DELLA CAPACITA’ TRASCENDENTALE DI GIUDIZIO IN GENERALE
di Immanuel Kant *
Se l’intelletto, in generale, viene definito come la facoltà delle regole, la capacità di giudizio è allora la facoltà di s u s s u m e re sotto regole, cioè di distinguere se qualcosa cada o no sotto una data regola (casus datae legis).
La logica generale non contiene affatto norme per la capacità di giudizio, e neppure può contenerne. Difatti, in quanto essa astrae da ogni contenuto della conoscenza, non le rimane allora null’altro da fare, che dilucidare analiticamente la semplice forma della conoscenza nei concetti, giudizi, inferenze, e costituire cosí le regole formali di ogni uso dell’intelletto.
Ora, se la logica generale volesse mostrare universalmente, come si debba sussumere sotto queste regole, cioè come si debba distinguere se qualcosa cada o no sotto di esse, ciò non potrebbe accadere altrimenti che di nuovo attraverso una regola. Questa peraltro, proprio per il fatto che è una regola, richiede nuovamente un ammaestramento della capacità di giudizio; ed allora risulta chiaro, che l’intelletto è bensí capace di venir istruito e provveduto mediante regole, ma che la capacità di giudizio è un talento particolare, il quale non può essere insegnato, ma può soltanto essere esercitato.
La capacità di giudizio è quindi altresí l’elemento specifico del cosiddetto ingegno naturale, la cui mancanza non può trovare alcun rimedio nella scuola. In effetti, sebbene la scuola possa doviziosamente porgere e, per cosí dire, inoculare, ad un intelletto limitato, regole prese a prestito dalla conoscenza altrui, tuttavia la facoltà di servirsi rettamente di esse deve appartenere allo scolaro stesso, e nessuna regola, che possa essergli prescritta in questo scopo, si sottrarrà all’abuso, quando manchi una delle dote naturale (l).
Perciò un medico, un giudice, o un uomo politico, può avere in capo molte belle regole patologiche, giuridiche o politiche, al punto da poter diventare egli stesso un profondo insegnante in proposito, e tuttavia cade facilmente in errore nell’applicazione di esse, o perché manca di capacità naturale di giudizio (sebbene non manchi d’intelletto), ed egli può sì intendere l’universale in abstracto, ma non sa distinguere se un caso in concreto sia subordinato ad esso, o anche per il fatto che egli non è stato sufficientemente addestrato per questo giudizio, mediante esempi e pratica diretta. Questa è anche la sola e grande utilità degli esempi: il fatto, cioè, che essi acuiscono la capacità di giudizio.
In effetti, per quanto riguarda la correttezza e la precisione della comprensione intellettuale, gli esempi piuttosto recano di solito un certo danno, poiché solo di rado essi soddisfano adeguatamente alla condizione della regola (come casus in terminis), oltre al fatto che essi indeboliscono spesso lo sforzo dell’intelletto per cogliere, universalmente e indipendentemente dalle circostanze particolari dell’esperienza, le regole nella loro adeguatezza, e perciò abituano infine ad usare tali regole piú come formule che come proposizioni fondamentali. Gli esempi sono cosí le dande della capacità di giudizio, delle quali non potrà mai fare a meno colui che manchi del talento naturale di tale capacità.
Peraltro, sebbene la logica generale non possa fornire alcuna norma alla capacità di giudizio, le cose stanno tuttavia ben diversamente riguardo alla logica trascendentale, cosicché sembra quasi, che quest’ultima abbia, come suo vero e proprio compito, il correggere e il garantire - mediante regole determinate - la capacità di giudizio nell’uso dell’intelletto puro.
In effetti, come mezzo per procurare all’intelletto un’estensione nel campo delle conoscenze pure a priori, e quindi come dottrina, la filosofia non sembra affatto necessaria, o piuttosto, sembra essere male applicata, poiché in tal modo si è guadagnato poco o punto terreno, nonostante tutti i precedenti tentativi; al contrario, come critica, per prevenire i passi falsi della capacità di giudizio (lapsus judicii) nell’uso dei pochi concetti puri dell’intelletto che noi possediamo, la filosofia viene impiegata a questo fine (sebbene l’utilità sia in tal caso solo negativa) in tutta la sua acutezza ed abilità indagatrice.
La peculiarità detta filosofia trascendentale consiste tuttavia nel fatto che oltre alla regola (o piuttosto alla condizione universale di regole), la quale viene data nel concetto puro dell’intelletto, essa può al tempo stesso indicare a priori il caso, cui tali regole debbono essere applicate.
La causa della preminenza, che a questo riguardo essa ha su tutte le altre scienze didattiche (al di fuori della matematica), sta per l’appunto nel fatto, che essa tratta di concetti, i quali debbono riferirsi a priori ai loro oggetti, cosicché la validità oggettiva di tali concetti non può cssere mostrata a posteriori, póiché tale prova non toccherebbe per nulla la loro dignità.
La filosofia trascendentale, piuttosto, deve esporre al tempo stesso - secondo caratteristiche universali ma sufficienti - le condizioni sotto cui gti oggetti possono venir dati in accordo con quei concetti; in caso contrario, questi ultimi sarebbero privi di qualsiasi contenuto, quindi semplici forme logiche e non già concetti puri dell’intelletto.
Questa dottrina trascendentale della capacità di giudizio conterrà dunque due capitoli: il p r i m o tratta della condizione sensibile, che è la sola sotto cui possano venir usati i concetti puri dell’intelletto, cioè tratta dello schematismo dell’intelletto puro; il s e c o n d o, invece, tratta dei giudizi sintetici, che discendono, sotto queste condizioni a priori, dai concetti puri dell’intelletto, e stanno a fondamento di tutte le altre conoscenze a priori, ossia tratta delle proposizioni fondarnentali dell’intelletto puro.
1. La mancanza di capacità di giudizio è propriamente ciò che si chiama stupidità, e contro tale difetto non c’è assolutamente rimedio. Un cervello ottuso o limitato, cui non manchi nulla se non una misura conveniente di intelletto e una precisione nei concetti dell’intelletto, può certo agguerrirsi con lo studio, sino a raggiungere anche l’erudizione. Tuttavia, poiché in tal caso manca di solito altresí il giudizio (secunda Petri), si incontrano non di rado uomini assai eruditi, che nell’uso della loro scienza lasciano spesso scorgere quel difetto giammai emendabile.
* I. Kant, Critica della ragione pura, Adelphi edizioni, Milano 1979, pp. 214-217 (Analitica trasc. - Libro II. Introduzione). L’espressione "secunda Petri", che per Kant vale "Giudizio", rimanda a Pietro Ramo e alla sua "Logica".
PAOLO DI TARSO, L’ASTUTO APOSTOLO DELLA GRAZIA ("CHARIS") E DELL’ AMORE ("CHARITAS"), E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO-ROMANO! UNA NOTA
di Federico La Sala *
*
Si cfr.: Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide, Ripostes, Roma-Salerno 2001, pp.23-25.
NOTA
AL DI SOPRA DI TUTTO LA LEGGE, LA COSTITUZIONE, O "L’UOMO SUPREMO"?! LA "CHARITAS" O LA "CARITAS"?!
LA PAROLA DEL VESCOVO (Mauro Russotto): "[...] In questa prima mia riflessione desidero soffermarmi sul motto episcopale del Vescovo Giovanni [Jacono],
con il quale abbiamo voluto titolare il bollettino:
Super omnia charitas. Si tratta delle parole che
San Paolo scrive nella Lettera ai Colossesi: «al di
sopra di tutto vi sia la carità» (Col 3,14). La ca-
rità è la dimensione e la virtù che sopravvive alla
stessa fede e alla speranza. Perché la carità è Dio,
è il nome nuovo di Dio... Deus charitas est [1 Gv. 4.8, giovanneo - non paolino, fls]. E
dunque Super omnia charitas è la nuova paolina formulazione del primo comandamento del decalogo di Mosè: Dio è l’Unico ed è sopra e al di
sopra di tutto!"
(Cfr.
SVPER OMNIA CHARITAS - N. 1 •GIUGNO 2009,PERIODICO DELLA POSTULAZIONE DELLA CAUSA DI CANONIZZAZIONE DEL SERVO DI DIO MONS. GIOVANNI JACONO).
EQUIVOCATO O EQUIVOCO? BENEDETTO XVI O BERLUSCONI, NESSUNO COMPRERA’ LE NOSTRE PAROLE
"DUE SOLI".... Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", Così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!!
Federico La Sala
IL "DIO DI AMORE" DI (OVIDIO E) BRUNETTO LATINI E "L’AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE" DI DANTE.... *
Su Brunetto Latini, “Poesie”, a cura di Stefano Carrai
di Claudio Giunta (Domenicale del Sole 24 ore, 20 marzo 2016)
Il Tesoretto di Brunetto Latini non è certamente quel misconosciuto «capolavoro della letteratura allegorica» che diceva Jauss (ma come mai lo abbiamo preso sul serio?), ma è un modo eccellente per avvicinarsi alla poesia dei primi secoli; e questa nuova edizione a cura di Stefano Carrai è un modo eccellente per avvicinarsi al Tesoretto.
Si tratta di un poemetto, 2944 versi in tutto, scritto da Brunetto Latini al principio degli anni Settanta del Duecento. È uno strano ibrido. Comincia come un racconto di viaggio (il poeta-protagonista si trova a Roncisvalle, e qui incontra uno studente bolognese che gli comunica la sconfitta dei guelfi a Montaperti), prosegue come un trattato didascalico (la Natura personificata illustra al poeta l’ordinamento del cielo e della terra), poi come un trattato morale (il poeta incontra in successione le virtù, il dio d’Amore, il poeta Ovidio), e finisce con una bizzarra ‘Penitenza’, circa 500 versi in cui Brunetto riflette sulla caducità delle cose umane ed esorta un amico a cambiare vita come lui l’ha cambiata («che sai che sén tenuti», scrive, «un poco mondanetti»); dopodiché il racconto riprende e il protagonista si trova sul monte Olimpo, dove incontra il grande Tolomeo, «maestro di storlomia». Qui il testo s’interrompe di colpo.
Al di là però del contenuto, né originale né profondo, e al di là dello stile, senza veneri (anche perché imprigionato in una gabbia metrica da filastrocca: coppie di settenari a rima baciata), il Tesoretto è un testo interessantissimo perché è davvero un repertorio di topoi immaginativi, un campione di medievalità: c’è il viaggio nella foresta, c’è un mondo fantastico all’interno del quale il personaggio-poeta può dialogare via via con la Natura, con Ovidio o con Tolomeo, ci sono le ipostasi delle virtù e delle percezioni, che pescano dall’identico immaginario da cui hanno pescato gli sceneggiatori di Inside Out (Desianza=Joy, Paura=Fear): «Desïanza ... sforza malamente / d’aver presentemente / la cosa disïata / ed è sì disvïata / che non cura d’onore / né morte né romore, / se non che la Paura / la tira ciascun’ora, / sì che non osa gire / né solo un motto dire».
Il commento di Carrai è un commento esatto e intelligente. Sembra poco, ma è tantissimo, perché i commenti alla poesia (e soprattutto alla poesia antica) sono spesso un po’ stupidi. Chi ha studiato per anni un autore o un testo non si rassegna facilmente a farsi da parte, cioè a tacere una volta chiarito ciò che nel testo c’è da chiarire, ed eventualmente a far riflettere il lettore su ciò che il testo può dire sul suo autore o sulla mentalità dell’epoca in cui venne scritto: non si rassegna, gli viene, come diceva il dottor Johnson, «la fregola di dire qualcosa anche quando non c’è nulla da dire», o peggio - e la cosa è specialmente frequente nel campo della medievistica - gli viene la fregola di trovare verità nascoste, di sciogliere gli enigmi, il che porta spesso a postulare enigmi là dove non ce ne sono, onde una ridda di ipotesi e contro-ipotesi da stancare un causidico. E poi, a riempire le pagine, valanghe di ‘riscontri intertestuali’, come se importasse qualcosa che il poeta X ha preso quella parola dal poeta Y o dal poeta Z. Carrai invece non scaraventa sul lettore tutto il contenuto delle sue schede, spiega il testo dove occorre, e dove non riesce a spiegare prospetta delle ipotesi d’interpretazione, appoggiandosi - per consentire o per dissentire - a chi del Tesoretto si è occupato prima di lui.
Al Tesoretto Carrai fa seguire, com’è consuetudine, il Favolello, che è un altro breve poemetto in settenari baciati, più pedestre nel contenuto (è uno scialbo trattatello sull’amicizia), ma interessante soprattutto perché cita come amici-destinatari due rimatori contemporanei, Rustico Filippi e Palamidesse di Bellindote. E al Favolello segue, nel volume (che appunto per questo s’intitola Poesie: è l’opera omnia in volgare italiano di Brunetto), l’unica canzone di Brunetto che ci venga tramandata dai manoscritti, S’eo son distretto, strana poesia d’amore e devozione che alcuni hanno interpretato come un documento dell’omosessualità dell’autore (con ovvi riflessi sull’interpretazione di Inferno XV) e altri, direi più plausibilmente, come canto nostalgico per la patria, Firenze, dal quale il guelfo Brunetto viene bandito dopo Montaperti.
Manca, e avrebbe invece dovuto esserci, la canzone responsiva di Bondie Dietaiuti (così, nel Medioevo, si dissolvevano le tenzoni poetiche: gli scribi copiavano i corpora personali degli autori obliterando i testi missivi e responsivi dei loro corrispondenti, che in questo modo si disperdevano; ma in un’edizione moderna non si vede perché le tenzoni non debbano essere date nella loro integrità).
Il discorso sul Tesoretto e sul Favolello non è chiuso. Sono testi facili solo all’apparenza, specie a causa delle contorsioni che il metro e lo schema delle rime impongono all’autore. Di certi hapax resta poco chiaro, nonostante lo sforzo degli interpreti, il significato. Altri termini sono ambigui (per esempio non parafraserei con ‘verità’, con Contini e Carrai, il drittura di Favolello 7 «e fàllati drittura»: ‘giustizia’, che è il senso che drittura ha usualmente, mi pare più aderente al contesto). E certi passi dovranno forse essere riconsiderati in una futura edizione critica. Per esempio, ai vv. 1275-79 tutti gli editori postulano un (credo inattestato altrove) ablativo assoluto: «E vidi ne la corte, / là dentro, fra le porte, / quattro donne reali / che corte principali / tenean ragione ed uso». Dove «corte principali» vorrebbe dire ‘nella prima corte’. Ma dato che le «donne» di cui si parla sono virtù, e che principales è l’aggettivo che nel Medioevo spesso si predica delle virtù, in genere le cardinali, ci si deve domandare se la lezione corretta non sia piuttosto, con minimo emendamento, «come principali», cioè ‘come signore, regine di quella corte di giustizia’ (e sarebbe un altro errore d’archetipo, da aggiungere a quelli registrati da Pozzi e Contini nei Poeti del Duecento).
Forse potremmo chiudere, invece, il discorso sui rapporti tra Brunetto e Dante, salvo che non saltino fuori nuovi testi che permettano di riconsiderare sotto nuova luce la questione. Questione che è nota ad ogni studente liceale: Dante mette Brunetto all’Inferno, tra i sodomiti, ma non dice nulla della sua colpa (il che sorprende fino a un certo punto, dato che non sempre Dante lo fa), né di questa colpa si parla nelle fonti che non dipendono da Dante (il che non sorprende per niente: ci si aspetta che l’omicidio o la simonia lascino traccia nelle cronache, non necessariamente le inclinazioni sessuali).
Sodomia va allora inteso figuratamente, come ‘peccato contro la propria lingua materna’ (perché Brunetto, fiorentino, ha scritto il suo Tresor in francese)? Oppure come peccato politico (perché Brunetto non avrebbe «riconosciuto la sacra autorità dell’Impero»)? Mi sembra che la soluzione proposta da Zanato e ora da Carrai resti la più sensata: dato che Brunetto ci appare in compagnia di «Prisciano, Francesco Accursio e Andrea de’ Mozzi, [cioè] del gruppo di intellettuali, perlopiù pedagoghi ed ecclesiastici, che si sono resi colpevoli di pratiche omosessuali», non c’è ragione di pensare che lui non si sia macchiato dello stesso - non metaforico - peccato.
Non andrei oltre; né speculerei, per le ragioni che ho già accennato, sulla ‘memoria’ della poesia brunettiana nel canto XV. Il poeta Brunetto non aveva niente da insegnare a Dante, perché il peggior Dante (per esempio quello un po’ lezioso di Inferno IV: «Venimmo al piè d’un nobile castello, / sette volte cerchiato d’alte mura, / difeso intorno d’un bel fiumicello...») è migliore del migliore Brunetto. E l’idea che quando Dante mette in scena un altro poeta si serva - attraverso accorte allusioni - delle parole che quel poeta ha adoperato nelle sue opere mi sembra davvero un’idea tutta nostra, un’idea da filologi moderni, che mettiamo a forza nella testa di scrittori molto meno sottili di noi.
E questo vale anche per la testimonianza che molti (anche Carrai) considerano più probante: l’avvio del canto XV, «Ora cen porta l’un de’ duri margini...», nel quale si condenserebbero «gli echi di mosse identiche del Tesoretto, vv. 1183-84 “Or va mastro Burnetto / per un sentiero stretto”, e 2181-82 “Or si ne va il maestro / per lo camino a destro”». Ma direi di no: è una formula di transizione che si trova molte volte nella poesia narrativa francese, per esempio nel Girart de Rossillon («Ere s’en vait Girarz egal solel / per un estreit sender...» (l’identica immagine del sentiero stretto che si trova in Brunetto Latini), nella chanson de toile Gaiete et Oriour («Or s’an vat Oriour stinte et marrie»), nel Macaire franco-veneto, «Ora se voit sor un corant destrer». Langue, insomma, non parole, come nella poesia medievale capita non dico sempre, ma quasi.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". DANTE "corre" fortissimo, supera i secoli, e oltrepassa HEGEL.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
ARACNE, FILOMELA, E TRE ARAZZI. Arte e resistenza: ascoltare la voce della spoletta ... *
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Tessere come smascheramento: disfare la violenza dello stupro
La tela di Aracne apre il libro sesto delle Metamorfosi, la storia di Filomela lo chiude.
Per entrambe queste donne, tessere rappresenta lo smascheramento dei "misteri sacri" e il disfare la violenza dello stupro. Prima che la dea adirata Atena (Minerva) stracci la stoffa tessuta da Aracne, la tessitrice, donna mortale, racconta su di essa una storia molto particolare: quella delle donne stuprate da dèi che si mutano in bestie. Prima dell’intervento della dea gelosa, Aracne è il centro di una comunità femminile.
Insuperabile nella sua arte, Aracne è così piena di grazia che donne da ogni luogo vengono da lei per vederla cardare, filare, tessere. Attorno a lei si radunano altre donne che guardano, parlano, lavorano, riposano. Qui il telaio rappresenta un’occasione per creare comunità e pace, un contesto in cui è possibile, per il piacere, essere non violento e non possessivo.
In questo Aracne ricorda Saffo, che pure era il centro di una comunità di donne e a cui similmente Ovidio riserva un vicolo cieco, adottando la tradizione che tenta di sminuire la poetessa facendola morire suicida poiché respinta da un uomo. Ciò che sopravvive del lavoro di Saffo e gli studi successivi respingono come falsa questa ipotesi.
E’ solo facendo uno sforzo di interpretazione che noi oggi possiamo suggerire che Aracne, la donna artista, non si impiccò come ci racconta la storia, ma fu linciata. Il suicidio è un surrogato dell’omicidio. Aracne è distrutta dal suo stesso strumento quando esso è nelle mani della dea irata.
Ma chi è Atena? Non realmente femmina, giacché emerge, priva di madre, dalla testa del padre, una fantasia maschile che si fa carne, che strangola la voce delle donne reali. Lei è la figlia vergine il cui scudo è la testa di un’altra vittima donna, Medusa. Atena è la pseudo-donna che racconta la storia del giusto ordine.
Centrali, nel suo arazzo, sono gli dei in tutta la loro gloria, ma ai quattro angoli della tela, all’interno del bordo di rami d’olivo, Atena tesse un ammonimento alla donna artista, affinché essa non resista all’autorità ed alla gerarchia: in colori brillanti, quattro figure dicono "Pericolo!".
L’errore di Aracne è solo apparentemente l’orgoglio per la propria arte (che è pienamente giustificato: Aracne vince la gara); in verità, lei è in pericolo perché racconta una storia pericolosa. Fra le donne rappresentate nel suo arazzo c’è la stessa Medusa.
Raccontare lo stupro di Medusa da parte di Poseidone è suggerire ciò che può nascondere il mito per cui la donna muta gli uomini in pietra. Il luogo del crimine era l’altare di un tempio di Atena. Il retroterra del crimine era la necessità della città di scegliere un dio per darsi nome e ciò che usualmente viene rappresentato come una rivalità fra Poseidone ed Atena per ottenere tale onore.
Medusa fu stuprata o sacrificata sull’altare di Atena? Fu la donna "punita" da Atena, o fu uccisa durante una crisi, come offerta della città di Atene ad una dea "adirata", proprio come Ifigenia fu sacrificata ad una Artemide assetata di sangue? Dietro alla testa decapitata della donna, che Perseo usa per mutare gli uomini in pietra, c’è l’antica Gorgone, la maschera apotropaica rituale che segnava gli angoli dei camini nelle case ateniesi.
La Medusa mitica può ricordare una reale vittima sacrificale: dietro la testa che tramuta in pietra gli uomini, potrebbe esserci una donna lapidata a morte dagli uomini. E, anche qui, la responsabilità deve cadere su un’altra "donna", Atena.
La storia viene erotizzata dal collocare la violenza fra uomini e donne, e Freud, nella sua equazione "decapitazione = castrazione" rinforza e sviluppa la misoginia presente nel sacrificio mitico. Se Medusa è divenuta una figura centrale con cui ogni donna artista deve fare i conti è perché, ella stessa ridotta al silenzio, Medusa è stata usata per ridurre al silenzio altre donne.
Aracne, narrando sulla tela le storie delle donne stuprate da dei mutati in bestie, demistifica gli dei (il sacro) e li rivela come bestie (la violenza). Ovidio può raccontare la sua versione della storia solo perché la versione della donna è stata strappata in pezzi e lei stessa ricondotta ad uno stato "naturale".
Proprio come Freud, terrorizzato dalla "donna-come-madre" e dalla donna tessitrice, usa la psicoanalisi per riportare le donne ad un’identificazione con la "natura", così il mito usa Atena affinché trasformi Aracne in un ragno repellente, che potrà tessere tele puramente letterali, disegni incomprensibili. La metamorfosi, così come la psicoanalisi nelle mani di Freud, rovescia la direzione della violenza: Medusa, come Aracne, spaventa e minaccia gli uomini.
Il ragno femmina intrappola e divora i maschi che si accoppiano con lei... Lo strumento della tessitrice, la spoletta, viene usato per ridurla al silenzio. Ma non viene usato per zittire l’artista maschio, che si appropria dell’abilità femminile quale metafora per la propria stessa abilità.
Quale strumento di violenza, Atena è un’estensione di Zeus. La vendetta sulla donna artista, che usa il telaio per raccontare storie che non ci è permesso di udire se non sono mediate dagli uomini, non è una vendetta degli dei, è una vendetta culturale.
Quando Filomela comincia a tessere durante il suo lungo anno di prigionia, non è solo la sua sofferenza che la muove ad un nuovo uso del telaio, ma lo specifico scopo di essere udita da sua sorella. Come strumento che lega e connette il telaio (o la spoletta che è una sua parte) ri-membra e aggiusta ciò che la violenza riduce in pezzi: il legame fra sorelle, il potere della donna di parlare, la forma della comunità, la comunicazione. La guerra ed il tessere sono antitetici.
Ma il mito ci chiede di credere che, dopo il suo lungo e paziente sforzo, Filomela sia disposta a trasformare il suo lavoro al telaio in vendetta immediata. Ci si chiede di credere, dopo che Filomela ha trasformato la prigione in laboratorio e la disciplina domestica in un anno di lotta, che tutto ciò l’ha lasciata immutata, che la sua scoperta non ha il potere di cambiare nulla.
E il mito ci chiede di credere che dopo un anno di pianto sulla tomba della sorella, Procne sia disposta non ad un rito di riunione, ma ad uno di omicidio. L’alternativa più importante suggerita dall’arazzo di Filomela non è mai stata considerata: il potere del testo di insegnare all’uomo a conoscere se stesso.
E’ il barbaro Tereo o è il cittadino greco che risponde alla storia tessuta dalla donna con la violenza? All’interno della tradizione greca, il mito è stato usato per insegnare alle donne il pericolo insito nella nostra capacità di vendicarci. Ma se il mito istruisce, così come è istruttivo l’arazzo di Filomela, allora ci dice anche che possiamo insegnare a noi stesse, all’interno del potere dell’arte, le forme della resistenza.
E’ il tentativo di negare che il tessere di Filomela poteva avere altri fini a parte la vendetta che rende il mito così pericoloso, perché esso tenta di persuaderci al considerare la violenza inevitabile e l’arte debole... ma è lo stesso mito a testimoniare contro se stesso, perché se l’arte di Aracne e Filomela fosse davvero stata così debole, non sarebbe stata repressa con violenza così estrema. [...]
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Federico La Sala
A novant’anni dal Concordato firmato da Mussolini e Pio XI
Stato-Chiesa, i nodi irrisolti
di Chiara Saraceno (Il Mulino, 11 febbraio 2019)
Sono trascorsi novant’anni da quando, l’11 febbraio 1929, i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica sono stati regolati da un concordato. Un tempo sufficientemente lungo per consentire un bilancio e per verificare se non sia opportuna una nuova revisione, dopo quella operata nel febbraio 1984 sotto il governo Craxi, con la duplice parziale correzione sia dei Patti lateranensi sia del concordato vero e proprio. Una revisione e una correzione, peraltro, dagli esiti ambigui.
In primo luogo, ancora oggi rimane in vigore la norma secondo la quale - nel matrimonio concordatario - in caso di annullamento la norma canonica prevale su quella civile, nonostante i criteri (oltre che i giudici) che presiedono all’annullamento religioso siano difformi da quelli che presiedono all’annullamento civile.
Inoltre, l’eliminazione della clausola che riconosceva alla religione cattolica la condizione di religione di Stato non ha eliminato affatto l’obbligo per lo Stato di garantire l’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche e, anzi, lo estendeva alle scuole materne, escludendo solo l’università. Il costo finanziario per lo Stato di tale obbligo - sotto forma di stipendi pagati a insegnanti reclutati non dallo Stato bensì dalla Chiesa cattolica - è stato stimato in 1,25 miliardi di euro l’anno. Per mantenere una schiera numerosa di insegnanti di religione a fronte di una crescente diminuzione di coloro che ne frequentano l’insegnamento, raramente viene utilizzata la possibilità, pure prevista dalle modifiche del 1984, di accorpare le classi.
Peraltro, anche la modifica da una condizione di obbligatorietà per gli studenti a partecipare alle lezioni di religione, salva una richiesta di esenzione, alla facoltà di decidere se avvalersene o meno è rimasta in condizione di ambiguità.
L’insegnamento di religione, infatti, fa parte a pieno titolo dell’orario scolastico e può essere collocato in qualsiasi posizione, a prescindere dal numero di studenti per classe che se ne avvale. L’insegnante di religione partecipa a pieno titolo al collegio dei docenti e il suo voto "fa media". Quanto agli studenti che scelgono di non frequentare religione, inclusi i bambini della scuola materna, sono loro a dover uscire di classe per partecipare ad attività alternative più o meno fasulle, lasciate alla discrezione e alla buona volontà dell’insegnante loro assegnato. Ma senza avere l’alternativa di un’ora di scuola in meno, salvo che casualmente l’ora di religione sia messa alla prima o all’ultima ora. Una situazione apparentemente migliore rispetto a quando gli "esonerati" passavano l’ora di religione in corridoio.
Di fatto, tuttavia, chi "non si avvale" dell’insegnamento della religione cattolica continua ad avere meno diritti, in termini di risorse dedicate, di chi "si avvale". Mentre i loro genitori - tramite le imposte - finanziano l’insegnamento della religione cattolica.
Del tutto in contrasto con l’obiettivo del finanziamento da parte dei fedeli si è rivelato il meccanismo dell’8 per mille. In linea di principio, il passaggio dalla congrua - ovvero dal sostentamento del clero direttamente a carico dello Stato, appunto al finanziamento da parte dei fedeli tramite la devoluzione di una quota delle imposte dovute - è stato molto positivo.
Tuttavia, la formulazione di questa norma si è prestata nel tempo e tuttora si presta a un enorme imbroglio a carico dei contribuenti.
In base alla legge 222/85, infatti, ogni cittadino che presenta la dichiarazione dei redditi può scegliere la destinazione dell’8 per mille del proprio gettito Irpef a un’istituzione religiosa che con lo Stato ha stipulato vuoi, come nel caso della Chiesa cattolica, un concordato, vuoi un’intesa, oppure scegliere di destinarlo allo Stato. Mentre all’inizio l’opzione era ristretta a quella tra Stato e Chiesa cattolica, oggi si può scegliere tra tredici alternative: Stato (per scopi sociali e assistenziali), Chiesa cattolica, Unione chiese cristiane avventiste del 7° giorno, Assemblee di Dio in Italia, Unione delle chiese metodiste e valdesi, Chiesa evangelica luterana in Italia, Unione comunità ebraiche Italiane, Unione buddhista, Unione induista, Chiesa apostolica, Sacra diocesi ortodossa d’Italia, Unione cristiana evangelica battista d’Italia e infine, dal 2017, l’istituto buddista italiano Soka gakkai.
Il problema è che non viene attribuita a ciascuna istituzione solo la quota dell’8 per mille per la quale i contribuenti hanno effettuato una scelta precisa - come avviene per il 5 per mille destinato a associazioni non profit - ma anche la quota non specificamente attribuita viene suddivisa in base alle percentuali delle scelte effettuate. Chi non sceglie, ritenendo ingenuamente che il suo 8 per mille rimanga allo Stato, di fatto subisce le preferenze di chi invece lo ha fatto. Stante che negli anni il numero di coloro che effettuano una scelta è progressivamente diminuito ma la priorità delle scelte è rimasta per la Chiesa Cattolica, questa si prende anche il grosso della quota di chi non ha inteso designarla come beneficiaria.
In base agli ultimi dati disponibili - riferiti alle dichiarazioni dei redditi effettuate nel 2015 - solo il 44% degli oltre quaranta milioni di contribuenti aveva espresso una scelta e solo il 35% per la Chiesa cattolica, la quale, tuttavia, in base a una distribuzione proporzionale dell’intero ammontare dell’8 per mille ne ha ricevuto l’81,21% , pari a 1.005.390.045 euro. Anche le altre Chiese ricevono beneficio da questo meccanismo a dir poco ambiguo, anche se si tratta di briciole. Si aggiunga che, a differenza di quanto fanno molte Chiese, lo Stato non pubblicizza neppure l’opzione a proprio favore, e tantomeno esplicita a che cosa destinerebbe l’eventuale gettito, contribuendo all’opacità del tutto e generando sfiducia.
Non vi è, inoltre, l’opzione di destinare il proprio 8 per mille ad associazioni che si battono per la laicità dello stato o che sostengono l’ateismo, mettendo, di nuovo, i cittadini in condizioni di disuguaglianza rispetto alla possibilità di sostenere finanziariamente il proprio orientamento rispetto al fenomeno religioso. Possono farlo solo destinando il 5 per mille, che è normato diversamente.
Alla luce di questi e altri aspetti altamente problematici per la laicità dello Stato, l’uguaglianza dei cittadini (anche minorenni), la trasparenza nei rapporti tra Stato e cittadini, in questi giorni un gruppo di 150 esponenti del mondo della cultura e difensori dei diritti civili ha firmato un appello al Parlamento, al governo, alle forze politiche, affinché - in attesa di tempi più favorevoli a una radicale revisione, se non al superamento, del Concordato - si intervenga per dare almeno piena attuazione alle finalità degli accordi del 1984, con l’abolizione dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica e la revisione degli attuali criteri di ripartizione della quota "non destinata" dell’8 per mille. A queste due richieste si aggiunge quella di un’azione determinata per dare attuazione alla recente sentenza della Corte europea, recuperando nella misura del possibile l’Ici non pagata in passato, 4-5 miliardi di euro. Si tratta, a me pare, di proposte civili e rispettose della reciproca autonomia tra Stato e Chiese. Ma sono sicura che - se non sepolte dal silenzio imbarazzato dei media "laici" - saranno oggetto di anatemi di vario tipo.
EVANGELO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ... *
Il caso italiano
Il sacro dovere e la sua torsione populista
di Francesco Palermo (Il Mulino, 31 gennaio 2019)
La Costituzione è il perimetro entro il quale la politica si muove, o meglio, si dovrebbe muovere, con le proprie scelte discrezionali. È il ring nel quale il legittimo conflitto di idee si svolge, o si dovrebbe svolgere, secondo regole prestabilite, la cui interpretazione è affidata ad arbitri, a organismi super partes, i più importanti dei quali sono la Corte costituzionale e il presidente della Repubblica. È, pertanto, non solo legittimo ma anzi doveroso che la politica ricorra ad argomentazioni costituzionali per giustificare le proprie azioni e le proprie tesi, perché solo dentro la Costituzione può svolgersi la politica.
La Costituzione è, per certi aspetti, la versione laica del principio di esclusività tipico della religione: "non avrai altro Dio all’infuori di me". E non può esserci politica al di fuori della Costituzione. Come troppo spesso accade anche con la religione, però, non è raro che i precetti vengano piegati a interpretazioni funzionali alla preferenza politica del momento. E che tale torsione venga compiuta non già dagli arbitri, bensì dai giocatori.
Un esempio di particolare interesse si è registrato in questi giorni, quando il ministro dell’Interno ha invocato l’articolo 52 della Costituzione per giustificare la propria politica in materia di sbarchi. Nelle due vicende, seppur diverse tra loro, della nave Diciotti da un lato (per la quale pende una richiesta di autorizzazione a procedere nei suoi confronti) e della nave Sea watch dall’altro (la cui vertenza, di fatto, è ancora aperta), il ministro Salvini ha rivendicato la scelta di negare l’accesso ai porti italiani come un obbligo costituzionale, fondato sul "sacro dovere" di ciascun cittadino alla "difesa della patria", previsto appunto dall’articolo 52.
Tale disposizione non ha, naturalmente, nulla a che vedere con le questioni di cui si tratta. Il suo ambito di riferimento è esclusivamente la difesa militare, come si evince dai lavori preparatori e dagli altri commi dell’articolo, che prevedono rispettivamente l’obbligatorietà del servizio militare, nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge, e la natura democratica dell’ordinamento delle forze armate. È per questo che l’articolo 52 non fu oggetto di particolare dibattito in assemblea costituente, impegnata a sottolineare il carattere pacifista della Carta. Non a caso, il testo che uscì come definitivo è praticamente identico a quello della prima bozza, caso rarissimo nei lavori della Costituente. Tutti erano d’accordo su una previsione che doveva dare copertura costituzionale al servizio militare e alle forze armate.
Il ministro dell’Interno trasforma invece quella previsione - estrapolandola dal contesto - in una sorta di diritto di resistenza. Peraltro ponendolo in capo al governo, ossia all’organo contro il quale il diritto di resistenza si esercita, nei pochi ordinamenti in cui è previsto. Non solo.
Il richiamo al "sacro dovere" della "difesa della patria" ha una forte portata simbolica. In primo luogo, la formulazione è nota anche ai cittadini meno familiari con la Costituzione, quindi suona plausibile. In secondo luogo, richiama il gergo militare, anche grazie all’espressione ottocentesca della disposizione ("sacro dovere"), figlia di un’epoca in cui la guerra era ancora drammaticamente presente negli occhi e nelle menti dei costituenti.
Soprattutto, l’invocazione di quel segmento dell’articolo 52 è un abile gioco retorico: prima lo stacca dal contesto militare in cui è collocato, poi lo rimette in tale contesto, facendo intuire che "l’invasione" dei profughi sia un atto di guerra nei confronti del Paese, contro cui occorre difendersi. Anche militarmente. Dunque senza essere soggetti alla Costituzione, ma al diritto eccezionale del tempo di guerra, in cui vale quasi tutto.
Il rischio di una simile operazione, per quanto scaltra sotto il profilo politico e mediatico, è quello di depotenziare il carattere normativo della Costituzione, di eroderne il ruolo di perimetro dell’attività politica, di limite e parametro della stessa. Un’erosione di cui questo caso è solo il più recente di una lunga serie di esempi, che porta a cancellare la funzione di garanzia della politica che è il compito principale della Carta costituzionale.
Non può sfuggire la pericolosità di questo crinale (o almeno non dovrebbe sfuggire, ma evidentemente per alcuni non è così). E infatti l’operazione politica che distorce il significato della Carta funziona proprio in quanto alla gran parte degli elettori questo ruolo della Costituzione sfugge.
Si continua così a ballare sulla nave che affonda. Dimenticando che in questo caso non è quella dei migranti, ma quella della Carta su cui si fonda il nostro stesso ordinamento in quanto democrazia. Una nave su cui siamo imbarcati tutti.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
Federico La Sala
Oggi sarà una giornata eccezionale
Nel ricordo di un testimone *
di L’Osservatore Romano, 24 gennaio 2019
Uno dei pochi testimoni ancora in vita è Guido Gusso - in quel periodo “aiutante di camera” del Papa - che accompagnò Giovanni XXIII a San Paolo e assistette allo storico annuncio.
Ci racconta cosa è successo quel giorno?: una giornata eccezionale, nel ricordo di un testimone.
Ricordo proprio bene quel giorno, il 25 gennaio 1959. Ho dato una mano al Santo Padre a mettersi i paramenti, cioè il rocchetto e la mozzetta. E lui mi ha detto: «Guido, prendi il rocchetto più bello perché oggi sarà una giornata eccezionale, ché dovrò dare un grande annuncio». Allora ho messo a posto tutto, il mantello rosso, il cappello rosso e siamo scesi per prendere l’auto.
Guidava lei?
La portava il cavalier Angelo Stoppa, che era l’autista di Papa Pacelli. Durante il percorso, il Papa si era come assorto, non parlava. Normalmente, lui parlava sempre... ma quel giorno, quella mattina, tutto in silenzio. Siamo arrivati a San Paolo, c’è stata la cerimonia, e poi ha invitato tutti i cardinali ad andare nella “saletta”, una piccola aula. E là mi sono fermato anch’io, perché avevo il cappello, il mantello e la borsa. E lui ha annunciato che avrebbe fatto un sinodo, il Sinodo romano, che il Sinodo sarebbe quello per i preti. Già a Venezia l’aveva fatto, perché io stavo a Venezia con lui. Poi, dopo aver parlato un po’ del Sinodo disse: «Vi debbo dare un grande annuncio: indirò un Concilio». Al momento c’è stato un «ohhhhh!», e poi un silenzio di tomba. Nessuno ha più parlato. E poi c’è stato un brontolio generale... Lui ha spiegato... e poi ha detto anche che doveva fare un’altra cosa...
La riforma del Codice.
La riforma del Codice, ecco. Ha spiegato un po’, e tutti sono andati via, ognuno per conto suo. Il Papa è salito in macchina, serio. E disse: «Non l’hanno presa bene: questa cosa del Concilio a nessuno gli garbava». E basta. Poi siamo tornati a casa. Allora, in camera da letto, mentre si levava il rocchetto, la mozzetta e tutti i paramenti che aveva addosso, io gli chiesi: «Santità, io sono ignorante, non so che cosa sia questo Concilio». «Eh - diceva - come non lo sai?». «No - dissi - ma mi consola che quel cardinale che stava vicino a me ha chiesto al suo collega: “Di’ un po’, ma che è ‘st’affare del Concilio, che non so che cosa sia?”». Allora lui, con pazienza, mi ha fatto sedere nel suo studio e mi ha spiegato i Concili, incominciando dai primi Concili che facevano all’epoca, mi pare secondo o terzo secolo, per arrivare poi al Concilio di Trento e all’ultimo, il concilio Vaticano I, che poi è stato sospeso, perché c’è stata la presa di Roma con Pio IX.
Quindi, alla fine, quel giorno lui era contento o no?
Era contento, altroché contento! È stata un’ispirazione, diceva: «È ora che la Chiesa si modernizzi, con i tempi moderni che abbiamo. Perché noi siamo ancora ancorati al Concilio di Trento. Pertanto la Chiesa si deve rinnovare, si deve adattare ai tempi». Questo era quello che voleva.
E si è meravigliato della reazione dei cardinali?
No... Lo sapeva... Mi ha detto: «Già incominciano a tirarmi le pietre. Stai attento, tu, nella vita ti può capitare come capita a me, che mi tirano i sassi. Non raccattarli, eh?». Era buono, era buono. E posso dire, dopo sessant’anni ci voleva un argentino come Francesco per valorizzare e dare impulso al grande Concilio fatto. È stato grande Paolo VI che l’ha portato avanti, perché credo che chiunque altro avrebbe messo da parte tutto.
Cos’altro disse durante il viaggio di ritorno in Vaticano?
Non ha detto «a»; non ha detto «a». Solo qualche parola con monsignor Capovilla. Però, posso dire che lui per il Concilio ha dato la vita. Poi, l’11 ottobre è stato grandioso: l’apertura, era contento! Lui sperava di poterlo anche chiudere. Purtroppo è morto, per un brutto male. Ha sofferto molto.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
Federico La Sala
COME IL BUON-GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").... *
Messaggio.
Il Papa: ecco la Rete che vogliamo. Per liberare, non intrappolare
Oggi, memoria di san Francesco di Sales, pubblicato il Messaggio di papa Francesco per la Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali che sarà celebrata il 2 giugno
di Gianni Cardinale (Avvenire, giovedì 24 gennaio 2019)
Internet «rappresenta una possibilità straordinaria di accesso al sapere», ma è anche «uno dei luoghi più esposti alla disinformazione e alla distorsione consapevole e mirata dei fatti e delle relazioni interpersonali, che spesso assumono la forma del discredito». La rete poi «è un’occasione per promuovere l’incontro con gli altri», ma «può anche potenziare il nostro autoisolamento, come una ragnatela capace di intrappolare». Ecco quindi che il web deve essere fatto non «per intrappolare, ma per liberare».
Lo scrive papa Francesco nel Messaggio, diffuso oggi, per la 53ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali che quest’anno si celebra, in molti Paesi, domenica 2 giugno, Solennità dell’Ascensione del Signore.
Il Messaggio del Pontefice è pubblicato come da tradizione nel giorno in cui la Chiesa celebra la memoria liturgica di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti. Ed ha come titolo «’Siamo membra gli uni degli altri’ (Ef 4,25). Dalle social network communities alla comunità umana» (IL TESTO INTEGRALE).
Nel testo il Pontefice denuncia l’uso dei social per fomentare "spirali di odio" e "ogni tipo di pregiudizio", nonché i rischi del cyberbullismo, del narcisismo e dell’autoisolamento che porta al fenomeno degli "eremiti sociali". Papa Francesco inoltre ribadisce che la rete deve fondarsi "sulla verità" e non "sui like".
Per Papa Francesco «le reti sociali, se per un verso servono a collegarci di più, a farci ritrovare e aiutare gli uni gli altri, per l’altro si prestano anche ad un uso manipolatorio dei dati personali, finalizzato a ottenere vantaggi sul piano politico o economico, senza il dovuto rispetto della persona e dei suoi diritti». Senza contare che «tra i più giovani le statistiche rivelano che un ragazzo su quattro è coinvolto in episodi di cyberbullismo».
Usando la metafora della rete come comunità, il Pontefice osserva come «nello scenario attuale, la social network community non sia automaticamente sinonimo di comunità». Infatti «nei casi migliori le community riescono a dare prova di coesione e solidarietà, ma spesso rimangono solo aggregati di individui che si riconoscono intorno a interessi o argomenti caratterizzati da legami deboli».
Come ritrovare allora «la vera identità comunitaria nella consapevolezza della responsabilità che abbiamo gli universo gli altri anche nella rete online?».
Una possibile risposta, scrive papa Francesco, «può essere abbozzata» a partire da un’altra metafora, quella del corpo e delle membra, che san Paolo usa nella Lettera agli Efesini «per parlare della relazione di reciprocità tra le persone, fondata in un organismo che le unisce». Infatti «l’essere membra gli uni degli altri è la motivazione profonda, con la quale l’Apostolo esorta a deporre la menzogna e a dire la verità: l’obbligo a custodire la verità nasce dall’esigenza di non smentire la reciproca relazione di comunione».
Per il Pontefice «l’immagine del corpo e delle membra ci ricorda che l’uso del social web è complementare all’incontro in carne e ossa, che vive attraverso il corpo, il cuore, gli occhi, lo sguardo, il respiro dell’altro». Così quando «la rete è usata come prolungamento o come attesa di tale incontro, allora non tradisce se stessa e rimane una risorsa per la comunione». Quando «una famiglia usa la rete per essere più collegata, per poi incontrarsi a tavola e guardarsi negli occhi, allora è una risorsa». Quando «una comunità ecclesiale coordina la propria attività attraverso la rete, per poi celebrare l’Eucaristia insieme, allora è una risorsa». Quando “la rete è occasione per avvicinarmi a storie ed esperienze di bellezza o di sofferenza fisicamente lontane da me, per pregare insieme e insieme cercare il bene nella riscoperta di ciò che ci unisce, allora è una risorsa”.
La «rete che vogliamo» conclude papa Francesco è «la strada al dialogo, all’incontro, al sorriso, alla carezza...». Una rete insomma «non fatta per intrappolare, ma per liberare, per custodire una comunione di persone libere». E la Chiesa stessa «è una rete tessuta dalla comunione eucaristica, dove l’unione non si fonda sui ‘like’, ma sulla verità, sull’’amen’, con cui ognuno aderisce al Corpo di Cristo, accogliendo gli altri».
Il Messaggio del Pontefice ha raccolto il plauso di Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, segretario generale e presidente della Federazione della Stampa: "È un’esortazione e un invito alla riflessione".
Vedi anche: Ecco la nuova App Cei per restare informati sulla vita della Chiesa e non solo
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"Dominus Iesus": RATZINGER, LO "STERMINATORE DI ECUMENISMO". Un ’vecchio’ commento del teologo francescano Leonard Boff
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.
Federico La Sala
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito... *
L’esilio e la promessa...
Ricordare è verbo di futuro
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 1 dicembre 2018)
Sono i segni religiosi quelli che più incidono la terra e dicono il carattere di una cultura. Templi, altari, edicole, croci, steli separano nel territorio il sacro dal profano, rivelano e danno nomi e vocazioni alle terre, trasformano gli spazi in luoghi. La terra porta iscritte nelle sue ferite i nostri vizi e le nostre virtù. Accoglie mite le nostre tracce, si lascia, mansueta, associare alle nostre sorti, e con una sua misteriosa e reale reciprocità comunica con noi. Tra le note della profezia c’è anche la capacità di interpretate il linguaggio della creazione, di raccontarcelo, di parlare al nostro posto e in nostro nome. Cosa direbbero, oggi, i profeti di fronte piaghe che stiamo producendo nel nostro pianeta? Quali parole di fuoco pronunzierebbero di fronte alle nostre "alture" popolate di idoli? Come profetizzerebbero davanti alle nostre miopie e ai nostri egoismi collettivi? Forse griderebbero, comporrebbero nuovi poemi, canterebbero, cantano, Laudato si’.
«Mi fu quindi rivolta questa parola del Signore: "Figlio dell’uomo, volgiti verso i monti d’Israele e profetizza contro di essi: Monti d’Israele, udite la parola del Signore Dio. Così dice il Signore Dio ai monti e alle colline, alle gole e alle valli: Ecco, manderò sopra di voi la spada e distruggerò le vostre alture"» (Ezechiele 6,1-3). Ezechiele profetizza contro i monti, resi complici innocenti delle infedeltà del popolo. Quelle colline, quelle valli e gole sono anche simbolo di quella creazione che "geme" in attesa di esseri umani suoi degni custodi. Sono gli animali, piante, suolo e sottosuolo, oceani e mari, che ogni giorno, e ogni giorno di più, subiscono le conseguenze della trasformazione della nostra vocazione da accudimento in tirannia. I profeti parlano anche per loro e al loro posto - ancora in mezzo tra terra e uomo, tra uomini e cielo, mediatori inchiodati su croci come messaggi di carne.
Fn dal suo primo insediamento in Caanan, il popolo di Israele ha sentito costantemente la seduzione dei culti cananei. Forte era il fascino di quegli dèi semplici, naturali, scanditi dai ritmi e dalle immagini della fertilità, e che si potevano vedere, raffigurare, toccare, ha avvertito la tentazione della loro prostituzione sacra che, sulle alture, offriva vie immediate di unione con le divinità. E se non ci fossero stati i profeti, YHWH, il nome del loro Dio diverso e unico, con il passare del tempo sarebbe diventato uno dei tanti nomi uno dei tanti dèi dei molti pantheon dei popoli vicini e vincitori. I profeti sono amici di Dio e amici dell’uomo, che ripetono: l’uomo è diverso perché Dio è diverso. Tengono alto e trascendente Dio per tenere più alto possibile l’uomo, per non ridurlo a consumatore-consumato di idoli manufatti. I profeti fanno sì che la naturale contaminazione che una fede riceve dall’incontro con gli altri popoli, non superi una soglia critica e faccia perdere il filo rosso dell’alleanza e dell’anima collettiva.
Senza il contagio religioso con Babilonia, con l’Egitto e coi popoli cananei, non avremmo molte pagine, bellissime, della Bibbia. Ma se quella fertilizzazione mutua fosse entrata nelle midolla e nel cuore della Promessa, del Sinai, della Legge e del Patto, quel popolo diverso dalla fede diversa sarebbe stato riassorbito nelle religioni naturali del Vicino Oriente. Il profeta è sentinella anche perché suona la tromba e dà l’allarme quando la contaminazione supera il punto critico e diventa assimilazione e sincretismo. E sa che c’è un luogo dove queste contaminazioni non possono e non devono entrare: il tempio, il luogo che custodisce la nostra storia più intima, l’altare del patto, il cuore del nostro nome. E, come conseguenza, il popolo di Israele non deve entrare nei templi degli altri popoli e adorare le loro divinità. Non solo perché quei popoli sono adoratori di idoli (Israele non ha sempre pensato che tutti gli altri dèi fossero idoli), ma perché il giorno che un popolo inizia a entrare e pregare in più di un tempio sta dicendo che, in fondo, non crede davvero a nessun dio (come quell’uomo che dicendo "ti amo" a più di una donna, in realtà sta dicendo che non ne ama davvero nessuna). Ecco perché la lotta dei profeti ai santuari delle alture ci dice, in poesia, cose molto serie - la poesia dice sempre cose molto serie.
Quando, ad esempio, le comunità nate da un carisma attraversano grandi crisi, la tentazione non sta l’eliminazione o la cancellazione del "Dio" della prima alleanza, ma nell’introduzione nel proprio tempio di altre divinità che iniziano ad affiancarsi al primo "culto". Si importano preghiere, canzoni, pratiche più vicine allo spirito del tempo, più semplici e comprensibili, che rispondono meglio ai gusti dei "consumatori". Entro un certo limite, questi arrivi possono aiutare e arricchire. Ma se queste pratiche estranee entrano dentro "il tempio", e se noi iniziamo a frequentare i templi degli altri senza distinguerli più dal nostro, la contaminazione inizia a minare il patto e la promessa; e arriverà presto il giorno in cui ci troveremo a parlare con il nostro primo Dio in templi tutti uguali, e non accadrà più nulla - molte crisi esistenziali, individuali e comunitarie, nascono da operazioni di affollamento del luogo del primo incontro, che diventa così fitto da non riuscire vedere né udire più nulla.
Ma i santuari e i templi erano anche i luoghi dei sacrifici di animali e di bambini. Dietro alla critica dei culti cananei e babilonesi c’è sempre, nei profeti grandi, la critica all’uso del sacrificio come moneta per commerciare con un Dio commerciante.
La polemica durissima dei profeti contro l’oro e l’argento, non è una critica economica né etica al denaro usato per i commerci umani; è una critica teologica e quindi antropologica, è una condanna ad una visione economica della fede e quindi della vita.
L’oro è pericolosissimo perché diventa il materiale con cui si fabbricano gli idoli: le statuette di Baal o di Astarte ieri, oggi i prodotti e i beni che, come nuovi idoli, ci vendono una sottospecie di eterna giovinezza. Più oro si possiede più grande è il prezzo che possiamo pagare per i nostri sacrifici.
I ladri che profanano il luogo santo non sono allora ladri di cose o di denaro; sono ladri religiosi, che sottraggono all’uomo la sua dignità e lo riducono a servo di idoli: «Getteranno l’argento per le strade e il loro oro si cambierà in immondizia, con esso non si sfameranno, non si riempiranno il ventre... Della bellezza dei loro gioielli fecero oggetto d’orgoglio e fabbricarono con essi le abominevoli statue dei loro idoli. Per questo li tratterò come immondizia... Sarà profanato il mio tesoro [tempio], vi entreranno i ladri e lo profaneranno» (7,19-22). Il denaro e l’oro sono immondizia quando non sono usati per vivere ma per fabbricare ogni sorta di idolo. Questa natura profonda delle ricchezze si rivela in pienezza soltanto alla fine («Viene la fine, viene la fine su di te»: 7,6).
Alla fine della vita, quando sarà evidente la differenza radicale tra le ricchezze (materiali e non) che abbiamo usato per sfamare e sfamarci, e le altre che abbiamo usato per creare o comprare idoli venditori di illusioni. Oppure nelle altre "fini", quando dentro una grossa crisi, malattia, depressione, capiamo che potremo ricominciare solo se impariamo a riconoscere altre ricchezze che ancora non abbiamo visto, in noi e attorno a noi.
Al centro di queste parole durissime che il profeta alza contro le alture, gli idoli e le infedeltà del popolo, ci raggiunge come raggio di sole aurorale un altro brano di teologia del resto (la Bibbia potrebbe essere raccontata come storia del resto fedele): «Tuttavia farò sopravvivere in mezzo alle nazioni alcuni di voi scampati alla spada, quando vi disperderò nei vari paesi. I vostri scampati si ricorderanno di me fra le nazioni in mezzo alle quali saranno deportati ... Sapranno allora che io sono il Signore» (6,8-10).
Tuttavia: i profeti amano molto questo avverbio, perché completa e addolcisce le loro parole di giudizio. I falsi profeti non conoscono i tuttavia, perché sono ideologici e ruffiani. Tuttavia è anche l’avverbio dei bravi educatori, degli insegnanti, dei responsabili di comunità, che dopo aver avuto la forza del giudizio di verità riescono ad aggiungere il "tuttavia" della mansuetudine e della pietas, che è sale e il lievito della pasta che stanno impastando.
Questo brano sul resto ci dice qualcosa di essenziale. Quando negli esili vogliamo provare a ricominciare veramente, sono due le cose davvero necessarie. A ricominciare non è il tutto, ma una parte, un piccolo resto vivo. Avevamo formato una famiglia, fatto nascere una comunità, un’impresa. Poi è arrivata la crisi, e quindi la deportazione e l’esilio. Ci siamo dispersi e contaminati con molti popoli. Se un giorno vorremo continuare la stessa prima storia dobbiamo vincere la nostalgia dell’intero, non lasciarci sedurre dal richiamo fortissimo del tutto, perché, semplicemente, quell’intero e quel tutto non ci sono più. Ma possiamo continuare veramente la nostra storia su quella piccola parte rimasta viva: due lavoratori della fabbrica, un bambino, quella sola parola buona che si è salvata dalle tante cattiverie che ci siamo detti.
La seconda cosa riguarda il significato del bellissimo verbo biblico ricordare ("si ricorderanno di me"). Nell’umanesimo biblico ricordare non è il verbo del passato, è il verbo di futuro. Si ricorda nel deserto, nei campi di mattoni, nell’esilio, e si ricorda per continuare a credere nella promessa che deve venire e verrà. Nel deserto dove ci ha gettato il tradimento del nostro patto matrimoniale, non si ricomincia celebrando un nuovo patto su un nuovo altare, ma ricordando che quelle parole erano state vere, perché una parte vera del nostro cuore non era mai uscita da quella chiesa e da quel primo altare. È imparando a ricordare che si inizia a risorgere.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO, HENRI DE LUBAC, E LA POSTERITÀ SPIRITUALE DI GIOACCHINO DA FIORE.
L’INDICAZIONE DI MANDELA....
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito... *
Ottobre.
Il Papa: preghiamo con il rosario per la Chiesa attaccata dal demonio
Papa Francesco chiede a tutti i fedeli di recitare quotidianamente il Rosario nel mese mariano di ottobre. E di concludere con due invocazioni
Papa Francesco ha deciso di invitare tutti i fedeli, di tutto il mondo, a pregare il Rosario ogni giorno, durante l’intero mese mariano di ottobre e a unirsi così in comunione e in penitenza, come popolo di Dio, nel chiedere alla Madonna e a san Michele Arcangelo di proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi. Lo rende noto un comunicato della Santa Sede.
Nei giorni scorsi, prima della sua partenza per i Paesi Baltici - ricorda la Santa Sede - il Papa ha incontrato padre Fréderic Fornos, direttore internazionale della Rete Mondiale di Preghiera per il Papa, e gli ha chiesto di diffondere in tutto il mondo questo suo appello a tutti i fedeli, invitandoli a concludere la recita del Rosario con l’antica invocazione Sub Tuum Praesidium, e con la preghiera a san Michele Arcangelo che ci protegge e aiuta nella lotta contro il male (cfr. Apocalisse12, 7-12).
La preghiera, aveva osservato il Pontefice l’11 settembre in un’omelia a Santa Marta, citando il primo libro di Giobbe, è l’arma contro il Grande accusatore che «gira per il mondo cercando come accusare». Solo la preghiera lo può sconfiggere. I mistici russi e i grandi santi di tutte le tradizioni consigliavano, nei momenti di turbolenza spirituale, di proteggersi sotto il manto della Santa Madre di Dio pronunciando l’invocazione Sub Tuum Praesidium.
L’invocazione Sub Tuum Praesidium.
L’invocazione recita così:
Sub tuum praesidium confugimus Sancta Dei Genitrix. Nostras deprecationes ne despicias in necessitatibus, sed a periculis cunctis libera nos semper, Virgo Gloriosa et Benedicta.
[Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio. Non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, ma liberaci da ogni pericolo, o Vergine Gloriosa e Benedetta].
Con questa richiesta di intercessione il Papa chiede ai fedeli di tutto il mondo di pregare perché la Madonna ponga la Chiesa sotto il suo manto protettivo: per preservarla dagli attacchi del maligno, il grande accusatore, e renderla allo stesso tempo sempre più consapevole delle colpe, degli errori, degli abusi commessi nel presente e nel passato e impegnata a combattere senza nessuna esitazione perché il male non prevalga.
La preghiera a san Michele Arcangelo
Il Papa ha chiesto anche che la recita del Santo Rosario durante il mese di ottobre si concluda con la preghiera scritta da Leone XIII, che recita così:
Sancte Michael Archangele, defende nos in proelio; contra nequitiam et insidias diaboli esto praesidium. Imperet illi Deus, supplices deprecamur: tuque, Princeps militiae caelestis, Satanam aliosque spiritus malignos, qui ad perditionem animarum pervagantur in mundo, divina virtute, in infernum detrude. Amen.
[San Michele Arcangelo, difendici nella lotta: sii il nostro aiuto contro la malvagità e le insidie del demonio. Supplichevoli preghiamo che Dio lo domini e Tu, Principe della Milizia Celeste, con il potere che ti viene da Dio, incatena nell’inferno satana e gli spiriti maligni, che si aggirano per il mondo per far perdere le anime. Amen].
* Avvenire, 29.09.2018 (ripresa parziale, senza immagini).
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
"LA CHIESA, CORPO DI CRISTO", LA PAROLA DEL PAPA, E LA NECESSITA’ DI UNA "UMILTA’ NUOVA". IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO.... *
Pedofilia: la parola profonda e tagliente del Papa.
Se nella Chiesa c’è chi fa muto Dio
di Marina Corradi (Avvenire, sabato 15 settembre 2018)
C’è fra alcuni di noi una stanchezza. Gli episodi di pedofilia nella Chiesa emergono dal passato molto più numerosi di quanto li avremmo mai creduti. Si delinea un male sotterraneo, taciuto, e quasi, in certi ambienti, tollerato. È un’onda fangosa quella che si solleva dall’Irlanda, dagli Usa, dall’Australia e da altrove. Fa scandalo, come è giusto, e fa molto rumore. E appunto alcuni credenti, pure avviliti e addolorati, cominciano a avere una reazione tuttavia di insofferenza: non si sente parlare che di pedofilia, obiettano, non c’è solo questo, la Chiesa è ben altro. La Chiesa, dicono, è piena uomini e donne che fanno del bene senza fare rumore, è fatta anche di missionarie e missionari coraggiosi, di bravi parroci, di suore che curano i figli dei poveri, di laici generosi. È fatta la Chiesa, anche di sconosciuti santi, e di martiri.
Ed è tutto assolutamente vero. Eppure, il Papa giovedì scorso a dei vescovi di recente nomina, tornando sul dramma della pedofilia fra consacrati, ha detto parole drammatiche. Ha detto che le nostre risposte «saranno prive di futuro se non raggiungeranno la voragine spirituale che, in non pochi casi, ha permesso scandalose debolezze, se non metteranno a nudo il vuoto esistenziale che esse hanno alimentato. Se non riveleranno - ha proseguito - perché mai Dio è stato così reso muto, così messo a tacere, così rimosso da un certo modo di vivere, come se non ci fosse».
Dio reso muto. Dio messo a tacere, come se non esistesse. Etsi non daretur. E hanno vissuto, e vivono, così persone consacrate. Taglia come un rasoio questa parola del Papa. Come il bisturi del chirurgo che, aprendo il petto di un paziente, scopre che è ampio, il male da asportare. Non minimizza il Papa, non si consola pensando a tutto il bene fatto dalla Chiesa. Sembra dirci che occorre prendere coscienza del male, tutto intero, di quanto profondo sia stato - tanto da ammutolire Dio.
Francesco ci fa stare davanti al peccato che ha intaccato la Chiesa, senza scappatoie. Un peccato che, nel dolore delle vittime, nel loro scandalo, riguarda anche noi. Coloro che parlavano a dei bambini di Dio erano gli stessi che ne abusavano: ingenerando in loro il pensiero che né degli uomini, né di Dio ci si può fidare. Pensiero che annienta, colpo di scure su giovani piante.
Dio reso muto, Dio rimosso, proprio da chi doveva insegnare ad amarlo. Il dito del Papa non smette di indicarci ciò che è stato. Noi, forse, avremmo la tentazione di dimenticarcene. D’accordo, lo sappiamo, basta adesso. Perché abbiamo il vizio di pensare che gli uomini e le istituzioni siano "buoni", oppure "cattivi". La Chiesa è "buona", e dunque non tolleriamo di constatare quanti abbiano potuto tradire, e nel modo peggiore, con dei bambini. Ci umilia troppo il ricordarlo.
Ma la Chiesa, corpo di Cristo, è fatta da uomini. Contiene in sé, come il cuore di ogni uomo, possibilità di luce e di buio, di generosità fedele e silenziosa, di eroismo, ma anche di diserzione vigliacca, sotto a ordinate apparenze. E chi conosce il labirinto del suo cuore, e a una certa età almeno bisognerebbe conoscerlo, può guadare allo scandalo che il Papa continua a indicarci, senza domandare che si parli d’altro.
Si può stare a viso aperto davanti a tanto male compiuto in mezzo a noi, solo se non ci si sente orgogliosamente "buoni", "onesti", intoccabili dalla miseria umana. Nessuno è buono, ci ha insegnato Gesù Cristo. Siamo tutti poveri, dei miserabili che mendicano la grazia di Dio. È quella grazia, domandata ogni mattina, che ci permette di fare del bene, che ci allontana dalla attrazione del male. Non un nostro essere "bravi".
«Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore» era la litania dei monaci della tradizione greco-bizantina, ripetuta come un respiro, come una domanda inesausta. In questa coscienza di mendicanti possiamo stare di fronte alle parole del Papa, al tragico Dio muto che ha evocato, e non perdere il coraggio. In un travaglio che potrebbe portarci a una umiltà nuova.
Nessuno è buono, e c’è in ciascuno di noi la possibilità del male. Bisogna ostinatamente domandare. Il peccato dentro la Chiesa che si leva alto come un’onda non ci travolge, se non lo censuriamo; ma, più coscienti del nostro e altrui male, ci ricordiamo che l’autentica santità, come ha concluso l’altro giorno Francesco, «è quella che Dio compie in noi».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! Caro Benedetto XVI ... DIFENDIAMO LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
"SAPERE AUDE!". USA IL CERVELLO!.... *
La ricerca. Cervelli impavidi
Il coraggio, se non ce l’hai te lo danno i neuroni
Nell’ippocampo cellule nervose che azzerano la paura
Le hanno localizzate gli scienziati svedesi studiando i topi che sfidano i gatti
di Giuliano Aluffi (la Repubblica, 09.09.2018, p. 19)
Chi salta da un dirupo, casomai munito di tuta alare per volare via sfrecciando sulle punte degli alberi, è certo un temerario, ma questo sprezzo del pericolo, più che indicatore di forte personalità, potrebbe essere soltanto un dono di natura, legato all’attività di un gruppo particolare di neuroni detti "i neuroni del coraggio". Già noti come gli "interneuroni OLM", si pensava fossero soltanto associati al consolidamento dei ricordi. Il loro ruolo chiave nei comportamenti spavaldi è oggi rivelato da uno studio pubblicato su Nature Communications, che pone le basi per possibili nuove terapie anti ansia e anti disturbo da stress post-traumatico. È un passo avanti rispetto a un recente studio giapponese che mostrava il ruolo della dopamina nello spezzare i riflessi condizionati legati alla paura in assenza di reale pericolo - la dopamina infatti si libera quando una situazione si rivela migliore di quanto temuto.
Il nuovo studio, infatti, riguarda il comportamento in presenza di reali segnali di rischio, ed è quindi più propriamente legato al coraggio.
«L’attività di questi neuroni può azzerare la paura» spiega Klas Kullander, capo del dipartimento di genetica all’Università di Uppsala, in Svezia. «Se al centro di una stanza si mettono a terra dei peli di gatto, i topi normali non osano allontanarsi dai muri perché sentono l’odore del nemico. Ma se stimoliamo i suoi neuroni OLM, il topo si avventurerà senza timore in mezzo alla sala, e calpesterà i peli di gatto come se non ci fossero. Funziona anche l’inverso: disattivando questi neuroni, il topo diventa più timoroso degli altri».
A dare tanto potere ai neuroni OLM è la loro posizione cruciale. «Si trovano vicino ai neuroni principali dell’ippocampo, quelli piramidali, che connettono all’ippocampo due regioni cerebrali importanti come la corteccia prefrontale, sede della cognizione, e l’amigdala, sede della paura» spiega Kullander. «Quando vediamo qualcosa di allarmante la corteccia prefrontale e l’amigdala si attivano entrambe per decidere se siamo in pericolo oppure no. I neuroni OLM ricevono sia il responso dell’amigdala che quello della corteccia prefrontale, fanno un bilancio tra i due e lo trasmettono all’ippocampo. Quando questi neuroni sono molto attivi ed emettono un certo tipo di oscillazioni, dette oscillazioni Theta, il cervello decide che sì, la situazione sarà pure rischiosa, ma noi siamo al sicuro».
Una particolarità di questi neuroni è che hanno dei recettori per la nicotina: «Fumando, li si stimola» spiega Kullander. «Forse è per questo che molti tendono a fumare di più quando sono nervosi». «Se individuassimo altri recettori, oltre a quelli per la nicotina, posseduti soltanto da queste cellule, potremmo sviluppare un farmaco anti ansia molto mirato, che non tocchi altre parti del cervello» spiega il coautore dello studio, Richardson Leão, docente di neuroscienze alla Federal University di Rio Grande do Norte.
In certi casi, invece, può essere salvifico aumentare l’ansia: «È il nostro prossimo progetto: salvare la vita ai topi infetti da toxoplasmosi. Per scongiurare la trasmissione agli uomini», spiega Leão. «Il parassita della toxoplasmosi per completare il suo ciclo di vita deve entrare nel cervello dei gatti. Ma il suo primo ospite è il topo. Quando il Toxoplasma gondii li infetta, i topi perdono la paura del gatto e addirittura scambiano gli odori del gatto per irresistibili feromoni». Gettandosi entusiasti tra le fauci dei felini e dandola vinta al parassita. «Vogliamo ridare a questi topi la paura dei gatti. E fermare questa zoonosi, assai rischiosa per chi ha il sistema immunitario compromesso» spiega Leão. «Studi dicono che i guidatori con Toxoplasma gondii hanno probabilità di fare incidenti più che doppia rispetto agli altri».
Il nuovo studio
Il coraggio e i Colleoni
di Marino Niola (la Repubblica, 09.09.2018, p. 26)
Il coraggio si trova nei luoghi più impensati, diceva Tolkien. Forse per questo, da che mondo è mondo, gli uomini lo hanno sempre cercato in ogni dove. Nei meandri del corpo e nei ripostigli dell’anima, nella speranza di trovarne almeno quel briciolo che basti a non farsi sopraffare dalle proprie paure. Adesso due neuroscienziati annunciano di aver scovato il nascondiglio.
I ricercatori, lo svedese Klas Kullander dell’Università di Uppsala e il brasiliano Richardson Leao dell’Ateneo di Rio Grande, hanno pubblicato sulla rivista Nature Communications i risultati di uno studio, secondo il quale la centrale del coraggio si troverebbe nei cosiddetti neuroni dell’ippocampo.
Se siamo davanti a uno storico score scientifico è ancora presto per dirlo, ma la notizia sta già facendo sognare. Sia quelli che pensano di non avere abbastanza coraggio, sia quelli che sanno per certo di non poterselo dare da soli, come il don Abbondio manzoniano. E allora ben venga un farmaco, un microchip, un placebo incoraggiante che faccia friccicare nella maniera giusta quei neuroni, che, a detta degli studiosi, «a seconda del ritmo diverso con cui si attivano, fanno sì che un topo sia spaventato dal pelo di un gatto oppure non ne sia per nulla impressionato». Il che, trasposto qualche gradino più in su della scala evolutiva, significa che se l’ippocampo ci gira bene davanti a un rapinatore, anziché farcela sotto, saremmo in grado di reagire col sorriso sulle labbra prima di passare al contrattacco.
Resta il fatto che Kullander e Leao continuano, con gli strumenti di oggi, un’indagine iniziata da millenni. E che ha cercato ogni volta in un organo diverso la sede del coraggio. A partire dal cuore, da cui viene la parola stessa coraggio, che deriva dal latino coraticum, che significa letteralmente "aver cuore". Come il quasi invulnerabile Achille, o il leggendario re Riccardo, passato alla storia come il "Cuor di Leone".
Poi col tempo l’audacia e lo sprezzo del pericolo hanno traslocato al piano inferiore e sono andati a sistemarsi nel fegato. Essere dotato di fegato è stato ed è ancora sinonimo di valoroso, eroico, impavido. Lo raccontava già la mitologia greca che faceva di Prometeo, l’eroe che ha l’ardire di rubare il fuoco agli dei per donarlo ai mortali, l’uomo di fegato per antonomasia. Tant’è vero che Zeus lo punisce facendogli divorare h24 il fegato da un’aquila.
In tempi più recenti la location è scesa ancora più in basso e ha scelto un indirizzo genitale. Coraggioso è chi ha le palle. Ne sapeva qualcosa Bartolomeo Colleoni, il fiero capitano di ventura il cui nome di famiglia derivava dal latino coleus, testicolo. Ne andava così orgoglioso che ne mise ben tre sul suo stemma nobiliare. E andava in battaglia gridando «Coglia, coglia», un’esternazione dal senso inequivocabile. Per la stessa ragione cibarsi di testicoli di toro in Spagna e in altri Paesi a machismo spinto è roba da persone con gli attributi. Come dire una virilità ad alto tasso di testosterone.
E adesso la scienza potrebbe aiutarci a cancellare per sempre la paura. Attenzione però alle controindicazioni di un coraggio senza limiti. È vero che siamo nella civiltà della competizione spinta. Ed è vero pure che quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare. Ma non è detto che vincano. In fondo, come dicono gli etologi, la paura è il più geniale espediente inventato dall’evoluzione per decidere quando conviene osare e quando scappare. Al contrario, non temendo più niente e nessuno, rischiamo di trasformarci in un esercito di colleoni.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI")
Federico La Sala
IL SENNO DI PRIMA ("PROMETEO"), IL SENNO DI POI ("EPIMETEO"), I DISASTRI E IL "DISPOSITIVO DI DERIVAZIONE KANTIANA" ...*
Il sociologo.
Tutti i disastri «irreparabili» e il senno di prima
Dopo il ragionamento è il solito, col senno di poi: come è stato possibile che nessuno vedesse e capisse prima dell’irreparabile fatto?
di Maurizio Fiasco (Avvenire, sabato 18 agosto 2018)
Come accadono i disastri? C’è un’espressione, all’apparenza banale ma ricorrente, quando siamo sconcertati per un evento dai costi umani incalcolabili. «Col senno di poi». Che equivale: come è stato possibile che nessuno vedesse e capisse prima dell’irreparabile fatto? Quel che ha condotto al precipitare di una situazione - fisica, come un ponte, oppure comportamentale come una battaglia, un volo, il funzionamento di uno stabilimento industriale - aveva già emesso dei segnali.
I disastri - risulta quasi sempre agli investigatori ex post - hanno avuto una incubazione, più o meno lunga. Incubazione tutt’altro che muta, o col bavaglio, anzi spesso visibile per un complesso di segnali. Come ha insegnato, quarant’anni fa un illuminato e inascoltato Barry Turner, non sono prevenuti - ovvero fermati da decisioni pragmatiche - per le patologie della comunicazione tra gli attori di un sistema. Industriale, amministrativo, finanziario, politico: non importa la scala di grandezza. Le incompetenze si strutturano e agiscono come un sistema.
I segnali sono sfuggiti a un apparato cognitivo, a una mente capace di connetterli e perciò di abbattere le barriere che inibiscono il giudizio. È mancata la responsabilità di contrastare la universale ottusità dei sistemi, di tutti i sistemi organizzativi. Che squalificano la coscienziosità di chi abbia colto il segnale e si sia posto in modo attivo per spingere al provvedere.
Egli finisce per scontrarsi con la gerarchia, con i muri levati su dai rituali dell’organizzazione, per impattare con la squalificazione che si replica davanti all’umile operatore che sta sul terreno e lì ’vede’ qualcosa che non va. Oppure c’è il feticcio della responsabilità di vertice. Chi è in alto - pensa il testimone dei segnali che il disastro sta inviando - lo capirà più e meglio di me.
Ma il superiore guarda al consenso e alle conferme di chi siede ancora più in alto di lui. E quest’ultimo rivolge la sua mente al mandato di chi è il supremo detentore di quel bene, di quella situazione, di quel dato potere. E tutto questo complesso di fattori cambia la prospettiva, perché il conformismo è più potente della psicologia della responsabilità.
A meno che nella persona responsabile in situazione trovino nutrimento valori morali assoluti: che spingono ad assumersi il rischio personale di andare controcorrente, e di superare derisioni e ostracismo, di non farsi influenzare dal dispositivo di derivazione kantiana, «faccio quel che devo, accada quel che può».
