DEPONIAMO LE ARMI, APRIAMO UN DIBATTITO
di Federico La Sala*
Bisogna cominciare a vaccinarsi: il conto alla rovescia è partito. L’allineamento dei “pianeti” si fa sempre più stretto e minaccioso (Usa, Uk, Spagna, Italia, Grecia, Turchia, Israele..) e il papa - accerchiato e costretto alla rassegnazione - lo ha detto con decisione e rassegnazione: “Dio sembra quasi disgustato dalle azioni dell’umanità”. Io credo che non si riferisse solo e tanto all’umanità degli altri, ma anche e soprattutto delle sue stesse “truppe” che lavorano dietro le quinte e alacremente a tale progetto. Come è già apparso chiaro in varie occasioni (ultima, plateale, nel Kazakistan nel 2001) la gerarchia della Chiesa Cattolico-Romana ha il cuore duro come quello dei consiglieri del faraone. Si è mantenuta a connivente distanza da Hitler, ha appoggiato Mussolini, sta appoggiando il governo Berlusconi, e non finirà per appoggiare Bush? Figuriamoci. Lo sforzo di memoria e riconciliazione non è stato fatto per riprendere la strada della verità, ma per proseguire imperterrita sulla via della volontà di potenza...
Non ha sentito e non vuole sentire ragioni - nemmeno quelle del cuore: la “risata” di Giuseppe (cfr. Luigi Pirandello, Un goj, 1918, “Novelle per un anno”) contro il suo modello-presepe di famiglia (e di società) continua e cresce sempre di più, ma fanno sempre e più orecchi da mercanti! Cosa vogliono che tutti e tutte puntino le armi non solo contro Betlemme (come già si è fatto) ma anche contro il Vaticano?
Credo con Zanotelli che “stiamo attraversando la più grave crisi che l’homo sapiens abbia mai vissuto: il genio della violenza è fuggito dalla bottiglia e non esiste più alcun potere che potrà rimettervelo dentro; e credo - antropologicamente - che sia l’ora di smetterla con l’interpretazione greco-romana del messaggio evangelico!Bisogna invertire la rotta e lavorare a guarire le ferite, e proporre il modello-presepe correttamente.
Lo abbiamo sempre saputo, ma ora nessuno lo ignora più! Chi lo sa lo sa, chi non lo sa non lo sa, ma lo sanno tutti e tutte sulla terra, nessuno e nessuna è senza padre e senza madre! Dio “è amore” (1Gv.: 4,8) e Gesù (non Edipo, né tanto meno Romolo!) è figlio dell’amore di un uomo (Giuseppe, non Laio né tanto meno Marte, ma un nuovo Adamo) e una Donna (Maria) e non Giocasta né tanto meno Rea Silvia, ma una nuova Eva. Cerchiamo di sentire la “risata”.
Deponiamo le armi: tutti e tutte siamo “terroni” - nativi del pianeta Terra, cittadini e cittadine d’Italia, d’Europa, degli Stati Uniti d’America, di Asia, di Africa ecc., come di Betlemme, come di Assisi e di Greccio... E non si può continuare con le menzogne e la violenza!
Non siamo più nella “fattoria degli animali”: fermiamo il gioco, facciamo tutti e tutte un passo indietro se vogliamo saltare innanzi e liberarci dalla volontà di potenza che ha segnato la storia dell’Occidente da duemila anni e più! Si tratta di avere il coraggio - quello di don Milani - di dire ai nostri e alle nostre giovani che sono tutti e tutte sovrani e sovrane o, che è lo stesso, figli e figlie dell’amore di D(ue)IO... dell’amore di "due Soli" esseri umani, come anche Dante aveva già intuito, sul piano politico ma anche sul piano antropologico.
Cerchiamo finalmente di guardarci in faccia e intorno: apriamo il dibattito - o, perché no, un Concilio Vaticano III (come voleva già il cardinale Martini) tra credenti e non credenti - e teniamo presente che Amore non è forte come la morte, ma è più forte di Morte (Cantico dei cantici: 8,6, trad. di G. Garbini, non degli interpreti greco-romani della Chiesa Cattolica).
Caro La Sala,
ho letto, apprezzato e, ovviamente, condivido.
Gianni Vattimo
* Pubblicata su l’Unità del 29 dicembre 2002, p. 30.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FLS
Francesco in Iraq, l’unica diplomazia contro la guerra
Medio Oriente. Bergoglio non solo è il primo papa in Iraq ma anche il primo capo di stato dell’Occidente a casa dell’ayatollah Sistani. Ecco perché la sua visita è pastorale ma anche politica
di Alberto Negri (il manifesto, 06.03.2021)
Il papa in visita oggi da Sistani fa politica e diplomazia, quella che nessuno riesce a fare. Chi è Alì Sistani, il religioso sciita di Najaf?
È un uomo, con un’influenza spirituale estesa ben oltre i confini iracheni, che rappresenta la sintesi complessa, avvincente, e talora inestricabile, di un secolo di vicende dell’Iraq e del Medio Oriente.
Ma è anche una parte della nostra storia, assai poco onorevole, fatta di spartizioni coloniali e guerre, come quella del 2003 che l’Occidente ha portato nella terra di Abramo e che un altro papa, Wojtyla, ricevendo il vicepresidente di Saddam Hussein, il cristiano Tarek Aziz, cercò di fermare mentre in Italia esponevamo quelle bandiere arcobaleno adesso ormai stinte ed estinte.
Questa volta il papa fa un po’ anche la nostra parte, ci ricorda l’inferno iracheno, la memoria perduta e la vergogna di guerre costruite su menzogne come quella delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, la madre di tutte le fake news inventata da Bush jr. e Blair. Gli iracheni soffrono da decenni un calvario senza fine.
Morti e profughi si contano a milioni, le distruzioni sono inenarrabili: vite travolte e generazioni perdute. In 40 anni lì ho vissuto la guerra contro l’Iran (un milione di morti), quella del ‘91, del 2003, le stragi di Al Qaida e dell’Isis fino alla caduta di Mosul e alla sua liberazione dal Califfato nel 2017.
Una delle storie di Sistani e Najaf che ci può interessare è questa. Quando l’Imam Khomeini, poi diventato nel 1979 il leader indiscusso della rivoluzione sciita in Iran, andò nel 1965 in esilio a Najaf, Sistani accolse la sua venuta con una frase rimasta famosa: «Ecco adesso sono arrivati i guai».
Sistani come il suo maestro il grande ayatollah Khoei è sempre stato contrario al coinvolgimento del clero nella politica. Ma i suoi moniti a volte non furono seguiti: il figlio di Kohei, Abdul Majid, fu assassinato mentre, dopo una missione a Londra, andava a pregare al mausoleo di Alì il 10 aprile 2003, il giorno dopo l’entrata a Baghdad degli americani.
Qui anche una preghiera a volte è di troppo. Ogni passo del papa in questo viaggio è segnato dal sangue, quello dei musulmani, sciiti e sunniti, dei cristiani, degli yazidi, dei mandei, degli arabi, dei curdi.
In politica Sistani, massima autorità religiosa del Paese, è stato coinvolto dopo la caduta di Saddam ma in tanti anni di occupazione Usa non ha mai ricevuto il rappresentante di un governo occidentale. Come se gli americani avessero conquistato l’Italia senza mai essere accolti in Vaticano.
La stessa Najaf come meta del viaggio ha un’alta carica simbolica: la cupola d’oro del mausoleo di Alì, dove nel ’91 vidi le pareti insanguinate dalla repressione di Saddam, è dedicata al cugino e genero di Maometto, il quarto califfo, padre del martire Hussein a Karbala nel 680. Dopo Mecca e Medina è la meta di pellegrinaggio musulmana più gettonata e quando il papa vi giungerà, ancor prima di vedere i due minareti e la cupola, osserverà il più grande cimitero del mondo che ospita le tombe di milioni di sciiti da tutto l’islam.
Quindi Bergoglio non solo è il primo papa in Iraq ma anche il primo capo di stato dell’Ovest a casa di Sistani. Ecco perché la sua visita è pastorale ma anche politica. Pastorale perché i due firmeranno il documento sulla «fratellanza umana» già sottoscritto nel 2019 ad Abu Dhabi con l’imam sunnita di Al Azhar, Ahmad al Tayyeb.
Politica perché Sistani, pur essendo ostile alle ingerenze nel potere dell’establishment religioso, in realtà ha giocato in questi anni un ruolo di primo piano, fino a essere considerato una sorta di deus ex machina capace di imprimere svolte significative e di mediare le profonde divisioni del Paese.
