Caro BENEDETTO XVI ...
Corra, corra ai ripari (... invece di pensare ai soldi)! Faccia come insegna CONFUCIO: provveda a RETTIFICARE I NOMI. L’Eu-angélo dell’AMORE (“charitas”) è diventato il Van-gélo del ’caro-prezzo’ e della preziosi-tà (“caritas”), e la Parola (“Logos”) è diventato il marchio capitalistico di una fabbrica (“Logo”) infernale ... di affari e di morte?! Ci illumini: un pò di CHIAREZZA!!! FRANCESCO e CHIARA di Assisi si sbagliavano?! Claritas e Charitas, Charitas e Claritas... o no?!
Federico La Sala
A FREUD , GLORIA ETERNA!!! (per leggere, cliccare sul rosso).
“DEUS CARITAS EST”:
IL “LOGO” DEL GRANDE MERCANTE
E DEL CAPITALISMO
di Federico La Sala *
In principio era il Logos, non il “Logo”!!! “Arbeit Macht Frei”: “il lavoro rende liberi”, così sul campo recintato degli esseri umani!!! “Deus caritas est”: Dio è caro-prezzo, così sul campo recintato della Parola (del Verbo, del Logos)!!! “La prima enciclica di Ratzinger è a pagamento”, L’Unità, 26.01.2006 )!!!
Il grande discendente dei mercanti del Tempio si sarà ripetuto in cor suo e riscritto davanti ai suoi occhi il vecchio slogan: con questo ‘logo’ vincerai! Ha preso ‘carta e penna’ e, sul campo recintato della Parola, ha cancellato la vecchia ‘dicitura’ e ri-scritto la ‘nuova’: “Deus caritas est” [Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006]!
Nell’anniversario del “Giorno della memoria”, il 27 gennaio, non poteva essere ‘lanciato’ nel ‘mondo’ un “Logo” ... più ‘bello’ e più ‘accattivante’, molto ‘ac-captivante’!!!
Il Faraone, travestito da Mosè, da Elia, e da Gesù, ha dato inizio alla ‘campagna’ del Terzo Millennio - avanti Cristo!!! (Federico La Sala)
*www.ildialogo.org/filosofia, Giovedì, 26 gennaio 2006.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Per un ri-orientamento teologico-politico e antropologico...
FARE COME GIOVANNI XXIII E GIOVANNI PAOLO II: RESTITUIRE L’ANELLO A GIUSEPPE!!!
Liturgia.
La Pasqua porta il nuovo Messale nelle parrocchie italiane
Dal giorno della Risurrezione diventa obbligatorio il libro liturgico curato dalla Cei. Il vescovo Maniago: segno di speranza e di ripartenza. Le revisioni? Già accolte senza difficoltà
di Giacomo Gambassi (Avvenire, venerdì 2 aprile 2021)
Tutti lo chiamano il nuovo Messale Romano. Ufficialmente è la traduzione in italiano della terza edizione tipica latina del libro per celebrare l’Eucaristia che la Santa Sede ha varato nel 2002. Da domenica 4 aprile il testo si aprirà sugli altari di tutte le parrocchie della Penisola. Perché, come ha stabilito la Cei che ha guidato un percorso durato quasi diciotto anni, il volume diventerà obbligatorio nell’intero Paese dal giorno di Pasqua. E non solo scandirà le celebrazioni in Italia, ma anche quelle presiedute in italiano da Francesco in Vaticano. Messale per la Penisola ma anche “del Papa”. E poi esempio per le traduzioni nelle diverse lingue nazionali dell’edizione tipica latina.
Certo, il rinnovato libro liturgico è già utilizzato da alcuni mesi in numerose diocesi o parrocchie. Molte regioni ecclesiastiche avevano indicato nell’Avvento il periodo per il “debutto” locale. E anche il Pontefice celebra con il nuovo Messale. Resta il fatto che con la solennità della Risurrezione finisce definitivamente in archivio la precedente edizione datata 1983 che, quindi, per quasi quarant’anni ha segnato la vita liturgica nel Paese.
«La scelta della Pasqua ha un preciso significato», spiega il vescovo di Castellaneta, Claudio Maniago, che da presidente della Commissione episcopale Cei per la liturgia ha curato l’ultima e più complessa fase della realizzazione del Messale. «Nella vita della Chiesa - prosegue - il giorno della Risurrezione rimanda all’inizio di un tempo rinnovato. Ecco, con il volume pubblicato lo scorso settembre la Chiesa italiana è chiamata a scrivere un nuovo capitolo del suo cammino».
L’esordio solenne avviene in un frangente ancora marcato dalla pandemia, con le limitazioni e i “ritocchi” ai riti imposti dalle misure anti-Covid. Non è sicuramente la Pasqua di un anno fa, senza le Messe a porte aperte. Però le liturgie risentono dell’effetto coronavirus.
«Potrebbe apparire penalizzante l’uscita di un nuovo libro liturgico in un tempo come l’attuale - afferma Maniago -. Tuttavia la pubblicazione del Messale è stata giustamente interpretata come un segno di speranza che può aiutare le comunità a concentrarsi su quanto è davvero essenziale. E l’Eucaristia è fonte e culmine della vita cristiana, è celebrare in ogni istante della storia la Pasqua del Signore. Direi che il nuovo volume è uno sprone per tornare a gustare con maggiore intensità e partecipazione ciò che nei mesi scorsi ci era stato tolto nella sua pienezza o ciò che ancora oggi è condizionato da vincoli che per motivi sanitari siamo doverosamente tenuti a rispettare».
Un test sul nuovo Messale - con le illustrazioni dell’artista Mimmo Paladino - c’è già stato nelle comunità che lo stanno impiegando dall’autunno. «Si è trattato di un tempo congruo per far sì che dopo la pubblicazione del volume si potesse avere una fase di sperimentazione e di prova necessarie», sottolinea il vescovo. E il primo bilancio che la Cei ha stilato è più che positivo.
«L’accoglienza è stata buona - racconta Maniago -. Da una parte, è stata accompagnata da una sana dose di curiosità, consapevoli comunque che le novità non stavano in una diversa struttura della celebrazione ma piuttosto in miglioramenti e revisioni dei testi con anche significative variazioni che intendono rendere più vicino alla sensibilità contemporanea quanto viene pronunciato. D’altro canto, le novità sono state recepite senza particolari fatiche: penso a quelle che toccano l’assemblea, come le modifiche del “Padre Nostro” o del “Gloria”. Inoltre i sacerdoti, che sono i primi utilizzatori del Messale, hanno potuto confrontarsi con formule ed espressioni nuove, come quelle nelle Preghiere eucaristiche: il linguaggio adoperato ha richiesto un adattamento di fronte a passaggi divenuti così familiari che potevano quasi essere recitati a memoria. L’unica difficoltà riscontrata è stata quella relativa alla veste editoriale: il carattere del libro ha creato in qualche prete più avanti con l’età un disagio alla prima lettura ma poi non è stato problematico abituarsi al diverso formato».
La riflessione.
La comunicazione politica dentro la crisi: rispettateci anche a parole
di Mauro Magatti (Avvenire, domenica 17 gennaio 2021)
Nel passato, la parola data era sacra e, col suggello di una stretta di mano, stabiliva impegni vincolanti. Un retaggio che filtra fin nelle democrazie moderne che fanno del "parlamento" il palazzo dove i diversi interessi e i differenti punti di vista "si parlano", si confrontano, si accordano. Anche i sistemi politici più avanzati poggiano su quella fragile e delicata facoltà della vita umana che è la parola.
Sappiamo tutti quanto è difficile intendersi. Equivoci, fraintendimenti, ipocrisie, menzogne. Non certo solo in Parlamento. Ma al lavoro, in famiglia. Non sempre si dice quello che si pensa. Né si fa quello che si dice. Più spesso le parole vengono usate strategicamente per i propri obiettivi. Ingannando gli altri, violentando la realtà. Da qui si scatenano tensioni, litigi, lotte, sfiducia. Tutti ingredienti tristi della nostra vita.
Nulla di cui sorprendersi o scandalizzarsi dunque. La comunicazione umana, quando ha successo, ha qualcosa di miracoloso. E proprio poiché ne conosciamo la fragilità, col tempo si è affermata la tendenza a sostituirla con contratti scritti, procedure rigide, algoritmi. Col rischio di diventare una società di autistici. Ci sono situazioni, però, in cui la verità delle cose si impone con forza. In cui il bene che condividiamo è così necessario e forte da non ammettere furbizie o manipolazioni.
Così dopo quasi 11 mesi di pandemia, con ormai più di 80mila morti, con le scuole chiuse da quasi un anno, con interi settori economici distrutti, con ansia e preoccupazione in aumento nella popolazione, l’uso palesemente strumentale delle parole che abbiano ancora una volta visto nel ’teatrino della politica’ suona particolarmente stucchevole. L’Italia non meritava e non merita un tale spettacolo.
Un gruppo di governanti che pensa al bene comune, di fronte a delle legittime divergenze, si chiude in una stanza discute tutto il tempo necessario per arrivare a un accordo o a un disaccordo. E poi parla chiaro, e agisce alla luce del sole. E invece sono settimane (se non mesi) che il Paese è inchiodato in una pantomima dove tutti hanno un pezzo di ragione ma nessuno riconosce i propri torti. Renzi che critica (giustamente) certo immobilismo e verticismo di Conte, facendo però capire che il suo scopo non è semplicemente quello di dare buoni consigli al premier ma di rimandarlo a casa.
Conte che interviene con toni sempre rassicuranti su tutte le questioni facendo però finta di non sapere che il nostro (anziano) Paese è uno dei peggiori al mondo per numero assoluto di morti e di riduzione del Pil. I 5stelle che si dichiarano contrari al Mes (quando la nostra sanità avrebbe bisogno di ogni ulteriore risorsa) senza mai proporre una qualche ragione comprensibile, ma per pura affermazione identitaria e ideologica.
