Editoriale

Per Stefano, che non ha ancora dieci anni, e per chi verrà. Perché la lotta è una, "pro sa causa comune"

venerdì 24 dicembre 2010.
 

È freddo qui a Nord, mattino. Qualcuno in giro per tabacchi, whisky, ricariche telefoniche, l’espresso del bar. Silenzio, passa un’auto, un’altra e niente. Dalle finestre sbarrate dei palazzi non esce odore, sibilo, luce, presenza.

Neve. Lenta, grave.

Ieri Natale, messaggi d’auguri: propositi, auspici, promesse. Fra botti, brindisi, panettoni, tipicità, zuccheri; non mangio dolci, ci sta che non debba compensare.

C’era una volta Gianni, intelligenza formidabile, sempre viva. Cuore raro, generoso, pronto con tutti. C’era una volta Franca, signora cieca, la forza di cogliere, capire, costruire. E c’era una volta il “mio” movimento, culturale e politico, di ragazzi animati dalla speranza di cambiare. Senza gerarchie, doppiezze, invidie, veleni. Eravamo ispirati da Gianni e da Franca: un filosofo, una visionaria.

C’era una volta un paesone del Sud, calabrese, San Giovanni in Fiore. In mezzo a monti di mille colori, imbiancati da novembre. Lì la solitudine dei residenti, forse l’incomunicabilità, l’incapacità d’immaginare un futuro collettivo su storia, memoria, bellezza del luogo.

C’era una volta un giornale, prima cartaceo, poi elettronico. Semplice, libero, aperto: “la Voce di Fiore”. Si batteva contro abusi, ingiustizie, violenze; per il lavoro, i diritti, la cultura, i giovani. Proponeva dibattiti, confronti, incontri, spettacoli; tutte quelle iniziative che dovrebbero esserci in comunità di montagna con undici mesi all’anno d’inverno e disoccupazione, disagio, partenze.

C’era una volta un sogno di tanti, in quel posto, San Giovanni in Fiore. L’idea, il desiderio di non scappare, di non abbandonare, di non lasciare ai soliti l’iniziativa politica, il destino dei figli.

C’era una volta il piccolo mondo, quello dei borghi, degli angoli sperduti, ignoti, marginali; dove affetto e incomprensione si toccano, inseguono, sovrappongono. E c’era una volta il mondo grande, delle altezze, del lusso, della pubblicità. Dove tutto è merce, prezzo, vuoto.

Io appartenevo, e appartengo, a quel mondo di confine che non sta solo a sud del Sud ma è anche sulle gru della ricca Brescia, per le strade imperiali e sporche della capitale; dove operai, impiegati, artisti e universitari hanno gridato, patito, raccontato l’Italia che muore.

Dentro le case impenetrabili del Nord, come ricordava Carlo Maria Martini, c’è la fatica, il dolore, il silenzio d’una gente operosa. Né zuccherini né trucchi fotografici, montaggi, montature o calciatori che vanno di coca e saggiano la frusta. Mentre giù, a Rosarno come a Pagliarelle e più sotto nel reggino, si respira intensa l’amarezza d’una gente, nera, bruna, sbarcante o italiana, lasciata alla ‘ndrangheta; la quale detta leggi, regole che funzionano.

Mio cugino Stefano è un bimbo, non ha ancora dieci anni. Vive in Calabria, gioca, sorride. Nei suoi sogni non c’è la fretta mostruosa di città, il silenzio delle vie che grida ascolto, l’amarezza opaca delle frontiere meridionali.

È per la sua generazione che dobbiamo lottare, con la gente vera, viva. Via.

Emiliano Morrone e Carmine Gazzanni


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