di GIANNI VATTIMO (La Stampa, 10/9/2007)
Capita anche ai miscredenti di trovarsi d’accordo con il Papa; o, detto dal punto di vista loro, capita anche al Papa, quando non è troppo impegnato a inseguire il fantasma del relativismo, di dire cose che appaiono decisive anche a chi in genere non lo ascolta con particolare devozione. Così, dobbiamo essergli sinceramente grati oggi per quanto ha detto sulla domenica e la necessità di ridarle un’anima. Intanto, rispettando il tempo del riposo settimanale, usandolo non solo per moltiplicare la distrazione consumistica, ma per pensare, appunto, all’anima. In cambio della quale, come si sa, l’uomo non ha nulla da dare, nulla di importante; tanto che si può dire che l’anima non è nient’altro che il senso stesso della vita.
Naturalmente, la domenica del Papa deve essere impiegata soprattutto per andare in chiesa o per leggere la Bibbia. Ma, sempre per parlare da «fuori», possiamo azzardarci a ritenere che anche l’andare a messa e pensare allo spirito faccia parte di quella sfera in senso largo estetica di cui una vita davvero umana non può fare a meno, e che consiste nel dedicare il tempo ad attività non produttive, di pura fruizione: del canto sacro o anche della musica rock, purché non ci sia di mezzo un qualche aumento del Pil.
Un amico mi ha confessato tempo fa che quando ha dei tempi morti, per esempio quando deve aspettare un treno in una città sconosciuta, va al cinema (a luci non propriamente bianche) o in una chiesa. Meglio quest’ultima soluzione, che non comporta alcun profitto per l’industria cinematografica o, Dio non voglia, per il racket del sesso. Il riposo domenicale, con tutto ciò che comporta anche in termini di rapporto con il sacro, è quel tempo in cui non siamo funzionali a niente, non produciamo effetti, nemmeno in vista della nostra problematica salvezza eterna. La quale del resto, se ci sarà, sarà appunto estetica, pura contemplazione, non certo finalizzata a qualche altra utilità.
Possiamo aspettarci che, anche a partire dalla rivendicazione del «far niente» dedicato all’anima, la Chiesa ritrovi almeno in parte la propria vocazione, se non proprio anarchica, almeno radicalmente alternativa rispetto alla frenesia funzionale e produttiva (e perché no, riproduttiva) con cui talvolta ci sembra incline ad allearsi nella sua preoccupazione di salvare anime, corpi, istituzioni, valori? La Grazia, del resto, ha anche terminologicamente da fare con tutto ciò che è gratuito - proprio con quello che Hegel chiamava «domenica della vita», e cioè il bello, il dominio dell’estetico, di ciò che viene amato non in vista di altro, ma per se stesso. Se la Chiesa saprà predicarci la Grazia in questo senso più vasto, potremmo persino riconoscerle senza proteste le sue esenzioni dall’Ici.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LE PAROLE DEL PONTEFICE
«Nella domenica l’incontro che dà senso a ogni vita»
Il Papa a Vienna: è la festa che apre spazi di vera libertà Ratzinger: «Il riposo di Dio abbraccia tutti gli uomini Così percepiamo l’uguaglianza di tutte le creature, in questo giorno che è anche la festa settimanale della creazione»
Benedetto XVI (Avvenire, 11.09.2007)
Pubblichiamo il testo integrale dell’omelia pronunciata domenica mattina da Benedetto XVI nel corso della Messa che lo stesso Pontefice ha presieduto nel Duomo di Santo Stefano, a Vienna.
Cari fratelli e sorelle! Sine dominico non possumus! Senza il dono del Signore, senza il giorno del Signore non possiamo vivere: così risposero nell’anno 304 alcuni cristiani di Abitene nell’attuale Tunisia quando, sorpresi nella celebrazione eucaristica domenicale, che era proibita, furono portati davanti al giudice e fu loro chiesto perché avevano tenuto di domenica la funzione religiosa cristiana, pur sapendo che questo era punito con la morte.
Sine dominico non possumus. Nella parola dominicum/dominico sono indissolubilmente intrecciati due significati, la cui unità dobbiamo nuovamente imparare a percepire. C’è innanzitutto il dono del Signore - questo dono è Lui stesso: il Risorto, del cui contatto e vicinanza i cristiani hanno bisogno per essere se stessi.
Questo, però, non è solo un contatto spirituale, interno, soggettivo: l’incontro col Signore si iscrive nel tempo attraverso un giorno preciso. E in questo modo si iscrive nella nostra esistenza concreta, corporea e comunitaria, che è temporalità. Dà al nostro tempo, e quindi alla nostra vita nel suo insieme, un centro, un ordine interiore. Per quei cristiani la celebrazione eucaristica domenicale non era un precetto, ma una necessità interiore. Senza Colui che sostiene la nostra vita, la vita stessa è vuota. Lasciar via o tradire questo centro toglierebbe alla vita stessa il suo fondamento, la sua dignità interiore e la sua bellezza.
Ha rilevanza questo atteggiamento dei cristiani di allora anche per noi cristiani di oggi? Sì, vale anche per noi, che abbiamo bisogno di una relazione che ci sorregga e dia orientamento e contenuto alla nostra vita. Anche noi abbiamo bisogno del contatto con il Risorto, che ci sorregge fin oltre la morte. Abbiamo bisogno di ques to incontro che ci riunisce, che ci dona uno spazio di libertà, che ci fa guardare oltre l’attivismo della vita quotidiana verso l’amore creatore di Dio, dal quale proveniamo e verso il quale siamo in cammino.
Se, tuttavia, prestiamo ora ascolto all’odierno brano evangelico, al Signore che in esso ci parla, ci spaventiamo. «Chi non rinuncia ad ogni sua proprietà e non lascia anche tutti i legami familiari, non può essere mio discepolo». Vorremmo obiettare: ma cosa stai dicendo, Signore? Non ha forse il mondo bisogno proprio della famiglia? Non ha forse bisogno dell’amore paterno e materno, dell’amore tra genitori e figli, tra uomo e donna? Non abbiamo noi bisogno dell’amore della vita, bisogno della gioia di vivere? E non occorrono forse anche persone che investano nei beni di questo mondo ed edifichino la terra che ci è stata data, cosicché tutti possano aver parte dei suoi doni? Non ci è stato affidato forse anche il compito di provvedere allo sviluppo della terra e dei suoi beni?
Se ascoltiamo meglio il Signore e soprattutto lo ascoltiamo nell’insieme di tutto ciò che Egli ci dice, allora comprendiamo che Gesù non esige da tutti la stessa cosa. Ognuno ha il suo compito personale e il tipo di sequela progettato per lui. Nel Vangelo di oggi Gesù parla direttamente di ciò che non è compito dei molti che gli si erano associati nel pellegrinaggio verso Gerusalemme, ma che è chiamata particolare dei Dodici. Questi devono innanzitutto superare lo scandalo della Croce e devono poi essere pronti a lasciare veramente tutto ed accettare la missione apparentemente assurda di andare sino ai confini della terra e, con la loro scarsa cultura, annunciare ad un mondo pieno di presunta erudizione e di formazione fittizia o vera - come certamente in particolare anche ai poveri e ai semplici - il Vangelo di Gesù Cristo. Devono essere pronti, sul loro cammino nella vastità del mondo, a subire in prima persona il martirio, per testimoniare così il Vangelo del Signore croc ifisso e risorto.
Se la parola di Gesù in questo pellegrinaggio verso Gerusalemme, in cui una gran folla lo accompagna, è rivolta anzitutto ai Dodici, la sua chiamata naturalmente raggiunge, al di là del momento storico, tutti i secoli. In tutti i tempi Egli chiama delle persone a contare esclusivamente su di Lui, a lasciare tutto il resto e ad essere totalmente a sua disposizione e così a disposizione degli altri: a creare delle oasi di amore disinteressato in un mondo, in cui tanto spesso sembrano contare solo il potere ed il denaro.
Ringraziamo il Signore, perché in tutti i secoli ci ha donato uomini e donne che per amor suo hanno lasciato tutto il resto, rendendosi segni luminosi del suo amore! Basti pensare a persone come Benedetto e Scolastica, come Francesco e Chiara di Assisi, Elisabetta di Turingia e Edvige di Slesia, come Ignazio di Loyola, Teresa di Avila fino a Madre Teresa di Calcutta e Padre Pio! Queste persone, con l’intera loro vita, sono diventate un’interpretazione della parola di Gesù, che in loro si rende vicina e comprensibile per noi. E preghiamo il Signore, affinché anche nel nostro tempo doni a tante persone il coraggio di lasciare tutto, per essere così a disposizione di tutti.
Se, però, ci dedichiamo ora di nuovo al Vangelo, possiamo accorgerci che il Signore non vi parla solo di alcuni pochi e del loro compito particolare; il nocciolo di ciò che Egli intende vale per tutti. Di che cosa si tratti in ultima istanza, lo esprime un’altra volta così: «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà. Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?» (Lc 9, 24s). Chi vuol soltanto possedere la propria vita, prenderla solo per se stesso, la perderà. Solo chi si dona riceve la sua vita.
Con altre parole: solo colui che ama trova la vita. E l’amore richiede sempre l’uscire da se stessi, richiede sempre di lasciare se stessi. Chi si volge indi etro per cercare se stesso e vuol avere l’altro solo per sé, perde proprio in questo modo se stesso e l’altro. Senza questo più profondo perdere se stessi non c’è vita. L’irrequieta brama di vita che oggi non dà pace agli uomini finisce nel vuoto della vita persa. «Chi perderà la propria vita per me...», dice il Signore: un lasciare se stessi in modo più radicale è possibile solo se con ciò alla fine non cadiamo nel vuoto, ma nelle mani dell’Amore eterno. Solo l’amore di Dio, che ha perso se stesso per noi consegnandosi a noi, rende possibile anche a noi di diventare liberi, di lasciar perdere e così trovare veramente la vita. Questo è il centro di ciò che il Signore vuole comunicarci nel brano evangelico apparentemente così duro di questa domenica. Con la sua parola Egli ci dona la certezza che possiamo contare sul suo amore, sull’amore del Dio fatto uomo. Riconoscere questo è la saggezza di cui ci ha parlato la prima lettura. Vale, infatti, anche qui che tutto il sapere del mondo non ci giova a nulla, se non impariamo a vivere, se non apprendiamo che cosa conta veramente nella vita.
Sine dominico non possumus! Senza il Signore e il giorno che a Lui appartiene non si realizza una vita riuscita. La domenica, nelle nostre società occidentali, si è mutata in un fine-settimana, in tempo libero. Il tempo libero, specialmente nella fretta del mondo moderno, è una cosa bella e necessaria; ciascuno di noi lo sa. Ma se il tempo libero non ha un centro interiore, da cui proviene un orientamento per l’insieme, esso finisce per essere tempo vuoto che non ci rinforza e non ricrea.
Il tempo libero necessita di un centro - l’incontro con Colui che è la nostra origine e la nostra meta. Il mio grande predecessore sulla sede vescovile di Monaco e Frisinga, il cardinale Faulhaber, lo ha espresso una volta così: «Dà all’anima la sua domenica, dà alla domenica la sua anima».
Proprio perché nella domenica si tratta in profondità dell’incontro, nella Parola e nel Sacramento, con il Cristo risorto, il raggio di tale giorno abbraccia la realtà intera. I primi cristiani hanno celebrato il primo giorno della settimana come giorno del Signore, perché era il giorno della risurrezione. Ma molto presto la Chiesa ha preso coscienza anche del fatto che il primo giorno della settimana è il giorno del mattino della creazione, il giorno in cui Dio disse: «Sia la luce!» (Gn 1,3). Per questo la domenica è nella Chiesa anche la festa settimanale della creazione - la festa della gratitudine e della gioia per la creazione di Dio.
In un’epoca, in cui, a causa dei nostri interventi umani, la creazione sembra esposta a molteplici pericoli, dovremmo accogliere coscientemente proprio anche questa dimensione della domenica. Per la Chiesa primitiva, il primo giorno ha poi assimilato progressivamente anche l’eredità del settimo giorno, dello šabbat. Partecipiamo al riposo di Dio, un riposo che abbraccia tutti gli uomini. Così percepiamo in questo giorno qualcosa della libertà e dell’uguaglianza di tutte le creature di Dio.
Nell’orazione di questa domenica ricordiamo innanzitutto che Dio, mediante il suo Figlio, ci ha redenti e adottati come figli amati. Poi lo preghiamo di guardare con benevolenza i credenti in Cristo e di donarci la vera libertà e la vita eterna. Preghiamo per lo sguardo di bontà di Dio. Noi stessi abbiamo bisogno di questo sguardo di bontà, al di là della domenica, fin nella vita di ogni giorno. Nel pregare sappiamo che questo sguardo ci è già stato donato, anzi, sappiamo che Dio ci ha adottati come figli, ci ha accolti veramente nella comunione con se stesso.