Nato in Iran a Mashad nel 1930, Sistani era in origine un «quietista» e si teneva lontano dalla politica mentre altre famiglie di ayatollah come gli Al Hakim, i Baqr e i Sadr cadevano stritolati dalla macchina repressiva del regime baathista.
Poi, con l’arrivo degli americani, il Grande Ayatollah si è trovato in mezzo, prima trascinato dal suo giovane concorrente Muqtada Sadr, che guidò una rivolta armata con l’esercito del Madhi, poi nel 2014, quando dopo la caduta di Mosul ha dato la sua benedizione alle milizie popolari sciite che si opponevano al Califfato insieme ai pasdaran guidati dal generale Qassem Soleimani, eliminato da Trump nel gennaio 2020 proprio all’aereoporto di Baghdad.
Insomma il papa è in visita da un leader che è stato cruciale per arrestare l’offensiva jihadista dell’Isis e capovolgere le sorti del conflitto, difendendo strenuamente l’indipendenza del Paese dagli Usa e anche dall’inevitabile influenza iraniana. Se c’era ancora Trump il papa forse non si sarebbe troppo fidato di andare in Iraq, con Biden, che pure continua a fare il pistolero in Siria, si può sentire meno minacciato.
Ma è da ricordare che proprio questo papa nel 2014 si è opposto ai bombardamenti di un altro presidente democratico sulla Siria. La guerra al papa proprio non piace, che ci volete fare...
Franco Cassano (1943-2021)
di Raffaele Rauty (Il Mulino, 01 marzo 2021)
Sollevare l’elmo * e aprirsi all’altro avendo attraversato il fiume sino alla riva che non è la nostra, mentre l’acqua, l’altro, il confine attraversato, la fronte scoperta segnano una soggettività che affronta un destino incerto ma necessario, che ridefinisce relazioni e futuro. Franco Cassano, autore di questa immagine, a lui molto cara, è stato intellettuale, sociologo, riformatore, cultore di teoria e democrazia, militante non settario: sempre idealmente dalla parte dei deboli, non ha concepito distacco o scissione da un impegno storicamente legato alla trasformazione sociale, in un pensiero non consolatorio e mai concluso.
Dalla sezione universitaria comunista alla cittadinanza attiva di Città plurale, entrambe di Bari, città simbolo di tante città e di tanti Sud, in una realtà nella quale mezzogiorno, mediterraneo, meridionalismo, hanno assunto identità, significati, legami, consapevolezze, potenzialità diversi dal passato, Cassano ha segnato la strada di una lunga stagione i cui attori di volta in volta ne sono divenuti parte, rispondendo a una chiamata, come la vocazione di Matteo del Caravaggio, nella Chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma che Franco, quando poteva, amava visitare, simbolo di un Beruf fissato nella storia. Ma quella chiamata, quel Beruf non si concludevano in sé, ma erano solo l’inizio di una nuova lunga drammatica turbolenza, interiore ed esteriore.
La lettura e le parole dei testi, con i quali lavorava come in una enigmistica continua, erano premessa di analisi libera e ininterrotta, anche se il suo debito con la tradizione sociologica lo aveva pagato appena nell’università con il lavoro su Weber, Mills, Habermas (1971), in una scelta di studio segnata, come dichiarato in un colloquio lontano, dal fatto che Weber era stato ed era per lui verifica continua, «il grande», «quello cui devo tanto e sento sempre di dover tornare».
Franco il suo esame di «ammissione» nella comunità scientifica non lo fece con un concorso universitario, metodo mai amato ma forse necessario di cooptazione, ma con Marxismo e Filosofia (1971) testo ormai dimenticato, di un’editrice meridionale anch’essa dimenticata, la De Donato, che riproponeva testi e discussioni svoltisi sulle pagine di riviste comuniste, di difficile memoria, «Rinascita» e «Il Contemporaneo». E Franco, a trent’anni osò riflettere e confrontarsi con il cuore del marxismo e della politica, aprendo una riflessione, ai limiti dell’eresia per i suoi caratteri, a un retroterra che a Gramsci e Marx sommava anche Della Volpe e Panzieri, e che in quella semplice aggregazione di testi, ristrutturava i termini dell’analisi sociale.
Fu un esordio silenziosamente fragoroso, compreso, non so quanto condiviso, allora e nel seguito del percorso, da amici con i quali sarebbe rimasto un rapporto di affetto fraterno sempre, di stima reciproca continua, di distanza teorica frequente, Beppe (Vacca), Gino (de Giovanni), Giuseppe (Cotturi), Peppino (Caldarola), Franco (de Felice), tutti parte, individuale e collettiva, della storia del marxismo e della democrazia in Italia.
La sua ricerca appassionata, apparente tradimento o addirittura negazione di tradizioni profonde, quasi sacre, iniziava nelle librerie: avendo fatto della interdisciplinarità la madre delle sue categorie, frugava tra i libri con una curiosità che era strategia di costruzione della riflessione, dell’analisi e della comunicazione, dalla narrativa alle scienze sociali, alla letteratura e alla storia, piegando tutto, e raccogliendo, rigo dopo rigo, periodo dopo periodo, suggestioni per l’interpretazione della modernità in un contatto continuo tra senso comune e scienza. È stato un colloquio con autori emblematici del loro mondo, spesso inattesi, Pasolini, Fortini, Camus, Weil, Rossanda, Leopardi, passaggio simbolico il cui antecedente era stato un altro grande marxista a suo modo irregolare, Cesare Luporini, che aveva anche osato dialogare con «il mondo magico» meridionale, e poi altri e altri ancora.
In coerenza con questo, Franco Cassano, pur consapevole del suo ruolo, non amava definirsi sociologo; sentiva questa definizione, forse l’immanenza della disciplina, troppo stretta per la riflessione condotta e per una sensibilità che entrava in rapporto con universi spesso ancora lontani dai mondi più tradizionali che frequentava, il femminismo prima di tutti.
E i suoi lavori, tutti, dal Teorema democristiano a Senza il vento della storia, sono in qualche modo costruiti in modo non tradizionale, ricchi di notazioni interne al testo, a inseguire il filo centrale del discorso e le sue connessioni a volte appena accennate, spesso tracce di culture lontane ma riconoscibili e da riconoscere. Molto prima della discussione sui migranti le rive del Mediterraneo e i popoli di quelle terre riacquisirono la connotazione di contesti comuni e di fratelli, in una idea di cittadinanza, presenza, partecipazione, che sovrastava ogni limite esclusivo.
Franco Cassano, nelle aule universitarie di Bari, e nelle tante dove è stato chiamato a fare lezione, ha contribuito alla formazione di tanti studenti, in un lavoro mai divenuto consuetudine, e la sua sociologia lo aiutò in una rigorosa direzione de la «Rassegna Italiana di Sociologia», in una fase che, con l’avallo della sua casa editrice, raccolse nella redazione parte dei migliori esponenti della sociologia italiana, in una aggregazione che univa i percorsi teorici di sociologi come Franco Crespi, Margherita Ciacci, Pierpaolo Giglioli, Loredana Sciolla, Chiara Saraceno, con quelli di un gruppo di colleghi più giovani, miscelando esperienze e approcci analitici diversi, scienza, confronti, tutti cementati da stima reciproca, sensibilità, anche affetto.
La riflessione meridiana, centrale nella sua esistenza e nella sua attività, fu così la maturazione di premesse evidenti, in una riacquisizione di centralità e autonomia del Sud, risorsa struggente, carica di orgoglio e di impegno, di speranza e necessità, di opportunità e scelta, consapevole che molti, anche importanti, avevano trovato modo di abdicare a questo e che si trattava di una difficile ma necessaria operazione di riequilibrio, di riconquista di un lessico che aveva visto esaurirsi quello del meridionalismo storico e il suo soggetto politico naturale, di fatto sbiadito, spesso silenzioso, ormai lontano dai luoghi delle necessarie trasformazioni. In tanti volevano conferma che quel lessico e quel soggetto non fossero scomparsi, e che invece si stavano ristrutturando per poter tornare all’altezza dei tempi e delle necessità, in una presenza nuova in grado di raccogliere disponibilità antiche. Uno sguardo, un pensiero quelli di Franco che «andavano oltre», inseguendo l’equilibro drammatico dell’esistenza e da questo colpiti, irregolari rispetto a un senso comune teso alla tranquillità.
Avrebbe potuto essere un intellettuale aristocratico, è stato uomo popolare, amante del calcio, dei cani, del verde, in un rapporto di amore verso gli altri, tutti, forse alcuni in particolare, intoccabili: Bari, la Puglia, il mare, certo; e ancora di più, Luciana, Peppe, e Rossella, Linda, Elisa, tra presente, ricordi e futuro.