Il Pd che cerca di barcamenarsi in una coalizione traballante, ma non riconosce che, al di là delle speranza del primo momento, la coalizione di governo di fatto non riesce a prendere forma e consistenza. E intanto i leader dell’opposizione non perdono occasione per dire tutto quello che si sarebbe dovuto fare e che il governo non ha fatto elencando, senza vincolo di realtà, un numero più o meno infinito di decisioni che meravigliosamente ci avrebbero potuto portare fuori dalla crisi. Ma non fanno mai cenno dei fallimenti clamorosi registrati nelle Regioni in cui governano.
Con tutta la buona volontà, si tratta di uno spettacolo deprimente per il cittadino che cerca di farcela in mezzo a mille difficoltà. L’abuso della parola provoca un grave danno alla democrazia. Quando nessuno crede più a nessuno e si perde la fiducia nella possibilità di intendersi, il Parlamento diventa una ’torre di babele’ di cui qualcuno comincia a pensare di fare a meno. E questo è pericoloso. La parola comunicazione viene dal latino com-munis che rimanda all’idea di dono ’obbligatorio’.
Un’espressione che noi non riusciamo più nemmeno a cogliere. Come è possibile un dono obbligatorio? In realtà questa idea nasce dal presupposto che le relazioni (e quindi la comunicazione) siano rette su una obbligazione e che, proprio per questo, il comportamento individuale, pur libero, non possa prescindere da una serie di condizioni.
Che nel caso della comunicazione hanno a che fare con la ricerca della verità, la franchezza, l’onestà, la parresia. Senza obbligazione, la democrazia si riduce a puro scontro di potere, delegittimandosi di fronte al popolo. Soprattutto quando la verità dei fatti si impone per la sua gravità, non si possono usare le parole in modo solo strategico.
Serve un’ecologia della parola. Adesso.
Cei. Alla scuola della Buona Notizia. “Il Nuovo Testamento greco-latino-italiano”
“Il Nuovo Testamento greco-latino-italiano” pubblicato dalla Cei, strumento al servizio della Parola
Nell’opera il testo neotestamentario greco è presentato con a fronte quelli latino e italiano nelle loro edizioni autorevoli più recenti
di Riccardo Maccioni *
Nel segno dello studio, della conoscenza, del dialogo. Soprattutto nel segno della Parola, che diventa preghiera, vita spirituale, servizio, faro della comunità. La pubblicazione de “Il Nuovo Testamento greco latino italiano” non riguarda infatti solo gli specialisti ma, nella ricerca di una sempre maggiore fedeltà alle fonti, si propone anche come sostegno a un cammino di fede maturo.
Per tutti. Dal parroco che prepara l’omelia domenicale, al credente forse un po’ più preparato della media e desideroso di approfondire la Buona Notizia. Il volume (1854 pagine su carta Bibbia avoriata, 80 euro) è pubblicato dalla “Fondazione di religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena” della Conferenza episcopale italiana. A curarlo il cardinale Giuseppe Betori arcivescovo di Firenze e Valdo Bertalot già segretario generale della Società Biblica in Italia.
Un’opera importante che riporta il testo del Nuovo Testamento greco con a fronte quelli latino e italiano nelle loro edizioni autorevoli più recenti: The Greek New Testament-5th Revised edition/GNT (Deutsche Bibelgesellschaft DBG, 2014, con relativo apparato critico-testuale), Nova Vulgata-Bibliorum Sacrorum Editio, Editio typica altera/NV (Libreria Editrice Vaticana 1986 con relative note), La Sacra Bibbia-Versione ufficiale della Conferenza episcopale italiana/Cei 2008 con relative note.
Il nostro lavoro - spiega Bertalot - si caratterizza per alcune significative novità. Sotto il profilo editoriale «rappresenta, fatta eccezione per quella della DBG, l’unica pubblicazione che riporta il testo greco insieme all’intero apparato di critica testuale del GNT frutto di un comitato editoriale internazionale e interconfessionale». Inoltre «è la prima volta che una Conferenza episcopale nazionale presenta ufficialmente il GNT e la propria versione ufficiale della Bibbia arricchita dal testo con valore normativo della Nova Vulgata». C’è poi da sottolineare l’aspetto più prettamente ecumenico del lavoro, nel solco di un percorso iniziato con la stagione conciliare. Una dimensione - prosegue Bertalot - che «investe pienamente la collaborazione fra le diverse confessioni cristiane per lo studio della Bibbia, per la sua traduzione e trasmissione nell’opera missionaria di annuncio della Parola di Dio». Ma c’è un altro aspetto da sottolineare, quantomeno da non sottovalutare, e riguarda il dato per così dire “temporale” della pubblicazione. Il Nuovo Testamento trilingue esce infatti in parallelo alla Lettera apostolica “Scripturae Sacrae affectus” scritta da papa Francesco per il XVI centenario della morte di san Girolamo cui si deve la celebre, fulminante espressione: «Ignoratio Scripturarum ignoratio Christi est». L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo.
Un “monito” ricordato dal cardinale Betori durante la presentazione, il 29 ottobre scorso, dell’opera al Papa, nella speranza «che possa essere uno strumento per far crescere la conoscenza di Cristo, perché, come da lei auspicato, ciascuno diventi capace di aprire il libro sacro e di trarne i frutti inestimabili di sapienza, di speranza e di vita».
IL PADRE NOSTRO (Matteo 6,8-13)
9 Voi dunque pregate cosi: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,
10 venga il tuo regno, sia fatta la tua volonta, come in cielo cosi in terra.
11 Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
12 e rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori,
13 e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.
9 Sic ergo vos orabitis: Pater noster, qui es in caelis, sanctificetur nomen tuum,
10 adveniat regnum tuum, fiat voluntas tua, sicut in caelo, et in terra.
11 Panem nostrum supersubstantialem da nobis hodie;
12 et dimitte nobis debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris;
13 et ne inducas nos in tentationem, sed libera nos a Malo.
PIÙ GRANDE E’ LA CARITÀ
(1 Corinzi 13, 1-6)
Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.
2 E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.
3 E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.
4 La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio,
5 non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto,
6 non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità.
7 Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
Si linguis hominum loquar et angelorum, caritatem autem non habeam, factus sum velut aes sonans aut cymbalum tinniens.
2 Et si habuero prophetiam et noverim mysteria omnia et omnem scientiam, et si habuero omnem fidem, ita ut montes transferam, caritatem autem non habuero, nihil sum.
3 Et si distribuero in cibos omnes facultates meas et si tradidero corpus meum, ut glorier, caritatem autem non habuero, nihil mihi prodest.
4 Caritas patiens est, benigna est caritas, non aemulatur, non agit superbe, non inflatur,
5 non est ambitiosa, non quaerit, quae sua sunt, non irritatur, non cogitat malum,
6 non gaudet super iniquitatem, congaudet autem veritati;
7 omnia suffert, omnia credit, omnia sperat, omnia sustinet.
DA SAPERE Lo scorso 29 ottobre la consegna al Papa
Il “Nuovo Testamento greco latino italiano”, è pubblicato dalla Fondazione di religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena della Conferenza episcopale italiana. Si tratta di un ampio volume (1854 pagine su carta avoriata) che presenta il testo greco con a fronte quello italiano e latino nelle recenti autorevoli edizioni: “The Greek New Testament-5th Revised edition” (Deutsche Bibelgesellschaft o DBG 2014), Nova Vulgata-Bibliorum Sacrorum Editio, Editio typica altera (Libreria editrice vaticana 1986), La Sacra Bibbia versione ufficiale della Cei (Fondazione di religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena 2008)). La pubblicazione si apre con una ricca presentazione di A. Kurschus, praeses della Chiesa evangelica della Westfalia e presidente della DBG, del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della cultura e del cardinale Giuseppe Betori arcivescovo di Firenze, quest’ultimo curatore dell’opera insieme a Valdo Bertalot, già segretario generale della Società Biblica in Italia che firma invece la prefazione.
A completare il libro anche introduzioni specifiche per ogni lingua del testo, sei diversi indici e quattro carte geografiche sul mondo biblico. Il Nuovo Testamento trilingue è stato consegnato il 29 ottobre scorso al Papa di cui richiama, nella presentazione, la Lettera apostolica “Scripturae Sacrae affectus” dedicata, nel XVI centenario della morte, a san Girolamo, definito dal Pontefice «infaticabile studioso, traduttore, esegeta, profondo conoscitore e appassionato divulgatore della Sacra Scrittura». Un amore alla Bibbia che Francesco sottolinea attraverso l’immagine spesso associata al santo di “Biblioteca di Cristo. Una biblioteca perenne - spiega Francesco - che continua a insegnarci che cosa significhi l’amore di Gesù, «indissociabile dall’incontro con la sua Parola». La distribuzione dell’opera è curata direttamente dalla Libreria Editrice Vaticana (Via della Posta, 00120 Città del Vaticano; email: commerciale.lev@spc.va; sito: https://www.libreriaeditricevaticana.va/it/).
* Avvenire, sabato 9 gennaio 2021 (ripresa parziale, senza immagini).
La Lettera. Papa Francesco e l’eredità di san Girolamo: amate le Sacre Scritture
Nel 16esimo centenario della morte, la Lettera apostolica rilancia la figura del grande Dottore della Chiesa, esempio anche per i giovani: partite alla ricerca del vostro patrimonio culturale
di Redazione (Avvenire, mercoledì 30 settembre 2020)
"Oggi ho firmato la Lettera apostolica Sacrae Scripturae affectus nel 16mo centenario della morte di San Girolamo. L’esempio di questo grande dottore e padre della Chiesa che ha messo la Bibbia al centro della sua vita, susciti in tutti un rinnovato amore alla Sacra Scrittura e il desiderio di vivere in dialogo personale con la Parola di Dio".
Lo ha annunciato oggi papa Francesco, al termine dell’udienza generale.
La Lettera (QUI IL TESTO) ripercorre la figura di San Girolamo, "di grande attualità per noi cristiani del XXI secolo”. Proprio l’affetto, l’amore per la Sacra Scrittura è l’eredità che Girolamo “ha lasciato alla Chiesa attraverso la sua vita e le sue opere”.