Essere figlio significa - lo sapeva molto bene la Chiesa primitiva - essere una persona libera, non un servo, ma uno appartenente personalmente alla famiglia. E significa essere erede. Se noi apparteniamo a quel Dio che è il potere sopra ogni potere, allora siamo senza paura e liberi, e allora siamo eredi. L’eredità che Egli ci ha lasciato è Lui stesso, il suo Amore. Sì, Signore, fa’ che questa consapevolezza ci penetri profondamente nell’anima e che impariamo così la gioia dei redenti. Amen.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Il libro.
Fermiamo il culto del capitalismo. Quando il denaro si sostituisce a Dio
L’autore del saggio lancia un grido di allarme: la cultura dominante del profitto e del consumismo è ormai diventata una forma di idolatria
di Luigino Bruni (Avvenire, mercoledì 20 novembre 2019)
Pochi anni dopo Marx, nel 1905 Max Weber pubblica i suoi lavori sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo, dove una idea chiave è la de-sacralizzazione del mondo occidentale. Passano pochi anni e il 1921 diventa un anno decisivo per la cosiddetta “teologia economica”. Il filosofo tedesco Walter Benjamin scrive un breve e densissimo testo, oggi noto come Il Capitalismo come religione, e contemporaneamente il teologo e filosofo russo Pavel Florenskij, in un contesto culturale molto diverso, tiene tra l’agosto e l’ottobre del 1921 un corso di lezioni all’Accademia Teologica di Mosca sulla dimensione sacra del capitalismo.
Weber annunciava un mondo de-sacralizzato, Benjamin e a modo suo anche Florenskij dicono invece qualcosa di opposto: il capitalismo non ha eliminato il sacro dal mondo perché è diventato esso stesso un culto, una religione. Due autori vicini anche nella morte: Benjamin muore suicida nel 1940 mentre tenta di fuggire ai nazisti sui Pirenei, Florenskij viene fucilato nel 1937 in un gulag nei pressi di Stalingrado.
Il saggio di Benjamin è stato a lungo trascurato, sebbene contenga un’analisi ancora insuperata del rapporto tra l’economia capitalistica e la religione. Benjamin, anche per le sua cultura ebraica, aveva posto il tema del messianismo al centro della sua riflessione filosofica. Il capitalismo gli appare come una (falsa) risposta alla domanda di salvezza che nell’umanesimo ebraico-cristiano aveva fondato l’Europa. Per Benjamin, allora, «nel capitalismo va individuata una religione; il capitalismo, cioè, serve essenzialmente all’appagamento delle stesse preoccupazioni, tormenti, inquietudini a cui in passato davano risposta le cosiddette religioni».
Questo incipit di Benjamin è chiaro e potente: il capitalismo non nasce soltanto, come diceva Weber, da uno spirito religioso; per Benjamin il capitalismo è una religione: «non solo, come ritiene Weber, in quanto costruzione determinata in senso religioso, bensì in quanto fenomeno essenzialmente religioso».
E quindi sintetizza: «In Occidente il capitalismo - come deve essere dimostrato non solo nel caso del calvinismo, ma anche degli altri orientamenti cristiani ortodossi - si è sviluppato parassitariamente sul cristianesimo, tanto che, alla fine, la storia di quest’ultimo è in sostanza quella del suo parassita, il capitalismo». E poco dopo aggiunge: «Il cristianesimo nell’età della Riforma non ha agevolato il sorgere del capitalismo, ma si è tramutato nel capitalismo».
Molto forte e particolarmente efficace è la metafora biologica del parassita: il capitalismo dal cristianesimo non ha preso solo lo spirito, ha la sostanza ed è cresciuto al punto da assorbirlo interamente. Il capitalismo è un cristianesimo fagocitato e trasformato, una metamorfosi del bruco in farfalla - e le farfalle non ricordano di essere state bruco.
Inoltre, Benjamin rettifica ancora Weber estendendo la metamorfosi dal protestantesimo all’intero cristianesimo, anticipando in questo di qualche anno Amintore Fanfani e le sue analisi sullo spirito “cattolico” e medioevale del capitalismo, un tema sviluppato anche da Giuseppe Toniolo, sebbene avanzando una tesi diversa da quella di Fanfani. È questa la grande e potente tesi di quel piccolo opuscolo del 1921, dove però troviamo molte altre intuizioni di grande valore. Vi è contenuta anche una sorta di profezia: «In seguito, tuttavia, ne avremo una visione d’insieme».
Benjamin conosceva troppo bene Marx per usare la parola “struttura” in senso generico. Per lui la religione, il cristianesimo in particolare, è la struttura del capitalismo, e quindi l’economia capitalistica, che dovrebbe essere la struttura della società capitalistica, è a sua volta una sorta di sovrastruttura di una struttura religiosa più radicale. Noi vediamo economia, ma sotto, nascosta «dall’involucro delle cose », c’è la religione: quale religione? Quali sono i tratti della farfalla-capitalismo nata dal bruco-cristianesimo?
Scriveva Benjamin: «Tre tratti di questa struttura religiosa sono però riconoscibili già nel presente. In primo luogo il capitalismo è una religione puramente cultuale, la più estrema forse che mai sia stata data. Tutto, in esso, ha significato soltanto in rapporto immediato con il culto; non conosce nessuna particolare dogmatica, nessuna teologia. L’utilitarismo acquisisce così la sua coloritura religiosa ».
Tesi forti e dense, e tutte ancora da esplorare, oggi più di ieri. Innanzitutto il capitalismo è definito dal filosofo tedesco come una «religione puramente cultuale», di puro culto, senza teologia, senza dogmi. Benjamin era ebreo, era filosofo, ed era tedesco - la Germania della sua generazione ( Taubes, Buber, Bonhoeffer, Bloch, e molti altri) fu un luogo straordinario e ineguagliato per le riflessioni sull’anima collettiva dell’Europa, per il destino e “tramonto” dell’Occidente e del capitalismo.
Benjamin sapeva quindi che le religioni di puro culto, senza dogmi né teologia, avevano nella Bibbia un nome preciso: idolatrie. Quei culti contro i quali il popolo ebraico, in Caanan e in Babilonia e ancor prima in Egitto, aveva ingaggiato una lotta campale, la lotta più radicale e estesa di tutta la Bibbia.
E che cosa significa, oggi, una religione/idolatria di puro culto? Pavel Florenskij, il grande filosofo e teologo russo, ha scritto cose importanti sul capitalismo come religione/idolatria di puro culto. Sempre nel 1921, anche Florenskij dedicava una specifica attenzione al rapporto tra il capitalismo, il sacro e il culto. Il suo resta un testo di enorme interesse per le intuizioni che vi sono contenute sulla natura sacrale del capitalismo. Scriveva il teologo ortodosso: «La stessa teoria del sacro dice che all’origine dell’economia, così come dell’ideologia, c’è il culto».
Il culto, per Florenskij, è «una sorta di prius. Viene prima il culto, e in seguito gli strumenti e i concetti». E poi aggiunge: «Il punto di partenza della cultura è il culto», giocando anche sulla comune radice delle parole cultura e culto: «In suo favore si pone anche l’analisi filologica». Per questo aggiunge: «È sbagliato pensare che la teoria del sacro sia perduta per sempre. Essa è legata alla coscienza medioevale. Nella vita storica ci sono periodi di laicizzazione e, al contrario, periodi in cui tutta la vita è introdotta nell’alveo del culto».
Il capitalismo è dunque per Benjamin e Florenskij una religione di solo culto, di sola prassi - in realtà, oggi noi sappiamo che nel secolo che è passato dallo scritto di Benjamin la religione capitalistica si è sofisticata e ha prodotto alcuni dogmi e una sua teologia, offerta in buona parte dalla teoria economica e da quella manageriale. Ed è per la necessità di avere un culto per poter creare una cultura che il capitalismo è diventato la vera cultura (o religione) popolare di questo secolo.
La forza culturale del capitalismo sta proprio nel suo essere diventato una esperienza globale, olistica, onnicomprensiva e onniavvolgente - il primo populismo moderno lo ha inventato il capitalismo. È nella sua dimensione di sola prassi quotidiana che, novello Anteo, il capitalismo trae la sua forza.
Il capitalismo crea e rafforza la sua cultura alimentandosi nel culto feriale di miliardi di persone. Ecco perché è diventato il culto universale e globale, che può solo crescere e rafforzarsi nei prossimi decenni - finché altri culti e altre culture non ne prenderanno il posto: speriamo solo che non siano le antiche arti della guerra! Ma da qui deriva anche un corollario interessante: per superare l’idolatria capitalistica occorrono nuove prassi, nuove esperienze.
Non basta scrivere teorie, perché ogni cultura nasce dal culto e dal pane quotidiano. Siamo immersi in pratiche quotidiane, ripetute, reiterate di culti di acquisto, vendita, investimenti. Anche nelle imprese, che nel Novecento erano in genere pensate e vissute sul modello della comunità, sta crescendo la stessa cultura commerciale.
Dal modello comunitario tipico del XIX e XX secolo siamo passati progressivamente all’impresa-mercato, che oggi domina indisturbata la scena. Fino a pochi decenni fa, soprattutto (ma non solo) in Europa, il registro relazionale che fondava imprese e/o cooperative era quello del patto non quello del contratto; anche il “contratto” di lavoro era soprattutto un patto, dove il do-ut-des era solo una delle componenti di quel rapporto fondamentale che fondava il lavoratore e la sua famiglia (il lavoro non era una merce perché quel contratto era essenzialmente un patto).
E invece oggi la cultura che si respira nelle imprese, nei loro culti e nelle loro liturgie, è la stessa cultura che si respira nei grandi centri commerciali, nelle banche, e sempre più anche nei social media. Ed è in questi culti e in queste pratiche, molto più che nelle business school e nelle università, dove si alimenta la cultura-religione- idolatria del capitalismo.
Perché, sempre secondo Florenskij, «il contenuto mistico-religioso dei concetti non si rivela nel pensiero astratto ma nell’esperienza ». Per il pensatore russo, dunque, all’inizio c’è la prassi del culto e da questa prassi nascono i concetti astratti (la cultura): «Tutte le concezioni scientifiche - economiche e simili - si sviluppano attraverso la secolarizzazione: da una parte si definiscono i concetti utilitaristici, dall’altra quelli scientifici».
Per questa stessa ragione, «il mito nasce dal culto... Il mito è il tentativo teorico di spiegare un determinato culto». Infatti, la «realtà originaria, nella religione, non sono i dogmi e nemmeno i miti, ma il culto, ovvero una realtà concreta. Mito e dogma sono astrazioni, teorie».
L’analogia storica più vicina alla cultura capitalista è per Florenskij la christianitas medievale: «Può essere convincente per noi soltanto l’idea medioevale di unità ecclesiale, di penetrazione di tutta la cultura da parte del principio sacrale... Non c’era fenomeno che non abbia un chiaro aspetto ecclesiale. Tutti i fenomeni, in positivo o in negativo, sono orientati all’ecclesialità».
Prassi era il cristianesimo pre-moderno in Europa, prassi è il nostro capitalismo: qui la loro forza, qui la loro vicinanza. Queste di Florenskij sono parole importanti. Per questa sua natura pratico-cultuale, ad esempio, che i filosofi e i teologi fanno molta fatica a comprendere il capitalismo del nostro tempo. Il secondo tratto del capitalismo, legato al primo (religione di puro culto), è per W. Benjamin «la durata permanente del culto».
Cento anni fa non esistevano ancora i negozi 24h7d, né lo shopping online, ma il filosofo ebreo aveva, profeticamente (la grande filosofia ha una dimensione profetica intrinseca e spesso non intenzionale) intuito una dimensione che nel tempo ha mostrato tutta la sua forza: «Il capitalismo è la celebrazione di un culto “senza tregua e senza pietà”. Non ci sono “giorni feriali”; non c’è giorno che non sia festivo, nel senso spaventoso del dispiegamento di ogni pompa sacrale, dello sforzo estremo del venerante».
Il conflitto tra il capitalismo e la domenica (possibile giorno dei negozi chiusi) non va infatti letto solo sul piano pragmatico del business ma su quello religioso dello scontro tra culti. Anche per questa ragione ha un suo senso, se ben inteso, rivendicare per i cristiani la domenica come giorno del Signore e quindi proteggerlo dal culto capitalistico, anche se la battaglia è troppo impari.
L’ebraismo potrà salvarsi da questo capitalismo (che in parte è suo figlio) se continuerà ad essere fedele allo shabbat. C’è poi quello che per Benjamin è il terzo tratto del capitalismo-culto, quello che ha ottenuto più attenzione dagli studiosi (da Giorgio Agamben in particolare): «Questo culto è colpevolizzante. Il capitalismo è presumibilmente il primo caso di un culto che non consente espiazione, bensì produce colpa». Una tesi forte e sempre suggestiva, che apre discorsi appassionanti e rilevanti.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
La domenica di Ratzinger e la "domenica della vita" di Hegel. Una nota di Gianni Vattimo
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LETTERA APOSTOLICA IN FORMA DI «MOTU PROPRIO»
DEL SOMMO PONTEFICE FRANCESCO
“APERUIT ILLIS”
CON LA QUALE VIENE ISTITUITA LA DOMENICA DELLA PAROLA DI DIO
1. «Aprì loro la mente per comprendere le Scritture» (Lc 24,45). È uno degli ultimi gesti compiuti dal Signore risorto, prima della sua Ascensione. Appare ai discepoli mentre sono radunati insieme, spezza con loro il pane e apre le loro menti all’intelligenza delle Sacre Scritture. A quegli uomini impauriti e delusi rivela il senso del mistero pasquale: che cioè, secondo il progetto eterno del Padre, Gesù doveva patire e risuscitare dai morti per offrire la conversione e il perdono dei peccati (cfr Lc 24,26.46-47); e promette lo Spirito Santo che darà loro la forza di essere testimoni di questo Mistero di salvezza (cfr Lc 24,49).