Federico La Sala
Pedofilia, tutta la Chiesa ha i problemi del Cile
Linea dura - Il Papa ha ammesso di aver sottovalutato il caso e ha fatto dimettere i vescovi. Ma le omertà in diocesi e nei seminari sono la norma
di Marco Marzano (Il Fatto, 20.05.2018)
La decisione dei vescovi cileni di rassegnare in blocco le dimissioni dai loro incarichi al papa è clamorosa. Segnala la consapevolezza di una responsabilità collettiva dell’episcopato cileno per i gravi crimini commessi da membri della Chiesa in quel Paese. Il gesto giunge dopo decenni di insabbiamenti ed è la conseguenza di un drastico cambiamento di linea di Francesco nel contrasto alla pedofilia clericale in Cile.
Sino al gennaio di quest’anno e cioè al suo viaggio nel Paese andino, Francesco non sembrava scontento di come andavano le cose nella chiesa cilena. Nel 2015, aveva promosso, nominandolo vescovo, Juan Barros, un “allievo” e amico del pedofilo abusatore Don Fernando Karadima. Quando Francesco lo ha nominato vescovo sul capo di Barros pendeva già l’accusa di aver assistito impassibile alle violenze che Karadima infliggeva ai minori.
Proprio durante quel viaggio, Francesco aveva reagito con fastidio alla domanda di chi gli aveva chiesto conto del suo sostegno a Barros rispondendo che della complicità di quel vescovo con i crimini di don Karadima non c’erano riscontri certi e quindi, fino a prova contraria, quelle contro di lui erano calunnie. Quelle parole parvero l’ennesima manifestazione della complicità vaticana con gli abusatori e suscitarono la reazione indignata di molta parte dell’opinione pubblica, non solo cilena.
È a quel punto che il papa fece mostra di esser pronto a cambiar linea, ammise di essersi sbagliato nel giudicare la situazione cilena, dichiarò di essere stato male informato e di voler andare finalmente a fondo della questione. Mandò un Cile un suo investigatore che acquisì nuove informazioni, poi convocò i dirigenti cileni a Roma e ottenne le loro dimissioni. Adesso gli toccherà procedere alle necessarie epurazioni, cioè al licenziamento di massa dei vescovi cileni. Se ciò non avvenisse, se il papa prendesse tempo e nel frattempo la vicenda venisse dimenticata dai media, ci troveremmo dinanzi a una sceneggiata sulla pelle delle vittime.
In una lettera indirizzata ai vescovi cileni che doveva rimanere riservata (e di cui alcuni giornali hanno pubblicato stralci) Francesco ammette che i problemi in Cile vanno ben al di là del caso Karadima-Barros, che nella chiesa cilena si sono verificati nel tempo abusi e mancanze di tutti i generi, che sono stati distrutti documenti che compromettevano alcuni preti, coperti e protetti o trasferiti precipitosamente da una parrocchia all’altra e subito incaricati di occuparsi di altri minori. Le accuse hanno riguardato anche le istituzioni formative, i seminari, colpevoli di non aver arrestato la carriera di preti che già da studenti mostravano chiari segni di un comportamento patologico nella sfera sessuale e affettiva. Il problema è “il sistema” ha concluso il papa.
Ed è verissimo. Il punto è: quale sistema? A meno di non voler credere che la chiesa cilena abbia sviluppato patologie tutte peculiari, che fosse una sorta di associazione a delinquere fuori controllo e a meno di negare che fenomeni identici a quelli descritti dal papa nella sua lettera si sono verificati ovunque nel mondo bisogna ammettere che il sistema è la chiesa stessa nella sua attuale forma organizzativa. Il problema è cioè un’organizzazione strutturata intorno alla supremazia di una casta clericale tutta maschile e celibe formata intorno ai valori della fedeltà assoluta e della disciplina di corpo all’interno di istituzioni totali e claustrofobiche come i seminari e poi investita del monopolio assoluto nella gestione del sacro, della competenza esclusiva di tutti gli aspetti cruciali della vita dell’istituzione.
Se il pontefice vuole davvero combattere fino in fondo il sistema e debellarlo, perché non prende tutti in contropiede e assume l’iniziativa di avviare una grande riflessione collettiva e pubblica, eventualmente attraverso un sinodo straordinario, sul tema della responsabilità dei funzionari e delle istituzioni cattoliche nei tantissimi casi di abusi sui minori commessi dai membri della Chiesa nella sua storia recente? E perché non invita a farne parte anche quegli studiosi che da anni sostengono che il problema degli abusi sessuali da parte del clero cattolico va affrontato mettendo in conto l’eventualità di dover smantellare la tradizionale strutturale clericale che da secoli, e senza alcuna discontinuità sino al presente, governa la Chiesa ai quattro angoli della terra? Questo sì che sarebbe l’inizio della rivoluzione.
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. "VA’, RIPARA LA MIA CASA"!!!
La battuta di Francesco sul pugno spiazza laici e fedeli
Commentano le parole del Papa sul volo dallo Sri Lanka alle Filippine De Paolis, Lajolo, Cacciari, Tarquinio e De Masi. «Ha posto un limite». «È poco cristiano»
di Giacomo Galeazzi *
Città del Vaticano.
Il «pugno» del Papa scuote il Sacro Collegio, gli intellettuali laici, i media cattolici. «Quella del Pontefice è una constatazione: nella vita di ogni giorno accade così - afferma il cardinale canonista Velasio De Paolis -. Se offendo qualcuno devo attendermi una contro-offesa. Purtroppo, infatti, la quotidianità non segue lo spirito del Vangelo e viene disatteso il monito di Gesù a porgere l’altra guancia». Ma «la reazione a una offesa verbale dovrebbe, quantomeno, essere un’altra offesa verbale e non un atto di violenza fisica». Comunque «chi ha realizzato quelle vignette avrebbe dovuto trattenersi dal farlo nella consapevolezza delle prevedibili conseguenze», aggiunge De Paolis. Il porporato di Curia Giovanni Lajolo ribadisce che «il male si vince solo con il bene», però riconosce che «esiste la libertà di opinione, non quella di insulto», altrimenti «vivremmo in un mondo di rissa continua».
Il quinto comandamento
In ogni modo, sottolinea Lajolo, «è lo spirito che fa la musica» e «un pugno morale può essere più duro di quello fisico». Certo, precisa Lajolo, «niente giustifica la reazione estrema e vile alle vignette messa in atto dagli attentatori di Parigi» che «non combattono faccia a faccia ma aggrediscono alle spalle persone disarmate». Parimenti «non va calpestato il quinto comandamento: non uccidere, non offendere», avverte il cardinale.
A Milano l’arcivescovo Angelo Scola non commenta le parole del Pontefice ma rimanda alla giornata di preghiera contro la violenza del 18 gennaio. «È una battuta non proprio cristiana, ma simpatica - osserva il filosofo Massimo Cacciari -. Francesco esprime l’impossibilità in questo secolo di porgere l’altra guancia e di rispettare le Beatitudini evangeliche che chiedono di amare il proprio nemico. Il Papa ha cercato l’effetto umano, forse anche troppo umano». Per il sociologo Domenico De Masi «il pugno viene poco prima del colpo di kalashnikov». Inoltre «non è vero che la satira può dire tutto: nulla è svincolato dalla legge», però, avverte De Masi, «serve un principio di proporzionalità tra offesa e difesa: a chi insulta Allah o la Madonna si risponde con una querela, non con una revolverata e neppure con un cazzotto».
Sacralità intima
Quella del pugno la trova, invece, «un’immagine geniale» Marco Taquinio, direttore del quotidiano dei vescovi Avvenire, secondo cui il Pontefice indicando la figura della madre rimanda a una sacralità intima, valida sul piano umano sia per i credenti in qualunque fede sia per gli atei: «Anche tra amici può accadere di superare il senso del limite e di provocare una reazione violenta. Ma se niente è rispettato, precipitiamo in una condizione di scontro permamente e la trivialità è cieca».
Indifferenza e presunzione
Secondo Taquinio quando chiudiamo gli occhi su qualunque persecuzione verso chiunque ovunque sia perpetrata, prepariamo l’irruzione dell’odio e della violenza anche nelle nostre città, nei luoghi simbolo delle nostre libertà, nelle nostre stesse case. «Il male si nutre di indifferenza e di presunzione». E solo una scelta limpida e chiara per la pace nella giustizia e nella libertà possono sventare i piani di dominio e di morte dei terroristi che osano agire «in nome di Dio». E «le nostre società aperte sono vulnerabili», quindi «l’uscita del Papa è una sintesi perfetta del rifiuto della logica di morte».
