Codice etico per lo Storico *
"Così dunque deve essere per me lo storico: impavido, incorruttibile, libero, amante della franchezza e della verità, e come dice il comico, capace di chiamare i fichi, fichi, e la barca, barca, di non risparmiare o concedere nulla per odio o per amicizia; non deve avere riguardo, pietà, vergogna, o paura; sia un giudice imparziale, benevolo verso tutti ma non al punto di concedere a nessuno più di quel che gli è dovuto; nelle proprie opere deve essere straniero, senza patria, indipendente da ogni potere, uno che non calcola che cosa ne penserà l’uno o l’altro ma che racconta i fatti così come sono accaduti.
Tucidide per esempio stabilì con precisione queste norme e distinse pregi e difetti dello storico, vedendo che Erodoto era oggetto di grandissima ammirazione tanto che i suoi libri erano chiamati con il nome delle Muse; egli infatti dice che le sue storie sono un possesso per l’eternità più che un’opera che possa piacere per il presente e non si basa su racconti fantastici ma consegna ai posteri la verità sull’accaduto; introduce anche il concetto di utilità e di quello che una persona assennata potrebbe immaginare sia il fine della storia: cioè che, se capitassero ancora fatti simili a quelli passati, gli uomini, dice Tucidide, guardando alle cose scritte un tempo, possano servirsene per affrontare la situazione del momento"
*
Luciano di Samosata,
Come si deve scrivere la storia,
paragrafo 41 e 42 del libro 25
Testo greco - TRADUZIONE.
Esami di maturità 2008: il testo della versione di greco al liceo classico
Caro BENEDETTO XVI ...
Corra, corra ai ripari (... invece di pensare ai soldi)! Faccia come insegna CONFUCIO: provveda a RETTIFICARE I NOMI. L’Eu-angélo dell’AMORE (“charitas”) è diventato il Van-gélo del ’caro-prezzo’ e della preziosi-tà (“caritas”), e la Parola (“Logos”) è diventato il marchio capitalistico di una fabbrica (“Logo”) infernale ... di affari e di morte?! Ci illumini: un pò di CHIAREZZA!!! FRANCESCO e CHIARA di Assisi si sbagliavano?! Claritas e Charitas, Charitas e Claritas... o no?!
Federico La Sala
“DEUS CARITAS EST”: IL “LOGO” DEL GRANDE MERCANTE E DEL CAPITALISMO
di Federico La Sala *
In principio era il Logos, non il “Logo”!!! “Arbeit Macht Frei”: “il lavoro rende liberi”, così sul campo recintato degli esseri umani!!! “Deus caritas est”: Dio è caro-prezzo, così sul campo recintato della Parola (del Verbo, del Logos)!!! “La prima enciclica di Ratzinger è a pagamento”, L’Unità, 26.01.2006)!!!
Il grande discendente dei mercanti del Tempio si sarà ripetuto in cor suo e riscritto davanti ai suoi occhi il vecchio slogan: con questo ‘logo’ vincerai! Ha preso ‘carta e penna’ e, sul campo recintato della Parola, ha cancellato la vecchia ‘dicitura’ e ri-scritto la ‘nuova’: “Deus caritas est” [Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006]!
Nell’anniversario del “Giorno della memoria”, il 27 gennaio, non poteva essere ‘lanciato’ nel ‘mondo’ un “Logo” ... più ‘bello’ e più ‘accattivante’, molto ‘ac-captivante’!!!
Il Faraone, travestito da Mosè, da Elia, e da Gesù, ha dato inizio alla ‘campagna’ del Terzo Millennio - avanti Cristo!!! (Federico La Sala)
*www.ildialogo.org/filosofia, Giovedì, 26 gennaio 2006.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Per un ri-orientamento teologico-politico e antropologico...
FARE COME GIOVANNI XXIII E GIOVANNI PAOLO II: RESTITUIRE L’ANELLO A GIUSEPPE!!!
"ET NOS CREDIDIMUS CHARITATI..."