Nella Lettera Francesco ne ripercorre la vita ricordando la sua solida educazione cristiana e la sua dedizione agli studi, i suoi viaggi, le sue amicizie e le sue esperienze. Tra queste il deserto, "luogo delle scelte esistenziali fondamentali, di intimità e di incontro con Dio, dove attraverso la contemplazione, le prove interiori, il combattimento spirituale, arriva alla conoscenza della fragilità, con una maggiore consapevolezza del limite proprio e altrui, riconoscendo l’importanza delle lacrime”.
Ed è nel deserto che il giovane di Stridone “avverte la concreta presenza di Dio, il necessario rapporto dell’essere umano con Lui, la sua consolazione misericordiosa”. Girolamo ha consacrato “la sua esistenza a rendere sempre più accessibili le lettere divine agli altri, con il suo infaticabile lavoro di traduttore e commentatore”.
Viene ordinato sacerdote ad Antiochia intorno al 379 e si sposta poi a Costantinopoli, dedicandosi alla traduzione in latino di importanti opere dal greco. “È una benedetta inquietudine a guidarlo e a renderlo instancabile e appassionato nella ricerca” scrive papa Francesco, che riporta le stesse parole di Girolamo:
A Roma nel 382 diviene stretto collaboratore di papa Damaso, e partecipa ai cenacoli di lettura della Sacra Scrittura. In quegli anni Girolamo “intraprende una revisione delle precedenti traduzioni latine dei Vangeli, forse anche di altre parti del Nuovo Testamento”. “Per Girolamo, la Chiesa di Roma è il terreno fecondo dove il seme di Cristo porta frutto abbondante - osserva il Papa -. In un’epoca convulsa, in cui la tunica inconsutile della Chiesa è spesso lacerata dalle divisioni tra i cristiani, Girolamo guarda alla cattedra di Pietro come punto di riferimento sicuro: ‘Io che non seguo nessuno se non il Cristo, mi associo in comunione alla Cattedra di Pietro. So che su quella roccia è edificata la Chiesa’”.
Quando papa Damaso muore, Girolamo lascerà Roma e dopo vari viaggi e vari studi sceglierà di vivere a Betlemme, nei pressi della grotta della Natività, dove fonda due monasteri, uno maschile e uno femminile, con ospizi per l’accoglienza dei pellegrini.
Proprio a Betlemme, dove muore nel 420, Girolamo vive “il periodo più fecondo e intenso della sua vita, completamente dedicato allo studio della Scrittura, impegnato nella monumentale opera della traduzione di tutto l’Antico Testamento a partire dall’originale ebraico. Nello stesso tempo, commenta i libri profetici, i salmi, le opere paoline, scrive sussidi per lo studio della Bibbia”, chiedendo “continuo sostegno nella preghiera di intercessione per la riuscita della sua traduzione dei testi sacri ‘nello stesso Spirito con cui furono scritti’”. Un lavoro prezioso che ancora è possibile apprezzare nelle sue opere.
Nella Lettera Apostolica papa Francesco sottolinea che “lo studio di Girolamo si rivela come uno sforzo compiuto nella comunità e a servizio della comunità, modello di sinodalità anche per noi, per i nostri tempi e per le diverse istituzioni culturali della Chiesa". Il Papa ricorda l’attività epistolare di Girolamo, in particolare le missive in cui affronta le polemiche dottrinali, “sempre nella difesa della retta fede, rivelandosi uomo di relazioni, vissute con forza e con dolcezza".
Ed ecco le due dimensioni caratteristiche di Girolamo che bisogna considerare per una piena comprensione della sua personalità: "Da un lato, l’assoluta e rigorosa consacrazione a Dio, con la rinuncia a qualsiasi umana soddisfazione", dall’altro, "l’impegno di studio assiduo, volto esclusivamente a una sempre più piena comprensione del mistero del Signore”. Per queste due caratteristiche lo rendono modello “per i monaci, innanzitutto, perché chi vive di ascesi e di preghiera venga sollecitato a dedicarsi all’assiduo travaglio della ricerca e del pensiero; per gli studiosi, poi, che devono ricordare che il sapere è valido religiosamente solo se fondato sull’amore esclusivo per Dio, sulla spoliazione di ogni umana ambizione e di ogni mondana aspirazione”.
“Il tratto peculiare della figura spirituale di San Girolamo - rimarca Francesco - rimane senza dubbio il suo amore appassionato per la Parola di Dio”. Un altro tratto è l’obbedienza di cui è intriso il suo amore per le divine Scritture, nei confronti di Dio e, di conseguenza, "obbedienza anche a coloro che nella Chiesa rappresentano la vivente tradizione interpretativa del messaggio rivelato”. Un’obbedienza, tuttavia, che non è “mera recezione passiva di ciò che è noto”, ma che “esige, al contrario, l’impegno attivo della personale ricerca”.
“Possiamo considerare San Girolamo un servitore della Parola, fedele e laborioso, consacrato interamente a favorire nei suoi fratelli di fede una più adeguata comprensione del ‘deposito’ sacro loro affidato”.
Ma Girolamo è una guida per gli studiosi di oggi, "perché (...) conduce ogni lettore al mistero di Gesù, sia perché assume responsabilmente e sistematicamente le mediazioni esegetiche e culturali necessarie per una corretta e proficua lettura delle Sacre Scritture”.
Per questo il Papa addita l’attività di San Girolamo quanto mai importante anche nella Chiesa di oggi ed evidenzia quanto sia “indispensabile che l’atto interpretativo della Bibbia sia sorretto da specifiche competenze”, citando poi i centri di eccellenza della ricerca biblica: il Pontificio Istituto Biblico e l’Istituto Patristico Augustinianum a Roma, e a Gerusalemme l’École Biblique e lo Studium Biblicum Franciscanum ed esortando ogni Facoltà di Teologia ad “impegnarsi affinché l’insegnamento della Sacra Scrittura sia programmato in modo da assicurare agli studenti una competente capacità interpretativa, sia nell’esegesi dei testi, sia nelle sintesi di teologia biblica”.
Per Francesco va anche promossa “una formazione estesa a tutti i cristiani, perché ciascuno diventi capace di aprire il libro sacro e di trarne i frutti inestimabili di sapienza, di speranza e di vita”, per questo ricorda il motivo che l’ha spinto ad istituire la Domenica della Parola di Dio, iniziativa che deve “incoraggiare la lettura orante della Bibbia e la familiarità con la Parola di Dio”.
Il lavoro più noto di Girolamo è senza dubbio la traduzione dell’Antico Testamento in latino a partire dall’originale ebraico, la cosiddetta Vulgata. Ai tempi di Girolamo, spiega il Papa, “i cristiani dell’impero romano potevano leggere integralmente la Bibbia solo in greco”, per i lettori di lingua latina non vi era una versione completa della Bibbia bensì solo alcune traduzioni, parziali e incomplete, a partire dal greco. “A Girolamo, e dopo di lui ai suoi continuatori, spetta il merito di aver intrapreso una revisione e una nuova traduzione di tutta la Scrittura - si legge nella Lettera Apostolica -. Iniziata a Roma la revisione dei Vangeli e dei Salmi, con l’incoraggiamento di Papa Damaso, Girolamo diede poi inizio nel suo ritiro di Betlemme alla traduzione di tutti i libri anticotestamentari, direttamente dall’ebraico: un’opera protrattasi per anni”.
“Il risultato è un vero monumento che ha segnato la storia culturale dell’Occidente, modellandone il linguaggio teologico” ed è possibile affermare che “l’Europa del medioevo ha imparato a leggere, a pregare e a ragionare sulle pagine della Bibbia tradotta da Girolamo”.
Con la Vulgata, scrive ancora il Papa “Girolamo è riuscito a ‘inculturare’ la Bibbia nella lingua e nella cultura latina e questa sua operazione è diventata un paradigma permanente per l’azione missionaria della Chiesa”. Per il Papa “la Bibbia ha bisogno di essere costantemente tradotta nelle categorie linguistiche e mentali di ogni cultura e di ogni generazione, anche nella cultura secolarizzata globale del nostro tempo”.
Quindi Francesco avverte “senza traduzione, le differenti comunità linguistiche sarebbero nell’impossibilità di comunicare tra loro; noi chiuderemmo gli uni agli altri le porte della storia e negheremmo la possibilità di costruire una cultura dell’incontro. Senza traduzione, in effetti, non si dà ospitalità, e anzi si rafforzano le pratiche di ostilità”. E invece “il traduttore è un costruttore di ponti”.
La celebrazione del centenario della morte di San Girolamo porta a guardare “alla straordinaria vitalità missionaria espressa dalla traduzione della Parola di Dio in più di tremila lingue”, e ai tanti “missionari ai quali si deve la preziosa opera di pubblicazione di grammatiche, dizionari e altri strumenti linguistici che offrono i fondamenti alla comunicazione umana e sono un veicolo per il ‘sogno missionario di arrivare a tutti’. Da qui l’invito a “valorizzare tutto questo lavoro e investire su di esso, contribuendo al superamento delle frontiere della incomunicabilità e del mancato incontro”.
Infine, un invito ai giovani: “Specialmente ai giovani voglio lanciare una sfida - conclude Francesco - partite alla ricerca della vostra eredità. Il cristianesimo vi rende eredi di un insuperabile patrimonio culturale di cui dovete prendere possesso. Appassionatevi di questa storia, che è vostra. Osate fissare lo sguardo su quell’inquieto giovane Girolamo che, come il personaggio della parabola di Gesù, vendette tutto quanto possedeva per acquistare ‘la perla di grande valore’”.
“Girolamo è la ‘Biblioteca di Cristo’ - nota il Papa - una biblioteca perenne che sedici secoli più tardi continua a insegnarci che cosa significhi l’amore di Cristo, amore che è indissociabile dall’incontro con la sua Parola. Per questo l’attuale centenario rappresenta una chiamata ad amare ciò che Girolamo amò, riscoprendo i suoi scritti e lasciandoci toccare dall’impatto di una spiritualità che può essere descritta, nel suo nucleo più vitale, come il desiderio inquieto e appassionato di una conoscenza più grande del Dio della Rivelazione”. E con le parole di Girolamo Francesco raccomanda: “Leggi spesso le Divine Scritture; anzi le tue mani non depongano mai il libro sacro”.