* La Stampa, 17.01.2015
ANTROPOLOGIA
Ecco la famiglia
più antica del mondo
Scoperta in Sassonia la sepoltura di una coppia con due figli. Vissuti nell’età della pietra, morti in guerra, furono tumulati uniti
di ELENA DUSI *
Ha 4.600 anni la storia d’amore più lunga. Gli archeologi hanno trovato l’uomo e la donna ancora uniti. Hanno liberato dalla terra le loro ossa intrecciate e hanno notato che tra le braccia stringevano anche due bambini. In piena età della pietra, quella venuta alla luce a Eulau in Germania è la prima famiglia umana di cui si abbia una conoscenza certificata con il test del Dna: niente a che vedere con l’uomo dalla clava in mano dei fumetti, ma un’immagine di unione e pietas familiare. Anche se le circostanze della morte della coppia e dei loro figli parlano di un’epoca di violenza furiosa fra le varie tribù di umani.
Le ultime ore della famiglia di Eulau sono state trascorse in battaglia, probabilmente con il gruppo di un altro villaggio. Il figlio minore di 4 o 5 anni ha il cranio sfondato. I genitori e il primogenito di 8 o 9 anni hanno fratture sugli avambracci, come se avessero tentato di difendersi. Attorno ai loro scheletri sono state deposte le asce e i gioielli che gli appartenevano in vita. Alcune sepolture più in là, una donna ha una punta di freccia conficcata in una vertebra. In tutto tredici individui sono stati sotterrati nella collina di Eulau. Oltre alla coppia con due figli, c’è una donna con i suoi tre bambini, un uomo con due "cuccioli" di 4 e 5 anni e un’altra madre con quello che probabilmente era suo figlio e aveva 5 anni al momento della battaglia.
Dopo la strage, qualcuno che era scappato mentre asce e lance roteavano, è tornato per ricomporre i cadaveri. E li ha sepolti tenendo conto dei loro legami familiari, sistemando in un abbraccio millenario l’uomo e la sua donna con i due bambini accoccolati al petto, come se proteggerli servisse ancora a qualcosa. "La loro unione nella morte suggerisce un’unione anche nella vita" scrivono i ricercatori inglesi e tedeschi delle università di Bristol e di Mainz guidati da Wolfgang Haak. Anche se la tomba di Eulau è stata scavata a partire dal 2005, è solo oggi che la rivista Pnas (Proceedings of the national academy of sciences) pubblica i risultati degli esami svolti con il Dna, la datazione al radiocarbonio e l’analisi delle molecole contenute nelle ossa e nei denti.
Qualche elemento in più sui rapporti fra uomo e donna nell’età della pietra arriva proprio dallo studio dei denti. La loro composizione racconta infatti di quali alimenti si sia nutrito un individuo durante l’infanzia, quando incisivi e canini si sviluppano. Tutte le donne sepolte a Eulau, hanno scoperto Haak e i colleghi, hanno seguito una dieta diversa dagli uomini e dai figli che sono nati dalle loro unioni. "Segno che erano originarie di villaggi diversi e si sono trasferite nella dimora del marito nel momento in cui hanno generato i bambini".
I ricercatori non si illudono però che nel terzo millennio avanti Cristo le famiglie umane avessero assunto una forma simile a quella codificata con il matrimonio moderno. "Quella che abbiamo scoperto è la famiglia più antica il cui legame sia stato confermato dal test del Dna" scrivono. "Ma sappiamo anche che in quel contesto e quell’epoca le unioni poligame erano prevalenti e le coppie vivevano spesso vicende personali turbolente".
* la Repubblica, 18 novembre 2008
IL CASO
Nella testimonianza di Viktor Bede, ex prete e amico del dittatore, un «testamento» ben diverso da quello ufficiale: «Ci mancano dieci san Francesco»
Il «mea culpa» di Lenin
Sul letto di morte un’amara riflessione sulla necessità della violenza. Eppure concludeva: «Tra cent’anni sotto le macerie delle istituzioni vivrà ancora la gerarchia cattolica»
di Paolo Vicentin (Avvenire, 12.07.2007)
Era il 9 aprile del 1917 allorché si misero in viaggio dal loro esilio in Svizzera, 31 rivoluzionari russi, con Lenin quale capo: erano diretti in Svezia, attraverso la Germania, in un vagone piombato. Il governo del Reich tedesco di allora aveva concesso, attraverso il proprio territorio, questo passaggio, con la speranza che la rivoluzione russa, già incominciata, desse il colpo decisivo ad uno dei nemici allora in guerra contro la Germania, la Russia appunto. In quanto a Lenin, era noto essere un ateo a tutto campo. In seguito tuttavia venne diffusa una dichiarazione del morente rivoluzionario ben singolare, che sembrò significare una sconfessione di tutto il suo operato.
Alla presenza di un ex-prete ungherese, suo collega giornalista a Parigi e suo confidente, sicuro dell’imminenza della morte - come avevano affermato i medici - avrebbe dichiarato: «Ho sbagliato. Senza dubbio è stato necessario liberare masse di persone dalla repressione, ma i nostri metodi hanno avuto, come conseguenza, l’oppressione e il terrificante massacro di altri oppressi». Proseguiva, rivolto all’amico ungherese: «Tu sai che la mia malattia mi porterà presto alla morte e mi sento abbandonato nell’oceano di sangue di infinite vittime. Per salvare la nostra Russia ciò è stato necessario, ma è troppo tardi per cambiare ora: avremmo bisogno di dieci Francesco d’Assisi». Così scriveva su una pubblicazione cattolica tedesca, nel 1977, il vescovo di Ratisbona di allora, Rudolf Graber, citando gli articoli che Viktor Bede avrebbe scritto per L’Osservatore romano, pubblicati il 23 agosto e il 24 settembre 1924 e usciti senza firma. Di questi incontri tra l’ex-ecclesiastico ungherese, che si chiamava Viktor Bede, e il fondatore del comunismo, ha parlato anche il giornalista tedesco Hansjakob Stehle in un volume dal titolo Die Ostpolitik des Vatikans.
Nel ricordare sul quotidiano vaticano i suoi incontri con Lenin, questo ex-prete riportava altre dichiarazioni del rivoluzionario: «L’umanità percorre la via sovietica e fra cento anni non esisterà altra forma di governo». Aggiungendo: «Credo, tuttavia, che sotto le macerie delle attuali istituzioni vivrà ancora la gerarchia cattolica... nel prossimo secolo ci sarà solo una forma di governo, quella sovietica, e una religione, la cattolica». E avrebbe concluso, il morente Lenin: «Peccato che noi, allora, non ci saremo più...».
L’articolo Pensieri di Lenin sul cattolicesimo di Viktor Bede informa che l’autore aveva conosciuto Lenin, a Parigi, per la «comune professione di giornalisti», definendo il loro rapporto «molteplice e cordiale». Pochi mesi prima della morte del dittatore, egli si recò a Mosca «per far visita al suo vecchio collega e fu ricevuto, nella sua privata abitazione al Cremlino, con la consueta cordialità». Annota ancora: «Potevo andare a trovarlo, senza grandi difficoltà, in quanto, ad eccezione di lui, nessuno sapeva che ero un ex-prete. E, in tal modo, ho potuto procurarmi importanti documenti fornitimi dal dittatore». Prosegue: «Come era consuetudine, i nostri colloqui erano discussioni piuttosto che conversazioni e ciò mi piaceva, perché il mio interlocutore aveva mantenuto tutta la semplicità e schiettezza del passato, che mi permetteva di ricordare più l’amico e il giornalista che l’ideatore di una delle più spaventose rivoluzioni della storia. Da questi incontri personali, da uomo a uomo, avevo l’impressione che la persona che veniva presentata come crudele e tiranna era, a suo tempo, vittima della sua concezione sociale e che lui, contro la sua volontà, era stato indotto a commettere misfatti, a motivo della ragione di Stato...».
Continua l’ex-ecclesiastico: «In realtà si svelò dinanzi a me un carattere, nonostante tutto, ancora così mite, come un tempo avevo apprezzato a Parigi, di una, chiamiamola pure, dolcezza di uomo che molto ebbe da sopportare. Lo soffocava l’idea che si era fatta della sua missione, spinta fino a quella forma di misticismo politico, suo proprio, nei sentimenti dell’uomo privato, per lasciare mano libera al dittatore a decidere, di sua volontà, di liberare l’umanità, allargando su tutto il mondo la sovranità sovietica, della quale necessità era intimamente convinto».