LA RISATA DI KANT
(...) Kant vede molto bene cosa c’è alla base dei sogni dei visionari e dei metafisici di tutti i tipi e di tutti i tempi! Al fondo, e in fondo, c’è solo infantilismo, titanismo, e superomismo - una volontà di potenza immatura e cieca, che celebra solo se stessa (...)
Federico La Sala
L’INDICAZIONE DI PIERRE BAYLE *
Tutti quelli che conoscono la legge della storia saranno d’accordo che uno storico che vuole compiere fedelmente le sue funzioni deve spogliarsi dello spirito di lusinga e dello spirito di maldicenza, e mettersi il più possibile nello stato di uno stoico che non è agitato da alcuna passione. Insensibile a tutto il resto, dev’essere attento solo agli interessi della verità, e deve sacrificare a questa il risentimento di un’ingiuria, il ricordo di un beneficio e l’amore stesso della patria. Deve dimenticare che è di un certo paese, che è stato allevato in una certa comunità, che è debitore della sua fortuna a questo e a quello, e che questi o gli altri sono i suoi genitori o i suoi amici. Uno storico in quanto tale è come Melchisedec, senza padre, senza madre e senza genealogia.
Se gli si domanda: Di dove sei? Bisogna che risponda: -Non sono né francese, né tedesco, né inglese, né spagnolo, etc.; sono abitante del mondo. Non sono né al servizio dell’imperatore, né al servizio del re di Francia, ma soltanto al servizio della verità; è la mia sola regina; solo a lei ho prestato il giuramento d’obbedienza; sono il suo fido cavaliere e per collare d’ordine porto lo stesso ornamento del capo della giustizia e del sacerdoti degli Egiziani.
Tutto ciò che lo storico dà all’amore della patria lo toglie agli attributi della storia, e diventa un cattivo storico a misura che si dimostra un buon suddito.
* Pierre Bayle (1647-1706), Dictionaire historique et critique (1697)
STORIA #ANTROPOLOGIA #FILOLOGIA E #TEOLOGIA DELLA CHIESA: ALBINO #LUCIANI, #PAPA #GIOVANNI PAOLO I , E IL PRIMATO DELLA #CARITA ’ ("CHARITAS") SUL GIURIDISMO. In memoria di #Simone Weil ...
"ANNIVERSARIO. Beato Giovanni Paolo I, oggi prima #memoria liturgica:
NOTE:
VITA E FILOSOFIA, STORIOGRAFIA, #FILOLOGIA, E "#SÀPEREAUDE!" (ORAZIO): IN #PRINCIPIO ERA LA VITA, NON LA MORTE.
FISICA E #METAFISICA. CON #KANT (#DANTE #MARX E #HUSSERL), RICORDANDO LA LEZIONE DI #EPICURO:
"[...] Abítuati a pensare che nulla è per noi la morte, poiché ogni bene e ogni male è nella sensazione, e la morte è privazione di questa. Per cui la retta conoscenza che niente è per noi la morte rende gioiosa la mortalità della vita; non aggiungendo infinito tempo, ma togliendo il desiderio dell’immortalità. Niente c’è infatti di temibile nella vita per chi è veramente convinto che niente di temibile c’è nel non vivere piú. Perciò stolto è chi dice di temere la morte non perché quando c’è sia dolorosa ma perché addolora l’attenderla; ciò che, infatti, presente non ci turba, stoltamente ci addolora quando è atteso. Il piú terribile dunque dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non siamo piú. Non è nulla dunque, né per i vivi né per i morti, perché per i vivi non c’è, e i morti non sono piú. Ma i piú, nei confronti della morte, ora la fuggono come il piú grande dei mali, ora come cessazione dei mali della vita la cercano. Il saggio invece né rifiuta la vita né teme la morte; perché né è contrario alla vita, né reputa un male il non vivere. E come dei cibi non cerca certo i piú abbondanti, ma i migliori, cosí del tempo non il piú durevole, ma il piú dolce si gode. Chi esorta il giovane a viver bene e il vecchio a ben morire è stolto, non solo per quel che di dolce c’è nella vita, ma perché uno solo è l’esercizio a ben vivere e ben morire. Peggio ancora chi dice: “bello non esser nato, / ma, nato, passare al piú presto le soglie dell’Ade”. [...]" (Epicuro, "Opere", "Epistola a Meneceo", Einaudi, Torino, 1970, pp. 62-63).
