aperte per la surrogazione, venivano già dettagliati numeri rispondenti a profitti precisi, differenziando circa il legame tra accordi commerciali o non commerciali con la relativa soglia di legalità e liceità o meno secondo i paesi.
Ciò che viene messa a tema è però la domanda iniziale, quella secondo cui a essere in gioco sia una semplice prestazione. Da un punto di vista contrattuale infatti è puramente accidentale che la prestazione attenga o meno a questo o a quell’oggetto, così come trascurabile è il fatto che ciò che viene prodotto sia un bambino, una bambina. Su questo punto, come per altri su cui Pateman si sofferma, Il contratto sessuale è un volume ancora incandescente che vale la pena di essere rimeditato.
Blog, Maschile/Femminile, DONNE E UOMINI, POLITICA 29 settembre 2013
Sovrane e libere dal potere
di Marina Terragni *
Ogni anno a Kathmandu, Nepal, nel corso di una solenne cerimonia, la dea-bambina Kumari è chiamata a rilegittimare con la sua superiore autorità il potere del Presidente della Repubblica laica.
Non è raro che sia una fanciulla a incarnare l’idea di una sovranità più alta di ogni potere. Una vergine, ovvero non ancora compromessa con l’ordine simbolico maschile, capace di un’autorità che non è dominio e di una potenza che non è violenza. Come la «nostra» Maria, come Agata e le altre sante celebrate con processioni e «cannalore».
Nel suo ardente Sovrane la filosofa Annarosa Buttarelli ragiona su quest’altra idea di sovranità, ben più antica della potestas che ha orientato l’assolutismo monarchico e la democrazia rappresentativa. Idea che i riti, prevalentemente maschili, custodiscono e a un tempo esorcizzano: finita la festa, gabbate le sante, che sono rimesse a tacere.
Si tratta, invece, di onorare il debito con le «sovrane» lasciandole parlare, e fare. Di intraprendere un nuovo inizio della convivenza umana che tenga conto della differenza femminile.
Si tratta di «ripartire dalle origini dei processi e, se queste origini si rivelassero infauste, trovare la forza e l’intelligenza necessaria per crearne altri differenti». Cominciando con il «togliere definitivamente dalla rimozione ciò che è accaduto del 403 a. C. ad Atene», anno e luogo di nascita della democrazia: ciò che lì fu rimosso è il «due» che siamo, uomini e donne ritenute «parenti acquisite» e rinchiuse nel privato. Non aver tenuto conto dei corpi e dei pensieri delle donne, e della fonte della loro autorità, è ragione di ogni altra ingiustizia, che non può essere sanata se non confidando in una «conversione trasformatrice».
Nel saggio, scritto con arendtiano "amor mundi" e l’intento di orientare l’azione politica qui e ora, molti esempi di sapienza al governo: Cristina di Svezia, Elisabetta I d’Inghilterra, Ildegarda di Bingen. Inaspettatamente, anche la derelitta Antigone: sovrana, lei? E di che cosa? In lei il principio di sovranità si mostra purissimo nell’amore radicale per una verità che esiste «da sempre: la vita con le sue leggi e la sua trascendenza, le relazioni di cui abbiamo bisogno per vivere e la condizione umana calata in un cosmo che impone spesso un suo ordine». Antigone non contro la legge, ma sopra - sovrana -, nell’ordine di ciò che è «eterno, universale e incondizionato» (Simone Weil), immersa nel mistero della «struttura che connette», come la chiamerà Gregory Bateson, e da cui la politica di oggi sembra prescindere.
La logica inclusiva della parità e delle quote, scrive Buttarelli, è poca cosa: la posta in gioco «non sono i posti di potere», ma «la decisa dislocazione della sovranità dal potere». In particolare, le donne si mostrano estranee al concetto di rappresentanza, per affidarsi alla pratica delle relazioni reali. Portare la sapienza al governo significa portarvi questa competenza relazionale e attenersi in ogni atto al primato della vita.
Due esempi di questo governare che non è rappresentare: la vicenda delle operaie tessili di Manerbio, Brescia, che tra gli anni Ottanta e Novanta affrontarono la crisi della fabbrica rifiutando la rappresentanza sindacale e portando l’amore - tra loro stesse, per i loro prodotti, per chi li comprava - al tavolo di trattativa. E quella di Graziella Borsatti, sindaca a Ostiglia, Mantova, tra il 1991 e il 2004, che saltando l’astrazione della rappresentanza e mettendo in campo relazioni concrete, fece della sua giunta e di tutta la città una «comunità governante», orientata dal proposito di «disfare il potere e agire il benessere»: primum vivere.
Presentando Sovrane al Festivaletteratura di Mantova, Stefano Rodotà ha parlato di «fondazione di un pensiero» e ha ammesso di avere «imparato molto». Gli rispondono idealmente, invitando a una nuova politica da subito, le parole con cui Buttarelli chiude il saggio: «Se il meglio è accaduto a Brescia e a Ostiglia può accadere ancora, oggi e ogni volta che sarà necessario».
(pubblicato oggi su La Lettura-Corriere della Sera)
LO PSICOANALISTA E LA CITTA’ Riflessioni sulla vita contemporanea
SOVRANE E PUTTANE
di MASSIMO RECALCATI (Psychiatry-on-line)
Due libri recenti e molto diversi tra loro offrono ritratti opposti della femminilità: nel primo, titolato Sovrane, edito da Il Saggiatore, Annarosa Buttarelli - filosofa e femminista - s’impegna a ricuperare le tracce di una pratica femminile del governo, mentre nel secondo, quello di Lucrezia Lerro, già nota per romanzi di un certo successo come Certi giorni sono felice o Il rimedio perfetto - titolato La confraternita delle puttane, edito da Mondadori, emerge un universo di disperazione e di morte dove il destino delle donne appare segnato da una solitudine senza speranza.
Si tratta di due testi che sembrano meditare attorno a quel rifiuto della femminilità messo a tema da Freud. Un destino di rimozione colpisce il femminile non solo nella società patriarcale, ma nelle vicissitudini più profonde della vita psichica, sottraendogli ogni diritto di cittadinanza. È precisamente contro questa rimozione che Annarosa Buttarelli lotta a viso aperto. Ecco la posta in gioco del suo lavoro: è possibile dare voce a una filosofia e a una pratica femminile della democrazia che si emancipi dalla «storia monosessuata maschile delle istituzioni politiche d’Occidente?». Domanda che - secondo l’autrice - si rende necessaria constatando come «tutte le cose “maschie” sono oggi in agonia o già morte - Stato, famiglia dell’uomo che porta a casa il pane, matrimonio esclusivo tra uomo e donna, democrazia rappresentativa, polis, solidarietà di classe, salari, divisione privato-pubblico». Esiste una narrazione solo maschile della sovranità che s’incarna nell’autorità del pater familias come nella democrazia rappresentativa e che esalta l’universale della Legge contro il particolare della vita.
Diversamente, la sovranità femminile si esercita «non contro ma sopra la Legge» prendendosi cura della vita nella sua particolarità.
È il concetto stesso di rappresentanza che viene qui messo in discussione. Non si tratta di riabilitarne la funzione, ma di cogliere nella sua crisi attuale l’apertura ad un’altra pratica di governo. Nelle donne - continua il ragionamento della Buttarelli - esiste una sensibilità affettiva che intende il governare non come rappresentanza di un’altra volontà - della Nazione, dello Stato, del popolo - ma come esercizio di una cura fondata sul «primato assoluto della relazione». Dall’Antigone di Zambrano, alla regina Elisabetta, da Hannah Arendt a Carla Lonzi, dalla dea bambina Kumari alla scrittrice Anna Maria Ortese, da Chiara di Assisi alla sindaca di Orsiglia Graziella Borsatti, l’autrice convoca i testimoni di questa «democrazia senza rappresentanza» capace di dare luogo a un economia non vincolata all’assillo dell’utilee del profittoea una vita politica non preoccupata di unificare le differenze quanto piuttosto di esaltarle. Ne scaturisce un libro che può essere un contributo importante nell’attuale dibattito politico impegnato a ripensare le ragioni della nostra vita insieme.
Il testo di Lucrezia Lerro ci offre invece un’altra visione del femminile che completa, come in un contrappunto tragico, il libro della Buttarelli: dalle sovrane alle puttane. Si tratta di un romanzo scritto con il consueto stile asciutto e ricco di una poesia che scaturisce dall’attenzione al dettaglio delle cose e al peso delle parole. Ambientato in un claustrofobico paesino del profondo Sud nel corso degli anni Ottanta, dove domina il fantasma maschilista che vuole le donne «tutte puttane», ritrae le ambizioni di giovani donne dalle condizioni sociali umili, esposte ai miti consumistici di quegli anni, prive di prospettive se non quelle di farsi sposare da qualche soldato della vicina postazione militare della Nato o dai giovani più benestanti del paese.
Tuttavia questa rincorsa alla propria sistemazione che sfiora il cinismo più disperato e l’abbrutimento di sé, cela il vero tema del libro che è quello del fallimento dell’eredità. È il destino afflitto e sconfitto delle madri e dei padri a non trasmettere nulla alle loro figlie. Le sovrane lasciano qui il posto al loro rovescio: all’apatia e alla distruzione di sé. Schiacciate dall’arroganza e dall’ignoranza machista queste madri sembrano plasmarsi sul fantasma che le umilia. Lerro entra con grande sensibilità nelle pieghe del rapporto devastante tra madre e figlia. È la rassegnazione delle madri a non permettere la trasmissione del sentimento della vita e del desiderio. Tutto appare come un grande e spettrale aborto: la vita appassita trasmette morte senza vita. Com’è possibile per una figlia non replicare l’infelicità materna? Non lasciarsi contagiare dall’apatia e dalla tendenza alla flagellazione? Non credere che la sola cosa che conti in una donna sia «farsi sposare»? Nella dedica, come un gesto liberatorio, si legge: «A mia madre che non mi ha impedito di partire». Essa ci rivela il dono più grande della genitorialità: sapere perdere i propri figli, saper stare dalla parte dei loro sogni.
La nuova ’Storia del marxismo’ in Italia
di PAOLO FAVILLI (MICROMEGA, 10.05.2016)
Nella "Storia del marxismo" (Carocci, Roma 2015, 3 voll.) recentemente uscita a cura di Stefano Petrucciani si ripresenta la possibilità di riesaminare la storia del marxismo alla luce del sistema di relazioni che sorregge le sue diverse forme. Entro questo contesto sono almeno due i problemi che vanno posti: quello del rapporto fra riforme e rivoluzione e quello del nesso fra filosofia e marxismo.
1) I tre agili volumetti che compongono questa Storia del marxismo, pur inserendosi in una tradizione consolidata e di lungo periodo concernente i modi di fare storia dell’«oggetto» in questione, presentano interessanti spunti di originalità nel panorama complessivo della produzione storica frutto del clima della Marx Renaissance. Ho usato l’espressione produzione storica, ma, come vedremo proseguendo nel discorso, il termine storia, proprio nell’ambito della tradizione cui ho fatto sopra riferimento, necessita di essere meglio precisato. Qual è, però, il peso della dimensione storica nel contesto di quella riflessione generale su Marx ed il marxismo che è stata chiamata Marx Renaissance?
La Marx Renaissance è, indubbiamente, un fenomeno di estrema importanza che oggi ha travalicato anche l’ambito degli studi per diventare, ad esempio, elemento centrale di una delle più importanti manifestazioni artistiche mondiali: la Biennale di Venezia del 2015. Il «cardine» del programma è stato «l’imponente lettura dal vivo dei tre volumi di Das Kapital di Karl Marx. «Porto Marx alla Biennale perché parla di noi oggi», ha detto il curatore della mostra veneziana[1]. La sfera degli studi, la sfera dell’arte, la sfera dell’alta cultura in genere, però, appare separata dai processi di mutamento che interessano lo stato di cose presente.
Il fenomeno della Marx Renaissance comincia a delinearsi pochissimo tempo dopo la proclamata morte del pensatore di Treviri, non casualmente in concomitanza con i primi sinistri scricchiolii delle crisi finanziar-recessive degli anni Novanta. Un fenomeno che poi è cresciuto in maniera esponenziale a partire dagli inizi della «grande crisi» in cui siamo tuttora immersi. Le ragioni sono evidenti: l’impossibilità del pensiero economico mainstream, ormai quasi del tutto coincidente con l’«economia volgare», a spiegare le logiche profonde dei modi in cui si manifestano gli squilibri dell’«economia mondo», cioè del capitalismo mondo. Porsi le domande giuste e tentare qualche risposta di fronte all’attuale fase di accumulazione capitalistica, comporta la necessità di pensare il capitalismo come problema. È possibile farlo senza Marx?
Con tutta evidenza non lo è. Di qui la ripresa di una ricchissima pubblicistica, in gran parte scientifica, su Marx e il marxismo, quasi una nuova biblioteca che si aggiunge a quella vera e propria biblioteca di Alessandria (fortunatamente non scomparsa) che ha raccolto nel tempo gli infiniti contributi dedicati a problematiche marxiane e marxiste.
Il contributo italiano alla costruzione di questa nuova biblioteca è stato ed è tutt’altro che marginale. Studiosi di economia, di filosofia, di sociologia hanno prodotto una letteratura di alto livello. I testi fondamentali di Marx sono stati sottoposti a nuove ed accurate indagini filologiche. In particolare Il Capitale è stato oggetto di una recente ed importante edizione comprendente tutti i testi scritti da Marx con l’intenzione esplicita della realizzazione del I libro[2]. Il volume comprende anche tutte le principali varianti delle edizioni precedenti alla IV edizione tedesca, e permette, così, di entrare direttamente nel laboratorio marxiano. Un preliminare «lavoro filologico minuto e condotto col massimo scrupolo di esattezza, di onestà scientifica»[3], per dirla con Antonio Gramsci. Filologia messa al servizio dell’interpretazione critica della teoria[4]. Della teoria, appunto. Gli studiosi di storia, fino a questo momento, sono rimasti ai margini dei filoni centrali della Marx Renaissance; nel migliore dei casi ne hanno accompagnata la logica dominante.
L’amplissimo panorama di studi che la Marx Renaissance ha prodotto è stato recepito dagli storici soprattutto per lavori relativi a nuove interpretazioni di storia del pensiero, di storia dell’analisi, di storia delle idee in genere.
In Italia la storia della teoria ha una lunga tradizione di grande interesse. Il fatto che il contributo italiano al dibattito teorico sul marxismo sia stato di estrema rilevanza sia alla fine dell’Ottocento (Antonio Labriola), sia nel Novecento (Antonio Gramsci), non poteva non avere influenza su tutta una tradizione di studi. Inoltre sempre italiani erano gli interlocutori/avversari tanto sull’«economia pura» (Vilfredo Pareto) che sui «concetti puri» (Benedetto Croce), e si trattava di italiani che rappresentavano le punte alte internazionali vuoi della teoria economica che della filosofia idealistica.
Una tradizione che ha avuto ed ha importanti risultati conoscitivi. Nei «trenta gloriosi» seguiti al secondo dopoguerra si sono esplorati con varia fortuna i sentieri della storia sociale della cultura marxista. Questa impostazione storiografica non si è sostituita alla prima, vi si è affiancata e, nonostante alcune frizioni, l’insieme di rimandi tra le due dimensioni storiografiche ha rappresentato un indubbio arricchimento di quella cultura.
Dopo «fine del marxismo» e «fine della storia», diventata assai problematica la connessione con il «movimento reale», la storia della teoria ha ripreso nuovo vigore, ma con riferimenti del tutto esterni rispetto alle forme marxismo nel loro rapporto con le forme assunte dall’antitesi dei subalterni, tanto nella loro storia quanto nelle loro prospettive. D’altra parte la storia del marxismo si concretizza proprio nel sistema di relazioni tra le sue forme, le quali si presentano, a loro volta, come incroci, risultanti di percorsi molteplici
È possibile che lo scavo in atto nei materiali teorici marxiani sia propedeutico anche ad una storia rinnovata, ad una nuova sintesi, ma per ora le opere di carattere generale che sono uscite nel periodo della Marx Renaissance hanno riproposto il modello della storia delle teorie.
Allo stato attuale degli studi di storia del marxismo era impossibile pensare una storia di carattere generale, una storia addirittura globale, in grado di seguire la molteplicità delle forme marxismo al di fuori della forma marxismo teorico.
Come ha opportunamente ricordato Giorgio Cesarale, uno degli autori dell’opera in questione, ««il marxismo (...) se ha un valore conoscitivo è perché riposa su un complesso di forme (da quelle storiche e politiche a quelle più legate alla critica dell’economia politica)»[5]. E, seppure attraverso una declinazione sostanzialmente interna al marxismo teorico, i lineamenti dei volumi si snodano e si articolano secondo tale pluralità.
Gli ideatori dell’opera, il curatore, Stefano Petrucciani, sono perfettamente coscienti delle difficoltà insuperabili, anche rimanendo nell’ambito della sola forma marxismo teorico, per costruire una narrazione generale con tendenze sistematiche relativamente ad un oggetto definibile solo tramite storicamente determinati. Petrucciani nella Premessa parla esplicitamente della costruzione di una «mappa», e nel saggio introduttivo afferma «che una storia del marxismo non possa essere che selettiva e dunque per molti versi anche arbitraria»[6]. È quindi del tutto ovvio che la mappa in questione sia esile e che i suoi lineamenti si dipanino attraverso uno spazio talmente ampio da rendere impraticabile la possibilità di percorrere tutto il territorio. Sarebbe, però un’esercitazione non solo inutile, ma anche fuorviante, esercitarsi nella ricerca degli spazi non percorsi dalla «mappa» tracciata. Un’opera non va giudicata per quello che non c’è. Ed inoltre la ricerca delle «assenze» avrebbe il medesimo carattere «arbitrario» che Petrucciani ha indicato per la scelta delle «presenze». Un’opera va giudicata per quello che c’è, e in questa Storia del marxismo c’è molto, e di sostanza.
2) Tra le molte «forme» marxismo quella di «marxismo teorico» parrebbe avere una solida struttura di riferimento, e quindi caratteristiche di denotazione attraverso parametri certi. Dal punto di vista dell’analisi storica, invece, i parametri di definizione dell’oggetto di studio in questione non si delineano con nettezza. I loro confini sono sfumati sia in profondità che in ampiezza. Ci troviamo di fronte, infatti, a livelli diversi di «marxismo teorico». Diversi per capacità euristica, diversi per la scelta del punto ritenuto essenziale allo svolgimento della teoria, diversi infine per gli effetti su processi culturali di lunga durata.
Proprio la molteplicità dei modi in cui si manifesta la permeabilità dei confini del «marxismo teorico», implica l’impossibilità, in una storia, di ignorare nel contesto delle connessioni con il «marxismo politico». Il marxismo politico, infatti, dal punto di vista dell’analisi storica, e non solo, non è separabile dalle altre forme. Con queste, nel corso della sua storia, ha costituito un sistema di relazioni attraverso cui si è resa possibile l’amplissima diffusione di aspetti fondamentali delle forme stesse. Per più di un secolo partiti politici e poi persino Stati hanno posto il «marxismo» come elemento centrale della propria denotazione ed anche delle molteplici connotazioni, e dunque abbiamo necessariamente a che fare con dimensioni teoriche «impure».
Alcuni dei contributi dell’opera in questione hanno indagato accuratamente nel terreno della suddetta permeabilità, con risultati di notevole interesse. È il caso, ad esempio, dell’articolato itinerario di Nicolao Merker nell’universo del marxismo di lingua tedesca, dalla Spd all’austromarxismo, e di Guido Carpi nella centralità politica del marxismo russo e poi sovietico.
Merker sottolinea il ruolo fondamentale delle leggi antisocialiste di Bismarck nella formazione dei caratteri originari del marxismo. «Esibire dottrine ispirate a Marx - afferma - diventò importante per motivi anzitutto politici»[7]. Senza la pesante concretezza di questa contingenza storica la «cerniera che segna il passaggio da Marx al marxismo», la «cerniera»[8] engelsiana, avrebbe avuto maggiore difficoltà a chiudersi sull’orizzonte di una «filosofia per il socialismo».
Ed ancora, a proposito della permeabilità dei confini di cui si è detto, Merker cita Bruno Bauer che in un articolo politico del 1924 discute una tesi di fondo della Meccanica nel suo sviluppo storico (1883) di Ernst Mach[9]. E la discute, appunto, non in uno scritto di teoria della conoscenza, ma in un intervento sul terreno molto caldo dei tempi delle trasformazioni storiche, dei tempi delle rivoluzioni e della lentezza dei ritmi di trasformazione. E in tempi in cui il movimento operaio austriaco ed europeo su tali temi si sta dilaniando, e non solo metaforicamente.
Il marxismo russo è, con tutta evidenza, il luogo in cui l’intreccio tra marxismo teorico e marxismo politico finirà per assumere forme che incideranno profondamente nella vicenda dei socialismi novecenteschi. Merito del ricco ed analitico saggio di Guido Carpi è di avere tenuti ben stretti i lineamenti della particolare storia russa dell’Ottocento nel loro rapporto tanto con il marxismo precedente la rivoluzione d’ottobre che con quello seguente. Pur senza alcuna tentazione deterministica, Carpi coglie il peso di una storia profonda e di lunga durata nell’ambito di un complesso sistema di relazioni con i fenomeni legati a esigui gruppi di intelligencija. Anche il partito socialdemocratico russo (POSDR), prima della Grande guerra è partito di intelligencija. E sarà soprattutto dopo la guerra e la rivoluzione che la storia russa profonda, con protagonista il contadino-soldato, entrerà in collisione con la dimensione critica del marxismo. La belle pagine che Carpi dedica alla tensione tra quella vera e propria esplosione di sperimentazione artistica, culturale in genere, degli anni Venti e il prevalere del marxismo della ragione politica, sono, a questo proposito, di grande interesse.
Il grande scrittore sovietico Vasilij Grossman immagina una situazione in cui, nel 1943, un fisico teorico di grande rilevanza e famoso in tutto il mondo scientifico anche al di fuori della Russia, viene messo sotto accusa in quanto le sue teorie «contraddicevano le idee leniniste sulla natura della materia»[10]. Una situazione tutt’altro che immaginaria ed isolata nel marxismo di Stalin. In quella del Diamat (materialismo dialettico) dello «stalinismo maturo» - che, dice Carpi, «funziona e vuole funzionare come generatore e fondamento di una mitologia universale assoluta». Ed aggiunge: «Lungi dal rappresentare una mera deformazione del marxismo in senso platealmente deterministico - come vuole Lukács o, al contrario in senso pragmatico (come vuole Marcuse), il “materialismo dialettico” staliniano trapassa - qui davvero dialetticamente! - in arte divinatoria, demiurgica e polemologica: il nostro oggetto di studio si è così “tolto” (aufgehoben) in qualche cosa di altro da sé»[11].
Credo che sia una conclusione consolatoria. Anche questa era una forma marxismo, uno specifico e particolare storicamente determinato.
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3) Nei primi due volumi di quest’opera l’intreccio tra dimensione teorica e sua articolazione con lo svolgimento dei lineamenti politici si manifesta, e non poteva essere altrimenti, attraverso un fittissimo insieme di problemi. Mi soffermerò, brevemente, solo su un paio di temi che mi sembra abbiano a vedere in maniera particolare con questioni di fondo relative a tale intreccio:
a) l’ «antiriformismo» di Marx, b) filosofia/non filosofia in Marx e nel marxismo.
a) Secondo Stefano Petrucciani «non c’è dubbio sull’opzione antiriformista e rivoluzionaria di Marx»[12]. Un’affermazione che, a mio parere, ha bisogno di essere meglio precisata, e, quindi, inserita in un contesto di «distinzioni», per usare un’espressione di Delio Cantimori.
Soprattutto la distinzione tra le categorie analitiche del Capitale e le posizioni politiche di Marx, in particolare nel momento in cui la Spd tendeva ad assumere una identità «marxista».
Sul piano del miglioramento delle condizioni di lavoro degli operai, ad esempio, la teoria del salario veniva legata da una parte a quella del valore, dall’altra a quella dell’accumulazione, tramite la definizione dei meccanismi d’azione del saggio di plusvalore e del saggio del profitto. Perciò, per quanto concerneva le categorie strettamente analitiche, la grandezza del salario, lungi dall’essere legata ai minimi di sopravvivenza (e del resto Marx insisteva particolarmente sul carattere storico, non statico, di questi minimi), non trova limiti se non nell’insorgenza di gravi pericoli per la continuazione del processo di valorizzazione del capitale. Le variazioni del saggio del profitto tra un limite minimo ed uno massimo potevano essere assai ampie. «È chiaro - affermava Marx - che tra questi due limiti del saggio massimo del profitto è possibile una serie immensa di variazioni. La determinazione del suo livello reale viene decisa soltanto dalla lotta incessante tra capitale e lavoro»[13]. Ed è altrettanto chiaro che tra questi due limiti, nella tensione verso il limite superiore, sta tutta la storia del riformismo. Centocinquant’anni di storia economica e sociale dalla I edizione del Capitale, hanno dimostrato, ad abundantiam, la dinamica di quelle oscillazioni anche in relazione al fattore «movimento operaio».
Naturalmente non era certo questo l’orizzonte verso cui verso cui tendeva il «rivoluzionario» Marx, ma le sue principali categorie di analisi economica non possono esser considerate negatrici di percorsi gradualistici e quindi riformatori.
Per quanto riguarda, invece, la posizione politica espressa nella «importante lettera “antiriformista”»[14] del 1879, il contesto in cui si pone è, certamente, quello della «assoluta opposizione», cioè il contesto in cui, in seguito alle leggi antisocialista di Bismarck, l’ambiente socialista tedesco si trovò ad essere sottoposto a violente oscillazioni. La ricordata lettera-circolare del 1879 non è altro che una reazione nei confronti dell’oscillazione più radicale: dalla «lotta di classe» alla «filantropia». Nell’estate di quell’anno era uscita a Zurigo nell’appena fondato «Jahrbuch für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», un articolo dal titolo Sguardi retrospettivi sul movimento socialista in Germania. Ne erano autori Höchberg, Schramm e Bernstein che però aveva aggiunto solo alcune righe secondarie. Questa una delle frasi chiave dell’articolo: « ... i tedeschi hanno commesso un errore trasformando il movimento socialista in un puro movimento operaio e attirandosi da sé, provocando inutilmente la borghesia. Il movimento dovrebbe essere portato sotto la direzione degli elementi borghesi e colti...».
In una lettera a Becker (8 settembre) Engels chiarirà il senso della circolare «antiriformista»: «Sarà ben presto tempo di farsi avanti contro i grandi e piccoli borghesi filantropici (...) che vogliono annacquare la lotta di classe del proletariato contro i suoi oppressori [trasformandola] in un istituto generale per la fratellanza umana, e questo nel momento in cui i borghesi, con i quali vogliono affratellarci, ci hanno dichiarato fuori legge, hanno distrutto la nostra stampa, disperso le nostre assemblee e ci hanno consegnati all’arbitrio poliziesco sans phrase. Difficilmente i lavoratori tedeschi parteciperanno a questo tipo di menzogna». Battaglia per l’autonomia politica e teorica del socialismo, dunque, esattamente la stessa operazione che più di un decennio dopo vedrà, in Italia, protagonista Filippo Turati contro tutti gli «affinismi».
b) «Quando si parla del rapporto tra “filosofia” e “marxismo” si viene nominando un oggetto non chiaramente intellegibile», in questi termini, del tutto condivisibili, Giorgio Cesarale imposta uno dei problemi che ha attraversato, ed attraversa, tutto il lungo percorso del «marxismo teorico».
Cesarale è ben cosciente della difficoltà (impossibilità?) di definire il sapere filosofico. Penso che potrebbe concordare con quest’affermazione di uno storico come Krzysztof Pomian: «La specificità della filosofia consiste proprio in questo, che essa non può realizzarsi se non in una pluralità di filosofie tra loro in conflitto». E gran parte di questi conflitti sono relativi al rapporto tra sapere filosofico e saperi particolari[15]. La questione del rapporto filosofia-Marx, filosofia-marxismo è del tutta interna a questo tipo di problema, la cui consapevolezza impronta di sé tutto il saggio di Cesarale.
«Karl Marx fu un filosofo tedesco»[16] afferma con decisione Kolakowski, e su questa base legge le categorie economiche marxiane come sostanziale frutto di una «antropologia filosofica»[17] e ribadisce che il Capitale «va compreso come opera filosofica»[18]. Ed, appunto, cercare una risposta alla questione della natura del sapere di Das Kapital, significa entrare nel nucleo centrale dell’operazione tanto metodologica che epistemologica del Marx maturo.
Marx è stato certamente anche un «filosofo tedesco» e alcuni dei problemi filosofici centrali del periodo giovanile, non sono certo scomparsi, nella maturità, dall’orizzonte della sua riflessione. Ma è altrettanto significativo che una volta giunto alla economia politica egli «studiò per vent’anni questa scienza (...) con un interesse assolutamente prevalente rispetto agli altri rami del sapere»[19]. Il Marx analitico della maturità è un economista politico. Il problema riguarda piuttosto la peculiarità della sua critica dell’economia politica.
Com’è noto Schumpeter insiste sulla natura «chimica» della fusione nel Capitale di sociologia, storia, economia. Diverso il caso della filosofia che, sempre secondo Schumpeter, al massimo avrebbe influenzato la «visione» di Marx, l’«atto conoscitivo preanalitico», mentre si potrebbe dimostrare che «ogni sua proposizione, economica e sociologica, come pure la sua visione del processo capitalistico in generale, o possono riportarsi a fonti non filosofiche (...) oppure considerarsi come risultato di una propria analisi rigorosamente empirica»[20]. Un’osservazione pregnante, sebbene non immune da quel fastidio nei confronti della filosofia, apportatrice di impurità nei paradigmi scientifici, tipico di una lunga tradizione di economisti per i quali nel migliore dei casi la filosofia doveva considerarsi nettamente separata dalla loro disciplina, nel peggiore considerarsi il luogo di complicate fanfaluche verbali.
In realtà la filosofia, nell’argomentazione del Capitale, ha un ruolo più rilevante di quello che Schumpeter le ha assegnato, senza che per questo l’analisi economica perda la sua specificità, e le categorie economiche appaiano come meri involucri di categorie filosofiche, così come Kolakowski le ha interpretate. La scelta del curatore della Storia del marxismo di affidare a Riccardo Bellofiore[21], uno degli economisti che con maggiore rigore e penetrazione ha indagato il rapporto filosofia/economia nel Capitale, il capitolo dedicato all’analisi il luogo sostanziale del problema (la teoria del valore), è stata, senza dubbio, lungimirante.
Cesarale, sulla questione, cita Balibar: «quella marxiana è piuttosto tanto un’antifilosofia (...) quanto una sorta si Überwindung, di oltrepassamento, della filosofia, una posizione teorica che nel suo costituirsi utilizza la filosofia, ma non la invera, non la eleva ad un grado superiore di sviluppo». Sempre dallo stesso libro cui si riferisce Cesarale si potrebbe citare anche questa tesi che l’autore definisce «un po’ paradossale»: «Non c’è e non ci sarà mai una filosofia marxista; di contro l’importanza di Marx per la filosofia è più grande che mai ( il corsivo è di Balibar)»[22].
Alla fine del XIX secolo un filosofo italiano, Antonio Labriola, proprio tramite studi economici, passa dalla «filosofia astratta»[23], alla convinzione che «la filosofia come un tutto a sé [sia] destinata a sparire»[24] (il corsivo è mio). Un lungo e intenso viaggio all’interno dell’economia politica durante il quale la sua concezione di filosofia si modifica radicalmente. Alla luce di quel viaggio, che poi fa tutt’uno con la sua adesione al marxismo, arriverà a questa conclusione: «Noi ora sappiamo che cosa la filosofia sia stata, che cosa non debba più essere, e in quali modesti confini d’ora innanzi si debba restringere»[25]. Per Labriola, in polemica con Croce proprio sulla concezione della filosofia, la scienza dei «concetti puri» si manifesta come sapere regressivo, rispetto ad un metodo, quello marxiano, che si oppone, da un lato all’assolutizzazione della scienza, sottoponendola ad una “critica” (nel Capitale, ad una “critica dell’economia politica” come scienza); dall’altro si oppone alla assolutizzazione della filosofia, rinviandola per i suoi contenuti a riflettere sulle scienze e sull’esperienza comune
Si è di fronte, direi, ad un modo d’intendere il lavoro teorico diverso dalla theoria (non è un bisticcio di parole) nelle sue implicazioni procedurali, conoscitive e pratiche, un modo che costituisce la risposta non alla classica (e infruttuosa) domanda ‘che cosa è la filosofia?’, ma alla domanda cruciale ‘come fare filosofia in mondo che cambia?’: per conoscerlo e per trasformarlo.
Paolo Favilli, già professore di Storia contemporanea e Teoria della conoscenza storica all’Università di Genova, già direttore del Dipartimento di Studi Umanistici di quell’Università, è studioso delle culture del socialismo. Alla storia del marxismo ha dedicato, oltre numerosi saggi, anche alcuni volumi: Il socialismo italiano e la teoria economica di Marx (1892-1902), Napoli, 1980, Herausgabe un Verbreitung der Werke von Karl Marx und Friedrich Engels in Italien, Trier, 1988, Storia del marxismo italiano. Dalle origini alla grande guerra, Milano, 1996; Marxismo e storia. Saggio sull’innovazione storiografica in Italia, Milano, 2006. Sono in corso di pubblicazione: Il marxismo e le sue storie, Milano, 2016 e The History of Italian Marxism. Leiden/Boston, 2016, traduzione inglese del libro del 1996.
NOTE
[1] «La Stampa», 3 marzo 2015.
[2] K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Napoli, La città del sole, 2011. (Marx Engels Opere Complete, XXXI).
Cfr. http://ilrasoiodioccam-micromega.blogaut...
[3] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Edizione critica, Torino, Einaudi, 1975, p. 420.
[4] R. Fineschi, Un nuovo Marx. Filologia e interpretazione dopo la nuova edizione storico-critica (MEGA2), Roma, Carocci, 2008.
[5] G. Cesarale, Filosofia e marxismo tra Seconda a Terza Internazionale, in Storia del marxismo, vol. 1, pp. 169-228. La cit. p. 225.
[6]S. Petrucciani, Premessa, e Da Marx al marxismo attraverso Engels, in Storia del Marxismo, cit,, pp. 9 e 12.
[7]N. Merker, Ortodossia e revisionismo nella socialdemocrazia, ivi, pp. 33-72. La cit. p. 33.
[8] S. Petrucciani, Da Marx al marxismo, attraverso Engels, ivi, pp. 11-32. La cit. p. 24.
[9] N. Merker, L’austromarxismo e i marxismi eterodossi, ivi, pp. 147-168. Il riferimento p. 150.
[10] V. Grosssman, Vita e destino, Milano, Adelphi, 2008, p. 542.
[11] G. Carpi, Il marxismo russo e sovietico fino a Stalin, in Storia del marxismo, cit, pp. 101-145. La cit. p. 141
[12]S. Petrucciani, Da Marx al marxismo attraverso Engels, cit., p. 18.
[13]K. Marx, Salario, prezzo, profitto, MEOC, vol. XX, p. 147. Il corsivo è mio.
[14] S. Petrucciani, Da Marx al marxismo attraverso Engels, cit., p. 18.
[15] K. Pomian, Filosofia/filosofie, in «Enciclopedia», vol. VI, Torino, Einaudi, 1981, pp. 153-207. La cit. p. 155.
[16] L. Kolakowski, Nascita, sviluppo, dissoluzione del marxismo, vol. I, I fondatori, Milano, SugarCo, 1980, p. 11.
[17]Ivi, p. 349.
[18]Ivi, p. 279.
[19] Intervento di B. Jossa in Marx e i marxismi cent’anni dopo, a cura di G. Cacciatore e F. Lomonaco, Napoli, Guida, 1987, p. 423.
[20]J. A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, Torino, Einaudi,1959, vol I, p. 52, vol. II, p. 506.
[21] R. Bellofiore, Capitale, teoria del valore e teoria della crisi, in Storia del marxismo, cit., vol. III, pp. 11-50
[22] E. Balibar, La filosofia di Marx, Roma, Manifestolibri, 1994, p. 7.
[23] Lettera a Friedrich Engels del 3 aprile 1890, A. Labriola, Carteggio, III, (1890-1895), a cura di S. Miccolis, Napoli, Bibliopolis, 2003.
[24] Lettera a Friedrich Engels del 13 giugno 1894, ivi.
[25] Ivi.
(10 maggio 2016)
Neoliberismo, riproduzione e comunità
di Gea Piccardi* (Comune-info, 07.05.2016)
Ho incontrato i testi di Silvia Federici quattro anni fa. Mentre in Europa ancora erano in corso le traduzioni, in America Latina i suoi scritti stavano già passando di mano in mano, di assemblea in assemblea, tra collettivi di donne e misti. È stata una compagna italiana, parte del progetto di Universidad de La Tierra a Oaxaca (Messico), a mostrarmi per la prima volta il libro tradotto in spagnolo come Caliban y la bruja. Mi disse poche parole, semplici ed efficaci. Quel libro, disse, avrebbe permesso di ripensare la nascita dell’economia mondo capitalistica e degli Stati Nazione come un fenomeno di colonizzazione interna allo stesso territorio europeo, avvenuta sui corpi delle donne, terreno strategico di sfruttamento e appropriazione. Pochi mesi dopo, a Buones Aires, un’altra compagna mi raccontò che quell’anno, nella loro assemblea presso una villa di periferia, avevano letto e studiato insieme Caliban y la bruja, trovandovi strumenti fondamentali per l’elaborazione di un’azione politica femminista e postcoloniale.
Da allora, con alcune compagne, amiche e ricercatrici abbiamo cominciato a lavorare, qui in Italia, sui testi di Federici. Uno dei termini su cui ci siamo maggiormente imbattute è quello di «riproduzione», concetto che Federici comincia ad indagare con il collettivo padovano di Lotta Femminista dentro alle lotte delle donne negli anni Settanta. La loro analisi sul lavoro domestico e riproduttivo all’interno delle società capitalistiche occidentali ha permesso alla parola «riproduzione» di indicare via via molteplici campi semantici non riducibili al solo linguaggio della biologia o al concetto marxiano di «riproduzione sociale». Ha permesso di spostare l’attenzione teorica e politica dalla relazione capitale-lavoro centrata sullo sfruttamento del salariato, alle condizioni di possibilità di quella stessa relazione che risiedono altrove, in quello spazio - fino ad allora senza tempo e senza storia - della casa, del privato e delle reazioni sessuali, per indagarne le grammatiche specifiche. Finalmente oggi, anche in Italia, siamo in grado di poter ricostruire i passaggi della ricerca di Silvia Federici, grazie a un lavoro di traduzione e diffusione dei suoi testi avvenuto negli ultimi tre anni. È infatti di recente pubblicazione l’ultimo libro di Federici, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, curato da Mimesis. L’impegno di compagne e compagni in diverse città ci ha offerto la possibilità, qualche settimana fa, d’incontrare l’autrice in Italia, nelle università e negli spazi sociali.
Con Calibano e la strega Federici prosegue con approccio storico e genealogico l’analisi critica sul lavoro riproduttivo contenuta nei saggi de Il punto zero della rivoluzione. Quali sono le origini della separazione tra produzione e riproduzione? Tra un maschile e un femminile che si riflettono in organizzazioni gerarchiche e oppressive di facoltà e attività umane? A partire da questi interrogativi, l’autrice mostra i nessi storici esistenti tra le esigenze dell’accumulazione originaria nel «passaggio al capitalismo», la nascita degli apparati di sapere e di potere su cui si sono costituiti gli Stati moderni, e l’organizzazione, attraverso la caccia alle streghe, del «nuovo ordine patriarcale» occidentale. Qui Federici propone con scientificità la storia della modernità occidentale ma da un’angolazione prospettica che si radica nelle urgenze di libertà del presente, senza cadere nelle gabbie dei pensieri totalizzanti. È proprio questa direzione di sguardo, carica di etica e di politica, che conduce a un pensiero complesso e aperto come quello che il suo libro ci regala. Un metodo d’analisi (ispirato ai lavori di Marx, Foucault e al pensiero femminista) che inchiesta il sociale, attuale e passato, mostrando le contemporaneità.
L’ideazione del libro, scrive nell’introduzione, nasce dalla sua permanenza in Nigeria durante gli anni Novanta, periodo di attivazione - in tutta l’Africa e nei paesi del cosiddetto Terzo Mondo - dei «programmi di aggiustamento strutturale» imposti dall’FMI e dalla Banca Mondiale, che hanno coinciso con l’indebitamento, nuovi processi di espropriazione delle terre comuni, tagli alle spese sociali e ondate repressive e di violenza.
Da una parte, quindi, sono gli attuali fenomeni di naturalizzazione, espropriazione e attacco alla riproduzione, a livello globale, che illuminano la sua storia della caccia alle streghe nella fase di transizione al capitalismo. E dall’altra, è lo studio dei processi di violenta riorganizzazione del lavoro delle donne nella prima età moderna che permette di comprendere l’attualità neoliberista in cui il paesaggio riproduttivo - quello spazio da sempre rimosso dall’economia politica moderna e dalla critica marxista, abitato da corpi di donne che continuamente garantiscono le condizioni affettive, materiali e di cura di qualsiasi comunità - vive una fase di tremenda crisi che colpisce le vite delle singole, dei singoli, e della società tutta. Fuori da una lettura storicistica e progressista della storia Federici ritiene, dunque, che lo scenario della cosiddetta «accumulazione originaria» non si sia dato una volta per tutte, ma, al contrario, persista nel nostro presente sebbene con attrici/attori e in contesti differenti, coloniali e neocoloniali. E che ridisegni, non senza conflitto, le condizioni sociali di estrazione di profitto economico.
Tuttavia, di fronte ai segni della crisi, Federici trova esempi concreti di apertura e d’immaginazione radicale nelle esperienze di lotta di donne che oggi, in tutto il mondo, resistono alle logiche dell’economia capitalistica e ai «nuovi modelli di patriarcato». Da queste prende piede la sua riflessione sui commons o sulla pratica del commoning, intesa nel senso di «fare comunità», ricreare, cioè, un tessuto di relazioni di reciprocità che investano la materialità delle vite e le condizioni comuni di sussistenza e di benessere (leggi anche Comune? È la società in movimento ndr). L’esistenza di comunità autonome e resistenti sparse per il globo e radicate nelle pratiche di autodeterminazione delle donne, le permette di rintracciare nuovi profili possibili della prassi politica oggi; una prassi che indica altri tempi e spazi dell’azione e del pensiero, nuovi e differenti strumenti teorico-pratici di comprensione del mondo e di consapevolezza del proprio potenziale storico. È nel nesso tra crisi della riproduzione e pratiche di commoning che Federici rintraccia nuove priorità etico-politiche, non più legate alle grammatiche del potere maschile novecentesco e al modello di militanza da questo ereditato, ma aperte a nuovi orizzonti di senso.
L’intervista * cerca di sciogliere questi nodi teorici, passando per la biografia dell’autrice e cercandovi i momenti sorgivi, quelli in cui incontri virtuosi con persone, luoghi o movimenti sociali hanno modificato e approfondito la sua ricerca. Quello che Federici propone a tutte e tutti noi, nel dipanarsi delle sue risposte, nella franchezza del linguaggio e nell’apertura dialogica del suo pensiero, è di affrontare la fatica immaginativa che richiede qualsiasi desiderio di cambiamento. Non c’è nulla di immediato e di automatico, ciascun gesto per esser libero richiede una grande attenzione, direi di weiliana memoria. Silvia Federici parla di «altri modi di fare politica» per ritrovare, in essa, un momento di soddisfazione di vita e di resistenza sociale forte.
* L’intervista segue IMMEDIATAMENTE ... QUI.
* Gea Piccardi, laureata in Filosofia Politica presso l’Università di Roma Tre, fa parte della redazione di Iaph e partecipa al gruppo di ricerca Eco-Pol - studi su altri paradigmi di ecologie ed economie politiche. Ha vissuto per periodi più o meno lunghi in Messico, dove ha partecipato all’Escuelita Zapatista.
*Pubblicato su Iaph, con il titolo completo “Neoliberismo, riproduzione e comunità. Un dialogo con Silvia Federici tra biografia, politica e pensiero”
(federico la sala)
I tabù del mondo
Si fa presto a dire famiglia
La vita umana non è la vita di una pianta o di un animale, ha bisogno di casa, radici, appartenenza non si accontenta della biologia, si nutre dell’amore dell’Altro, esige di essere riconosciuta
Ma tutto questo non ha nulla a che vedere con il sesso dei genitori o con la capacità di generare
Esiste davvero qualcosa come un istinto materno o un istinto paterno o forse queste formulazioni contengono una profonda contraddizione in termini?
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 01.05.2016)
Famiglia è ancora una parola decente che può essere pronunciata senza provocare irritazione, fanatismi o allergie ideologiche? Famiglia è ancora una condizione fondamentale e irrinunciabile del processo di umanizzazione della vita oppure è un tabù da sfatare? Se c’è stato un tempo nel quale essa appariva circondata da un alone di sacralità inviolabile non rischia forse oggi di essere condannata come una sopravvivenza ottusa della civiltà patriarcale? Sono solo i cattolici più intransigenti a sostenere la sua esistenza come indispensabile alla vita umana?
Dal punto di vista laico della psicoanalisi la famiglia resta una condizione essenziale per lo sviluppo psichico ed esistenziale dell’essere umano. La vita umana ha bisogno di casa, radici, appartenenza. Essa non si accontenta di vivere biologicamente, ma esige di essere umanamente riconosciuta come vita dotata di senso e di valore. Lo mostrava “sperimentalmente” un vecchio studio di Renè Spitz sui bambini inglesi orfani di guerra che dovettero subire il trauma della ospedalizzazione ( Il primo anno di vita del bambino, Giunti 2009).
La solerzia impeccabile delle cure somministrate dalle infermiere del reparto nel soddisfare tutti i bisogni cosiddetti primari dei bambini non erano sufficienti a trasmettere loro il segno irrinunciabile dell’amore. Effetto: cadute depressive gravi, anoressia, abulia, marasma, stati di angoscia, decessi. Se la vita del figlio non è raccolta e riconosciuta dal desiderio dell’Altro, resta una vita mutilata, cade nell’insignificanza, si perde, non eredita il sentimento della vita. Non è forse questa la funzione primaria e insostituibile di una famiglia? Accogliere la vita che viene alla luce del mondo, offrirle una cura capace di riconoscere la particolarità del figlio, rispondere alla domanda angosciata del bambino donando la propria presenza.
La clinica psicoanalitica ha riconosciuto da sempre l’importanza delle prime risposte dei genitori al grido del figlio. Non si tratta solo di soddisfare i bisogni primari perché la vita umana non è la vita di una pianta, né quella dell’animale, non esige solo il soddisfacimento dei bisogni, ma domanda la presenza del desiderio dell’Altro; vive, si nutre del desiderio dell’Altro. La vita umana non vive di solo pane, ma dei segni che testimoniano l’amore.
L’attualità politica ci impone a questo punto una domanda inaggirabile: tutto questo concerne la natura del sesso dei genitori? Essere capaci di rispondere alla domanda d’amore del figlio dipende dalla esistenza di una coppia cosiddetta eterosessuale? La famiglia come luogo dove la vita del figlio viene accolta e riconosciuta come vita unica e insostituibile - ogni figlio è sempre “figlio unico”, afferma Levinas, - è un dato naturale, un evento della biologia? Siamo sicuri che l’amore di cui i figli si nutrono scaturisca, come l’ovulo o lo spermatozoo, dalla dimensione materialistica della biologia? Esiste davvero qualcosa come un istinto materno o un istinto paterno o forse queste formulazioni che riflettono una concezione naturale della famiglia contengono una profonda e insuperabile contraddizione in termini?
Se, infatti, quello che nutre la vita rendendola umana non è il “seno”, ma il “segno” dell’amore, possiamo davvero ridurre la famiglia all’evento biologico della generazione? Non saremmo invece obbligati a considerare, più coerentemente, che un padre non può essere mai ridotto allo spermatozoo così come una madre non può mai essere ridotta ad un ovulo?
La domanda si allarga inevitabilmente: cosa significa davvero diventare genitori? Lo si diventa biologicamente o quando si riconosce con un gesto simbolico il proprio figlio assumendosi nei suoi confronti una responsabilità illimitata? Le due cose non si escludono ovviamente, ma senza quel gesto la generazione biologica non è un evento sufficiente a fondare la genitorialità. In questo senso Françoise Dolto affermava che tutti i genitori sono genitori adottivi.
Generare un figlio non significa già essere madri o padri. Ci vuole sempre un supplemento ultra-biologico, estraneo alla natura, un atto simbolico, una decisione, un’assunzione etica di responsabilità. Un padre e una madre biologica possono generare figli disinteressandosi completamente del loro destino. Meritano davvero di essere definiti padri e madri? E quanti genitori adottivi hanno invece realizzato pienamente il senso dell’essere padre e dell’essere madre pur non avendo alcuna relazione biologico-naturale coi loro figli?
Questo ragionamento ci spinge a riconsiderare l’incidenza del sesso dei genitori. Ho già ricordato come l’amore sia a fondamento della vita del figlio. Ma l’amore ha un sesso?
Prendiamo come punto di partenza una formula di Lacan: “l’amore è sempre eterosessuale”. Come dobbiamo intendere seriamente l’eterosessualità? Questa nozione, per come Lacan la situa a fondamento dell’amore, non può essere appiattita sulla differenza anatomica dei sessi secondo una logica elementare che li differenzia a partire dalla presenza o meno dell’attributo fallico.
L’amore è eterosessuale nel senso che è sempre e solo amore per l’Altro, per l’eteros. E questo può accadere in una coppia gay, lesbica o eterosessuale in senso anatomico. Non è certo l’eterosessualità anatomica - come l’esperienza clinica ci insegna quotidianamente - ad assicurare la presenza dell’amore per l’eteros! È invece solo l’eterosessualità dell’amore a determinare le condizioni migliori affinchè la vita del figlio possa trovare il suo ossigeno irrinunciabile.
Ludwig Feuerbach (1804-1872)
L’antropologo materialista
La sua grande fortuna grazie a Karl Marx ha messo in ombra il tema fondamentale del ritorno all’uomo e ai suoi bisogni di fondo
di Giuseppe Bedeschi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 10.04.2016)
Feuerbach ha goduto di una grande fortuna, che però è stata per lui anche una grande maledizione: in una delle sue opere più celebri, L’ideologia tedesca, Karl Marx gli ha reso un importante omaggio, e al tempo stesso gli ha rivolto una severa critica: l’uno e l’altra hanno assicurato larga fama a Feuerbach presso i posteri nei paesi europei nei quali il marxismo ha avuto una presenza massiccia. Ma è legittimo chiedersi se il giudizio del grande rivoluzionario tedesco abbia reso piena giustizia a Feuerbach.
Questi - diceva Marx - aveva avuto sì il merito di concepire l’uomo essenzialmente come un ente naturale (contro Hegel che lo concepiva come autocoscienza, cioè come pura spiritualità), e dunque di sottolineare il rapporto uomo-natura (ignorato dall’idealismo), ma non aveva visto che quel rapporto uomo-natura non era solo un rapporto interno alla natura, bensì era al tempo stesso un rapporto dell’uomo con gli altri uomini nella produzione della vita: un rapporto materiale-sociale, che modifica profondamente e «produce» la natura (nel senso che la lavora e la trasforma continuamente). Sicché, affermava Marx, «fin tanto che Feuerbach è materialista, per lui la storia non appare, e fin tanto che prende in considerazione la storia, non è materialista. Materialismo e storia per lui sono del tutto divergenti».
Il giudizio di Marx su Feuerbach era certamente acuto, ma, come dicevamo, è legittimo chiedersi se esso non perdesse di vista alcuni aspetti fondamentali della filosofia feuerbachiana. E che sia così ce lo conferma un grande saggio del filosofo tedesco, i Princìpi della filosofia dell’avvenire (1844), che viene ora riproposto da Orthotes a cura di Piergiorgio Bianchi. Già Norberto Bobbio, curatore della prima edizione italiana dei Princìpi (presso Einaudi, nel 1946, all’indomani dell’atroce guerra mondiale), riteneva che in essi si trovasse appagata una esigenza fondamentale, dopo tante ubriacature “speculative”: quella di un ritorno all’uomo nella complessità e nella concretezza della sua natura, dei suoi bisogni e delle sue ideologie.
In effetti, nei Princìpi maturano e trovano una splendida espressione i motivi fondamentali del pensiero di Feuerbach, il quale giudica la filosofia di Hegel come «un idealismo teologico», in quanto Hegel ha concepito Dio o l’Assoluto come il complesso dei concetti (da lui esposti dialetticamente nella logica) che costituiscono la trama metafisic a della realtà. Inoltre, nell’opera di Hegel, l’uomo scompare come ente finito, dotato di bisogni materiali, e diventa pura autocoscienza, così come la natura diventa alienazione dell’idea. Perciò Hegel svaluta irrimediabilmente le scienze naturali, in quanto scienze del finito e dell’empirico: di quell’empirico che in realtà non è, in quanto si contraddice in se stesso e si annulla: per Hegel, dunque, le scienze naturali sono pseudoscienze, e a esse va contrapposta la filosofia della natura.
Per Feuerbach, invece, l’uomo è un ente naturale finito, un essere sensibile. «Infatti - egli dice - accade soltanto a un essere sensibile di aver bisogno per esistere di cose che stanno al di fuori di lui. Io ho bisogno di aria per respirare, di acqua per bere, di luce per vedere, di sostanze vegetali e animali per mangiare»... Il mondo naturale ha quindi una importanza vitale per gli uomini, e la conoscenza per eccellenza è la conoscenza di quel mondo, data dalle scienze empiriche o naturali.
D’altro canto, solo se si concepisce l’uomo come ente naturale finito si possono cogliere in tutte le loro multiformi espressioni i suoi rapporti con i suoi simili: che sono rapporti di continuo scambio e arricchimento intellettuale (dunque l’uomo è un ente naturale finito sociale) e di ricerca di amore (il sentimento più nobile ed elevato della specie umana).
Feuerbach ha proposto una filosofia che fosse essenzialmente una antropologia, la quale doveva basarsi su un processo di umanizzazione. Umanizzazione di Dio, in primo luogo. Poiché nella religione l’uomo distacca da sé le proprie qualità più alte (intelligenza, spiritualità, creatività) e le attribuisce a Dio. Questa alienazione delle qualità essenziali della specie umana in Dio comporta un vero e proprio rovesciamento dei rapporti fra uomo e Dio. Il soggetto vero, l’uomo, viene trasformato in un predicato di Dio, mentre Dio, che è creazione dell’uomo, diventa il soggetto, l’elemento creatore. Tutto ciò avviene perché l’uomo, non trovando appagamento nella realtà, crea al di fuori di essa, al di fuori del mondo concreto, una realtà sovrannaturale. Questo rovesciamento dei rapporti fra Dio e uomo - che da soggetto attivo diventa oggetto passivo - ha per effetto di diminuire e umiliare l’uomo, onde, dice Feuerbach, «per arricchire Dio l’uomo deve impoverirsi; affinché Dio sia tutto, l’uomo deve essere nulla».
Come si vede, il programma di Feuerbach mirava a una grande rivoluzione filosofica, che inquadrasse nella natura e nella realtà empirica gli uomini, coi loro pensieri e coi loro sentimenti.
L’incanto spezzato della dialettica
«Hegel e Spinoza» è il saggio di Pierre Macherey scritto intorno all’operazione compiuta da Hegel tesa a neutralizzare l’anomalia rappresentata dal filosofo olandese. Un esempio di limpida battaglia politica condotta attraverso un rigoroso lessico filosofico
di Giso Amendola (il manifesto, 15.04.2016)
Crea uno strano effetto avere oggi a disposizione in traduzione, grazie alla preziosa cura editoriale di Emilia Marra, un libro importante come l’Hegel ou Spinoza di Pierre Macherey, uscito nel 1979, quasi come ultimo frutto di lotte teoriche le cui coordinate sono oggi decisamente inattuali (Hegel o Spinoza, ombre corte, euro 19). Ma un testo teoricamente densissimo continua evidentemente a porre questioni, anche se probabilmente in direzioni molto diverse da quelle all’interno delle quali era nato.
Nella premessa all’edizione italiana, Macherey indica subito al lettore questo sfasamento temporale, almeno dal punto di vista del clima generale dell’epoca: scritto quando la trasformazione radicale dell’esistente sembrava ancora un ovvio terreno di impegno per la teoria, il libro incontra oggi lettori per cui la rivoluzione non sembra essere all’ordine del giorno, o, almeno, non allo stesso modo. E certo questo cambia il tipo di lettura che il testo riceve. Probabilmente, però, non si tratta solo della temperatura più o meno calda dell’epoca, parametro poi sempre piuttosto discutibile. Quello che davvero fa la differenza, è il fatto che il libro è concepito quasi come una mossa strategica compiuta all’interno di una serie di battaglie filosofiche molto precise.
La forza dell’astrazione
Ricostruiamo allora il campo in cui Hegel o Spinoza si collocava: Macherey veniva dal lavoro in comune con Louis Althusser che aveva portato al Lire le Capital, e alcune questioni lì aperte si andavano riproponendo e radicalizzando. Soprattutto, rimane in primo piano l’obiettivo principale di portare la «lotta di classe nella teoria», stabilendo un nuovo rapporto tra pratica teorica e pratica politica. Su questo versante, il testo di Macherey è un esempio magistrale di lotta «dentro» la filosofia: una modalità di affrontare i grandi classici calandoli in un preciso campo di battaglia teorico.
Leggere i testi per quello che dicono e per quello che non dicono, nei loro buchi, nei loro silenzi e nei loro errori, secondo un altro evidente apporto althusseriano, quello della lettura «sintomatica»: in questo, l’incrocio delle interpretazioni, l’inseguimento delle forzature e dei veri e propri imbrogli che Hegel gioca con il testo spinoziano, offrono un’immagine affascinante di lotta nella teoria. Certo, il prezzo da pagare è un apparente retrocedere della storia sullo sfondo: ma proprio la forza dell’astrazione mette in luce l’importanza cruciale di queste battaglie concettuali.
E la posta in gioco in realtà è altissima, e politicamente assai concreta: anch’essa legata evidentemente a un preciso snodo del progetto althusseriano. Si tratta di far saltare tutto quel che aveva sempre ricondotto ad una sintesi pacificata il conflitto dialettico, tutto quanto aveva trasportato la dialettica nei cieli dell’«Assoluto» idealistico, eliminando proprio quel «negativo» motore del processo e relegandolo ad una semplice «stazione» della riconquista del perfetto coincidere dell’origine con se stessa. L’obiettivo fondamentale è farla finita con il finalismo già iscritto da sempre nella dialettica idealistica: solo liberando la storia dalla teleologia si libererà il pensiero dall’incantesimo idealistico e lo restituirà alla lotta di classe.
In gioco, ovviamente, c’era la separazione di Marx da Hegel, dalla filosofia della storia, dalla dialettica idealistica, e la rivendicazione del Marx del «Capitale», il passaggio a una dialettica materialista, la rottura con lo storicismo. La perfetta macchina filologica, ma nel segno di una filologia che funziona come arma di lotta, messa a punto da Macherey con questo testo, si inserisce in uno snodo successivo di questa battaglia: quando la rivendicazione althusseriana del Marx maturo contro il Marx «idealista» incontrerà finalmente lo spinozismo. Per la riflessione ultima di Althusser, è la scoperta della corrente sotterranea del materialismo aleatorio e dell’atomismo: nel testo di Macherey, questa conquista si traduce nell’immagine di uno Spinoza che offre una resistenza anticipata al rapimento idealistico della dialettica operato da Hegel.
Discesa verso l’evanescenza
Hegel non può evitare la forza di questa resistenza, l’unica a portare la sfida direttamente all’origine, al problema del cominciamento filosofico, o, in termini hegeliani, del fondamento. E proprio perché non può ignorare la resistenza di Spinoza, deve falsificarla, occultarne i passaggi critici, inventarne di sana pianta altri.
Nasce così la fin troppo celebre immagine dello Spinoza «orientale»: la sostanza spinoziana è rappresentata come un assoluto senza capacità di articolazione, «una rigida immobilità», come Hegel scrive nelle Lezioni sulla storia della filosofia, «la cui unica operazione è di spogliare ogni cosa dalla sua determinazione, della sua particolarità, e ricacciarla nell’unica sostanza assoluta, dove non fa che dileguarsi». Ma, per sostenere questa famigerata tesi sull’«acosmismo» spinoziano, Hegel deve forzare all’inverosimile il sistema, e Macherey, fedele al metodo della lettura sintomatica, illustra gli «errori» palesi che deve commettere.