Insomma, la responsabilità, invece di essere ispirata a valori trascendenti, si attesta alla procedura, al ’di fronte’, a quel che le regole gerarchiche - per esempio il mandato degli azionisti - hanno assegnato. E così si scambia la diversa posizione ricoperta nella piramide organizzativa con la diversità di valori etici e professionali di quanti operano in una struttura complessa: che invece, a rigore, sono unici e universali. Cioè per tutti. Nelle forze armate, dal piantone al generale; nelle autostrade, dall’operaio che passa il bitume all’amministratore delegato della infrastruttura. Unitarietà dei valori e trasparenza della comunicazione sono la speranza del «senno di prima». Potremmo dire l’intelligenza del Buon Samaritano che si prende carico della complessità della situazione e non trascura alcuna variabile.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
IL NATALE DI GESU’: L’INCARNAZIONE SECONDO L’ IMMAGINAZIONE "TEANDRICA" DEL CATTOLICESIMO-COSTANTINIANO. Gianfranco Ravasi ne ripropone una sintesi e la presenta come "il realismo del nascere nella storia"!!!
LO STATO DEL FARAONE, LO STATO DI MINORITA’, E IMMANUEL KANT "ALLA BERLINA" - DOPO AUSCHWITZ
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO".
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Lettera.
Abusi, il Papa: vergogna e pentimento. Tutta la Chiesa se ne faccia carico
Francesco ribadisce l’impegno contro il crimine degli abusi. Nella Lettera al popolo di Dio: «Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui»
_***«È imprescindibile che come Chiesa possiamo riconoscere e condannare con dolore e vergogna le atrocità commesse da persone consacrate, chierici, e anche da tutti coloro che avevano la missione di vigilare e proteggere i più vulnerabili. Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui. La coscienza del peccato ci aiuta a riconoscere gli errori, i delitti e le ferite procurate nel passato e ci permette di aprirci e impegnarci maggiormente nel presente in un cammino di rinnovata conversione».
Questo uno dei passaggi chiave della “Lettera di Papa Francesco al popolo di Dio” diffusa questa mattina dalla Sala Stampa vaticana. Un testo in cui il Pontefice, all’indomani della pubblicazione del rapporto sui casi di pedofilia nelle diocesi della Pennsylvania (Stati Uniti), esprime a nome dell’intero popolo di Dio «vergogna e pentimento». E sottolinea la necessità della conversione da parte dell’intera comunità ecclesiale.
Di seguito il testo integrale della lettera.
LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO AL POPOLO DI DIO
«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme» (1 Cor 12,26). Queste parole di San Paolo risuonano con forza nel mio cuore constatando ancora una volta la sofferenza vissuta da molti minori a causa di abusi sessuali, di potere e di coscienza commessi da un numero notevole di chierici e persone consacrate. Un crimine che genera profonde ferite di dolore e di impotenza, anzitutto nelle vittime, ma anche nei loro familiari e nell’intera comunità, siano credenti o non credenti. Guardando al passato, non sarà mai abbastanza ciò che si fa per chiedere perdono e cercare di riparare il danno causato. Guardando al futuro, non sarà mai poco tutto ciò che si fa per dar vita a una cultura capace di evitare che tali situazioni non solo non si ripetano, ma non trovino spazio per essere coperte e perpetuarsi. Il dolore delle vittime e delle loro famiglie è anche il nostro dolore, perciò urge ribadire ancora una volta il nostro impegno per garantire la protezione dei minori e degli adulti in situazione di vulnerabilità.
1. Se un membro soffre
Negli ultimi giorni è stato pubblicato un rapporto in cui si descrive l’esperienza di almeno mille persone che sono state vittime di abusi sessuali, di potere e di coscienza per mano di sacerdoti, in un arco di circa settant’anni. Benché si possa dire che la maggior parte dei casi riguarda il passato, tuttavia, col passare del tempo abbiamo conosciuto il dolore di molte delle vittime e constatiamo che le ferite non spariscono mai e ci obbligano a condannare con forza queste atrocità, come pure a concentrare gli sforzi per sradicare questa cultura di morte; le ferite “non vanno mai prescritte”. Il dolore di queste vittime è un lamento che sale al cielo, che tocca l’anima e che per molto tempo è stato ignorato, nascosto o messo a tacere. Ma il suo grido è stato più forte di tutte le misure che hanno cercato di farlo tacere o, anche, hanno preteso di risolverlo con decisioni che ne hanno accresciuto la gravità cadendo nella complicità. Grido che il Signore ha ascoltato facendoci vedere, ancora una volta, da che parte vuole stare. Il cantico di Maria non si sbaglia e, come un sottofondo, continua a percorrere la storia perché il Signore si ricorda della promessa che ha fatto ai nostri padri: «Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,51-53), e proviamo vergogna quando ci accorgiamo che il nostro stile di vita ha smentito e smentisce ciò che recitiamo con la nostra voce.
Con vergogna e pentimento, come comunità ecclesiale, ammettiamo che non abbiamo saputo stare dove dovevamo stare, che non abbiamo agito in tempo riconoscendo la dimensione e la gravità del danno che si stava causando in tante vite. Abbiamo trascurato e abbandonato i piccoli. Faccio mie le parole dell’allora Cardinale Ratzinger quando, nella Via Crucis scritta per il Venerdì Santo del 2005, si unì al grido di dolore di tante vittime e con forza disse: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! [...] Il tradimento dei discepoli, la ricezione indegna del suo Corpo e del suo Sangue è certamente il più grande dolore del Redentore, quello che gli trafigge il cuore. Non ci rimane altro che rivolgergli, dal più profondo dell’animo, il grido: Kyrie, eleison - Signore, salvaci (cfr Mt 8,25)» (Nona Stazione).
2. Tutte le membra soffrono insieme
La dimensione e la grandezza degli avvenimenti esige di farsi carico di questo fatto in maniera globale e comunitaria. Benché sia importante e necessario in ogni cammino di conversione prendere conoscenza dell’accaduto, questo da sé non basta. Oggi siamo interpellati come Popolo di Dio a farci carico del dolore dei nostri fratelli feriti nella carne e nello spirito. Se in passato l’omissione ha potuto diventare una forma di risposta, oggi vogliamo che la solidarietà, intesa nel suo significato più profondo ed esigente, diventi il nostro modo di fare la storia presente e futura, in un ambito dove i conflitti, le tensioni e specialmente le vittime di ogni tipo di abuso possano trovare una mano tesa che le protegga e le riscatti dal loro dolore (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 228). Tale solidarietà ci chiede, a sua volta, di denunciare tutto ciò che possa mettere in pericolo l’integrità di qualsiasi persona. Solidarietà che reclama la lotta contro ogni tipo di corruzione, specialmente quella spirituale, «perché si tratta di una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di autoreferenzialità, poiché “anche Satana si maschera da angelo della luce” (2 Cor 11,14)» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 165). L’appello di San Paolo a soffrire con chi soffre è il miglior antidoto contro ogni volontà di continuare a riprodurre tra di noi le parole di Caino: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9).
Sono consapevole dello sforzo e del lavoro che si compie in diverse parti del mondo per garantire e realizzare le mediazioni necessarie, che diano sicurezza e proteggano l’integrità dei bambini e degli adulti in stato di vulnerabilità, come pure della diffusione della “tolleranza zero” e dei modi di rendere conto da parte di tutti coloro che compiono o coprono questi delitti. Abbiamo tardato ad applicare queste azioni e sanzioni così necessarie, ma sono fiducioso che esse aiuteranno a garantire una maggiore cultura della protezione nel presente e nel futuro.
Unitamente a questi sforzi, è necessario che ciascun battezzato si senta coinvolto nella trasformazione ecclesiale e sociale di cui tanto abbiamo bisogno. Tale trasformazione esige la conversione personale e comunitaria e ci porta a guardare nella stessa direzione dove guarda il Signore. Così amava dire San Giovanni Paolo II: «Se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi» (Lett. ap. Novo millennio ineunte, 49). Imparare a guardare dove guarda il Signore, a stare dove il Signore vuole che stiamo, a convertire il cuore stando alla sua presenza. Per questo scopo saranno di aiuto la preghiera e la penitenza. Invito tutto il santo Popolo fedele di Dio all’esercizio penitenziale della preghiera e del digiuno secondo il comando del Signore,[1] che risveglia la nostra coscienza, la nostra solidarietà e il nostro impegno per una cultura della protezione e del “mai più” verso ogni tipo e forma di abuso.
E’ impossibile immaginare una conversione dell’agire ecclesiale senza la partecipazione attiva di tutte le componenti del Popolo di Dio. Di più: ogni volta che abbiamo cercato di soppiantare, mettere a tacere, ignorare, ridurre a piccole élites il Popolo di Dio abbiamo costruito comunità, programmi, scelte teologiche, spiritualità e strutture senza radici, senza memoria, senza volto, senza corpo, in definitiva senza vita.[2] Ciò si manifesta con chiarezza in un modo anomalo di intendere l’autorità nella Chiesa - molto comune in numerose comunità nelle quali si sono verificati comportamenti di abuso sessuale, di potere e di coscienza - quale è il clericalismo, quell’atteggiamento che «non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente»[3]. Il clericalismo, favorito sia dagli stessi sacerdoti sia dai laici, genera una scissione nel corpo ecclesiale che fomenta e aiuta a perpetuare molti dei mali che oggi denunciamo. Dire no all’abuso significa dire con forza no a qualsiasi forma di clericalismo.
E’ sempre bene ricordare che il Signore, «nella storia della salvezza, ha salvato un popolo. Non esiste piena identità senza appartenenza a un popolo. Perciò nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana: Dio ha voluto entrare in una dinamica popolare, nella dinamica di un popolo» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 6). Pertanto, l’unico modo che abbiamo per rispondere a questo male che si è preso tante vite è viverlo come un compito che ci coinvolge e ci riguarda tutti come Popolo di Dio. Questa consapevolezza di sentirci parte di un popolo e di una storia comune ci consentirà di riconoscere i nostri peccati e gli errori del passato con un’apertura penitenziale capace di lasciarsi rinnovare da dentro. Tutto ciò che si fa per sradicare la cultura dell’abuso dalle nostre comunità senza una partecipazione attiva di tutti i membri della Chiesa non riuscirà a generare le dinamiche necessarie per una sana ed effettiva trasformazione. La dimensione penitenziale di digiuno e preghiera ci aiuterà come Popolo di Dio a metterci davanti al Signore e ai nostri fratelli feriti, come peccatori che implorano il perdono e la grazia della vergogna e della conversione, e così a elaborare azioni che producano dinamismi in sintonia col Vangelo. Perché «ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 11).
E’ imprescindibile che come Chiesa possiamo riconoscere e condannare con dolore e vergogna le atrocità commesse da persone consacrate, chierici, e anche da tutti coloro che avevano la missione di vigilare e proteggere i più vulnerabili. Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui. La coscienza del peccato ci aiuta a riconoscere gli errori, i delitti e le ferite procurate nel passato e ci permette di aprirci e impegnarci maggiormente nel presente in un cammino di rinnovata conversione.
Al tempo stesso, la penitenza e la preghiera ci aiuteranno a sensibilizzare i nostri occhi e il nostro cuore dinanzi alla sofferenza degli altri e a vincere la bramosia di dominio e di possesso che tante volte diventa radice di questi mali. Che il digiuno e la preghiera aprano le nostre orecchie al dolore silenzioso dei bambini, dei giovani e dei disabili. Digiuno che ci procuri fame e sete di giustizia e ci spinga a camminare nella verità appoggiando tutte le mediazioni giudiziarie che siano necessarie. Un digiuno che ci scuota e ci porti a impegnarci nella verità e nella carità con tutti gli uomini di buona volontà e con la società in generale per lottare contro qualsiasi tipo di abuso sessuale, di potere e di coscienza.
In tal modo potremo manifestare la vocazione a cui siamo stati chiamati di essere «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 1).
«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme», ci diceva San Paolo. Mediante l’atteggiamento orante e penitenziale potremo entrare in sintonia personale e comunitaria con questa esortazione, perché crescano tra di noi i doni della compassione, della giustizia, della prevenzione e della riparazione. Maria ha saputo stare ai piedi della croce del suo Figlio. Non l’ha fatto in un modo qualunque, ma è stata saldamente in piedi e accanto ad essa. Con questa posizione esprime il suo modo di stare nella vita. Quando sperimentiamo la desolazione che ci procurano queste piaghe ecclesiali, con Maria ci farà bene “insistere di più nella preghiera” (cfr S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, 319), cercando di crescere nell’amore e nella fedeltà alla Chiesa. Lei, la prima discepola, insegna a tutti noi discepoli come dobbiamo comportarci di fronte alla sofferenza dell’innocente, senza evasioni e pusillanimità. Guardare a Maria vuol dire imparare a scoprire dove e come deve stare il discepolo di Cristo.
Lo Spirito Santo ci dia la grazia della conversione e l’unzione interiore per poter esprimere, davanti a questi crimini di abuso, il nostro pentimento e la nostra decisione di lottare con coraggio.
* Fonte: Avvenire, 20.08.2018
Razzismo e Noismo
di Silvia Antonelli *
Quali sono le tappe che portano alla costruzione dell’identità collettiva e quando e perché essa si configura attraverso la costruzione dell’altro, nemico e ostile da sé, solo in quanto portatore di diversità? Perché il “noi collettivo” si costruisce attraverso l’esclusione e la marginalizzazione dell’altro? Quali sono i postulati che consideriamo inderogabili, alla base della cultura europea e che hanno condotto a società fortemente e indiscutibilmente gerarchizzate?
Questi sono gli interrogativi da cui parte il bel libro-dialogo Razzismo e noismo. Le declinazioni del noi e l’esclusione dell’altro, frutto del confronto e dell’intreccio di ragionamenti di due studiosi molto diversi fra loro ma che decidono di incontrarsi, e in alcuni momenti scontrarsi, per cercare di delineare, a partire da prospettive e formazione diversi, le dinamiche che sono alla base della formazione dell’identità collettiva.
Già la struttura del libro anticipa e funge da manifesto di intenti: non è una narrazione lineare e sistematica, tipica della forma saggio, zeppa di constatazioni, assertiva, dogmatica, che pone sul piatto del lettore verità inconfutabili. È un dialogo che si compone gradualmente a partire da linguaggi diversi, che si mette in discussione; dove i due interlocutori si aprono all’ascolto dell’altro, sgombri da pregiudizi e da convinzioni preconcette. Si alternano, con un ritmo serrato e appassionato, con l’intento vivido di raggiungere il livello più viscerale di approfondimento, assumendo la complessità come inizio e prospettiva, senza cedere a semplificazioni e a scorciatoie.
Luigi Luca Cavalli Sforza è un genetista di fama mondiale i cui studi hanno dimostrato l’inservibilità del concetto di razza applicata agli uomini, mentre Daniela Padoan, di alcune generazioni più giovane, è una studiosa che si è occupata di testimonianze di deportazione, di genocidi e totalitarismi e di resistenze femminili.
Due generazioni a confronto e due linguaggi, quello scientifico da una parte e quello umanistico dall’altro, che invece di correre, come fanno solitamente, su binari paralleli, decidono di intrecciarsi e dare forma ad un pensiero che per sua stessa natura nasce dall’incontro di diversità, che non si perdono l’una nell’altra ma che sono capaci di concorrere entrambe alla costruzione di un pensiero alt(r)o complesso e articolato.
In un momento storico e sociale in cui il richiamo ad una presunta identità collettiva sembra forte e urgente, e viene venduto come l’unico modo per superare una crisi economica di grandi dimensioni, questo libro diventa una miccia interessante in grado di innescare un ragionamento originale che si fa leva per porre in discussione l’intero sistema di dominio, sottomissione e sopraffazione che diamo per scontato e che consideriamo intoccabile nella sua ineluttabilità. Attraverso una ricostruzione delle dinamiche di relazione che hanno trasformato il vivere in comunità e tracciando una sorta di archeologia del dominio, il libro cerca di arrivare alle radici del razzismo, quale prodotto della gerarchizzazione del mondo, per poi indagare le numerose ramificazioni in cui esso si moltiplica e declina.
La chiave di volta attorno a cui ruota l’intera speculazione è il concetto di noi, nella sua declinazione di “noismo”, termine introdotto dallo stesso Cavalli-Sforza.
In italiano con il termine di egoismo indichiamo un concetto che gli anglosassoni nominano in due modi diversi: egoism e selfishness; in opposizione a quest’ultimo, gli inglesi contrappongono il termine we-ness
Lo studioso afferma che è esistito ed esiste un noi positivo, comunitario e che questo principio ha regolato in passato la nascita e lo sviluppo di molte società primitive che si sono sviluppate e che hanno progredito grazie a legami di solidarietà e di mutualità fra individui.
Dando ormai per assodato il fatto che l’umanità si origina dall’Africa e dalla migrazione con la quale alcuni gruppi si allontanarono per abitare altri continenti, Cavalli -Sforza ci ricorda che l’Homo sapiens sapiens finché visse di caccia e raccolta costituiva società egualitarie, non stratificate, dove a regolare le relazioni umane era il principio di un noi positivo, volto alla collaborazione e alla solidarietà. A seguito della rivoluzione agricola e dell’introduzione della divisione del lavoro e della proprietà individuale emersero differenziazioni di carattere socioeconomico che condussero alla formazione di una classe egemone, costituita da un gruppo ristretto o da un singolo individuo, che si fecero riferimento e orizzonte delle azione e del destino del gruppo sociale o economico di appartenenza.
Nasce il dominio, la sottomissione, la rinuncia della libertà in cambio della protezione dello stato. Da qui lo sviluppo delle società così come le conosciamo noi, che hanno impresso anche nei corpi e nel vivere quotidiano, l’abitudine alla violenza e alla sottomissione quali dati di fatto indiscutibili. Società plasmate sulla gerarchizzazione e sulla divisione in categorie predefinite, la cui affiliazione o esclusione diventa diritto o meno all’esistenza. La servitù, filo rosso della nostra civiltà, alimenta il razzismo e il disprezzo verso l’altro, necessari a legittimare la superiorità morale, culturale e anche genetica del maschio bianco europeo. É il dominio del noi che soppianta tutti gli altri modi del noi.
Daniela Padoan, che riporta continuamente il suo interlocutore ad una visione meno positivistica della storia, pone un altro cardine utile allo sviluppo del ragionamento e introduce la Shoah quale paradigma della categorizzazione del mondo che si alimenta della costruzione di un’identità collettiva, la cui immagine ideale diventa soglia e confine escludente dell’altro, fino a sancirne, indiscriminatamente, in nome di una presunta superiorità, il diritto all’esistenza.
Ecco come il noi positivo diventa disprezzo dell’altro, rifiuto della diversità quale minaccia alla propria integrità culturale e fisica di gruppo.
Interessanti e per nulla retoriche le pagine in cui la studiosa incalza la discussione partendo dal focus della Shoah che non è stata una parentesi disdicevole nel lungo e fruttuoso cammino della civiltà umana, nemmeno l’espressione del male assoluto e trascendentale; non fu pura follia, né un evento inspiegabile.
Fu al contrario il prodotto della cultura europea. Il prodotto di società gerarchizzate che definiscono se stesse a partire dalla costruzione di confini e limiti.
Assumere questa riflessione e farla propria significherebbe ripensare in profondità alle dinamiche di potere che regolano le nostre società oggi, alle pratiche di sottomissione cui ci siamo assuefatti. Abbiamo abdicato alla nostra libertà in cambio di una presunta sicurezza (argomento quanto mai attuale), costituito il nostro essere identitario a partire dalla marginalizzazione, anche visiva, dell’altro, che abbiamo ghettizzato, rinchiuso, allontanato, emarginato e anche eliminato dalle nostre società.
Questo libro complesso, che nasce e si sviluppa a partire dal confronto e dall’indagine, è una scintilla ragionata che ci riporta di fronte a noi stessi, che pone in discussione ogni dogma fino ad ora dato per scontato e soprattutto collega fatti storici e attualità che vorremo sconnessi, principi e causalità che è comodo tenere distanti; ci impone il ragionamento che nasce dalla conoscenza, ci suggerisce che esistono altri modi del noi e ci sollecita, con urgenza, a ripensare a noi stessi e alla nostra storia.
Silvia Antonelli
* Fonte: Umanità Nova, 02.06.2016
PSICHIATRIA E RAZZISMI
Storie e documenti
La sistematica di Linneo
di Luigi Benevelli (POL.IT, 14 gennaio, 2014)
Il pensiero occidentale è contrassegnato dalla prepotenza. Il grande sviluppo della sistematica ebbe pienamente luogo solo nel Settecento, con il botanico Carl Nilsson Linnaeus (1707-1778), che cominciò a organizzare le specie raggruppandole in generi, e quindi raggruppando i generi in una serie di categorie superiori basandosi sulle somiglianze morfologiche e anatomiche.
Da quando nel 1735 venne introdotta la sua nomenclatura binomiale - basata sul modello aristotelico di «genere prossimo» e di «differenza specifica» - si è iniziato a declinare in latino il genere e la specie degli organismi.
Linneo ha teorizzato un sistema di classificazione in cui il genere HOMO, posto in cima al regno animale, viene suddiviso in due specie: l’uomo «diurno», o homo sapiens, e l’uomo «notturno» o homo troglodytes, altrimenti detto uomo delle foreste o orangutan.
È curioso come la nostra cultura abbia sempre teso a vedere la luce come il divino, l’alto, il sublime, e il buio come il demoniaco, il basso, il territorio dei bruti. Secondo il sistema delle similitudini e analogie, il Sole - simbolo platonico del Bene, che sempre nella sua corsa, tende a occidente - segna l’uomo occidentale.
Il secolo dei Lumi, nelle retorica settecentesca, porta la ragione nelle menti ottenebrate dalla superstizione e dall’ignoranza; allo stesso modo, nella retorica coloniale del secolo successivo, dall’uomo occidentale procede la civilizzazione che porta la luce nel “cuore di tenebra” dei continenti selvaggi. Il che è perfettamente in sintonia con la classificazione linneiana di Homo sapiens in sei decrescenti varietà diurne, quattro varietà di «uomini normali», catalogabili secondo la provenienza geografica, il colore della pelle e le corrispettive «qualità morali», e due varietà di «uomini anormali».
Nella tassonomia di Linneo abbiamo
Nella decima edizione del Systema naturae (1758), compare la classe dei primati, che sostituisce il precedente Anthropomorphae; qui avviene l’abbinamento del genere Homo con la specie sapiens. Dopo la scoperta dei fossili nella valle tedesca di Neanderthal, l’Homo sapiens divenne sapiens sapiens.
Sul tema, nel sito, cfr.:
PIANETA TERRA. Fine della Storia o della "Preistoria"? "Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere" (M. Serres, Distacco, 1986). Tracce per una svolta antropologica
OCCIDENTE, AGONISMO TRAGICO, E MENTE ACCOGLIENTE.
Federico La Sala
LA PARABOLA DEi "TALENTI", I "DUE CRISTIANESIMI", E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO.... *
Destinazione sinodo/18.
Dall’ascolto all’incontro. È la gioventù del Papa
di Stefania Falasca (Avvenire, mercoledì 8 agosto 2018)
Una generazione fa, nell’estate del 2013, di fronte alla marea di più di tre milioni di giovani assiepati sulla spiaggia di Copacabana per la Giornata mondiale della gioventù di Rio, papa Francesco era rimasto per un attimo in silenzio spaziando con lo sguardo su quella sconfinata folla di ragazzi sul bordo dell’oceano. Gli parve di vedere «guardando il mare, la spiaggia e tutti voi», disse, quel momento dell’inizio della storia cristiana sulla riva del mare di Galilea quando i primi due, alle quattro del pomeriggio, avevano incontrato Gesù. Gli erano andati dietro attratti da lui. E Gesù a questi due ragazzi - Andrea era sposato, quindi avrà avuto qualche anno di più, ma Giovanni era proprio un ragazzino -, voltandosi aveva domandato: «Che cosa cercate?». E questi non gli risposero ’cerchiamo la verità’, o ’cerchiamo la felicità’, non gli dissero neppure ’cerchiamo il Messia’. Quello che il cuore cercava lo avevano davanti. Allora a quella domanda - «Che cosa cercate?» - risposero chiedendo l’unica cosa che si può domandare: «Maestro dove abiti?», cioè ’dove rimani?’, dove rimani perché possiamo stare con te?
Sono passati cinque anni da quell’esordio vis-à-vis di Papa Francesco con i giovani di tutto il mondo in Brasile, e l’attualità ne resta intatta, anche se è cambiata nel frattempo la generazione dei «nati liquidi», come titola l’opera postuma di Zygmunt Bauman dedicata a queste ultime generazioni considerate sempre più «come bidone dei rifiuti per l’industria dei consumi» e «come un ulteriore fardello sociale», giovani che «hanno smesso di essere inclusi dalla promessa di un futuro migliore», sempre più «parte di una popolazione smaltibile la cui presenza minaccia di richiamare alla mente memorie collettive rimosse della responsabilità adulta». «Vuoti a perdere» a rischio «rottamazione», quelli che escono dalla lucida analisi dell’autore della società liquida, «gli scartati dall’impero del Dio denaro» da parte di chi divora la dignità umana e di cui gli Stati nascondono le stime crescenti dei suicidi. Giovani che sempre più non sanno cosa sia la Chiesa, anzi, che sempre più sono figli e nipoti di generazioni che non sanno più niente della religione.
Ma il dialogo intrapreso da Francesco da quel primo incontro sulla spiaggia di Copacabana si è fatto in questi anni serrato, spesso confidente, nel quale ai sermoni il Papa ha preferito domande e risposte a braccio come espressione di conversazioni dirette, di incontri. «Anche le migliori analisi sul mondo giovanile, pur essendo utili - sono utili -, non sostituiscono la necessità dell’incontro faccia a faccia. Parlano della gioventù d’oggi. Cercate per curiosità in quanti articoli, quante conferenze si parla della gioventù di oggi. Vorrei dirvi una cosa. La gioventù non esiste, esistono i giovani», ha detto di recente Francesco, tanto per essere chiaro. «Esistono le singole storie, i volti, gli sguardi, le illusioni, esistono i giovani... tu, tu.... Parlare della gioventù - ha ripreso in altra occasione - è facile: si fanno astrazioni, percentuali», invece «bisogna interloquire con loro», incontrarli «a tu per tu». Sono ormai decine i colloqui intrapresi non solo nell’ultima Gmg a Cracovia come in ogni viaggio apostolico nel mezzo delle crisi del mondo.
Forse anche da questi dialoghi è nata la decisione di un Sinodo non su ma dei giovani, per andare insieme. Camminando in controtendenza ha aperto le porte. E ha rotto la divisione noi-voi:
«Nella Chiesa - sono convinto - non dev’essere così: chiudere la porta, non sentire. Il Vangelo ce lo chiede: il suo messaggio di prossimità invita a incontrarci e confrontarci, ad accoglierci e amarci sul serio, a camminare insieme e condividere senza paura» ha ribadito anche nell’ultima riunione in vista del Sinodo di ottobre. «Questa riunione presinodale - ha aggiunto - vuol essere segno di qualcosa di grande: la volontà della Chiesa di mettersi in ascolto di tutti i giovani, nessuno escluso.
E questo non per fare politica. Non per un’artificiale ’giovano-filia’, no, non per adeguarsi, ma perché abbiamo bisogno di capire meglio quello che Dio e la storia ci stanno chiedendo. Se mancate voi, ci manca parte dell’accesso a Dio».
E se ha tenuto conto di tutte le realtà, il Papa più volte ha ribadito la volontà di lasciarsi interpellare da loro e di vederli protagonisti: «Siamo insieme parte della Chiesa, anzi, diventiamo costruttori della Chiesa e protagonisti della storia. Ragazzi e ragazze, per favore: non mettetevi nella ’coda’ della storia. Siate protagonisti. Costruite un mondo migliore, un mondo di fratelli, un mondo di giustizia, di amore, di pace, di fraternità, di solidarietà».
Ma perché la richiesta di questo protagonismo? «In tanti momenti della storia della Chiesa, così come in numerosi episodi biblici, Dio ha voluto parlare per mezzo dei più giovani: penso, ad esempio, a Samuele, a Davide e a Daniele. A me piace tanto la storia di Samuele, quando sente la voce di Dio. La Bibbia dice: ’In quel tempo non c’era l’abitudine di sentire la voce di Dio. Era un popolo disorientato’. È stato un giovane ad aprire quella porta. Nei momenti difficili, il Signore fa andare avanti la storia con i giovani. Dicono la verità, non hanno vergogna».
E se nella storia della salvezza il Signore si fida dei giovani, nell’incontro pre-sinodale del 19 marzo il Papa ha anche detto che il Sinodo di ottobre sarà anche un appello rivolto alla Chiesa, perché «riscopra un rinnovato dinamismo giovanile». Così come nell’udienza del gennaio 2017 ai partecipanti a un convegno dell’Ufficio Cei per la pastorale delle vocazioni aveva ripetuto che «sono le nostre testimonianze quelle che attirano i giovani. È la testimonianza: che vedano in voi vivere quello che predicate. Quello che vi ha portato a diventare preti, suore, anche laici che lavorano con forza nella Casa del Signore. E non gente che cerca sicurezza, che chiude le porte, che spaventa gli altri, che parla di cose che non interessano, che annoiano, che non hanno tempo... No. Ci vuole una testimonianza grande!».
Ritorniamo così all’inizio, all’incontro dei primi due discepoli con Gesù. Anche questa dinamica di come si diventa e si rimane cristiani percorre tutto il magistero di Francesco, ed è sempre la stessa - sempre nuova - che attraversa i tempi, le crisi e le generazioni, così che quell’episodio di Giovanni e Andrea raccontato a Copacabana è ripetuto ancora nell’ultimo intervento per il Sinodo di ottobre. E affinché l’assemblea non si trasformi in occupazione momentanea per monsignori forse sarà necessario non lasciarsi andare a una banale sociologia, e assumere invece queste intramontabili provocazioni evangeliche.
Sabato e domenica ci sarà l’incontro del Papa con i giovani delle diverse diocesi d’Italia. In molti sono già in cammino verso Roma per il pellegrinaggio, si parla di 40mila ragazzi. Marta, parte di un gruppo di universitari milanesi, parlando davanti a una pizza insieme agli altri dice che non le interessa niente dei discorsi sui giovani, e che non parte per sentire discorsi ma spinta da un incontro, che l’ha attirata e vuole vedere. Papa Francesco ha fatto sentire più volte come anche duemila anni fa un ragazzo e una ragazza, Giuseppe e Maria, hanno visto Dio con gli occhi e non in una visione mistica. Maria l’ha partorito, Giuseppe e lei lo hanno guardato. È iniziata così la storia cristiana. Sono stati lì a guardare Dio.
Francesco ha messo bene in evidenza come sia la grazia che crea la fede. Per questo la vita cristiana è semplice. La fede è il riconoscimento di questa attrattiva, di un incontro. E la grazia crea la fede non solo quando la fede inizia ma per ogni momento in cui la fede rimane. In ogni momento, non solo all’inizio, l’iniziativa è Sua, dice sant’Agostino. Solo a partire da questo cuore la Chiesa ringiovanisce e attrae. Il prossimo incontro con i giovani a Roma, come anche il Sinodo, può essere l’occasione per chiedere, per ciascuno, che questo avvenga e continui ad accadere.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?!
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
LA PAURA DI PENSARE E LA PARABOLA DEI TALENTI. Perché chiudere la nostra vita in una scatola?
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?
Federico La Sala
FILOLOGIA E TEOLOGIA
LUCE DELLA FEDE ("LUMEN FIGEI"): "CHARITAS" O "CARITAS"?!
PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI ... *
CONSTITUTIO DOGMATICA DE ECCLESIA
LUMEN GENTIUM (21 novembre 1964):
A) Testo latino
1. Lumen gentium cum sit Christus [...]
42. "Deus caritas est, et qui manet in caritate, in Deo manet, et Deus in eo" (1 Io 4,16). Deus autem caritatem suam in cordibus nostris diffudit per Spiritum Sanctum qui datus est nobis (cf. Rom 5,5); ideoque donum primum et maxime necessarium est caritas, qua Deum super omnia et proximum propter Illum diligimus. Ut vero caritas tamquam bonum semen in anima increscat et fructificet, unusquisque fidelis debet verbum Dei libenter audire Eiusque voluntatem, opitulante Eius gratia, opere complere, sacramentis, praesertim Eucharistiae, et sacris actionibus frequenter participare, seseque orationi, sui ipsius abnegationi, fraterno actuoso servitio et omnium virtutum exercitationi constanter applicare. Caritas enim, ut vinculum perfectionis et plenitudo legis (cf. Col 3,14; Rom 13,10), omnia sanctificationis media regit, informat ad finemque perducit(132). Unde caritate tum in Deum tum in proximum signatur verus Christi discipulus.
PAULUS EPISCOPUS
SERVUS SERVORUM DEI
UNA CUM SACROSANCTI CONCILII PATRIBUS
AD PERPETUAM REI MEMORIAM
B) Testo italiano
COSTITUZIONE DOGMATICA SULLA CHIESA
LUMEN GENTIUM (21 novembre 1964):
1. Cristo è la luce delle genti [...]
42. « Dio è amore e chi rimane nell’amore, rimane in Dio e Dio in lui » (1 Gv 4,16). Dio ha diffuso il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu dato (cfr. Rm 5,5); perciò il dono primo e più necessario è la carità, con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di lui. Ma perché la carità, come buon seme, cresca e nidifichi, ogni fedele deve ascoltare volentieri la parola di Dio e con l’aiuto della sua grazia compiere con le opere la sua volontà, partecipare frequentemente ai sacramenti, soprattutto all’eucaristia, e alle azioni liturgiche; applicarsi costantemente alla preghiera, all’abnegazione di se stesso, all’attivo servizio dei fratelli e all’esercizio di tutte le virtù. La carità infatti, quale vincolo della perfezione e compimento della legge (cfr. Col 3,14; Rm 13,10), regola tutti i mezzi di santificazione, dà loro forma e li conduce al loro fine [132]. Perciò il vero discepolo di Cristo è contrassegnato dalla carità verso Dio e verso il prossimo.
* PAOLO VESCOVO
SERVO DEI SERVI DI DIO
UNITAMENTE AI PADRI DEL SACRO CONCILIO
A PERPETUA MEMORIA
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CAMBIARE REGISTRO: "TERTIUS IN CHARITATE" (Gioacchino da Fiore)!!! Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno Papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
L’ACQUA DI FRANCESCO E IL MULINO DI BENEDETTO XVI: MA QUALE FEDE?!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
KANT, FREUD, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Jesus. Chi era costui? Antropologia filologia archeologia filosofia teologia cristologia pedagogia ...
IL "CIMENTO" DELL’ACCADEMIA GALILEIANA E LA "PIETRA” DEI FILOSOFI: "PROVANDO E RIPROVANDO"!
A riorganizzare le idee, a sollecitare ulteriori riflessioni e approfondimenti sugli importanti e vitali "rapporti tra cemento, cimento e cimentare" ("Ggimentu, gimmientu e ggimintare"), e a non cadere nel delirio di onnipotenza della preghiera nient’affatto evangelica e nient’affatto infantile, troppo “infantile” (“Cristo lo voglio io per Padre/ la Madonna la voglio per Madre/ S. Giuseppe lo voglio per fratello,/ I Santi tutti li voglio per parenti / Affinché mi scampino da tutti i cimenti” - vale a dire, i serpenti-parenti), tenendo conto delle precisazioni del prof. Polito e delle mie "vecchie" note relative al suo articolo "Serpente? Presente",
RICORDO
che il motto della ACCADEMIA DEL CIMENTO ("Accademia dell’esperimento"), nel solco del "Saggiatore" di Galileo Galilei, è
"PROVANDO E RIPROVANDO".
Solo su questa strada, valendosi "del proprio intelletto senza la guida di un altro", con l’uso della propria "bilancetta", è possibile trovare all’interno dalla caverna la "pietra da costruzione" ("lapis philosophorum") e al contempo l’uscita dallo Stato di minorità (Kant).
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LA STORIA DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE: L’ORIZZONTE DELLA CIVILTÀ E I DRAMMI CON CUI CONVIVIAMO.... *
L’ORIZZONTE DELLA CIVILTÀ E I DRAMMI CON CUI CONVIVIAMO
di don Paolo Farinella (la Repubblica, 10 giugno 2018)
«Tutti i figli di Adamo formano un solo corpo, sono della stessa essenza. Quando il tempo affligge con il dolore una parte del corpo (anche) le altre parti soffrono. Se tu non senti la pena degli altri, non meriti di essere chiamato uomo» . Queste parole sono scolpite nell’atrio del Palazzo dell’Onu.
Parole antiche, di Poeta e di Mistico, Saādi di Shiraz, Iran 1203 - 1291. Nove secoli fa un persiano musulmano esprimeva un pensiero che è ebraico e cristiano. Nella Bibbia, « Adamo » non è nome proprio di persona, ma nome collettivo e significa « Umanità - Genere Umano » , senza aggettivi perché non è occidentale, orientale, del nord o del sud, ma solo universale. L’Onu ha scolpito le parole sul suo ingresso perché le nazioni possano leggerla prima di deliberare per richiamarsi l’orizzonte delle decisioni. Europa, Italia e Occidente fan parte dell’Onu al punto che spiriti poveri osano parlare di « civiltà occidentale», identificandola, sacrilegamente, con il Crocifisso, senza memoria di storia, di geografia e di civiltà.
Due giorni fa, di mattina presto, un’amica mi ha inviato due video ripresi nei pressi della Regione Liguria dove dormivano persone per terra, « figlie di Adamo » , carne e sangue « della sua essenza » . Mi sono chiesto se la nostra civiltà non stia regredendo verso la preistoria, verso il nulla.
Come insegna il secolo XX, secolo di orrori, la barbarie porta all’abisso e inghiotte la Storia in un buco nero senza ritorno. Guardando le immagini di umanità crocifissa nella miseria dell’opulenza attorno al Grattacielo della Regione Liguria, ho pensato istintivamente alle parole del pastore protestante tedesco, Martin Möller, pronunciate nel 1946 in un sermone liturgico: « Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare».
A Genova sarà restaurata la Lanterna, simbolo della città, faro di luce nel buio e segnale per rotte sicure; a Genova si perseguitano i poveri, i senza dimora, gli sbandati, figli di una società impazzita che crede di potersi chiudere in sé, erigendo muri e fili spinati, mentre si difendono Istituzioni ed Europa. Chi costruisce muri distrugge l’Europa e il proprio Paese, chi perseguita il povero si attira la collera di Dio che è «il Dio degli umili, il soccorritore dei piccoli, il rifugio dei deboli, il protettore degli sfiduciati, il salvatore dei disperati» (Gdt 14,11).
La civiltà e il suo cammino lo avevano indicato nei millenni antichi le Scritture degli Ebrei, dei Cristiani e dei Musulmani, recepiti dalla modernità nell’esistenza stessa dello spirito delle Nazioni Unite, che si riconoscono in Saādi di Shiraz. Se oggi, cittadini, uomini e donne, politici e amministratori, vescovi e preti, politici e governanti, sindaci e assessori, credenti e non credenti, docenti e studenti, non si riconoscono laicamente nelle parole che vengono dal lontano Medio Evo, noi abbiamo messo mano alla scure per recidere l’albero su cui siamo seduti.
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SUL TEMA NEL SITO, SI CFR.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
"È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010).
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi" (Emilio Gentile)
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico
GUARIRE LA NOSTRA TERRA. "Potrei, per me, pensare un altro Abramo" (F. Kafka).
Federico La Sala
ICONE DELLA LEGGE - DELLA COSTITUZIONE. Icone. Pensare per immagini...
Resurrezione: mito o mistero?
di Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 28.05.2018)
Nel dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio Salita al Calvario del 1564, si scorge a fatica, al centro di una scena super affollata, Gesù salire al Calvario nell’indifferenza generale. Si fatica a vedere la sua piccola figura e la grande croce che trascina con sé. Tutt’intorno a lui brulica una folla indifferente, affaccendata nelle proprie attività. Il clima è festoso, non sembra profilarsi alcuna tragedia all’orizzonte. In primo piano, tre donne piangono, consolate da un giovane che sappiamo essere Giovanni, l’apostolo. Ma le quattro figure sembrano fuori posto, quasi fossero dovute perché non si dà la Passione senza le donne piangenti e Giovanni.
Inizia da qui l’itinerario che Gabriella Caramore e Maurizio Ciampa percorrono nel loro ultimo libro, Croce e Resurrezione (il Mulino), pubblicato nella collana ’Icone. Pensare per immagini’ diretta da Massimo Cacciari. -Come suggerisce il titolo, il libro è diviso in due parti. Nella prima, dedicata alla passione e crocefissione di Cristo, Maurizio Ciampa commenta la Salita al Calvario accostandola anche a diverse altre raffigurazioni dello stesso soggetto: da Hieronymus Bosch, col suo Cristo portacroce del 1515 - in cui il volto di Gesù sembra l’unico umano, schiacciato e soffocato da facce grottesche e demoniache -, a James Ensor, con L’entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889, in cui la parodia dell’ingresso a Gerusalemme alla vigilia della Pasqua, è un carnevale. Da Matthias Grunewald con il crocifisso dell’Altare di Isenheim, quasi inguardabile nell’atrocità del suo dolore, a I disastri della guerra, di Francisco Goya, 1808-1810, e altri ancora.
La seconda parte del libro è dedicata alla risurrezione di Cristo, evento inimmaginabile accaduto senza testimoni. Com’è possibile, allora, rappresentarlo? In che modo dipingere un uomo che abbia attraversato il confine della morte e abbia trovato, al di là, vita nuova? Di quale strana materia dovrebbe essere fatto, per rimanere attingibile ai sensi?
Gabriella Caramore sceglie di parlarne commentando La cena di Emmaus dipinta da Rembrandt nel 1629, in cui il risorto è un profilo d’ombra che risalta sulla luce proiettata sul muro alle sue spalle, che il suo stesso corpo emana. Ed è una buona scelta, perché non esiste in tutta la storia dell’arte un volto di Cristo risorto all’altezza dell’evento, neppure quello che forse è il più bello di tutti, ritratto da Piero della Francesca nel dipinto Resurrezione del 1460.
È un libro bello e intenso, traboccante di domande che tutti si fanno davanti ai due pilastri della fede cristiana, la morte in croce di Gesù e il suo ingresso in una nuova vita. Due sono le più dure e drammatiche: interessano ancora a qualcuno la sua storia e la sua tragica fine? Com’è possibile oggi credere alla resurrezione? La risposta, più lasciata intuire che detta esplicitamente, sembra essere ’no’. Forse, suggeriscono gli autori, dovremmo leggere tutta la vicenda in un modo diverso che, allontanandola dalla “leggenda”, ci permettesse di trovarne un senso accettabile oggi per noi.
Nella Salita al Calvario, osserva Ciampa, per la prima volta la passione di Cristo è trasformata in spettacolo, infatti la sua figura quasi scompare tra le tante che affollano la scena, per lo più allegre e ridanciane, prese dai loro vari commerci. Il luogo in cui il condannato sarà crocifisso è lontano e marginale. Come lo sono anche Giovanni e le donne, raffigurati in primo piano sul lato destro del dipinto, e sembrano del tutto estranei rispetto alla folla. Non sono vicini né a Gesù né al luogo del patibolo.
Maurizio Ciampa si chiede se ce la farà ad arrivare al Golgota questo povero Cristo “trafitto dall’indifferenza” e acutamente osserva: “Possiamo leggere la Salita al Calvario come un triste presentimento di ciò che accadrà, una sorta di presagio della Storia che verrà, una sua sintesi anticipata. La croce nascosta, il Cristo accantonato, la Passione alterata in ‘festa’”.
Una festa paesana che James Ensor porterà a termine, trasformandola in carnevale, dopo che Cristo avrà attraversato il male raffigurato nei volti ghignanti di Hieronymus Bosch, quasi a suggerire che egli non può - non ha potuto né potrà - vincere il male sulla Terra. “In Bruegel resiste ancora, nascosto, un residuo di croce” - afferma Ciampa - “in Bosch la croce sembra soccombere, Cristo resta comunque l’ultima traccia dell’umano; in Ensor, gli "uomini vuoti", distratti, confusi, sembrano non averne più memoria.” La passione diventata intrattenimento e un Cristo fragile e svuotato sembrano dichiarare che la sofferenza dell’uomo non troverà mai senso e che il “simbolo cristiano” ha perso efficacia per l’uomo di oggi. Il mondo ha messo Cristo da parte, la sua storia non interessa più, non è più ispiratrice né può dirsi in alcun modo diversa da quella dei tanti uomini e donne buoni e di valore che la Storia ha fatto a pezzi. Non c’è più altro da dire.
A questo punto, però, nella visione cristiana fondata sulla testimonianza della gente del tempo, entra in scena la libertà di Dio. Perché è questo il significato della resurrezione di Gesù: nella loro libertà i potenti nemici di Gesù ne hanno decretata la morte; nella sua libertà, Gesù non vi si è sottratto; ma nella sua libertà, Dio è intervenuto quando la sua azione non avrebbe più forzato e ridotto la libertà degli altri attori in gioco. Con la resurrezione di Gesù ha dichiarato, davanti agli uomini e alla Storia, che quell’uomo diceva la verità, su di loro e su Dio stesso. È possibile crederlo?
Gli autori sembrano, di nuovo, propendere per una risposta negativa quando si domandano: “Quale narrazione di quell’evento può aiutarci a darne una lettura che non strida con l’esigenza contemporanea di uscire dal linguaggio del mito?”. E più avanti, verso la conclusione del libro, Gabriella Caramore, invitando a non smettere di cercare “per capire se sia possibile estrarne una umile, esile forza su cui far leva per potere stare al mondo”, si chiede se non sia “proprio in questa eclissi di una trascendenza mitologica (corsivo mio) che può condensarsi il senso della ’resurrezione’: qualcosa è stato e ha lasciato un segno sulla terra ... rimane, per chi resta, la possibilità di ridestarsi alla luce, di rialzarsi alla vita. Non è, questo, un segno molto più potente che non attendere il ritorno nella carne, nella materia, o nella leggenda (corsivo mio) di chi ha lasciato quell’incolmabile vuoto?” E riferendosi all’evangelista Luca e alla sua insistenza a dichiarare Gesù il vivente anche dopo la morte, afferma: “In fondo quell’insistenza ... appare come un invito ad allontanarsi dalla visione di un cadavere che torna a rivisitare i vivi, per spalancare invece la possibilità di trovare forza e consolazione in ciò che rimane di una vita trascorsa”.
Se la resurrezione è un mito, non credo ci possa dare alcuna forza, né esile e umile, né d’altro genere; non consola nessuno né cambia alcunché della nostra personale sofferenza. Se non è un mito, è uno sconvolgimento, una forza potente, una rivoluzione dell’interpretazione che ognuno può dare alla propria vita, una direzione totalmente nuova verso cui sentirsi tutti in cammino. La resurrezione di Gesù non è il ritorno a questa vita di un cadavere, ma la rivelazione di un destino sorprendente, di uno stadio successivo alla vita che aspetta ogni essere umano (e non soltanto). È la possibilità di sperare con intelligenza, e non sulla base di favole e miti rassicuranti, che la morte non sia la fine del viaggio. E questa fiducia non si basa su un’adesione emotiva, non è stata conservata nei secoli da cuori fragili incapaci di accettare la morte, ma da spiriti forti e intelligenze acute che vi hanno riflettuto con tutte le proprie forze. È impossibile riassumere qua questo lungo cammino, mai concluso, ma chi volesse può ascoltare, per farsi un’idea della questione, una conferenza molto chiara e interessante dell’astrofisico e teologo Giuseppe Tanzella-Nitti, dal titolo: La visione del cristianesimo tra vita biologica ed immortalità, reperibile su youtube.
L’evento della resurrezione non ha avuto testimoni, per questo non si può definirlo storicamente certo (se lo fosse, probabilmente saremmo tutti cristiani). I fatti storicamente accertati riguardano, invece, quello che i discepoli fecero dopo gli incontri con Gesù successivi alla sua morte, e l’improvviso cambiamento avvenuto nella loro attitudine, nel loro stesso carattere.
La resurrezione è, ad ogni modo, un mistero che non si può liquidare facilmente né alla leggera, perché la fede cristiana non si fonda sul messaggio di Gesù allo stesso modo in cui, per esempio, il buddismo si fonda sull’insegnamento straordinario del Buddha, ma sulla sua persona e sul mistero che egli rappresenta per l’umanità tutta. A quel mistero appartiene, come elemento non secondario ma fondamentale, che sia risuscitato dalla morte rivelando qualcosa di sostanziale in merito al destino di tutti gli esseri umani.
Credere nella resurrezione di Gesù e in una vita piena dell’intera persona umana, al di là di come questo sia possibile e di quale materia sarà il nostro corpo, fa la differenza tra il cristianesimo e le altre concezioni. È ancora vero quello che ha detto san Paolo: “...se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede ... se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini.” (1Cor 15).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
KANT ALL’ATTACCO DEI DELIRI E DEGLI INGANNI DEI "GRANDI SAPIENTI": ANNO DI GRAZIA, 1766.
EVANGELO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ...
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Filosofia.
Paul Ricoeur: «La Parola sopravvive solo se riconvertita in evento»
Raccolta in libro una conferenza del filosofo del 1967 sul senso e la funzione di una comunità ecclesiale: è sempre necessaria una reinterpretazione intellettuale, pratica e sociale della parola
di Marco Roncalli (Avvenire, giovedì 17 maggio 2018)
Riflettere sulla funzione specifica di una comunità ecclesiale, le sue aspirazioni e istanze di senso, il suo linguaggio, il ruolo nella Chiesa e nella società, è quello che Paul Ricoeur - come raramente troviamo nei filosofi - prova a fare in queste pagine nate alla vigilia del Sessantotto, già girate parecchio come fotocopie di dispense fra gli studiosi di questo maestro dell’ermeneutica: mai però arrivate in un’edizione al grande pubblico.
Registrate nel gennaio 1967 alla Gerbe, una sala della parrocchia protestante di Amiens, durante un incontro teologico di due giorni, le parole di questa lunga conferenza di Ricoeur - scandita in tre parti con interlocutori cattolici, protestanti e comunisti e trascritte dal pastore Ennio Floris - furono pubblicate l’anno dopo nei “Cahiers d’études du centre protestant de recherche et de rencontres du nord” con il titolo Senso e funzione di una comunità ecclesiale al quale l’editrice Claudiana ha preferito ora Per un’utopia ecclesiale (pagine 100, euro 12,50).
L’opera va in libreria a cura di Claudio Paravati, Alberto Romele, Paolo Furia, e con una prefazione di Olivier Abel che considera quest’opera «a un tempo, come militante testimonianza di un periodo di passaggio e come banco di prova, come laboratorio di temi filosofici sviluppati, altrove o in seguito, in modo indipendente», dove «viene alla luce un aspetto del pensiero di Ricoeur troppo spesso trascurato, in cui i lettori potranno cogliere un approccio filosofico nuovo, radicale». Approccio dove - insieme ai non pochi spunti elaborati in opere successive - si comprende il del ruolo del filosofo nella Chiesa riformata francese.
Intervenendo sulla «comunità confessante» Ricoeur si ferma nella prima parte sul tema “Essere protestanti oggi” (con grande attenzione al linguaggio); nella seconda parte sulla presenza della Chiesa nel mondo (affrontando i punti di inserzione, le capacità di pressione, aspetti specifici della comunità cristiana); nella terza parte sul conflitto “Fede e religione” ricollegandosi a Bonhoeffer, Ebeling, Fuchs, come pure alla tradizione della predicazione primitiva e all’esegesi paolina. Pagine dunque militanti di un Ricoeur allora presidente del Movimento del cristianesimo sociale e anche della Federazione protestante e due anni dopo rettore dell’Università di Nanterre. Pagine che disegnano tratti di una Chiesa contrappunto di utopia dentro la società, fra critiche esterne della religione (Marx, Nietzsche, Freud) e decostruzione di varie pseudo-razionalizzazioni (che nascondono vivaci testi biblici).
Non pochi i passaggi di grande interesse. Nell’ambito del linguaggio, ad esempio, circa la parola che non può diventare reliquia, sopravvivendo grazie a costante reinterpretazione: «Chiamo interpretazione non solo ciò che possiamo fare intellettualmente ma anche praticamente, socialmente per rendere attuale una parola che continua a essere parola solamente se essa continua a essere riconvertita in un evento, che ridiventa esso stesso evento».
In ambito teologico, nella risposta data alla domanda “Possiamo ancora pronunciare la parola Dio?”: «Non possiamo più costruire delle teologie speculative, sistematiche, in cui parliamo di Dio come di una causa prima, un pensatore supremo, un essere assoluto separato da tutti gli altri esseri, ma dobbiamo pensare ciò che può significare nella Scrittura il Dio di Gesù Cristo. Se Gesù Cristo è colui che muore donando la vita, è quest’atto di svuotarsi di Cristo per noi a essere il nostro solo accesso a Dio». E così «la comunità cristiana non ha nient’altro da offrire agli altri esseri umani che quest’affermazione del Dio che si svuota, della debolezza assoluta di Dio per l’essere umano, che permette il nuovo essere umano, e che apre una speranza in cui gli esseri umani sono responsabili, ognuno nei confronti di tutti».
Infine, tutto da segnalare il passaggio nel quale Ricoeur s’interroga su quella che gli pare essere «la funzione insostituibile» di una comunità confessante in un tipo di società come la nostra, e cioè: della previsione, della decisione razionale, dell’invasione della tecnica nella vita quotidiana ad ogni livello.
Scrive il filosofo: «Mi sembra che la ragion d’essere delle chiese consista nel porre in permanenza la domanda sui fini, della “prospettiva”, in una società della “pianificazione”. Il “benessere”? A quale scopo? Tale questione tocca le ragioni profonde dell’essere umano nella società della produzione, del consumo e del tempo libero. Questa è caratterizzata da un controllo crescente dell’essere umano sui mezzi e da una cancellazione dei suoi fini, come se la razionalità crescente dei mezzi rivelasse progressivamente l’assenza di senso. Ciò è vero in particolare nelle società capitaliste [...]. In questo modo si rende manifesto l’elemento primo della società di produzione: il desiderio senza fine».
Ma c’è un altro sogno vano che anima l’essere umano della società consumista: ovvero «l’aumento della sua potenza», spiega Ricoeur. Che aggiunge: «Si vorrebbe annullare il tempo, lo spazio, il destino della nascita e della morte, ma in un progetto simile tutto diventa strumento, utensile, nel regno universale del manipolabile e del disponibile. È questo progetto che sfocia nel vuoto totale del non-senso. È così che la nostra “modernità vive simultaneamente della razionalità crescente della società e dell’assurdità crescente del destino». Una riconferma dell’assenza di giustizia presso gli uomini, ma ancor più della mancanza di amore e di significato.
Ed ecco allora i problemi che ci stagliano davanti nel segno dell’“insignificanza”: quella del lavoro, del tempo libero, della sessualità. Di fronte ad essi il compito non è recriminare o rimpiangere ma testimoniare.
Come? Facendo appello all’utopia, risponde Ricoeur, che chiama utopia «questa prospettiva di un’umanità compiuta, allo stesso tempo come totalità degli esseri umani e come destino singolare di ogni persona».
È la prospettiva che può dare un senso: volere che l’umanità sia una, volere che essa si realizzi in ogni persona. Nella responsabilità di pensare sempre un doppio destino.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 ...
Il Sessantotto incompiuto di Alain Badiou
di Marco Assennato (Il manifesto, 01.03.2018)
Saggi. «Ribellarsi è giusto! L’attualità del Maggio 68» per le Edizioni Orthotes, a cura di Alberto Destasio
«In occasione del cinquantenario del Maggio 68», Alain Badiou prende la parola per rompere la doppia morsa della celebrazione ebete e della condanna all’oblio. In questione sono tanto «l’idea vaga che troneggia in testa agli articoli-anniversari» - il 68 come ribellione di costume, «ultima utopia», «danza della storia a suono di rock» - quanto l’immagine del 68 come premessa dell’individualismo neoliberale contemporaneo.
«L’attualità del Maggio 68» si disegna invece come «riserva di coraggio» da scagliare contro due dispositivi di accecamento contemporanei: la morale del capitale umano, del merito e del successo atomizzante, da una parte; e dall’altra le prediche apocalittiche e reazionarie secondo cui «è più semplice ormai immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo».
LA PUBBLICAZIONE di questo piccolo pamphlet - Ribellarsi è giusto! L’attualità del Maggio 68 (pp. 112, euro 14) per le Edizioni Orthotes è quindi opportuna e coraggiosa: è una bella immagine questa del filosofo che rivendica una carica di speranza contro tanti corvacci stanchi.
Si tratta insomma di tornare ad interrogare l’evento, innanzitutto per restituirgli la sua intrinseca complessità. Il 68 non è stato un fenomeno unitario, piuttosto una molteplicità eterogenea. «Ci sono stati tre maggio 68», scrive Badiou, a volte in polemica tra loro, spesso effimeri, e tuttavia certamente potenti: il maggio studentesco - che ha segnato una forma radicale di critica alla democrazia rappresentativa; quello operaio - scosso da «scioperi selvaggi» e «insubordinazione» alle istituzioni tradizionali della sinistra storica, tanto socialista quanto comunista; e quello libertario, deposito prezioso di un profondo rinnovamento delle pratiche teoriche, artistiche e culturali. Ma, aggiunge Badiou, fornendo così una torsione decisiva al suo pensiero, in «questa effervescenza contraddittoria» la componente «essenziale» è costituita da «un quarto Maggio 68, che prescrive il nostro avvenire».
C’È UN’ARIA di rinnovamento che percorre queste pagine badiousiane, come se il filosofo tendesse a fare i conti con il reale. Se fino alla sua celebre riscrittura della Repubblica di Platone, Badiou aveva tolto di mezzo ogni possibilità di concretare il kairòs in qualsivoglia cristallizzazione storica osservabile, questo suo 68 si vuole invece come evento esemplificato. Di più: esso si inscrive in una genealogia - le lotte operaie che attraversano la Normandia e le periferie francesi lungo il 1967 - e si stende nei due decenni successivi. «L’evento - nota correttamente Alberto Destasio nella postfazione del volume - non è sciolto dal plesso con la storia, non è incondizionato. Ogni evento è storico». Più che esaltarne l’emergenza, si tratta insomma di misurarlo con «la tenacia delle sue conseguenze». Il quarto Maggio è quello che decreta la fine delle vecchie forme della politica e interroga le sue nuove e necessarie dimensioni: «che cosa è la politica» oggi? Quale forma organizzativa dobbiamo inventare, dentro la crisi della democrazia, per «farla finita con le leggi del profitto»? Ecco l’eredità viva del Maggio francese.
TUTTAVIA, giunti al punto massimo di tensione, il platonismo di Badiou torna pesantemente e precipita indietro il percorso svolto. Di nuovo, manca radicalmente ogni idea della produzione, tanto dei beni quanto dei soggetti. Anzi: è proprio a partire dalla completa obliterazione di ogni «agente soggettivo» che si manifesta la «distensione nichilista» di Alain Badiou. La politica comunista è una «Pura Idea», necessaria alla vita.
Dopo un elogio sperticato, e un poco ridicolo, del maoismo francese, il quarto Maggio vola nell’Iperuranio: urge «la ricerca di un’altra politica, illuminata dalla presenza immanente degli intellettuali», che - come insegna il comandante della lunga marcia - restituiscano alle masse «in modo preciso» ciò che esse consegnano «in maniera confusa». Nessuna inchiesta sulle singolarità antagoniste, anzi. Il filosofo non insegue le pratiche di lotta, né la sua conoscenza deriva da esse, piuttosto le chiarisce esattamente in forza della propria separatezza. Torna così l’ipotesi del comunismo come ideologia, utopia metafisica, radicalmente esterna all’agire collettivo, che già conosciamo. Dalla cattedra, tuttavia, non è possibile alcuna virtù, tantomeno quel «coraggio di ribellarsi» che attraversa tutto il libro.
COME REPLICARE a Badiou? C’è un celebre testo, scritto da Gilles Deleuze - cui Badiou rende un fuggitivo omaggio - e Felix Guattari, nel 1984, che varrebbe la pena accostare a questo libretto, per sbloccarne l’impasse. Anche lì era questione di evento. Notavano allora Deleuze e Guattari: il 68 non nasce da una crisi, è piuttosto la - lunghissima - crisi attuale che nasce dall’incapacità della società europea di operare una riconversione soggettiva di quanto accaduto cinquant’anni fa. Gli autori di Mille Plateaux ci hanno insegnato a rileggere il desiderio comunista come qualcosa che si costruisce dentro all’ammodernamento delle forme produttive, come fame di ricchezza e gioia della riappropriazione. «L’evento - scrivevano Deleuze e Guattari - crea una nuova esistenza, produce una nuova soggettività». Oppure non si genera. Perché non si dà critica fuori dalla densità di un agente storico e forse, ormai, non si dà neppure filosofia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Pianeta Terra. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi......
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità ... *
Diritto
Nel saggio di Daniele Menozzi (Carocci) la storia di come la Carta regolò i rapporti tra Stato e Chiesa
Nella Costituzione senza esserlo. Il destino ambiguo del Concordato
I tessitori. Dossetti e Togliatti con il liberale Lucifero trovarono la soluzione sancita nell’articolo 7
di Roberto Finzi (Corriere della Sera, 30.03.2018)
Non c’è dubbio che tra i «principi fondamentali» che reggono la nostra Repubblica racchiusi nei primi dodici articoli della Carta del 1948 (cui Carocci dedica una serie diretta da Pietro Costa e Mariuccia Salvati) il più controverso sia stato (in parte continui a essere) l’articolo 7 o meglio, e soprattutto, il primo asserto del suo secondo comma. Se, al di là delle sfumature, ogni forza politica e ogni cittadino, poteva ammettere che «lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani» perplessità e opposizioni nascevano e continuarono dalla affermazione che seguiva: «I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi», firmati, come si sa, da Benito Mussolini e dal cardinale segretario di Stato Pietro Gasparri l’11 febbraio 1929, regnante Achille Ratti, Papa Pio XI. Sanavano la «questione romana» apertasi con la presa di Roma. Con accordi e norme complicate tra cui due particolarmente odiose per un Paese che - dopo un decennio di guerre e la doppia occupazione nazista e alleata - si era scrollato di dosso la dittatura anche attraverso la Resistenza e stava lavorando non solo al ritorno delle civili libertà ma a una democrazia nuova, repubblicana come aveva decretato il voto del 2 giugno 1946.
Si trattava dell’asserto che quella cattolica era la religione «di Stato» e, per la sua pervasività, dell’attribuzione degli effetti civili al matrimonio religioso. Con il paradosso che chi riteneva il matrimonio un sacramento poteva, per le norme del diritto canonico, ottenerne la nullità, riconosciuta poi dallo Stato e chi invece aveva del matrimonio una concezione puramente civile era destinato a essere legato a vita, indissolubilmente, non per diretta conseguenza dei Patti, ma per la coincidenza nella visione della famiglia tra Chiesa e fascismo. Nel quadro per di più di un diritto di famiglia in cui era sancita una netta subordinazione della donna.
Nella sua ricostruzione del formarsi del dettame costituzionale e poi dei suoi effetti nella vita democratica italiana ( Art.7. Costituzione italiana ), Daniele Menozzi non nega le conseguenze negative del permanere di quelle norme specie nel quindicennio successivo alla emanazione della Carta Costituzionale. Ci offre però una chiave di lettura della formazione e del senso della norma più articolata, che affonda le sue radici nella complessità del problema cattolico nella storia dell’Italia unita e soprattutto a quel punto della vicenda del nostro Paese.
La Chiesa, lo dimostreranno le successive elezioni del 18 aprile 1948, aveva ancora un forte ascendente sulla popolazione ed era una Chiesa che, seppure - si vedrà di lì a poco - intimamente percorsa da interne pulsioni verso il nuovo, era ancora fortemente contraria al mondo moderno e alle sue forme politiche. In particolare a quelle di matrice socialista e comunista. Ora, si trattava, in sostanza - spiega Menozzi con precisione e acribia filologica - di attirare, per così dire, la Chiesa verso la accettazione piena di quella democrazia che si andava delineando nel lavoro della Costituente, cedendo in via formale alle sue richieste anche se nell’immediato contraddittorie con quella visione.
Protagonista di questa operazione complicata e sottile fu in primis Giuseppe Dossetti che univa alla sua profonda fede cristiana una visione non ierocratica della Chiesa, la competenza giuridica del canonista di vaglia, cristalline convinzioni democratiche, saldi legami con le altre culture politiche formatisi nella Resistenza. Dossetti trovò una sponda in Palmiro Togliatti, a lungo, e tutt’oggi, accusato di avere, in qualche modo permesso un inquinamento della Costituzione con il riconoscimento nel suo testo dei famigerati Patti Lateranensi.
L’atteggiamento del leader del Pci derivava dal convincimento che nella Repubblica dovessero riconoscersi per davvero tutti gli italiani e pure, dice Menozzi, da considerazioni più immediatamente politiche. Mentre stava costruendo il «partito nuovo» guardava alla possibilità di una adesione al Pci di cattolici. Così temuta dalla Chiesa pacelliana che nel 1949 il Papa scomunicherà i comunisti.
Io aggiungerei due aspetti. Togliatti era ben consapevole di quanto Milovan Gilas nelle sue Conversazioni con Stalin ricorda avergli detto il dittatore sovietico: «Questa guerra (...) è diversa da tutte quelle del passato; chiunque occupa un territorio gli impone anche il suo sistema sociale». E infine la lotta per l’egemonia all’interno della sinistra. In quel campo i socialisti, allora sotto la sigla Psiup, erano ancora, seppure non di molto, maggioritari rispetto al Pci.
Per ben intendere la vicenda al quadro manca un tassello. Decisivo. Si tratta della seconda parte del secondo comma dell’articolo 7 che recita: «Le modificazioni dei Patti (Lateranensi), accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale». In tal modo si eliminava una delle più forti obiezioni all’inserimento dei Patti in Costituzione. Per tale via infatti non venivano «costituzionalizzati» ché la loro modifica poteva avvenire per legge ordinaria. L’artefice di questo accorgimento essenziale fu Roberto Lucifero, liberale e monarchico.
Così l’articolo, nota Menozzi, «appariva formulato con il concorso di tre diverse famiglie politiche: la democristiana, la comunista e la liberale».
La «non costituzionalizzazione» dei Patti - in un modo profondamente cambiato all’interno e soprattutto all’esterno della Chiesa - sarà uno degli elementi che permetterà all’Italia l’adozione formale, prima sul terreno parlamentare e quindi - con i referendum del 1974 e del 1981 - attraverso la conferma popolare di decisive riforme come il divorzio e l’interruzione volontaria di gravidanza. E del nuovo diritto di famiglia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità ...
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
Federico La Sala
MEMORIA, STORIA, E FILOLOGIA. L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO...
GIOACCHINO DA FIORE, LA SORPRENDENTE “CARITÀ”, E IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO.
Di Gioacchino se si è conservato memoria del suo lavoro come del suo messaggio, lo si deve sicuramente alla sua "posterità spirituale" - è da dire con H. De Lubac, ma contro lo stesso De Lubac (...)
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA E POLITICA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO ....
GUERRA DI GENERE... E CONVERSAZIONE INFINITA. Una modesta considerazione....
Una nota a "Guerra di genere. Una modesta proposta" (di Paolo Fabbri, Alfabeta2)
Se non ricordiamo più "(...) la prima messa in italiano dopo due millenni di *latinorum* e la distruzione della statua del padrone illuminato Marzotto ad opera di scioperanti iconoclasti(...)" e non sappiamo più e nemmeno distinguere tra chi grida "forza Italia" e chi grida «"forza Italia"», come è possibile venir fuori dalla "fattoria degli animali" e accedere allo Spazio *neutro* e alla Terra *neutra*?! *
Abbiamo dimenticato della connivenza tra *grammatica* e *metafisica* e che , rispetto alla *lingua*, la coscienza «arriva dopo, zoppicando»; che "non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza"?!
"Come sarebbe questo italiano neutro?". Per andare oltre *Scilla* e *Cariddi*, forse, non potremmo e dovremmo chiedere ancora (e di nuovo) consulenza al mondo greco e alla società greca, quello e quella di Omero, Ulisse e Penelope?! O vogliamo continuare ancora (e sempre?) il vecchio *gioco* dell’ «io parlo, io mento» e dell’«io mento, io parlo»?!
Federico La Sala
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. "Paolo Fabbri, la conversazione infinita" (Maria Pia Pozzato, Alfabeta2).
DOC.:
EVANGELO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ...
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
IL MESSAGGIO EVANGELICO, IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, E LA CATASTROFE DELL’EUROPA.
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
“Il fascismo è eterno: ecco come lo si può riconoscere”
Non pensiero ma azione
di Umberto Eco (Il Fatto, 11.01.2018)
Il termine “fascismo” si adatta a tutto perché è possibile eliminare da un regime fascista uno o più aspetti, e lo si potrà sempre riconoscere per fascista. [...] Ritengo sia possibile indicare una lista di caratteristiche tipiche di quello che vorrei chiamare l’“Ur-Fascismo”, o il “fascismo eterno”. che non possono venire irreggimentate in un sistema; molte si contraddicono reciprocamente, e sono tipiche di altre forme di dispotismo o di fanatismo. Ma è sufficiente che una di loro sia presente per far coagulare una nebulosa fascista.
1. [...] Il culto della tradizione. Il tradizionalismo è più vecchio del fascismo. Non fu solo tipico del pensiero controrivoluzionario cattolico dopo la Rivoluzione francese, ma nacque nella tarda età ellenistica come una reazione al razionalismo greco classico. Nel bacino del Mediterraneo, i popoli di religioni diverse (tutte accettate con indulgenza dal Pantheon romano) cominciarono a sognare una rivelazione ricevuta all’alba della storia umana. Questa rivelazione era rimasta a lungo nascosta sotto il velo di lingue ormai dimenticate. Era affidata ai geroglifici egiziani, alle rune dei celti, ai testi sacri, ancora sconosciuti, delle religioni asiatiche. Questa nuova cultura doveva essere sincretistica. [...] tollerare le contraddizioni. Come conseguenza, non ci può essere avanzamento del sapere. La verità è stata già annunciata una volte per tutte [...] È sufficiente guardare il sillabo di ogni movimento fascista per trovare i principali pensatore tradizionalisti. [...]
2. Il tradizionalismo implica il rifiuto del modernismo. [...] Tuttavia, sebbene il nazismo fosse fiero dei suoi successi industriali, la sua lode della modernità era solo l’aspetto superficiale di una ideologia basata sul “sangue” e la “terra” (Blut und Boden). [...] L’illuminismo, l’età della ragione vengono visti come l’inizio della depravazione moderna. In questo senso, l’Ur-Fascismo può venire definito come “irrazionalismo”.
3. L’irrazionalismo dipende anche dal culto dell’azione per l’azione. [...] Pensare è una forma di evirazione. Perciò la cultura è sospetta nella misura in cui viene identificata con atteggiamenti critici. [...]
4. Nessuna forma di sincretismo può accettare la critica. Lo spirito critico opera distinzioni, e distinguere è un segno di modernità. Nella cultura moderna, la comunità scientifica intende il disaccordo come strumento di avanzamento delle conoscenze. Per l’Ur-Fascismo, il disaccordo è tradimento.
5. Il disaccordo è inoltre un segno di diversità. L’Ur-Fascismo cresce e cerca il consenso sfruttando ed esacerbando la naturale paura della differenza. [...] è dunque razzista per definizione.
6. L’Ur-Fascismo scaturisce dalla frustrazione individuale o sociale. Il che spiega perché una delle caratteristiche tipiche dei fascismi storici è stato l’appello alle classi medie frustrate, a disagio per qualche crisi economica o umiliazione politica, spaventate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni.
7. A coloro che sono privi di una qualunque identità sociale, l’Ur-Fascismo dice che il loro unico privilegio è il più comune di tutti, quello di essere nati nello stesso paese. È questa l’origine del “nazionalismo”. Inoltre, gli unici che possono fornire una identità alla nazione sono i nemici. Così, alla radice della psicologia Ur-Fascista vi è l’ossessione del complotto, possibilmente internazionale. I seguaci debbono sentirsi assediati. Il modo più facile per far emergere un complotto è quello di fare appello alla xenofobia. [...]
8. I seguaci debbono sentirsi umiliati dalla ricchezza ostentata e dalla forza dei nemici. [...]
9. Per l’Ur-Fascismo non c’è lotta per la vita, ma piuttosto “vita per la lotta”. Il pacifismo è allora collusione col nemico[...].
10. L’elitismo è un aspetto tipico di ogni ideologia reazionaria, in quanto fondamentalmente aristocratico. Nel corso della storia, tutti gli elitismi aristocratici e militaristici hanno implicato il disprezzo per i deboli. L’Ur-Fascismo non può fare a meno di predicare un “elitismo popolare”. Ogni cittadino appartiene al popolo migliore del mondo, i membri del partito sono i cittadini migliori, ogni cittadino può (o dovrebbe) diventare un membro del partito. Ma non possono esserci patrizi senza plebei. Il leader, che sa bene come il suo potere non sia stato ottenuto per delega, ma conquistato con la forza, sa anche che la sua forza si basa sulla debolezza delle masse, così deboli da aver bisogno e da meritare un “dominatore”. [...]
L’Ur-Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle sue nuove forme - ogni giorno, in ogni parte del mondo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!! NEL 1994 UN CITTADINO REGISTRA IL NOME DEL SUO PARTITO E COMINCIA A FARE IL "PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA" DEL "POPOLO DELLA LIBERTA’"
UNA DOMANDA ALL’ITALIA: MA COME AVETE FATTO A RIDURVI COSI’?! UN "BORDELLO STATE": UN PAESE BORDELLO. Una nota di Maurizio Viroli (dagli Usa) - e una risposta (agli americani, dall’Italia)
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
Federico La Sala
CHI E’ DIO? CHI E’ IL "PADRE NOSTRO"?! Chi è il Papa? Chi induce in tentazione .... *
A
Papa Francesco vuole cambiare il ’Padre Nostro’: "Traduzione non è buona, Dio non ci induce in tentazione"
Uno dei passaggi più noti potrebbe presto cambiare, come già successo in Francia *
CITTÀ DEL VATICANO - Il testo in italiano della preghiera più nota, il ’Padre Nostro’ , potrebbe presto cambiare. A farlo intendere è lo stesso papa Francesco: "Dio che ci induce in tentazione non è una buona traduzione. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice ’non mi lasci cadere nella tentazione’. Sono io a cadere, non è lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito".
Il pontefice lo ha spiegato nella settima puntata del programma ’Padre nostro’, condotto da don Marco Pozza, in onda su Tv2000. Francesco dialoga con il giovane cappellano del carcere di Padova nell’introduzione di ogni puntata. "Quello che ti induce in tentazione - conclude il Papa - è Satana, quello è l’ufficio di Satana".
Della controversia sulla preghiera più nota del cristianesimo - fu insegnata da Gesù stesso ai suoi discepoli che gli chiedevano come dovessero pregare - si è parlato in queste settimane quando in Francia si è detto appunto addio al vecchio ’Padre Nostro’. Dopo anni di discussioni sulla giusta traduzione, la nuova versione francese non include più il passaggio ’ne nous soumets pas à la tentation’ - ’non sottometterci alla tentazione’ -, che è stato sostituito con una versione ritenuta più corretta: ’ne nous laisse pas entrer en tentation’, ’non lasciarci entrare in tentazione’.