Catechesi sul “Padre nostro”: 7. Padre che sei nei cieli
di Papa Francesco *
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
L’udienza di oggi si sviluppa in due posti. Prima ho fatto l’incontro con i fedeli di Benevento, che erano in San Pietro, e adesso con voi. E questo è dovuto alla delicatezza della Prefettura della Casa Pontificia che non voleva che voi prendeste freddo: ringraziamo loro, che hanno fatto questo. Grazie.
Proseguiamo le catechesi sul “Padre nostro”. Il primo passo di ogni preghiera cristiana è l’ingresso in un mistero, quello della paternità di Dio. Non si può pregare come i pappagalli. O tu entri nel mistero, nella consapevolezza che Dio è tuo Padre, o non preghi. Se io voglio pregare Dio mio Padre incomincio il mistero. Per capire in che misura Dio ci è padre, noi pensiamo alle figure dei nostri genitori, ma dobbiamo sempre in qualche misura “raffinarle”, purificarle. Lo dice anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, dice così: «La purificazione del cuore concerne le immagini paterne e materne, quali si sono configurate nella nostra storia personale e culturale, e che influiscono sulla nostra relazione con Dio» (n. 2779).
Nessuno di noi ha avuto genitori perfetti, nessuno; come noi, a nostra volta, non saremo mai genitori, o pastori, perfetti. Tutti abbiamo difetti, tutti. Le nostre relazioni di amore le viviamo sempre sotto il segno dei nostri limiti e anche del nostro egoismo, perciò sono spesso inquinate da desideri di possesso o di manipolazione dell’altro. Per questo a volte le dichiarazioni di amore si tramutano in sentimenti di rabbia e di ostilità. Ma guarda, questi due si amavano tanto la settimana scorsa, oggi si odiano a morte: questo lo vediamo tutti i giorni! E’ per questo, perché tutti abbiamo radici amare dentro, che non sono buone e alle volte escono e fanno del male.
Ecco perché, quando parliamo di Dio come “padre”, mentre pensiamo all’immagine dei nostri genitori, specialmente se ci hanno voluto bene, nello stesso tempo dobbiamo andare oltre. Perché l’amore di Dio è quello del Padre “che è nei cieli”, secondo l’espressione che ci invita ad usare Gesù: è l’amore totale che noi in questa vita assaporiamo solo in maniera imperfetta. Gli uomini e le donne sono eternamente mendicanti di amore, - noi siamo mendicanti di amore, abbiamo bisogno di amore - cercano un luogo dove essere finalmente amati, ma non lo trovano. Quante amicizie e quanti amori delusi ci sono nel nostro mondo; tanti!
Il dio greco dell’amore, nella mitologia, è quello più tragico in assoluto: non si capisce se sia un essere angelico oppure un demone. La mitologia dice che è figlio di Poros e di Penía, cioè della scaltrezza e della povertà, destinato a portare in sé stesso un po’ della fisionomia di questi genitori. Di qui possiamo pensare alla natura ambivalente dell’amore umano: capace di fiorire e di vivere prepotente in un’ora del giorno, e subito dopo appassire e morire; quello che afferra, gli sfugge sempre via (cfr Platone, Simposio, 203). C’è un’espressione del profeta Osea che inquadra in maniera impietosa la congenita debolezza del nostro amore: «Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce» (6,4). Ecco che cos’è spesso il nostro amore: una promessa che si fatica a mantenere, un tentativo che presto inaridisce e svapora, un po’ come quando al mattino esce il sole e si porta via la rugiada della notte.
Quante volte noi uomini abbiamo amato in questa maniera così debole e intermittente. Tutti ne abbiamo l’esperienza: abbiamo amato ma poi quell’amore è caduto o è diventato debole. Desiderosi di voler bene, ci siamo poi scontrati con i nostri limiti, con la povertà delle nostre forze: incapaci di mantenere una promessa che nei giorni di grazia ci sembrava facile da realizzare. In fondo anche l’apostolo Pietro ha avuto paura e ha dovuto fuggire. L’apostolo Pietro non è stato fedele all’amore di Gesù. Sempre c’è questa debolezza che ci fa cadere. Siamo mendicanti che nel cammino rischiano di non trovare mai completamente quel tesoro che cercano fin dal primo giorno della loro vita: l’amore.
Però, esiste un altro amore, quello del Padre “che è nei cieli”. Nessuno deve dubitare di essere destinatario di questo amore. Ci ama. “Mi ama”, possiamo dire. Se anche nostro padre e nostra madre non ci avessero amato - un’ipotesi
storica -, c’è un Dio nei cieli che ci ama come nessuno su questa terra ha mai fatto e potrà mai fare. L’amore di Dio è costante. Dice il profeta Isaia: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, sulle palme delle mie mani ti ho disegnato» (49,15-16).
Oggi è di moda il tatuaggio: “Sulle palme delle mie mani ti ho disegnato”. Ho fatto un tatuaggio di te sulle mie mani. Io sono nelle mani di Dio, così, e non posso toglierlo. L’amore di Dio è come l’amore di una madre, che mai si può dimenticare. E se una madre si dimentica? “Io non mi dimenticherò”, dice il Signore. Questo è l’amore perfetto di Dio, così siamo amati da Lui. Se anche tutti i nostri amori terreni si sgretolassero e non ci restasse in mano altro che polvere, c’è sempre per tutti noi, ardente, l’amore unico e fedele di Dio.
Nella fame d’amore che tutti sentiamo, non cerchiamo qualcosa che non esiste: essa è invece l’invito a conoscere Dio che è padre. La conversione di Sant’Agostino, ad esempio, è transitata per questo crinale: il giovane e brillante retore cercava semplicemente tra le creature qualcosa che nessuna creatura gli poteva dare, finché un giorno ebbe il coraggio di alzare lo sguardo. E in quel giorno conobbe Dio. Dio che ama.
L’espressione “nei cieli” non vuole esprimere una lontananza, ma una diversità radicale di amore, un’altra dimensione di amore, un amore instancabile, un amore che sempre rimarrà, anzi, che sempre è alla portata di mano. Basta dire “Padre nostro che sei nei Cieli”, e quell’amore viene.
Pertanto, non temere! Nessuno di noi è solo. Se anche per sventura il tuo padre terreno si fosse dimenticato di te e tu fossi in rancore con lui, non ti è negata l’esperienza fondamentale della fede cristiana: quella di sapere che sei figlio amatissimo di Dio, e che non c’è niente nella vita che possa spegnere il suo amore appassionato per te.
*
PAPA FRANCESCO - UDIENZA GENERALE -Aula Paolo VI
Mercoledì, 20 febbraio 2019 (ripresa parziale).
Francesco apre il Sinodo: “La Chiesa si rinnovi di fronte alla famiglia”
Il messaggio davanti a ottantamila fedeli: "non temo il dibattito“
Il filosofo Cacciari: “Il vero nodo è il fine vita, mi auguro che decida la misericordia”
intervista di Giacomo Galeazzi (La Stampa, 05.10.2014)
«Al Sinodo arrivano al pettine i nodi del Concilio». Per il filosofo Massimo Cacciari la dottrina della Chiesa su matrimonio e famiglia rappresenta «un passaggio fondamentale per il pontificato di Francesco».
Sui sacramenti ai divorziati risposati si spaccherà il Sinodo?
«Al punto in cui si è arrivati sarà impossibile ridurre la discussione a una dimensione esclusivamente interna alle gerarchie ecclesiastiche. Dopo aver riorganizzato la Chiesa in modo radicale, Francesco non poteva non affrontare questioni di grande impatto non solo sulla vita dei credenti ma anche sull’intera etica pubblica».
Sarà muro contro muro?
«Attraverso il cardinale Kasper, favorevole alla comunione ai divorziati risposati, il Papa ha posto la questione in termini di apertura. I cardinali che gli si oppongono non rappresentano semplicemente un’ala anti-conciliarista, lefebvriana: ritengono che sia in ballo la fedeltà a Cristo. Il confronto sarà serrato e il Sinodo dovrà decidere assumendo posizioni tutt’altro che indolori. Da parte sua Francesco non cercherà facili compromessi».
Quali difficoltà si troverà davanti Francesco?
«Con Wojtyla e Ratzinger non sono stati sviscerati i temi posti dall’età contemporanea. Le esigenze e le priorità negli ultimi decenni sono state altre. E cioè la posizione geopolitica della Chiesa nel mondo e l’evangelizzazione. Dopo il Concilio sono rimaste tra parentesi le risposte da dare. Finora la Chiesa si è sostanzialmente limitata all’indicazione di principi generali. Ora si tratta di scegliere tra diverse posizioni in merito a grandi questioni: etica sessuale, famiglia, matrimonio. E, senza dubbio in prospettiva anche il fine vita».
A cosa è dovuta questa accelerazione?
«Adesso gli effetti della secolarizzazione esigono parole che non sarà facile pronunciare. Tutto si giocherà sul fatto che la tradizione possa essere modificata oppure no. E’ molto di più della consueta contrapposizione tra conservatori e progressisti. Il dato di fondo è ridefinire il comunque assai labile confine tra ciò che è tradizione e cio che è principio. I cardinali che come il prefetto per la Dottrina della fede Müller si oppongono a qualunque cambiamento su famiglia e matrimonio sostengono che non si discute puramente di tradizione».
Di cosa si tratta?
«Per Müller e gli altri cardinali del no alla revisione della dottrina sono in ballo aspetti che la tradizione ha sviluppato sulla base della parola di Cristo. In pratica bisognerà stabilire se si rimane fedeli a Cristo modificando la tradizione su famiglia e matrimonio. È di questo che si dovrà discutere al Sinodo. Qui sarà il dibattito autentico. E anche la principale difficoltà. Personalmente auspico che emerga la posizione teologica del cardinale Walter Kasper. Ossia: ciò che decide è la misericordia. È una speranza per tutti. Fuori e dentro la Chiesa».