NOTE:
Anniversario.
Beato Giovanni Paolo I, oggi prima memoria liturgica
di Dario Vitali (Avvenire, sabato 26 agosto 2023)
Accostarsi a Giovanni Paolo I e alle sue carte, che la Fondazione Vaticana intitolata al suo nome ha recensito e catalogato, significa entrare in un territorio vasto e complesso, tutto da scoprire. Dalla scrittura minuta, limpida, disseminata di abbreviazioni, emerge un mondo che si potrà conoscere solo percorrendolo più volte, e non in modo distratto e scontato, cercando conferme ad altro che non sia il profilo dell’uomo, del prete, del vescovo, del papa. Papa, vescovo, prete, perché uomo, un vero uomo, tenace di volontà, forte di pensiero, ficcante nella parola, pur nel tono flebile. La figura di Giovanni Paolo I si può accostare all’«ossimoro»: l’archivio fornirà gli elementi che possono colmare la distanza tra i termini che egli ha saputo collegare e coniugare in una sintesi tutta da scoprire e da consegnare alla Chiesa. Di quell’archivio, che abbraccia l’intera vita di Albino Luciani, soprattutto il suo ministero episcopale prima a Vittorio Veneto e poi a Venezia.
Affronto qui solo piccolo momento, ma di incredibile portata: il radiomessaggio Urbi et Orbi, pronunciato nella Cappella Sistina il 27 agosto 1978. Non si può che partire da qui per studiare Giovanni Paolo I. Il pontificato così breve obbliga a fissarsi sul programma espresso nei sei volumus, scanditi davanti al Collegio dei Cardinali che lo avevano eletto, in uno dei conclavi più brevi della storia.
Si percepisce qui l’idea di riforma così ricorrente nelle agende di Albino Luciani da apparire una direttrice del suo pensiero e della sua azione pastorale, maturata ben prima del Concilio, se la figura di riferimento che egli evoca in continuazione è san Francesco di Sales. I due riferimenti, al santo vescovo di Ginevra e al Vaticano II, si incrociano e si illuminano a vicenda, come risulta con evidenza da una nota vergata durante la prima intersessione.
Nel gennaio del 1963, facendo il punto sul Concilio, il vescovo di Vittorio Veneto annotava, come sempre in modo schematico: «Concilio ecumenico: α) Riforma; β) In capite (Curia); γ) In membris: carità > giuridismo». Il primato della carità sul giuridismo, con il richiamo alla semplicità e alla povertà lascia intuire quale fosse la prospettiva ecclesiologica del giovane vescovo. Nelle pagine a seguire egli si profonde in un’ampia sintesi dell’idea di riforma - evidentemente della vita cristiana - di san Francesco di Sales, per tornare di nuovo al tema della riforma in capite e in membris come soluzione per la vita e il cammino della Chiesa.
In questo orizzonte il Papa proietta la funzione petrina, intesa come servizio alla missione universale della Chiesa; funzione alla quale dice di volersi dedicare con tutte le forze, fisiche e spirituali: «Intendiamo servire la verità, la giustizia, la pace, la concordia, la cooperazione all’interno delle nazioni e tra i popoli». La frase richiama da vicino un’espressione che si incontra nelle agende, quando il giovane vescovo di Vittorio Veneto, chiosando molti anni prima lo schema De fontibus Revelationis, erompeva in un grido: «Servi, non padroni della verità». La stessa forza si percepisce nel proposito che suggella l’assunzione del ministero petrino: «In questo solenne momento vogliamo consacrare tutto ciò che siamo, ogni nostro sforzo [quidquid possumus] a questo supremo scopo, fino all’ultimo respiro (!), consapevoli del mandato che Cristo stesso ci ha affidato: “Conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32)».