Continua questo rapporto: «Mi disse ancora un giorno: cosa vuoi tu quando mi rimproveri che noi sovietici dobbiamo usare la violenza e i metodi più radicali per tenere lontani dalla nostra nazione, tutti gli elementi nocivi al nostro programma... Con questi non si può discutere ragionevolmente, come non lo si può fare con una vipera che ti punge: la si uccide. Molti, purtroppo, non lo sanno o, viziosi, non sono in grado di capire la necessità di destinare il loro soprappiù a beneficio della grande massa che non possiede nulla: è questo il motivo perché si mette in atto l’inflessibile espropriazione e lo sterminio di quanti a ciò si oppongono».
Lenin affermò poi, in un altro colloquio: «Vedi, l’umanità, quasi seguendo il suo destino, ha intrapreso il cammino dell’Unione Sovietica. È solo questione di tempo. Fra un secolo tra i popoli civilizzati non ci sarà altra forma di governo. Tuttavia credo che continuerà a sussistere, sotto le macerie delle attuali istituzioni, la gerarchia cattolica, perché in essa si effettua sistematicamente l’educazione di coloro i quali hanno il compito di guidare gli altri. Non nascerà alcun vescovo o papa, come finora è nato un principe, un re o un imperatore, perché per diventare un capo, una guida, nella Chiesa cattolica, è necessario aver già dato prova di capacità. È in questa saggia disposizione la grande forza morale del cattolicesimo che da duemila anni resiste a tutte le tempeste e rimarrà invincibile anche in futuro. La forza di questa Chiesa è totale, è una forza morale e non estorta. L’umanità ha bisogno dell’una e dell’altra potenza».
Nel secondo articolo, apparso su L’Osservatore romano il 24 settembre 1924, l’autore tratta il problema russo dal punto di vista del dittatore. Bede rimproverava a Lenin di non avere egli alcuna convinzione morale, anzi di distruggere tale fondamento, perché sradica i sentimenti religiosi dal cuore degli uomini. Lenin rispose: «Voi volete dunque che io lasci venire i vostri confratelli, affinché essi incitino il popolo contro i sovietici». Rispose Bede: «Che la vita dei nostri confratelli sia l’applicazione del più puro comunismo, viene confermato da tanti secoli di esperienza: se si crede cioè alla possibilità di una educazione del popolo verso il disinteressamento e l’altruismo, non si può presentare miglior esempio di quello dei membri dei nostri ordini religiosi». Prosegue il racconto: «Lenin mi fissò con i suoi occhi penetranti. Mi resi conto che in lui i pensieri erano in subbuglio e lo udii mormorare queste parole: "No, non è possibile..."».
Annota l’amico: «Dopo aver atteso un po’, insistetti nel suo dovere di garantire la libertà di religione. Lenin mi fissò con i suoi grandi occhi, senza aprir bocca. Poi, con accento duro, sarcastico, mi chiese: "È il tuo papa che ti ha mandato da me?" Era il tono di voce del dittatore, non più dell’amico. Lo assicurai che non avevo avuto alcun incarico, da nessuno, e che ero venuto a Mosca senza aver parlato del viaggio a chicchessia, nemmeno ai più fidati amici. Lenin si calmò di nuovo e disse: "Ti ammiro... sento che vivrò ancora per poco tempo. Ciò che tu pensi è troppo bello perché io lo potessi esprimere, è troppo grande perché io potessi realizzarlo. Ci saranno altri, spero, i quali invece di misure violente e di crimini, adotteranno metodi che tu proponi per far felice l’umanità"». Questo secondo articolo dell’ex prete ha questa conclusione: «Era dunque troppo tardi: il terribile dittatore sentiva di non possedere più la forza per accettare le grandi idee che egli ancora ammirava. Sentiva di non avere più la forza di distruggere la banda che lo teneva attanagliato, dopo che essa l’aveva innalzato sul trono degli zar». Insomma, il padre della rivoluzione bolscevica si diceva disgustato per gli orrori provocati, ma li giustificava. Lenin moriva poco tempo dopo. Fu pubblicato un suo testamento: «Ma questo è davvero il testamento di Lenin? - si chiede Viktor Bede - Io ne dubito molto...».
Colloqui singolari. Citati anche dallo storico Andrze J. Kaminski nel volume I campi di concentramento dal 1896 a oggi (Bollati Boringhieri 1997) e dal vaticanista Sergio Trasatti nel libro La croce e la stella (Mondadori 1993). Non esiste alcun dubbio sulla loro autenticità, affermava il vescovo di Ratisbona, Rudolf Graber, nel 1977, sottolineando che bisognava aggiungere qualche cosa, però, all’immagine di Lenin, con queste parole: «Io non sono in grado di affermare se i colloqui riferiti rappresentano una condanna della sua opera; ciononostante possono indurre anche noi a una riflessione».
"BRUCEREM IL VATICAN...."
di Angela Azzarro *
COME FAR ARRIVARE LA VOCE DEL GAY PRIDE AI MEDIA? COSA PENSA IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DI CIÒ CHE I SUOI ELETTORI, NON QUELLI DELLA DESTRA, GLI HANNO CHIESTO? FARÀ LA LEGGE SULLE UNIONI CIVILI E QUELLA CONTRO LE DISCRIMINAZIONI OMOFOBICHE? DIRÀ CHE LE OFFESE DA PARTE DEL VATICANO CONTRO GAY, LESBICHE, TRANS NON SONO PIÙ ACCETTABILI IN UNO STATO LAICO? *
Ventiquattro ore dopo il Family day i più grandi giornali e telegiornali italiani non avevano avuto dubbi: il titolo di apertura era stato dedicato - nella stampa scritta, a caratteri cubitali - al presunto milione che aveva occupato piazza San Giovanni in difesa dei valori tradizionali. I giorni successivi la litania non era cambiata: tutto un susseguirsi di dichiarazioni e servizi per dire che quella manifestazione chiedeva, pretendeva una risposta da parte della politica.
Il giorno dopo il Pride, con un milione di donne e uomini in piazza per chiedere l’estensione dei diritti a tutte e tutti, la stampa e i tg non hanno avuto lo stesso riguardo. Portare tante persone, gay, lesbiche, trans, non è bastato per conquistare i titoli di apertura, né per sperare che il lunedì fosse dedicato alle reazioni della politica. Che cosa farà da oggi il governo Prodi? Cosa pensa il presidente del Consiglio di ciò che i suoi elettori, non quelli della destra, gli hanno chiesto? Farà la legge sulle unioni civili e quella contro le discriminazioni omofobiche? Dirà che le offese da parte del Vaticano contro gay, lesbiche, trans non sono più accettabili in uno Stato laico?
Silenzio. Un assordante silenzio, con Prodi che preferisce denunciare «la brutta aria» che c’è nel Paese, riferendosi alla destra che blocca le decisioni. Insomma, per parafrasare la sua dichiarazione: aria fritta. La distanza tra i cittadini, le cittadine e la politica, anche e soprattutto quella fatta dai media, non era mai stata così ampia. Drammatica. La crisi della politica e della rappresentanza così pesante e disarmante. Se il Papa parla e offende gay, lesbiche o trans accusandoli di essere pedofili e perversi le prime pagine sono assicurate, blindate. Si riempiono subito di titoli cubitali. Poche le proteste. Poche le voci di editorialisti che si sollevano per dire che così cresce l’odio, la violenza contro gli omosessuali. Poche voci si sollevano dal pulpito dei grandi quotidiani per dire che non approvare una legge sulle unioni civili è un fatto grave, che lede l’uguaglianza sancita dalla Costituzione.
A questo punto resta la domanda: che cosa fare per conquistare spazio, visibilità alle ragioni della civiltà e della laicità? Non è bastato, nel silenzio degli organi di informazione, portare un milione di persone in piazza. Non è bastato riempire piazza San Giovanni con una manifestazione rabbiosa, ma pacifica, dura ma anche orgogliosa. No, non è bastato. Bisogna forse arrivare a gesti eclatanti davanti al Vaticano o al Parlamento, bruciarsi come gesto disperato, come un ultimo tentativo di vedersi riconosciuto un diritto? Certo è che così non si può andare avanti. La totale impermeabilità tra media e politica da una parte e società civile dall’altra è talmente alta che non si può stare più indifferenti.
Fa bene Aurelio Mancuso, presidente dell’Arcigay, a lanciare lo sciopero fiscale e a invitare lesbiche, gay, trans a restituire le tessere elettorali. In Italia le persone non eterosessuali sono considerate cittadine di serie B, non godono degli stessi diritti. Tanto vale allora non assumersi neanche i doveri oppure esasperare lo scollamento privandosi della possibilità di decidere chi votare e chi no. Forse così i politici capirebbero, forse così capirebbe anche la Chiesa che dei contributi Irpef vive. Lo capirebbero anche le cosiddette famiglie tradizionali al cui welfare contribuiscono quegli uomini e quelle donne che, oggi, non possono avere una relazione riconosciuta e tutelata, oppure come single non possono sperare in nessuna facilitazione.