La relazione tra il Risorto, la comunità dei credenti e la Sacra Scrittura è estremamente vitale per la nostra identità. Senza il Signore che ci introduce è impossibile comprendere in profondità la Sacra Scrittura, ma è altrettanto vero il contrario: senza la Sacra Scrittura restano indecifrabili gli eventi della missione di Gesù e della sua Chiesa nel mondo. Giustamente San Girolamo poteva scrivere: «L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo» (In Is., Prologo: PL 24,17).
2. A conclusione del Giubileo straordinario della misericordia avevo chiesto che si pensasse a «una domenica dedicata interamente alla Parola di Dio, per comprendere l’inesauribile ricchezza che proviene da quel dialogo costante di Dio con il suo popolo» (Lett. ap. Misericordia et misera, 7). Dedicare in modo particolare una domenica dell’Anno liturgico alla Parola di Dio consente, anzitutto, di far rivivere alla Chiesa il gesto del Risorto che apre anche per noi il tesoro della sua Parola perché possiamo essere nel mondo annunciatori di questa inesauribile ricchezza. Tornano alla mente in proposito gli insegnamenti di Sant’Efrem: «Chi è capace di comprendere, Signore, tutta la ricchezza di una sola delle tue parole? È molto di più ciò che sfugge di quanto riusciamo a comprendere. Siamo proprio come gli assetati che bevono a una fonte. La tua parola offre molti aspetti diversi, come numerose sono le prospettive di quanti la studiano. Il Signore ha colorato la sua parola di bellezze svariate, perché coloro che la scrutano possano contemplare ciò che preferiscono. Ha nascosto nella sua parola tutti i tesori, perché ciascuno di noi trovi una ricchezza in ciò che contempla» (Commenti sul Diatessaron, 1, 18).
Con questa Lettera, pertanto, intendo rispondere a tante richieste che mi sono giunte da parte del popolo di Dio, perché in tutta la Chiesa si possa celebrare in unità di intenti la Domenica della Parola di Dio. È diventata ormai una prassi comune vivere dei momenti in cui la comunità cristiana si concentra sul grande valore che la Parola di Dio occupa nella sua esistenza quotidiana. Esiste nelle diverse Chiese locali una ricchezza di iniziative che rende sempre più accessibile la Sacra Scrittura ai credenti, così da farli sentire grati di un dono tanto grande, impegnati a viverlo nel quotidiano e responsabili di testimoniarlo con coerenza.
Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha dato un grande impulso alla riscoperta della Parola di Dio con la Costituzione dogmatica Dei Verbum. Da quelle pagine, che sempre meritano di essere meditate e vissute, emerge in maniera chiara la natura della Sacra Scrittura, il suo essere tramandata di generazione in generazione (cap. II), la sua ispirazione divina (cap. III) che abbraccia Antico e Nuovo Testamento (capp. IV e V) e la sua importanza per la vita della Chiesa (cap. VI). Per incrementare quell’insegnamento, Benedetto XVI convocò nel 2008 un’Assemblea del Sinodo dei Vescovi sul tema “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”, in seguito alla quale pubblicò l’Esortazione Apostolica Verbum Domini, che costituisce un insegnamento imprescindibile per le nostre comunità.[1] In questo Documento, in modo particolare, viene approfondito il carattere performativo della Parola di Dio, soprattutto quando nell’azione liturgica emerge il suo carattere propriamente sacramentale.[2]
È bene, pertanto, che non venga mai a mancare nella vita del nostro popolo questo rapporto decisivo con la Parola viva che il Signore non si stanca mai di rivolgere alla sua Sposa, perché possa crescere nell’amore e nella testimonianza di fede.
3. Stabilisco, pertanto, che la III Domenica del Tempo Ordinario sia dedicata alla celebrazione, riflessione e divulgazione della Parola di Dio. Questa Domenica della Parola di Dio verrà così a collocarsi in un momento opportuno di quel periodo dell’anno, quando siamo invitati a rafforzare i legami con gli ebrei e a pregare per l’unità dei cristiani. Non si tratta di una mera coincidenza temporale: celebrare la Domenica della Parola di Dio esprime una valenza ecumenica, perché la Sacra Scrittura indica a quanti si pongono in ascolto il cammino da perseguire per giungere a un’unità autentica e solida.
Le comunità troveranno il modo per vivere questa Domenica come un giorno solenne. Sarà importante, comunque, che nella celebrazione eucaristica si possa intronizzare il testo sacro, così da rendere evidente all’assemblea il valore normativo che la Parola di Dio possiede. In questa domenica, in modo particolare, sarà utile evidenziare la sua proclamazione e adattare l’omelia per mettere in risalto il servizio che si rende alla Parola del Signore. I Vescovi potranno in questa Domenica celebrare il rito del Lettorato o affidare un ministero simile, per richiamare l’importanza della proclamazione della Parola di Dio nella liturgia. È fondamentale, infatti, che non venga meno ogni sforzo perché si preparino alcuni fedeli ad essere veri annunciatori della Parola con una preparazione adeguata, così come avviene in maniera ormai usuale per gli accoliti o i ministri straordinari della Comunione. Alla stessa stregua, i parroci potranno trovare le forme per la consegna della Bibbia, o di un suo libro, a tutta l’assemblea in modo da far emergere l’importanza di continuare nella vita quotidiana la lettura, l’approfondimento e la preghiera con la Sacra Scrittura, con un particolare riferimento alla lectio divina.
4. Il ritorno del popolo d’Israele in patria, dopo l’esilio babilonese, fu segnato in modo significativo dalla lettura del libro della Legge. La Bibbia ci offre una commovente descrizione di quel momento nel libro di Neemia. Il popolo è radunato a Gerusalemme nella piazza della Porta delle Acque in ascolto della Legge. Quel popolo era stato disperso con la deportazione, ma ora si ritrova radunato intorno alla Sacra Scrittura come fosse «un solo uomo» (Ne 8,1). Alla lettura del libro sacro, il popolo «tendeva l’orecchio» (Ne 8,3), sapendo di ritrovare in quella parola il senso degli eventi vissuti. La reazione alla proclamazione di quelle parole fu la commozione e il pianto: «[I leviti] leggevano il libro della Legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura. Neemia, che era il governatore, Esdra, sacerdote e scriba, e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: “Questo giorno è consacrato al Signore, vostro Dio; non fate lutto e non piangete!”. Infatti tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della Legge. [...] “Non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza”» (Ne 8,8-10).
Queste parole contengono un grande insegnamento. La Bibbia non può essere solo patrimonio di alcuni e tanto meno una raccolta di libri per pochi privilegiati. Essa appartiene, anzitutto, al popolo convocato per ascoltarla e riconoscersi in quella Parola. Spesso, si verificano tendenze che cercano di monopolizzare il testo sacro relegandolo ad alcuni circoli o a gruppi prescelti. Non può essere così. La Bibbia è il libro del popolo del Signore che nel suo ascolto passa dalla dispersione e dalla divisione all’unità. La Parola di Dio unisce i credenti e li rende un solo popolo.
5. In questa unità, generata dall’ascolto, i Pastori in primo luogo hanno la grande responsabilità di spiegare e permettere a tutti di comprendere la Sacra Scrittura. Poiché essa è il libro del popolo, quanti hanno la vocazione di essere ministri della Parola devono sentire forte l’esigenza di renderla accessibile alla propria comunità.
L’omelia, in particolare, riveste una funzione del tutto peculiare, perché possiede «un carattere quasi sacramentale» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 142). Far entrare in profondità nella Parola di Dio, con un linguaggio semplice e adatto a chi ascolta, permette al sacerdote di far scoprire anche la «bellezza delle immagini che il Signore utilizzava per stimolare la pratica del bene» (ibid.). Questa è un’opportunità pastorale da non perdere!
Per molti dei nostri fedeli, infatti, questa è l’unica occasione che possiedono per cogliere la bellezza della Parola di Dio e vederla riferita alla loro vita quotidiana. È necessario, quindi, che si dedichi il tempo opportuno per la preparazione dell’omelia. Non si può improvvisare il commento alle letture sacre. A noi predicatori è richiesto, piuttosto, l’impegno a non dilungarci oltre misura con omelie saccenti o argomenti estranei. Quando ci si ferma a meditare e pregare sul testo sacro, allora si è capaci di parlare con il cuore per raggiungere il cuore delle persone che ascoltano, così da esprimere l’essenziale che viene colto e che produce frutto. Non stanchiamoci mai di dedicare tempo e preghiera alla Sacra Scrittura, perché venga accolta «non come parola di uomini ma, qual è veramente, come parola di Dio» (1Ts 2,13).
È bene che anche i catechisti, per il ministero che rivestono di aiutare a crescere nella fede, sentano l’urgenza di rinnovarsi attraverso la familiarità e lo studio delle Sacre Scritture, che consentano loro di favorire un vero dialogo tra quanti li ascoltano e la Parola di Dio.
6. Prima di raggiungere i discepoli, chiusi in casa, e aprirli all’intelligenza della Sacra Scrittura (cfr Lc 24,44-45), il Risorto appare a due di loro lungo la via che porta da Gerusalemme a Emmaus (cfr Lc 24,13-35). Il racconto dell’evangelista Luca nota che è il giorno stesso della Risurrezione, cioè la domenica. Quei due discepoli discutono sugli ultimi avvenimenti della passione e morte di Gesù. Il loro cammino è segnato dalla tristezza e dalla delusione per la tragica fine di Gesù. Avevano sperato in Lui come Messia liberatore, e si trovano di fronte allo scandalo del Crocifisso. Con discrezione, il Risorto stesso si avvicina e cammina con i discepoli, ma quelli non lo riconoscono (cfr v. 16). Lungo la strada, il Signore li interroga, rendendosi conto che non hanno compreso il senso della sua passione e morte; li chiama «stolti e lenti di cuore» (v. 25) e «cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (v. 27). Cristo è il primo esegeta! Non solo le Scritture antiche hanno anticipato quanto Egli avrebbe realizzato, ma Lui stesso ha voluto essere fedele a quella Parola per rendere evidente l’unica storia della salvezza che trova in Cristo il suo compimento.
7. La Bibbia, pertanto, in quanto Sacra Scrittura, parla di Cristo e lo annuncia come colui che deve attraversare le sofferenze per entrare nella gloria (cfr v. 26). Non una sola parte, ma tutte le Scritture parlano di Lui. La sua morte e risurrezione sono indecifrabili senza di esse. Per questo una delle confessioni di fede più antiche sottolinea che Cristo «morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa» (1Cor 15,3-5). Poiché le Scritture parlano di Cristo, permettono di credere che la sua morte e risurrezione non appartengono alla mitologia, ma alla storia e si trovano al centro della fede dei suoi discepoli.
È profondo il vincolo tra la Sacra Scrittura e la fede dei credenti. Poiché la fede proviene dall’ascolto e l’ascolto è incentrato sulla parola di Cristo (cfr Rm 10,17), l’invito che ne scaturisce è l’urgenza e l’importanza che i credenti devono riservare all’ascolto della Parola del Signore sia nell’azione liturgica, sia nella preghiera e riflessione personali.
8. Il “viaggio” del Risorto con i discepoli di Emmaus si chiude con la cena. Il misterioso Viandante accetta l’insistente richiesta che gli rivolgono i due: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto» (Lc 24,29). Si siedono a tavola, Gesù prende il pane, recita la benedizione, lo spezza e lo offre a loro. In quel momento i loro occhi si aprono e lo riconoscono (cfr v. 31).
Comprendiamo da questa scena quanto sia inscindibile il rapporto tra la Sacra Scrittura e l’Eucaristia. Il Concilio Vaticano II insegna: «La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della Parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli» (Dei Verbum, 21).
La frequentazione costante della Sacra Scrittura e la celebrazione dell’Eucaristia rendono possibile il riconoscimento fra persone che si appartengono. Come cristiani siamo un solo popolo che cammina nella storia, forte della presenza del Signore in mezzo a noi che ci parla e ci nutre. Il giorno dedicato alla Bibbia vuole essere non “una volta all’anno”, ma una volta per tutto l’anno, perché abbiamo urgente necessità di diventare familiari e intimi della Sacra Scrittura e del Risorto, che non cessa di spezzare la Parola e il Pane nella comunità dei credenti. Per questo abbiamo bisogno di entrare in confidenza costante con la Sacra Scrittura, altrimenti il cuore resta freddo e gli occhi rimangono chiusi, colpiti come siamo da innumerevoli forme di cecità.