Nel primo volumus esprime così la volontà di adempiere «il grave ufficio» che gli è stato affidato e che egli intende svolgere in continuità con i suoi predecessori, ma soprattutto Paolo VI, del quale rammenta «l’opera immane, infaticabile, senza soste» per portare a compimento il concilio Vaticano II e per conservare la pace nel mondo. È a questo punto che Giovanni Paolo I introduce i sei volumus: 1) dare prosecuzione all’eredità del Concilio; 2) conservare intatta nella vita dei sacerdoti e dei fedeli la grande disciplina della Chiesa; 3) indicare la priorità dell’evangelizzazione nella missione ecclesiale; 4) mantenere vivo l’impegno ecumenico; 5) continuare il dialogo con il mondo contemporaneo avviato da Paolo VI; 6) incoraggiare le iniziative per la pace. Questi i sei volumus del Papa; questo il programma del pontificato.
Nella volontà di «perseguire l’eredità del Concilio» cita LG 23 quando dice che «ciascuno singolarmente ripresenta la propria Chiesa e tutti insieme in unità con il papa ripresentano la Chiesa tutta nel vincolo della pace, dell’amore e dell’unità». Sulla base di tale presupposto ecclesiologico, il Papa prosegue con un’affermazione di enorme portata, non a caso espressa con un ulteriore volumus, quasi a suggello dei precedenti: «Vogliamo fermamente rafforzare la forma collegiale dell’episcopato, avvalendoci dell’opera dei vescovi nel governo della Chiesa universale, sia mediante l’istituto sinodale, sia attraverso i compiti della Curia Romana, della quale fanno parte secondo le norme stabilite».
Il riferimento alla collegialità è particolarmente significativo, in quanto si riallaccia all’unico intervento del vescovo di Vittorio Venero al concilio - una animadversio scripta mai pronunciata in aula -, che verteva proprio su questo tema. Già la formulazione del richiamo è particolarmente interessante, perché il nuovo Papa legge la possibilità di un esercizio effettivo della collegialità nella partecipazione dei vescovi al governo della Chiesa universale, indicando anche due «luoghi» di tale possibile esercizio: il Sinodo dei vescovi e la Curia Romana, nella quale i vescovi diocesani sono già inseriti a norma del diritto.
Soprattutto sul Sinodo dei vescovi Giovanni Paolo I sembra fare un passo in avanti rispetto al suo predecessore. Si muove, infatti, piuttosto nella direzione del decreto Christus Dominus, che recepiva la decisione papale sulla partecipazione dei vescovi alla sollecitudine per tutta la Chiesa come un riconoscimento quantomeno implicito della collegialità.
Ogni passaggio meriterebbe una rilettura in contesto e uno studio approfondito alla luce del pensiero di Giovanni Paolo I, attraverso le carte di un archivio (APAL) che restituisce - a volte anche nel dettaglio - il quadro completo della vita, del ministero, ma anche delle idee del pontefice appena eletto. Sarebbero sette volumi, ricchi di prospettive per la conoscenza tanto di Giovanni Paolo I che di una stagione complessa della Chiesa e del mondo non ancora approfondita a dovere. Qui basta averli rammentati, non tanto per vagheggiare come sarebbe stata la Chiesa di Giovanni Paolo I, ma per verificare quanto quelle sfide siano tuttora attuali. La forza che emana dai sei volumus chiama la Chiesa di oggi a riscoprire l’eredità di quel brevissimo pontificato. Per quanto i trentaquattro giorni di pontificato sembrino irrilevanti, schiacciati come sono tra due grandi pontificati, è proprio la distanza tra Paolo VI e Giovanni Paolo II che obbliga a tornare su quel brevissimo pontificato.