La Chiesa oggi dialogo possibile tra fede e modernità
di Eugenio Scalfari (la Repubblica, 25 ottobre 2012)
È stato molto importante il Sinodo che ha radunato duecentocinquanta Vescovi venuti dai cinque continenti insieme a numerosi teologi e collaboratori. Importante per il tema che dovrà avere concreti seguiti da parte di tutte le Diocesi cattoliche e riguarda una nuova evangelizzazione della fede di cui la Chiesa sente estremo bisogno; ma è importante anche perché ha coinciso con il cinquantenario del Concilio Vaticano II.
I Vescovi riuniti nel Sinodo hanno rievocato il Concilio, ma il Papa stesso lo ha ricordato e insieme a lui i relatori del Sinodo. Sono state formulate molte domande e date molte risposte; domande in alcuni casi volutamente provocatorie e risposte in larga misura discordanti tra loro così come discordanti sono state le interpretazioni sull’essenza del Vaticano II. Alcuni interventi sono stati fatti non solo dai Vescovi e dai teologi del Sinodo ma anche da teologi e Vescovi che ne hanno scritto su giornali cattolici e sulla stampa di informazione e da laici interessati ai temi in discussione.
Insomma sull’attuale stato della Chiesa cattolica l’attenzione del “popolo di Dio”, della gerarchia
che lo guida o pretende di guidarlo e di quanti - credenti o non credenti o credenti in altre religioni
sono interessati al dibattito sui valori della religione, è stata intensa. Vogliamo anche noi cogliere
l’occasione che l’attualità ci offre ed esprimere una nostra valutazione.
Benedetto XVI diffonderà prossimamente un suo nuovo libro sulla figura di Gesù e si è pubblicamente già posto due domande: «Chi siamo noi? Che cos’è la Chiesa?». Nell’attuale crisi di valori queste domande interessano tutti molto al di là dei recinti delle Chiese cristiane che del resto rappresentano la religione storicamente più radicata nel nostro continente, anche se è proprio in Occidente che la sua crisi imperversa ed è l’Occidente l’obiettivo territoriale e culturale della nuova evangelizzazione che il Sinodo ha lanciato. Ce n’è dunque abbastanza per risvegliare il nostro interesse.
* * *
Il Vaticano II durò tre anni. Il Concilio precedente si era svolto novant’anni prima e aveva avuto come risultato più visibile la proclamazione dell’infallibilità del Papa nonché il recepimento delle indicazioni fornite pochi anni prima dal “Sillabo”. L’essenza di quell’imponente raduno di Vescovi e di teologi fu il rafforzamento del centralismo curiale e cioè d’una gerarchia verticistica, depositaria della politica della Santa Sede, e dell’insegnamento cattolico, dell’interpretazione delle Scritture, della formazione del clero e del suo reclutamento, dei tribunali ecclesiastici. Tutto ciò avveniva mentre i Bersaglieri di La Marmora entravano nella città del Papa dalla breccia di Porta Pia abbattendo definitivamente il potere temporale della Chiesa.
Novant’anni dopo il nuovo Concilio indetto da Giovanni XXIII con un obiettivo che non è eccessivo definire opposto al precedente: rilanciare il tema della pastoralità e insieme ad esso quello del confronto e del dialogo con il pensiero moderno: un capovolgimento spettacolare arricchito da molti altri temi affidati allo studio di altrettante commissioni di Vescovi, di teologi, di storici del pensiero religioso. Riguardavano il contributo del laicato cattolico, la posizione della donna nella Chiesa, il celibato dei sacerdoti, la modifica della liturgia, lo sfoltimento e il risanamento della Curia, la diffusione delle Scritture tra i fedeli e quindi il rapporto diretto dei fedeli con Dio senza più il monopolio dell’interpretazione sacerdotale.
Insomma una spinta al rinnovamento che suscitò fughe in avanti e fughe all’indietro dentro il Concilio e fuori di esso. Nel frattempo Papa Roncalli era morto. Paolo VI che gli succedette cercò di impedire e comunque di gestire sia il radicalismo degli innovatori sia quello dei tradizionalisti ad oltranza. In parte ci riuscì anche se si verificò nel frattempo il piccolo scisma dei lefebvriani concentrato sulla liturgia, sulla messa celebrata non più in latino ma nelle lingue parlate nei vari paesi e sul celebrante rivolto verso la platea dei fedeli e non più verso il tabernacolo con i fedeli alle sue spalle.
Non era soltanto una questione di forma, ma di sostanza: la liturgia aveva rappresentato infatti per molti secoli la custodia ben sigillata della ritualità tradizionale. La sua innovazione aveva aperto quella custodia e liberato una creatività che in qualche modo riscopriva il ruolo essenziale del “popolo di Dio” rispetto ai sacerdoti e alla gerarchia. La pastoralità diventava l’elemento essenziale e dunque la predicazione del Cristo e degli apostoli così come le Scritture l’avevano trasmesse, nelle diverse letture che di esse potevano farsi.
Per gli innovatori più radicali quest’apertura della liturgia alla creatività significava qualche cosa di più: il rito diventava subordinato alla pastoralità, cioè al dialogo tra le anime. E Dio perdeva alcuni dei suoi connotati acquistandone altri. Dio perdeva i connotati della nazionalità, perdeva soprattutto l’appartenenza a questa o a quella Chiesa cristiana e perfino a questa o quella religione monoteista.
Il Dio trascendente non poteva esser rivendicato come cattolico o luterano o mormone o battista, ma neppure come ebreo, neppure come musulmano. Dio era ecumenico, il Vaticano II aveva proclamato l’ecumenismo e il dialogo tra le diverse religioni come un obiettivo fondamentale; aveva anche aperto al dialogo con i non credenti. Da un lato con finalità di proselitismo, dall’altro come confronto di anime nel rispetto delle loro credenze o non credenze.
Restava ferma la fede nel Cristo incarnato in Gesù di Nazareth, nel suo sacrificio e nella sua resurrezione. Restava il mistero trinitario, sconosciuto alle altre due religioni monoteiste. Ma attorno a questo pilastro c’era e c’è un amplissimo spazio per il dialogo, il confronto e l’incontro.
* * *
La rievocazione del Vaticano II ha reso attuale un altro tema tutt’altro che secondario: l’apostolicità della Chiesa cattolica. Se quella parola ha un senso - e certamente ce l’ha - significa che la parola dei Vescovi riuniti in apposite sedi è sicuramente consultiva ma può dar luogo anche a deliberazioni che la gerarchia dovrà rendere operative.
Papa Ratzinger che all’epoca del Vaticano II fu uno dei più fervidi sostenitori dei suoi contenuti innovativi, ha colto l’occasione del Sinodo degli scorsi giorni per sottolineare che quella cattolica non è e non dev’essere una Chiesa conciliare; i Concili nella visione del Papa, sono soltanto organi consultivi e così pure i Sinodi e i singoli Vescovi titolari di Diocesi. Il Papa sarà sempre molto sensibile ai loro suggerimenti, ma non si tratta in nessun modo di organi “costituenti”. Quand’anche proclamassero nuovi dogmi, quei dogmi saranno già stati deliberati dal Vicario di Cristo e il Concilio funzionerà soltanto come “amplificatore” di quanto è già stato elaborato e deliberato da chi siede sul trono di Pietro.
Su questo punto tuttavia il dibattito è aperto e chi lo ha posto al centro delle sue riflessioni è stato Carlo Maria Martini, da poco scomparso.
Martini partiva da un dato sorprendente: in duemila anni di storia del Cristianesimo cattolico i Concili sono stati 21, con una media di uno ogni cento anni. Ma la media, come sempre avviene nella statistica, nasconde una realtà storica abbastanza sorprendente: i 21 Concili si sono addensati in certi periodi e in altri non si sono tenuti affatto. Se ne tennero tre o quattro a cavallo del terzo e quarto secolo; altri a cavallo del decimo e undicesimo, altri ancora due secoli dopo. Infine ci fu il Concilio di Trento e poi un salto di quasi trecent’anni, fino al Vaticano I con in mezzo un Conciliofarsa voluto da Napoleone.
Una Chiesa così organizzata si può definire apostolica? I Vescovi sono i discendenti degli apostoli allo stesso titolo per cui il successore di Pietro è il vicario di Cristo in terra. Senza entrare nel controverso tema se si tratti di organi consultivi o deliberanti, resta il fatto che andrebbero convocati (ma possono anche autoconvocarsi) con maggiore frequenza e regolarità. Una delle proposte martiniane fu un Concilio in occasione d’ogni Giubileo e nell’intervallo molteplici Sinodi.
Una Chiesa del genere avrebbe capacità di ecumenismo molto maggiore di quella attuale e vedrebbe aumentare il peso del laicato cattolico, degli oratori rispetto alle parrocchie, della libertà religiosa resa più fertile dalla ravvicinata convivenza tra le varie Chiese cristiane nonché con le altre due religioni monoteistiche. Se il Papa, in quanto Vescovo di Roma, ricevesse la sua preminenza da questo titolo e non soltanto dal Conclave cardinalizio e se anche i Concistori assumessero un più ampio spazio consultivo, ecco che la Curia verrebbe a configurarsi come una sorta d’Intendenza e non come la sede effettiva del potere cattolico.
Sono questioni molto delicate. Non c’è dubbio alcuno che la Chiesa non sarebbe durata duemila anni senza un’architettura centralistica, ma non c’è egualmente dubbio che quell’architettura l’ha coinvolta in un “temporalismo” che spesso ne ha distorto le funzioni ed ha tradito proprio quella predicazione evangelica e quella pastoralità che avrebbero dovuto rappresentare la sostanza del Cristianesimo. La Chiesa delle Crociate, la Chiesa corrotta e simoniaca che dette indegno spettacolo tra il Quattrocento e il Seicento, la Chiesa-Stato che ha rappresentato l’ostacolo principale alla mancata nascita della nazione italiana, la sua partecipazione alle guerre in Europa in subordine a volte alla Spagna a volte alla Francia e infine i roghi dell’Inquisizione e delle streghe, non sono brevi episodi dei quali pentirsi. L’istituzione-Chiesa ha preservato la predicazione e la pastoralità per duemila anni, l’abbiamo già detto, ma il suo costo è stato altissimo e continua in forme per fortuna molto più attenuate ma comunque responsabili della secolarizzazione e dell’allontanamento dell’Europa dall’icona del Cristo crocifisso e poi risorto.