Sacra Scrittura e Sacramenti tra loro sono inseparabili. Quando i Sacramenti sono introdotti e illuminati dalla Parola, si manifestano più chiaramente come la meta di un cammino dove Cristo stesso apre la mente e il cuore a riconoscere la sua azione salvifica. È necessario, in questo contesto, non dimenticare l’insegnamento che viene dal libro dell’Apocalisse. Qui viene insegnato che il Signore sta alla porta e bussa. Se qualcuno ascolta la sua voce e gli apre, Egli entra per cenare insieme (cfr 3,20). Cristo Gesù bussa alla nostra porta attraverso la Sacra Scrittura; se ascoltiamo e apriamo la porta della mente e del cuore, allora entra nella nostra vita e rimane con noi.
9. Nella Seconda Lettera a Timoteo, che costituisce in qualche modo il suo testamento spirituale, San Paolo raccomanda al suo fedele collaboratore di frequentare costantemente la Sacra Scrittura. L’Apostolo è convinto che «tutta la Sacra Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare» (3,16). Questa raccomandazione di Paolo a Timoteo costituisce una base su cui la Costituzione conciliare Dei Verbum affronta il grande tema dell’ispirazione della Sacra Scrittura, una base da cui emergono in particolare la finalità salvifica, la dimensione spirituale e il principio dell’incarnazione per la Sacra Scrittura.
Richiamando anzitutto la raccomandazione di Paolo a Timoteo, la Dei Verbum sottolinea che «i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle sacre Scritture» (n. 11). Poiché queste istruiscono in vista della salvezza per la fede in Cristo (cfr 2Tm 3,15), le verità contenute in esse servono per la nostra salvezza. La Bibbia non è una raccolta di libri di storia, né di cronaca, ma è interamente rivolta alla salvezza integrale della persona. L’innegabile radicamento storico dei libri contenuti nel testo sacro non deve far dimenticare questa finalità primordiale: la nostra salvezza. Tutto è indirizzato a questa finalità iscritta nella natura stessa della Bibbia, che è composta come storia di salvezza in cui Dio parla e agisce per andare incontro a tutti gli uomini e salvarli dal male e dalla morte.
Per raggiungere tale finalità salvifica, la Sacra Scrittura sotto l’azione dello Spirito Santo trasforma in Parola di Dio la parola degli uomini scritta in maniera umana (cfr Dei Verbum, 12). Il ruolo dello Spirito Santo nella Sacra Scrittura è fondamentale. Senza la sua azione, il rischio di rimanere rinchiusi nel solo testo scritto sarebbe sempre all’erta, rendendo facile l’interpretazione fondamentalista, da cui bisogna rimanere lontani per non tradire il carattere ispirato, dinamico e spirituale che il testo sacro possiede. Come ricorda l’Apostolo «La lettera uccide, lo Spirito invece dà vita»(2Cor 3,6). Lo Spirito Santo, dunque, trasforma la Sacra Scrittura in Parola vivente di Dio, vissuta e trasmessa nella fede del suo popolo santo.
10. L’azione dello Spirito Santo non riguarda soltanto la formazione della Sacra Scrittura, ma opera anche in coloro che si pongono in ascolto della Parola di Dio. È importante l’affermazione dei Padri conciliari secondo cui la Sacra Scrittura deve essere «letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta» (Dei Verbum, 12). Con Gesù Cristo la rivelazione di Dio raggiunge il suo compimento e la sua pienezza; eppure, lo Spirito Santo continua la sua azione. Sarebbe riduttivo, infatti, limitare l’azione dello Spirito Santo solo alla natura divinamente ispirata della Sacra Scrittura e ai suoi diversi autori. È necessario, pertanto, avere fiducia nell’azione dello Spirito Santo che continua a realizzare una sua peculiare forma di ispirazione quando la Chiesa insegna la Sacra Scrittura, quando il Magistero la interpreta autenticamente (cfr ibid., 10) e quando ogni credente ne fa la propria norma spirituale. In questo senso possiamo comprendere le parole di Gesù quando, ai discepoli che confermano di aver afferrato il significato delle sue parabole, dice: «Ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).
LETTERA APOSTOLICA IN FORMA DI «MOTU PROPRIO»
DEL SOMMO PONTEFICE FRANCESCO
“APERUIT ILLIS”
CON LA QUALE VIENE ISTITUITA LA DOMENICA DELLA PAROLA DI DIO
11. La Dei Verbum, infine, precisa che «le parole di Dio espresse con lingue umane, si sono fatte simili al parlare dell’uomo, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece simile all’uomo» (n. 13). È come dire che l’Incarnazione del Verbo di Dio dà forma e senso alla relazione tra la Parola di Dio e il linguaggio umano, con le sue condizioni storiche e culturali. È in questo evento che prende forma la Tradizione, che è anch’essa Parola di Dio (cfr ibid., 9). Spesso si corre il rischio di separare tra loro la Sacra Scrittura e la Tradizione, senza comprendere che insieme sono l’unica fonte della Rivelazione. Il carattere scritto della prima nulla toglie al suo essere pienamente parola viva; così come la Tradizione viva della Chiesa, che la trasmette incessantemente nel corso dei secoli di generazione in generazione, possiede quel libro sacro come la «regola suprema della fede» (ibid., 21). D’altronde, prima di diventare un testo scritto, la Sacra Scrittura è stata trasmessa oralmente e mantenuta viva dalla fede di un popolo che la riconosceva come sua storia e principio di identità in mezzo a tanti altri popoli. La fede biblica, pertanto, si fonda sulla Parola viva, non su un libro.
12. Quando la Sacra Scrittura è letta nello stesso Spirito con cui è stata scritta, permane sempre nuova. L’Antico Testamento non è mai vecchio una volta che è parte del Nuovo, perché tutto è trasformato dall’unico Spirito che lo ispira. L’intero testo sacro possiede una funzione profetica: essa non riguarda il futuro, ma l’oggi di chi si nutre di questa Parola. Gesù stesso lo afferma chiaramente all’inizio del suo ministero: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21). Chi si nutre ogni giorno della Parola di Dio si fa, come Gesù, contemporaneo delle persone che incontra; non è tentato di cadere in nostalgie sterili per il passato, né in utopie disincarnate verso il futuro.
La Sacra Scrittura svolge la sua azione profetica anzitutto nei confronti di chi l’ascolta. Essa provoca dolcezza e amarezza. Tornano alla mente le parole del profeta Ezechiele quando, invitato dal Signore a mangiare il rotolo del libro, confida: «Fu per la mia bocca dolce come il miele» (3,3). Anche l’evangelista Giovanni sull’isola di Patmos rivive la stessa esperienza di Ezechiele di mangiare il libro, ma aggiunge qualcosa di più specifico: «In bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l’ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l’amarezza» (Ap 10,10).
La dolcezza della Parola di Dio ci spinge a parteciparla a quanti incontriamo nella nostra vita per esprimere la certezza della speranza che essa contiene (cfr 1Pt 3,15-16). L’amarezza, a sua volta, è spesso offerta dal verificare quanto difficile diventi per noi doverla vivere con coerenza, o toccare con mano che essa viene rifiutata perché non ritenuta valida per dare senso alla vita. È necessario, pertanto, non assuefarsi mai alla Parola di Dio, ma nutrirsi di essa per scoprire e vivere in profondità la nostra relazione con Dio e i fratelli.
13. Un’ulteriore provocazione che proviene dalla Sacra Scrittura è quella che riguarda la carità. Costantemente la Parola di Dio richiama all’amore misericordioso del Padre che chiede ai figli di vivere nella carità. La vita di Gesù è l’espressione piena e perfetta di questo amore divino che non trattiene nulla per sé, ma a tutti offre sé stesso senza riserve. Nella parabola del povero Lazzaro troviamo un’indicazione preziosa. Quando Lazzaro e il ricco muoiono, questi, vedendo il povero nel seno di Abramo, chiede che venga inviato ai suoi fratelli perché li ammonisca a vivere l’amore del prossimo, per evitare che anch’essi subiscano i suoi stessi tormenti. La risposta di Abramo è pungente: «Hanno Mosè e i profeti ascoltino loro» (Lc 16,29). Ascoltare le Sacre Scritture per praticare la misericordia: questa è una grande sfida posta dinanzi alla nostra vita. La Parola di Dio è in grado di aprire i nostri occhi per permetterci di uscire dall’individualismo che conduce all’asfissia e alla sterilità mentre spalanca la strada della condivisione e della solidarietà.
14. Uno degli episodi più significativi del rapporto tra Gesù e i discepoli è il racconto della Trasfigurazione. Gesù sale sul monte a pregare con Pietro, Giacomo e Giovanni. Gli evangelisti ricordano che mentre il volto e le vesti di Gesù risplendevano, due uomini conversavano con Lui: Mosè ed Elia, che impersonano rispettivamente la Legge e i Profeti, cioè le Sacre Scritture. La reazione di Pietro, a quella vista, è piena di gioiosa meraviglia: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia» (Lc 9,33). In quel momento una nube li copre con la sua ombra e i discepoli sono colti dalla paura.
La Trasfigurazione richiama la festa delle capanne, quando Esdra e Neemia leggevano il testo sacro al popolo, dopo il ritorno dall’esilio. Nello stesso tempo, essa anticipa la gloria di Gesù in preparazione allo scandalo della passione, gloria divina che viene evocata anche dalla nube che avvolge i discepoli, simbolo della presenza del Signore. Questa Trasfigurazione è simile a quella della Sacra Scrittura, che trascende sé stessa quando nutre la vita dei credenti. Come ricorda la Verbum Domini: «Nel recupero dell’articolazione tra i diversi sensi scritturistici diventa allora decisivo cogliere il passaggio tra lettera e spirito. Non si tratta di un passaggio automatico e spontaneo; occorre piuttosto un trascendimento della lettera» (n. 38).
15. Nel cammino di accoglienza della Parola di Dio, ci accompagna la Madre del Signore, riconosciuta come beata perché ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le aveva detto (cfr Lc 1,45). La beatitudine di Maria precede tutte le beatitudini pronunciate da Gesù per i poveri, gli afflitti, i miti, i pacificatori e coloro che sono perseguitati, perché è la condizione necessaria per qualsiasi altra beatitudine. Nessun povero è beato perché povero; lo diventa se, come Maria, crede nell’adempimento della Parola di Dio. Lo ricorda un grande discepolo e maestro della Sacra Scrittura, Sant’Agostino: «Qualcuno in mezzo alla folla, particolarmente preso dall’entusiasmo, esclamò: “Beato il seno che ti ha portato”. E lui: “Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio, e la custodiscono”. Come dire: anche mia madre, che tu chiami beata, è beata appunto perché custodisce la parola di Dio, non perché in lei il Verbo si è fatto carne e abitò fra noi, ma perché custodisce il Verbo stesso di Dio per mezzo del quale è stata fatta, e che in lei si è fatto carne» (Sul Vang. di Giov., 10, 3).
La domenica dedicata alla Parola possa far crescere nel popolo di Dio la religiosa e assidua familiarità con le Sacre Scritture, così come l’autore sacro insegnava già nei tempi antichi: «Questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» (Dt 30,14).
Dato a Roma, presso San Giovanni in Laterano, 30 Settembre 2019
Memoria liturgica di San Girolamo nell’inizio del 1600° anniversario della morte
FRANCESCO
[1] Cfr AAS 102 (2010), 692-787.
[2] «La sacramentalità della Parola si lascia così comprendere in analogia alla presenza reale di Cristo sotto le specie del pane e del vino consacrati. Accostandoci all’altare e prendendo parte al banchetto eucaristico noi comunichiamo realmente al corpo e al sangue di Cristo. La proclamazione della Parola di Dio nella celebrazione comporta il riconoscere che sia Cristo stesso ad essere presente e a rivolgersi a noi per essere accolto» (Verbum Domini, 56).
Spiritualità.
Se il sabato ebraico è la festa del mondo
Benjamin Gross, da poco scomparso, fu l’ultimo dei grandi maestri ebrei di oggi. Esce ora una sua analisi teologica sul tema che segna l’identità del popolo eletto: Shabbat
di Massimo Giuliani (Avvenire, giovedì 17 gennaio 2019)
Nessuno può dire di conoscere l’ebraismo se non ha davvero compreso cosa sia il Sabato ebraico, e nessuno può dire di averlo capito se non ha vissuto, almeno una volta, lo spirito e le norme dello shabbat. È il segreto palese, se mi è concesso l’ossimoro, della vita ebraica più autentica, ma proprio perché è sotto gli occhi di tutti e perché non si possono leggere le Scritture senza imbattersi continuamente nella santificazione del Sabato (che è esplicitamente uno dei dieci comandamenti), questo precetto è anche tra i più trascurati, per non dire il più frainteso.