Esistono tornanti della storia che vedono una concentrazione di eventi in grado di incidere profondamente sul suo corso. Il 1978 - l’anno dei tre papi e perciò di due conclavi - è uno di quei tornanti: sondare quel pontificato come un passaggio decisivo per l’esercizio del ministero petrino, con riflessi enormi sulla vita della Chiesa, aiuta non solo a ricostruire il profilo di Giovanni Paolo I, ma a comprendere le sfide con le quali la Chiesa era ed è chiamata a misurarsi.
*Componente del Comitato scientifico della Fondazione Vaticana Giovanni Paolo I e docente all’Università Gregoriana
Domenica il rito.
Luciani, ecco perché è beato e così attuale
Domenica il rito a 44 anni dalla morte di Giovanni Paolo I. Una figura che continua ad affascinare per la profonda spiritualità
di Stefania Falasca (Avvenire, venerdì 2 settembre 2022)
Nel momento esatto in cui lasciò questa terra teneva stretta tra le mani una virtù, la prima delle virtù cardinali: quella della prudenza, la virtù necessaria a chi governa. I fogli rinvenuti tra le sue mani dopo la morte di Giovanni Paolo I riguardavano proprio un suo scritto del 1964 su quella che la sapienza classica considera l’auriga, la condottiera di tutte le virtù. L’aveva messa all’ordine del giorno per l’udienza generale del mercoledì successivo, come confermano gli appunti autografi del suo personale block notes, per dare seguito al suo programma di pontificato. Perché Giovanni Paolo I voleva tracciare la strada con le "Sette lampade" della vita cristiana: le virtù teologali della fede, della speranza e della carità e le quattro virtù cardinali: prudenza, giustizia, fortezza, temperanza. Quelle che con il Giornale dell’anima di Giovanni XXIII chiamava: «Le Sette lampade di santificazione».
E nei trentaquattro giorni di pontificato aveva così messo le fondamenta del suo magistero, cominciando dalle prime tre. Per «Farle risplendere», «Iª = la fede» e lo fa con i versi dialettali di Trilussa, come li appunta nella sua agenda personale usata nel pontificato, dove si prende atto in modo diretto della genesi di tutti i suoi interventi che sembravano a braccio, di tutti i suoi discorsi e delle sue udienze e che oggi, per la prima volta, proprio alla luce delle carte, sono stati restituiti alla loro integrità e profondità e dati recentemente alle stampe a cura della Fondazione Vaticana Giovanni Paolo I. Alla fede segue la speranza nell’udienza del 20 settembre «virtù obbligatoria per i cristiani», «conseguenza - afferma citando il Concilio - che non solo non esime i cristiani dall’edificazione di un mondo migliore ma li obbliga con impegno ancora più stringente». Infine, la carità che è tutto, che è la Cathedra della fides romana. E chiamando in causa Dante ci porta al cuore del magistero, facendolo precedere da un’altra virtù: quella umiltà, che rappresenta l’essenza del cristianesimo, la virtù portata nel mondo da Cristo e l’unica che a lui porta e l’unica da cui può prendere principio ogni cammino nella Chiesa.
Non si beatifica un papa perché è papa, non si beatifica un pontificato. La Chiesa da sempre ha un unico criterio che riconosce per proclamare beati o santi: e cioè che la santità consiste essenzialmente nell’unione con Dio realizzata dalla grazia. Tutta la plurisecolare e complessa procedura che li porta agli onori degli altari serve solo per accertare se questo c’è ed è autenticamente vissuto. E a questo livello, che i candidati suggeriti dal sensus fidelium, indicati dal popolo di Dio, siano netturbini, operai, scaricatori di porto o papi, nulla cambia. Gli elementi per Giovanni Paolo I sono quindi quelli sempre validi per tutti coloro che vengono proclamati beati dalla Chiesa come confessori della fede: aver sempre cercato l’unione con Dio e aver vissuto, nella ferialità, tutte le virtù cristiane in modo non comune.