Secondo quanto ha scritto Le Figaro, la prima formula - ’non sottometterci’ - ha fatto credere a generazioni di fedeli che Dio potesse tendere in qualche modo una sorta di tranello, chiedendo loro di compiere il bene, li ’sottometteva’ alla tentazione del male. "La frase attuale lasciava supporre che Dio volesse tentare l’essere umano mentre Dio vuole che l’uomo sia un essere libero", ha commentato il vescovo di Grenoble, monsignor Guy de Kerimel, citato dal giornale. Dopo mezzo secolo - la controversa versione venne introdotta il 29 dicembre 1965 - la Conferenza episcopale transalpina ha quindi optato per la nuova traduzione del Notre Père. Per aiutare i fedeli a memorizzarla, la nuova preghiera è stata distribuita in decine di migliaia di copie nelle chiese di Francia. Il cambio ufficiale è avvenuto due giorni fa, domenica 3 dicembre.
Per la verità, anche in Italia, nella versione della Bibbia della Cei (2008), il passo ’et ne nos inducas in tentationem’ è tradotto con ’e non abbandonarci alla tentazione’; l’edizione del Messale Romano in lingua italiana attualmente in uso (1983) non recepisce tuttavia questo cambiamento. Ora però è il Papa a sostenere pubblicamente che si dovrebbe cambiare.
B
GUGLIELMO DI OCKHAM
Chi è il Papa? Un eretico
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, 13 settembre 2015)
Chi avesse cercato, magari in una biblioteca, l’edizione del Dialogo sul papa eretico di Guglielmo di Ockham, si sarebbe visto recapitare un volume ponderoso, in un latino non da parroco. In Rete l’ipotetico lettore qualcosa avrebbe trovato, rischiando però di peggiorare la comprensione: se fosse finito, putacaso, nel sito della Bayerische Staatsbibliothek, dove c’è la riproduzione digitale dell’editio princeps di Parigi del 1476, alle difficoltà della lingua avrebbe aggiunto quelle per la lettura dell’incunabolo. Aggirare l’ostacolo con una versione? Eccolo in un vicolo cieco: non ci sono traduzioni integrali in una lingua moderna. Eppure se il solerte bibliotecario avesse, per esempio, mostrato l’edizione di Francoforte del 1614, la curiosità sarebbe arrivata alle stelle, ché l’editore a pagina 957 aggiunse un Compendio degli errori di papa Giovanni XXII. Un’altra opera di Ockham, d’accordo, ma ne rafforzava le tesi.
Da qualche giorno tali preoccupazioni fanno parte del passato: Alessandro Salerno ha tradotto integralmente per la prima volta nella serie «Il pensiero occidentale» di Bompiani, con il testo latino a fronte, il Dialogo sul papa eretico di Ockham, che morì nel 1349 o nel 1350. Con tutta l’acutezza e la conoscenza di cui disponeva (era noto come il Doctor invincibilis), il celebre francescano tentò di dimostrare - senza allontanarsi dai punti fermi del cristianesimo - la possibilità dell’eresia del vicario di Cristo, mettendo in discussione tutte le relazioni tra papato e impero. La questione non era di poca importanza, giacché il sovrano diventava giudice naturale del pontefice, anzi avrebbe addirittura potuto invocare la difesa della fede per giustificare il suo intervento negli affari della Chiesa.
Certo, il papa a cui frate Guglielmo guardava, ovvero Giovanni XXII sedente in Avignone, non era una mammoletta e i francescani mal lo sopportavano. Basti ricordare che nel 1322, durante il suo pontificato, la disputa sulla povertà di Cristo e degli Apostoli appassionava dotti e semplici fedeli, tanto che un professore del convento dei minori di Narbona, Berengario, difese con forza un tale accusato di aver sostenuto che Cristo e i suoi seguaci nulla possedevano, né in comune né in proprio. Quando fu invitato a ritrattare, decise addirittura di appellarsi alla Santa Sede. Berengario invocò la decretale Exiit qui seminat di Nicola III (agosto 1279), nella quale la tesi era anzi obbligatoria. Giovanni XXII fece arrestare l’entusiasta difensore appena giunto ad Avignone; propose pubblicamente la questione della povertà di Cristo e, siccome Nicola III aveva comminato la scomunica per chi avesse cercato di intenderla in altro modo, con la bolla del 26 marzo di quell’anno, Quia quorundam, sospese la restrizione. La cosa andò avanti e nel dicembre successivo revocò la decretale del predecessore. Bonagrazia da Bergamo, anch’egli francescano, cercò di impugnare tali decisioni: finì a sua volta in prigione.
In un simile contesto nasce il Dialogo di Ockham, in sette libri, scambio di idee tra un maestro e un discepolo. L’opera pone questioni quali «A chi spetta definire la verità cattolica o l’eresia?» o «Esiste un giudice del papa?». Le domande sono radicali e tutto il sesto libro è dedicato alla condanna del pontefice eretico con pagine che recarono grande gioia all’imperatore. Due quesiti (meglio leggerli senza punto di domanda): «Il papa deve essere sottomesso all’autorità come lo fu Cristo» o «Se il papa oppone resistenza all’indagine sul suo conto, è lecito arrestarlo, detenerlo e metterlo in catene». Nella sua introduzione, poco meno di 200 pagine, Alessandro Salerno inquadra l’opera e offre un’analisi del sintagma «papa eretico» (compare circa 1200 volte a partire dal libro quinto). Pone in evidenza ironie e maschere, esamina i concetti di verità e potere, propone considerazioni sull’infallibilità.
Il “papa eretico” riapparirà nella storia della Chiesa con accusatori che non avranno l’acume di Ockham. Qualche storico chiamerà così Alessandro VI, e lo stesso Savonarola lo vide tale; altri, come il presbitero e teologo tedesco Ignaz von Döllinger, lo sussurrarono dopo la proclamazione del dogma dell’infallibilità pontificia con Pio IX. Ma questi sono dettagli. Ockham, scomunicato, accolto dall’imperatore Ludovico il Bavaro, passò la parte finale della vita a combattere i papi avignonesi con i suoi trattati. I quali, anche se non furono graditi o odoravano di zolfo, restano dei capolavori di intelligenza.
IL MAGISTERO DI MENZOGNA DELLA CHIESA CATTOLICA: IL "PADRE NOSTRO" CHE INDUCE IN TENTAZIONE. Una nota di Henri Tincq - con premessa.
IL NOME DI DIO. L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
DUE CRISTIANESIMI: COSA RESTA?! IL CRISTIANESIMO DEL "DEUS CHARITAS EST" O IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO DEL "DEUS CARITAS EST"?! O nessuo dei due?!
*** "Solo la carità cristiana insegna la prassi del Bene metafisico: Boni metaphysici praxim una CHARITAS christiana docet" (G.B. VICO, De constantia iurisprudentis, 1721). ***
INNANZITUTTO UN GRAN PLAUSO al prof . Armando Polito per il coraggioso intervento chiarificatorio sul tema (cfr. "Mesagne: Luca Antonio Resta, il vescovo e l’Affumicato":Fondazione Terra d’Otranto, 08/11/2017) e, al contempo, un modesto invito a riconsiderare i termini di una questione filologica e teologica di rilevantisima portata che ha il suo luogo di riferimento innanzitutto nei testi dell’evangelista Giovanni e poi nel famoso "INNO ALLA CARITÀ" di Paolo di Tarso, il romano persecutore dei cristiani (cfr.: MEMORIA FILOLOGICA E TEOLOGICA. GESU’, IL FIGLIO DELLA GRAZIA EVANGELICA ("CHARITAS") O IL "TESORO" DI "MAMMONA" ("CARITAS") E DI "MAMMASANTISSIMA" DEI FARAONI ?!!)
Come sappiamo da sempre, non si possono servire "due padroni", la Verità e la Menzogna contemporaneamente, "Dio Amore" e Dio Mammona" nello stesso tempo!!! Ciò che è in gioco è la questione delle questioni, quella stessa dell "ragione" e della "fede" unitamente, a tutti i livelli.
"CHARITAS" o "CARITAS"? COSA RESTA?!
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori.
MURATORI E RATZINGER: "DEUS CARITAS EST"!!! FINE DEL CRISTIANESIMO: TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
SE UN PAPA TEOLOGO SCRIVE LA SUA PRIMA ENCICLICA, TITOLANDOLA "DEUS CARITAS EST" ("CHARITAS", SENZA "H"), E’ ORA CHE TORNI A CASA, DA "MARIA E GIUSEPPE", PER IMPARARE UN PO’ DI CRISTIANESIMO; E CERCHI DI SAPERE "CHI" SIAMO NOI IN REALTÀ.
Federico La Sala
L’ITALIA, IL SEDILE, LA SELLA CURULE, LA "X" DI "REX" E "DUX", HENRY W, LONGFELLOW, E IL "DVX" DEL FASCISMO.... *
AD AMPLIARE e a contribuire a rendere più comprensibili ed evidenti i nessi tra i vari livelli del brillante lavoro di Armando Polito sul SEDILE di Nardò (Lecce), è bene tenere presente e ricordare cosa era la SELLA CURULE nella società dell’antica Roma:
"La sella curule (in lat. sella curulis) era un sedile pieghevole a forma di "X" ornato d’avorio, simbolo del potere giudiziario, riservato inizialmente ai re di Roma e in seguito ai magistrati superiori dotati di giurisdizione, detti perciò "curuli".
I magistrati solevano portare con sé la sella curulis assieme agli altri simboli del loro potere (fasci, verghe e scuri) e ovunque disponessero questi simboli, lì era stabilita la sede del loro tribunale.
Durante il periodo della Repubblica, il diritto di sedere sulla sella curule era riservato a: consoli, pretori, edili curuli, sacerdoti massimi, dittatori e al magister equitum. In epoca imperiale l’uso della sedia curule fu ampliato anche all’imperatore, al praefectus urbi e ai proconsoli.
Il simbolo di potere rappresentato dalla sedia curule affonda le sue radici nell’antica Etruria; infatti già gli Etruschi consideravano lo scranno pieghevole a forma di sella una prerogativa di chi poteva esercitare il potere (giudiziario ed esecutivo) sul popolo. Fu portato a Roma dal quinto re, Tarquinio Prisco.[1]
RICORDARE CHI ERA HENRY W. LONGFELLOW:
"Henry Wadsworth Longfellow (Portland, 27 febbraio 1807 - Cambridge, 24 marzo 1882) è stato uno scrittore e poeta statunitense, tra i primi letterati americani ad assurgere alla fama mondiale.
Longfellow fu il più famoso poeta della scena del New England nell’’800 e scrisse numerose opere tra cui Evangeline e Il faro.
Fu un acceso promotore dell’abolizione della schiavitù negli anni prima e durante la Guerra Civile Americana insieme ad altri intellettuali che gravitavano nell’orbita di Harvard e soprattutto insieme all’allora Governatore del Massachusetts John Andrew.
Intorno al 1862 insieme ai letterati James Russell Lowell, Oliver W. Holmes e George Washington Greene diede vita al cosiddetto "Circolo Dante", atto a promuovere la conoscenza della Divina Commedia di Dante Alighieri negli Stati Uniti. Insieme ai suoi colleghi del circolo, Longfellow ne portò a termine la prima traduzione statunitense in inglese nel 1867.
Da allora il successo dell’opera di Dante in America fu costante ed in seguito il Circolo diventò la "Dante Society", una delle più famose associazioni di dantisti nel mondo [...]" (cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Henry_Wadsworth_Longfellow).
LE PAROLE ("DVX-LVX, REX-LEX") SCRITTE SULLA "CROCE" INSCRITTA NEL "CERCHIO" SULLA TOMBA DI LONGFELLOW sicuramente - via Dante Alighieri (e probabilmente anche via Dante Gabriele Rossetti) - si ricollegano al filo della tradizione religiosa cristiana, e sono riferite a CRISTO, concepito come LUCE, LEGGE, RE, DUCE.
E, ANCORA, per capire come e perché siano apparse le scritte "REX" e "DVX" sulla parete del SEDILE di Nardò (Lecce), bisogna RICORDARE chi era MARGHERITA GRASSINI SARFATTI e rileggere il suo "DVX" (sul tema, mi sia consento, cfr IL MITO DELLA ROMANITÀ E IL FASCISMO: MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE).
E, INFINE, PER CAPIRE MEGLIO, E ALLA LUCE DEL SOLE ("INVICTUS"), IL SENSO DELLE "QUATTRO PAROLE" (LVX, LEX, REX, DVX), LEGGERE E RILEGGERE E ANCORA RILEGGERE LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA ....
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
FILOLOGIA E FILOSOFIA/TEOLOGIA. AMORE, RESPONSABILITÀ, E SESSUALITÀ... *
IN MEMORIA DI SANT’AGOSTINO (E IN ONORE DEL LAVORO DELLA FONDAZIONE "TERRA D’OTRANTO").
Lode a Marcello Gaballo per questa bellissima e preziosa nota su "L’affresco di sant’Agostino nella cattedrale di Nardò" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/28/laffresco-di-santagostino-nella-cattedrale-di-nardo/#_ftn1) - e il lavoro di De Giorgi: la sua trascrizione della scritta sul cartiglio (ormai scomparsa) "iuste/et cas/te viv/ere et/ xarita(te)" - contrariamente alla protervia che ha portato allo "sproposito maiuscolo" e alla brutta abitudine instauratasi almeno a partire da Ludovico A, Muratori di una "caritas" latina! - conserva ancora la memoria del legame della tradizione dell’evangelo (non: "vangelo"!) con la lingua greca ("charis", "charites"... "charitas").
FILOLOGIA E FILOSOFIA/TEOLOGIA. Giambattista Vico ("De constantia iurisprudentis", 1721) giustamente e correttamente e onestamente così pensava e scriveva: "Solo la carità cristiana insegna la prassi del Bene metafisico"("Boni metaphysici praxim una charitas christiana docet"). Sapeva che Gesù ("Christo") aveva cacciato i mercanti FUORI dal tempio, e non aveva autorizzato i sacerdoti a vendere a "caro-prezzo" (lat.: "caritas") la "grazia" (gr.: "Xapis", lat.: "Charis") di Dio (lat.: "Charitas")!!! Due padroni: Dio "Charitas" o dio "Caritas"?!, Dio Amore o dio Mammona?! In questo bivio ("X") ancora siamo, oggi - e ancora non sappiamo sciogliere l’incognita (""x")!
Sul tema, mi sia consentito, si cfr. la seguente nota:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori.
MURATORI E RATZINGER. "DEUS CARITAS EST": FINE DEL CRISTIANESIMO. TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
ALLA LUCE DEL lavoro di ARMANDO POLITO e MARCELLO GABALLO SU "SANTA MARIA DI CASOLE E LE SUE SIBILLE" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/24/santa-maria-casole-copertino-le-sue-sibille/), all’affresco di Sant’Agostino (databile forse più precisamente nella seconda metà del sec. XV), mi augurerei una rinnovata e maggiore attenzione non solo a tutta la figura dell’affresco ma, in particolare, all’immagine del bastone-pastorale con i suoi DUE SERPENTI. Essa richiama, con chiarezza, non solo la figura di Mosè ma anche e soprattutto la figura di ERMETE TRISMEGISTO con il suo caducèo (e, con essa, della Sibilla Pizia, di Apollo, e di Delfi).
L’affresco di Sant’Agostino nella cattedrale di Nardò, a mio parere, è un luminosissimo segno "manifesto" della diffusione della concezione umanistico-rinascimentale nella Terra d’Otranto e, insieme, del grande lavoro che porterà infine la Chiesa e Michelangelo a celebrare le Sibille (5) insieme ai Profeti (7) nella Volta della Cappella Sistina: ovvero, dice chiaramente del ruolo "giocato" dalla figura di Agostino nella costruzione dell’ orizzonte ecumenico umanistico e rinascimentale.
Sul tema, si cfr., unitamente al già citato lavoro di A. Polito e M. Gaballo, la mia nota sul
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
NEL LIBRO DI Marcello Gaballo e Armando Polito, "Santa Maria di Casole a Copertino (Lecce) ed altri repertori di Sibille" (Fondazione Terra d’Otranto 2017), è ripreso l’intero capitolo 23 del Libro XVIII del "De civitate Dei" (per eventuali approfondimenti, si cfr. sant’Agostino, "La città di Dio": http://www.augustinus.it/italiano/cdd/index2.htm)
PER MEGLIO CAPIRE il filo che lega l’ecumenismo umanistico-rinascimentale (Niccolò Cusano, "La pace della fede", 1453) con l’ecumenismo del presente attuale (nuovo Concilio di Nicea, 2025) e, insieme, la portata simbolica del particolare PASTORALE di sant’Agostino nell’affresco della Cattedrale di Nardò, mi sia consentito rinviare all’immagine del pastorale del Patriarca di Costantinopoli e all’intervista relativa all’ INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5791).
Federico La Sala
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Amore e responsabilità (Karol J. Wojtyla) - e "caritas" (J. Ratzinger) !!! Fonti cattoliche a confronto...
MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?!
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
Chi ha paura di Jorge Mario Bergoglio
di Riccardo Cristiano (Articolo 21, 1 settembre 2017)
Le anticipazioni di un libro intervista che contiene la trascrizione di dodici dialoghi con il sociologo Dominique Wolton (titolo: “Politique et sociétéˮ, edizioni L’Observatoire) riferiscono che Papa Francesco ha detto di essere andato per alcuni mesi da una psicanalista. In queste ore non sono pochi i giornali che riferiscono le condanne preconciliari della psicanalisi. Forse è il bisogno di trovare qualcosa di “inaudito” in quanto ha detto Bergoglio. Eppure a partire da Pio XII, passando attraverso gli apprezzamenti positivi del Vaticano II nei confronti della psicologia del profondo, si è giunti al riconoscimento di Paolo VI - nella Sacerdotalis coelibatus (1967) - della possibile necessità di un aiuto psicanalitico per i sacerdoti in difficoltà. Questa evoluzione è stata facilitata da una schiera di psicoanalisti dichiaratamente cattolici.
C’è un saggio, ad esempio, del professor Bresciani sul debito della Chiesa verso la psicoanalisi e Sigmund Freud nel quale possiamo leggere: “Freud, nonostante proponesse una vera e propria antropologia, militava decisamente per l’alleanza terapeutica con il malato; mettendosi a livello del sofferente si prestava ad un ascolto profondo e ad una partecipazione alla sua vita emotiva. [Un studio del professor] Ancona vede qui un Freud vicino alla pedagogia cristiana più di quanto egli stesso pensasse. Il suo ideale di uomo come colui che è capace di «amare e lavorare», la sua posizione sulla possibilità di sublimazione della sessualità, la conclusione della sua opera di ricerca con l’affermazione che la coscienza «resta la sola luce che nelle tenebre della vita psichica ci illumina e ci guida», erano posizioni passibili di sviluppi meno conflittuali.”
Passa in ombra così l’usuale coraggio di Jorge Mario Bergoglio, che anche in questa “confessione” di essere andato per sei mesi da una psicanalista ebrea, che lo ha molto aiutato, sembra stare in questo: anch’io sono un uomo, e tutti gli uomini hanno bisogno di aiuto. Lo dice lui, noi lo diciamo molto più difficilmente. -L’epoca buia dello scontro tra religione e psicanalisi è andata in soffitta da tempo. Ma siccome siamo in un’epoca che si fa nuovamente buia, intrisa di odio per l’altro, di pregiudizio, fondamentalmente di paura, sono moltissime le affermazioni fatte da Papa Francesco che colpiscono. E che per leggere bene dovremmo avere il suo stesso coraggio, cioè quello di toglierci il paraocchi e leggere per quel che sono. Un invito ad andare oltre gli steccati di oggi, oltre quei confini che ci chiudono in ghetti tanti asfittici quanto rassicuranti.
Leggiamo alcuni altri passaggi fondamentali delle sue riflessioni, partendo dall’ Africa e i migranti.
“[...]L’Europa ha sfruttato l’Africa ... non so se possiamo dirlo! Ma alcune colonizzazioni europee... sì, hanno sfruttato. Ho letto che un capo di stato africano appena eletto come primo atto di governo ha presentato al Parlamento una legge per il rimboschimento del suo paese - ed è stata promulgata. Le potenze economiche del mondo avevano tagliato tutti gli alberi. Rimboschire. La terra è secca per essere stata sfruttata e non c’è più lavoro. La prima cosa da fare, come ho detto alle Nazioni Unite, al Consiglio d’Europa in tutto il mondo, è trovare qui fonti per creare di posti di lavoro, investire. È vero che l’Europa deve investire anche a casa propria. Anche qui esiste un problema di disoccupazione. L’altro motivo per la migrazione è la guerra. Possiamo investire, le persone avranno una fonte di lavoro e non dovranno partire, ma se c’è guerra, dovranno ancora fuggire. Ora chi fa la guerra? Chi dà le armi? Noi.”
Per un uomo come Papa Francesco generalizzare è sempre difficile, ma se proprio deve farlo non generalizza sulle “razze”, ma sulle azioni degli Stati e le loro conseguenze. Per condannare? No, per esortare a invertire tendenza, a non cercare scorciatoie, a non vedere nelle vittime degli esseri inferiori, ma delle vittime.
Passiamo a Laicità e religioni. “Lo stato laico è una cosa sana. C’è una laicità sana. [...] Credo che la Francia - questo è il mio parere personale, non quello ufficiale della Chiesa - dovrebbe “elevareˮ un po’ il livello della laicità, nel senso che deve dire che anche le religioni sono parte della cultura. Come esprimerlo in modo laico? Attraverso l’apertura alla trascendenza. Ognuno può trovare la sua forma di apertura.” Come si vede, come si legge, qui non c’è una pretesa di superiorità del credente, ma la rivendicazione della spiritualità dell’uomo, del suo bisogno “naturale” di trascendenza.
Quarto punto, l’Europa. “Non vedo più Schumann, non vedo più Adenauer... L’Europa, in questo momento, ha paura. Chiude, chiude, chiude... L’Europa ha una storia di integrazione culturale, multiculturale come dice lei, molto forte. I Longobardi, i nostri Longobardi oggi, sono barbari che sono arrivati molto tempo fa... E poi tutto si fonde e abbiamo la nostra cultura. Ma qual è la cultura europea? Come definirei oggi la cultura europea? Sì, ha importanti radici cristiane, è vero. Ma non è sufficiente per definirla. Ci sono tutte le nostre capacità. Queste capacità per integrarsi, per ricevere gli altri. C’è anche la lingua nella cultura. Nella nostra lingua spagnola, il 40% delle parole è arabo. Perché? Perché erano lì per sette secoli. E hanno lasciato il segno... Credo che l’Europa abbia delle radici cristiane, ma non sono le uniche. Ci sono altre che non possono essere negati. Tuttavia, credo che sia stato un errore non citare le “radici cristianeˮ nel documento dell’Unione europea sulla prima Costituzione, e questo è stato anche commesso dai governi. Era un errore non vedere la realtà. Questo non significa che l’Europa debba essere interamente cristiana. Ma è un patrimonio, un patrimonio culturale, che abbiamo ricevuto.”
C’è qualcosa di enorme in queste parole, in questa capacità di ricordarci che quel che è stato vero ieri è vero anche oggi. Non esiste purezza, esiste contaminazione. La purezza è delle pietre, la contaminazione è della vita. Anche se non vogliamo più capirlo qualcuno, per fortuna, ce lo ripete.
L’insistenza sulla morale «sotto la cintura». “Ma noi cattolici, come insegniamo la moralità? Non puoi insegnarla con precetti del tipo: “Non puoi farlo, devi farlo, devi, non devi, puoi, non puoiˮ. La morale è una conseguenza dell’incontro con Gesù Cristo. È una conseguenza della fede, per noi cattolici. E per altri, la moralità è una conseguenza dell’incontro con un ideale, o con Dio, o con se stessi, ma con la parte migliore di se stessi. La morale è sempre una conseguenza... C’è un grande pericolo per i predicatori, quello di cadere nella mediocrità. Condannare solo la morale - la prego di perdonare l’espressione - “sotto la cinturaˮ. Ma degli altri peccati, quali l’odio, l’invidia, l’orgoglio, la vanità, l’uccisione dell’altro, prendere la vita, non se ne parla. Entrare nella mafia, fare accordi clandestini...”
Il Vaticano, se posso dir così, è apparso a lungo strabico: l’etica vista dalla Città del Vaticano sembrava riguardare l’inizio e la fine della vita, la morale limitata alla sfera sessuale... Ora l’etica torna a riguardare tutta la vita, dal momento in cui si concepisce a quando si muore, passando però per tutti i momenti della nostra esistenza: da quando sfruttiamo a quando veniamo sfruttati, da quando siamo vittime a quando facciamo nostra vittima un altro. Poco?
Amoris laetitia e rigidità. “La tentazione è sempre quella dell’uniformità delle regole... Prenda ad esempio l’esortazione apostolica Amoris laetitia. Quando parlo di famiglie in difficoltà, dico: “Dobbiamo accogliere, accompagnare, discernere, integrare...ˮ e poi ciascuno vedrà le porte aperte. Quello che sta realmente accadendo è che le persone sentono dire la gente: “Non possono fare la comunione”, “Non possono farlo”: la tentazione della Chiesa è lì. Ma “noˮ, “noˮ e “noˮ!”
Papa Francesco parla di uniformità delle regole, si potrebbe dire che allora la sua Chiesa non si pensa un giudice eterno ed esterno alla storia. Poco?
«L’aborto rimane un peccato grave». “ L’estensione del potere di assolvere il peccato dell’aborto a tutti i sacerdoti, «attenzione, questo non significa banalizzare l’aborto. L’aborto è grave, è un peccato grave. È l’omicidio di un innocente. Ma se c’è peccato, è necessario facilitare il perdono.” Un papa non poteva fare un esempio più rilevante e drammatico per indicare la portata rivoluzionaria della misericordia. Che non è “cancellare il peccato”, ma rigenerare la vita del peccatore. La misericordia così appare la vera cultura alternativa all’odio e, quindi, al terrorismo.
Reciprocità con i musulmani. “Non accettano il principio della reciprocità. Alcuni paesi del Golfo sono aperti e ci aiutano a costruire chiese. Perché sono aperti? Perché hanno lavoratori filippini, cattolici, indiani... Il problema in Arabia Saudita è che è davvero una questione di mentalità. Con l’Islam, comunque, il dialogo sta andando bene, perché non so se lo sa, ma l’Imam di Al-Azhar è venuto a trovarmi. E ci sarà incontro: vado. Penso che farebbe bene a loro fare uno studio critico sul Corano, come abbiamo fatto con le nostre Scritture. Il metodo storico e critico di interpretazione li farà evolvere.”
E’ questo il punto per me più importante, più forte. Senza nessuna pretesa di superiorità, né religiosa né culturale, Bergoglio indica la strada della salvezza dell’islam, in una parola: ermeneutica. Non esita a far presente ai suoi interlocutori il punto decisivo, il punto “critico”, ma lo fa per il bene dell’islam, dei musulmani. E questo, francamente, è commovente.
*
SUL TEMA, BEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
EUROPA ED EVANGELO. LA ’CROCE’ DI CRISTO ("X" = lettera alfabeto greco) NON HA NIENTE A CHE FARE CON IL "CROCIFISSO" DELLA TRADIZIONE COSTANTINIANA E CATTOLICO-ROMANA.
Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è morto.
INDIETRO NON SI TORNA: GIOVANNI PAOLO II, L’ULTIMO PAPA. PER IL DIALOGO A TUTTI I LIVELLI: UT UNUM SINT.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
L’URLO ("HOWL") DI FINNEGANS: "WAKE", "SVEGLIARSI"!
DOMANDE, SAPERE, E POTERE (TEOLOGICO POLITICO PEDAGOGICO E SESSUALE): ...
“FAQ”, “FAKE”, “FUCK”: ATTENZIONE A QUESTE TRE PAROLE ormai di uso comune. Facendo interagire la loro scrittura, la loro pronuncia, e i loro significati, viene alla luce un prezioso invito ad “avere il coraggio di servirsi della propria intelligenza” (Kant) e a porre “domande su tutto!” (Confucio).
Alle "domande poste frequentemente" (“Frequently Asked Questions, meglio conosciute con la sigla FAQ - pronuncia, in inglese: “F”, “A”, “Q”), CHI risponde (?!), se SA, dà le risposte che sa (fa il suo dovere, e si ferma!), ma, se NON sa e pretende di sapere (come spesso accade - in un abuso di autorità permanente e, ovviamente, di non rispetto di CHI pone le domande), dà solo risposte “false e bugiarde” (FAKE - parola inglese, pronuncia “feik”, che sta a significare "falso", "contraffatto", "alterato". Nel gergo di internet, un fake è un utente che falsifica in modo significativo la propria identità), che cercano solo di ingannare, fregare, fottere in tutti i sensi ( FUCK - parola inglese, pronuncia “fak” - "fach", " faq!": come interiezione equivale all’italiano - cazzo!, come sostantivo: scopata, come verbo: scopare, fottere!).
Non è meglio sapere CHI siamo e cercare di uscire dalla caverna - con Polifemo, Ulisse e compagni (come con il Minotauro, Teseo e Arianna) - senza "fottere" Nessuno e senza mandare Nessuno a farsi “fottere”! O no? La tragedia è finita da tempo!
Federico La Sala
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A) James Joyce, Finnegans Wake (Libro Primo V-VIII, Oscar Mondadori, Milano 2001, pp. 195-195 bis).:
"He lifts the lifewand and the dumb speak
Quoiquoiquoiquoiquoiquoiquoiq"
"Egli brandisce la bacchetta della vita e i muti parlano
Quoiquoiquoiquoiquoiquoiquoiq" *
Quoì-quoì-quoì-quoì-quoì-quoì-quoì...
Quà-quà-quà-quà-quà-quà-quà-quà-quà...
B) Gesù - nel messaggio evangelico, cfr. Marco 7, 31-37:
Di ritorno dalla regione di Tiro, passò per Sidone, dirigendosi verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.
E gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano.
E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: «Effatà» cioè: «Apriti!».
E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
C) KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
D) A SCUOLA CON JOYCE. LEGGERE E RILEGGERE FINNEGANS WAKE.
E) "CHI" SIAMO: LA LEZIONE DEL PRESIDENTE MANDELA, AL SUDAFRICA E AL MONDO.
Federico La Sala
FESTIVALFILOSOFIA SULLE ARTI. Modena, Carpi e Sassuolo, 15.16.17 settembre 2017
Presentato il programma del Festival della filosofia
Kermesse. Tema della diciassettesima edizione è le «Arti», sinonimo del buon saper fare
di Benedetto Vecchi (il manifesto, 13.07.2017)
Il tema è di quelli che frettolosamente potrebbero essere rubricati alla voce «accademia». Ma nelle parole degli organizzatori è declinato invece come chiave di lettura non solo per comprendere cosa si muove nel triangolo urbano dove si svolge da diciassette anni il «Festival della filosofia» ma anche per affrontare alcuni nodi del vivere in società, come la rappresentazione del sé come un’opera. Non si affronteranno quindi solo le «belle arti», ma anche quel saper fare alla base dell’antica etimologia greca del termine «arte».
NELL’ILLUSTRARE il programma, sia Remo Bodei che il nuovo direttore del festival filosofia Daniele Francesconi hanno sottolineato che gli argomenti tratti dai cinquanta relatori chiamati a svolgere le loro lezioni in piazza spazieranno dalle belle arti al design alle macchine e a quella figura idealtipica dell’artigiano che manipola la materia per produrre un’«opera». In fondo, tecnica e arte sono stati sinonimi per secoli, prima di essere separati e posti agli antipodi dell’attività umana.
Dunque, come ogni anno dall’inizio dell’attuale millennio, le piazze di Modena, Carpi e Sassuolo saranno riempite, dal 15 al 17 settembre, da un pubblico desideroso di ascoltare filosofi - più recentemente anche sociologi e scienziati - che affrontano il tema scelto dal comitato scientifico.
IL FORMAT DELL FESTIVAL è semplice: lectio magistralis in piazza per un pubblico non pagante, come invece avviene in altre kermesse culturali. E così il numero delle presenze è salito di anno in anno fino a far raddoppiare nei giorni del festival la popolazione delle tre città.
Un limite, evidenziato nel corso del tempo, si è però manifestato: i relatori spesso erano sempre gli stessi. Forse per questo motivo, che il «corpo docente» di quest’anno è stato parzialmente rinnovato, chiamando a parlare nomi poco invitati in Italia, ma che sul tema delle «arti» (il saper ben fare) hanno scritto molto, come la tedesca Rahel Jaeggi, lo statunitense James Clifford, il croato Deyan Sudijc.
LE «ARTI», dunque, come sinonimo di lavoro artigiano, di scienza, creatività, estetica applicata alla produzione e al consumo. Un ordine del discorso che risponde a quello che è stato qualificato, soprattutto dai tre sindaci intervenuti nella presentazione, come il «capitale sociale» presente nella regione che ospiterà il festival. D’altronde Modena, Carpi e Sassuolo sono luoghi di ricerca scientifica, di produzione tessile o di ceramiche di qualità. Insomma, centralità del «savoir faire» e della produzione di opere che ha spinto nel tempo alcuni autori della modernità a contrapporlo, polemicamente, ai classici della filosofia. O come mezzo per tornare alle origini della filosofia (Hannah Arendt non è mai stata citata, ma l’eco delle tesi della filosofa tedesca espresse in Vita Activa era più che evidente).
Come ogni anno, accanto alle lezioni, ci saranno mostre, proiezioni cinematografiche, cene «filosofiche». Il programma completo può essere consultato nel sito: www.festivalfilosofia.it
IL "CRITÈRA", LA "SCHOLA SARMENTI" DI NARDÒ*, E UNA LEZIONE SUL CRITÈRIO PER BEN LEGGERE LA “CRITICA DELLA RAGION PURA”. Un omaggio al lavoro del prof. Armando Polito
PER BEN GIUDICARE.... per ben fare
PREMESSO E TENENDO PRESENTE CHE la conoscenza del greco a noi è venuta dalla Grecia (VIA Calabria: Boccaccio porta da Napoli a Firenze per tenere lezioni di greco Leonzio Pilato da Seminara - cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP//article.php3?id_article=5421; VIA Salento: Gregorio Messere a Napoli - cfr. http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/11/15/torre-s-susanna-br-celebra-gregorio-messere-380-anni-dalla-nascita/) e quanto sia grande e decisiva per l’intera vita dell’umanità il buon uso della parola (in ebraico, la parola "verità" è detta con il termine "emet") e la parola "morte" con il termine "met"),
CON LA LETTURA DEL TESTO DI QUESTA BRILLANTISSIMA LEZIONE DI FILOLOGIA DEL PROF. ARMANDO POLITO ("Critèra: attenzione all’accento!": http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/07/13/critera-attenzione-allaccento-al-profano-un-semplice-accento-puo-sembrare-un-banale-tanto-piu-nella-cultura-dominante-cui-prevalgono-approssimazione-incompetenza-assenza-pressoche-tot/)",
INIZIEREI LE LEZIONI DEL CORSO DI LAUREA IN FILOSOFIA NON SOLO ALL’UNIVERSITA’ non solo di Roma, ma anche di Lecce, di Napoli, di Firenze, di Milano, d’Italia e di Europa!!!
A 230 anni dalla pubblicazione dalla seconda, importantissima e decisiva, edizione (per la lotta "Contro l’idealismo" e i sogni dei visionari e dei metafisici), della "CRITICA DELLA RAGION PURA", nell’epoca della "post-verità" (cfr.: https://it.wikipedia.org/wiki/Post-verit%C3%A0) e delle "fake news" (cfr.: https://it.wikipedia.org/wiki/Fake_news) non fa assolutamente male bere un buon bicchiere di vino "Critèra" e di ricordare - per la nostra umana SALUTE! - la lezione del saggio illuminismo kantiano (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829)!!!
*
NOTA: LA "SCHOLA SARMENTI" DI NARDÒ....
A COMINCIARE DALLA FINE, E DALLA BOTTIGLIA DI "ROCCAMORA" (sull’etichetta della bottiglia di rosso "negroamaro", in forma di "croce", appare un "calice" con dentro il "sole"!), GUARDANDO E "LEGGENDO" CON maggiore ATTENZIONE L’IMMAGINE DELL’ETICHETTA, E FREQUENTANDO (di più) LA "SCHOLA SARMENTI" (cfr.: http://www.foodandtravelitalia.it/schola-sarmenti-dallamore-la-terra-leccellenza-bottiglia/), è possibile capire MEGLIO (mi sia lecito!!!) QUESTO PREZIOSO contributo del prof. Armando Polito, "ROCCAMORA, OVVERO IL VINO COME STORIA E COME CULTURA" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/06/05/roccamora-ovvero-vino-storia-cultura/), e, forse, riuscire a non confondere il buon-vino con il vino taroccato, o, diversamente e più pertinentemente, di non perdere il legame che corre e scorre tra il vino, l’acqua sporca, e il bambino [...] (CFR. FEDERICO LA SALA, "LA COMETA, L’APOCALISSE, LE "CIFRE DELL’EUCHARISTIA", E UNA BOTTIGLIA DI ROCCAMORA!!! IN VINO VERITAS": http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/06/05/roccamora-ovvero-vino-storia-cultura/#comments).
Federico La Sala
L’ITALIA, LA CHIESA CATTOLICA, I "TESTICOLI" DELLE DONNE E LA "COGLIONERIA" DEGLI UOMINI OVVERO ANCHE LE DONNE HANNO LE "PALLE". L’ammissione di Giovanni Valverde, del 1560!!!:
Lettere
Quanto è atavica la mentalità maschile
La donna che non genera è esposta a un dubbio logorante.
Ed è guardata ancora con sospetto
Risponde Umberto Galimberti *
Alla parità tra maschi e femmine non si arriverà mai, perché, non essendo in grado di generare, i maschi capiscono del mondo femminile unicamente quello che loro ritengono sia proprio della donna, e precisamente ciò che per natura a loro non è concesso. Svincolati dai ritmi della natura, i maschi, per occupare il tempo e non morire d’inedia nell’ozio, hanno inventato la storia, e in questa storia hanno inserito la donna come generatrice, madre dei loro figli, prostituta per le loro soddisfazioni sessuali e, a sentire Lévi-Strauss, il più grande antropologo del ’900, come merce di scambio nei loro traffici.
Un altro antropologo, Bronislaw Malinowski, riferisce che gli abitanti delle numerose tribù da lui visitate ignoravano il ruolo maschile nella generazione, e pur tuttavia, le donne da lui interrogate, rispondevano che tutti i figli assomigliano al padre, mentre la madre, genitrice riconosciuta dai suoi figli, non ha con essi alcuna somiglianza. La coppia parentale, "paritetica" nella riproduzione sessuale, diventa "gerarchica" nella rappresentazione sociale. A questo schema non sfugge neppure Aristotele per il quale "la femmina offre la materia e il maschio la forma", e neanche il mito cristiano di Maria Vergine, che con il suo corpo mette al mondo il figlio di Dio che di sé dice: "Io e il Padre siamo una sola cosa" (Gv. 10,30).
Questo impianto ideologico, che affonda negli abissi del tempo e della storia, governa ancora la mentalità maschile, che da qui prende spunto per esercitare il suo potere sul mondo femminile ridotto al rango di "materia", a proposito della quale Aristotele scrive: "La femmina desidera il maschio come la materia desidera la forma, il brutto desidera il bello".
A questo punto il dominio dell’uomo sulla donna appare come perfettamente "naturale", perché non c’è niente di più naturale e di più evidente del suo corpo fatto apposta per la generazione. Ebbene, proprio nella differenza tra il corpo dell’uomo e il corpo della donna si trova la prova inconfutabile del dominio del primo sulla seconda, di cui sono convinti non solo gli uomini, ma anche le donne che per secoli hanno trovato naturale il dominio esercitato su di loro da parte dell’uomo. Com’è noto, infatti, il potere non sta tanto nell’esercizio della sua forza, ma nel consenso dei dominati alla propria subordinazione.
È da questo consenso, quello dei subordinati, che lei si deve liberare. E liberandosi potrà persuadere la mente di qualche uomo e di qualche donna che la donna non è solo materia per la generazione e i piaceri sessuali, ma al pari dell’uomo può generare anche a un altro livello, quale può essere la realizzazione di sé nel mondo lavorativo, in quello culturale, persino in quello sessuale senza doversi ridurre alla pura e semplice opacità della materia. E se sente sopra di sé la disapprovazione di molti tra quanti le stanno intorno, sappia che dobbiamo fare a meno di mezzo mondo per poter generare il nostro mondo, che non è deciso solo dalla biologia al servizio della specie, perché la specie, come sappiamo, è interessata agli individui unicamente per la sua sopravvivenza. E dopo che hanno generato, nella sua crudeltà innocente, li destina alla morte, perché altri individui, nascendo e generando, le assicurino la sua vita.
"DUE SOLI" IN TERRA, E UN SOLO SOLE IN CIELO: "TRE SOLI". GENERE UMANO: I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE!!! NON SOLO SUL PIANO TEOLOGICO-POLITICO, MA ANCHE ... ANTROPOLOGICO!!!
L’uomo che apre le porte dei capolavori vaticani: “Ho le chiavi del paradiso”
Gianni Crea è il capo dei clavigeri dei musei della Santa sede. "Ogni mattina, quando entro nella Cappella Sistina, mi sento un privilegiato"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 gennaio 2017)
CITTÀ DEL VATICANO. "L’alba è il momento più magico. Entro nel bunker che custodisce le 2797 chiavi dei musei vaticani. Quando non ci sono gli addetti della sagrestia pontificia, tocca a me prelevare l’unica chiave che non ha numero né copie. È un modello antico come la porta che apre, quella della Cappella Sistina. Giro la serratura della Cappella, quella stessa che sigilla i cardinali in conclave, per pochi istanti mi sento investito da una meraviglia che non è facile spiegare. M’inginocchio, mi segno, e dico una preghiera in solitudine. Chiedo che tutti i visitatori che di lì a poco entreranno possano provare il medesimo stupore. Sono un privilegiato, ne sono consapevole. E so che di questo privilegio devo esserne sempre degno".
Gianni Crea, 45 anni, romano ma originario di Melito di Porto Salvo, in provincia diReggio Calabria, è capo clavigero dei musei vaticani. In sostanza, ha il compito di aprire e chiudere tutte le porte e le finestre, 500 in tutto, 300 del percorso dei visitatori e 200 dei vari laboratori collegati. A vent’anni il parroco della chiesa che frequentava sulla via Appia gli chiese se voleva lavorare nella basilica vaticana come custode ausiliario. La Fabbrica di San Pietro in cambio avrebbe contribuito ai suoi studi. Accettò.
Qualche anno dopo, giovane studente di giurisprudenza con il sogno di diventare magistrato, partecipò a un concorso per diventare a tutti gli effetti custode. Per un anno lo osservarono, per valutare se fosse idoneo: puntualità, discrezione e serietà le principali doti richieste. Venne preso: "Da adesso - gli dissero - devi sempre ricordare dove ti trovi. Lavori nel centro della cristianità. I dieci comandamenti devono diventare il tuo secondo vestito". Una richiesta "non da poco", dice. "Tuttavia sono contento di non disattenderla".
Più immaginifica fu, invece, la consegna che gli fece Antonio Paolucci, fino a poche settimane fa direttore dei musei, quando da semplice clavigero venne nominato capo. "Adesso sei tu ad avere simbolicamente in mano le porte del Paradiso", gli disse per fargli comprendere la responsabilità a cui era chiamato. Con lui, infatti, collaborano altri dieci clavigeri che si dividono il lavoro in due turni, una metà dalle 5.30 del mattino alle due del pomeriggio. Gli altri fino a sera tardi. "Da quel momento il Vaticano è diventata la mia seconda casa - dice - Conosco le chiavi come le mie tasche. Ogni porta apre un mondo per me e per tutti i clavigeri familiare. Dietro ogni porta c’è un odore particolare, un profumo, riconoscibile soltanto da noi".
L’apertura e la chiusura di porte e finestre sono momenti entrambi delicati. Alle 5.30 la Gendarmeria di Porta Sant’Anna toglie l’allarme e il clavigero di turno procede con un lungo giro che dura quasi un’ora e mezzo. Dopo ogni apertura c’è il controllo che ogni cosa sia in ordine. "Se ad esempio si rompe un tubo dell’acqua - racconta - spesso tocca a me chiamare l’idraulico". Negli ultimi anni i visitatori dei musei sono parecchio aumentati, 28mila le sole presenze giornaliere in Sistina. Tutto deve essere perfetto. "Ma anche la chiusura non è facile. Bisogna controllare che nessuno rimanga all’interno. Gli imprevisti sono sempre possibili. Una sera chiudemmo tutto e di colpo suonò l’allarme. Accorremmo nella stanza nella quale veniva segnalata una presenza. Per fortuna era soltanto un passerotto rimasto dentro".
Il clavigero è l’erede delle chiavi del Maresciallo del Conclave, colui che fino al 1966 doveva sigillare le porte intorno alla Cappella quando i cardinali si riunivano per eleggere il Pontefice. La sua chiave non è l’unica a essere preziosa: c’è, ad esempio, la chiave numero 1, quella che apre il portone monumentale su viale Vaticano, che oggi è il portone d’uscita dei visitatori dei musei.
E poi c’è la 401, una delle più antiche: apre il portone d’entrata dei musei e pesa mezzo chilo. "Due chiavi decussate, cioè incrociate a X, appaiono negli stemmi ed emblemi dei papi - scrive Tiziana Lupi su "Il mio Papa" - Sono una d’oro (potere spirituale) e una d’argento (potere temporale); hanno i congegni traforati a croce e sono unite da un cordone, simbolo del legame tra i due poteri ". I musei sono divisi in quattro aree. Ad ogni area corrispondono dei numeri a cui le chiavi si riferiscono. Le chiavi con il numero 100 sono del museo etnologico, quelle col 200 sono del Gregoriano, eccetera...
"La gioia più grande in questi anni - dice ancora Crea - l’ho avuta pochi anni fa. Prima che morisse mia madre ha potuto assistere a una messa del mattino a Casa Santa Marta. Ha ricevuto una carezza dal Papa. Un piccolo gesto che per me ha significato molto".
LETTERA a Paolo VI - Abbattere i muri, costruire i ponti
di Giorgio La Pira *
Beatissimo Padre,
in questi giorni sto leggendo (e per una ragione storica, politica e religiosa evidente ed urgente) Chiesa e Stato attraverso i secoli: il problema del mondo, oggi, è questo: «rivedere» -vedere «riemergere» in questa età nuovissima del mondo- la Chiesa quale soggetto essenziale dell’ordine storico, giuridico e politico mondiale: quale essenziale protagonista (il più importante, in certo senso) della edificazione del nuovo universo delle nazioni: quello che si costituisce in questa età della inevitabile unificazione e pacificazione delle nazioni!
Bisogna riprendere coscienza di questa «soggettività» eminente della Chiesa Cattolica (romana!) nell’ordine giuridico e politico del mondo: soggettività che i secoli, -la storia!- chiaramente indicano (essa, in un certo senso, la creatrice dell’ordine giuridico internazionale) e che costituisce il problema fondamentale dell’attuale situazione storica e politica delle nazioni.
Il problema del concordato sta tutto qui: «l’altra parte» (la Chiesa) è un soggetto giuridico e in certo senso politico che regge, insieme con lo Stato (con gli Stati) l’ordine totale e la storia totale del mondo! Leone XIII vide questa realtà con tanta luce! «Immortale Dei». Quello del concordato non è un piccolo, marginale, problema: esso si eleva proprio a questa alternativa: la Chiesa suprema oggetto giuridico e politico, centro di gravità dell’universo delle nazioni! «La Chiesa, il vessillo elevato sulle Nazioni».
Ecco, Beatissimo Padre, il grande problema storico e politico di oggi: -«chi dicono gli uomini che io sia?» Questa è la domanda che la Chiesa, ripetendo le parole del Signore proprio oggi -in questa età nuovissima, atomica, spaziale, demografica, millenaria, scientifica ecc.- invita i popoli e le nazioni (non solo i singoli) a porsi questa domanda, ed a trarre da essa tutte le implicazioni storiche, politiche, culturali, spirituali etc. che essa comporta!
La «fiacchezza» della polemica occidentale (postconciliare, come si dice) sta nel mettere «in disparte» (per così dire) questa soggettività giuridica e politica della Chiesa: questa soggettività che fa di essa il «pernio» dell’equilibrio delle nazioni, il punto unificante del mondo!
Bisogna rimeditare tutta la storia della Chiesa: da Paolo che «punta» sulla casa di Cesare, a S. Silvestro che «negozia» con Costantino, a Leone Magno che «negozia» con Attila etc. etc. sino a Paolo VI che parla all’ONU e che si volge a Pekino! Unificare il mondo: ecco il problema - unico - di oggi: unificarlo facendo ovunque ponti ed abbattendo ovunque muri: ebbene, questa unificazione non è possibile -quasi non ha senso- se non passa (in certo modo) da Pietro: se, cioè, questa unificazione giuridica e politica fra gli Stati non è accompagnata dal rapporto unificante -giuridico e politico (in senso profondo)- fra gli Stati e la Chiesa!
Questo il grande problema di oggi: rivedere la Chiesa come centro di gravità delle nazioni e come soggetto «l’altra parte» essenziale dell’ordinamento giuridico e politico del nuovo universo dei popoli e delle nazioni.
Ecco, allora, Beatissimo Padre, l’immenso valore -la grande attualità ed urgenza- dei contatti e dei rapporti della Chiesa con tutto il mondo «dell’Est» e «del Sud»: qui essa trova i nuovi interlocutori, «l’altra parte», capace -malgrado «l’ateismo ufficiale»- di vederne la struttura storica e giuridica, politica e spirituale, destinata a fare da «ossatura» al corpo delle nazioni.
A me pare che la Chiesa vincerà la Sua grande battaglia odierna (anche interna) proprio all’Est ed al Sud: solo «attraverso i barbari» essa potrà ricomporre (per così dire) «l’impero romano in decadenza» e potrà ricomporre (per così dire) «il nuovo impero», «l’unità nuova dei popoli»! Forse queste non sono illusioni: forse è questo il punto della storia -Pace inevitabile, unificazione del mondo inevitabile; emergenza dell’Est e del Sud inevitabile- nel quale avrà luogo la grande riemergenza storica, giuridica e politica della Chiesa: «la Chiesa il vessillo elevato sulle nazioni». Filialmente nel Signore
La Pira
27-2-70 S. Pier Damiani!
Preparo alla luce di questo «tessuto storico e giuridico e politico» il mio viaggio (in aprile) a Mosca! Queste cose, del resto, da vario tempo esplicitamente e vigorosamente dico nei miei rapporti (a tutti i livelli) con i paesi dell’Est (Germania, Cina, Urss, Ungheria, Polonia etc.).
*
http://www.giorgiolapira.org/it/content/paolo-vi-abbattere-i-muri-costruire-i-ponti
UNA RISPOSTA A "SPECIALE C17":
IL POPULISMO DELLA POST-VERITA’, EPIMENIDE, E LA LEZIONE ITALO-AMERICANA. In memoria di Italo Calvino *
Siamo nella post-verità da sempre, a quanto pare!
SIAMO PROPRIO CONCIATI MALE, MALISSIMO!
Dopo ventanni di berlusconismo stiamo ancora a commentare i giochini di mentitori istituzionalizzati. E a riflettere sulle "spine del C17 - spine nel fianco di un pingue potere" (https://www.alfabeta2.it/2017/01/21/c17-spine-nel-fianco-un-pingue-potere/).
DOPO IL 1917, E DOPO IL 1922, ANCORA NON SAPPIAMO NULLA DELLA "MORTE NERA" (cfr.: Massimo Palma,"Waler Benjamin, l’inquilino in nero", cfr.: https://www.alfabeta2.it/2017/01/11/walter-benjamin-linquilino-nero/) E DELLA MISTICA FASCISTA (cfr.: mia nota a "Infanzia salentina", pagine del lavoro di Nicola Fanizza, "Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini" - https://www.nazioneindiana.com/2017/01/21/infanzia-salentina/).
Tanto tempo fa, in un’isola del Mediterraneo, un tale chiamato EPIMENIDE (con questo nome è rimasto nella storia, come persona degna di essere ricordata per la sopravvivenza della stessa isola), indignato contro i suoi stessi concittadini (che evidentemente lo accusavano di chissà quali malefatte), fece il primo passo nella terra della post-verità, gridò infuriato: "Tutti i cretesi mentono"! Se molti risero, altrettanto molti lo applaudirono.
Qualche anno dopo, sempre in quell’isola, ci furono le elezioni: tra i partiti (quello che la storia non ci ha tramandato) comparve uno strano partito, con il nome "Forza Creta", e il leader era proprio il vecchio EPIMENIDE!
CONQUISTATO IL POTERE LEGALMENTE, IL SUO GRIDO AI CRETESI CHE AVEVANO RISO DELLA SUA "BATTUTA" FU QUASI SIMILE A QUELLO DI BRENNO CONTRO I ROMANI SORPRESI NEL SONNO, ANZI, NEL SONNAMBULISMO: "GUAI AI VINTI"!
SOLO CHE A ROMA CI FURONO LE OCHE CHE SVEGLIARONO UN POCO TUTTI E I GALLI FURONO CACCIATI, MA A CRETA ALLA FINE NESSUNO PIU’ OSO’ RIDERE E ... "TUTTI I CRETESI MENTONO" ANCORA!!! A MEMORIA (E A VERGOGNA) ETERNA.
Federico La Sala
SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
ALFABETA2 - Speciale C 17
ALFABETA2 - Walter Benjamin, l’inquilino in nero (Massimo Palma)
NAZIONE INDIANA - "Infanzia salentina", un estratto del libro di Nicola Fanizza Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini, edizioni del Sud, 2016
NAZIONE INDIANA - La lezione americana della post-verità “alternativa ( Anatole Pierre Fuksas)
WALTER BENJAMIN, IL “PROGRAMMA DELL FILOSOFIA FUTURA”, E “CAGLIOSTRO”: KANT, IL “MOSE’ DELLA NAZIONE TEDESCA” E LE ORIGINI DELL’“IMPERATIVO CATEGORICO” DI HEIDEGGER E DI EICHMANN.... *
CONDIVIDENDO LA CONCLUSIONE DELLA NOTA DI Iside Gjergji (si cfr.:‘La morte nera’ e il fascista che è in noi - http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/12/23/la-morte-nera-e-il-fascista-che-e-noi/3274504/):
MI PERMETTO DI DIRE, SOLAMENTE, CHE “leggere *monotematicamente* Benjamin” e “metterlo al servizio del comunismo” - come chiarisce Fabrizio Denunzio nelle “Memorie di famiglia” (si cfr. l’Introduzione a “La morte nera”, Ombre Corte, Verona, 2016, p. 14) riporta al punto di partenza, nel vicolo cieco - da cui lo stesso Benjamin non è uscito.
Sulla “teoria del fascismo di Walter Benjamin”, Denuzio ha brillantemente messo e rimesso a fuoco il problema, ma non ha visto e non poteva vedere la “CAGLIOSTRO-sità” del problema per essersi collocato con lo stesso Benjamin in un’orizzonte hegelo-marxista (e non più propriamente “kantiano” - alla Kant, e “marxiano” - alla Marx!) e pensare meglio e bene il nesso tra “ragione e religione”, il materialismo - “quel vuoto che si viene a creare quando la ragione abolisce ogni collegamento con la trascendenza”(op. cit., p. 34), e, infine, lo stesso “Messia” delle Tesi “Sul concetto di storia”.
Benjamin (come Freud, Aby Warburg, Kantorowicz) cerca di imitare “Mosè”, pensa il problema dell’”esodo”, ma alla fine non riesce a scappare “dall’Egitto” e, drammaticamente, finisce per restare (e con Goethe!) nella terra e nell’orizzonte del “Grande Copto”, del “Cagliostro” di turno. La “carica rivoluzionaria dell’Illuminismo” (op. cit., p. 11) di Kant è rimasta impensata - e ancora impensabile!
* Sul tema, mi sia consentito, cfr.: FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829: in particolare, HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4790
Federico La Sala
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
Laicismo, l’anti-religione contraria alla laicità
di Fabrice Hadjadj (Avvenire, 04.12.2016)
La parola "laico" è un segno ostensibile nella lingua francese e anche in quella italiana. È vero che l’udibile spicca meno del visibile; ecco perché il suono della parola "laico" ci colpisce meno della visione di un crocifisso. Tuttavia, a chi sa ascoltare quel suono, a chi sa ricollocarlo nella sua prospettiva storica, si offre la visione di uno strano spettacolo: alcune persone brandiscono un crocifisso garantendo che si tratta invece di un martello - o del segno più dell’addizione; si esprimono con il tono degno dei migliori predicatori e ci spiegano che è per sottolineare una neutralità quando non una distanza dalle religioni; ripetono infine senza sosta un versetto del vangelo ma sono persuasi di intonare un ritornello del loro repertorio.
Essi infatti dicono e ridicono che bisogna «dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio», si fanno promotori di carte della laicità, senza accorgersi che questa promozione è stata resa possibile dall’eredità cristiana. Perché è in primo luogo la teologia cattolica che distingue il laico dal chierico. Ed è sempre la teologia cattolica che pone quella «separazione dei poteri» ben più fondamentale di quella di Montesquieu, la separazione del potere temporale e del potere spirituale.
A dire il vero, anche la capacità di bestemmiare è ancora un segno ostensibile del cristianesimo. Un pensiero di Pascal lo dice con chiarezza: «Vi è campo aperto per la bestemmia, anche su verità quanto meno assai visibili». Il vero teologo non può essere fondamentalista: egli sa che, se Dio è trascendente, non fa parte delle evidenze mondane (la verità «erra coperta da un velo» dice ancora Pascal, immagine molto interessante che mostra il rifiuto dei sostenitori del burqa di una trascendenza trascendente e dunque velata: nascondendo la donna, il velo integrale pretende di esibire la verità islamica, affermarla come un’evidenza di quaggiù). Allora, l’accesso a tale trascendenza non può avvenire attraverso seduzioni o coercizioni: esso esige un movimento intimo del cuore, che impegni liberamente la persona, un atto di fede. Ora, questa esigenza stessa implica la pazienza davanti al rifiuto.
Ecco perché il campo della fede è «aperto alla bestemmia». Si può dirlo in un altro modo prendendo il punto di vista del bestemmiatore. Che cosa c’è dietro al piacere di bestemmiare? Da una parte ci vuole che l’idea di Dio sia ancora abbastanza viva nella società. Se Dio - ahimè! - non c’è, che divertimento ci sarebbe a coprirlo di ingiurie?
Di questo si lamenta il Marchese de Sade nella sua Storia di Juliette: «Il mio più grande dolore è che in realtà non esiste un Dio, e quindi mi vedo privato del piacere di insultarlo più positivamente». Ma per godere della bestemmia, non occorre solamente che Dio esista, almeno nel pensiero, è anche necessario non incappare subito nella pena di morte. Così, in una società completamente atea la bestemmia è impossibile; nello stato islamico è vietata. L’unica configurazione perfetta per il blasfemo è quella di una società ancora cristiana.
In una tale società, Dio è ancora presente; ma, dato che il suo stesso Figlio fu condannato come blasfemo dai grandi sacerdoti della sua epoca, si fa attenzione a non condannare troppo rapidamente uno che bestemmia. Ecco il paradosso implacabile con cui siamo confrontati noi francesi e noi europei: affermare un «principio di separazione della società civile e della società religiosa» nello stato presuppone ancora un legame privilegiato con la fede cristiana (e alla fede cristiana aggiungo l’esistenza ebraica che le è legata intimamente - la permanenza del popolo ebraico è un principio di pluralità irriducibile all’interno del pensiero stesso della Chiesa).
O, per dirlo in altro modo, la neutralità dello stato a riguardo delle confessioni religiose presuppone una predilezione per l’eredità culturale giudaico-cristiana. Senza tale predilezione, o quella neutralità diventa impotente, perché il neutro in sé non può produrre una qualsiasi determinazione; o si trasforma in neutralizzazione e diventa la religione dell’anti-religione, il laicismo.
Il laicismo è il contrario della laicità. La laicità non può affermarsi che distinguendosi da un clero di cui riconosce l’esistenza. Può essere anticlericale, nel senso di una diffidenza critica nei confronti dei chierici, delle loro prediche e dei loro comportamenti, come nel Decamerone di Boccaccio; ma non oserebbe escluderli dal dibattito pubblico, perché, in questo caso, tradirebbe se stessa costituendosi come un nuovo e supremo clero.
Quanti sedicenti difensori della laicità salgono in tribuna, più che in cattedra, per pronunciare scomuniche e imporre un catechismo molto più rigido e riduttore del dogma cattolico? Il laicista corrisponde molto precisamente al curato di fantasia che vuole denunciare. Riprende il discorso preliminare dell’enciclopedia, nel quale D’Alembert deplora l’«abuso dell’autorità spirituale riunita a quella temporale» ma commette egli stesso quell’abuso nel senso opposto.
Verità nascoste.
Il Telemaco, il messia e la Costituzione
di Sarantis Thanopulos (il manifesto, 19.11.2016)
Massimo Recalcati nell’elogiare, alla Leopolda, Matteo Renzi, ha accusato la sinistra del No di essere masochista, paternalista e di odiare la giovinezza. Accuse fondate su luoghi comuni.
Un discorso aforistico, privo di argomenti, teso a screditare l’avversario piuttosto che ad esprimere una propria opinione sui quesiti referendari.
L’andazzo è proprio questo: la grande maggioranza degli italiani nel referendum prossimo voterà pro o contro Renzi, a prescindere dalla valutazione di una riforma che modificherà in modo sostanziale la costituzione italiana.
La personalizzazione del conflitto politico ha finito per espropriarci della cura nei confronti delle regole fondamentali della nostra convivenza democratica. Si è fatta strada una corrente di «eccezione dalla costituzione», che mentre aspira formalmente a riformarla, di fatto crea il clima di una sua sospensione sul piano emotivo.
Questo tipo di sospensione dell’ordinamento costituzionale è il più pericoloso. La restrizione diretta e apertamente autoritaria delle garanzie costitutive dei nostri diritti, crea opposizione e ribellione.
La loro sostituzione con l’affidamento regressivo all’«uomo della provvidenza», da una parte sposta l’attenzione su un quesito fuorviante - se costui è quello «vero» o quello «falso» - e dall’altra favorisce la deresponsabilizzazione.
La nota identificazione del premier con Telemaco, nella versione ideata da Recalcati come riparazione (impropria) dell’assenza del padre, è espressione di un vissuto di delegittimazione collettiva. Di questa delegittimazione, della cui origine non è responsabile, Renzi si è costituito come l’interprete più importante.
L’ha fatto per negazione, cioè oscurandola: più incerta sente la propria legittimità, più insiste sulla delegittimazione degli altri.
La rottamazione pura e semplice di una classe politica inadeguata non produce di per sé legittimazione. Se resta come unica opzione perpetua il senso di delegittimazione. Infatti, Renzi, il rottamatore, si identifica con Telemaco: un figlio reso illegittimo dall’assenza del padre e dalla solitudine, vedovanza «bianca», della madre (le due condizioni sono inscindibili).
Dimentica che il ritorno della legge nel regno di Itaca, non è opera di Telemaco. Deriva dal ritorno di Ulisse nel letto coniugale, dal suo riconoscimento e legittimazione come uomo e come padre dall’amore di Penelope.
Le regole «costituzionali» che garantiscono la buona gestione delle relazioni familiari, sono fondate sulla capacità dei genitori di essere soggetti paritari nel loro legame di desiderio. I figli che rottamano il padre, cercando di sostituirlo nell’amore della madre, finiscono per assumere un ruolo messianico.
In modo analogo al governo familiare, il governo della Polis non può essere affidato a un Telemaco capovolto nel suo significato, che non sa attendere il suo tempo. Aspettare il momento giusto per sentirsi adulti - l’accesso alla piena comprensione della congiunzione erotica dei genitori e della sua problematicità - è il senso vero dell’attesa del padre in Odissea.
Un leader capace di identificarsi con Penelope e Ulisse, cioè con il senso di corresponsabilità che costituisce le relazioni cittadine in termini di condivisione e di scambio, è molto più affidabile di un figlio che si sostituisce ai genitori. Costui si imprigiona nel destino del redentore e, diversamente da Telemaco di Omero, si considera il frutto di una unione spirituale tra un padre ideale e una madre/figlia vergine. Promuove la deresponsabilizzazione che gli ha assegnato la sua funzione immaginaria e si/ci illude di poter farcela.
I valori penultimi delle democrazie
di Remo Bodei (Corriere della Sera, La Lettura, 18.09.2016)
Nella maggior parte delle cosiddette lingue indoeuropee (a partire dal sanscrito dva o dvi, che significa «due» e in analogia con il latino dubium o il tedesco Zweifel) il dubbio indica incertezza dinanzi ad alternative pratiche o teoriche, il trovarsi davanti a un dilemma o, come nel simbolo pitagorico Y, davanti a un bivio, graficamente rappresentato, quale simbolo della difficoltà di prendere decisioni.
Soppesare le scelte, non farsi trascinare dalle circostanze o dagli impulsi spontanei è stata - e continua a essere - una conquista che spetta a ogni persona e a ogni civiltà nel corso della propria evoluzione. Governare le passioni, non significa ancora, tuttavia, porsi dei dubbi di natura teorica. Ma il primo passo, quello dell’astrarsi dal contesto, del fermarsi a riflettere, è stato compiuto e lo spazio di perplessità creato e aperto.
Il ragionare prima di decidere la propria linea di condotta o di articolare il proseguimento dei propri pensieri è segno di raggiunta maturità. Certo, tutto ciò ancora non basta. Occorre evitare il pericolo più ovvio: che il dubbio si trasformi in paralisi, in alibi o in fatalistica pigrizia che lascia andare alla deriva i comportamenti, le idee, le fantasie. Per questo, quasi avesse bisogno di un’àncora, il dubbio è stato spesso diametralmente contrapposto non tanto alla verità logica o empirica (quella sottomessa al «tribunale della ragione» e capace di rettificare i suoi eventuali errori), quanto alla verità rivelata o imposta con la violenza.
I totalitarismi del secolo scorso hanno preteso che i loro capi (il Duce, il Führer, il Caudillo, il Conducator, il Piccolo Padre, il Grande Timoniere) incarnassero l’indiscutibile verità e l’esemplare moralità: «Il Duce ha sempre ragione» o «Agisci in modo che, se il Führer ti vedesse, approverebbe la tua azione». Ogni pensiero autonomo e ogni dubbio sono considerati sovversivi perché minano l’autorità del Capo o del Partito. Devono essere stroncati. Per fortuna, come disse Mussolini al giornalista tedesco Emil Ludwig, la disposizione dell’uomo moderno a credere ha dell’incredibile. Proprio per questo viene sollecitato il comportamento gregario, condensato nel motto delle SS («Il mio onore si chiama fedeltà») e, nell’ambito del fascismo italiano, nello slogan «Credere, obbedire e combattere» (dove, si noti, il «credere» occupa il primo posto).
Che le masse si lascino facilmente guidare, è convinzione profonda anche di Hitler: «È una bella fortuna per gli uomini di governo che le masse non pensino! Si pensa soltanto quando si tratta di impartire un ordine o di assicurarne l’esecuzione. Se fosse diversamente la società umana non potrebbe sussistere». Non potendo impartire ordini, ma soltanto riceverli, le folle non corrono il rischio del dubbio. Da qui l’invito - o, meglio, il comando - a praticare una «entusiastica intolleranza» non solo contro quanti dubitano, ma anche contro coloro che dimostrano troppa volontà di sapere, raffigurati come soggetti a ipertrofia intellettualistica. Il dubbio si trasforma in una malattia.
Giovanni Paolo II ha parlato, con espressione paradossale, di «dittatura del relativismo», per dire che, specie dopo la fine del comunismo, la democrazia occidentale, avrebbe esaurito le sue energie: marcet sine adversario virtus . Sarebbe cioè diventata più evidente la sua propensione a lasciare ai cittadini un’eccessiva libertà dai valori della tradizione, che sconfina nella licenza e nell’anarchia.
La democrazia però non è soltanto relativistica. È vero che le democrazie moderne nascono dall’onda lunga delle guerre di religione che hanno insanguinato il Cinquecento e il Seicento, facendo scorrere tanto sangue - secondo un contemporaneo - da far girare le ruote dei mulini e da mostrare un grado d’intolleranza che oggi noi attribuiamo ad altre culture e religioni. La stanchezza per il sangue versato ha, tuttavia, provocato un salutare passo indietro dai valori ultimi - assoluti, non negoziabili e, se è il caso, da imporre con la forza - ai valori penultimi, su cui fondare gli Stati. La democrazia relativistica perché ammette più fedi e più verità e ha proprio il dubbio come sua specifica virtù, ma vi è in essa qualcosa che non è relativistico: è la compatibilità interna tra i valori, garanzia di convivenza di tutti in uno spazio pubblico e neutro, sempre minacciato da ritorni di fiamma di intolleranza e prepotenza.
In questo senso, il richiamo che, negli anni della Guerra fredda, Norberto Bobbio rivolgeva agli intellettuali («seminare dubbi» piuttosto che «raccogliere certezze») costituisce l’antidoto a ogni schieramento ideologico a priori, perché, come lo stesso filosofo ha insistito più tardi, lo scopo di ogni persona ragionevole, e, in particolare, di chi sceglie l’intelligenza quale strumento di lavoro, dovrebbe essere «l’inquietudine per la ricerca, il pungolo del dubbio, la volontà del dialogo, lo spirito critico, la misura nel giudicare, lo scrupolo filologico, il senso della complessità delle cose».
TWEET (18.09.2016).
L’ITALIA CONTESA DA "DUE" PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA E IL MANCATO " GIUDIZIO DI SALOMONE":
UN OMAGGIO A #Ciampi. A sua memoria. RIPARTIRE DALL’#Italia: VIVA L’ITALIA, VIVA LA #Costituzione ... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=913
#Ciampi LA #BIBBIACIVILE e il #Giudizio di #SALOMONE (la #Cortecostituzionale senza #coscienza e #sapienza) ... http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5171
Festival di Filosofia
Remo Bodei
“Si corre per vincere, anche San Paolo invitava a colpire duro”
Il filosofo: i greci ci hanno dato la linea
di Francesca Sforza (La Stampa, 15.09.2016)
Quest’anno si corre, al Festival della Filosofia di Modena. Si corre per capire, per restare al passo con il tempo inquieto della contemporaneità. E anche, un po’, per vincere. Remo Bodei, professore di Filosofia presso la University of California a Los Angeles e Presidente del comitato scientifico del Festival, è uno dei protagonisti di questa maratona del pensiero.
Professore, partiamo dall’origine greca della parola agonismo, cosa resiste dell’antica accezione del termine, e cosa invece è andato perduto o si è trasformato?
«“Agon” è la lotta in vista di una vittoria, in tutte le sue accezioni, fino all’agonia, che è la lotta estrema contro la morte. Direi che grosso modo si è conservato l’essenziale dell’accezione greca, che anzi si è estesa dal campo di partenza, quello sportivo, ad altri ambiti, penso ad esempio a quello economico, che vede tra l’altro l’uso di un modello di origine sportiva di tipo specifico, la corsa.
Se pensiamo poi alla concorrenza, come non ricordare la metafora agonistica usata da San Paolo nella prima lettera ai Corinzi? “Non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo”, scrive San Paolo, sottolineando che la differenza, semmai, è nel fatto che gli atleti si muovono per “una corona che appassisce”, mentre i cristiani sono chiamati per “una che dura per sempre”. Interessante notare il suo riferimento al pugilato - “Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio pugilato, ma non come chi batte l’aria”, cioè invita a colpire in modo da fare male».
In che cosa differisce l’agonismo religioso da quello laico?
«Più che di differenze parlerei di una ripresa laica dello stesso tema, ad esempio con Hobbes, in cui la gara non è conquistare il paradiso, ma vincere sugli altri al punto che la felicità consiste nel sorpassare, l’infelicità nel rimanere indietro, e la fine della corsa - l’abbandono della gara - coincide con la morte. Non c’è nessun premio, nella visione laica di Hobbes, si corre per vincere».
Nella condizione agonistica prevale il cimentarsi con la vittoria (e il rassegnarsi alla sconfitta) o il partecipare alla lotta e alla competizione?
«Se uno prendesse alla lettera Pierre de Coubertin si corre per gareggiare e confrontarsi, ma da un punto di vista più essenziale la concorrenza è spietata, quindi si corre per vincere. La cosa interessante che emergerà da alcune lezioni è che sul piano animale c’è una forma di altruismo che fa bene alla competizione, e anche in campo economico, la cosiddetta economia altruistica, insegna che non sempre è un bene stravincere. Ne parlerà Massimo Recalcati in un suo intervento: anche essere sconfitti aiuta a crescere».
È pensabile una declinazione equa dell’agonismo?
«Nei cicli vitali ci sono sempre i salvati e i sommersi, per dirla con Primo Levi, e la conquista della democrazia vorrebbe che ci fossero, intorno a noi, non nemici, ma avversari. Il problema è nelle condizioni di partenza: è vero che bisogna crearle, in modo tale che poi ognuno sia messo in grado di fare la sua corsa, ma spesso è un’ipocrisia».
Quali sono gli autori che meglio di altri hanno illustrato la dimensione dell’agonismo?
«Nella filosofia è davvero una dimensione iniziale. Pitagora paragonava la contemplazione filosofica con l’andare allo stadio a guardare i contendenti - aggiungendo che se c’era una differenza consisteva nel fatto che la contemplazione filosofica era gratis, mentre allo stadio si doveva pagare. Nei cosiddetti presocratici, il “polemos”, la guerra, è il padre di tutte le cose, segna l’inizio per eccellenza. E da questo discendeva non solo una filosofia, ma un modo di vita per cui la disciplina, l’entrare in conflitto con se stessi, il sottoporsi a esercizi fisici e spirituali, rafforza l’individuo».
di Vito Mancuso (la Repubblica, 26.08.2016)
LA QUERELLE sul divieto del burkini e la polemica sulle suore in spiaggia ha avuto di certo il merito di richiamare la comune radice di cristianesimo e islam in ordine alla questione dell’abbigliamento cui devono essere tenuti i corpi delle donne. Ha avuto quindi una felice intuizione l’imam di Firenze, Izzedin Elzir, nel pubblicare sulla sua pagina facebook, come commento, una foto di alcune religiose al mare?
Per giudicare basta leggere ciò che al riguardo ordinava san Paolo (in questo articolo mi si scuseranno le lunghe citazioni, ma credo sia importante): «Voglio che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio. Ogni uomo che prega o profetizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo. Ma ogni donna che prega o profetizza a capo scoperto, manca di riguardo al proprio capo, perché è come se fosse rasata. Se dunque una donna non vuole coprirsi, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra. L’uomo non deve coprirsi il capo, perché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non è l’uomo che deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Per questo la donna deve avere sul capo un segno di autorità a motivo degli angeli» (Prima lettera ai Corinzi 11,3-10, versione ufficiale Cei).
Qui san Paolo dice tre cose precise: 1) che la donna è sottoposta all’uomo, così come l’uomo è sottoposto a Cristo, e Cristo è sottoposto a Dio, secondo una netta gerarchia ascendente; 2) che la donna non solo è sottoposta ma è addirittura finalizzata all’uomo, nel senso che è stata creata per l’uomo, di cui è chiamata a essere la “gloria”; 3) che la donna deve coprire la sua testa in segno di accettazione dell’autorità cui è sottoposta.
L’islam ripresenta la medesima impostazione. La superiorità dell’uomo rispetto alla donna è affermata chiaramente dal Corano: «Gli uomini sono un gradino più in alto» (sura 2,228, trad. di Ida Zilio-Grandi). Nella stessa prospettiva la sura 4 intitolata Le donne afferma: «Gli uomini sono preposti alle donne perché Dio ha prescelto alcuni di voi sugli altri e perché essi donano parte dei loro beni per mantenerle. Le donne buone sono devote a Dio e sollecite della propria castità così come Dio è stato sollecito di loro, e quanto a quelle di cui temete atti di disobbedienza, ammonitele, poi lasciatele sole nei loro letti e poi battetele, ma se vi ubbidiranno non cercherete pretesti per maltrattarle, Dio è grande e sublime » (4,34).