Molta cultura cristiana pensa che la domenica sia il ’sabato degli cristiani’. Ma se non si capisce cos’è lo shabbat ebraico, la metafora resta vuota non solo di prassi ma soprattutto di senso. E tradurlo con il termine ’festa’ è estremamente riduttivo: non è una festa, ma la festa nel senso più pieno. Celebra infatti il compimento divino del più grande miracolo umanamente immaginabile: l’esistenza del mondo. Non solo, del mondo questo giorno settimo, che Dio ha comandato di santificare, rivela il senso e la vocazione nonché la trascendenza. Nel ricordo del riposo divino - shabbat vuol dire cessazione e riposo - sono inscritte la finalità e la speranza del creato, inteso come unità di natura e storia.
Non è esagerato affermare che, se esiste, la metafisica dell’ebraismo sta tutta nei valori e nella prassi che costituiscono lo shabbat. Non a caso i rabbini abbiano sempre insegnato: «Non è Israele che custodisce il Sabato ma il Sabato che custodisce e preserva e fa sopravvivere Israele», né è un caso che nelle lingue derivate dal latino questo giorno settimanale abbia fino ad oggi mantenuto il suo nome ebraico.
Il filosofo francese-israeliano Benjamin Gross, da poco scomparso, è l’ultimo dei grandi maestri ebrei contemporanei, sulla scia di Franz Rosenzweig, Joseph Soloveitchik e Avraham Joshua Heschel, ad aver scritto sul valore cosmico e religioso del Sabato nella tradizione ebraica. Nel volume Momento di eternità (appena pubblicato dalle Edb nella collana ’cristiani ed ebrei’), Gross sostiene che esiste un preciso parallelo tra Israele e il Sabato: «La nascita della società ebraica, all’epoca dell’esodo dall’Egitto, rappresenta sul piano della storia ciò che lo shabbat rappresenta sul piano della natura: una traccia della trascendenza inserita nell’universo per testimoniare l’Origine ossia il Creatore. Lo shabbat e Israele sono consustanziali ».
In questo giorno si fa memoria congiunta di due eventi distinti ma paralleli, uno naturale e universale e uno storico e particolare, inscindibili nell’economia del racconto biblico: la creazione del mondo e l’uscita di Israele dall’Egitto. Due memorie che convergono nell’unico giorno che Dio ha voluto ’santo’, che cioè ha separato dagli altri elevandolo a memoriale vivente. Il precetto di santificare questo giorno sta nella lista dei doveri verso Dio, che simbolicamente si trova nella prima delle due tavole dei comandamenti. Ma ciò non significa che esso non racchiuda alcuni doveri verso il prossimo o non veicoli un messaggio sociale e politico.
Anzi, di tutti i comandamenti è proprio quello che contiene la rivoluzione politica più radicale che sia mai stata annunciata: nel giorno del Sabato, infatti, l’obbligo del riposo e della celebrazione investe alla pari uomini e donne, genitori e figli, padroni e servi, esseri umani e animali domestici. Di fatto, sottolinea Gross, lo shabbat prospetta ciò che in linguaggio moderno chiameremmo ’l’abolizione della divisione delle classi, l’insubordinazione verso le leggi dell’economia e il superamento dell’alienazione causata dalla necessità del lavoro quotidiano’. Un’utopia marxiana ante litteram (non dimentichiamo le radici ebraiche del pur ateo Marx) ma che meglio si comprende alla luce della categoria dello shalom messianico.
Come potrebbe lo spirito del Sabato ebraico non includere questa prospettiva escatologica di giustizia, integrità e armonia per tutti gli esseri viventi, animali inclusi? Lo shabbat è, per i maestri di Israele, un sessantesimo del mondo futuro, del paradiso, della redenzione finale; è un anticipo e funge una promessa di ciò che può già essere gustato quaggiù e che diventa modello e ispirazione per i riscatti e le piccole redenzioni di cui necessitano i sei giorni di quotidiano lavoro, che dallo shabbat ricevono luce e orientamento.
Per esplicitare questo senso etico universale, contenuto nella prassi sabbatica, il teologo chassidico Heschel aveva scritto il suo libro più famoso Il sabato e il suo significato per l’uomo moderno, un classico della spiritualità occidentale. L’ebraismo privilegia la santificazione del tempo alla monumentalizazzione dello spazio: non ha lasciato piramidi o cattedrali ma ha consegnato all’umanità un’architettura temporale ossia il suo calendario liturgico e la sacralità del riposo settimanale e dalla speranza messianica. All’uomo contemporaneo, stressato dalla conquista dello spazio e della visibilità, Heschel contrappone la conquista del tempo, che è interiorità e persino nascondimento, perché i valori e i significati profondi dell’esistenza non sono merce da trattativa mercatile. Non si comprano né si vendono, possono solo essere coltivati, curati e condivisi.
Lo shabbat, nell’idea di astenersi dal lavoro e nel porsi un limite, ammonisce l’homo faber a coltivarsi anche e soprattutto come creatura, in una passività che preserva e dà senso alla stessa attività lavorativa. Emmanuel Levinas ha fatto di questa passività, cifra positiva del riposo sabbatico, una parola chiave della sua riflessione etica, eredità dei profeti che i rabbini hanno sviluppato in dettaglio nello studio del Talmud.
Solo un approccio superficiale può liquidare quei dettagli come formalismo o mera esteriorità; al contrario, ogni singola norma per la santificazione del Sabato è spia e rivelazione di una dedizione piena a compiere il progetto divino sul mondo. E nella visione profetico-rabbinica, il valore e la prassi dello shabbat sono un messaggio per tutti, non solo per gli ebrei. Isaia al capitolo 56 ricorda che eunuchi e stranieri, nella misura in cui ’si guarderanno dal profanare il Sabato’, verranno condotti sul santo monte di Sion, casa della preghiera e luogo dove anch’essi offriranno sacrifici.
In Geremia l’osservanza assoluta dell’astensione dal lavoro nel giorno santo non è meno forte e anticipa le prescrizioni del trattato talmudico che porta appunto il nome di Shabbat. Un precetto universale, dunque, che sintetizza quell’imitatio Dei in cui consiste la religiosità ebraica.
«Lo shabbat è stato osservato da Dio prima che dall’uomo, scriveva nel XIX secolo il rabbino livornese Elia Benamozegh, ed è proprio perché Dio lo ha osservato che è stato comandato all’uomo di osservarlo a sua volta». È utile, poi, sapere che l’insegnamento di Gesù sul «sabato che è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» era un’idea diffusa in tutto il giudaismo farisaico dei primi secoli.
La si ritrova, con spiegazione annessa, nel Talmud, trattato Yomà, che è dedicato al ’sabato dei sabati’ ossia al giorno di Kippur: «A voi uomini è stato dato lo shabbat: ciò comporta che ci sono situazioni in cui si deve osservare lo shabbat e situazioni in cui si può profanarlo non osservandolo se ciò è richiesto dalla salvaguardia della vita». Quanti fraintendimenti e quanto pregiudizio antiebraico è stato costruito su quest’affermazione evangelica, che comparando le fonti trova invece Gesù e i farisei in piena sintonia di vedute.
La cifra del Sabato ebraico è il doppio. I maestri di Israele si spingono a ritenere che «all’ingresso del sabato, ogni uomo riceve un’anima supplementare». Ma cos’è questo raddoppio dell’anima umana se non il dono di un’intelligenza nuova, quasi un surplus di coscienza e di consapevolezza circa quel che davvero siamo e soprattutto perché siamo al mondo? Un doppio che viene ritualmente ricordato nell’accensione di due lumi, nella benedizione su due pani (ciascuno doppiamente intrecciato) e nei due verbi, zakor e shamor, ricorda e osserva, che ne comandano la santificazione. L’attesa messianica, nell’ebraismo, è frutto della fede che ’quel giorno’, il giorno storico della redenzione ultima, sarà ’tutto shabbat’, perché sarà il giorno in cui tutti i popoli saliranno con Israele a Sion. E come la Torà è stata data sul monte Sinai nel giorno di shabbat, ricorda Benjamin Gross, così sarà in uno shabbat senza fine dove l’umanità intera abbraccerà «il giogo del regno dei cieli». Se non è metafisica questa.
IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), IL CATTOLICISMO ("DEUS CARITAS EST"), LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA FILOSOFIA HEGELIANA (MARX), E LA POSTERITA’ SPIRITUALE DI GIOACCHINO DA FIORE .... *
Filosofi? Solo nel weekend
Relazioni. Il rapporto dialettico tra servo e signore, evocato da Hegel e analizzato da Kojève, chiama gli intellettuali all’impegno fuori dai loro circoli chiusi. Ma forse i pensieri più originali sono invece frutto dell’ozio, dei momenti in cui ci si distacca dalle preoccupazioni mondane
di Mauro Bonazzi (Corriere della Sera, La Lettura, 25.03.2018)
«È stato terribile. Alla conferenza si sono presentati più di 300 giovani, si è dovuto cambiare sala, e ciò nonostante la gente era seduta per terra. Se si pensa che una cosa del genere capita solo per le conferenze di Sartre!». Gli inizi erano stati ben diversi. «E sì che quando ho iniziato a parlare all’École (l’École Pratique des Hautes Études, una delle grandi istituzioni francesi, ndr ) erano presenti a malapena una dozzina di persone!». Ma che dozzina: in quell’auletta si confondevano, tra occhiali rotondi, odore di lacca e colletti inamidati, con tutto il loro bagaglio di piccole perfidie e grandi idee, Jacques Lacan e Hannah Arendt, Raymond Queneau e Raymond Aron, Maurice Merleau-Ponty ed Eric Weil, George Bataille e Roger Caillois, e forse anche André Breton e Leo Strauss. Figure eccentriche, in quel momento, quasi tutti giovani, in fuga da qualcosa o da sé stessi, ma destinati a ben altro futuro. Le lezioni erano estenuanti - «il corso mi ha sfinito, annientato, ucciso dieci volte», scriveva Bataille - un commento pressoché infinito di alcune pagine di uno dei testi in assoluto più difficili mai scritti, la Fenomenologia dello Spirito di Hegel.
A officiare, in un rito che si sarebbe rinnovato ogni settimana per sei anni (dal 1933 al 1939), era Alexandre Kojève, un giovane emigrato russo nato nel 1902, esule in fuga dalla rivoluzione bolscevica, ma forse una spia dei servizi segreti sovietici, nipote di Vasilij Kandinskij, seduttore implacabile - di lui si è detto tutto e il contrario di tutto -, senza dubbio il signore assoluto della scena filosofica parigina.
A questo gruppo, davvero inimitabile, è dedicato il bel saggio di Massimo Palma, appena pubblicato da Castelvecchi, Foto di gruppo con servo e signore.
Più precisamente, tutto girava intorno a poche pagine. Pagine oscure, astruse, a volte incomprensibili; ridicole e tragiche allo stesso tempo: così come ridicola e tragica allo stesso tempo è la vita degli esseri umani, che era poi il tema di fondo di quelle lezioni e di quel libro. Si raccontava il viaggio della coscienza (che poi saremmo noi) in cerca del significato della propria esistenza, di un posto nell’universo, e del bisogno di essere riconosciuti: perché in un mondo senza più Dio, senza più un Dio che ci osserva, è solo così, vale a dire nel riconoscimento reciproco, che potremo dire di essere vissuti realmente.
Diversamente è la natura che si ripete eternamente identica a sé stessa, bellissima ma silenziosa, indifferente, estranea: «Senza alcun dubbio la singola mosca muore, ma queste mosche qui sono le stesse dell’anno passato. Quelle dell’anno passato sono forse morte? Può essere, ma nulla è scomparso. Le mosche restano uguali a sé stesse come le onde del mare» (Bataille). Non basta, non può bastare. La storia nasce come negazione di questa unità indistinta della natura, quando questi esseri inquieti che sono gli uomini iniziano la loro battaglia contro l’angoscia del nulla, alla ricerca di sé stessi, per dimostrare che non siamo qui per caso, come mosche o foglie.
Per questo cerchiamo gli altri, ne abbiamo bisogno, come di uno specchio che rifletta e ci riveli nella nostra inimitabile specificità, nel nostro valore. «La realtà umana è sempre sociale», scrive Kojève, l’uomo è l’animale politico: solo gli dèi e le bestie vivono da soli; «l’uomo reale e vero è il risultato della sua interazione con altri». Il problema, però, è che questo desiderio di riconoscimento è sempre foriero di conflitti e tensioni: la mia affermazione, il riconoscimento della mia importanza, passa per la negazione dell’altro. È la dialettica tra servo e padrone, il cuore della Fenomenologia: solo chi osa, chi è pronto a mettere tutto in discussione, potrà affermarsi. «Conflitto è padre di tutte le cose, e alcuni li fa liberi altri schiavi»: persino l’oscuro Eraclito diventava chiaro grazie a Hegel e Kojève. Con una sorpresa finale, un’inversione paradossale dei ruoli: il padrone, affidando tutto al suo sottoposto, finisce per dipendere da lui, che in questo modo scoprirà la sua forza, prendendo il sopravvento. E via di seguito, di rovesciamento in rovesciamento: così procede la storia, quando i vinti rialzano la testa.