Così, Hegel costretto a rappresentare il processo di espressione della sostanza negli attributi e nei modi come un processo di progressiva degradazione, fin quasi a farne una sorta di «discesa» neoplatonica verso l’evanescenza, verso il caos di una finitudine abbandonata a una negatività senza possibilità di ritorno e di riscatto. O più precisamente: proprio perché gli attributi restano «esterni» alla sostanza, si riducono a una sorta di semplici punti di vista formali sulla sostanza stessa. A una sostanza chiusa nel suo assoluto isolamento, corrisponderebbe allora un’opposizione formale e astratta di realtà e pensiero. Il monismo di Spinoza, secondo Hegel, si rovescerebbe così nell’accettazione del dualismo di Cartesio. È quella che, con grande efficacia, Macherey definisce come «interpretazione negativista» di Spinoza.
Tutto è però troppo lineare in questo Spinoza hegeliano: a partire dalla «processione» dalla sostanza agli attributi che si presenta come un rapporto discendente e privativo dall’assoluto ad una realtà umbratile che si «determina» solo per separazione e negazione. Ma per costruire quest’immagine tutta ricalcata sulla caduta, Hegel deve cancellare ogni dismisura del pensiero spinoziano: deve cioè letteralmente far fuori ogni riferimento al conatus.
Proprio attraverso il conatus, la sostanza come potenza è e resta tutta presente in ciascuno dei modi, la determinazione qui è tutta nell’affermazione della potenza, ben lungi dall’immagine evanescente del «negativismo» dell’interpretazione hegeliana. Ma per il conatus non può esservi posto nella lettura di Hegel, proprio perché non può esservi posto per l’affermazione.
La negazione assoluta
La determinazione affermativa, la potenza del conatus, costituiscono appunto il vero nucleo forte della resistenza anticipata alla riconciliazione dialettica verso cui muove Hegel: è invece la negazione assoluta, la «negazione della negazione» che dovrebbe, per Hegel, salvare la realtà dallo scivolare verso il nulla. Sono negando dialetticamente se stessa, la realtà assume autentica consistenza. O, in altri termini: la sostanza acquista movimento e si salva dal decadere a fantasma solo se, autonegandosi, ritorna a sé come Soggetto. È la trappola hegeliana: occultare l’affermazione, la positività, l’immanenza tra ordine del finito e ordine dell’infinito, insomma tutta la vera lezione spinoziana, per affermare la dialettica idealistica del «Soggetto» quale negazione della negazione.
La sostanza è soggetto, esiste solo in quanto coscienza di sé, solo in quanto tutta finalisticamente già orientata al movimento verso la coscienza: ed è proprio tutto questo che Spinoza rifiuta in anticipo. Non c’è negazione della negazione, e non c’è soggetto, il quale, scrive significativamente Macherey, è solo un altro nome della negazione che ritorna su di sé. Non c’è, per Spinoza, nessuna necessità che la sostanza si muova verso il soggetto. La vita della sostanza si esprime fuori dall’orientamento teleologico alla coscienza o al soggetto: «applicando la nozione di conatus alle essenze singolari, Spinoza elimina la concezione di un soggetto intenzionale, che non è appropriato né per rappresentare l’infinità assoluta della sostanza, né per comprendere come essa si esprima nelle determinazioni finite». Questo non significa - può concludere Macherey - che non vi sia dialettica. Si apre, anzi, la possibilità di una dialettica materialista: nessun finalismo, nessuna contraddizione autorisolventesi, ma lotta aperta tra forze e tendenze, senza nessuna conclusione garantita.
Le determinazioni finite
La dialettica idealistica è finalmente spezzata: una rottura che avviene, in questa impresa potentemente liberatoria messa in piedi da Macherey, nel segno di una felice conquista di una dinamica aperta, aleatoria, secondo il tracciato di Althusser. Letto oggi il libro apre altri interrogativi, percorsi diversi. La distruzione della teleologia è sacrosanta: ma il conatus delle esistenze singolari ci parla non solo dell’incontro/scontro di forze e tendenze, ma in modo sempre più marcato dell’apertura del campo della produzione di soggettività. Oltre il Soggetto, senza nostalgia per la «coscienza di sé», ma anche oltre quel «processo senza soggetto» attorno al quale sembra ancora girare la pur straordinaria macchina montata da Macherey.
Macherey si tiene, infatti, piuttosto lontano dallo spingere la resistenza spinoziana su strade pienamente affermative e produttive: costruisce, per esempio, un gioco di specchi, un po’ troppo scopertamente simmetrico, tra l’interpretazione «negativista» hegeliana e quella «positivista» di Deleuze, per rigettarle simultaneamente. Ma il libro, appunto, arrivò come ultimo frutto di uno straordinario tentativo di liberarsi dalla cattiva dialettica, dall’orrore di un marxismo sequestrato dal «Dia-Mat».
Oggi, per un verso, i morti hanno seppellito i morti, e possiamo finalmente occuparci d’altro. E, per altro verso, è lo stesso dispiegarsi della sussunzione reale, è lo stesso capitalismo contemporaneo che mobilita e attraversa la produzione di soggettività e sfrutta direttamente la cooperazione sociale. Rotto ogni incanto finalistico e dialettico, è quindi proprio nel cuore di un’ontologia produttiva che ci troviamo già completamente collocati. Lo Spinoza della dialettica materialista e dell’aleatorio ci liberò dagli incubi peggiori, e aprì lo spazio del conflitto e della lotta senza false promesse per l’indomani e catture dialettiche: lo Spinoza della gioia della produzione e della pienezza ontologica ci può accompagnare a riappropriarci di autonomia e di democrazia assoluta nell’oggi.
La civiltà che rifiutava l’immortalità letteraria
di Matteo Nucci (la Repubblica, 04.04.2016)
Nel Fedro, Platone si affannò a spiegare il motivo per cui la scrittura debba essere condannata in favore dell’oralità. Gli scritti contengono parole immobili e sterili come pietre, perché non sanno a chi si rivolgono e non sono capaci di rispondere. Le parole vive invece possono offrire risposte e per questo penetrano l’anima di chi ascolta e si rendono immortali. Anche Platone tuttavia sapeva bene che la grande letteratura deve essere scritta perché possa seriamente eternarsi.
Lo sapeva per sé, per quel che scriveva, e lo sapeva perché i canti composti oralmente dagli aedi omerici, quei canti che sarebbero diventati i più eterni fra i poemi epici dell’antichità, vennero fermati dalla scrittura e permisero così ai due eroi dell’Iliade, Ettore e Achille, di rimanere immortali, come essi stessi avevano sognato andando incontro alla fine.
Fu dunque la battaglia contro la morte attraverso la letteratura ciò che mancò agli Etruschi? Difficile stabilirlo. Può darsi che le nuove acquisizioni chiariscano qualcosa.
Per ora, di fronte all’immensa produzione letteraria di Greci e Latini, è lecito supporre che gli Etruschi avessero messo da parte quella speranza di immortalità letteraria e cercassero di procurarsela solo attraverso il culto, la religione, la cura del morto e tutto ciò che della loro civiltà ci resta con chiarezza. Ma può darsi che ci sia anche altro. Può darsi che sospettassero già quella che è la dannata disillusione raccontata dall’Odissea omerica attraverso le parole di Achille, quando morto nell’Ade incontra Odisseo. Non importa più al grande eroe quel che aveva sognato quando era in vita. Non gli importa più che ci siano poeti che ne cantano la gloria. Preferirebbe vivere la condizione peggiore, quella del servo, pur di vivere.
La letteratura dunque fallisce nel suo sogno di immortalità? Forse questo immaginavano gli Etruschi. E perciò scelsero di dedicarsi completamente a vivere questa vita e non perder tempo negli inutili giochi della letteratura. Forse.
Un’unica idea potrebbe confermare questa ipotesi che li rese così lontani dai “vicini” Greci e Latini. Ossia la più sorprendente delle loro conquiste: la condizione della donna. Aristotele dichiara con meraviglia che le donne mangiavano assieme agli uomini e con essi dunque discutevano alla pari. Teopompo ci racconta dello straordinario equilibrio che si raggiunse in quella società così unica in cui la libertà sessuale e la ricerca del piacere erano centro indiscusso. Forse gli Etruschi avevano semplicemente capito come vivere bene questa vita. Ed eliminarono tutto quello che non gli parve necessario, tra cui le più volatili illusioni di immortalità, quelle della letteratura.
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L’autore è uno scrittore, grecista, studioso del pensiero antico. Ha pubblicato saggi su Empedocle, Socrate e Platone. Il suo ultimo libro è Le lacrime degli eroi ( Einaudi)
I colpevoli roghi della storia europea e le lotte delle donne
«Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria» di Silvia Federici per Mimesis. Una lettura dell’accumulazione originaria di Marx, per riscoprirne centralità e tuttavia parzialità. E la narrazione politica della caccia alle streghe come «guerra di classe»
di Anna Curcio (il manifesto, 30.03.2016)
«Come le recinzioni espropriarono i contadini dalle terre comunali, così la caccia alle streghe espropriò le donne dal proprio corpo, liberato, a funzionare come una macchina per la produzione della forza-lavoro». Questa in sintesi l’ipotesi teorica che Silvia Federici propone in Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, edizione riveduta e aggiornata di Il grande Calibano - classico del femminismo marxista che Federici scrisse con Leopoldina Fortunati negli anni Ottanta - finalmente anche in traduzione italiana (Autonomedia 2014, ora Mimesis, pp. 234, euro 30,00).
Ripensare lo sviluppo del capitalismo da un punto di vista femminista, considerando cioè l’accumulazione e riproduzione della forza-lavoro. Non solo dunque accumulazione di «lavoro morto» come beni espropriati con la recinzione delle terre o attraverso la razzia coloniale che Marx considera, seppur con peso tra loro differente, ma anche accumulazione di «lavoro vivo» sotto forma di esseri umani, resi disponibili allo sfruttamento dal controllo esercitato sul corpo delle donne.
Nell’assumere il proletariato industriale salariato quale protagonista dell’accumulazione originaria Marx ha perso di vista le profonde trasformazioni che il capitalismo ha introdotto nella riproduzione della forza-lavoro e nella posizione sociale delle donne. Intorno a questa ipotesi Federici intreccia la trama, spesso taciuta, delle lotte che hanno accompagnato la transizione al capitalismo. Così donne, contadini, piccoli artigiani e vagabondi, perlopiù cancellati dalla storia, assurgono in Calibano e la strega a veri protagonisti. Ripercorrendo la storia della caccia alle streghe nel Medioevo, il volume evidenzia i processi di criminalizzazione e degradazione sociale che colpirono le donne, il loro lavoro, i loro saperi e pratiche all’indomani della crisi demografica seguita alla Peste Nera europea. Allo stesso tempo, intreccia i destini delle streghe in Europa a quello dei sudditi coloniali nel Nuovo Mondo, insistendo sui processi di inferiorizzazione e sulla costruzione di gerarchie razziali che accompagnano l’espansione coloniale.
L’accumulazione capitalistica che Federici marxianamente indaga è soprattutto «di differenze», di ineguaglianze e gerarchie costruite sul terreno del genere e della razza; processi di segmentazione sociale costitutivi del dominio di classe. Per questo la femminista non ha dubbi: la caccia alle streghe è «guerra di classe portata avanti con altri mezzi».
Due secoli di «terrorismo di stato», tra il XVI e il XVII secolo, avrebbero dunque insegnato agli uomini a temere il potere delle donne, soprattutto il controllo esercitato sulla funzione riproduttiva. Mentre la donna «prodotta» come essere sui generis, «lussuriosa e incapace di governarsi» fu sottoposta al controllo maschile.
Federici ribadisce così il carattere artificiale dei ruoli sessuali nella società capitalistica. La stessa sessualità femminile venne sanzionata, criminalizzando quelle attività non orientate alla procreazione e al sostegno della famiglia; la prostituzione, la nudità e le danze furono proibite e la sessualità collettiva al centro della vita sociale nel medioevo divenne «incontro politico sovversivo» del sabba.
Le nuove coordinate della femminilità si orienteranno allora tra «lavoro di servizio all’uomo e all’attività produttiva», monogamia e una nuova concezione della famiglia «con il marito sovrano e la moglie suddita del suo potere», mentre il corpo della donna diventava macchina della riproduzione.
In questo senso, la caccia alle streghe è soprattutto «lotta contro il corpo ribelle»: il tentativo messo in atto da chiesa e stato per trasformare le capacità dell’individuo in forza-lavoro; cosa che mistificherà, da lì in avanti, il lavoro orientato alla riproduzione come destino biologico. Il corpo - l’utero in particolare - si fa dunque «macchina da lavoro»: bestia mostruosa da disciplinare da una parte, involucro e «contenitore» della forza-lavoro dall’altra, salendo alla ribalta del pensiero politico del tempo (da Hobbes a Descartes) come prerequisito per l’accumulazione capitalistica. Non sorprenderà allora che ogni pratica abortiva o contraccettiva sia stata condannata come maleficio, così le donne espulse da quelle attività come l’ostetricia o la medicina che avevano fin lì esercitato sulla base di saperi tramandati nel tempo.
Una vera e propria «politica del corpo» sottolinea Federici, in cui il corpo non è fattore biologico né il «soggetto universale, astratto, asessuato» della Storia della sessualità di Foucault, precisa, bensì è un corpo situato, denso di «rapporti sociali» (non solo di «pratiche discorsive») fonte di sfruttamento e alienazione e al contempo spazio di resistenza. E nella misura in cui, come Federici tra altri sottolinea, l’accumulazione originaria è un processo che si ripete in ogni fase dello sviluppo capitalistico e dentro le sue crisi, il corpo e le attività legate alla riproduzione restano oggi, come agli albori del capitalismo, un campo di battaglia. E qui si rintraccia l’estrema attualità di Calibano e la strega.
"UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FILOSOFIA E PSICOANALISI. E. Fachinelli, Sulla spiaggia (1985): La mente estatica (1989). Il libro, nella dedica, è "per Giuditta"....
LA DECAPITAZIONE DI OLOFERNE E LA FINE DELLA CLAUSTROFILIA. UN OMAGGIO A ELVIO FACHINELLI. Una nota sull’importanza della sua ultima coraggiosa opera
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Una nota di Eleonora Cirant (e altri materiali)
CHI SIAMO NOI, IN REALTA’?! RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTA’: UN NUOVO PARADIGMA.
CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE.
Il mercato dei corpi
Chiamare la maternità surrogata una donazione è un eufemismo perché in realtà si tratta di un vero e proprio mercato che ha dei tariffari, una domanda e un’offerta, dei contratti, un marketing, dei mediatori, come in qualunque scambio di merce o di prestazione
di Mariangela Mianiti (il manifesto, 15.03.2016)
Nel felice racconto della genitorialità con la gestazione per altri si è trattato con pochi accenni a una parte importante della questione, ovvero il prima dell’impianto dell’embrione. Quel prima non è un pezzo da poco perché riguarda la selezione e l’acquisto del materiale genetico che serve per costruire la nuova vita, ovvero lo sperma e gli ovuli, fondamentali perché determinano le caratteristiche di una persona. La scelta di questi donatori e della portatrice di utero hanno dei costi e si stanno muovendo secondo criteri economici e geografici simili a quelli dei movimenti dei capitali finanziari.
Chiamare la maternità surrogata una donazione è un eufemismo perché in realtà si tratta di un vero e proprio mercato che ha dei tariffari, una domanda e un’offerta, dei contratti, un marketing, dei mediatori, come in qualunque scambio di merce o di prestazione. L’invasione del linguaggio e della mentalità del marketing nel mercato dei corpi, perché di questo si tratta, è già avvenuto e basta guardare gli slogan di certe agenzie che ricalcano quelli della promozione di viaggi low cost, come Pacchetto bimbo in braccio, Pacchetto Surrogacy, pacchetto Economy Plus che stabiliscono tariffe diverse secondo i tentativi di fecondazione e le scadenze del compenso.
In questa compravendita lo sperma è la merce che costa di meno. Si va dalle poche centinaia di dollari chiesti da un’agenzia israeliana, ai diversi prezzi che un’agenzia russa paga secondo la nazionalità del donatore/venditore. Per la stessa quantità di liquido seminale a un russo vengono dati meno di 200 euro, mentre a un danese o a uno svedese più di 800. Stessa cosa succede con le donatrici di ovuli. Negli Usa, dove la media per una donazione di ovuli è ricompensata dai 10 ai 15mila dollari, se la donatrice è alta, bionda e ha frequentato Harvard può chiedere un prezzo molto più alto di una donna non laureata.
Anche per le portatrici di utero le tariffe si adeguano a una geografia economica. Un’americana percepisce al massimo 30mila dollari, un’indiana poco più di 5mila, un’ucraina 10mila circa e basta guardare il costo complessivo dell’operazione per farsi un’idea di come si muove questo business. Negli Usa il costo totale di una maternità surrogata può andare dai 150 ai 200mila dollari, in Ucraina dai 30 ai 50mila, in Russia dai 30 ai 65mila dollari. Per offrire prezzi concorrenziali c’è chi si è organizzato con gli stessi criteri della movimentazione dei capitali. E allora ecco agenzie americane che ricorrono a portatrici di utero messicane, o agenzie israeliane che propongono l’inseminazione negli Usa e poi trasferiscono gli embrioni congelati in Nepal dove vengono impiantati nell’utero di donne indiane, per risparmiare.
In «Clinical Labor», libro uscito nel 2014, le ricercatrici australiane Melinda Cooper e Catherine Waldby analizzano le nuove forme di lavoro bioeconomico come la maternità surrogata. Osservano come il mercato della riproduzione assistita cresce sempre di più espandendosi in servizi e settori dell’industria biomedica. Rivelano come il clinical labor diventerà sempre più rappresentativo delle economie neoliberiste del 21esimo secolo.
C’è chi per pagare un percorso così vende una proprietà, se ce l’ha, o chiede un prestito. Dall’altra parte ci sono donne che si sottopongono a cure ormonali e a una gravidanza conto terzi per comprare una casa o pagare l’università ai figli. Intanto medici, cliniche, agenzie, assicurazioni, ospedali e avvocati vedono crescere il proprio conto in banca. In mezzo c’è il desiderio di un figlio. Viene davvero da chiedersi se un bisogno così ha il diritto di essere esaudito a qualunque costo, letteralmente parlando.
Verità nascoste. Nella gravidanza surrogata il fantasma del concepimento verginale è ovviamente attivo, ma nelle donne surroganti manca, di regola, la serialità dell’offerta che confermerebbe il potere condizionante del fantasma
di Sarantis Thanopulos (il manifesto, Alias, 12.03.2016)
L’equiparazione del prestito dell’utero con la prostituzione rischia di dare una lettura semplificata a una questione complessa. La prostituzione ha due risvolti diversi, per quanto interconnessi. Il suo sfruttamento (che crea un plusvalore per lo sfruttatore) la pone sul piano dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. Quest’ultimo è espressione di uno spostamento delle relazioni di scambio dalla parità dei soggetti sul piano del desiderio alla loro ineguaglianza sul piano del bisogno materiale, che le costituisce come rapporti di potere. Più le relazioni di scambio diventano relazioni di potere, quindi di sfruttamento, più l’appagamento del desiderio diventa un miraggio e il piacere tende a essere scarica pura dell’eccitazione, sollievo più che esperienza di trasformazione sensuale, emotiva e mentale.
Lo sfruttamento dell’operaio esclude l’impiego diretto del corpo sessuale che è, invece, l’oggetto da sfruttare nel campo della prostituzione. Tuttavia, in entrambi i casi l’uso del corpo, della donna come dell’uomo, è centrato sulla sua componente maschile. La componente femminile diventa periferica fino ad essere inibita, silenziata nella prostituzione. Più la componente femminile del corpo - sciogliersi, coinvolgersi, lasciarsi andare, aprirsi- si marginalizza, più la componente maschile- concentrarsi, disciplinarsi, coordinarsi, dirigersi- si irrigidisce, perdendo la sua creatività e la sua forza espressiva. Diventa lo strumento di un agire meccanico, esecutivo. Lo sfruttamento della prostituzione illumina la natura profonda dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo: esso trae il massimo vantaggio dal totale eclissarsi del corpo femminile.
L’altro risvolto della prostituzione, la sua realizzazione come lavoro autonomo, senza padroni, mostra la velleità della pretesa di usare liberamente il proprio corpo in dissociazione dallo scambio di doni nella relazione amorosa: la donazione reciproca del proprio coinvolgimento e della propria vulnerabilità da parte degli amanti. Il sesso a pagamento fa del denaro la protesi inerte con cui si ripara la mutilazione del tessuto vivo della femminilità, che consente lo scambio di doni. Se lo sfruttamento della prostituzione spiega il meccanismo dello sfruttamento del corpo del lavoratore, la prostituzione senza sfruttatori fa capire che la mercificazione delle relazioni umane trae il suo consenso da una riparazione disumanizzante, ma percepita come salda, compatta. Questa riparazione è mediata inconsciamente dal fantasma della “madre virginale”: il permanere del corpo femminile nel commercio erotico in superficie, che garantisce la sua inaccessibilità al piacere profondo.
Nella gravidanza surrogata il fantasma del concepimento verginale è ovviamente attivo, ma nelle donne surroganti manca, di regola, la serialità dell’offerta che confermerebbe il potere condizionante del fantasma. Le motivazioni inconsce soggiacenti al prestito dell’utero vanno cercate altrove. Nella delegittimazione del desiderio di disporre pienamente della propria creatività. Nel desiderio di donare ai propri genitori la genitorialità: offrire loro un altro figlio come riparazione per il fatto di averli delusi o, nella direzione opposta, dare loro una seconda opportunità, visto che sono stati deludenti. Il compenso finanziario, che è anche una forma surrettizia di legittimazione, non sarebbe sufficiente da sé, in assenza di questo tipo di motivazioni.
Il prestito dell’utero non è prostituzione, non è vendita di eccitazione: si trova in bilico tra il mercato dei corpi, che cerca di appropriarsene, e la donazione.
Pensiero critico. Dal lontano Ottecento alle aspre dispute teoriche del secolo breve
Ai nodi irrisolti del presente. In tre volumi una accurata e mai consolatoria storia del marxismo per Carocci
di Roberto Finelli (il manifesto, 09.03.2016)
Stefano Petrucciani, studioso consolidato del marxismo, della Scuola di Francoforte, dell’opera di Jürgen Habermas, ha curato una articolata nuova Storia del marxismo che ora viene pubblicata dall’editore Carocci in una edizione in tre ampi, ma insieme maneggevoli, volumi.
L’impresa è di tutto rispetto, perché dopo la Storia del marxismo della Einaudi pubblicata ormai quasi cinquant’anni fa, si prova a ripensare, in un modo articolato e non riducibile a una prospettiva uniforme, «una mappa delle molte avventure di pensiero - come scrive il curatore - che, a partire più o meno dal 1883, l’anno della morte di Marx, si sono dipanate prendendo le mosse dalla sua eredità intellettuale».
Il primo volume (Socialdemocrazia, revisionismo, rivoluzione. 1848-1945) è dedicato alla stagione più classica dei marxismi: alla configurazione che Engels ha consegnato dell’opera di Marx alla tradizione socialista, al dibattito tra ortodossia e revisionismo nella socialdemocrazia, alla prima discussione sul marxismo in Italia tra Labriola e Croce, alla specificità e originalità del marxismo di Gramsci rispetto a quello sovietico, all’austromarxismo e alla nesso tra filosofia e marxismo tra Seconda e Terza Internazionale (con saggi di Merker, Mustè, Carpi, Cesarale, Liguori e lo stesso Petrucciani).
Il secondo volume (Comunismo e teorie critiche nel secondo Novecento) si occupa delle elaborazioni della tradizione marxista che hanno avuto luogo soprattutto a partire dal secondo dopoguerra. Cristina Corradi ha curato le Forme teoriche del marxismo italiano (1945-79), Manlio Iofrida Marx in Francia, Petrucciani e Eleonora Piromalli La Scuola di Francoforte, Giorgio Cesarale Filosofia e marxismo nell’Europa della Guerra fredda, Guido Samarani, Marxismo e rivoluzione in Asia, José Paulo Netto Il marxismo in America Latina, Alex Callinicos Il marxismo anglosassone. Il terzo volume (Economia, politica, cultura: Marx oggi) comprende una serie di saggi che intendono trattare della ricchezza e della fecondità del pensiero di Marx ancora oggi, nella connessione contemporanea tra marxismo e scienze sociali, in una varietà che va dall’economia e dalle teorie della crisi al pensiero politico, dall’estetica all’antropologia, dal femminismo agli studi postcoloniali, dalle analisi della globalizzazione alle teorie del sistema-mondo.
L’evoluzione delle idee
In questo terzo volume Riccardo Bellofiore ha scritto su Capitale, teoria del valore e teoria della crisi, di nuovo e insieme Petrucciani, Piromalli, Cesarale su Teoria dello Stato e della democrazia, Giulio Azzolini su L’analisi dei sistemi-mondo, Luca Basso su Il marxismo nelle scienze umane: psicologia, psicoanalisi e antropologia, Cinzia Arruzza su Il genere del capitale: introduzione al femminismo marxista, Stefano Velotti su Estetica, arte, cultura nella riflessione marxista. In tale ampio contesto di temi e di autori non è chi non veda ovviamente la utilità e la bontà di quest’opera, che intende proporsi come una vera e propria Enciclopedia del marxismo nella dimensione sia storica, della genesi e della evoluzione delle idee, sia teoretico-scientifica quanto a capacità dei marxismi di aver proposto e di continuare a proporre una visione del mondo, dell’essere umano, della storia, della cultura, della politica indispensabile per orientarsi nella vita del più prossimo passato e dell’oggi.
Gli autori, messi all’opera, sono tutti studiosi di ottimo livello e di profonda competenza nelle aree di loro specifico interesse e la capacità di attenzione e di scelta mostrata in tal senso dal curatore ha contribuito a dare a tutti i tre volumi un carattere didatticamente efficace e, nello stesso tempo, uno stile di facile lettura. Per queste caratteristiche questa Storia del marxismo merita di essere collocata non solo nelle biblioteche specializzate ma anche e soprattutto nelle biblioteche dei licei come ottimo strumento di introduzione e di divulgazione su temi e problemi fondamentali della modernità. Anche perché la ovvia diversità delle prospettive interpretative assunte dai diversi autori si ricompone ad unità nella comune distanza da qualsiasi atteggiamento di valorizzazione dogmatica ed arcaica della tradizione marxista.
L’altro Novecento
È ovvio, del resto, che anche questa Storia non può né vuole essere completa. Ci sono delle mancanze significative, soprattutto nella rassegna dei marxismi più up to date, più contemporanei e di attualità. Ma non si può pretendere esaustività da un’opera che copre uno spazio temporale e una tematica così ampia. Per altro anche da questo lato lo hegeliano Spirito del tempo ci aiuta. Perché non si può non citare, per chiunque volesse integrare e approfondire la lettura di questa Storia del marxismo, l’opera, di pari impegno, anche se di diversa impostazione, intrapresa dallo storico Pier Paolo Poggio, direttore della Fondazione Micheletti, con la pubblicazione di cinque poderosi volumi, assai utili per la profondità dei saggi proposti, su L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico: di cui sono usciti finora tre tomi, passati quasi del tutto sotto silenzio mediatico, presso la casa editrice Jaca Book.
La lettura integrata di queste due opere collettive può ben valere, io credo, al ritorno a una discussione in una prospettiva di che non si vergogni di utilizzare categorie come «totalità», «globalizzazione», «sistemi»: e a trattare della privatezza dell’esistenziale e del personale in un dialogo con lo studio della sistematica economica e sociale della nostra realtà: che non è postmoderna quanto invece ipermoderna.
È lo Spirito del nostro tempo, con l’egemonia cioè e con la diffusione incontrastata dell’economia del capitale sull’intero globo, che ci obbliga a tornare a pensare secondo le categorie dell’universale Astratto e della monocultura. Che ci insegna quanto il tempo del postmodernismo sia ormai concluso, insieme alla retorica esaltata, che l’ha caratterizzato, del frammento, dell’ermeneutica, della risoluzione di ogni realtà in linguaggio, della decostruzione di ogni assetto complessivo di senso. Che ci dice quanto ormai sia esaurito il tempo dell’heideggerismo, sepolto alla fine dal suo medesimo antisemitismo, rivelatosi alla fine consustanziale - e non accidentale - a una filosofia, apparentemente irenica, ma sostanzialmente decisionistica e autoritaria come quella heideggeriana. Dato che, come ha ben argomentato ultimamente Francesco Fistetti, per la filosofia del «pastore dell’Essere» l’ebreo è l’apice stesso dell’essenza della «tecnica».
Cambio di prospettiva
Ci dice, insomma, lo spirito del tempo, che tutte le filosofie e gli orientamenti culturali che hanno preso alimento dalla differenza ontologica tra Essere ed Esserci hanno fatto riferimento a un pensiero, in ultima istanza, conservatore ed arcaico che poneva molto del suo sforzo più a ipostatizzare parole, come insegnava il vecchio e nobile maestro Guido Calogero, - e con ciò a creare miti ed illusioni che scambiano parole con realtà - anziché pensare e studiare la realtà medesima.
Il totalitarismo dell’universale capitalistico insomma ci dice che è ora di tornare a pensare le differenze reali che attraversano e strutturano l’essere umano: quella, orizzontale e sociale, delle differenze di classe, e quella, verticale, della differenza (auspicabilmente nell’integrazione) tra corpo emozionale e mente logico-discorsiva.
La Storia del marxismo diretta da Petrucciani può aiutarci a pensare insomma che il paradigma linguistico che ha preteso risolvere ogni realtà in linguaggio, e in cui si sono comunemente riconosciuti analitici e continentali, si sia ormai estenuato e che si possa ritornare a pensare il presente - al di là di tutte le rotture e apocalissi che l’operaismo e il postoperaismo marxista ci hanno propinato in varie salse durante questo trentennio - secondo il rigore della continuità nel divenire del passato e del futuro.
Rete Donne, violenza è strutturale urge politica
16 mila si rivolgono ai centri antiviolenza. Titti Carrano, ci vogliono programmi scolastici *
I dati raccolti in tutta Italia dai 74 centri anti violenza che fanno capo a D.I.Re. sono in arrivo ma una cosa è certa, ’’ogni anno il numero delle donne che vi si rivolgono è costante, oltre 16 mila persone e questo significa che il fenomeno della violenza di genere è strutturale all’ interno della società e non è una questione d’emergenze come a volte viene rappresentato o percepito’’. Lo dice in un’ intervista all’ANSA Titti Carrano, presidente delle Donne in rete contro la violenza. ’’La violenza di genere è un fenomeno trasversale, colpisce a tutti i livelli economici, sociali, professionali e come è ovvio non è un tema solo italiano ma mondiale ma questo non significa arrendersi ai fatti, certamente c’è moltissimo da fare e che si può fare ma intanto deve essere chiaro che il fenomeno della violenza maschile contro le donne è profondamente radicato nella nostra cultura e che per invertire la tendenza si deve fare ai massimi livelli, innanzitutto con la politica attraverso interventi mirati e a lungo termine’’, prosegue la presidente dell’associazione. Le politiche legislative, secondo la Carrano, sono assolutamente insufficienti, ’’attualmente è più semplice legiferare sul corpo delle donne che sulla cultura che genera violenza, mentre è anche su quello che bisognerebbe lavorare’’.
Altro lavoro urgente, ’’se vogliamo far crescere generazioni diverse’’, riguarda la scuola e qui ’’il vuoto è grande’’, dice sconsolata la Carrano. ’’I centri antiviolenza fanno continuamente sul territorio singoli progetti di sensibilizzazione trovando spesso dirigenti scolastici e professori sensibili ma sono - spiega Titti Carrano - esperienze spot mentre servirebbero programmi scolastici ad hoc, educazione sessuale e di genere tra le materie, spazi di discussione, confronto e apprendimento perché questi nostri ragazzi e ragazze crescano con la consapevolezza che la relazione tra i sessi può basarsi sul rispetto’’. Intanto sul tema della scuola in questi giorni è partito Suffragette 2.0, un tour di Lorella Zanardo per dialogare con le giovani generazioni.
Intervista a Nanni Balestrini: "Caro Nichi Vendola, con il piccolo Tobia fai trionfare la logica capitalistica..."
di Nicola Mirenzi, (L’Huffington Post, 07.03.2016)
Nanni Balestrini per prima cosa ricorda: “Nell’antichità, gli esseri umani che si compravano e si vendevano erano gli schiavi, individui che non avevano né identità né libertà. Oggi gli schiavi offerti sul mercato sono i bambini”.
Scrittore, poeta, saggista, pittore, Balestrini è stato insieme a Umberto Eco uno dei fondatori del Gruppo 63, la macchina che ha impiantato nella letteratura italiana l’avanguardia. In politica, è stato un militante nella sinistra extraparlamentare degli anni settanta su cui ha scritto romanzi (“Gli invisibili”, “Vogliamo tutto”, “La violenza illustrata” - tutti ripubblicati da DeriveApprodi) e saggi (“L’orda d’oro”, insieme a Primo Moroni).
Non si può dire che sia un tradizionalista. Eppure, la scelta di Nichi Vendola di avere un figlio da una madre che ha partorito per lui alimenta i suoi dubbi: “I commenti fatti su questa vicenda - dice all’Huffington Post, che l’ha incontrato nel suo studio a Roma, tra i quadri e la scrivania su cui lavora - sono di due tipi. Da una parte ci sono quelli maschili, secondo cui l’uomo ha il diritto a una discendenza. Dall’altra quelli femminili, che dicono: la donna è libera di vendere il proprio corpo, prostituirsi e anche affittare il proprio utero.
Nessuno prende in considerazione i diritti della persona più interessata a questa scelta: il figlio. Che viene considerato alla stregua di un oggetto, come un cagnolino nato da una madre e poi regalato, non un soggetto che ha dei diritti sin dal terzo mese dal concepimento».
Anche la donna, però, ha diritto di disporre del proprio corpo.
Ma la madre non è proprietaria del bambino che partorisce. Anche quando affitta il suo utero, il bimbo non è suo, non è qualcosa di cui può disporre. Alcuni dicono: “È come vendere un rene”. Ma il bambino non è un organo interno. È altro da te. Non puoi nemmeno dire che vuoi fare un figlio e poi regalarlo a un altro, per generosità, perché il bambino non è nemmeno un pacco dono. Provi a immaginare quando diventerà grande, un bambino così, e andrà in giro a dire che è stato comprato e venduto. Che ferita si ritroverà?
È contro questa pratica?
A me non piace l’idea dell’utero in affitto. Credo, però, che il non regolarla giuridicamente renda tutto molto più confuso. Serve una normativa che metta in primo piano i diritti del nascituro, spingendo le persone ad adottare i bambini già nati, orfani, che non hanno una famiglia. Non è entusiasmante ricorrere a questi mezzi per avere un figlio. Quest’idea di volersi creare un bimbo su misura, sceglierselo come lo si vuole, diventa un atto di egoismo. Non voglio dire che non sia legittimo desiderare di avere un figlio. E ci tengo a specificare che secondo me Nichi Vendola lo alleverà nel migliore dei modi possibili. Ma non è questo il punto. Il punto è che la logica capitalistica, l’idea che tutto si possa comprare e vendere sul mercato non solo è penetrata negli aspetti più intimi della nostra vita, ma ormai ci domina. E non a caso questa storia si svolge in America, il paese in cui tutto ha un prezzo, anche la vita di un bimbo.
Lei appartiene a una generazione politica - quella degli anni settanta - che è stata sconfitta. Che cos’è oggi, per lei, la politica?
La politica è stata completamente trasformata. Le lotte collettive sono finite. Se guardo la realtà, avverto la necessità che la generazione dei giovani precari si organizzi, si rivolti: ma mi rendo conto che è difficilissimo. Gli operai stavano tutti insieme in un luogo fisico, la fabbrica. I precari dove stanno? Ognuno ha il suo luogo di lavoro. Non c’è un luogo di aggregazione. Come si possono unire?
L’esperienza del Gruppo 63 è stata anche attraversata dalla questione generazionale. Vi opponevate a quelli più vecchi di voi per rinnovare la letteratura. Su un altro piano, dovrebbe accadere la stessa cosa oggi?
La mia generazione, come ha detto Umberto Eco, aveva dietro cinquanta milioni di morti. Di fronte a noi abbiamo trovato il campo libero. Molti hanno avuto la cattedra universitaria a trent’anni, oggi non ce l’hanno neanche a sessanta. Entravamo nella Rai. Facevano le case editrici. Questa generazione si trova di fronte a una situazione bloccata. Ma i giochi non sono mai fatti. Lo scontro frontale è sempre utile. Però bisogna costruirlo, organizzarlo, inventarsi un modo per farlo durare.
Vede qualcuno che può farlo? Per esempio, il Movimento Cinque stelle: la su base sociale, in gran parte, è costituita da giovani.
È un movimento interessante, ma vuoto politicamente. La protesta, se non è organizzata, non porta a niente. A maggior ragione, se è fatta con un personale politico mediocre e incapace. Se hai più del venti per cento e ti riduci a far vedere in televisione che urli in parlamento, senza avere una teoria politica né una strategia, tutto finisce lì.
E la sinistra?
Non ne parliamo: lì ci sono solo macerie.
Le sottopongo un parallelo: voi del Gruppo ’63 spingete per il cambio generazionale con la letteratura d’avanguardia. Renzi con la sua politica di rottamazione. Vede una similitudine?
Ogni presa del potere - seppur la nostra sia stata minima e non duratura - è determinata e favorita da situazioni storiche. Noi avevamo davanti a noi l’Italia che cambiava, la necessità d’inventare una lingua per rappresentare una nuova società, mandando a quel paese quelli più vecchi di noi. Nel caso di Matteo Renzi il passaggio storico è diverso. E bisogna tornare all fine degli anni settanta per decifrarlo. Allora, ci sono state due generazioni (quella del ’68 e del ’77) che non sono state solo sconfitte, ma sono state decimate: trentamila persone passate per le carceri, i suicidi, il dilagare dell’eroina. Bisogna ricordare che la parte migliore di quella generazione stava nel movimento, non nei partiti politici. Voglio dire: le persone più preparate, i migliori teorici della politica. In quei movimenti, c’era una classe dirigente che è stata completamente distrutta dalla repressione, dalla disperazione della sconfitta, dalla droga. Dall’altra parte, il massimo che il partito comunista è riuscito a esprimere sono stati D’Alema e Veltroni: non proprio due geni. Ecco dove inizia il declino della classe politica italiana. Che ha favorito l’ascesi di Renzi, il quale sostanzialmente si è trovato di fronte la strada spianata. Perché, diciamoci la verità, la rottamazione non è stata poi così complicata. Chi aveva contro? Il povero Bersani? L’hanno definito un parroco di campagna. Io non voglio arrivare a tanto. Ma, insomma, non mi sembra nemmeno lui una grande figura politica.
Il suo romanzo sugli ultrà, I furiosi, è stato adattato in un’opera teatrale che è in giro per l’Italia. Com’è cambiato il tifo calcistico?
Negli anni ottanta mi avevano affascinato quei tifosi che parlavano delle loro trasferte in maniera mitica. Celebravano il senso della comunità. Si sentivano parte di qualcosa. Oggi, però, il tifo è diventato un luogo di manifestazione dell’estremismo fascista. Colpa della quantità enorme di denaro che ha cominciato a circolare. Che ha trasformato anche il tifo in una lotta per il potere. Il potere di determinare la fortuna di un giocatore, l’indirizzo della squadra, influenzando la società. La tifoseria che io ho rappresentato, probabilmente, esiste ancora da qualche parte. Ma anche nel calcio è cambiato tutto.
Intervista a Silvia Federici
Colpire le donne è colpire la comunità
di Eliana Gilet
Il capitalismo si è costruito sul declassamento del lavoro di riproduzione e di cura ma non è stato capace di superare l’ultima frontiera: produrre la vita al di fuori del corpo della donna. Lo ricorda, in questa lunga e densa intervista, Silvia Federici. Ci hanno convinto che la produzione è un fine in sé, che non ha rivali in termine di valore e pertanto la vita deve esservi sottomessa. Questa mostruosità ha permeato anche tutti noi, l’abbiamo interiorizzata, così riduciamo l’importanza del tempo e del rapporto con gli altri. Nella violenta offensiva contro la gestione comunitaria della terra, poi, l’attacco alle donne è fondamentale perché sono loro che tengono unita la comunità, che difendono più direttamente la vita e sono investite dal processo che la riproduce
Dove sono le donne nella lotta di classe? Per Silvia Federici la chiave per questa risposta si trova nella divisione del lavoro e nel “grande territorio di sfruttamento” che è il lavoro domestico. “Il capitalismo - dice - si è appropriato del lavoro non retribuito, ha costruito sé stesso sul declassamento del lavoro di riproduzione e di cura. Tuttavia non è un lavoro marginale bensì il più importante, soprattutto perché produce la capacità delle persone di poter lavorare”
L’opera fondamentale della Federici si intitola Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, pubblicata nel 2004. In questo testo realizza uno studio storico sulla “caccia alle streghe” che ha inizio nel XV secolo quando l’Europa, alle origini del capitalismo, frazionò le terre comunali trasformandole in proprietà individuali che vennero concesse agli uomini. In quell’occasione, la coltivazione per la sussistenza fu separata dalla coltivazione per il mercato, le donne vennero relegate in secondo piano e sui loro corpi furono ingaggiate le battaglie che portarono molte di loro sul rogo, soprattuto le anziane depositarie di saperi e di cultura.
A Silvia Federici si mescolano un po’ le parole: “Quando sono stanca, parlare in spagnolo non è facile” dice, però fa questo sforzo, attenta alla prima domanda.
C’è una spiegazione storica per l’aumento della violenza contro la donna?
«È importante riconoscere che in questa società la violenza è sempre stata presente in forma potenziale nella relazione tra uomini e donne. Molte donne vengono picchiate se non hanno preparato da mangiare, a molte viene detto che non devono uscire la sera, che devono rimanere in casa e accudire i loro figli, è parte delle regole del lavoro domestico. Credo però che dietro all’aumento di questa violenza ci siano molte ragioni.
«La prima è la ricerca di autonomia, il rifiuto di eseguire quelle attività che tradizionalmente hanno sempre fornito agli uomini. La ricerca di indipendenza avvicina le donne al pericolo: ad esempio, con l’immigrazione che espone le donne alla violenza delle autorità di frontiera; o nel lavoro domestico presso persone che non conoscono e dove vengono maltrattate. Questo non significa che le donne devono rimanere a casa, ma vuol dire denunciare una situazione in cui per raggiungere l’indipendenza economica sono soggette a grandi rischi nell’ambito del lavoro
«In secondo luogo, penso che le donne sono state e sono coinvolte in molte lotte, tanto che la violenza non proviene solamente dai singoli uomini ma è violenza di Stato e dei gruppi paramilitari (Federici si ferma su questo punto del suo discorso che, dice, non è secondario). Le donne hanno difeso un uso non commerciale della ricchezza della natura perché hanno un concetto diverso su ciò che è prezioso. Cos’è che dà sicurezza? Non hanno fiducia nel denaro, bensì nella sicurezza di avere animali, mucche, alberi. Contro di loro c’è violenza perché sono le protagoniste di tante lotte».
Si può tracciare un collegamento tra le violenze del Medioevo e quelle attuali?
«Negli ultimi due decenni si è verificata una nuova forma di ciò che Marx ha definito “accumulazione primitiva o originaria”: una nuova fase di smisurato ampliamento del mercato globale, per il quale è necessario trasferire e distruggere molte comunità. Vengono attaccate le terre comunali ma anche le relazioni prodotte dalla gestione comunitaria della terra. L’attacco alle donne è fondamentale oggi, così come lo è stato nei secoli XVI e XVII: perché sono le donne quelle che tengono unita la comunità, sono le donne che sono coinvolte nel processo di riproduzione, sono loro che difendono in maniera più diretta la vita delle persone.
«Colpire le donne è colpire la comunità. Pensa a questo: l’accusa di stregoneria è perfetta per disintegrare una comunità, per quanto è una teoria che mi piacerebbe comprovare maggiormente. Si basa sul principio del nemico interno: quella che sembra una vicina, di notte si trasforma, in una riunione mostruosa, assieme ad altre come lei. È un modo per instaurare la paura di relazionarsi con altre donne: pertanto ha distrutto la solidarietà, perché venivano obbligate a denunciare le altre».
Cos’è che ha generato questa nuova fase della produzione capitalistica volta ad alimentare il mercato finanziario?
«Mi sembra importante sottolineare un altro problema: proprio su questi temi, ci hanno fatto un lavaggio del cervello, ci hanno convinto che la produzione è un fine di per sé, che nulla la equivale in termini di valore, che la saggezza è sottomettere la vita umana alla produzione.
«È uno dei principi fondamentali del capitalismo e in base ad esso tutto è legittimo: l’omicidio, la rapina, la guerra. Tuttavia questo ha permeato anche la nostra personalità, lo abbiamo interiorizzato. Sono molti anni che sento che il mostro è dentro noi stessi: si tende, ad esempio, a ridurre il tempo che di dedica all’amicizia, all’amore, all’incontro.
«Raúl Zibechi mi ha detto che il tempo condiviso è un elemento chiave nelle comunità zapatiste. Mi sembra fondamentale e allo stesso tempo tanto difficile, perché dobbiamo cambiare noi stessi, convincerci che una delle ricchezze più grandi è il rapporto con gli altri. E che uno dei compiti più importanti è sviluppare la nostra personalità. Viene attribuito valore a un telefono nuovo, ma non alla capacità degli esseri umani di essere più solidali, di non essere ostili, di non trattare gli altri come nemici. Non viene attribuito valore allo sviluppo della capacità di comprensione, di compassione ed empatia con tutto il resto.
«Nel capitalismo la collaborazione è importante solamente quando serve a produrre qualcosa che si può commercializzare: è per questo che abbiamo bisogno di un cambiamento di soggettività. In una villa di Buenos Aires ho incontrato delle donne che mi hanno colpito per la loro grande personalità. Hanno fatto assemblee e discusso su ciò di cui avevano bisogno: avere illuminazione nel quartiere, asfaltare la strada perché non si riempia di fango quando piove. Questo ha significato molto lavoro, ma soprattutto tante decisioni. Quando ti muovi al di fuori della logica dello Stato e del mercato, tutto diventa un rischio. Tutto è rischio.Bisogna valutare bene quello che è importante e quello che non lo è, e questo è un criterio che si elabora assieme agli altri. Può essere definito solo a partire da una rapporto di solidarietà».
Le nuove forme di resistenza passano attraverso l’incontro?
«Il concetto di creare il comune significa anche ricostruire il tessuto delle nostre società. Ognuna delle ondate di espansione capitalista ha distrutto le relazioni di fiducia, di conoscenza e la prossimità. Per esempio, negli ultimi 30 anni, negli Stati Uniti la ristrutturazione del territorio ha distrutto tutte le comunità industriali del nord-est. Comunità dove le persone avevano lavorato per anni e avevano costruito forme di contropotere perché si conoscevano e sapevano che quando c’era uno sciopero il tuo vicino era al tuo fianco, ti avrebbe sostenuto. Tutto è stato distrutto.
«Perché oggi è così facile espropriare, gentrificare? Perché non c’è nulla che unisca le persone ai luoghi. Ci sono città americane dove la tutta popolazione è nuova. Non si conoscono e quindi non hanno capacità di resistenza. La gente non è pazza. Non si può resistere all’oppressione e alla dominazione se non si ha fiducia che gli altri lottino assieme a te».
Potresti fare alcuni esempi su dove vedi questa resistenza?
Ci sono molti modi e non tutti sono ugualmente efficaci. Uno di questi implica la creazione di forme di riproduzione fuori dal mercato. Quando iniziamo a stare assieme e a pensare di costruire qualcosa in comune è chiaro che la maggioranza delle persone vive inserita in una rete di relazioni capitalista e all’inizio non può sapere se quello che sta facendo è capitalista o anticapitalista, se crescerà o cambierà.
«Tuttavia è chiaro che noi non possiamo resistere se non cominciamo a ricostruire questa rete di relazioni, che è il tessuto della nostra vita, a costruire relazioni che ci danno sostegno, solidarietà, fiducia. Opporsi alla militarizzazione della vita, alla disoccupazione, all’impoverimento intellettuale o morale: è questa, oggi, la problematica comune. Penso anche agli studenti e alla privatizzazione della conoscenza, resistere contro la mercificazione della conoscenza, che costringe ad indebitarsi per studiare.
«Le lotte contro l’espropriazione della terra sono tra le più importanti. Quando le grandi imprese di sementi, le società dell’agrobusiness, controllano le terre del mondo e noi non abbiamo nessun rapporto con quanto mangiamo, non abbiamo nessun rapporto con la natura, allora siamo come animali ingabbiati nelle città. So che alcuni economisti marxisti, celebrano la città come il luogo delle grandi relazioni. La città, tuttavia, è una realtà sociale che dipende molto dalla campagna. Quando non si controlla niente della campagna, dei boschi, della costa, dei mari, si è completamente vulnerabili verso ciò che viene imposto. Non abbiamo nessun controllo. Ed è questo che accade. E poi c’è la questione indigena, della quale non voglio parlare perché non la conosco bene».
Quali sono gli effetti di questa fase globale sui nostri corpi?
«Il corpo della donna viene sempre di più trattato come una macchina. Un esempio sono gli uteri in affitto: le donne che vengono fecondate non vengono trattate come madri dei bambini che stanno procreando. Nei contratti che firmano, viene loro proibito di sviluppare affetto per quel bambino che partoriranno. Un altro attacco è legato alla cosmesi. Nel movimento femminista le donne hanno lottato contro l’estetica come disciplina, che è stata usata per dividere le donne: questa commercializzazione del corpo della donna sta facendo il suo ritorno.
«Penso però che sia nel campo della salute dove tutto ciò diventa più evidente. Quando scopri di avere una malattia grave, tutto diventa terribile se non hai accanto una comunità che può aiutarti a capire cosa sta succedendo, a pensare ai diversi tipi di terapia, ad accompagnarti dai medici. Se non hai questa comunità, sei perduta. Il protocollo medico contro il cancro ha una concezione militare della terapia: si combatte il cancro, si distrugge, lo si attacca, e in forma molto traumatica. Il cancro al seno è un esempio paradigmatico di come vengono imposte terapie che non prendono in considerazione quello che le donne provano, le loro paure, la possibilità di cure alternative. Negli Stati Uniti si formano gruppi di donne affette da cancro al seno che si riuniscono per darsi sostegno. Questo mi sembra indicativo del grado di isolamento esistente in questa società. L’isolamento è pericoloso perché ti indebolisce: indebolisce te e la tua capacità di resistenza. Spesso dico che il corpo della donna è l’ultima frontiera del capitalismo. Produrre vita al di fuori del corpo della donna è l’ultima frontiera che il capitalismo non è stato capace di oltrepassare».
Qual è il ruolo della memoria storica in tutto questo?
«Mi sembra importante stabilire, a differenza della teoria dominante, che il capitalismo ha prodotto povertà, non ricchezza. Almeno per noi c’è stato un impoverimento. Abbiamo perso il nostro rapporto con la natura. Come potevano i polinesiani navigare senza strumentazioni ma solo con la conoscenza che il loro corpo aveva del movimento delle onde? Non lo posso sapere: abbiamo perso il rapporto con il nostro corpo e con gli altri. Il capitalismo ci ha rinchiusi in queste cose piccole, isolate, in questa paura degli altri. L’impoverimento ha le sue radici nel non essere capaci di comprendere ed apprezzare la ricchezza della relazione con gli altri. Non solo questo: l’impoverimento ha le sue radici anche nell’aver perso la capacità di sentirsi parte di qualcosa di più grande che il singolo individuo. Questo tema è un’ossessione per me. Ci hanno confinati in cose tanto piccole.
«Il capitalismo è iniziato con la recinzione dei campi per espellere i contadini, ma anche per recintare le persone. Hanno tagliato la relazione con la natura, hanno tagliato la relazione con gli altri. Hanno tagliato la relazione con il nostro corpo: mi riferisco a questa forma di autodisciplina del distacco, questo processo di estraniamento dal proprio corpo.
«Questo è impoverimento: quando ci si sente una cosa piccola, isolata e non parte di qualcosa di più grande, di una storia. È importante capire che molte persone si sentono connesse con un insieme di relazioni che va oltre la loro stessa vita, che nella fine della loro vita non vedono la fine di tutto, che vedono la propria vita continuare in quella degli altri. Questo significa sentirsi parte di qualcosa di più grande. Quando si ha paura degli altri, quando non si è capaci di apprezzare e capire la ricchezza del rapporto con gli altri, allora sì che si è poveri».
Silvia Federici è nata 1942 a Parma ma ha vissuto e insegnato negli Stati Uniti, dove è molto nota come attivista femminista marxista. Ha però lavorato in Nigeria per molti anni ed è stata cofondatrice della Committee for Academic Freedom in Africa. Fa parte, tra le molte altre cose, del Midnight Notes Collective. Questa intervista è stata realizzata in occasione del Congreso de Comunalidades che si è tenuto a Puebla, in Messico, nell’ultima settimana di ottobre 2015. È stata inizialmente pubblicata su Desinformemonos e poi ripresa anche da Brecha
“Calibano e la Strega. Donne, corpo e accumulazione primitiva”
Intervista a Silvia Federici sulla caccia alle streghe
Come è possibile che l’uccisione sistematica delle donne sia stata affrontata come un capitolo aneddotico nei libri di storia? Non ricordo nemmeno di averne sentito parlare a scuola...
Questo è un buon esempio di come la storia venga scritta dai vincitori. A metà del XVIII secolo, quando il potere della classe capitalista si consolidò e la resistenza venne in larga parte sconfitta, gli storici cominciarono a studiare la caccia alle streghe come un semplice esempio di superstizioni rurali e religiose. Di conseguenza, fino a poco tempo fa, pochi furono coloro che indagarono seriamente le ragioni che si celano dietro la persecuzione delle “streghe” e la loro correlazione con la creazione di un nuovo modello economico. Come spiego in ” Calibano e la Strega ... ” due secoli di esecuzioni e torture di migliaia di donne, condannate a una morte atroce, sono stati liquidati dalla Storia come il prodotto di ignoranza o relativo al folklore. Una indifferenza che sfiora la complicità, dal momento che la soppressione delle streghe dalle pagine della storia ha contribuito a banalizzare la loro eliminazione fisica sul rogo.
Questo fino a quando il Movimento di liberazione delle donne degli anni ’70 espresse un rinnovato interesse per la caccia alle streghe. Le femministe si resero conto di trovarsi di fronte a un fenomeno molto importante che aveva plasmato la posizione delle donne nei secoli successivi, e si identificarono con il destino delle ‘ streghe’, in quanto donne che furono perseguitate in virtù della propria resistenza al potere della Chiesa e dello Stato. Speriamo che alle nuove generazioni di studenti si insegni l’importanza di questa persecuzione.
C’è qualcos’altro che turba profondamente, ed è il fatto che, ad eccezione dei pescatori baschi di Lapurdi, i parenti delle presunte streghe non si armarono in loro difesa, dopo aver combattuto insieme durante le rivolte contadine.
Purtroppo, la maggior parte dei documenti che abbiamo sulla caccia alle streghe sono stati scritti da coloro che detenevano il potere: gli inquisitori , i giudici, i demonologi. Questo significa che ci possono essere stati esempi di solidarietà che non sono stati registrati. Ma bisogna considerare che era molto pericoloso, per le famiglie delle donne accusate di stregoneria, venire loro associati e difenderle. In realtà, la maggior parte degli uomini che sono stati accusati e condannati per stregoneria erano parenti di donne sospettate. Questo, naturalmente, non minimizza le conseguenze della paura e della misoginia, conseguenza diretta della caccia alle streghe che divulgava un immagine della donna orribile, quale assassina di bambini, serva del diavolo, distruttrice di uomini, sedotti e resi simultaneamente impotenti.
Hai individuato due conseguenze evidenti della caccia alle streghe: che è un elemento fondamentale del capitalismo e che segna la nascita della donna sottomessa e addomesticata.
La caccia alle streghe, così come la tratta degli schiavi e la conquista dell’America, fu un elemento fondamentale all’instaurazione del sistema capitalistico moderno, poiché mutò in maniera decisiva le relazioni sociali ed i fondamenti della riproduzione sociale, a partire dalle relazioni tra donne e uomini e donne e Stato. In primo luogo, la caccia alle streghe ha indebolito la resistenza della popolazione ai cambiamenti che hanno accompagnato la nascita del capitalismo in Europa: la distruzione del comune possesso della terra, l’impoverimento di massa, la fame e la nascita, nella popolazione, di un proletariato senza terra, a partire dalle donne più anziane che, non possedendo terra da coltivare, dipendevano dagli aiuti dello Stato per sopravvivere. Ha inoltre ampliato il controllo dello Stato sui corpi delle donne, criminalizzando il controllo da queste esercitato sulla propria capacità riproduttiva e sessualità (ostetriche e donne anziane furono le prime sospettate). Il risultato della caccia alle streghe in Europa fu la nascita di un nuovo modello di femminilità e di una nuova concezione della posizione sociale delle donne, che svalutava il loro lavoro in quanto attività economica indipendente (un processo che era già gradualmente cominciato) e le poneva in una posizione subordinata rispetto agli uomini. Questo è il requisito principale per la riorganizzazione del lavoro riproduttivo necessario al sistema capitalista.
Parli del controllo dei corpi: se nel Medioevo le donne esercitavano il controllo indiscusso sul parto, nella transizione al capitalismo “gli uteri diventano territorio politico controllato dagli uomini e dallo Stato”.
Non vi è dubbio che con l’avvento del capitalismo si comincia ad assistere ad un controllo dello Stato molto più forte sui corpi delle donne, realizzato non solo attraverso la caccia alle streghe, ma anche attraverso l’introduzione di nuove forme di controllo su gravidanza e maternità, e l’istituzione della pena di morte contro l’infanticidio (quando il bambino nasceva morto, o moriva durante il parto, la madre veniva accusata e giustiziata). Nel mio lavoro sostengo che queste nuove politiche, e in generale la distruzione del controllo che le donne, nel Medioevo, avevano esercitato sulla riproduzione, sono indissolubilmente legate alla nuova concezione del lavoro promossa dal capitalismo.
Quando il lavoro diventa la principale fonte di ricchezza, il controllo sui corpi delle donne assume un nuovo significato; gli stessi corpi vengono quindi visti come macchine per la produzione di forza lavoro. Penso che questo tipo di politica sia ancora molto importante oggi, perché il lavoro, la forza lavoro, restano fondamentali all’accumulazione del capitale. Questo non significa che i datori di lavoro di tutto il mondo vogliano più lavoratori, ma certamente vogliono controllare la produzione della forza lavoro, quanta ne deve essere prodotta e in quali condizioni.
In Spagna, il ministro della Giustizia vuole riformare la legge sull’aborto, escludendo i casi di malformazione del feto, proprio quando gli aiuti stanziati dalla Ley de Dependencia (legge che regolamenta e sostiene la non-autosufficienza) sono stati cancellati.
Anche gli Stati Uniti stanno cercando di introdurre leggi che penalizzano gravemente le donne e limitano la loro capacità di scegliere se avere o meno figli. Ad esempio, molti stati stanno introducendo leggi che rendono le donne responsabili di ciò che accade al feto durante la gravidanza. C’è stato il caso controverso di una donna accusata di omicidio, perché suo figlio era nato morto e poi venne scoperto che aveva fatto uso di alcune droghe. I medici esclusero che la cocaina fosse la causa della morte del feto, ma invano, l’accusa è rimasta in piedi. Il controllo della capacità riproduttiva delle donne è anche un mezzo per controllare la sessualità e il comportamento in generale delle donne.
Lo dici tu stessa: “perché Marx non ha messo in discussione la procreazione come attività sociale determinata da interessi politici?”
Questa non è una domanda facile a cui rispondere, perché oggi sembra ovvio che la procreazione e la nascita dei figli siano momenti cruciali nella produzione della forza-lavoro, e non a caso sono stati oggetto di una regolamentazione molto dura da parte dello Stato. Credo, tuttavia, che Marx non potesse permettersi il lusso di vedere la procreazione come un momento della produzione capitalistica, perché si identificava con l’industrializzazione, le macchine e l’industria su larga scala, e la procreazione, come il lavoro domestico, sembrava essere l’opposto dell’ attività industriale.
La trasformazione del corpo femminile in una macchina per la produzione di lavoro è qualcosa che Marx non poteva riconoscere. Oggi - in America, almeno - anche il parto è diventato un fatto meccanico. In alcuni ospedali, ovviamente non in quelli per persone abbienti, le donne partoriscono in catena di montaggio, con un tempo definito a disposizione per il parto, superato il quale viene chiesto un cesareo.
La sessualità è un altro argomento che tieni in considerazione da un punto di vista ideologico, dal momento che la Chiesa ha promosso con grande violenza un controllo ferreo e la criminalizzazione. Era così forte il potere che conferiva alle donne, da far sì che questo tentativo di controllo permanga tutt’ora?