Quanto alla finalizzazione della donna rispetto all’uomo, così scrive il Corano: «Agli occhi degli uomini è stato abbellito l’amore dei piaceri, come le donne, i figli e le misure ricolme d’oro e d’argento, e i cavalli di razza, e il bestiame e i campi» (3,14). Ed è sufficiente pensare alla concezione islamica del paradiso in cui donne giovani e belle saranno sempre a disposizione dei credenti maschi, per ritrovare confermata tale innegabile centralità maschile.
Da qui, come già per san Paolo, per il Corano discende il tipo di abbigliamento cui deve conformarsi il corpo femminile: «Profeta, di’ alle tue moglie e alle tue figlie e alle donne dei credenti che si coprano con i loro mantelli; questo sarà meglio per distinguerle dalle altre donne affinché non vengano offese, ma Dio è indulgente e compassionevole » (33,59).
Appare quindi chiaro che, sia per il cristianesimo sia per l’islam, l’abbigliamento femminile comandato non è una semplice questione di tradizione né tanto meno di gusto, ma suppone una precisa concezione del rapporto uomo-donna all’insegna della subordinazione di quest’ultima.
Non è certo un caso che in Occidente l’affermazione della piena parità giuridica uomo-donna abbia avuto come conseguenza la mutazione dell’abbigliamento femminile da cui è scomparso ogni segno di subordinazione, compreso il velo in testa a cui, stando alle severe disposizioni di san Paolo, erano tenute tutte le donne in chiesa fino a solo qualche decennio fa.
Dietro il burkini quindi, e in genere dietro ogni tipo di velatura più o meno ampia (con fascia, scialle, foulard, velo semplice, velo totale incluso il viso), c’è l’idea che la donna sia inferiore all’uomo e a lui sottomessa. Per questo a mio avviso non ha torto il premier francese Manuel Valls ad affermare che il burkini «è la traduzione di un progetto politico, di contro-società, fondato notoriamente sulla sottomissione della donna » e che quindi «non è compatibile con i valori della Francia e della Repubblica». E dato che la parità uomo-donna è anche un nostro valore, io penso che quel costume, e in genere l’abbigliamento che esso traduce, non sia compatibile neppure con il nostro paese.
È semplicistico dire che alla libertà di andare in spiaggia con il bikini deve corrispondere quella di andarvi con il burkini: nel primo caso infatti si assiste a un movimento di liberazione del corpo, mentre nel secondo di asservimento. E la libertà, se la si intende seriamente, non è mai solo astratta, cioè fare quello che si vuole, ma sempre concreta, cioè fare quello che è giusto e fa bene, e non ci sono dubbi che la liberazione del corpo sia un bene, anche per la liberazione della mente che ne consegue.
Il cristianesimo e l’islam, così come l’ebraismo e le altre religioni, sono quindi uno strumento di oppressione? Lo possono essere, non ci sono dubbi, c’è la storia a dimostrarlo, come del resto la storia mostra che possono diventare anche strumento di liberazione se vissuti correttamente: una liberazione dall’oppressione sociale (si pensi alla teologia della liberazione in America Latina) e una liberazione dal proprio egocentrismo e dalle proprie cattiverie, si pensi alla storia della santità e della mistica.
Il punto essenziale è comprendere che siamo inseriti tutti in un processo di cui nessuno, neppure ovviamente la laicità francese, detiene il punto di vista assoluto e alla cui evoluzione tutti sono chiamati a contribuire.
Diceva il grande teologo Raimon Panikkar che «le religioni si devono convertire ». È vero: le religioni si devono convertire all’idea di non rappresentare il punto di arrivo dell’umanità, ma di essere uno strumento a servizio del bene e della giustizia, i quali sono i veri punti di arrivo cui continuamente tendere.
L’imam di Firenze ha accostato le suore cristiane alle donne musulmane, ma ha dimenticato che le suore rappresentano un gruppo particolare di donne che ha liberamente scelto di vivere in povertà, castità e obbedienza, e il cui abbigliamento richiama il loro stile di vita alternativo. Sono ben lontane però dal rappresentare tutte le donne occidentali, le quali hanno altrettanto liberamente orientato se stesse secondo ben altri stili di vita e di abbigliamento.
L’islam, che non ha suore, in un certo senso tende a rendere un po’ suore tutte le donne che vi aderiscono. Il che però non è compatibile con l’idea di donna cui l’Occidente è giunto. E di questo i musulmani e le musulmane che vogliono vivervi dovrebbero, a mio avviso, prendere atto.
FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-PO-LOGIA" ATEA E DEVOTA....
L’eccellenza del Nietzsche italiano
di Federico Vercellone (La Stampa, 10.07.2016)
Tra le poche cose che vanno relativamente bene in Italia c’è la filosofia. Nonostante il totale disinteresse della classe politica nei confronti della ricerca, l’Italian Theory emerge con ottimi risultati anche sul piano internazionale.
La filosofia italiana del secondo Novecento è segnata nel suo percorso dalla presenza influente della grande filosofia classica tedesca. È una vicenda che si avvia da lontano, perlomeno dalla grande rilettura di Hegel prodotta dal neo-hegelismo napoletano e da Benedetto Croce. Successivamente, grazie a Luigi Pareyson, emerge l’altro versante dell’idealismo tedesco, Fichte e Schelling, oltre a Goethe e ai romantici e a Nietzsche, nel quadro di un progetto filosofico volto a superare l’eredità neo-idealistica.
Proprio Nietzsche costituisce un punto di svolta. La grande impresa dell’edizione critica presso Adelphi delle Opere di Nietzsche, avviata nel 1964, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, apre un nuovo capitolo di notevole significato anche sul piano internazionale. È un capitolo che contribuisce a portare alla ribalta alcuni tra i più significativi filosofi italiani, da Massimo Cacciari a Emanuele Severino a Gianni Vattimo.
Su questo passaggio così significativo si sofferma Emilio Carlo Corriero in un volume ponderoso, equilibrato ed esaustivo uscito ora da Aragno, Il Nietzsche italiano. Il punto di avvio fondamentale, in un quadro per altro estremamente composito in relazione alla ricezione di Nietzsche, è l’idea di Crisi della ragione dibattuta in un volume del 1979 comparso da Einaudi a cura di Aldo Giorgio Gargani. Venuti meno i fondamenti della ragione classica, Nietzsche costituisce un indispensabile punto di riferimento per cogliere i tratti di un tempo di crisi dei fondamenti. Fare i conti con la «morte di Dio» e con il venir meno dei valori trascendenti comporta una rivoluzione del pensiero e dei modi di vita che mette in gioco aspetti fondamentali della nostra civiltà con implicazioni notevoli sul piano della convivenza civile, della morale pubblica, e della nostra provenienza religiosa dal mondo cristiano.
Fine della Storia o della "Preistoria"?
Un’idea di continente, Europa a braccia aperte
Gli storici antichi la descrissero diversa dall’Asia per clima e politica. E si accorsero che era più aperta all’accoglienza
di Martino Menghi (Il Sole-24 Ore. Domenica, 10.07.2016)
Di fronte alle pesanti emergenze odierne, l’Europa sembra scontare la mancanza di un forte progetto politico unitario, come confermano le spinte centrifughe che l’attraversano. Un problema cui potrebbe porre rimedio prendendo spunto da una appropriata conoscenza dell’esperienza greco-romana, come sostiene Alejandro Bancalari Molina nella parte conclusiva del suo libro La idea de Europa. Una vicenda, allora come oggi, segnata da conflitti, da pregiudizi nei confronti dello straniero, ma anche dalla capacità di inclusione, di integrazione e di scambio culturale tra i popoli. Rivediamone i punti essenziali sulla scorta dell’eccellente lavoro di questo studioso.
Nel racconto del conflitto tra Greci e Persiani Erodoto ci fornisce una prima accezione di Europa come entità politica, economica e culturale contrapposta all’Asia. È per bocca di Demarato, un esule spartano presso la corte persiana, che viene enunciato questo dualismo. Interrogato da Serse sul possibile esito di quella guerra, gli ricorda che la Grecia è sempre stata un Paese “povero”, ma proprio questa sua condizione ha permesso agli Elleni di essere forti, di superare le difficoltà, di difendere fino alla morte la propria terra e la propria libertà dall’invasore.
All’opposto, la ricchezza dell’Asia, in mano al Gran Re, ha corrotto la massa dei sudditi, asservendoli al suo capriccio e deprivandoli del senso di una causa comune per cui lottare. Sulla base di questo stereotipo veniva letta e celebrata la vittoria dei Greci sui Persiani a Maratona e a Salamina (490; 480 a.C.).
Non c’è ancora in Erodoto una precisa delimitazione geografica dell’Europa, vagamente situata lungo un asse Nord-Est/Ovest che dal Tanai (Don) giunge fino alle Colonne d’Ercole (Gibilterra) passando per la Grecia e le sue colonie nel Mediterraneo. Con Ippocrate (fine del V secolo a.C.) e Aristotele (IV secolo a.C.), il discorso si amplifica in senso geografico e si radicalizza in quello ideologico. Per il primo, l’instabilità del clima dei popoli europei, ora situati anche nelle regioni settentrionali del continente, li rende più operativi e coraggiosi, mentre il clima più uniforme degli asiatici li spinge all’inerzia e alla pigrizia; di più, l’essere costoro governati da monarchi accentua la loro debolezza di carattere.
Aristotele, tripartisce l’ecumene, assegnando ai popoli settentrionali il coraggio ma non l’intelligenza, e a quelli asiatici l’intelligenza ma non il coraggio, per attribuire ai popoli mediani, ovvero ai Greci, sia l’uno che l’altra e la loro vocazione al dominio delle altre genti. Quest’ultima prospettiva conoscerà un’originale attuazione con Alessandro che, nel segno dello scambio culturale e dell’integrazione, unifica la Grecia con l’impero persiano in un’unica realtà economico-politica.
Erede di questa vicenda sarà Roma, che conquisterà in pochi secoli un impero esteso dalla Scozia all’Africa settentrionale, da Gibilterra ai Balcani e a parte del Medioriente, sempre grazie a una sapiente politica di integrazione dei popoli man mano conquistati.
Il dualismo Europa/Occidente vs. Asia/Oriente, archetipo di tanti stereotipi xenofobi e razzisti, è di fatto contraddetto dalla storia. Ma lo è anche dal mito, che della storia è in qualche modo il riflesso: il nome di Europa deriverebbe dall’omonima principessa fenicia che Zeus, nelle sembianze di un docile toro, rapì, portò a Creta e lì si unì a lei; Enea, il leggendario fondatore della stirpe romana, è un eroe troiano, fuggito dalla sua città conquistata dagli Achei. Lo è infine dall’esperienza del cristianesimo, nato in Palestina in seno al giudaismo, che nell’arco di pochi secoli diventerà la religione dello Stato romano ereditandone le istituzioni, la cultura, compresa la capacità di integrare i popoli barbari.
Il modello romano rivive nell’impero fondato da Carlo Magno, in quello di Napoleone, e infine nel progetto europeo del secondo dopoguerra. Ma di quel modello occorre oggi conoscere, per valorizzarli, i punti di forza, prima di cedere alla tentazione di andare ognuno per la sua strada.
La ragione, la poesia e l’amore divino
di Bruno Forte (Il Sole-24 Ore, 03.04.2016)
arcivescovo di Chieti-Vasto
La fiducia illimitata nella potenza della ragione e della parola che l’esprime è un tratto della mentalità illuministica della modernità.
Al culmine dell’esercizio del pensiero, superati gli oscurantismi del passato, la luce della ragione avrebbe realizzato il suo trionfo nella perfetta corrispondenza dell’ideale e del reale. “Così, - scrive Hegel in una celebre pagina della Scienza della Logica - dissipate le tenebre, rimossa l’incolore cura di sé dello spirito rivolto a se stesso, l’esistenza parve essersi trasformata nel sereno mondo dei fiori, tra i quali, com’è noto, nessuno è nero” (Tomo I, Bari 1981, 4: traduzione modificata).
Dove tutto è portato alla chiarezza dell’idea, ogni presunto “fiore nero” dell’eccesso del reale rispetto al razionale è ricondotto alla misura dell’idea e la parola - manifestazione compiuta della razionalità - assurge a uno sconfinato potere, ad un irresistibile fascino: nasce così - nel segno di Hegel e della sua multiforme eredità - il marcato “logocentrismo” della modernità.
Perciò l’ideologia moderna - in tutte le sue forme - si ubriacherà di parole e la parola, da strumento di sovversione e di cambiamento (“parole come pietre” al servizio della trasformazione rivoluzionaria, di destra o di sinistra), si andrà trasformando in mezzo di imbonimento e di inganno per nascondere il dissidio fra ideale e reale.
Di questo declino della parola è dimostrazione la retorica di tutti i totalitarismi prodotti dalla modernità. Non sorprende allora che il fallimento storico delle pretese totalizzanti della ragione abbia fatto riemergere la rilevanza di ciò che eccede la formulazione logica e verbale, quel “fiore nero”, che non dovrebbe esserci per la ragione totalizzante e che invece c’è: l’irrazionale, il notturno, il vitale inesprimibile, la morte. L’affacciarsi del “fiore nero” nel tramonto delle “grandi narrazioni” ideologiche si coniuga perciò a un nuovo bisogno di silenzio, spazio aperto per l’invocazione e l’incontro con l’altro nell’ascolto.
La crisi del “logocentrismo” della modernità, caratteristica dell’inquieto post-moderno, viene a sfidare anche la tradizione ebraico-cristiana, marcata com’essa è dalla parola quale via privilegiata dell’auto-comunicazione divina: non è difficile cogliere come si tratti di una sfida tutt’altro che indifferente.
Come parlare del Verbo in un tempo stanco di parole, malato del loro sciupio nella comunicazione insignificante? come dire la Parola a una cultura segnata dall’abbandono delle certezze forti legate al “logos”, condannata - almeno in apparenza - alla rinuncia a ogni forza del dire, per risolvere la comunicazione in puro gioco di maschere e di convenzioni, che nascondono la solitudine dei frammenti e l’arcipelago delle disgregazioni?
Rispondere a queste domande in maniera responsabile significa farsi carico con nuova coscienza di un dato tanto originario, quanto paradossale: e cioè che proprio la religione della Parola sia, nel suo principio e fondamento, “appesa” al Silenzio... Perciò, dire Dio è per la fede biblica compito al tempo stesso impossibile e necessario: impossibile per l’eccedenza dell’Oggetto; necessario per la sua indispensabile rilevanza in ordine al senso e alla speranza della vita degli uomini.
La parola teologica, nel suo esercizio più alto, sta allora sulla frontiera, continuamente rinviando da una parte alla fragile terra dove poggiano i nostri piedi, e dall’altra all’abisso insondabile, che è la regione del Silenzio. Due movimenti l’attraversano, fra di loro totalmente asimmetrici: quello del pellegrino, cercatore del senso, assetato di una patria, su cui radicare il cammino e combattere la lotta con la morte; e quello, senza il quale neanche l’altro esisterebbe, dell’Origine, inizio, presupposto e fondamento di tutto ciò che esiste, che viene a noi nella Parola incarnata, muovendo dal Suo insondabile Silenzio...
Questo itinerario conduce verso gli spazi della “poesia”: come la teologia, la poesia educa ad ascoltare il Silenzio nelle parole e a far risuonare al di là di esse l’abissale Silenzio in chi ascolta. La poesia realizza anzi in maniera singolare la verità che sta al centro della teologia: quella contenuta nell’evento della morte e resurrezione della Parola venuta dall’eterno Silenzio di Dio.
La parola della Croce dichiara certo l’incompiutezza di ogni parola umana, se - per dirsi nella maniera più profonda - il Verbo ha scelto la morte di Croce: è in questa morte, però, che il Verbo tocca l’eloquenza più alta della Sua rivelazione. “Nessuno ha amore più grande di chi dà la vita per i suoi amici” (Gv 15,13)! Morte della morte della parola è, analogamente, la poesia: consapevole o inconsapevole, essa, quando è, è questa trasgressione, questo morire della parola, perché la dimensione della Trascendenza venga ad affacciarsi in questa morte e da essa si sprigioni. La poesia - al di là della stessa consapevolezza del poeta - è evento di una “kenosi” della parola, che ne trasmette il misterioso splendore...
Oltre il declino del senso della parola nella comunicazione verbale si offrono allora come possibile medicina dell’anima - pur nella diversità del loro statuto epistemologico - tanto la teologia, quanto la poesia, entrambe in ascolto del silenzio, entrambe testimoni di esso nella ineliminabile fragilità della parola, entrambe eco di un’altra Parola, di un altro Silenzio.
Forse perciò entrambe sono circondate da quell’aura di sospensione, quando non di sospetto, di cui rende ragione la costatazione realistica e amara di Martin Heidegger: “Può darsi che il linguaggio richieda, invece di un’espressione precipitosa, un giusto silenzio. Tuttavia chi di noi uomini d’oggi può immaginare che i suoi tentativi di pensare si trovino a proprio agio sul sentiero del silenzio?” (Lettera sull’umanismo, Torino 1975, 110).
Eppure, è sulla via dell’ascolto, è sui sentieri del Silenzio, che la Parola può nuovamente venirci incontro nel tempo della notte del mondo come evento che libera e salva: “Perché i poeti nel tempo della povertà?... Esser poeta nel tempo della povertà significa: cantando, ispirarsi alla traccia degli Dei fuggiti. Ecco perché nel tempo della notte del mondo il poeta canta il Sacro” (M. Heidegger, Perché i poeti?, in Sentieri interrotti, Firenze 1984, 249s)...
Voce poetica e voce teologica si rivelano entrambe evocative dell’indicibile Altrove, capaci di suscitarne la nostalgia e di farne pregustare l’inquietante, mortale, vivissima bellezza. Lo mostra, ad esempio, questa lirica di Renzo Barsacchi: “Portami via per mano ad occhi chiusi / senza un addio che mi trattenga ancora / tra quanti amai, tra le piccole cose / che mi fecero vivo. / Non credevo, Signore, / tanto profondo fosse / questo sfiorarsi d’ombre, questo lieve / alitarsi la vita nello specchio / fragile di uno sguardo, / né pensavo che il mondo / divenisse, abbuiando, così acceso / di impensate bellezze” (Le notti di Nicodemo, Palermo 1991, 11).
Cristiani o no, siate giusti e sarete salvi
Il senso vero della Pasqua è che la redenzione riguarda tutti gli esseri umani ed è legata al bene e all’amore
È estranea alle parole di Gesù l’idea che solo chi crede possa rialzarsi dalla caduta
di Vito Mancuso (la Repubblica, 26.03.2016)
«La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni», dichiarò il cardinal Martini nell’ultima intervista, ma io penso che tale ritardo ecclesiastico sia l’espressione di un più preoccupante ritardo del cristianesimo in quanto tale, sempre più incapace di sostenere il suo annuncio fondamentale. Fa problema il centro stesso della fede cristiana, cioè la salvezza. Come pensarla? Qual è la sua specificità? Roger Haight, gesuita americano, descrive così la situazione: «Il significato della salvezza rimane elusivo; ogni cristiano impegnato sa che cos’è la salvezza finché non gli si chiede di spiegarla ». Non c’è religione senza salvezza, ci sono religioni senza Dio, nessuna senza salvezza.
Per il cristianesimo la salvezza scaturisce dalla Pasqua di Cristo, al cui riguardo si legge nel Catechismo cattolico: «Vi è un duplice aspetto nel Mistero pasquale: con la sua morte Cristo ci libera dal peccato, con la sua Risurrezione ci dà accesso ad una nuova vita» (art. 654). Questo è il centro del messaggio: la salvezza come redenzione operata da Cristo.
Il concetto di redenzione è sconosciuto alle altre religioni: Mosè, Buddha, Confucio, Maometto sono legislatori, maestri, profeti, saggi, non redentori, non sono cioè essi a dare la salvezza, che è invece ottenuta dai fedeli seguendo i loro insegnamenti. Il cristianesimo si distingue perché ritiene l’umanità corrotta dal peccato originale e incapace di meriti spirituali, e quindi annuncia la salvezza come operata gratuitamente da Dio mediante la redenzione ottenuta da Cristo.
Ogni anno la Pasqua è la solenne celebrazione di questo evento. Esaminando la storia di tale dottrina si vede che il primo a formularla fu San Paolo. Egli scrive: «Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue» ( Romani 3, 23-25). Paolo afferma che la morte di Cristo è stata voluta direttamente da Dio e altrove aggiunge: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore» ( 2 Corinzi 5,21).
Leggendo i suoi scritti in ordine cronologico si scopre però che non sempre San Paolo la pensava così. Nella sua lettera più antica infatti egli non parla della morte-risurrezione di Cristo come di un atto redentivo, né dell’evento salvifico come già avvenuto. Al contrario per lui la salvezza deve ancora attuarsi. Ecco come: «Il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi per andare incontro al Signore» ( 1Tessalonicesi 4,16-17).
Paolo scrive che Cristo è morto «per noi», ma non fa dipendere la salvezza da quella morte, prova ne sia che non ritiene quest’ultima voluta da Dio (come invece sosterrà in seguito) ma dagli ebrei, come appare da queste parole destinate nei secoli ad alimentare l’antisemitismo: «I giudei hanno persino messo a morte il Signore Gesù e i profeti, e hanno perseguitato anche noi; essi non piacciono a Dio e sono nemici di tutti gli uomini » (2,15-16). Qui non c’è un piano di Dio che manda il Figlio a morire, c’è piuttosto l’inimicizia degli ebrei che hanno ucciso Gesù, il quale però è stato risuscitato da Dio a chiara dimostrazione della mutazione della storia che si realizzerà con il suo imminente ritorno. La stessa impostazione si ritrova in 1 Corinzi.
San Paolo cambia presto prospettiva ed è facile capire il perché: la mancata venuta di Cristo lo induce a porre il centro focale non più nel futuro ma nel passato, Cristo è il salvatore non perché tornerà vittorioso ma perché è morto offrendosi al Padre e riconciliandoci a lui con il suo sangue. Cristo diviene così il redentore crocifisso. È in questa luce che vent’anni dopo vengono composti i Vangeli. Essi però, riportando anche il pensiero di Gesù, permettono di sollevare la questione decisiva: Gesù pensava la salvezza come redenzione oppure, da ebreo osservante, la legava al responsabile esercizio della libertà?
Vi sono testi evangelici in linea con la teologia della redenzione, per esempio quando Gesù dice di essere venuto per «dare la propria vita in riscatto per molti» ( Marco 10,45) o quando nell’ultima cena pronuncia le note parole: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati » ( Matteo 26,28).
Nei Vangeli però vi sono molti altri testi che presentano la salvezza legata non a un evento esterno ma alle azioni liberamente poste, secondo la tradizionale concezione ebraica della salvezza come esito della fedeltà all’alleanza, cioè come giustizia.
Io penso anzi che a Gesù la dottrina della redenzione non sarebbe piaciuta per nulla, c’è tutto il Discorso della montagna a dimostrarlo, a partire dalle parole del Padre Nostro sul ruolo attivo della libertà: «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Gesù prosegue: «Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdone- rà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» ( Matteo 6,12-15). La mossa decisiva spetta alla libertà umana, la quale per Gesù è in grado di operare anche il bene perché non è irrimediabilmente corrotta, come invece dirà San Paolo e più radicalmente Sant’Agostino.
L’idea di una libertà efficace in ordine alla salvezza si ritrova in molti altri passi evangelici tra cui: «Col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati» ( Matteo 7,2). Il principio salvifico è quindi legato alla prassi responsabile: «Non chiunque mi dice Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» ( Matteo 7,21). Il Discorso della montagna, cuore del messaggio di Gesù, è un appello alla libertà quale via efficace per il conseguimento della salvezza.
A questo punto appare evidente la problematicità della successiva costruzione teologica cristiana basata sulla redenzione, da cui la difficoltà nel rispondere alle seguenti questioni:
1) In cosa consiste propriamente la redenzione operata da Cristo?
2) L’atto redentivo vero e proprio è la morte di croce o è la risurrezione?
3) Qual è la sorte di chi non vi partecipa?
4) Da cosa si viene redenti: dalla morte, dal Diavolo, dall’egoismo, dal mondo, dal castigo di Dio, dalla Legge, dal peccato, o da tutto questo messo insieme?
La radice dell’aporia risiede a mio avviso nell’idea di una specificità cristiana della salvezza in quanto legata a un determinato evento storico, cioè nell’impostazione data al cristianesimo da san Paolo ed estranea a Gesù. In realtà occorre pensare che la salvezza è sempre stata disponibile agli esseri umani, a qualunque religione o non-religione appartengano, perché è legata al bene e alla giustizia.
È il Vangelo ad affermarlo: «Venite, benedetti dal Padre mio, riceverete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito» ( Matteo 25,34-36).
Nel Libro dei Morti dell’antico Egitto vi sono parole analoghe: «Ho soddisfatto Dio con ciò che ama: ho dato pane all’affamato, acqua all’assetato, vestiti all’ignudo, una barca a chi non ne aveva» (cap. 125). Il testo risale a 1500 anni prima di Cristo e dicendo le stesse cose mostra il vero senso della salvezza, che mai mancò al genere umano, ben prima del cristianesimo storico: la liberazione dall’ego e l’apertura al bene, all’amore, alla giustizia. Io ritengo non implausibile pensare che, in chi pratica questo stile di vita, possa generarsi una peculiare disposizione della sua energia costitutiva (ciò che tradizionalmente si chiama anima) in grado di vincere la curvatura dello spazio-tempo.
Un appello del teologo Hans Küng a Francesco per annullare il dogma
Aboliamo l’infallibilità del Papa
di Hans Küng (la Repubblica, 09.03.2016)
È difficile immaginare che papa Francesco avrebbe fortemente voluto una proclamazione della infallibilità papale come quella che nel diciannovesimo secolo venne sollecitata da Pio IX con ogni mezzo. Si può invece ritenere che Francesco (come fece a suo tempo Giovanni XXIII davanti agli studenti del collegio greco) dichiarerebbe sorridendo: «Io non sono infallibile». Di fronte allo stupore degli studenti, Giovanni aveva aggiunto: «Sono infallibile solo quando parlo ex cathedra, ma non parlerò mai ex cathedra». Questo tema mi è familiare da tempo. Ecco qualche importante dato storico, che ho acquisito di persona e ho meticolosamente documentato nel quinto volume delle mie opere complete.
1950: Il 1° novembre Pio XII proclama come dogma di fronte a una folla gigantesca: «L’immacolata Madre di Dio sempre vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo». Allora, studente ventiduenne di teologia, accolsi con entusiasmo questo evento. Fu dunque un primo infallibile pronunciamento ex cathedra del supremo maestro e pastore della Chiesa cattolica, il quale si appellò alla particolare assistenza dello Spirito Santo, in piena conformità alla proclamazione dell’infallibilità papale avvenuta nel Concilio Vaticano I!
1958: Con la morte di Pio XII giunge alla fine anche il secolo dell’eccessivo culto di Maria promosso dai papi “Pii“. Il suo successore Giovanni XXIII è contrario a nuovi dogmi e la maggioranza del Concilio decide con una votazione aperta di non promulgare un proprio decreto su Maria, anzi, mette in guardia da manifestazioni esagerate di devozione mariana. 1965: Nella costituzione pastorale sulla Chiesa si trova - capitolo III sulla gerarchia - l’articolo 25 sull’infallibilità, che però sorprendentemente non viene affatto discusso. Tanto più che di fatto il Vaticano II ha proceduto a un allargamento sconcertante, estendendo espressamente e senza motivazione all’episcopato quell’infallibilità che il Vaticano I aveva attribuito solo al papa.
1968: Appare l’Enciclica Humanae Vitae sulla regolazione delle nascite. L’enciclica, che vieta come peccato grave non solo la pillola e i mezzi meccanici, ma anche l’interruzione del rapporto sessuale per evitare una gravidanza, viene percepita come un’enorme provocazione. Con essa il papa si pone in contrasto, per così dire, con tutto il mondo civilizzato, richiamandosi al suo infallibile magistero e a quello dell’episcopato. Certo, le proteste formali e le obiezioni materiali sono importanti, ma questa pretesa di infallibilità delle dottrine papali non può proprio essere riesaminata a fondo? Ne faccio un tema di discussione nel mio libro Infallibile? Una domanda, del 1970.
1979/1980: Revoca della mia abilitazione alla docenza in teologia cattolica. Che si trattasse di un’azione segreta preparata nel minimo dettaglio, dimostratasi contestabile sul piano giuridico, infondata su quello teologico e controproducente su quello politico, è ampiamente documentato nel secondo volume delle mie memorie, Verità contestata. A quel tempo il dibattito si soffermò a lungo su questa revoca della mia missio e sulla infallibilità. Tuttavia, la mia considerazione nella comunità religiosa non poté essere distrutta. E, come avevo previsto, le discussioni sui grandi compiti della riforma non sono cessate. Mi riferisco al dialogo interconfessionale, al reciproco riconoscimento delle funzioni e delle celebrazioni eucaristiche, alle questioni del divorzio e dell’ordinazione sacerdotale delle donne, al celibato ecclesiastico e alla drammatica crisi delle vocazioni, e soprattutto alla guida della Chiesa cattolica. Posi la questione: «Dove state portando questa nostra Chiesa?».
Dopo 35 anni, questi interrogativi sono attuali ora come allora. Ma la ragione decisiva dell’incapacità di realizzare riforme a tutti questi livelli continua ad essere la dottrina dell’infallibilità del magisterio, che ha portato alla nostra Chiesa un lungo inverno. Come allora Giovanni XXIII, anche oggi papa Francesco cerca con tutte le forze di far soffiare un vento fresco sulla Chiesa. E deve scontrarsi con una forte resistenza, come in occasione dell’ultimo sinodo mondiale dei vescovi dell’ottobre 2015. Non ci si faccia illusioni, senza una “re-visione” costruttiva del dogma dell’infallibilità un reale rinnovamento sarà ben difficilmente possibile.
Tanto più sorprendente, allora, è che la discussione su questo tema sia scomparsa dallo schermo. Molti teologi cattolici, temendo sanzioni come quelle che hanno colpito me, hanno quasi rinunciato a esprimere posizioni critiche sull’ideologia dell’infallibilità, e la gerarchia cerca, per quanto possibile, di evitare un tema così impopolare nella Chiesa e nella società. Solo poche volte Joseph Ratzinger vi si è richiamato, nella sua veste di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Ma, tacitamente, il tabù dell’infallibilità ha bloccato tutte le riforme che, a partire dal Concilio Vaticano II, avevano sollecitato una revisione di precedenti definizioni dogmatiche.
2016: È il mio ottantottesimo anno di vita, e posso dire di non essermi risparmiato per raccogliere i numerosi testi compresi nel quinto volume delle mie opere complete. Ora, con questo libro in mano, vorrei rivolgere di nuovo al papa un appello che ho più volte inutilmente lanciato nel corso di una discussione pluridecennale in materia di teologia e di politica della Chiesa. Imploro papa Francesco, che mi ha sempre risposto in modo fraterno: «Riceva questa ampia documentazione e consenta nella nostra Chiesa una discussione libera, non prevenuta e aperta su tutte le questioni irrisolte e rimosse legate al dogma dell’infallibilità. Non si tratta di banale relativismo, che mina i fondamenti etici della Chiesa e della società. E nemmeno di rigido e insulso dogmatismo legato all’interpretazione letterale. È in gioco il bene della Chiesa e dell’ecumene.
Sono ben consapevole che a lei, che vive “tra i lupi“, questa mia preghiera potrà sembrare poco opportuna. Ma lo scorso anno lei ha coraggiosamente affrontato malattie curiali e perfino scandali, e nel suo discorso di Natale del 21 dicembre 2015 alla curia romana ha ribadito la sua volontà di riforma: “Sembra doveroso affermare che ciò è stato - e lo sarà sempre - oggetto di sincera riflessione e decisivi provvedimenti. La riforma andrà avanti con determinazione, lucidità e risolutezza, perché Ecclesia semper reformanda”.
Non vorrei accrescere in modo irrealistico le aspettative di molti nella nostra Chiesa; la questione dell’infallibilità nella Chiesa cattolica non può essere risolta dal giorno alla notte. Ma per fortuna lei è più giovane di me di quasi dieci anni e, come tutti ci auguriamo, mi sopravvivrà.
E certamente comprenderà che io, da teologo alla fine dei miei giorni, sostenuto da una profonda simpatia per lei e per la sua azione pastorale, abbia voluto, finché sono in tempo, esporre la mia preghiera per una libera e seria discussione sull’infallibilità, motivata come meglio posso nel presente volume: non in destructionem, sed in aedificationem ecclesiae, “non per la distruzione, ma per l’edificazione della Chiesa“. Per me personalmente sarebbe la realizzazione di una speranza mai abbandonata». (Traduzione di Carlo Sandrelli)
L’aldilà «democratico» che fece della Chiesa una potenza economica
di Marco Rizzi (Corriere della Sera, La Lettura, 07.02.2016)
Verso la fine del VII secolo, il vescovo di Toledo, Giuliano, compilò una vasta antologia di testi degli antichi Padri della Chiesa latina sul destino dell’anima dopo la morte. Il suo intento era confortare un amico malato, Idalio vescovo di Barcellona, che sentiva prossimo l’arrivo della fine. Nei fatti, il Prognosticon futuri saeculi , che si traduce con «Preannuncio del mondo che verrà», divenne uno dei testi più conosciuti e diffusi nel Medioevo.
Raccogliendo pagine dagli scritti di Cipriano, vescovo di Cartagine alla metà del III secolo, di Agostino, di Gregorio Magno e di altri ancora, Giuliano di Toledo si sforza di offrire risposte coerenti alle domande che angosciavano i cristiani dei suoi giorni: cosa accade all’anima quando si muore? Le anime dei defunti rimangono in rapporto con le cose di questo mondo? E soprattutto, cosa accade nel lungo intervallo di tempo che separa il momento della morte individuale dal giorno, terribile ma ancora lontano, del Giudizio universale, quando si consumerà il destino irreversibile di ciascuno e l’anima sarà restituita al corpo rigenerato per la beatitudine o la condanna eterna?
Proprio dall’antologia di Giuliano (che si può leggere nella recente traduzione di Tommaso Stancati per l’Editrice Domenicana Italiana di Napoli) prende avvio il saggio di Peter Brown Il riscatto dell’anima (Einaudi), che ripercorre il formarsi dell’immaginario escatologico del cristianesimo occidentale tra il III e il VII secolo, assumendo però un punto di vista particolare: quello del rapporto tra le ricchezze di quaggiù e il destino delle anime di lassù, se si vogliono utilizzare le parole di Gesù che, nel Vangelo di Luca, ammonisce a vendere ciò che si possiede e darlo in elemosina per costruire un tesoro nei cieli.
Nel mondo antico, la gloria dell’immortalità era riservata solo a pochi spiriti eletti, i filosofi, i grandi legislatori, gli eroi; la morte non cancellava, anzi in qualche misura ribadiva, la gerarchia sociale presente sulla Terra. Il cristianesimo introduce invece quella che Brown definisce una «democrazia delle anime», anzitutto riconoscendo a ciascun uomo, a prescindere dalla sua condizione, una propria natura spirituale, testimoniata appunto dall’anima individuale; poi, assegnandole la possibilità di guadagnarsi la salvezza e conseguire così l’immortalità.
Se nei primi tre secoli la condizione di marginalità o addirittura di persecuzione rendeva la scelta stessa di essere cristiani meritevole della ricompensa celeste nel giorno del Giudizio, o addirittura nel caso dei martiri nel momento stesso della morte, a partire dal IV secolo il problema inizia a porsi in termini profondamente diversi. Agostino non si preoccupa di chi è veramente buono (i martiri e i santi) o di chi è intrinsecamente malvagio: i primi godranno del paradiso, i secondi sono destinati all’inferno. Ma che dire di coloro che non sono né abbastanza buoni, né abbastanza cattivi, ovvero della grande maggioranza dei cristiani comuni? Come potranno purificarsi dai loro peccati, una volta defunti e in attesa del Giudizio?
Proprio intorno a interrogativi del genere si determina un significativo cambiamento nell’uso cristiano della ricchezza. Fino a questo momento, l’elemosina elargita ai poveri serviva al credente per obbedire al comando di Gesù e prepararsi un posto in cielo. Ora, invece, l’anima del defunto resta bisognosa anche nell’aldilà: beneficare i poveri sulla Terra contribuisce a riscattare le anime nei cieli.
Così la Chiesa assume un ruolo centrale nella gestione della ricchezza, a mezzo tra cielo e terra. I beni offerti per il sostentamento degli indigenti o per l’edificazione degli edifici di culto rappresentano una sorta di cambiale che il donatore, ricco o meno che sia, potrà incassare dopo la sua morte sotto forma di preghiere e di intercessioni; a sua volta, la Chiesa si fa garante della conservazione e del corretto uso dei beni ricevuti, che divengono un vero «patrimonio dei poveri».
Naturalmente in questo processo si intrecciano in forma tutt’altro che lineare dibattiti teologici, mutamenti culturali, trasformazioni sociali. Ancora alla fine del VI secolo, l’idea antica secondo cui l’immortalità era riservata alle anime elette, questa volta però martiri e santi, riemergeva nelle parole di un membro del clero di Tours secondo cui nel caso dei peccatori - ovvero della stragrande maggioranza dei cristiani - andavano prese alla lettera le parole rivolte da Dio ad Adamo: «Polvere sei e polvere ritornerai». Nessuna offerta, nessuna preghiera poteva redimere le anime comuni. Ma era ormai aperta la strada che avrebbe portato ai grandi possedimenti ecclesiastici, alla comparsa del purgatorio, nella seconda metà del XII secolo, e «alla somma Divina Commedia di Dante Alighieri» - conclude Brown.
Nespresso fa causa per uno spot di una concorrente con il sosia di Clooney
Chiesti 50mila dollari di risarcimento e rimozione spot
di Redazione ANSA ROMA 22 gennaio 2016
Clooney e Nespresso, binomio inconfondibile. Non per la compagnia di caffè israeliana, la Israeli Espresso Club, che ha cercato invece di confondere le idee a suo vantaggio ricorrendo ad un sosia della star hollywodiana per un suo spot. Mossa che che gli è subito costata una citazione in giudizio da parte della Nespresso che rivendica l’unicità del suo volto-immagine.
Durante la pubblicità della compagnia israeliana compare una scritta sullo schermo che avverte che l’attore, dai capelli argento e con in mano quello che sembra essere un sacchetto di Nespresso, "non è George Clooney. La Nespresso chiede 50,000 dollari di danni e la rimozione dell’annuncio pubblicitario.
Lo spot della società concorrente con il sosia di Clooney (da Youtube)
VATICANO, COPYRIGHT, E CARO-PREZZO ("CARITAS"): "IN PRINCIPIO ERA LA PAROLA" A PAGAMENTO!!!
Enciclica "mammonica"!!!
«DEUS CARITAS EST», LA PRIMA ENCICLICA DI RATZINGER E’ A PAGAMENTO !!!
LA "LUCE DEL MONDO" SONO "IO"!!! CHE SUCCESSO, QUANTI SOLDI CON I DIRITTI DI AUTORE!!! --- IL NOME DI DIO E’ MISERICORDIA. Il titolo del libro-intervista di Papa Francesco con il vaticanista Andrea Tornielli (EDIZIONI PIEMME - GRUPPO MONDADORI)
"Corrotti perdono pudore e dignità, provino vergogna"
Esce libro. "Mai emarginare i gay, ogni creatura è amata da Dio"
di Fausto Gasparroni (Ansa, 12 gennaio 2016)
ROMA "Sì, io credo che questo sia il tempo della misericordia". E’ quasi un vademecum per il Giubileo il libro-intervista di papa Francesco con Andrea Tornielli, "Il nome di Dio è misericordia" (Piemme, pp. 120, 15.00 euro), uscito oggi in 86 Paesi e presentato a Roma con ospiti come Roberto Benigni e il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin. "La Chiesa mostra il suo volto materno, il suo volto di mamma, all’umanità ferita - vi afferma Bergoglio -. Non aspetta che i feriti bussino alla sua porta, li va a cercare per strada, li raccoglie, li abbraccia, li cura, li fa sentire amati".
Nell’agile volume c’è tutta la visione di Francesco sulla misericordia, vero balsamo per "l’umanità ferita" del terzo millennio, cui ha voluto dedicare l’Anno Santo straordinario ponendola al centro della stessa idea di cristianesimo: "la misericordia è la carta d’identità del nostro Dio. Dio di misericordia. Dio misericordioso. Per me questa è davvero la carta d’identità del nostro Dio". Rivelando tra l’altro come una prima idea dell’Anno giubilare l’ebbe in embrione in una tavola rotonda tra teologi ai tempi di Buenos Aires: "si discuteva su che cosa il Papa potesse fare per avvicinare la gente, di fronte a tanti problemi che sembravano senza soluzione. Uno di loro disse: ’Un giubileo del perdono’. Questo mi è rimasto in mente". Forte l’accento posto dal Papa sul valore del sacramento della penitenza, sui confessori che devono avere "tenerezza" e "non allontanare" la gente che "soffre". E se, da una parte, "andare a confessarsi non è come andare a portare il vestito in tintoria", dall’altra i confessionali "non devono mai essere stanze di tortura". "A volte desidererei poter entrare in una chiesa e sedermi ancora in confessionale", confida Francesco. La stessa giustizia terrena "è più giusta, realizza davvero se stessa", se attuata "con la misericordia". Ecco quindi la crescita nella coscienza mondiale del "rifiuto della pena di morte". Bene anche "quanto si sta cercando di fare per il reinserimento sociale dei carcerati". La misericordia divina, insomma, "contagia l’umanità".
Tuttavia le parole più forti del Pontefice sono ancora sulla piaga della corruzione, un peccato che "viene elevato a sistema, diventa un abito mentale, un modo di vivere". "Il corrotto - denuncia Francesco - è così chiuso e appagato nella soddisfazione della sua autosufficienza che non si lascia mettere in discussione da niente e da nessuno. Ha costruito un’autostima che si fonda su atteggiamenti fraudolenti: passa la vita in mezzo alle scorciatoie dell’opportunismo, a prezzo della sua stessa dignità e di quella degli altri". Per il Papa, "il corrotto ha sempre la faccia di chi dice: ’Non sono stato io!’. Quella che mia nonna chiamava ’faccia da santarellino’". Il corrotto, in altre parole, "è quello che s’indigna perché gli rubano il portafoglio e si lamenta per la scarsità di sicurezza che c’è nelle strade, ma poi truffa lo Stato evadendo le tasse e magari licenzia i suoi impiegati ogni tre mesi per evitare si assumerli a tempo indeterminato oppure sfrutta il lavoro in nero. E poi si vanta pure con gli amici di queste sue furbizie". E’ quello "che magari va a messa ogni domenica, ma non si fa alcun problema nello sfruttare la sua posizione di potere pretendendo il pagamento di tangenti". La corruzione, insomma, "fa perdere il pudore", mentre "il corrotto spesso non si accorge del suo stato, proprio come chi ha l’alito pesante e non se ne rende conto". Il Papa lo ripete più volte: "peccatori sì, corrotti no!", perché nell’animo dei secondi non c’è il pentimento e la richiesta di perdono. "Dobbiamo pregare in modo speciale, durante questo Giubileo - aggiunge -, perché Dio faccia breccia anche nei cuori dei corrotti donando loro la grazia della vergogna, la grazia di riconoscersi peccatori bisognosi del Suo perdono".
Bergoglio torna con chiarezza anche sul tema dei gay: "persone omosessuali", vuole che le si chiami, perché "prima c’è la persona, nella sua interezza e dignità. E la persona non è definita soltanto dalla sua tendenza sessuale: non dimentichiamoci che siamo tutti creature amate da Dio, destinatarie del suo infinito amore". "Puoi consigliare loro la preghiera, la buona volontà, indicare la strada, accompagnandole", risponde a una domanda sulla sua esperienza di confessore. E a proposito della sua celebre frase "Chi sono io per giudicare?" afferma: "Avevo detto in quella occasione: se una persona è gay, cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla? Avevo parafrasato a memoria il Catechismo della Chiesa cattolica, dove si spiega che queste persone vanno trattate con delicatezza e non si devono emarginare".
Ma Charlie è blasfemo?
di Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani (Il Sole-24 Ore, Domenica, 10.01.2016)
Un anno dopo la strage, la copertina di Charlie Hebdo mostra l’immagine del carnefice: è Dio con il mitra in spalla, che ancora fugge con l’abito insanguinato. Questa è un’immagine blasfema? E, se blasfema, è illecita? Sicuramente aiuta ad avere gli strumenti per deciderlo un bel libro curato da Alberto Melloni, Francesca Cadeddu e Federica Meloni, Blasfemia, diritti e libertà, fresco di stampa per il Mulino. È un confronto tra storici, teologi, filosofi e giuristi sul tema della parola che offende il sacro: si va dall’evoluzione del concetto di blasfemia, al racconto di episodi di vilipendi storici - con qualche esempio in forma di immagine - e di persecuzioni, fino al tentativo di definire i limiti dell’intervento statale nella punizione. Il volume mantiene quel che Melloni promette nell’introduzione, ovvero «fornire [...] conoscenze giuridiche, politiche, storiche e teologiche che servano a comprendere e giudicare fatti, atti, ragioni, sfondi - incluso quello ambivalente della “blasfemia”».
Dai saggi non emerge una risposta univoca, anzi le posizioni sono diverse e a volte in contrasto tra loro. Ciò non ci pare discendere soltanto dalle credenze personali ma anche dalle differenti prospettive delle scienze di cui gli autori sono esponenti. Gli studiosi della società - antica o contemporanea - hanno un’ottica che consente di affermare l’inopportunità e financo la pericolosità di alcune espressioni oltraggiose, specie in alcuni passaggi storici o in contesti culturalmente non omogenei, con diversi gradi di tolleranza all’irrisione.
Il giurista, invece, lo evidenzia bene Giancarlo Bosetti, sembra avere una via maestra: quella di riconoscere che il diritto a non essere offesi nei propri sentimenti religiosi debba passare attraverso una porta stretta. Il poco spazio che gli ordinamenti liberali possono riservare ai reati a presidio delle fedi deriva dalla constatazione che le religioni sono anche dei poteri che condizionano la vita pubblica. E come ogni altro potere, esse meritano, con le parole di Rushdie citate da Mauro Gatti, «le critiche, la satira e tutta la nostra impavida irriverenza».
Del resto, in una società laica, le convinzioni religiose non hanno maggiore dignità e valore rispetto a quelle filosofiche, politiche o di altro genere. E quindi, come nessuno può invocare la forza dello Stato per offese a una propria qualunque ideologia, analogamente, in una società davvero aperta, i fedeli non hanno strumenti giuridici per opporsi alla critica, anche feroce o irrisoria, alle religioni, soprattutto quando queste non si curano solo d’anime.
A conferma di ciò, non è certo un caso che in Europa negli ultimi decenni le leggi che puniscono la blasfemia siano sempre meno e sempre meno applicate. E pure negli Stati Uniti, ove nel Primo Emendamento sono incise una accanto all’altra la neutralità nei confronti delle religioni e la libertà di parola, già negli anni ’50 la Corte Suprema ha stabilito che «lo Stato non ha alcun legittimo interesse a proteggere una qualsiasi religione, o tutte le religioni da espressioni a loro sgradite», come ricorda ancora Gatti.
La violenza contro Charlie ha mutato il clima e ha fatto sostenere a taluno, forse per un principio di prudenza, che vietare l’offesa alla religione fosse una buona soluzione.
Al contrario, grazie anche alla lettura del libro, a noi piace ancora un legislatore che rinuncia a usare lo strumento penale contro il blasfemo, invece di cercargli «l’anima a forza di botte», come nella Spoon River di De Andrè.
UN BLASFEMO (DIETRO OGNI BLASFEMO C’E’ UN GIARDINO INCANTATO) *
Mai più mi chinai e nemmeno su un fiore,
più non arrossii nel rubare l’amore
dal momento che Inverno mi convinse che Dio
non sarebbe arrossito rubandomi il mio.
Mi arrestarono un giorno per le donne ed il vino,
non avevano leggi per punire un blasfemo,
non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte,
mi cercarono l’anima a forza di botte.
Perché dissi che Dio imbrogliò il primo uomo,
lo costrinse a viaggiare una vita da scemo,
nel giardino incantato lo costrinse a sognare,
a ignorare che al mondo c’e’ il bene e c’è il male.
Quando vide che l’uomo allungava le dita
a rubargli il mistero di una mela proibita
per paura che ormai non avesse padroni
lo fermò con la morte, inventò le stagioni.
... mi cercarono l’anima a forza di botte...
E se furon due guardie a fermarmi la vita,
è proprio qui sulla terra la mela proibita,
e non Dio, ma qualcuno che per noi l’ha inventato,
ci costringe a sognare in un giardino incantato,
ci costringe a sognare in un giardino incantato
ci costringe a sognare in un giardino incantato.
* FONTE: VIA DEL CAMPO - Testi NON AL DENARO NON ALL’AMORE...
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?". Una nota di Antonio Thellung, da"mosaico di pace"
Vaticano: a proposito della finta donazione del cardinal Bertone
di Paolo Farinella (il Fatto, 20 dicembre 2015)
Sig. cardinale Tarcisio Pietro Evasio Bertone,
che lei sia inadeguato ai ruoli e compiti che ha svolto è davanti agli occhi di tutti: a Genova dove non lasciò alcuna traccia significativa, ma scelse come plenipotenziario del Galliera, il prof. Giuseppe Profiti, al centro di ogni ben di Dio; da segretario di Stato dove ha distrutto la credibilità della Chiesa universale con la sua incapacità di governo, privo di qualsiasi discernimento, ma dedito a costruire una rete di fedelissimi per perpetuare il suo potere anche da pensionato e da morto; infine da cardinale in pensione con il miserevole attico di 296 mq dove vive con tre suore e magari si rilassa, giocando a golf negli appropriati corridoi.
Leggo sui giornali che lei ha deciso «ex abundantia cordis» di donare all’ospedale Bambin Gesù un contributo di 150mila euro, attinti come da lei dichiarato, dai «miei risparmi e dai vari contributi di beneficenza ricevuti negli anni per finalità caritative». Mi faccia capire perché c’è qualcosa che non quadra. Non sto a questionare sul fatto che la ristrutturazione è costata € 300mila, di cui 200mila pagati dalla fondazione Bambin Gesù.
Mi lascia esterrefatto la notizia che lei ha preso questi soldi «dai vari contributi di beneficenza ricevuti negli anni per finalità caritative», cioè non per lei, ma perché lei li desse per gli scopi per cui li ha ricevuti o, genericamente, per opere di carità. Invece lei dice che attinge da questi «vari contributi di beneficenza ricevuti negli anni» per pagare il suo appartamento. Non solo, ma lei parla di «vari anni», lasciando intendere un solo senso: lei ha trattenuto per anni contributi ricevuti per beneficenza. Mi perdoni, quando pensava di darli in beneficenza, alla sua morte per testamento?
Il buco che lei vuol coprire risulta più grande della toppa che cerca disperatamente di metterci su senza riuscirci perché la sua maldestra difesa aggrava ancora di più la sua posizione che l’espone, per le sue stesse parole, al ludibrio della gente perbene che vede nei suoi comportamenti una miserabile attitudine alla superficialità che è colpa ancora più grande della delinquenza di persone come lei che dicono di volere rappresentare quel Dio che accusa chi veste di porpora di essere soci della casta del potere. Non solo lei ha trattenuto nel suo conto personale denari ricevuti per beneficenza, ma li ha anche trattenuti per «vari anni», lucrando magari sugli interessi che dalle parti dello Ior, gestito da suoi uomini e da lei stesso, potrebbero essere stati più che generosi.
Lei ha rubato due volte ai poveri: la prima volta trattenendo questi denari non suoi e la seconda volta facendosi bello con l’ospedale «Bambin Gesù» dando soldi non suoi, ma quelli della beneficenza che non ha donato negli anni passati. In ultima analisi, poiché è il totale che fa la somma (copyright Totò), lei non sborsa nulla di tasca sua, ma paga tutto sempre con denaro di beneficenza. Complimenti, esimio cardinale!
La rovina dei preti sono sempre i soldi. Per questo sproloquiate di celibato perché così siete più liberi di amare «mammona iniquitatis», fornicando giorno e notte senza essere visti da alcuno. Se il tempo che dedicate a difendere il celibato dei preti, che solo pochi rispettano (e lei lo sa perfettamente!) o a condannare i gay laici - visto che preti, vescovi, monsignori e cardinali lo sono ad abundantiam - o a sproloquiare di separati e divorziati, di cui non sapete nulla, lo dedicaste a proibire ai preti di gestire denaro, fareste una cosa preziosa per il mondo e per la Chiesa. Sicuramente due terzi del clero lascerebbe la Chiesa, ma con il terzo che resta e con l’aiuto dei preti ridotti allo stato laicale perché sposati, ripresi in servizio, saremmo capaci di rivoluzionare il mondo, oltre che il Vaticano, covo di malaffare e di depravazione senza misura.
Tanti anni fa, quando era potente, io la ripudiai pubblicamente insieme al suo amico e sodale Berlusconi, da cui lei - o lui da lei? - «prese lo bello stile che le ha fatto (dis)onore» e oggi sono contento di avere visto lungo e giusto. Lei mente dicendo di essere salesiano; se lo fosse veramente, avrebbe agito come il cardinale Carlo Maria Martini, il quale, date le dimissioni, si è ritirato in una casa di gesuiti abitando in una stanza 6×4 con letto, tavolo, armadio, servizi e un assistente personale perché malato, partecipando alla vita comunitaria da cui proveniva.
Scegliendo di accorpare due appartamenti con i soldi della beneficenza, lei ha dimostrato non solo di non credere in Dio, ma di dare un pugno nello stomaco a Papa Francesco che sta provando a dire ai cardinali, ai vescovi e ai preti che c’è anche un piccolo libretto che si chiama Vangelo. A lei, di sicuro non interessa, perché come i fatti dimostrano, lei legge solo «Gli Attici degli Apostoli».
Con profonda disistima perché la conosco dai tempi di Genova, senza rimpianti.
prete - Genova.
25 novembre Giornata internazionale
Rapporto ’Rosa shocking 2’, violenza su donne è realtà culturalmente strutturata
(di Angela Abbrescia)
(ANSA) - La violenza domestica? Un fatto privato della coppia. Così la pensa quasi un giovane su tre in Italia, secondo quanto emerge da un sondaggio contenuto nel secondo Rapporto sulla violenza contro le donne e gli stereotipi di genere ’Rosa shocking 2’ curato da WeWorld Onlus insieme a Ipsos, con il Patrocinio della Camera e del Dipartimento per le Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio.
Nel sondaggio, l’obiettivo è capire come le nuove generazioni si posizionino su questi temi. In particolare, aumenta la percentuale, dal 19% al 22%, di chi dichiara che quello che accade in una coppia non deve interessare gli altri. Il 32% dei ragazzi tra i 18 e i 29 anni, poi, afferma che gli episodi di violenza vanno affrontati all’interno della mura domestiche. Non solo: l’aspetto istintivo legato alla violenza e il raptus momentaneo è per il 25% di questa fascia d’età giustificato e legittimato dal "troppo amore", oppure da una motivazione legata al preconcetto che le donne siano abili a ’esasperare’ gli uomini e che gli abiti succinti siano troppo provocanti, attribuendo, quindi, alle donne la responsabilità di far scaturire la violenza.
Nel rapporto si ricordano le dimensioni del fenomeno nel nostro Paese, i cui numeri continuano oggi ad essere allarmanti: sono 6 milioni 788 mila le donne che hanno subito, nel corso della propria vita, una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Di queste solo l’11,8% denuncia gli abusi subiti. Secondo l’analisi del Rapporto sugli investimenti in prevenzione nel biennio 2012-2014, è necessario continuare a promuovere investimenti che portino ad una miglioramento della capacità di prevenzione del fenomeno.
Nel 2013 infatti c’è stato un investimento di 16,1 milioni (il picco più alto mai registrato), anche frutto di una forte campagna mediatica, mentre nel 2014 ci si attesta intorno ai 14,4 milioni. Un calo che evidenzia, secondo la onlus, la necessità di continuare a lavorare con determinazione nella sensibilizzazione di uomini, donne e giovani soprattutto.
Dal rapporto emergono anche segnali timidamente positivi: per la prima volta quando si parla di prevenzione e diritti delle donne inizia a emergere l’immagine di una donna vincente, non più solo vittima, di cui si valorizzano le capacità psicologiche e morali, una figura forte e vincente capace di essere esempio di riscatto per le altre donne. Emblematici in questo senso gli episodi di cronaca riconducibili a Lucia Annibali, Rosaria Aprea e Jessica Rossi, che però restano ancora casi isolati.
Il 25 novembre è la Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne e WeWorld Onlus, la ONG che si occupa in Italia e nel Sud del Mondo di garantire i diritti dei bambini e delle donne più vulnerabili, chiama le Istituzioni ad un’approfondita consapevolezza e reale presa di coscienza su come nel nostro Paese la violenza contro le donne non sia un fenomeno occasionale quanto, piuttosto, una realtà culturalmente strutturata e, al tempo stesso, ad una maggiore conoscenza degli aspetti economici e sociali, che tale fenomeno provoca, facendosi promotore del varo di politiche efficaci e preventive e, nel medio e lungo termine, a conseguire ad una contrazione del peso economico sulla comunità e del costo umano che tale situazione produce.
Intervista a Stefano Rodotà
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 19 novembre 2015)
Nel codice la parola non compare mai, segno di una insofferenza forse reciproca, di una incompatibilità che in Italia è più forte che altrove. Al conflitto permanente tra diritto e amore dedica bellissime pagine Stefano Rodotà, un giurista da sempre attento al tumultuoso rapporto tra l’irregolarità e l’imprevedibilità della vita e l’astrazione formale della regola giuridica (Diritto d’amore, Laterza). Inutile aggiungere da che parte stia Rodotà. Ed è superfluo anticipare che in questa storia protagonisti non sono solo il diritto e i sentimenti ma anche la politica. Con alcune vittime - un tempo le donne, oggi gli omosessuali - che guidano il cambiamento.
Professor Rodotà, diritto e amore sono incompatibili?
«Ancora una volta mi aiuta Montaigne, che definisce la vita un movimento volubile e multiforme. Il diritto è esattamente il contrario, parla di regolarità e uniformità, è insofferente alle sorprese della vita. Quando poi si entra nel terreno amoroso, la soggettività prorompe. E il diritto è decisamente a disagio»
Perché?
«I rapporti affettivi possono essere qualcosa di esplosivo nell’organizzazione sociale. E dunque il diritto s’è proposto come strumento di disciplinamento delle relazioni sentimentali che non lascia spazio all’amore. Basta ripercorrere due secoli di storia: nella tradizione occidentale il diritto per un lungo periodo ha sancito l’irrilevanza dell’amore. E di fatto ha sacrificato le donne, codificando una diseguaglianza»
In che modo?
«Il rapporto di coppia è stato riconosciuto in funzione di qualcosa che non ha nulla a che vedere con i sentimenti: la stabilità sociale, la procreazione, la prosecuzione della specie. Sulle logiche affettive hanno prevalso quelle patrimoniali. E se San Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi predicava il possesso reciproco e paritario tra marito e moglie, da noi si è affermato il modello gerarchico maschilista che riduce il corpo delle donne a proprietà del marito»
Questo modello gerarchico è perdurato in Italia fino alla metà degli anni Settanta del Novecento. Un’anomalia italiana anche questa?
«No, sul piano storico non direi. Il modello famigliare della modernità occidentale - dalla fine del Settecento in avanti - è stato terribilmente gerarchico. Dopo l’unificazione noi assorbimmo il codice francese firmato da Napoleone, che sanciva la più cieca obbedienza della moglie al marito. Pare che Napoleone durante la campagna d’Egitto fosse rimasto colpito dal modo in cui il diritto islamico disciplinava il rapporto tra moglie e marito»
Da noi la storia successiva è stata condizionata dalla Chiesa cattolica. Ma anche la politica ha contribuito ad anestetizzare i sentimenti.
«Sì, il matrimonio ha mantenuto il suo impianto gerarchico anche grazie all’influenza della Chiesa. Quanto alla politica, per una fase non breve della storia, si è mossa in una logica di disciplinamento delle pulsioni, nell’incontro tra il rigorismo cattolico e quello socialcomunista»
Colpisce che anche i nostri padri costituenti - Calamandrei, Nitti, Orlando - si opponessero al principio dell’eguaglianza tra marito e moglie perché in conflitto con il codice civile.
«Incredibile. Nelle loro teste il modello matrimoniale consegnato alle regole giuridiche è un dato di realtà irriformabile. Non si rendevano conto che stavano cambiando le regole del gioco. E che la carta costituzionale stava sopra il codice civile»
Una rigidità che lei ritrova in una recente sentenza della Corte costituzionale, che dice no ai matrimoni gay in nome del codice civile.
«Sì, anche loro si piegano al codice che parla soltanto di matrimoni tra uomini e donne. Mi ha colpito il riferimento della Corte a una tradizione ultramillenaria del matrimonio: come se si trattasse di un dato naturale non soggetto ai mutamenti sociali e antropologici. Invece si tratta di una costruzione storica che è andata cambiando in Europa e in Italia. Ma l’Italia è l’unico paese che non vuole prenderne atto, nonostante abbia sottoscritto la carta dei diritti dell’Unione europea»
Una carta che nell’accesso al matrimonio cancella il riferimento alla diversità del sesso nella coppia.
«E infatti è stato proprio quell’articolo, l’articolo nove, bersaglio di una forte pressione da parte della Chiesa. Pressioni passate sotto silenzio, che però io sono in grado di testimoniare, visto che ero seduto al tavolo della convenzione. Aggiungo che il riferimento alla tradizione millenaria della famiglia, pronunciato dalla nostra Corte costituzionale, non compare in nessun’altra giurisprudenza»
Oggi facciamo fatica ad approvare perfino le unioni civili. Perché succede?
«Si tratta di un conflitto molto ideologizzato, favorito dallo sciagurato radicamento dei cosiddetti«valori non negoziabili" e«temi eticamente sensibili» Questi vengono sottratti al legislatore non perché il legislatore non se ne debba occupare ma perché il legislatore deve accettare il dato naturalistico e immodificabile»
Una barriera che non esisteva ai tempi delle battaglie sul divorzio e sull’aborto.
«E infatti non ci fu la stessa intolleranza. Pur nell’ostinata contrarietà, la Dc prendeva atto che erano intervenute novità sociali non più trascurabili»
Il disgelo era cominciato negli anni Sessanta, quando l’amore cessò di essere fuorilegge. Solo nel 1968 la Corte costituzionale cancellò il reato di adulterio per le donne. E nel 1975 arriva il nuovo diritto di famiglia, che mette fine al modello gerarchico.
«Sì, alle logiche proprietarie subentrano quelle affettive. E tuttavia anche in quella occasione il legislatore trattenne la sua mano di fronte alla parola amore. Si parla di fedeltà, collaborazione, ma non d’amore»
Ma si può mettere la parola amore in una legge?
«Qualcuno sostiene: più il diritto se ne tiene lontano, meno lo nomina, meglio è. Però bisogna domandarsi: il diritto non nomina l’amore perché lo rispetta fino in fondo o perché vuole subordinarlo ad altre esigenze come la stabilità sociale? Per un lungo periodo della storia italiana è stato così»
C’è il diritto d’amore delle coppie omosessuali, che devono poter accedere al matrimonio. Ma c’è anche il diritto d’amore dei figli, che devono poter essere amati da un padre e da una madre. Come si conciliano questi due diritti?
«Non c’è alcuna evidenza empirica che figli cresciuti in famiglie omosessuali mostrino ritardi sul piano del sviluppo della personalità e dell’affettività. E allora, domando, i figli dei genitori single?»
I genitori single - forse più di tutti gli altri - sanno che i figli hanno bisogno di un padre e di una madre, di una figura maschile e di una femminile. E anche la psichiatria formula dubbi sulle adozioni delle coppie gay.
«Lei pone una questione che però non si risolve con l’uso autoritario del diritto. Prima riconosciamo pari dignità a tutte le relazioni affettive e prima saremo in grado di costruire dei modelli culturali adatti a questa nuova situazione. Finché manteniamo il conflitto e l’esclusione, tutto questo diventa più difficile»
Lei dice: il matrimonio egualitario porta con sé la legittimità delle adozioni.
«Certo. Se una volta raggiunto questo risultato si vuole discutere, si potrà farlo senza ipoteche ideologiche. È una storia che non finisce. Come non si finisce mai di rispondere alla sollecitazione di Auden: la verità, vi prego, sull’amore»
PARLARE IN PRIMA PERSONA, E IN SPIRITO DI CARITA’ ("CHARITAS"):
Francesco, in un’intervista a un giornale olandese, parla anche di corruzione: "La tentazione c’è sempre nella vita pubblica. Sia politica che religiosa". Nell’omelia a Santa Marta: "Nella Chiesa ci sono gli arrampicatori, attaccati ai soldi" *
CITTA’ DEL VATICANO - "Se un credente parla della povertà o dei senzatetto e conduce una vita da faraone: questo non si può fare". Così Papa Francesco in un’intervista al giornale di strada olandese "Straatnieuws", realizzata il 27 ottobre e tradotta oggi da Radio Vaticana, nella quale mette in guardia dalla "tentazione della corruzione" che c’è sempre nella vita pubblica, "sia politica, sia religiosa". Parole che assumono una nuova veste alla luce dello scandalo Vatileaks bis.
"Vorrei sottolineare due tentazioni - spiega Bergoglio - la chiesa deve parlare con la verità e anche con la testimonianza: la testimonianza della povertà. Se un credente parla della povertà o dei senzatetto e conduce una vita da faraone: questo non si può fare. Questa è la prima tentazione. L’altra tentazione è di fare accordi con i governi. Si possono fare accordi, ma devono essere accordi chiari, accordi trasparenti. Per esempio: noi gestiamo questo palazzo, ma i conti sono tutti controllati, per evitare la corruzione. Perché c’è sempre la tentazione della corruzione nella vita pubblica. Sia politica, sia religiosa".
LEGGI: E BERTONE RIDEVA SUI SOLDI AGLI OSPEDALI
Papa Bergoglio fa un esempio concreto: "Ricordo che una volta con molto dolore ho visto, quando l’Argentina sotto il regime dei militari è entrata in guerra con la Gran Bretagna per le isole Malvine, la gente dava delle cose, e ho visto che tante persone, anche cattolici, che erano incaricati di distribuirle, le portavano a casa. C’è sempre il pericolo della corruzione. Una volta ho fatto una domanda a un ministro argentino, un uomo onesto, che ha lasciato l’incarico perché non poteva sopportare alcune cose un po’ oscure. Gli ho chiesto: ’quando voi inviate aiuti, sia pasti, siano vestiti, siano soldi, ai poveri e agli indigenti, di quello che inviate, quanto arriva là, sia in denaro sia in spesa?’ Mi ha detto: ’Il 35 per cento’. Significa che il 65 per cento si perde. E’ la corruzione: un pezzo per me, un altro pezzo per me".
E spiega il perché della scelta di vivere a Santa Marta invece che nel Palazzo Apostolico: "Il Palazzo Apostolico non è un appartamento lussuoso. Ma è largo, è grande. Dopo aver visto questo appartamento mi è sembrato un imbuto al rovescio, cioè grande ma con una porta piccola. Questo significa essere isolato. Io ho pensato: non posso vivere qua semplicemente per motivi mentali. Mi farebbe male. All’inizio sembrava una cosa strana, ma ho chiesto di restare qui, a Santa Marta. E questo mi fa bene perché mi sento libero. Mangio nella sala pranzo dove mangiano tutti. E quando sono in anticipo mangio con i dipendenti. Trovo gente, la saluto e questo fa che la gabbia d’oro non sia tanto una gabbia. Ma mi manca la strada".
Papa Francesco sottolinea quanto sia importante continuare a lottare contro il peccato, la cupidigia e lo sfruttamento, soprattutto dei bambini. "Io vorrei un mondo senza poveri. Dovremmo lottare per questo. Ma io sono un credente e so che il peccato è sempre dentro di noi. E la cupidigia umana c’è sempre, la mancanza di solidarietà, l’egoismo che crea i poveri. Per questo mi sembra un po’ difficile immaginare un mondo senza poveri. Basta pensare ai bambini sfruttati come schiavi o ai bambini sfruttati per abuso sessuale. E un’altra forma di sfruttamento: uccidere bambini per togliere gli organi, il traffico di organi. Uccidere i bambini per togliere gli organi è cupidigia. Per questo non so se lo faremo questo mondo senza poveri, perché il peccato c’è sempre e ci porta l’egoismo. Ma dobbiamo lottare, sempre...sempre".
A una domanda sullo spinoso argomento dell’uso dei beni e delle ricchezze della Chiesa, Bergoglio risponde: "I beni immobili della Chiesa sono molti, ma li usiamo per mantenere le strutture della Chiesa e per mantenere tante opere che si fanno nei paesi bisognosi: ospedali, scuole. Se facciamo un catalogo dei beni della Chiesa, si pensa: la Chiesa è molto ricca. Ma quando è stato fatto il Concordato con l’Italia nel 1929 sulla Questione Romana, il governo italiano di quel tempo ha offerto alla Chiesa un grande parco a Roma. Il Papa di allora, Pio XI, ha detto: no, vorrei soltanto un mezzo chilometro quadrato per garantire la indipendenza della Chiesa. Questo principio vale ancora. Sì, i beni immobili della Chiesa sono molti, ma li usiamo per mantenere le strutture della Chiesa e per mantenere tante opere che si fanno nei paesi bisognosi: ospedali, scuole. Ieri, per esempio, ho chiesto di inviare in Congo 50mila euro per costruire tre scuole in paesi poveri, l`educazione è una cosa importante per bambini. Sono andato all`amministrazione competente, ho fatto questa richiesta e i soldi sono stati inviati".
Quanto ai "tesori della Chiesa", "non sono i tesori della Chiesa, ma sono i tesori dell`umanità. Per esempio, se io domani dico che la Pietà di Michelangelo venga messa all`asta, non si può fare, perché non è proprietà della Chiesa. Sta in una chiesa, ma è dell’umanità. Questo vale per tutti i tesori della Chiesa. Ma abbiamo cominciato a vendere dei regali e altre cose che mi vengono date. E i proventi della vendita vanno a monsignore Krajewski, che è il mio elemosiniere. E poi c’è la lotteria. C’erano delle macchine che sono tutte vendute o date via con una lotteria e il ricavato è usato per i poveri. Ma ci sono cose che si possono vendere e queste si vendono".
Ipocrisia e avidità tornano anche nell’omelia a Santa Marta: "Nella Chiesa ci sono questi, che invece di servire, di pensare agli altri, di gettare le basi, si servono della Chiesa: gli arrampicatori, gli attaccati ai soldi. E quanti sacerdoti, vescovi abbiamo visto così. E’ triste dirlo, no?. Dio ci salvi dalle tentazioni di una doppia vita, dove mi mostro come uno che serve e invece mi servo degli altri. Ci si chiede di metterci al servizio, ma c’è chi ha raggiunto uno status e vive comodamente senza onestà, come i farisei nel Vangelo. Mi commuovono quei preti e quelle suore che per tutta la vita sono al servizio degli altri"
* la Repubblica, 06.11.2015 (ripresa parziale).
MANZONI, MARX, E LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA SUA TEOLOGIA "MAMMONICA" (Benedetto XVI, "Deus caritas est", 2006). CON MARX, OLTRE...
IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA LA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
"SCORPIONE E FELICE". RIDENDO E SCHERZANDO, MARX TROVA "LA PIETRA FILOSOFALE" DEL SUO CAMMINO.
Quando si poteva ridere degli Dei
I travestimenti di Dioniso, i tradimenti di Afrodite, i riti e le commedie.
Così gli antichi si prendevano gioco del divino
di Maurizio Bettini (la Repubblica, 23.09.2015)
Esistono religioni in cui ridere della divinità è possibile anche da parte di coloro che, contemporaneamente, questa stessa divinità la venerano: e ciò è considerato perfettamente “naturale”. Solo la nostra lunga, ben più che millenaria assuefazione ai quadri mentali delle religioni monoteistiche, fa sì che la possibilità di ridere della divinità ci sembri incompatibile con la pratica religiosa - tanto che, per poterlo fare, si deve necessariamente essere dei non credenti, persone che alla religione guardano da fuori.
Tutto al contrario, esistono religioni in cui ridere degli dèi è stata ed ancora è pratica comune. È quello che accadeva, per esempio, presso i Krachi, una popolazione della zona del Volta, in Africa, oggi parte dello stato del Ghana, nei cui racconti trovano posto una divinità che si allontana dagli uomini perché ogni mattino una vecchia la colpisce col pestello; o addirittura taglia un pezzetto del suo corpo per metterlo nella zuppa. A questo proposito Italo Calvino si domandava se «già in origine le religioni di questi popoli» non fossero «imbevute di realismo e di autoironia».
Ma anche senza uscire dal nostro ristretto orizzonte geografico, ossia l’Europa, basterà ricordare che anche la cultura antica, quella propria dei Greci e dei Romani, ammetteva tranquillamente la possibilità di ridere della divinità. Il fatto è che troppo spesso noi giudichiamo naturali, ossia propri della natura umana, abitudini e comportamenti che sono invece costruzioni culturali: tant’è vero che basta voltare pagina, nel libro delle culture, per scoprire che altri, diversi da noi, hanno avuto e hanno comportamenti diversi da quelli che noi riteniamo imposti direttamente dalla natura. Ed è questo il caso di quelle culture, come le antiche, in cui si poteva ridere degli dèi.
Siamo ad Atene, nel 405 a.C., in piena guerra del Peloponneso, un periodo particolarmente drammatico per la città. Per l’esattezza ci troviamo fra i mesi di gennaio e febbraio, giorni in cui si celebravano le Lenee, una festa dedicata a Dioniso (con l’epiteto di Leneo) in cui si svolgevano importanti agoni teatrali.
È questo il momento in cui Aristofane mette in scena le Rane , una delle sue commedie più celebri. La trama è la seguente. Accompagnato da un servo, Xanthias, il dio Dioniso decide di scendere all’Ade per riportare in vita il poeta Euripide, di cui è un ammiratore. Si tratta di un viaggio non privo di rischi, ragion per cui il dio decide di assumere l’identità dell’unico personaggio che, da vivo, è stato capace non solo di scendere all’Ade, ma anche di uscirne: ossia Eracle. Dioniso indossa dunque la pelle di leone, tipica dell’eroe, ne impugna la celebre clava, e così travestito si mette in cammino. La prima tappa è costituita, per l’appunto, da una visita a Eracle. Il quale però, vedendo Dioniso con indosso i suoi tipici attributi, non può far a meno di notare che, da sotto la gloriosa leonté , spunta il bordo di una tunica gialla, tipicamente femminile; e che la terribile clava si accompagna a una calzatura dal tacco alto, anch’essa femminile. «Non riesco a non ridere», commenta Eracle vedendo Dioniso combinato così. E con queste parole siamo già entrati nel nostro tema: ridere degli dèi.