Se proprio l’Europa è diventata terra di missione e di nuova evangelizzazione, un motivo ci sarà. L’architettura distorta della religione non ne è il solo ma certamente ne è uno dei principali.
* * *
Infine il dialogo con la modernità. Non è e non sarà un dialogo facile. La modernità è un’epoca che ha combattuto l’assoluto mettendo al suo posto il relativismo. Ha detronizzato la metafisica, ha sottolineato l’autonomia della coscienza e il desiderio della conoscenza. Ha affidato l’etica all’autonoma responsabilità dell’individuo.
Un dialogo è auspicabile ma difficilmente potrà portare ad esiti positivi se la Chiesa terrà ferma i paletti dei principi non negoziabili.
Il solo principio non negoziabile dal punto di vista della Chiesa è il Cristo figlio di Dio. A me è accaduto da vecchio laico non credente d’incontrare un sacerdote come Carlo Maria Martini con la sua incrollabile fede in un Cristo risorto, da lui definito “sempre risorgente”, quindi non un’icona immobile ma una presenza dinamica da riconquistare quotidianamente.
A quel Cristo sempre risorgente non ho contrapposto ma ho affiancato Gesù di Nazareth, figlio di Maria e di Giuseppe, predicatore e profeta dei deboli, degli oppressi e degli esclusi, figlio dell’uomo.
Questo e non altro è il dialogo possibile tra la modernità e la Chiesa. Il tempo delle evangelizzazioni è finito ed è cominciato invece il tempo delle fertili contaminazioni tra diversi, animati da sentimenti di carità. La carità come la intendeva Gesù quando esortava ad amare il prossimo come si ama se stessi. Per lui quello era il solo modo di adorare il Dio di tutti e di ciascuno. Per noi è la visione del mondo dei giusti, un’utopia che può realizzarsi se ciascuno di noi lo vorrà.
RABBINI, CON RATZINGER CANCELLATI 50 ANNI DI DIALOGO
ROMA, 13 GEN - Con Benedetto XVI, la Chiesa sta cancellando i suoi ultimi "cinquanta anni di storia" nel dialogo tra ebraismo e cattolicesimo: a lanciare la critica è il rabbino capo di Venezia, Elia Enrico Richetti, che - in un editoriale per il mensile dei gesuiti "Popoli", ha spiegato i motivi che hanno portato il rabbinato italiano a non partecipare alla prossima Giornata sull’ebraismo, indetta per il 17 gennaio dalla Confrenza episcopale italiana.
Il rabbino di Venezia ricorda innanzitutto la decisione di Benedetto XVI di reintrodurre, con il messale pre-conciliare, la preghiera del Venerdì Santo per la conversione degli ebrei. Il rabbinato italiano - riferisce Richetti - ha chiesto spiegazioni ed un ripensamento: con risposte ufficiose, "una risposta della Conferenza episcopale, sia pure sollecitata, è mancata", la Chiesa - afferma l’esponente ebraico - ha fatto presente che "gli ebrei non hanno niente da temere", in quanto "la speranza espressa dalla preghiera ’Pro Judaeis’ è ’puramente escatologica’, è una speranza relativa alla ’fine dei tempi’ e non invita a fare proselitismo attivo". "Queste risposte - osserva tuttavia rav. Richetti - non hanno affatto accontentato il Rabbinato italiano. Se io ritengo, sia pure in chiave escatologica, che il mio vicino debba diventare come me per essere degno di salvezza, non rispetto la sua identità. Non si tratta, quindi, di ipersensibilità: si tratta del più banale senso del rispetto dovuto all’altro come creatura di Dio".
"Se a ciò aggiungiamo - aggiunge - le più recenti prese di posizione del Papa in merito al dialogo, definito inutile perché in ogni caso va testimoniata la superiorità della fede cristiana, è evidente che stiamo andando verso la cancellazione degli ultimi cinquant’anni di storia della Chiesa". "In quest’ottica, l’interruzione della collaborazione tra ebraismo italiano e Chiesa è la logica conseguenza del pensiero ecclesiastico espresso dalla sua somma autorità", ha concluso.
Commissione per il messaggio finale: eletti i membri *
Ieri sono stati eletti i membri della Commissione per il messaggio finale del Sinodo, guidata dall’arcivescovo Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della cultura.
Sono il cardinale Walter Kasper (presidente del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani);
John Olorunfemi Onaiyekan, arcivescovo di Abuja (Nigeria);
il cardinale Oscar Rodriguez Maradiaga, arcivescovo di Tegicigalpa (Honduras);
l’arcivescovo di Guwahati (India) Thomas Menanparampil;
il cardinale Godfried Danneels, arcivescovo di Malines-Bruxelles;
l’arcivescovo di Agaña (Guam, Oceania) Anthony Sablan Apuron (Oceania);
l’arcivescovo metropolita di Pittsburg dei Bizantini Basil Myron Schott.
* Avvenire, 10.10.2008, p. 23.
Perché non piacciono gli studi sul cristianesimo
Se la Chiesa ha paura
Gesù diviso tra fede e storia
Il Sinodo dei vescovi dedicato alla Bibbia si è aperto con una messa in guardia contro le "analisi unilaterali" cioè contro il metodo storico-critico
La parola d’ordine è il ritorno all’interpretazione spirituale che evita nodi irrisolti
L’inchiesta di Corrado Augias e Remo Cacitti è stata sottoposta a feroci attacchi
di Marco Politi (la Repubblica, 22.10.2008)
Città del Vaticano. Il Sinodo dei vescovi, dedicato alla Bibbia e la missione della Chiesa, si è aperto con una messa in guardia. Va rifiutata, ha detto William Levada prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, ogni interpretazione soggettiva o «frutto di un’analisi unilaterale». Un clima di tensione spesso malsano, ha incalzato il relatore ufficiale cardinale Marc Ouellet del Quebec, si è instaurato tra la teologia universitaria e il magistero ecclesiale. Le scoperte storiche, filosofiche e scientifiche, ha soggiunto, hanno attizzato polemiche. Colpa suprema degli studiosi è l’aver «aumentato il divario tra il Gesù della storia e il Cristo della fede». Dalle battute iniziali del Sinodo in corso si è compreso che il pontificato ratzingeriano è deciso a dare un giro di vite a oltre un secolo di ricerca teologica basata sul metodo storico-critico.
Perché, più proseguono gli studi più cresce il gap tra l’immagine di Gesù dei catechismi tradizionali e la realtà complessa degli eventi relativi alla sua predicazione e alla sua eredità. Lo stesso terremoto ha investito l’Antico Testamento. Si sa ormai che la Terra Promessa non è mai stata conquistata da Giosuè così com’è descritto nella Bibbia né gli ebrei sono stati monoteisti dall’inizio.
La Chiesa ha paura. E’ allarmata che sotto l’influsso dei mass media entrino in circolazione acquisizioni che per decenni sono rimaste limitate ai circoli accademici. Tutti gli addetti ai lavori sanno che la famosa frase, che campeggia sotto la cupola della basilica vaticana «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa», è una frase tardiva e comunque non preannuncia né il papato onnipotente e teocratico come si è strutturato da Gregorio VII e Innocenzo III in poi né tantomeno prefigura la Chiesa-istituzione formatasi secoli dopo la crocifissione. Chi setaccia le opere degli specialisti tutto questo tra le pieghe lo trova, ma un conto è dirlo al riparo di volumi ponderosi un conto è portarlo in pubblico. C’è voluto Giovanni Paolo II per informare ufficialmente i fedeli che Natale non è affatto il giorno di nascita di Gesù, ma nell’antica Roma era il «giorno natale del Sole». E sempre Wojtyla ha spiegato con delicatezza che la tradizione ortodossa della Dormizione di Maria era legittima. Senza bisogno - si può aggiungere - di immaginarsi un’Assunzione come se la Madonna salisse in cielo su un immaginario ascensore. «La Chiesa si è spaventata degli studi esegetici di carattere storico - commenta il professor Mauro Pesce, che con Corrado Augias ha pubblicato nel 2006 il bestseller Inchiesta su Gesù - e teme che mettano in pericolo la fede della gente». Al Sinodo la parola d’ordine è il ritorno all’interpretazione «spirituale».
Certo un approccio possibile e anche giusto dal punto di vista religioso, ma che non può rimuovere i nodi che la ricerca storica ha portato alla luce. I nodi stanno lì. Aggrovigliati. Difficili a sciogliersi. E sono almeno cinque. Il parto verginale di Maria ha un sapore mitologico: lo sapeva bene Joseph Ratzinger quando era ancora un teologo senza porpora cardinalizia e scriveva nel suo libro Introduzione al cristianesimo (pubblicato in Italia dalla Queriniana nel 1969) che «la dottrina affermante la divinità di Gesù non verrebbe minimamente inficiata, quand’anche Gesù fosse nato da un normale matrimonio umano. No, perché la filiazione divina di cui parla la fede, non è un fatto biologico bensì ontologico». E se i Vangeli riferiscono dei fratelli di Gesù ed è stiracchiato voler piegare la parola a «cugini».
Gesù non ha mai predicato la sua divinità. Si è sentito umano sino in fondo come emerge dal grido disperato sulla croce «Dio mio, perché mi hai abbandonato». Gesù, inserito nel clima apocalittico dell’ebraismo a lui contemporaneo, ha preannunciato un suo «ritorno» imminente che non è avvenuto. La Trinità è un’elaborazione teologica del cristianesimo, inconcepibile per l’ebraismo in cui è nato Cristo. La Chiesa non era sin dall’inizio nella mente di Cristo, ma è il prodotto di trasformazioni storiche. Affascinanti, straordinarie, ma umane.
Tutto ciò che la storia ha portato alla luce, demitizzando, in realtà non incrina quell’impulso indescrivibile che è il rapporto con il Mistero-oltre-l’uomo e oltre la realtà tangibile: chiamiamola fede. Ma può mettere in crisi l’istituzione e le autorità che si ritengono infallibilmente preposte ad annunciare la Verità. Il problema alla fine è l’origine trascendente dell’istituzione ecclesiastica. «Gesù mette in crisi l’assetto della Chiesa attuale, ma succede sempre così quando si va direttamente alla Bibbia», soggiunge lo storico Pesce. Per l’istituzione ecclesiastica è difficile spiegare l’evoluzione da Gesù al cristianesimo antico fino alla Chiesa attuale. Con lo storico Remo Cacitti, Corrado Augias ha pubblicato recentemente un altro libro Inchiesta sul cristianesimo, sottotitolato provocatoriamente «Come si costruisce una religione». L’Avvenire, il giornale dei vescovi, lo ha criticato.