Teorie astruse? Forse, ma non prive di una loro attualità. Perché in fondo trasmettevano un insegnamento molto semplice: che non esistono anime belle, che quello che siamo dipende dal rapporto che costruiremo con gli altri, dalla determinazione con cui affronteremo le sfide della vita. Solo agendo, esponendosi al rischio dell’insuccesso (della morte, scriveva Hegel), si può sperare di realizzare qualcosa.
Era anche una critica sferzante agli intellettuali, chiusi nei loro giardini e nelle loro parrocchie, sempre intenti a discutere tra loro: schiavi dunque dei loro pregiudizi così come la tanto vituperata folla dei non iniziati lo è dei propri; e per questo incapaci di comprendere la realtà che li circonda; destinati a essere superati dal corso degli eventi. Niente male come lezione, mentre le truppe naziste si apprestavano a marciare su Parigi.
Poi tutto era cambiato. Sempre funambolico, ma in fondo coerente con le sue idee, dopo la guerra Kojève aveva repentinamente abbandonato il mondo accademico, entrando nell’amministrazione, al ministero degli Affari economici, dove divenne in breve tempo un’eminenza grigia della politica commerciale francese, invincibile nelle negoziazioni internazionali («quando le altre delegazioni vedevano arrivare Kojève, e in special modo se lo vedevano arrivare solo, era il panico», ricordò dopo la sua morte un funzionario che gli era stato collega per anni). Sembrava il Talete di cui aveva parlato Platone, quello che cade nel pozzo perché assorto nella contemplazione del cielo. Si era rivelato come il Talete di Aristotele, che, grazie alla conoscenza del cielo e dei fenomeni atmosferici, aveva preso il controllo di tutti i frantoi, «dimostrando che per i filosofi avere successo è veramente facile - se solo lo vogliono». Per la filosofia non restava ormai che il fine settimana: e «filosofo della domenica» Kojève sarebbe diventato per tutti, secondo la folgorante definizione di Raymond Queneau.
Del resto - e questo è l’ultimo paradosso di un pensatore che viveva di paradossi - è in fondo proprio la domenica il giorno decisivo, quando finalmente ci si ferma e la cosa più importante forse si rivela. La saggezza, la serenità raggiunta. L’avevano inseguita tutti, la trovò forse il solo Queneau, tra tutti l’allievo più imprevedibile, lo scrittore capace di esprimere la filosofia del maestro in forma di romanzi (ed è a lui che si deve tra l’altro la trascrizione e pubblicazione dei corsi all’École Pratique - e dunque la creazione del mito di Kojève). E se tutto questo affannarsi nelle azioni e questo correre dietro alle parole non portasse da nessuna parte? E se la saggezza non fosse altro che la capacità di sorridere dello spettacolo d’arte varia (questo è Paolo Conte) e strampalata che sono gli uomini e le loro vite? Né servi né padroni, senza bisogno di essere riconosciuti o di riconoscere?
Lo aveva ammesso persino il grande Hegel, in un momento di rara lucidità: «In questa sfrenatezza priva di preoccupazioni è implicito il momento ideale: è la domenica della vita, che tutto uguaglia e che allontana ogni cattiveria; persone che sono così cordialmente di buon umore non possono essere del tutto cattive o basse». Anche Kojève alla fine gli aveva dato ragione: «Queneau ha riassunto la Fenomenologia dello Spirito scrivendo Zazie nel metro. Zazie era venuta a Parigi per vedere la metropolitana. Ma la sola volta in cui ci andò, s’addormentò e non vide nulla. Ecco il romanzo della saggezza». Se fosse proprio così, e tutto qui? I pensieri più impertinenti vengono quando si ozia - di domenica, insomma - e forse sono i migliori.
O forse non è così, e neppure questa soddisfazione - una «negatività senza impiego», diceva Bataille - riuscirà a placare l’ansia tutta umana di agire, combattere, costruire? La mosca non smette di ronzare, disturbando il pensiero; la storia continua...
La rivoluzione fuma l’oppio
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, La Lettura, 25.03.2018)
Se si guarda in faccia la crisi del pensiero rivoluzionario senza cercare scuse consolatorie, l’unica alternativa alla rassegnazione è la riscoperta della dimensione religiosa. Semplificando al massimo, si può riassumere così la densa riflessione che Romano Màdera, filosofo e psicoanalista, ha premesso alla riedizione del suo saggio Identità e feticismo del 1977, riposto ora con altri scritti dalle edizioni Mimesis con il titolo Sconfitta e utopia (pp. 236, e 20). La prospettiva millenaristica indicata da Karl Marx, nota Màdera, non discende affatto dalla sua pur lucida descrizione del capitalismo. Può quindi ritrovare un senso solo se reinnestata nel solco della tradizione giudaico-cristiana e indirizzata verso una «riforma della spiritualità mondiale». Che rivincita, per l’«oppio del popolo».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
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PER LA CRITICA DEL CAPITALISMO E DELLA SUA TEOLOGIA "MAMMONICA" (Benedetto XVI, "Deus caritas est", 2006).
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). L’ETICA CATTOLICA, LO SPIRITO DEL CAPITALISMO NARRATIVO, E LA SINDROME PARASSITARIA...
Far vivere l’albero degli ideali
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 11 novembre 2017)
Le comunità, le associazioni, i movimenti, le istituzioni e le imprese vivono grazie a molte forme di capitali. Una di queste è il capitale narrativo, una risorsa preziosa in molte organizzazioni, che diventa essenziale nei momenti di crisi e nei grandi cambiamenti dai quali dipendono la qualità del presente, la possibilità del futuro, la benedizione o la maledizione del passato. È quel patrimonio - cioè munus / dono dei padri - fatto di racconti, storie, scritti, a volte poesie, canti, miti. È un autentico capitale perché, come tutti i capitali, genera frutti e futuro. Se gli ideali della organizzazione o della comunità sono alti e ambiziosi, come accade in molte Organizzazioni a Movente Ideale (OMI), anche il suo capitale narrativo è grande. È una risorsa preziosa durante le prime difficoltà, quando raccontarsi l’un l’altro i grandi episodi di ieri dà il coraggio per continuare a sperare, credere, amare oggi.
Il capitale narrativo, poi, è anche il primo meccanismo di selezione dei nuovi membri dell’organizzazione o della comunità. Noi amiamo molte cose, ma soprattutto amiamo le storie meravigliose, quelle che risvegliano la parte più profonda e vera dell’anima, che ci fanno diventare migliori semplicemente ascoltandole. Più grandi sono i nostri ideali, più grande la nostra anima, più grande deve essere la promessa contenuta nel capitale narrativo per attivarci e farci diventare parte di quella stessa storia. Le storie piccole attraggono persone con desideri e ideali piccoli, le grandi storie conquistano le anime grandi, storie straordinarie attirano persone straordinarie.
Nei primi tempi della fondazione questo capitale narrativo è l’unico bene che una comunità possiede, soprattutto quelle comunità-movimenti che nascono da ideali spirituali - dentro e fuori le religioni. Ci si nutre della vita che si genera, delle prime storie e dei "miracoli", della vita e le parole dei fondatori che si vivono e si raccontano.
La nuova vita è immediatamente un vangelo, una buona nuova novella. Chi viene raggiunto da quella storia generativa vi riconosce il suo proprio racconto, passato e futuro. In quei primi tempi il tasso di accumulazione del capitale narrativo è molto alto, e la sua crescita è esponenziale. Nei primissimi anni, a volte nei primi mesi o giorni, si forma la gran parte di questo patrimonio speciale. La sua "produttività" è straordinaria e sbalorditiva: è sufficiente evocare, in ogni ambiente, quei primi racconti per assistere ad autentici miracoli, come e (a volte) più impressionanti dei primi. Dire e ripetere le frasi e i fatti dell’inizio produce effetti letteralmente straordinari, che oltre a far crescere la comunità alimenta in chi annuncia la convinzione della verità e forza dell’ideale annunciato, in un circolo virtuoso (storie-annuncio-frutti-rafforzamento-nuovo annuncio...) potentissimo e mirabile.
Se il "carisma" all’origine di queste esperienze è ricco e innovativo, e il fondatore è generoso e creativo, ci si può nutrire per decenni - per secoli - delle storie e delle parole dei primi tempi, senza avvertire il bisogno di aggiungerne neanche una nuova. Ma è dentro questa ricchezza che si sviluppa la cosiddetta sindrome parassitaria. Quasi inevitabilmente e sempre inintenzionalmente gli immensi frutti che generano i racconti del passato diventano un ostacolo alla creazione di nuovo capitale narrativo. E si comincia oggi a vivere con le rendite di ieri - come quell’imprenditore che smette di innovare e generare nuovo reddito perché vive molto bene delle rendite dei capitali del passato. Più è grande il primo capitale narrativo più lunga è la fase della vita alimentata dalla rendita. È questa una forma del cosiddetto "paradosso dell’abbondanza" (o "maledizione delle risorse"), quella trappola nella quale cadono Paesi ricchissimi grazie a una sola risorsa naturale, che finiscono per impoverirsi proprio a causa di quella enorme ricchezza.
Un fondatore e un carisma spiritualmente ricchissimi possono, senza né volerlo né saperlo, trasformarsi da "benedizione" in "maledizione" se la ricchezza spirituale del suo carisma fa scattare più facilmente e più velocemente la sindrome parassitaria (che può iniziare già durante la vita degli stessi fondatori che smettono di innovare per nutrirsi soprattutto del proprio passato). Perché, paradossalmente, più grande è la ricchezza spirituale, più è probabile che si attivi la sindrome parassitaria. Comunità con fondatori e carismi semplici hanno altri problemi, ma non conoscono la sindrome parassitaria, che è una tipica malattia della ricchezza.
Ma a differenza dei capitali finanziari o immobiliari, che possono consentire un flusso costante o crescente di rendita, i capitali narrativi se non vengono aggiornati e rinnovati iniziano a invecchiare e a ridursi. Per loro è massimamente vera la frase di Edgar Morin: «Ciò che non si rigenera degenera».
Un’obsolescenza/degenerazione che nei momenti di accelerazione della storia (come è il nostro) può essere estremamente e drammaticamente rapida. Da un giorno all’altro ci si ritrova con una grave carestia di storie da raccontare. Quei primi racconti che fino a ieri convincevano e convertivano, che erano il nostro grande tesoro, che ci avevano incantato e avevano fondato la nostra vita individuale e collettiva, diventano muti, freddi, morti. La distanza tra il linguaggio e le sfide del presente e i racconti del passato diventa enorme - i giovani sono, anche qui, sentinelle, i primi che segnalano la malattia.
Nelle storie ideali e carismatiche le prime storie continuano a parlare nella seconda e nelle future generazioni solo se accompagnate dalle seconde e terze storie. I francescani hanno tenuto vivo il francescanesimo e il cristianesimo aggiungendo le storie di Francesco a quelle dei Vangeli, e i francescani di oggi tengono vivo Francesco (e il Vangelo) aggiungendo i loro "atti" a quelli del Poverello di Assisi. Il primo patrimonio, il dono narrativo dei padri, non basta per continuare a vivere: è indispensabile anche il dono dei figli - che è anche dono per i padri, che riescono a non morire per sempre.
L’esaurimento del capitale narrativo è la causa più comune di crisi e di morte di una OMI. Non è facile sfuggire da questa sindrome mortale. Spesso ci si ammala e si soffre senza riuscire ad arrivare neanche alla diagnosi, e si attribuisce la crisi ad altre cause (mancanza di radicalità dei giovani, la cattiveria del mondo...). Altre volte si capisce che la crisi ha a che fare con la nostra incapacità di narrazione del cuore del carisma, si constata che il capitale narrativo non (ci) parla più, o non parla abbastanza, o parla alle persone sbagliate, ma si sbaglia la cura.
La cura errata più comune è l’aggiunta di nuove storie più facili da comprendere nel "secolo presente", ma che non hanno più il Dna della prima storia. Tanti finalmente capiscono, perché, semplicemente, stiamo raccontando un’altra storia. Così accade che una comunità nata da un carisma che voleva evangelizzare il mondo della famiglia, di fronte alla difficoltà di continuare a spiegare a loro stessi e a loro mondo le parole evangeliche della prima generazione, col tempo inizia a occuparsi di politiche familiari, adozioni, metodi naturali.
Queste nuove storie sono molto più vicine alla mutata sensibilità culturale, molto più facili da spiegare e da capire, più adatte per trovare finanziamenti e sostenitori. Ma il problema decisivo che si nasconde in simili operazioni, oggi comunissime, riguarda direttamente il capitale narrativo. La nuova associazione non può più utilizzare il primo capitale narrativo, che resta una risorsa per i soli archivi o per qualche frase per i biglietti di Natale. Qui non c’è innesto di nuove storie sul vecchio albero, ma soltanto la sostituzione del primo capitale narrativo con il nuovo. In certi casi, che sono una specie di questo stesso genere, in una prima fase la nuova parte del capitale narrativo cerca di mantenere il contatto con la sua componente originaria. Ma progressivamente le nuove storie di maggiore successo erodono le vecchie, fino a consumarle interamente.