Penso che la Chiesa si sia opposta alla sessualità (anche se sempre l’hanno praticata in segreto), perché ha paura del potere che esercita nella vita delle persone. E ‘ importante ricordare che, per tutto il Medioevo, la Chiesa è stata coinvolta nella lotta per sradicare la pratica del matrimonio dei preti, che era vista come minaccia alla conservazione del suo patrimonio. In ogni caso, l’attacco della Chiesa alla sessualità è sempre stato un attacco alle donne.
La Chiesa ha paura delle donne, e ha cercato di umiliarci in ogni modo possibile, reputandoci la causa del peccato originale e della perversione negli uomini, costringendoci a nascondere i nostri corpi come se fossero contaminati. Nel frattempo, si è cercato di usurpare il potere delle donne, presentando il clero come elargitore di vita e indossando la gonna come indumento.
In un’intervista hai detto che è tuttora in atto una caccia alle streghe. Chi sono gli eretici oggi?
La caccia alle streghe ha avuto luogo per diversi anni in vari paesi africani e in India, Nepal, Papua Nuova Guinea. Migliaia di donne sono state uccise in questo modo, accusate di stregoneria. Ed è chiaro che, proprio come nei secoli XVI e XVII, questa nuova caccia alle streghe è collegata con l’estensione dei rapporti capitalistici in tutto il mondo. Fa molto comodo aizzare i contadini l’uno contro l’altro, mentre in tante parti del mondo stiamo assistendo ad un nuovo processo di privatizzazione delle terre e un enorme saccheggio dei mezzi fondamentali di sussistenza. Esistono anche prove del fatto che la responsabilità di questa nuova caccia alle streghe, che a sua volta si rivolge in particolare a donne anziane, deve essere attribuita allo sforzo delle sette cristiane fondamentaliste, come il movimento pentecostale, che ha riportato nuovamente nel discorso religioso il tema del diavolo, aumentando il clima di sospetto e di paura generato dal deterioramento drammatico delle condizioni economiche.
“Omnia sunt COMMUNIA” , “Tutto è comune”, è stato il grido degli anabattisti la cui lotta e sconfitta, come racconti nel libro, è stata spazzata via dalla storia. E ‘ancora altrettanto sovversivo quel grido?
Lo è certamente, dal momento che viviamo in un tempo in cui ‘Omnia sunt Privata’. Se le tendenze attuali continueranno, presto non ci saranno più marciapiedi, spiagge o mari o acque costiere, o terreni o boschi che possano essere accessibili, senza dover pagare un prezzo. In Italia, alcuni comuni stanno cercando di approvare leggi che vietano alle persone di mettere i propri asciugamani sulle poche spiagge libere rimaste, e questo è solo un piccolo esempio. In Africa, stiamo assistendo al più grande accaparramento di terre nella storia del continente da parte dell’industria mineraria, agro-industriale, agro-combustibile... Il paese africano è in via di privatizzazione e le persone vengono espropriate ad un ritmo che corrisponde a quello dell’epoca coloniale. La conoscenza e l’educazione sono sempre più materie prime a disposizione solo di chi può pagare e anche i nostri corpi sono in corso di brevetto. Per questo ‘omnia sunt communia’ resta un’idea radicale , ma dobbiamo stare attent* a non accettare il modo in cui viene distorto questo ideale, per esempio da parte di organizzazioni come la Banca Mondiale, che con la scusa di ‘preservare la comunità globale’ privatizza terre e foreste dalle quali dipende il sostentamento di intere popolazioni.
Come affrontare la questione dei beni comuni oggi?
Il tema dei beni comuni riguarda il modo di creare un mondo senza sfruttamento, egualitario, dove milioni di persone non muoiano di fame mentre pochi consumano a ritmi osceni, e nel quale l’ambiente non venga distrutto: un mondo nel quale le macchine non aumentino il nostro sfruttamento piuttosto che ridurlo.
Questo credo sia il nostro problema comune e il nostro progetto comune: creare un nuovo mondo.
È generosità nei casi di affetto, intimità, amicizia (la sorella, l’amica). Diverso il gesto della donna che mette il corpo gratuitamente a disposizione di sconosciuti
di Valentina Pazé (il manifesto, 09.01.2016)
Nel dibattito sulla maternità surrogata c’è un grande assente. Si tratta dell’art. 3, secondo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che stabilisce «il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro». In base a questa disposizione, contenuta in un documento che - ricordiamolo - ha oggi lo stesso valore giuridico dei Trattati, sono vietate nell’ambito dell’Unione non solo la vendita del rene o l’affitto dell’utero, ma anche la vendita di “prodotti” corporei come il sangue, gli ovuli, i gameti, che possono essere donati, ma non divenire merce di scambio sul mercato. Simili pratiche (con l’eccezione della vendita del rene, oggi consentita - a mia conoscenza - solo in Iran), sono invece perfettamente lecite al di fuori dell’Unione europea; non solo in India o in Ucraina, ma negli Stati uniti, dove da anni esiste e prospera un fiorente mercato del corpo.
Sottrarre alle persone, uomini o donne che siano, la possibilità di disporre a piacimento di ciò che “appartiene” loro nel modo più intimo significa esercitare una forma di paternalismo? Qualcuno lo sostiene. Se di paternalismo si tratta, certo è lo stesso che giustifica la previsione dell’inalienabilità e indisponibilità dei diritti fondamentali. In stati costituzionali di diritto, come il nostro, non si può vendere il voto, e un contratto con cui qualcuno si impegnasse a farlo sarebbe nullo. Lo stesso dicasi del contratto attraverso il quale qualcuno disponesse, “volontariamente”, di rinunciare alla propria libertà, dichiarandosi schiavo di qualcun altro.
La ratio di simili divieti è chiara: si tratta di impedire che soggetti in condizioni di debolezza economica e culturale compiano scelte a loro svantaggio solo apparentemente libere, in realtà tristemente necessitate. Là dove simili divieti non esistono, o sono rimossi, i diritti diventano, da fondamentali, patrimoniali: la salute e l’istruzione si vendono e si comprano, così come le spiagge, l’acqua potabile, l’aria pulita. L’ultima frontiera è quella della cannibalizzazione del corpo e dei suoi organi che, da «beni personalissimi», «la cui integrità è tutt’uno con la salvaguardia della persona e della sua dignità» (L. Ferrajoli), vengono degradati a beni patrimoniali, merce di scambio sul mercato capitalistico.
«Di quale esercizio della libertà si può parlare quando il condizionamento economico esclude la possibilità di decisioni davvero autonome?»- si chiede Stefano Rodotà. E prosegue: «Ecco perché appare necessario collocare il corpo fuori della dimensione del mercato, consentendo invece che le allargate possibilità di disporre di sue parti o prodotti possano essere esercitate nella forma del dono, come espressione della solidarietà» (Libertà personale. Vecchi e nuovi nemici, in Quale libertà? Dizionario minimo contro i falsi liberali, a cura di M. Bovero, Laterza 2004).
Si tratta di un principio che vale per il sangue, che, nel nostro paese, si dona ma non si vende. Può essere esteso all’utero? È possibile difendere il “prestito” dell’utero, distinguendolo dal vero e proprio “affitto”? Anche sul dono, in realtà, è bene fare un po’ di chiarezza. Sulle pagine dei giornali (come anche sul manifesto) si sono pubblicati racconti di donne che, per “amore”, portano avanti gravidanze per altri. È una generosità che si può ben comprendere quando riguarda persone che intrattengono fra loro legami di affetto, intimità, amicizia: la sorella o l’amica che si offrono di aiutare una persona cara a realizzare il sogno della genitorialità. Davvero eroico - e anche un po’ sospetto - appare invece il gesto della donna che mette il proprio corpo gratuitamente a disposizione di sconosciuti, contattati attraverso un’agenzia (anch’essa mossa da pure intenzioni oblative?).
Di sicuro si tratta di un genere di altruismo che non trova riscontro nell’enorme mole di studi antropologici, psicologici, sociologici che - da Marcel Mauss in avanti - si sono occupati del fenomeno del dono. Questi studi ci dicono che, in realtà, il dono davvero gratuito non esiste. Dalla notte dei tempi, il dono è uno strumento per creare e rinsaldare legami sociali. Comporta sempre l’aspettativa di una restituzione, non intesa nei termini contabili dello scambio mercantile, ma in quelli morali e relazionali propri del paradigma della reciprocità (rinvio, per farsi un’idea a Il dono perduto e ritrovato, Manifestolibri 1994). Come può rientrare in questo schema la maternità surrogata a favore di estranei, in molti casi destinati a rimanere tali?
Il confronto con la donazione del rene - con tutte le differenze del caso - può aiutare ad orientarci. Mentre fino a qualche tempo fa in Italia, come in molti altri paesi, il prelievo del rene da persone viventi era consentito solo a patto che esistesse un legame di parentela o di affetto tra donatore e ricevente, e che fosse escluso il passaggio di denaro tra di loro, una legge del 2010 ha introdotto la cosiddetta “donazione samaritana” (su cui rimando a P. Becchi, A. Marziani, Il criterio di reciprocità nella donazione degli organi. Per un nuovo approccio alla questione dei trapianti, Ragion pratica 39, 2012, cui ho attinto largamente per le considerazioni che seguono ). Si tratta in sostanza della possibilità, aperta a chiunque, di donare un rene a una persona sconosciuta, la cui individuazione spetterà esclusivamente al personale medico.
La legge prevede che il donatore ed il beneficiario rimangano all’oscuro dell’identità l’uno dell’altro e che non stabiliscano alcun legame tra loro neanche dopo l’intervento. Quando ho appreso dell’esistenza di questa norma, ho provato a immaginare l’identità della persona tanto generosa da farsi mutilare “per il bene dell’umanità”. Un angelo? Un autentico soggetto morale kantiano, che agisce per il dovere e solo per il dovere, senza cercare alcuna gratificazione personale? In realtà, se andiamo a vedere come ha finora funzionato questa legge, scopriamo che i (pochi) casi in cui è stata applicata riguardano soggetti in condizioni del tutto particolari, come i detenuti.
È facile immaginare le motivazioni che possono spiegare il loro gesto: il bisogno di espiare, così diffuso tra i soggetti subalterni, incoraggiati magari dalle premurose pressioni di pii assistenti spirituali. La pulsione narcisistica a compiere un atto eroico, super-rogatorio, in grado di riscattare una vita “sbagliata”. Certo, la donazione del rene ha conseguenze ben più devastanti, per il donatore, di quanto non comporti condurre a termine una gestazione per altri (che, pure, non è una passeggiata, né un’esperienza priva di conseguenze sul piano fisico e psichico). Non riesco comunque a non chiedermi se i casi di maternità surrogata per “amore” di estranei non si prestino a una simile lettura.
Teniamo presente che nella stragrande maggioranza dei casi, oggi, nel mondo, la maternità surrogata avviene dietro compenso (talvolta mascherato da rimborso spese o regalo). Un nuovo, potenzialmente enorme, mercato si sta aprendo, con giri di affari per nulla trascurabili se si tiene conto del contorno di agenzie di intermediazione, cliniche private, consulenze legali e assicurative che comporta. È di questo che dobbiamo discutere. Sia che coinvolga donne del terzo mondo, indotte a mettere la propria capacità riproduttiva al servizio di coppie benestanti dell’Occidente, sia che riguardi donne statunitensi che investono i trenta o cinquantamila dollari ricavati dalla gestazione per pagare l’università al figlio, stiamo parlando di scelte necessitate, o fortemente condizionate, da fattori economici.
Non chiamiamola, per favore, libertà. Assomiglia troppo alla libertà del proletario di vendere la propria forza-lavoro al capitalista.
Il lungo (e incompiuto) processo verso la famiglia fondata su amore e accoglienza
Si discute molto di famiglia e di figli in questo periodo. Ma troppo spesso si dimentica che di “naturale” la famiglia ha poco o nulla, che nella storia e nelle varie culture essa ha assunto connotati molto diversi, e molto spesso violenti nei confronti di donne e bambini. In questo contesto, che significa che “i figli non sono un diritto”?
di Chiara Saraceno *
“I figli non sono un diritto”. Vero, non c’è dubbio. Vale per tutti: per le coppie formate da persone di sesso diverso come per le coppie formate da persone dello stesso sesso, per le coppie come per i/le single. Ma che cosa significa esattamente che non sono un diritto? Che chi non è fertile, o ha un partner non fertile, non ha diritto di provare e viceversa che basta essere fertili (e in un rapporto di coppia eterosessuale) per avere automaticamente il diritto di avere un figlio? Quando si discute di diritti e li si aggancia ad una idea di “natura” e di “normalità” si intraprende una strada molto scivolosa. Una strada lungo la quale si incontrano molte violenze, in particolare contro le donne e i bambini, ma talvolta anche contro gli uomini.
Qualche secolo fa in Italia le donne nubili sospette di essere incinte venivano imprigionate per evitare che abortissero, salvo togliere loro i figli perché “indegne” di essere madri. In Irlanda, come ci ha ricordato il film Le Maddalene, la cosa è durata fino a qualche decennio fa con il beneplacito della Chiesa Cattolica. In nome della protezione della “paternità legittima” i figli nati da un uomo sposato fuori dal matrimonio non potevano essere riconosciuti da quello. E una madre coniugata che avesse un figlio con un uomo diverso dal marito, magari lontano o da cui era separata, aveva di fronte a sé solo due scelte: o non riconoscerlo affinché il padre, se non a sua volta sposato, potesse farlo lui, oppure tacere, attribuendone la paternità al marito. Il tutto con buona pace dell’oggi tanto sbandierato principio che i bambini hanno bisogno di un padre e di una madre, possibilmente biologici.
Nella legge 40, fortemente voluta da una grossa fetta dei parlamentari cattolici e la cui abrogazione per via referendaria è stata attivamente impedita dalla gerarchia cattolica, si è vietata sia la riproduzione artificiale con donatore o donatrice, sia il ricorso all’esame pre-impianto degli embrioni nel caso di aspiranti genitori portatori di malattie genetiche gravi, che avrebbero comportato sofferenze atroci all’eventuale nascituro. Ci sono volute sentenze delle Corti italiane ed europea per cancellare questa mostruosità voluta da parlamentari ottusi e arroganti che, con la benedizione della Chiesa, si arrogavano il diritto di dire chi può e in quali condizioni fare figli e chi no. Se dovessero poter avere figli solo coloro che sono fertili, e in coppia eterosessuale, dovremmo non solo condannare ogni forma di riproduzione assistita, inclusa quella con gameti della coppia, ma anche vietare l’adozione.
Nella nostra società e cultura da lungo tempo si è passati da un’idea che si facessero figli - in proprio o tramite adozione - vuoi perché “venivano”, come non sempre benvenuta conseguenza di un rapporto sessuale, vuoi perché utili alla dinastia o all’impresa famigliare, ma perché danno gioia e aprono al futuro. Come ha ammesso, con un lapsus involontario, lo stesso cardinal Bagnasco, la famiglia non è un fatto ideologico, bensì antropologico. Appunto, l’antropologia, e la storia, ci mostrano che qualunque sia la “famiglia voluta da Dio”, secondo la sorprendente e astorica definizione di papa Francesco, le famiglie umane vengono in forme e contenuti diversi.
Non c’è un’unica “famiglia umana”. Ed alcune forme di famiglia anche del nostro recente passato erano intrinsecamente violente nei rapporti di genere e generazione, non solo a livello individuale, ma proprio di conformazione istituzionale.
C’è voluto un lungo processo, non del tutto compiuto, perché la dimensione fondamentale, autenticamente generativa, della genitorialità fosse l’accoglimento e l’assunzione di responsabilità e perché la cifra della relazione genitori-figli (come per la coppia) fosse l’amore E’ su questo che si gioca il “diritto ad avere figli” o, meglio, a provarci, non di fronte alla legge, ma di fronte alla propria coscienza.
Le tecniche di riproduzione assistita, e più ancora la possibilità di ricorrere ad una madre gestante per altri, acuiscono ed esplicitano la necessità di effettuare - ciascuno nel proprio foro interiore - questa valutazione: non solo perché la scelta di diventare genitori è necessariamente più esplicitamente intenzionale, ma perché coinvolge più soggetti e modifica di poco o tanto il nesso tra coppia, sessualità, generazione. Di nuovo, vale per tutti, non solo per le persone omosessuali.
Quando si smetterà di pretendere di possedere la verità e il monopolio della definizione di chi può fare famiglia e chi può avere figli, finalmente si potrà aprire una riflessione in cui tutte le parti possano trovare voce e ascolto, con rispetto e pazienza, per fare un passo ulteriore nel processo di civilizzazione della famiglia e dei rapporti di sesso e generazione.
Il teologo dell’economia
L’attualità straordinaria di un pensatore che indicò nel capitalismo la religione della nostra epoca
Un culto basato sull’indebitamento generale che non conosce tregua né perdono e cancella la differenza tra il giorno e la notte
Tra i suoi sacerdoti c’è anche Marx, il cui socialismo ne è in fondo l’erede diretto
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, La Lettura, 24.01.2016)
È la stella polare della filosofia continentale. Ne traccia la rotta, ne indica la tendenza, la orienta. Da tempo ormai fa quasi ombra a Heidegger e a Wittgenstein. Come se lui, il figlio ribelle, il lucido sognatore, il filosofo malinconico, il critico spietato della modernità, il profeta rivoluzionario che, come un nuovo Isaia, aveva scelto di osservare il mondo dalla soglia del giudizio ultimo, trovasse un riscatto postumo a più di settant’anni dalla morte. Occhiali spessi, sguardo penetrante, espressione interrogativa: non c’è quasi dipartimento di Filosofia, dall’Argentina agli Stati Uniti, dalla Corea, al Giappone, all’Australia, in cui non si stagli la sua foto. Ben riconoscibile, è lui: Walter Benjamin.
La sua immagine è assurta a simbolo di un pensiero che resiste, che non si lascia soffocare nella vuota analitica, né rinchiudere negli steccati di una innocua ricostruzione storica, che non si adatta a diventare normativo, né tanto meno si piega a elogiare le fantomatiche libertà del progresso. Ecco perché nel nome di Benjamin si legge la promessa di una filosofia capace di essere filologicamente rigorosa e, al tempo stesso, aperta alla sperimentazione, in grado di descrivere i particolari apparentemente più irrilevanti, senza per questo rinunciare alle visioni ampie e ardite.
Ha contribuito al riscatto postumo di Benjamin l’uscita dei suoi scritti presso l’editore tedesco Suhrkamp. In Italia la pubblicazione delle Opere complete, avviata da Einaudi nel 2001, si è conclusa nel 2014. La disponibilità degli scritti di Benjamin, tradotti ormai in molte lingue, spiega l’aumento drastico degli studi, il profluvio di monografie, articoli, saggi critici. Il che, peraltro, non vuol dire che non vi siano motivi da scoprire. E in genere la ricerca, in fondo frammentaria, dovrà ancora trovare i nessi segreti che tengono insieme una filosofia più complessa di quanto si immagini, i legami, talvolta sfuggenti, tra i suoi molteplici aspetti. Risponde già a questa esigenza Walter Benjamin. Una biografia critica, di Howard Eiland e Michael W. Jennings (Einaudi).
Ma che cosa rende Benjamin così attuale nella sua dirompente inattualità? Perché i suoi scritti, talvolta brevi frammenti, aneddoti autobiografici, lettere, serbano un potenziale esplosivo? Al punto da indirizzare perfino la riflessione contemporanea? Certo, contribuisce il suo straordinario stile, la prosa costellata di immagini seducenti. Prediligendo i «passaggi», Benjamin ha dischiuso alla filosofia ambiti inconsueti: dai nuovi mezzi di comunicazione al cinema, dalla fotografia ai movimenti di avanguardia, dalla vita nevrotica nella metropoli all’esistenza degli esclusi, dalla letteratura per l’infanzia ai giocattoli, dal gioco d’azzardo all’esperienza dell’hashish, al viaggio. Quel che emerge, però, sempre più chiaramente, è che Benjamin, già molto presto, ha presagito gli esiti del capitalismo, ne ha scrutato i segreti, gli arcana reconditi.
Che un giorno la politica, scaduta a mera amministrazione, esercizio di governance , si sarebbe dissolta nell’economia, è un pensiero che Benjamin condivide con altri filosofi. Ma lui osa un passo ulteriore: quella forma economica, divenuta globale, si sarebbe rivelata per quello è: una religione. Non è forse il capitalismo una religione del debito?
Benjamin è stato il primo grande teologo dell’economia nella modernità. Non ha colto solo i legami strutturali fra teologia e politica, indagati negli stessi anni anche da Carl Schmitt. Né si è limitato a ricostruire la provenienza religiosa del capitalismo. Qui si misura, anzi, la sua distanza da Max Weber, che nel capitalismo aveva indicato l’esito dell’etica protestante.
Per Benjamin le cose stanno diversamente: il capitalismo non è una religione secolarizzata, bensì una religione in senso stretto. Perciò non se ne comprenderebbe la portata, il ruolo e il funzionamento, se non lo si considerasse come un fenomeno religioso. Questa è la tesi delineata nel suo ormai celebre frammento del 1921 Capitalismo come religione, la cui riscoperta ha dato avvio, negli ultimi anni, a una nuova riflessione sulla teologia economica. A prendervi parte sono filosofi non di rado anche distanti fra loro, da Peter Sloterdijk a Giorgio Agamben, da Slavoj Žižek a Thomas Macho, da Norbert Bolz a Roberto Esposito - per ricordarne solo alcuni. Il che conferma l’intuizione di Benjamin, che sembra assumere oggi ulteriore validità.
Esistono alternative? Non appare forse il capitalismo il nostro orizzonte ultimo e insuperabile? Questa società crede nel capitalismo, lo accetta come proprio ineluttabile destino. E come nel passato si pregavano gli dei, se ne indagava l’umore, se ne temeva il volere, così oggi una società dichiaratamente illuminata e secolare è pronta a offrire ogni sorta di sacrifici alle imponderabili potenze del mercato.
«Il capitalismo - scrive Benjamin nel suo testo sibillino - è una pura religione di culto, forse la più estrema che sia mai stata data», dove il culto, che non sa né di teologia né di dogmatica, può contare su una «durata permanente». Non c’è tregua né perdono. La pompa sacrale del marketing, il rito del guadagno, il fasto del consumo, sono inarrestabili. Non si distingue più tra il giorno e la notte là dove il tempo è sempre e solo denaro. Il capitalismo è così un culto che ha annullato persino la settimana, perché richiede una celebrazione ossessiva. Apparentemente è sempre festa - e invece non lo è mai. Se il culto è ininterrotto, è grazie all’apoteosi del debito, Schuld, che nella sua «demoniaca ambiguità» in tedesco significa anche colpa. «Il capitalismo è presumibilmente il primo caso di un culto che non lascia espiare, ma colpevolizza indebitando».
Se Marx aveva visto nel debito pubblico il sigillo dell’era capitalistica, e in fondo il suo terribile lascito ai popoli, Benjamin presagisce l’indebitamento planetario. Non potrebbe essere diversamente per una religione, come il capitalismo, che non permette salvezza né redenzione. Sotto il cielo del capitale resta solo «disperazione cosmica». Perfino Dio sembra venir implicato nel gorgo di questa colpa, nella rovina di questo debito.
Pur evitando una «smisurata polemica universale», Benjamin punta l’indice contro il cristianesimo che si è mutato nei secoli, convertendosi in capitalismo. Ha ceduto cioè al paganesimo, quella tentazione che da sempre lo affligge - e Benjamin avvicina le icone delle banconote alle immagini sacre. Il capitalismo, questo nuovo paganesimo, è l’ordine in cui si stagliano fato e sventura nella circolarità violenta e ripetitiva del mito. Come interromperla?
Nietzsche, Freud, lo stesso Marx appaiono agli occhi di Benjamin i «gran sacerdoti» del culto capitalista, perché le loro teorie sono il prodotto di un potenziamento del capitalismo - non ne costituiscono la rottura. Il socialismo di Marx non è che l’erede diretto del capitalismo. È un socialismo che non conosce Umkehr, che non sa di «inversione», né di rivolta né di rivoluzione, e prosegue lungo il tragitto rettilineo truccato da progresso.
Ma Umkehr è la traduzione tedesca dell’ebraico teshuvà, ritorno - un tornare indietro per andare avanti, una con-versione che è una inversione di rotta, una interruzione. Marx, quel nipote di un rabbino, sembrava averlo dimenticato. E così Benjamin guarda a Gustav Landauer, l’ebreo anarchico, protagonista della Repubblica dei Consigli di Monaco, che aveva scritto: Sozialismus ist Umkehr , il socialismo è inversione, è cambiamento che spezza il «sempreuguale» della storia.
La polemica di Benjamin investe la socialdemocrazia, questa idolatria della modernizzazione, questa cattiva politica incapace - scrive in Strada a senso unico - di darsi scadenze. Nel suo afflato escatologico Benjamin guarda invece al limite estremo, lì dove si consumerà l’apocalissi ultima del capitalismo. Che sia sul modello dello «sciopero generale» di Sorel, o meglio, su quello dell’interruzione anarchica che si impone nel Giubileo ebraico, la rivoluzione va ripensata.
Marx aveva detto che le rivoluzioni sono le «locomotive» della storia. A questa celebre immagine Benjamin oppone nelle sue Tesi sul concetto di storia , scritte nel 1940, una figura speculare. «Forse le rivoluzioni sono il freno d’emergenza azionato dal genere umano che viaggia sul treno». La rivoluzione è una fenditura nella storia, è arresto, cesura, interruzione nel permanere dell’insopportabile, nell’eterno ritorno della catastrofe. Si comprende allora la prossimità di questo «outsider di sinistra» - così Benjamin amava definirsi - alla fronda anarchica.
Come per Landauer, anche per Benjamin la «rivoluzione» non è solo un concetto politico. D’altronde la filigrana dei suoi scritti è un vocabolario teologico, il filo rosso è il messianismo ebraico. Perciò la rivoluzione non riguarda una salvezza dell’anima nell’aldilà, ma la liberazione nella giustizia sociale adesso, jetzt . Quanto al Messia, Benjamin non ha mai dimenticato quell’antico detto rabbinico: «Quando verrà, cambierà nello stato del mondo solo qualcosa di impercettibile, non lo trasformerà con la violenza, ma lo aggiusterà solo di pochissimo».
Il capitalismo, nella sua sacralità, appare non profanabile. Tentare, malgrado ciò, una profanazione? Non è la via d’uscita a cui pensa Benjamin. Non si deve infatti fraintendere: la critica al capitalismo non è una critica alla religione. E la sua teologia, che per quanto eretica resta teologia, attira sempre più l’attenzione degli interpreti per la sua portata sovversiva - come mostrano gli studi più recenti.
L’ateismo di massa si riduce per Benjamin alla ripetizione del culto capitalista, agevolato dalla perdita di ogni contenuto utopico. In tal senso questo «teologo trasferito in campo profano», come l’ha chiamato Scholem, è tra i primi a mettere sotto accusa il vuoto progresso che non distingue tra una migliore riproduzione della vita e una vita realizzata. Il capitalismo è fra l’altro il culto di una emancipazione infelice. Così, accanto al benessere e alla libertà, Benjamin rivendica la felicità.
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Il personaggio
Filosofo e critico letterario, l’ebreo tedesco Walter Benjamin (1892-1940) è una delle figure intellettuali più originali del Novecento. Esule a Parigi dopo l’avvento al potere di Hitler, si uccise in seguito all’invasione della Francia, temendo di cadere nelle mani dei nazisti
Bibliografia
L’editore Einaudi ha pubblicato tra il 2001 e il 2014 le Opere complete di Walter Benjamin in otto volumi, a cura di Hermann Schweppenhäuser, Hellmut Riediger, Enrico Ganni, Rolf Tiedemann. Nel 2015 è uscito, sempre da Einaudi, il libro di Howard Eiland e Michael W. Jennings Walter Benjamin. Una biografia critica (traduzione di Alvise La Rocca, pp. 695, e 90). Da segnalare anche il volume di Uwe-Karsten Heye I Benjamin. Una famiglia tedesca (traduzione di Margherita Carbonaro, Sellerio, pp. 333, e 18). In Francia è uscito l’anno scorso il saggio di Stéphane Mosès Walter Benjamin et l’esprit de la modernité (Éditions du Cerf), mentre quest’anno uscirà negli Stati Uniti il volume Walter Benjamin and Theology , a cura di Colby Dickinson e Stéphane Symons (Fordham University Press)
Mario Tronti.
Una battaglia «messianica»
«Il nano e il manichino. La teologia come lingua della politica» di Mario Tronti. Un pamphlet che raccoglie quattro lezioni tenute a Napoli, ragionando su Schmitt, Benjamin e Edgar Allan Poe
di Francesco Marchianò (il manifesto, 15.01.2016)
Cambiare il corso della Storia: istruzioni per l’uso. Potrebbe chiamarsi così un recente pamphlet di Mario Tronti pubblicato da Castelvecchi che raccoglie quattro sue lezioni tenute presso l’Istituto per gli Studi Filosofici di Napoli nel marzo del 2010. Certo, un titolo del genere suonerebbe oltremodo ambizioso e presuntuoso, specialmente per un volume di poche pagine, eppure è al fondo questo l’obiettivo politico e intellettuale insieme di questo lavoro (Il nano e il manichino. La teologia come lingua della politica, Castelvecchi, pp. 60, euro 7,50).
L’interrogativo, va da sé, è come riuscire a cambiare la Storia, con quali strumenti, con quali modalità. Perché ciò accada, occorre qualcosa che vada di traverso al meccanismo negli avvenimenti e ne modifichi il corso. Ci vuole, cioè, la politica che per Tronti «è un comportamento di pensiero e di azione scorretto rispetto alla Storia: perché si contrappone ad essa, non accetta il suo corso e si propone di deviarlo». Il problema è che oggi si assiste a una forte crisi della politica, o per lo meno di come si è sviluppata lungo tutto il corso del novecento, e per scrutare meglio questa crisi e risolverla è necessario l’apporto che viene dalla teologia politica, «indispensabile strumento ermeneutico del Novecento», sia come metodo per interpretare il potere, sia come strumento per rovesciarlo.
Al centro di questo ragionamento ci sono tre autori, Carl Schmitt, coniatore della teologia politica (al quale sono dedicate due lezione), Walter Benjamin e Jacon Taubes. I loro contributi sul tema sono intrecciati da Mario Tronti secondo uno schema ben preciso che partendo dall’alto, cioè dalla teoria schmittiana, che esalta il sovrano decisore e individua il potere come ordine, arriva alla teologia politica dal basso, vista come strumento delle classi dominate per liberarsi dal potere dei dominanti.
Il passaggio teorico più importante è particolarmente influenzato dal Benjamin delle Tesi sul concetto di storia. E non ha caso è proprio dalla prima tesi di Benjamin che Tronti prende spunto per il titolo al volumetto, quando, ispirato da un racconto di Edgar Allan Poe, il pensatore tedesco parla di un automa che giocava a scacchi e aveva sempre la mossa giusta perché al suo interno si celava un nano gobbo (la teologia) che ne manovrava il funzionamento.
Tronti, che è stato tra i primi in Italia a leggere da sinistra Schmitt, ne sintetizza il pensiero recuperando, come fa il giurista tedesco, la lezione di De Maistre e ancor più Donoso Cortés. La sua preoccupazione principale di fronte alla politica attuale è la stessa che aveva Schmitt nei primi decenni del Novecento. Allora, con parole quasi profetiche, Schmitt registrava la spoliticizzazione della politica a causa dell’imporsi del pensiero tecnico-economico. Oggi, la globalizzazione dei mercati, la finanziarizzazione dell’economia, la vittoria del tecnico sul politico, ben sintetizzata dall’ideologia dell’austerity, ripropongono le stesse problematiche e la stessa esigenza della politica per risolvere la crisi.
Allora, di fronte all’impotenza della Repubblica di Weimar, la soluzione fu trovata nel grande decisore che Schmitt vide, per alcuni anni, nel partito nazista. Oggi, invece, per Tronti, la soluzione va trovata altrove e certamente non è sufficiente per la sua ricerca il materialismo storico che, fondato anch’esso sull’importanza dell’economico, resta all’interno dell’ordine costituito. Qui gli viene in aiuto Benjamin con la sua visione messianica della Storia nella quale si apre la prospettiva di una vittoria per gli oppressi. L’avvento del Messia, infatti, è un elemento esterno alla Storia che ne scompagina le carte, che non appartiene a essa, non è un suo fine, semmai ne determina la fine.
Il Messia ha il compito di redimere chi è oppresso e, facendo ciò, «disordina l’ordine degli oppressori». Per riuscire in questa impresa, però, deve portare a termine un altro obiettivo: sconfiggere l’Anticristo, cioè l’ordine costituito. Per questa ragione il messianico porta con sé sempre l’elemento della lotta ed è, in quest’ottica, una componente rivoluzionaria. Volendo, con prudenza, semplificare si potrebbe dire che una rivoluzione che modifichi il corso degli eventi non si fa da sé, per ragioni storiche, ma solo se interviene qualcosa di esterno a compiere e guidare il mutamento.
Nelle pagine finali del libro compare la teologia di Paolo di Tarso interpretata da Taubes che per Tronti va collocato tra Schmitt e Benjamin. La lezione che viene tratta è la seguente: «nell’attualità nemica, nel qui e ora, tutto in mano agli oppressori, nel processo oggettivo della Storia che accompagna e conferma l’oppressione, è necessario andare a trovare quel “volto interno”, quel nocciolo irriducibile che testimonia, cioè che salva, la libertà dei figli di Dio». Questa è la lezione declinata in senso paolino. In senso politico, invece, ciò si traduce in una possibilità rivoluzionaria che elimini l’oppressione e porti a compimento «il progetto antico della liberazione».
Pur nella sua brevità, Il nano e il manchino è un testo che richiede una buona dose di impegno da parte del lettore. L’ampio spazio dato agli autori trattati, dei quali sono citati molti brani, non impedisce di cogliere l’originalità trontiana del volume nel quale la teologia politica è seguita come un’ombra dal tema dell’autonomia del politico. Entrambe non dipendenti dalle leggi della Storia e anzi orientate alla lotta contro di essa.
di Chiara Saraceno (la Repubblica, 23 Dicembre 2015)
LE DONNE italiane sono state protagoniste di importanti cambiamenti negli ultimi dieci anni. Il fenomeno riguarda soprattutto le più giovani, ma coinvolge anche le anziane, le italiane come le straniere. Le donne, infatti, sono sempre più istruite e nelle generazioni più giovani sorpassano i loro coetanei sia per livello di istruzione, sia per regolarità dei percorsi formativi (meno bocciature, meno fuori corso), sia per i voti che ottengono. Stanno anche in parte cambiando le scelte formative. Più ragazze iscritte a ingegneria, medicina, chimica, agraria, meno iscritte al gruppo letterario e politico- sociale. Anche le straniere, tra le quali sono in aumento coloro che arrivano non per ricongiungimento famigliare, ma come lavoratrici, sono spesso più istruite dei loro conterranei maschi (fanno eccezione le marocchine e le cinesi).
Si sono anche ridotte le differenze di genere nei percorsi formativi, che sono in parte responsabili delle maggiori difficoltà che le donne trovano nel mercato del lavoro. Tra le più giovani (italiane o straniere), si è anche chiuso il divario con i coetanei nell’uso delle nuove tecnologie, che rimane ancora ampio tra le più vecchie; anche se tra queste ultime si sta facendo avanti una generazione di anziane con buona istruzione e con una vita professionale alle spalle pienamente protagoniste dell’“invecchiamento attivo”.
Una maggiore istruzione si è accompagnata a un rimando della maternità, che non dipende solo dalle difficoltà che giovani donne e uomini incontrano nel mercato dal lavoro, ma anche dal desiderio delle giovani donne di investire su di sé, sul piano professionale, della vita di relazione, delle attività culturali e di tempo libero, prima di impegnarsi a formare una famiglia propria. E quando lo fanno, sempre più non passano innanzitutto dal matrimonio, preferendo una convivenza e ritenendo del tutto normale e accettabile avere un figlio anche senza essere sposate.
Tra le più giovani e istruite sono in aumento rapporti di coppia più simmetrici, sul piano del contributo sia al reddito famigliare sia (in minor misura) al lavoro famigliare. Non ci sono solo più donne in Parlamento e al governo e nei consigli di amministrazione. Ci sono più donne che partecipano attivamente al mercato del lavoro, alla cultura, alla vita associata, anche quando hanno responsabilità famigliari.
È quanto emerge dalla fotografia scattata dal rapporto Istat Come cambia la vita delle donne, uscito ieri a cura di Sara Demofonti, Romina Frabboni e Linda Laura Sabbadini, confrontandola con quella di anni fa. Sono mutamenti importanti. Al punto che potremmo dire che gran parte dell’innovazione sociale è dovuta a cambiamenti nei comportamenti femminili.
Rimangono, tuttavia, forti ostacoli a che il cambiamento si generalizzi a tutti i livelli. Proprio questi ostacoli, oltre a pesare in modo sproporzionato sulle donne che spesso devono portare tutta la fatica del cambiamento, rafforzano diseguaglianze sociali e ne creano di nuove. Permangono forti disuguaglianze nel mercato del lavoro, nonostante la maggiore istruzione delle donne nelle coorti più giovani. Non solo, a fronte di un aumento lentissimo dell’occupazione femminile, per altro interrotto dalla crisi, è persino aumentata la percentuale di donne che escono dal mercato del lavoro a causa della maternità, costrette a scelte radicali da una combinazione perversa di rigidità del mercato del lavoro (anche quando chiede flessibilità ai lavoratori/lavoratrici) e carenza di servizi, soprattutto, ma non solo, nel Mezzogiorno.
Una questione per altro ignorata nella legge di stabilità. Ciò crea disuguaglianze tra uomini e donne, ma anche tra donne, tra chi può rivolgersi al mercato (o alle nonne/i) per surrogare servizi mancanti e chi no. L’aumento dell’istruzione, inoltre, non ha riguardato tutte. Mediamente più istruite degli uomini, le giovani donne tuttavia costituiscono la maggioranza dei Neet e quella più difficile da coinvolgere in una operazione di riorientamento (questione del tutto assente dalla riflessione sulla Garanzia Giovani). Rimangono anche forti stereotipi di genere, relativamente a ciò che possono fare le donne e gli uomini, a ciò che spetta agli uni e alle altre. Il che rende difficile modificare sia i comportamenti sia le politiche.
Una teoria che non fa scuola
di Stefano Petrucciani
L’impatto che Karl Marx ha avuto sulla storia del XIX e del XX secolo è stato così forte da non poter essere paragonato a quello di nessun altro pensatore. Solo i fondatori delle grandi religioni hanno lasciato alla storia del mondo una eredità più grande, influente e persistente di quella che si deve al pensatore di Treviri. Ma per capire che tipo di influenza ha avuto la figura di Marx sulla storia del suo tempo e di quello successivo, bisogna mettere a fuoco un aspetto che concorre con altri a determinarne la singolarità: l’attività di Marx si è caratterizzata per il fatto che Marx è stato al tempo stesso un pensatore e un organizzatore/leader politico, e di statura straordinaria in entrambi i campi. Notevolissima è stata la ricaduta che le sue teorie hanno avuto sul pensiero sociale, filosofico e storico, ma ancor più grande, anche se non immediato, è stato l’impatto che la sua attività di dirigente politico (dalla stesura del Manifesto del Partito Comunista alla fondazione della Prima Internazionale) ha lasciato alla storia successiva.
Certo, una duplice dimensione di questo tipo non appartiene solo a Marx: la si può anche ritrovare in grandi leader che furono suoi antagonisti, da Proudhon a Mazzini a Bakunin. Ma in Marx entrambe le dimensioni, quella della costruzione teorica e quella della visione politica, attingono una potenza che manca a questi suoi pur importanti antagonisti. Sul piano della organizzazione politica dall’attività di Marx sono infatti derivati, nel tempo e attraverso complesse mediazioni, i partiti socialdemocratici e poi quelli comunisti che hanno inciso così largamente nella storia del Novecento. Sul piano teorico, invece, Marx ha influenzato, e continua a segnare ancora oggi, una parte non trascurabile della cultura che dopo di lui si è sviluppata.
La forza degli inediti
Un aspetto di questa duplice eredità di Marx è stato proprio quello che si suole definire «marxismo». Anche la realtà politico-culturale che si designa con questo termine è stata qualcosa di assai singolare perché ha avuto una duplice natura: da un lato è stata una corrente culturale presente in modo più o meno intenso nei vari ambiti disciplinari, dall’altro è stata anche il riferimento «statutario» di partiti e organizzazioni politiche (socialiste o comuniste): cosicché le discussioni sul marxismo per un verso si sono dipanate come un libero dibattito culturale, per altro verso sono state un elemento della lotta politica tra frazioni e gruppi all’interno del movimento operaio e dei suoi partiti. Ma che rapporto c’è tra il pensiero Marx e il «marxismo»? Un primo aspetto che deve essere messo a fuoco, se si vuole ragionare su questo punto, è che la conoscenza e la diffusione dell’opera di Marx è stata, durante la sua vita e nel tempo immediatamente successivo, decisamente molto limitata. Anzi si potrebbe dire che, su questo tema, viene alla luce una sorta di contraddizione. Colui che è divenuto la fonte ispiratrice di un «ismo», e cioè di qualcosa che comporta inevitabilmente una certa dogmatizzazione, aveva con la propria opera un rapporto decisamente molto critico e problematico. Molti dei suoi scritti, Marx li lasciò semplicemente inediti, per la gioia di coloro che li scoprirono o li pubblicarono quaranta o cinquant’anni dopo la sua morte. E agli inediti appartengono, questo può essere interessante da ricordare, la gran parte dei testi sui quali si è affaticato il dibattito marxista a partire dagli anni Venti del Novecento: vivente, Marx non pubblicò né la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (scritta nel 1843, a 25 anni), né i cosiddetti Manoscritti economico-filosofici del 1844. Non solo, abbandonò in soffitta, alla critica distruttiva dei topi, (seppure dopo alcuni tentativi di pubblicazione non andati a buon fine) anche quello che era un vero e proprio libro scritto con la collaborazione dell’amico Engels, L’ideologia tedesca; un testo non certo trascurabile, dato che vi si trova la prima e la più ampia delineazione di quella «concezione materialistica della storia» che costituisce uno degli apporti più significativi di Marx alla vicenda del pensiero moderno. Di una enorme quantità di manoscritti concernenti la critica dell’economia politica Marx pubblicò pochissimo; in sostanza, solo il primo libro del Capitale (1867, e successive edizioni rimaneggiate) e quella anticipazione delle prime parti di esso che è Per la critica dell’economia politica (1859). I Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (noti anche come Grundrisse), così importanti per la discussione marxista degli ultimi decenni del Novecento, furono conosciuti in pratica solo dopo l’edizione che uscì in Germania orientale nel 1953.
Come Engels giustamente osservava commemorando l’amico, però, non si può parlare di Marx tralasciando l’altro aspetto della sua personalità, quello di militante e dirigente politico. «Lo scienziato non era neppure la metà di Marx. Per lui la scienza era una forza motrice della storia, una forza rivoluzionaria. Perché Marx era prima di tutto un rivoluzionario. La lotta era il suo elemento. E ha combattuto con una passione, con una tenacia e con un successo come pochi hanno combattuto».
Una visione politica
In tutta la sua vita, anche se con alcune interruzioni, Marx è stato un militante e un dirigente politico ma soprattutto, come scriveva Engels, un combattente, che ha lottato per affermare i suoi punti di vista sia verso l’esterno sia all’interno delle organizzazioni di cui era parte. Come politico, dunque, Marx ha sviluppato una ben precisa visione della lotta e della emancipazione della classe operaia, che contrastava nettamente con quelle che venivano proposte dai molti leader con i quali egli si confrontò in quarant’anni di lotta politica: da Proudhon a Lassalle, da Mazzini a Bakunin.
La più netta delle opzioni politiche di Marx è la tesi secondo la quale non vi è salvezza attraverso il miglioramento del sistema sociale dato, ma solo attraverso il suo rovesciamento, cioè attraverso la negazione dei pilastri su cui si basa la sua economia, la proprietà privata delle risorse produttive e la mercificazione dei beni e del lavoro. Sull’opzione antiriformista e rivoluzionaria Marx non avrà mai dubbi, e questo lo divide sia da altri socialisti del suo tempo, sia da quelli che, pur partendo dalle sue acquisizioni, le curveranno in una direzione gradualista o migliorista.
Al testamento spirituale di Marx appartengono organicamente le polemiche che, negli ultimi anni della sua vita, egli indirizza contro l’ala moderata della socialdemocrazia tedesca (vedi ad esempio l’importante lettera ai leader Bebel, Liebknecht e altri, inviata da Londra nel settembre del 1879), il grande partito che, fortemente influenzato dalla sua dottrina, si avviava però, in alcune sue componenti, a darne una lettura riformista o «revisionista».
Ma torniamo al processo di formazione del «marxismo»: gli storici ci informano che l’aggettivo «marxista» viene dapprima utilizzato con un significato dispregiativo: all’interno della Prima Internazionale (fondata nel 1864) i nemici della corrente che fa capo a Marx, e primi fra tutti i seguaci di Bakunin, indicano come «marxidi», «marxiani» (termine modellato forse su quello di «mazziniani») e più tardi come «marxisti» coloro che si rifanno alle tesi del pensatore di Treviri.
Le accuse di settarismo
I «marxisti» sono visti dai loro nemici anarchici come una frazione settaria e autoritaria che cerca di egemonizzare l’Associazione internazionale dei lavoratori. Quanto al sostantivo «marxismo», si può affermare per certo che esso (sempre con un significato polemico) compare nel 1882 nel titolo di un pamphlet di Paul Brousse (ex anarchico francese): Le marxisme dans l’Internationale. Il contesto in cui si inserisce il libello è quello del confronto interno al socialismo francese tra un’ala riformista e una rivoluzionaria ispirata a Marx e facente capo a Jules Guesde; e fu proprio in riferimento a questa contesa che Marx ebbe occasione di osservare, conversando con Paul Lafargue: «Una cosa è certa, che io non sono marxista». Ciò non vuol dire che Marx non fosse d’accordo con se stesso o che fosse contrario al «marxismo». La questione è tutt’altra: se Jules Guesde veniva accusato, dai suoi nemici, di obbedire agli ordini di un «prussiano» che viveva a Londra e che pretendeva di dare indicazioni al socialismo francese, Marx invece non si sentiva così vicino al leader in questione, e dunque ci teneva a sottolineare che non vi era una netta identificazione tra lui e la corrente francese che al suo nome veniva accostata.
Sta di fatto, comunque, che il termine «marxista», dapprima usato in senso critico e polemico soprattutto dagli anarchici, venne positivamente fatto proprio, negli anni Ottanta, dall’ala più radicale dei socialisti francesi: «A poco a poco, i discepoli di Marx in Francia presero l’abitudine di accettare una denominazione che non avevano creato loro e che, destinata fin dall’inizio a distinguerli dalle altre frazioni socialiste, si trasformò alla fine in una etichetta politica e ideologica» (Maximilien Rubel, Marx critico del marxismo, Cappelli).
Fu così che anche Engels, che dapprima non aveva visto con favore l’uso di un termine che, come «marxismo», personalizzava eccessivamente la linea del movimento socialista rivoluzionario, finì per accettarlo e legittimarne l’uso, ovvero per convertire in positivo una parola che era nata con un senso tutto diverso. Come ha ricordato Maximilien Rubel, la cui attitudine nei confronti del compagno di Marx è peraltro, va ricordato, duramente polemica, in una interessante lettera dell’11 giugno 1889 a Laura Lafargue, Engels osservava con soddisfazione che gli anarchici si sarebbero mangiati le mani per avere creato questa denominazione destinata a divenire nel tempo la bandiera di chi la pensava in modo opposto a loro. E, anche con l’imprimatur di Engels, il termine marxismo cominciò ad affermarsi pure nella socialdemocrazia tedesca, della quale sarebbe divenuto il riferimento costante e talvolta anche ossessivo.
Il rischio del fideismo
Ma il punto più importante che deve essere sottolineato è che il ruolo di Engels andò ben oltre quello di legittimare la parola «marxismo». Ciò che molti (tra cui Rubel) hanno sostenuto, infatti, è che Engels fu il vero padre del marxismo nel senso che fu colui al quale si deve non tanto la parola ma proprio la cosa; ovvero fu colui che trasformò il pensiero di Marx in un «ismo», cioè in un sistema di pensiero catafratto e onnicomprensivo, da prendersi in blocco con rischi di dogmatismo e di fideismo. Si annida qui un problema, o se volgiamo un paradosso, sul quale vale la pena di fermarsi per un momento a riflettere.
La storia degli effetti del pensiero di Marx è segnata allo stesso tempo, verrebbe voglia di dire, da una vittoria e da una sconfitta: l’eccezionale risultato che il pensiero di Marx conseguì, e che ne fa qualcosa di unico e di difficilmente paragonabile ad altri percorsi teorici, fu quello di riuscire effettivamente a realizzare l’obiettivo che il giovane Marx si era posto fin dal 1845: superare la scissione tra la teoria e la prassi, ovvero dare vita a una teoria che potesse anche diventare una operativa forza di trasformazione del mondo. Proprio questo accadde nel momento in cui nacquero e si svilupparono partiti e organizzazioni politiche che assumevano questa teoria come loro punto di riferimento ideale.
Questo processo comportò però una conseguenza non altrettanto positiva: divenendo il riferimento «statutario» di partiti e organizzazioni il pensiero di Marx non poté più essere considerato come l’approdo di una ricerca teorica per tanti aspetti anche problematica e incompiuta, da svolgersi e magari da superarsi criticamente, ma fu esposto alla conseguenza di irrigidirsi in una «dottrina», di subire un processo di ossificazione poco compatibile con l’idea di una ininterrotta ricerca critica.
Frantz Fanon e la materia viva dell’oppressione
Nuova edizione e nuova traduzione di «Pelle nera, maschere bianche», l’opera giovanile dello psichiatra martinicano che rivela ancora oggi una forte capacità di interrogare il presente
E che fornisce strumenti per comprendere criticamente il perdurare del diffuso razzismo in Europa e Stati Uniti verso rom, afroamericani, arabi, indigeni
di Roberto Beneduce (il manifesto, 3.12.2015)
L’esplosione è ormai ogni giorno, e continuerà ancora a lungo. Sarebbe stato forse questo l’esordio di Pelle nera, maschere bianche (Ets, pp. 216, euro 20), se Frantz Fanon l’avesse scritto oggi. Perché le esplosioni che egli avvertiva nei muscoli, quando sentiva qualcuno dire «Toh, un negro!» o rivolgerglisi in petit nègre, le esplosioni i cui fuochi già vedeva dalla lontana Fort-de-France, sembrano moltiplicarsi nel nostro presente come un lugubre salmo. Altri corpi, sessant’anni dopo, sono ancora alle prese con quel maledetto «Toh, un negro!»: nelle strade di Los Angeles, a Parma, nella banlieue di Parigi, nei nuovi ghetti in cui il razzismo non cessa di riprodursi.
L’elenco delle circostanze in cui la violenza continua ad affiorare prendendo di mira neri, rom, musulmani, immigrati, insomma quell’umanità «al ribasso», dà al libro di un Fanon allora appena ventisettenne una forza unica, che pochi scritti mantengono allo stesso modo a distanza di oltre sessant’anni. E se ogni epoca rilegge i classici cercandovi risposte ai suoi dubbi, Fanon è un classico indubbiamente atipico: perché è lui che continua a interpellare il nostro presente, e a rendere necessarie nuove traduzioni dei suoi scritti, in grado di estrarre con maggiore adeguatezza idee e argomenti che in quelle precedenti non avevano trovato analoga attenzione. Quella di Silvia Chiletti raggiunge l’obiettivo.
La malta di un pensiero
Oggi Pelle nera, maschere bianche il lettore italiano può assaporarlo finalmente appieno: traduzione meditata, che restituisce la tensione originaria del testo fanoniano e penetra nelle pieghe di uno stile a tratti nervoso, fra parole che vogliono colpire, farsi dardi, proiettili, come lui stesso scriveva in una lettera al fratello Joby, che intendono «provocare», come ricordava il filosofo francese Francis Jeanson nella prefazione del 1952.
Traduzione doppiamente riuscita perché permette di cogliere nella costruzione del testo e nel suo originalissimo linguaggio i materiali e i vocabolari con i quali Fanon costruisce la sua malta: il sistematico procedere hegeliano, la fenomenologia di Merleau-Ponty, l’esistenzialismo di Sartre, e naturalmente la psicoanalisi, quella di Lacan: un autore «contestato come pochi», la cui appassionata difesa dei «diritti della follia» lo interrogano da molti punti di vista, e con il quale a tratti sembra quasi identificarsi («il fatto che i suoi avversari siano di gran lunga più numerosi dei suoi sostenitori, non sembra preoccupare questo logico della follia», aveva scritto l’anno prima nella tesi di specializzazione sull’atassia di Friedreich).
Le traduzioni inglesi che si sono succedute negli anni, da quella del 1967 di Lam Markmann a quella del 2008 di Philcox, passando attraverso l’edizione del 1986 con l’introduzione di Homi Bhabha, hanno conosciuto le stesse incertezze e rivelato come potessero essere riconosciuti, in quello che Mbembe ha definito un «lavoro gigantesco», profili nuovi e aspetti lasciati sino a quel momento in ombra. Per Bhabha, era «il linguaggio psicoanalitico della domanda e del desiderio» l’orizzonte scelto «nell’articolare il problema dell’alienazione culturale nella colonia». Giusto. Nel clima degli studi postcoloniali diventava questo l’orizzonte più significativo. E d’altronde Fanon, nell’esplicitare il suo progetto di dissoluzione del «doppio narcisismo» (quello dei Bianchi e quello dei Neri), scrive sin dalle prime pagine: «In effetti penso che solo un’interpretazione psicoanalitica possa rivelare le anomalie affettive responsabili dell’intero edificio di un tale complesso».
Quel linguaggio costituisce dunque un aspetto certo fondamentale, ma il rischio è quello di dimenticarne altri, altrettanto decisivi, finendo per dare un rilievo eccessivo a quello che è stato il Fanon «postcoloniale». Ogni lettura che voglia però isolare e far prevalere uno solo dei profili a svantaggio del Fanon clinico e militante, o del Fanon lucido analista della dell’apocalisse coloniale e profeta delle sue conseguenze sociali e psichiche, finirebbe col ripetere quel gesto di frammentazione contro il quale aveva protestato Ernesto de Martino quando chiedeva, per sé e per gli altri, che si fosse considerati «persone intere».
Questo rischio deve essere sorvegliato soprattutto al cospetto di una scrittura che si sviluppa con testarda coerenza nel corso degli anni, e non intende trascurare nulla nel realizzare il suo progetto. Se complesso di inferiorità esiste, scrive del resto Fanon, il processo è «economico innanzitutto, di interiorizzazione, o meglio, di epidermizzzione di questa inferiorità, in secondo luogo».
Marx e Merleau-Ponty, dunque, non solo Lacan: perché è dal corpo e dall’esperienza vissuta, dagli sguardi che lo hanno tormentato, che Fanon trae la linfa infinita delle sue riflessioni («non parlo che di cose vissute», questa l’epigrafe, tratta da Nietzsche, posta nella sua tesi di specializzazione).
E soprattutto un’attenzione incessante al tempo e alla storia («l’architettura del presente lavoro si situa nella temporalità»): il colonizzato, il nero che sogna la vendetta nel letto della bianca, l’indocinese nient’affatto docile, il bambino che vede Tarzan, la società antillana nevrotica perché dominata dall’idea del confronto con l’altro. Ciascun soggetto è ancorato al suocontesto, alla storia, e solo da quest’ultima traggono senso la sua esperienza e la sua sofferenza.
La nuova edizione di Pelle nera, maschere bianche, oltre a rispondere a un’attesa diffusa e giungere in un momento in cui la riflessione di Fanon è per più ragioni propizia (il lettore può trovare in italiano ormai tutti i suoi libri, nonché gli scritti psichiatrici, a torto giudicati minori), ha però un altro merito. L’introduzione di Vinzia Fiorino, nell’offrire preziose chiavi di lettura, spinge infatti Fanon a incontrare una riva inconsueta, o meglio «imprevista», come suggerisce la stessa autrice: quella del pensiero femminista italiano in una delle sue espressioni più note, Carla Lonzi.
Oltre le velenose diagnosi
Si tratta di un’operazione doppiamente coraggiosa. In primo luogo perché il dialogo fra Fanon e la donna (antillana, in particolare), individua senza dubbio una delle tensioni più feconde del suo pensiero, ma soprattutto perché in passato a Fanon non sono state risparmiate critiche di ogni genere: omofobo, misogino, sedotto dal mito del guerrigliero algerino con il quale avrebbe tentato di guarire la ferita narcisistica di una mascolinità martinicana ferita e umiliata... A scrivere queste velenose diagnosi, di cui hanno fatto giustizia interpreti rigorosi come Gibson o Sharpley-Whiting, sono state firme prestigiose: da Françoise Vergès a Albert Memmi, quest’ultimo giungendo a sostenere che l’opera di Fanon è essenzialmente motivata da bisogni personali, scandita da un’identificazione con la Francia («con il dominante») e dal «rifiuto di sé». Mediocre psicologismo, ha commentato giustamente Brigitte Riera, adottando un giudizio sin troppo benevolo nei confronti di una critica ingiusta e stizzosa.
Di un libro da leggere e rileggere con pazienza, con passione, devo ricordare almeno un ultimo aspetto, oggi particolarmente saliente. Se per Fanon «inventariare il reale» è «compito colossale», che ci lascia sempre con un senso di incompletezza, se non cessa mai di rivelarsi, nulla nascondendo - a chi sa leggere le sue parole - della propria esperienza, egli chiede (a sé e a noi) l’impegno forse più doloroso, non essere cioè schiavi del passato: «Non ho dunque altro da fare su questa terra che vendicare i Neri del XVII secolo? (...) Io sono il mio proprio fondamento. Ed è superando il dato storico, strumentale, che introduco il ciclo della mia libertà». Domanda sorprendente, affermazione radicale: nasce qui forse l’invito più decisivo di un pensiero che, mai amnesico nei confronti del passato, degli inganni del sapere (quello psichiatrico, in primo luogo), e delle radici oscure dell’alienazione, intende però curare la Storia stessa.
In un momento così difficile per l’Europa, la scelta di ripubblicare Pelle nera, maschere bianche di Frantz Fanon (Edizioni ETS, Collana «Studi culturali», pp. 216, euro 20, cura redazionale di Marica Setaro) non è solamente un’operazione culturale meritoria, è un atto politico. L’attualità di questo testo - spiega Vinzia Fiorino nell’introduzione - è del tutto evidente di fronte «ai significativi processi migratori che negli ultimi anni hanno visto riemergere antichi e beceri razzismi, afflati umanitari, inquietanti silenzi e insulsi balbettii».
Il rinnovato interesse per la figura di Fanon è anche contiguo alla ripresa degli studi su altri maestri del pensiero critico come Michel Foucault, Franco Basaglia e Carla Lonzi: una nouvelle vague che si spiega alla luce «delle trasformazioni epocali che nelle regioni del mondo economicamente più avanzate hanno ridisegnato nuove aree di marginalità e definito inedite perdite di status per figure sociali diverse».
La traduzionedi Silvia Chiletti restituisce la forza prorompente del linguaggio di Fanon, impegnato nel decostruire la realtà circostante per svelarne attraverso l’analisi critica dei discorsile contraddizioni socio-culturali. Tra i danni a lungo termine provocati dal colonialismo figura il desiderio di «lattificazione» innestato dalla società bianca occidentale. «Il Nero non è un uomo. (...) Il Nero è un uomo nero», spiega Fanon: «ciò vuol dire che a causa di tutta una serie di aberrazioni affettive egli si colloca all’interno di un universo da cui bisognerà tirarlo fuori». Agli occhi dello psichiatra lo svelamento del desiderio di «bianchezza» si impone dunque in prima istanza come una terapia (militante) per liberare «l’uomo di colore da se stesso».
Dal punto di vista politico, la critica ai sostenitori della «negritudine», che pure aveva attratto originariamente Fanon, allarga l’orizzonte in direzione di una lotta di più ampio raggio. Scrive Francis Jeanson nell’introduzione francese del 1952: «(Per Fanon), il postulare una salvezza futura delle società umane non apporta alcun rimedio alle disgrazie degli uomini di questo tempo. (...) L’uomo che si tratta di salvare non è l’astrazione di un’epoca inesistente, è il negro strappato dal suo villaggio, il fuciliere senegalese (...), esistenze attualmente in questione, di cui ciascuna è unica, insostituibile, vissuta senza ritorno...».
Le dialettiche di Hegel e Marx, ma anche le categorie psicoanalitiche di Freud e Adler, ne escono quindi fortemente ridimensionate e vengono ricondotte alla loro natura occidentale (centrica). Nello stesso tempo, se la «bianchezza» è un marcatore che«definisce la titolarità della sovranità e i confini della cittadinanza», la lotta per salvare il nero non può che divenire rivoluzionaria per l’intero sistema. La pelle e il corpo saranno il campo di battaglia, il «desiderio», una volta rivelata e superata la nevrosi, lo strumento di liberazione. (Alessandro Santagata)
Robinson Crusoe
Chi ha detto che il protagonista di Defoe è un modello positivo?