Non si tratta però solo di Aristofane: l’uso di ridere degli dèi in Grecia è presente già a partire da Omero. Molti ricorderanno la celebre scena, narrata nell’Odissea, in cui Ares fa all’amore con Afrodite, che è presentata come sposa di Efesto. Ma il fabbro divino si è accorto del tradimento, per questo imprigiona i due amanti in una rete infrangibile - di quelle che solo lui sa costruire - e li espone al ludibrio delle altre divinità (Odissea 8, vv. 306 e ss.): «Padre Zeus e voi altri beati dèi eterni, venite a vedere l’azione ridicola e intollerabile, come sempre mi oltraggia Afrodite figlia di Zeus, me che sono zoppo, e invece ama Ares inviso e funesto, perché lui è bello e veloce, mentre io sono storpio». Ares e Afrodite, goffi amanti esposti al ludibrio degli altri dèi, sono personaggi ridicoli. Ridono gli dèi di questa scena, ma insieme agli dèi dell’Olimpo ridono anche i lettori dell’ Odissea.
È un fatto che il politeismo antico accetta una pratica - ridere della divinità - che stupisce (quando non indigna) noi uomini di oggi, islamici, cristiani o anche laici che della divinità, anche se le siamo estranei, abbiamo comunque ereditato l’immagine che per secoli e secoli ne hanno dato le religioni monoteiste.
Ora, se si guarda bene come funziona le religione antica, si vede che anche con il dio si possono stabilire prati-camente tutte le relazioni che sono attive anche fra gli uomini. Con la divinità si può comunicare attraverso la preghiera; l’offerta di frutti o il sacrificio di animali - ossia doni di carattere molto concreto - costituiscono una forma di omaggio ma anche di scambio, servono a stabilire amicizie e alleanze con la divinità; ancora, gli dèi antichi non sono solo tanti e molteplici, ma sono divinità presenti, lo sono nei templi della città, in quelli sparsi sul territorio, nelle case dei cittadini, che li onorano con il culto domestico, le loro immagini sono ovunque e di ogni forma. «Tutto è pieno di dèi», diceva Talete, la loro presenza fra i mortali è diffusa è continua.
Neppure la natura degli dèi, se ci si pensa bene, è radicalmente diversa da quella degli uomini: a differenza di questi essi sono esseri immortali, è vero, ma entrambe le stirpi, quella divina e quella umana, hanno comunque una stessa origine, tutte e due provengono da Gaia, la Terra. Gli dèi antichi sono non solo vicini agli uomini, sono soprattutto “partner” dei mortali, esseri potenti e immortali che però, a dispetto di ciò, possono anche porsi “in relazione” con gli umani sotto molteplici punti di vista. Ecco perché si può anche ridere di loro: allo stesso modo in cui si può averli in casa propria, proporre loro scambi offrendo frutti o animali, combatterli, amarli, sognarli. Perché ridere non è diverso da tutto il resto: prendersi gioco di qualcuno fa parte dell’intero bouquet di relazioni che gli uomini stabiliscono fra loro.
A questo punto non ci resta che concludere con un breve parallelo fra il modo in cui gli antichi hanno rappresentato i loro dèi e quello in cui le religioni dette monoteistiche si rappresentano invece la propria divinità.
Lasciamo da parte il cristianesimo, che si è costruito sul racconto di un Dio che si è fatto uomo per essere ucciso e così redimere i peccati del mondo: una religione come questa, che si fonda sulla passione e la morte del figlio di Dio, si oppone costituzionalmente alla possibilità di ridere.
Quanto al Dio ebraico e islamico - ma questo vale anche per colui che i Cristiani chiamano Dio Padre - a differenza delle divinità antiche questa non solo è unica, maè soprattutto lontana : è un dio che, in quanto costituisce l’origine di tutto ciò che esiste, ed è egli stesso il Tutto - increato ed eterno, infinito, assoluto - per lo stesso motivo è anche remoto, inafferrabile negli spazi siderali che costituiscono solo una particella della sua immensità. Con Lui non si interagisce offrendogli doni concreti, ma gli si rivolgono solo offerte metaforiche e spirituali. Di lui non esistono immagini, la sua è una presenza tanto totale quanto astratta, anzi, astratta proprio perché totale. L’unica relazione che con lui si può avere è di totale sottomissione, di piena accettazione ai suoi voleri, l’esecuzione della sua volontà in un progetto che è addirittura cosmico e, come tale, va ben oltre ciò che riguarda la minima presenza dei singoli uomini. Come si potrebbe ridere di una divinità come questa?
Tutti gli Anticristi che camminano tra noi
Non l’Avversario né il Grande Satana, ma “tutto ciò che nega la nostra luce”
Ecco l’interpretazione del Male secondo lo studioso di mistica Marco Vannini
di Paolo Rodari (la Repubblica, 21.06.2015)
La storia del cristianesimo ha molteplici fili rossi. Fra questi ce n’è uno enigmatico e a tratti inquietante, la figura dell’Antidio o, per meglio dire, dell’Anticristo. Chi è? Per la Scrittura, Vangelo di Giovanni alla mano, gli Anticristi sono coloro che rifiutano la divinità di Cristo. Così per Marco Vannini, figura di spicco negli studi sulla tradizione mistica occidentale, che in L’Anticristo. Storia e mito, edito da Mondadori, racconta come in realtà gli Anticristi siano due: «Uno vero, della fede, e uno falso, della superstizione... Conosce l’Anticristo chi conosce Cristo, e sa così ri-conoscere anche quegli Anticristi che, come dice Agostino, non si sono rivelati». Pur presentandosi come cristiani, costoro negano la realtà spirituale dell’uomo e di Dio: «Questi sono gli Anticristi oggi tra noi», scrive l’autore.
Insomma, per Vannini l’Anticristo non è l’Avversario nella battaglia finale del Bene contro il Male, «non ha niente a che vedere con le fantasie apocalittiche dei tempi ultimi». È questa a suo avviso una concezione dell’Anticristo «tanto falsa storicamente, filologicamente, quanto perversa moralmente». Perché Anticristo è chi nega il Lògos, lo spirito, «e perciò nega che Cristo sia luce e verità, nega la sua divinità ».
Sono diverse le letture della figura dell’Anticristo fatte durante i secoli. E Vannini le elenca tutte, entrando con dovizia di particolari e competenza dentro un mito che agisce ancora oggi nel profondo dell’immaginario collettivo, come dimostra la sua ampia presenza nella letteratura, nel cinema, nei fumetti, nel web: è sufficiente navigare fra i siti Internet per scoprire che l’idea di un Antagonista, già nato o prossimo a venire, è tuttora molto diffusa. E lo sarà in futuro. Il mito continuerà a vivere, piaccia o meno. Le letture dell’Anticristo saranno ancora con ogni probabilità molteplici, come è stato del resto nel passato. Non a caso, la sua figura compare anche nell’Islam, dove corrisponde a quel «Grande Satana» tanto spesso evocato ieri dai seguaci di Khomeini e dai fondamentalisti di Osama e oggi dagli islamisti del califfato, che lo identificano con la cultura occidentale nel suo complesso e, in particolare, con Israele e gli Stati Uniti.
Ma sono letture in verità parziali o anche false. Perché, appunto, Anticristo è chi nega la divinità di Cristo. La si nega perché «non si conosce se stessi in quanto spirito, in quanto «luce e verità». Perciò, chiosa Vannini, gli Anticristi «sono degni di compassione, se non fosse per la presunzione che li accompagna: quella di fare da maestro, da pastore, dunque da ingannatore, seduttore, plànos, come dice appunto la Seconda lettera di Giovanni ».
FILOSOFIE. Che ci tocchi attribuire un significato all’universo è la grande intuizione della scuola di pensiero dell’antica Grecia. Una lezione che torna utile anche oggi, quando dimentichiamo che non bisogna dividere i buoni dai cattivi ma risolvere problemi.
Il linguaggio, la politica e noi.
I sofisti hanno ragione
Il mondo senza un senso assoluto, la verità è frutto di un negoziato
di Mauro Bonazzi (Corriere della Sera, La Lettura, 24.05.2015)
I sofisti sono i perdenti della storia. Ne fa fede il termine stesso, «sofista»: da esperto del sapere (sophistes è imparentato con sophia, «sapienza») a poco più che ciarlatano. Sofista, oggi come ieri, è chi gioca con le parole, chi imbastisce ragionamenti capziosi al solo fine di prevalere in una discussione. Il giudizio di Aristotele è tombale: il sapere dei sofisti è un sapere delle apparenze e dunque un’apparenza di sapere. Un sapere illusorio, fatto di parole brillanti ma vuote: fossero vissuti oggi, i sofisti imperverserebbero negli studi televisivi, pronti a sostenere non importa quale tesi, capaci delle più imprevedibili giravolte. Oppure, ma in fondo è la stessa cosa, li troveremmo nelle stanze segrete della politica, impegnati ad ammantare di belle parole i propositi non sempre nobili dei loro capi. Gli altri, le persone per bene e i filosofi, fanno altro, si occupano di problemi seri, e di cose reali.
La questione è però che anche i sofisti, spregiudicati e cialtroni quanto si voglia, si occupano di cose reali. Si occupano delle parole, che sono come un pharmakon, diceva il sofista Gorgia, come una medicina o una droga, sostanze che possono salvare ma anche uccidere. A chi li frequentava i sofisti promettevano che avrebbe imparato a padroneggiare il linguaggio per affermarsi in tutte le situazioni - perché in una società complessa non si prevale con la forza, ma con le parole.
All’inizio degli anni Novanta, sfumate le illusioni del comunismo, da destra a sinistra tutti si dicevano liberali e tutti parlavano di libertà, termini di per sé opachi, aperti a molteplici interpretazioni. Alla fine, di queste parole si è appropriato Silvio Berlusconi: ha impresso loro la rotazione che gli serviva e ha governato vent’anni. Le parole contano e andare a lezione dai sofisti a volte conviene. Ma la lezione dei sofisti non si esaurisce in questa dimensione pratica, per cui importa solo il controllo concreto delle parole. Più interessante è la riflessione sottotraccia.
Detto in sintesi, la filosofia è il grandioso tentativo di trovare il senso della realtà. Ci siamo noi e c’è il mondo: il compito della filosofia è scoprire il senso del mondo, mostrarne la razionalità e offrirci una guida per le nostre azioni. Per i sofisti è tutto più complicato: ci siamo noi e c’è il mondo, certo. Ma è sicuro che ci sia un legame tra noi e il mondo? L’intuizione dei sofisti è tutta qui: è la presa d’atto del rapporto problematico che separa noi e la realtà, i soggetti e gli oggetti. La realtà che ci circonda è sfuggente, non è dotata di senso univoco e tanto meno di un valore assoluto. Non si tratta dunque di estrarre un senso dalla realtà; al contrario si tratta di darle un significato e un valore - un significato e un valore umano. In questo i sofisti fanno propria un’idea di fondo dei greci (ma non dei filosofi greci): che il mondo non è qui per noi, ma che siamo noi a doverci adattare ad esso. E per fare questo lo strumento di cui disponiamo è il logos: i pensieri, i ragionamenti, le parole e i discorsi.
Questo strumento che è il linguaggio può però essere usato bene o male, e in entrambi i casi i sofisti hanno qualcosa da dire. Il linguaggio è usato male quando viene sfruttato per giustificare abitudini e pregiudizi, o ancora peggio rapporti di forza. È la legge delle tre «n»: normale, naturale, normativo. Se fino a qui è stato normale fare così, vuol dire che era naturale fare così; e se era naturale vuol dire che era giusto: normale, dunque naturale, dunque normativo... Da che mondo è mondo, le donne stanno a casa; e se così accade è perché è naturale che sia così. E dunque è giusto che sia così. Ma perché poi? Si noti: i sofisti non hanno tesi da sostenere, ma pregiudizi da smascherare. Magari è giusto che le donne stiano a casa. Ma bisogna dimostrarlo.
L’effetto dirompente di un simile atteggiamento si manifesta soprattutto nel campo della politica. Negli stessi anni dei sofisti, ad Atene aveva trionfato una tragedia di Sofocle, che celebrava il nobile sacrificio di Antigone, disposta a morire pur di rispettare i suoi ideali di giustizia. Ma Antigone, per i sofisti, aveva sbagliato tutto, perché aveva presupposto l’esistenza - ma perché poi? - di una giustizia divina e assoluta, sulla cui base aveva regolato le proprie azioni. La giustizia però non è una divinità: è quanto di più umano vi possa essere, è il risultato di accordi e decisioni umane e fin troppo umane. Peggio: la giustizia è l’utile del più forte, come Trasimaco spiega a Socrate nella Repubblica di Platone. Questa è la realtà dei fatti: la giustizia è il valore che regola i rapporti all’interno di una comunità. Ma essa non è assoluta (vale a dire indipendente dagli e superiore agli uomini) o neutra (vale a dire distaccata e imparziale): è piuttosto il risultato dei rapporti di forza che attraversano una data società. La giustizia è il sistema di regole che chi detiene il potere impone agli altri per tutelare il proprio interesse.
Si pensi al grande scontro ideologico che ha dominato il secolo scorso, quello tra comunismo e liberalismo. Per i comunisti giustizia era un’equa ripartizione dei beni; per i liberali era il trionfo della libertà. Ma perché poi, si chiede il sofista? Non è che i comunisti sostenevano la loro idea perché adottavano il punto di vista del popolo, desideroso di entrare in possesso dei beni dei possidenti? E i liberali non peroravano forse la causa della libertà proprio per tutelare le proprietà di quei possidenti? «A pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca», verrebbe voglia di chiosare con un noto politico italiano, che dei sofisti era evidentemente buon lettore.
Questo atteggiamento disincantato potrà spiacere per il suo cinismo ostentato. Il mondo visto con le lenti dei sofisti è in effetti un mondo ambiguo, faticoso, dove tutti hanno qualche ragione da far valere e qualche interesse da difendere.
Potrà non piacere, ma l’esperienza internazionale insegna che conviene tenerne conto: troppo spesso quando scoppiano rivolte o conflitti, in Siria, in Libia, in Ucraina, ci si preoccupa di distinguere tra buoni e cattivi, senza pensare alle conseguenze di quello che si sta facendo, agli interessi e ai rapporti di forza in gioco. In certi casi almeno, i buoni e i cattivi ci sono anche: ma il problema della politica è dividere il mondo tra buoni e cattivi o risolvere i conflitti?
L’intuizione dei sofisti è insomma la presa d’atto della relazione costitutiva tra il linguaggio e la politica. L’uomo è un animale politico e la politica si fa prima di tutto con le parole: il linguaggio è un fatto politico. E questo apre anche a una dimensione più positiva. La lezione dei sofisti è anche un invito a farsi carico delle proprie scelte in modo consapevole, a costruire insieme un mondo in cui ci si possa ritrovare, uscendo dalla logica della forza.
Rinunciare alla pretesa di essere detentori di una verità assoluta non vuol dire essere completamente privi della verità, come se non esistesse. Vuol dire prendere atto che i punti di vista sono tanti e tutti meritano di essere tenuti in considerazione. Quando il sofista Protagora proclamava che «l’uomo è misura di tutte le cose», questo voleva intendere: che ognuno di noi (l’uomo come individuo) ha delle ragioni da far valere e che tutti insieme (l’uomo come umanità) possiamo e dobbiamo trovare un accordo.
Bisogna insomma vigilare affinché le parole rimangano patrimonio condiviso. Non sembra un problema centrale, e invece è fondamentale. Allievo dei sofisti, lo storico Tucidide ha colto meglio di tanti altri che la comunità umana poggia su basi fragili. Sul finire del V secolo avanti Cristo la Grecia fu devastata dalle guerre civili: si assistette a padri che uccidevano i figli e a figli che uccidevano i padri, a supplici che venivano sterminati nei templi in cui si erano rifugiati, al sovvertimento di qualunque regola morale e civile. Ma davvero sconvolgente, riferisce Tucidide, è quello che era successo alle parole: avevano perso un significato condiviso, venivano usate per fini privati, per giustificare non importa quali azioni. La guerra civile, la riduzione degli uomini a uno stato bestiale, passa anche per la manipolazione delle parole.
Sono episodi lontani, che difficilmente si ripeteranno? Eppure Victor Klemperer, un filologo tedesco, ha osservato che proprio l’appropriazione delle parole aveva spianato il cammino di Adolf Hitler: «Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico».
Ancora più eloquenti sono le parole di una rifugiata del Ruanda: «Devo precisare un’osservazione importante: il genocidio ha cambiato certe parole nella lingua dei rifugiati, e ha decisamente fatto sparire il senso di altre parole, e colui che ascolta deve essere attento a queste perturbazioni di senso».
In Italia, fortunatamente, siamo lontani da queste aberrazioni. Ma il rischio che le parole si consumino, che perdano un significato condiviso non è per niente remoto: cosa significa oggi «democrazia»? E «giustizia» o «libertà»? Si badi: le parole sono sempre instabili e i significati sono sempre il risultato di una negoziazione. Il problema è quando si perde coscienza di questa instabilità. Rileggere quei cattivi maestri che sono stati i sofisti potrà forse servire a evitare di ricadere in questo errore.
Impara a comunicare: prendi a schiaffi una categoria a caso
di Alessandro Robecchi (Il Fatto Quotidiano, 23.05.2015)
Quelli che hanno fatto buoni studi e che ora di mestiere fanno i rampanti comunicatori del consenso, la chiamano “disintermediazione”. Esistendo in questo paese più “scienziati della comunicazione” che salumieri (un vero peccato) dovreste più o meno sapere cos’è. Erano “disintermediazione” i videomessaggi di Silvio Berlusconi, così come lo sono i videclip, con o senza lavagna, di Matteo Renzi. Si tratta di una disintermediazione un po’ farlocca, perché se non hai a disposizione giornali e tg che rilanciano il tuo spettacolino funziona un po’ meno, ma insomma... Esempio. C’è lo sciopero dei ferrovieri. Mediazione è parlare con le rappresentanze sindacali dei ferrovieri, capire il problema e cercare una soluzione. Disintermediazione è rivolgersi a tutti i cittadini (basta un tweet) per dire: i ferrovieri cattivi, privilegiati, maledetti, viziati, disfattisti vi impediscono di andare a Bologna.
Uguale con la riforma della scuola: essendo la stragrande maggioranza di insegnanti e studenti contrari alla riforma in votazione, ci si rivolge a tutti gli altri con una serrata propaganda, nella speranza che i cittadini tutti se la prendano con gli insegnanti che non sono d’accordo con una cosa così bella e moderna. Insomma, possiamo dire in soldoni che la disintermediazione serve a usare gli italiani per picchiare altri italiani, a mettere tanti contro pochi. Utenti dei mezzi pubblici contro tramvieri, italiani contro insegnanti, cittadini contro sindacati, eccetera, eccetera. Un giochetto che paga nell’immediato, ma che alla lunga rischia di finire a schiaffoni tutti contro tutti.
Ci sono però alcuni problemi: la disintermediazione funziona poco quando il numero di italiani da tramortire usando il consenso di altri italiani è molto alto. Potrete convincere un pendolare che il capotreno in sciopero è uno schifoso privilegiato che limita la sua libertà di prendere il treno. Più difficile sarà convincere un nipote che la nonna, dall’alto della sua succulenta pensione ai limiti della sopravvivenza, gli ruba lavoro, o futuro, o prospettive. E questo perché un ferroviere in casa ce l’hanno in pochi, e una nonna (o genitori anziani) invece in molti. E così le cose si complicano: nel caso delle pensioni (e di un obolo una tantum concesso al posto del rimborso) la propaganda e la disintermediazione non hanno funzionato benissimo. E di questi tempi per sapere se una mossa propagandistica funzione basta guardarne il nome: se funziona si chiama Renzi (gli ottanta euro), se non funziona si chiama Poletti (o Giannini, o...).
Altro problemino, il fatto che la disintermediazione tende sempre a guardare in basso. Servono soldi? Blocchiamo gli stipendi agli infermieri, o l’indicizzazione ai pensionati. Basterà far credere a tutti gli altri che infermieri, o pensionati sono di ostacolo a un immaginario bene comune. Mai, dico mai, si addita ai cittadini qualche cassaforte ben fornita, che so, i manager pagati come mille lavoratori, o i grandi e grandissimi patrimoni, o le grandi rendite o le grandi aziende che portano la sede fiscale all’estero. Non a caso all’ultima Leopolda a scagliarsi ferocemente contro i pensionati non fu un giovane precario di Catanzaro, ma un finanziere milionario di Londra (Davide Serra, oggi Commendatore).
Un po’ come il lupo che dice alle pecore “attente alle altre pecore! Brucano la vostra erba!”. Insomma la disintermediazione è un trucco furbetto, a volte funziona e si basa sulla certezza che le pecore litigheranno tra loro e non si mangeranno il lupo. Un vero peccato.
CHIESA CATTOLICO-ROMANA ALL’EXPO MILANO 2015. "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": UNA QUESTIONE DI "CARITAS"! Materiali sul tema:
EUCARISTIA = EUCARESTIA, COSI’ ANCORA PER GLI ESPERTI DI WIKIPEDIA E CATHOPEDIA:
A. "Per i cristiani l’eucaristia o eucarestia è il sacramento istituito da Gesù durante l’Ultima Cena, alla vigilia della sua passione e morte. Il termine deriva dal greco εὐχαρίστω (eucharisto: "rendo grazie"). Il Nuovo Testamento narra l’istituzione dell’eucaristia in quattro fonti: Matteo 26,26-28; Marco 14,22-24; Luca 22,19-20; 1 Corinzi 11,23-25" (WIKIPEDIA).
B. "L’Eucaristia o Eucarestia (traslitterazione del greco εὐχαριστία, eucharistía, "rendimento di grazie") è il Sacramento con il quale, dopo il Battesimo e la Cresima, culmina l’iniziazione cristiana" (CATHOPEDIA).
PENSARE (UN ALTRO ADAMO E) UN ALTRO ABRAMO: GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITA’ E RICONCILIAZIONE.
RELAZIONI CHIASMATICHE E POTERE: UN NUOVO PARADIGMA. MARX, IL "LAVORO - IN GENERALE", E IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE - IN GENERALE"
Federico La Sala
La lectio al Salone del libro di Torino
L’oscura forza della parola fra dogmi e dissenso
di Franco Cordero (la Repubblica, 15.05.2015)
I GRECI disponevano d’un magnifico strumentario lessicale, sintattico, stilistico. Dio sa quanta fatica vi abbiano speso, rileva Nietzsche: la semplicità satura e limpida, rara nello scambio linguistico, è eroicamente artificiale; in natura la parola esce confusa, sconnessa, ridondante, oscura (...). I verbi oráo, e idon, oida descrivono effetti visivi: e idos è la cosa vista; siamo nel mondo delle forme, ma alla visione intellettuale ostano barriere emotive, oblio, sonno amniotico.
E poi postulati rassicuranti, comodi automatismi, ogniqualvolta l’argomento sia insopportabile, cominciando dalla condanna biologica sotto cui ogni animale viene al mondo. Nel frammento d’Anassimandro (sesto secolo ante Christum) il mondo terrestre è flusso perpetuo: gl’individui escono dalla matrice e vi tornano; individuandosi commettevano adikía, un sopruso punito dal deperimento letale, sicché ogni esistente nasce bacato. Sotto, pulsa una materia viva smisurata, ápeiron, da cui emergono in strutture varianti gli scenari mondani per riaffondarvi: eravamo pesci; e niente assicura un futuro all’homo sapiens; forse ominidi microcefali serviranno sotto squali, corvi, topi. Non l’ha detto ma è arguibile.
Sappiamo come nasca la tragedia: Prometeo o Edipo impersonano Dioniso dilaniato dai Titani, allegoria d’una scissione nella materia primitiva. La sapienza dionisiaca cerca riflussi all’indistinto. Il coro danza, suona, canta, scatenando tempeste emotive: gli attori recitano trame, uno, poi due, infine tre (il quarto rimane muto); e l’arte apollinea fissa l’evento. Euripide addomestica la musica in melodramma: finissimo critico, psicologo, dialettico, narratore, porta gli spettatori sulla scena (un Flaubert più abile nel dipanare storie); istruisce il coro, regista ante litteram.
Nei prologhi un deus ex machina rievoca l’antefatto e talora interviene con effetti risolutivi (ad esempio, Atena nell’ Ifigenia in Tauride ). L’artista vela la realtà. Lo sguardo analitico opera disvelamenti senza venirne a capo, illuso d’averla afferrata e addirittura corretta. Desta sgomento l’Io profondo. Non esiste tormento più spietato dell’insonnia «tête-àtête avec soi-même», dove non valgono consolazioni diurne (Emile Cioran, gnostico disfattista: Exercises d’admiration, Oeuvres, « Pléiade», 2011, 1234s.); e qui fa testo Pascal. È impresa temeraria l’abisso introspettivo (...). La Morte e il Diavolo accompagnano gli uomini, la cui futile difesa consiste nel fingere che non esistano. Lo spirito dionisiaco soffia nell’impassibile Cavaliere inciso da Albrecht Dürer. Insomma, il pensiero ha motivi inibitori endogeni. Arte, conforto intellettuale, divertimenti forniscono un malinconico placebo al male d’esistere.
L’imposizione dogmatica è prassi diffusa in ambiente ecclesiastico, teista o ateo, qual era il Partito comunista (...). Richard Simon e Alfred Loisy, biblisti in chiave critica, escono quasi incolumi, ma dove l’ ecclesia sia abbastanza forte, l’affare diventa grave. L’aragonese Miguel Serveto a vent’anni confutava le sciarade teologali, De Trinitatis erroribus libri septem, e nel quinto descrive la circolazione del sangue precedendo d’un secolo William Harvey. In Francia professa l’arte medica. En passant sfida Calvino al contraddittorio pubblico: se viene, è uomo morto, sibila lo sfidato; esiste l’orribile lettera a Guillaume Farel, 13 febbraio 1546. Sette anni dopo, pubblica a spese sue, più 100 scudi, Christianismi restitutio in 800 copie, e l’avversario complotta un perfido intrigo epistolare presso l’inquisitore cattolico. Evaso dalla prigione, Serveto gli cade sotto le unghie. Aveva il rogo nei cromosomi. L’unico dubbio è se meriti una pena capitale addolcita (taglio della testa): a maggioranza, il consiglio ginevrino gliela nega; e venerdì 27 ottobre 1553 lo bruciano vivo.
È sanguinario l’ homo ecclesiasticus. Da Berna, Zurigo, Sciaffusa, autorità religiose chiedevano una condanna esemplare. Esulta Melantone, delicato umanista luterano: era iudicium Dei ; Gesù Cristo incorona il vincitore; grazie a nome della Chiesa presente e futura. Tre secoli dopo, Benedetto Croce narra che fosse in pericolo il futuro della libertà, insidiato dall’anarchia intellettuale, e Calvino l’abbia difeso ( Vite d’avventure, di fede e di passione , Laterza, 1953, terza ed., 217-20). Così declamano gli ecclesiarchi, siano Roberto Bellarmino S. J. o György Lukács, cardinali nelle rispettive chiese, come Andrey _ danov, Palmiro Togliatti, Alfredo Ottaviani et ceteri . Che i roghi calvinisti portino progresso, diversamente dagli spagnoli, è dialettica da Politburo. Cappellani stalinisti giustificano le purghe sostenendo che salvino l’Urss da Hitler. Gli avvocati del diavolo hanno l’argomento facile. Stavolta appare tale anche Benedetto Croce: dogmi, spie, polizie segrete, censure, anatemi, patiboli non allevano culture né industria o commerci, tanto meno «pensiero libero» o «etica moderna»; altrettanto indecorosa suona l’apologia dell’Inquisizione, «veramente santa» quale forma storica d’una salutare pressione sui «manipolatori d’errori» ( Filosofia della pratica, Laterza, 1963, ottava ed., 240s.).
Salvano l’onore umano i dissidenti. Mani anonime (Sebastiano Castellione, Celio Se- condo Curione, Lelio Sozzini) compilano una summa delle opinioni liberali in materia d’idee, dai Padri agli autori contemporanei ( De haereticis an sint persequendi , per Georgium Rausch, Magdeburgi, sotto lo pseudonimo Martinus Bellius, primavera 1554).
Meglio vivere nascosto in Italia che sotto la polizia calvinista, esclama Camillo Renato in un carme latino. È Matteo Gribaldi Mopha l’«Italus iurisconsultus celeber» evocato da Castellione nel Contra libellum Calvini: disputava in duro e rischioso dissenso dai persecutori nei giorni del processo; aveva cattedra a Padova. Due anni dopo se ne va, «ob monachorum insidias»: lo chiama Tubinga ma ormai è vita impossibile; subirà l’ultimo sfratto dal cattolico Francesco Guisa, Governatore del Delfinato nella cui Università insegnava ius civile, in guerra con i praticoni. Gli antitrinitari italiani lasciano un’eredità gloriosa. Spicca la componente piemontese: Gribaldi nasce a Chieri; Curione a Ciriè; Giorgio Biandrata, insigne medico, viene da Saluzzo. (...).
I dogmi inducono atrofia logica. La censura espelle idee confiscando le parole con cui pensarle, ma non impedisce i rumori vocali, anzi li moltiplica fornendo una lingua automatica, i cui utenti differiscono solo nel gesto, dal bisbiglio all’ululato: fosse autentica, la verità ufficiale s’imporrebbe da sola; invece le formule suonano tanto più perentorie quanto meno dicono. I programmi regolano un sonnambulismo diurno dove ogni cosa muta secondo decreti dall’alto; e magari tra le verità imposte c’è che il relativismo sia vizio imperdonabile.
Gli assuefatti bevono tutto, anche 2+2=5, né basta dirlo; devono esserne convinti (càpita a Winston Smith in Nineteen eightyfour). L’effetto selettivo tocca i cromosomi a livelli profondi, oltre le consuete categorie sociali, quali politica o religione. L’apparato teme lo sguardo intellettuale, quindi condanna arsenale analitico e parola chiara. Contese cannibalesche vagliano il personale: è concorrente idoneo chiunque abbia toupet, loquela, spiriti animali, intuito delle occasioni; vigono i canoni «amico»-«nemico», con larghi spazi aperti al dialogo diplomatico.
di Don Aldo Antonelli
Parroco ad Antrosano *
"Voce di Dio che increspa la superficie piatta del silenzio. Parola che sveglia dal sonno le cose e riempie di respiro la polvere, che mette in movimento la storia e nella storia cammina. A volte è sussurro di brezza che bacia labbra screpolate di nomadi, ma sa essere anche strepito di tuono, urlo d’uragano. A volte è fatta della materia impalpabile dei sogni, altre è ruvida di sabbia. A volte profuma di pane caldo, è piena di tenerezza e di tremore come il primo bacio, come una carezza, come un abbraccio a lungo atteso. Qualche volta, invece, ha pelle di scoglio e lascia la carne ferita. Ma sempre è intrisa d’amore, di desiderio, di voglia d’incontro".
Le parole che Papa Francesco ha pronunciato ieri nella Basilica di San Pietro, durante la solenne Messa per il centenario del martirio armeno, mi hanno richiamato questa che non so se sia più una poesia o una preghiera o tutte e due le cose insieme. In più, Papa Francesco ha sdoganato un termine finora relegato nel vocabolario degli specialisti della filosofia antica e della teologia: parresia.
Dal greco παρρησία, vuol dire "parlare chiaro", con schiettezza e senza infingimenti. I grandi filosofi greci, Socrate, Platone ed Aristotele ritenevano che vi fosse uno strettissimo gollegamento tra "politeia", esercizio politico del potere, e "parresia, il comportamento morale del buon cittadino che parla dicendo la "verità". Il termine è frequente anche nel testo greco del Nuovo Testamento dove indica il "coraggio" e la "sincerità" della "Testimonianza". Ed è stato molto usato nella tradizione cristiana, specie agli inizi, come contrario di "ipocrisia".
Non può che far piacere questa cruda e nuda franchezza da parte di un papa e all’interno di una celebrazione, là dove spesso nel passato si è "confuso" il fumo dell’incenso con i fumi del linguaggio felpato e il sapore agrodolce della diplomazia bugiarda.
"Abbiamo troppo insegnato l’arte di avvolgere ogni affermazione un pò rude nella soavità del linguaggio", lamentava don Giovanni Barra nel 1949 sul giornale di don Mazzolari (Adesso 31 Luglio). E aggiungeva: "Questa mania di non contraddire e di non essere contraddetti, di non far soffrire e di non soffrire, di non urtare e di non essere urtati, è un lento veleno che svirilizza i cuori goccia a goccia". Ed è ancor più significativo che questo recupero di autenticità di linguaggio "sine glossa" avvenga ad opera di un Papa che della Misericordia ha fatto il programma del suo Pontificato al punto di indire un Anno Giubilare. Come a dire che la vera, autentica "Misericordia" non ha nulla a che vedere con la finzione, la piaggeria e l’ipocrisia diplomatica.
Lecaldano e l’etica con e senza Dio
di Armando Massarenti (Il Sole-24 Ore, Domenica, 12.04.2015)
Senza Dio, il titolo dell’ultimo libro di Eugenio Lecaldano pubblicato da Il Mulino, non ha nulla di provocatorio. È la semplice traduzione della parola greca che sta per “ateo”. E, come nota Lecaldano nell’introduzione, poiché oggi le aperture da parte di Papa Francesco (e iniziative come il Cortile dei gentili, promossa dal nostro illustre collaboratore, il cardinale Gianfranco Ravasi), hanno contribuito a stemperare la tendenza di molti credenti a demonizzare i “senza Dio”, forse è il momento di insistere per eliminare molte forme di discriminazione ancora presenti nella società e, quel che è più grave, nelle istituzioni.
Lecaldano, con il suo stile chiaro e analitico, presenta un excursus prezioso della storia dell’ateismo, dall’antichità ai giorni nostri. Tra i molti risvolti che il tema comporta, quello più importante per il dibattito pubblico riguarda la presunta, congenita immoralità di chi non trova necessario ancorare l’etica alla religione. Si tratta, ancor più che di un pregiudizio, di bassa, spesso subdola, insinuazione.
È invece proprio mettendo tra parentesi l’esistenza o meno di un Dio o di un’autorità esterna che ci si possono chiarire le idee relativamente alla morale e alle nostre responsabilità verso noi stessi e i nostri simili. Lo aveva ben compreso Platone quando si chiedeva, con Socrate, se amiamo gli dèi perché essi mostrano di essere virtuosi, buoni o santi, oppure li consideriamo buoni, virtuosi o santi solo perché essi sono dèi. La sua risposta era molto chiara. L’etica viene prima della religione e ci permette di giudicare autonomamente anche la bontà (o la malvagità) delle divinità.
Lecaldano ci ricorda, seguendo la lezione di Bernard Williams, che «l’area nella quale maggiormente si sviluppava l’approfondimento della condotta morale era quella dei poemi omerici e della tragedia. In questi contesti possiamo trovare un’elaborazione rivolta a individuare lo spazio della responsabilità morale che nel mondo greco doveva essere guadagnato non tanto nei confronti dell’ingerenza degli dei, quanto dell’onnipresenza del fato. Così nelle tragedie troviamo diffusa la consapevolezza dell’insanabile drammaticità delle alternative morali che sembrano presentarsi (si pensi al caso di Edipo) anche al di là della responsabilità individuale, oppure che segnano (si pensi al caso di Antigone) una tensione irresolubile tra quella che è la legge voluta da un re e la coerenza di chi vuole farsi guidare dalla coscienza individuale. La presenza del coro nelle tragedie greche - solitamente considerata come una manifestazione dei dubbi degli esseri umani e delle divinità - rende evidente come le divinità siano del tutto incapaci di aiutare gli esseri umani a risolvere in modo soddisfacente i dilemmi morali e come anch’esse sembrino sottomesse al fato».
Oggi come allora la vita morale è complicata e piena di dilemmi e di conflitti. E questo vale per tutti: per i “con” Dio come per i “senza”.
Perché Dio è tornato sulla scena
La religione diventa un antidoto al dominio dell’economia
L’identificazione tra modernità e laicizzazione non è scontata
Dopo anni di assenza, la teologia politica è al centro di un dibattito internazionale iniziato in America
di Roberto Esposito (la Repubblica, 30.03.2015)
DOPO una lunga parentesi di relativa autonomia, politica e religione tornano ad incrociare le proprie traiettorie con effetti inquietanti, di cui le tragiche vicende di Parigi e Tunisi costituiscono gli ultimi episodi. La condanna più intransigente degli attentatori e la rivendicazione della libertà di espressione in tutte le sue forme è la sola risposta adeguata. Ma ciò è ben lontano dall’esaurire una questione più di fondo, che riguarda il nodo che da qualche tempo si va stringendo tra teologia e politica. La tradizionale tesi della progressiva fine delle religioni nel mondo moderno, portata avanti dai sociologi della secolarizzazione, si scontra con dati di fatto sempre più evidenti. Come già aveva argomentato a suo tempo Gilles Kepel in La rivincita di Dio ( Rizzoli), l’identificazione tra modernità e laicizzazione è tutt’altro che scontata.
A quella che era stata definita “eclissi del sacro”, è parso opporsi il suo “risveglio”. Il primo segno dell’inversione di tendenza è stata la rivoluzione khomeinista in Iran, seguita da una ripresa di fondamentalismo religioso in forme molto diverse, ma convergenti nel riaprire uno scenario teologico-politico che sembrava chiuso per sempre. Senza voler assimilare fenomeni ben differenti, l’integralismo della destra conservatrice americana, il cattolicesimo anti-conciliare, la linea più ortodossa del sionismo ebraico già rompevano in più direzioni lo schema della distinzione liberale tra sfera pubblica della politica e sfera privata della religione. L’esplosione dell’estremismo islamico ha conferito un elemento di assoluta drammatizzazione in questo quadro, ma non va isolato da esso.
Non è un caso se la questione della teologia politica è tornata da qualche anno al centro del dibattito internazionale. Se in America libri come The Faith of the Faithless di Simon Critchley (Verso), Crediting God, a cura di Miguel Vatter (Fordham) o The Power of Religion in the Public Sphere , a cura di E. Mendieta e J. Vanantewepern, con saggi di Butler, Habermas, Taylor (Columbia), stanno monopolizzando la discussione, anche in Europa il rapporto tra teologia e politica è divenuto uno dei temi dominanti.
Da Habermas a Taylor, da Zizek a Badiou, da Cacciari a Tronti, la domanda sul ruolo della teologia nella società attuale sta monopolizzando l’attenzione. La religione contribuisce a generare o a moderare la violenza? È fattore di coesione sociale o di conflitto? La risposta è tutt’altro che scontata. Come risulta dalla Encyclopedia of Wars di Charles Phillips e Alan Axelrod, che prende in esame 1800 conflitti nella storia, meno del 10 per cento di essi è stato causato da motivi religiosi.
Se le Crociate, le guerre tra cattolici e protestanti, le prime conquiste islamiche e ovviamente le attuali stragi jihadiste attestano una palese implicazione della religione nella violenza, il numero di morti ascrivibile a conflitti di tipo laico, come le due guerre mondiali, resta di gran lunga superiore. Non si dimentichi che il primo genocidio moderno, quello degli armeni, è stato compiuto dai Giovani Turchi filo-occidentali e secolarizzati, mentre devoti musulmani cercavano di salvare i superstiti.
Una risposta di carattere dialettico a tale domanda è ora avanzata dallo psicologo sociale Ara Norenzayan in un saggio importante, intitolato Grandi Dei. Come la religione ha trasformato la nostra vita di gruppo , tradotto da Cortina, con un’introduzione di Telmo Pievani. La sua tesi è che inizialmente le grandi religioni abbiano favorito la socialità attraverso il timore suscitato dalla sorveglianza di un Grande Occhio divino sul comportamento degli uomini. Innestandosi su tendenze innate volte all’autoconservazione, le religioni inizialmente hanno giocato una funzione di aggregazione sociale.
Successivamente, però, esse si sono differenziate tra loro entrando in competizione. In questa lotta per la sopravvivenza, non dissimile da quella darwiniana tra le diverse specie, hanno finito per prevalere le religioni che facevano capo a divinità onnipotenti ed interventiste. Da qui un rovesciamento della originaria funzione socializzante in una tendenza conflittuale, attivata soprattutto dai monoteismi, oggettivamente concorrenti nella individuazione di un unico Dio esclusivo di ogni altro.
Da quel momento gli effetti storici delle religioni risultano diversi ed ambivalenti in base a fattori di carattere storico e contestuale sui quali non è possibile pronunciare valutazioni univoche. Dal seno della religione possono nascere il Dalai Lama e Osama Bin Laden. Certo le società moderne più avanzate, come quelle nordeuropee, sono capaci di creare meccanismi di cooperazione senza l’aiuto del Grande Occhio divino.
E dunque, problema risolto? Da quanto accade nel mondo si direbbe di no. Per quanto riguarda l’area islamica la ripresa delle tendenze più radicali è sotto gli occhi di tutti. Ma neanche nelle società occidentali tale distinzione, da tutti ammessa in linea di principio, sembra resistere ad una serie di dinamiche correlate. Da un lato la globalizzazione ha rotto i confini tra civiltà diverse, immettendo quantità crescenti di culture difficilmente integrabili all’interno dei Paesi occidentali.
Dall’altro il regime biopolitico in cui da tempo viviamo, in particolare con lo sviluppo delle biotecnologie, rompe le paratie tra pubblico e privato su questioni che riguardano non solo l’origine e la fine della vita, ma la salute, la sicurezza, l’ecologia - tutte contemporaneamente pubbliche e private, individuali e collettive. Da questo lato sembra profilarsi una nuova alleanza tra politica e teologia. Non tanto, perché nella crisi di legittimazione dell’autorità, il nucleo di senso custodito dalle religioni può svolgere una funzione di supplenza.
Ma perché in un mondo orientato sempre più a un dominio assoluto dell’economia, la teologia sembra rappresentare, per masse sempre più grandi di uomini, l’unica alternativa, l’unica potenza capace di resistere, alla logica anonima del mercato globale. Nel momento in cui si afferma una nuova forma di “teologia economica” del debito - si veda, a questo proposito, il recente volume collettaneo curato da Thomas Macho col titolo Bonds (Fink) - la filosofia contemporanea guarda ad un nuova forma, non più di teologia politica, ma di politica della teologia.
L’amore di Chateaubriand e di altri filosofi del passato per una religione “estetica” tramonta nella nostra epoca
Dalla pittura alla poesia, la fede ha ispirato per secoli l’arte. Oggi prevale lo stile piatto
Non solo teologia, anche la scienza difende nelle sue teorie un’idea di eleganza
di Vito Mancuso (la Repubblica, 17.12.2014)
QUALI sono gli argomenti che inducono a ritenere vero un enunciato? Il fatto che corrisponda all’effettivo stato delle cose, è la risposta che sorge spontanea nella mente. Se infatti posso verificare la corrispondenza tra l’enunciato (sta piovendo) e la realtà (la pioggia che scende) sono indubbiamente in presenza di un enunciato vero. È la classica definizione di verità come adeguazione tra realtà e mente, adaequatio rei et intellectus, che da Aristotele passa a Tommaso d’Aquino e a tutta la tradizione occidentale. Di essa il cristianesimo fece largamente uso nel passato per presentarsi come verità definitiva.
Il cristianesimo è la verità, si sosteneva, perché la Bibbia e il Magistero della Chiesa dicono come stanno realmente le cose sull’origine del mondo, l’esistenza di Dio, la comparsa dell’uomo, la natura dell’anima, e tutte le altre questioni capitali della vita; né si tralasciava di sottolineare che gli eventi narrati o predetti nella Bibbia, dall’arca di Noè sino all’imminente fine del mondo, hanno avuto o avranno presto puntuale conferma nella realtà effettiva delle cose.
Il progresso della conoscenza umana ha vanificato tale impostazione perché ha fatto emergere in modo inconfutabile la non corrispondenza tra non poche affermazioni bibliche e la realtà, si pensi per esempio all’origine del mondo. Se a ciò si aggiunge l’evoluzione della coscienza morale e il superamento del principio di autorità (secondo cui un enunciato è vero per l’autorità di chi lo sostiene) si comprende quanto le tradizionali apologie cristiane siano divenute armi spuntate e il cristianesimo bisognoso di rifondazione.
È quanto già intuiva il nobile controrivoluzionario François-René de Chateaubriand (1768-1848) rifugiatosi a Londra per evitare la ghigliottina durante gli anni del Terrore e fervente cattolico. Una volta tornato in Francia a seguito della restaurazione, l’intuizione lo condusse a pubblicare nel 1802 Genio del cristianesimo, opera oggi riproposta nei Millenni Einaudi con un’edizione a cura di Mario Richter. La novità del libro è tutta nel titolo completo: Genio del cristianesimo ovvero bellezze della religione cristiana.
Mentre per secoli al fine di mostrare la fondatezza della fede cristiana l’apologetica aveva insistito sulla verità del cristianesimo, con Chateaubriand per la prima volta ci si basa sulla bellezza, sostenendo che il cristianesimo viene direttamente da Dio, e quindi è la verità, per la sua capacità di produrre bellezza.
Si tratta di una tesi fondata? Nella sua impostazione di fondo sì, anche l’epistemologia contemporanea afferma che tra i criteri di veridicità di una teoria scientifica, oltre a semplicità, capacità di predire e potere unificante, vi è appunto eleganza o bellezza. E per molti secoli il cristianesimo ha saputo produrre bellezza e ha avuto potere unificante sulle vite degli uomini.
Si pensi ai capolavori dell’architettura che sono le chiese romaniche e le cattedrali gotiche; si pensi alle icone bizantine, a Cimabue, Giotto, Beato Angelico, Simone Martini, Piero della Francesca, Michelangelo e persino Caravaggio che senza il cristianesimo sarebbero impensabili; si pensi alla più alta creazione poetica della nostra letteratura, la Commedia di Dante; si pensi allo splendore del canto gregoriano. Si pensi alle molte altre creazioni di cui testimoniano le nostre città e i nostri più piccoli paesi, e le si accosti alle forme di vita concreta che il cristianesimo del passato sapeva produrre in quanto dotato di forte potere unificante sul caos dell’esistenza: eremiti del deserto, benedettini, cluniacensi, cistercensi, camaldolesi, cassinesi, vallombrosani, olivetani, certosini, trappisti, francescani, domenicani, trinitari, mercedari, serviti, agostiniani e molti altri, per non dire della galassia ancora più estesa della vita religiosa femminile.
Anche da questo appariva che il cristianesimo era vero, per la sua capacità di generazione di molteplici forme di vita. Ma oggi quale salute gode l’intuizione di Chateaubriand di legare la verità del cristianesimo alla bellezza?
A livello teoretico sono due i principali teologi che si sono fatti carico di approfondirla, lo svizzero Hans Urs von Balthasar (1905-1991) con l’opera in sette volumi Gloria. Un’estetica teologica, e il tedesco Christoph Theobald, nato nel 1946, con l’opera in due volumi Il cristianesimo come stile.
Ma quando è in gioco la verità nella sua capacità estetica, ben prima di concetti che parlano alla mente, si parla di forme che incantano i sensi, di colori, suoni, architetture e si parla di vite concrete così affascinate dal messaggio cristiano da lasciare ogni altra cosa.
E da questo punto di vista credo si debba rilevare una preoccupante insufficienza del cristianesimo contemporaneo. L’ingresso in una qualunque delle nostre chiese raramente genera nell’anima un’esperienza di bellezza, tanto più durante le funzioni liturgiche, quando le musiche e le voci sono spesso approssimative e dilettantistiche, mentre la nuova architettura sacra spesso propone edifici freddi e intellettualistici, e la pittura si rifugia in una pedissequa ripetizione delle icone. Le diverse forme di vita religiosa dal canto loro languono per un’assenza di vocazioni che quasi ne preannuncia l’estinzione.
Tutto ciò porta il cristianesimo contemporaneo a vivere tra due estremi: da un lato un tradizionalismo cupo e insicuro che sa solo riprodurre gusti e parole di un mondo che non c’è più, dall’altro un’affannosa rincorsa alle tendenze dell’oggi che quasi non sa più distinguere la canzone tra amici dalla cantata sacra a gloria di Dio, un edificio sacro da uno comune, una vita consacrata con il suo abito distintivo da un’esistenza del tutto laica.
Al fondo è la stessa idea di apologetica a mostrare tutta la sua fragilità e con ciò si ripropone con urgenza la domanda su quanto induce la mente a ritenere vero il cristianesimo, o qualsiasi altra religione: quali sono gli argomenti che inducono a ritenere vero un sistema di enunciati che intende abbracciare niente di meno che il senso del mondo e presentarsi come verità?
Crollata l’idea di una dimostrazione razionale della verità cristiana, anche la capacità di generare bellezza non potrà mai essere inquadrata in un sistema di pensiero, tanto più se esso è funzionale al potere politico e religioso, come l’opera di Chateaubriand era funzionale alla restaurazione e all’alleanza trono-altare.
Ne viene che non c’è e non ci sarà mai nessuna garanzia per la fede cristiana di potersi dimostrare come “verità”, a dispetto del dogma, e del conseguente anatema per chi lo nega, dichiarati dal Vaticano I.
Rimane solo la vita dei testimoni sinceri, alieni da ogni logica di potere, a costituire il punto di appoggio: sono essi il vero “genio del cristianesimo”, solo da essi potrà scaturire quell’umile bellezza, per nulla geniale ma direi austera nella sua semplicità, già all’origine delle beatitudini evangeliche e del Cantico delle creature di Francesco d’Assisi.
Le donne e la Chiesa
Le vie del Papa per la questione femminile
di Carlo Marroni (Il Sole-24 Ore, 09.07.2014)
«La Madonna è più importante degli apostoli, la Chiesa è femminile, è sposa, è madre, e il ruolo della donna nella Chiesa non solo deve finire come mamma, come lavoratrice... limitata. No, è un’altra cosa!!!». Così esclamava un anno fa papa Francesco durante il viaggio di ritorno dal Brasile, interpellato sul ruolo delle donne nella Chiesa. Un tema ricorrente nell’apostolato del papa argentino, che più volte ha messo la donna al centro dell’attenzione. Qualcosa sta cambiando? Il tema è affrontato e analizzato da Papa Francesco e le donne, un bel libro pubblicato dal Sole 24 Ore in collaborazione con l’Osservatore Romano, in edicola da oggi e per un mese insieme al quotidiano. *
Il libro raccoglie tutti i testi in cui il Pontefice ha parlato della "questione femminile" nella Chiesa. Testi efficaci, profondi, sorprendenti, che hanno suscitato attenzione e che sono introdotti da due saggi di Giulia Galeotti e della storica Lucetta Scaraffia, firme di punta del quotidiano della Santa Sede, diretto da Giovanni Maria Vian, che da due anni pubblica un inserto mensile femminile.
«In un contesto di emancipazione femminile realizzato, quale è quello dei Paesi occidentali, l’atteggiamento della Chiesa sembra invece rovesciarsi. Soprattutto in una cultura in cui l’emancipazione delle donne è misurata sul libero accesso agli anticoncezionali e sulla legalizzazione dell’aborto, la Chiesa viene percepita come una nemica dell’emancipazione. A questo conflitto culturale si aggiunge - scrive Lucetta Scaraffia - l’assenza di donne nelle sfere decisionali della Chiesa, benché le religiose siano, almeno per ora, molto più numerose dei religiosi. Inoltre, esse sono in genere relegate in ruoli di sottoposte con compiti subalterni".
Gli ultimi dati disponibili, risalenti al 2012, dicono che le religiose cattoliche nel mondo sono 702.529, i religiosi (esclusi i sacerdoti) 55.314: a livello mondiale i maschi costituiscono il 7% della comunità religiosa cattolica. Le proporzioni cambiano se ai maschi religiosi sommiamo i vescovi (5.133) e i sacerdoti (414.313): in questo caso il peso femminile risulta ridimensionato, ma le donne rappresentano comunque il 60% della Chiesa consacrata, quindi un’ampia maggioranza. "Le donne nella Chiesa ci sono - scrive Giulia Galeotti - sono molte e fanno tantissimo (...) Eppure non contano. È incredibile la discrasia tra il reale impegno femminile nella Chiesa a tutti i livelli e il misero spazio che è loro lasciato ai vertici (...) Davvero - si chiede Galeotti a proposito degli uomini di Chiesa - non vedono oppure torna loro più comodo fingere di non vedere?".
Emblematiche appaiono le parole di suor Viviana Ballarin, che in passato ha guidato l’organismo da cui dipendono gli ordini femminili italiani: "È ancora raro che nella Chiesa siano affidati alle donne ruoli a più ampio respiro, di responsabilità, di decisionalità". La causa? Per Ballarin alla fine il nodo è un influsso culturale che "influenza e condiziona anche la Chiesa degli uomini. Ma non la Chiesa di Cristo". Parole coraggiose in un contesto "gerarchico" come quello ecclesiastico, che testimoniano come il dibattito sul tema sia franco e aperto, con prese di posizione decise.
In questo contesto sono provvidenziali le posizioni di Francesco che denuncia con una sincerità e un coraggio nuovi la condizione di subalternità in cui si trovano oggi le donne nella Chiesa. Dal libro emerge anche un’ansia di fondo, il timore che la straordinaria apertura del papa, per quanto forte e autorevole, da sola non sia sufficiente per un cambio strutturale e duraturo, che richiede una riflessione profonda a tutti i livelli.
E infatti l’ultimo capitolo del libro si intitola "Un cantiere aperto", "un cantiere - scrive Scaraffia - di cui il Papa indica sempre più nettamente le caratteristiche. Cominciare ad affrontare la situazione dal punto di vista teologico significa muoversi in una direzione ben lontana da quella auspicata da chi pensa semplicemente che la Chiesa si debba adeguare al mondo, introducendo donne a tutti i livelli di potere di decisione".
*
“La donna per la Chiesa è imprescindibile” Il rivoluzionario pensiero di Papa Bergoglio sulle donne
Papa Francesco e le donne
Edizioni Il Sole 24 Ore,
Dal 9 luglio in edicola a 9,90 euro
«Papa Francesco, rivoluzionario per tanti aspetti, lo è anche per quanto riguarda la questione delle donne nella vita della Chiesa. Bergoglio denuncia con una sincerità e un coraggio veramente nuovi la condizione di subalternità in cui si trovano oggi le donne nella Chiesa, e chiede uno studio teologico approfondito per motivare una loro presenza più autorevole. Un approfondimento necessario non solo per risolvere la questione femminile, ma anche per riformare la Chiesa facendone il luogo dell`accoglienza, della compassione, dell`amore fraterno».
MESSAGGIO EVANGELICO E SANTO PADRE?!
PAPA FRANCESCO, LA GRAZIA, E I CARISMATICI:
Una lettura mistica della Pasqua cristiana.
Tra Hegel e antichi riti
Beati coloro che risorgono senza morire
di Marco Vannini (la Repubblica, 18.04.2014)
Al primo plenilunio dopo l’equinozio di marzo le antiche comunità pastorali e agricole festeggiavano il passaggio dalla morte dell’inverno alla vita della primavera: perciò a quella data fu posto anche il mitico passaggio - la Pasqua, appunto - degli ebrei dall’Egitto. Pasqua è in effetti la festa del commovente, davvero “miracoloso” rifiorire della vegetazione e, insieme, del risorgere delle forze vitali, generative, in tutti i viventi. Lo indicano chiaramente i suoi simboli: dalle uova ai coniglietti, simpatici animaletti ben noti soprattutto per la loro solerzia sessuale. Del resto nel Nord Europa la festa ancora mantiene il nome Easter, Oster, che viene da Ostara, dea pagana della fecondità.
Non deve perciò stupire che anche nella storia del cristianesimo questo sfondo vitale e sessuale sia stato a lungo presente. Pensiamo al cosiddetto risus paschalis, ovvero la celebrazione liturgica con rapporti carnali, imitati o reali, tra turpiloquio e lazzi osceni che sollazzavano i fedeli nelle chiese proprio nel giorno di Pasqua. Documentato fin dall’alto medioevo, il risus paschalis è proseguito, soprattutto in Germania, fino al Ventesimo secolo, e anche ai nostri giorni c’è chi lo giustifica quale sana espressione popolare di quel piacere sessuale che proprio nella “gioia” pasquale avrebbe un fondamento teologico.
In effetti la resurrezione dei/dai morti, antichissima fantasia apocalittica giudaica, non aveva altro senso che quello di riproporre la vita fisica, e non c’è dubbio che della vita fisica l’esercizio della sessualità sia manifestazione essenziale. Non a caso nell’islamismo la felicità dei risorti ha il culmine nell’infinito reiterarsi del piacere sessuale, le cui modalità il Corano descrive in dettaglio, e in Israele i sadducei, che non credevano alla resurrezione, domandano a Gesù di chi sarà moglie, dopo la resurrezione, appunto, una donna che ha avuto più mariti: la vita beata dei risorti era pensata soprattutto come vita matrimoniale, sessuale.
La risposta evangelica a questa domanda è però sconcertante: a prendere moglie o marito sono i figli di questo mondo, ma quelli che saranno degni del mondo futuro non prendono moglie o marito e neppure possono morire, perché sono come angeli, già risorti. Dio è infatti Dio non dei morti, ma dei vivi ( Lc20, 24 s.).
L’idea giudaica della resurrezione dei morti nel tempo finale è spostata dal mito alla realtà, ovvero sul piano di una resurrezione che avviene in questa vita, per la quale non si può più morire, perché la morte è già avvenuta. Questa morte è la morte dell’egoità, come quella del chicco di grano, che deve morire per portare frutto: è «odiare la propria anima», «rinunciare a se stessi», e la resurrezione è il «nascere di nuovo», dall’alto, non dal ventre materno ma dallo spirito, sperimentando la nuova vita, la vita dello spirito, appunto, come si legge nel vangelo di Giovanni.
Lo comprese bene Hegel: non quella che inorridisce davanti alla morte, ma quella che sopporta la morte e in essa si mantiene è la vita dello spirito; è proprio nell’assoluta lacerazione che lo spirito trova se stesso, «magica forza che sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui, capace di volgere il negativo nell’essere ». Occorre infatti non pensare il male, comprendere tutto quanto, anche quel che c’è di più lacerante, il tradimento da parte di chi ami: allora v’è spirito, si è spirito, ovvero il finito diviene infinito, il divino non più altro, ma tu stesso. «Nella notte in cui fu tradita, la sostanza divenne soggetto», scrive il filosofo tedesco, trasferendo nell’universale, col linguaggio speculativo della sua Fenomenologia dello spirito , la vicenda particolare della Passione di Cristo.
Passione, morte e resurrezione hanno evangelicamente un significato non mitico ma reale, non fisico ma spirituale, per cui la resurrezione è quella rinascita come spirito che pone nella dimensione dell’eterno. «Prima che Abramo fosse, io sono», dice Gesù ai giudei ( Gv 8, 58), esprimendo l’esperienza fondamentale di ogni tradizione spirituale: quella di essere già qui e ora nell’essere, nell’eterno.
Appena ci si distacca da ciò che è transitorio, il nostro amore si estende a tutto il mondo, si scopre davvero come idem amor et spiritus sanctus e la gioia di tutte le creature diventa la nostra stessa infinita, estatica letizia. «Di questo Tutto, nel distacco, gioisci», esortano anche le Upanishad.
È un fatto, peraltro, che la primitiva comunità cristiana si costituì sul fondamento delle attese apocalittiche, per cui le apparizioni di Cristo dopo la morte furono interpretate proprio nel senso di una resurrezione, prova e pegno della resurrezione finale. Questa però fu più una costruzione teologica che un fatto reale. La resurrezione di Cristo non ha avuto testimoni, ha un carattere segreto: da solo, prima che facesse giorno. Egli compare alle donne e agli apostoli già “risorto”.
È un evento spirituale, non uno spettacolo dimostrativo: Noli me tangere , dice alla Maddalena, quasi a prendere le distanze da ogni fisicità e a mostrare che non è in atto alcun ripristino della corporeità. Cristo è apparso dopo la morte solo ai suoi amici e solo da essi viene riconosciuto. Il brano con cui Giovanni chiude il suo vangelo è determinante: a Tommaso, che crede solo dopo che e perché ha veduto il risorto, Gesù dice che beati sono quelli che credono senza aver veduto. Essi infatti hanno sperimentato interiormente la resurrezione, in loro soltanto v’è conoscenza dello spirito e della sua beatitudine.
Si comprende allora quanto fuorviante sia l’idea della resurrezione di Cristo come segno definitivo della sua divinità, della verità esclusiva della fede cristiana, e, insieme, come garanzia della finale resurrezione dei morti.
Questo è il prodotto di Paolo, quel “funesto cervellaccio”, come lo chiamò Nietzsche, che non comprese il messaggio evangelico della morte dell’anima e della rinascita nello spirito e costruì un dysanghelion, una cattiva novella, appoggiandosi a quella apocalittica giudaica. Se non c’è la resurrezione dai morti, neanche Cristo è resuscitato, scrive infatti (1 Cor 15, 17) mostrando come l’idea della resurrezione di Cristo dipenda da quella della resurrezione dai morti, propria della mitologia apocalittica.
In parallelo, l’affermazione paolina per cui vana è la nostra fede se Cristo non è risorto, mostra un concetto di fede non come esperienza spirituale interiore, la cui verità è testimoniata dalla coscienza, ma come credenza estrinseca, la cui verità dipende dal miracolo.
E ciò è quanto di più antievangelico ci sia: nel vangelo infatti la ricerca del miracolo è sempre condannata come mancanza di fede, adorazione della forza, dunque non di Dio ma del demonio. La cosa è chiara proprio dalla resurrezione: proporla come una sorta di super-miracolo per convincere gli increduli è tipico dei falsi profeti, degli impostori. Secondo un’antica e ben documentata tradizione, era infatti Simon Mago ad organizzare resurrezioni di morti “dimostrative” della propria messianicità ed uno dei segni della fine dei tempi sarà proprio la messa in scena della propria, peraltro falsa, resurrezione da parte dell’ingannatore supremo, l’Anticristo.
Il successo di una religione nascente
di Alessandro Santagata (il manifesto, 27 febbraio 2014)
Abitiamo «comunità immaginate» che si definiscono per meccanismi di inclusione e di espulsione. Lo ha spiegato magistralmente Benedict Anderson in un saggio pubblicato lo stesso anno in cui Eric Hobsbawm faceva uscire il suo studio sull’invenzione della tradizione. Il corpo civico dei cristiani, che delle religioni politiche è stato il modello, si è costituito nei secoli attraverso un percorso analogo di costruzione discorsiva.
Ne ha indagato le origini Emiliano Rubens Urciuoli in Un’archeologia del ’noi’ cristiano. Le ’comunità immaginate’ dei seguaci di Gesù (Ledizioni). La premessa di questo studio è che Gesù non sia stato il fondatore di una nuova religione, ma il promotore di un rinnovamento interno al giudaismo che solo successivamente avrebbe portato alla nascita dei cristianesimi.
La tesi di partenza, debitrice delle indagini di Mauro Pesce, è che il cosiddetto «cristianesimo delle origini» sia un mito costruito a uso e consumo degli «agenti» del nascente «campo religioso» cristiano a partire dal I secolo.
Questi diversi attori volevano «instaurare un’altra polis alternativa a quella esistente e garante della sua incombente dissoluzione cosmica». Sarebbe stato proprio il prolungarsi dell’attesa della parusia - spiega Urciuoli - a costringere i «cristiani» a mettere in campo strategie di gestione dello «stato di eccezione» che hanno definito un corpo culturale e religioso. Il primo passo era ovviamente immaginare un uomo nuovo.
Nella ricostruzione proposta dall’autore il ruolo di protagonista spetta a Paolo di Tarso. È lui ad avanzare per primo l’idea del cristiano come una «nuova creatura», prodotto di quella «seconda creazione» inaugurata dalla morte del Cristo in croce. In gioco, era la partita per estendere la via della salvezza al di fuori del campo dei circoncisi, ma l’autore evidenzia come la scelta di «cristianizzare» la nozione di umanità dipendesse anche dal bisogno di distinguersi dalle antropologie e dalle teologie altrui. Contro lo gnosticismo, per esempio nel caso di Tertulliano. Per differenziarsi dai pagani, nel caso del «barbaro» Taziano, che si definisce tale perché professa una religione ritenuta barbara dai greci.
Per il «vero Israele» in quello di Giustino. Nel Dialogo con Trifone , l’apologeta cristiano descrive una nuova etnia riconducibile, tramite una precisa linea patriarcale (Giuda, Giacobbe, Isacco), allo stesso capostipite del popolo ebraico (Abramo).
A questo proposito, Urciuoli ricorda come la capacità di assorbire, scomporre e annodare discorsivamente elementi culturali di diversa provenienza abbia costituto una delle ragioni della «vittoria» storica del cristianesimo. Anche per questo motivo, verrà rifiutata l’etichetta di tertium genus , con la quale i pagani erano soliti definire la comunità dei seguaci di Gesù: terzi dopo i romani e i giudei. Secondo Tertulliano, al contrario, erano semmai i primi, in virtù dell’adesione della loro anima a Dio: «concittadini dei santi e familiari di Dio».
Ma qual era la loro città? Sul paradosso civico dei cristiani, il cui ordinamento è nei cieli, sono state riempite biblioteche di studi di storia politica. L’autore vuole capire in che modo la cittadinanza cristiana sia stata declinata sul piano temporale, di fronte a un mondo che c’era già e in attesa di quello che doveva ancora venire.
Si trovano qui le basi della formazione di un’etica civile dei cristiani, chiamati a vivere sulla terra «come se» lo iato tra maturazione del diritto al Regno dei cieli e il suo compiuto godimento fosse già stato colmato. Il risultato sarà una religione fortemente coinvolta nel tempo presente, a cui i cristiani «partecipano attivamente come cittadini, ma assistendo passivamente come stranieri» ( Lettera a Diogneto ).
Scrive Urciuoli: «le chiese cristiane si aprono allo spazio esterno senza cessare di esercitare la propria contestazione; si aprono e vi entrano senza farlo entrare e senza cessare così di esistere in quanto luoghi assolutamente altri». Il seguace di Gesù non si occupa semplicemente del mondo, ma lo occupa. Nella formazione del discorso e della comunità immaginata dai suoi aderenti si possono scorgere le ragioni del successo di questa nascente religione. Il merito principale della ricerca è farci vedere, attraverso le chiavi di lettura dell’archeologia del sapere, come tutti gli elementi decisivi fossero già a disposizione, almeno un secolo prima della conversione di Costantino
Il volto di Dio e la Legge, l’ecumenismo e i sospetti dell’islam sull’Apostolo.
di Angelo Scola (Il Foglio, 31 gennaio 2014)
Essere qui questa sera insieme a voi significa per me vivere un momento di particolare letizia poiché l’occasione mi è data dall’invito del Patriarca Bartolomeo, che ringrazio di cuore per averci voluto onorare della sua presenza, come pure della prefazione al libro. Questa presentazione non è infatti un’iniziativa estemporanea, ma si situa piuttosto all’incrocio di due cammini.
Il primo è legato alla figura dell’imperatore Costantino, il fondatore di questa città, e al suo editto che pose fine alle persecuzioni ai danni dei cristiani nell’impero romano. Questo accordo, che costituì un initium per la libertà religiosa, fu sottoscritto a Milano nel 313 . Così, per commemorare il 1.700esimo anniversario dell’editto, sono state organizzate, a Milano e in altre città del mondo, una serie di iniziative. Tra di esse, l’incontro con il Patriarca Bartolomeo il 14 maggio scorso è stato per me il momento più atteso e più significativo, una visita che oggi sono lieto di ricambiare.
Il secondo cammino che mi porta qui è quello della Fondazione Oasis che ormai da 10 anni si occupa di promuovere il dialogo tra cristiani e musulmani nel contesto di quel processo che chiamo “meticciato di civiltà e di cultura”. Oasis è nota soprattutto per la sua rivista e la sua newsletter, entrambe in più lingue, ma cura anche alcuni libri, tra cui traduzioni di testi teologici o del magistero ecclesiale nelle lingue orientali. Così, dopo due volumi editi in arabo, la Fondazione ha osato il passo di una traduzione in turco, che si è potuta realizzare solo grazie alla generosa dedizione di diverse persone, religiosi e laici, giovani e anziani, che hanno lavorato insieme nel non facile compito.
Il libro che presentiamo questa sera nasce nel contesto dell’anno paolino, che cattolici e ortodossi hanno celebrato nel 2008-2009, e raccoglie le catechesi che l’allora Pontefice Benedetto XVI dedicò alla figura dell’apostolo delle genti. Il nesso con la Turchia è immediato e fisico: Paolo nacque a Tarso e nell’odierna Turchia si è svolto il suo primo viaggio, e gran parte del secondo e del terzo. L’anno paolino poi ha avuto impatti significativi sulla vita in Turchia, dando nuovo impulso al turismo religioso. Tante persone forse sono state indotte a domandarsi: “Ma chi è questo Paolo, che attira così tante persone sui luoghi della sua vita? Che cosa ha fatto?”.
Questo libro vuole offrire una prima risposta, a partire dalla fede della chiesa. Esso non va giudicato sulla base della sua lunghezza. Porta infatti il segno inconfondibile di un grande teologo, capace di condensare in poche righe il frutto di lunghe ricerche. Perché, come si sa, è più difficile scrivere una pagina di sintesi profonda, alla portata di tutti, che dieci pagine specialistiche per soli addetti ai lavori.
Tuttavia, che il protagonista di questo libro sia l’apostolo Paolo è prima di tutto provvidenziale per la dimensione ecumenica che questa scelta porta inevitabilmente con sé. Il testo infatti ci conduce diritti al cuore della fede mostrando una verità importante: i cristiani non si riuniscono prima di tutto per rivendicare meglio e con più forza alcuni diritti, ma per ringraziare il Signore per “l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva”.
La prima preoccupazione dell’ecumenismo non è politica, accordare le voci per farsi sentire meglio, ma teologica: la ricerca dell’unità tra i cristiani scaturisce dalla fede stessa. E’ molto bello allora che la chiesa di Costantinopoli e quella di Milano si siano ritrovate insieme, con l’occasione dei 1.700 anni dall’editto, per richiamare il valore civile della libertà religiosa, sempre da riguadagnare in particolare nella sua dimensione pubblica, ma è pure molto bello che oggi s’incontrino attorno a quell’esperienza di fede da cui anche l’attenzione per la libertà religiosa discende. In questo modo “l’impegno per un’unità che faciliti l’accoglienza di Gesù Cristo smette di essere mera diplomazia o un adempimento forzato”.
Questa sottolineatura toglie anche ogni ombra di sospetto che i non cristiani - nel nostro caso i nostri amici musulmani - potrebbero nutrire circa lo scopo della nostra attività ecumenica. Essa è uno scambio di doni, non la ricerca di un’alleanza strategica. Anche perché tutte le volte che l’ecumenismo tra cattolici e ortodossi è stato impostato contro qualcuno non ha resistito alla prova del tempo.
Se la figura di San Paolo è dunque una sorgente permanente d’ispirazione a cui tutti i cristiani, cattolici, ortodossi ed evangelici, possono continuamente attingere, occorre riconoscere con realismo che essa è invece un motivo di divergenza nel rapporto con i musulmani.
Molti di essi guardano con sospetto all’operato di Saulo, non di rado accusato di un radicale travisamento del primitivo annuncio cristiano.
Occorre riconoscere con onestà intellettuale questa divergenza, ma al tempo stesso va anche richiamata la necessità, per un dialogo autentico, di confrontarsi con l’integralità delle diverse esperienze religiose. Se cioè i cristiani di tutte le confessioni (più di un miliardo di fedeli) sono concordi nel riconoscere in Paolo una figura centrale per la loro fede, chiunque voglia conoscere il cristianesimo dovrà fare i conti con i suoi scritti. Faccio un esempio al contrario che dovrebbe aiutare a capire il punto.
Come cristiani avvertiamo una particolare sintonia con la letteratura mistica islamica, che valorizza il rapporto personale con un Dio vicino e, in qualche misura, accessibile perché amante. Leggiamo con profitto diversi passi dei Mathnawi di Mevlana Rumi o alcune poesie di al-Hallaj. Ma se dicessimo che l’islam è solo Rumi e al-Hallaj, dimenticando il contributo degli uomini di legge e degli studiosi degli Hadith, finiremmo per formarci un quadro deformato della religione islamica e di quello che i musulmani abitualmente credono.
In altre parole, per un dialogo culturale serio, non posso scegliere alcuni autori con cui mi trovo in sintonia, dimenticandone volutamente altri per me più problematici, ma devo cercare di formarmi una visione globale del fenomeno che indago, eventualmente utilizzando gli autori più prossimi alla mia sensibilità come una porta per accedere a quelli più remoti.
Così, in modo speculare, se voglio capire il cristianesimo, non posso fare a meno di Paolo. E non posso fare a meno di lui neppure se voglio capire la filosofia occidentale, la storia occidentale, l’arte occidentale o addirittura la sua politica.
Come ricorda la Evangelii Gaudium , “per sostenere il dialogo con l’islam è indispensabile la formazione adeguata degli interlocutori, non solo perché siano solidamente e gioiosamente radicati nella loro identità, ma perché siano capaci di riconoscere i valori degli altri”. Solo in questo modo potremo dare un contributo effettivo al dialogo di culture così urgente oggi.
Paolo rappresenta una sfida particolare. Innamorato delle tradizioni dei Padri, pronto a difenderle con la vita, ma anche a perseguitare chi, a suo modo di vedere, le metteva in pericolo. Chiunque sminuisca la serietà dell’impegno di Saulo alla scuola di Gamaliele non capisce nulla della ricerca del volto di Dio attraverso la sequela della Legge e la sottomissione a essa, che è una delle esperienze più radicali per la coscienza religiosa dell’uomo di ogni tempo.
Ma proprio per questo sorge più forte la domanda: che cosa ha incontrato Paolo di così potente da portarlo a superare questa prospettiva, a capovolgerla quasi, lanciandosi a capofitto in un’attività missionaria senza confini, che è stata decisiva per aprire la chiesa alla dimensione universale? E’ una domanda che merita di essere indagata.
C’è poi - credo - un terzo motivo d’interesse specifico per l’islam. Dal punto di vista storico infatti, Paolo è stato il primo grande teorizzatore della distinzione tra lettera e spirito di un testo sacro. Per lui il significato esteriore è insuperabile (non è infatti uno gnostico), ma richiede allo stesso tempo di essere vivificato da un’esperienza interiore, perché “la lettera uccide, lo Spirito invece dà vita” (2Cor 3,6).
Com’è noto, una coppia analoga di concetti è stata sviluppata anche dall’esegesi islamica del Corano e secondo molti pensatori musulmani contemporanei, essa è fondamentale per poter coniugare fino in fondo l’islam con la modernità.
Sono idee spesso ripetute, ma di rado approfondite come meriterebbero. Penso perciò che un confronto serio con la coppia paolina di lettera e spirito potrebbe essere molto utile per il dibattito in corso nell’islam, in modo particolare in un paese come la Turchia dove la ricerca scientifica, anche in campo teologico, è molto avanzata. Con queste brevi notazioni, spero di avervi comunicato le ragioni che hanno condotto a questa iniziativa. Essa è un primo, timido passo. Ci auguriamo che altri possano seguire.
Occasione d’incontro ecumenico e momento di dialogo culturale, questo libro dischiude davanti a noi un ampio cammino, che domandiamo a Dio di poter percorrere con gioia e fiducia, insieme a tutti quelli che lo vorranno. Grazie.
La Sapienza della Croce
di Ernesto Balducci *
«Mi ha colpito, oggi, la diversità dei due brani della Scrittura che avete ascoltato. Il primo è l’inno di gloria a Dio, elevato da Paolo alla regalità di Gesù, per mezzo del quale tutte le cose sono state riconciliate e che regna su tutte le potenze del cielo e della terra. Questa esaltazione piena di fede ci costringe a fissare lo sguardo ben al di la delle cose visibili, ben al di là dell’esperienza vissuta, in un’armonia di cui non vediamo riscontri nell’esperienza. La fede, in questo momento, ci sradica, per cosi dire, dalla condizione carnale in cui viviamo e ci colloca in un mondo che non conosciamo.