Il Pride di sabato è riuscito perché ha parlato un linguaggio che coinvolge tutte e tutti. Non riguarda solo gay, lesbiche e trans. Lo ha dimostrato l’ampia partecipazione in maniera organizzata del movimento femminista e l’ampia presenza di eterosessuali. E’ importante che quel coinvolgimento continui e che le associazioni omosessuali non siamo lasciate sole in questo momento, forse il più delicato, quello più duro da digerire. Non si aspetti l’ennesima esternazione del Papa per risollevare la richiesta delle unioni civili. Deve essere un sentire comune, una richiesta continua, condivisa, in ogni sede, in ogni occasione. Ma prima di tutto bisogna affrontare il rapporto con l’informazione, metterlo al centro dell’azione politica. Oggi sicuramente i giornali daranno molto più spazio alle polemiche sullo spettacolo annullato a Bologna "La Madonna piange sperma", perché considerato blasfemo, che alle richieste di un milione di persone.
A PARTIRE DAL PRESENTE .... UNA CHIAVE PER CAPIRE LA CONFUSIONE IDEOLOGICA E SPIRITUALE (OLTRE CHE LA DERIVA NAZISTOIDE) DELLA "FAMIGLIA" VATICANA. Avendo buttato a mare tutta la tradizione critica e cristiana, i "cattolici" confondono (livello "storico" e livello "logico" e - in piena notte "edipica" - vogliono riportare direttamente l’ intera famiglia umana ... alla preistoria!!! (fls)
Se la famiglia risale alla preistoria
di Fiorenzo Facchini (Avvenire. 17.03.2007)
Nel dibattito in corso sulla famiglia si registrano proposte di legge relative a nuove forme di aggregato o surrogato familiare. C’è chi ha scritto che la famiglia sarebbe una invenzione del cristianesimo. C’è perfino chi ritiene superata la finalità procreativa della coppia prospettando la possibilità di separare procreazione e sessualità mediante le biotecnologie. Sono posizioni tipicamente ideologiche in cui si dimenticano le esigenze squisitamente antropologiche che fondano la famiglia e sono alla base dello sviluppo e del successo della specie umana.
Frugando nelle pieghe del passato si può cercare se e quale possa essere stato il ruolo della famiglia presso i nostri antenati, soprattutto quale famiglia potessero avere. Non mancano documenti su sepolture di madre e bambino, come attesta la più antica sepoltura, datata a 90.000 anni fa e trovata a Qafzè (Israele). Assai interessante la sepoltura (familiare?) di Sungir (Russia, 28.000 anni fa) con un anziano, una donna e due ragazzi. Il tema della sessualità e della coppia emerge con grande evidenza nelle incisioni rupestri della Val Camonica, e si ritrova anche nei petroglifi dell’Asia centrale.
Ma quale poteva essere il modello familiare nelle prime forme umane? Vari argomenti suggeriscono un’organizzazione basata su un nucleo familiare stabile, imperniato sulla coppia.
Lo richiedeva la stessa condizione umana. La prole, generata in uno stato di immaturità, comporta un periodo molto più lungo di crescita, documentato anche dagli studi sulla crescita dei denti in reperti preistorici, rispetto ai primati non umani e fonda duraturi rapporti parentali e di coppia. Il periodo di dipendenza dai genitori assume un significato educativo e consente l’apprendimento per quei comportamenti tipicamente bioculturali, come il bipedismo, il linguaggio e l’uso delle mani nella tecnologia. Viene ammessa una diversificazione di compiti per l’uomo e la donna, il primo impegnato per la caccia, la seconda per la cura della prole, ma anche nella raccolta di cibo nelle vicinanze della base familiare.
Tutto ciò porta a escludere la promiscuità o modelli simili a quelli dei Primati attuali. Isaac sostiene l’ipotesi di una sussistenza duale reciproca richiesta dalla strategie di caccia e raccolta. Lovejoy, che ha studiato il comportamento sociale degli Ominidi, pone l’accento su relazioni stabili tra individui dei due sessi. Secondo questo autore il comportamento riproduttivo legato a in gruppo bifocale, cioè a una coppia monogama, doveva costituire la forma nucleare primitiva di aggregato familiare che sostituì il modello matrifocale degli scimpanzè.
Anche secondo Quiatt e Kelso con l’ominizzazione si ha un passaggio a un’economia duale reciproca a carattere stabile, con legami intrafamiliari non soltanto per l’allevamento della prole, ma anche per possibili ruoli secondari all’interno della famiglia (nonni, zii) in ordine all’acquisizione e trasmissione di aspetti culturali.
L’aggregato familiare consente una intensa prolungata cooperazione parentale, specialmente nell’allevamento della prole. Reali esigenze di carattere biologico ed educativo fondano la famiglia, primo ambito della inculturazione, facendole assumere anche sul piano adattativo un ruolo fondamentale per il successo per la specie umana.
«L’idea che la famiglia sia una creazione del cristianesimo è una vecchia tesi dell’Ottocento, propalata dagli studiosi di quel tempo con molta fantasia e poche o nulle informazioni scientifiche. La ritroviamo in Marx e in tanti altri pensatori. Le scienze sociali dell’ultimo secolo hanno appurato che non c’è società senza famiglia, e che la famiglia non è soggetta a leggi evoluzionistiche lineari, in qualsivoglia direzione». Lo afferma il sociologo Pierpaolo Donati. «Il fatto storico della famiglia - aggiunge - è documentato sin dalla notte dei tempi, se si osservano per esempio le tombe sepolcrali dove venivano riposte un uomo e un donna, e magari i figli. A livello scientifico, esiste un archivio etno-antropologico presso l’università della California che ha schedato le informazioni empiriche relative a quasi tutte le società conosciute, da quelle primitive sino al Novecento. Il risultato delle analisi condotte è che la famiglia - concepita come unione stabile di un uomo, una donna e i loro figli (così la definisce l’antropologo francese Claude Lévi-Strauss) - è presente in tutte le società, ovviamente con delle variazioni dovute a fattori culturali e ambientali. Si ha notizia di due sole tribù in cui non si riscontra la famiglia nucleare, ma esse sono scomparse proprio perché non avevano una struttura familiare capace di rigenerare la società».
Perché la civiltà occidentale sembra voler rinnegare oggi uno dei suoi pilastri come la famiglia?
«Non è da oggi, ma da almeno due secoli che la famiglia è oggetto di teorie che sostengono che la famiglia è un retaggio del passato, una necessità strumentale delle economie arcaiche. Però oggi l’attacco è più forte perché la società contemporanea tenta un esperimento inedito, quello di liberare l’individuo (generalizzato in senso astratto) da tutti i legami sociali, pensando che senza tali legami le persone possano vivere più libere e felici. La società postmoderna vuole "immunizzare" gli individui dalla famiglia. Questo sogno, che in passato è stato tentato su piccola scala, oggi guida la globalizzazione occidentale, spinto in avanti soprattutto da enormi interessi economici».
La definizione di famiglia come società naturale è ancora attuale?
«Oggi più che mai la famiglia è una realtà "naturale", se con questo termine non si intende una cosa fissa, scritta sulla pietra, ma il senso profondo di una relazione fra i sessi e fra le generazioni che costituisce il momento in cui la natura si fa cultura. Il punto è che il diritto naturale deve essere sviluppato su basi culturali appropriate, che oggi mancano perché si preferisce pensare che la famiglia sia solo una costruzione artificiale, che ciascuno può scegliere e fare a piacimento. Un grande inganno, come sanno tutti coloro che fanno questo esperimento».
Ci sono tracce nella storia di altri gravi attacchi alla famiglia?
«Dal Seicento ad oggi, a partire da alcune correnti del mondo protestante insediato nel Nord America, si è sostenuto che, poiché il Vangelo dice che in cielo non ci saranno né mariti né mogli, tanto vale abolire il matrimonio già su questa terra (qualcosa del genere era già stato detto molti secoli prima). Nel Novecento, il tentativo più grandioso di eliminare il matrimonio è stato fatto nell’Unione Sovietica dopo la rivoluzione del 1917. Nello stesso periodo storico qualcosa di simile è stato tentato nei Kibbutz in Israele. È noto che tutti questi tentativi sono falliti. La connessione fra matrimonio e famiglia è riemersa ovunque. Oggi la novità viene dalle società che hanno un welfare più avanzato (come nei Paesi scandinavi), dove sembra che il matrimonio non abbia più valore. In realtà succede che la società, in questi casi, attribuisce ai conviventi le qualità dei coniugi, anche se questi non fanno il matrimonio. Chi ci perde sono le persone, che rimangono prive del bene di una relazione umanizzante e sono esposte a continue e snervanti negoziazioni e riprogettazioni senza radici solide».