Appena consacrato vescovo di Vittorio Veneto, nel 1959, pronunciò queste parole che restano filo conduttore di tutto il suo ministero fino alla Cattedra di Pietro: «Io cercherò di aver sempre davanti al mio episcopato questo motto: fede, speranza, carità. Se mettiamo in pratica queste tre cose, siamo a posto: se abbiamo la fede, se abbiamo la speranza, se abbiamo la carità. Cercate anche voi di fare altrettanto. Siamo tutti poveri peccatori». Questi i tratti salienti della sua spiritualità e della sua santità. «Tutta la vita di Albino Luciani fu impegnata a ricercare la sostanza del Vangelo, come unica ed eterna verità, al di là di ogni contingenza storica o di moda», osservò il noto filologo Vittore Branca, che era stato vicino a Luciani negli anni del patriarcato a Venezia. Luciani era così rimasto fedele alla dottrina di san Francesco di Sales, santo che gli fu caro fin dall’adolescenza, quando lesse la Filotea. Introduction à la vie devote e il Traicté de l’amour de Dieu e come lui ha «reso facile a tutti la via verso Cristo», come è scritto nel breve pontificio che lo riconosce Dottore della Chiesa.
Da qui il pastore nutrito di umana e serena saggezza e di forti virtù evangeliche, che precede e vive nel gregge con l’esempio, senza alcuna separazione tra la vita personale e la vita pastorale, tra la vita spirituale e l’esercizio di governo, nell’assoluta coincidenza tra quanto insegnava e quanto viveva. A partire da quelle che ha Luciani predicato e prima ancora vissuto anche nelle quattro udienze del suo magistero da Papa: fede, speranza e carità, precedute dall’umiltà. Una testimonianza autentica di cristianesimo, nella quale lo stesso popolo di Dio si identifica e si edifica. E per questi motivi, papa Luciani, anche se Papa, è modello non solo per i preti, i religiosi ma per tutti e imitabile da tutti.
A queste ragioni che ne sono fondamento scaturisce e si coniuga il messaggio attuale di questa beatificazione, quella che nei termini della procedura canonica viene definita opportunitate canonizationis per la Chiesa. Qual è la sua attualità? In calce, nella sua agenda personale del pontificato, citando il santo vescovo del IV Avito di Vienne siglava così l’essere ministri nella Chiesa: «Servi, non padroni della Verità». -Giovanni Paolo I aveva infatti assimilato già nella sua formazione sacerdotale quella visione, cara ai Padri del primo millennio, della Chiesa come mysterium lunae: una Chiesa cioè che non brilla di luce propria, ma di luce riflessa; una Chiesa che non è proprietà degli uomini di Chiesa, ma Christi lumini. Immagine della natura ecclesiale e dell’agire che le conviene che aveva irrigato diffusamente i documenti del Concilio e che divenne decisiva e feconda nell’iter pastorale di Luciani.
Egli ha vissuto l’esperienza del concilio Ecumenico Vaticano II, come risalita alle sorgenti del Vangelo e l’ha applicato facendo progredire la Chiesa lungo le strade maestre da esso indicate. Prossimità e disponibilità fraterna al dialogo con la contemporaneità e al dialogo internazionale condotto con perseveranza in favore della giustizia e della pace, semplicità evangelica, insistenza sulla opere di misericordia e sulla tenerezza di Dio, ricerca della collegialità e dell’unità dei cristiani, il servizio nella povertà ecclesiale, sono i tratti salienti di un magistero vissuto che quarant’anni fa suscitarono una vasta risonanza e grande affetto nel popolo di Dio. Sono gli stessi tratti che lo rendono attuale anche per la Chiesa del XXI secolo. Giovanni Paolo I è stato e rimane un riferimento inalienabile nella storia della Chiesa, testimone oggi di una Chiesa che con il Concilio è risalita alle sorgenti per essere fedele alla natura della sua missione nel mondo e testimone oggi di ciò che il fondamento autentico del vivere nella Chiesa e per la Chiesa.