L’eterna epopea del naufrago eroe capitalista
di Lucio Villari (la Repubblica, 3.12.2015)
La moderna Europa occidentale - quella del benessere, della ricchezza, del capitalismo industriale e finanziario - deve molto agli schiavi neri, provenienti dall’Africa, al loro lavoro, al loro riprodursi e al contributo fondamentale che hanno dato alla nascita degli Stati Uniti sia quando soffrivano nelle piantagioni del Sud sia quando furono liberati, dopo una sanguinosa guerra civile, dalla loro condizione. Liberati, ricordiamolo, grazie anche all’indignazione morale suscitata da un mediocre romanzo apparso nel 1851. Uno dei libri più celebri e più letti in America e in tutto il mondo: La capanna dello zio Tom. La sua autrice, Harriet Elizabeth Beecher Stowe, fu definita da Lincoln “la piccola donna che vinse la guerra civile”.
Un romanzo del genere non sarebbe stato pensabile, ovviamente, in Europa, dove gli schiavi neri (in America, nel 1861, erano quattro milioni) non esistevano, ma forse avrebbe potuto essere scritto dal qualche discendente di imprenditori, commercianti, banchieri, avvocati, faccendieri, investitori in Borsa, vissuti tra il Seicento e il Settecento. Distinti gentiluomini che quei neri avevano portato in America con un flusso regolare e secolare di navi che partivano a pieno carico dalle coste occidentali dell’Africa. Fecero guadagni da capogiro e con i loro investimenti gettarono le basi della rivoluzione industriale europea.
Lo scrisse chiaramente un quasi coetaneo della Beecher Stowe, Karl Marx. In tante parti del Capitale e in particolare nel capitolo del Libro Primo “Genesi del capitalista industriale” attribuì anche alla tratta degli schiavi «uno dei momenti fondamentali dell’accumulazione originaria ». Ecco una sua frase: «La trasformazione dell’Africa in una riserva di caccia commerciale dei neri è tra i segni che contraddistinguono l’aurora dell’era della produzione capitalistica».
Dal punto di vista letterario le tante pagine che Marx ha dedicato al colonialismo e a uno dei suoi plusvalori più redditizi, la tratta degli schiavi, sono forse più efficaci della prosa della Beecher Stowe. Ad esempio: «La funzione preponderante che ebbe allora il sistema coloniale fu il “Dio straniero” che si mise sull’altare accanto ai vecchi idoli dell’Europa e che un bel giorno con una spinta improvvisa li fece ruzzolar via tutti insieme e proclamò che fare del plusvalore era il fine ultimo e unico dell’umanità».
La ricerca storica ha confermato che la Beecher Stowe e Marx avevano colto nel segno. Una recente indagine della nostra Banca d’Italia ha documentato che dall’Africa partirono, incatenati, per l’America 12 milioni e mezzo di persone. Il pensiero corre, evidentemente, alle centinaia di migliaia di profughi, fuggiaschi, esuli, perseguitati, migranti che continuano a solcare il Mediterraneo in cerca di salvezza, facendo però guadagnare milioni di euro a “imprenditori” africani, mediorientali, europei.
Vedremo sul lungo periodo come andrà a finire questa diversa ma singolare “tratta” di esseri umani. Comunque, tra il Seicento e il Settecento altri esseri umani, presi prigionieri e venduti come merce, diedero un reddito enorme ai “negrieri” e agli armatori delle navi negriere.
Che la cosa allora fosse del tutto normale per gli europei lo prova, tra i tanti documenti che conosciamo, un romanzo tra i più affascinanti della letteratura europea: La vita e le straordinarie sorprendenti avventure di Robinson Crusoe di York. L’opera è del 1719 ed ebbe un successo enorme. Robinson, vissuto, come è scritto nel titolo, “ventotto anni tutto solo in un’isola disabitata presso le coste dell’America”, è un’invenzione letteraria sulla quale si è detto tutto.
Ma ancora oggi a qualche lettore forse possono sfuggire alcune singolari pagine di Defoe che svelano alcuni lati inediti di Robinson, la cui vicenda umana e la cui capacità di sopravvivenza sono sempre state lette come simboli, come mito dell’intelligenza pragmatica, della solidità morale, della abilità consapevole. Anche il nostro Marx fu colpito dal fascino sottile del romanzo e, sempre nel Capitale, sottolineò che «tutte le relazioni tra Robinson e le cose che costituiscono la sua ricchezza sono semplici e trasparenti. In esse sono contenute tutte le determinazioni essenziali del valore ».
Ma un lettore più acuto e ironico fu James Joyce che in una conferenza tenuta a Trieste nel 1912 dichiarò: «Tutta l’anima inglese è in Crusoe: l’indipendenza virile, la crudeltà inconscia, l’intelligenza tardiva eppur efficace, l’apatia sessuale, la religiosità pratica, la taciturnità calcolatrice».
Ma né Marx né Joyce si erano accorti che il “marinaio” Robinson non era affatto un marinaio, ma un avventuriero in cerca di fortuna. Non contento di essere divenuto proprietario terriero in Brasile, aveva fiutato nuovi affari più redditizi. Era diventato un trafficante di schiavi. E fu in uno dei suoi viaggi come negriero che era naufragato in un giorno di settembre del 1659. La sua vita di prigioniero su un’isola deserta non cambiò il suo modo di essere e di pensare.
Defoe mostra un uomo la cui struttura morale e culturale resta inalterata nella solitudine di quegli anni, mantenendo i tratti duri e invincibili del proprietario, del padrone (questa è la prima parola che insegna a Venerdì), del colono bianco (nell’isola deserta, oltre all’abitazione fatta all’inizio con duro lavoro manuale «avevo la mia residenza di campagna; e anche lì, possedevo ora una discreta colonia»).
Tutto questo fa parte della struttura portante del racconto di Defoe, ma c’è in lui una strana consapevolezza nel far muovere, nel romanzo, il suo straordinario personaggio che, nonostante tutto, tende alla mediocrità opportunista più che, dopo quell’esperienza eccezionale, a significati e valori alti. Infatti, uscito vivo dalla prigionia, Defoe fa ritornare Robinson sull’isola, dove intanto si erano insediati degli scampati da altri naufragi e loschi figuri d’ogni genere. Torna con intenzioni precise: «suddivisi l’isola tra loro riservandomene la proprietà ». Anche da qui cominciava “l’accumulazione originaria”.
Tempi presenti.
La filologia vivente di Marx
Intervista con il filosofo tedesco Peter Jehle, direttore editoriale dell’Istituto di teoria critica e protagonista del monumentale progetto internazionale di un «Dizionario storico-critico del marxismo», ormai giunto alla pubblicazione di nove volumi
di Gianpaolo Cherchi (il manifesto 26.11.2015)
Il Dizionario Storico-Critico del Marxismo è un progetto unico nel suo genere, non solo per le dimensioni monumentali e per il carattere internazionale che esso assume (si pensi solo ai numerosi collaboratori che partecipano da ogni parte del mondo), ma soprattutto per il momento storico preciso in cui una simile operazione ha luogo: un periodo che, oltre ad essere assai povero di criticità nel dibattito politico internazionale, anche sul piano culturale sembra aver perso un orizzonte critico di riferimento.
Carenza di criticità che ha portato ad una situazione assai lontana dalla «fine delle ideologie» prospettata da Francis Fukuyama: quella in cui viviamo, infatti, è in realtà l’era più ideologica della storia, con l’affermazione su scala globale del modello capitalista, supportato e mai contraddetto dalle nuove democrazie liberali.
In un tale contesto, quello di un Dizionario Storico-Critico del Marxismo (HKWM, n.d.r.) rappresenta un punto di assoluta importanza e di rilievo internazionale. Abbiamo intervistato Peter Jehle, responsabile del progetto editoriale, nonché membro dell’Istituto berlinese di Teoria Critica (InKriT; www.inkrit.de).
Ci vuole illustrare il progetto dell’HKWM?
Come si può facilmente prevedere, l’influenza storica del pensiero di Marx delinea il principale ambito tematico del HKWM. Ma l’indagine di Marx conduce più lontano: il «marxismo», così come è interpretato dal HKWM, è tutt’altro che un fenomeno isolato, settario o specialistico, ma ha sviluppato e diffuso un cambiamento radicale a livello sia pratico che teorico nelle questione relative le forme di socializzazione e le relazioni dell’uomo con la natura. Si tratta di questioni generali, che riguardano l’intero orizzonte della vita umana. L’indagine di Marx rintraccia le condizioni storiche del dominio e dello sfruttamento, ed è stata ampliata, elaborata e sostenuta scientificamente in un immenso processo di ricerca. Il HKWM, pertanto, indaga nel passato, come una sonda, allo scopo di comprendere gli sviluppi scientifici, tecnici e culturali del nostro tempo.
L’elemento più interessante del Dizionario è che esso non si risolve in una semplice opera di «filologia marxista», ma accoglie e rielabora nuovi concetti politici e cerca di inserirli all’interno di una mappatura teorica in continua evoluzione, e che talvolta si trova a dover rendere conto di posizioni contrastanti e differenti all’interno della costellazione teorica marxiana, e che si riferiscono a pratiche politiche, movimenti sociali e approcci teorico-critici differenti. Come è possibile mantenere insieme questa pluralità di voci?
Come abbiamo scritto nella prefazione al primo volume del Dizionario, nel 1994, un marxismo sostenibile deve essere in grado di affrontare i problemi di sopravvivenza dell’umanità persino in una «astronave terra». Da allora, dopo vent’anni, sono stati pubblicati (considerando anche le divisioni in tomi) altri 11 volumi, nei quali quell’affermazione ha trovato una conferma: oltre al movimento operaio e alle esperienze socialiste e comuniste, sono comprese anche le questioni relative alla crisi ambientale e al movimento femminista, così come hanno trovato un ampio spazio anche la teologia della liberazione e la questione post-coloniale del «terzo mondo».
Il significato del nostro progetto, ovvero quello di essere un dizionario «storico-critico», assume pertanto un nuovo significato, che lo porta a trascendere e andare oltre l’aspetto puramente archivistico-editoriale, rispettandone allo stesso tempo le regole. Vi sono certo delle contraddizioni alle quali il nostro progetto deve far fronte, come quella di conciliare un lavoro dal respiro internazionale che nonostante tutto viene pubblicato in una lingua nazionale, o la tensione fra una vocazione globale del progetto e la sua gestione locale, o ancora quella di un quadro di riferimento unitario all’interno del quale sia tuttavia possibile dare espressione a una molteplicità di voci, a una pluralità di movimenti sociali.
All‘indagine nel passato si accompagna dunque una attenzione sempre rivolta alle esperienze sociali più recenti. Il futuro della politica pare giocarsi, oggi, proprio sulla capacità di azione e di incisione non solo pratica, ma anche teorica, dei movimenti sociali. La teoria marxista è veramente così distante da essi? Nello specifico, quale contributo può fornire un progetto come quello dell’HKWM?
Se sul piano teorico il principale contributo di Marx è stato l’analisi del capitalismo, sul piano pratico è stato la nascita del movimento operaio, il quale ha agito da guida programmatica per il movimento internazionale dei lavoratori. Ma la domanda di Marx è basata sull’imperativo categorico di inquadrare nella prospettiva critica di un mutamento sociale tutte le condizioni «in cui l’uomo è umiliato, reso schiavo, abbandonato, ridotto ad una essenza spregevole»: quella domanda, la sua domanda, va ben oltre ogni movimento di emancipazione.
Il movimento operaio, così come i movimenti sociali, devono imparare a riflettere sul proprio ruolo e sulla propria azione in modo critico, ripetutamente. Come sostiene il direttore del progetto, Wolfgang Fritz Haug, è necessario che essi sviluppino «un rapporto storico con i propri concetti e un atteggiamento critico nei confronti della propria storia». Questa consapevolezza critica non si deve limitare a una semplice e banale conoscenza storica, ma deve essere uno strumento in grado di affrontare le problematiche del mondo di oggi. Così nel Dizionario appaiono voci come «Hacker», «Hollywood», «Jeans»... Come appare anche la voce «Lorianismo», termine utilizzato da Gramsci per definire quegli intellettuali privi di spirito critico, che si può applicare, naturalmente, anche a certi autori marxisti.
Si tratta, allora, di una opera di ricostruzione storico critica del pensiero marxista in una forma auto-riflessiva, o meglio auto-critica?
La fine del marxismo-leninismo ha lasciato un debito storico, un enorme cumulo di macerie che minaccia di seppellire e cancellare definitivamente, insieme agli elementi irrazionali e pericolosi, anche i germi sommersi di un possibile futuro che nel marxismo erano contenuti. La possibilità di una auto-riflessione critica sulle proprie posizioni teoriche, l’idea stessa di una auto-critica, era un tabù nel socialismo sovietico, nel socialismo di Stato. Non tutti hanno ancora compreso che un simile tabù verso la critica, verso l’auto-critica, porta alla paralisi politica e sociale. Si pensi a Rosa Luxemburg, o allo stesso Gramsci.
Quando si parla di «Teoria Critica» si pensa immediatamente all’Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte sul Meno, e ad autori quali Adorno, Horkheimer, Marcuse. Che tipo di rapporti ha InkriT con Francoforte? E che tipo di posizionamento teorico assume rispetto alla Teoria Critica?
Il HKWM è un progetto politico, che deve tuttavia essere portato avanti rispettando le logiche «apolitiche» di un lavoro scientifico e teorico, del tutto impossibile senza una adeguata attitudine accademica, senza una suddivisione disciplinare del lavoro, e senza un affiancamento costante alla ricerca. Aspetti, questi, che ci avvicinano al lavoro portato avanti dalla Scuola di Francoforte. Tuttavia, l’InKriT non vuole spodestare la Scuola di Francoforte, appropriandosi del termine «Teoria Critica»: è nota a tutti la profondità di significato che questo termine ha assunto, tanto che quando ci si riferisce alla Teoria Critica francofortese si adoperano le lettere maiuscole. Noi scriviamo «teoria critica», a caratteri minuscoli; e significa semplicemente che non abbiamo nessun rapporto privilegiato con la Scuola di Francoforte. Come Benedetto Croce ha voluto distinguere cosa è «vivo» e cosa è «morto» in Hegel, allo stesso modo noi intendiamo fare con la Teoria Critica.
Grazie al concetto di critica dell’ideologia possiamo, per esempio, ricominciare a considerare in maniera neutrale Lenin e il marxismo. È la dimostrazione del guadagno cui si va incontro nell’appoggiarsi ancora al concetto marxiano di critica dell’ideologia, poiché grazie ad esso si può costruire qualcosa di produttivo. Mentre invece, la dicotomia habermasiana tra lavoro e interazione sociale, ha limitato la prospettiva di Marcuse riducendola ad una forma di razionalità alternativa nelle scienze e nella tecnica, a scapito di una critica globale, ecologica, al capitalismo. Se in molte voci del nostro Dizionario facciamo riferimento alla Critica francofortese, lo facciamo chiamandola in causa sia come soggetto che come oggetto di indagine, sia come strumento che come materiale di analisi.
Viviamo in una condizione che obbliga e costringe il pensiero alla fatica, al dolore, ma anche al potere del negativo, per dirla con Adorno. Il pensiero oggi deve trasformarsi in una critica spietata per mantenere le condizioni di sopravvivenza: solo in questo modo, attraverso una critica che sia in grado di illuminare la coscienza e riattivare l’immaginazione sociale, sarà possibile salvare l’umanità dalla rovina.
SCAFFALI 800 autori e 15 volumi. E non solo
«Neofordismo», «Egemonia», «Razionalità tecnologica», «Femminismo», «Riforma Agraria». Sono solo alcune delle voci che compongono il monumentale lavoro del Dizionario Storico-Critico del Marxismo (HKWM), il cui progetto editoriale, a cura dell’Istituto di Teoria Critica di Berlino (InkriT) e della rivista «Das Argument», è diretto da Wolfgang Fritz Haug ed è supportato da un comitato editoriale di cui hanno fatto parte, tra gli altri, Pierre Bourdieu, Étienne Balibar, Jacques Derrida, Eric Hobsbawm.
Nato inizialmente nel 1983, traducendo il «Dictionnaire Critique du Marxisme» fino al 1989; dopo il crollo dell’URSS si è modificato in un programma di più ampio respiro, raccogliendo collaboratori da tutto il mondo. Attualmente sono stati stampati 8 volumi (l’ultimo in due tomi), mentre il numero 9/I è in lavorazione (con le voci «Maschinerie-Mitbestimmung»). L’opera completa comprenderà ben 15 volumi, oltre 1500 voci e il contributo di oltre 800 autori da diverse parti del mondo, e sarà il più ricco, completo e internazionale dizionario sul marxismo. Per avere maggiori dettagli sul progetto è possibile consultare il sito web dell’Istituto di Teoria Critica di Berlino (www.inkrit.de).
Artefici del proprio destino
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 21 Novembre 2015)
Angelo Mastrandrea racconta un sogno: lavorare senza padroni. Per un paio d’anni ha viaggiato in Grecia, Francia, Italia. Ha incontrato gli operai della Montefibre di Acerra, nel cuore della terra dei fuochi, e ha raccontato il sogno realizzato delle fabbriche recuperate. Ha raccontato le vicende drammatiche della tv pubblica greca Ert, chiusa dal governo Samaras, occupata e recuperata dai giornalisti e lavoratori come ai tempi delle radio libere in Italia. Ha tracciato il profilo della rete «Solidarity4all» che non si limita al mutuo soccorso in Grecia, ma sostiene la nascita di un modello cooperativo per ricostruire il lavoro perduto. La punta di diamante di questo movimento sono i lavoratori della Vio .Me.
Con lo stile del reporter classico, Mastrandrea si è mescolato con gli studenti del liceo sperimentale post-sessantottino di Saint-Nazare che dal 1981 autogestiscono la loro scuola. «Non mi pare che ci sia una gran differenza con gli operai che recuperano una fabbrica - annota - Entrambi vogliono realizzare un’antica aspirazione umana: l’autodeterminazione». I racconti della nuova stagione internazionale dell’autogestione e della creazione di un’economia cooperativa formano oggi un libro, Lavoro senza padroni (Baldini e Castoldi, pp.175, euro 15), e offrono un’intuizione.
Dall’Argentina al vecchio continente, la crisi delle multinazionali ha portato a drammatiche crisi occupazionali, ma anche a realizzare l’impensabile. Gli operai messi in cassa integrazione, disoccupati, non sono «vite di scarto», ma singoli capaci di elaborare complesse strategie morali, politiche e collettive. Da Roma a Buenos Aires, dalla Ri-Maflow a Trezzano sul Naviglio fino a Città del Messico, hanno elaborato un modello comune di workers economy, un’economia fondata sui lavoratori che si contrappone all’economia finanziaria che sta distruggendo il tessuto produttivo in Europa come altrove.
La curiosità teorica porta Mastrandrea a ricongiungere le fila di un discorso politico che viene da lontano. Le origini della workers economy risalgono a una certa linea del socialismo del XIX secolo, sono riemerse nella teoria del Gramsci greco, l’althusseriano Nikos Poulantzas quando enunciò in Lo Stato, il potere, il socialismo una teoria di un socialismo articolato sul doppio potere: da un lato, la democrazia rappresentativa radicalmente rivista, dall’altro lato lo sviluppo di «forme di democrazia di base e di un movimento auto-gestionario» in grado di «evitare lo statualismo autoritario».
Quello dell’autogestione è un movimento che ha conosciuto diverse fasi, dagli anni Settanta a oggi, in Italia e nel resto d’Europa. Credibilmente, questa esperienza è alla base di una parte non trascurabile del percorso che ha dato vita a Syriza. Sarebbe, anzi, interessante raccontare cosa sta accadendo oggi in Grecia, dopo la drammatica capitolazione di Tsipras nell’Eurogruppo di luglio.
Più in generale il problema riguarda il destino di questa «economia di transizione» a un nuovo, immaginoso, «socialismo»: quali sono i suoi strumenti per affrontare il potere e le sue tecniche di cattura amministrativa o giudiziaria? E poi, in che modo queste esperienze di auto-gestione si pongono rispetto ai progetti di rigenerazione dei luoghi in disuso (stazioni e fabbriche comprese) già in atto a Milano e in tutte le «smart city»? Non rischiano di essere riassorbite dal capitale neoliberale e dai suoi progetti di speculazione sulla condivisione nella «sharing economy»?
Lavoro senza padroni è in ogni caso un libro che recepisce la carica etica di uomini e donne di mezza età, di molti giovani, di reagire alla crisi e inventarsi un’altro modo di cooperare e di possedere. Mastrandrea immagina il passaggio dalla proprietà privata alla proprietà sociale. Dal suo racconto minuto delle difficoltà amministrative, commerciali, produttive affrontate da questo popolo di sperimentatori emerge una passione comune: l’entusiasmo.
«Questa è la principale molla emotiva. Un sentimento che deriva dall’idea di essere artefici del proprio destino, senza sentirsi pedine di un gioco nel quale non si decide nulla». Mastrandrea racconta la vita dei cittadini nel XXI secolo, capaci di reinventare un lavoro che non esiste più - quello della produzione fordista di massa - riconnettendosi con le passioni gioiose rimosse dalla società del rancore organizzato.
Expo 2015, la Carta di Milano che divide. “Afferma diritto al cibo”. “Nessun obiettivo concreto su riduzione sprechi”
Il documento considerato una delle principali eredità dell’esposizione universale è al centro del dibattito. Nasce con l’obiettivo di essere un manifesto “concreto” contro denutrizione e malnutrizione, ma secondo Caritas, Slow food e Oxfam Italia è generica e lacunosa. La parola "obesità" compare una sola volta, per non scontentare gli sponsor Coca Cola e Mc Donald’s
di Luigi Franco (Il Fatto, 31 ottobre 2015)
Da un lato ha il merito di avere portato all’attenzione del dibattito pubblico i problemi del sistema alimentare e il tema della lotta alla fame. E secondo il capo dello Stato Sergio Mattarella “ha affermato il diritto al cibo e all’acqua come parte essenziale di un più ampio diritto alla vita, dal quale d’ora in avanti non si potrà prescindere nel valutare l’applicazione di diritti umani universali”.
Dall’altro secondo Caritas, Slow food e Oxfam Italia ha il difetto di essere generica e lacunosa. Tanto che la Carta di Milano, una delle eredità principali di Expo, è rimasta senza la loro firma. Il documento è stato pensato per riempire lo slogan Nutrire il pianeta, energia per la vita di quei contenuti spesso assenti nei padiglioni che a breve verranno smantellati. L’hanno sottoscritta 1,1 milioni di persone, prima che venisse consegnata al segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon. “E’ stata tradotta in 19 lingue ed è potenzialmente leggibile da 3 miliardi e mezzo di persone”, ha detto con vanto il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina per spiegare “la dimensione della straordinarietà di questa iniziativa”.
Ma quello che è stato definito un manifesto “concreto” che coinvolge tutti “nel combattere la denutrizione, la malnutrizione e lo spreco, promuovere un equo accesso alle risorse naturali, garantire una gestione sostenibile dei processi produttivi” ha una pecca: che in realtà di “concreto” ha ben poco. Ed è proprio questa la critica principale mossa da chi non ha firmato.
“Contiene delle buone intenzioni, sulle quali è facile essere tutti d’accordo”, sostiene Gaetano Pascale, presidente di Slow Food Italia, che pur riconoscendo alla carta “il merito di mettere in discussione il sistema alimentare attuale” sottolinea come non vengano toccati per nulla alcuni nodi: “La proprietà dei semi, l’acqua come bene comune, i cambiamenti climatici. E poi non prevede impegni concreti per i governi e le multinazionali”.
Nella decina di pagine del documento mancano infatti obiettivi precisi. Qualcosa in più c’era nel Protocollo di Milano preparato dalla fondazione Barilla Center for Food & Nutrition, uno dei testi che il governo ha preso a ispirazione per scrivere con il contributo di altre organizzazioni la Carta di Milano. Lì erano elencati obiettivi del tipo “ridurre del 50 per cento entro il 2020 l’attuale spreco di oltre 1,3 milioni di tonnellate di cibo commestibile”.
Niente di cui ci sia traccia nella Carta, fatta per lo più di una successione di punti generici per dire quanto sia inaccettabile “che ci siano ingiustificabili diseguaglianze nelle possibilità, nelle capacità e nelle opportunità tra individui e popoli” o come sia necessario impegnarsi a “consumare solo le quantità di cibo sufficienti al fabbisogno”. Principi con cui è impossibile non essere d’accordo. “Per raggiungere l’obiettivo politico di essere firmata da un numero ampio di soggetti - commenta Pasacale - ne è uscito un documento annacquato nei contenuti”.
Così alle critiche del collettivo Costituzione Beni Comuni sul ruolo determinante giocato da una multinazionale come Barilla nel redigere una carta di tutti, si sono aggiunte pure quelle di Slow Food, della Caritas e dell’associazione contro la povertà Oxfam Italia, che avevano pure partecipato al processo di stesura. Solo che alla fine sono saltate tematiche come quelle legate ai semi, all’acqua e al clima. E sono stati tagliati pure gli ogm, la perdita della biodiversità, le speculazioni finanziarie sulle materie prime alimentari e il land grabbing, il discusso accaparramento su larga scala di terreni agricoli in paesi in via di sviluppo da parte di governi e compagnie straniere.
Ne è venuto fuori quello che in un servizio della trasmissione Report Luca Virginio, responsabile comunicazione della Barilla, ha definito un documento “diplomatico”, aggiungendo che “probabilmente l’esposizione universale non può essere diplomaticamente parlando la piattaforma giusta per raggiungere determinati obiettivi”. Insomma, parlare di land grabbing avrebbe potuto infastidire paesi come la Cina, che ne è uno dei principali fautori in Africa, mentre la speculazione finanziaria sarebbe stata un tema inappropriato per avere il favore dei gruppi bancari.
E poi c’erano da tenersi buoni anche sponsor come Coca Cola e Mc Donald’s, presenti all’interno del sito con i loro padiglioni. Forse è per un malcelato riguardo nei loro confronti che la parola “obesità” compare nella Carta di Milano sola una volta, contro le 11 citazioni del documento targato Barilla. Ecco così spiegate le parole di Michel Roy, segretario generale di Caritas Internationalis: “Nella Carta di Milano non si sente la voce dei poveri del mondo, né di quelli del Nord né di quelli che vivono nel Sud del pianeta”. Un documento, dunque, che non osa e riflette il punto di vista dei Paesi ricchi. Solo un punto di partenza sulla via della lotta alla fame.
PER LA CRITICA DEL CAPITALISMO E DELLA SUA TEOLOGIA "MAMMONICA" (Benedetto XVI, "Deus caritas est", 2006).
CON MARX, OLTRE:
Il circolo degli uomini
di Lea Melandri (Comune-info, 26 ottobre 2015)
Nel libro L’ultimo paradosso (Einaudi 1986), presentato come “un quaderno di appunti, note, osservazioni, pensieri sui problemi fondamentali dell’esistenza”, Alberto Asor Rosa scrive:
“Uomini. Sediamo da secoli in gruppo intorno ad una tavola - non importa se rotonda o quadrata - impartendo il comando cui la nostra funzione ci abilita, distribuendo il potere che il nostro ruolo ci assegna. Anche fra amici indossiamo corazza: i momenti più intimi della nostra conversazione passano tra celate accuratamente abbassate. Le nostre mani sono chele in riposo. Gli orgogliosi sanno fare tutto questo con dignità e fierezza, i vili lo ostentano codardamente per incutere timore: ma gli uni e gli altri stanno diritti solamente perché c’è una corazza a sostenere il filo della schiena o una spada a cui appoggiare il fianco stanco. Il nostro volto, il nostro corpo sono pur là, dietro quelle biancheggianti, livide spoglie. Ma non oseremmo pensare di rinunciare al nostro circolo e alle sue leggi neanche se ci fosse promessa in cambio una libertà sconfinata, una gioia senza pari. Sediamo, intenti a noi stessi, alla nostra forma, al nostro decoro, al nostro eroismo, alla nostra dignità: al nostro essere-per-sé, custodito da un simulacro d’acciaio e da una maschera di ferro. Intorno a noi ci sono soltanto o subalterni o buffoni: e tra essi mettiamo le donne, alle quali per giunta presumiamo di piacere e di dar piacere ostentando le virtù cavalleresche, ossia tutto ciò che più ci allontana da loro. A forza di tenere il corpo in armatura, ne risultiamo un poco rattrappiti, le giunture scricchiolano e nel muovere ci procurano dolore. Talvolta ci sorge il sospetto che il nostro sacrificio, offerto a divinità tanto astratte quanto crudeli come quelle che compongono la religione dell’ascetismo guerriero, sia scontato ed inutile, e persino oggi un poco patetico: ed aspiriamo ad uscire da qualche crepa della vecchia armatura, a scivolare furtivi sotto quel tavolo, per guadagnare la porta della riunione a uscire a respirare aria pura.
Ma appena fissiamo lo sguardo nello sguardo dei nostri compagni, attraverso la fessura della celata... e vi scorgiamo la nostra stessa disperazione, la nostra prigionia, il nostro dolore, il nostro stesso smisurato orgoglio, il nostro disprezzo per tutti gli estranei alla cerchia - non appena sguardo con sguardo di nuovo s’incatena, subito il desiderio di libertà, l’ansia di gioia ci abbandonano -, e scopriamo che non potremo mai lasciarli... L’unico passo in avanti nella cultura degli uomini da due millenni a questa parte è stato la soppressione del re: ma questa soppressione non ha cancellato il circolo, se mai lo ha rafforzato, liberandolo della maglia più debole. Sono secoli che gli esseri umani maschili vivono così; e con questo modo di vita affonderanno”.
Se le donne hanno dovuto faticosamente, tra mille inganni e ostacoli, “prendere coscienza” di un’oppressione, peraltro evidente, e sopportare che questa lucidità si rivelasse estremamente fragile, pronta a scomparire dopo ogni piccola conquista, gli uomini, ragionando su una rappresentazione del mondo prodotta dalla storia dei loro simili hanno evidentemente una via di accesso più facile alla messa a nudo del sessismo, delle logiche d’amore e di violenza che lo sostengono, nonostante i progressi della civiltà. Perché allora quella difesa estrema, sempre meno convinta eppure ostinata, della neutralità, che si esprime non solo nel cancellare dalle analisi politiche il rapporto tra i sessi, ma anche in quella copertura che è la sua distorta collocazione tra le questioni sociali: emarginazione, cittadinanza incompleta, sfruttamento economico, beni comuni, ecc.?
Le donne sembra che stentino a “sapere” quanto è profonda l’espropriazione che hanno subito, quanto siano ancora lontane dalla percezione di sé come individualità intere, corpo e pensiero, quanto siano propense ad accontentarsi di una emancipazione che le porta sulla scena del mondo con le stesse attribuzioni per cui ne sono state allontanate: corpo, sessualità, maternità. Anche sulla violenza che subiscono quotidianamente, e che risulta essere ancora la causa prima della loro morte, cala spesso l’invisibilità, frutto di paure, intimidazioni, così come di desideri e fantasie amorose mal riposte.
Per quanto riguarda gli uomini, viene invece il sospetto che “sappiano” e che sia proprio l’evidenza del privilegio toccato loro storicamente e diventato “destino”, copione di comportamenti obbligati, a dover essere in qualche modo aggirata, perché colpevolizzante e quindi innominabile.
La comunità storica maschile ha visto cadere imperi, muraglie, confini, odi che sembravano irriducibili, eppure esita a far cadere le fragili pareti che separano la sua civiltà dalla porta di casa, l’immagine della sua “virilità” pubblica dalla posizione di figlio,fratello, padre, marito, amante.
Ma tutto ciò che scorre innominato sotto la storia rischia di diventare col tempo la galassia che la conduce a sua insaputa, che la ricopre via via di macerie e la tiene con lo sguardo rivolto all’indietro, cosicché la speranza finisce per confondersi con la nostalgia, e il corpo femminile, su cui ancora si pretende di esercitare un possesso indiscusso, diventa, immaginariamente, la terra feconda, incontaminata, di rinascite a venire.
Expo, perché non porterei i miei alunni
di Alex Corlazzoli*
Expo sì, Expo no. Alla fine ci sono andato (a moderare un dibattito) e mi sono convinto che non porterei mai una classe di ragazzi all’Esposizione mondiale, la Gardaland di Milano. Chi fa il maestro ha il dovere di chiedersi: cosa voglio insegnare ai ragazzi? Come voglio parlare loro del cibo, della terra, dell’aria? Vogliamo dire la verità ai futuri cittadini o mostrare loro una cartolina patinata del mondo? Ecco, se quest’ultima è la vostra intenzione, allora potete andare a visitare Expo 2015. Troverete un grande gioco: potrete timbrare il vostro “falso” passaporto (5 euro a documento) ad ogni Paese che visitate; divertirvi a fare l’henné sulle mani grazie alle donne ugandesi o della Mauritania; saltare sulle reti elastiche del padiglione del Brasile; fare fotografie seduti in una finta tenda berbera; realizzare il vostro menù greco preferito; scrivere il vostro nome con i chicchi di caffè o comprare braccialetti ricordo fatti con i semi. Ma non chiedetevi chi lavora quel caffè; non domandatevi quanti pozzi sono stati distrutti nei terreni dei territori occupati della Palestina; non azzardatevi a capire chi lavora nei campi del Mozambico o del Burundi; non iniziate a farvi domande sui landgrabbing, i ladri di terra. Expo non è il posto dove farvi questi interrogativi e nemmeno dove trovare risposte.
Girando tra i padiglioni dell’esposizione ho avuto la sensazione di aver fatto qualche errore: forse ho sbagliato, durante le lezioni di scienze, a raccontare ai miei ragazzi che il consumo giornaliero di acqua in Africa è di 30 litri rispetto ai 237 in Italia. Probabilmente ho raccontato una frottola quando ho parlato loro dei conflitti per l’oro blu. Devo aver letto male i dati sul Kenya dove il benessere di pochi (2%), è pagato con la miseria di molti (circa il 50% della popolazione vive sotto il livello di povertà). Devo aver visto un altro film finora perché ad Expo non ho trovato una sola riga, una sola informazione che raccontasse alle migliaia di persone che passano in quei padiglioni, il dramma che vivono le popolazioni africane.
Sono partito dalla Palestina: non un’immagine, una riga, una fotografia dell’occupazione. Ho chiesto come mai e mi è stato risposto che “non era opportuno”. Ho pensato che la scarsità di informazioni riguardasse solo quel Paese. Ho provato ad entrare negli spazi dell’Eritrea, della Giordania, della Mauritania: nulla di più che una sorta di mercatino dei prodotti locali, qualche bandiera, poche fotografie. Zero informazioni. Ho pensato che fosse impossibile ma nemmeno in Algeria ho trovato qualche spiegazione se non una bella esposizione di vasellame e di abiti tradizionali. Mai un solo cenno ai problemi di un Paese. A Expo il mondo è tutto bello: l’importante è non sapere.
Non ho imparato nulla visitando il padiglione del Burundi, del Ruanda, dell’Uganda. Nello Yemen hanno persino tentato, come in ogni mercato, di vendermi tre braccialetti con la tecnica dei venditori di strada: “Provali. Quale ti piace? Ti facciamo uno sconto”. Eppure i bambini e i ragazzi che lavorano nelle piantagioni di cacao africane sarebbero, secondo alcune stime, più di 200mila di età compresa tra i cinque e i quindici anni, vittime di una vera e propria “tratta”. L’ Unicef ricorda che 150 milioni di bambini tra i 5 e i 14 anni nei Paesi in via di sviluppo, circa il 16% di tutti i bambini e i ragazzi in quella fascia di età, sono coinvolti nel lavoro minorile.
A citare i problemi della terra ci ha pensato il Vaticano, presente ad Expo: 330 metri quadrati per dire ai cittadini attraverso una mostra fotografica e un tavolo interattivo che esiste il problema della sete, dell’ingiustizia, della fame. Tutto per slogan, nulla di più. E’ a quel punto che mi è venuta una curiosità, alla fine della rapida spiegazione dell’addetto della Santa Sede: “Scusi, quanto è costata la realizzazione?”. Risposta: “Mi dispiace non lo so”. Cerco la risposta via Twitter all’account del Vaticano (@ExpoSantaSede) che mi rimanda ad un articolo che parla della “sobrietà del padiglione”, secondo le parole del cardinale Gianfranco Ravasi. Viene da fare due conti: un’organizzazione italiana mi ha riferito di aver speso per partecipare a Expo (per organizzare eventi, padiglione, personale) circa 700 mila euro. E il Vaticano quanto avrà sborsato per dire che c’è la fame, la sete e l’ingiustizia? 3 milioni di euro equamente ripartiti tra Santa Sede, Cei, Diocesi di Milano e Cattolica Assicurazioni che ha offerto il suo contributo per l’allestimento delle opere d’arte.
Alle 21, stop. Ho deciso: meglio non portare i bambini a Expo. Che capirebbero del cibo, dello spreco, delle risorse?
Un solo consiglio: se proprio ci andate, vale la pena visitare il padiglione zero e quelli della Svizzera e dei Brunei. Naturalmente non li ho visti tutti, potrebbero essercene altri all’altezza di quest’ultimi. E non ho nemmeno timbrato il passaporto.
Un’ultima osservazione: non cercate un’edicola o una libreria (magari dedicata al cibo) a Expo. In una giornata non le ho trovate. Se le avete viste avvisatemi.
Infine due curiosità. La prima: andata e ritorno Treviglio - Milano Expo con Trenitalia è gratis, nessuno è passato a controllarmi il biglietto. La seconda: arrivato ai tornelli mi sono trovato di fronte delle file chilometriche. Avendo un appuntamento alle 10,30 ho tentato di passare attraverso il passaggio dei media pur non avendo l’accredito ma solo un regolare biglietto. Nessun problema: nessuno ha badato al fatto che avessi o meno il pass. Un abito elegante e una borsa d’ufficio ed è fatta. Fila evitata.
. * Giornalista, ma prima di tutto maestro, è autore di alcuni libri, tra cui Ragazzi di Paolo (Ega 2002), Riprendiamoci la scuola (Altreconomia) e Gita in pianura (Laterza). Da diversi anni promuove NonSoloACrema: un programma di appuntamenti con gli autori per portare la cultura anche in campagna, nei più paesi più piccoli. L’articolo di questa pagina è apparso anche su un blog de ilfattoquotidiano.it e qui con il consenso dell’autore.
Lettere
SEI TU A DIRMI CHI SONO IO
Nessuno di noi nasce con un’identità, perché l’identità è frutto del riconoscimento che ci proviene da chi ci è accanto, quindi è un fatto sociale
RISPONDE Umberto Galimberti (la Repubblica - D, 12 settembre 2015)
Perché le si raggela il sangue per un’ovvietà così evidente? Teme la responsabilità di non avere consegnato a sua figlia un’identità adeguata? Non si preoccupi. Non c’è solo lei nel mondo della sua bambina, e tanti concorrono a formarle l’identità. Perché l’identità è un dono che ci fanno gli altri. Noi non nasciamo con un’identità, ma la acquisiamo dalle relazioni con gli altri che ci approvano e ci confermano nel nostro modo di vivere, oppure ci disapprovano insinuandoci dubbi circa il nostro modo di essere, inducendoci a modificarlo.
Ma per comprendere queste cose è necessario capire e soprattutto interiorizzare che il due viene prima dell’uno, perché a generare l’uno è il due. Lo sanno benissimo le donne, più dei maschi, perché il loro corpo, sia che generino sia che non generino, è ordinato biologicamente e psicologicamente anche per l’altro da sé, per cui la relazione viene tendenzialmente prima della loro identità che, in generale, trovano nella relazione. Questo spiega perché le donne tendenzialmente desiderano generare e sono propense, più dei maschi, ad accudire. Ma questo spiega anche perché le donne solitamente esprimono la loro sessualità a partire dalla relazione, mentre i maschi non disdegnano di esprimerla anche a prescindere.
Entrando più specificatamente nel tema che la sua lettera propone: se quando i bambini in età prescolare esprimono la loro visione del mondo con i disegni che mostrano ai genitori, o con le domande che pongono loro, noi prestiamo interesse e attenzione, questi bambini si sentono riconosciuti e il riconoscimento è alla base della costruzione di un’identità positiva; se invece trascuriamo le loro domande o non valutiamo i loro tentativi di descrivere come avvertono il mondo intorno a loro, il messaggio che mandiamo è che quello che fanno non è per noi di alcun interesse. E loro concludono che non contano niente ai nostri occhi e quindi che non valgono niente. Premessa, questa, che porta all’autosvalutazione, per compensare la quale costruiscono un’identità negativa.
Abbiamo dimenticato infatti che, come dicevano a più riprese gli antichi Greci: «L’uomo è un animale sociale», e perciò non trova una propria identità se non nella relazione con l’altro, che può essere positiva e quindi costruttiva o negativa e di conseguenza distruttiva. Del resto lo diceva con chiarezza Aristotele: «Siccome l’uomo non è autosufficiente, la comunità e quindi la città (pólis) viene per natura prima dell’individuo, e chi non è in grado di entrare in relazione con gli altri, o per la sua presunta autosufficienza non ne sente il bisogno, o è bestia o dio» (Politica, 1295 b).
Con l’introduzione del concetto di "anima", il cristianesimo ha affermato il primato dell’individuo rispetto alla comunità, facendoci scordare che la relazione con l’altro e il riconoscimento che dall’altro otteniamo sono il fondamento della nostra identità. E questo anche quando con le guerre uccidiamo i nostri simili, perché, come ci ricorda Hegel: «Mentre gli animali uccidono per nutrirsi, gli uomini sottomettono e uccidono i propri simili per avere dai vinti il riconoscimento del loro superiorità».
Spero che queste considerazioni non le raggelino ulteriormente il sangue, ma la persuadano che non siamo creatori di noi stessi: ci piaccia o meno, anche per la costruzione della nostra identità, quindi anche per ciò che c’è di più intimo a noi stessi, dipendiamo dagli altri. Nessuno di noi nasce con un’identità, perché l’identità è frutto del riconoscimento che ci proviene da chi ci è accanto, quindi è un fatto sociale
Europa e migranti
La miseria morale della dirigenza neoliberista
La sinistra ha la possibilità di fornire delle risposte a questo scenario turbolento
di Pietro Bevilacqua (il manifesto, 10.09.2015)
Quando la globalizzazione cessa di presentarsi sotto forma di merci e di capitali, e assume l’aspetto di umani individui, addirittura di popoli in fuga, allora il pensiero unico neoliberale precipita in confusione. La libertà della sua assordante retorica riguarda i soldi e le cose, non gli uomini. Per le persone, la libertà di transito non può essere uguale a quella delle merci. È faccenda più complicata. E dunque la coerenza teorica viene abbandonata e si passa all’uso delle mani.
Di fronte al fenomeno migratorio il ceto politico europeo, salvo rare eccezioni, è caduto negli ultimi mesi assai al di sotto dell’intelligenza normale delle cose, della capacità di cogliere non tanto la sovrastante e incontrastabile potenza di un processo storico. In questo la miseria morale del suo atteggiamento, che ha assunto la faccia truce dell’intransigenza contro i derelitti del mondo, col tempo resterà incancellabile più per il lato ridicolo che per la ferocia. Leader e uomini di governo ci sono apparsi nell’atto di voler svuotare l’oceano con il cucchiaino.
Ma segno ancor più rilevante di una mediocrità politica senza precedenti è l’incapacità di rappresentare gli interessi di lungo periodo dei rispettivi capitalismi nazionali, di cui sono i solerti servitori. Ossessionati dalla conservazione del loro potere, con l’occhio sempre fisso ai dati del consenso personale, governanti e politici di varia taglia hanno di mira il solo scopo di vincere la competizione elettorale in cui sono perennemente impegnati contro avversari e sodali. E perciò sono spaventati dalle difficoltà dei problemi organizzativi che l’arrivo dei migranti pongono nell’immediato.
La loro campagna elettorale può riceverne solo danno. Se negli ultimi giorni le barriere sono cadute è perché - come è apparso chiaro - la vastità di massa e l’irruenza incontenibile del movimento di popolo poteva, da un momento all’altro, precipitare in un massacro. Rischiava di rappresentare agli occhi del mondo, ancora in Europa, una nuova forma di olocausto nel glorioso terzo millennio. E la Germania, soprattutto la Germania, con il suo passato, non poteva permetterselo.
Ma chi ha la testa sollevata al di sopra della palude della nanopolitica sa che il fenomeno migratorio è di lunga data, è solo esploso a causa delle guerre recenti in Oriente e in Africa. L’Human Development Report 2009, dedicato dalle Nazioni Unite a Human mobility and development, ricordava che «« Ogni anno, più di 5 milioni di persone attraversano i confini internazionali per andare a vivere in un paese sviluppato.»» E i maggiori e quasi esclusivi centri di attrazione erano e sono gli Usa e l’Europa.Una migrazione immane che dalla metà del secolo scorso ha spostato circa 1 miliardo di persone fuori dai luoghi in cui erano nate. Come potrebbe essere diversamente? Il capitalismo usa due potenti leve per sradicare i popoli dalle proprie terre.
La prima è quella dello “sviluppo”, la trasformazione delle economie agricole in primo luogo, la distruzione della piccola proprietà coltivatrice a favore delle grandi aziende meccanizzate, la nascita di poli industriali, lo svuotamento delle campagne, la formazione di megalopoli e di sconfinate bidonville. E lo sviluppo, che in tanti paesi avanza attraverso vasti diboscamenti e la rottura di equilibri naturali secolari, il saccheggio neocoloniale delle risorse, genera anche altre migrazioni: quella dei profughi ambientali, che fuggono da inondazioni o da prolungate siccità.
L’altra leva, sempre più attiva, è il potere incontenibile di attrazione che le società prospere dell’Occidente esercitano sulle menti delle popolazioni immiserite, deportate, segregate che si agitano nei vari angoli del mondo. Occorre tenerlo bene in mente: ogni giorno, anche nel più remoto villaggio africano, grazie a un’antenna satellitare va in onda lo spettacolo della più flagrante ingiustizia che lacera il destino delle genti sul nostro pianeta.
Uno spettacolo grandiosamente tragico che i dannati della Terra non avevano mai visto nei secoli e nei decenni passati. I miserabili, gli affamati, gli invalidi, i reclusi, le donne segregate, possono vedere dall’altra parte del mondo i loro simili, uomini e donne come loro, ricchi, sazi, sani, liberi. E questo spettacolo genera due scelte, ormai ben evidenti: l’estremismo terrorista o la fuga di massa.
Ma il ceto politico europeo, che vive alla giornata - non quello governativo americano, che dispone di centri di analisi strategica e di proiezioni di lungo periodo - non comprende, per specifica miseria intellettuale, neppure l’interesse del capitalismo che ha scelto di rappresentare. Dimentica, ad esempio, che l’immigrazione di popolazione “latina” negli Usa è stata una delle grandi leve del boom economico degli anni ’90 in quel paese.
Ma soprattutto non comprende quali vantaggi una forza lavoro giovane e abbondante procurerà alle imprese europee nei prossimi anni. E qui è evidente che il problema riguarda tutti noi, la sinistra politica, il sindacato. Siamo stati certamente encomiabili nel difendere i diritti dei migranti, il valore di civiltà del libero spostamento delle persone oltre le frontiere.
Ma l’arrivo di tanta forza lavoro a buon mercato non solo ci impone di vedere le persone umane, i titolari di diritti intangibili, oltre le braccia da fatica - cosa che in Italia abbiamo ben fatto, anche se solo a parole e senza alcuna mobilitazione - ma di cogliere per tempo la sfida che tutto questo ci pone. Sfida di organizzazione, di proposte, di soluzioni, di politiche. O facciamo un ulteriore salto di civiltà, tutti insieme, secondo le logiche della nuova storia del mondo, o regrediamo tutti insieme. Per strano che possa sembrare, la sinistra, in Italia, ha la possibilità, la possibilità teorica, di fornire delle risposte strategiche con cui rispondere allo scenario turbolento e difficile che si apre. Ci ritornerò prossimamente in maniera mirata.
Mettiamo in comune
di John Holloway (Comune-info, 15 giugno 2014: http://comune-info.net/2014/06/mettiamo-comune/)
Dev’essere un verbo, o no? Un sostantivo non può esprimere il tipo di società che vogliamo. Un organizzare sociale che si autodetermina non può essere contenuto in un sostantivo. La nozione di comunismo come sostantivo è priva di senso e pericolosamente autocontraddittoria. Un sostantivo suggerisce un qualcosa di fisso che sarebbe incompatibile con la costante autocreazione collettiva. Un sostantivo esclude il soggetto attivo, mentre la ragione di essere del mondo che vogliamo è che il soggetto sociale attivo stia al centro.
La nostra è la rivolta dei verbi contro i sostantivi. È la rivolta dell’essere capaci di contro il potere. Il movimento dell’autodeterminazione (o del mettere in comune [1]) contro la determinazione alienata difficilmente potrebbe esistere in un’altra maniera. La determinazione alienata è la reclusione delle nostre vite dentro coagulazioni, transenne, regolamenti, frontiere, consuetudini. In altre parole, dentro forme sociali, che sono i modelli nei quali si irrigidisce l’azione umana.
Marx ha dedicato la sua opera alla critica di quelle forme. La sfida viene avanzata nella prima frase del Capitale, quella che ci dice che: “La ricchezza delle società nelle quali regna il modo di produzione capitalista si presenta come una ‘immensa accumulazione di merci’”. Nei Grundrisse, Marx spiega:”Che cos’è la ricchezza se non l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive, etc.(...)? (Cos’è se non) l’estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senza altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane in quanto tali”. Si presenta in questa maniera perché è quella la forma sociale nella quale (la ricchezza, ndt) esiste. La forza umana della creazione, potenzialmente illimitata, è imprigionata nei limiti della forma merce. Un orrore assoluto, un incubo totale, un presente catastrofico che minaccia di condurci verso una completa autodistruzione. Com’è accaduto? Che significa? Come possiamo rompere queste forme sociali?
Ciò che va sottolineato non sono solo le forme (merce, valore, denaro, rendita, leggi, Stato e altre) della critica di Marx nel Capitale, ma il completo congelamento delle relazioni umane che costituiscono quelle forme. Non si tratta solo di criticare le forme sociali capitaliste, ma di comprendere che le forme sociali in quanto tali sono capitaliste: un’idea che è insieme vertiginosa e stimolante. Oppure, per tornare alla nostra formulazione precedente, il problema non è un certo tipo di sostantivo ma sono i sostantivi in sé, l’imprigionamento dei verbi dentro strutture rigide o chiuse.
Il sostantivo è strettamente legato al congelamento dell’identità, mentre il verbo indica una non-identità, un superamento degli argini dell’identità, una rottura che va oltre, lo stesso movimento dell’antiidentità: un’antiidentificazione che può essere compresa solo come un movimento sovversivo e costante contro l’identità nella quale si trova intrappolata (e noi con lei). Lasciamo, dunque, che il sostantivo esprima l’identità e il verbo il movimento dell’antiidentità. L’identità è la separazione reale, ma ingannevole, della costituzione e dell’esistenza, mentre è evidente che l’azione di mettere in comune può significare solo il superamento di questa separazione. L’amore come passione e non come abitudine.
Il mettere in comune è il movimento contro ciò che si interpone nel cammino verso l’autodeterminazione sociale delle nostre vite. Gli ostacoli che dobbiamo affrontare non sono solo la nostra separazione dai mezzi di produzione, ma tutte quelle forme sociali che proclamano la loro identità, che negano la loro esistenza come forme e dicono semplicemente: siamo. Il denaro, per esempio, dice: “Io sono quel che sono”, pura identificazione atemporale. Non dice: sono una forma delle relazioni sociali, il congelamento del modo in cui le persone si mettono in relazione le une con le altre in un certo, specifico contesto sociale. Il denaro non ci dice: sono un prodotto umano e posso, pertanto, essere abolito da chi mi ha creato. Tutto il contrario: la forza del denaro dipende dalla negazione di ciò che lo produce e lo riproduce. Il potere del denaro si basa sulla separazione della sua esistenza dalla sua costituzione, dalla sua genesi. La stessa cosa accade, come per il denaro, con altri concetti come moglie, tavolo, Stato, merce, Italia, uomo, pranzo e altri ancora. Tutti si presentano come pompose, mendaci, autosufficienti identità, come esistenze liberate dal loro momento costitutivo, come sostantivi che hanno lasciato indietro i verbi che li hanno creati. Devono essere tutti disciolti. L’azione del mettere in comune è il movimento del loro scioglimento, è la liberazione del nostro fare, la riappropriazione del mondo. Per liberare il nostro fare culinario dobbiamo pensare al cibo dal punto di vista dell’attività di cucinare, dobbiamo riunire l’esistenza di un pasto con la sua costituzione, dobbiamo emancipare il verbo dal sostantivo che ha creato. E come con gli alimenti, dobbiamo fare lo stesso con Italia, uomo, merce, Stato, tavolo, moglie, denaro.
Questa critica, pertanto, è genetica, diretta a recuperare la genesi di queste forme che negano le loro origini. Dietro ciò che esiste, cerca il processo che lo costituisce, che ha dato origine alla sua esistenza. Fondamentalmente, la critica domanda anche: cosa succede nel suo processo di costituzione che dà luogo a un’esistenza che nega la propria origine? Cosa accade con i nostri verbi che danno origine a sostantivi che li fagocitano? Che succede con il nostro fare che crea un fatto che lo nega? Non è sufficiente, allora, capire che tanto il denaro come l’uomo, la moglie, la merce, lo Stato, la tavola, l’Italia sono prodotti umani. Dobbiamo andare alla radice per comprendere cosa succede con il nostro fare che genera queste mostruosità, questi figli che negano i padri.
Che accade col nostro fare? La risposta di Marx è chiara. Nella società capitalista il nostro fare è autoantagonista. Ha un carattere duplice: da una parte quello che Marx chiama lavoro concreto o utile, dall’altra il lavoro astratto. “L’economia politica gira intorno a questo punto”, dice. Se vogliamo capire come sia possibile che una nostra attività produca una società che la nega, dobbiamo dirigere il nostro sguardo verso la duplice natura di questa attività.
Il lavoro concreto è semplicemente lavoro che produce la ricchezza in tutte le sue varietà: fabbricare un’automobile, scrivere un articolo, cucinare un pasto, pulire le strade. Qui non c’è nulla che conduca a una separazione tra costituzione ed esistenza. Costruisco un tavolo, lo uso oppure lo consegno a qualcuno che lo utilizzerà: la sua esistenza come tavolo parla direttamente della mia azione di averlo fatto. Ci sono un fare e una cosa fatta, e non c’è separazione tra loro.
Il lavoro astratto è la medesima attività, però vista adesso dalla prospettiva della produzione di merci. Costruisco un tavolo, e ciò che importa ora non sono le sue specifiche caratteristiche o la mia relazione con esso, ma il suo valore o il suo prezzo di mercato. Il tavolo, come merce, è “un oggetto esterno” che non ci riconosce. In quanto merce, è qualcosa che si vende e si compra, che si misura nei termini della relazione quantitativa che stabilisce con altri prodotti, generalmente espressa dal denaro. Nel mondo delle merci, ciò che conta è la quantità di valore prodotto, non il suo contenuto in termini di automobili, articoli, pasti o strade pulite. Si tratta di un’astrazione delle qualità specifiche dei lavori concreti: ora essi contano solo come quantità di lavoro astratto. Si opera così un’astrazione dell’atto del produrre: tutto ciò che conta è la quantità del valore prodotto.
Il lavoro astratto crea un mondo di cose, un mondo di esistenze separate dalla loro costituzione, un mondo di identità che proclamano: siamo, un mondo di sostantivi indifferenti ai verbi che li hanno fatti esistere, un mondo di feticci (come li chiamò Marx). Il lavoro astratto è dinamico, è mosso dalla ricerca del valore, del profitto, ma presenta le sue creazioni come cose indipendenti dall’atto della loro creazione. In altri termini, la trasformazione della nostra attività (del nostro fare, del nostro lavoro concreto) in lavoro astratto è ciò che conduce al congelamento o alla coagulazione delle relazioni sociali in forme sociali. Possiamo pensare al lavoro astratto come a una forma sociale, vale a dire, come alla forma in cui esiste il lavoro concreto; tuttavia essa è una forma speciale, è la forma centrale che genera tutte le altre forme. È il lavoro astratto ciò che mantiene intrappolati il potenziale e la creatività senza limite del lavoro concreto, cioè, del fare umano. È pertanto il lavoro astratto la chiave per comprendere tutte le altre forme di chiusura o dominio.
Il fare autocontraddittorio e la ricchezza
La ricchezza esiste nella forma di una immensa accumulazione di merci, il lavoro concreto (o fare umano) nella forma del lavoro astratto. Il fare umano (lavoro concreto) produce ricchezza, il lavoro astratto produce merci. In entrambi i casi, l’attività (tanto il fare come il lavoro astratto) è inevitabilmente sociale. In qualsiasi società (compresa quella attuale) esiste una convergenza delle differenti attività, un fattore agglutinante dei diversi soggetti attivi, una qualche forma di socialità, di “comunalità”, un qualche tipo di comunanza tra coloro che fanno, una qualche forma del mettere in comune. La ricchezza esiste in tutte le società, però attualmente essa esiste nella forma dell’accumulazione di merci; il fare umano esiste in qualunque società, ma in quella attuale si presenta in forma di lavoro astratto. Allo stesso modo, possiamo dire che l’azione del mettere in comune o la coesione sociale esistono in qualsiasi società, ma sotto il capitalismo si presentano in modo peculiare. Esiste una più intensa ed estesa integrazione dei fare di prima, ma questa intensa integrazione sociale non è accompagnata da una determinazione sociale di ciò che viene prodotto. Essa resta soggetta, in primo luogo, alla determinazione privata dei padroni del capitale. Quella determinazione esclusiva dei padroni del capitale è soggetta, a sua volta, alla determinazione sociale del denaro (cioè del valore): una determinazione che non è soggetta ad alcun controllo cosciente.
L’azione del mettere in comune, allo stesso modo che la ricchezza, così come il fare o il lavoro concreto, esiste come un substrato nascosto di una forma sociale che nega la sua esistenza. Abbiamo dunque un’indissolubile trinità: la ricchezza, il fare e il mettere in comune, che esiste nella forma di una controtrinità, ugualmente indissolubile: le merci, il lavoro astratto e il capitalismo. Tutti gli sguardi si dirigono ora verso questa “esistenza in forma di” oppure verso il “si presenta come”. Quando diciamo - con Marx - che nella società attuale la ricchezza “si presenta come un’immensa accumulazione di merci” è chiaro che non si tratta di una mera illusione, non è una falsa apparenza. Se la ricchezza appare in questo modo, è perché esiste realmente sotto questa forma. Deve essere chiaro, però, anche che l’espressione non indica una semplice identità: non stiamo sostenendo che nella società capitalista la ricchezza sia un’immensa accumulazione di merci, o che il lavoro concreto sia lavoro astratto, o che l’azione del mettere in comune sia il capitalismo. Stiamo parlando, chiaramente, di due cose che non sono identiche ma si presentano come identiche. In questo modo, qui ci troviamo di fronte a una tensione, però, qual è la natura di questa tensione? È la tensione della dominazione. Se qualcosa esiste nella forma di un’altra cosa, allora è ovvio che quel qualcosa è soggetto a quella forma. Se la ricchezza esiste sotto la forma di merce, è la merce che domina, così come il lavoro astratto domina quello concreto e il capitalismo domina ciò che è messo in comune[2].
Questa dominazione è una negazione. Dunque, se la ricchezza esiste nella forma dell’accumulazione delle merci, in effetti, la merce proclama: sono la sola ricchezza, e questa è una ricchezza, in generale, misurata nella forma-denaro della merce. Sappiamo questo dalla nostra esperienza quotidiana: la ricchezza viene misurata in denaro. La lista delle cinquecento persone più ricche del mondo, per esempio, assume il fatto che la ricchezza sia uguale all’accumulazione di denaro: non provano a misurare la ricchezza nei termini della sapienza della gente o delle sue relazioni affettive o dell’entusiasmo per quello che fanno. La ricchezza sparisce dalla vista e la merce-ricchezza occupa il suo posto. Questo, che esiste sotto forma di un’altra cosa, esiste “nel modo di essere negata” prendendo in prestito la classica frase di Richard Gunn.
Il fatto che qualcosa esista come la negazione di se stesso non significa che abbia cessato di esistere. Al contrario, inevitabilmente, lotta contro la sua stessa negazione. La dominazione è inconcepibile senza resistenza. Lo stesso fatto che pensiamo alla rivolta significa che la dominazione non è totale. La tensione è un antagonismo tra il contenuto e la forma, tra ciò che viene negato e quello che lo nega.