L’altro brano, quello del Vangelo secondo Luca, ci parla della stesso Gesù, ma dove sono qui, la gloria e la potenza? E dov’è 1’armonia? Dov’è il dominio di Lui su tutte le creature? Abbiarno, al contrario, una demarcazione nettissima fra la realtà di questo mondo che lo deride, lo insulta, lo provoca e la sua realtà di uomo inerme e impotente a salvarsi. Quando Egli parla del Suo Regno, ne fa primo cittadino un delinquente appeso accanto a Lui.
Il pericolo grande della fede - ora ce ne accorgiamo più di ieri - è che diventi un principio immaginativo che ci fa vivere un’armonia del tutto illusoria e momentanea: quella - ad esempio - dell’assemblea eucaristica che stiamo vivendo dove tra poco ci daremo il segno della pace. Godiamo per un momento di una pace che però non ha corrispondenza effettiva nella vita che viviamo. Tutti voi, più o meno, venite infatti da una vita di conflitti, e ci rientrate. E allora nasce dentro di noi una frattura che, tutto sommato, è comoda. Nella vita quotidiana, nella nostra asprezza feriale, viviamo, come si deve, i conflitti: siamo furbi contro i furbi, violenti contro i violenti, adottando, per poter sopravvivere, la legge delle competizioni.
Però la nostra coscienza non è tranquilla e allora abbiamo la comoda opportunità di ritrovarci di tanto in tanto a parlare di un mondo finalmente sottoposto a Dio. Di un mondo fraterno, libero, pacifico. Poi si spengono le luci e rientriamo nella vita di sempre, in cui siamo selvaggi come gli altri, in cui il Vangelo non significa nulla, se non un pio desiderio, una pia aspirazione che riesce a lubrificare diremo cosi - gli attriti insopportabili della vita quotidiana.
Nasce da qui una realtà religiosa che è un duplicato capovolto della realtà effettiva.
Questa frattura è feconda di conseguenze negative. Infatti, anche l’idea di Cristo Re è stata utilizzata, largamente, per negare il significato dei conflitti che stiamo vivendo e per dedurre, della dignità di Cristo, chi sa quali prerogative che ci toccherebbero in questo mondo. Abbiamo presentato credenziali divine per avere successo nelle diplomazie, nei luoghi del potere; ci siamo definiti società perfetta, che può contrattare, quindi, in un piedistallo di superiorità, con le società di questo mondo».
* Ernesto Balducci Il Mandorlo e il Fuoco; Vol. 3 - Borla 1979 - pp.378-379)
Le neo armate del papa
di Paolo Rodari (la Repubblica, 17 giugno 2013)
Dai teo-con ai teo-pro. Le “armate” del Papa cambiano casacca. A sancire il passaggio di testimone tanti segni. Non ultimo, una pagina appositamente dedicata al tema da Avvenire, il quotidiano dei vescovi italiani che per anni ha dato voce a quegli intellettuali disposti a tutto pur di riconoscere un ruolo alla religione cristiana non separata dalla sfera pubblica, i teo-con appunto. “Atei devoti”, li ha chiamati qualcuno. «Importanti uomini di cultura non credenti, ma che avvertono il rischio di staccarsi dalle radici cristiane della nostra civiltà», li definì, invece, Benedetto XVI al convengo della Cei di Verona del 2006. Fu come un’investitura ufficiale, quella di Ratzinger, una chiamata alle armi per un esercito disposto a tutto pur di seguirlo.
Ma i Papi cambiano. E chi non vuole soccombere deve allinearsi. Lo scorso 9 giugno Avvenire segnala un cambio di rotta, una virata in perfetto tempismo con l’avvento del primo Papa che ha scelto di chiamarsi Francesco, in onore di una Chiesa diversa, umile, povera, degli ultimi. «C’erano una volta i teo-con, versione italiana dei neo-con americani molto attivi nell’era Bush», scrive Avvenire.
C’erano una volta e ora non ci sono più: «Il dizionario è da aggiornare. Perché si sta affermando a livello internazionale una corrente filosofica teo-pro: intellettuali rigorosamente non credenti e decisamente “progressisti”, i quali prendono il pensiero teologico cristiano (soprattutto quello di san Paolo) e lo trasformano in un dibattito filosofico nuovo e propositivo per l’Occidente».
Come a dire: se fino a pochi mesi fa la difesa dei princìpi non negoziabili andava di pari passo con il kerigma, l’annuncio del Vangelo, ora con Francesco le gerarchie sono ribaltate. I princìpi restano, certo, ma l’accento è anzitutto sull’annuncio della misericordia.
E così non sono più i conservatori americani alla Michael Novak, Richard John Neuhaus, George Weigel, o gli atei devoti italiani alla Marcello Pera e Giuliano Ferrara - ma il direttore del Foglio, a onor del vero, non si è mai considerato tale - a essere tenuti in auge, quanto i nomi, eterogenei fra loro, che Kurt Appel, docente di teologia alla Facoltà teologica di Milano, ha percorso in un volume a più voci dedicato a Cristianesimo e Occidente. Quale futuro Immaginare? (edizioni Glossa).
Dal francese Alain Badiou all’italiano Giorgio Agamben, fino allo sloveno Slavoj Zizek, sono diversi gli intellettuali che, riscoprendo san Paolo come alternativa al relativismo assoluto e mettendo al centro del proprio pensare uno sguardo verso l’altro anzitutto di misericordia, entrano di diritto nelle file dell’“esercito” bergogliano.
Del resto il filosofo francese Rémi Brague l’aveva predetto. Nel volume del 1992 Il futuro dell’Occidente (Bompiani), introdusse la distinzione che tra cristiani e “cristianisti”, prevendendo i pericoli per la Chiesa della corrente che successivamente si sarebbe chiamata teo-con, ma non solo di quella: «Cristianista - scrive Brague -, è chi s’interessa, del (proprio) cristianesimo e non di Cristo. Vede il cristianesimo, astraendolo, come una “tavola di valori”.
E ci sono i cristianisti identitari e i cristianisti del e nel “cattolicesimo democratico”. Il cristianista identitario insiste sul tema dell’Occidente e del suo valore. Richiamando il cristianesimo come uno strumento per il persistere di una “purezza”!». Mentre «il cristianista cattolicodemocratico pratica e impone un cristianesimo come faccenda individuale e socialmente irrilevante e/o arrendevole. Irreprensibile sul piano della vita privata finisce per asservirsi al “volontarismo politico” delle sinistre riconoscendogli, con la sconfessione pratica dell’antropologia cristiana, una presunta superiorità etica».
Esiste una sintesi? Difficile rispondere. Di certo, i cosiddetti teo-pro, nonostante l’endorsement di Avvenire, non sembrano riuscire a stare nel mezzo. Anche loro rivalutano il cristianesimo, però soltanto in chiave culturale. Non c’è conversione in loro, c’è soltanto un riscatto culturale, da sinistra, del cristianesimo. La differenza fra loro e i nuovi atei, insomma, (da Richard Dawkins a Sam Harris fino a Christopher Hitchens) risiede soltanto nel fatto che per questi ultimi il cristianesimo è falso e insano. Mentre per i teo pro è un qualcosa da valorizzare ma non a cui aderire. Avvenire li prende, invece, a modello. Ma cosa diranno i settori più conservatori del cattolicesimo in merito? E cosa i teologi più illuminati del cattolicesimo oggi?
Pierangelo Sequeri, preside della facoltà teologica dell’Italia settentrionale, vede note positive. Dice, infatti, che «la corrente teo-pro è interessante perché marca una distanza netta dal pensiero debole e rappresenta una via per ridare vita all’autentico umanesimo».
Di autentico umanesimo, in effetti, parla Zizek quando in La mostruosità di Cristo (Transeuropa) spiega con San Paolo che è questo il tempo di «una vita vera nell’amore, accessibile a tutti noi attraverso la grazia». È il tempo, dice, di «un cristianesimo focalizzato sull’agape ».
Eppure i rischi ci sono, come Brague insegna. Dice in proposito il sociologo Luca Diotallevi, fresco autore di La pretesa. Quale rapporto tra Vangelo e ordine sociale ( Rubbettino). «Da una parte esistono nostalgie di cristianesimo giocate come avversione alla modernità avanzata. In un certo senso la versione originale dei teo-con è la declinazione di destra di questo fenomeno. Ma ne esiste anche una di sinistra, speculare, affine alla prima.
Nella direzione opposta, è invece presente, e robusta, nel mondo anglosassone ma anche in quello francese, l’idea di un cristianesimo come vettore di un cammino che accetta e sfida la modernità avanzata per una società in cui il primato dell’amore non contrasti con una prospettiva sociale ancora più libera e aperta.
L’alternativa principale è quella tra un cristianesimo che rifiuta e uno che affronta e attraversa la modernità avanzata. Quando Tony Blair si converte al cattolicesimo dice proprio che una civitas aperta ha bisogno del cristianesimo. Nel mondo francofono è il filosofo Jean-Luc Nancy, erede di Jacques Derrida, a dire che la decostruzione, e dunque il principio dell’apertura, sono un prodotto del cristianesimo e che vive di cristianesimo.
In questo prevalere della speranza sulla nostalgia, che è anche lo spirito del Vaticano II, si può cogliere l’eco della patristica e di una lettura liberante di Agostino. Per lui, nel secolo della civitas terrena permixta alla civitas celeste l’amore alimenta la libertà e conosce e non teme il conflitto. Il filone che è stato chiamato teo-pro è esso stesso attraversato da un alternativa più profonda, intorno alla conciliabilità o meno di libertà e amore».
di Piero Stefani
in “Il pensiero della settimana”
(http://pierostefani.myblog.it/) n.434 del 25 maggio 2013
Se si consulta un dizionario dei simboli a proposito del termine «porta» si leggeranno, più o meno, queste parole: essa rappresenta il luogo di passaggio fra due stati, fra due mondi, fra il conosciuto e l’ignoto, tra la luce e le tenebre. La porta è un varco aperto sul mistero. Essa ha un valore dinamico e psicologico, in quanto non solo indica un passaggio ma si trasforma in invito a superarlo. Per questo può facilmente alludere anche a un viaggio verso l’aldilà. La porta è anche un simbolo ambivalente; è connessa a un entrare ma anche a un uscire, è aperta o è chiusa.
Quando la porta è intesa in modo dinamico si pensa all’atto di aprire o di chiudere. Allora pare spontaneo immaginare che essa si incontri con un altro simbolo, quello della chiave.
All’interno degli scritti neotestamentari si assiste, però, a una specie di dissociazione tra l’immagine della porta e quella della chiave; nella massima parte dei casi quando c’è l’una non vi è, almeno in modo esplicito, l’altra.
Avviene così, per esempio, nell’Apocalisse. Nella prima visione, colui che è «simile a un Figlio dell’uomo» (Ap 1,13) si presenta dicendo: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi» (Ap. 1,18; cf. Ap 9,1; 20,1). La porta resta sottintesa.
Nella successiva sessione delle sette lettere indirizzata alle sette Chiese, nel caso della missiva inviata all’angelo della Chiesa di Filadelfia, si legge: «Così parla il Santo, il Veritiero, colui che ha la chiave di Davide; quando egli apre nessuno chiude e quando chiude nessuno apre» (Ap 3,7). Il sottotesto biblico qui coinvolto (Is 22,22) chiarisce che la chiave è simbolo dell’autorità dell’amministratore che regola l’accesso al re.
La chiave, lo si sa, è al centro anche di uno dei passi più celebri e più contesi dell’intera Bibbia cristiana, quello del «primato di Pietro»: «A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato anche nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto anche nei cieli» (Mt 16,19; cf. Lc 11,52). Per quanto la radice ebraica ptch , «aprire», da cui deriva anche il termine ebraico per chiave (maftteach), possa indicare anche l’atto di sciogliere, val la pena di sottolineare che, in riferimento a Pietro, non si opta per un aprire e un chiudere. Almeno ai nostri orecchi, si evocano più dei nodi che delle porte. In ogni caso rimane fondamentale porre in rilievo il fatto che la potestas di legare e sciogliere è riferita alla terra, mentre, per quanto concerne il cielo, l’azione è espressa attraverso un «passivo divino» in cui il complemento d’agente sottointeso è riferibile a Dio e non già a Pietro. In ogni caso, il rilievo più importante sta nel ribadire che in tutto il passo non c’è alcun nesso tra chiave e porta. Infatti quando compare quest’ultimo termine (pylē) esso è usato per scongiurare la minaccia di vedersi inghiottiti nelle profondità dell’abisso «e le porte (pylai ) dell’Ade non prevarranno» (Mt 16,18; secondo una traduzione letterale). La porta, lungi dall’essere figura di salvezza, evoca esattamente l’opposto; essa diviene un modo per richiamare l’antica bocca dello Sheol spalancatasi per inghiottire gli empi (Nm 16,33).
Cosa dedurre da questa divaricazione tra chiavi e porta? La conclusione più stringente è che la porta la si trova aperta o chiusa, nessuno, però, è stato investito del potere di aprirla o di chiuderla. Questa decisiva differenziazione non è stata valorizzata dal linguaggio ecclesiale, il quale, anzi, fin da epoche antiche, rese equivalente il legare e lo sciogliere a un chiudere e a un aprire.
Bonifacio I nel 422, scrivendo a Rufo e ad altri vescovi della Macedonia per ribadire il primato della sede romana, affermò, per esempio, che, secondo le parole del «nostro Cristo», chiunque insorga a oltraggiare il successore di Pietro non potrà abitare nel regno dei cieli: « “A te” dice “darò le chiavi del regno dei cieli” e in esso nessuno entrerà senza il favore del portinaio». Eppure noi avvertiamo ben più vera, specie in relazione al «regno dei cieli», la separazione biblica tra «porta» e «chiave».
L’aprire e chiudere la porta è atto di Dio e non del portinaio. Pietro con il suo mazzo di chiavi posto sulla soglia del Paradiso è meglio che resti là dove compare con maggior frequenza, vale a dire nelle storielle e nelle barzellette.
L’inaudita "pretesa" di cambiare il mondo
Un’omelia e una messa di papa Francesco. Un saggio del sociologo Luca Diotallevi. Convergenti nel vedere nell’eucaristia la genesi del mondo nuovo
di Sandro Magister *
ROMA, 11 aprile 2013 - A quasi un mese dalla sua elezione a papa, ci sono due parole che Jorge Mario Bergoglio non ha ancora pronunciato: libertà religiosa.
Non le ha dette, smentendo le aspettative, nemmeno nel discorso che ha rivolto il 22 marzo agli ambasciatori di quasi tutti i paesi del mondo.
La sola volta in cui ha parlato della libertà religiosa - pur senza chiamarla per nome - è stato sabato 6 aprile, in una delle brevi omelie che improvvisa durante le messe mattutine nella cappella della Casa di Santa Marta, dove abita.
Ma l’ha fatto con uno stile particolare. Papa Francesco non ha speso parole contro i persecutori, né contro coloro che in forme più morbide soffocano la libertà dei credenti.
Si è messo invece dalla parte dei perseguitati:
"Per trovare i martiri non è necessario andare alle catacombe o al Colosseo: i martiri sono vivi adesso, in tanti paesi. I cristiani sono perseguitati per la fede, Oggi, nel secolo XXI, la nostra Chiesa è una Chiesa di martiri".
E poi si è immedesimato con i comuni cristiani. Ha citato le parole di Pietro e Giovanni negli Atti degli Apostoli: "Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato". E ha proseguito:
"La fede non si negozia. Sempre c’è stata, nella storia del popolo di Dio, questa tentazione: tagliare un pezzo alla fede, magari neppure tanto. Ma la fede è così, come noi la diciamo nel Credo. Bisogna superare la tentazione di fare un po’ come fanno tutti, non essere tanto tanto rigidi, perché proprio da lì comincia una strada che finisce nell’apostasia. Infatti, quando cominciamo a tagliare la fede, a negoziare la fede, a venderla al migliore offerente, cominciamo la strada dell’apostasia, della non fedeltà al Signore".
Per papa Francesco la libertà religiosa è soprattutto "avere il coraggio di testimoniare la fede nel Cristo risorto". Una fede integra, pubblica. Una fede che ha la pretesa di trasformare la società.
*
"La pretesa" è precisamente il titolo che il sociologo della religione Luca Diotallevi ha dato al suo ultimo saggio, uscito nei giorni scorsi.
È un saggio duramente critico nei confronti delle teorie della "laicità" - teorie largamente diffuse anche dentro la Chiesa e abusivamente applicate anche al concilio Vaticano II - che escludono un nesso diretto tra il Vangelo e l’ordine sociale, in ossequio a una presunta "neutralità" dello Stato.
Al paradigma della "laicità" Diotallevi oppone il paradigma della libertà religiosa, tipico del mondo anglosassone ma con fondamenti teologici che hanno i loro capisaldi nel "De civitate Dei" di Agostino e prima ancora nel Nuovo Testamento.
Secondo tale visione, il "saeculum" fra la prima e la seconda venuta di Cristo è incontro fra tempo ed eternità, è conflitto fra peccato e grazia. A questo conflitto partecipano i principati, le potestà, i troni, le dominazioni di cui parla il Nuovo Testamento, riferendosi alle potenze di questo mondo. Sono le potenze ribelli sulle quali la croce e la risurrezione di Gesù hanno riportato la vittoria definitiva, una vittoria che però non ha ancora il suo compimento. Nel "saeculum" tali potenze ancora oscillano fra gli estremi dell’anarchia e del dominio assoluto, mentre la Chiesa, che custodisce il dono della vittoria, opera per trattenerle dall’uno e dall’altro estremo.
Dopo Agostino, hanno sviluppato ai giorni nostri questa visione neotestamentaria della storia Oscar Cullmann e Joseph Ratzinger, ampiamente citati da Diotallevi.
Ma il saggio ha il suo tratto più originale là dove identifica nella celebrazione dell’eucaristia la fonte e il culmine di questa "pretesa" d’impatto della fede cristiana sull’ordine sociale, anche qui in piena continuità con Benedetto XVI.
Scrive Diotallevi:
"Ogni liturgia eucaristica, ogni messa, è un rito partecipando al quale si pretende di partecipare all’unica opera di vittoria e farne annuncio efficace. L’eucaristia non fornisce alcun modello definito né definitivo di ordine sociale. La Gerusalemme celeste verrà l’ultimo giorno e dall’alto, e l’eucaristia opera e annuncia la vittoria che frantuma spazio e tempo sì da generare tempo e spazio per quel dono. Opera e annuncia la sconfitta definitiva dei disegni di dominio delle potenze e dei principati, aprendo e indicando una mai stabilizzata condizione intermedia tra dominio assoluto e dissoluzione anarchica della vita sociale".
E ancora:
"La celebrazione dell’eucaristia annuncia e realizza il divieto di ogni statalizzazione della Chiesa e di ogni ecclesiasticizzazione della politica. La Chiesa pellegrinante non fonda la ’civitas’ terrena, ma la abita e abitandola la preserva".
*
Alla luce di questa visione, diventa ancor più comprensibile la decisione di papa Francesco di celebrare la messa, lo scorso Giovedì Santo, non solo in un luogo, come il carcere minorile di Casal del Marmo, nel quale è più visibile che altrove il conflitto tra peccato e grazia, ma anche davanti a persone di altra fede e di nessuna fede.
Perché l’eucaristia è la Chiesa che si fa visibile, è l’opera vittoriosa di Dio che irrompe nella storia ed è offerta allo sguardo di ogni uomo, è Gesù innalzato sulla croce tra i due ladroni, con il centurione che lo riconosce come Figlio e la terra che trema.
Non sbagliavano i pagani colti dei primi secoli, quando per identificare la cristianità la descrivevano nell’atto stesso di celebrare la liturgia.
Il libro:
Appello per la riforma della Chiesa ... prima che sia troppo tardi!
di Leonardo Boff *
La Chiesa-istituzione come “casta meretrix”
di Leonardo Boff 27/02/2013 *
Chi ha seguito le notizie degli ultimi giorni sugli scandali dentro al Vaticano, portati a conoscenza dai giornali italiani “La Repubblica” e “La Stampa”, che parlano di una relazione di 300 pagine e elaborata da tre cardinali provetti sullo stato della curia vaticana, deve naturalmente, essere rimasto sbalordito. Immagino i nostri fratelli e sorelle devoti, frutto di un tipo di catechesi che celebra il Papa come “il dolce Cristo in Terra”. Devono star soffrendo molto, perché amano il giusto, il vero e il trasparente e mai vorrebbero legare la sua immagine a notorie malefatte di assistenti e cooperatori.
Il contenuto gravissimo di queste relazioni rafforza, a mio parere, la volontà del papa di rinunciare. E’ la riprova di un’atmosfera di promiscuità, di lotta per il potere tra “monsignori”, di una rete di omosessuali gay dentro al Vaticano e disvio di denaro attraverso la banca del Vaticano come se non bastassero i delitti di pedofilia in tante diocesi, delitti che hanno profondamente intaccato il buon nome della Chiesa-istituzione.
Chi conosce un poco la storia della Chiesa - e noi professionisti dell’area dobbiamo studiarla dettagliatamente - non si scandalizza. Ci sono state epoche di vera rovina del Pontificato con Papi adulteri, assassini e trafficanti di immoralità. A partire da Papa Formoso (891-896) sino a Papa Silvestro (999-1003) si instaurò, secondo il grande storico cardinale Baronio, l’“era pornocratica” dell’alta gerarchia della Chiesa. Pochi papi la passavano liscia senza essere deposti o assassinati. Sergio III (904-911), assassinò i suoi 2 predecessori, il Papa Cristoforo e Leone V.
La grande rivoluzione nella Chiesa come un tutto è avvenuta, con conseguenze per tutta la storia ulteriore, col papa Gregorio VII, nel 1077. Per difendere i suoi diritti e la libertà della istituzione-Chiesa contro re e principi che la manipolavano, pubblicò un documento che porta questo significativo titolo “Dictatus Papae” che tradotto alla lettera significa “la dittatura del Papa”. Con questo documento, lui assunse tutti poteri, potendo giudicare tutti senza essere giudicato da nessuno. Il grande storico delle idee ecclesiali Jean-Yves Congar, domenicano, la considera la maggior rivoluzione avvenuta nella chiesa. Da una chiesa-comunità è passata a essere una istituzione-società monarchica e assolutista, organizzata in forma piramidale e che arriva fino ai nostri giorni.
Effettivamente il canone 331 dell’attuale Diritto Canonico si connette a questa lettura, con l’attribuzione al Papa di poteri che in verità non spetterebbero a nessun mortale se non al solo Dio: “in virtù del suo Ufficio, il Papa ha il potere ordinario, supremo, pieno, immediato, universale” e in alcuni casi precisi, “infallibile”.
Questo eminente teologo, Congar, prendendo la mia difesa davanti al processo dottrinario mosso dal cardinale Joseph Ratzinger in ragione del libro “Chiesa: carisma e potere” ha scritto un articolo su “La Croix” 08.09.1984) su “Il carisma del potere centrale”. Scrive: “il carisma del potere centrale è non aver nessun dubbio. Ora, non aver nessun dubbio su se stessi è, nello stesso tempo, magnifico e terribile. È magnifico perché il carisma del centro consiste precisamente nel rimanere saldi quando tutto intorno vacilla. E è terribile perché a Roma ci sono uomini che hanno limiti, limiti nella loro intelligenza, limiti del loro vocabolario, limiti delle loro preferenze, limiti nei loro punti di vista”. E io aggiungerei ancora limiti nella loro etica e morale.
Si dice sempre che la Chiesa è “Santa e peccatrice” e deve essere “riformata in continuazione”. Ma questo non è successo durante secoli e neppure dopo l’esplicito suggerimento del concilio Vaticano II e dell’attuale papa Benedetto XVI. L’istituzione più vecchia dell’Occidente ha incorporato privilegi, abitudini, costumi politici di palazzo e principeschi, di resistenza e di opposizione che praticamente impediscono o distorcono tutti i tentativi di riforma.
Solo che questa volta si è arrivati a un punto di altissimo degrado morale, con pratiche persino criminali che non possono più essere negate e che richiedono mutamenti fondamentali nella struttura di governo della Chiesa. Caso contrario, questo tipo di istituzionalità tristemente invecchiata e crepuscolare languirà fino a entrare nel suo tramonto. Scandali come quelli attuali sempre ci sono stati nella curia vaticana, soltanto non c’era quel provvidenziale Vatileaks per renderli di pubblico dominio e far indignare il Papa e la maggioranza dei cristiani.
La mia percezione del mondo mi dice che queste perversità nello spazio sacro e nel centro di riferimento di tutta la cristianità - il papato - (dove dovrebbe primeggiare la virtù e persino la santità) sono conseguenze di questa centralizzazione assolutista del potere papale. Questo rende tutti vassalli, sottomessi e avidi perché stanno fisicamente vicino al portatore del supremo potere, il Papa. Un potere assoluto, per sua natura, limita e perfino nega la libertà degli altri, favorisce la creazione di gruppi di anti-potere, fazioni di burocrati del sacro contro altre, pratica largamente la simonia che è compravendita di favori, promuove adulazioni e distrugge i meccanismi di trasparenza. In fondo tutti diffidano di tutti. E ognuno cerca la soddisfazione personale nella forma migliore che può. Per questo è sempre stata problematica l’osservanza del celibato all’interno della curia vaticana, come si sta rivelando adesso con l’esistenza di una vera rete di prostituzione gay. Fino a quando questo potere non sarà decentralizzato e non permetterà maggior partecipazione di tutti gli strati del popolo di Dio, uomini e donne, alla conduzione dei cammini della Chiesa, il tumore che sta all’origine di questa infermità continuerà a durare. Si dice che Benedetto XVI consegnerà a tutti i cardinali la suddetta relazione perché ciascuno sappia che problemi dovrà affrontare nel caso che sia eletto papa. E l’urgenza che avrà di introdurre radicali trasformazioni. Dal tempo della Riforma che si sente il grido: “Riforma nel capo e nelle membra”. E siccome mai è avvenuta, è nata la Riforma come gesto disperato dei riformatori di compiere tale impresa per conto proprio.
Per spiegare meglio ai cristiani e a tutti gl’interessati di problemi di Chiesa, torniamo alla questione degli scandali. L’intenzione è di sdrammatizzarli, permettere che se n’abbia una nozione meno idealista e a volte idolatrica della gerarchia e della figura del Papa e liberare la libertà a cui il Cristo ci ha chiamati (Gal 5,1). In questo non c’è nessun cattivo gusto per le cose negative né volontà di aumentare sempre di più il degrado morale. Il cristiano deve essere adulto, non può lasciarsi infantilizzare né permettere che gli neghino conoscenze teologiche e storiche per rendersi conto di quanto umana ed smodatamente umana può essere l’istituzione che ci viene dagli apostoli.
Esiste una lunga tradizione teologica che si riferisce alla Chiesa come casta meretrix, tema abbordato dettagliatamente da un grande teologo, amico dell’attuale Papa, Hans Urs von Balthasar (vedere in Sponsa Verbi, Einsiedeln 1971, 203-305). In varie occasioni il teologo Joseph Ratzinger è ritornato su questa denominazione.
La chiesa è una meretrice che tutte le notti si abbandona alla prostituzione; è casta perché Cristo, ogni mattina ne ha compassione, la lava è la ama.
L’habitus meretricius, il vizio del meretricio, è stato duramente criticato dai santi padri della Chiesa come Sant’Ambrogio, Sant’Agostino, San Gerolamo e altri. San Pier Damiani arriva chiamare il suddetto Gregorio VII “Santo satanasso” (D. Roma, compendio di storia della Chiesa, volume secondo, Petropolis, 1950, p. 112). Questa denominazione dura ci rimanda a quella di Cristo diretta Pietro. Per causa della sua professione di fede lo chiama “pietra”, ma per causa della sua poca fede e di non capire i disegni di Dio lo qualifica come “satanasso” (Vangelo di Matteo 16,23). San Paolo pare un moderno quando parla ai suoi oppositori con furia: “magari si castrassero tutti quelli che vi danno fastidio” (Galati, 5,12).
C’è pertanto un luogo per la profezia nella Chiesa e per le denunce delle malefatte che possono capitare in mezzo agli ecclesiastici e persino in mezzo ai fedeli.
Vi riporto un altro esempio tratto dagli scritti di un santo amato dalla maggioranza dei cattolici per il suo candore e bontà: Sant’Antonio da Padova. Nei suoi sermoni, famosi all’epoca, non appare niente affatto dolce e gentile. Fa una vigorosa critica ai prelati corrotti del suo tempo. Dice: “i vescovi sono cani senza nessuna vergogna perché il loro aspetto ha della meretrice e per questo stesso non vogliono vergognarsi” (uso l’edizione critica in latino pubblicata a Lisbona in due volumi nel 1895). Questo fu pronunciato nel sermone della quarta domenica dopo Pentecoste (pagina 278). Un’altra volta chiama i prelati “ scimmie sul tetto, da lì presiedono alle necessità del popolo di Dio”. (Op. cit p. 348). È continua: “Il vescovo della Chiesa è uno schiavo che pretende regnare, principe iniquo, leone che ruggisce, orso affamato di rapina che depreda il popolo povero” (p.348). Infine nella festa di San Pietro alza la voce e denuncia: “Attenzione che Cristo disse tre volte: pasci e neanche una volta tosa e mungi... Guai a quello che non pasce neanche una volta e tosa e munge tre o quattro volte...lui è un drago a fianco dell’arca del Signore che non possiede altro che apparenza e non verità” (volume secondo, 918).
Il teologo Joseph Ratzinger spiega il senso di questo tipo di denunce profetiche: “il senso della profezia risiede in verità meno in alcune previsioni che nella protesta profetica: protesta contro l’autosoddisfazione delle istituzioni, l’autosoddisfazione che sostituisce la morale con il rito e la conversione con le cerimonie” (Das neue volk Gottes, Düsseldorf 1969,250, esiste traduzione italiana Il nuovo popolo di Dio, Brescia 1971).
Ratzinger critica con enfasi la separazione che abbiamo fatto in riferimento alla figura di Pietro: prima della Pasqua, il traditore; dopo la Pentecoste, il fedele. “Pietro continua a vivere questa tensione del prima e del dopo; lui continua ad essere tutte due le cose: la pietra e lo scandalo...Non è successo lungo tutta la storia della Chiesa che il Papa era simultaneamente il successore di Pietro e la pietra dello scandalo” (p.259)?
Dove vogliamo arrivare con tutto questo? Vogliamo arrivare a riconoscere che la Chiesa-istituzione di papi, vescovi e preti è fatta di uomini che possono tradire negare e fare del potere religioso un affare e uno strumento di auto soddisfazione. Tale riconoscimento è terapeutico dato che ci cura di ogni ideologia idolatrica intorno alla figura del Papa, ritenuto come praticamente infallibile. Questo è visibile nei settori conservatori e fondamentalisti del movimento cattolico laici e anche di gruppi di preti. In alcuni è ancora viva una vera papolatria, che Benedetto XVI ha sempre cercato di evitare.
La crisi attuale della Chiesa provocato la rinuncia di un Papa che si è reso conto che non aveva più il vigore necessario per sanare scandali di tale portata. Ha buttato la spugna con umiltà. Che un altro più giovane venga e assuma il compito arduo e duro di pulire la corruzione nella curia romana e dell’universo dei pedofili, eventualmente punisca, deponga e invii i più renitenti in qualche convento per far penitenza e emendare la propria vita .
Soltanto chi ama la Chiesa può farle le critiche che gli abbiamo fatto noi citando testi di autorità classiche del passato. Se tu hai smesso di amare una persona un tempo amata, ti diventano indifferenti la sua vita e il suo destino. Noi ci interessiamo come fa l’amico e fratello di tribolazione Hans Kung (è stato condannato dalla ex inquisizione), forse uno dei teologi che più ama la Chiesa e per questo la critica.
Non vogliamo che i cristiani coltivino questo sentimento di poca stima e di indifferenza. Per quanto gravi siano stati gli errori e gli equivoci storici, l’istituzione-Chiesa custodisce la memoria sacra di Gesù e la grammatica dei Vangeli. Essa predica la libertà, sapendo che generalmente sono altri che liberano e non lei.
Anche così vale stare dentro la chiesa, come ci stavano S. Francesco, dom Helder Camara, Giovanni XXIII e noti teologi che hanno aiutato a fare il concilio Vaticano II e che prima erano stati tutti condannati dall’ex inquisizione, come de Lubac, Chenu, Congar, Rahner e altri. Dobbiamo aiutarla a uscire da quest’imbarazzo, alimentandosi di più col sogno di Gesù di un regno di giustizia, di pace e di riconciliazione con Dio e di sequela della sua causa e destino, piuttosto che di semplice giustificata indignazione che può scadere facilmente nel fariseismo e nel moralismo.
Altre riflessioni del genere si trovano nel mio libro Chiesa: carisma e potere, ed. Record, 2005, specialmente in appendice con tutte gli atti del processo celebrato all’interno dell’ex inquisizione nel 1984.
Traduzione: Romano Baraglia - romanobaraglia@gmail.com
Soluzione monarchica o via comunitaria?
di Franco Cardini (il manifesto, 1 marzo 2013)
Fu il pescatore del lago di Tiberiade Simone detto Cefa, «la Pietra» - forse perché indole forte e ostinata, forse perché duro di comprendonio -, che Gesù pose secondo l’esegesi cattolica del Vangelo a capo della comunità dei suoi seguaci destinata a divenire la Chiesa universale. Un epiteto glorioso e difficile da portare: «Pietra scartata dai costruttori, ma divenuta pietra angolare», sostegno e fondamento di un edificio spirituale destinato a durare nei millenni, è nella tradizione ecclesiale il Cristo stesso.
E fu probabilmente non senza una qualche implicita polemica nei confronti della Pietra dei fedeli che il suo tardo condiscepolo e quindi fratello-rivale, il fariseo Saul di Efeso di professione tessitore di tende e fiero di essere - a differenza del pescatore galileo - cittadino romano, latinizzò il suo nome ebraico scegliendone uno romano che foneticamente gli somigliava, Paulus, che etimologicamente significa «il Piccolo», «colui che vale poco».
Con una certa ostentata umiltà, l’efesino sottolineava così il suo gracile aspetto fisico e alludeva a una sua scarsa portata spirituale e culturale in cui era in realtà il primo a non credere. Prima della conversione (la celebre caduta «sulla via di Damasco») il rabbino Saul, allievo del grande Gamaliele, aveva a lungo perseguitato quei blasfemi eretici suoi correligionari i quali sostenevano che Gesù di Nazareth fosse l’atteso Messia: e sembra si debba a lui l’iniziativa di far uccidere a colpi di pietra uno di loro, il diacono Stefano, che la Chiesa venera come «Protomartire», primo dei martiri.
Pietro e Paolo, dioscuri cristiani, subirono entrambi il martirio in Roma durante la persecuzione neroniana: Pietro, custode della chiave d’oro che apre le porte del cielo e di quella d’argento che le chiude, morì su una croce che però, nel suo caso, i carnefici piantarono rovesciata; Paolo ebbe in quanto cittadino romano l’onore di passare sotto la scure del littore, anche se in seguito l’iconografia cristiana, poco familiare con gli usi giuridici romani, immaginò che lo strumento del suo martirio fosse una lunga spada, quella che di solito si usava nel medioevo per le decapitazioni. Ed entrambi vegliano, chiavi e spada rispettivamente alla mano, ai lati degli altari e degli stipiti dei portali di tanti chiese cattoliche.
A giudicare dagli Atti degli Apostoli, non è che si conoscessero, s’intendessero e si amassero granché: sembra che Pietro difendesse a lungo la tesi che la Rivelazione del Messia fosse destinata esclusivamente al popolo ebraico, secondo l’adempimento delle sue Scritture, e non riguardasse i goim, i «gentili» (cioè quelli che appartenevano alle gentes, i pagani), mentre da parte sua l’ebreo ma cittadino romano Paolo militasse convinto a favore della grandiosa visione profetica d’un credo universale in un Salvatore venuto per tutti i popoli.
Nonostante il permanere a lungo, in Palestina, di comunità esclusivamente «giudaico-cristiane», la visione ecumenica di Paolo prevalse: e fu lui «l’Apostolo delle Genti». Eppure, l’onore di divenire capo della comunità dei credenti romani (quindi primo «vescovo di Roma») non spettò al colto tessitore di Efeso che parlava e probabilmente scriveva correntemente greco - nonché, con buone probabilità, un po’ anche latino -, bensì al meno raffinato pescatore nativo del villaggio di Cafarnao sulla sponda occidentale del «mare di Galilea», dove ancora si mostrano i resti archeologici della sua modesta dimora a lungo e con amore studiati da un archeologo italiano, il francescano Virginio Corbo che colà è sepolto. A pochi metri dalla casupola di Pietro e dalla tomba di padre Corbo si erge, mirabilmente restaurata, una sinagoga ebraica in stile romano-ellenistico del I-II secolo d.C., un’autentica indimenticabile meraviglia archeologica.
La storia iniziata allora, oltre duemila anni or sono, tra lago di Tiberiade, Gerusalemme, Efeso e Roma, potrebbe secondo alcuni concludersi tra non troppi anni.
Secondo la corrente e tutt’altro che sicura interpretazione di un oscuro inquietante testo profetico redatto a quel che sembra nel XII secolo dal vescovo irlandese Malachia, vicino all’ordine cisterciense e amico di Bernardo di Clairvaux, Benedetto XVI sarebbe il penultimo dei «papi», termine corrente di origine siriaca con il quale almeno dal IV secolo si indicano abitualmente i vescovi di Roma; dopo di lui ve ne sarebbe ancora un altro, destinato a scomparire in una feroce persecuzione che segnerebbe la fine della Chiesa e del mondo.
La «profezia di Malachia» (in realtà forse un falso del Cinquecento) mette in fila non dei nomi, ma una serie di motti latini, ciascuno designante un papa futuro: a colui che gli esegeti ritengono Benedetto XVI spetta l’epiteto di De gloria olivae; colui che uscirà dal prossimo conclave, e che secondo il controverso testo poetico sarebbe l’ultimo, vi è designato come Petrus Romanus. Naturalmente, gli esegeti alla Dan Brown si sono scatenati e sono da tempo in frenetica attività: è ovvio che, essendo l’olivo il simbolo della pace, esso si addica a papa Ratzinger che avrebbe rinunziato al soglio pontificio nell’interesse della pacificazione all’interno della Chiesa; quanto a Petrus Romanus, si sta cercando nel collegio cardinalizio qualcuno che potrebbe portare tale epiteto e qualcuno fa notare che il cardinal Tarcisio Bertone si chiama Pietro come secondo nome di battesimo ed è nativo del paese di Romano in Piemonte. Se non è vera, è ben pensata.
Fin qui storia, esegesi, fantastoria e profezia. Ma quali scenari concreti si aprono adesso sul futuro della comunità cattolica?
Non c’è dubbio che la rinunzia di Benedetto XVI sia un segno di crisi e di sofferenza: non tanto e non solo di un singolo personaggio anziano, desideroso di riposo e di solitudine, che ha per questo deciso - e senza dubbio dopo un periodo forse lungo di tormentata meditazione - di compiere un gesto che nella Chiesa di Roma resta unico (gli spesso citati paragoni con Celestino V e con Gregorio XII non reggono). I
l punto centrale da comprendere correttamente sarebbe se e fino a che punto Joseph Ratzinger si sia ritirato in quanto convinto che siano davvero soltanto le sue personali forze fisiche, psichiche e spirituali inferiori alle necessità attuali di un’istituzione profondamente scossa da gravi eventi (la questione dello Ior, i Vatileaks, i problemi connessi con i diffusi episodi di pedofilia, le polemiche sul ruolo del concilio vaticano II che lo vide giovane ma autorevole teologo e che più di recente lo ha visto critico piuttosto severo) e minacciata da ancor più gravi questioni strutturali, come la crisi delle vocazioni sacerdotali, la discordia e l’indisciplina di molti prelati, l’urgere di temi che dal celibato dei preti e dal sacerdozio femminile arrivano fino all’eutanasia e alla bioetica, il distacco dal cattolicesimo di milioni di fedeli che ad esempio in America latina stanno ormai passando in massa alle Chiese e alle sètte protestanti sostenute da forti rimesse in danaro e da un formidabile apparato propagandistico d’origine statunitense.
È così, siamo dinanzi a un’umanamente comprensibilissima ammissione di stanchezza, d’inadeguatezza, magari perfino di sfiducia? Se così fosse, inutili e ingenerose sarebbero le critiche, inopportuni polemiche e schiamazzi. Non resterebbe che rispettare la volontà di questo anziano e schivo studioso che così potentemente ha contribuito alla vita e al governo della Chiesa almeno per un buon mezzo secolo e che ora, dopo otto anni di pontificato intenso e difficile, chiede di restar solo al cospetto del suo Dio: quel Signore che - sono accorate parole della sua ultima pubblica allocuzione - negli ultimi tempi troppo a lungo «è sembrato tacere». Il «silenzio di Dio» è l’estremo, insondabile problema di tanti teologi, di tanti mistici, di tanti credenti.
Ma forse c’è di più. Se davvero il papa si è ritirato costatando quanto sia ardua la gestione autocratica di un organismo gerarchicamente ordinato, il vertice che è oggi profondamente diviso al suo interno, e si sente inoltre drammaticamente lontano dinanzi a una base disorientata, a sua volta discorde e indecisa tra desiderio di nuova coesione, insofferenza della disciplina gerarchica, insoddisfazione per la lontananza tra fede, pratica ecclesiale, bisogni e desideri concreti dei fedeli - specie degli «Ultimi» - e apostasia (sono i problemi tante volte agitati da Andrea Gallo, la sensibilità del quale è condivisa da un numero crescente di sacerdoti e di laici), allora riemerge potente la questione già affrontata nel XV secolo e quindi esorcizzata con la Controriforma e messa a tacere dal concilio di Trento.
Può la Chiesa procedere sulla via della soluzione «monarchica» pontificia, o è più consigliabile riprendere il cammino dei primi tempi della sua storia, quello poi di nuovo scelto nelle comunità ecclesiali ortodosse e orientali e ripreso poi, in circostanze differenti, sia dalla Chiesa anglicana a partire dal Cinquecento, sia da quella episcopale statunitense dalla fine del Settecento? Il cammino cioè della gestione comunitaria attraverso un supremo organo collegiale di tutti i vescovi, il concilio?
Era la situazione viva nei concili del IV secolo, gestiti - è vero - sotto la suprema autorità imperiale, e di nuovo prospettata già fino dal 1414-17 nel concilio di Costanza. Quella situazione messa da parte e considerata inadeguata e desueta dal Quattro-Cinquecento in poi, può adesso venir considerata idonea a gestire la nuova fase della vita della Chiesa cattolica nel mondo del III millennio, caratterizzato da quella che Zygmunt Bauman definisce «la Modernità liquida» e che assisterà forse all’eclisse delle fedi religiose, ma forse al contrario a un loro rinnovarsi su basi adatte ad affrontare i problemi odierni?
È questa la domanda ch’è lecito porsi: in attesa che dal prossimo conclave, tra non molti giorni, esca un papa - forse non europeo, magari perfino di pelle non proprio chiara - in grado di superare con energia la crisi attuale o provvisto del mandato affidatogli dai confratelli di convocare, mezzo secolo dopo il vaticano II, un nuovo concilio di rifondazione ecclesiastica.
Cosa insegna alla politica la rinuncia di Ratzinger
di Giorgio Agamben (la Repubblica, 16 febbraio 2013)
La decisione di Benedetto XVI deve essere considerata con estrema attenzione da chiunque abbia a cuore le sorti politiche dell’umanità.
Compiendo il “gran rifiuto”, egli ha dato prova non di viltà, come Dante scrisse forse ingiustamente di Celestino V, ma di un coraggio, che acquista oggi un senso e un valore esemplari. Deve essere evidente per tutti, infatti, che le ragioni invocate dal pontefice per motivare la sua decisione, certamente in parte veritiere, non possono in alcun modo spiegare un gesto che nella storia della Chiesa ha un significato del tutto particolare.
E questo gesto acquista tutto il suo peso, se si ricorda che il 4 luglio 2009, Benedetto XVI aveva deposto proprio sulla tomba di Celestino V a Sulmona il pallio che aveva ricevuto al momento dell’investitura, a prova che la decisione era stata meditata.
Perché questa decisione ci appare oggi esemplare? Perché essa richiama con forza l’attenzione sulla distinzione fra due principi essenziali della nostra tradizione etico-politica, di cui le nostre società sembrano aver perduto ogni consapevolezza: la legittimità e la legalità.
Se la crisi che la nostra società sta attraversando è così profonda e grave, è perché essa non mette in questione soltanto la legalità delle istituzioni, ma anche la loro legittimità; non soltanto, come si ripete troppo spesso, le regole e le modalità dell’esercizio del potere, ma il principio stesso che lo fonda e legittima.
I poteri e le istituzioni non sono oggi delegittimati, perché sono caduti nell’illegalità; è vero piuttosto il contrario, e cioè che l’illegalità è così diffusa e generalizzata, perché i poteri hanno smarrito ogni coscienza della loro legittimità.
Per questo è vano credere di potere affrontare la crisi delle nostre società attraverso l’azione - certamente necessaria - del potere giudiziario: una crisi che investe la legittimità, non può essere risolta soltanto sul piano del diritto. L’ipertrofia del diritto, che pretende di legiferare su tutto, tradisce anzi, attraverso un eccesso di legalità formale, la perdita di ogni legittimità sostanziale.
Il tentativo della modernità di far coincidere legalità e legittimità, cercando di assicurare attraverso il diritto positivo la legittimità di un potere, è, come risulta dall’inarrestabile processo di decadenza in cui sono entrate le nostre istituzioni democratiche, del tutto insufficiente.
Le istituzioni di una società restano vive solo se entrambi i principi (che, nella nostra tradizione, hanno anche ricevuto il nome di diritto naturale e diritto positivo, di potere spirituale e potere temporale) restano presenti e agiscono in essa senza mai pretendere di coincidere.
Per questo il gesto di Benedetto XVI è così importante. Quest’uomo, che era a capo dell’istituzione che vanta il più antico e pregnante titolo di legittimità, ha revocato in questione col suo gesto il senso stesso di questo titolo. Di fronte a una curia che, del tutto dimentica della propria legittimità, insegue ostinatamente le ragioni dell’economia e del potere temporale, Benedetto XVI ha scelto di usare soltanto il potere spirituale, nel solo modo che gli è sembrato possibile: cioè rinunciando all’esercizio del vicariato di Cristo. In questo modo, la Chiesa stessa è stata messa in questione fin dalla sua radice.
Non sappiamo se la Chiesa sarà capace di trarre profitto da questa lezione: ma sarebbe certamente importante che i poteri laici vi trovassero occasione per interrogarsi nuovamente sulla propria legittimità.
Tutto il potere nelle mani di un pescatore
di Vito Mancuso (la Repubblica, 6 febbraio 2013)
Un paradosso incombe su Pietro, sia come personaggio storico sia come figura teologica. A livello storico il paradosso riguarda il fatto che egli è passato alla storia non con il suo nome effettivo (l’ebraico Shimeon, grecizzato nei Vangeli in Simone) ma con il soprannome datogli da Gesù che lo chiamava “roccia”, forse anche un po’ nel senso ironico di “testa dura” come si può dedurre da alcuni episodi evangelici. Ma Gesù parlava aramaico, quindi lo chiamava Kefa, così che è stato solo il greco degli evangelisti a fare di lui “Pietro”.
Abbiamo quindi che un uomo che si chiamava Shimeon è passato alla storia con la versione greca del suo soprannome aramaico. Quanto al personaggio effettivo, sappiamo dai Vangeli che era sposato (Gesù ne guarì la suocera), faceva il pescatore, rivestiva un ruolo speciale tra i discepoli, fu uno dei testimoni della risurrezione.
Dai testi emerge un carattere composito: focoso, perché aggredì con la spada un servo del sommo sacerdote tagliandogli l’orecchio; pavido, perché negò tre volte di conoscere Gesù; sincero, perché subito si vergognò di sé piangendo amaramente. Nell’insieme un emotivo, sanguigno, poco incline alle sfumature.
Dal libro degli Atti apprendiamo che aveva un ruolo di guida nella prima comunità e che non esercitava tale funzione con potere assoluto, perché altrimenti non si capirebbe il concilio tenutosi a Gerusalemme verso il 50 e l’aperta opposizione di Paolo verso di lui ad Antiochia.
Il Nuovo Testamento non fa menzione del suo viaggio a Roma, ma la tradizione parla del suo martirio sotto Nerone verso il 64 sul colle Vaticano, una testimonianza resa ancora più sicura dal fatto che nessun’altra chiesa ha mai rivendicato per sé di essere la sede del martirio di Pietro. Vi sono fondamenti storici per ritenere che la tomba nell’attuale basilica di San Pietro sia autentica, mentre molto meno certe sono le vicende legate al suo soggiorno romano, compresa la scena del Quo vadis? e la crocifissione a testa in giù.
Il paradosso di Pietro in quanto figura teologica consiste nel fatto che egli venne prescelto da Gesù quale fondamento su cui costruire la Chiesa (Matteo16,18: «Tu sei Pietro e su questa pietra fonderò la mia Chiesa»), e però lungo la storia le più acute divisioni della Chiesa si ebbero proprio in ordine a Pietro e al suo potere.
Si pensi anzitutto a quelle avvenute nella Chiesa cattolica, per secoli spesso divisa tra papi e antipapi, fino a giungere al cosiddetto scisma di occidente (1378 1417) con ben tre papi regnanti contemporaneamente. Gli antipapi sono stati una quarantina, il primo dei quali, per accrescere il paradosso, è stato anche dichiarato santo (Sant’Ippolito).
Ma le divisioni più dolorose, perché tuttora persistenti, sono quelle che portarono alla lacerazione della cristianità: nel 1054 tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa, nel 1517 tra Chiesa cattolica e Chiese protestanti.
Ebbene, se si va a vedere il motivo principale di queste divisioni, si scopre che esso consiste nell’esercizio del potere papale, e il risultato non cambia se si va a vedere che cosa impedisce oggi la riunificazione delle Chiese, soprattutto tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa. Quindi quel Pietro che secondo Gesù doveva tenere unita la sua Chiesa, in realtà spesso l’ha divisa e la divide.
Una cosa infatti deve essere chiara: fino a quando il papa successore di Pietro godrà del potere assoluto di cui gode oggi, non vi sarà nessuna possibilità di riunificazione dei cristiani. Ha scritto il gesuita americano John McKenzie, celebre biblista: «Lo sviluppo del potere posseduto dalla Chiesa e da Pietro in una forma di tipo monarchico è estranea alla teologia biblica». Il futuro della cristianità dipenderà da quanto Pietro vorrà tornare a essere fedele a Kefa.
Del "Deus charitas est" (1 Gv., 4.8) o del "Deus caritas est" (Benedetto XVI, 2006)?!: "Di quale Dio parliamo quando parliamo di Dio, e di quale Dio parlano quando parlano di Dio? La domanda è cruciale. Infatti non è per niente chiaro, non è sempre lo stesso, e sovente non è un Dio innocuo" (Raniero La Valle, "Se questo è un Dio", pag. 9)
"È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010).
MESSAGGIO PER LA QUARESIMA
Credere nella carità suscita carità
di Benedetto XVI (Avvenire, 1 febbraio 2013)
Cari fratelli e sorelle,la celebrazione della Quaresima, nel contesto dell’Anno della fede, ci offre una preziosa occasione per meditare sul rapporto tra fede e carità: tra il credere in Dio, nel Dio di Gesù Cristo, e l’amore, che è frutto dell’azione dello Spirito Santo e ci guida in un cammino di dedizione verso Dio e verso gli altri.
1. La fede come risposta all’amore di Dio.
Già nella mia prima Enciclica ho offerto qualche elemento per cogliere lo stretto legame tra queste due virtù teologali, la fede e la carità. Partendo dalla fondamentale affermazione dell’apostolo Giovanni: «Abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi» (1 Gv 4,16), ricordavo che «all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva... Siccome Dio ci ha amati per primo (cfr 1 Gv 4,10), l’amore adesso non è più solo un ”comandamento”, ma è la risposta al dono dell’amore, col quale Dio ci viene incontro» (Deus caritas est, 1). La fede costituisce quella personale adesione - che include tutte le nostre facoltà - alla rivelazione dell’amore gratuito e «appassionato» che Dio ha per noi e che si manifesta pienamente in Gesù Cristo.
L’incontro con Dio Amore che chiama in causa non solo il cuore, ma anche l’intelletto: «Il riconoscimento del Dio vivente è una via verso l’amore, e il sì della nostra volontà alla sua unisce intelletto, volontà e sentimento nell’atto totalizzante dell’amore. Questo però è un processo che rimane continuamente in cammino: l’amore non è mai “concluso” e completato» (ibid., 17). Da qui deriva per tutti i cristiani e, in particolare, per gli «operatori della carità», la necessità della fede, di quell’«incontro con Dio in Cristo che susciti in loro l’amore e apra il loro animo all’altro, così che per loro l’amore del prossimo non sia più un comandamento imposto per così dire dall’esterno, ma una conseguenza derivante dalla loro fede che diventa operante nell’amore» (ibid., 31a). Il cristiano è una persona conquistata dall’amore di Cristo e perciò, mosso da questo amore - «caritas Christi urget nos» (2 Cor 5,14) -, è aperto in modo profondo e concreto all’amore per il prossimo (cfr ibid., 33). Tale atteggiamento nasce anzitutto dalla coscienza di essere amati, perdonati, addirittura serviti dal Signore, che si china a lavare i piedi degli Apostoli e offre Se stesso sulla croce per attirare l’umanità nell’amore di Dio.
«La fede ci mostra il Dio che ha dato il suo Figlio per noi e suscita così in noi la vittoriosa certezza che è proprio vero: Dio è amore! ... La fede, che prende coscienza dell’amore di Dio rivelatosi nel cuore trafitto di Gesù sulla croce, suscita a sua volta l’amore. Esso è la luce - in fondo l’unica - che rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di vivere e di agire» (ibid., 39). Tutto ciò ci fa capire come il principale atteggiamento distintivo dei cristiani sia proprio «l’amore fondato sulla fede e da essa plasmato» (ibid., 7).
2. La carità come vita nella fede
Tutta la vita cristiana è un rispondere all’amore di Dio. La prima risposta è appunto la fede come accoglienza piena di stupore e gratitudine di un’inaudita iniziativa divina che ci precede e ci sollecita. E il «sì» della fede segna l’inizio di una luminosa storia di amicizia con il Signore, che riempie e dà senso pieno a tutta la nostra esistenza. Dio però non si accontenta che noi accogliamo il suo amore gratuito. Egli non si limita ad amarci, ma vuole attiraci a Sé, trasformarci in modo così profondo da portarci a dire con san Paolo: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (cfr Gal 2,20). Quando noi lasciamo spazio all’amore di Dio, siamo resi simili a Lui, partecipi della sua stessa carità. Aprirci al suo amore significa lasciare che Egli viva in noi e ci porti ad amare con Lui, in Lui e come Lui; solo allora la nostra fede diventa veramente «operosa per mezzo della carità» (Gal 5,6) ed Egli prende dimora in noi (cfr 1 Gv 4,12).
La fede è conoscere la verità e aderirvi (cfr 1 Tm 2,4); la carità è «camminare» nella verità (cfr Ef 4,15). Con la fede si entra nell’amicizia con il Signore; con la carità si vive e si coltiva questa amicizia (cfr Gv 15,14s). La fede ci fa accogliere il comandamento del Signore e Maestro; la carità ci dona la beatitudine di metterlo in pratica (cfr Gv 13,13-17). Nella fede siamo generati come figli di Dio (cfr Gv 1,12s); la carità ci fa perseverare concretamente nella figliolanza divina portando il frutto dello Spirito Santo (cfr Gal 5,22). La fede ci fa riconoscere i doni che il Dio buono e generoso ci affida; la carità li fa fruttificare (cfr Mt 25,14-30).
3. L’indissolubile intreccio tra fede e carità
Alla luce di quanto detto, risulta chiaro che non possiamo mai separare o, addirittura, opporre fede e carità. Queste due virtù teologali sono intimamente unite ed è fuorviante vedere tra di esse un contrasto o una «dialettica». Da un lato, infatti, è limitante l’atteggiamento di chi mette in modo così forte l’accento sulla priorità e la decisività della fede da sottovalutare e quasi disprezzare le concrete opere della carità e ridurre questa a generico umanitarismo. Dall’altro, però, è altrettanto limitante sostenere un’esagerata supremazia della carità e della sua operosità, pensando che le opere sostituiscano la fede. Per una sana vita spirituale è necessario rifuggire sia dal fideismo che dall’attivismo moralista.
L’esistenza cristiana consiste in un continuo salire il monte dell’incontro con Dio per poi ridiscendere, portando l’amore e la forza che ne derivano, in modo da servire i nostri fratelli e sorelle con lo stesso amore di Dio. Nella Sacra Scrittura vediamo come lo zelo degli Apostoli per l’annuncio del Vangelo che suscita la fede è strettamente legato alla premura caritatevole riguardo al servizio verso i poveri (cfr At 6,1-4). Nella Chiesa, contemplazione e azione, simboleggiate in certo qual modo dalle figure evangeliche delle sorelle Maria e Marta, devono coesistere e integrarsi (cfr Lc 10,38-42). La priorità spetta sempre al rapporto con Dio e la vera condivisione evangelica deve radicarsi nella fede (cfr Catechesi all’Udienza generale del 25 aprile 2012). Talvolta si tende, infatti, a circoscrivere il termine «carità» alla solidarietà o al semplice aiuto umanitario.
E’ importante, invece, ricordare che massima opera di carità è proprio l’evangelizzazione, ossia il «servizio della Parola». Non v’è azione più benefica, e quindi caritatevole, verso il prossimo che spezzare il pane della Parola di Dio, renderlo partecipe della Buona Notizia del Vangelo, introdurlo nel rapporto con Dio: l’evangelizzazione è la più alta e integrale promozione della persona umana. Come scrive il Servo di Dio Papa Paolo VI nell’Enciclica Populorum progressio, è l’annuncio di Cristo il primo e principale fattore di sviluppo (cfr n. 16). E’ la verità originaria dell’amore di Dio per noi, vissuta e annunciata, che apre la nostra esistenza ad accogliere questo amore e rende possibile lo sviluppo integrale dell’umanità e di ogni uomo (cfr Enc. Caritas in veritate, 8).
In sostanza, tutto parte dall’Amore e tende all’Amore. L’amore gratuito di Dio ci è reso noto mediante l’annuncio del Vangelo. Se lo accogliamo con fede, riceviamo quel primo ed indispensabile contatto col divino capace di farci «innamorare dell’Amore», per poi dimorare e crescere in questo Amore e comunicarlo con gioia agli altri. A proposito del rapporto tra fede e opere di carità, un’espressione della Lettera di san Paolo agli Efesini riassume forse nel modo migliore la loro correlazione: «Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo» (2, 8-10).
Si percepisce qui che tutta l’iniziativa salvifica viene da Dio, dalla sua Grazia, dal suo perdono accolto nella fede; ma questa iniziativa, lungi dal limitare la nostra libertà e la nostra responsabilità, piuttosto le rende autentiche e le orienta verso le opere della carità. Queste non sono frutto principalmente dello sforzo umano, da cui trarre vanto, ma nascono dalla stessa fede, sgorgano dalla Grazia che Dio offre in abbondanza. Una fede senza opere è come un albero senza frutti: queste due virtù si implicano reciprocamente.
La Quaresima ci invita proprio, con le tradizionali indicazioni per la vita cristiana, ad alimentare la fede attraverso un ascolto più attento e prolungato della Parola di Dio e la partecipazione ai Sacramenti, e, nello stesso tempo, a crescere nella carità, nell’amore verso Dio e verso il prossimo, anche attraverso le indicazioni concrete del digiuno, della penitenza e dell’elemosina.
4. Priorità della fede, primato della carità
Come ogni dono di Dio, fede e carità riconducono all’azione dell’unico e medesimo Spirito Santo (cfr 1 Cor 13), quello Spirito che in noi grida «Abbà! Padre» (Gal 4,6), e che ci fa dire: «Gesù è il Signore!» (1 Cor 12,3) e «Maranatha!» (1 Cor 16,22; Ap 22,20).
La fede, dono e risposta, ci fa conoscere la verità di Cristo come Amore incarnato e crocifisso, piena e perfetta adesione alla volontà del Padre e infinita misericordia divina verso il prossimo; la fede radica nel cuore e nella mente la ferma convinzione che proprio questo Amore è l’unica realtà vittoriosa sul male e sulla morte. La fede ci invita a guardare al futuro con la virtù della speranza, nell’attesa fiduciosa che la vittoria dell’amore di Cristo giunga alla sua pienezza. Da parte sua, la carità ci fa entrare nell’amore di Dio manifestato in Cristo, ci fa aderire in modo personale ed esistenziale al donarsi totale e senza riserve di Gesù al Padre e ai fratelli. Infondendo in noi la carità, lo Spirito Santo ci rende partecipi della dedizione propria di Gesù: filiale verso Dio e fraterna verso ogni uomo (cfr Rm 5,5).
Il rapporto che esiste tra queste due virtù è analogo a quello tra due Sacramenti fondamentali della Chiesa: il Battesimo e l’Eucaristia. Il Battesimo (sacramentum fidei) precede l’Eucaristia (sacramentum caritatis), ma è orientato ad essa, che costituisce la pienezza del cammino cristiano. In modo analogo, la fede precede la carità, ma si rivela genuina solo se è coronata da essa. Tutto parte dall’umile accoglienza della fede («il sapersi amati da Dio»), ma deve giungere alla verità della carità («il saper amare Dio e il prossimo»), che rimane per sempre, come compimento di tutte le virtù (cfr 1 Cor 13,13).
Carissimi fratelli e sorelle, in questo tempo di Quaresima, in cui ci prepariamo a celebrare l’evento della Croce e della Risurrezione, nel quale l’Amore di Dio ha redento il mondo e illuminato la storia, auguro a tutti voi di vivere questo tempo prezioso ravvivando la fede in Gesù Cristo, per entrare nel suo stesso circuito di amore verso il Padre e verso ogni fratello e sorella che incontriamo nella nostra vita. Per questo elevo la mia preghiera a Dio, mentre invoco su ciascuno e su ogni comunità la Benedizione del Signore!
“Non c’è bene senza legge non c’è libertà senza trasgressione”
intervista a Paolo Ricca,
a cura di Franco Marcoaldi (la Repubblica, 10 gennaio 2013)
Per un agnostico, o un ateo, affidarsi al “giudizio di Dio” e dunque alla sua Legge, può suonare come la definitiva resa di ogni possibile giudizio critico individuale. Paolo Ricca, pastore valdese, curatore delle opere di Lutero per l’editrice Claudiana, teologo finissimo e di grande apertura mentale, la pensa esattamente all’opposto: proprio la Legge di Dio offre la massima libertà all’essere umano. «Il discernimento del bene e del male è possibile là dove si sa che cosa siano il bene e il male. Nella visione biblica questa capacità l’uomo non ce l’ha. E quindi anche il suo discernimento è offuscato. Perciò è necessaria la parola di Dio».
Ma nella modernità occidentale, diciamo da Montaigne in avanti, l’uomo presume, a torto o a ragione, di disporre di quella capacità. Cosa la spinge, nel 2012, a cercarla ancora nella parola di Dio?
«Almeno due buone ragioni. La prima ha a che fare con Kant, il grande maestro critico della modernità, e con la sua idea di imperativo categorico. Ovvero con la rinuncia della singola persona a decidere che cosa può “imperare” nella sua propria coscienza. Seconda ragione: l’evidenza di ciò che accade intorno a noi, ogni giorno. Le pare che l’umanità nel suo insieme, e non parlo dell’arbitrio del singolo individuo, sia in grado di organizzare un sistema di leggi volte al bene comune?».
Però esistono tradizioni di pensiero, penso ad esempio al confucianesimo, in cui il fondamento etico-sociale della legge ha una base tutta mondana.
«Sì, ma l’aspetto più sorprendente del discorso biblico è che la Legge viene dopo l’Esodo. Ovvero, Dio prima libera il suo popolo e soltanto dopo gli dà la legge, fondata dunque sulla libertà raggiunta, che impedirà di tornare a uno stato di schiavitù. Lei porta l’esempio del confucianesimo, per dimostrare che non è necessario Dio per avere una legge. Ma Dio, che peraltro non è mai “necessario”, ci indica la strada per dare alla legge il suo vero significato: non come sottrazione di libertà, ma come suo massimo dispiegamento. Io penso che dobbiamo liberarci da questa idea secondo cui Dio deve esserci. Bonhoeffer parla di “un Dio che c’è, non c’è”, proprio per riaffermare che Dio non è necessario. Che Dio è libertà, non necessità. La rivelazione della Bibbia è tale proprio per questo. Rivelare, togliere il velo, vuol dire aiutare l’uomo a capire ciò che non vede: Israele ha creduto in un Dio liberatore, prima che in un Dio giudice e legislatore. È un messaggio formidabile. Certo, sempre se uno ci crede!».
Per chi è cresciuto tra le braccia della Chiesa cattolica la prima parola che viene in mente pensando alla religione, non è certo “liberazione”. Semmai il trittico dostoevskjiano “mistero, miracolo, autorità”.
«Lo capisco. Ma Dio non è la Chiesa. Sono due piani del discorso che vanno tenuti accuratamente separati».
Veniamo al Dio legislatore e dunque ai dieci comandamenti. Lei li trova ancora utili per il nostro tempo?
«Assolutamente sì. Pensi al primo comandamento, che impone di distinguere tra gli idoli e Dio. Più attuale di così! Oppure, pensi al comandamento del riposo applicato a una società come la nostra, in cui il tempo libero è ancor più schiavizzato di quello del lavoro. Purtroppo, nella cultura religiosa italiana i dieci comandamenti sono poco predicati. Alcuni sono stati addirittura stravolti: per esempio, quello sul riposo è diventato “santifica le feste”, una definizione del tutto impropria. Obbedendo a una tendenza gnosticizzante del cattolicesimo romano, l’Antico Testamento è stato messo progressivamente da parte, a esclusivo vantaggio del Vangelo. Il che spiega varie cose anche sul fronte morale. Perché il discorso sulla centralità dell’amore va bene, ma quando si arriva al comandamento “non rubare”, le cose si fanno un po’ più complicate».
Ha appena accennato al nuovo comandamento di Gesù: ama il prossimo tuo come te stesso.Gesù, però, oltre a obbedire, trasgredisce la legge.
«Certo, perché non c’è libertà senza trasgressione: bisogna trasgredire alcune leggi degli uomini in nome della legge di Dio, nella quale si manifesta appieno la nostra libertà».
Mi faccia un esempio.
«Gesù viene condannato a morte per due motivi: come trasgressore della legge del sabato e come distruttore del tempio. E perché trasgredisce la legge del sabato? Perché i teologi avevano costruito attorno a quel comandamento una serie di norme assolutamente fuori luogo. Del tipo: nel giorno del riposo puoi fare al massimo dieci passi. Così, se l’uomo caduto a terra è lontano da te dodici passi, non puoi aiutarlo. Ma mille altri sono i casi in cui è giusto trasgredire le leggi umane, in nome di una superiore legge divina. Pensi all’obiezione di coscienza: non prendo in mano il fucile per ammazzare il prossimo, anche se lo Stato me lo impone».
Capisco cosa intende dire. Però intravedo anche il rischio opposto: ogni legge dello Stato laico può essere messa in forse sulla base di una legge superiore. Pensi all’aborto.
«Ma non c’è nessuna legge divina che vieta l’aborto. Quella è una legge della Chiesa, che naturalmente ha il suo peso e il suo valore. Però nella Bibbia non si parla di aborto. Di nuovo, bisogna saper distinguere tra legge divina, legge ecclesiastica e legge civile».
Qual è il luogo simbolico per eccellenza in cui si manifesta il giudizio di Dio?
«La croce di Gesù, e questo è il paradosso dei paradossi: ovvero, il giudizio di Dio viene “giudicato” nell’uomo, e nell’uomo messo in croce. “Dio mio, perché mi hai abbandonato”, dice Gesù. È il momento della lacerazione completa dell’idea stessa di Dio. Paolo definisce la croce “pazzia” per i greci, i laici, e “scandalo” per i giudei, per i religiosi come me. La verità è che se si va alla radice del discorso cristiano, il giudizio di Dio ci conduce a un’afasia totale. Perché si assiste al capovolgimento completo tra un Dio giudicante e un Dio giudicato».
Il primo a portare Dio “in tribunale” è Giobbe, quando verifica sulla propria pelle che l’idea secondo cui se fai il bene ti ritorna il bene, non è così automatica.
«Il suo è il grido di disperazione dell’innocente che soffre ingiustamente. E protesta. La risposta di Dio, in verità non tanto chiara, lo metterà a tacere. Ancora non si dà quel rovesciamento in cui il Dio giudicante viene giudicato. Anche se già nell’Antico Testamento si affaccia l’idea secondo cui il giudizio di Dio si associa alla misericordia e non alla giustizia retributiva. E questo ci porta dritti al Nuovo Testamento, alla vita di Gesù, alla sua passione, quintessenza dell’ingiustizia: un processo farsa, la condanna, la flagellazione, la condanna a morte. Gesù subisce, ma non partecipa. Dice a un certo punto: potrei chiamare dodici legioni di angeli, ma non lo faccio. Non mi metto sullo stesso piano di Pilato, di Erode. Ed ecco il salto ulteriore, sul piano della fede. Non soltanto io non rispondo al tuo male con la stessa moneta, ma prendo su di me la tua colpa. E muoio non soltanto per la tua malvagità, ma perché ti perdono. Ora tutto questo è straordinario. Il paradosso è che le ragioni per cui uno crede o non crede, potrebbero essere le stesse. E rimandano sempre alla figura della croce. Ecco perché non posso prendermela con gli atei. Loro dicono: come posso credere a un Dio messo in croce? E io obietto: gli credo proprio perché è stato messo sulla croce».
Le ripropongo la domanda iniziale, rovesciata. Non c’è il rischio che affidandosi al giudizio di Dio si verifichi una de-responsabilizzazione dell’individuo?
«Se intende un atteggiamento fatalista nei confronti di tutto ciò che accade, come se tutto fosse sempre e comunque frutto della volontà di Dio, allora sì, c’è questo rischio. Ma cito ancora Bonhoeffer quando dice: non tutto quello che accade è volontà di Dio, mentre in tutto ciò che accade c’è un sentiero che porta a Dio. Siamo partiti dalla parola discernimento. Ebbene, io credo che Dio, inteso come libertà d’amare, sia innanzitutto luce. E questa luce illumina il nostro cammino, aiutando o addirittura determinando il nostro discernimento. In fin dei conti, è la luce che ci consente di vedere. E discernimento vuol dire capacità di vedere, quindi capacità di giudicare, dopo aver visto. Non alla cieca».
Siamo realisti, riconosciamo che l’etica è soggettiva
Nel dibattito sul “New realism” interviene Flores d’Arcais: Putnam ha torto, la divisione tra giudizi di fatto e di valore è invalicabile
Non ci sono valori veri (o falsi) ma solo valori creati. Siamo noi i signori del bene e del male
di Paolo Flores d’Arcais (La Stampa, 11.12.2012)
Se il New realism si limitasse a rivendicare semplicemente - contro la tesi ermeneutica che «non ci sono fatti, solo interpretazioni» - l’esistenza «là fuori» di una realtà che prescinde da noi, saremmo alla banalità, al«pensiero debole» sostituito dal «pensiero futile». Che ci saranno lombrichi e galassie, anche quando non ci saremo noi, lo ammette per primo Vattimo, immagino. Ma il New realism, ci dice Putnam, afferma molto di più, non riguarda solo la verità (meglio: l’accertabilità) degli asserti scientifici, bensì il rifiuto di riconoscere una divisione di principio tra giudizi di fatto (scienza) e giudizi di valore (etica). Perché entrambi riscontrabili nella realtà. E invece no. Il New realism di Putnam ha torto (ma il New realism di Eco o di Ferraris è già differente), quel confine è intransitabile.
In primo luogo è semplicemente falsa l’affermazione di Putnam secondo cui «la scienza presuppone sempre valori epistemici come la coerenza o la semplicità». Quei valori possono influenzare, motivare o addirittura guidare il ricercatore nello «scremare» fra le ipotesi, ma alla fine contano solo gli esperimenti cruciali, che corroboreranno come scientifica una teoria anche se meno elegante delle ipotesi concorrenti(il bosone di Higgs, per dire, è sommamente inelegante e complicato).
In secondo luogo «valori epistemici» e «valori morali» non hanno nulla in comune, poiché è l’aggettivo a fare la differenza essenziale. E la questione fondamentale è proprio se i valori morali abbiano una realtà oggettiva come i fatti empiricamente accertabili, o siano invece creati dai diversi gruppi umani (e infine dai singoli individui) e dunque ineludibilmente relativi a ciascuno di essi.
Per il New realism di Putnam sono legati all’oggettività, sostenere il contrario è un errore (p. 37 di Fatto/valore, fine di una dicotomia, ed. Fazi). Quando usiamo aggettivi come crudele e malvagio o sostantivi come crimine intrecciamo inestricabilmente scopi normativi e accertamento descrittivo (p. 40). Dire perciò che «il signor X è crudele» sarebbe riscontrabile nel fatto stesso del suo comportamento. La cui valutazione sarebbe «intersoggettivamente cogente» (se la parola «oggettivo» disturba i puristi) quanto l’affermazione «la composizione chimica dell’acqua è H2O» (più «impurità residue», altrimenti qualche sofista obietta).
Ma, purtroppo per Putnam, mentre questa seconda affermazione è vera (intersoggettivamente accertabile in modo cogente), la prima è strutturalmente soggettiva, relativa ai valori morali (che possono essere agli antipodi) di chi la pronuncia. Diamo un nome al «signor X»: l’indimenticabile top model Verusckha racconta come a scuola (siamo già nel dopoguerra) venisse isolata e ingiuriata sottovoce come figlia del traditore, poiché suo padre, il conte Henrich von Lehndorff, aveva preso parte al fallito attentato a Hitler del 20 luglio 1944. Quell’attentato, che per Putnam e per me è stato «eroico», è invece «crimine»per due o tre generazioni di tedeschi (che probabilmente leggono Goethe e ascoltano Beethoven), milioni dei quali approvavano i Lager per i «malvagi» ebrei, zingari e comunisti.
Insomma, da un insieme di fatti accertabili non si potrà mai dedurre un giudizio di valore univoco, poiché i valori fondamentali che guidano i nostri giudizi morali non sono dati in natura, non sono conoscibili come i fatti, e meno che mai sono scolpiti eguali e indelebili in tutti i cuoriumani. Della specie Homo sapiens fanno parte allo stesso titolo (ahimè) tanto Francesco d’Assisi quanto Adolf Hitler, tanto la «volontà di eguaglianza» quanto la «volontà di potenza», tanto i fautori della democrazia quanto quelli della teocrazia o del Führerprinzip.
Perciò non esistono valori veri (o falsi), ma solo valori creati. Di cui ciascuno di noi è esistenzialmente responsabile, proprio perché la nostra responsabilità non si limita (come vorrebbe Ratzinger e ogni altro cognitivista etico, religioso o meno che sia) a riconoscere valori «oggettivamente» dati (dove?): siamo i creatori e signori «del bene e del male» secondo scelte incompatibili ( aut la democrazia aut la teocrazia o il Führerprinzip: non è questione di conoscenza, ma di lotta). Questa responsabilità abissale ci terrorizza, ma è ineludibile.