Qual è il vero obiettivo della associazioni omosessuali che richiedono i Pacs?
«La pressione di lungo periodo è quella di rendere il matrimonio indifferente all’identità sessuale. Il principio che viene invocato è il seguente: il matrimonio è un bene del quale tutti debbono disporre con uguali opportunità, a prescindere dall’identità sessuale personale. Si invoca questo principio di uguaglianza per evitare "discriminazioni" verso gli omosessuali: ma qui c’è un grande equivoco, perché un conto è discriminare (quando si trattano diversamente cose uguali) e un conto è trattare e rispettare ciascuno per quello che è (i sessi sono differenti). Se si afferma il principio per cui la differenza sessuale non ha più né senso né valore, si arriva a quanto proprio oggi propongono alcuni disegni di legge regionali in Italia, i quali prevedono che ogni individuo possa stabilire e dichiarare alla pubblica amministrazione la propria identità sessuale a piacimento. Ma se le persone cambiano identità sessuale a piacimento, in quale mondo vivranno? Chi si troveranno di fronte?».
Perché gli omosessuali chiedono il matrimonio?
«Gli omosessuali chiedono il matrimonio perché vogliono sentirsi uguali agli altri. Se si ragiona sulla uguaglianza dei diritti si sbaglia strada. Bisogna guardare alla natura della relazione, che è diversa. L’omosessualità potrà essere una relazione di affetto, amicizia, aiuto reciproco e altre cose ancora, ma non è per sua natura sponsale. È un altro tipo di relazione. Spetta agli omosessuali dire di che relazione si tratta».
A difesa della famiglia c’è un’inedita alleanza tra cattolici e intellettuali laici. Che frutti potrà dare?
«I frutti che vedo possibili sono quelli di una nuova razionalità capace di offrire delle ragioni nuovamente illuminanti sul senso della vita umana quando le vecchie ragioni non tengono più. Una ragione post-illuministica che trova il suo significato in esperienze e pratiche di vita capaci di vedere che la sponsalità e la genitorialità sono le prime, più originarie e più fondamentali ragioni di vita per la persona. Non dimentichiamo che il valore della famiglia è e rimane al primo posto in tutte le nazioni, anche in quelle dell’Unione Europea. E non dimentichiamo che la società ha bisogno del matrimonio non per opprimere le donne e i bambini, le persone socialmente deboli, ma per dare loro una migliore tutela. Formulo l’auspicio che i problemi sul tappeto possano trovare risposte in una legislazione di ampio respiro che non si fermi ai problemi settoriali, ma rilanci la famiglia mentre riconosce quei diritti individuali di chi persegue, in altre formazioni sociali, non già dei meri desideri privati, ma dei beni meritori degni di essere tutelati dalla intera comunità politica».
Di Stefano Andrini, da «Avvenire», 22 febbraio 2007
Caro Biagio Allevato
apprezzo il tuo sforzo di capire ... ma la "tua" risposta dice che - in gran compagnia (fino ai Vescovi e al Papa) - non hai non tanto cosa voglio dire io ma che cosa significa che "In principio era il Logos"!!! Devo ripetere?!! Il "dio" dei nostri "Padri" ("Giuseppe") e delle nostre "Madri" ("Maria") non era il pesce morto (ictus), ma il "pesce vivo"!!! Che devo dire, se vuoi vivere - vivi!!! E rileggi non il van-gelo, ma l’Eu-angélo - la Buona-Novella!!!
Che devo dire, ancora?! Se vuoi vivere - vivi!!! E rileggi non il van-gelo, ma l’Eu-angélo - la Buona-Novella!!!
M. cordiali saluti,
Federico La sala
Al Logos soltanto resto attaccato, come servitore del Logos, e non potrei mai volontariamente dimenticarmi di questo bene, ma lo onoro, lo prediligo e me ne rallegro più di tutte quelle cose insieme di cui la folla è solita rallegrarsi"
S. Gregorio di Nazianzo, (Orazione 6,2)
Caro Federico, inizia a meditare su questo testo, e poi vedi se riesci a capire finalmente ciò che Benedetto XVI proclamò a Ratisbona...
Buona domenica di Quaresima !!
Biasi Allevato
Caro Biagio
attaccato al Logos ... morto o vivo? Questo è il problema (a proposito - non abbiamo capito ancora nemmno la ’lezione’ dell’Amleto)!!! Non accechiamoci e non facciamoci accecare!!!
Non confondiamo l’acqua morta - il "Santo Padre" Ratzinger-Benedetto XVI , con l’acqua viva - il "Padre nostro" di Giuseppe, Maria, e Gesù!!! Usciamo dalla preistoria!!! E cerchiamo di vivere e vivere bene - tutti e tutte!!!
Rileggi l’Eu-angélo - non il van-gelo!!! E anche:
M. cordiali saluti,
Federico La Sala
DIRITTO
Se a Roma il «pater familias» era sovrano assoluto e i cristiani introdussero l’idea dei «doveri» del genitore, dal Medioevo in poi l’autorità sui figli è entrata in crisi. Un saggio di Marco Cavina spiega perché
Paternità, un declino durato mille anni
di Giulia Galeotti (Avvenire, 02.06.2007)
Che l’autorità paterna sia un concetto giuridico ormai superato è noto. Meno note sono però le profonde variazioni che essa ha vissuto nei secoli, variazioni oggetto del recente volume di Marco Cavina, Il padre spodestato. Se l’autorità paterna era assoluta per i potenti padri biblici e romani, una novità l’ha proposta il cristianesimo, introducendo due principi rivoluzionari: la rottura dei vincoli familiari in nome di valori più alti e, soprattutto, l’affiancare al concetto di potere quello di dovere del padre. Altri snodi cruciali saranno poi due momenti piuttosto vicini tra loro, la Rivoluzione francese e gli anni Sessanta del Novecento: dopo una longevità millenaria, infatti, in soli due secoli si è realizzato il definitivo affossamento dell’autorità paterna. Il volume, ricco d’informazioni (specie fino a tutta l’età moderna), mostra che il quadro è più complesso di quanto ci si aspetterebbe. Una riprova sono gli oltre venti punti in cui i trattatisti del tardo Medioevo individuavano le articolazioni dell’autorità paterna. Molti i diritti, come la vendita dei figli per necessità di fame, il diritto del padre di uccidere la figlia colta in adulterio, l’obbligo del figlio di seguire la religione paterna (salvo che per i figli di ebrei), il potere di far incarcerare o castigare dal giudice il figlio. Non mancavano però i doveri, come la perdita della patria potestà per induzione della figlia alla prostituzione o l’obbligo di riscattare il figlio prigioniero. Al godimento di vantaggi e privilegi pubblici per meriti paterni, corrispondeva specularmente l’imposizione di svantaggi per peccati o delitti del medesimo.
Secondo Cavina, docente di Storia del diritto medievale e moderno, il progressivo annientamento del potere paterno ha dei precisi responsabili: l’individualismo borghese, l’industrializzazione, lo statalismo, la trasformazione del mercato del lavoro e l’emancipazione femminile. Come per il giusnaturalismo lo Stato non è più un’autorità per diritto divino, ma per libero contratto tra gli individui, così la famiglia è fondata non più su un padre investito di potere naturale, ma su una pattuizione. Si parlava dunque di legittimazione gerarchica sulla base dell’atto di generazione; di legittimazione contrattualista in nome del tacito consenso dei figli; soprattutto, però, era seguita la spiegazione funzionale-utilitaria: il potere del padre sul figlio era dovuto all’incapacità di quest’ultimo di gestirsi autonomamente (da cui il venir meno della perpetuità della patria potestà del modello romano). La motivazione per sottrarre all’autorità paterna buona parte delle sue articolazioni sarebbe stata l’interesse del figlio: è in nome di costui che lo Stato entra nella famiglia. «Un puerocentrismo promosso dallo Stato divenne la parola d’ordine delle democrazie liberali», scrive Cavina. Tra l’altro, ciò è l’ennesima riprova dell’infondatezza dello stereotipo che vuole i totalitarismi particolarmente invasivi nelle relazioni domestiche, mentre si tratta di un’"invasione" condivisa in toto dalle politiche democratiche.
Cavina coglie due "capitolazioni" emblematiche per l’autorità paterna in età contemporanea. Il primo durissimo colpo le viene inferto nell’Ottocento quando istituti come la diseredazione o la libertà testamentaria vengono fortemente ridotti: riformare il sistema successorio in senso egualitario significa, infatti, sottrarre al padre qualsiasi possibilità di investire patrimonialmente il proprio successore. L’altro attacco, molto più recente, è quello al cognome paterno, simbolo della supremazia del padre e strumento per garantire l’unità domestica. Via via che nei vari Paesi si è diffusa la possibilità di scegliere il cognome per i figli, infatti, «il cuore stesso del patrimonio simbolico trasmesso dal padre è stato annientato, o quasi». Con quali conseguenze, è da vedere. Questo però il diritto non lo dice, potendo solo registrare i cambiamenti in atto.