Si tratta di un antagonismo tra verbi, non tra sostantivi: una lotta attiva. Se la dominazione trova resistenza (come accade sempre), è una dominazione attiva: è sempre una lotta aperta il cui esito finale non è mai scontato. Di più, il fatto che non possa mai rimanere tranquilla è una caratteristica specifica della dominazione sotto il capitalismo. Il fatto che il valore sia determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario per produrre una merce comporta che l’arricchimento della capacità umana di produrre sia trasformato in una intensificazione del lavoro astratto, un’accelerazione moltiplicata all’ennesima potenza. La dominazione non può permettersi il lusso della quiete di un sostantivo: può solo essere un dominare che lotta costantemente per trovare una più profonda subordinazione della vita al suo proposito di autoespandersi. E se dominare è un verbo, allora, lo sono chiaramente anche resistere e ribellarsi. Le forme delle relazioni sociali devono essere intese come forme-processi, processi di formazione e non come un fatto stabilito. Allora, denaro come monetizzare, Stato come statalizzare, merce come mercificare, essere umano come umanizzare, Italia come italianizzare, e così via. Tutti i sostantivi occultano lotte feroci, scontri quotidiani e, spesso, sanguinosi.
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L’accumulazione primitiva, costituzione ed esistenza
È questa una questione chiave per la teoria e la pratica marxiste. Lo si può vedere nel dibattito sull’accumulazione primitiva. Nell’interpretazione tradizionale, l’accumulazione primitiva fa riferimento al periodo delle lotte che danno luogo all’instaurazione delle relazioni sociali capitaliste, una fase storica seguita da una continua normalità capitalista. In questa interpretazione c’è una chiara separazione tra la costituzione e l’esistenza. L’accumulazione primitiva qui si riferisce al momento della costituzione delle forme delle relazioni sociali (valore, Stato, capitale e le altre), seguito da un periodo in cui queste forme acquisiscono relativa stabilità. Se fosse così, allora, queste forme potrebbero essere intese come sostantivi: sostantivi con una limitata vita storica, ma sostantivi, comunque, con un certo grado di stabilità fintanto che il capitalismo sopravvive.
Marx esprime graficamente questa posizione tradizionale nei Grundrisse: “Le condizioni, dunque, che precedevano la creazione del pluscapitale I, o quelle che esprimevano la formazione del capitale, non rientrano quindi nella sfera del modo di produzione a cui il capitale serve da presupposto; esse stanno alle sue spalle come livelli storici preliminari, allo stesso modo in cui i processi attraverso i quali la Terra è passata dallo stato fluido di mare di fuoco e di vapori alla sua forma attuale, si collocano in una fase che precede la sua vita di Terra formata”. La costituzione è chiaramente separata dall’esistenza. Tuttavia, quelli di noi che vivono nei pressi di vulcani fumanti (nel mio caso, a 40 chilometri dal Popocatépetl) sanno che la transizione geologica di un mare liquido di fuoco allo stato di terra solida non è tanto chiara come suggeriva Marx: noi abbiamo il fermo sospetto che questo sia ancora più certo nel caso delle relazioni sociali. Sotto l’apparente solidità del denaro, c’è un agitato liquido che bolle. Non può darsi per assodato che il denaro sia una forma delle relazioni sociali universalmente rispettata: in quale altro modo potremmo considerare la grande quantità di energia dedicata alla sua realizzazione? Il denaro - come lo Stato, la donna, l’Argentina, il Messico, la rendita - è continuamente messo in discussione, costantemente contrastato: l’esistenza di tutte queste relazioni sociali dipende dalla loro permanente ricostituzione. Sebbene ci possano essere delle differenze significative in funzione del tempo e del luogo, Marx ha sbagliato ad indicare una separazione tanto radicale tra costituzione ed esistenza.
La forma capitalista delle relazioni sociali, questo irrigidimento o congelamento delle interazioni sociali in modelli stabiliti, è dunque un processo, un verbo, un’azione del congelare o formare il fare umano che trova sempre una opposizione. La genesi non si riferisce solo al passato ma a un processo costante del generare e rigenerare le forme sociali; la critica genetica non è solo il portare alla luce il passato ma anche il presente. Se la ricchezza esiste nella forma di una accumulazione di merci, vuol dire che c’è una permanente mercificazione della ricchezza della creazione umana, e che questa attività di mercificare incontra una resistenza: la spinta costante della creazione umana contro la mercificazione e il suo incessante superamento degli argini. In altre parole, se la ricchezza esiste nella forma dell’accumulazione di merci, questo inevitabilmente comporta il fatto che non esista solo in quella forma ma anche contro-e-oltre l’accumulazione di merci. Non esiste al di fuori dell’accumulazione di merci, come qualcosa di intoccabile: questa idea potrebbe condurci a un essenzialismo astorico di scarsa utilità. Non galleggia nell’aria: è lotta viva e quotidiana.
La ricchezza della nostra attività è contenuta nella forma merce ma lotta anche contro di essa e, almeno in modo sporadico, rompe come un vulcano la forma merce stabilendo altri modi di interazione. In effetti, entrambi i lati dell’antagonismo si costituiscono grazie all’antagonismo: è evidente che l’accumulazione di merci si costituisce attraverso la lotta per mercificare la ricchezza, ma anche il contrario è certo: la ricchezza viene costituita grazie alla lotta contro-e-oltre la forma merce. E quello che è certo per la ricchezza, lo è anche per il lavoro concreto e per la comunalità o comunitarietà: non solo sono imprigionate nelle loro forme capitaliste ma spingono contro-e-oltre esse.
Possiamo fare un passo in più. Ciò che esiste nella forma di un’altra cosa, ciò che esiste “nel modo di essere negato” è il substrato occulto di quello che lo nega, e pertanto la sua crisi. Quel che appare in superficie: merci, lavoro astratto, capitalismo, non è nulla senza ciò che lo nega, vale a dire, ricchezza, lavoro concreto, comunalità. Il signore dipende dai suoi servi, sempre. È una dipendenza mutua, però la relazione è altamente asimmetrica. Senza i suoi servi il signore non è nulla, è incapace di farsi da mangiare o di prepararsi il letto, mentre il servo, grazie al suo lavoro concreto, è potenzialmente tutto, come hanno segnalato Hegel e La Bóetie, tra gli altri. Il potere, il sostantivo, è visibile ma dipende da un invisibile essere capaci di. La possibilità di un cambiamento radicale sorge dal basso, da ciò che sta nascosto, da ciò che è latente, da quello da cui il potere dipende. È in questa dipendenza che si trova la chiave per comprendere la crisi del dominio. La teoria di Marx sulla tendenza alla caduta del saggio di profitto è un tentativo per comprendere come la dipendenza capitalista dal lavoro (dalla trasformazione dell’attività umana in lavoro) si manifesti a sé stessa come la tendenza alla caduta del saggio di profitto. Il latente è la crisi dell’apparente, il verbo è la crisi del sostantivo.
Siamo la crisi del capitale
Basta!, dunque, con l’idea assurda e degradante che i colpevoli della crisi siano i capitalisti! Siamo noi la crisi del capitale. Noi che non solo siamo invisibili ma latenti, la latenza di un altro mondo. Noi che siamo i verbi che i sostantivi sono incapaci di contenere. Noi, il cui fare concreto non entra nel lavoro astratto, la cui ricchezza deborda l’immensa accumulazione delle merci, noi, con la nostra comunalità che irrompe attraverso la falsa comunità di individui e cittadini. Noi, quelli che non saremo contenuti, siamo il substrato vulcanico sul quale tutto l’edificio del potere è costruito in modo tanto fittizio. Noi, che ci riappropriamo della terra semplicemente perché è nostra.
Il mettere in comune è il movimento della crisi. La crisi è più visibile con la caduta del saggio di profitto, con la caduta del tasso di crescita, con la crescente disoccupazione; sotto queste manifestazioni giace l’incapacità da parte del capitale di subordinare completamente il lavoro umano alla logica della sua dinamica. Sotto le statistiche ci sono eruzioni vulcaniche di insubordinazione, c’è la moltiplicazione dei No, il superamento degli argini di questi No in “No, noi non lo accettiamo, vogliamo fare le cose in un modo diverso, nel modo che decidiamo noi”. Il parco Navarino, nel centro di Atene, dove la gente ha abbattuto le pareti di un parcheggio per creare un parco comunitario, un luogo per giocare con i bambini, coltivare vegetali e ascoltare musica, un luogo per chiacchierare e fare la rivoluzione. Gran parte dello Stato del Chiapas, dove le segnalazioni stradali proclamano: “Fuori il malgoverno, qui comanda il popolo”. Le fabbriche recuperate in Argentina, dove i lavoratori hanno mostrato che c’è vita senza i padroni: Abahlali BaseMjondolo, il movimento degli abitanti delle baracche di Durban (Sudafrica) che sta creando un comunismo vivente nei suoi insediamenti. E altri ancora, ancora altri, altri ancora. Abbiamo tutti esempi da fornire, possiamo riempire pagine e pagine con la loro elencazione.
I (molti e diversi esempi di, ndt) mettere in comune[3], grandi e piccoli, spesso tanto piccoli da essere invisibili perfino per i loro protagonisti, eppure cruciali perché la crisi, probabilmente, non potrebbe essere spiegata in termini di resistenza aperta ma può certamente essere compresa come il risultato di un effetto combinato tra l’insubordinazione aperta e una costante onnipresente non subordinazione, un costante e onnipresente rifiuto di sottomettere le nostre vite nella loro totalità alle sempre più intense esigenze della produzione capitalista. I (molti esempi di azioni del, ndt) mettere in comune di molti tipi differenti, tutti sperimentali, colmi dell’attiva fragilità dei verbi, tutti contraddittori, con un piede intrappolato nel fango immondo del capitalismo mentre si tenta di raggiungere qualcosa in più, un fare differente, una ricchezza differente, un diverso camminare insieme.
Mettere in comune, quindi, non solo come verbo ma anche al plurale: “comunizares” (le molte e diverse esperienze di “mettere in comune”, ndt). Un flusso di mille ruscelli mormoranti e di torrenti silenziosi, che vanno insieme e poi si separano ancora, scorrendo insieme verso un oceano potenziale. Non c’è spazio, qui, per l’istituzionalizzazione, nemmeno per quella informale. L’istituzionalizzazione è sempre un tentativo di bloccare il flusso, di separare l’esistenza dalla costituzione (non è questo il significato di istituzionalizzazione?), per sottomettere il presente al passato, per rendere quieto il flusso del fare, mentre l’azione di mettere in comune è l’opposto: è l’impulso di liberarci dalla determinazione del passato, di raggiungere un’articolazione esplicita all’unità della costituzione e dell’esistenza. Non si tratta del comunismo-nel-futuro ma di una molteplicità di “mettere in comune”, qui e ora.
Questo significa che non ci può essere una rottura radicale del capitalismo? Naturalmente, no. Dobbiamo rompere la dinamica del capitale, ma il modo di farlo non è quello di proiettare il comunismo nel futuro ma riconoscere, creare, espandere e moltiplicare i mettere in comune (o le crepe nel tessuto della dominazione capitalista) e incoraggiare la loro confluenza. È difficile per me immaginare il superamento del capitalismo se non attraverso la confluenza di questi mettere in comune, in un torrente che escluda il capitale come forma di organizzazione e lasci senza effetto la sua violenza. Allora, forse potremmo pensare che sia finita la traversata e che siamo giunti a casa, ma il luogo in cui siamo giunti non può essere un comunismo, ma un costante mettere in comune in un clima più favorevole (di fatto, la casa non è mai il sostantivo che i bambini immaginano ma una ricreazione costante di quelli che ne fanno parte). Il mettere in comune è, semplicemente, la riappropriazione di un mondo che è nostro, o ancora meglio, la creazione di un mondo che è nostro, nel quale articoliamo praticamente l’unità del fare e ciò che viene fatto, della costituzione e dell’esistenza, la comunalità dei nostri fare.
Mettiamo in comune, ovunque ci troviamo, adesso.
[1] “Comunizar” nella versione pubblicata da www.herramienta.org in Argentina. Abbiamo preferito “mettere in comune” a una ipotetica traduzione letterale, “comunizzare”, perché essa ci sembrava richiamare posizioni assai lontane dal corpo espresso nel suo complesso in questo scritto e per evitare il rischio di una certa cacofonia connessa alle troppe distorsioni di parole derivanti dalla radice “comune” ndt.[1]
[2] “comunal” nella versione argentina.
[3] “Comunizares” nel testo pubblicato su Herramienta, ndt.
Bibliografía
Gunn, Richard, “En contra del materialismo histórico: el marxismo como un discurso de primer orden”. En: Bonnet, Alberto / Holloway, John / Tischler, Sergio (comps.): Marxismo abierto, una visión europea y latinoamericana. Vol. I. Herramienta: Buenos Aires, 2005, págs. 99-155.
Marx, Karl, Elementos fundamentales para la crítica de la economía política. Borrador 1857-1858 (Grundrisse). 18ª edición. México: Siglo XXI, 2001.
, El capital. Vol. 1, libro primero. México: Cartago, 1983.
Questo saggio è stato pubblicato sulla rivista argentina Herramienta
http://www.herramienta.com.ar/. Titolo originale: ¡Comunicemos!
Traduzione per Comune-info: m. c.
Naomi Klein: l’imperativo di cambiare rotta per salvare il Pianeta
di Naomi Klein
Grazie. È un onore essere qui oggi e specialmente condividere questa tribuna con il card. Peter Turkson che ha fatto così tanto per condurci a questo momento storico.
Papa Francesco all’inizio della sua enciclica Laudato Si’ scrive che questa non è un insegnamento rivolto al mondo cattolico ma a «ogni persona che vive su questo pianeta». Da laica ebrea femminista, piuttosto sorpresa di essere stata invitata in Vaticano, posso dire che certamente parla a me.
«Non siamo Dio» dichiara l’enciclica. Tutti gli esseri umani lo sanno. Ma circa 400 anni fa, vertiginose scoperte scientifiche hanno fatto pensare a qualcuno che l’umanità fosse sul punto di sapere tutto ciò che c’era da sapere sulla Terra e che quindi fosse “maestra e padrona” della natura, come Cartesio ha mirabilmente detto. Questo, dicevano, è ciò che Dio ha sempre voluto.
Questa teoria si è mantenuta in vita per molto tempo. Ma scoperte scientifiche più recenti ci hanno rivelato qualcosa di molto diverso. Perché mentre bruciavamo sempre più combustibili fossili - convinti che le nostre navi container e i nostri jumbo jet avessero livellato il mondo, che noi fossimo dei - i gas a effetto serra si stavano accumulando nell’atmosfera trattenendo incessantemente calore.
E ora siamo posti di fronte alla realtà: non siamo mai stati né maestri né padroni e stiamo scatenando forze naturali di gran lunga più potenti delle nostre macchine più ingegnose. Possiamo salvarci, ma solo se abbandoniamo il mito del dominio e del possesso e impariamo a lavorare con la natura, rispettando la sua intrinseca capacità di rinnovamento e rigenerazione.
E questo ci conduce al cuore del messaggio dell’interconnessione al centro dell’enciclica. Ciò che il cambiamento climatico ribadisce - per quella minoranza dell’umanità che lo avesse dimenticato - è che non esiste un rapporto a senso unico di puro dominio nella natura. Come scrive papa Francesco, «niente di questo mondo ci risulta indifferente».
Per coloro che vedono l’interconnessione come una degradazione cosmica, questo è troppo da sopportare. E così - incoraggiati attivamente dagli attori politici sostenuti dalle compagnie di combustibili fossili - scelgono di negare la scienza.
Ma questo sta cambiando, come cambia il clima. E cambierà ancora di più con questa enciclica. Questo potrebbe significare guai seri per i politici statunitensi che fanno affidamento sull’uso della Bibbia come copertura per la loro opposizione ad agire in difesa dell’ambiente. In questo senso, il viaggio di papa Francesco negli Stati Uniti nel prossimo settembre non poteva cadere in un momento migliore.
Tuttavia, come sottolinea l’enciclica, la negazione assume tante forme. E ci sono molti politici ovunque nel mondo che accettano la scienza ma rifiutano le sue difficili implicazioni.
Ho passato le ultime due settimane leggendo centinaia di commenti all’enciclica. E anche se la risposta è stata positiva, ho notato un argomento comune tra i suoi critici. Papa Francesco può anche avere ragione sulla scienza, dicono, e anche sulla morale, ma deve lasciare l’economia e la politica agli esperti. Sono loro gli unici ad avere le competenze in materia di commercio del carbonio e privatizzazione dell’acqua, ci dicono, e su come il mercato possa efficacemente risolvere ogni problema.
Sono fortemente in disaccordo. La verità è che siamo arrivati a questo punto - pericoloso - anche perché molti di questi esperti ci hanno deluso, usando le loro potenti competenze tecnocratiche senza saggezza. Hanno prodotto modelli in cui i valori della vita umana sono considerati poco e niente, in particolare la vita dei poveri, pensando solo alla protezione dei profitti delle imprese e alla crescita economica.
Questo deformato sistema di valori ci ha condotto a un mercato del carbonio inefficace anziché a forti tassazioni sui combustibili fossili. E così siamo arrivati a porci come obiettivo un aumento delle temperature non superiore ai 2 gradi centigradi, che potrebbe comportare la sparizione di intere nazioni, solo perché i loro Pil non erano abbastanza alti.
In un mondo in cui il profitto è costantemente messo al primo posto, prima delle persone e del pianeta, l’economia climatica ha a che fare con la morale e l’etica. Perché se concordiamo nel dire che mettere in pericolo la vita sulla Terra è una crisi morale, allora è nostro dovere agire.
Questo non significa scommettere sui cicli di espansione e frenata del mercato nel futuro. Significa politiche che regolino direttamente quanto carbonio può essere estratto dalla terra. Significa politiche che ci portino al 100% di energie rinnovabili in 20-30 anni, non entro la fine del secolo. E significa condivisione di risorse comuni - come l’atmosfera - sulla base della giustizia e dell’equità, non che i vincitori si prendono tutto.
Ecco perché un nuovo tipo di movimento per il clima sta rapidamente emergendo. Esso è basato sulla verità più coraggiosa espressa nell’enciclica: che il nostro attuale sistema economico sta alimentando la crisi climatica e ci impedisce di prendere i provvedimenti necessari per contrastarla. Un movimento fondato sulla consapevolezza che se non vogliamo che il cambiamento climatico ci sfugga di mano, allora dobbiamo cambiare il sistema.
E siccome il nostro attuale sistema sta anche alimentando disuguaglianze crescenti, abbiamo la possibilità di risolvere insieme molteplici, sovrapposte crisi.
In breve, possiamo passare a un’economia allo stesso tempo più sostenibile e giusta.
Questa crescente consapevolezza è alla base delle sorprendenti e improbabili alleanze cui stiamo assistendo. Come, per esempio, me in Vaticano. Come sindacati, indigeni, gruppi di fedeli e ambientalisti che lavorano a stretto contatto insieme come mai prima.
All’interno di queste coalizioni non siamo d’accordo su tutto - neanche per idea! - ma ci rendiamo conto che la posta in gioco è così alta, il tempo così poco e l’impegno così grande che non possiamo lasciare che queste differenze ci dividano. Quando 400mila persone hanno marciato per la giustizia climatica a New York nel settembre scorso, lo slogan era “Per cambiare tutto, abbiamo bisogno di tutti”.
Tutti significa anche i leader politici, naturalmente. Ma avendo partecipato a molti incontri con i movimenti sociali in vista della Cop21 di Parigi, posso dire questo: non possiamo sopportare un altro fallimento presentato come un successo ai media, per poi vedere, a distanza di una settimana, quegli stessi politici tornare a estrarre petrolio nella regione artica, a costruire più autostrade e a fare nuovi accordi commerciali che rendono più difficile regolare chi inquina.
Se non si riesce a ottenere una immediata riduzione delle emissioni provvedendo a reali e sostanziali aiuti per i Paesi poveri, allora lo si dovrà presentare come un fallimento. Quale sarebbe.
Ciò che dobbiamo sempre ricordare è che non è troppo tardi per invertire la rotta - quella che ci sta portando verso un aumento di 4 gradi centigradi. È ancora possibile limitare il riscaldamento entro la soglia del grado e mezzo se facciamo di questo obiettivo la nostra priorità collettiva.
È difficile, questo è certo. Difficile quanto il razionamento e le riconversioni industriali fatte in tempo di guerra. Ambizioso come i programmi di lavori pubblici e di lotta alla povertà lanciati in seguito alla Grande Depressione e alla Seconda Guerra Mondiale.
Ma difficile non significa impossibile. E rinunciare di fronte a un compito che potrebbe salvare molte vite e prevenire molta sofferenza solo perché è difficile, costoso e richiede sacrifici da parte di chi più può permettersi di fare a meno di qualcosa, non è pragmatismo.
È la resa più vile. E non c’è analisi costi-benefici nel mondo capace di giustificarla.
«Non lasciate che la perfezione sia nemica del bene». Sono 20 anni che sentiamo ripetere queste parole. E ogni volta che un nuovo summit delle Nazioni Unite non riesce a raggiungere politiche coraggiose, vincolanti e basate sulla scienza, lanciando invece promesse vuote di aiuti economici, le sentiamo di nuovo.
«Sicuramente non è abbastanza ma è un passo nella giusta direzione». «Faremo il lavoro più difficile la prossima volta». E ancora: «Non lasciate che la perfezione sia nemica del bene».
Questo, va detto dentro queste sacre mura, è puro nonsense. La “perfezione” non è più di questo mondo dalla metà degli anni ’90, dopo il primo summit sulla Terra di Rio.
Oggi abbiamo solo due strade davanti a noi: una difficile ma giusta e l’altra facile ma riprovevole.
Ai nostri cosiddetti leader che stanno preparando i loro impegni per la Cop21 di Parigi, imbellettando un altro pidocchioso accordo, voglio dire questo: leggete l’enciclica di papa Francesco, non il suo sommario ma tutta.
Leggetela e lasciate che pervada i vostri cuori. Il dolore per ciò che abbiamo già perso e la celebrazione di ciò che possiamo ancora proteggere e aiutare a prosperare.
Ascoltate, poi, le voci delle centinaia di migliaia di persone che durante il summit percorreranno le strade di Parigi e di tante città del mondo.
Questa volta diranno qualcosa di più di “dobbiamo agire”. Diranno: stiamo già agendo. Siamo la soluzione: con le nostre richieste che le istituzioni disinvestano dalle compagnie di combustibili fossili e investano invece in attività che riducano le emissioni. Coi nostri metodi di coltivazione ecologica, che fanno meno affidamento sui combustibili fossili, fornendo cibo sano e lavoro. Con i nostri progetti di energia rinnovabile controllati a livello locale, che stanno riducendo le emissioni, abbassando i costi e definendo l’accesso all’energia come un diritto. Con la nostra richiesta di mezzi pubblici affidabili e convenienti, se non gratuiti, che farebbero sì che lasciassimo le nostre automobili che inquinano le nostre città, congestionano le nostre vite, ci isolano gli uni dagli altri. Con la nostra insistenza senza compromessi sul fatto che non ci si può definire leader climatici mentre si aprono strade per nuove trivellazioni, fracking e miniere negli oceani o sulla terra. Con la nostra convinzione che non ci si può definire democrazie se si è legati a multinazionali inquinanti.
Ovunque sul pianeta, il movimento per la giustizia climatica sta dicendo: guardate il bellissimo mondo che sta al di qua di queste politiche coraggiose, i cui semi stanno già dando frutti che chiunque abbia voglia di guardare può vedere.
Smettete di fare del difficile il nemico del possibile. E unitevi a noi per rendere il possibile reale.
L’intellettuale e la sindrome di Belen
di Nicolas Martino (alfapiù, 26 maggio 2015)
«Lo stesso intellettuale ignora assolutamente l’origine sociale delle sue forme concettuali»1. È bene tenere a mente queste parole di Alfred Sohn-Rethel per provare a svolgere qualche riflessione a partire dall’ultimo numero di «aut aut» (365/2015) dedicato a indagare il lavoro intellettuale in epoca neoliberale e significativamente intitolato «Intellettuali di se stessi».
Già, perché l’intellettuale è ormai interamente colonizzato dalla forma di vita neoliberale che ha fatto di ogni vivente un imprenditore di se stesso, e quindi catturato in quel marketing del sé che non sembra lasciare alcuna via di scampo. Eppure proprio a partire da questa figura iperindividualizzata è possibile che emergano figure di vita comune, è possibile aprire un discorso che sottragga il lavoro intellettuale all’infelicità di un narcinismo (narcisimo + cinismo) esasperato. Questa, molto sinteticamente, la cornice approntata dai curatori, Dario Gentili e Massimiliano Nicoli, all’interno della quale si svolgono gli interventi dei curatori stessi, di Roberto Ciccarelli, Carlo Mazza Galanti, Federico Chicchi e Nicoletta Masiero, Andrea Mura, Alessandro Manna e Vincenzo Ostuni.
Quella dell’intellettuale è una storia lunga e complessa, recentemente ricostruita da Enzo Traverso in un volumetto snello quanto prezioso (recensito qui), che ha segnato di sé il Novecento, ma quella dell’intellettuale imprenditore di se stesso è relativamente recente ed è possibile farla risalire alla metà degli anni Settanta, in coincidenza con la grande controrivoluzione neoliberista, ed è il risultato della consumazione di quella figura dell’intellettuale separato chiamato a distinguere il vero dal falso e il bene dal male dall’alto del suo isolamento - consumazione indotta dalla trasformazione postfordista imperniata sulla fine della separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e sulla valorizzazione del lavoro intellettuale e creativo diffuso - e però anche del fallimento della risposta che a quella grande trasformazione tentò di dare quell’intellettualità di massa prepotentemente emersa sulla scena delle metropoli occidentali dopo i «Trenta gloriosi».
Ecco perché, dicevo, è bene tenere presenti le parole di Sohn-Rethel e cercare di tratteggiare l’origine sociale di quelle forme concettuali che hanno catturato l’intellettuale dentro la nuova ragione del mondo (per dirla con Dardot e Laval), per cercare delle exit strategies dalle gabbie di quella che qui chiamiamo «la sindrome di Belen» e dalla sua infelicità diffusa.
E questa origine, l’emergere dell’intellettuale di se stesso, l’aveva individuata subito Gilles Deleuze in una straordinaria intervista del 1977 sui «nouveaux philosophes». All’intervistore che gli chiedeva cosa pensasse di questa nuova schiera di giovani pensatori per lo più ex maoisti e normalisti, Deleuze risponde subito: «Nulla. Credo che il loro pensiero sia nullo» [...] ma al tempo stesso «più fragile è il contenuto del pensiero, più acquista importanza il pensatore, e tanto più grande è l’importanza che si attribuisce il soggetto d’enunciazione rispetto agli enunciati vuoti».
Insomma dopo l’avanguardia che aveva messo in discussione la funzione autore, in musica, in pittura, nel cinema e anche nella filosofia, si assisteva ora a «un massiccio ritorno a un autore o a un soggetto vuoto e alquanto vanitoso», ritorno che rappresentava «una sgradevole forza reazionaria», in virtù della quale però i nouveaux philosophes si presentavano come dei «veri innovatori» che introducevano in Francia il marketing letterario e filosofico2. E aveva proprio ragione Deleuze, perché un anno prima, nel 1976, BHL aveva inventato la pub-filosofia confezionando ad hoc un dossier su «Les Nouvelles Littéraires» e lanciando il fenomeno mediatico che avrebbe funzionato da modello per tanti altri che si sarebbero succeduti: i nuovi critici, i nuovi pittori, i nuovi designer, il nuovismo d’assalto degli anni Ottanta3.
Eccola dunque l’invenzione dell’intellettuale imprenditore di se, a cui va riconosciuto senz’altro il merito di aver intuito subito il senso della sussunzione del lavoro culturale sotto il capitale e le chanches offerte dalla società dello spettacolo. L’Italia non è stata da meno, e anzi è riuscita anche ad anticipare i cugini francesi con la velocità di ABO che già nel ’72, con una geniale operazione di marketing, fece affiggere a Roma dei manifesti dove sotto la sua figura comparivano le parole: «Io sono Achille Bonito Oliva, il critico, dunque il coglione». L’intellettuale mediatico e imprenditore di se, senza resti, è una delle possibilità aperte dalla controrivoluzione neoliberista, che disegna però le forme concettuali all’interno delle quali si trova catturato l’intellettuale in generale e il knowledge worker del Quinto Stato.
Ma l’intellettuale di se stesso non esiste fuori dalla restaurazione della funzione autore e quindi da una ipersoggettivazione individualista, narcinista e caricaturale. Sono queste forme concettuali che vanno abbandonate, ricordando per esempio che prima dell’«Italian Theory» c’è stata la «Conricerca», non un brand da spendere sul mercato internazionale della cultura, ma una pratica teorico-politica, oltre la funzione autore, per rovesciare lo stato di cose presente. Forse da qui si può ripartire per guarire dalla «sindrome di Belen» e costruire quelle forme di vita in comune che auspichiamo insieme agli autori di «aut aut» e che altro non possono essere se non «ciò a cui si riferiva Marx parlando del compositore di musica e dell’opera d’arte come anticipazione formale di una produzione senza dominio»4.
Il fascicolo di «aut aut» viene presentato oggi 26 maggio a Villa Mirafiori (via Carlo Fea 2, Roma) - ore 17.30 aula XV. Intervengono i curatori, gli autori dei saggi e Giuseppe Allegri, Ilaria Bussoni, Ilenia Caleo, Viola Giannoli, Nicolas Martino, Elettra Stimilli.
Alfred Sohn-Rethel, Il denaro. L’apriori in contanti, Editori Riuniti 1991, p.14. [↩]
Gilles Deleuze, À propos des nouveaux philosophes et d’un problème plus general, supplemento al n. 24 di «Minuit», maggio 1977; trad.it. A proposito dei nuovi filosofi e di un problema più generale, in Id., Due regimi di folli e altri scritti. Testi e interviste 1975-1995, Einaudi 2010. [↩]
Per un’analisi del fenomeno mediatico dei nouveaux philosophes si veda anche François Aubral-Xavier Delcourt, Contro i «Nuovi filosofi», Mursia 1978. [↩]
Paolo Virno, I sognatori di una vita riuscita, in «Metropoli» n.1. 1979, p.45. [↩]
FILOSOFIE. Che ci tocchi attribuire un significato all’universo è la grande intuizione della scuola di pensiero dell’antica Grecia. Una lezione che torna utile anche oggi, quando dimentichiamo che non bisogna dividere i buoni dai cattivi ma risolvere problemi.
Il linguaggio, la politica e noi.
I sofisti hanno ragione
Il mondo senza un senso assoluto, la verità è frutto di un negoziato
di Mauro Bonazzi (Corriere della Sera, La Lettura, 24.05.2015)
I sofisti sono i perdenti della storia. Ne fa fede il termine stesso, «sofista»: da esperto del sapere (sophistes è imparentato con sophia, «sapienza») a poco più che ciarlatano. Sofista, oggi come ieri, è chi gioca con le parole, chi imbastisce ragionamenti capziosi al solo fine di prevalere in una discussione. Il giudizio di Aristotele è tombale: il sapere dei sofisti è un sapere delle apparenze e dunque un’apparenza di sapere. Un sapere illusorio, fatto di parole brillanti ma vuote: fossero vissuti oggi, i sofisti imperverserebbero negli studi televisivi, pronti a sostenere non importa quale tesi, capaci delle più imprevedibili giravolte. Oppure, ma in fondo è la stessa cosa, li troveremmo nelle stanze segrete della politica, impegnati ad ammantare di belle parole i propositi non sempre nobili dei loro capi. Gli altri, le persone per bene e i filosofi, fanno altro, si occupano di problemi seri, e di cose reali.
La questione è però che anche i sofisti, spregiudicati e cialtroni quanto si voglia, si occupano di cose reali. Si occupano delle parole, che sono come un pharmakon, diceva il sofista Gorgia, come una medicina o una droga, sostanze che possono salvare ma anche uccidere. A chi li frequentava i sofisti promettevano che avrebbe imparato a padroneggiare il linguaggio per affermarsi in tutte le situazioni - perché in una società complessa non si prevale con la forza, ma con le parole.
All’inizio degli anni Novanta, sfumate le illusioni del comunismo, da destra a sinistra tutti si dicevano liberali e tutti parlavano di libertà, termini di per sé opachi, aperti a molteplici interpretazioni. Alla fine, di queste parole si è appropriato Silvio Berlusconi: ha impresso loro la rotazione che gli serviva e ha governato vent’anni. Le parole contano e andare a lezione dai sofisti a volte conviene. Ma la lezione dei sofisti non si esaurisce in questa dimensione pratica, per cui importa solo il controllo concreto delle parole. Più interessante è la riflessione sottotraccia.
Detto in sintesi, la filosofia è il grandioso tentativo di trovare il senso della realtà. Ci siamo noi e c’è il mondo: il compito della filosofia è scoprire il senso del mondo, mostrarne la razionalità e offrirci una guida per le nostre azioni. Per i sofisti è tutto più complicato: ci siamo noi e c’è il mondo, certo. Ma è sicuro che ci sia un legame tra noi e il mondo? L’intuizione dei sofisti è tutta qui: è la presa d’atto del rapporto problematico che separa noi e la realtà, i soggetti e gli oggetti. La realtà che ci circonda è sfuggente, non è dotata di senso univoco e tanto meno di un valore assoluto. Non si tratta dunque di estrarre un senso dalla realtà; al contrario si tratta di darle un significato e un valore - un significato e un valore umano. In questo i sofisti fanno propria un’idea di fondo dei greci (ma non dei filosofi greci): che il mondo non è qui per noi, ma che siamo noi a doverci adattare ad esso. E per fare questo lo strumento di cui disponiamo è il logos: i pensieri, i ragionamenti, le parole e i discorsi.
Questo strumento che è il linguaggio può però essere usato bene o male, e in entrambi i casi i sofisti hanno qualcosa da dire. Il linguaggio è usato male quando viene sfruttato per giustificare abitudini e pregiudizi, o ancora peggio rapporti di forza. È la legge delle tre «n»: normale, naturale, normativo. Se fino a qui è stato normale fare così, vuol dire che era naturale fare così; e se era naturale vuol dire che era giusto: normale, dunque naturale, dunque normativo... Da che mondo è mondo, le donne stanno a casa; e se così accade è perché è naturale che sia così. E dunque è giusto che sia così. Ma perché poi? Si noti: i sofisti non hanno tesi da sostenere, ma pregiudizi da smascherare. Magari è giusto che le donne stiano a casa. Ma bisogna dimostrarlo.
L’effetto dirompente di un simile atteggiamento si manifesta soprattutto nel campo della politica. Negli stessi anni dei sofisti, ad Atene aveva trionfato una tragedia di Sofocle, che celebrava il nobile sacrificio di Antigone, disposta a morire pur di rispettare i suoi ideali di giustizia. Ma Antigone, per i sofisti, aveva sbagliato tutto, perché aveva presupposto l’esistenza - ma perché poi? - di una giustizia divina e assoluta, sulla cui base aveva regolato le proprie azioni. La giustizia però non è una divinità: è quanto di più umano vi possa essere, è il risultato di accordi e decisioni umane e fin troppo umane. Peggio: la giustizia è l’utile del più forte, come Trasimaco spiega a Socrate nella Repubblica di Platone. Questa è la realtà dei fatti: la giustizia è il valore che regola i rapporti all’interno di una comunità. Ma essa non è assoluta (vale a dire indipendente dagli e superiore agli uomini) o neutra (vale a dire distaccata e imparziale): è piuttosto il risultato dei rapporti di forza che attraversano una data società. La giustizia è il sistema di regole che chi detiene il potere impone agli altri per tutelare il proprio interesse.
Si pensi al grande scontro ideologico che ha dominato il secolo scorso, quello tra comunismo e liberalismo. Per i comunisti giustizia era un’equa ripartizione dei beni; per i liberali era il trionfo della libertà. Ma perché poi, si chiede il sofista? Non è che i comunisti sostenevano la loro idea perché adottavano il punto di vista del popolo, desideroso di entrare in possesso dei beni dei possidenti? E i liberali non peroravano forse la causa della libertà proprio per tutelare le proprietà di quei possidenti? «A pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca», verrebbe voglia di chiosare con un noto politico italiano, che dei sofisti era evidentemente buon lettore.
Questo atteggiamento disincantato potrà spiacere per il suo cinismo ostentato. Il mondo visto con le lenti dei sofisti è in effetti un mondo ambiguo, faticoso, dove tutti hanno qualche ragione da far valere e qualche interesse da difendere.
Potrà non piacere, ma l’esperienza internazionale insegna che conviene tenerne conto: troppo spesso quando scoppiano rivolte o conflitti, in Siria, in Libia, in Ucraina, ci si preoccupa di distinguere tra buoni e cattivi, senza pensare alle conseguenze di quello che si sta facendo, agli interessi e ai rapporti di forza in gioco. In certi casi almeno, i buoni e i cattivi ci sono anche: ma il problema della politica è dividere il mondo tra buoni e cattivi o risolvere i conflitti?
L’intuizione dei sofisti è insomma la presa d’atto della relazione costitutiva tra il linguaggio e la politica. L’uomo è un animale politico e la politica si fa prima di tutto con le parole: il linguaggio è un fatto politico. E questo apre anche a una dimensione più positiva. La lezione dei sofisti è anche un invito a farsi carico delle proprie scelte in modo consapevole, a costruire insieme un mondo in cui ci si possa ritrovare, uscendo dalla logica della forza.
Rinunciare alla pretesa di essere detentori di una verità assoluta non vuol dire essere completamente privi della verità, come se non esistesse. Vuol dire prendere atto che i punti di vista sono tanti e tutti meritano di essere tenuti in considerazione. Quando il sofista Protagora proclamava che «l’uomo è misura di tutte le cose», questo voleva intendere: che ognuno di noi (l’uomo come individuo) ha delle ragioni da far valere e che tutti insieme (l’uomo come umanità) possiamo e dobbiamo trovare un accordo.
Bisogna insomma vigilare affinché le parole rimangano patrimonio condiviso. Non sembra un problema centrale, e invece è fondamentale. Allievo dei sofisti, lo storico Tucidide ha colto meglio di tanti altri che la comunità umana poggia su basi fragili. Sul finire del V secolo avanti Cristo la Grecia fu devastata dalle guerre civili: si assistette a padri che uccidevano i figli e a figli che uccidevano i padri, a supplici che venivano sterminati nei templi in cui si erano rifugiati, al sovvertimento di qualunque regola morale e civile. Ma davvero sconvolgente, riferisce Tucidide, è quello che era successo alle parole: avevano perso un significato condiviso, venivano usate per fini privati, per giustificare non importa quali azioni. La guerra civile, la riduzione degli uomini a uno stato bestiale, passa anche per la manipolazione delle parole.
Sono episodi lontani, che difficilmente si ripeteranno? Eppure Victor Klemperer, un filologo tedesco, ha osservato che proprio l’appropriazione delle parole aveva spianato il cammino di Adolf Hitler: «Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico».
Ancora più eloquenti sono le parole di una rifugiata del Ruanda: «Devo precisare un’osservazione importante: il genocidio ha cambiato certe parole nella lingua dei rifugiati, e ha decisamente fatto sparire il senso di altre parole, e colui che ascolta deve essere attento a queste perturbazioni di senso».
In Italia, fortunatamente, siamo lontani da queste aberrazioni. Ma il rischio che le parole si consumino, che perdano un significato condiviso non è per niente remoto: cosa significa oggi «democrazia»? E «giustizia» o «libertà»? Si badi: le parole sono sempre instabili e i significati sono sempre il risultato di una negoziazione. Il problema è quando si perde coscienza di questa instabilità. Rileggere quei cattivi maestri che sono stati i sofisti potrà forse servire a evitare di ricadere in questo errore.
Breve catalogo dei luoghi comuni sulla nostra libertà
di Chimamanda Ngozi Adichie (la Repubblica, 10.05.2015) *
OKOLOMA era uno dei miei più cari amici d’infanzia. Abitava nella mia stessa strada e si prendeva cura di me come un fratello maggiore. Se mi piaceva un ragazzo, gli chiedevo che ne pensava. Okoloma era spiritoso e intelligente e portava stivali da cowboy a punta. È morto nel dicembre del 2005 in un incidente aereo nel sud della Nigeria. Faccio ancora fatica a esprimere a parole cosa ho provato allora. Okoloma era uno con cui potevo discutere, ridere, parlare davvero. Era anche la prima persona ad avermi dato della femminista. Avrò avuto quattordici anni.
Eravamo a casa sua e discutevamo riempiendoci la bocca di idee traballanti ricavate dalle nostre letture. Non ricordo di cosa stessimo discutendo. Ma ricordo che, mentre snocciolavo i miei argomenti, Okoloma mi guardò e disse: «Sei proprio una femminista». Non era un complimento. Lo intuii dal tono, lo stesso con cui uno direbbe: «Quindi difendi il terrorismo ». Non sapevo l’esatto significato della parola “femminista”. E non volevo che Okoloma sapesse che non lo sapevo. Così ripresi la discussione facendo finta di niente, ripromettendomi di cercare la parola sul vocabolario non appena fossi tornata a casa.
Nel 2003 ho scritto un romanzo intitolato L’ibisco viola. Parla di un uomo che, tra le altre cose, picchia la moglie, e che non fa una bella fine. Mentre promuovevo il libro in Nigeria, un giornalista - un signore gentile e benintenzionato - mi ha voluto dare un consiglio (come forse saprete, i nigeriani sono sempre pronti a dare consigli non richiesti). Mi ha detto che secondo molte persone il mio era un romanzo femminista, e il suo consiglio - parlava scuotendo la testa con aria triste - era di non definirmi mai femminista, perché le femministe sono donne che non trovano marito e, dunque, infelici. Così ho deciso di definirmi una Femminista Felice.
Poi una professoressa universitaria nigeriana mi ha detto che il femminismo non faceva parte della nostra cultura, che il femminismo non era africano e che mi definivo femminista solo perché ero stata influenzata dai libri occidentali (cosa che mi ha fatto sorridere, perché molte delle mie prime letture sono state decisamente poco femministe: credo di aver letto ogni volume della serie di romanzi rosa Mills & Boon pubblicato prima che compissi sedici anni. E, ogni volta che provo a leggere i cosiddetti “classici del femminismo”, mi annoio e faccio fatica a finirli). A ogni modo, dato che il femminismo non era africano, ho deciso di definirmi una Femminista Felice Africana. Poi un caro amico mi ha detto che definirmi femminista voleva dire che odiavo gli uomini. Così ho deciso di definirmi una Femminista Felice Africana Che Non Odia Gli Uomini. A un certo punto ero diventata una Femminista Felice Africana Che Non Odia Gli Uomini e Che Ama Mettere il Rossetto e i Tacchi Alti Per Sé e Non Per Gli Uomini.
Naturalmente in questo c’era parecchia ironia, ma la vicenda dimostra che la parola «femminista» si porta dietro un bagaglio negativo notevole: odi gli uomini, odi i reggiseni, odi la cultura africana, pensi che le donne dovrebbero sempre essere ai posti di comando, non ti trucchi, non ti depili, sei perennemente arrabbiata, non hai senso dell’umorismo, non usi il deodorante.
Ora ecco un episodio della mia infanzia. Quando ero alle elementari a Nsukka, una città universitaria nel sudest della Nigeria, all’inizio dell’anno la mia insegnante ci fece fare un compito dicendo che la persona con il voto più alto sarebbe diventata capoclasse. Diventare capoclasse era una cosa importante. Il capoclasse scriveva ogni giorno i nomi degli alunni chiassosi, di per sé un esercizio di potere già abbastanza inebriante, e in più la maestra ti dava una bacchetta da tenere in mano mentre pattugliavi l’aula. Naturalmente non avevi il diritto di usarla. Ma ai miei occhi di bambina di nove anni era comunque una prospettiva eccitante. Volevo assolutamente diventare capoclasse. E presi il voto più alto. Poi, con mia grande sorpresa, la maestra disse che il capoclasse doveva essere un maschio. Si era dimenticata di precisarlo. Lo aveva dato per scontato. Il voto più alto dopo il mio lo aveva preso un bambino. E il nuovo capoclasse sarebbe stato lui. La cosa interessante è che il bambino in questione era un’anima mite e per nulla attratta dall’idea di pattugliare la classe con una bacchetta in mano. Mentre io non sognavo altro. Ma io ero una femmina e lui un maschio, e così fu lui a diventare capoclasse. Non ho mai dimenticato quell’episodio. Se facciamo di continuo una cosa, diventa normale. Se vediamo di continuo una cosa, diventa normale. Se solo i maschi diventano capoclasse, a un certo punto finiamo per pensare, anche se inconsciamente, che il capoclasse debba per forza essere un maschio.
Traduzione Francesca Spinelli (Testo tratto da Dovremmo essere tutti femministi , Einaudi)
Agorà pedagogica
di Alain Goussot * ("comune-info", 26 aprile 2015)
In questo momento sta crescendo il movimento di protesta degli insegnanti contro il progetto del governo Renzi-Giannini, un progetto che, nei fatti trasforma la scuola in una azienda e legittima le diseguaglianze sociali contraddicendo in questo modo la carta costituzionale. È molto probabile che il governo e il ministero rimangano completamente sordi alla protesta e che facciano passare il disegno di legge, tenuto conto delle tredici deleghe in bianco che ha a disposizione si capisce che farà quello che vuole. Ma non ascoltare quello che sale dalla società e in particolare dal mondo degli insegnanti che sono a contatto quotidiano con gli alunni è un atteggiamento miope e che denota una concezione profondamente antidemocratica del governo.
Tuttavia, dal movimento di protesta nelle scuole contro il disegno di legge la Buona scuola potrebbe nascere un nuovo progetto democratico per la scuola italiana, un progetto pedagogico serio che affronti le questioni dell’eguaglianza delle opportunità nell’accesso ai sapere e alle conoscenze, all’istruzione per tutti, della formazione culturale generale e solida di un cittadino consapevole e in grado di pensare con la propria testa, di una integrazione tra un recupero dell’identità umanistica della cultura italiana e una serie formazione scientifica, di una scuola accogliente e davvero inclusiva, di una scuola ormai multiculturale e meticcia.
Un grande progetto di rinnovamento della scuola che sappia mettere al centro la pedagogia e una didattica ricca e viva, che sappia preparare gli insegnanti sia per entrare nella professione docente che per continuare ad aggiornarsi durante la carriera, una scuola che sappia dialogare con la comunità e le famiglie in una prospettiva co-educativa costruendo una grande alleanza pedagogica per un futuro di democrazia e di sviluppo umano basato sulla solidarietà, la giustizia, l’eguaglianza , il riconoscimento delle differenze e la libertà responsabile.
Per aiutarsi la scuola, gli insegnanti possono ispirare dal grande e ricco patrimonio d’idee prodotte dalla storia dell’educazione attiva, basta pensare a Maria Montessori, Mario Lodi, Gianni Rodari, Bruno Ciari, Dina Bertone Jovine, Aldo Visalberghi, Lamberto Borghi, Don Lorenzo Milani, Antonio Banfi, Piero Bertolini, Giovanni Maria Bertin ma anche John Dewey, Ovide Decroly, Adolphe Ferrière, Edouard Claparède, Roger Cousinet, Célestin Freinet, Lev Vygotskij, Anton Makarenko, Paulo Freire ecc. Insomma l’esperienza ricca e diretta di migliaia di insegnanti nelle loro scuole e nell’attività quotidiana combinata con le fonti storiche delle pedagogie attive e critiche (per arrivare fino ad oggi) può favorire un Rinascimento pedagogico che sappia rilanciare e ridare vitalità alla scuola democratica, meticcia e pluralista della Repubblica! La protesta radicale diventerà in questo modo progetto collettivo che interpella tutta la società e farà della scuola l’epicentro del rinnovamento culturale e sociale autentico del paese.
Credo che gli insegnanti debbano trasformare le loro scuole in bastioni della difese della democrazia e del diritto per tutti di accedere all’istruzione, devono fare delle loro scuole un Agorà pedagogica che sappia diventare spazio di discussione e dialogo educativo progettuale tra insegnanti, insegnanti alunni e genitori.
Anton Makarenko, il grande pedagogista ed educatore sovietico dopo la rivoluzione del 1917, parlava di collettivi pedagogici cioè di spazi organizzati dove educatori, insegnanti, genitori e anche ragazzi si confrontavano sulle grandi questioni della formazione dei futuri cittadini e dell’accesso di tutti ai sapere e alle conoscenze necessarie per essere delle donne e degli uomini effettivamente autonomie liberi. Paulo Freire, il grande pedagogista brasiliano, parlava di circoli culturali e pedagogici aperti a tutti come spazi di partecipazione democratica alla riflessione sui grandi temi dell’istruzione, dell’educazione, della giustizia, dell’ambiente, della democrazia partendo dalla formazione scolastica.
I collettivi pedagogici nelle scuole possono essere dei luoghi di elaborazione progettuale e anche di presa di coscienza collettiva e di sensibilizzazione di tutta la comunità sull’importanza della scuola come bene comune. I collettivi pedagogici possono essere composti da insegnanti, educatori, cittadini interessati e anche alunni. Luoghi aperti in cui si riflette e si costruisce assieme il futuro della scuola e questo in ogni territorio. Credo che sia la migliore risposta da dare, accompagnando le proteste, le manifestazioni e il movimento in atto nella direzione della costruzione partecipata dal basso di quel intellettuale collettivo di cui parlava Antonio Gramsci.
Collettivi pedagogici di diverse scuole possono collegarsi tra di loro e condividere argomenti di discussione e proposte questo sia nella medesima comunità che tra comunità territoriali diverse. In questo modo la protesta diventa un attore riflessivo e davvero rivoluzionario.
*Alain Goussot è docente di pedagogia speciale presso l’Università di Bologna. Pedagogista, educatore, filosofo e storico, collaboratore di diverse riviste, attento alle problematiche dell’educazione e del suo rapporto con la dimensione etico-politica, privilegia un approccio interdisciplinare (pedagogia, sociologia, antropologia, psicologia e storia).
Ha pubblicato: La scuola nella vita. Il pensiero pedagogico di Ovide Decroly (Erickson); Epistemologia, tappe costitutive e metodi della pedagogia speciale (Aracneeditrice); L’approccio transculturale di Georges Devereux (Aracneeditrice); Bambini «stranieri» con bisogni speciali (Aracneeditrice); Pedagogie dell’uguaglianza (Edizioni del Rosone). Il suo ultimo libro è L’Educazione Nuova per una scuola inclusiva (Edizioni del Rosone)
CRISI DELLA CIVILTA’: FINE DEL "ROMANZO FAMILIARE" EDIPICO DELLA CULTURA CATTOLICO-ROMANA:
Papa Francesco contro la teoria del gender: "Espressione di frustrazione”
Nel corso dell’udienza in Piazza San Pietro, Bergoglio sottolinea le differenze e la complementarietà tra uomo e donna. Ed evidenzia anche l’importanza del legame matrimoniale e familiare “non solo per i credenti”
di Francesco Antonio Grana (Il Fatto, 15 aprile 2015)
“La teoria del gender espressione di frustrazione e rassegnazione che mira a cancellare la differenza sessuale”. Papa Francesco, nella catechesi dell’udienza generale del mercoledì in piazza San Pietro, ha attaccato la teoria secondo cui la distinzione tra maschi e femmine non è data dal fattore biologico, ma dalla singola sensibilità del soggetto. “La cultura moderna e contemporanea - ha affermato Bergoglio - ha aperto nuovi spazi, nuove libertà e nuove profondità per l’arricchimento della comprensione delle differenze tra uomo e donna. Ma ha introdotto anche molti dubbi e molto scetticismo. Per esempio mi domando se la cosiddetta teoria del gender non sia anche espressione di una frustrazione e di una rassegnazione, che mira a cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi con essa. Sì, - ha aggiunto il Papa - rischiamo di fare un passo indietro. La rimozione della differenza, infatti, è il problema, non la soluzione”.
Parole che si ricollegano a quelle espresse più volte dal presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Angelo Bagnasco, che ha sostenuto che “il gender edifica un ‘transumano’ in cui l’uomo appare come un nomade privo di meta e a corto di identità”. Ma il porporato ha anche puntato il dito più volte contro “i libri dell’Istituto A.T. Beck, dal titolo accattivante ‘Educare alla diversità a scuola’ e ispirati alla teoria del gender” bollandoli come “colonizzazione ideologica”. Da qui l’invito del presidente della Cei ai genitori a esercitare “il diritto di astenere i propri figli da quelle ‘lezioni’ senza incorrere in nessuna forma, né esplicita, né subdola, di ritorsione, come sta invece accadendo in qualche Stato vicino a noi”.
Nella sua catechesi sulla famiglia, dedicata alla complementarietà tra l’uomo e la donna, il Papa ha sottolineato che la differenza tra i due generi “non è per la contrapposizione, o la subordinazione, ma per la comunione e la generazione, sempre a immagine e somiglianza di Dio”. Per Francesco, infatti, “per conoscersi bene e crescere armonicamente l’essere umano ha bisogno della reciprocità tra uomo e donna. Quando ciò non avviene, se ne vedono le conseguenze. Siamo fatti per ascoltarci e aiutarci a vicenda. Possiamo dire che senza l’arricchimento reciproco in questa relazione, nel pensiero e nell’azione, negli affetti e nel lavoro, anche nella fede, i due non possono nemmeno capire fino in fondo che cosa significa essere uomo e donna”.
Bergoglio ha sottolineato anche l’importanza del legame matrimoniale e familiare “non solo per i credenti”. “Vorrei esortare gli intellettuali - è stato l’appello del Papa - a non disertare questo tema, come se fosse diventato secondario per l’impegno a favore di una società più libera e più giusta”. Infine, l’invito a “fare molto di più in favore della donna, se vogliamo ridare più forza alla reciprocità fra uomini e donne. È necessario, infatti, - ha aggiunto Francesco - che la donna non solo sia più ascoltata, ma che la sua voce abbia un peso reale, un’autorevolezza riconosciuta, nella società e nella Chiesa. È una strada da percorrere con più creatività e più audacia per valorizzare il genio femminile”.
Marx più Heidegger. Ecco il comunismo 2.0
È uscito il saggio di Gianni Vattimo e Santiago Zabala sull’idea d’una società alternativa. A differenza dal passato però la violenza rivoluzionaria è esplicitamente rifiutata
di Franca D’Agostini (La Stampa, 28.11.2014)
Comunismo ermeneutico, di Gianni Vattimo e Santiago Zabala, è un libro che è necessario leggere, per chiunque sia interessato alla filosofia, alla politica, e ai rapporti tra l’una e all’altra. Non perché sia ineccepibile (al contrario avrei da eccepire a diverse tesi presentate dai due autori) ma per un’altra ragione, più seria e profonda.
Dal punto di vista ideologico-politico viviamo in un’epoca di morti viventi: teorie già morte e finite, che però continuano a fare danno (si possono tralasciare gli esempi: chiunque potrebbe citare due o tre casi, da destra o da sinistra). Ma viviamo anche in un’epoca di sepolti vivi: teorie e ipotesi che sono state affrettatamente tumulate, prima che riuscissero a svilupparsi pienamente e a manifestare i loro meriti e le loro ragioni.
E uno di questi sepolti vivi è precisamente, io credo, quella variante dell’ermeneutica che Vattimo pensò come «pensiero debole»: una posizione filosofica che è stata troppo rapidamente liquidata, quando aveva ancora qualcosa da dire, o anzi (mia opinione) non aveva ancora incominciato a dire il meglio di quel che doveva-poteva dire.
Uno degli aspetti centrali del debolismo ermeneutico era la sua ricaduta politica, e in particolare l’idea che l’ermeneutica (la filosofia dell’interpretazione elaborata da Hans Georg Gadamer, Paul Ricoeur, Luigi Pareyson) potesse configurarsi non tanto come «pensiero debole», ma come «pensiero dei deboli»: voce delle parti più sfortunate della società, e parola pronunciata in loro difesa. Questo aspetto legava il pensiero debole di Vattimo al Cristianesimo, creando l’idea paradossale ma plausibile di un Gesù «nichilista», pronto a mettere in discussione le (false) verità degli scribi, dei sacerdoti, dei farisei.
In Comunismo ermeneutico i due autori non sviluppano molto le basi filosofiche della loro prospettiva. E non c’è molto, nel libro, delle posizioni originarie di Vattimo. C’è invece una rapida liquidazione delle problematiche della verità, del realismo, della metafisica, semplicemente identificati come i tre costituenti della «politica delle descrizioni» che secondo gli autori starebbe alla base del capitalismo. E per tutto il libro con ostinazione si ripete che «l’imposizione della verità e la difesa del realismo» sono i grandi nemici della giustizia globale.
L’ermeneutica, in quanto pensiero interpretativo e non descrittivo, si contrapporrebbe a tali nemici, in una guerra che è la nostra attuale «emergenza», secondo gli autori. Si tratta allora di contrastare il ferreo ordine capitalistico mondiale con un pensiero che non aspira né alla verità né all’oggettività, e neppure alla forza rivoluzionaria, ma si concede libero al conflitto delle interpretazioni.
Non so se davvero il capitalismo in questa fase storica terminale debba davvero descriversi (interpretarsi) come «politica delle descrizioni». Non so se i nemici che i poveri del mondo devono combattere siano davvero la metafisica, il concetto di verità, o quella astrazione che gli autori chiamano «realismo», e che a me sembra una specie di caricatura del cosiddetto «realismo ingenuo». Dubito che sia così.
Inoltre, i due autori citano la politica di Chávez come «la grande novità della politica mondiale». Ma ci chiediamo: davvero il «nuovo» di Chávez, e di Morales, Correa, Mujica e dei Kirchner, e «persino Papa Bergoglio» ha come sfondo filosofico il rifiuto della verità e il contrasto tra descrizioni e interpretazioni? L’aggancio tra l’ermeneutica debolista e il decisionismo forte, veritativo e descrittivo, necessario per una politica concreta (specie di stampo comunista) sembra delineato nel libro in modo piuttosto vago.
Ma è ovvio che Vattimo e Zabala lavorano in un linguaggio speciale, che hanno ereditato da interpretazioni e reinterpretazioni di Rorty, Derrida, Heidegger, Nietzsche; e per capire la loro proposta occorre entrare in questo linguaggio, e condividerne le regole.
Per esempio, ciò che unisce Marx e Heidegger, dicono, è la critica della metafisica, ma «metafisica» non è la disciplina filosofica che ha questo nome, bensì un modo di vedere la realtà funzionale agli interessi dei potenti della Terra. Ciò che chiamano «descrizioni» non è il semplice descrivere cose più o meno reali o immaginate, ma la pretesa «oggettivistica» di catturare il mondo «dall’alto», con le parole i discorsi i concetti, e imprigionare in tale cattura anche le libere esistenze dei singoli umani.
E il comunismo a cui pensano Vattimo e Zabala non è ciò che canonicamente si può intendere per comunismo ma il principio della comunanza, quale si esprime nel vangelo di Matteo: «Dovunque due o tre sono radunati nel nome mio, quivi son io in mezzo a loro». E «nel nome mio», spiegano gli autori, significa «nel nome della giustizia, della fraternità, e della solidarietà».
Iniziamo dunque a vedere la ragione per cui occorre leggere Comunismo ermeneutico: per riprendere il discorso sul rapporto tra filosofia e «pensiero dei deboli», e se mai confermare che la filosofia (anche nella variante quasi «anti-filosofica» delineata da Vattimo e Zabala) in definitiva è sempre stata e dovrebbe continuare a essere, come diceva Jean-François Lyotard, la force des faibles.
Una teoria complessa, facile da raccontare
di ANDREA COMENCINI (il manifesto, 15 Luglio 2014)
«I bambini capitalisti quando nascono sono dei bambini uguali a tutti gli altri. Non sono ancora dei bambini capitalisti. E non lo sono nemmeno nei primissimi anni della loro vita. Poi a un certo punto succede qualcosa nella loro testa e invece di continuare ad essere bambini uguali a tutti gli altri diventano dei bambini capitalisti».
L’incipit del fortunatissimo libro, uscito per le edizioni Clichy, di Gérard Thomas - Il comunismo spiegato ai bambini capitalisti (e a tutti quelli che lo vogliono conoscere) - già autore di culto in Francia, annuncia subito al lettore la domanda principale del racconto: perché, ad un certo punto delle nostre vite di bambini, accade qualcosa che ci trasforma in capitalisti, segnandoci per sempre.