Topolino e Russell liberi pensatori
Fanno dello scetticismo la leva contro ogni superstizione
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 09.11.2012)
Nel memorabile Mickey Mouse and the Seven Ghosts (da noi: Topolino nella casa dei fantasmi) di Floyd Gottfredson e Ted Osborne (1936), riportando una sua «intervista con lo spettro» Pippo afferma che per una persona sensata fantasmi e anime disincarnate non esistono, e ribadisce che «questo è proprio quel che dice anche lui», lo spettro medesimo!
Dunque c’è un fantasma che dice che «i fantasmi non ci sono»: la cosa non sarebbe dispiaciuta a Bertrand Russell, specialista in meccanismi logici di questo tipo, tecnicamente noti come paradossi dell’autoriferimento: come «l’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a sé stessi a sua volta appartiene o no a se stesso?». Provate a rispondere affermativamente o negativamente, e vedrete!
Ma nel fumetto il malfidente Topolino ci tiene a ribadire che ci dev’essere un trucco e che una buona pallottola può mettere in fuga qualsiasi apparizione. Per dirla con le parole di Russell in Scienza e religione (1935), potremmo classificare il topo di Walt Disney come un libero pensatore che fa dello scetticismo nei confronti dei fantasmi la leva per scardinare l’edificio delle superstizioni consolidate, nonché la premessa per la spiegazione di pretesi miracoli in termini di leggi di natura.
La crescita della scienza cambia la percezione che gli esseri umani hanno del loro posto nel mondo e del loro destino. Tra il fumetto di Topolino e il libro di Russell, che sono quasi contemporanei, potremmo inserire anche le parole di un pensatore di circa due secoli e mezzo prima, quel Baruch Spinoza che il filosofo britannico considerava una delle figure «più amabili» della storia delle idee.
Nel 1674 Hugo Boxel, funzionario della citta di Gorcum, aveva chiesto al filosofo dell’Etica un parere «circa le apparizioni degli spettri o spiriti notturni» e, viste le perplessità di quell’«acutissimo» personaggio, aveva insistito che si doveva ammettere almeno che «lo spazio incalcolabile che c’è tra noi e gli astri non è vuoto, ma pieno di spiriti che vi abitano, magari distinti» in quelli che abitano regioni «più elevate» e in quelli che frequentano invece zone «più basse» del cosmo. Al che Spinoza gli aveva seccamente ribattuto: «Ignoro quali siano quei luoghi più alti e più bassi che concepisci nella materia infinita, a meno che tu non asserisca che la Terra è il centro dell’Universo: se infatti il Sole o Saturno ne fossero il centro, il Sole o Saturno sarebbero la parte più bassa e non già la terra».
Spinoza si collocava nella grande tradizione dell’atomismo di Democrito, Lucrezio ed Epicuro, ma aveva in mente anche Copernico e Galileo, nonché il passaggio dal mondo chiuso aristotelico-tolemaico all’Universo infinito. Da parte sua, il Russell di Scienza e religione dedica non poche pagine alla costellazione d’idee, rompicapi, tecniche d’osservazione e di calcolo che oggi chiamiamo «rivoluzione copernicana», ma vi aggiunge la considerazione di due altre rivoluzioni scientifiche: quella di Charles Darwin nelle scienze della vita e quella di Freud e degli altri protagonisti della «psicologia del profondo» nel campo delle scienze umane.
La darwiniana Origine delle specie (1859) ha rimodellato la nostra immagine del rapporto tra il genere «Uomo» e gli altri organismi viventi; la psicoanalisi ci ha costretto a ripensare la stessa nozione di coscienza e l’idea di un libero arbitrio. Entrambe le concezioni sono entrate in conflitto con abitudini intellettuali spesso legate ai dogmi delle fedi religiose, come già era capitato a Copernico, Bruno e Galileo. In un Universo infinito la Terra non è il centro più di quanto lo sia Saturno o il Sole, e la dimora dell’uomo non gode più di una posizione privilegiata; allo stesso modo, nemmeno l’uomo sotto il profilo evolutivo è qualcosa di «speciale» rispetto al resto del vivente.
Dunque niente fantasmi, niente anime immortali: per dirla col Darwin del Taccuino B (1837-1838): «Per consenso di tutti l’anima è aggiunta, gli animali non l’hanno, non guardano avanti; se decidiamo di lasciar correre libere le congetture, allora gli animali sono nostri compagni, fratelli in dolore, malattia, morte e sofferenza e fame; nostri schiavi nel lavoro più faticoso, nostri compagni negli svaghi; dalla nostra origine essi probabilmente condividono un comune antenato; potremmo esser tutti legati in un’unica rete». Come questa rete della vita sia oggi esplorata da una costellazione di programmi scientifici che vanno dalla fisica e dalla chimica alla neurofisiologia e al complesso delle scienze cognitive è uno dei lasciti migliori del secolo scorso, di cui Russell è stato testimone e protagonista: dalla riflessione sui fondamenti della matematica e la struttura della scienza all’impegno per il rinnovamento dei nostri presupposti etico-politici, per non dire dell’opposizione alle più diverse forme di oppressione.
Al contrario che in altri testi, in Scienza e religione Russell non mette tanto l’enfasi sul conflitto tra queste due forme di vita e di pensiero quanto sulla loro radicale distinzione. Scrive infatti nelle pagine iniziali del libro che «una fede religiosa si distingue da una teoria scientifica perché pretende d’incarnare una verità eterna e assolutamente certa, mentre la scienza è sempre sperimentale, pronta ad ammettere presto o tardi la necessità di mutamenti alle sue attuali teorie, e consapevole che il suo metodo è logicamente incapace di portare a una dimostrazione completa e definitiva».
E avviandosi alla conclusione, sottolinea che «la mentalità scientifica è prudente, sperimentale ed empirica; non pretende né di conoscere l’intera verità né che la sua conoscenza sia interamente vera; sa che ogni dottrina ha bisogno di essere emendata presto o tardi e che il necessario emendamento richiede libertà d’indagine e libertà di discussione».
Ecco perché Costantino non fu tollerante
risponde Corrado Augias (la Repubblica, 9.11.2012)
Caro Augias,
vari quotidiani, dando notizia della mostra milanese su Costantino, hanno titolato sulla sua “tolleranza”. -Vorrei ricordare che fu proprio Costantino il padre dell’antisemitismo. Egli emanò, l’11 dicembre 321, l’editto Codex Judaeis, prima legge penale antiebraica, segnando così l’inizio di una persecuzione e del tentativo di genocidio degli ebrei.
L’editto definiva l’ebraismo: “secta nefaria, abominevole, feralis, mortale” e formalizzava l’accusa di deicidio. Da allora, il processo antisemitico non s’è più interrotto, ad eccezione del breve periodo di reggenza dell’imperatore Giuliano detto (a torto) l’Apostata.
I successivi imperatori introdussero le Norme Canoniche dei Concili nel Codice Civile e Penale.
Con Costantino II, Valentiniano e Graziano, dal 321 al 399 d.C., una serie spietata di leggi ha progressivamente e drasticamente ridotto i diritti degli ebrei.
Si condannava ogni ebreo ad autoaccusarsi di esserlo: in caso contrario c’erano l’infamia e l’esilio. -Proibito costruire sinagoghe. Leggi contro la circoncisione. Obbligo di sepoltura in luoghi lontani e separati da quelli cristiani. Altro che tolleranza, c’è un limite anche alla falsificazione della storia.
Arturo Schwarz
La mostra milanese celebra i 17 secoli che ci separano dalla promulgazione di quell’editto di Milano (313 e.v.) con il quale il grande imperatore rendeva il cristianesimo “religio licita”, dopo che per secoli i suoi seguaci erano stati perseguitati. Le ragioni del provvedimento, al di là delle letture agiografiche, furono ovviamente politiche: l’impero tendeva a spaccarsi, la nuova religione parve un “collante” più efficace dei vecchi culti. Costantino peraltro conservò per tutta la vita il titolo “pagano” di pontifex maximus e si convertì al cristianesimo solo in punto di morte.
Né il suo comportamento personale ebbe nulla di veramente cristiano (fece uccidere moglie e figlio) anche se gli ortodossi lo hanno santificato. Quel che più conta, considerata la lettera del signor Schwarz, fu il suo fiero antigiudaismo. Arrivò a definire quella religione “superstitio hebraica” contrapponendola alla “venerabilis religio” dei cristiani. Presiedette, da imperatore, e diremmo da “papa”, il fondamentale Concilio di Nicea (325).
Soprattutto aprì la strada all’unificazione dei due poteri, temporale e religioso, in uniche mani. All’inizio furono quelle dell’imperatore, cioè le sue, col passare degli anni diventarono quelle del pontefice romano. Alla fine di quello stesso IV secolo il percorso si concluse quando un altro imperatore, Teodosio I, proclamò il cristianesimo religione di Stato, unica ammessa, facendo così passare i cristiani dal ruolo di perseguitati a quello di persecutori di ogni altro culto, ebrei compresi.
Fuori dal gregge
di Antonio Thellung (mosaico di pace, luglio 2012)
L’obbedienza non è più una virtù, diceva don Milani, esortando a coltivare la presa di coscienza. Non per contrapporsi all’autorità, ma per educare ciascuno ad assumere le proprie responsabilità, senza pretendere di scaricarle su altri. L’obbedienza, infatti, può anche dirsi una virtù, ma soltanto se si mantiene entro limiti equilibrati, da valutare appunto con coscienza. Perché l’obbedienza cieca è il tipico strumento utilizzato dalle strutture autoritarie gerarchico-imperialistiche per esercitare il potere, offrendo in cambio ai sudditi lo scarico della responsabilità personale. Tipico esempio si è avuto nel dopoguerra quando pareva che nessuno dei feroci gerarchi nazisti fosse colpevole, perché sostenevano tutti di aver semplicemente obbedito a ordini superiori.
Il Vangelo è chiarissimo: "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?", ma la cristianità che si è affermata nella storia ha preferito mutuare dall’Impero Romano un’impostazione imperialistica che si mantiene presente tuttora, sia pure adattata ai tempi odierni. Un’impostazione che riduce i fedeli a "docile gregge", come li definiva a suo tempo Pio X. Il Vangelo, inoltre, esorta anche a non chiamare nessuno padre sulla terra, un lampante invito a non cadere nelle tentazioni del paternalismo, che svaluta la dignità delle persone. Ma l’uso di chiamare "padre" i ministri del culto la dice lunga. Nello stesso brano, poi, Gesù in persona ammonisce i suoi apostoli a non farsi chiamare maestri perché solo Cristo è il maestro, ma sorprendentemente su taluni documenti ecclesiastici anche dei tempi presenti, come ad esempio il Documento di Base del 1970, si legge nientemeno che: "Per disposizione di Cristo, gli Apostoli affidarono ai loro successori, i Vescovi, il proprio ufficio di Maestri". Incredibile!
Si potrebbe dire che il magistero ha sempre richiesto ai fedeli un’obbedienza cieca, e non pochi tra coloro che hanno cercato di opporsi hanno pagato talvolta perfino con la vita. San Francesco, nella sua prima regola, aveva provato a scrivere che un frate non è tenuto a obbedire al superiore se questi gli ordina qualcosa di contrario alla sua coscienza, ma naturalmente papa Innocenzo III si è guardato bene dall’approvarla. In tempi più recenti, nel 1832, Gregorio XVI definiva un delirio la libertà di coscienza e nel 1954 Pio XII scriveva: "È giusto che la Chiesa respinga la tendenza di molti cattolici a essere considerati ormai adulti". Non è stupefacente?
Chi esercita il potere, di qualsiasi tipo, vorrebbe dai sudditi una delega in bianco, perché teme le coscienze adulte, che sono difficilmente governabili per il loro coraggio di esprimere dissenso, quand’è il caso. E tanto più il potere è prepotente e prevaricante, tanto più esige un’obbedienza cieca. Il magistero ecclesiastico ha sempre mostrata una grande avversione al dissenso, trattandolo come un nemico da combattere perfino con metodi violenti, nel caso, senza capire che proprio il dissenso è il miglior amico degli insegnamenti di Cristo, perché agisce come sentinella delle coscienze.
Il dissenso, nella Chiesa, c’è sempre stato, con buona pace di coloro che nelle varie epoche storiche hanno preteso di soffocarlo usando talvolta armi che sono incompatibili con l’insegnamento di Gesù. Sarebbe ora che l’autorità prendesse atto che il dissenso non è un nemico ma, anzi, un grande amico, anche se può rendere più complesso e faticoso il cammino. Il Concilio Vaticano II mostrava di averlo capito quando scriveva, nella Gaudium et Spes: "La Chiesa confessa che molto giovamento le è venuto e le può venire perfino dall’opposizione di quanti la avversano o la perseguitano". Ma ben presto, poi, sono prevalsi nuovamente gli atteggiamenti di repressione e condanna verso chi tenta coraggiosamente di alzare la testa. essere credibili
Personalmente non dubito che un magistero ecclesiastico sia necessario e prezioso, ma di quale tipo? Qualsiasi coscienza adulta sa che di fronte a disaccordi e perplessità non avrebbe alcun senso rifiutare l’autorità o ribellarsi tout court: non sarebbe costruttivo. Ma sente però il dovere, prima ancora che il diritto, di chiedergli maggiore credibilità, di esigere che sappia proporre senza imporre, con rispettoso ascolto delle opinioni altrui. Gli ascoltatori di Gesù "rimanevano colpiti dal suo insegnamento", perché "parlava con autorità", e non perché aveva cariche istituzionali. Così il magistero può sperare di essere creduto, dalle coscienze adulte, quando offre messaggi autorevoli e convincenti, e non per il solo fatto di essere l’autorità costituita. Oggi la credibilità dei vertici ecclesiastici, con tutti gli scandali di questi tempi, è fortemente minata, e si potrebbe dire che solo facendo leva surrettiziamente sulla grande fede in Gesù Cristo che continua a sostenere tante persone (malgrado tutto) evita di porsi in caduta libera. Ma fino a quando, se permane la pretesa di continuare a proporsi come magistero di un "docile gregge?".
La parabola della zizzania insegna che la Chiesa è comunione di consensi e dissensi, perciò, per recuperare credibilità, le autorità dovrebbero finalmente prenderne atto e imparare a dialogare con tutti alla pari, e in particolare proprio con il dissenso. Dovrebbero educarsi ed educare ad accoglierlo con l’attenzione che merita. Perché un dissenso respinto e represso a priori diventa facilmente aspro, arrabbiato, distruttivo mentre, se accolto con benevolenza, può diventare costruttivo, benevolo, e perfino affettuoso.
Una buona educazione al dissenso potrebbe diventare la miglior scuola alla formazione di coscienze adulte, capaci di confrontarsi senza acquiescenze o confusioni e censure. Capaci, cioè, di non farsi travolgere da vergognosi intrallazzi di qualsiasi tipo.
Personalmente, cerco, nel mio piccolo, di fare quel che posso. Qualche anno fa l’editrice la meridiana ha pubblicato un mio libro dal titolo "Elogio del dissenso", e per ottobre prossimo ha in programma di pubblicare un mio nuovo saggio dal titolo "I due cristianesimi", scritto per sottolineare le differenze tra il messaggio originale di Cristo e l’imperialismo cristiano, non solo come si è affermato nella storia, ma anche come si manifesta al presente. L’interrogativo è focalizzato sulla speranza nel futuro, mentre le critiche a quanto è stato ed è contrabbandato in nome di Cristo servono solo per capire meglio come si potrebbe uscir fuori dalle tante macrocontraddizioni.
La speranza è irrinunciabilmente legata a una Chiesa delle coscienze adulte, perciò sogno un magistero impegnato a farle crescere senza sottoporle a pressioni psicologiche; un magistero capace d’insegnare a distinguere il bene dal male senza imporre valutazioni precostituite; lieto di aiutare ognuno a diventare adulto e autonomo senza costringerlo a sottomettersi; volto a stimolare una sempre maggiore consapevolezza rinunciando a imposizioni precostituite. Un magistero che affermi i suoi principi senza pretendere di stigmatizzare le opinioni diverse; che proponga la propria verità senza disprezzare le verità altrui. In altre parole, sogno una Chiesa dove sia possibile ricercare, discutere, confrontarsi, camminare assieme.
Sogno un magistero che affermi il patrimonio positivo della fede, libero dalla preoccupazione di puntualizzare il negativo; che sappia offrire gratuitamente l’acqua della vita, senza voler giudicare chi beve; che proponga la verità di Cristo, esortando a non accettarla supinamente; che tracci la strada, ammonendo a non seguirla passivamente; che offra strumenti per imparare a scegliere, a non essere acquiescenti, a non accontentarsi di un cristianesimo mediocre e tiepido. Un Magistero che preferisca circondarsi da persone esigenti, irrequiete, contestatrici, piuttosto che passive, pavide, addormentate. Esso per primo ne trarrebbe grandi benefici: sarebbe il magistero di un popolo adulto, maturo, responsabile.
Etimologicamente la parola obbedienza significa ascolto, e sarebbe ora di educarci tutti a questo tipo di obbedienza reciproca: i fedeli verso l’autorità, ma anche l’autorità verso chiunque appartenga al Popolo di Dio, non importa con quale ruolo. Solo questa obbedienza è autentica virtù. Chissà se San Paolo, quando esortava a sperare contro ogni speranza, si riferiva anche alle utopie!
Riscoprire la gratuità
di Enzo Bianchi (Rocca, n. 15, 1 agosto 2012)
La crisi economica che stiamo attraversando - crisi dai risvolti umani e sociali pesantissimi per così tante persone - ha però tra le sue conseguenze anche un’inversione di tendenza rispetto al progressivo rarefarsi della capacità di percepire cosa davvero conti nella verifica di questi ultimi decenni.
Assistiamo oggi a una sorta di schizofrenia etica: da un lato confermiamo l’ormai ultrasecolare intuizione di Oscar Wilde secondo il quale «oggi si conosce il prezzo di ogni cosa e il valore di nessuna», ma d’altro lato constatiamo la diffusione della pratica del dono. Dalle associazioni di volontariato di ogni tipo alle banche del tempo, da quanti usano ogni momento libero per condividere sulla rete conoscenze e progettualità a quanti continuano a dedicarsi al miglioramento delle condizioni di vita della collettività, troviamo sempre più persone capaci di «donare» gratuitamente risorse e capacità.
Così quello che a prima vista sembrerebbe il pensiero dominante - cinismo del mercato, ricerca del proprio interesse, volontà di cavarsela a dispetto degli altri, monetizzazione di ogni attività, valutazione degli altri in base alla ricchezza posseduta... - è contestato silenziosamente da chi fa spazio alla gratuità, al prevalere del bene comune sul vantaggio personale.
Apparentemente non c’è spiegazione alla logica del gratuito: «la rosa è senza perché», osservava già il poeta mistico Angelo Silesius nel XVII secolo. Così nel nostro mondo di dilagante dominio della redditività, dell’ottimizzazione dei profitti, la rosa custodisce la memoria attiva dell’essere senz’altra ragione che l’esserci.
Oggi questo senso della gratuità sembra smarrito: non riusciamo più a vederla come ricchezza nelle nostre vite e nelle nostre relazioni, convinti di essere noi gli unici protagonisti di ogni cosa, coloro che determinano l’evolversi delle vicende e delle società.
Eppure non manca chi ci ricorda che, come la vita, il dono è qualcosa che ci precede, che esula dai diritti-doveri, che non può mai essere pienamente ricambiato, che nasce da energie liberate e origina a sua volta capacità inattese. La gratuità non è tale solo perché non comporta un prezzo, ma più ancora perché suscita gratitudine e, più in profondità ancora, perché sgorga da un cuore a sua volta grato per quanto già ha ricevuto.
Nel dono autentico non si riesce mai a tracciare un confine certo e invalicabile tra chi dà e chi riceve: non perché vi sia il calcolo di chi pesa il contraccambio, ma perché, come dice Gesù, «c’è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35). Chi dona, infatti, gode a sua volta della gioia che suscita in chi riceve. D’altronde, il fondamento dell’amore è la rinuncia alla reciprocità e alla sicurezza che ne deriva: occorre indirizzare l’amore verso l’altro senza essere sicuri che l’altro ricambierà.
Da tempo vado anche ripetendo che non dovremmo pensare al dono solo come a una possibile forma di scambio tra le persone: riscoprire la gratuità come istanza anche sociale costituisce un’esperienza liberante e arricchente per ogni tipo di convivenza. Lo ha ricordato con parole forti Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate: «La gratuità è presente nella vita dell’uomo in molteplici forme, spesso non riconosciute a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica dell’esistenza... Lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità».
Se a livello personale e relazionale possiamo riscoprire la libertà profonda che il donare richiede e la gioia che suscita sia in colui che dona che in colui che riceve, a livello sociale ci è dato di prendere coscienza di come, anche nell’ottica mercantile ormai dominante, si possano concretamente immettere istanze di gratuita fraternità: la solidarietà umana, uno stile di vita più sobrio ed essenziale, una ritrovata dimensione di fratellanza universale non sono alternative alle ferree leggi economiche o all’esercizio della giustizia, ma sono anzi correttivi preziosi per una più equa distribuzione di quei doni naturali che sono intrinsecamente destinati a tutti.
Come cristiani testimonieremo così l’unicità del Signore, dono sceso dall’alto che non ha cercato né atteso il nostro contraccambio per portare a tutti le ricchezze della sua grazia, il volto divino della gratuità. Senza il concetto di dono e di dono gratuito non sarebbe possibile un parlare cristiano perché, non lo si dimentichi, nel cristianesimo persino l’alleanza, che di per sé è bilaterale, è diventata alleanza unilaterale di Dio offerta all’uomo nella gratuità.
W la verità imperfetta
Elogio del lavoro di ricerca che porta alle scoperte
Lo studioso, nella sua relazione alla Milanesiana, guarda con spirito critico a coloro che vogliono vantare approdi assoluti. Il parallelo con i lavori dei grandi artigiani
di Remo Bodei (l’Unità, 17.07.2012)
UN GRUPPO DI GENITORI VENNE UNA VOLTA A CHIEDERE ALLO PSICHIATRA BRUNO BETTELHEIM SE FOSSE GIUSTO RACCONTARE AI BAMBINI FIABE RACCAPRICCIANTI E ANGOSCIOSE. QUESTO PERSONAGGIO che aveva conosciuto i campi di concentramento e che morirà suicida come Primo Levi rispose con apprezzabile modestia di non averci mai pensato. Li invitò a tornare fra cinque anni per la risposta, che fu loro effettivamente data attraverso il volume Il mondo incantato: sì, bisogna raccontare tali fiabe orrorose e perturbanti, perché mobilitano il pensiero simbolico e aiutano a elaborare i terrori, i conflitti, le sofferenze e i problemi dinanzi ai quali i bambini di oggi si troveranno inevitabilmente domani.
L’atteggiamento di Bettelheim è esemplare perché indica quale debba essere l’etica del lavoro nel campo della ricerca scientifica e filosofica: raccogliere e discernere le informazioni, vagliarle con rigore critico, formulare e mettere alla prova le ipotesi, trovare soluzioni che alla fine modificano il punto di partenza. Ogni forma di indagine prende spunto dalla percezione di anomalie e di dissonanze cognitive («qualcosa non torna») per creare nuovi modelli di spiegazione di un fenomeno. A risultato raggiunto, sembra che il percorso trovato per prove ed errori sia l’unico giusto, che sia sempre esistito, che sia «sempre stato lì» e che si trattava solo di vederlo e di arrivarci.
Pur venati da tormenti e dubbi, simili imprese danno la soddisfazione e la gioia del lavoro arduo, ma ben fatto. In questo la condotta dello scienziato o del filosofo è simile a quella dell’artigiano, caratterizzata dal tendere al controllo dei materiali, dal desiderio di svolgere coscienziosamente il proprio compito e dall’ossessione della qualità. Tra gli artigiani si raggiungono talvolta livelli di eccellenza che annullano i confini con l’arte, come nel caso delle saliere di Benvenuto Cellini o dei violini di Antonio Stradivari. In Einstein, in Edison oppure in Platone o in Spinoza la maestria consiste nel sovvertire le teorie e le idee dominanti.
Non sempre queste indagini sono state indolori e prive di ostacoli. Il cristianesimo antico, ad esempio, ha condannato qualsiasi ricerca che oltrepassasse i limiti posti dalla rivelazione. L’ammonizione di San Paolo, «Noli altum sapere, sed time» si lega alla sua tesi, in apparenza paradossale contenuta nell’Epistola ai Romani (13,1), scritta sotto Nerone che ogni autorità viene da Dio e deve essere, di conseguenza, obbedita, ciò che sottintende il divieto di indagarla da vicino. A sua volta, Sant’Agostino combatte aspramente la curiosità come «concupiscenza degli occhi», che distrae dalla conoscenza di se stessi e di Dio. Si venne così a formare un insieme di proibizioni che vietavano la conoscenza di tre misteri o arcana: i misteri della natura, i misteri di Dio, i misteri del potere.
Ebbene, l’etica del filosofo fin dalla Grecia classica, ma soprattutto, fin dagli esordi della modernità è consistita proprio nell’indagare razionalmente questi misteri, nello spiegare, nei limiti del possibile, soprattutto la natura, la storia umana e il potere. Non è importante chi (Dio o uomo) afferma qualcosa, ma se quello che dice è pubblicamente argomentabile e giustificabile. La verità non scende più dall’alto una volta per sempre, diventa una ricerca continua che deve rimanere «insatura» o, è il caso di dire, imperfetta, non compiuta. Non si raggiungono mai risultati definitivi, ma non per questo tutto è vano o insignificante.
I lavori che implicano una qualche forma di creatività godono di uno speciale privilegio che esige una compensazione etica: tendere al meglio nell’interesse di altri. Non per tutti, lo sappiamo, il lavoro è un piacere e non a tutti tocca nella vita poterlo sceglierlo (e, oggi, averne uno).
Spesso è il caso a determinare la professione. Adam Smith, filosofo e padre della scienza economica moderna, ha osservato che le difformità tra i talenti naturali degli uomini sono dapprima minime ed è la divisione del lavoro che le accentua, per cui da bambino un filosofo non differisce da un facchino ed è solo la società che li indirizza verso occupazioni divergenti.
Chi ha ricevuto dalla lotteria naturale e sociale l’opportunità di un lavoro che lo soddisfa non dovrebbe dimenticare l’enorme spreco d’intelligenza e di vita nelle nostre società, l’esistenza di energie latenti che vengono imprigionate dalla prevedibile ripetitività e torpore mentale diffusi dai lavori ripetitivi o degradanti. Il compito difficile che ci attende, nella scuola, nell’università, nell’industria e nelle istituzioni, ma, per ciascuno, individualmente nel proprio settore di competenza, è quello di risvegliare tali energie latenti, di coniugare la fantasia con la concretezza e il senso del possibile con i vincoli della realtà.
"Lei non sai chi sono io!" equivale a una minaccia
di GRAZIA LONGO *
Dall’ironica ilarità che scatena sul grande schermo, per bocca di Totò e Alberto Sordi, alla condanna in tribunale. «Lei non sa chi sono io, questa gliela faccio pagare!» è un’esclamazione ritenuta minacciosa e quindi punibile dalla legge.
Lo ha stabilito la Cassazione che ha annullato l’assoluzione di un distinto sessantenne di Salerno, Antonio G., che aveva così inveito contro una conoscente, la signora Licia C., con la quale c’erano già state liti e incomprensioni. La suprema Corte ha, infatti, stabilito che l’espressione ha un contenuto in grado di limitare la «libertà psichica» altrui se scappa di bocca in un «contesto di alta tensione verbale».
Antonio G. era stato graziato dal giudice di pace che - con il suo verdetto del 27 aprile 2010 - aveva stabilito «l’inidoneità offensiva» della locuzione oggi incriminata, dopo il ricorso del Procuratore generale della Corte di Appello di Salerno. Il sessantenne s’indigna, protesta, ribadisce di non aver mai voluto intimidire la signora e si definisce un «perseguitato giudiziario». Ma la Cassazione non gli crede e scrive chiaro e tondo che «è sufficiente la sola attitudine della condotta ad intimorire e irrilevante l’indeterminatezza del male minacciato purché questo sia ingiusto e possa essere dedotto dalla situazione contingente».
E di certo non è piacevole stare di fronte a qualcuno che per indurti a fare qualcosa, o ancor più a non farla, ti rifila un sonoro «Lei non sa chi sono io!». Tra i casi più recenti, per evitare una multa dei vigili, l’hanno pronunciata la showgirl Aida Yespica, i parlamentari Gabriella Carlucci e Vittorio Sgarbi. Persino l’attuale presidente del Senato Renato Schifani, nel 2002, chiese alla sua scorta di identificare una maschera del cinema Aurora di Palermo perché gli aveva restituito, in quanto scaduta, la sua tessera Agis (Associazione generale italiana spettacolo) per vedere gratis i film.
Ma anche nella finzione, la frase può suonare in modo diverso in base a chi la pronuncia e al contesto. Nel film «Totò a colori» il principe della risata suscita simpatia quando apostrofa l’onorevole Trombetta. Nel «Vigile», con Alberto Sordi che vuole multare persino il sindaco (Vittorio De Sica), questi lo riprese stizzito con la frase minacciosa ed ha la meglio. La realtà con la sentenza della Cassazione, restituisce dignità ai destinatari dell’illegale «Lei non sa chi sono io!».
* La Stampa, 8 luglio 2012.
Recitare o essere? Pensieri tra Quaresima e Pasqua
di don Angelo Casati
Viandanti (www.viandanti.org, 30 marzo 2012
Mi succede - qualcuno la ritiene una mia ossessione - di avere in sospetto ogni parola che, poco o tanto, sembra recitata, ogni atteggiamento che, poco o tanto, sembra studiato. Si recita una parte. A volte mi sorprendo a guardarmi. E mi chiedo: "Stai recitando? Stai celebrando o recitando? Stai pregando o recitando? Stai predicando o recitando? Stai parlando o recitando?". Nella recita non ci sei. C’è una parte che indossi. Che non è la tua.
Gesù incantava
Gesù non recitava. Forse per questo o anche per questo, incantava. Era autentico, aderente la vita, non a una parte da recitare. E la gente lo sentiva vero. A differenza di altri. A differenza, per esempio, di una certa frangia - non tutti! - di farisei che "recitavano": "Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini. Allargano i loro filatteri, allungano le frange; amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare rabbì dalla gente"(Mt.23,5-7).
Qualcuno, anche nel mondo ecclesiastico, sconcertato dalla calda umanità di Gesù, tende a presentarla come se il Signore stesse recitando, quasi non gli fosse consentito, in quanto Dio, di crescere, di essere stanco, di non sapere, di amare i banchetti, di desiderare la tenerezza di un bacio o il profumo dell’unguento, di provare paura e solitudine. Quasi recitasse, in tutto ciò una parte non sua. Gesù non ha mai recitato. Era.
Dominante è il ruolo
C’è il pericolo - lo avverto sempre più acutamente e il racconto delle tentazioni di Gesù, all’inizio della Quaresima, lo segnalava - che anche la religione diventi spettacolo, luogo in cui si recita. Strano verbo, questo "recitare", che abbiamo nel nostro linguaggio religioso legato al pregare! Si "recita" una Ave Maria o un Padre Nostro, si "recita" il rosario. È in agguato la recita. La avverti. A volte è nell’aria. A tradirla è un tono affettato, artefatto, poco naturale, studiato.
Aria strana. L’aria di certi raduni ecclesiastici. Volti impassibili, non tradiscono la benché minima emozione. Ci si parla di errori, di cedimenti o di smarrimenti, sono sempre quelli degli altri. L’inquietudine non esiste. Esiste la sicurezza. Si recita la parte di Dio. Mai uno che dica: "Ho peccato". Lo si dice nella Messa, ma per modo di dire. Nessuno che abbia mai fatto un errore. E che lo riconosca. Domina il ruolo. L’impassibilità del ruolo. Impenetrabili, drappeggiati, diplomatici. E senti la distanza. E come se mancasse gente vera. Non sono i volti che cerchi, quelli che ti incantano fuori le mura, volti che non mascherano le stanchezze e le emozioni, volti che confessano l’inquietudine e la lontananza.
Scrive Carlo Maria Martini: "Non di rado mi spavento sentendo o leggendo tante frasi che hanno come soggetto "Dio" e danno l’impressione che noi sappiamo perfettamente ciò che Dio è e ciò che egli opera nella storia, come e perché agisce o in un modo e non in un altro. La Scrittura è assai più reticente e piena di mistero di tanti nostri discorsi pastorali".
Come figli di Dio
Comunità alternativa si diventa vivendo il Vangelo, non recitando la parte del "perfetto". Alternativi diventiamo non mascherandoci dietro il ruolo o dietro il titolo, ma dando trasparenza ai rapporti. Incontrandoci come persone. Come figli di Dio. Questa la più grande dignità che ci è toccata. Non esiste, per un vero credente, altra tanto grande.
Essere Papa, essere Vescovo, essere prete, non vale l’essere figli di Dio. E, se figli, liberi, e quindi non soffocati, non mascherati, non misurati da titoli e da ruoli.Quando Papa Giovanni, poco dopo la sua elezione, si accorse che l’ Osservatore Romano introduceva le sue parole con questa formula di rito: "Come abbiamo potuto raccoglierle dalle auguste labbra di Sua Santità", chiamò il capo redattore e gli disse: "Lasciate perdere queste sciocchezze e scrivete semplicemente: Il Papa ha detto".
La grande sfida
Quale perdita per la società, se la Chiesa, che nel mondo dovrebbe apparire come lo spazio dove risplende la libertà e l’umanità dei rapporti, diventasse luogo di relazioni puramente formali, deboli e fiacche, non sincere e intense.
Rischierebbe l’insignificanza. Verrebbe meno alla grande sfida, all’opportunità che oggi le si offre di tessere in una società ampiamente burocratizzata rapporti autentici e profondi.
E non sarà che alla Chiesa di oggi, e quindi a ciascuno di noi, Dio chieda meno protagonismo, meno organizzazione, meno recite e più vicinanza, più sincerità?
Alla mente ritorna una pagina folgorante dello scrittore Ennio Flaiano, là dove abbozzava un ipotetico ritorno di Gesù sulla terra, un Gesù, infastidito da giornalisti e fotoreporter, come sempre invece vicino ai drammi e alle fatiche dell’esistenza quotidiana: "Un uomo" - scrive - "condusse a Gesù la figlia ammalata e gli disse: "Io non voglio che tu la guarisca, ma che tu la ami". Gesù baciò quella ragazza e disse: "In verità questo uomo ha chiesto ciò che io posso dare". Così detto, sparì in una gloria di luce, lasciando le folle a commentare quei miracoli e i giornalisti a descriverli".
Ravasi: «Il Cortile allarga i confini»
intervista a Gianfranco Ravasi
a cura di Lorenzo Fazzini (Avvenire, 17 febbraio 2012)
Dall’illuminista Parigi alla Tirana ex comunista; da Assisi, patria del Poverello, a Bucarest, porta d’Oriente. E, a venire: Barcellona, vetrina della Sagrada Familia, Stoccolma, terra dei Nobel, la Milano sede della Borsa, Marsiglia, patria di Albert Camus. In futuro: Gerusalemme, Washington, Vienna. Il Cortile dei gentili si allarga e abbraccia culture, località, centri accademici diversissimi ma uniti - chiarisce il cardinale Gianfranco Ravasi, regista dell’operazione voluta da Benedetto XVI - dal desiderio di indagare il senso del mistero dell’uomo.
Dall’iniziale intuizione del pontefice (eravamo nel dicembre 2009) affinché la Chiesa aprisse un «nuovo Cortile dei gentili» per dialogare con quanti «sentono la religione come una cosa estranea» ma vogliono avvicinare Dio «almeno come uno Sconosciuto», molto è già stato fatto e altrettanto è in cantiere. Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, confida: «Il problema è tener testa alle tantissime richieste: tutto questo significa che c’è un desiderio comune contrassegnato dalla ricerca di senso». Insomma, da quando il laico "Le Figaro" titolò l’anno scorso «Il Vaticano si invita alla Sorbona» (inaudito negli anni passati, se si pensa alla Francia laicissima), ormai sembra soffiare un’aria nuova tra Chiesa e cultura umanista: Julia Kristeva, Jean Clair, Remo Bodei, Axel Kahn, Giuliano Amato, Jean Luc Marion, Rémi Brague, Jean-Claude Casanova, Enzo Bianchi, Massimo Cacciari, Fabrice Hadjadj. Questi solo alcuni dei nomi che hanno punteggiato il primo anno di vita del Cortile. E altri se ne stagliano all’orizzonte.
Eminenza, tempo fa aveva annunciato il confronto con l’ateismo "popolare", quello alla Michel Onfray per intendersi: a che punto siamo?
«Per ora abbiamo escluso - ma non necessariamente - le due ali "estreme" dell’ateismo lasciando da parte l’ateismo "nazional-popolare", di superficie, caustico e sarcastico, quasi aggressivo. Si tratta di una forma antropologica: i suoi sostenitori sembrano alfieri di un’anti-religione. Su questo dobbiamo operare una riflessione perché è un fenomeno molto diffuso, complesso e con una sua letteratura. Tale movimento si inserisce nel più grande ambito dell’indifferenza: questi autori, se lanciano una battuta forte ("l’illusione di Dio", "l’assurdità della religione") suscitano interesse. Prima o poi affronteremo questa atmosfera nebbiosa che rappresenta il frutto estremo della secolarizzazione».
E gli atei devoti? Alcuni, dal mondo cattolico tradizionale, le rimproverano di escluderli...
«Anche questo è un ambito molto variegato. Degli "atei devoti" non ce ne siamo interessati perché in molti casi i suoi esponenti hanno un’implicanza politica. Da queste persone il tema religioso viene affrontato in maniera apologetica, per cui la religione cristiana costituisce solo un grande valore per l’Occidente. Si tratta di una sottolineatura giusta ma che non rappresenta uno scavo profondo. Questi autori non tengono in conto grandi prospettive di indagine. Si accontentano di ripetere la dottrina, e basta. Comunque è vero che queste "ali estreme" chiedono il dialogo: tra gli atei "nazional-popolari" cito Paolo Flores D’Arcais e Piergiorgio Odifreddi; fra gli "atei devoti" Giuliano Ferrara... Ma fino ad ora l’impostazione del Cortile rientra nell’alveo centrale del confronto tra le grandi visioni di interpretazione della realtà mediante un linguaggio comune: il concetto di cultura. Nelle tappe del Cortile di Bologna, Parigi, Firenze, Tirana si sono affrontate tematiche come la cosmologia, il male, il diritto, la laicità, l’arte».
Quale la ragione d’essere del Cortile?
«Ritornare al modello di evangelizzazione di Paolo: l’Apostolo è stato capace di assumere le categorie del pensiero classico a lui contemporaneo per annunciare il cristianesimo. Come evidenzia Jacques Dupont, l’idea della Chiesa come corpo mistico è mutuata dalla concezione stoica dell’anima mundi. Paolo andava in campo "laico" ad attingere concetti e categorie. Mi emoziono sempre a pensare quanto Agostino ha studiato Platone e Plotino per poterli poi "battezzare"».
Gli atei accettano di esser definiti tali?
«Il termine "ateismo" è obsoleto. Il filosofo non credente messicano Guillermo Hurtado, presente all’incontro di Assisi, sull’“Osservatore romano” ha rilevato come l’ateismo non si autodefinisce nemmeno terminologicamente. Le racconto un dettaglio eloquente. Quando il Papa decise di invitare i non credenti ad Assisi, sorse il problema di come definirli: atei è parola desueta e una categoria illuministica, richiama il marchese de Sade. Agnostici? Ma essi ci dicevano: “Allora voi siete gnostici?”. Infatti il cristianesimo ha rifiutato ogni gnosi. Non credenti? Determina solo in senso negativo. Alla fine è prevalsa, dopo un giro di consultazioni, l’idea di Julia Kristeva: umanisti, un termine accettato sia in ambiente francese che in quello anglofono».
Lei tiene un blog, twitta, usa i social network. Che legame esiste tra il web e il Cortile?
«Stiamo pensando a una plenaria del Pontificio Consiglio dedicata alle culture giovanili, alla secolarizzazione e alle indifferenze su vari campi: la musica (un linguaggio fondamentale), l’amicizia (non più quella della nostra generazione), i raduni corali (i concerti), le spiritualità vaghe dell’Oriente. Su questo mi piacerebbe coinvolgere il filosofo Charles Taylor e lo scrittore Claudio Magris».
Quali i risultati già delineati dopo il primo anno di Cortile?
«L’umanesimo "laico" e la fede sono accomunati da un elemento: il ruolo fondamentale della ricerca. È un tema che troviamo in due classici come l’Apologia di Socrate ("una vita senza ricerca non vale la pena di essere vissuta") e l’incipit delle Confessioni di Sant’Agostino (il "cuore inquieto"). Su questo vorrei spendere una parola, perché spesso i giornalisti obiettano che comunque la Chiesa, con il Cortile, intende convertire chi non crede. Il problema è intendersi: quando un non credente interviene al Cortile non fa solo opera di informazione. Il suo è un intervento anche performativo, che cerca di convincere l’altro della sua posizione. Basti pensare con quanta passione sono intervenuti il genetista Axel Kahn o la scrittrice Julia Kristeva alla Sorbona. Non lo avrebbero fatto così se non pensassero di convincere i presenti delle loro ragioni. Questo non è negativo. E poi un risultato importante del Cortile c’è già...».
Quale?
«Abbiamo contribuito a elevare il tono del dibattito culturale che spesso risulta abbassato fino alla polvere. Diamo così un contributo alla società deponendo alcuni semi che possono crescere e fruttificare. A Firenze, ad esempio, si è parlato di temi alti (arte e fede, ndr) e la gente è rimasta ad ascoltare per ore. Non è vero che la gente si interessa solo di cibo e festini, o che ascolta unicamente il menù del giorno, per citare Kierkegaard».
Cosa le dice il Papa del Cortile? Le ha dato suggerimenti?
«Anzitutto, va evidenziata una cosa: che l’invito ai "non credenti" ad Assisi è un’idea precisa di Benedetto XVI in persona. Fu lui, in una riunione ristretta con quattro cardinali di Curia, a chiedere questa presenza. E mi sorprese la motivazione di tale invito: rinverdire il modello della teologia patristica, cioè riprendere la capacità dei Padri di entrare in dialogo con le categorie della filosofia del proprio tempo. Se si scorre l’indice di Introduzione al cristianesimo del teologo Joseph Ratzinger, si vedono moltissime citazioni di autori "laici" della cultura tedesca».
In che modo il pontefice si interessa al Cortile?
«Ogni volta che incontro Benedetto XVI, ciò di cui si informa subito (e che considera più importante nel mio lavoro) è il Cortile dei gentili. Una volta mi ha detto: "Le sono particolarmente grato perché con il Cortile lei va dove noi, come Chiesa, non potremmo andare". E infatti nelle varie istituzioni in cui mi invitano io vado sempre come cardinale e rappresentante della Santa Sede».
Ci sarà un giorno un evento del Cortile con Benedetto XVI presente?
«Stiamo pensando a un evento del genere. Lui sa fare molto bene il dialogo "a braccio", specialmente con i giovani. Ma anche con un interlocutore. Vediamo. Potrebbe essere all’interno della plenaria dedicata alle culture giovanili, come dialogo con dei ragazzi e ragazze».
Il Cortile e la cattedra dei non credenti di Milano, inventata dal cardinal Martini: più volte le due iniziative sono state accomunate. Paragone corretto?
«C’è una differenza. Nella Cattedra, per la prima volta, un non credente veniva a parlare a dei credenti dalla cattedra, presentando la sua visione su un certo tema; a Martini spettavano le conclusioni. Nel Cortile invece c’è una dimensione di parità, come se ci fossero due cattedre. Ma posso dire che Martini è molto contento di questa iniziativa perché prosegue, seppur in maniera diversa, quella sua intuizione».
Lei ha un sogno personale sul Cortile? Un dialogo che le piacerebbe vivere?
«Non ci ho mai pensato. Però ... beh, sicuramente la partecipazione diretta di Benedetto XVI sarebbe molto bella. Un sogno sul passato sarebbe stato un dibattito con Albert Camus. Oggi invece mi interessano molto le questioni delle nuove comunicazioni: è venuto a incontrarmi il presidente di Google, Eric Schmidt. E penserei a Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook. Ci sono contatti in corso con lo scrittore Mario Vargas Llosa per un dialogo a due: lo farei molto volentieri».
La fabbrica dei dibattiti pubblici
Da una parte, una situazione economica e sociale eccezionale. Dall’altra, un dibattito pubblico mutilato, ridotto a un’alternativa fra austerità di destra e rigore di sinistra. Come si delimita lo spazio dei discorsi ufficiali, per quale prodigio l’opinione di una minoranza si trasforma in «opinione pubblica»? questo spiega il sociologo Pierre Bourdieu in questo suo corso sullo Stato tenuto al Collège de France e pubblicato in questo mese.
Un uomo ufficiale [ndt.: autorità] è un ventriloquo che parla a nome dello Stato: egli prende una postura ufficiale - bisognerebbe descrivere la messa in scena dell’autorità -, parla in favore e al posto del gruppo al quale si rivolge, parla per e al posto di tutti, parla come rappresentante dell’universale.
Si perviene qui alla nozione moderna di opinione pubblica. Che cos’è questa opinione pubblica che invocano i creatori del diritto delle società moderne, delle società nelle quali il diritto esiste? È tacitamente l’opinione di tutti, della maggioranza o di coloro che contano, di coloro che sono degni di avere un’opinione. Penso che la definizione patente in una società che pretende di essere democratica, ovvero che l’opinione ufficiale è l’opinione di tutti, nasconda una definizione latente, cioè che l’opinione pubblica è l’opinione di quelli che sono degni di avere un’opinione. Vi è una specie di definizione per censo dell’opinione pubblica illuminata, come opinione degna di questo nome.
La logica delle commissioni ufficiali è quella di creare un gruppo, costituito in modo da dare tutti i segnali esteriori, socialmente riconosciuti e riconoscibili, della sua capacità di esprimere l’opinione degna di essere espressa, e nelle sue forme adeguate. Uno dei criteri taciti più importanti nella selezione dei membri della commissione, in particolare del suo presidente, è l’intuizione, da parte delle persone incaricate di comporre la commissione, che la persona considerata conosca le regole tacite dell’universo burocratico e le riconosca: in altre parole, qualcuno che sappia giocare il gioco della commissione in modo legittimo, nella maniera che va al di là delle regole del gioco, che legittima il gioco stesso. Non si è mai tanto addentro nel gioco quanto lo si è stando al di là del gioco stesso. In ogni gioco ci sono regole e fair play. A proposito del mondo intellettuale, avevo usato questa formula: l’eccellenza, nella maggior parte delle società, è l’arte di giocare con le regole del gioco, facendo di questo gioco giocato con le regole del gioco un omaggio supremo al gioco stesso. Il trasgressore controllato si oppone del tutto all’eretico.
Il gruppo dominante coopta i membri su indici minimi di comportamento che sono l’arte di rispettare la regola del gioco, finanche nelle trasgressioni, regolate, della regola stessa del gioco: la buona creanza, il conservatorismo. È la celebre frase di Chamfort: «Il vicario di Curia può sorridere di un commento contro la religione, il vescovo riderne del tutto, il cardinale aggiungervi il suo motto [irridente] (1)». Più si sale nella gerarchia delle eccellenze, più si può giocare con la regola del gioco, ma ex officio, partendo da una posizione tale che non vi siano dubbi. L’umorismo anticlericale del cardinale è supremamente clericale.
L’opinione pubblica è sempre una sorta di realtà doppia. È ciò che non si può non invocare quando si vuole legiferare su terreni non riconosciuti. Quando si dice «C’è un vuoto giuridico» (straordinaria espressione) a proposito dell’eutanasia o dei bambini-provetta, si convocano persone che lavoreranno con piena autorità. Dominique Memmi (2) descrive un comitato di etica [sulla procreazione artificiale], la sua composizione con persone disparate - psicologi, sociologi, donne, femministe, arcivescovi, rabbini, eruditi, ecc. - che hanno come scopo quello di trasformare una somma di idioletti [ndt.: Zingarelli: l’insieme degli usi di una lingua caratteristico di un dato individuo, in un determinato momento] (3) etici in un discorso universale che riempie un vuoto giuridico, vale a dire che dà una soluzione ufficiale a un problema difficile che scombussola la società - la legalizzazione delle madri in affitto, per esempio. Se si lavora in questi tipi di situazione si deve invocare un’opinione pubblica. In questo contesto la funzione attribuita ai sondaggi si comprende molto bene. Dire «i sondaggi sono dalla nostra parte» equivale a dire «Dio è con noi» in un altro contesto [ndt.: allude al “Gott mit uns”?].
Ma i sondaggi sono fastidiosi, perché talora l’opinione illuminata è contro la pena di morte, mentre i sondaggi sono piuttosto per. Che fare? Si crea una commissione. La commissione costituisce un’opinione pubblica illuminata che istituirà l’opinione illuminata come opinione legittima nel nome dell’opinione pubblica - che d’altra parte dice il contrario o non ha opinioni (e questo è il caso in molti argomenti). Una delle proprietà dei sondaggi consiste nel porre alle persone problemi che esse non si pongono, nel fare infilare risposte a problemi che essi non hanno posto, quindi a imporre risposte. Non è una questione di sotterfugi nella costituzione dei campionari delle domane [dei sondaggi], è il fatto di imporre a tutti domande che si pongono all’opinione illuminata e, per questo, di produrre risposte di tutti su problemi che si pongono a qualcuno, quindi di dare risposte illuminate prodotte dalla domanda: si sono fatte esistere per le persone domande che per loro non esistevano, mentre ciò che costituiva per le persone una domanda è la domanda stessa.
Traduco man mano un testo di Alexander Mackinnon del 1828, tratto da un libro di Peel su Herbert Spencer (4). Mackinnon definisce l’opinione pubblica dando la definizione che sarebbe ufficiale se non fosse inconfessabile in una società democratica. Quando si parla d’opinione pubblica si fa sempre un doppio gioco fra la definizione confessabile (l’opinione di tutti) e l’opinione autorizzata ed efficiente, che è ottenuta come sottoinsieme ristretto dell’opinione pubblica definita democraticamente.
«Essa è quel parere su un soggetto qualsiasi che è mantenuto e prodotto dalle persone meglio informate, più intelligenti e più moralmente qualificate della comunità. Questa opinione è gradualmente diffusa e adottata da tutte le persone con un po’ di educazione e di sentimenti convenienti a uno Stato civilizzato». La verità dei dominanti diviene quella di tutti.
Mettere in scena l’autorità che autorizza a parlare
Negli anni 1880 si diceva apertamente all’Assemblea nazionale [ndt.: v. storia della Rivoluzione francese, fra le altre quella di Furet-Richet] ciò che la sociologia ha dovuto riscoprire, vale a dire che il sistema scolastico doveva eliminare i figli degli strati sociali più sfavoriti. All’inizio si poneva il problema che in seguito è stato completamente rimosso, poiché il sistema scolastico si è messo a fare, senza che glielo si chiedesse, quello che ci si aspettava da esso. Quindi, nessuna necessità di parlarne. L’interesse del ritornare sulla genesi è molto importante, perché vi sono, all’inizio, dibattiti dove si dicono a chiare lettere cose che, in seguito, appaiono come rivelazioni provocatorie dei sociologi.
Il riproduttore della versione ufficiale sa produrre - nel senso etimologico del termine: producere significa «portare alla luce» -, facendola divenire protagonista, qualcosa che non esiste (nel senso di sensibile, di visibile) e in nome della quale egli parla. Deve produrre ciò in nome di quello che egli ha diritto di produrre. Non può non renderla protagonista, non darle una forma, non fare miracoli. Il miracolo più ordinario, per un creatore verbale, è il miracolo verbale, la riuscita retorica; deve produrre la messa in scena di ciò che autorizza il suo dire, ovvero dell’autorità in nome della quale egli è autorizzato a parlare.
Ritrovo qui la definizione della prosopopea che cercavo poco fa: «Figura retorica mediante la quale si fa parlare e agire una persona che si vuole evocare, un assente, un morto, un animale, una cosa personificata». E nel dizionario, sempre un formidabile strumento, si trova questa frase di Baudelaire che parla della poesia: «Saper usare sapientemente una lingua equivale a praticare una specie di stregoneria evocatoria». Gli esperti in materia, coloro che manipolano una lingua erudita, come i giuristi e i poeti, devono mettere in scena l’immaginario referente nel nome del quale parlano e che essi realizzano nella sua forma parlandone; devono fare esistere ciò che essi esprimono e questo nel nome di che essi esprimono. Devono nello stesso tempo produrre un discorso e produrre la credenza nell’universalità del loro discorso, con la produzione sensibile (nel senso di evocazione degli spiriti, dei fantasmi - lo Stato è un fantasma...) di quella cosa che garantirà ciò che essi fanno: «la nazione», «i lavoratori», «il popolo», «il segreto di Stato», «la sicurezza nazionale», «la domanda sociale», ecc.
Percy Schramm ha dimostrato come le cerimonie di incoronazione erano il transfert, nell’ordine della politica, delle cerimonie religiose (5). Se il cerimoniale religioso può trasferirsi tanto facilmente nelle cerimonie politiche, attraverso le cerimonie dell’incoronazione, è perché si tratta, nei due casi, di fare credere che vi è un fondamento del discorso, che non appare come auto-fondatore, legittimo, universale, se non perché vi è teatralizzazione - nel senso di evocazione magica, di stregoneria - del gruppo unito e consenziente al discorso che l’unisce. Da qui il cerimoniale giuridico. Lo storico inglese E. P. Thompson ha insistito sul ruolo della teatralizzazione giuridica nel XVIII secolo inglese - che non si può comprendere completamente se non si vede ch’essa non è semplice apparato che si aggiunge: essa è costitutiva dell’atto giuridico (6). Dire di diritto vestiti modestamente è azzardato: si rischia di perdere la pompa del discorso. Si parla sempre di riformare il linguaggio giuridico senza mai farlo, perché è l’ultimo vestito: i re nudi non sono più carismatici.
L’autorità, o la malafede collettiva
Una delle dimensioni molto importanti della teatralizzazione è la teatralizzazione dell’interesse per l’interesse generale; è la teatralizzazione del convincimento dell’interesse per l’universale, del disinteresse dell’uomo politico - teatralizzazione della credenza del prete, della convinzione dell’uomo politico, della sua fede in ciò che fa. Se la teatralizzazione del convincimento fa parte delle condizioni tacite per l’esercizio della professione di esperto - se un professore di filosofia deve avere l’aria di credere alla filosofia -, si tratta dell’essenziale omaggio dell’autorità-uomo all’autorità; è ciò che occorre accordare all’autorità per essere un’autorità: occorre accordare il disinteresse, la fede nell’autorità, per essere una vera autorità. Il disinteresse non è una virtù secondaria: è la virtù politica di tutti i mandatari. Le scappatelle da curati, gli scandali politici sono il crollo di questa specie di credenza politica nella quale tutti sono in malafede, essendo questa credenza una sorta di malafede collettiva, nel senso sartriano: un gioco nel quale tutti mentono a sé stessi e mentono ad altri, sapendo che si mentono. È questo, l’autorità...
(1) Nicolas de Chamfort, Maximes et pensées, Paris, 1795.
(2) Dominique Memmi, « Savants et maîtres à penser. La fabrication d’une morale de la procréation artificielle », Actes de la recherche en sciences sociales, n°76-77, Paris, 1989, p. 82-103.
(3) Du grec idios, «particulier» : discours particulier.
(4) John David Yeadon Peel, Herbert Spencer. The Evolution of a Sociologist, Heinemann, Londres, 1971. William Alexander Mackinnon (1789-1870) eut une longue carrière de membre du Parlement britannique.
(5) Percy Ernst Schramm, Der König von Frankreich. Das Wesen der Monarchie von 9. zum 16. Jahrhundert. Ein Kapital aus der Geschichte des abendländischen Staates (deux volumes), H. Böhlaus Nachfolger, Weimar, 1939.
(6) Edward Palmer Thompson, «Patrician society, plebeian culture», Journal of Social History, vol. 7, n°4, Berkeley (Californie), 1974, p. 382-405.
* Le Monde Diplomatique, gennaio 2012 pagg. 1, 16, 17
Il debito di Kant con la Bibbia
Il filosofo tedesco è considerato il punto più alto dell’Illuminismo. Ma la sua produzione è ricca di riferimenti ai testi sacri. A cominciare da San Paolo
di Luca Valzesi (Corriere della Sera/La Lettura, 20.11.2011)
Fede e ragione hanno conosciuto nell’Illuminismo le più vive fasi del loro scontro immortale. O si pensa o si crede, e chi crede senza pensare rischia di rimanere intrappolato in un oscuro stato di minorità. Così professavano molti audaci esponenti del pensiero illuminato, figli di una modernità che aveva conosciuto il piano inclinato di Galileo e la mela newtoniana. Il nuovo modo di pensare, il nuovo metodo, doveva così ergersi a garante della scienza e abbattere col metodo matematico i castelli metafisici che tanto avevano fruttato al tentacolare soglio pontificio.
Immanuel Kant (1724-1804) è considerato il punto più alto dell’Illuminismo, chiave di volta nell’arco evolutivo del pensiero occidentale. Eppure la visualizzazione qui riportata mostra dei dati inaspettati. Il grafico vuole essere la rappresentazione di un lavoro di ricerca storiografica sulle fonti, che ha fatto emergere quanto sia profondo e significativo il debito kantiano con il Testo Sacro. La Bibbia, la fonte di sapere dogmatica per eccellenza, mostra qui il suo imponente contributo nel libero pensiero di Kant (di cui è appena uscita una biografia per Il Mulino a cura di Manfred Kuehn).
Il grafico è stato costruito nella figura di tre cerchi concentrici, il primo dei quali indica le opere prese in esame, collegandole al secondo dove vengono indicati i termini che in queste tradiscono un confronto con i testi sacri; il cerchio più esterno indica poi le specifiche sezioni bibliche citate da Kant indicandone i versetti. Ogni cerchio è costruito con un diametro direttamente proporzionale al numero di ricorrenze, rendendo infine evidente la maestosa presenza dell’epistolario paolino nel corpus kantiano. Numeri e ricorrenze, dati raccolti e catalogati ci mostrano così la vivacità dello scontro tra fede e ragione. Un conflitto, questo, che non vuole un vincitore, ma che cerca nella sua stessa potenza il principio del progresso e del sapere. Una realtà come questa ci dimostra che un pensiero, per quanto libero e forte, non rinnega la fede ma la interroga e la indaga, come una vicenda umana figlia della speranza e fonte di conoscenza.
L’ILLUMINISMO. Adottò il motto oraziano «Sapere aude». Kant: «Abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza»
IL PARLAMENTO. Luogo di una vera e propria rappresentazione che in quanto tale ha bisogno del pubblico
Il segreto della democrazia: non avere segreti
Una forma di governo che si fonda sulla piena visibilità del potere, incompatibile con l’esistenza degli arcana imperii cari agli assolutisti
Un intervento del 1988. Si intitola Democrazia e segreto il volume, in uscita da Einaudi (pp. XIX-53, 9), che raccoglie alcuni interventi di Norberto Bobbio (1909-2004), tra i quali una relazione tenuta nel marzo del 1988 a Sassari, nell’ambito di un convegno di studi gius-internazionalistici sul tema «Il trattato segreto». Di questo testo proponiamo qui uno stralcio. Pubblicato la prima volta in edizione fuori commercio come plaquette einaudiana alla fine del 2009, il libro è ora disponibile per tutti, con la prefazione ampliata di Marco Revelli.
di Norberto Bobbio (La Stampa, 16.10.2011)
In un articolo del 1981, intitolato L’alto e il basso. Il tema della conoscenza proibita nel ’500 e ’600 , Carlo Ginzburg prese lo spunto dal passo paolino ( Lettera ai Romani , 11, 20), che nella vulgata suona «Noli autem sapere, sed time», interpretato via via sempre più nel senso di un invito alla rinunzia alla superbia intellettuale e quindi come un ammonimento contro la eccessiva curiosità del sapiente, per fare qualche riflessione sui limiti assegnati alla nostra conoscenza dalla presenza di tre sfere invalicabili: gli arcana Dei , gli arcana naturae e gli arcana imperii , strettamente connessi tra di loro. Chi aveva trasgredito quei limiti era stato punito: esempi classici, Prometeo e Icaro. Ma potremmo aggiungere, forse il più familiare, almeno alla tradizione culturale italiana, l’Ulisse dantesco.
Le grandi scoperte astronomiche del Cinquecento rappresentarono una prima trasgressione del divieto di penetrare gli arcana naturae. Quali ripercussioni avrebbe avuto questa prima trasgressione della prescrizione di arrestarsi di fronte a una delle tre terre proibite, rispetto alla analoga prescrizione nelle altre due? Alla metà del Seicento, racconta Ginzburg, il cardinale Sforza Pallavicino acconsentì a riconoscere che era lecito penetrare i segreti della natura perché le leggi naturali sono poche, semplici e inviolabili. Ma non ammise che ciò che valeva per i segreti della natura valesse anche per i segreti di Dio e per quelli del potere, ritenendo che fosse un atto di temerità violare l’imperscrutabilità della volontà del sovrano non altrimenti che quella di Dio. Negli stessi anni Virgilio Malvezzi ripeté analogo concetto dicendo che «chi per isciogliere i fisici avvenimenti adduce Iddio per ragione è poco filosofo, e chi non lo adduce per iscioglimento di politici, è poco cristiano».
Per contrasto, il pensiero illuministico adottò come suo motto l’oraziano «Sapere aude». Alcuni anni or sono si svolse sulla Rivista storica italiana un dotto dibattito sull’origine del motto (di cui io avevo trovato un altro esempio nel saggio in difesa della codificazione scritto da Thibaut nel 1814) tra Luigi Firpo e Franco Venturi. Firpo risalì a Gassendi, citato dal Sorbière nel suo Diario.
Com’è noto, il motto campeggia nello scritto sull’illuminismo di Kant, che Kant traduce così «Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza». È in questo saggio che Kant afferma che l’illuminismo consiste nell’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso e che alla base dell’illuminismo sta la più semplice di tutte le libertà, la libertà di far uso pubblico della propria ragione. «Il pubblico uso della propria ragione deve essere libero, ed esso solo può attuare l’illuminismo fra gli uomini». Conducendo alle logiche conseguenze questa affermazione, si scopre che vengono a cadere i divieti tradizionali posti a guardia degli arcana imperii . Per l’uomo uscito di minorità, il potere non ha, non deve più avere, segreti. Perché l’uomo diventato maggiorenne possa fare pubblico uso della propria ragione è necessario che egli abbia una conoscenza piena degli affari di Stato. Perché egli possa avere una piena conoscenza degli affari di Stato, è necessario che il potere agisca in pubblico. Cade una delle ragioni del segreto di Stato: l’ignoranza del volgo che faceva dire dal Tasso a Torrismondo: «I segreti di Stato al folle volgo ben commessi non sono».
Spetta a Kant il merito di aver posto con la massima chiarezza il problema della pubblicità del potere e di averne dato una giustificazione etica. [...] Affinché questo principio della pubblicità possa essere non solo dichiarato dal filosofo ma attuato dal politico, in modo che, per esprimerci ancora una volta con Kant, non si dia ragione al detto comune «Questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica», occorre che il potere pubblico sia controllabile. Ma in quale forma di governo questo controllo può avvenire se non in quella in cui il popolo ha il diritto di prendere parte attiva alla vita politica?
Kant certamente non è uno scrittore democratico nel senso che per «popolo» intende non tutti i cittadini ma solo i cittadini indipendenti, ma quale sia il valore che egli attribuisce al controllo popolare sugli atti del governo risulta ancora una volta in tema di diritto internazionale là dove, affermando che la pace perpetua può essere assicurata soltanto da una confederazione di Stati che abbiano la stessa forma di governo repubblicana, ne dà la ragione col celebre argomento che solo con il controllo popolare la guerra cesserà di essere un capriccio dei principi, o, con l’espressione kantiana, una «partita di piacere».
Sino a che il potere del re era considerato come derivante dal potere di Dio, gli arcana imperii erano una diretta conseguenza degli arcana Dei . In uno dei suoi discorsi Giacomo I, principe assoluto e teorico dell’assolutismo, definì la prerogativa, cioè il potere regio non sottoposto al potere del parlamento, come un «mistero di Stato» comprensibile solo ai principi, ai re-sacerdoti che, come dèi in terra, amministrano il mistero del governo. Un linguaggio come questo in cui l’appello al mistero svolge un ruolo essenziale, e si sottrae ad ogni richiesta di spiegazione razionale sul fondamento del potere e del conseguente obbligo di obbedienza, è destinato a scomparire via via che il discorso del governo si sposta dall’alto al basso, e, per restare in Inghilterra, dalla prerogativa del re ai diritti del parlamento.
Il linguaggio esoterico e misterico non si addice all’assemblea di rappresentanti eletti periodicamente dal popolo, e quindi responsabili di fronte agli elettori, pochi o molti che siano, ma non si addiceva del resto neppure alla democrazia degli antichi, quando il popolo si riuniva in piazza ad ascoltare gli oratori e quindi a deliberare. Il parlamento è il luogo dove il potere viene rappresentato nel duplice senso che esso è il luogo dove si riuniscono i rappresentanti e dove, nello stesso tempo, avviene una vera e propria rappresentazione, che in quanto rappresentazione ha bisogno del pubblico e deve quindi svolgersi in pubblico. Coglie bene questo nesso tra rappresentanza e rappresentazione Carl Schmitt quando scrive: «La rappresentanza può aver luogo soltanto nella sfera della pubblicità. Non c’è alcuna rappresentanza se si svolga in segreto e a quattr’occhi [...]. Un parlamento ha carattere rappresentativo solo in quanto crede che la sua attività sia pubblica. Sedute segrete, accordi e decisioni segrete di qualsivoglia comitato possono essere molto significative ed importanti, ma non possono avere mai un carattere rappresentativo».
Con ciò non si vuol dire che ogni forma di segretezza debba essere esclusa: il voto segreto può essere in certi casi opportuno; la pubblicità delle Commissioni parlamentari non è riconosciuta. C’è anche chi, come Giovanni Sartori, nella nuova edizione, aggiornata ed arricchita, della sua teoria della democrazia, condanna la richiesta di una politica sempre più visibile, come poco consapevole delle conseguenze che la maggiore visibilità comporta. Ma non si può non riconoscere con Schmitt che «rappresentare» significa anche «rendere visibile e rendere presente un essere invisibile mediante un essere pubblicamente presente».
Possiamo concludere questa riflessione con Richard Sennett che nel suo aureo libretto sull’autorità, pubblicato nel 1980 (tradotto in italiano nel 1981) afferma: «Tutte le idee di democrazia che abbiamo ereditato dal XVIII secolo sono basate sulla nozione di un’autorità visibile». E cita il detto di Jefferson: «Il dirigente deve agire con discrezione ma non gli deve essere concesso di tenere per sé le sue intenzioni».
Così fu aggiunta al Decalogo una regola in più
di Armando Torno (Corriere della Sera, 22 ottobre 2011)
Esce l’ultimo volume, undicesimo della serie dedicata a «I Comandamenti», dell’editrice il Mulino. Il titolo Ama il prossimo tuo ricorda il supremo comandamento cristiano. Firmano il libro Enzo Bianchi e Massimo Cacciari. Il primo tratta nel suo saggio «Farsi prossimo con amore», il secondo analizza la «Drammatica della prossimità». Ed è dallo scritto di Cacciari che pubblichiamo un estratto nel quale il filosofo ricostruisce l’itinerario di amore (e di giustizia) che porta il cristiano a non odiare il nemico.
Diremo innanzitutto che il termine ebraico ricordato da Cacciari rea’ indica colui che è un compagno di gruppo, non scelto (può essere di etnia o un vicino appartenente a quelle dimensioni che ci precedono, come la famiglia, il clan, il popolo, il territorio).
Parola abbastanza generica, non troppo utilizzata nei libri profetici dove si preferisce il concreto, è però ben presente nella Bibbia, soprattutto nella formulazione del Decalogo. In esso quanto si riferisce al dovere sociale ha sempre come oggetto il prossimo. Per esempio, il divieto di uccidere o di commettere adulterio si riferisce al prossimo che sta alla fine di tutte le formulazioni.
Ora, l’avere unito questi due momenti sintetici, ovvero «Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Deuteronomio 6,5) e «Amerai il prossimo come te stesso» (Levitico 19,18), è la sintesi del Decalogo e di tutta la Tôrah.
Non a caso queste due dimensioni fondamentali delle «dieci parole» usano - e lo fanno soltanto questi due versetti - la formula «e amerai», we’ahavtà in ebraico. L’amore verso Dio della prima parte abbraccia la seconda, rivolta agli altri. I due amori tra l’altro, nella dimensione verticale e in quella orizzontale, si incrociano nel mezzo del Decalogo nel comandamento del sabato. Che diventa il baricentro della vita spirituale, teso tra Dio e il prossimo.
Aggiungere a questo progetto de il Mulino un comandamento è stata una sottolineatura doverosa. Non a caso esso rappresenta la sintesi dei cinque riguardanti il prossimo. Cacciari, scrivendo il percorso dell’amore verso gli altri, sino al nemico, ha anche offerto una sorta di genealogia della rivoluzione cristiana. Le cui radici sono ebraiche. Per questo l’ultima parola del Decalogo è «re’èka», ovvero «il tuo prossimo».
Perché il «prossimo tuo» ha rivoluzionato la fede
Il testo qui pubblicato è tratto dal saggio di Enzo Bianchi e Massimo Cacciari, «Ama il prossimo tuo» (pp. 144, 12), undicesimo e ultimo volume della collana «I Comandamenti» edita da il Mulino.
di Massimo Cacciari (Corriere della Sera, 22 ottobre 2011)
È necessario iniziare dai testi decisivi in cui risuona il mandatum novum: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e tutta la tua anima e tutte le tue forze e tutta la tua mente, e amerai il prossimo tuo come te stesso» (Luca 10,27). Il verbo agapán viene usato per indicare sia l’amore che è dovuto al Theós, che quello verso il prossimo, plesios. Anche la traduzione latina, proximus, rende bene l’importanza del termine: proximus è infatti un superlativo.
Non può trattarsi di un semplice «vicino». Il plesios in quanto proximus ci riguarda con una intensità che nessuna vicinanza, nessuna contingente contiguità potrebbero raggiungere. Neppure si tratta, certo, di una voce inspiegabilmente nuova, venuta da qualche misterioso altrove. Anche questo mandatum è pleroma, non katalysis della Legge, salvezza del nomos stesso nel suo radicale rinnovarsi.
Il precetto del pieno rispetto dei diritti dell’ospite, così come del compagno, dell’alleato, dell’amico era stato affermato, infatti, con pieno vigore dai profeti - e tuttavia il rea‘ del Primo Patto, che i Settanta traducono per lo più con plesios, anche quando designa lo straniero, lo concepisce sempre come legato a noi, o dal simbolo dell’ospitalità, o da rapporti di reciproca fiducia, garantiti da patti e forieri di accordi utili alle parti. Il timbro del mandatum evangelico «eccede» completamente questa dimensione. Già il fatto di accostare immediatamente l’amore per il Signore a quello per il prossimo costituirebbe vera novitas, anche se plesios qui traducesse esattamente rea‘.
Ciò che veniva comandato insieme ad altri doveri, qui completa addirittura la Prima Parola! Il Logos che sta a fondamento dell’intera vita di Israele non si esprimerebbe compiutamente, resterebbe imperfetto, se non significasse in se stesso amore per il prossimo. È evidente che plesios è chiamato, allora, in questo contesto, ad assumere una pregnanza in-audita - ma, ancor più, è evidente che la visione stessa di Dio muta per questa sua straordinaria prossimità al plesios.
Solo in un punto, forse, nel Primo Patto si giunge ad un’intuizione analoga - ed è del più grande significato che ciò avvenga in Giobbe. L’intero dramma di Giobbe potrebbe essere così interpretato: questo egli chiede, non che gli vengano risparmiati i supplizi (semmai le chiacchiere degli advocati Dei), ma che Dio gli si mostri rea‘, plesios, proximus (16,21): «come un mortale fa col suo rea‘ (plesion autoú)» egli vuole incontrarlo faccia a faccia e difendere l’uomo davanti a Lui.
Anche Mosè parlava col Signore come un uomo parla al suo rea‘ (Esodo 3,11), ma la scena in Giobbe è radicalmente mutata: in Esodo appare evidente la forma dell’accordo, anzi: dell’alleanza imperitura; rea‘ esprime qui una prossimità attuale e incontestabile; per Giobbe, invece, il Signore dovrebbe farsi rea‘; egli reclama che la relazione tra il mortale e il suo Dio divenga una relazione tra prossimi.
Si potrebbe però sostenere che Giobbe esiga la compagnia, l’amicizia, la vicinanza di Dio nel senso
di quella fiduciosa reciprocità, che il termine rea‘ sostanzialmente esprime. Egli vuole amare il suo
Signore come il prossimo, nell’aspetto del prossimo, ma ciò non equivale affatto a amare il prossimo
come il Signore. E se ciò avviene, è evidente che il significato che attribuivamo a rea‘, e al plesios
dei LXX, viene rivoluzionato. È stato detto: «Amerai il tuo prossimo (agapeseis ton plesion soú)»
ma vi è stato anche detto: odierai il nemico, odierai chi non è con te nel vincolo delle leggi
dell’ospitalità, nel senso più ampio del termine. Ma questo non lo sanno forse anche i gentili?
«Questo però io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per chi vi perseguita». In Luca il paradosso dell’estrema vicinanza tra amore per Dio e amore per il prossimo; in Matteo quello della relazione che viene a stabilirsi tra plesios e echthrós, tra proximus e inimicus. Il nemico non può essere amato sul fondamento di un patto, né in vista di qualche utile, né sperando reciprocità. E tuttavia va amato come plesios. Nel termine viene compresa, cioè, la massima lontananza. Prossimo, «superlativamente» prossimo, è lo stesso nemico (l’hospes che non solo si dichiara apertamente hostis, ma addirittura inimicus, echthrós).
Dura critica di Eco al Papa: non è un grande teologo
di Maria Antonietta Calabrò (Corriere della Sera, 20 settembre 2011)
«Non credo che Ratzinger sia un grande filosofo, né un grande teologo, anche se generalmente viene rappresentato come tale». Lo ha affermato, a due giorni dall’inizio del viaggio in Germania di Benedetto XVI, Umberto Eco intervistato dal quotidiano tedesco «Berliner Zeitung» in edicola ieri. «Le sue polemiche, la sua lotta contro il relativismo sono, a mio avviso, semplicemente molto grossolane - ha commentato Eco riferendosi ancora a papa Ratzinger - nemmeno uno studente della scuola dell’obbligo le formulerebbe come lui. La sua formazione filosofica è estremamente debole».
Per argomentare il suo giudizio Eco fa riferimento proprio alla questione del relativismo, che è stata il cuore dell’approccio di Ratzinger al declino della cultura occidentale e in particolare europea. In una risposta diretta al suo intervistatore Eco ha detto: «In sei mesi potrei organizzarle un seminario sul tema. E può starne certo: alla fine presenterei almeno venti posizioni filosofiche differenti sul relativismo. Metterle tutte insieme come fa papa Benedetto, come se ci fosse una posizione unitaria è, per me, estremamente naïf». Eco, infine, ha fatto anche un paragone con Giovanni Paolo II, sostenendo che dopo papa Wojtyla era difficile per Ratzinger essere una «big star».