DANTE E I PAPI
L’amore per il sommo poeta in Albino Luciani
Un mosaico splendente
di interpretazioni
di Gabriella M. Di Paola Dollorenzo (L’Osservatore Romano, 5 febbraio 2021)
«Miei confratelli, nel 1965, ricorrendo il centenario di Dante, ho fatto su me stesso una revisione di vita, rileggendo le cantiche del Purgatorio e del Paradiso».
La lettera è un piccolo saggio di interpretazione teologica del Purgatorio, in cui il futuro Papa analizza le sette balze della sacra montagna, dove le anime «si purgano sopportando pene, ma anche meditando. Ebbene in ogni balza, il primo esempio offerto alla meditazione è un episodio della vita della Madonna; noi lo rileggiamo (...) a scopo di edificazione».
Cominciando dai superbi della prima cornice, il cardinal Luciani si sofferma sulla virtù dell’umiltà, richiamando l’esempio di Maria che accetta di essere la Madre di Dio, e invitando i sacerdoti al loro servizio di pastori, liberi dalla superbia e dall’orgoglio della propria cultura. La tecnica stilistica seguita è quella di segnalare, attraverso la citazione dantesca, la virtù contraria al peccato che si espia in quella cornice del purgatorio, così per gli invidiosi, «La prima voce che passò volando / vinum non habent altamente disse» (Purgatorio, XIII 28-29).
Sono le parole di Maria, la quale, alle nozze di Cana, ebbe gli occhi tutt’altro che cuciti, e invece ben aperti a scoprire i bisogni del prossimo ed a far fare bella figura ai due poveri sposi», come per gli iracondi, per i quali il commento si umanizza scendendo nel o, per meglio dire, salendo al quotidiano: «”Figliol mio, perché hai tu così verso noi fatto?” (Purgatorio, XV , 89-90). Quello della Madonna in sostanza è un rimprovero, ma tanto mitigato dalla dolcezza della voce e dall’atteggiamento materno da parere una carezza (...) Rimproveriamo pure, ma «in dolce atto di madre».
Infine Giovanni Paolo I accede, proprio sulla scia dei suoi predecessori che onorerà nel doppio nome papale, alle profondità della teologia dantesca affiancandola alla Lumen gentium: «Le Natività e le Annunciazioni del Quattrocento e del Cinquecento ci danno madonne vestite come signore, in stanze da ricchi; la stessa capanna di Betlemme è, a volte, uno splendore di ambiente; al Concilio si è un po’ reagito a questa concezione, sottolineando che Maria praecellit inter umile et pauperes Domini» (Lumen gentium, II , 55).
Dante è col concilio: nella quinta balza fa esclamare ad Ugo Capeto: «Dolce Maria (...) povera fosti tanto / quanto veder si può per quello ospizio / dove sponesti il tuo portato santo» (Purgatorio, XX , 19-24), considerazioni che gli faranno affermare durante l’Angelus del 10 settembre 1978: «Noi siamo oggetto, da parte di Dio, di un amore intramontabile: (Dio) è papà, più ancora è madre».
Il 26 agosto 1978 Albino Luciani è eletto Papa: sceglie, per primo nella storia del papato, il doppio nome di Giovanni Paolo I. Il suo umanesimo cristiano si manifesta così nel sermo humilis, nel sermo cotidianus, che pienamente, compiutamente e mirabilmente si esprime nelle quattro udienze generali di un così breve pontificato. La prima (6 settembre 1978) è dedicata all’umiltà, che precede anzi introduce le successive, dedicate alla fede, alla speranza e alla carità. Richiamando la catechesi di Paolo VI , Papa Luciani si propone di «aiutare la gente a diventare più buona. Per esser buoni, però, bisogna essere a posto davanti a Dio, davanti al prossimo e davanti a noi stessi. Davanti a Dio, la posizione giusta è quella di Abramo, che ha detto: “Sono soltanto polvere e cenere davanti a te, o Signore!”». Dobbiamo sentirci piccoli davanti a Dio.