Il racconto è il terzo lavoro di questo eccentrico scrittore, dopo Come si diventa presidente (2002) e L’anarchia è una cosa semplice (2007); da anni vive nelle Isole Marchesi, dove si dedica alla passione per l’apicultura, accomunata dal desiderio di rendere accessibili alcuni concetti politici, spesso molto complessi. Non si tratta ovviamente di una summa generalizzante o superficiale, né di una stringata sintesi di fatti e cronache. Il sottotitolo, «e a tutti quelli che lo vogliono conoscere», spiega che non è solo lettura per adolescenti, ma investigazione storica adatta anche ad un pubblico adulto. Aspettarsi una lezione fin troppo semplice, od una esposizione fiabesca dell’idea di comunismo, sarebbe quindi un errore madornale, vista la perizia con cui si riporta la storia delle idee socialiste e le vicende correlate. Il racconto, un vero e proprio viaggio, parte dall’incontro con gli uomini primitivi, poi via per le città di Ur e Nazareth, fino a Parigi, Londra, la Cina, e spiega l’illuminismo, la Rivoluzione francese e russa, l’incredibile storia della Comune, il Sessantotto ecc.
Alcuni personaggi e fatti sono raccontati con più intensità rispetto ad altri, perché possono insegnare ancora molto a proposito di quanto accade nelle nostre vite. Quando si parla dell’«esercito di riserva» dei disoccupati, per esempio, Thomas, analizzando le idee di Marx, assolve perfettamente il suo compito di divulgatore: «Per risolvere questo problema dei capitalisti (l’accumulo di plusvalore) diventa essenziale la presenza di un gran numero di disoccupati, che alimentano la concorrenza fra gli operai garantendo un basso livello dei salari e una insita debolezza della classe operaia, che avendo accanto a sé persone talmente povere e disperate da accettare qualsiasi lavoro e qualsiasi salario, sono costrette a moderare le loro richieste e le loro rivendicazioni per non perdere il loro lavoro». Una storia non negata
Apprezzato in patria, Thomas ha anche ricevuto delle critiche. L’accusa più pesante è stata voler omettere gli orrori e gli eccessi che il socialismo reale ha prodotto in alcuni casi della sua storia. Tesi curiosa, perché l’autore non rinuncia mai a biasimare i crimini commessi da Pol Pot in Cambogia, o l’accentramento burocratico e autoritario avvenuto in differenti periodi della storia sovietica. Ciò che non gli si perdona, presumibilmente, è l’aver tracciato con estrema correttezza e onestà la linea divisoria tra responsabilità individuali e teoria politica, fra aspirazione alla giustizia e sua realizzazione terrena. È in questa distinzione che si coglie la forza persuasiva del libro, e si arriva alla risposta del quesito iniziale.
Comunismo è certamente storia e racconto di quella stessa storia, ma soprattutto la tensione costante di una umanità, fin dai primordi, intenta a cancellare la prevaricazione dell’uomo sull’uomo, assente quando si è bambini, e poi schiacciante quanto si entra nella società dei consumi e del denaro.
Il comunismo, per Thomas, così ci confida nelle pagine finali del testo, oltre a essere un evento epocale, è soprattutto l’esigenza eterna di affermare che «tutti gli esseri umani sono uguali, tutti gli esseri umani hanno gli stessi diritti, nessun essere umano può sfruttare altri essere umani, tutti gli esseri umani devono avere le stesse possibilità. E soprattutto, tutti gli esseri umani hanno il diritto di essere felici». Quella felicità, per l’appunto, che ci accompagna da bambini, e che un giorno ci abbandona, lasciando un persistente sentimento di melanconia.
L’onda
di Maria Novella De Luca (la Repubblica, 1 luglio 2014)
Roma. Nel cuore del potere. O almeno molto vicine. Mai così tante. Curriculum eccellenti, testarda bravura, ma anche l’onda d’urto delle quote rosa. Per l’Italia è la prima volta. Una parlamentare su tre è donna. Nei Cda la presenza femminile sfiora il 25%. La squadra di governo è formata da otto ministri e otto ministre, simmetria perfetta ma soprattutto simbolica. Maria Angela Zappia, una carriera in ascesa nella diplomazia italiana, è stata nominata ambasciatrice per il nostro paese alla Nato: «Cosa provo? Il grande orgoglio di un incarico così importante, ma anche la consapevolezza di non aver lasciato indietro nessuno...». Né i figli, Claire e Christian, cresciuti con lei in giro per il mondo, né il marito, conosciuto in missione a Dakar. Anche il linguaggio cambia: nessuna cesura, vita e carriera sono una cosa sola.
Era soltanto la scorsa estate, quando a Cernobbio l’ex premier Enrico Letta sobbalzava davanti ad una platea di grisaglie grigie. «In questa sala siamo tutti uomini, è insopportabile...». Dov’è l’altra metà? La risposta è arrivata pochi mesi dopo. Mentre la legge Mosca-Golfo imponeva tra mille malumori sempre più donne ai vertici delle aziende, (dal 7% di presenze nei Cda nel 2011, al 25% di oggi tra pubblico e privato) il nuovo premier Renzi ha preso abilmente il potere e il pallottoliere insieme, lanciando appunto la formula del governo fiftyfifty, ben sapendola gradita all’Europa. Con ministeri anche “pesanti”: agli Esteri Federica Mogherini, alla Difesa Roberta Pinotti. E proprio Pinotti tra due giorni in un convegno organizzato da “Valore D”, racconterà la sua storia umana e politica, ma anche il lavoro prezioso e spesso nascosto delle donne dell’esercito, dalle comandanti alle soldatesse.
Adesso è dunque il tempo di riflettere, come spiega l’economista Daniela De Boca. Per capire se davvero qualcosa muterà nel sistema del potere, aprendo un vero cammino di parità, o se il gioco resterà congelato ai vertici della piramide. «Il cambiamento c’è, ed è il frutto di una pressione fortissima da parte del mondo femminile, quote comprese. Che là dove sono state applicate bene, in Norvegia ad esempio, hanno scardinato la misoginia dei vertici. Ma in Italia quello che vedo invece è il rischio di una polarizzazione: nella fascia alta le donne conquistano ruoli forti, un tempo maschili. Nella fascia media, nella vita di tutti i giorni le donne invece stanno peggio. Diritti che sembravano acquisiti, i congedi per maternità, la parità salariale sono oggi fortemente intaccati».
Dunque cautela. Però le nomine ci sono state, non poche e tutte insieme. Ad aprile scorso un gruppo di qualificatissime manager, scienziate e imprenditrici conquistano i Cda delle più grandi aziende di Stato: Emma Marcegaglia all’Eni, Luisa Todini alle Poste, Patrizia Grieco all’Eni, ma anche Catia Bastioli a Terna, Rossella Orlandi a capo dell’Agenzia delle Entrate.
E Maria Angela Zappia, ambasciatrice italiana alla Nato a Bruxelles. I titoli parlano naturalmente di “valanga rosa”. Lo spoil system di Renzi impone ancora nomi femminili. Il messaggio è chiaro: l’argine è caduto. Ma Luisa Todini, a capo del consiglio di amministrazione di Poste, una figlia adolescente, da anni alla testa dell’azienda di costruzioni di famiglia, invita a guardare le cose dal lato giusto. «In queste nomine hanno contato i curriculum e le esperienze, non le quote. Vengo da una famiglia modesta, che si è fatta da sé, dove mia madre lavorava ed era naturale che anche le donne lavorassero. Mi sono mossa in ambiti fortemente maschili, ma oggi invece sono entrata in una azienda, le Poste, dove la pink revolution è in atto già da tempo».
Certo, aggiunge Todini, «le quote servono, seppure modo transitorio, noi abbiamo vent’anni di ritardo sul fronte dell’occupazione femminile, dunque una spinta è ancora necessaria, perché tutto questo abbia una vera ricaduta sul processo di parità». Un processo favorito oggi «anche da una nuova generazione di mariti, padri e compagni non più nemici della carriera delle loro partner...». I numeri però raccontano un’Italia ancora profondamente “asimmetrica”: l’occupazione femminile è al 49,9% contro il 70% di quella maschile, gli stipendi restano più bassi del 15%.
Alessia Mosca, parlamentare Pd, insieme a Lella Golfo (oggi presidente della Fondazione Bellisario) ha scritto la legge 120 del 2011, le famose quote rosa nei Cda. Una legge che scadrà tra sette anni. «Perché a quel punto ci renderemo conto se è stata un’operazione di maquillage o se ha davvero ha inciso nella vita reale delle donne. Il cambiamento per ora è soltanto nella parte “apicale” della piramide, e non basta un gruppo di top manager donne per contaminare in modo positivo una situazione ancora arretrata. Ma è un inizio, la rottura di un meccanismo inerziale sempre uguale a se stesso».
E duro a morire se si ascolta la testimonianza di una giovane manager, Valentina Saffiotti, 36 anni, direttore della Comunicazione di AstraZeneca, che racconta di essere dovuta fuggire a Bruxelles, per essere valutata soltanto per i suoi meriti, senza più il pregiudizio dell’essere femmina. «A 30 anni le aziende ti guardano con sospetto, perché potresti decidere di diventare madre. E nelle piccole e medie realtà è ancora peggio. E infatti dico sempre: non sono a favore delle quote rosa, ma contro le quote azzurre...».
Catia Bastioli, neo presidente di “Terna” (infrastrutture elettriche) scienziata manager, ex Montedison, in prima linea sulla bioeconomia, punta tutto sul merito. «Attenzione, le quote possono essere una trappola, e così gli slogan. Oggi il nostro paese ha unicamente bisogno di merito, al di là dei generi e l’Italia è spesso più avanti di come viene raccontata. Le donne - dice Bastioli - hanno già un posto forte nelle aziende, con quella visione più ampia delle cose che le rende preziose ovunque. Ma perché possano fare carriera è fondamentale la conciliazione. Proprio io che ho dedicato tutta la mia vita alla ricerca vedo quanta concentrazione ci vuole: e senza supporti da parte dello Stato, asili, welfare, come si possono portare avanti una famiglia e una carriera?». Ed è infatti l’amaro bivio davanti al quale si trovano brillantissime e determinate studentesse, e che spesso si traduce in un rinvio sine die della maternità.
Ma Barbara Saba, vicepresidente di “Valore D”, direttore generale della Fondazione Johnson and Johnson, è invece ottimista. «Più donne ci sono nella politica, nel business, nella ricerca, più donne ancora saliranno sull’ascensore sociale. Il cambiamento è epocale anche se non ancora visibile. Ma per ognuna di noi che ce l’ha fatta è fondamentale la restituzione: aiutare cioè le più giovani a sviluppare i loro talenti. Solo così possiamo sperare che l’ascensore non si fermi».
Compendio del Manifesto convivialista
Dichiarazione di interdipendenza *
Mai come oggi l’umanità ha avuto a disposizione tante risorse materiali e competenze tecnico-scientifiche. Considerata nella sua globalità, essa è ricca e potente come nessuno nei secoli passati avrebbe potuto mai immaginare. Non è detto che sia anche più felice. Tuttavia, non c’è nessuno che desideri tornare indietro, poiché ognuno si rende conto che di giorno in giorno si aprono sempre maggiori e nuove potenzialità di realizzazione individuale e collettiva. Eppure, nonostante ciò, nessuno è disposto a credere che questa accumulazione di potenza possa essere perseguita indefinitamente senza che, in una logica immutata di progresso tecnico, si ritorca contro se stessa e metta a repentaglio la sopravvivenza fisica e morale dell’umanità. Le prime minacce che incombono su di noi sono di ordine materiale, tecnico, ecologico ed economico. Minacce entropiche.
Ma noi siamo molto più impotenti nell’immaginare delle risposte adeguate al secondo tipo di minacce. Alle minacce di ordine morale e politico. A quelle minacce che potremmo definire antropiche.
Il problema numero uno
Sotto i nostri occhi c’è un’evidenza accecante: l’umanità ha saputo realizzare dei progressi tecnici e scientifici sorprendenti, ma resta ancora incapace di risolvere il suo problema fondamentale: come gestire la rivalità e la violenza tra gli esseri umani? Come convincerli a cooperare, pur consentendo loro di contrapporsi senza massacrarsi? Come contrastare l’accumulazione della potenza, ormai illimitata e potenzialmente auto-distruttiva, contro gli uomini e contro la natura? Se l’umanità non saprà trovare una risposta a questi interrogativi, è destinata a scomparire. E questo proprio quando si sono create tutte le condizioni materiali di un benessere generalizzato, purché si prenda coscienza della loro finitezza. Abbiamo a disposizione molteplici elementi di risposta, che nel corso dei secoli sono stati apportati dalle religioni, dalle morali, dalle dottrine politiche, dalla filosofia e dalle scienze umane e sociali. -Così pure, le iniziative che si muovono in direzione di un’alternativa all’attuale organizzazione del mondo sono innumerevoli, promosse da migliaia e migliaia di organizzazioni o associazioni, e da diecine o centinaia di milioni di persone. Queste iniziative si presentano sotto varie denominazionie ai più diversi livelli: la difesa dei diritti dell’uomo, del cittadino, del lavoratore, del disoccupato, della donna o dei bambini; l’economia sociale e solidale con tutte le sue componenti: le cooperative di produzione o di consumo, la mutualità, il commercio equo, le monete parallele e complementari, i sistemi di scambio locale, le innumerevoli associazioni di mutuo soccorso; l’economia cognitiva dei network (cfr. Linux, Wikipedia, ecc.); la decrescita e il post-sviluppo; i movimenti slow food , slow town , slow science ; la rivendicazione del buen vivir , l’affermazione dei diritti della natura e l’elogio della pachamama ; l’altermondialismo, l’ecologia politica e la democrazia radicale, gli indignados , Occupy Wall Street ; la ricerca di indicatori alternativi di ricchezza, i movimenti della trasformazione personale, della sobrietà volontaria, dell’abbondanza frugale, del dialogo tra le civiltà, le teorie del care , la nuova concezione dei “beni comuni” ( commons ), ecc. Perché queste iniziative così ricche possano contrastare con un’adeguata potenza le dinamiche letali del nostro tempo e non siano confinate nel ruolo di mera contestazione o di semplice palliativo, diventa decisivo unire le loro forze e le loro energie. Da qui l’importanza di sottolineare ed enunciare ciò che hanno in comune.
Sul convivialismo
In comune hanno la ricerca di un convivialismo , di un’arte di vivere insieme ( con- vivere ) che consenta agli esseri umani di prendersi cura gli uni degli altri e della Natura, senza negare la legittimità del conflitto, ma trasformandolo in un fattore di dinamismo e di creatività, in uno strumento per scongiurare la violenza e le pulsioni di morte. Per trovarlo abbiamo urgente bisogno di un corredo dottrinale minimo e condivisibile, che consenta di rispondere contemporaneamente, ponendole su scala planetaria, almeno a quattro questioni di base (più una):
La questione morale: che cosa è lecito per gli individui sperare e che cosa devono proibirsi?
La questione politica: quali sono le comunità politiche legittime?
La questione ecologica: che cosa possiamo prendere (d)alla natura e che cosa dobbiamo restituirle?
La questione economica: quale quantità di ricchezza materiale ci è lecito produrre, e in che modo, per essere coerenti con le risposte date alla questione morale, politica ed ecologica?
Ognuno è libero di aggiungere, se vuole, a queste quattro questioni quella del rapporto con il sovrannaturale o con l’invisibile: la questione religiosa o spirituale. O la questione del senso.
Considerazioni generali
Il solo ordine sociale legittimo universalizzabile è quello che si ispira ad un principio di comune umanità, di comune socialità, di individuazione, e di un conflitto che bisogna saper tenere sotto controllo e, quindi, creativo.....
PER IL TESTO INTEGRALE, CLICCARE, QUI DI SEGUITO, SU: POSTFILOSOFIE. Anno 7/8. Numero 7. Convivialismo
Scenari. Un manifesto di studiosi invoca più solidarietà e più attenzione alla natura. Senza demonizzare conflitto e mercato
Convivialità. L’alternativa all’utilitarismo
Privilegiare legami sociali e condivisione. L’uomo non è una macchina calcolatrice
di Adriano Favole (Corriere della Sera - La Lettura, 29,06,2014)
Che cosa hanno in comune quelle migliaia o forse decine di migliaia di associazioni, movimenti, organizzazioni che si battono oggi in ogni continente per la cura e la salvaguardia del mondo e dell’umanità? Che cosa unisce i promotori delle economie sociali e solidali, i difensori dei diritti dell’uomo, della donna e dei lavoratori, gli inventori dei sistemi di scambio locale (dalle banche del tempo alle varie forme di volontariato), la rivendicazione del buen vivir, la ricerca di indicatori di ricchezza alternativi al Pil, Slow Food e gli Indignados, i promotori della sobrietà volontaria e i difensori dei beni comuni? Viviamo un’epoca caratterizzata da minacce incombenti: il riscaldamento globale, la crescita delle diseguaglianze e della disoccupazione, il proliferare delle mafie e della corruzione. L’insicurezza pervade una contemporaneità che spesso reagisce trasformando la sicurezza in un’ossessione. Il crollo dei sistemi politici del passato non è supportato da forme di immaginazione che ci aiutino a trovare nuove vie del vivere insieme in società di grandi dimensioni.
Viviamo però, ugualmente, un’epoca di speranze e di promesse: la democrazia si diffonde ovunque e anima movimenti contro i dittatori e contro la finanziarizzazione del mondo; le tecnologie informatiche promettono una maggior condivisione e partecipazione ai saperi e un accesso partecipato al potere; la ricerca mette a punto nuovi ed efficaci strumenti per la «transizione ecologica » verso forme di economia sostenibile.
È a partire da queste premesse e su proposta del sociologo francese Alain Caillé che un nutrito gruppo di intellettuali appartenenti a università e centri di ricerca americani, asiatici, mediorientali ed europei ha redatto e sottoscritto il Manifesto convivialista. Dichiarazione di interdipendenza, uscito di recente in Italia per le edizioni Ets. Tra i firmatari ci sono Edgar Morin e Serge Latouche, tra gli italiani Francesco Fistetti (autore di una lunga postfazione al Manifesto) ed Elena Pulcini.
«Convivialismo» è un neologismo coniato ad hoc, un termine che si vuole simbolo e bandiera di un filo capace di unire le pezze di un patchwork variegato e tuttavia forte e resistente. I convivialisti promuovono «l’arte di vivere insieme (con-vivere) che valorizza la relazione e la cooperazione e che permette di contrapporsi senza massacrarsi, prendendosi cura degli altri e della natura ». Se il Manifesto convivialista fosse stato redatto in italiano, forse i suoi promotori avrebbero scelto come nomi-simbolo il «con-vivere», il «con-dividere», la «con-vivenza» o un neologismo come «con-dividersi»: uno insomma di quei numerosi termini del «con-» che enfatizzano nella nostra lingua il «noi» piuttosto che l’«io», la relazione piuttosto che l’individualità. L’interdipendenza, richiamata nel sottotitolo del Manifesto, esprime una concezione relazionale della persona. Una concezione diffusa nell’humus culturale in cui il testo ha preso forma, quella del «Movimento anti-utilitarista delle scienze sociali», il cui acronimo (Mauss), riproduce il cognome di quel Marcel Mauss che novant’anni fa diede alle stampe il Saggio sul dono (Einaudi), svelando o ricordando all’Occidente l’esistenza di una logica economica alternativa o complementare a quella del mercato. Proprio all’inizio degli anni Ottanta, Caillé (Il terzo paradigma, Bollati Boringhieri, 1998) fu tra i fondatori del Mauss, che non ha mai cessato di perseguire una terza via da affiancare allo Stato e al mercato.
I convivialisti non sono contro il mercato e la loro ricerca di una miglior cura dell’umanità e del mondo non prescinde dal conflitto. «Il mercato e la ricerca di una redditività monetaria sono pienamente legittimi dal momento in cui rispettano i postulati di comune umanità e di comune socialità, e dal momento in cui sono coerenti con le considerazioni ecologiche». Quattro sono i principi che, nella filosofia dei convivialisti, dovrebbero animare la buona politica. Il principio di comune umanità afferma che esiste una sola umanità che deve essere rispettata nella persona dei suoi membri, al di là delle differenze di colore della pelle, nazionalità, genere, ricchezza ecc. Il principio della comune socialità afferma che la più grande ricchezza dell’umanità sono i rapporti sociali. Il principio di individuazione è quello che permette a ciascuno di sviluppare la «propria singolare individualità in divenire». Infine, il principio di opposizione controllata è quello che permette agli esseri umani di differenziarsi, accettando e controllando il conflitto.
In questo quadro il problema non è costituito dal mercato in sé: la madre di tutte le minacce che oggi affliggono l’umanità è piuttosto il neoliberismo, ovvero la mostruosa e indebita estensione dell’economia, della competizione e della ricerca del profitto individuale a (praticamente) tutte le sfere dell’agire umano. A partire dagli anni Settanta, la scienza economica e la sua creatura fittizia (l’homo oeconomicus) ha «cominciato ad estendere la validità potenziale delle sue spiegazioni all’integralità delle attività umane». Le complesse motivazioni che spiegano l’agire umano sono state ipersemplificate e ridotte al solo perseguimento dell’interesse individuale. Se «niente è fatto per senso del dovere, per solidarietà o per il gusto di un lavoro ben fatto e il desiderio di creare, allora non restano da attivare che le “motivazioni estrinseche”, ovvero il gusto del guadagno e della promozione gerarchica». Se arricchirsi è il primo scopo legittimo, se l’homo oeconomicus coincide con la natura umana, come stupirsi davanti al trionfo della finanza, ai paradisi fiscali, al dilagare della corruzione politica? Il fantasma della scienza economica diffusa a ogni livello della realtà ha colonizzato il mondo.
La madre di tutte le minacce è ugualmente rappresentata dall’idea che l’umanità possa perseguire una crescita economica infinita. Anche se Serge Latouche è tra i firmatari del Manifesto, i convivialisti in realtà non sono sostenitori della decrescita. Si tratta piuttosto di immaginare delle democrazie post-crescita: per promuovere l’uguaglianza di opportunità, il ben-vivere e la libertà di un crescente numero di persone nel mondo non ci si può più affidare al sogno di una crescita infinita che rischia di trasformarsi nel peggior incubo dell’umanità. Altre sono le ricette che i convivialisti cucinano per un rinnovamento della politica e dell’umanità: prima fra tutte una migliore distribuzione delle risorse attraverso l’adozione di un salario minimo e di un profitto massimo. In secondo luogo l’uso di nuove tecnologie al servizio della «transizione ecologica»; e ancora la considerazione delle reti telematiche come beni comuni accessibili a tutti. Il web, come l’acqua e l’aria che respiriamo, dovrebbe essere destinato a divenire in breve tempo uno dei commons sottratti alle dinamiche del mercato.
È insomma un ben-vivere a crescita zero quello che i convivialisti auspicano, insistendo sulla necessità di instaurare con la Natura un rapporto improntato alla logica maussiana del dono e della reciprocità. La relazione di dono e contro-dono dovrebbe esercitarsi soprattutto nei confronti degli animali, i quali «non devono più essere considerati come materiale industriale».
Espressione della corrente progressista, ma moderata, del Mauss, i firmatari del Manifesto non sono sognatori idealisti. Il conflitto, scrivono, è parte integrante delle relazioni sociali. Esso «esiste necessariamente e naturalmente in ogni società». Il problema però, ancora una volta, è che la svolta neoliberista degli anni Settanta ha trasformato il conflitto in una hybris incontrollata. L’aspirazione di ogni essere umano a vedersi riconosciuto nella sua singolarità si è tradotta nell’idea che comunque e dovunque l’uomo persegua il proprio interesse individuale (l’homo oeconomicus) o comunque un potere inteso come relazione gerarchica diffusa (l’homo strategicus che popola le narrazioni foucaultiane e agambeniane della contemporaneità).
Che fare dunque per valorizzare le ricchezze umane come la gratuità, la creatività, le relazioni con gli altri? Occorre indignarsi per la dismisura con cui alcuni perseguono il profitto attraverso la corruzione; rafforzare la consapevolezza di non essere soli, ma che ormai una comunità mondiale si batte per un mondo umanizzato («siamo il 99%», gridavano i giovani di Occupy Wall Street); occorre valorizzare la mobilitazione degli affetti e delle passioni, contro i cupi teorici delle «scelte razionali ». Su queste basi, concludono gli estensori del Manifesto, «sarà possibile per quelli che si riconoscono nei principi del convivialismo influenzare radicalmente i giochi politici istituiti e sviluppare tutta la loro creatività per inventare altre maniere di vivere, di produrre, di giocare, di amare, di pensare e di sognare». Serviva un nuovo Manifesto per indebolire il virus pan-economico che vaga per il mondo e cucire insieme le motivazioni di coloro che vi si oppongono, contribuendo a rafforzare la coscienza di appartenere a una comunità globale di antiutilitaristi? Forse sì, anche perché, come scriveva profeticamente Marcel Mauss nel Saggio sul dono, «sono state le nostre società occidentali a fare, assai di recente, dell’uomo un “animale economico”. Ma ancora non siamo diventati tutti esseri di questo genere. (...) L’uomo è stato per lunghissimo tempo diverso, e solo da poco è diventato una macchina, anzi una macchina calcolatrice».
Una discussione su “Il Manifesto del Convivialismo”:
intervento di Laura Pennacchi
un intervento di Fabio Ciaramelli
un commento di F. Fistetti
Il dono e il rifiuto del mercato
di Chris Carlsson (Comune-info, 12 febbraio 2014) *
Il dono è un concetto con molti significati diversi e contraddittori. Esiste perfino una storia buia del dono, che arriva fino ad alcune forme dell’”economia della condivisione”, ovvero quello che il capitalismo, travestendosi, fa da sempre: trasformare relazioni basate su cooperazione e solidarietà sociale in prodotti da vendere. Tuttavia, l’economia del dono che molti auspicano e alcuni sperimentano, è ciò che libera dalle relazioni di mercato e dal dominio del denaro, per proporre sistemi che cercano prima di tutto di ricomporre le relazioni tra le persone.
Scrive Chris Carlsson: “Credo che la nostra speranza sia che quello spirito simile ai primi anni di vita nelle braccia delle nostre madri e dei nostri padri, dove tutto veniva offerto gratuitamente e con amore, possa essere la base di una trasformazione a livello sociale. Forse è possibile. Se ci riuniamo per discutere di queste idee ma dobbiamo sempre tornare a una vita dove la logica predominante è far soldi per pagare i conti, continueremo a pedalare a vuoto per un lungo tempo”
Il dono è apparentemente un concetto che si porta dietro un notevole peso specifico. Le persone lo usano in tutti i tipi di contesto e può contenere molti significati differenti, perfino riferirsi a cose completamente diverse. Per riflettere sulla nozione di economia del dono, è prima necessario avere un’idea abbastanza chiara su quello di cui si sta discutendo.
Alcuni prendono la nozione di dono e la collegano ai sentimenti che hanno provato quando ne hanno ricevuto uno, di solito una sorta di gratitudine e/o sorpresa. Non ci vuole molto perché questa percezione assuma una forma ulteriore e qualcuno inizi a rivivere momenti nei quali ha ricevuto qualcosa che inconsciamente dava per scontato e successivamente si è reso conto che avrebbe dovuto sentirsi grato per quella cosa. Per quelli con inclinazioni religiose, il concetto di dono diventa immediatamente un fulcro per ringraziare Dio per la vita stessa, o Gaia/Terra, oppure, se con una mentalità più secolare, per ringraziare le persone della propria vita per i doni del cibo, dell’acqua, persino dell’’aria.
Penso che circoscrivere l’dea di un’economia del dono nell’ambito di queste modalità fortemente soggettive, spesso fondamentalmente spirituali, renda quasi impossibile affrontare l’enorme sfida di porre la logica del dono contro la logica del capitalismo. Il capitalismo è un sistema sorprendentemente complesso e adattivo di organizzazione sociale basata su classe, proprietà privata e scambio strettamente correlati in un regime produttivo concepito per crescere infinitamente. Proporre il dono come un’alternativa conduce a problemi immediati, poiché tende a rafforzare il punto di partenza della proprietà privata che può essere data da qualcuno a qualcun altro. (Mentre scrivo, la Tv in sottofondo trasmette uno spot per lo shopping natalizio incentrato su un personaggio che hanno soprannominato The Gifter - La Donatrice, ndt -. una donna impegnata in compere febbrili per donare dozzine di regali durante le festività). Inoltre, la nozione di regalo tende anche a dirigere la nostra attenzione sui beni e servizi che vengono dati (o ricevuti), piuttosto che sulle relazioni sociali, entrambi prerequisiti e risultati logici di una cultura di libera condivisione.
La storia buia del dono
I doni esistono da quando esiste lo scambio tra diversi gruppi di persone, fin dalla storia non scritta. L’’opera di David Graeber sul debito (Debt: The First 5000 Years) mostra come il denaro stesso sia nato da un processo di contabilizzazione che cominciò misurando le equivalenze tra regali. I regali erano usati in molte culture anche come meccanismo per cementare relazioni specifiche tra figure di potere, di solito uomini, o famiglie potenti. La storia buia dei regali è che sono anche il punto di partenza della schiavitù! Uomini potenti davano in moglie le loro figlie come dono ad altre famiglie per ragioni politiche, senza rispetto dei desideri delle donne coinvolte. L’idea che le persone fossero oggetti che potevano essere spostati come altre proprietà nacque da questi comportamenti primordiali, e alla fine ha distrutto la vita di milioni di individui nel corso dei secoli.
Nel Nord America c’erano centinaia di culture tribali diverse prima che arrivassero gli europei. Nell’estremo nord-ovest, vicino all’attuale Seattle, le popolazioni locali avevano la tradizione del potlatch un festival annuale in cui i capi locali più potenti competevano tra loro per vedere chi avrebbe sprecato la maggiore ricchezza al festival, al punto di distruggere in modo stravagante pelli, animali, utensili e cibo in una frenesia di mostrare il proprio vantaggio (cercando di svettare in maniera capovolta rispetto ai nostri standard contemporanei). Un’altra cultura tribale che dominò le Grandi Pianure meridionali dall’inizio de 1700 alla metà del 1800, i Comanches, aveva una politica estera economica basata sui doni e sul commercia e saccheggia. Mandavano carovane per il commercio e gruppi di guerra alle colonie spagnole (più tardi messicane) in Texas e New Mexico, e all’arrivo chiedevano doni a profusione ai loro ospiti. Se le elite locali decidevano di non soddisfare adeguatamente le loro richieste, i guerrieri attaccavano e prendevano quello che volevano in qualsiasi modo. Per i Comanches il commercio iniziava ricevendo doni materiali considerevoli, e solo poi seguiva il vero scambio. Senza il dono, la relazione si trasformava in forza bruta e gli stessi beni venivano presi senza alcuna reciprocità.
Reintrodurre meccanismi sociali
Tutto ciò è per dire che la nostra idea di dono e di economia del dono è, si spera, del tutto differente da quella che i secoli della storia umana suggeriscono. O forse no? E comune tra i radicali dell’inizio del XXI secolo attaccare i mercati e il denaro come meccanismi di oppressione se non una forma di schiavismo. Ma per molte persone che vivono nelle città comprare e vendere nei negozi da commessi anonimi è una sorta di libertà dalle complicate relazioni sociali correlate all’acquisto di beni in un luogo dove tutti ci conoscono e dove conosciamo tutti. La sola affidabilità di cui siamo responsabili è se abbiamo o non abbiamo abbastanza denaro. Per noi non ha alcuna importanza chi abbia prodotto quello che stiamo comprando, dove o come, né quali conseguenze ecologiche possano derivare dalla produzione. Che ci piaccia o no, anche questa è una forma di libertà, libertà dal dover tenere in considerazione tutti quelle complicate esternalità (come il capitalismo ama etichettarle). Se stiamo rifiutando la grande libertà che il mercato concede all’individuo (almeno a quelli che hanno risorse sufficienti per comprare e vendere ciò di cui hanno bisogno e ciò che vogliono), forse vogliamo davvero sostituirla con un sistema che unisca più strettamente le persone in relazioni che sono precisamente specifiche. Forse stiamo proponendo un’economia del dono come una modalità per disfare l’anonimato della vita moderna e reintrodurre meccanismi sociali di affidabilità e responsabilità che sono stati distrutti dall’unico sistema di misurazione rimasto: i soldi. Forse desideriamo davvero l’idea di un’economia del dono per tornare a relazioni de visu dove dobbiamo prendere decisioni su cosa facciamo, perché, come e con chi? Ma questo può crescere fino a fare l’acciaio? A costruire ponti? A far muovere complessi sistemi sotterranei? A continuare a far uscire l’acqua fresca l’acqua c dai milioni di rubinetti? Come potrebbe funzionare?
Penso sia importante per chiunque proponga un’economia del dono come alternativa alla vita quotidiana di oggi essere chiaro su ciò che comporta. Penso che dovremmo proporre il dono come un mezzo per una decommodification dei beni che produciamo collettivamente e da cui dipendiamo per la nostra riproduzione. Il dono dovrebbe essere un modo di dimostrare la nostra intenzione di spostare sempre di più la vita materiale dal regno della proprietà privata a un nuovo tipo di diritti. Se questa è la nostra intenzione, allora abbiamo grandi problemi politici! La maggioranza delle persone sta dalla nostra parte? Come le convinciamo? Come spieghiamo alla gente che ancora non vede positivamente questa trasformazione che la loro vita sarà molto migliore durante e dopo la transizione? Possiamo cominciare a creare le pratiche sociali che ci permettono di riprodurre una vita complessa, per lo più urbana per milioni di persone, sulla base di produttori che si associano liberamente e che mettono a disposizione gratuitamente competenza e tempo e, nello stesso momento, altrettanto gratuitamente, ottengono l’accesso al cibo, alla casa, all’’energia, ai trasporti, alle comunicazioni, ecc. di cui hanno bisogno per vivere?
Libertà dalle relazioni di mercato?
Possiamo vedere piuttosto facilmente che non stiamo parlando di comportamenti personali, scelte e preferenze (sebbene ne facciano parte), bensì di proposte per nuovi sistemi di vita sociale. Ma cosa stiamo proponendo? Più libertà? Meno? Libertà dalle relazioni di mercato? Libertà dall’’anonimato e dalle conseguenti anomie sociali? Ma un sistema in cui dovessimo decidere ogni singolo componente delle nostre vite materiali non sarebbe un nuovo tipo di oppressione? Come potremmo organizzare una complessa società tecnologica, prevalentemente urbana in modo da poter tutti lavorare molto meno, amare il lavoro che facciamo perché lo scegliamo liberamente e lo controlliamo democraticamente, e assicurarci che non stiamo distruggendo l’’ecologia planetaria producendo “abbastanza” per tutti? In che modo decideremmo quanto sia abbastanza? Come apparirebbe e cosa vorrebbe la democrazia una volta avviato il meccanismo per gestire collettivamente la riproduzione materiale di una società urbana complessa?
L’idea di una cultura del dono è certamente un buon punto di inizio per pensare a queste cose, ma non se fermiamo il processo al ringraziamento perché respiriamo, mangiamo o per la luce del sole. Ringraziare è un bel gesto di solidarietà sociale, ma non è minimamente sufficiente. Spesso ho dovuto convenire sul fatto che “meglio è meglio di peggio” quando si fa riferimento a un intero complesso di scelte inadeguate, ma anche se è meglio acquistare cibo biologico sano, o sponsorizzare una piccola attività di amici o lavorarci invece che lavorare in un grande centro commerciale come Walmart, o andare in bicicletta anziché che in auto, non è abbastanza! Le scelte dei consumatori non sono molto importanti quando si parla di cambiare vita (naturalmente, fate le scelte “migliori” invece di quelle “peggiori” se potete). Detta in maniera semplice, non la nostra via verso una nuova vita non è acquistabile.
La condivisione? Si può vendere
Questo ci conduce faccia a faccia con la crescente presenza di uno dei più recenti slogan commerciali del capitalismo, l’”’economia condivisa”, di solito fondata su un altro concetto in voga, quello di “imprenditorialità sociale”. Questo spazio scivoloso del mondo degli affari pretende di essere qualcosa di nuovo, mentre in realtà è piuttosto familiare. E’ quello che il capitalismo ha fatto incessantemente dall’’inizio: convertire normali comportamenti umani basati sulla cooperazione, la condivisione e la solidarietà sociale in prodotti da vendere. Fin quando le persone prendono il loro tempo e le loro competenze e risorse fuori dal mercato e le rendono disponibili gratuitamente ad altri, aiutando le persone a usare il benessere condiviso per ridurre la loro dipendenza dal denaro e dall’’acquisto di beni nel mercato, le pretese di una “nuova economia” che sfida i paradigmi del capitalismo hanno ragione d’’essere. Ma laddove manchi questa deliberata rottura con i mercati, il denaro, il lavoro salariato e la proprietà privata, assistiamo in realtà all’’espansione delle relazioni sociali capitaliste in aree che non erano ancora colonizzate da quella logica.
La buona volontà è importante. Il desiderio di aiutare e sostenersi reciprocamente sono pietre fondanti della solidarietà sociale. Ma la confusione su ciò contro cui stiamo combattendo è probabilmente uno dei nostri maggiori problemi. Non saremo in grado di creare affari per spodestare il business! Una “economia del dono” degna di questo nome implica una trasformazione massiccia di dimensioni alle quali, francamente, la maggior parte di noi ha paura di pensare. Apprezzo i miei amici con cui ho soprattutto goduto una generosità e una reciprocità incommensurabili. Credo che la nostra speranza sia che quello spirito simile ai primi anni di vita nelle braccia delle nostre madri e dei nostri padri, dove tutto veniva offerto gratuitamente e con amore, possa essere la base di una trasformazione a livello sociale. Forse è possibile. Ma se così è, dovremo comprendere il dibattito politico le dinamiche istituzionali ultime che faciliteranno una tale trasformazione. Non accadrà solo perché lo desideriamo, o perché proviamo molto amore per coloro che ci circondano. Se ci riuniamo per discutere di queste idee ma dobbiamo sempre tornare a una vita dove la logica predominante è far soldi per pagare i conti, continueremo a pedalare a vuoto per un lungo tempo a venire.
* Chris Carlsson, scrittore e artista da sempre nei movimenti sociali statunitensi, è stato tra i promotori della prima storica Critical mass a San Francisco e autore, tra le altre cose, dell’ottimo «Nowutopia» (Shake edizioni) e, più recentemente, di «Critical mass. Noi siamo il traffico» (Memori). Invia periodicamente i suoi articoli, molti dei quali raccolti su nowtopians.com, a Comune-info: il saggio qui pubblicato è stato scritto in occasione del Giftval (neologismo che lega dono e festival), ospitato a Gezi Park, Istanbul (Turchia), lo scorso ottobre.
Mio padre si chiamava Karl Marx
Il comunismo, il rapporto con Engels, gli amori sfortunati e la militanza
In una biografia uscita in Inghilterra la storia di Eleanor detta “Tussy”
di Siegmund Ginzberg (la Repubblica, 14.06.2014) Poco prima delle 10 del 31 marzo 1898, Eleanor Marx, allora poco più che quarantenne, inviò la fedele cameriera Gertrude in farmacia a comprare del cloroformio e una piccola quantità di acido di cianuro. “Per un cane”, aveva scritto nel bigliettino indirizzato al farmacista. La trovarono morta, vestita con un abito tutto bianco fuori stagione. Sulla scrivania dello studio c’erano i giornali con deprimenti notizie sugli scandali di corruzione in tutta Europa, che lambivano anche la sinistra, la corrispondenza con il sindacato dei minatori e altri esponenti socialisti.
C’erano poi le bozze di Valore, prezzo e profitto , l’opuscolo del padre che lei aveva scoperto e si accingeva a pubblicare con una propria prefazione (“da Sonnenschein, che è un ladro, ma tutti gli altri editori con cui ho provato non l’hanno voluto”), e i lavori preparatori per una biografia del padre che non era mai riuscita a completare. “Tutto sommato Marx il politico (Politiker) e il pensatore (Denker) possono andare, ma dal punto di vista umano forse un po’ meno” aveva scritto alla sorella maggiore Laura. Era stato durissimo per lei scoprire che Freddy, il figlio della cameriera di sua madre, Helene Demuth, era invece figlio di Karl Marx.
“Eleanor, non sposata, suicidio per ingestione di cianuro, sotto stress mentale”, scrisse il medico legale. In realtà non era “single” ma aveva convissuto per quasi vent’anni con Edward Aveling, mantenendo la sua vita dispendiosa e tollerando le sue continue scappatelle. Lui era già sposato, ma non le aveva mai detto che la prima moglie era deceduta da tempo e lui aveva incassato e sperperato l’eredità. Solo il giorno prima del suicidio lui le aveva confermato quello che già tutti gli altri sapevano, che si era risposato un’altra volta ancora, in segreto, con un’attricetta. Lei finalmente lo aveva diseredato in extremis, ma il codicillo era stato fatto sparire. Si disse dallo stesso Aveling, che aveva frugato tra le sue carte in presenza del cadavere. Anzi, corse voce che addirittura fosse stato lui ad assassinarla. Lui morì l’anno seguente, dopo aver sperperato in pochi mesi anche l’ingente patrimonio che lei aveva ereditato dal suo “secondo padre”, il “vecchio generale” come lo chiamavano in famiglia, Friedrich Engels.
La stampa si buttò a pesce sulla notizia. Scrissero che era la dimostrazione del fallimento morale dello stile di vita del “libero amore” socialista. Scrissero che lei si era suicidata perché lui aveva deciso di tornare a vivere con la prima moglie e i figli e voleva imporle un mènage a tre. Questo era pura invenzione, la prima moglie era morta da tempo. A prendere le difese del “buon nome” del socialismo fu Eduard Bernstein, il leader riformista e “revisionista” della socialdemocrazia tedesca. Scrisse un opuscolo sull’“enigma psicologico” di una donna in preda ad un “malessere morale”, simile a quello di “ Frau Alving”, la protagonista degli Spettri di Ibsen.
Quello della figlia più piccola e preferita (“Tussy - questo il nomignolo di Eleanor - è me” soleva dire il vecchio Karl) non fu l’unico suicidio in casa Marx. Anni dopo, nel 1911, si sarebbero uccisi anche Laura e il marito parlamentare Paul Lafargue, iniettandosi cianuro nelle vene. Ma erano ormai vecchi (si avvicinavano alla settantina) e malati, è un caso diverso, la si potrebbe definire auto-eutanasia. Quella volta, a difendere la loro scelta, al posto di Bernstein, fu Lenin. In modo alquanto agghiacciante: “Comprensibile quando si sente di non poter più lavorare per la rivoluzione”.
Ma certo i grandi padri spesso sono ingombranti. Sigmund Freud non era stato un modello di padre, anche se 4 delle sue 5 sorelle non morirono suicide ma nei campi nazisti. Gandhi era stato un pessimo padre e marito. Il figlio di Einstein, Eduard, morì in manicomio. Per non parlare dei figli che Mao abbandonò durante la Lunga marcia e di Svetlana, figlia di madre suicida, che per sottrarsi al padre Stalin dovette scappare in America.
Eppure Eleanor non era affatto una donna sprovveduta. Era la più intellettuale e politicamente attiva della sorelle Marx. Era una femminista combattiva in un’epoca in cui le donne non avevano accesso né al voto né agli studi. È sua la prima traduzione in inglese di Madame Bovary e la messa in scena di diversi dei drammi di Ibsen (fu lei a recitare Nora alla prima londinese di Casa di bambola ). Come il padre adorava Shakespeare e Balzac. Ancora adolescente scriveva lunghe lettere di “consigli politici” ad Abraham Lincoln (che Marx naturalmente si guardava bene dallo spedire). Assieme ad Aveling aveva scritto un libro sul “Socialismo di Shelley” e partecipava a tutte le iniziative sindacali e politiche in tutta Europa.
Aveva fatto da segretaria e assistente di ricerca del padre. Alla morte di Engels fu lei a tentare di trascrivere il Quarto libro del Capitale e mettere insieme il suo carteggio. Fu lei a recuperare l’ebraismo con cui il padre aveva chiuso con la giovanile Questione ebraica rivendicando con orgoglio le proprie origini e mettendosi addirittura a studiare lo yiddish: “Mio padre era ebreo ...la lingua degli ebrei ce l’ho nel sangue... in famiglia dicono che assomiglio a mia nonna paterna, che era figlia di un dotto rabbino”. Lasciando perdere il fatto che la nonna si era arrabbiata moltissimo quando Karl aveva deciso di sposare l’aristocratica prussiana Jenny Von Westphalen, anziché una brava ragazza ebrea.
È fresco di stampa Eleanor Marx. A Life di Rachel Holmes (già autrice di successo di una biografia della Venere Ottentotta), pubblicata per i tipi di Bloomsbury. Mi sono chiesto anch’io se servisse un nuovo libro sull’argomento dopo The Life of Eleanor Marx: A Socialist Tragedy di Chusichi Tsuzuki (1967) e il monumentale lavoro di Yvonne Kapp (1972).
Ebbene, è diverso. Un’interpretazione più “moderna”, se così si può dire, più rispondente forse ai gusti dell’epoca dei pettegolezzi da tabloid, dei sitcom, reality e teleromanzi, anche se fondati su ricerche meticolose nelle lettere, nei diari e nei “sentiti dire” dei protagonisti.
L’autrice confessa di sperare che possa essere trascinato dal successo editoriale del Capitale nel XXI secolo di Piketty (80.000 copie solo nelle prime settimane, mentre il primo libro di Das Kapital nel 1867 aveva trovato pochissimi lettori). Glielo auguriamo. Anche Il Capitale di Marx era, a modo suo, un romanzo. La struggente telenovela su Eleanor tocca tasti ancora più universalmente umani.
La metafisica del comune
di ANTONIO NEGRI (il manifesto, 06 maggio 2014)
Dopo Marx. Prénom: Karl, Pierre Dardot e Christian Laval ci offrono un Proudhon. Prénom: Pierre-Joseph. In Italia, questo finto titolo basterebbe a liquidare il libro, ricorderebbe l’operazione reazionaria condotta, fra gli altri da Pellicani e Coen su Mondo Operaio negli anni Settanta, su ispirazione di Craxi. Ma questo libro non sta certo da quella parte, esso introduce in Francia, e riapre - speriamo - in Europa, il dibattito sul «comune». Torniamo dunque al libro.
Mentre il Marx era caratterizzato da una risoluta «de-teleologizzazione» del socialismo (vale a dire da una ragionata critica di ogni teoria socialista che volesse incapsulare nello sviluppo capitalista il progetto finale e la forza della liberazione comunista), questo secondo libro (Commun. Essai sur la révolution au XXIe siècle, La Découverte, pp. 593, euro 25) è caratterizzato da una risoluta «de-materializzazione» del concetto di socialismo - tale è l’operazione sviluppata in questo «Saggio sulla rivoluzione»: una vera e propria liquidazione del materialismo storico, della critica marxista dell’economia politica del capitalismo maturo, in nome di un nuovo «principio». «Comune»: non commons, non «il» comune, ma «comune» come principio che anima sia l’attività collettiva degli individui nella costruzione di ricchezza e della vita, sia l’autogoverno di queste attività.
Un preciso quadro ideale viene presentato e discusso a questo scopo - esso parte «dalla priorità del comune come principio di trasformazione del sociale, affermata prima di stabilire l’opposizione di un nuovo diritto d’uso al diritto di proprietà». Di seguito, si stabilisce che «il comune è principio di liberazione del lavoro, poi che l’impresa comune e l’associazione debbono prevalere nella sfera dell’economia». Si afferma inoltre «la necessità di rifondare la democrazia sociale, così come il bisogno di trasformare i servizi pubblici in una vera istituzione del comune. Infine, è stabilita la necessità di formare dei comuni mondiali e a questo fine di inventare una federazione globale dei comuni».
Una visione idealistica
Questa esplicitazione politica del principio del «comune» è preceduta da un lungo lavoro di analisi critica e costruttiva che si sviluppa in due tempi. Un primo - «L’emergenza del comune» - consiste nel ricostruire il contesto storico che ha visto affermarsi il nuovo principio del comune e nel criticare i limiti delle concezioni che ne sono state date in questi ultimi anni, tanto da economisti, filosofi e giuristi, quanto da militanti. Una seconda parte - «Diritto e istituzione del comune» - vuole più direttamente rifondare il concetto del comune situandolo sul terreno del diritto e dell’istituzione.
Il libro, che nasce dall’attraversamento di un seminario - «Du public au commun» (sviluppatosi in maniera ampia e contraddittoria nel Collège International de Philosophie dal 2011 al 2013) - approfondisce l’idea di comune riferendosi fondamentalmente a quella corrente del «socialismo associazionista» che da Proudhon risale a Jean Jaurès e a Maxim Leroy, e va poi fino a Mauss e Gurvitch, e infine all’ultimo Castoriadis (quello della «Institution imaginaire du social») - senza mai sottrarsi al tentativo di assorbire qualche tratto del pensiero marxiano dentro questo sviluppo «idealistico» della progettazione di un socialismo prossimo venturo.
Sviluppo idealistico: non può esser diverso l’effetto prodotto dalla critica e dalla ricostruzione del concetto di comune, elaborata in questo libro, perché, riprendendo Proudhon contro Marx, alla corretta e sempre più effettiva rottura con ogni e qualsiasi telos del socialismo, segue una non meno ossessiva smaterializzazione del concetto di capitale e del contesto della lotta di classe - sicché, alla fine di questo libro, non si capisce più come il comune sia rivendicato, dove stiano i soggetti che lo costruiscono, quali siano le figure dello sviluppo del capitale che ne costituiscono lo sfondo.
Su questa scena idealista tira un gelido vento - un pessimismo forte, quasi una rassegnata constatazione che la produzione di soggettività da parte capitalista sia materialmente implacabile e storicamente irresistibile. Di fronte, stanno la sottomissione dei lavoratori e l’interiorizzazione del comando, sempre più dura nell’epoca del capitale cognitivo - come vorrebbe l’attuale scienza del management e come testimonierebbe la nuova sofferenza provata dai lavoratori stessi (psicologia del lavoro adjuvante). Allora, «comune» che cos’è più? Una comunanza di sofferenza? Oppure un dio che deve salvarci?
A mio parere, per riagganciare il concetto di «comune», occorre indubbiamente cominciare seguendo una via analoga a quella percorsa da Dardot-Laval. La critica che essi conducono della nozione di «comune» nella figura teologica, giuridica, ecologica - insomma in tutte le forme di oggettivazione/reificazione che si ripetono instancabilmente a questo proposito - ed anche di quella filosofica che tende a banalizzare il «comune» nell’«universale» - è una giusta via. Un vero concetto di «comune» può darsi solamente come prodotto di una praxis politica cosciente e quindi comporsi in un processo istituente, in un dispositivo di «istituzioni del comune». Il «comune» trova la sua origine non in oggetti o condizioni metafisiche ma solo in attività.
Oltre la tragedia dei commons
In questo quadro la critica che Dardot-Laval conducono della ecologia dei commons di Elinor Ostrom è indubbiamente magistrale poiché ne chiarisce la natura liberale e individualistica - dove un sistema di norme è posto per far fronte alla «tragedia dei commons», per salvaguardarne cioè l’accessibilità e la preservazione, da parte capitalista, in quanto supposti «beni naturali». Seguendo la via indicata da Dardot-Laval ci si trova tuttavia presto davanti ad un bivio - che si apre quando si avverte che il comune non è semplicemente prodotto di attività generica (antropologica e sociologica) ma prodotto di attività produttiva. Qui il confronto con Marx diviene inevitabile e decisivo. Dardot-Laval sembrano tuttavia essere travolti dalla complessità della questione. Da un lato infatti sono sospinti dalla loro ipotesi radicalmente de-sostanzializzatrice (idealista?) del comune, a sottovalutare la stessa dimensione «sociale» del «comune» - anche di quella proposta da Proudhon; dall’altro ad accusare i marxisti che hanno affrontato il tema del «comune» (tenendo ben presente la nuova figura «sociale» dello sfruttamento) di essere «inconsciamente» proudhoniani. Vediamo come si pone il problema con qualche appunto che vada oltre questa confusione. È a tutti evidente (e senza dubbio anche a Dardot-Laval) che lo sviluppo capitalistico ha attinto un livello di «astrazione» (nel senso marxiano della definizione del valore) e, quindi, una capacità di sfruttamento che si estende sulla società intera. Dentro questa dimensione dello sfruttamento si costruisce una sorta di «comune perverso», quello di uno sfruttamento che si esercita sopra e contro l’intera società. Sulla vita intera. Il capitale è divenuto un biopotere globale. A Dardot-Laval, l’avvertire questa globalità ed invasività del biopotere, ovvero la potenza del «comune perverso», richiama le ragioni della critica della teleologia denunciata nel socialismo marxista, quasi che il dato del biopotere costituisse una nuova deriva teleologica - ma la corretta sottolineatura del limite marxiano nell’analisi dialettica dello sviluppo capitalistico, può forse cancellare o farci dimenticare le dimensioni attuali del biopotere capitalista?
La critica che Dardot-Laval fanno dello «sfruttamento per depossessione» di David Harvey e di tutte le analisi neo-marxiste che hanno intravisto nel modello marxiano del «accumulazione originaria» analogie con quanto sta avvenendo ora a livello globale - cioè uno «sfruttamento estrattivo» - è equivoca perché nega il problema, nel mentre ne critica la soluzione. E lo è tanto più perché ignora totalmente la funzione del capitale finanziario (o addirittura la funzione produttiva di denaro, interesse e rendita) quando accusa altri autori marxisti - attenti alla ricomposizione della rendita come strumento di sfruttamento e nuova figura del profitto - di aver ridotto (proudhonianamente) il profitto a «furto» di un comune sostanzializzato, «cosale».
Un furto di pluslavoro
Qui la posizione di Dardot-Laval sembra dimenticare, nel fuoco della critica, i lineamenti più elementari del pensiero marxiano - ed in particolare che il capitale non è un’essenza indipendente, un Leviatano, ma un rapporto produttivo di sfruttamento. E che, nella condizione attuale, il capitale finanziario investe un mondo produttivo socialmente organizzato, accumulando nelle trafile dell’estrazione di plusvalore sia lo sfruttamento diretto del lavoro operaio, sia la depossessione dei beni naturali, dei territori e delle strutture del Welfare state, sia l’estrazione indiretta di plusvalore sociale, attraverso l’esercizio della dominazione monetaria. Se si vuole chiamare «furto» tutto ciò, non mi scandalizzerei - non si è proudhoniani perché si usa quella parola, quando si dà ad essa il significato che oggi il capitale le dà: cioè un modo di accumulazione direttamente innestato sulle nuove forme del processo lavorativo e della sua socializzazione - sia nella dimensione individuale sia nella sua figura associativa. Quando Marx dice che il capitalista si appropria dell’eccedenza di valore che la cooperazione fra due o più lavoratori determina, non nega di certo che nello stesso tempo il capitale si sia appropriato anche del pluslavoro dei singoli lavoratori. Il «furto» integra lo sfruttamento di pluslavoro e rende il capitale ancor più indecente di quanto sia sempre stato nello sviluppare la produzione.
Nel Marx di Dardot-Laval si sentiva correre una vena foucaultiana (intendo con ciò un approccio storico attraversato dall’attenzione alle soggettività agenti). Ora, questa vena è sfiorita - sfiorendo, essa si è portata via anche il frutto, che era una considerazione vivace e dinamica della storia del capitalismo. Qui c’è - in assenza di una metodologia storicamente riflessiva - un approccio senz’altro durkheimiano (forse addirittura categoriale, kantiano) allo sviluppo capitalista. Il capitale sembra una macchina atemporale e onnipotente. La «sussunzione reale» non è vista come conclusione di un processo storico ma considerata solamente come figura del processo di «riproduzione allargata» del capitale.
Senza la classe e il capitale
Accanto a ciò, tuttavia, una certa storicità è reintrodotta nel considerare - in maniera storicamente distesa - l’efficacia distruttiva (sempre più realizzata) nella produzione capitalista delle/sulle soggettività al lavoro. La lotta di classe non esisterebbe più. Questa sembra essere l’ipotesi conclusiva di una concezione che ha cominciato con l’escludere la lotta di classe - marxianamente intesa - dalla costituzione del concetto di capitale. Sembra che la de-materializzazione del «comune», così pesantemente condotta (e l’esclusiva definizione del «comune» come «azione», come principio di attività), implichi in maniera corrispettiva la de-materializzazione della «lotta di classe» - come se anche l’esasperata insistenza su una produzione capitalista di soggettività lavorative, interiormente assoggettate al comando, implicasse la negazione della soggettività produttiva come tale.
Ma senza soggettività produttiva non c’è neppure concetto di capitale. Così va a finire che davanti al mutamento storico dello sfruttamento (qui incompreso); di fronte al definirsi del capitale sempre più come «potere sociale» (qui negato); di fronte ad una così estesa emergenza del «comune», imposta dal realizzarsi di un nuovo modo di produzione (e si noti che quest’emergenza ha già determinato nuove forme del processo lavorativo) - dinnanzi a tutto ciò si dimentica che solo il «lavoro vivo» è produttivo. Che solo la soggettività è resistente. Che solo la cooperazione è potente. Che il comune non è, dunque, semplicemente «attività», ma attività produttiva di ricchezza e di vita - e trasformatrice del lavoro. Il comune non è un ideale (può anche esserlo) ma è la forma stessa nella quale la lotta di classe oggi si definisce. Chiediamo a Dardot e Laval: se il comune non è oggi un desiderio impiantato nella critica dell’attività produttiva, e se solo brilla davanti alla nostra coscienza rincitrullita dalla violenta penetrazione del biopotere, se è semplicemente un «principio» - che cosa mai ci impone di lottare? Dardot e Laval sembrano rispondere che il principio del comune è una categoria dell’attività, dell’istituzione - esso non si fonda sul reale ma fonda il reale - non lo si conquista ma (essi lungamente argomentano - ed il concetto andrà altrove ripreso) eventualmente lo si amministra. Perché dunque lottare?
Oltre ogni critica, questo libro riapre il dibattito sul comune e nessuno stupirà che così si sia riaperto anche il dibattito sul comunismo
Sibille e profeti: sulle tracce di Benjamin
di Nicola Fanizza (Nazione Indiana, 10 aprile 2014) *
Il libro di Federico La Sala - Della Terra, il brillante colore, Prefazione di Fulvio Papi, Edizioni nuove scritture, Milano 2013 - si configura come un viaggio nei sotterranei della cultura occidentale. Il protagonista del viaggio è il classico flâneur, che ha la straordinaria capacità di cogliere nell’opacità delle immagini del passato la luce che rende visibile le «perle» e i «coralli»: ossia tutto ciò che, sottraendosi al morso del tempo, è destinato all’eternità!
Nella prima parte del suo lavoro, La Sala adopera una sorta di «scandaglio archeologico» per ricostruire la preistoria del presente: ossia la genealogia dei concetti che strutturano tutt’oggi il nostro modo di pensare e di stare nel mondo. Si tratta di una ricostruzione che, pur comportando il rifiuto sistematico della ricerca, non rinuncia tuttavia alla contestualizzazione dei saperi in gioco. L’origine dei modelli del pensiero, infatti, non viene individuata tanto nella tradizionale storia della filosofia, quanto nella storia delle istituzioni totali: ovvero nella dimensione del Sacro, che con i miti e le pratiche rituali permette - ieri come oggi - la comunicazione fra gli individui e dà un senso alla nostra stessa vita.
Il «luogo d’inizio» è la piccola chiesa di S. Maria del Carmine, a Contursi Terme. Qui nel 1989 - in seguito ai lavori di restauro approntati dopo il terremoto del 1980 -, è stato scoperto un poema pittorico di un ignoto carmelitano degli inizi del XVII secolo. La pittura è espressione dell’immaginario rinascimentale che colloca la filosofia e la teologia pagana - Prisca Theologia - in sequenza col Cristianesimo. Il poema pittorico di Contursi descrive il viaggio iniziatico di un pellegrino che, accompagnato da dodici Sibille e dodici Profeti, giunge alla presenza di Maria madre del Cristo. Le Sibille di Contursi vantano parentele illustri: sono presenti nella cattedrale di Siena, nell’appartamento Borgia in Vaticano, nel tempio Malatestiano di Rimini e, infine, nella Cappella Sistina di Michelangelo.
Il rapporto di filiazione fra la teologia cristiana e quella pagana - la tesi che la storia del Cristianesimo cominciava prima di Cristo come attestavano le testimonianze profetiche ebree e pagane - non fu instillato nel movimento umanistico sulla scorta di un semplice fraintendimento: ossia la pubblicazione da parte di Gemisto Pletone degli Oracoli caldaici - risalenti al II secolo dopo Cristo - come scritti precristiani. L’Umanesimo più che recuperare il Mondo Classico nei fatti valorizza la cultura della Tarda Antichità. Non vengono recuperati Platone o Aristotele, ma Plotino, gli Oracoli caldaici, gli Scritti ermetici e gli Scritti degli antichi Teosofi che risalgono per l’appunto al II secolo. La stessa cosa si può dire del movimento nazional socialista. Georges Dumezil ha dimostrato che i nazisti pensavano di ridare vita alle divinità degli antichi Germani mentre di fatto riciclavano materiali mitici risalenti all’età medievale.