Marco Cavina
Il padre spodestato
L’autorità paterna dall’antichità a oggi
Laterza. Pagine 360. Euro 20,00
Monsignor Negri: «No alla comunione ai politici pro Dico»*
«Chi celebra l’Eucaristia non può poi tollerare e consentire leggi che sono evidentemente eversive dell’antropologia personale e familiare che dall’Eucaristia scaturisce». Dai microfoni di Radio Vaticana, il vescovo di San Marino-Montefeltro, Luigi Negri, spiega e chiarisce il richiamo del Papa alla «coerenza eucaristica» contenuto nella «Sacramentum caritatis» in cui Ratzinger ha invitato i politici cattolici a non votare le leggi «contro natura» come i Dico. «il culto gradito a Dio non è mai atto meramente privato, esso richiede la pubblica testimonianza della propria fede» intima Benedetto XVI ai politici italiani.
Ma cosa significa in termini concreti? Niente comunione per i politici cattolici che sostengono i Dico. «Non c’è da gridare allo scandalo se da questa centralità dell’Eucaristia vengono tirate conseguenze di carattere sociale sulla vita della famiglia, sulla sua responsabilità, sui suoi diritti educativi - spiega infatti monsignor Negri - l’Eucaristia è il fondamento dell’ecclesiologia, ma è anche il fondamento di un’antropologia, di un’esperienza umana che non è vissuta fuori dal tempo ma nella storia, nelle circostanze economiche, politiche, sociali, ambientali». «Ecco allora - spiega Negri - c’è un legame fra l’Eucaristia e la società, c’è un legame fra l’Eucaristia e coloro che nella società si assumono la responsabilità molto impegnativa di portare questa antropologia adeguata, come avrebbe detto Giovanni Paolo II, dentro la vita sociale».
Intanto la discussione sui Dico continua. Sul versante parlamentare il senatore dei Ds Cesare Salvi, presidente della Commissione giustizia di Palazzo Madama, ha ribadito che « i Dico non sono su un binario morto»: «Stiamo lavorando in Commissione giustizia - ha spiegato Salvi -, faremo una seduta a settimana, appena la discussione generale sarà conclusa avremo un comitato ristretto dal quale cercare di trovare un testo unificato che possa avere una condivisione larga in Parlamento».
Però i "teodem" affilano le armi. Sempre più certo che il 12 maggio gli "anti-dico" scenderanno in piazza per celebrare il "family day"(giovedì sera a Crotone la "prova generale" con 3mila persone in piazza) con la benedizione delle gerarchie ecclesiastiche . Famiglia Cristiana che «manifestazioni pacifiche e rispettose, per affermare pubblicamente le proprie convinzioni,qualunque esse siano, costituiscono il sale della democrazia».
Non tutti i cattolici però sembrano aderire in toto a questa visione.
Inoltre organizzazioni come le Acli hanno tenuto a ribadire l’autonomia dell’associazionismo proprio sul "famiily Day". «La nostra adesione dipende dal documento finale» ha detto il presidente delle Associazioni cristiane lavoratori ialiani, Andrea Olivero, riferendosi al fatto che .un "comitato di saggi" del mondo cattolico è stato incaricato di stendere un "manifesto" a sostegno della famiglia che costituirà la piattaforma della manifestazione.
Intanto cento esponenti cattolici torinesi hanno scritto una lettera aperta al cardinale Poletto in cui c’è una aperta critica al comportamento della Cei che - a giudizio dei firmatari - sta assumendo un ruolo improprio: «L’intervento nel dettaglio sulle decisioni politiche, col dare ai laici prescrizioni che non attengono alla missione episcopale» finisce per «ostacolare il necessario pluralismo». Così facendo l’episcopato assume «posizioni opinabili di una parte dei credenti contro gli altri, dividendo la chiesa e pretendendo di imporre uniformi scelte politiche». Una presa di posizione forte che arriva in una realtà come quella di Torino dove i rapporti tra il vescovo e i cattolici laici non sono facili. Due giorni fa infatti Poletto ha cancellato un incontro in programma con esponenti della Margherita e il giornale della Curia ha attaccato la proposta della giunta Bresso sulle unioni di fatto.
Polemiche e distinguo però anche nei Ds e in Rifondazione. Un gruppo di 19 militanti omosessuali della Quercia (in primis il deputato Franco Grillini) ha scritto una lettera aperta a Piero Fassino, Francesco Rutelli e Romano Prodi nella quale lamentano «continui attacchi alla dignità degli omosessuali italiani», lanciano «un accorato appello per il rispetto degli omosessuali» e chiedono «garanzie al costituendo Partito democratico, a partire dallo statuto». Ricordando le ultime dichiarazioni di Paola Binetti e Rosy Bindi sugli omosessuali, i firmatari spiegano: «Un partito non può che essere una comunità di donne e uomini liberi che si rispettano e che scelgono di costruire percorsi condivisi e battaglie comuni. In questo momento noi purtroppo non ci sentiamo affatto rispettati, tutelati da queste aggressioni continue che ci arrivano dall’interno, ora persino dal nostro governo. In un partito con chi ci discrimina e ci nega anche solo il rispetto e la dignità non potremmo mai entrare». ».
Caso anomalo invece quello di Massimo Colombo, dirigente di Rifondazione che si è dimesso dal partito in Liguria perché (dice il Giornale) sui Dico «il Papa ha dato una linea chiara, che intendo seguire. Purtroppo contrasta con le scelte del partito. Ma io credo nei valori della famiglia, ciò che dicono Chiesa e Vangeli per me deve essere uno stile di vita».
* l’Unità, Pubblicato il: 16.03.07, Modificato il: 16.03.07 alle ore 18.01
Benedetto XVI in un discorso all’Unione giuristi cattolici ha respinto l’accusa d’ingerenza mossa alla Chiesa quando difende "i grandi valori morali"
Papa: "Non è sana laicità escludere i simboli religiosi" *
CITTA’ DEL VATICANO - Il Papa contesta la nuova tendenza ’laica’ a escludere i simboli religiosi, persino quelli, popolarissimi, del Natale. Non è "sana laicità", ha detto stamane Benedetto XVI in un discorso alla Unione giuristi cattolici, escludere i simboli religiosi dai luoghi pubblici, da uffici, scuole, tribunali, ospedali, carceri.
Benedetto XVI ha criticato in particolare la "visione a-religiosa della vita, del pensiero e della morale", secondo cui si vuole escludere la religione "dalla vita pubblica" confinandola alla sfera privata. Eppure, denuncia il Papa, tale tipo di laicità "sembra essere diventato quasi l’emblema qualificante della post-modernità, in particolare della moderna democrazia".
La Chiesa, ha aggiunto il Papa, ha il "diritto di pronunziarsi sui problemi morali che oggi interpellano la coscienza di tutti gli esseri umani, in particolare legislatori e giuristi". Il Pontefice rifiuta pertanto l’accusa di "ingerenza" per la Chiesa quando afferma "la difesa dei grandi valori che danno senso alla vita della persona e ne salvaguardano la dignità".
"Questi valori, prima di essere cristiani - ha ricordato il Papa - sono umani, tali perciò da non lasciare indifferente e silenziosa la Chiesa, la quale ha il dovere di proclamare con fermezza la verità sull’uomo e sul suo destino".
Per il Pontefice è ovvio però che "non può essere la Chiesa a indicare quale ordinamento politico e sociale sia da preferirsi". Infatti, ha ricordato, "è il popolo che deve decidere liberamente i modi migliori e più adatti di organizzare la vita politica" e dunque "ogni intervento diretto della Chiesa in tale campo sarebbe un’indebita ingerenza".
Ma, ha tenuto a rimarcare, "la sana laicità comporta che lo Stato non consideri la religione come un semplice sentimento individuale, che si potrebbe confinare al solo ambito privato. Al contrario, la religione, essendo anche organizzata in strutture visibili, come avviene per la Chiesa, va riconosciuta come presenza comunitaria pubblica".
Per il Papa questo "comporta inoltre che a ogni confessione religiosa (purchè non in contrasto con l’ordine morale e non pericolosa per l’ordine pubblico) sia garantito il libero esercizio delle attività di culto - spirituali, culturali, educative e caritative - della comunità dei credenti".
*(la Repubblica, 9 dicembre 2006)