Per molte persone queste trasformazione ed evoluzioni sono insite nella natura delle cose e della storia, ci sono sempre state, e sempre ci saranno. Altri, invece, vi vedono un problema grave e decisivo. Il nuovo capitale narrativo, semplice e facilmente comprensibile, non attrae vocazioni. La prima generazione era stata capace di conquistare persone disposte a dedicare la vita per quell’ideale, perché affascinate dalla profezia e dalla radicalità della promessa. Se la grande difficoltà di spiegare il primo messaggio genera progressivamente parole più semplici da capire perché depotenziate di carica ideale, ciò che accade è la trasformazione del tipo di persone attratte da quel messaggio. Quella persona che nella prima generazione aveva fatto di quell’ideale la o una dimensione identitaria della sua vita (questa è l’essenza di ogni vocazione) poco a poco scompare e al suo posto arrivano membri con una adesione sempre più leggera. In altre parole, il nuovo capitale narrativo non seleziona più vocazioni ma simpatizzanti, o lavoratori impiegati nelle opere (si spende la vita per Dio o per un mondo senza povertà, non per la "responsabilità sociale dell’impresa").
È così che si stanno estinguendo migliaia di comunità carismatiche e movimenti spirituali nati nel Novecento e nei secoli passati. Qualche volta dalla loro morte nascono nuove istituzioni, altre volte muoiono e basta, quando di fronte al probabile snaturamento dell’identità la comunità e i suoi responsabili reagiscono ostacolando o impedendo ogni aggiornamento del primo capitale narrativo. Si continuano a raccontare le prime storie, con lo stesso linguaggio, con le stesse parole che non affascinano più nessuno.
Un terzo esito, altrettanto infelice, è il riassorbimento del carisma dentro la tradizione che quel carisma avrebbe voluto innovare e cambiare. Di fronte alla difficoltà di spiegare, a se stessi e agli altri, il portato carismatico della propria comunità, si rinuncia alle componenti specifiche e nuove, e si "torna" a fare quelle stesse attività tradizionali che si volevano innovare - da giovani si voleva annunciare ad altre religioni e a non-credenti, da adulti si torna a fare catechismo per la cresima.
Questi e molti altri ancora sono gli scenari che approfondiremo e sviscereremo nelle prossime puntate di questa nuove serie. Cercheremo di capire quali buone strade di futuro esistono perché gli ideali possano continuare a nutrire la coscienza del mondo, perché l’innesto delle nuove storie sulle prime funzioni generi una nuova fioritura, nuovi frutti, nuovi colori. Ci chiederemo: è possibile davvero aggiornare, rigenerare, i capitali narrativi delle nostre comunità? Oppure la loro morte è inevitabile? Quali sono le trasformazioni generative? Come capire se stiamo tradendo la promessa o se la stiamo avverando? Domande e risposte difficili e rischiose, ma soprattutto necessarie.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO" .
CARISMA, COSTITUZIONE, E POLITICA: AL DI LA’ DELLA TRAPPOLA ATEA E DEVOTA.
LA CHIESA DI COSTANTINO, L’AMORE ("CHARITAS") E LA NASCITA DELLA DEMOCRAZIA DEI MODERNI. LA "CHARTA CHARITATIS" (1115), LA "MAGNA CHARTA" (1215) E LA FALSA "CARTA" DELLA "DEUS CARITAS EST" (2006).
PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA TEOLOGIA "MAMMONICA" (Benedetto XVI, "Deus caritas est"). Al di là della semantica e del paradigma degli affari e del "caro-prezzo" ("caritas").
PER UNA "ECONOMIA CIVILE" E UNA TEOLOGIA "CIVILE"!!!
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
THEILARD DE CHARDIN. La “Messa sul mondo” e la suggestione di un’Eucarestia cosmica ...:
CHIESA
Dimensione eucaristica
La Messa della vita
di EDMONDO CESARINI*
Nell’Ultima Cena, Cristo ai discepoli offrì il pane (che può essere preso a simbolo della materialità e miseria umana), esortandoli a parteciparne, perché “quello era il Suo Corpo”. Poi offrì loro il vino (che può essere preso a simbolo della sofferenza e vitalità umana) invitandoli ad accettarlo, perché “quello era il Suo Sangue” .
La nostra vita è spesso tessuta di materia e miseria, sofferenza ed impegno, e spesso ci allontana dalla dimensione religiosa. Ma la partecipazione all’eucarestia sull’altare deve insegnarci ed indurci invece a fare della nostra stessa vita una “Messa”, in cui la nostra umanità - “frutto della natura e delle esperienze dell’uomo” - diviene corpo di Cristo. (1Cor 12,27), formando così la pienezza del Corpo di Lui (Ef, 1,23) che cresce appunto mediante l’attività di ognuno nella carità (Ef 4,16).
Questo è il nostro compito di cristiani: sotto l’azione dello Spirito, attuare la pienezza del corpo. Oserei dire che tutta la materialità, la sofferenza, l’impegno della vita umana è la materia - il pane ed il vino - del sacramento cosmico con cui l’umanità è chiamata a divenire corpo di Cristo.
La “Messa sul mondo” di Teilhard de Chardin continua ad affascinare generazioni di cristiani, con la sua suggestione di un’Eucarestia cosmica; ma si potrebbe riflettere anche sull’espressione “Messa del mondo” o meglio ancora “Messa della vita”.
L’unica riflessione seria sull’essere o non essere cristiani è quella sulla “dimensione eucaristica”, che è sempre meno nel rito e sempre più nella vita.
In effetti noi siamo sacerdoti chiamati ed impegnati a transustanziare la realtà d’ogni giorno nella realtà metastorica del Corpo di Cristo.
Ma affinché sia parte di una celebrazione eucaristica, ogni nostro momento di vita va anzitutto “offerto”. Offerto al Padre, alla sua Volontà, al suo Progetto di amore su di noi, anche se spesso non ne abbiamo coscienza, o addirittura lo rifiutiamo.
Quest’offerta non è facile, perché la dinamica dell’offerta implica saper accettare e poi saper rinunciare all’oggetto della nostra offerta. Accettare la vita, i suoi problemi, le sofferenze, le limitazioni, la malattia, i fallimenti, ecc. è difficile, a volte sembra impossibile. Per questo ci arrabbiamo, ci deprimiamo, ci disperiamo, evadiamo con varie “droghe”, rifiutiamo la nostra vita, noi stessi, ci ribelliamo, non la “accettiamo”.
Ma anche per i momenti vissuti come “belli”, quelli di godimento, soddisfazione, successo, ecc. è difficile “l’accettazione”, cioè il sentirli “come un dono” dal Padre, dalle vicende della vita, dalle relazioni col prossimo; piuttosto crediamo che siano “cosa nostra”, il nostro tesoro geloso, guai a chi ce lo tocca... Insomma, in genere, gli eventi della vita cerchiamo o di rifiutarli o di appropriarcene. Raramente di accettarli: ma non si può offrire se non quello che si è accettato.
Solo sulla parte della nostra vita che sappiamo “offrire” possiamo pronunciare l’epiclesi, e può verificarsi la discesa dello Spirito. Lo Spirito è l’amore, lo Spirito è il vero, e opera negli eventi della nostra vita spingendoci ad agire la carità nella verità (e non c’è comunque l’una senza l’altra).
Ogni nostro evento di vita ha una sua Verità (cioè il progetto esistenziale di crescita cui è destinato) e questa va attuata con la carità.
Celebrare la Messa della vita implica l’attribuzione di sacralità e progettualità ad ogni momento dell’esistenza, affinché vivendolo nella carità possa partecipare alla costituzione di quella realtà metastorica che è la Chiesa, il Corpo di Cristo.
È naturalmente la ricerca costante della gioia nel crescere umanamente (“affinché la vostra gioia sia piena”) piuttosto che del piacere nel godimento momentaneo, un impegno costante ad utilizzare le opere ed i giorni per costruire, un’attenzione costante a vincere il tempo che passa, radicando gli atti vitali in una dimensione “su cui la morte non ha vittoria”.
Celebrare l’Eucarestia della vita “cambia la sostanza stessa della realtà”, diceva s. Giovanni Crisostomo: la “transustanzia”...
Occorre fare della propria vita una celebrazione eucaristica, per cui la nostra umanità si rende disponibile ad esprimere l’amore, diventando così corpo di Cristo.
Per fare questo, siamo nati. Ogni atto relazionale, ogni rapporto tra esseri umani può essere una “celebrazione eucaristica”. In ogni incontro “di due o tre in Suo nome” è presente Cristo e da ogni incontro può venire l’impegno ad un reciproco miglioramento, che è lo scopo del suo corpo, la Chiesa.
Si può cioè agire la consacrazione e la comunione. Noi riusciamo - in genere - a partecipare una volta a settimana all’eucarestia sull’altare, fondamento di tutte le relazioni umane, ma siamo ancora molto lontani dal partecipare all’eucarestia in ognuna delle relazioni umane, che pure ne sono l’effettiva sostanza. Dovremmo sempre ricordare “la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità” insite in ogni rapporto umano.
Celebrare l’eucaristia nella vita è agire il perdono e l’amore. Con il perdono, il male che è stato non è stato più, cambia sostanza, diventa bene, come nella consacrazione in cui il pane diventa corpo. Con l’amore si costruisce il bene futuro. Come nella comunione, per cui la nostra partecipazione al corpo ci impegna alla relazionalità creativa, che è fonte di bene.
Ma amare non è “vogliamoci bene” e perdonare non è “scordiamoci il passato”: perdono e amore sono una modalità dell’agire umano molto più esistenzialmente significativa, costruttiva, produttiva, difficile anche.
Perdonare significa annullare il male che è stato; amare significa costruire il bene che ancora non c’è. Annichilire quello che è stato/creare quello che non c’è: operazioni divine per eccellenza. «Io faccio nuove tutte le cose», dice l’Agnello nell’Apocalisse.
La Messa della vita non è una pratica devozionale, un pio esercizio di spiritualità, come era una volta “la messa secca” di buona memoria (l’imitazione della messa fatta dai fedeli colti non consacrati). L’eucaristia della vita è la reale, concreta, ontologicamente vera, attuazione del corpo di Cristo in questa dimensione esistenziale terrena.
Come in un corpo vivente ogni cellula ha il Dna che definisce tutto l’organismo, così ogni essere umano- cellula del corpo, come diceva s. Paolo - può realizzare con la sua vita la dimensione esistenziale di Cristo, essere Cristo. Questa è la sconvolgente grandezza del messaggio cristiano, del buon messaggio, dell’ev-angelo: possiamo essere sacerdoti che attuano con la loro vita la Chiesa, Corpo di Cristo.
* coordinatore della sezione romana dell’Associazione nazionale Teilhard de Chardin
* Adista - Segni Nuovi, 19 NOVEMBRE 2016 • N. 40
IDEE
Ricoeur, l’etica chiede l’estetica
Di Maurizio Schoepflin (Avvenire, 22.09.2007)
Scomparso all’età di 92 anni a Parigi nel maggio del 2005, Paul Ricoeur è stato uno dei filosofi più interessanti del Novecento e soprattutto negli ultimi anni la sua fama è venuta crescendo. Protagonista di un percorso speculativo rivelatosi abbastanza complesso e condizionato da numerose differenti influenze, egli si presenta come un autore di non facile interpretazione. In questo volume, il padre gesuita Giovanni Cucci, docente presso l’Università Gregoriana, sviluppa una delle possibile prospettive secondo cui affrontare la lettura dell’opera ricoeuriana, quella che la mette in relazione con la psicanalisi e il messaggio freudiano nella sua globalità. La scelta di tale prospettiva ha condotto l’autore a privilegiare l’ambito della vita morale: «Tra gli innumerevoli argomenti trattati dal nostro autore - scrive Cucci - si è scelto di concentrare l’attenzione sul tema dell’etica, guidati dalla convinzione che il suo modo stesso di fare filosofia sia essenzialmente "pratico", nel senso di una riflessione che nasce da una pratica lasciando emergere la vita nel suo svolgersi». Per altro è stata proprio la psicanalisi a proporsi come portatrice della possibilità di mettere radicalmente in dubbio l’esistenza stessa, nella vita dell’uomo, di una sfera morale. Ricoeur accetta questa sfida e giunge a riconfermare il carattere strettamente etico del soggetto.
A questa fondamentale e costitutiva eticità egli attribuisce un’originale valenza estetica: «Ciò che sembra alla fine trasparire - sostiene Cucci a questo proposito - come filo rosso della sua ricerca è il carattere «estetico» della proposta etica, teso cioè a rilevare la bellezza di una vita buona, animata dal desiderio di realizzare le proprie possibilità nell’incontro con l’altro; in altre parole l’impegno nei confronti dell’altro scaturisce dalla bellezza riscontrata in questo stile di vita». La filosofia ricoeuriana reca un timbro ottimistico e il libro di Cucci offre di ciò una spiegazione chiara e suggestiva. Afferma infatti l’autore a tale riguardo: «Di fronte ad una quasi monotona e persistente proclamazione di una crisi diffusa del nostro tempo, a livello di etica, dei valori, della società, del pensiero, del linguaggio, della relazione, della legalità, dell’uomo, la produzione di Ricoeur si pone come una sfida accattivante, l’invito a riconoscere un orizzonte di senso da cui nasce un agire capace di rendere "bella" e "buona" la propria vita».