«Naturalmente Eco è un grande filosofo ed un grande teologo!», commenta con una punta d’ironia Jorg Bremer, vaticanista della «Frankfurter Allgemeine Zeitung», che pochi giorni fa ha intervistato il Papa a Castelgandolfo. «Sono stato da Sua Santità e ho visto in anteprima insieme all’editore Manuel Herder la mostra che, organizzata con la Libreria editrice Vaticana, per la prima volta mette insieme le copertine di 600 diverse edizioni di opere pubblicate in 25 paesi nei 50 anni di attività scientifica dal teologo Joseph Ratzinger, un’esposizione che si sposterà presso la sede della casa editrice a Friburgo, in occasione della visita che il Papa compirà in Germania da giovedì a domenica. Mi chiedo: è questo il teologo e il filosofo con un’educazione troppo debole?». Bremer, che pure è di religione protestante, sostiene «che i due pilastri del pensiero di Ratzinger sono da una parte la teologia del dogma cattolico, dall’altro il metodo e la ratio di Platone» (il quale combatté tutta la vita per demolire l’edificio relativista dei sofisti e sostituirlo con un sistema che rendesse possibile una conoscenza certa).
La lotta contro il relativismo e le sue conseguenze che rendono «senza radici» la costruzione dell’Europa è stato il leitmotiv di tutto il pontificato di Ratzinger che già il 18 aprile 2005 nell’omelia della Missa pro eligendo Pontifice affermava: «Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare "qua e là da qualsiasi vento di dottrina", appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie».
DIO E’ SPIRITO, AMORE ("DEUS CHARITAS EST": 1 Gv. 4.8). SE UN PAPA TEOLOGO SCRIVE LA SUA PRIMA ENCICLICA, TITOLANDOLA "DEUS CARITAS EST" ("CHARITAS", SENZA "H"), E’ ORA CHE TORNI A CASA, DA "MARIA E GIUSEPPE", PER IMPARARE UN PO’ DI CRISTIANESIMO.
LA TRADIZIONALE "SCOLA" COSTANTINIANA DI BENEDETTO XVI: IL MAGISTERO DELL’INGANNARE IL PROSSIMO COME SE STESSO. Un’analisi di Giancarlo Zizola, con note
(...) Von Balthasar, era molto netto (...). Diceva che «al cristiano è vietato il ricorso ai mezzi d’azione specificamente mondani per un preteso incremento del regno di Dio in terra». Criticava l’integralismo di gruppi di «mammalucchi cristiani che aspirano a conquistare il mondo» (...)
FAME NEL MONDO?! CIBO MATERIALE E CIBO SPIRITUALE: UNA SOLA GRANDE SPECULAZIONE TEOLOGICO-POLITICA ED ECONOMICA! La Conferenza della Fao e l’intervento di Benedetto XVI. Una nota sull’evento - con appunti sul tema
L’identità di Cristo
di Franca D’Agostini (il manifesto, 30 marzo 2011)
Nel pontificato di Benedetto XVI si esprime un preciso disegno politico-culturale, che si annuncia chiaramente, e in tutta onestà, nella prima enciclica papale: la Deus caritas est, del 2006. Qui il pontefice dice senza mezzi termini che la dottrina sociale della Chiesa deve prendere il posto lasciato vuoto dalla koiné marxista; deve cioè sostituirsi al marxismo (un «sogno svanito») nella sua opera di mobilitazione convergente delle coscienze umane. Consapevole di quanto la fine del bipolarismo mondiale e la cosiddetta «crisi delle ideologie» abbiano portato e stiano portando a un nuovo orizzonte politico e ideologico, il papa ipotizza dunque che il messaggio cristiano, di cui la Chiesa è prima autorevole interprete, possa e debba porsi alla testa del mutamento.
La sua fisionomia politica
L’ipotesi sembra rischiosa e nello stesso tempo plausibile. Rischiosa perché potrebbe essere l’inizio di un tipo di teocrazia intellettuale che urta contro tutte le conquiste del pensiero politico moderno. Plausibile perché l’idea del marxismo, o più in generale dei movimenti libertari dell’Ottocento, come forme di secolarizzazione (o realizzazione-dissoluzione) del messaggio cristiano, è ben presente alla nostra memoria culturale. L’intera opera di Benedetto XVI - e prima ancora di Joseph Ratzinger - si colloca in equilibrio su questo discrimine.
Questo papa, che oltre a essere un teologo e un sacerdote è anche, chiaramente, un intellettuale pubblico, sembra aver lavorato soprattutto nella prima direzione. Ma per chiunque sia interessato alle sorti dell’umanità globalizzata, è utile vedere da vicino con quali argomenti si giustifica l’ipotesi. E in questo senso i due libri del papa su Gesù di Nazareth costituiscono un’ottima risorsa, perché affrontano il problema in modo diretto e preliminare, chiedendosi: che cosa ha detto e fatto Gesù? Che significato ha per noi la sua figura?
La politica di Gesù. Il primo libro, uscito nel 2007, riguarda il periodo Dal battesimo alla Trasfigurazione, il secondo, appena uscito (a cura di Pierluca Azzaro, e tradotto da Ingrid Stampa), va Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione (Libreria Editrice Vaticana). Questo secondo libro può definirsi decisamente politico.
Il suo tema dominante è la questione della regalità di Gesù Cristo. È questo in effetti il tema centrale dell’ultima fase della vita di Gesù, che incomincia con l’ingresso in Gerusalemme, tra la folla che lo acclama, culmina con il processo e la condanna, precisamente a causa del suo presentarsi come Re d’Israele e Figlio di Dio (bestemmia! urla Caifa, stracciandosi le vesti), e si conclude con il trionfo della Resurrezione.
Benedetto XVI avverte che Gesù separa religione e politica, in precedenza intrecciate, nella prospettiva tradizionale giudaica. Eppure, tutto il testo è destinato a mostrare che in Gesù si esprime una nuova forma di regno e di potere, un nuovo modo di essere giusti e concepire la giustizia, un nuovo tipo di agire pubblico. Dunque tutti gli aspetti del «politico» che riconoscono i filosofi: il potere (Schmitt, Foucault), la giustizia (Rawls), l’agire (Arendt), sono coinvolti.
Il punto è che questi aspetti sono praticati e concepiti da Gesù in modo nuovo. I termini «nuovo», «novità», dominano nel libro. Ma in che cosa consiste, esattamente, la novità? Il papa individua sostanzialmente due categorie-chiave: il sacerdozio, e la verità. Il potere di Gesù è potere sacerdotale, e comporta una speciale (nuova) visione del sacerdozio; il regno di Gesù è il regno (inedito) della verità.
La sua fisionomia rivoluzionaria
Gesù rivoluzionario? Intuitivamente, e al di là di ogni raffinata analisi teologica, si sarebbe portati a dire che la novità di Gesù consiste nel «rovesciamento» per cui si afferma il primato dei deboli, degli umili, dei poveri e degli oppressi (ciò di cui si lamentava appunto Nietzsche). La concezione cristiana della giustizia si presenta subito, nelle parole della più tranquilla tra i personaggi evangelici: Maria. Nel Magnificat appare con chiarezza un Dio che «rovescia i potenti dai troni», e «innalza gli umili», che «ricolma di beni gli affamati» e «rimanda a mani vuote i ricchi». E tutto ilseguito della narrazione conferma questa intuizione preliminare.
In ciò effettivamente il cristianesimo potrebbe facilmente sostituirsi al «sogno svanito» del marxismo, o forse correggerlo e integrarlo: è l’intuizione di Simone Weil, e di molti altri. Ma non è questa la via intrapresa dal Papa. Il tema di Gesù difensore dei poveri e dei perseguitati non è del tutto assente nell’analisi di Benedetto XVI. Però, insistendo in questa direzione, il Papa avrebbe dovuto sposare la causa delle teologie politiche, specie quelle della liberazione, o quelle femministe. Perciò, tanto nel precedente volume quanto nel secondo, l’autore ha una cura del tutto speciale non nel discutere, ma piuttosto nel disattivare e attenuare una simile ipotesi interpretativa.
In questo nuovo volume i conti con le teologie libertarie vengono fatti rapidamente, nella riflessione sulla «purificazione del Tempio», quando Gesù adirato rovescia i tavoli dei cambiamonete. Qui il Papa scrive che sì, il gesto di Gesù esprime uno zelo speciale, ma l’idea del riscatto promesso da Gesù così come è concepito dalle «teologie della rivoluzione» equivale all’idea di una legittimazione della violenza «come mezzo per instaurare un mondo migliore»; ed è pertanto inaccettabile nella luce del messaggio evangelico.
In realtà, non è necessario legittimare la violenza per riconoscere che l’integrità di Gesù indica agli esseri umani un modo preciso di essere giusti, e di promuovere la giustizia. Ma per Benedetto XVI questo e altri gesti fanno di Gesù non un rivoluzionario, né un «rovesciatore» di ordini e gerarchie, ma piuttosto un Sommo Sacerdote di un tipo particolare.
La chiave interpretativa del «sacerdozio» di Gesù è una costante in tutto il testo. Gesù è un sacerdote di tipo nuovo, che è venuto per servire, e non per essere servito, che compie la sua opera nel sacrificio di se stesso (in tal modo ponendo fine alla consuetudine dei sacrifici animali), e facendosi tramite della verità. Il suo zelo è amore per il Tempio, la casa di suo padre. Evidentemente questa prospettiva permette al Papa di allacciare meglio il Nuovo Testamento all’Antico, enfatizzando la continuità del Cristianesimo con l’ebraismo. Ma gli permette anche di minimizzare un aspetto che è altrimenti evidentissimo: l’anticlericalismo di Gesù, un altro dato ben noto, e inequivocabile.
In modo insistente, Gesù manifesta una netta e sistematica avversione per le gerarchie ecclesiastiche («guai a voi scribi e farisei!»), e proprio da queste viene condannato e ucciso. Prevede lui stesso che «dovrà soffrire molto» a causa degli «anziani, degli scribi, dei sacerdoti». E non è un caso che il suo unico e solo gesto violento siano proprio quei tavoli rovesciati, contro la corruzione del Tempio. Se davvero Gesù di Nazareth è da vedersi come un sacerdote di un genere particolare, allora il senso del suo sacerdozio non risiede soltanto nel «sacrificio di sé» ma anche (e piuttosto) nel lanciare l’autocritica della Chiesa come apparato sacerdotale. In questo senso, Caifa aveva le sue ragioni: Gesù costituiva un serio pericolo.
Il Regno della Verità. Ma il punto cruciale dell’analisi compare proprio al centro del libro. Il potere di Gesù è il potere della verità, scrive l’autore. «Gesù qualifica come essenza della sua regalità la testimonianza della verità». Anche in precedenti opere, e nel suo confronto con i filosofi «laici», Joseph Ratzinger ha fatto della verità il concetto-chiave del suo magistero. Resta però sempre in gioco la questione di Pilato: che cosa è la verità? Che cosa intende Benedetto XVI per «verità»?
Ora è interessante notare che la verità di cui si tratta non è tanto e propriamente «l’adeguamento dell’intelletto alla realtà oggettiva», come scriveva Giovanni Paolo II nell’Enciclica Fides et ratio, richiamando la formula tomistica dell’adaequatio intellectus et rei. L’autore del Gesù di Nazareth ci dice infatti che questa nozione di verità è appropriata, ma funziona solo per una verità parziale, umana, che è sempre imperfetta e incompiuta. Nell’ottica umana «la verità in tutta la sua grandezza e purezza non appare». Invece, la vera verità è qualcosa di cui dispone Dio, e vale allora la «formula lapidaria» di San Tommaso: Dio è la prima e somma verità. Dunque: gli umani non hanno vera verità, questa proviene da Dio e Dio solo ne dispone.
Una teocrazia intellettuale
In questi passi Benedetto XVI si rivela in perfetto accordo con molta filosofia laica del Novecento. Non soltanto, per esempio, con Hilary Putnam, che assegna la vera verità allo «sguardo di Dio», ma anche con il maestro di tutti i relativismi, Richard Rorty, che vede nel concetto stesso di veritàl’espressione di una visione «teologica» della conoscenza. L’unica variazione è che mentre per Putnam (ebreo) la verità resta l’enigma inaccessibile di Dio, e per Rorty non c’è verità perché non c’è nessun Dio, per Benedetto XVI Dio c’è, e la sua verità è accessibile, ma attraverso Gesù Cristo, e cioè attraverso la Chiesa, interprete autorizzata del suo messaggio.
Esattamente come i relativisti, Benedetto XVI ritiene che le facoltà umane non abbiano accesso alla verità. «Dare testimonianza alla verità» non significa dunque per lui dire le cose come stanno, ma piuttosto: «mettere in risalto Dio e la sua volontà di fronte agli interessi del mondo e delle sue potenze». Le conseguenze sono molto problematiche, tanto sul piano politico quanto sul piano dottrinale. Qui ha origine, in sordina ma inequivocabilmente, la teocrazia intellettuale di cui si diceva. «La moderna dottrina dello Stato», scrive il Papa, riconosce che il mondo umano non dispone di verità; ma allora: «quale giustizia sarà possibile», visto che non ci sono criteri per distinguere la vera giustizia? Ecco dunque la Chiesa venire in soccorso degli Stati smarriti, senza fondamenti e senza vero: il messaggio cristiano deve dettare agli organismi statali la regola del vero, perché evidentemente «senza verità l’uomo non coglie il senso della sua vita, e si lascia, in fin dei conti, il campo ai più forti».
L’obiezione però è fin troppo facile: se i contenuti della verità sono stabiliti dalla dottrina ufficiale della Chiesa, quali garanzie abbiamo che questa verità sia esente dalla parzialità e dal difetto che per definizione affliggono ogni tentativo umano di sapere? Chi ci assicura che questa pretesa verità non sia ancora la voce «del più forte»? Se si ignorano queste perplessità siamo di nuovo daccapo: siamo al Sinedrio che non fa trionfare affatto la verità, ma anzi, tutto al contrario: manda a morte Gesù.
L’altra verità. Si può in effetti sostenere che proprio la difesa della verità è un dato intrinseco al messaggio di Gesù, e che nel cristianesimo la verità diventa davvero «categoria politica». È essenziale però chiarire che forse non si tratta della summa veritas, come ritiene Joseph Ratzinger, ma più semplicemente: della verità umile e banale, per cui è vero significa così stanno le cose. In questa prospettiva molto cambia.
In primo luogo, spostare l’accento sul potere della verità significa dire: la realtà, proprio quella realtà che urta i nostri corpi, ferendoli, quella realtà fisica che ci fa morire, e soffrire, ed è teatro delle guerre, dell’ingiustizia, e dell’oppressione dei più deboli, ha un potere inequivocabile e primario nelle nostre vite. Questa idea schiettamente naturalistica della vita umana è ben presente nell’operare di Gesù, non per nulla attento a curare i corpi, e pronto a commuoversi per la morte di Lazzaro e per il dolore degli esseri umani che incontra. Verità è la proprietà delle parole (umane) che dicono onestamente e con giustizia questi fatti. Di qui l’estrema importanza del logos - parola, ragione, discorso - per il vangelo di Giovanni.
In secondo luogo, questa verità, cioè dire l’urto dei fatti contro chi vorrebbe occultarli per nascondere e legittimare l’ingiustizia, non è un requisito di Dio, ma degli uomini. Come dice J. C. Beall, in Spandrels of Truth (Oxford University Press, 2009), la verità è una dotazione caratteristica del linguaggio umano. È il nostro linguaggio, che occulta, devia, sbaglia, e ha bisogno di chiarire e generalizzare, a richiedere il predicato ’è vero’. Dio non ne ha alcun bisogno. Dunque il quadro si rovescia: la verità è affare degli uomini, non di Dio, e non per nulla Gesù la difende e ne fa il centro del suo potere: esattamente perché il suo potere è attento agli uomini, e alle loro specifiche fragilità.
In terzo luogo: anche il bisogno del papa di distinguere la rivoluzione di Gesù dalla violenza degli «zeloti», o dei «terroristi», da questo punto di vista potrebbe ricavarne qualche vantaggio. Infatti richiamarsi alla verità, che in definitiva è una proprietà di discorsi, e non di azioni, significa che la trasformazione e l’emancipazione avvengono anzitutto attraverso la parola, non attraverso la violenza. Ecco dunque il senso del potere salvifico del logos come potere non violento, «senza eserciti né legioni».
In questa prospettiva, si direbbe, il lavoro politico di Gesù è equivalente al lavoro politico svolto dai «Tribunali della verità» sorti in Sud Africa contro l’apartheid; o equivalente a tutte le discussioni che oggi riguardano la giustizia globale, ai faticosi tentativi di cambiare le cose con organismi nonsolo nominalmente «umanitari», o alla «parola contro la mafia» di Roberto Saviano e di altri. È vero allora che, intesa in questo modo, la luce innovativa di Gesù Cristo, da quegli sperduti paesi della Palestina «cresce» ed è cresciuta «lungo i secoli», come scrive il papa.
Ma certo la distorsione che la lettura di Benedetto XVI imprime alle interpretazioni libertarie del Vangelo complica la situazione. La parola di Gesù viene assorbita nella voce della Chiesa, delle sue istituzioni dottrinali, dei suoi sacerdoti; il potere eversivo della verità libera dai vincoli delle convenzioni diventa potere non di Dio, ma dei suoi interpreti autorizzati. In questo senso, il cristianesimo non è più l’erede e il sostituto del «sogno svanito», ma il suo affossamento, la sua definitiva cancellazione dalla storia. Il rischio che con ciò si cancelli anche la promessa del Cristianesimo stesso, e se ne oscuri la luce, deve però essere preso in seria considerazione.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant
Il Gesù «storico» e le verità della chiesa
di Enzo Mazzi (il manifesto, 13 marzo 2011)
Rivela un affanno il nuovo libro su Gesù con cui papa Ratzinger si adopera a mostrare e dimostrare la storicità di Cristo e in particolare della morte-resurrezione di lui. Lo ammette chiaramente quando scrive: «La barca della Chiesa ... spesso si ha l’impressione che debba affondare». Ed ecco l’importanza della realtà pienamente divina e pienamente umana del Salvatore Gesù. È Gesù Cristo l’unico salvatore e la chiave della salvezza universale. Ed è la Chiesa cattolica governata dal papa e dai vescovi uniti al papa la custode unica e universale per tutti i secoli della chiave affidatale da Gesù. Tutta la ricerca umana di senso della vita e di salvezza materiale e morale sarebbe completamente inutili senza il Dio che si fa uomo e offre in sacrificio la sua vita.
Sono due millenni che queste «verità», questi assoluti, vengono ripetuti identici, declinati in codici espressivi diversi tradotti in tutte le lingue del mondo ma sempre nella sostanza uguali a se stessi: è Gesù l’unico salvatore universale attraverso il suo sacrificio perenne.
Di fatto del Gesù storico non si sa quasi nulla. Ormai è un dato acquisito nella teologia biblica non servile. I Vangeli non sono la storia di Gesù ma la riflessione teologica in forme narrative o rituali delle comunità cristiane del primo secolo in ambiente pagano. Inoltre è accertato ormai che le più antiche testimonianze scritte non sono i Vangeli canonici. Sono le tradizioni dei cosiddetti loghia, cioè dei «detti» di Gesù. Che prima sono stati tramandati oralmente nell’ambiente palestinese e poi sono stati inseriti nei Vangeli. Quei «detti» di Gesù sono «il Vangelo prima dei Vangeli». Poi il Vangelo dei detti di Gesù è andato perso perché gli scribi smisero di farne copie in conseguenza della fissazione autoritativa del canone.
Oggi si direbbe sbrigativamente che ha subito una censura. È stato recuperato o riscoperto nel 1838,
attraverso un delicato lavoro di filologia, incastonato nei Vangeli canonici. È stato pubblicato solo
nel 2007 in italiano dalla Queriniana in un volume a cura di un grande specialista,
James M.
Robinson: I detti di Gesù.
Questo ritardo di quasi due secoli la dice lunga sulle resistenze poste
dall’autorità ecclesiastica alla pubblicazione di un testo storico che mette in crisi le certezze
dogmatiche.
Perché è importante questo Proto-Vangelo? Perché l’immagine di Gesù che se ne ricava è molto diversa da quella fissata nelle narrazioni canoniche dei Vangeli. E soprattutto è diversa l’immagine che si ricava del cristianesimo nascente. Non ci sono che nel sottofondo racconti di miracoli e soprattutto non c’è notizia dei fatti della nascita, della morte e della resurrezione. Questa assenza di eventi così fondamentali per i Vangeli canonici e poi per il dogma è impressionante.
L’accento è posto non sulla persona di Gesù ma sul messaggio e sul movimento messianico di
impegno per la realizzazione del Regno di Dio. Il quale tradotto in termini moderni si potrebbe
definire come movimento per un «mondo nuovo possibile».
Il Gesù del Proto-Vangelo è soprattutto un «figlio dell’uomo», che alla lettera può significare «Figlio dell’umanità», parte di un movimento storico di liberazione radicale. C’è in quel documento solo un’eco flebile del processo di mitizzazione della persona di Gesù che è appena agli inizi e che però presto sfocerà nella divinizzazione. È assente l’essere divino-umano, il dio incarnato che si sacrifica per redimere l’umanità peccatrice. Il quale invece sarà poi offerto soprattutto dalla Chiesa di Paolo al mondo pagano avido di sacro e di salvezza mistica.
Ovviamente le persone all’origine di questo Proto-Vangelo, che di bocca in bocca si tramandavano i detti di Gesù, conoscevano la morte di Gesù. Ma per loro la morte del profeta non aveva il significato di sacrificio. Non si sentivano impegnati ad annunciare la morte. «Seguimi e lascia che i morti seppelliscano i loro morti» è un’affermazione fondamentale del Proto-Vangelo. Non la morte né il sacrificio né il miracolo aveva cambiato la loro vita. Ma il messaggio culturalmente rivoluzionario di Gesù aveva dato un senso nuovo alla loro esistenza; in quello e non nel miracolo trovavano il senso della resurrezione; quel messaggio e l’esperienza di vita che c’era dietro si sentivano impegnati ad annunciare perché cambiasse la vita di molti e trasformasse radicalmente la società dando vita a un mondo nuovo.
La teologia sacrificale del Cristo che salva in quanto Figlio di Dio morto e risorto verrà dopo, quando il cristianesimo dovrà rivolgersi al mondo pagano. Sarà tale teologia la carta vincente, il fulcro del trionfo della nuova religione. Un trionfo però contestato da persone, anche sinceramente credenti, con senso critico, lungo tutta la storia, dall’antichità fino ad oggi, quale tradimento e devitalizzazione del Dna generativo del movimento di Gesù.
Dalla cattedra al cortile
di Piero Stefani (Il pensiero della settimana, 26 febbraio 2011)
Una delle intuizioni più profonde del card. Martini fu di istituire la «cattedra dei non credenti». L’esempio di Milano fu imitato da molti, in modi non sempre felici. Invero, nel succedersi delle edizioni, anche nella diocesi ambrosiana l’iniziativa perse progressivamente di smalto. Assunse, infatti, più l’aspetto di «liturgia culturale» che di vero e proprio confronto. Ciò non toglie la geniale originalità dell’iniziativa.
Il suo fulcro era ben espresso dal titolo scelto. Un vescovo, a cui spetta, per definizione, la cattedra, dava voce a insegnamenti che provengono dall’esterno e giungono fino all’interno. Per comprenderlo occorre aver a mente che l’impostazione degli incontri non si concentrava sul confronto tra persone dotate o sprovviste di fede. Questo aspetto non era escluso, ma non era il più significativo.
La qualifica di «non credente» è spesso riduttiva o addirittura impropria, dominata com’è da una pura negazione. Nella «cattedra» era invece propria; e lo era perché il senso più autentico della proposta stava nell’affermare che le ragioni più serie della non credenza venivano considerate una forma di interlocuzione, esterna e interna, indispensabile perché ci fosse una fede matura. Analogamente la testimonianza di un credente pensoso non era avvertita priva di significato da parte di chi, in virtù della sua riflessione e della sua coscienza, era indotto a negare l’esistenza di una realtà trascendente o, quanto meno, nutriva dubbi al suo riguardo.
Si comprende, allora, sia perché Martini parlasse del dialogo con il non credente che è in noi, sia perché dichiarasse che la vera distinzione non era quella che sussiste tra credenti e non credenti, ma quella che divide le persone pensanti dai non pensanti. Si potrebbe tentare una sintesi: le persone pensanti sono coloro che danno spazio dentro di sé alle ragioni dell’«altro»; lo fanno non per consegnarsi all’incertezza, ma per render più mature le proprie convinzioni. Ciò avviene solo nel caso in cui il confronto sia sincero e alieno tanto da interessi di parte quanto da convenienze reciproche; condizioni queste ultime ormai estremamente rare.
In luogo della «cattedra dei non credenti», la Chiesa universale ora lancia un’iniziativa chiamata «cortile dei gentili». Affidata al Pontificio Consiglio della Cultura (prefetto card. Ravasi), il «cortile» è stato preinaugurato un paio di settimane fa a Bologna; mentre l’avvio ufficiale avverrà a Parigi verso fine marzo.
La scelta dell’espressione è stata spiegata da Benedetto XVI nel suo discorso tenuto alla Curia romana a fine 2009. Si prendono le mosse dal fatto che, sentendo parlare di «nuova evangelizzazione», persone agnostiche o atee (le quali «devono stare a cuore a noi come credenti») forse si spaventano. Tuttavia in loro rimane presente la questione Dio. Come primo passo dell’evangelizzazione bisogna perciò tener desta la loro ricerca di Dio. A tal proposito, aggiunge Ratzinger, vengono in mente le parole di Gesù che, sulla scorta di Isaia, presentano il tempio di Gerusalemme come casa di preghiera per tutti i popoli (Mc 11,17; Is 56,7).
Gesù pensava «al cosiddetto cortile dei gentili, che sgomberò da affari esteriori perché ci fosse lo spazio per i gentili che lì volevano pregare l’unico Dio, anche se non potevano prender parte al mistero, al cui servizio era riservato l’interno del tempio». Si pensava cioè a persone che conoscono Dio solo da lontano: «che desiderano il Puro e il Grande anche se Dio rimane per loro il “Dio ignoto” (cfr. At 17,23)». «Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorte di “cortile dei gentili” dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa. Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto».
È noto che l’esegesi biblica non ha alcun peso nei documenti ufficiali della «Chiesa docente», perciò non val
la pena di impegnarsi a mostrare quanto sia inesatta l’interpretazione del passo evangelico qui proposta. Il
punto serio è altrove; esso sta nel fatto che, in questa immagine, la Chiesa prende il posto del tempio (e di
Israele). La sua cura e generosità sono però tali da aprire una dependance in cui è concessa ospitalità ad
alcuni incerti ricercatori di Dio. Nel suo interno, la Chiesa celebra il mistero e nessuna crepa solca il suo
levigato seno. In questa prospettiva sarebbe un vero e proprio ossimoro parlare della parte non credente che è
in noi e sarebbe addirittura inconcepibile che le ragioni serie del dubbio e della negazione siano meritevoli di
ascolto al fine di liberare la propria fede da sovrastrutture improprie.
In realtà, però, a dover essere purificato
non è solo il cortile, è anche e soprattutto l’interno del tempio.
In definitiva, il «cortile» che si sta inaugurando presuppone un dialogo senza ascolto. A quanto si può immaginare (e l’impressione è confermata dalla prime avvisaglie), nessuno accederà a essa per mettersi in discussione; dichiaratamente non lo faranno mai i credenti (si può, dunque, già ipotizzare quale sarà la lista degli invitati). Se i fatti confuteranno queste previsioni, saremo ben lieti di ricrederci.
Del resto mettersi in discussione è difficile per tutti. Le drammatiche vicende libiche di queste ore dovrebbero indurre l’Italia a mobilitarsi (ma non ne vediamo tracce consistenti) e ad aprire un profondo ripensamento a proposito della sua storia (in Cirenaica Badoglio e Graziani non si comportarono meglio di quanto faccia Gheddafi nei suoi ultimi giorni di potere), del suo passato prossimo e dei suoi affari presenti. Sono considerazioni che non valgono per la Grecia, Cipro e Malta.
Questi ultimi giorni dimostrano, ancora una volta, che anche ottanta o settanta anni fa i governi e le società erano fatti di uomini esattamente come siamo noi che peraltro siamo, volenti o nolenti, molti più informati di allora. In Libia si compiono stragi e qui ci si preoccupa del prezzo del petrolio e della possibile invasione degli immigrati; mentre, quando si passa ad altro compartimento stagno, si riesce, per esempio, persino a scandalizzarci che alla fine degli anni trenta l’Inghilterra mandataria contingentasse l’immigrazione ebraica in Palestina.
PEDOFILIA
Papa: "Siamo sconvolti da abusi preti
Il manto della Chiesa è nella polvere"
Benedetto XVI descrive il 2010 come "l’anno orribile", e cita Santa Iledebranda di Bingen per la quale "il restare aperte delle ferite di Cristo è la colpa dei sacerdoti". "Siamo consapevoli della gravità. Dobbiamo accogliere questa umiliazione come un’esortazione al rinnovamento" *
CITTA’ DEL VATICANO - L’anno sacerdotale che si sta concludendo ha "sconvolto" il Papa e la Chiesa che sono venuti a conoscenza della "dimensione per noi inimmaginabile" degli abusi "commessi da sacerdoti contro i minori", abusi che "stravolgono il sacramento al suo contrario: sotto il manto del sacro feriscono profondamente la persona umana nella sua infanzia e le recano un danno per tutta la vita". Lo ha detto il Papa nel discorso alla Curia in occasione degli auguri natalizi.
Davanti allo scandalo degli abusi sessuali commessi dai preti, è necessario un cambiamento, ha continuato il Papa. "Dobbiamo accogliere questa umiliazione come un’esortazione alla verità e una chiamata al rinnovamento". "Negli anni Settanta, la pedofilia venne teorizzata come una cosa del tutto conforme all’uomo e anche al bambino", ha ricordato Benedetto XVI, sottolineando che tale visione permissiva "faceva parte di una perversione di fondo del concetto di ethos" a causa della quale "persino nell’ambito della teologia cattolica si asseriva che non esisterebbero né il male in sè, né il bene in sè. Esisterebbe soltanto un ’meglio di’ e un ’peggio di’. Niente sarebbe in se stesso bene o male. Tutto dipenderebbe dalle circostanze e dal fine inteso. A seconda degli scopi e delle circostanze, tutto potrebbe essere bene o anche male".
Secondo il Pontefice, "gli effetti di tali teorie sono oggi evidenti". "Siamo consapevoli - afferma - della particolare gravità di questo peccato commesso da sacerdoti e della nostra corrispondente responsabilità. Ma non possiamo neppure tacere circa il contesto del nostro tempo in cui è dato vedere questi avvenimenti".
"Il volto della Chiesa è coperto di polvere, ed è così che noi l’abbiamo visto. Il suo vestito è strappato, per la colpa dei sacerdoti". Benedetto XVI ha descritto così il 2010 orribile della Chiesa Cattolica, rivelando di aver ritrovato in una visione di Santa Iledebranda di Bingen per la quale "il restare aperte delle ferite di Cristo è la colpa dei sacerdoti".
"Essi - scrisse la mistica tedesca nel 1170 - stracciano la mia veste poiché sono trasgressori della Legge, del Vangelo e del loro dovere sacerdotale. Tolgono lo splendore al mio mantello, perchè trascurano totalmente i precetti loro imposti. Insudiciano le mie scarpe, perchè non camminano sulle vie dritte, cioè su quelle dure e severe della giustizia, e anche non danno un buon esempio ai loro sudditi".
Tutto questo, afferma Papa Ratzinger parlando a cardinali e vescovi della Curia Romana riuniti nella prestigiosa Sala Regia del Palazzo Apostolico, "così come lei l’ha visto ed espresso, l’abbiamo vissuto - ha detto il pontefice - quest’anno. Siamo stati sconvolti quando, proprio in quest’anno e in una dimensione per noi inimmaginabile, siamo venuti a conoscenza di abusi contro i minori commessi da sacerdoti, che stravolgono il Sacramento nel suo contrario: sotto il manto del sacro feriscono profondamente la persona umana nella sua infanzia e le recano un danno per tutta la vita".
Nel lungo passaggio di Santa Ildegarda di Bingen, il pontefice ha citato: "Le stimmate del mio sposo rimangono fresche e aperte, finché sono aperte le ferite dei peccati degli uomini. Proprio questo restare aperte delle ferite di cristo è la colpa dei sacerdoti. Essi stracciano la mia veste poiché sono trasgressori della legge, del vangelo e del loro dovere sacerdotale. Tolgono lo splendore al mio mantello, perché trascurano totalmente i precetti loro imposti. Insudiciano le mie scarpe, perché non camminano sulle vie dritte, cioè su quelle dure e severe della giustizia, e anche non danno un buon esempio ai loro sudditi. Tuttavia trovo in alcuni lo splendore della verità".
Per Benedetto XVI, "solo la verità salva". Per questo, ha sottolineato rivolto a cardinali e vescovi impegnati nel governo centrale della Chiesa, "dobbiamo interrogarci su che cosa possiamo fare per riparare il più possibile l’ingiustizia avvenuta. Dobbiamo chiederci che cosa era sbagliato nel nostro annuncio, nell’intero nostro modo di configurare l’essere cristiano, così che una tale cosa potesse accadere. Dobbiamo trovare una nuova risolutezza nella fede e nel bene. Dobbiamo essere capaci di penitenza. Dobbiamo sforzarci di tentare tutto il possibile, nella preparazione al sacerdozio, perché una tale cosa non possa più succedere".
Nel discorso di oggi, Papa Ratzinger ha infine ringraziato "di cuore tutti coloro che si impegnano per aiutare le vittime e per ridare loro la fiducia nella Chiesa, la capacità di credere al suo messaggio". "Nei miei incontri con le vittime di questo peccato - ha detto - ho sempre trovato anche persone che, con grande dedizione, stanno a fianco di chi soffre e ha subito danno. E’ questa l’occasione per ringraziare anche i tanti buoni sacerdoti che trasmettono in umiltà e fedeltà la bontà del Signore e, in mezzo alle devastazioni, sono testimoni della bellezza non perduta del sacerdozio".
"L’Apocalisse di san Giovanni - ha aggiunto il Papa teologo - annovera tra i grandi peccati di Babilonia, simbolo delle grandi città irreligiose del mondo, il fatto di esercitare il commercio dei corpi e delle anime e di farne una merce". L’appello del Papa è diretto a "tutte le persone con responsabilità politica e religiosa perché fermino la cristianofobia". I leader, ha chiesto ricordando la situzione in Medio Oriente, "si alzino a difendere i profughi e i sofferenti e a rivitalizzare lo spirito di riconciliazione".
* la Repubblica, 20 dicembre 2010
L’alternativa si chiama Gesù
di Vittorio Cristelli (vita trentina, 13 febbraio 2011)
È in atto in questi giorni a Dakar, capitale del Senegal, il Forum Sociale Mondiale e dentro lo stesso (non più collaterale come in passato) il Forum Mondiale di Teologia e Liberazione, animato da ben novanta teologi (uomini e donne) di tutto il mondo. Siamo in un momento cruciale perché la crisi non è solo quella economica ma è pure culturale e religiosa. Si tratta di individuare un’alternativa all’egemonia neoliberista che si sta rivelando fallimentare e tanti disastri ha provocato e provoca. In crisi sono anche le religioni, specie di fronte al multiculturalismo di fatto che le interpella.
E si impone grande, epocale la domanda: di quale anima ha bisogno il mondo per vivere in maniera più degna e con maggiore speranza? In tutti i campi si è in affannosa ricerca di sistemi diversi, di vie nuove per uscire dall’impasse in cui è piombato il mondo occidentale. Anche le religioni si trovano in difficoltà sia perché non più ascoltate come maestre di vita, sia per la varietà culturale, etnica e di visioni del mondo che le interpellano.
Il teologo Josè Antonio Pagola presenta come risposta la figura di Gesù, ma non quello accaparrato dalle religioni cristiane, bensì il Gesù considerato "patrimonio dell’umanità". Dice Pagola che oggi ci sono persone che non sono neppure credenti, ma che affermano: "Gesù non appartiene solo ai cristiani". Altre dicono: "Gesù è senza dubbio il meglio che la storia ha offerto e sarebbe una tragedia se un giorno l’umanità lo dimenticasse". E ancora: "Gesù ha inaugurato non solo una nuova religione, ma una nuova era’. E qual è il progetto di Gesù? Si chiama "’Regno di Dio".
A questo punto mi urge un ricordo personale. Eravamo nell’"Anno dello Spirito Santo", proclamato da Papa Wojtyla in preparazione al Giubileo del 2000. In una conferenza ai consigli pastorali di Trento mi son permesso di dire che la Chiesa è penultima rispetto al Regno di Dio da realizzare già su questa terra. Ci fu una reazione vivacissima e qualcuno chiamò in causa La stessa Curia perché intervenisse a precisare e confutare l’eresia". Io consegnai la mia conferenza scritta ed ebbi la soddisfazione di sentirmi dire dal teologo e biblista incaricato di verificare, che non solo la Chiesa è penultima, ma anche Gesù Cristo è penultimo rispetto al Regno di Dio. Lui stesso infatti è venuto per portare e realizzare sulla terra il Regno di Dio.
Il teologo Pagola argomenta che oggi tutti i ricercatori pensano che il Regno di Dio sia stato "la vera passione di Gesù, il nucleo e il cuore del suo messaggio”. E soggiunge che fu pure la ragione per cui è stato condannato a morte. Tornando all’oggi, sentenzia: "Il Regno di Dio è l’alternativa di Gesù". Ma quali sono le caratteristiche costitutive di questo Regno? La prima è la compassione come principio di azione e l’unico modo per somigliare a Dio. La seconda è la dignità degli ultimi da prendere come meta dell’agire. La terza è l’azione terapeutica come programma. E applica Pagola: "Quando si lotta contro la sofferenza, quando si allevia il dolore, quando si offre una vita più sana, lì sta operando il Regno di Dio". E infine il perdono come orizzonte. Cioè l’amicizia, l’accoglienza verso tutti, anche quelli che ignorano Dio o lo rifiutano. Il teologo conclude rilevando che le religioni sono in crisi, ma Gesù no, anzi, interessa più che mai. E ammonisce i cristiani dicendo: "Siamo distratti da molte cose, squalificandoci e condannandoci gli uni gli altri all’interno della stessa Chiesa senza ascoltare Gesù’. Che ci suggerisce l’alternativa a questo mondo in crisi.
Sarà un nuovo cristocentrismo, ma che si traduce in cosmocentrismo, quello che il summit teologico di Dakar si propone per rispondere alla globalizzazione.
Dio, rischio della società globalizzata
di Ulrich Beck (La Stampa, 19.112010)
Con tutto il suo umanesimo la religione porta in sé una tentazione totalitaria. Dall’universalismo della religione nasce una fraternità che trascende classe sociale e nazionalità, ma anche la demonizzazione degli altri pensieri religiosi, una tendenza che attraversa tutta la storia - e che risale a circa duemila anni fa, alle origini delle religioni monoteiste, Cristianesimo, Ebraismo, Islam. Dio può in uguale misura rendere civili e imbarbarire gli esseri umani. Se vogliamo comprendere la religione nel mondo moderno dobbiamo capire il paradosso della globalizzazione della religione.
La religione non è solo incidentalmente globale nella sua espansione, un sottoprodotto della globalizzazione di strutture più potenti come i mass media, il capitalismo e lo Stato moderno. Piuttosto la formazione e la diffusione globale della religione in generale, e delle religioni monoteiste in particolare, è una caratteristica essenziale che definisce quelle religioni fin dai loro inizi. In effetti, alcune religioni sono «attori globali» da più di duemila anni. Pertanto, al fine di comprendere il gioco del meta-potere che ridefinisce il potere nell’era globale, dobbiamo prendere in considerazione, oltre al capitale globale, ai movimenti della società civile, ai protagonisti statali e alle organizzazioni internazionali, il ruolo delle religioni come forze modernizzanti o antimodernizzanti nella società mondiale post-secolare.
Per la religione un postulato è assoluto: la Fede - a suo confronto tutte le altre differenze sociali e contrapposizioni non sono importanti. Il Nuovo Testamento dice: «Tutti gli uomini sono uguali davanti a Dio». Questa uguaglianza, questo annullamento dei confini che separano le persone, i gruppi, le società, le culture è il fondamento sociale delle religioni (cristiane). Un’ulteriore conseguenza, tuttavia, è questa: una nuova fondamentale distinzione gerarchica è stabilita nel mondo con lo stesso valore assoluto delle distinzioni politiche e sociali che sono state annullate: la distinzione tra credenti e non credenti. Ai non credenti (sempre secondo la logica di questa dualità) vengono negate l’uguaglianza e la dignità di esseri umani. Le religioni possono costruire ponti tra le persone dove esistono gerarchie e frontiere; allo stesso tempo aprire nuove voragini determinate dalla fede là dove prima non ve n’erano.
Fu Paolo, un Ebreo ellenizzato che, più di ogni altra figura nel movimento nato attorno a Gesù, trasformò il cristianesimo da setta ebraica a forza religiosa globale con una visione universalistica. Fu lui ad abbattere i muri: «Non c’è né Ebreo né Greco, non c’è né schiavo né libero, non c’è né maschio né femmina». L’universalismo umanitario dei credenti si basa sulla identificazione con Dio - e su una demonizzazione degli avversari di Dio che, come erano soliti dire Paolo e Lutero, sono «servi di Satana».
Questa ambivalenza tra tolleranza e violenza può essere suddivisa in tre elementi: le religioni del
mondo
A) rovesciano le gerarchie prestabilite e di conseguenza i confini tra nazioni e gruppi etnici;
sono in grado di farlo, nella misura in cui
B) creano un universalismo religioso di fronte a cui tutte
le barriere nazionali e sociali diventano meno importanti; simultaneamente, si manifesta il pericolo
che
C) alle barriere etniche, nazionali e di classe si sostituiscano quelle tra i credenti nella vera fede
da un lato e i credenti nella fede sbagliata e i non credenti dall’altra. Questo è il timore che sta
diffondendo: che il rovescio della medaglia del fallimento della secolarizzazione sia la minaccia di
un nuovo secolo buio. La religione uccide.
Si sta dibattendo con inquietudine il «problema» dell’Islam nell’Europa laica: alcuni addirittura denunciano la «fine del multiculturalismo» - in un’Europa dalle troppe identità dissonanti. Ignorando così lo stratagemma della cooperazione: è possibile distinguere tra ortodossia e interazione. Questo procedimento si vede in atto in alcuni luoghi, diciamo a Londra e a Milano, ma soprattutto negli Stati Uniti e in particolare nelle grandi città di tutto il mondo (tantissimo in Giappone).
Questo buon senso interreligioso funziona nei progetti educativi come nel soccorso dei poveri, nella tutela delle minoranze o dei migranti (illegali) e, non ultimo, nella pubblica opposizione alle politiche statali di esclusione. I gruppi possono essere intolleranti per quanto riguarda la teologia altrui, ma al tempo stesso lavorare insieme in modo creativo per affrontare preoccupazioni pubbliche condivise. Questa separazione tra il dogma e la pratica è possibile, non solo a livello locale, ma anche sulla scena mondiale? Le religioni del mondo possono effettivamente interagire e collaborare per dare risposte pragmatiche alle sfide poste dai rischi della società mondiale - il pericolo di una guerra nucleare, i cambiamenti climatici, la migrazione, la povertà globale?
Oggi chiedersi in che misura la verità possa essere sostituita dalla pace è una domanda cruciale per la sopravvivenza dell’umanità. Ma la speranza per una religiosità inter-cristiana o cristianomusulmana senza la demonizzazione dell’altro non è la cosa più improbabile, ingenua, sciocca, assurda in cui si possa sperare?
(Traduzione di Carla Reschia)
*Ulrich Beck è professore di Sociologia presso l’Università di Monaco di Baviera e la London School of Economics
CHARITE’: BERLINO RICORDA A PAPA RATZINGER IL NOME ESATTO
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
Fraternità: perché non continui a perdersi
di GIUSEPPE DALLA TORRE (Avvenire, 24.09.2010)
Nel considerare il volgere della situazione italiana, si è lamentato in questi giorni l’affievolirsi e il venire meno del senso di fraternità. L’osservazione è pertinente per molti aspetti e con riferimento a molti ambiti, anche se vien fatto di chiedersi come possa sopravvivere tale sentimento tra i consociati in una società sempre più individualistica, più edonistica, più crudamente competitiva, in cui l’avere fa aggio sull’essere, in cui non si esita a rompere i vincoli più sacri quando ne vengano meno le utilità personali, in cui l’etica della responsabilità impallidisce.
Bisogna in sostanza avere il coraggio di prendere atto che il problema non deriva da questa o quella scelta politica; il problema è assai più generale e tocca la cultura in cui, volenti o nolenti, siamo immersi. Il problema non è solo italiano, ma lambisce in misura più o meno ampia tutto l’Occidente.
Soprattutto il problema non è di oggi, ma viene di lontano. Tutti sanno che la fraternité , insieme alla liberté e alla egalité, ha fatto parte del vessillo ideale della Rivoluzione francese. A oltre due secoli di distanza ci si dovrebbe domandare perché libertà ed eguaglianza sono diventate acquisizioni consolidate, anche se sempre da custodire con cura e da rifondare e promuovere con intelligenza, mentre lo stesso non sembra potersi dire della fraternità. Insomma: una delle mete ideali della Rivoluzione ha stentato a farsi strada sin qui, dappertutto, a cominciare dalla stessa terra d’origine. In altre parole, mentre libertà ed eguaglianza sono cresciute, la fraternità è rimasta pressocché una espressione vuota, un flatus vocis avrebbero detto i romani; anzi, i vincoli di una certa fraternità che, almeno nei Paesi europei, secoli di cristianesimo avevano suscitato e rafforzato plasmando la cultura del nostro continente, sembrano da duecento anni a questa parte declinare.
Per quanto riguarda il nostro Paese, basti pensare a che cosa si è ridotto, a livello di percezione comune e di principio vivente, quel precetto sui «doveri di solidarietà» che la nostra Costituzione, tralucendo anche qui le radici cristiane della identità italiana, ha osato definire come «inderogabili».
La realtà è che l’evoluzione dei termini tradisce le trasformazioni culturali e del comune sentire. Nella società del passato il senso della coesistenzialità e del doveroso sostegno reciproco era radicato nel principio cristiano della carità, che comprende, ma va oltre la giustizia. Poi venne il tempo della secolarizzazione e, come prevedeva già Newman, si è passati a sostenere «un’educazione totalmente secolarizzata, intesa a far capire ad ogni individuo che essere ordinato, laborioso e sobrio torna a suo personale vantaggio»; a fornire «i grandi principi che devono sostituire la religione e che le masse così educate dovrebbero seguire, le verità etiche fondamentali nel loro senso più ampio, la giustizia, la benevolenza, l’onestà, ecc.; l’esperienza acquisita; e quelle leggi naturali che esistono e agiscono spontaneamente nella società e nelle cose sociali, sia fisiche che psicologiche, ad esempio, nel governo, nel commercio, nella finanza, nel campo sanitario e nei rapporti tra le Nazioni». In un mondo che si scristianizzava la carità è stata sostituita dalla fraternità.
Ma la sostituzione non è servita, perché la pretesa secolaristica di costruire la società senza o addirittura contro la religione ha fatto venire meno il presupposto stesso del riconoscersi fratelli: la discendenza da un Padre comune.
Ecco dunque giungere in sostituzione la solidarietà: termine bellissimo, alto, nobile, ma riferito a un dovere inesigibile e concretamente insoddisfatto, se non radicato in un fondamento più profondo di un mero precetto di legge.
DIO, LA SCIENZA, IL PAPA, E LO SCIENZIATO ....
KANT (1755), KANT-LAPLACE, E STEPHEN HAWKING. "DIO E LO SCIENZIATO": CHE STRANO!!! Marco Cattaneo "in "La formula della creazione" (ricorda Laplace ma...) ’dimentica’ Kant !!!
RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant
Dio e lo scienziato
Ciclicamente il sapere scientifico torna a farsi parte della riflessione sui fondamenti dell’essere, abbandonata invece dai filosofi
La formula della creazione
Quando gli scienziati vogliono occuparsi di fede
di Marco Cattaneo (la Repubblica, 18.o9.2010)
Cimancava solo Stephen Hawking, a riesumare la millenaria diatriba sul rapporto tra scienza e religione,o meglio sulla possibilità che la scienza abbia un ruolo nel dimostrare l’ esistenza o l’ inesistenza di Dio. Nel suo ultimo libro, The Grand Design, uscito da poche settimane e già in vetta alle classifiche nonostante molte critiche e un’ impietosa stroncatura di Dwight Garner sul New York Times, Hawking liquida il Creatore in una frase, peraltro inequivocabile: per spiegare la nascita del nostro e di altri universi «non è necessario ipotizzare l’ esistenza di un dio o di un essere soprannaturale».
In questo e altri passaggi, la scienza torna a farsi parte della riflessione ontologica, saltando a piè pari la mediazione dei filosofi, che negli ultimi tempi hanno accostato la scienza più sul fronte delle questioni etiche che su quello dei fondamenti. E questo è, a sua volta, un elemento di riflessione.
Qualcuno se ne è sorpreso, visto che nel bestseller da 9 milioni di copie Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo, pubblicato nel 1988, Hawking concludeva dichiarando che la scoperta di una teoria unificata della fisica ci avrebbe aiutato a "conoscere la mente di Dio". In verità il fisico britannico non si è mai sbilanciato più di tanto a proposito delle proprie inclinazioni religiose, anche se nel memoir che riassume la loro vita coniugale l’ex moglie lo definisce senza mezzi termini ateo.
In realtà nel libro, scritto con Leonard Mlodinow, Hawking fa riferimento al fatto che la teoria-M, l’ultima estensione della teoria delle stringhe, comporta che non esista un solo universo, ma una moltitudine di universi paralleli. E che l’emergere del nostro universo dal big bang non sia stato un atto creatore, ma una conseguenza inevitabile delle leggi della fisica, e nella fattispecie della gravità. In questa visione, anzi, lo spazio e il tempo non avrebbero né un inizio né una fine.
In fin dei conti, l’affermazione di Hawking e Mlodinow non è che un’estensione contemporanea del celebre aneddoto che si vuole abbia coinvolto Pierre-Simon de Laplace e Napoleone. Quando lo scienziato gli presentò la prima edizione della sua Esposizione del sistema del mondo, nel 1796, l’imperatore osservò: «Cittadino, ho letto il vostro libro e non capisco come non abbiate dato spazio all’azione del Creatore». Al che Laplace rispose seccamente: «Cittadino Primo Console, non ho avuto bisogno di questa ipotesi». Ma era il Secolo dei Lumi, e non era poi così insolito che qualcuno sostenesse la supremazia della ragione.
D’altra parte, un’affermazione tanto brusca da parte del più famoso fisico del mondo - a torto o a ragione - non poteva passare inosservata. Riattizzando eterne polemiche che covavano appena sotto le ceneri, e che, in un modo o nell’altro, hanno attraversato la storia della cultura moderna. Èun attimo tornare ai processi a Giordano Bruno e Galileo Galilei, come pure osservare l’ironico destino toccato ad alcuni degli scienziati più rivoluzionari della storia e al tempo stesso ferventi devoti. Niccolò Copernico era un mite presbitero della cattedrale di Frombork, in Polonia. Eppure toccò a lui, nel 1543, con il De revolutionibus orbium coelestium, togliere la Terra dal centro dell’universo, dove la collocavano le Scritture. E toccò a Charles Darwin - che pure era stato avviato dal padre a una carriera ecclesiastica e a bordo del Beagle ancora citava la Bibbia come una verità letterale - togliere l’uomo dal centro del Creato. Peggio ancora, i primi a dare fondamento alla teoria di Darwin furono gli esperimenti sui caratteri ereditari di Gregor Mendel, frate agostiniano al monastero di Brno.
A eccezione di Darwin, tuttavia, nessuno di questi colossi del pensiero scientifico sperimentò il tormento di non riuscire più a conciliare le proprie convinzioni religiose con il procedere delle scoperte. Né tantomeno Isaac Newton, il più celebre predecessore di Hawking alla cattedra lucasiana di Cambridge, trovò contraddizioni tra la sua fede e la scoperta di leggi che non si conciliavano con la lettera delle Scritture. Anzi, considerando Dio come un demiurgo, un creatore immobile e trascendente che aveva messo in moto l’universo, è stato indicato come un precursore del deismo settecentesco.
Più complesso è stato il rapporto con la divinità del massimo pensatore del Novecento, Albert Einstein. «Io credo nel Dio di Spinoza - disse - che si rivela nella ordinaria armonia di ciò che esiste, non in un Dio che si preoccupa del fato e delle azioni degli esseri umani». Ma al tempo stesso conservava una visione trascendente di Dio, e aveva in cordiale antipatia gli "atei fanatici" che, diceva, «non possono sentire la musica delle sfere».
Ai giorni nostri, il confronto tra religione e scienza sembrava essere confinato all’evoluzione, soprattutto negli Stati Uniti, dove i sostenitori del "disegno intelligente" tentano di controbattere al neodarwinismo cercando prove di finalismo nell’evoluzione delle specie. Una posizione che ha scatenato la controffensiva di molti biologi, soprattutto del più radicale evoluzionista ateo in circolazione, Richard Dawkins, autore tra l’altro del bestseller L’illusione di Dio. Non è un caso, dunque, che Dawkins sia stato tra i primi a esultare per la tesi sostenuta da Hawking.
A parte i fanatici del Museo della creazione di Petersburg, in Kentucky, che negano il big bang e l’evoluzione dell’universo, la fisica sembrava essere felicemente fuori da polemiche e scontri - forse perché il cammino della scienza in questo campo non intralciava più di tanto quello della fede, e viceversa - ma anche in questi anni Dio ricorreva periodicamente nell’immaginario dei fisici. Basta ricordare l’infelice nomignolo del bosone di Higgs, la particella di Dio, dall’omonimo volume di Leon Lederman. O lo splendido libro di Gian Carlo Ghirardi sulla meccanica quantistica intitolato Un’occhiata alle carte di Dio.
Eppure anche oggi c’è chi riesce a vivere serenamente una luminosa carriera nella scienza, accogliendone metodo e risultati dalla cosmologia all’evoluzione, e a conciliarla con una coscienza di credente. È il caso di Nicola Cabibbo, grande fisico romano scomparso un mese fa. E di George Coyne, gesuita e astronomo, direttore della Specola Vaticana per quasi trent’anni. Forse il segreto sta nell’accettare che la fede non diventi un pregiudizio sul cammino della conoscenza. E che la scienza non esca dall’alveo delle leggi di natura per discutere il soprannaturale. Hawking permettendo.
il discorso
Il «giusto posto» del credo religioso nel processo politico al centro della riflessione del Papa nella Westminster Hall di Londra.
Il modello: Tommaso Moro, lo statista che nel primato di Dio seppe radicare la sua libertà di coscienza e la dedizione al bene comune
«Dall’alleanza fede-ragione un’etica per la democrazia»
la sfida
Il processo democratico è fragile se i «principi morali» che lo sostengono si basano soltanto sul consenso sociale. È questa la «sfida reale» che Ratzinger ha additato rivolgendosi, ieri in Parlamento, al corpo diplomatico e agli esponenti della cultura, della società civile e dell’economia
Pubblichiamo il testo integrale del discorso pronunciato ieri pomeriggio da Benedetto XVI nella Westminster Hall di Londra all’incontro con gli esponenti della società civile, del mondo accademico, culturale e imprenditoriale, con il corpo diplomatico e con i leader religiosi. (AVVENIRE, 18.09.2010)
Signor presidente,
la ringrazio per le parole di benvenuto che mi ha rivolto a nome di questa distinta assemblea. Nel rivolgermi a voi, sono consapevole del privilegio che mi è concesso di parlare al popolo britannico e ai suoi rappresentanti nella Westminster Hall, un edificio che ha un significato unico nella storia civile e politica degli abitanti di queste Isole.
Permettetemi di manifestare la mia stima per il Parlamento, che da secoli ha sede in questo luogo e che ha avuto un’influenza così profonda sullo sviluppo di forme di governo partecipative nel mondo, specialmente nel Commonwealth e più in generale nei Paesi di lingua inglese. La vostra tradizione di «common law» costituisce la base del sistema legale in molte nazioni, e la vostra particolare visione dei rispettivi diritti e doveri dello Stato e del singolo cittadino, e della separazione dei poteri, rimane come fonte di ispirazione per molti nel mondo.
Mentre parlo a voi in questo luogo storico, penso agli innumerevoli uomini e donne che lungo i secoli hanno svolto la loro parte in importanti eventi che hanno avuto luogo tra queste mura e hanno segnato la vita di molte generazione di britannici e di altri popoli.
In particolare, vorrei ricordare la figura di san Tommaso Moro, il grande studioso e statista inglese, ammirato da credenti e non credenti per l’integrità con cui fu capace di seguire la propria coscienza, anche a costo di dispiacere al sovrano, di cui era «buon servitore», poiché aveva scelto di servire Dio per primo. Il dilemma con cui Tommaso Moro si confrontava, in quei tempi difficili, la perenne questione del rapporto tra ciò che è dovuto a Cesare e ciò che è dovuto a Dio, mi offre l’opportunità di riflettere brevemente con voi sul giusto posto che il credo religioso mantiene nel processo politico.
La tradizione parlamentare di questo Paese deve molto al senso istintivo di moderazione presente nella nazione, al desiderio di raggiungere un giusto equilibrio tra le legittime esigenze del potere dello Stato e i diritti di coloro che gli sono soggetti. Se da un lato, nella vostra storia, sono stati compiuti a più riprese dei passi decisivi per porre dei limiti all’esercizio del potere, dall’altro le istituzioni politiche della nazione sono state in grado di evolvere all’interno di un notevole grado di stabilità. In tale processo storico, la Gran Bretagna è emersa come una democrazia pluralista, che attribuisce un grande valore alla libertà di espressione, alla libertà di affiliazione politica e al rispetto dello Stato di diritto, con un forte senso dei diritti e doveri dei singoli, e dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.
La dottrina sociale cattolica, pur formulata in un linguaggio diverso, ha molto in comune con un tale approccio, se si considera la sua fondamentale preoccupazione per la salvaguardia della dignità di ogni singola persona, creata ad immagine e somiglianza di Dio, e la sua sottolineatura del dovere delle autorità civili di promuovere il bene comune. E , in verità, le questioni di fondo che furono in gioco nel processo contro Tommaso Moro continuano a presentarsi, in termini sempre nuovi, con il mutare delle condizioni sociali. Ogni generazione, mentre cerca di promuovere il bene comune, deve chiedersi sempre di nuovo: quali sono le esigenze che i governi possono ragionevolmente imporre ai propri cittadini, e fin dove esse possono estendersi? A quale autorità ci si può appellare per risolvere i dilemmi morali?
Queste questioni ci portano direttamente ai fondamenti etici del discorso civile. Se i principi morali che sostengono il processo democratico non si fondano, a loro volta, su nient’altro di più solido che sul consenso sociale, allora la fragilità del processo si mostra in tutta la sua evidenza. Qui si trova la reale sfida per la democrazia.
L’inadeguatezza di soluzioni pragmatiche, di breve termine, ai complessi problemi sociali ed etici è stata messa in tutta evidenza dalla recente crisi finanziaria globale. Vi è un vasto consenso sul fatto che la mancanza di un solido fondamento etico dell’attività economica abbia contribuito a creare la situazione di grave difficoltà nella quale si trovano ora milioni di persone nel mondo. Così come «ogni decisione economica ha una conseguenza di carattere morale» ( Caritas in veritate, 37 ), analogamente, nel campo politico, la dimensione morale delle politiche attuate ha conseguenze di vasto raggio, che nessun governo può permettersi di ignorare.
Una positiva esemplificazione di ciò si può trovare in una delle conquiste particolarmente rimarchevoli del Parlamento britannico: l’abolizione del commercio degli schiavi. La campagna che portò a questa legislazione epocale, si basò su principi morali solidi, fondati sulla legge naturale, e ha costituito un contributo alla civilizzazione di cui questa nazione può essere giustamente orgogliosa.
La questione centrale in gioco, dunque, è la seguente: dove può essere trovato il fondamento etico per le scelte politiche? La tradizione cattolica sostiene che le norme obiettive che governano il retto agire sono accessibili alla ragione, prescindendo dal contenuto della rivelazione. Secondo questa comprensione, il ruolo della religione nel dibattito politico non è tanto quello di fornire tali norme, come se esse non potessero esser conosciute dai non credenti - ancora meno è quello di proporre soluzioni politiche concrete, cosa che è del tutto al di fuori della competenza della religione - bensì piuttosto di aiutare nel purificare e gettare luce sull’applicazione della ragione nella scoperta dei principi morali oggettivi.
Questo ruolo «correttivo» della religione nei confronti della ragione, tuttavia, non è sempre bene accolto, in parte poiché delle forme distorte di religione, come il settarismo e il fondamentalismo, possono mostrarsi esse stesse causa di seri problemi sociali. E, a loro volta, queste distorsioni della religione emergono quando viene data una non sufficiente attenzione al ruolo purificatore e strutturante della ragione all’interno della religione. È un processo che funziona nel doppio senso.
Senza il correttivo fornito dalla religione, infatti, anche la ragione può cadere preda di distorsioni, come avviene quando essa è manipolata dall’ideologia, o applicata in un modo parziale, che non tiene conto pienamente della dignità della persona umana. Fu questo uso distorto della ragione, in fin dei conti, che diede origine al commercio degli schiavi e poi a molti altri mali sociali, non da ultimo le ideologie totalitarie del ventesimo secolo. Per questo vorrei suggerire che il mondo della ragione ed il mondo della fede - il mondo della secolarità razionale e il mondo del credo religioso - hanno bisogno l’uno dell’altro e non dovrebbero avere timore di entrare in un profondo e continuo dialogo, per il bene della nostra civiltà.
La religione, in altre parole, per i legislatori non è un problema da risolvere, ma un fattore che contribuisce in modo vitale al dibattito pubblico nella nazione. In tale contesto, non posso che esprimere la mia preoccupazione di fronte alla crescente marginalizzazione della religione, in particolare del cristianesimo, che sta prendendo piede in alcuni ambienti, anche in nazioni che attribuiscono alla tolleranza un grande valore.
Vi sono alcuni che sostengono che la voce della religione andrebbe messa a tacere, o tutt’al più relegata alla sfera puramente privata. Vi sono alcuni che sostengono che la celebrazione pubblica di festività come il Natale andrebbe scoraggiata, secondo la discutibile convinzione che essa potrebbe in qualche modo offendere coloro che appartengono ad altre religioni o a nessuna. E vi sono altri ancora che - paradossalmente con lo scopo di eliminare le discriminazioni - ritengono che i cristiani che rivestono cariche pubbliche dovrebbero, in determinati casi, agire contro la propria coscienza.
Questi sono segni preoccupanti dell’incapacità di tenere nel giusto conto non solo i diritti dei credenti alla libertà di coscienza e di religione, ma anche il ruolo legittimo della religione nella sfera pubblica. Vorrei pertanto invitare tutti voi, ciascuno nelle rispettive sfere di influenza, a cercare vie per promuovere ed incoraggiare il dialogo tra fede e ragione ad ogni livello della vita nazionale.
La vostra disponibilità in questo senso si è già manifestata nell’invito senza precedenti che mi avete rivolto oggi, e trova espressione in quei settori di interesse nei quali il vostro Governo si è impegnato insieme alla Santa Sede.
Nel campo della pace, vi sono stati degli scambi circa l’elaborazione di un trattato internazionale sul commercio di armi; circa i diritti umani, la Santa Sede e il Regno Unito hanno visto positivamente il diffondersi della democrazia, specialmente negli ultimi 65 anni; nel campo dello sviluppo, vi è stata collaborazione nella remissione del debito, nel commercio equo e nel finanziamento allo sviluppo, in particolare attraverso la International Finance Facility, l’ International Immunization Bond e l’Advanced Market Commitment .
La Santa Sede è inoltre desiderosa di ricercare, con il Regno Unito, nuove strade per promuovere la responsabilità ambientale, a beneficio di tutti. Noto inoltre che l’attuale Governo si è impegnato a devolvere entro il 2013 lo 0,7% del reddito nazionale in favore degli aiuti allo sviluppo. È stato incoraggiante, negli ultimi anni, notare i segni positivi di una crescita della solidarietà verso i poveri che riguarda tutto il mondo.
Ma per tradurre questa solidarietà in azione effettiva c’è bisogno di idee nuove, che migliorino le condizioni di vita in aree importanti quali la produzione del cibo, la pulizia dell’acqua, la creazione di posti di lavoro, la formazione, l’aiuto alle famiglie, specialmente dei migranti, e i servizi sanitari di base. Quando è in gioco la vita umana, il tempo si fa sempre breve: in verità, il mondo è stato testimone delle vaste risorse che i governi sono in grado di raccogliere per salvare istituzioni finanziarie ritenute «troppo grandi per fallire». Certamente lo sviluppo integrale dei popoli della terra non è meno importante: è un’impresa degna dell’attenzione del mondo, veramente «troppo grande per fallire».
Questo sguardo generale alla cooperazione recente tra Regno Unito e Santa Sede mostra bene quanto progresso sia stato fatto negli anni trascorsi dallo stabilimento di relazioni diplomatiche bilaterali, in favore della promozione nel mondo dei molti valori di fondo che condividiamo. Spero e prego che questa relazione continuerà a portare frutto e che si rifletterà in una crescente accettazione della necessità di dialogo e rispetto, a tutti i livelli della società, tra il mondo della ragione ed il mondo della fede.
Sono certo che anche in questo Paese vi sono molti campi in cui la Chiesa e le pubbliche autorità possono lavorare insieme per il bene dei cittadini, in armonia con la storica pratica di questo Parlamento di invocare la guida dello Spirito su quanti cercano di migliorare le condizioni di vita di tutto il genere umano.
Affinché questa cooperazione sia possibile, le istituzioni religiose, comprese quelle legate alla Chiesa cattolica, devono essere libere di agire in accordo con i propri principi e le proprie specifiche convinzioni, basate sulla fede e sull’insegnamento ufficiale della Chiesa. In questo modo potranno essere garantiti quei diritti fondamentali, quali la libertà religiosa, la libertà di coscienza e la libertà di associazione.
Gli angeli che ci guardano dalla magnifica volta di questa antica Sala ci ricordano la lunga tradizione da cui il Parlamento britannico si è sviluppato. Essi ci ricordano che Dio vigila costantemente su di noi, per guidarci e proteggerci. Ed essi ci chiamano a riconoscere il contributo vitale che il credo religioso ha reso e può continuare a rendere alla vita della nazione.
Signor presidente, la ringrazio ancora per questa opportunità di rivolgermi brevemente a questo distinto uditorio. Mi permetta di assicurare a lei e al signor presidente della Camera dei Lord i miei auguri e la mia costante preghiera per voi e per il fruttuoso lavoro di entrambe le Camere di questo antico Parlamento. Grazie, e Dio vi benedica tutti!
Benedetto XVI
Immanuel Kant, autorevole filosofo del XVIII secolo, avrebbe detto: “L’esistenza della Bibbia, un libro per la gente, è il più grande dono che la razza umana abbia mai ricevuto. Qualsiasi tentativo di sminuirla . . . è un crimine contro l’umanità”.
Un medico, un giudice, o un uomo politico, può avere in capo molte belle regole patologiche, giuridiche o politiche, al punto da poter diventare egli stesso un profondo insegnante in proposito, e tuttavia cade facilmente in errore nell’applicazione di esse, o perché manca di capacità naturale di giudizio (...) o anche per il fatto che egli non è stato sufficientemente addestrato per questo giudizio, mediante esempi e pratica diretta.
Oggi, anche nell’ambito della stessa società, ci sono norme morali diverse. Alcuni propugnano norme morali severe, mentre altri propugnano la “libertà” morale. Esempio... l’infedeltà coniugale;
È interessante notare che l’Associazione dei Medici Francesi considerava l’aborto un reato finché non venne legalizzato nel 1974. Oggi molti francesi lo considerano moralmente accettabile.
I nostri valori morali dovrebbero essere relativi e cambiare secondo le circostanze?
Nel corso dei secoli i filosofi hanno proposto molte idee nel tentativo di rispondere a queste domande. Alcuni hanno proposto un ‘codice morale universale’ ma non riescono a mettersi daccordo.
Per altri, l’interesse per il proprio simile dovrebbe essere il punto di riferimento nella condotta di ognuno.
Non c’è dubbio che l’ampia varietà di pareri spesso discordi dei filosofi circa i valori morali ha confuso molti. Le loro idee non hanno prodotto una norma morale comune, né le loro filosofie hanno portato pace e unità alla famiglia umana.
Questo è il motivo per cui oggi molti hanno adottato il punto di vista del filosofo francese Jean-Paul Sartre, secondo cui ogni uomo dev’essere il giudice di se stesso nelle questioni morali.
Le autorità cattoliche, per esempio, sono preoccupate perché molti cattolici non seguono più la dottrina della chiesa.
La storia insegna che gli uomini hanno creato vari codici morali, ma col tempo questi codici sono stati messi in discussione, cambiati o dimenticati.
Secondo Jean-Jacques Rousseau, filosofo francese del XVIII secolo, qualunque persona sincera può ricevere da Dio una rivelazione spirituale diretta. In che modo? Ascoltando “ciò che Dio dice al cuore”. In tal modo, sosteneva Rousseau, i sentimenti, ovvero la voce delle emozioni e della coscienza, diventeranno “una guida più sicura in questo immenso labirinto delle opinioni umane”.
Non sappiamo nulla di certo”. Socrate, forse il più riverito di tutti i filosofi, disse che l’unica cosa che veramente sapeva era di non sapere nulla.
Nel XVIII secolo il razionalismo veniva già comunemente esaltato come panacea dei problemi del mondo. Il filosofo tedesco Immanuel Kant asserì che il progresso dell’uomo era ostacolato dall’abitudine di farsi guidare dalla politica e dalla religione. “Osa conoscere!”, esortò. “Abbi il coraggio di usare la tua intelligenza!” “Lo scetticismo prese il posto della fede cieca”,
Delusi dalla religione, molti di questi filosofi divennero deisti; credevano in Dio ma sostenevano che non si interessasse dell’uomo.
Un filosofo inglese, definito “l’ateo più autorevole del mondo”, ora dice di credere in Dio. Nell’anteprima on-line di un’intervista rilasciata alla rivista Philosophia Christi, l’ottantunenne Antony Flew ha detto di essere stato “costretto ad andare dove conducono le prove”. Secondo Flew, queste prove includono recenti scoperte scientifiche nel campo della cosmologia e della fisica. Inoltre “più di 50 anni di scoperte sul DNA hanno fornito materiale nuovo e molto persuasivo a sostegno dell’idea che esiste un Disegno intelligente”,
Distinti saluti accompagnati da Simpatia ed empatia!
VIAGGIO NEL REGNO UNITO
Papa: "Le vittime dei pedofili
hanno sofferto come i martiri"
Nell’omelia a Westminster il Pontefice ha ricordato i cattolici perseguitati dagli anglicani, e li ha paragonati alle persone che hanno subito abusi sessuali da parte dei sacerdoti. Protesta ad Hyde Park di atei, gay e militanti pro-aborto *
LONDRA - Le "immense sofferenze" causate dai preti pedofili alle loro vittime fanno parte delle "prove e tribolazioni" che ci sono "nella vita della Chiesa" tra cui quelle dei "martiri di ogni tempo". Lo ha affermato Benedetto XVI nell’omelia della messa nella cattedrale di Westminster, a Londra. Il Papa ha parlato delle vittime della persecuzione anglicana, a partire dal fondatore della chiesa britannica, Enrico VIII, fino a Carlo II Stuart. Ma poi ha tracciato il parallelo con le vittime dei preti pedofili: anche loro hanno sofferto, e anche molto, proprio come i martiri perseguitati perché difendevano il cattolicesimo contro la nuova confessione religiosa voluta dal sovrano britannico che aveva cercato invano di ottenere dal Papa il divorzio dalla prima moglie.
Benedetto XVI ha iniziato stamane la giornata a Londra con il colloquio, nel palazzo arcivescovo le di Westminster, con il premier britannico David Cameron. Il Pontefice incontrarè successivamente il vice primo ministro, il liberale Nick Clegg e la leader dell’opposizione la laburista Harriet Harman. Dopo la messa a Westminster, il papa saluterà circa 2500 bambini riuniti nella piazza della cattedrale e terrà nel pomeriggio una preghiera a Hyde Park per la beatificazione del cardinale britannico John Henry Newman.
Ma proprio ad Hyde Park intanto migliaia di persone di sono riunite per protestare contro il Pontefice alla luce degli scandali sulla pedofilia. Atei, gay e pro-abortisti, hanno iniziato partendo da Hyde Park a sfilare per l strade di Londra per protestare per la visita del Papa. Dopo le minacce e i fermi di ieri la sicurezza per la città è i massimi livelli. La squadra anti-terrorista ha arrestato i sei uomini fermati ieri 1.
L’omelia a Westminster. Parlando delle "prove e tribolazioni" nella vita della Chiesa, tra cui quelle dei "martiri di ogni tempo" e dei "nostri fratelli e sorelle nel mondo, che ancora oggi soffrono discriminazione e persecuzioni per la loro fede cristiana", il Papa ha detto di pensare "anche alle immense sofferenze causate dall’abuso dei bambini, specialmente nella Chiesa e da parte dei suoi ministri".
"Esprimo soprattutto il mio profondo dolore alle vittime innocenti di questi inqualificabili crimini - ha continuato -, insieme con la speranza che il potere della grazia di Cristo, il suo sacrificio di riconciliazione, porterà profonda guarigione e pace alle loro vite".
"Riconosco anche, con voi - ha aggiunto -, la vergogna e l’umiliazione che tutti abbiamo sofferto a causa di questi peccati; vi invito a offrirle al Signore con la fiducia che questo castigo contribuirà alla guarigione delle vittime, alla purificazione della Chiesa ed al rinnovamento del suo secolare compito di formazione e cura dei giovani".
"Esprimo la mia gratitudine - ha concluso - per gli sforzi fatti per affrontare questo problema responsabilmente, e chiedo a tutti voi di mostrare la vostra sollecitudine per le vittime e la solidarietà verso i vostri sacerdoti".
Tra i martiri, Benedetto XVI ha voluto ricordare però ricordare in particolare - nella messa celebrata con i vescovi inglesi nella Cattedrale di Westminster - i cattolici che "in Inghilterra difesero strenuamente la messa, sovente a caro prezzo, dando vita a quella devozione alla Santissima Eucaristia che è stata una caratteristica del cattolicesimo in queste terre".
La storia delle persecuzioni anticattoliche in Inghilterra, Scozia, Galles, parte dal 1535 e arriva al 1681, l’arco temporale che va da Enrico VIII a Carlo II Stuart. Morirono, in 150 anni di persecuzione, migliaia di cattolici inglesi: i primi il 4 maggio e il 15 giugno 1535, furono 19 monaci certosini, impiccati nel tristemente famoso Tyburn di Londra, l’ultima vittima fu l’arcivescovo di Armagh e primate d’Irlanda Oliviero Plunkett, giustiziato a Londra l’11 luglio 1681. Nel 1874 l’arcivescovo di Westminster inviò a Roma un elenco di 360 nomi con le prove per ognuno di loro. A partire dal 1886 iniziarono le canonizzazioni, una quarantina sono stati anche canonizzati da Paolo VI nel 1970, tra i quali dieci gesuiti.
* la Repubblica, 18 settembre 2010