Ma c’è stato un risvolto curioso. Una prima volta è stata pubblicata una recensione di normale critica. Appena il libro ha avuto successo, l’Avvenire è tornato sull’argomento con una pagina di feroce attacco. Il problema, naturalmente, non è Augias che viene difeso dai lettori che comprano i suoi libri. La questione è la virulenza della reazione, appena una serie di dati storici viene portata in pubblico. «Con papa Ratzinger - ne è convinto lo storico Giovanni Filoramo - stiamo assistendo ad un ritorno alla tradizione, lo si vede anche dal suo discorso su Pio XII. Già prima dell’elezione papale Ratzinger contestava l’esegesi storico-critica. La domanda è se, come ha fatto nel suo libro su Gesù, si limiti a proporre un’interpretazione alternativa o se la sua linea mette in discussione la libertà di coscienza e di ricerca degli studiosi cattolici». Nelle facoltà pontificie, continua Filoramo, si avverte la difficoltà degli esegeti ad esprimersi con piena libertà. Una prima risposta viene direttamente da Benedetto XVI.
Intervenendo a braccio al Sinodo, il Papa ha reso omaggio al metodo storico-critico per i suoi contributi di «altissimo livello», che aiutano a capire che il «testo sacro non è mitologia». Ma poi ha evocato i rischi di un’interpretazione positivista o secolarista, che non offre spazio all’apparizione del divino nella storia. Al Sinodo il pontefice è già stato invitato a scrivere un’enciclica sull’interpretazione biblica. Con gli esiti che si possono immaginare. «La grande preoccupazione della Chiesa - dice il professor Cacitti - è di mantenere il controllo sulla ricerca scientifica per paura che vi siano esiti difformi dal dogma».
Pesce ricorda un episodio molto istruttivo. «Paolo VI aveva chiesto alla Commissione biblica di fare uno studio per vedere se nelle Scritture c’erano ostacoli al sacerdozio delle donne». La conclusione delle ricerche? «La Commissione affermò che non c’erano argomenti di carattere biblico che facessero da impedimento al sacerdozio femminile. Il testo non fu pubblicato. Paolo VI escluse poi ufficialmente ogni possibilità».
Che vi siano stati dei veri e propri salti nella costruzione della Chiesa lo dimostra la vicenda del grande scrittore cristiano Lattanzio. Prima dell’editto di Costantino Lattanzio è violentemente anti-imperiale e totalmente contrario al servizio militare. Appena il cristianesimo diventa religione ufficiale, cambia linea e scrive che la guerra per la patria romana «bonum est».
comunicato stampa - anticipazione
EDITORIALE
della RIVISTA ECCLESIA DEI
rivista di teologia e storia della Chiesa
edita dal CST - Centro Studi Teologici di Milano
PERCHE’ RATZINGER TENTA LA RIVALUTAZIONE DI PIO XII E NE RIPROPONE LA BEATIFICAZIONE IN CUI IL VATICANO HA MAI SMESSO DI CREDERE: PERCHE’ E’ IN ATTO UN PROGETTO IDEOLOGICO CHE TENDE A MINIMIZZARE L’ANTISEMITISMO DELLA CHIESA CATTOLICA CHE HA PREPARATO QUELLO NAZIFASCISTA E SI VUOL NEGARE - con la revisione storica - TUTTE LE COMPLICITA’ del VATICANO CON I REGIMI DITTATORIALI, E PERCHE’ BENEDETTO XVI SI IDENTIFICA IN LUI, IL PAPA PRECONCILIARE E IL MONARCA ASSOLUTO CHE FU PACELLI NEL SECOLO SCORSO.....
si dice che anticipò i temi del Concilio Vaticano II e che aprì agli studi esegetici sulla Bibbia..
in parte è vero... ma il suo Pontificato fu monarchia assoluta in contrasto totale verso i principi fondanti del Concilio (e contro ogni ecclesiologia autentica ortodossa e orientale ) e durante il suo papato vi furono purghe e processi tremendi verso teologi ed esegeti come Pierre Teillard de Chardin e Padre Ive Congar e tanti altri.....
PIO XII non è stato un Papa Santo come tanti entusiasti estimatori continuano a sbandierare secondo una loro particolare versione dei fatti: forse perchè dicevano che avesse visto il Signore Gesù Cristo quando camminava nei giardini vaticani.
Che fosse un mistico era risaputo, che avesse visioni pure...
Ma ci vuol ben altro per eserre Santi!...
Durante il suo mandato come Nunzio Apostolico prima a Monaco di Baviera e poi a Berlino, fu un solerte fautore dell’accordo del centro cattolico popolare tedesco con il nascente nazismo, e fu lui a spianare la strada all’ascesa di Hitler come cancelliere....
Divenuto poi Segretario di Stato con Pio XI favorì i patti con tutte le dittature possibili e immaginabili: quelli del ’29 firmati dal suo predecessore cardinale Gasparri e Mussolini, poi quelli del ’33 con Hitler.
La Chiesa guidata prima da Pio XI Ratti e poi da lui stesso con il nome di Pio XII (nessuna fantasia nemmeno nel cambiare o scegliere un nome! tanto era meticoloso pedissequo burocrate di corte pontificia... pignolo esecutore di ordini e pignolo nel darne)
è stata collusa in tutto e per tutto con i due peggiori regimi mai sorti in Europa, quello fascista e quello nazista.
Fu lui dopo il Papa di Desio che fece un abbraccio mortale con i regimi dittatoriali che distrussero l’Europa e diede in mano la Chiesa cattolica ai due cialtroni criminali di Mussolini e Hitler ( Achille Ratti Pio XI almeno si era ricreduto sul fascismo e sul nazismo alla vigilia della morte e negli ultimi anni, quando ormai era tardi, con l’enciclica Mitt Brennender Sorge e poi con un’altra enciclica, che avrebbe dovuto condannare il nazismo e l’antisemitismo, ispirata dai gesuiti, rimasta invece segreta e non pubblicata poichè il Ratti morì l’11 febbraio del 1939 poco prima di poterla pubblicare).
Lui no, lui con la motivazione plausibile o la scusa del pericolo del comunismo bolscevico si è buttato in relazioni più che ottime con i due despoti che hanno fatto uccidere una quantità immane di uomini e di donne in Italia e nel mondo.
Lui ha dato insieme con PIO XI ogni avallo spirituale, ripeto "AVALLO SPIRITUALE" al regime fascista in Italia e nazista in Germania.
Che adesso Paolo Mieli, direttore del Corriere della Sera, scriva dalle pagine dell’Osservatore Romano che è una "leggenda nera" l’aver diffamato Pacelli perchè salvò, nel silenzio, tanti ebrei, ci stupisce non poco!
Ci pare che Mieli sia ebreo di origini, però non basta salvare un po’ di ebrei per passare da complice dei carnefici ad anima buona che salva i derelitti.
E’ una responsabilità tutta ecclesiale e politica che ci fa’ gridare NO!
Che Pacelli non fu un Papa all’altezza di quel compito che la Chiesa si prefigge e che NON fu Santo, come facilmente e strumentalmente i curiali di ogni risma continuano a propinarci, poichè non basta vestire di bianco per essere bianchi dentro.
Sono le parole chiare e i gesti chiari che fanno la verità di un uomo, e di un uomo di Chiesa pure non le messe in scena , le coreografie e le commedie: "il vostro parlare sia sì sì no no", diceva il Signore Gesù Cristo, di cui Lui diceva di essere il Vicario!
Tutto ciò che contro il monito evangelico non ha fatto....
Il suo silenzio è solo l’epilogo forse imbarazzato di gesti ben più eloquenti di contatti, relazioni diplomatiche, affari intrapresi e onorificenze e privilegi, credito e benedizioni, dati ai due despoti assassini del mondo democratico e libero.
La sua responsabilità è atroce e rimane tutta intera e non basterà a questo vivente pontefice tedesco rivalutarne a 50 anni dalla morte una figura ormai destinata oggi ad un altro silenzio siderale altrettanto pesante ma per noi tutti liberatorio.
Cosa c’entra l’aver salvato nei monasteri d’Italia un po’ di ebrei?
non ha fatto che quel che doveva...?
Ha fatto in pratica quel minimo che la sua coscienza di cristiano gli dettava di fare, ma con l’accortezza di non disturbare troppo i governanti di allora, senza intralciare i loro sogni di distruzione, dominio e morte....
Prima ha rafforzato benedicendo i regimi, poi ha salvato qualche vittima di questi regimi...
e questo si definisce essere un Santo?
Non doveva forse lanciare la sua Chiesa mondiale da subito contro questi energumeni del male, sorti sulle rovine della Prima guerra mondiale?
Non doveva predicare il Vangelo sine glossa di fronte a quelli che impugnavano una croce uncinata che non era quella certamente del Cristo ebreo ucciso?
Persino da Castel Gandolfo Pio Xi durante la visita di Hitler a Roma, dove si era ritirato, aveva ammonito che la croce uncinata non era il simbolo dei cristiani e di salvezza, ma di sciagure ben diverse.
Morto Ratti, Pacelli PIO XII si limitò a radiomessaggi annacquati e generici, ritirò l’enciclica del predecessore, che doveva condannare Hitler e il suo regime, indebolì il fronte dei Vescovi antinazisti, boicottò tante iniziative contro la Germania influenzato da quella dispotica Suora tedesca Pasqualina Lehnert che (quasi fosse una sua amante nemmeno tanto segreta) si teneva alla faccia di tutti i prelati vaticani, dentro l’appartamento pontificio.... mentre preti considerati "modernisti" venivano processati e perseguitati anche solo per un sospetto concubinato...