Tuttavia ciò che ci fa decidere rispetto a un movimento non è tanto il recupero più o meno selettivo di un passato mitizzato - ogni movimento rielabora il materiale mitico della tradizione (il mito è nella sua essenza un portatore di senso nei confronti del presente e, insieme, del passato!) -. Ciò che ci fa decidere sono i nuovi contenuti, ovvero la rivendicazione o negazione di forme di sociabilità più giuste e più libere, di nuove pratiche di liberazione e di nuovi percorsi di conoscenza. Su questo piano, a più di cinquecento anni di distanza, va riconosciuto il valore profetico della cultura del Rinascimento: è un’onda lunga che mantiene intatta la sua pregnanza di significato e il suo vigore!
E’ da questo ultimo spunto che s’origina e si articola il discorso antropologico di La Sala, che scorge una evidente analogia fra il ruolo svolto dalle Sibille nelle pratiche cultuali della religione pagana e la funzione che le «figlie del Sole» svolgono nel poema di Parmenide. Anche qui il viaggio-rivelazione del prescelto è tracciato dalle dee-fanciulle, sono le donne a consentire il transito nei riti di passaggio.
La funzione della donna come viatico del transito nei riti di passaggio pervade l’intero immaginario ellenico. Qui erano presenti due diverse rappresentazioni della vita. Il fantasma della zōé indicava la vita che non contemplava la morte: ossia la vita come specie, la vita infinta, priva di determinazioni, senza accidenti. Viceversa il fantasma della bios indicava la vita che contempla la morte: ovvero la vita che ha un inizio e una fine, la vita determinata con i suoi accidenti. Ebbene nella religione dionisiaca la zōé - la vita indistruttibile! - assume la forma maschile, la genesi delle anime assume, invece, quella femminile. Dioniso e Arianna stanno a indicare - dice Carl Kerenyi -, rispettivamente, l’eterno insorgere e trascorrere della zōé nella nascita e nei diversi stadi della vita. Il ruolo di Arianna non venne, tuttavia, compreso da Nietzsche, il quale negli ultimi anni della sua vita si chiedeva in modo ossessivo: «Chi è Arianna?».
Sta di fatto che il venire alla luce del «soggetto» nel mondo ellenico - un soggetto che si costituisce attraverso il discorso profetico, del saggio, del tecnico e del parresiates - si configura come un’emergenza che riguarda solo gli uomini e giammai le donne. Di fatto la Pizia nell’antica Grecia e le Sibille nel mondo latino sono solo il ventriloquo - un corpo senz’anima! - di cui si servono le diverse divinità per veicolare le loro oscure profezie!
Viceversa nell’immaginario rinascimentale le Sibille assumono, sulla base della rivendicazione dell’uguaglianza fra l’uomo e la donna, l’inedito profilo di avanguardie femminili. Di fatto, nelle immagini cultuali che costellano le chiese rinascimentali, le donne vengono rappresentate per la prima volta come soggette sovrane - le donne rappresentate da Michelangelo sono, per la prima volta, pensose! -, poiché svolgono, allo stesso modo dei Profeti, una funzione messianica. La cifra del Rinascimento, pertanto, va individuata proprio nella parola che sta a evocare, per l’appunto, la Rinascenza del soggetto!
Nonostante la spinta propulsiva della cultura rinascimentale, nei secoli successivi la donna non è tuttavia riuscita a farsi riconoscere come soggetto autonomo della comunicazione, come soggetto che dice il vero.
La storia di questo disconoscimento è costellata dalle tante sofferenze che le donne hanno subito nel corso dei secoli e dalle tante lacrime amare che tutt’oggi versano. Una sofferenza che suscita nell’animo nobile un sentimento di pietà che va comunque custodito attraverso i secoli. Non è inutile qui ricordare: la filosofa e scienziata Ipazia - la prima martire del libero pensiero! -, che nel 415, in Egitto, fu trucidata dagli fondamentalisti cristiani per aver rivendicato il diritto di costituirsi come soggetto che dice il vero; la persecuzione delle Streghe, che ebbe luogo non nel Medioevo ma in Età Moderna e, fra i giudici che le condannavano, Jean Bodin, l’«Aristotele del Rinascimento!»; le disposizioni del regime fascista che vietavano alle donne l’insegnamento della filosofia nelle nostre scuole; e, infine, la negazione dei diritti civili e, insieme, politici delle donne nei Paesi islamici. D’altra parte, va rilevato che fino alla Grande guerra le donne avevano il diritto di voto soltanto in quattro Paesi - Nuova Zelanda, Norvegia, Australia e Finlandia -; in Italia l’hanno ottenuto nel 1946 e in Svizzera solo nel 1974.
Nella seconda parte del suo lavoro, La Sala ritiene che sia auspicabile mettersi alle spalle le forme di sociabilità edipiche che fino ad ora hanno precluso alla maggior parte degli individui - non solo alle donne! - l’accesso alla sovranità: ossia il diritto di costituirsi come soggetti autonomi, il diritto di prendere la parola. Sostiene, inoltre, che le dinamiche relazionali che inibiscono l’autonomia delle donne - dinamiche che signoreggiano tutt’oggi nell’immaginario del modo occidentale - sono riconducibili da una parte all’alleanza tra la madre e il figlio - il mito di Edipo! - che ritroviamo nel mondo ellenico; e, dall’altra, all’alleanza fra il padre e il figlio - Il Vecchio Testamento! - che ritroviamo, invece, nel mondo ebraico.
La liberazione è possibile - dice La Sala - solo se usciamo dall’orizzonte teorico che la tradizione dei nostri padri ci ha trasmesso. Le forme della narrazione, della politica, della retorica, della dialettica, insieme all’esiziale corredo di scissioni (anima e corpo, la ragione e i sensi, ecc.) - tutte invenzioni del genio Mediterraneo - sono state adoperate per troppo tempo e, sempre più, appaiono logore. D’altra parte, i miti e i riti del mondo ellenico, ormai, sono diventati letteratura, ossia oggetto di semplice godimento estetico - non sono portatori di senso! - e, a volte, autentici detriti!
Rousseau, Kant, Feuerbach, Marx e Nietzsche - ciascuno per suo conto e con diverse modalità di pensiero - hanno rivendicato l’esigenza di mediare fra le diverse scissioni. Ciò nondimeno non sono riusciti a produrre un paradigma radicalmente nuovo, poiché hanno continuato a pensare con le categorie del mondo ellenico.
Da qui l’esigenza di pervenire a nuova Rivoluzione copernicana, che è possibile solo attraverso una nuova percezione dello spazio. In questo senso La Sala ci invita ad uscire dalla Terra per collocarci alla giusta distanza. La spazializzazione del soggetto con la sua giusta dose di trascendenza ci permetterà finalmente di vedere la Terra con il suo brillante colore come la Nostra Terra. Nondimeno La Sala è altresì consapevole che un nuovo ordine simbolico del mondo è possibile solo attraverso lo sviluppo dello spazio sociale.
Nell’attesa che ci sia una ripresa dell’effervescenza sociale e, insieme, una rifioritura dei movimenti di liberazione, il flâneur può cogliere già da ora in alcune forme di sociabilità disseminate sull’esergo del sistema la luce di una nuova bellezza, lo splendore che emerge dalle pratiche sociali in cui tutti gli individui signoreggiano come soggetti autonomi della comunicazione.
* vedi: http://www.nazioneindiana.com/2014/04/10/sibille-e-profeti-sulle-tracce-di-benjamin/
Capitalismo e pipistrelli
Creare ricchezza, non valore
Con una totale capacità di recupero il capitalismo cerca di appropriarsi delle conoscenze e di ampliare i limiti dello sfruttamento della natura. Un credo: tutto si può trasformare in moneta. Così alcuni economisti hanno calcolato che i «servizi resi dalla Natura» valevano fra i 16.000 e i 54.000 miliardi di dollari all’anno. Essi confondono valore e ricchezza.
di Jean-Marie Harribey (Le Monde Diplomatique - dicembre 2013, pag. 3)
Professore incaricato presso l’Università Bordeaux IV. Ultima opera pubblicata: “La ricchezza, il Valore e l’Inestimabile: fondamenti di una critica socio-ecologica dell’economia capitalista” (La Richesse, la Valeur et l’Inestimable. Fondements d’une critique socio-écologique de l’économie capitaliste), Les Liens qui libèrent, Paris, 2013
(traduzione dal francese di José F. Padova)
Lo sapevate? I servizi resi dai pipistrelli negli Stati Uniti valgono 22,9 miliardi di dollari l’anno. Come si arriva a questa bella sommetta? Valutando la quantità d’insetticidi che essi permettono di economizzare, distruggendo gli insetti nocivi. I servizi resi dagli insetti impollinatori rappresentano, da parte loro, 190 miliardi all’anno, dei quali 153 dalle sole api. Quanto al valore della fotosintesi operata dalla foresta in Francia, è stimato al prezzo di mercato della tonnellata di carbone (1).
Da dove viene questa pratica che consiste nell’attribuire alla Natura un valore economico basato sull’utilizzo dei suoi benefici a favore dell’uomo? Il degrado dell’ambiente e l’esaurimento delle risorse hanno raggiunto un punto tale che gli economisti liberisti, colti dal panico di fronte all’entità del disastro e presi da nuovo zelo, intendono introdurre nei modelli neoclassici il dato ambientale, che fino a poco tempo fa avevano completamente ignorato, perché la Natura era stata dichiarata inesauribile.
La crisi del capitalismo globalizzato è passata da lì. Lungi dall’essere una questione di congiuntura, essa affonda le sue radici nelle contraddizioni sociali ed ecologiche spinte all’estremo limite nella fase neoliberista. Da una parte, la svalutazione della forza-lavoro rispetto alla sua produttività provoca una situazione di sovrapproduzione in gran parte dei settori industriali. Le classi abbienti malgrado ciò si arricchiscono in misura scandalosa, grazie agli sgravi fiscali di cui beneficiano e ai loro esorbitanti redditi finanziari. Ne consegue disoccupazione endemica, precarietà, diminuzione della protezione sociale e crescente disuguaglianza. Dall’altra parte, l’accumulazione infinita del capitale preme sui limiti del Pianeta: minaccia l’equilibrio degli ecosistemi, esaurisce una grande quantità di risorse naturali, impoverisce la biodiversità, causa inquinamenti multipli e sconvolge il clima.
Da queste due serie di contraddizioni nascono la difficoltà e, a un certo punto, l’impossibilità d’imporre alla forza-lavoro di produrre sempre più valore economico e di monetizzarlo sul mercato. Con altre parole il capitalismo non può andare di là di un certo limite di sfruttamento dell’essere umano senza mandare in rovina le sue possibilità d’espansione e non può nemmeno superare una certa soglia nello sfruttare la natura, senza deteriorare o distruggere la base materiale dell’accumulazione. Con la crisi finanziaria apertasi nel 2007 svanisce l’illusione che la finanza avrebbe potuto liberarsi dalla costrizione sociale e materiale e diventare una fonte di valore endogena e autosufficiente. Queste due costrizioni sono insuperabili.
La trama, smagliata, della vita
In questo contesto di globalizzazione e di crisi del capitale due importanti trasformazioni hanno contribuito a riaprire la discussione teorica sulla ricchezza e il valore. L’una conduce alla generalizzazione su scala planetaria di un modo di sviluppo produttivistico devastante. L’altra riguarda lo spazio sempre più vasto delle conoscenze nel processo produttivo.
Due fenomeni, due domande: che tipo di ricchezza è messa a repentaglio nel primo caso? E in che cosa è modificata la fonte del valore nel secondo?
La strumentalizzazione della natura è diventata tale che, perfino entro la corrente dominante neoclassica, gli economisti si sono messi a difendere l’ambiente, considerato come un «capitale naturale». La «valorizzazione di ciò che vive», il «valore economico intrinseco della natura» e il «valore dei servizi resi dalla natura» sono oggetto di studio prioritario da parte della Banca Mondiale, del programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (PNUA), dell’Organizzazione di cooperazione e di sviluppo economico (OCSE), dell’Unione Europea, ecc.
Tutti credono sia possibile sommare elementi la cui misura dipende dai costi della produzione realizzata dall’uomo, come anche da elementi che non sono prodotti e che inoltre si riferiscono alla qualità o a valori etici non valutabili. Se tutto è valutato economicamente, tutto può essere considerato come capitale. Gli economisti neoclassici definiscono allora la ricchezza come la somma di ciò che essi chiamano capitale economico, capitale umano, capitale sociale e capitale naturale, che tutti derivano da un’analoga procedura di calcolo.
Cosa ancor più grave, quest’analisi non può tenere conto del metabolismo interno agli ecosistemi naturali. Isolando ogni elemento per calcolarne il costo, il prezzo, perfino l’utilità, essa non ne può afferrare il più importante: le interazioni che costituiscono la trama della vita e la cui preservazione condiziona la sua riproduzione.
Quest’ approccio è stato inaugurato nel 1997 con lo studio diretto dallo specialista dell’ambiente Robert Costanza: i servizi resi dalla Natura rappresentavano allora fra 16.000 e 54.000 miliardi di dollari, quotazione 1994 (2). In seguito gli studi si sono moltiplicati. Ma il prezzo sulla stima del quale è valutata, per esempio, la foresta della Francia costituisce una categoria intrinseca alla sfera finanziaria, caratterizzata dalla volatilità e dalla speculazione; nella sfera naturale non esiste. Quindi non vi è unità di misura che sia comune alle due sfere. L’economia e la natura sono incommensurabili.
Così conviene riallacciarsi alla distinzione di Aristotele, Adam Smith, David Ricardo e Karl Marx fra valore d’uso e valore di scambio, per dire che le risorse naturali sono una ricchezza, ma senza valore economico intrinseco, e che la Natura è indispensabile a tutta la produzione di valore economico, che proviene solamente dal lavoro umano. In breve, la parte di ricchezza che proviene dalla Natura non è in sé un valore economico, perché questa categoria è sociale e non naturale. Se per mettere in moto una strategia di sostenibilità dello sviluppo si attribuisce un prezzo a questo o a quel bene naturale, questo avrà una condizione di prezzo politico e non economico, fissato al livello della norma ecologica che si è scelto di rispettare.
Il valore del complesso di risorse naturali non si può stimare in termini economici - vale a dire è infinito, perché le risorse naturali condizionano la vita della specie umana. Perciò essa non può essere ridotta a una categoria economica. Di contro, la misura del valore economico creato dallo sfruttamento di queste risorse può essere ridotto al lavoro, ma non ha nulla a che vedere con uno pseudo valore economico intrinseco alle risorse. Si tratta di un paradosso incomprensibile al di fuori dall’economia politica e dalla sua critica marxista. Senza la natura l’uomo non può produrre nulla, né in termini fisici, né in termini di valore economico. L’attività economica si inserisce inevitabilmente nei rapporti sociali e nella biosfera. Non si può quindi fare a meno della Natura per produrre collettivamente valori d’uso e non si può sostituirla indefinitamente con manufatti. Ma non è la Natura che produce valore, categoria socio-antropologica per definizione.
D’altra parte, la rivoluzione delle tecniche dell’informazione e della comunicazione integra le conoscenze come fattore decisivo della creazione di ricchezza. Così nasce e si sviluppa un capitalismo qualificato come «cognitivo», o di «economia della conoscenza», o di «economia dell’informazione» o ancora come «economia dell’immateriale», che prende slancio dall’antico capitalismo fordista dell’industria di massa del dopoguerra (3). L’evoluzione sarebbe tale da condurre progressivamente siaa eliminare il lavoro come fonte del valore, secondo alcuni, siaa inglobarvi tutti gli istanti della vita, secondo altri. In ogni caso, questa evoluzione obbligherebbe ad abbandonare la legge marxista del valore, detta del «valore-lavoro», che avrebbe avuto il suo apogeo nell’epoca del fordismo.
Ormai il lavoro non produrrebbe più il valore, che «si forma principalmente nella circolazione (4)» del capitale. La sola via d’uscita sarebbe di guidare la trasformazione del capitalismo, che promette a ogni lavoratore la possibilità di «produrre sé stesso» e, simultaneamente, di versare un reddito di sopravvivenza a tutti coloro che il sistema mette comunque in disparte, invece di volere un pieno impiego ormai definitivamente fuori dalle previsioni e soprattutto contrario all’obiettivo dell’emancipazione dal lavoro.
Tuttavia questa tesi del capitalismo cognitivo solleva numerosi interrogativi. Il più importante conduce alla distinzione fra ricchezza e valore, o fra valore d’uso e valore di scambio. A mano a mano che aumenta la produttività del lavoro e diminuisce il lavoro che Mrax chiama «vivo» - e per lui si tratta di una «affermazione tautologica (5)» - il valore di scambio delle merci regredisce anch’esso, in conformità alla legge del valore. Così s’instaura un distacco sempre più grande fra il lavoro e le ricchezze create, vale a dire fra il lavoro e i valori d’uso, senza che ciò significhi un distacco fra lavoro e valore di scambio.
La nuova contraddizione del capitalismo è di voler trasformare la conoscenza in capitale da valorizzare. Due ostacoli almeno sorgono dinanzi a quest’ assunto. Il primo è il carattere difficilmente appropriabile della conoscenza in sé, poiché essa nasce dallo spirito umano e non può esserne tolta. Soltanto l’uso della conoscenza è facilmente appropriabile e il brevetto lo segna con la sua esclusiva o lo sottopone al pagamento di una rendita. Al di fuori da questo caso la conoscenza è un bene collettivo o comune per eccellenza, addirittura nel senso in cui lo definiscono gli economisti neoclassici: essa soddisfa le regole di non esclusione (non si può, per esempio, escludere chiunque dall’uso dell’illuminazione notturna delle strade) e di non-rivalità (l’uso da parte di qualcuno non impedisce l’uso da parte di qualcun altro).
Il secondo ostacolo all’appropriazione delle conoscenze da parte del capitale è il rischio che ciò fa correre alla loro diffusione e alla loro estensione. La socializzazione della produzione e della trasmissione delle conoscenze entra in contraddizione con la loro appropriazione privata. Questa contraddizione sta al centro della crisi del capitalismo contemporaneo, che ha difficoltà nel fare funzionare il sapere come capitale, ossia nel farne oggetto di profitto. Essi vi si dedica, ma non può per questo fare a meno della forza-lavoro che porta il sapere.
Dal momento in cui si riconosce che è possibile decidere un prezzo che sfugge all’obbligo di procurare una redditività sufficiente al capitale per rispettare una norma d’altra natura, si entra in un registro che, pur essendo monetario, diventa non commerciale. A questo proposito la produzione di servizi non commerciali, come l’educazione e la sanità pubblica, deve essere considerata come risultato di un lavoro produttivo di persone assegnate a questi compiti (6). La ricchezza non commerciale non è quindi un prelievo sull’attività commerciale: è un di più proveniente da una decisione pubblica di utilizzare a fini non lucrativi le forze-lavoro e le attrezzature e risorse disponibili. Essa è socializzata a doppio titolo: dalla decisione di utilizzare collettivamente le capacità produttive e da quella di ripartire socialmente il carico dei costi, attraverso le imposte.
La teoria liberale confonde ricchezza e valore e tende a ridurre ogni valore a quello destinato al capitale. Da un lato, il valore della produzione commerciale resta governato dal lavoro necessario, che è convalidato dal mercato. Ma, dall’altro, il riconoscimento del carattere produttivo del lavoro effettuato nella sfera non commerciale partecipa alla ridefinizione della ricchezza e del valore, indispensabile per contenere il processo di commercializzazione della società.
Questo lavoro risponde a bisogni sociali fuori dal campo delle merci; contribuisce inoltre al benessere, quest’altra specie di ricchezza che supera il quadro del valore in senso economico. A questa stregua la ricchezza socializzata non è meno ricchezza di quella privata; al contrario. Limitare lo spazio delle merci rende possibile l’allargamento di quello della gratuità costruita in senso sociale, ovvero delle attività umane che, benché abbiano un costo, non hanno prezzo nel senso del mercato. Questo permette infine di preservare i beni naturali e i legami sociali i quali, da parte loro, sono inestimabili.
(1) Cf. Annabelle Berger et Jean-Luc Peyron, « Les multiples valeurs de la forêt française », Institut français de l’environnement (IFEN), Les Données de l’environnement, n o 105, Orléans, août 2005.
(2) Robert Costanza (sous la dir. de), «The value of the world’s ecosystem services and natural capital », Nature, vol. 387, n o 6630, Londres, 15 mai 1977.
(3) Christian Azaïs, Antonella Corsani et Patrick Dieuaide (sous la dir. de), Vers un capitalisme cognitif. Entre mutations du travail et territoires, L’Harmattan, Paris, 2000 ; Michael Hardt et Antonio Negri, Empire, Exils, Paris, 2000 ; André Gorz, L’Immatériel. Connaissance, valeur et capital, Galilée, Paris, 2003.
(4) Yann Moulier Boutang, L’Abeille et l’Economiste, Carnets Nord, Paris, 2010.
(5) Karl Marx, Manuscrits de 1857-1858. Grundrisse, tome II, Editions sociales, Paris, 1980.
(6) Lire « Les vertus oubliées de l’activité non marchande », Le Monde diplomatique, novembre 2008.
La provocazione di Alain Touraine
La società è finita
Così si è rotto il patto tra lo Stato e l’individuo
di Carlo Bordoni (Corriere La Lettura, 3.11.2013)
Margaret Thatcher l’aveva detto: «Non esiste la società. Esistono solo individui, uomini e donne, e ci sono famiglie», anticipando le conclusioni di Alain Touraine, classe 1925, il maggior sociologo francese vivente. Touraine ha appena pubblicato un corposo volume presso l’editore Seuil, che rappresenta la summa del suo pensiero e l’estremo sforzo di comprendere la modernità. Un testo sorprendente a partire dal titolo, La fin des sociétés , la fine delle società, con un’evidente carica provocatoria: la distruzione delle istituzioni sociali come democrazia, città, scuola, famiglia.
Touraine osserva che la crisi fiscale dello Stato e la sua difficoltà a gestire le risorse necessarie al funzionamento delle istituzioni sociali, per via dell’aumento smisurato del potere della finanza, crea una separazione tra risorse e valori culturali. Così le istituzioni si vengono a svuotare di contenuto e si può parlare di «fine del sociale» o, meglio, di fine delle società.
Ma è possibile ricostruire un controllo sociale dell’economia finanziaria? Touraine sostiene che sono i valori culturali a sostituirsi alle norme sociali istituzionalizzate, opponendosi alla logica del profitto e del potere. Veri e propri valori etici, la cui origine è estranea all’organizzazione sociale, dal contenuto universale, tanto forti da porsi al di sopra delle leggi, quasi un «diritto naturale» che appartiene sia alla tradizione cristiana, sia allo spirito dell’Illuminismo. In questa distruzione epocale sopravvive solo il soggetto, cioè il singolo individuo che non è più un «soggetto sociale».
Il ritorno all’individualismo è stato il Leitmotiv del postmodernismo, con il suo riferimento alla solitudine del cittadino globale, a causa della perdita dei valori e delle ideologie su cui la modernità aveva costruito le sue sicurezze.
Guardando alla società liquida, ci appare sempre più costituita da individui alla ricerca di un’identità, affascinati dall’immensa (quanto precaria) opportunità di costruire relazioni in Rete. Nel loro insieme assomigliano più alle moltitudini di Spinoza che ai popoli di una nazione. Michael Hardt e Toni Negri (Moltitudine , Rizzoli, 2004) ne hanno dato un’interpretazione politica, rilevando la loro potenziale carica rivoluzionaria.
Ma Touraine non sembra credere nelle moltitudini. Piuttosto nella forza del soggetto, figura centrale che si riappropria di ogni diritto, anche al di sopra delle leggi. È la rottura dell’antico patto tra individuo e Stato-nazione, siglato quattro secoli fa per stringere un’alleanza in cui il singolo cedeva al sovrano parte delle sue prerogative di autonomia e libertà, in cambio di alcune certezze fondamentali. Nasceva così la modernità, rappresentata dal mostruoso Leviatano di Hobbes, su cui Touraine si è esercitato a lungo, a cominciare dalla sua fondamentale Critica della modernità (1992).
Ma è soprattutto nel successivo La globalizzazione e la fine del sociale (Il Saggiatore) che Touraine inizia a esporre le sue tesi sulla disgregazione del tessuto sociale, che poi sfoceranno in La fin des sociétés con lucida e implacabile determinazione.
Ma di quale società annuncia la fine? Non possiamo che pensare alla società moderna. O forse a quella postmoderna, visto che Vattimo e altri avevano già decretato la morte della modernità? O non sarà la società liquida di Bauman, prosciugata o evaporata dagli stravolgimenti etici, economici e sociali di una finanza sfuggita al controllo della politica e in rotta di collisione col capitalismo industriale? È più probabile che ci si trovi di fronte alla fine di una certa tipologia di società, piuttosto che alla fine delle società tout court .
Abbiamo assistito a mutamenti irreversibili e non ha grande importanza se questi siano definiti modernità liquida o postmodernità (anche se il movimento postmoderno presenta caratteristiche estetiche e concettuali proprie, ormai definite storicamente). Ciò che è essenziale è che abbiamo modificato il nostro comportamento, le relazioni economiche e politiche, la cultura e la comunicazione, i rapporti tra lo Stato e i cittadini. In questo contesto il ruolo del soggetto, che Touraine rileva come emergente, assume un’importanza determinante.
Allora quando Touraine parla di fine della società, non intende la fine delle relazioni sociali tra gli individui e tra questi e le istituzioni. Intende piuttosto una delegittimazione di quegli ordinamenti e di quelle regole burocratiche che non rispondono più alle esigenze di democrazia, uguaglianza e libertà a cui le persone aspirano. Una sorta di ribellione etica contro la rigidità e l’anacronismo delle norme sociali che regolano la vita contemporanea.
Impolitico, utopistico, veggente? La sua analisi rimette in discussione l’esistenza della sociologia, in quanto scienza della società, la cui crisi era stata annunciata da Alvin W. Gouldner nel lontano 1970. Ma più che una crisi della sociologia, forse oggi è più che mai necessaria una sociologia della crisi.
Una lezione di laicità
intervista a Salvatore Veca
a cura di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 31 ottobre 2013)
Laicità, certo: laicità. È un tema che sta molto a cuore al filosofo Salvatore Veca, che oggi pomeriggio viene festeggiato a Pavia, presso l’Istituto Universitario di Studi Superiori, a conclusione della sua carriera accademica. Contemporaneamente arriva in libreria Un’idea di laicità (il Mulino, pagine 100, euro 10), un piccolo saggio in cui Veca ha distillato gli elementi essenziali di una riflessione che lo accompagna da anni. Uno, più degli altri, gli preme sottolineare prima di prendere in esame le prospettive di dialogo indicate da Francesco in questi primi mesi di pontificato: «Al contrario di quanto si pensa solitamente - dice lo studioso - la libertà religiosa non deriva dall’insieme dei diritti politici, ma li genera e li fonda, per tutta una serie di ragioni storiche e concettuali».
Allude allo «sfinimento» provocato dalle guerre di religione all’epoca della Riforma?
«Sì, la radice è quella: tu e io, che finora ci siamo combattuti sulla base delle nostre rispettive credenze religiose, sigliamo un patto di convivenza, compossibilità e reciproca compatibilità, che ci permetta di conservare convinzioni alternative, ma nel contempo ci aiuti a riconoscerci nella comune condizione di cittadinanza democratica».
Così semplice?
«Solo in teoria, perché all’atto pratico questo principio può essere modulato in maniera molto diversa. C’è un primo livello, non necessariamente disprezzabile, che è quello dell’indifferenza. Ci arrestiamo su una soglia minima, d’accordo, che resta comunque preferibile rispetto alla violenza. Mi viene da osservare che papa Bergoglio proviene da un contesto, quello dell’America Latina, in cui una prospettiva del genere rappresenta già una conquista. Ma anche qui in Europa, di recente, siamo costretti ad ammettere che il venir meno dell’indifferenza prelude al collasso di tutto l’edificio della tolleranza. All’altro estremo troviamo l’atteggiamento che, invece, Francesco sta testimoniando con le sue parole e con i suoi gesti: non l’indifferenza, ma l’attenzione, una curiosità verso l’altro che diventa apertura, passione, disponibilità a imparare. Sempre nel contesto della laicità, si badi bene, e senza mai venir meno alle proprie credenze».
Sta dicendo che dal Papa viene una lezione di laicità?
«La laicità, intesa nel suo significato più autentico, appartiene al cristianesimo in modo irrinunciabile e costitutivo. Per rendersene conto basta ascoltare l’esperienza di tanti parroci, di tanti sacerdoti che stanno vicini alle persone nei loro drammi e nei loro bisogni più profondi. È l’esempio dato da Francesco, appunto: non esporre agli altri la dimostrazione delle ragioni per cui sarebbe legittimo o sensato credere, ma rendere evidente che c’è una vita spesa e vissuta, in concreto, sulle ragioni della fede».
Ed è per questo che l’invito al dialogo risulta tanto convincente?
«Anzitutto questo sgombra il campo da una retorica, come dire?, diplomatica. Quella per cui si invoca il dialogo e ci si richiama a una generica melassa di valori comuni, evitando però di prendere sul serio le differenze su ciò che è fondamentale nella vita di ciascuno. L’insistenza di papa Francesco sulla verità vissuta come relazione, e non imposta come astrazione, conduce verso questo orizzonte di serietà, oltre che di precisione concettuale».
In che senso?
«Legare la verità all’esperienza della verità è tema cristiano, e anzi cristologico, per eccellenza. Ma anche al di fuori di una prospettiva di fede rappresenta un monito a non considerare la verità come qualcosa che possa essere pronunciato dall’esterno. La verità sta sempre nella partecipazione, nello stare in mezzo agli altri, praticando una lealtà che è dovuta in primo luogo a se stessi. Troppe volte abbiamo assistito a una confusione di piani più o meno volontaria, per cui il modello della verità scientifica viene applicato in maniera surrettizia a contesti di tutt’altro tipo. Le leggi della fisica sono vere in quanto verificate, non c’è dubbio. Però non sono sullo stesso piano di un’affermazione come “Io sono la via, la verità e la vita”».
È una distinzione solo teorica?
«Niente affatto. A nessuno può essere richiesto di venire meno a una convinzione di fede. Questo equivarrebbe a un’ingiunzione tirannica e sarebbe, inoltre, la sconfessione della verità come principio pluralista. Il che non significa, lo ripeto, che ogni asserzione può essere scambiata con qualsiasi altra. Vale semmai l’opposto: proprio perché la verità deve essere perseguita in ambiti diversi, diventa particolarmente urgente interrogarsi su che cosa significa l’incontro con Qualcuno che è la verità».
Torniamo all’origine religiosa delle libertà civili?
«O forse approdiamo alla misericordia come modello autentico di una convivenza basata sulla serietà delle proprie convinzioni e sull’attenzione appassionata per le convinzioni degli altri. Nel caso di papa Francesco si citano molte ascendenze, molte similitudini. Quella che personalmente mi colpisce di più riguarda un altro grande gesuita vissuto nel XVI secolo. Penso a Matteo Ricci, nel quale i cinesi riconobbero un amico venuto da lontano per trovare nuovi amici. Ecco, esattamente questo è lo stile di Francesco, lo stile della laicità»
"PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA" DELLA RAGIONE ATEA E DEVOTA
Il mare aperto di Francesco
di Fausto Bertinotti (Il Sole-24 Ore, 06/10/2013)
Un’imprevista presenza profetica ha squarciato l’aria del tempo, un’aria che, specie in Occidente, si è fatta greve e opaca, e ha riguadagnato lo sguardo aperto sul futuro dell’uomo. Dalla Cattedra di quella stessa Chiesa da cui era venuta una delle più organiche avversioni alla modernità, Papa Francesco ne coglie, proprio mentre essa vive una crisi profonda, il nucleo cruciale, la promessa non mantenuta e la fa rivivere nel dialogo con il proprio, rinnovato, progetto di fede. C’è nella testimonianza di Francesco un punto cardinale per il dialogo tra credenti e non credenti. Esso si definisce attraverso un vero e proprio attraversamento di Colonne d’Ercole, attraverso l’ingresso in un altro mare, un mare aperto. Scrive Francesco: «La questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c’è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire a essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire».
Credo che questo Papa debba molto allo strappo drammatico di Benedetto XVI. L’esperienza di Bergoglio non si sarebbe potuta fondare senza una «rupture», senza il «no» che la precede. Benedetto XVI, con il suo ultimo atto, ne è il protagonista. Nascosta dall’atto straordinario di un Pontefice che dice «mi dimetto», c’è la confessione della propria umana fragilità, ma proprio da essa riemerge l’innocenza. L’innocente può affermare che il re è nudo. Su questa sottrazione al potere si edifica il pontificato di Bergoglio. Si chiama Francesco come a indicare la via per sottrarsi al potere dell’Istituzione, senza dover confliggere con essa. Ma la discontinuità di Francesco con Benedetto XVI è forte e netta proprio sulla testimonianza nel secolo, sulla grande questione moderna della coscienza individuale e del diritto. Anche Benedetto XVI aveva portato la Chiesa al confronto con il secolo, ma per ben altra strada, quella del rapporto tra fede e ragione. Al Bundestag di Berlino aveva rivendicato che: «Contrariamente ad altre religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato» e che «ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto; ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate sulla Ragione creatrice di Dio». A molti era sembrata un’apertura alla laicità. Ma così invece la ragione restava dipendente dalla luce di Dio, la verità accessibile solo a chi da essa ne è illuminato. Caritas in veritate. Francesco oltrepassa queste colonne. Il suo dire si distacca dal corso teologico che, pur nel rinnovamento, tanto da far uso del prefisso «neo», affonda le sue radici nella Scolastica, la Tradizione. Francesco sembra voler dire che non è più il tempo del rinnovamento nella continuità. I termini della questione vengono rovesciati. È nell’amore che vive la ricerca della verità; a nessun essere umano è impedito il bene. La fede, per Francesco, è il sale della terra, ma la terra è diversamente abitata e tutti possono accedere al bene. Si ricomincia dall’esperienza umana. Il passaggio apre la strada alla ricchezza della convivenza.
La rottura è limpida. La sua radice si può trovare forse nella Chiesa antica. Del resto, nelle origini lontane dei grandi movimenti, c’è spesso più futuro che nella loro storia recente. Paolo di Tarso, nella lettera ai Romani, aveva scritto: «Quando i pagani, che non hanno la Legge (la Torah), per natura agiscono secondo la Legge, essi, pur non avendo legge, sono legge a se stessi; essi dimostrano che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza». Certo il passaggio di oggi è decisivo. Credenti e non credenti possono tornare a camminare insieme, quando le strade siano quelle della liberazione. La portata del messaggio rispetto all’ordine esistente, alla cultura dominante e al senso comune è rivoluzionaria. La fede di Francesco e la coscienza dell’uomo si incontrano nel rifiuto della rassegnazione ai mali del mondo. La rottura di Francesco restituisce alla testimonianza di fede una missione di autonomia e di sfida al presente, al secolo, a questo ordine mondiale. Torna, prorompente il: «Siamo uomini in questo mondo, non di questo mondo». Enzo Bianchi ha giustamente ricordato la «Camminare insieme» del Cardinale Pellegrino, nella Torino dei primi anni Settanta. Ma quello era il tempo della speranza e questo è il Pontefice. Certo lo spirito del Concilio Vaticano II torna a farsi sentire, dopo una sua progressiva riduzione al silenzio dal corso ultimo della storia e da quella della Chiesa. Ma quella del Papa non è un heri dicebamus. Papa Francesco sembra dare corpo a ciò che Walter Benjamin chiamò «il balzo di tigre». È un certo sguardo sul nostro futuro, è la rottura con il tempo presente e con i suoi mali, è la ricerca di una diversa strada nel cammino dell’umanità che fanno rivivere ciò che del Concilio, oltrepassando il suo tempo, illumina ancora la ricerca di futuro; la prossimità, cioè la ricerca della vicinanza con l’altro (gli uomini di buona volontà); la formula giovannea sulla denuncia del più grande peccato dell’umanità, «lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo»; l’orizzonte liberatorio della Gaudium et spes.
Gli atti di Francesco stupiscono perché rompono con l’immagine che la Chiesa ha voluto dare in questi ultimi secoli della presenza del Pontefice nel mondo, con quel cerimoniale del Sacro di cui il connotato pubblico del Papa era vertice e modello. In un mondo nel quale il virtuale e l’apparire sono diventati i segni dei tempi, il Papa chiede di ricongiungere l’apparire con l’essere, di ritrovare l’autenticità. La prassi di Francesco è parte della sua rivoluzione. Non si deve dimenticare che è un «Papa venuto dalla fine del mondo» e che si è voluto chiamare Francesco. I suoi atti possono essere già interpretati non come un’assenza di teologia, bensì come una teologia della prassi. Si potrebbe dire, facendosi guidare da una celebre formula, che Francesco rimette la fede con la testa in sù e con i piedi per terra; per camminare sui piedi nudi. È significativo che un teologo come Leonard Boff non abbia cercato nel Papa alcuna vicinanza con la sua teologia della liberazione e abbia invece letto nella prassi di Francesco la ricerca del divino nel l’uomo e della liberazione dell’uomo da ogni forma di oppressione e di alienazione. La povertà si rivela nelle parole del Papa un crocevia decisivo.
Una povertà scelta, quella nella Chiesa e della Chiesa, anche per combattere le povertà, tutte le povertà, imposte ai molti dall’accumulo di potere e di denaro nelle mani di pochi. Parole come pietre, parole, quelle del Papa, che non si fermano alla denuncia dei mali, ma risalgono alle loro cause, al potere, alla ricchezza, al denaro. Bastino le parole dell’Angelus dell’8 settembre, nelle quali il no alla guerra si accompagna alla denuncia degli interessi materiali che la generano, dalla produzione e dal traffico di armi, agli approvvigionamenti energetici. Ancor più in generale si ricordino, a riassumerle tutte, le parole di denuncia di questo sistema economico, perché: «Questo sistema economico ha un idolo che si chiama denaro». Le intollerabili ingiustizie, le distruzioni di umanità del nostro tempo hanno lì la loro storica causa prima. Dal suo rifiuto rinasce il bisogno di camminare insieme.
Un nota sul “disagio della civiltà”
Costituzione dogmatica della chiesa "cattolica"... e costituzione dell’Impero del Sol Levante.
di Federico La Sala *
Il ’delirio’ della Gerarchia della Chiesa ’cattolico’-romana è ormai galoppante!!! E se vogliamo aiutarla a guarire o, che è lo stesso, se vogliamo aiutarci a guarire (il ’delirio’ è generale, e non solo suo!!!) non possiamo non riprendere a pensare - a partire da noi stessi, e da noi stesse!!! Il problema è pensare proprio a partire da noi, dagli esseri umani in carne ed ossa - dalle persone, quale siamo e quale vogliamo essere, da quell’individuo che non sia un (o una) “Robinson”, come voleva il ’vecchio’ Marx non marxista e non hegeliano!!!
Basta con le robinsonate! La questione è la Relazione (Dio è Amore), e una relazione non edipica!!! Una relazione edipica (sia dal lato della donna sia dell’uomo) porta a postulare l’esistenza di un “dio” (un dio-uomo o un dio-donna) e, di qui, la concezione di un ’mondo’ dove il diritto di comandare in cielo e in terra sia del “dio” (del dio-uomo o del dio-donna)!!!
Da questo punto di vista, la Chiesa ’cattolico’-romana è solo l’ultimo baluardo di quel “dio” che garantisce la proprietà privata dei mezzi di produzione e l’educazione edipico-capitalistica. Perché i sacerdoti (se vogliono) non si possono sposare?!, o perché le donne non possono diventare sacerdot-esse?!, ma perché il “dio” è concepito come dio-uomo e, come tale, solo il dio-figlio può essere come il dio-padre... e la donna solo come la madre-dea.
Sulla terra (e per tutti e per tutte) il Dio-Figlio è il figlio-dio e il fratello di tutti e di tutte, ma in cielo solo Lui può essere il Padre... e lo Sposo della Madre - e, siccome è solo lui che può avere rapporti con il cielo (ma il messaggio di Gesù proprio perché è un buon-messaggio dice che tutti e tutte siamo tutti e tutte figli e figlie di Dio-Amore... e tutti e tutte possiamo avere rapporti con “Lui”!!!), deve essere anche ’donna’ (perciò si traveste così come si traveste) per ’generare’ e ’riprodurre’ se stesso, in circolo...e comandare su tutti, su tutte, e su tutto! Che follia, senza alcuna saggezza - sconsolatamente!!!
Vedere il caso del Giappone - nella cultura giapponese c’è la Dea in cielo, e l’imperatore sulla terra; ora-oggi!!!, dal momento che alla coppia imperiale è nata una bambina, si parla di cambiare la Costituzione per far sì che Lei possa accedere al trono ... ma il problema è più complesso - come si può ben immaginare - perché ... deve essere cambiata anche la Costituzione celeste dell’Impero del Sol Levante!!! Se no, l’Imperatrice con Chi si ’sposerà’?! Con la Dea?!!
Non è questa forse la ragione nascosta del “disagio della civiltà” dell’Oriente e dell’Occidente ..... e anche della sua fine, se non ci portiamo velocemente fuori da questo orizzonte edipico-capitalistico di peste, di guerra e di morte? Non è ora di andare al di là della tragedia, e riprendere il filo dall’ “Inizio” (filosoficamente, parlando)?! Cosa significa essere EU- ROPEUO*?!! In principio cosa c’era, il Logos buono o il Logos cattivo?! Sta a noi, tutti e tutte, deciderlo - qui ed ora (come sempre, del resto)!!!
Federico La Sala
.Materiali/ UN ESTRATTO DAL PRIMO NUMERO DELLA RIVISTA «IL MANIFESTO»
Quel Marx necessario alla critica del presente
di Marcello Cini *
È stato già più volte osservato che due sono essenzialmente le conseguenze del «consapevole uso tecnico della scienza». La prima si riferisce all’aumento della produttività del lavoro, ossia consiste nella costante diminuzione del tempo di lavoro socialmente necessario alla produzione dei beni di cui, a un dato stadio del suo sviluppo, la società ha bisogno. La seconda consiste nella «moltiplicazione del valore d’uso del lavoro, ossia delle branche della produzione. «In modo continuo e necessario - afferma Marx - la produzione capitalistica sviluppa da una parte l’intensità della forza produttiva del lavoro, e dall’altra parte la differenziazione illimitata delle branche d’attività».
Ora, questi due effetti operano in modo assai differente nell’ambito dell’evoluzione del sistema capitalistico.
Il primo entra in contraddizione diretta e inconciliabile con il processo di valorizzazione del capitale basato sull’identificazione fra valore di scambio e tempo di lavoro, e sulla conseguente appropriazione capitalistica del plusvalore prodotto dall’uso della forza lavoro (...).
Il secondo effetto, tuttavia, agisce in senso opposto. Sviluppando in modo continuo la possibilità di creazione di nuovi beni non solo permette continuamente l’assorbimento nelle nuove branche produttive della forza lavoro eccedente, assicurandone quindi il mantenimento nella condizione di merce, ma moltiplica altresì i valori d’uso della forza lavoro, producendo una sempre crescente differenziazione della forza lavoro dal lavoro manuale fino alle forme più elevate di lavoro intellettuale. In altre parole il secondo effetto dello sviluppo scientifico e tecnologico tende a rafforzare ed estendere i rapporti di produzione capitalistici a tutti i livelli della struttura sociale.
Se ora consideriamo il modo di operare di questi effetti contrastanti in stadi diversi di sviluppo del sistema capitalistico, ci accorgiamo che, nell’ambito dello stadio concorrenziale, il primo effetto sovrasta largamente sul secondo, ed è per di più incontrollabile dai singoli, in conseguenza dell’anarchia che domina nel processo di scambio. Non a caso nell’analisi del capitale che ha soprattutto per oggetto un modello concorrenziale, l’uso capitalistico della tecnica viene essenzialmente identificato con l’introduzione di macchinario per aumentare la produttività di lavoro. (...)
A livello di capitalismo monopolistico tuttavia, non solo le enormi possibilità di produzione scientifica stimolata e pianificata permettono di assicurare la creazione di sempre nuovi sbocchi di consumo, ma diventa possibile controllare e regolare, anche se non completamente, l’effetto dell’aumento della produttività del lavoro, in conseguenza dall’attenuazione del meccanismo concorrenziale, o per lo meno della sua trasformazione. L’identificazione perciò tra sviluppo delle forze produttive, in quanto fattore che entra in conflitto con i rapporti capitalistici di produzione, e lo sviluppo della scienza e della tecnica quale esso si realizza nella società capitalistica matura, perde gran parte della sua giustificazione teorica, e quindi del suo reale valore conoscitivo. (...)
L’assunzione da parte dello stato capitalistico del compito di pianificare lo sviluppo della ricerca scientifica come proprio interesse vitale è uno degli aspetti più caratteristici e importanti di questo «intreccio fra tecnica e potere» fra forze produttive e rapporti di produzione. In particolare la pianificazione della ricerca spaziale (...) rappresenta l’esempio più chiaro di sviluppo capitalistico della scienza, di un processo cioè in cui le forze produttive vengono «plasmate» dal capitale, e non semplicemente «usate», come pretenderebbe una ingenua visione meccanicistica, quasi fossero zappe o tòrni.
La scienza non è solo soluzione di problemi che si incontrano casualmente per la strada, è un processo in cui posizione e formulazione di problemi nuovi procede di pari passo con la loro soluzione. Nella fase della scelta e della posizione dei problemi, i rapporti di produzione capitalistici giocano un ruolo tanto più determinante quanto più ingenti sono gli investimenti in uomini e mezzi necessari, e quanto più importanti sono gli obiettivi ai fini dello sviluppo e del rafforzamento del sistema. Come negare che oggi saremmo di fronte a una scienza diversa, come contenuti, metodi, importanza stessa delle diverse discipline, se la ricerca negli Stati Uniti non fosse stata negli ultimi venti anni condizionata in larga misura dalle necessità economiche, politiche e militari di espansione del capitalismo?
* il manifesto, 24-10.2012
Elegante antidogmatismo
di Valentino Parlato *
Anche Marcello ci ha lasciato e con lui rischiamo di perdere la memoria di stagioni straordinarie di lotta politica e intellettuale. I suoi libri e i suoi scritti sulla «Rivista» e poi sul «manifesto» quotidiano sollevavano polemiche e discussioni che animavano il dibattito culturale, che allora era molto vivo.
La discussione era contro la neutralità della scienza, al di fuori e contro ogni ortodossia. Marcello era uno scienziato raffinato e sempre curioso; nemico di ogni dogmatismo. Discutere con lui, leggere i suoi scritti apriva la mente anche ai molti di noi che non avevano dimestichezza con la scienza, ma da quei dibattiti imparavano molto anche nel loro specifico impegno culturale, letterati e storici di cui Marcello è stato un maestro.
Adesso abbiamo perduto un maestro e la stagione è assai brutta.. Sarà molto utile rileggere i suoi scritti. Siamo in una fase culturale della dimenticanza, della cancellazione del passato per vivere o sopravvivere in un confuso presente. Sforziamoci di non dimenticare Marcello.
* il manifesto, 24.10.2012
Addio a Cini, il fisico che si oppose alla lectio del Papa alla «Sapienza»
di Giovanni Caprara (Corriere della Sera, 24.10.2012)
«Sono convinto che anche le conoscenze scientifiche non sono verità assolute ma sono relative e contingenti e debbono essere vagliate da altri punti di vista, tra i quali anche quello della filosofia. Naturalmente anche questi punti di vista sono a loro volta relativi e contingenti: un punto di vista assoluto e immutabile non esiste». Questa era l’idea della scienza di Marcello Cini, scomparso lunedì a Roma all’età di 89 anni. E le sue parole rivelavano il metodo che lui applicava alla vita in generale, sempre, ponendo in discussione tutto pur restando fedele alla sua visione dell’uomo.
L’ultima sua uscita clamorosa risale al novembre 2007, quando scriveva al rettore dell’Università di Roma «La Sapienza» chiedendogli di annullare lalectio magistralisdi Papa Benedetto XVI all’inaugurazione dell’anno accademico, giudicandola inadatta all’occasione. E fu l’ultima volta in cui riuscì a coagulare intorno a sé il consenso di 67 docenti che firmarono con lui, ma provocando fuori dell’ateneo accese reazioni, soprattutto da parte del mondo cattolico. Diventò un caso che sollevò contestazioni e disordini.
E il Pontefice tre giorni prima della visita, nel gennaio successivo, rinunciava all’invito. Cini sostenne in modo risoluto la laicità dell’istituzione: considerava la presenza del Papa una violazione. E con questo manifestava anche la sua idea di laicità assoluta. Era uno dei tanti volti di Marcello Cini, il primo dei quali era tuttavia quello dello scienziato: sulla cultura scientifica egli costruiva le sue certezze.
Era nato a Firenze il 29 luglio 1923, arrivando ad insegnare fisica teorica alla «Sapienza» chiamato da Edoardo Amaldi. Poi abbracciava le frontiere più avanzate della fisica quantistica. Nonostante i suoi pensieri di fisico fossero molto astratti e apparentemente distaccati dalla quotidianità Marcello Cini guardò alla Terra e alla difesa della vita con la stessa intensità con la quale difese la laicità.Negli anni Sessanta diventò uno dei padri, il più nobile, degli ambientalisti. Cini era un fine intellettuale le cui idee potevano non essere condivise, ma era stimolante considerarle: il confronto generava sempre un arricchimento. Ma sapeva anche mettersi in discussione come nel libro Dialoghi di un cattivo maestro.
Le sue accese convinzioni, la voglia di incidere sulla realtà lo portò inevitabilmente in politica. Partecipò alla fondazione del quotidiano «Il Manifesto» e negli anni Sessanta fece parte del Tribunale Russell sui diritti dell’uomo, recandosi in Vietnam e raccontando poi le atrocità della guerra. Alla direzione della rivista «SE/Scienza Esperienza», fondata da Giulio Maccacaro, la sua linea fu discutere e diffondere lo stretto rapporto tra scienza e società. Come i suoi articoli, ancor di più facevano discutere i suoi libri, in cui scavava ancora più a fondo la visione sociale della scienza. Per questo L’ape e l’architetto, Il gioco delle regole e Il paradiso perduto segnarono davvero un’epoca.
BERLINO.
Agitatore, rivoluzionario, profeta inflessibile della lotta di classe. Così è rimasto nella memoria del mondo. Invece no: fu soprattutto teorico e scienziato, politologo e pensatore sempre curioso, attentissimo persino alle scienze naturali.
Karl Marx, arrivano gli inediti
"So solo che non sono marxista"
Migliaia di pagine ancora da catalogare
Centinaia di volumi ancora da pubblicare
Analisi e profezie ancora da studiare
Nell’anno della crisi, viaggio (con sorpresa) negli archivi del padre del comunismo
di Andrea Tarquini (la Repubblica, 08.01.2012)
Agitatore, rivoluzionario, profeta inflessibile della lotta di classe. Così è rimasto nella memoria del mondo. Invece no: fu soprattutto teorico e scienziato, politologo e pensatore critico sempre curioso, attentissimo persino alle scienze naturali e alle nuove tecnologie. Credeva nella democrazia e nella libertà di parola molto più di quanto non si pensi, le riteneva irrinunciabili. E la crisi odierna del capitalismo attuale lui l’aveva a suo modo prevista, molto più di come ce lo tramandarono le dittature totalitarie realsocialiste. Riemerge dal passato come un moderno newlabourista, un progressista tedesco o un liberal americano dai suoi scritti di migliaia di pagine ingiallite ma spolverate con cura in un bel palazzo neoclassico qui a Berlino, al numero 22/23 della Jaegerstrasse.
Qui nella splendida Mitte a un passo da Gendarmenmarkt, la piazza delle cerimonie prussiane e del Kaiser, forse la più bella della capitale. Eccoci al quarto piano della Berlin-Brandenburgische Akademie der Wissenschaften, l’Accademia delle scienze che rivede la sua opera e un volume dopo l’altro ne prepara la pubblicazione completa: 114 tomi, di qui al 2020 e chi sa come allora sarà il mondo. «Certo lui lo aveva studiato e previsto molto meglio di come ci fu detto dai poteri che lo usarono post mortem», spiega il dottor Gerald Hubmann, responsabile a fianco del professor Manfred Neuhaus del grande lavoro. Ma insomma, di chi stiamo parlando? Di Karl Marx, proprio lui. Qui i suoi scritti, volumi, appunti, epistolari, vengono studiati, riletti in modo critico e pubblicati passo dopo passo. E lui, «il vecchio barbone» come lo chiamarono affettuosi e riverenti generazioni di militanti di sinistra, insieme a Friedrich Engels torna attuale in un’altra luce.
È un tuffo nella storia, quello in Jaegerstrasse 22/23. Un tuffo sereno nella doccia fredda inquietante della crisi del mondo globale. I volumi, rieditati in versione critica e scientifica, uno dopo l’altro si accatastano nelle stanze degli accademici. Mega, come "grande" in greco antico, si chiama il progetto dell’opera completa di Marx ed Engels rivista in modo critico. Mega in tedesco è una sigla: Marx-Engels GesamtAusgabe. Frugando nelle carte consunte dal tempo si scoprono cose che i contemporanei di Marx vollero ignorare, e che il marxismo-leninismo ufficiale preferì censurare. Le Tesi su Feuerbach, spiega Hubmann, non furono all’inizio parte de L’ideologia tedesca. Vi furono inserite solo dopo, e il tutto, secondo Marx, era solo una collezione di appunti «destinata ai topi». Appunti di agitazione politica consegnati ai manoscritti suoi dell’epoca, tutti a penna con correzioni e cancellature, i disegnini di volti spesso femminili magari schizzati da Engels accanto. Slogan politici trasformati in ortodossia nell’Urss. Insomma: la teoria secondo cui l’esistenza materiale determina la coscienza, base del materialismo storico, spiega Hubmann, era un’idea in cui Marx non credeva. Guardi qui, dice mostrando un volume riedito, Marx disse: «Tutto quello che so è che non sono un marxista».
«Un volume dopo l’altro», spiega ancora Hubmann, «noi curatori di Mega scopriamo un altro Marx. Non un "cane morto", non un ideologo del passato, bensì un politologo e scienziato attuale. Un uomo che continuò a ricercare con curiosità fino alla vecchiaia e seppe vedere e prevedere le radici della crisi di oggi. Studiò nei suoi tardi anni l’evoluzione del capitalismo, da capitalismo industriale a sistema sempre più basato sul credito e sulla finanza e quindi esposto alle sue oscillazioni e alle sue incertezze», a crisi ingovernabili a danno di tutti. La svolta, la sua fase dopo Il Capitale, cominciò con lo studio dell’economia americana: i grandi spazi, l’esigenza di costruire in fretta ferrovie e altre infrastrutture, la crescente fame di materie prime, il boom dell’agricoltura, spiegano gli accademici, imposero la crescente dipendenza dell’economia reale dal credito: serviva sempre più denaro. Mega, II/13: ecco le analisi di Marx anziano sui nuovi processi di circolazione del capitale, sul suo sviluppo col turbo come sistema sempre più finanziario. Sembra di leggere pagine sulla crisi dei nostri giorni, invece sono vecchie di un secolo e mezzo.
È un caso, un accidente della storia, se il progetto Mega ha potuto vedere la luce. Opere, carteggi, epistolario e appunti di Marx ed Engels erano in mano all’archivio della Spd. Dopo la rivoluzione bolscevica, nacque un fitto lavoro comune di scienziati socialdemocratici tedeschi e del Pcus per sistematizzarle. Parte del materiale fu portata a Mosca, altra parte restò nella vivace Berlino della fragile Repubblica di Weimar. Furono le radici dell’opera completa, ma i drammi di quegli anni le seccarono. La ricerca di quegli scienziati e filosofi cadde troppo presto sotto l’occhio sospettoso della Nkvd, la polizia segreta di Stalin. Al dittatore, racconta Hubmann, non piacque scoprire certe pagine critiche, certi appunti sull’esigenza della libertà di parola e del libero confronto tra forze politiche e sociali. Meno che mai gli piacque scoprire che Marx ed Engels avevano scritto molto più di Lenin e non teorizzavano un totalitarismo né tantomeno i gulag. Con la brutale svolta autoritaria in Urss gli scienziati marxisti finirono male. A cominciare dal loro capo David Rjazanov, giustiziato per tradimento nel 1938, poco prima del patto Hitler-Stalin. Altri finirono sorvegliati e solo la grande fama li salvò dal plotone d’esecuzione. Fu il caso di György Lukács, il padre ungherese del marxismo critico.
Ma se Mosca piangeva, Berlino non rideva. Venne il ’33, la democrazia di Weimar fu rovesciata da Hitler. Gli archivi della Spd si salvarono per caso: i socialdemocratici, sfidando la Gestapo, li portarono da amici accademici olandesi. «Chi sa perché, ma anni dopo narra Hubmann nell’Olanda occupata, Gestapo e polizia collaborazionista non pensarono mai di frugare nei sotterranei dell’accademia di Amsterdam, non scoprirono mai quanto avrebbero volentieri distrutto». Venne il 1945, la disfatta dell’Asse e la Guerra fredda con la Germania divisa. Urss e Ddr ripresero il lavoro di edizione completa dopo la morte di Stalin, ma Breznev lo bloccò: troppi manoscritti critici, troppe pericolose idee di invito al dubbio. Il lavoro fu congelato fino all’89 della caduta del Muro di Berlino. «E per quanto possa sembrare strano», notano i professori di Jaegerstrasse, «se lavoriamo liberi e con rigore scientifico al Mega lo dobbiamo anche a Helmut Kohl, certo non sospetto di simpatie marxiste. Il cancelliere della riunificazione che amava la storia, decise che, magari sottotono, la ricerca su quelle tonnellate di manoscritti che la Ddr aveva chiuso in cantina avrebbe dovuto riprendere nella Germania unita».
Sono passati più di vent’anni da quell’ennesima svolta in cui i manoscritti ingialliti dei due barbuti riuscirono a sopravvivere. Adesso il lavoro continua, diviso tra Berlino, Amsterdam e Mosca. Con l’interesse crescente dei preparatissimi scienziati ufficiali cinesi, che forse vi cercano nuove idee per la futura prima potenza mondiale. Scoprono anche loro un altro Marx. L’uomo che perseguitato quasi ovunque in Europa si guadagnò da vivere come corrispondente del New York Daily Tribune.
Rivediamo quelle pagine: narrava come un grande inviato le scosse politiche e sociali o le crisi economiche dell’Europa di allora, persino i primi movimenti operai in Italia o Spagna. Non c’erano le comunicazioni moderne: Marx ed Engels inviavano gli articoli a New York col piroscafo, dovevano scriverli pensando a non farli invecchiare. Jenny Marx, l’amata moglie, teneva la contabilità d’ogni spedizione. Cominciò anche a conservare i più curiosi, incredibili scritti del marito anziano. Karl aveva rinunciato alla politica, annotava la sua fiducia nel libero dibattito e confronto tra idee e forze politiche. E prese a studiare le scienze: ecco appunti e schizzi perfetti sulla geologia, sulla fisica, sui primi passi della scienza nucleare.
Ed ecco, infine ma non ultimo, la scoperta forse più affascinante. Marx ed Engels, nell’Europa del capitalismo senza internet né jet di linea, crearono una rete di scambi epistolari internazionali. Con leader operai, con politici, con scienziati, gente d’ogni corrente di pensiero o tendenza: a suo modo, dicono soddisfatti gli accademici di Jaegerstrasse, fu il primo social network. Funzionò per anni. Bentornato, caro vecchio Marx, e scusaci: troppi opposti estremismi del Ventesimo secolo ti avevano tramandato male. Arrivederci al 2020. Forse ci servirai quando chi sa che volto avrà il capitalismo.
di Karl Marx (la Repubblica, 08.01.2012)
L’enorme quantità e la varietà delle merci disponibili sul mercato non dipendono soltanto dalla quantità e dalla varietà dei prodotti, ma sono in parte determinate dall’entità della parte di prodotti prodotti come merci, che dovranno dunque essere immessi nel mercato per la vendita in qualità di merci. La grandezza di questa parte delle merci dipenderà, a sua volta, dal grado di sviluppo del modo di produzione capitalistico che produce i propri prodotti solo come merci e dal grado in cui tale modo di produzione domina in tutte le sfere della produzione. Deriva da qui un grande squilibrio nello scambio tra paesi capitalistici sviluppati, come l’Inghilterra, per esempio, e paesi come l’India o la Cina. Questo squilibrio è una delle cause delle crisi.