Giovanni Cucci
Ricoeur oltre Freud
L’etica verso un’estetica
Cittadella. Pagine 432. Euro 21
Una risposta al discorso di Vienna del Papa
di Stefania Salomone
Vienna, 16:58
IL PAPA IN AUSTRIA: LA SPIRITUALITA’ NON DIVENTI UN BUSINESS
’’Le vostre abbazie e i vostri monasteri non diventino soltanto luoghi di cultura e di tradizione o addirittura semplici aziende economiche’’. Lo ha chiesto il Papa ai monaci austriaci, visitando l’abbazia di Heiligenkreutz, a 30 chilometri da Vienna. ’’Struttura, organizzazione ed economia - ha detto - sono necessarie anche nella Chiesa, ma non sono la cosa essenziale. Un monastero è soprattutto un luogo di forza spirituale’’. Così ’’i monaci non pregano innanzitutto per questa o quella cosa, ma semplicemente perché Dio merita di essere adorato’’. Nella vita dei monaci, ha continuato, ’’la preghiera ha una speciale importanza: è il centro del loro impegno professionale. Essi esercitano la professione dell’orante che è anche un servizio sacro per gli uomini e una testimonianza per loro’’. Infatti, ’’ogni uomo porta nell’intimo del suo cuore, consapevolmente o in modo inconscio, la nostalgia di un definitivo appagamento, della massima felicità, quindi, in fondo, di Dio. Un monastero, in cui la comunità si raduna più volte al giorno per lodare Dio, testimonia - ha affermato Ratzinger - che questo originario desiderio umano non cade nel vuoto: come un’oasi spirituale indica al mondo di oggi la cosa più importante, anzi, la sola decisiva: esiste una ragione ultima, per cui vale la pena di vivere, cioè Dio e il suo amore imperscrutabile". *
La risposta di Stefania Salomone
Potremmo soffermarci già sul primo concetto: "Alla chiesa sono necessarie struttura, organizzazione ed economia".
Non mi sovviene nessun passo del Vangelo in cui si affermi una tale eresia.
Il danno incalcolabile che il concetto di "struttura" ha arrecato alla chiesa di Cristo è enorme e doloroso, se per struttura si intende una forma gerarchica di qualche tipo. Stessa cosa vale per l’organizzazione. Non parliamo poi della parola "economia", che nel popolo di Dio non trova una collocazione logica, né spirituale di sorta.
Il viaggio del papa a Vienna, per rimanere in tema, è costato 6,8 milioni di dollari, senza contare le spese che lo stato ha affrontato per garantire la sicurezza del corteo papale (l’ha affermato il Cardinale Schoenborn di Vienna). E’ grazie a questa struttura organizzativa FONDAMENTALE che cifre di questo genere vengono volatilizzate sotto gli occhi dei due terzi del mondo che muore di fame. Certo che non sono essenziali, ci mancherebbe! Ma esistono. E non dovrebbero.
Veniamo al punto centrale del discorso del papa: "Adorare Dio".
Lodare Dio è cosa buona, ce l’ha insegnato Gesù. Adorarlo... è cosa meno buona. Gesù non l’ha fatto, almeno non ce n’è traccia. Perché continuiamo ad andare da tutt’altra parte rispetto all’unica direzione possibile? La via è segnata, è chiara. Ce ne stiamo di fronte agli ostensori ripetendo dentro di noi "quello è Gesù". Perché? Perché così ci hanno detto. Contro ogni evidenza, contro ogni tradizione, contro ogni logica. E ci prostriamo più in basso che possiamo per essere graditi a lui. E mentre noi ce ne stiamo faccia a terra per collezionare più bollini possibili per il paradiso, alle nostre spalle si dileggia il vangelo con anatemi, scomuniche, ori e lussi.
Perché non abbiamo neanche il coraggio di guardarlo in faccia questo Signore nell’ostensorio? Sarebbe già un bel passo avanti. Che se ne fa Dio di un popolo che non può camminare perché ha la schiena spezzata e la bocca secca a furia di pronunciare frasi inutili e blasfeme?
La dimensione orante, di cui si parla, si esprime concretamente nella vita, nella storia. Non esiste orazione più inutile di quella pronunziata in aria, verso il cielo, che non abbia la forza necessaria per tornare a terra, dove ci sono i fratelli. Sento preghiere di benedizione prima dei pasti che recitano: "Signore benedici questo cibo e provvedi a coloro che non ne hanno". Ma si possono dire cose più irresponsabili? E noi che ci stiamo a fare? Siamo noi che dobbiamo provvedere a coloro che non ne hanno.... Questa è la preghiera standard dei monasteri.
O ancora: "Benedici tutti coloro che ci fanno del bene nel tuo nome". E quelli che ci fanno del male? Cose dell’altro mondo...
Il definitivo appagamento, la massima felicità... Di cosa parliamo? Vogliamo ingraziarci il nostro Dio come se fosse un totem, un portafortuna... Facciamo dire la messa per i defunti affinché la loro permanenza in purgatorio sia di minor durata possibile... Vogliamo mercanteggiare l’amore di Dio. "Se faccio dire 10 messe (pagando), l’anima del defunto acquista 10 punti in misericordia divina". Ma dove stiamo andando?
Se Dio è amore, può essere così? Strutturato, organizzato, economo... NON CI CREDO.
Una lettura mistica della Pasqua cristiana.
Tra Hegel e antichi riti
Beati coloro che risorgono senza morire
di Marco Vannini (la Repubblica, 18.04.2014)
Al primo plenilunio dopo l’equinozio di marzo le antiche comunità pastorali e agricole festeggiavano il passaggio dalla morte dell’inverno alla vita della primavera: perciò a quella data fu posto anche il mitico passaggio - la Pasqua, appunto - degli ebrei dall’Egitto. Pasqua è in effetti la festa del commovente, davvero “miracoloso” rifiorire della vegetazione e, insieme, del risorgere delle forze vitali, generative, in tutti i viventi. Lo indicano chiaramente i suoi simboli: dalle uova ai coniglietti, simpatici animaletti ben noti soprattutto per la loro solerzia sessuale. Del resto nel Nord Europa la festa ancora mantiene il nome Easter, Oster, che viene da Ostara, dea pagana della fecondità.
Non deve perciò stupire che anche nella storia del cristianesimo questo sfondo vitale e sessuale sia stato a lungo presente. Pensiamo al cosiddetto risus paschalis, ovvero la celebrazione liturgica con rapporti carnali, imitati o reali, tra turpiloquio e lazzi osceni che sollazzavano i fedeli nelle chiese proprio nel giorno di Pasqua. Documentato fin dall’alto medioevo, il risus paschalis è proseguito, soprattutto in Germania, fino al Ventesimo secolo, e anche ai nostri giorni c’è chi lo giustifica quale sana espressione popolare di quel piacere sessuale che proprio nella “gioia” pasquale avrebbe un fondamento teologico.
In effetti la resurrezione dei/dai morti, antichissima fantasia apocalittica giudaica, non aveva altro senso che quello di riproporre la vita fisica, e non c’è dubbio che della vita fisica l’esercizio della sessualità sia manifestazione essenziale. Non a caso nell’islamismo la felicità dei risorti ha il culmine nell’infinito reiterarsi del piacere sessuale, le cui modalità il Corano descrive in dettaglio, e in Israele i sadducei, che non credevano alla resurrezione, domandano a Gesù di chi sarà moglie, dopo la resurrezione, appunto, una donna che ha avuto più mariti: la vita beata dei risorti era pensata soprattutto come vita matrimoniale, sessuale.
La risposta evangelica a questa domanda è però sconcertante: a prendere moglie o marito sono i figli di questo mondo, ma quelli che saranno degni del mondo futuro non prendono moglie o marito e neppure possono morire, perché sono come angeli, già risorti. Dio è infatti Dio non dei morti, ma dei vivi ( Lc20, 24 s.).
L’idea giudaica della resurrezione dei morti nel tempo finale è spostata dal mito alla realtà, ovvero sul piano di una resurrezione che avviene in questa vita, per la quale non si può più morire, perché la morte è già avvenuta. Questa morte è la morte dell’egoità, come quella del chicco di grano, che deve morire per portare frutto: è «odiare la propria anima», «rinunciare a se stessi», e la resurrezione è il «nascere di nuovo», dall’alto, non dal ventre materno ma dallo spirito, sperimentando la nuova vita, la vita dello spirito, appunto, come si legge nel vangelo di Giovanni.
Lo comprese bene Hegel: non quella che inorridisce davanti alla morte, ma quella che sopporta la morte e in essa si mantiene è la vita dello spirito; è proprio nell’assoluta lacerazione che lo spirito trova se stesso, «magica forza che sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui, capace di volgere il negativo nell’essere ». Occorre infatti non pensare il male, comprendere tutto quanto, anche quel che c’è di più lacerante, il tradimento da parte di chi ami: allora v’è spirito, si è spirito, ovvero il finito diviene infinito, il divino non più altro, ma tu stesso. «Nella notte in cui fu tradita, la sostanza divenne soggetto», scrive il filosofo tedesco, trasferendo nell’universale, col linguaggio speculativo della sua Fenomenologia dello spirito , la vicenda particolare della Passione di Cristo.
Passione, morte e resurrezione hanno evangelicamente un significato non mitico ma reale, non fisico ma spirituale, per cui la resurrezione è quella rinascita come spirito che pone nella dimensione dell’eterno. «Prima che Abramo fosse, io sono», dice Gesù ai giudei ( Gv 8, 58), esprimendo l’esperienza fondamentale di ogni tradizione spirituale: quella di essere già qui e ora nell’essere, nell’eterno.
Appena ci si distacca da ciò che è transitorio, il nostro amore si estende a tutto il mondo, si scopre davvero come idem amor et spiritus sanctus e la gioia di tutte le creature diventa la nostra stessa infinita, estatica letizia. «Di questo Tutto, nel distacco, gioisci», esortano anche le Upanishad.
È un fatto, peraltro, che la primitiva comunità cristiana si costituì sul fondamento delle attese apocalittiche, per cui le apparizioni di Cristo dopo la morte furono interpretate proprio nel senso di una resurrezione, prova e pegno della resurrezione finale. Questa però fu più una costruzione teologica che un fatto reale. La resurrezione di Cristo non ha avuto testimoni, ha un carattere segreto: da solo, prima che facesse giorno. Egli compare alle donne e agli apostoli già “risorto”.
È un evento spirituale, non uno spettacolo dimostrativo: Noli me tangere , dice alla Maddalena, quasi a prendere le distanze da ogni fisicità e a mostrare che non è in atto alcun ripristino della corporeità. Cristo è apparso dopo la morte solo ai suoi amici e solo da essi viene riconosciuto. Il brano con cui Giovanni chiude il suo vangelo è determinante: a Tommaso, che crede solo dopo che e perché ha veduto il risorto, Gesù dice che beati sono quelli che credono senza aver veduto. Essi infatti hanno sperimentato interiormente la resurrezione, in loro soltanto v’è conoscenza dello spirito e della sua beatitudine.
Si comprende allora quanto fuorviante sia l’idea della resurrezione di Cristo come segno definitivo della sua divinità, della verità esclusiva della fede cristiana, e, insieme, come garanzia della finale resurrezione dei morti.
Questo è il prodotto di Paolo, quel “funesto cervellaccio”, come lo chiamò Nietzsche, che non comprese il messaggio evangelico della morte dell’anima e della rinascita nello spirito e costruì un dysanghelion, una cattiva novella, appoggiandosi a quella apocalittica giudaica. Se non c’è la resurrezione dai morti, neanche Cristo è resuscitato, scrive infatti (1 Cor 15, 17) mostrando come l’idea della resurrezione di Cristo dipenda da quella della resurrezione dai morti, propria della mitologia apocalittica.
In parallelo, l’affermazione paolina per cui vana è la nostra fede se Cristo non è risorto, mostra un concetto di fede non come esperienza spirituale interiore, la cui verità è testimoniata dalla coscienza, ma come credenza estrinseca, la cui verità dipende dal miracolo.
E ciò è quanto di più antievangelico ci sia: nel vangelo infatti la ricerca del miracolo è sempre condannata come mancanza di fede, adorazione della forza, dunque non di Dio ma del demonio. La cosa è chiara proprio dalla resurrezione: proporla come una sorta di super-miracolo per convincere gli increduli è tipico dei falsi profeti, degli impostori. Secondo un’antica e ben documentata tradizione, era infatti Simon Mago ad organizzare resurrezioni di morti “dimostrative” della propria messianicità ed uno dei segni della fine dei tempi sarà proprio la messa in scena della propria, peraltro falsa, resurrezione da parte dell’ingannatore supremo, l’Anticristo.