Una Suora inquietante, questa religiosa tedesca, e il cui vero ruolo è tutto da accertare ancora, soprattutto per quanto concerne il silenzio papale sugli ebrei , che forse verrà approfondito e studiato se gli archivi potranno un giorno aprirsi... e se non interverranno le solite censure preventive e prudenziali di cui Santa Romana Chiesa è Maestra secolare.
Si diceva che la Pasqualina gli aveva salvato la vita durante gli scontri di anarco-comunisti a Monaco, entrati in nunziatura nel 1948 durante le sommosse, sicuramente però gli ha dannato l’anima, quando lo ha paralizzato e irretito di fronte ad ogni sopruso nazista della sua Germania e davanti ad ogni grido di dolore e di denuncia che arrivavano sul suo tavolo in Vaticano da varie ambasciate, nunziature e dalle Diocesi di mezzo mondo.
Neppure si affacciò da quella sua finestra la mattina che gli ebrei vicino a Borgo Pio, a due passi dal suo palazzo, vennero caricati sui camion per essere condotti al macello nei lager di Polonia e di Germania... neppure quando fu scongiurato a farlo da molti nobili aristocratici del suo rango ad agire.
Parafrasando Dante potremmo dire che Egli fu " Colui che fece per viltade il gran silenzio!" togliendo così l’immeritata infamia su un altro pontefice invece ben più evangelico e santo che è l’eremita Celestino V, Pietro Angelieri da Morone.
Un uomo indegno del papato, che già è indegno di suo,perchè usurpazione della potestà unica e celeste di Cristo. Un uomo mediocre, un uomo ignavio, un uomo senza qualità, un uomo grigio che ha contribuito a rendere il clero pusillanime e indeciso di fronte al male che avanzava....
pochi i preti che combattevano a fianco dei partigiani, pochi gli uomini di religione che si ribellavano all’orda criminale...
molti di questi uccisi o torturati nonostante il silenzio del Papa (Padre Maximilian Kolbe per i cattolici e Dietrich Bonhoeffer per i protrestanti )
Grande solerzia invece dell’aristocratico parvenu prelato romano nel far scappare in America Latina i peggiori criminali nazisti con il passaporto dello Stato Vaticano (la sua nobiltà dovuta al Nonno paterno che fu gentiluomo di Papa PIO IX Mastai Ferretti e da questi nominato principe, poichè contribuì a far ammazzare un bel po’ di rivoltosi della breve Repubblica Romana, soffocando i moti popolari quando il Papa dovette fuggire a Gaeta, e permettendo con i francesi al pontefice di tornare sul suo oscurantista trono che tiranneggiava gli italiani e fomentava dissidi in mezza Europa).
Questo l’uomo politico Pacelli, che con la fuga dei tanti nazisti in America Latina contribuì alla nascita di quei regimi sanguinari, appoggiati poi dalla CIA americana, che sorsero a metà degli anni ’70, come quello di Videla e Massera in Argentina e quello di Augusto Pinochet in Cile, tanto per citarne due tra i più noti e feroci, gli stessi che fecero torturare e massacrare tanti giovani dissidenti e studenti, poi desaparecidos, e persino suore e frati e preti e pastori di altre Chiese cristiane (tutti accusati di comunismo e di essere rivoluzionari, soltanto perchè si ribellavano al terrore della dittatura e combattevano politicamente per la libertà).
Un Vescovo profetico mons. Carlos Duarte Costa proclamato santo dalla Chiesa nazionale del Brasile, separatasi dal Vaticano, denunciò questi misfatti operati da Papa Pacelli, l’infallibile proclamatore di dogmi, quando fece fuggire i gerarchi nazisti con i passaporti vaticani in quel continente, e fu da questo visionario mistico pontefice scomunicato.
Una scomunica con la bolla del 2 luglio 1945 (che gli impostori facitori di iniquità che stanno dentro le sacre mura delle secreterie dei palazzi vaticani tengono ben nascosta) che gli fa’ onore , dato che è stata comminata da un uomo divenuto pontefice che ha agito pressochè sempre contro l’Evangelo di Cristo Signore!
Ecco una parte di quel che ha fatto, o non ha fatto, il cosiddetto Vicario di Cristo: Eugenio Maria Giuseppe Giovanni Pacelli qui sibi nomen imposuit PIUS DUODECIMUS il 2 marzo del 1939, giorno del suo 63°compleanno (che veramente si credeva infallibile...)
Certo un uomo non fa’ tutto del male, ma si può farne tanto anche quando non si contrasta il male.... e il male trionfa quando i buoni stanno a guardare impassibili.
Lui è stato a guardare il male che avanzava, e mentre era solerte tessitore di arti diplomatiche (arti diaboliche di uno Stato che Cristo non ha mai voluto! " I CAPI DELLE NAZIONI COMANDANO SU DI ESSE E SPADRONEGGIANO, MA PER VOI MIEI DISCEPOLI NON SIA COSI’ " diceva Cristo! Vero scandalo per i cristiani! ) e si accompagnava a braccetto con i peggiori despoti del secolo scorso, ha taciuto sui misfatti più atroci e sullo sterminio di sei milioni di ebrei, tra i quali i bambini più inermi.
A che serve mai vestirsi di bianco?... fare radiomessaggi al mondo urbi et orbi?... benedire con ampie braccia dispiegate... e anche avere visioni di presunti Cristo che girano per i giardini vaticani, quando non si è illuminati affatto ma accecati da presunzione personale e affetti da miopia evangelica e paralizzati da mutismo ignavio?
Lui Pacelli amava l’ossequio acritico delle masse, pensava di irretirle e affascinarle ammutolendole con i suoi gesti carismatici spalancando le braccia, per pura forza di immagine, bianco o nelle sontuose vesti dorate, come una divinità antica faraonica, che si ergeva sulle teste non pensanti dei fedeli....
e di fronte a tutto il resto bastava questa devozione per santificare e per rendere buoni... (beata illusione!)
NO, sono i gesti e le parole profetiche, chiare e dirette, contro gli operatori del male, i fascisti e i nazisti, senza tacere dei comunisti (di cui spesso parlò) che dovrebbero fare grande un uomo, un papa...
il resto è mistificazione sottile....
Profezia, testimonianza, parola....
Cose che non accaddero affatto e che lo condannano al giudizio ineludibile della Storia.
Mieli e altri lo sanno, possono forse distrarci un po’ dal punto cruciale, ma esso ritorna imperterrito senza nè alibi nè giustificazioni di sorta.
FORSE CE LO METTERANNO SUGLI ALTARI, CON IL PLAUSO DEL PONTEFICE TEDESCO PIU’ IDEOLOGICO E DOTTRINARIO MAI APPARSO IN QUESTI ULTIMI SECOLI : GLI ALTARI ORMAI DA TEMPO OSPITANO VERI CRIMINALI FATTI PASSARE PER SANTI ( da alcuni primi Padri della Chiesa feroci persecutori di "eretici" , in Oriente e in Occidente, passando per S. Carlo Borromeo eSan Roberto Bellarmino, santi cardinali inquisitori, che portano l’eredità di migliaia di vite processate, torturate e trucidate, fino al fondatore dell’Opus Dei, da poco canonizzato, colluso con il fascismo in Spagna e in America Latina...)
GLI ALTARI ORMAI PIU’ CHE PER LA PREGHIERA VERA E PER LA SANTIFICAZIONE SERVONO A PORTARE DEVOZIONI SCIOCCHE E DENARO.
Domine salva nos, perimus!
mons. + Joannes Climacos MAPELLI
Arcivescovo Primate
e i Teologi del CENTRO STUDI TEOLOGICI di MILANO
CENTRO ECUMENICO
segue
un riassunto dell’agenzia ASCA,
circa l’articolo di Paolo Mieli sull’Osservatore Romano in data odierna
PIO XII: MIELI SU OSSERVATORE ROMANO, PAZZESCO AVVICINARLO A HITLER
(ASCA) - Citta’ del Vaticano, 8 ott - ’’Una cosa pazzesca!’’ che si sia ’’formato un senso comune per cui Pio XII viene visto come un Pontefice addirittura complice del Fuhrer nazista’’: alla vigilia della messa che papa Benedetto Xvi celebrera’ domani nell’ambito del Sinodo dei vescovi a 50 anni dalla morte di papa Pacelli, l’Osservatore Romano intervista il direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli che difende l’operato del pontefice che collega la cosiddetta ’’leggenda nera’’ sulla sua figura al fatto di essere stato ’’anche - e sottolineo ’’anche’ - anticomunista’’.
’’In questi decenni di polemiche gli e’ stato spesso rimproverato di essere stato turbato da questa visione’’, spiega Mieli in riferimento ad alcuni discorsi di Pacelli nel ’37 in Francia e nel ’38 in Ungheria, in cui attaccava piu’ duramente le persecuzioni del regime comunista piuttosto che quelle del regime nazista. Mieli ricorda pero’ che ’’la tematizzazione della Shoah come noi oggi la recepiamo e’ di molti decenni successiva alla fine della seconda guerra mondiale. Negli anni Trenta pochissimi avevano l’idea di quello che poteva accadere agli ebrei’’. ’’Percio’ - prosegue - quando noi parliamo di un Papa alla fine degli anni Trenta, possiamo comprendere come fosse piu’ sensibile alle persecuzioni anticristiane in Unione Sovietica rispetto a quanto stava emergendo nel mondo nazista; questo non vuol dire che fosse un nazista camuffato’’.
Per Mieli, una interpretazione ’’maliziosa’’ del ruolo di Pio XII, nata ’’all’interno alla Chiesa stessa, contrapponeva a Pio XII la figura di Giovanni XXIII. ’’Fu un’operazione devastante - spiega il direttore del Corriere della Sera -: si e’ trattato Giovanni XXIII come un Papa che avrebbe avuto nel corso della seconda guerra mondiale quelle sensibilita’ che invece Pio XII non aveva avuto. Una tesi molto bizzarra.
E tra le righe delle invettive contro Pacelli, sembra emergere che al Pontefice sia stato presentato il conto per il suo anticomunismo. In realta’ Pio XII e’ stato un Papa in linea con la storia della Chiesa cattolica del Novecento’’.
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