Causa totalmente trascurata dagli asini che si accontentano di studiare la fase dello scambio di un prodotto con un altro prodotto e che scordano che il prodotto non è pertanto in alcun caso merce scambiabile in quanto tale.Questo costituisce anche la spina nel fianco che spinge gli inglesi, tra gli altri, a voler stravolgere il modo di produzione tradizionale esistente in Cina, in India eccetera, per trasformarlo in una produzione di merci e, in particolare, in una produzione basata sulla divisione internazionale del lavoro (vale a dire, nella forma di produzione capitalistica). Riescono in parte in questo intento, per esempio, quando danneggiano i filatori della lana o del cotone svendendo i loro prodotti o rovinando il loro modo di produzione tradizionale, che non è in grado di competere con il modo di produzione capitalistico o con il modo capitalistico di immettere le merci sul mercato. Anche se il capitale produttivo, per sua stessa natura, è disponibile sul mercato, vale a dire è offerto in vendita, il capitalista può (per un periodo di tempo lungo o breve, secondo la natura della merce) tenerlo lontano dal mercato se le condizioni non gli sono favorevoli o al fine di speculare o altro. Il capitalista può sottrarre il capitale produttivo al mercato delle merci, ma in un momento successivo sarà costretto a riimmetterlo. Ciò non ha effetti al fine della definizione del concetto, ma è importante nell’osservazione della concorrenza.
La sfera della circolazione delle merci, il mercato, è in quanto tale distinta anche fisicamente dalla sfera della produzione, esattamente come sono distinti temporalmente il processo di circolazione e l’effettivo processo di produzione. Le merci ora pronte restano depositate nei magazzini e nei depositi dei capitalisti che le hanno prodotte (eccetto il caso in cui siano vendute direttamente) quasi sempre solo in modo passeggero prima di essere spedite verso altri mercati. Per le merci si tratta di una stazione di preparazione dalla quale saranno immesse nell’effettiva sfera di circolazione, esattamente come i fattori della produzione disponibili restano in attesa, in una fase preparatoria, prima di essere convogliati nell’effettivo processo di produzione.
La distanza fisica tra i mercati (considerati dal punto di vista della loro localizzazione) e il luogo del processo di produzione delle merci all’interno di uno stesso paese, e successivamente fuori da esso, costituisce un elemento importante, perché è proprio la produzione capitalistica a far sì che per una buona parte dei suoi prodotti il mercato sia costituito dal mercato mondiale. (Le merci possono essere anche acquistate per essere ritirate immediatamente dal mercato, ma questo elemento dovrebbe essere esaminato altrove, così come la menzione precedente alle merci che i produttori tengono lontane dal mercato).
Conseguentemente, occorre che il mercato si espanda in continuazione. Inoltre, in ogni singola sfera della produzione, ogni capitalista produce secondo il capitale che gli è offerto, indipendentemente da ciò che fanno gli altri capitalisti. Tuttavia, non sarà il suo prodotto, bensì il prodotto totale del capitale investito in quella particolare sfera di produzione a costituire il capitale produttivo, il quale offre in vendita questa e ogni singola altra sfera di produzione. È un dato di fatto empirico che nonostante la dilatazione della produzione capitalistica porti a un incremento, a una moltiplicazione del numero delle sfere di produzione, ovvero delle sfere di investimento del capitale, nei paesi a produzione capitalistica avanzata, questa variazione non tenga mai il passo con l’accumulo del capitale stesso.
Traduzione di Guiomar Parada
Schegge marxiane
Gli ultimi tre libri dello studioso francese della complessità Edgar Morin rivalutano il pensiero di Karl Marx in nome di una critica della realtà mondiale dopo il crollo del socialismo reale.
Un ritorno alle origini del suo percorso intellettuale dettato inoltre dal degrado ambientale e dai conflitti sociali alimentati dalla crisi economica, ma anche dagli effetti totalitari di una ideologia del progresso che sta portando l’umanità all’autodistruzione
di Benedetto Vecchi (il manifesto, 29.06.2010)
Una vita segnata da grandi passioni e da una profonda insofferenza verso qualsiasi prassi teorica che non accetti di aderire a quel principio di realtà da cui dovrebbe trarre linfa vitale. Un’attitudine che lo ha portato a uscire dal pratico comunista francese poco dopo la liberazione del suo paese e a fustigare per quasi un quarantennio la figura dell’intellettuale engagé incarnato da Jean Paul Sartre, colpevole di occultare il reale in nome di una teoria, quella comunista, che nell’Unione sovietica era diventata una religione di stato strenuamente difesa da istituzioni e personaggi che ricordavano più l’inquisizione che non esponenti di un partito che voleva cambiare il mondo.
Uno strano destino ha però portato Edgar Morin, acclamato teorico della complessità, a ritornare alle sue origini intellettuali, mandando alle stampe, a pochi mesi di distanza, tre libri che hanno come asse portante il pensiero di Karl Marx, ritenuto, dopo una vita passata a marcare la distanza intellettuale e politica dalle sue posizioni, uno dei massimi filosofi dell’Ottocento e massimo interprete del capitalismo mondiale.
Certo, il Marx che propone Morin si discosta moltissimo da tutte le varie e spesso conflittuali interpretazioni che si sono accumulate nel corso degli anni. Sotto molti aspetti è un Marx vincolato alle nozioni di «individuo sociale» e di «essere generico», chiavi di accesso ai misteri della natura umana all’interno della quale la trasformazione e il cambiamento delle proprie condizioni di vita e di scambio con la natura impediscono, secondo Morin, il consolidamento di realtà politiche autoritarie.
Il ritorno all’autore de «Il capitale» è inoltre fortemente raccomandato come antidoto all’ideologia di uno sviluppo economico che si fa beffe delle compatibilità ambientali e che vede il libero mercato come una «terra promessa»: ideologia che sta conducendo l’umanità sull’orlo dell’abisso. Marx, in quanto sofisticato interprete della «mondializzazione» capitalista, può dunque aiutare a fermare la folle marcia verso l’autodistruzione della civiltà.
L’antagonismo rimosso
Fin qui nulla di nuovo. Sono oramai alcuni anni che intellettuali e opinion makers sicuramente non marxisti rivalutano il barbone di Treviri come lo studioso che ha saputo cogliere il meccanismo profondo che porta il capitalismo a periodiche crisi. È questa, ad esempio, la tesi sviluppata da Jacques Attali in un pamphlet di successo incentrato sull’autore de Il capitale.
Oppure Marx è stato evocato come il filosofo, e qui il riferimento d’obbligo è agli Spettri di Marx di Jacques Derrida, che ha colto quel principio ordinatore della realtà moderna che sono i rapporti di produzione. E, infine, in ordine di tempo va ricordato l’omaggio fatto alla sua critica dell’economia politica fatto da quella specie di bignami del libero mercato che è la rivista Economist, che ha indicato in Marx il teorico meglio attrezzato per comprendere il perché il crollo del castello dei subprime stava minacciando di coinvolgere non solo qualche economia nazionale, ma tutto il capitalismo mondiale. In ogni caso, sono tutti Marx che erano depurati della fortunata tesi che invitava a trasformare il mondo dopo averlo interpretato.
Dunque un filosofo o un economista che val bene agitare solo per segnalare che il capitalismo, o la modernità, non gode di buona salute. Edgar Morin, invece, e qui sta l’interesse del primo dei libri qui presi in esame (Pro e contro Marx. Ritrovarlo sotto le macerie dei marxismi, Erickson edizioni, pp. 104, euro 10), vuole inserire Marx nel Pantheon dei teorici della complessità, in base alla quale, sostiene Morin, gli antagonismi della realtà contemporanea sono complementari l’uno all’altro e entrambi importanti per comprendere il mondo così come esso è. In questo caso, la teoria marxiana «scopre» che il conflitto tra capitale e lavoro nasce all’interno di rapporti di produzione che, a loro volte producono asimmetrie di potere e diseguaglianze sociali. È questo uno degli antagonismi presenti nella società capitalistica. Ma è lo stesso Marx che indica nella borghesia un fattore dinamico, progressivo della modernità. Da qui la necessità di una dialogica che metta in una relazione di complementarietà gli antagonismi del capitalismo.
Indubbiamente, un’interpretazione stravagante, quella di Edgar Morin. Che ritorna anche nel saggio Il gioco della verità e dell’errore (Erickson edizioni, pp. 174, euro 14), nel quale il richiamo a Marx è mitigato da una condanna senza appello del socialismo reale, che ha costituito la forma più brutale di autoritarismo politico perché ha costruito un sistema di potere fondato su un concetto di verità assoluto. Nel socialismo reale non era contemplata nessuna possibilità di errore da parte del partito al potere. E anche quando esso si manifestava, la superiorità del socialismo reale risiedeva nella pratica dell’autocritica, dispositivo attraverso il quale gli interpreti della verità correggevano le piccole deviazioni dalla strada maestra che gli «esecutori» dei piani del partito aveva intrapreso.
In questi due volumi ci sono molte pagine dedicate allo spirito gregario degli intellettuali, che hanno fatto di tutto per occultare il fatto che le società socialiste erano società fondate sulla sistematica menzogna da parte delle autorità su quanto accadeva nei singoli paesi. E di come abbiamo legittimato regimi politici che negavano i più elementari diritti civili e sociali di quella classe operaia che volevano «liberare» dalle catene dello sfruttamento. Allo stesso tempo Morin tesse elogi non segnati dal dubbio al pluralismo politico delle società democratiche, perché impedisce l’«errore ideologico» che ha contraddistinto tutti i marxismi.
Anche in questo caso l’aspetto interessante della riflessione di Morin non è la critica del socialismo reale, che spesso suona le corde della morale e poco dell’analisi su come un movimento che voleva la liberazione di uomini e donne si è trasformato nel suo opposto. Interessante è la proposizione di una figura dell’intellettuale in quanto «deviante minoritario», l’unico modo per essere davvero nel reale, visto che gli intellettuali organici diventano sempre complici del potere, impedendo così sia la comprensione che le possibilità di trasformare la realtà.
Per Morin, gli intellettuali organici hanno legittimato il «rifiuto del reale» e confermato una visione dogmatica, religiosa del socialismo reale. Il «deviante minoritario» è invece la coscienza critica che sa cogliere gli antagonismi della realtà, ma anche la loro complementarietà, perché salvaguardia il momento della negatività, della critica, dell’opposizione che le minoranze hanno sempre rappresentato nelle società. Da qui alla affermazione apodittica che non ci sono principi normativi della realtà il passo è breve. Per Morin, infatti, assistiamo, talvolta paralizzati, altre volte entusiasti, a un continuo divenire che assume il reale e lo supera non cancellando nessuna delle sue caratteristiche.
La metamorfosi della civiltà
Gli studiosi di Hegel non avranno difficoltà a riconoscere in questa enfasi del divenire la categoria dell’aufhebung, che è sì sintesi tra una tesi e la sua antitesi, ma anche conservazione degli elementi di verità presenti tanto nella tesi che nell’antitesi. E Marx è stato il teorico che meglio di altri ha messo al lavoro la sintesi hegeliana, anche se per Morin questo consente di cancellare la centralità del conflitto tra capitale e lavoro nella riflessione marxiana. Non è infatti la classe operaia il soggetto del cambiamento, bensì il lavoro sotterraneo dei «devianti minoritari» che colgono appieno il complesso rapporto tra l’ideale e il reale e viralmente diffondono elementi di verità sul reale per attivare quella «metamorfosi della società-mondo» che si contrappone a qualsiasi idea di rivoluzione.
Nel volume Oltre l’abisso (Armando editore, pp. 125, euro 15) Morin non ha infatti dubbi. Dopo la soffocante stagione del socialismo reale, l’umanità è entrata nella spirale distruttiva del libero mercato che mette in discussione la stessa esistenza della specie umana.
Anche in questo caso Marx corre in aiuto il «deviante minoritario» perché la sua concezione della natura umana prevede che il singolo può essere homo sapiens, ma anche homo ludens, homo oeconomicus, homo mythologicus e homo demens, perché l’essere generico di cui scrive Marx nei Manoscritti economico-filosofici è propedeutico a quella unitas mulpiplex di cui l’umanità ha necessità per sfuggire alla sua possibile distruzione.
Il linguaggio di Edgar Morin talvolta è irritante per la continua evocazione di un fondo indicibile, perché «misteriosofico» dell’agire umano, che lo porta a un procedere poetico che poco facilita la lettura dei suoi testi. Ma non è questo che non convince della sua riflessione contenuta in questi tre volumi.
Tutto quanto ruota, infatti, all’irruzione nel reale di un imprevisto, la crisi economica di questo plumbeo inizio di millennio. Come dal nulla irrompono di nuovo sulla scena conflitti di classe che la retorica del libero mercato aveva occultato. E questa volte non c’è solo una granitica classe operaia che afferma il suo desiderio di non essere ridotta merce. Nella «società-mondo» il conflitto di classe ha come posta in palio proprio quell’individuo sociale marxiano che vuole diventare unitas multiplex. Morin è consapevole di ciò e cerca di salvaguardare la sua difesa del pluralismo politico facendo leva proprio su Marx, cioè uno dei critici più radicale della finzione democratica.
Non si vuole qui negare l’avversione al socialismo reale, né i limiti dei tanti marxismi. I punti che proprio non tornano della riflessione di Morin sono teorici e dunque politici. Il primo è il rapporto tra teoria e prassi. Per lo studioso francese c’è sempre contraddizione tra il pensare il mondo e la prassi per trasformarlo. Vale però la pena sottolineare che si può pensare il mondo per trasformalo, mentre la prassi è la condizione necessaria per poter pensare la realtà. Dunque tra teoria e prassi non c’è contraddizione, semmai una tensione fondamentale per sviluppare un punto di vista politico forte sulla realtà.
Per una umanità sull’orlo dell’abisso non serve però evocare l’alternativa tra socialismo o barbarie, quanto portare alla luce le potenzialità di riscatto, di rivolta, di trasformazione che si danno già nel reale. E gli antagonismi riportare al centro della scena dalla crisi economica, non mettono in evidenza solo generose resistenze destinate alla sconfitta, ma anche possibilità di ricombinare soggettività produttive disperse e annichilite dalla precarietà. In una situazione dove la fine della sinistra è continuamente rimossa da chi pensa di collegarsi a quella tradizione la riflessione di Morin aiuta però a sfuggire alla sirene che vogliono considerare definitivamente chiusa non quella storia, ma la possibilità stessa di poter cambiare il mondo.
Tra una teoria della complessità che pensa di poter superare gli antagonismi della realtà in nome della loro complementarietà e chi rimpiange la tradizione politica del movimento operaio va costruita tenacemente un’altra opzione. Quella appunto che guarda con interesse a un individuo sociale che, come scriveva Marx, riconosce la sua natura di animale sociale e al tempo stesso che vuol sfuggire al triste destino del regno della necessità. Un regno della necessità dove è vigente la finzione democratica, che certo aiuta, come scrive Edgar Morin, a sfuggire alla malattia dell’«errore ideologico», ma non aiuta certo l’esercizio della libertà.
La semi scomparsa di Marx dalle librerie italiane è il risultato, tra le altre cose, della politica culturale della ex-sinistra che in questi ultimi vent’anni non ha fatto altro che annunciare la morte di Marx, salvo trovarsi oggi di fronte ad una crisi mondiale del capitale che, guarda caso, e come molti economisti e commentatori anche di area liberale e cattolica non mancano di rilevare, conferma le analisi dell’autore del Capitale.
Molti intellettuali ex (comunisti, socialisti, nuova sinistra) trattano Marx nello stesso modo in cui i contemporanei del Moro definivano Hegel: «un cane morto». Guido Liguori di recente ha lamentato la scarsezza dei testi e le difficoltà a reperirli ogniqualvolta si vuole organizzare un percorso di studio su Marx o, semplicemente, si vuole leggere qualche suo testo. La necessità di dedicarsi ad attività di commento, traduzione e pubblicazione di testi antichi e moderni di e su Marx (e su importanti autori marxisti) è una necessità quindi impellente. D’altronde, come ricordava Engels in una lettera del 21 settembre 1890 allo studente berlinese e redattore di riviste socialiste Joseph Bloch, è più utile «studiare questa teoria sulle fonti originali e non di seconda mano».
Va tuttavia segnalato il fatto che da qualche anno sono riapparsi testi e commenti di e su Marx. Da qui la segnalazione, consapevole della parzialità e dell’incompletezza di questi essenziali suggerimenti bibliografici, i quali, comunque, possono rappresentare una prima «cassetta degli attrezzi» per comprendere il mondo contemporaneo.
Al di là della ristampa de «Il capitale» da parte della Newton Compton, l’annuncio della ristampa dei Grundrisse da parte della manifestolibri per il prossimo ottobre, vanno segnali i seguenti libri:
Karl Marx, Il capitalismo e la crisi. Scritti scelti, a cura di Vladimiro Giacché (Derive Approdi);
Karl Marx, Quaderni antropologici, a cura di Politta Foraboschi (Unicopli);
Karl Marx, Forme di produzione precapitalistiche, a cura di Diego Fusaro, (Bompiani);
Karl Marx, L’alienazione, a cura di Marcello Musto (Donzelli).
Per quanto riguarda i saggi sul Moro vanno invece ricordati :
Marx e Hegel. Contributi a una rilettura di Roberto Fineschi (Carocci);
Marx e l’etomismo greco. Alle radici del materialismo storico e Karl Marx e la schiavitù salariata. Uno studio sula lato cattivo della storia di Diego Fusaro, (Il Prato).
Marx e l’educazione di Mario Alighiero Manacorda (Armando);
Lessico marxiano , Manifesto libri;
La lunga accumulazione originaria. Politica e lavoro nel mercato mondiale, a cura di Devi Sacchetto e Massimiliano Tomba (Ombre corte);
Pensare con Marx Ripensare Marx. Teorie per il nostro tempo, a cura di Cinzia Azzurra (Edizioni Alegre);
L’ultimo Marx di Enrique Dussel (Manifestolibri),
il volume collettivo Marx e la storia. Con un’antologia di testi (Unicopli);
Marx di Stefano Petrucciani (Carocci) e
Bentornato Marx! Rinascita di un pensiero rivoluzionario di Diego Fusaro (Bompiani).
Donatello Santarone
Intervista
Morin: ripartiamo da Marx
Parla il filosofo francese: Senza un pensiero,
per la sinistra è difficile arginare la crisi”
di Manuela Modica (l’Unità, 12.03.2010)
Sandali aperti, e calze: tipico stile casual d’oltralpe. Sembrerebbe un qualsiasi crocerista nord-europeo, invece, è Edgar Morin, il filosofo francese che ha rivoluzionato il pensiero occidentale e gettato una scure sull’approccio del sapere scientifico così com’è adesso, tendente alla semplificazione e alla frammentazione. Uno dei maggiori filosofi viventi. E vive con una certa intensità: in barba ai suoi 89 anni, infatti, Morin cammina, sale strade scoscese, scalini, si piega per veder meglio le mura del forte. E chatta, tanto, mentre cerca la suoneria adatta al suo Ipod. Non crede alla conoscenza che si basa solo sul rapporto tra causa ed effetto e non crede ai miracoli: «Una volta sì, ma due miracoli di fila, no», dice rammaricato di aver perso le «stiló» che era un ricordo della moglie.
L’aveva già ripescato quella volta che l’aveva dimenticato al ristorante italiano a Parigi, racconta, e a ritrovare la penna della sua perduta moglie due volte non ci crede. Ma capiterà, e di fronte al secondo miracolo il grande filosofo francese non tratterrà le lacrime.
È in Italia per una serie di seminari tra Messina e Napoli, voluti dal «Centro studi della filosofia della complessità Edgar Morin», diretto dal professore messinese Giuseppe Gembillo. Comincia dallo Stretto, dove è sbarcato per un’intera settimana di incontri, e una girandola di strette di mano e di «sono onoratissimo» a cui ha partecipato con inchini e un’incredibile pazienza, sorridendo sempre, così che le pieghe del suo volto vanno disegnando una mappa di luoghi della sua storia, dove si potrebbe leggere dalla dominazione tedesca alla «scomunica» comunista gli eventi che l’hanno portato a riflettere sulle cose del mondo a modo suo, rifiutando il metodo imposto alla nostra cultura da Aristotele in poi.
Quel modo suo che lo porta a scandalizzare, ancora, affossando in un attimo l’idea di «sviluppo sostenibile»: «Non è affatto sostenibile. È da abbandonare l’idea stessa di sviluppo, che produce crisi morale, perché l’unica chiave attraverso la quale viene concepito è quella tecnicista. In quest’ottica anche quello di Pinochet in Cile può essere considerato sviluppo».
Sviluppo no, parliamo allora di crisi...
«La crisi ha fatto Hitler, la guerra civile spagnola, e finalmente la seconda guerra mondiale. Anche questa crisi è molto pericolosa, e invece di provvedere ad arginarla, è la scusa del capitalismo per licenziare i lavoratori mentre non c’è più un contropotere sindacale e politico che possa agire da freno, così che il capitalismo è scatenato. Occorre una ricostruzione, ma non la si può fare senza un pensiero: è quello che manca. Intanto, registriamo l’incapacità delle organizzazioni internazionali di arginarne la pericolosità, di fare qualcosa. E viviamo una economia chiusa, incapace di prevedere la crisi, incapace di prevedere quando finirà, perché è un’economia formale unicamente matematizzata che non ha nessuna connessione con le altre realtà sociali. La situazione è pericolosa, non solo per l’Italia, ma anche per la Francia e gli altri paesi».
Se questa è un’economia chiusa, immagina come dovrebbe essere l’apertura?
«Immagino un’economia pluralista, solidale, di cui abbiamo già degli esempi nell’associazionismo...»
Lei parla di Hitler, mentre in Italia molti ritornano a fare riferimento a Mussolini, associando la situazione storica e politica di oggi con quella del fascismo, è d’accordo?
«Penso che ci sia un’inflazione di parole, non è possibile identificare quel che succede oggi con quel che succedeva nel passato».
Però assistiamo a fenomeni, come il razzismo, per esempio, che riprendono vigore, quando sembravano superati dalle vicende della Storia...
«Certamente, è una regressione generale, però, legata alla regressione della sinistra, all’assenza di un umanismo di sinistra. Quel che è più preoccupante è la tendenza del governo a diminuire l’indipendenza del potere giudiziario. Ma la vittoria di Berlusconi è principalmente la sconfitta della sinistra, che viene da un vuoto, da un’assenza di un’idea politica della sinistra, di cui una parte ha anche abbracciato la corrente neoliberale. E l’altra non può solo criticare in modo astratto, non si può solo denunciare ma bisogna anche enunciare».
Perché la sinistra non trova il modo di enunciare?
«Nel secolo passato abbiamo vissuto un comunismo che viveva dell’illusione della realtà sovietica, adesso sappiamo che la Russia non può essere un modello. Che quel pensiero politico, adatto alla situazione passata, non è più adatto alla situazione presente. Bisogna trovare un’altra via: il capitalismo non è morto ma non è immortale. Il partito democratico, in Italia, non ha saputo trovare unità e soprattutto un pensiero nuovo, ma è la stessa crisi in Francia. Bisogna ricominciare, da quel che rimane vivo della critica del capitalismo di Marx, che deve esser pure ancora considerato, la mondializzazione era già il pensiero di Marx... Ma nessuna soluzione può essere più trovata in questo pensiero: bisogna ricominciare la politica di sinistra».
Qual è lo sguardo sull’Italia dalla Francia?
«L’Italia non vive in un mondo chiuso, ma all’interno di una situazione europea e planetaria. La regressione politica, la minaccia sull’indipendenza del potere giudiziario, la mancanza di vivacità politica... Sarkozy e Berlusconi sono due persone diverse ma non sono tanto distanti, pur nelle loro differenze caratteriali, sono quasi uguali: rivelatori di una stessa realtà». Qualcuno però sostiene che l’Italia stia insegnando la corruzione al mondo, la stia esportando... «È evidente che in Italia c’è un potere di mafia e camorra esteso. In Francia c’è una tradizione statale di integrità che è diminuita ma che rimane solida. Lo stato italiano non ha le basi storiche dello stato francese, e allora si, in Italia c’è più corruzione, ma attenzione, la corruzione guadagna terreno in tutti i paesi».
*
Chi è
Dall’idea comunista alla teoria dei sistemi
La vita
Edgar Morin è nato a Parigi nel 1921. Entrato a vent’anni nel P.C.F., quando la Francia era ancora occupata, ne viene escluso dieci anni dopo. Sociologo al C.N.R.S., si dedica negli anni Cinquanta a ricerche, rimaste celebri, sul divismo, i giovani e la cultura di massa. Collabora con articoli politici al «France-Observateur» e poi al «Nouvel Observateur». Fonda, nel 1956, con altri intellettuali transfughi del P.C.F., che non hanno abbandonato l’idea comunista, la rivista «Arguments», che si ispira alla rivista «Ragionamenti» di Franco Fortini, e durerà fino al l962, trattando i temi politici centrali degli anni Cinquanta e Sessanta: il congelamento della lotta di classe nei paesi del «socialismo reale», la nuova classe burocratica, la guerra d’Algeria, il gaullismo. Nel 1967, con Roland Barthes e Georges Friedmann, fonda «Communications». Un soggiorno al Salk Institut nel l969 lo mette a contatto con la teoria dei sistemi che costituirà il punto di partenza delle sue successive ricerche epistemologiche.
Le opere
Segnaliamo: «L’An zéro de l’Allemagne», Parigi 1946; «L’homme et la mort», Parigi 1951; «Il cinema e l’uomo immaginario», Milano 1957; «Les stars», Parigi 1957; «Autocritique», Le Seuil Parigi 1959; «L’esprit du temps», Parigi 1962; «L’industrie culturelle», Parigi 1962, trad. it. «L’industria culturale», Bologna 1974; «Introduction à une politique de l’homme» Le Seuil Parigi 1965; «La comune di Parigi del maggio l968», Il Saggiatore, Milano l968; «Il paradigma perduto», Bompiani Milano 1974; «Il metodo. Ordine, disordine, organizzazione», Feltrinelli Milano 1983; «La vita della vita», Feltrinelli Milano 1987; «Le rose et le noir», Parigi l984; «La conoscenza della conoscenza», Feltrinelli Milano l989; «Pensare l’Europa», Milano 1988; «Le idee: habitat, vita, organizzazione, usi e costumi», Feltrinelli Milano l993.
Il Centro Studi
Il Centro Studi di Filosofia della Complessità Edgar Morin è stato fondato nel marzo 2002 a Messina da un gruppo di studiosi del Dipartimento di Filosofia dell’Università, da tempo impegnati a indagare le relazioni fra filosofia e scienze, e a esplicare i differenti paradigmi epistemologici che si sono succeduti e contrastati negli ultimi due secoli.
EUROPA. Crisi finanziaria
L’uomo funzionale. Capitalismo, proprietà, ruolo degli Stati
di Ernst-Wolfgang Böckenförde (Il Regno, n. 10, 2009)
La crisi bancaria e di conseguenza economica che ci ha investiti ed è ancora ben lontana dal finire solleva molte domande. È stata causata dall’irresponsabilità e dall’avidità di svariate banche, specialmente banche d’investimento? Oppure dalla mancanza di rigide regole per i mercati finanziari internazionali, dal mancato funzionamento della sorveglianza su banche e finanza, dalla separazione e indipendenza di un’economia finanziaria virtuale (e acrobatica), dall’economia reale della produzione e dei beni? Probabilmente vi hanno contribuito parecchi fattori del genere, collegati a un’ingenua fiducia in un mercato "libero" e senza regole.
Ma la ricerca delle cause unicamente in questa direzione non ci porta lontano. Infatti quel sistema che si è venuto costituendo in questo campo per decenni con successo e con ampi profitti materiali ma anche con una crescente distanza fra poveri e ricchi, quel "turbo-capitalismo" (così chiamato da Helmut Schmidt) che con la globalizzazione mondiale ha raggiunto una nuova qualità, prima di provocare un crollo, non può essere definito e spiegato solo facendo riferimento a comportamenti sbagliati di singole persone o anche di gruppi.
Questo certamente può aver contribuito, ma più globalmente si tratta dei frutti di un sistema d’interazione consolidato e molto diffuso che segue una propria logica funzionale, e a essa sottopone tutto il resto. Questo sistema d’interazione si è trasformato in un sistema d’azione: il capitalismo moderno. Esso forgia il comportamento economico (e in parte anche non economico) dei singoli e lo integra nel sistema. Q uesti sono certamente gli attori, ma nel loro comportamento non seguono tanto un proprio libero impulso, quanto piuttosto gli stimoli derivanti dal sistema e dalla sua logica funzionale.
IL CARATTERE DISUMANO DEL CAPITALISMO
Ma come si presenta più precisamente il capitalismo moderno come sistema d’azione? In questo ci può aiutare un grande sociologo umanistico del secolo scorso, Hans Freyer. Nel suo libro "Theorie des gegenwärtigen Zeitalters [Teoria dell’epoca attuale]" egli parla dei "sistemi secondari" come prodotti specifici del mondo industrializzato moderno e ne analizza con precisione la struttura (1).
I sistemi secondari sono caratterizzati dal fatto di sviluppare processi d’azione che non si collegano a ordinamenti preesistenti, ma si basano su pochi principi funzionali, da cui sono costruiti e traggono la loro razionalità. Questi processi d’azione integrano l’uomo non come persona nella sua integralità, ma solo con le forze motrici e le funzioni che sono richieste dai principi e dalla loro attuazione. Ciò che le persone sono o devono essere resta al di fuori.
I processi d’azione di questo tipo si sviluppano e si consolidano in un sistema diffuso caratterizzato dalla sua specifica razionalità funzionale, che si sovrappone - influenzandola, cambiandola e modellandola - alla realtà sociale esistente.
Ecco la chiave per l’analisi del capitalismo come sistema d’azione. Esso si basa su poche premesse: libertà generale dell’individuo e di associazioni di individui in materia di acquisti e contratti; piena libertà in materia di trasferimenti di merci, affari e capitali al di fuori dei confini nazionali; garanzia e libera disposizione della proprietà personale (compreso il diritto di successione), intendendo con proprietà il possesso di beni e denaro ma anche di sapere, tecnologia e capacità.
L’obiettivo funzionale è la generale liberazione di un interesse lucrativo potenzialmente illimitato, nonché delle potenzialità di guadagno e di produzione, che operano sul libero mercato ed entrano in competizione fra loro. La spinta decisiva è data da un individualismo egoistico che spinge le persone coinvolte ad acquistare, innovare e guadagnare. Tale spinta costituisce il motore, il principio attivo; non persegue un obiettivo contenutistico preesistente, che fissa misura e limiti, ma un’illimitata dilatazione di sé, la crescita e l’arricchimento. Perciò bisogna eliminare o accantonare tutti gli ostacoli e tutti i regolamenti che non sono richiesti dalle succitate premesse. L’unico principio regolativo deve essere il libero mercato.
Il punto di partenza e la base della costruzione non sono il soddisfacimento dei bisogni degli uomini e il loro crescente benessere; essi seguono il processo e il suo progresso, sono per così dire una conseguenza del sistema funzionante. Il diritto e lo Stato come suo tutore hanno unicamente il compito di assicurare la possibilità di sviluppo e il funzionamento di questo sistema d’azione. Sono una variabile funzionale, non una forza preesistente di ordinamento e limitazione.
Il dinamismo e l’influenza sui comportamenti di un tale sistema sono enormi. Lo stesso sistema diventa, ed è, soggetto di commercio. Realizzazione di profitti, crescita del capitale, aumento della produzione e della produttività, autoaffermazione e crescita sul mercato costituiscono il principio motore e dominante, la cui razionalità funzionale integra e subordina tutto il resto. I lavoratori vengono presi in considerazione solo in base alla funzione che svolgono e ai costi che comportano, per cui si riducono al minor numero possibile. La loro sostituzione, dove possibile, con macchine o tecnologie automatizzate per ridurre i costi appare non solo razionale ma economicamente necessaria.
La compensazione per i problemi sociali e i licenziamenti che ne derivano non rientra in questa logica funzionale, ma viene demandata allo Stato e alla sua funzione di garanzia, che proprio per questo può imporre tasse e chiedere contributi, che comunque comportano ancora dei costi per le imprese. Il principio strutturante non è la solidarietà verso le persone e tra loro; essa viene presa in considerazione solo come riparazione per bloccare, e in parte compensare, le conseguenze dannose e disumane del sistema, che si sviluppa in base alla propria logica interna.
Non si possono mettere in dubbio le straordinarie realizzazioni in termini economici e di benessere che il capitalismo così strutturato produce non solo in singoli paesi, ma oggi anche a livello mondiale, nonostante tutte le sue mancanze e deficienze; noi stessi, abitanti dell’Occidente, ne traiamo grandi profitti. Tuttavia non si può non vedere che si tratta di un processo in continua progressione. In base alla sua stessa dinamica esso cerca continuamente di estendersi e d’integrare nella sua logica funzionale tutti gli ambiti della vita nella misura in cui hanno un lato economico, con ampie ripercussioni anche nel campo della cultura e dello stile di vita personale. Di qui il dilagare del tratto economicistico in tutti gli aspetti della vita. Oggi lo constatiamo soprattutto nel sistema sanitario.
MARX AVEVA VISTO GIUSTO
Già più di 150 anni fa Karl Marx lo aveva chiaramente analizzato ed espresso e si resta colpiti dall’attualità della sua prognosi: "Grazie allo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi. Ha privato l’industria del suo fondamento nazionale. Le antichissime industrie nazionali sono state e sono giornalmente annientate. Vengono rimpiazzate da industrie nuove, la cui introduzione diventa una questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, industrie che non lavorano più materie prime locali, bensì materie prime importate dalle zone più lontane e in cui i prodotti non vengono consumati esclusivamente nel paese ma dappertutto nel mondo. [...] Al posto dell’antica autosufficienza e dell’isolamento locale e nazionale subentra un traffico universale, un’universale dipendenza reciproca fra le nazioni. E come nella produzione materiale, così anche in quella intellettuale. Grazie al celere miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, alle comunicazioni rese estremamente più agevoli, la borghesia porta la civiltà a tutte le nazioni. I bassi prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con cui essa rade al suolo tutte le muraglie cinesi, [...] costringe tutte le nazioni ad adottare, se non vogliono morire, il modo di produzione borghese" (2).
Per il nostro tempo bisogna aggiungere che, grazie a una perfetta organizzazione a livello mondiale del trasporto di container via mare, i costi di trasporto di merci e prodotti sono minimi, per cui le grandi distanze non scoraggiano più, ma piuttosto stimolano il commercio a livello mondiale.
E non è al di fuori dello sviluppo, ma corrisponde piuttosto alla sua logica, il fatto che, nella ricerca di possibilità di guadagno sempre nuove, si diffondano sempre più, nel campo dei mercati finanziari, gli affari basati unicamente su capitale fittizio e sulla sua moltiplicazione, con la tendenza a non tener conto dei dati dell’economia reale e a danneggiarli. Karl Marx aveva già visto anche questo (3).
Lo Stato e il diritto possono certamente dall’esterno fissare limiti al sistema del capitalismo e imporgli regole, limitare gli eccessi e le conseguenze inaccettabili, nella misura in cui l’ordinamento statale, che da parte sua è vincolato alla promozione di un’economia favorevole alla crescita, ha la forza per farlo. E in una certa misura lo fa anche. Tuttavia anche in caso di riuscita questa rimane una correzione marginale, che deve essere estorta alla logica funzionale del sistema, in quanto quest’ultima mira sempre alla maggiore deregolamentazione possibile.
ROVESCIARE IL CAPITALISMO DALLE FONDAMENTA
Di che cosa soffre quindi il capitalismo? Non soffre solo a causa dei suoi eccessi e dell’avidità e dell’egoismo degli uomini che in esso operano. Soffre a causa del suo punto di partenza, del suo principio funzionale e della forza che crea il sistema. Perciò è impossibile guarire questa malattia con rimedi marginali; la si può guarire solo cambiando il punto di partenza.
Bisogna sostituire l’esteso individualismo in materia di proprietà, che prende come punto di partenza e principio strutturante il profitto dei singoli potenzialmente illimitato, considerato diritto naturale e non soggetto ad alcun orientamento contenutistico, con un ordinamento normativo e una strategia d’azione, basati sul principio secondo cui i beni della terra, cioè la natura e l’ambiente, i prodotti del suolo, l’acqua e le materie prime non appartengono a coloro che per primi se ne impossessano e le sfruttano, ma sono destinati a tutti gli uomini, per il soddisfacimento delle loro necessità vitali e per il raggiungimento del benessere.
È un principio radicalmente diverso; punto di partenza e di riferimento ne è la solidarietà degli uomini nel loro vivere insieme e in competizione. È da qui che bisogna dedurre le norme fondamentali in base alle quali informare i processi d’azione, economici ma anche non economici (4).
La scelta di un tale punto di partenza non è del tutto nuova. Si ricollega a un’antica tradizione, che si è persa solo al momento del passaggio all’individualismo della proprietà e al capitalismo. Tommaso d’Aquino, il grande teologo e filosofo del Medioevo, afferma esplicitamente che in base al diritto naturale, cioè all’ordinamento della natura voluto da Dio, i beni terreni sono ordinati al soddisfacimento dei bisogni di tutti gli uomini. La proprietà privata del singolo esiste solo nel quadro di questa destinazione universale, e subordinata ad esso. Essa non appartiene al diritto naturale in sé, ma è un’aggiunta legislativa che si giustifica per motivi pratici, perché ognuno cura maggiormente ciò che appartiene a lui stesso, piuttosto che a tutti insieme, perché è più conforme allo scopo che ognuno possieda e amministri le cose da se stesso e, infine, perché la proprietà privata favorisce la pace fra gli uomini (5). Poi Tommaso distingue anche fra possesso, amministrazione e uso di ciò che si possiede. Mentre il primo spetta solo al singolo individuo, l’uso deve tener conto del fatto che i beni esteriori, in base alla loro destinazione originaria, sono comuni, per cui chi ne è provvisto deve condividerli di sua volontà con i poveri (6). Perciò per Tommaso, in caso di estrema necessità, il furto non è peccato (7).
Qui compare un modello che è contrario al capitalismo. Un modello che parte da altri principi fondamentali e così smaschera anche il carattere disumano del capitalismo. La solidarietà non appare più come una riparazione, per bloccare e compensare le conseguenze dannose di uno sbrigliato individualismo in materia di proprietà, ma come un principio strutturante della convivenza umana anche in ambito economico.
Questo punto di partenza opera in molti modi: attribuzione dei prodotti del suolo e delle materie prime naturali; relazione con i beni di consumo e l’ambiente, natura, acqua e aria; ruolo direttivo di ciò che è lavoro rispetto al capitale; limiti all’accumulazione di proprietà e di capitali; riconoscimento degli altri esseri umani - anche delle future generazioni - come soggetti e partner nel campo dell’uso, del commercio e del possesso invece che oggetti di possibile sfruttamento.
In questo modo si ha un quadro normativo, all’interno del quale il senso del possesso e dell’uso personale, la garanzia della proprietà possono e devono avere il loro significato pragmatico e la loro funzione come forze motrici del processo economico e del suo progresso. Ma rimangono legati al concetto prioritario della solidarietà, che offre orientamento contenutistico e pone dei limiti a un’espansione illimitata.
DOPO MARX, È L’ORA DELLA CHIESA
Non è questa la sede per elaborare in dettaglio un tale modello teorico e pratico ispirato dal principio di solidarietà. I fondamenti per farlo si trovano nella tradizione della dottrina sociale cristiana. Basta risvegliarli dal loro sonno di bella addormentata nel bosco e applicarsi con decisione a tradurli in pratica.
Questa dottrina sociale della Chiesa ha assunto a lungo nei riguardi del capitalismo, impressionata dai suoi indiscutibili successi, un atteggiamento piuttosto difensivo. Essa lo ha criticato su punti specifici invece di metterlo in discussione in quanto tale. L’attuale evidente crollo del capitalismo a causa della sua espansione illimitata e quasi sregolata può, e dovrebbe, permettere alla dottrina sociale della Chiesa una sua radicale contestazione.
Per questo il magistero sociale può richiamarsi semplicemente a papa Giovanni Paolo II, il critico più lucido ed energico del capitalismo dopo Karl Marx. Già nella sua prima enciclica egli intraprese una valutazione del sistema in quanto tale, delle strutture e dei meccanismi che dominano l’economia mondiale nel campo delle finanze e del valore del denaro, della produzione e del commercio. A suo avviso, essi si sono dimostrati incapaci di rispondere alle sfide e alle esigenze etiche del nostro tempo (8). L’uomo "non può diventare schiavo delle cose, schiavo dei sistemi economici, schiavo della produzione, schiavo dei suoi propri prodotti" (9).
Ma il nuovo orientamento solidaristico e la trasformazione di un esteso sistema d’azione economico che, come abbiamo mostrato, non tiene conto della natura e della vocazione dell’uomo, e anzi le contraddice, non avviene da sé. Richiede un potere statale in grado di agire e decidere, che oltrepassi la mera funzione di garanzia dello sviluppo del sistema economico e di accertamento del parallelogramma delle forze, ma assuma efficacemente la responsabilità del bene comune mediante la limitazione, l’orientamento e anche il rifiuto del perseguimento del potere economico, cercando continuamente di ridurre al tempo stesso le disuguaglianze sociali.
È impossibile realizzare una tale trasformazione con semplici interventi di coordinamento. Ma dove si trova oggi una tale statualità? Di fronte all’intreccio economico mondiale la forza dello Stato nazionale non è più sufficiente; sarà sempre sconfitta dalle forze economiche che operano a livello mondiale. D’altra parte, è impossibile organizzare una statualità a livello mondiale, sotto forma di Stato planetario. Lo si può fare solo per e in aree limitate, che sono in relazione fra loro e collaborano. L’appello è rivolto quindi anzitutto all’Europa. Ma essa avrà la volontà e la forza per farlo?
NOTE
(1) H. Freyer, "Theorie des gegenwärtigen Zeitalters", Deutsche Verlag-Amstalt, Stuttgart, 1956, p. 79ss.
(2) K. Marx, F. Engels, "Manifesto del partito comunista", Marietti, Genova, 1973, p. 60.
(3) K. Marx, "Das Kapital", vol. III, c. 25, Dietz-Verlag, Berlin, 1956, pp. 436-452.
(4) Cfr. E.-W. Böckenförde, "Ethische und politische Grundsatzfragen zur Zeit", in Id., "Kirche und christilicher Glaube in der Herausforderungen der Zeit", Münster, 2007, pp. 362-366.
(5) Tommaso d’Aquino, "Summa Theologiae", IIa-IIae, q. 66, art. 2 e art. 7.
(6) Ivi, q. 66, art. 2, resp.
(7) Ivi, art. 7, resp.
(8) Cfr. Giovanni Paolo II, "Redemptor hominis", 1979, n. 16. Cfr. inoltre: Id., "Laborem exercens", 1981; "Centesimus annus", 1991.
(9) Giovanni Paolo II, "Redemptor hominis", 1979, n. 16.
Cambiare il rapporto dell’uomo con la natura non è che l’inizio
Data di pubblicazione: 18.06.2009
Autore: Morin, Edgard
“Una politica che non inglobasse l’ecologia sarebbe mutilata, ma una politica che si riducesse all’ecologia sarebbe ugualmente mutilata”. Le Monde, 9 giugno 2009
L’articolo ci è stato segnalato e tradotto da Dario Predonzan
Il successo dei Verdi, in Francia, alle elezioni europee non dev’essere né sopravvalutato, né sottovalutato. Non dev’essere sopravvalutato, perché deriva in parte dalle carenze del Partito socialista, dalla scarsa credibilità del MoDem e delle piccole formazioni di sinistra. Non dev’essere sottovalutato perché testimonia anche il progresso politico della coscienza ecologica nel nostro Paese.
Quella che però resta insufficiente è la coscienza del rapporto tra ecologia e politica. Certo, molto giustamente, Daniel Cohn-Bendit parla in nome di un’ecologia politica. Ma non basta introdurre la politica nell’ecologia; bisogna anche introdurre l’ecologia nella politica. Infatti, i problemi della giustizia, dello Stato, della disuguaglianza, delle relazioni sociali, sfuggono all’ecologia. Una politica che non inglobasse l’ecologia sarebbe mutilata, ma una politica che si riducesse all’ecologia sarebbe ugualmente mutilata.
L’ecologia ha il merito di portarci a modificare il nostro pensiero e le nostre azioni rispetto alla natura. Certo, questa modificazione è lungi dall’essere compiuta. Alla visione di un universo di oggetti che l’uomo è destinato a manipolare ed asservire non si è ancora davvero sostituita la visione di una natura viva di cui bisogna rispettare le regole e le diversità.
Alla visione di un uomo “sopra-naturale” non si è ancora sostituita la visione della nostra interdipendenza complessa con il mondo vivente, la morte del quale significherebbe la nostra morte.
L’ecologia politica ha in più il merito di condurci a modificare il nostro pensiero e le nostre azioni sulla società e su noi stessi.
Infatti, ogni politica ecologica ha due facce, una rivolta verso la natura, l’altra verso la società. Così, la politica che punta a sostituire le fonti energetiche fossili inquinanti con fonti energetiche pulite è nel contempo un aspetto di una politica della salute, dell’igiene, della qualità della vita. La politica del risparmio energetico è nel contempo una politica che evita gli sprechi e che lotta contro le intossicazioni consumistiche delle classi medie.
La politica che fa indietreggiare l’agricoltura e l’allevamento industrializzati, disinquinando in questo modo le falde freatiche, disintossicando l’alimentazione animale corrotta da ormoni e antibiotici, l’alimentazione vegetale impregnata di pesticidi ed erbicidi, sarebbe nel contempo una politica dell’igiene e della salute pubblica, della qualità degli alimenti e della qualità della vita. La politica che punta a disinquinare le città, avvolgendole con una cintura di parcheggi, sviluppando i trasporti pubblici elettrici, pedonalizzando i centri storici, contribuirebbe fortemente ad una riumanizzazione delle città, la quale comporterebbe inoltre la reintroduzione della promiscuità sociale sopprimendo i ghetti sociali, compresi quelli di lusso per privilegiati.
In effetti, c’è già nella seconda faccia dell’ecologia politica una parte economica e sociale (di cui fanno parte le grandi opere necessarie allo sviluppo di un’economia verde, compresa la costruzione di parcheggi attorno alle città). C’è anche qualcosa di più profondo, che non si trova ancora in nessun programma politico, cioè la necessità di cambiare le nostre vite, non soltanto nel senso della sobrietà, ma soprattutto nel senso della qualità e della poesia della vita.
Questa seconda faccia non è però ancora abbastanza sviluppata nell’ecologia politica. Innanzitutto, quest’ultima non ha ancora assimilato il secondo messaggio, di fatto complementare, formulato nella stessa epoca del messaggio ecologico, agli inizi degli anni ’70, quello di Ivan Illich. Questi aveva formulato una critica originale della nostra civiltà, mostrando come un malessere psichico accompagnasse il progresso del benessere materiale, come l’iperspecializzazione nell’educazione o nella medicina producesse dei nuovi accecamenti, come fosse necessario rigenerare le relazioni umane in quella che lui chiamava la convivialità. Mentre il messaggio ecologico penetrava lentamente nella coscienza politica, il messaggio di Illich ne restava escluso.
Il fatto è che il degrado del mondo esterno diventava sempre più visibile, mentre il degrado psichico sembrava appartenere alla sfera privata e restava invisibile alla coscienza politica. Il malessere psichico aveva ed ha a che fare con medicine, sonniferi, antidepressivi, psicoanalisi, psicoterapie, guru, ma non è percepito come un effetto della civiltà.
Il calcolo applicato ad ogni aspetto della vita umana occulta ciò che non può essere calcolato, cioè la sofferenza, la felicità, la gioia, l’amore, in breve ciò che è importante nella nostra vita e che sembra extra-sociale, puramente personale. Tutte le soluzioni proposte sono quantitative: crescita economica, crescita del PIL. Quando dunque la politica prenderà in considerazione l’immenso bisogno d’amore della specie umana sperduta nel cosmo?
Una politica che integri l’ecologia nell’insieme del problema umano affronterebbe i problemi posti dagli effetti negativi, sempre più importanti in confronto agli effetti positivi, degli sviluppi della nostra civiltà, tra cui il degrado delle solidarietà, il che ci farebbe capire che l’instaurazione di nuove solidarietà è un aspetto capitale di una politica di civiltà.
L’ecologia politica non dovrebbe isolarsi. Essa può e deve radicarsi nei principi delle politiche emancipatrici che hanno animato le ideologie repubblicana, socialista e poi comunista, e che hanno alimentato la coscienza civica del popolo di sinistra in Francia. In questo modo, l’ecologia politica potrebbe entrare in una grande politica rigenerata e contribuire a rigenerarla.
Una grande politica rigenerata s’impone, tanto più che il Partito socialista è incapace di uscire dalla sue crisi. Esso si rinchiude in un’alternativa sterile tra due rimedi antagonisti. Il primo è la “modernizzazione” (cioè l’allineamento alle soluzioni tecno-liberali), mentre la modernità è in crisi nel mondo. L’altro rimedio, lo spostamento a sinistra, è incapace di formulare un modello di società. Il sinistrismo oggi soffre di un rivoluzionarismo senza rivoluzione. Denuncia giustamente l’economia neoliberale e lo scatenamento del capitalismo, ma è incapace di enunciare un’alternativa. Il termine di “partito anticapitalista” tradisce questa carenza.
Se l’ecologia politica porta la sua verità e le sue insufficienze, i partiti di sinistra portano, ciascuno a modo suo, le loro verità, i loro errori e le loro carenze. Dovrebbero tutti decomporsi per ricomporsi in una forza politica rigenerata che potrebbe aprire delle strade. La strada economica sarebbe quella di un’economia plurale. La strada sociale sarebbe quella della diminuzione delle disuguaglianze, della sburocratizzazione delle organizzazioni pubbliche e private, dell’instaurazione delle solidarietà. La strada pedagogica sarebbe quella di una riforma cognitiva, che permettesse di collegare le conoscenze, più che mai spezzettate e disgiunte, al fine di trattare i problemi fondamentali e globali del nostro tempo.
La strada esistenziale sarebbe quella di una riforma della vita, in cui verrebbe alla coscienza ciò che è oscuramente sentito da ognuno, e cioè che l’amore e la comprensione sono i beni più preziosi per un essere umano e che l’importante è vivere poeticamente, cioè nell’illuminazione di sé, nella comunione e nel fervore.
E se è vero che il corso della nostra civiltà, diventata globale, conduce verso l’abisso e che dobbiamo cambiare strada, tutte queste strade nuove dovrebbero poter convergere per costituire una grande strada che conduca più che ad una rivoluzione ad una metamorfosi. Perché, quando un sistema non è capace di trattare i suoi problemi vitali, o si disintegra, o produce un metasistema più ricco, capace di trattarli: cioè si metamorfosa.
L’inseparabilità dell’idea del cammino riformatore da quella di una metamorfosi permetterebbe di conciliare l’aspirazione riformatrice e l’aspirazione rivoluzionaria. Essa permetterebbe la resurrezione della speranza senza la quale nessuna politica di salvezza è possibile.
Non siamo neppure all’inizio della rigenerazione politica. Ma l’ecologia politica potrebbe innescare e animare l’inizio di un inizio.
(traduzione di Dario Predonzan)
Follia e società
Scriveva Franco Basaglia: "È importante entrare nel tessuto sociale per ottenere un consenso finalizzato non tanto a una maggior tolleranza, quanto a una presa in carico da parte della comunità dei problemi che le appartengono"
Risponde Umberto Galimberti *
Leggo sempre D La Repubblica delle Donne e vado subito alla sua rubrica. Ma la sua risposta a proposito della "Follia criminale" mi ha riempito di amarezza. È una risposta troppo semplificativa, basata su molte citazioni di Basaglia che mi appaiono piuttosto datate: il concetto di "malattia" come gioco di prestigio per rassicurare la società e mascherare colpe della società e della famiglia purtroppo non risponde alla verità.
Il disturbo mentale grave, come la schizofrenia, la sindrome ossessivo-compulsiva, il bipolare, esistono e assai sovente non sono frutto di "incuria educativa", di "disinteresse" verso una persona più sensibile o più fragile di altre. Glielo posso dire in tutta onestà, perché ho trascorso una vita a cercare di capire, di aiutare me stessa, mio figlio e tante altre persone che abitano e/o convivono in queste tragiche situazioni.
Nel 1988 con un’altra madre ho fondato un’associazione di volontari a sostegno di malati e famiglie nel tentativo frustrante di far sorgere un’assistenza territoriale e residenziale innovativa e professionalmente impegnata a dare aiuto concreto ai sofferenti psichici.
Ho seguito tanti casi di malati e famiglie e ho potuto accertare che molti (purtroppo ancora troppo pochi) se curati farmacologicamente, hanno potuto vivere con meno ansia, con meno paure e tornare a "godere" le piccole meravigliose cose che la vita ci offre. Alcuni riescono a reggere un lavoro, a viaggiare, a vivere! Per altri non è così.
Sono stanca, ho 70 anni e ne ho trascorsi più di 30 a occuparmi della straziante vita dei malati di mente. Non facciamo l’errore commesso nello scorso secolo quando le mamme dei bimbi autistici venivano incolpate del disturbo del bimbo, infierendo crudelmente su di loro.
Maria Luisa Gentile ml.gentile@sidom.it
Sono costretto a ritornare sul tema della malattia mentale perché ininterrotto è il flusso di lettere che ricevo e che disapprovano il pensiero di Franco Basaglia, nonché le sue iniziative che hanno portato alla promulgazione della legge 180 che ha sancito la chiusura dei manicomi. Capita spesso che per denigrare un pensiero lo si riassuma in una formula di facile comprensione, che ha qualche attinenza con quel pensiero, ma di fatto lo stravolge.
La formula facile e immediatamente comprensibile che stravolge il pensiero di Basaglia è che "le malattie mentali sono un prodotto della società". Basaglia non ha mai detto questo. Le sue esatte parole sono:
"Occorre fondare una nuova medicina, consapevole del fatto che l’uomo è un corpo sociale oltre che un corpo organico. Ed è su questo corpo sociale che la nuova medicina deve lavorare, non più solo sul corpo organico. Noi vogliamo trasformare il malato mentale morto nel manicomio in persona viva, responsabile della propria salute. Non lasciamo la persona che sta male nelle mani del solo medico, ma cerchiamo di costruire un nuovo schema di vita insieme con altre persone, che non sono solo malati. Quando cerchiamo di coinvolgere la comunità nella cura del paziente, stiamo tentando di eliminare il corpo morto, il manicomio, e di sostituirlo con la parte attiva della società. Questo è il modello che proponiamo e che è disfunzionale alla logica della società in cui viviamo".
Questa non è una posizione "datata", ma fortemente innovativa. Se poi la società, a differenza di lei, cara lettrice, e dell’impegno che profonde, si disinteressa della malattia mentale, questo non dipende da Basaglia, la cui utopia era di fare della clinica un laboratorio per rendere "umane" e non "oggettivanti" le relazioni tra gli uomini, attraverso la creazione di servizi di salute mentale diffusi sul territorio, residenze comunitarie, gruppi di convivenza, con la partecipazione di maestri, educatori, accompagnatori, attori motivati.
Oggi tutto questo sembra in procinto di naufragare e fallire, anche se l’Organizzazione Mondiale della Sanità ci informa che un giovane su cinque in Occidente soffre di disturbi mentali, e che nel 2020 i disturbi neuropsichiatrici cresceranno in una misura superiore al 50 per cento, divenendo una delle cinque principali cause di malattia, di disabilità e di morte.
Che facciamo? Mettiamo tutti in manicomio o facciamo recuperare loro quel rapporto col mondo che il manicomio preclude definitivamente e i servizi di salute mentale, salvo rare e nobili eccezioni, così come sono oggi, non garantiscono, per incuria, trascuratezza, indifferenza, per la paura che la società ha della diversità che ospita nelle figure non solo dei malati mentali, ma anche degli immigrati, dei tossici, dei senzatetto, degli emarginati? La sintesi del pensiero di Basaglia non è quindi "le malattie mentali sono un prodotto della società", ma se proprio vogliamo fare una sintesi: "Il tipo di relazioni sociali si ripercuotono anche nelle relazioni cliniche", che non mi pare assolutamente un’idea datata.
Se il PD riparte dai valori
di Nadia Urbinati
Un messaggio interessante e promettente è venuto dalle elezioni (da quelle europee soprattutto, che sono anche quelle più squisitamente politiche): la fase espansiva del partito di governo è finita per la ragione non proprio banale che il Pdl non può sperare di pescare voti da coloro che non hanno votato per il Pd e preferito astenersi o votare per liste perdenti. Il Pd ha perso a sinistra, un territorio dal quale il Pdl non può sperare di mietere consensi.
Questo è un messaggio confortante. Anche se lo è solo per metà. Perché la condizione sia compiutamente confortante è necessario che i leader del Pd siano disposti a ben interpretare il messaggio, ovvero a voler guardare a sinistra, dove, è bene metterlo in evidenza, non ci stanno rivoluzionari o estremisti ma invece cittadini che vorrebbero poter contare su una politica di governo che rispetti la Costituzione sia nei diritti che nelle promesse. Che vorrebbero che il Pd cominci a preparare fin da ora le condizioni per poter portare il paese fuori da questa fase terribile e vergognosa. Il messaggio verte essenzialmente sulle carenze ideali e propositive di un partito che, per ripetere le parole di Ezio Mauro sulla Repubblica di qualche giorno fa, «dopo un anno disastroso» ha «salvato la pelle». Salvata la pelle, si tratta di metter su carne e acquistare in corposità.
La carenza del Pd è, dicevamo, ideale o programmatica. Chi non lo ha votato ha lanciato un messaggio che è a ben vedere abbastanza chiaro e che ardentemente spera che venga ascoltato: non si può ingessare il maggior partito d’opposizione a fare da controcanto al governo, alle boutade pubblicitarie del suo a dir poco stravagante capo (se, per esempio, dice che vuole fare un Parlamento di cento rappresentanti non gli si può rispondere: "Beh cento forse no, ma cinquecento sì"!). Avere una politica autonoma, sapere fare opposizione opponendo una visione alternativa di come il paese dovrebbe essere rispetto a questioni drammaticamente importanti. Insomma la richiesta rivolta al Pd è che imbastisca proposte politiche concrete e coerenti con valori e ideali che sono propri di un vero patriottismo costituzionale e che possono essere rappresentati solo da un Partito che si chiama democratico. Vediamo di riassumere in breve questi valori.
Il primo valore fondamentale è quello dell’eguaglianza democratica, un valore che viene messo a durissima prova non soltanto dalla crisi economica (per la quale il nostro governo non ha fatto pressoché nulla, se non cercare di convincere i telespettatori che non esiste) ma anche da scelte, determinate e precise, fortemente inclinate verso oligarchie economiche e finanziarie molto più che verso le classi medie.
Tra queste scelte va menzionata in primo luogo la penalizzazione scientemente perpetrata della scuola pubblica: la ministra Gelmini sbandiera di voler riqualificare la scuola e poi ci regala il taglio di 3 ore di italiano nelle scuola media, toglie soldi alle università al punto che molte devono cancellare programmi di dottorato o smettere di acquistare libri.
Penalizzare la scuola pubblica ha come esito quello di impoverire i molti rendendoli meno attrezzati a fare scelte competenti e, soprattutto, a ragionare criticamente. In secondo luogo, questo governo è colpevole di penalizzare più di una generazione di lavoratori e lavoratrici che sono condannati alla precarietà a vita con la conseguenza che il rischio e l’incertezza diventano la loro condizione permanente, un esito che vanifica le stesse ragioni che avevano spinto alla liberalizzazione del mercato del lavoro come la dinamicità, l’innovazione e migliori opportunità di carriera.
I partiti populisti di destra rispondono alla nuova povertà dei cittadini italiani con proclami e misure che sono razziste e xenofobe, addossando a quelle poche migliaia di disperati che cercano di raggiungere l’Europa le colpe delle loro scelte ingiuste. Il Pd deve con molta più forza e limpidezza di quanto non abbia fatto finora denunciare queste politiche e farsi promotore di una rinascita riformista di giustizia sociale e nuova solidarietà.
Il secondo valore del patriottismo democratico è quello della libertà individuale, civile e di coscienza. Tre sono i rischi che questo governo ha reso altissimi alle nostre libertà: quello che viene dall’aver sistematicamente trasformato le politiche di giustizia sociale in politiche di sicurezza, con l’esito prevedibile che le nostre città sono più violente e meno sicure di prima senza essere più libere e giuste; quello che viene da una violazione pericolosa del principio di libertà di coscienza su questioni personalissime come la decisione di farsi curare e di vigilare sulla propria dignità, quando si è malati non meno di quando si è sani; quello infine che viene dalla tirannia del monopolio dell’informazione e mediatico che genera distorsione delle opinioni, censura e limita fortemente il pluralismo e la libertà di pensiero.
Su questa costellazione di valori costituzionali e democratici il Pd deve essere unito e soprattutto non balbuziente. Lo deve essere se vuol attirare a sé quegli elettori che preferiscono o astenersi o anche rischiare che il loro voto vada sprecato pur di non darlo a un partito che non ha mostrato sufficientemente il coraggio della chiarezza ideale. Questi, val la pena ricordarlo, non sono elettori incerti, ma invece certissimi: non voterebbero mai per chi non sa distinguersi da un avversario che tra l’altro è, esso sì, radicale in tutto e per nulla moderato nel linguaggio e nelle politiche.
* Fonte: la Repubblica, 11.06.2009