«Quando io dico: “Signore io credo” non mi vergogno di sentirmi come un bambino davanti alla mamma; si crede alla mamma; io credo al Signore, a quello che Egli mi ha rivelato». Il sermo successivo serve a rendere operanti, nella mente e nel cuore dei presenti, le affermazioni iniziali, utilizzando tre aneddoti-parabole, inseriti naturalmente nel racconto didascalico ma non accademico del Papa che dialoga bonariamente con gli astanti e coinvolge direttamente i chierichetti di Malta, presenti all’udienza, accompagnando le sue parole con la dolcezza del suo sorriso: «Mi limito a raccomandare una virtù tanto cara al Signore, ha detto: “Imparate da me che sono mite ed umile di cuore”. Io rischio di dire uno sproposito ma lo dico: il Signore tanto ama l’umiltà che, a volte, permette dei peccati gravi. Perché? Perché quelli che li hanno commessi, questi peccati, dopo, pentiti, restino umili (...). Bassi, bassi: è la virtù cristiana che riguarda noi stessi».
di Gabriella M. Di Paola Dollorenzo
L’anticipazione.
Francesco: lo sguardo profetico di Giovanni Paolo I sul mondo
Il Papa ha scritto la prefazione al volume che raccoglie l’intero magistero papale di Albino Luciani. «Ha vissuto con pienezza fede, speranza e carità»
di Papa Francesco (Avvenire, lunedì 9 maggio 2022)
Giovanni Paolo I- Albino Luciani è stato Vescovo di Roma per 34 giorni. Con lui, in quelle rapide settimane di pontificato, il Signore ha trovato il modo di mostrarci che l’unico tesoro è la fede, la semplice fede degli Apostoli, riproposta dal Concilio ecumenico Vaticano II. Lo attestano anche le pagine di questo volume, che raccoglie con puntuale e completa dicitura il suo magistero, tutti gli interventi scritti e pronunciati nel corso del suo pontificato. Nel tempo breve vissuto come Successore di Pietro, papa Giovanni Paolo I ha confessato la fede, la speranza e la carità, virtù donate da Dio, dedicando a esse le sue catechesi del mercoledì. E ci ha ripetuto che la predilezione dei poveri fa infallibilmente parte della fede apostolica, quando - nella liturgia celebrata a San Giovanni in Laterano per la presa di possesso della Cattedra Romana - ha citato le formule e le preghiere imparate da bambino per riaffermare che l’oppressione dei poveri e il «defraudare la giusta mercede agli operai» sono peccati che «gridano vendetta al cospetto di Dio». E proprio per la fede del popolo cristiano, a cui egli apparteneva, ha potuto rivolgere uno sguardo profetico sulle ferite e i mali del mondo, mostrando quanto anche la pace stia a cuore alla Chiesa. Lo testimoniano, ad esempio, le numerose espressioni sparse nei suoi interventi pubblici di quei giorni, riportate in queste pagine, che esprimevano il suo sostegno ai colloqui di pace tenuti dal 5 al 17 settembre 1978 e che impegnarono a Camp David il presidente statunitense Jimmy Carter, il presidente egiziano Anwar al-Sadat e il premier israeliano Menachem Begin.
O anche le parole rivolte il 4 settembre a oltre cento rappresentanti di missioni internazionali, in cui esprimeva l’auspicio che «la Chiesa, umile messaggera del Vangelo a tutti i popoli della terra, possa contribuire a creare un clima di giustizia, fratellanza, solidarietà e di speranza, senza la quale il mondo non può vivere». Così papa Luciani ha ripetuto che la cosa più urgente, più all’altezza dei tempi, dei nostri tempi, non era il prodotto di un suo pensiero o un suo progetto generoso, ma il semplice camminare nella fede degli Apostoli. La fede da lui ricevuta come un dono nella sua famiglia di operai ed emigranti, che conosceva la fatica della vita per portarsi a casa il pane. Gente che camminava sulla terra, non tra le nuvole. Faceva parte di questo dono anche l’umiltà. Il riconoscersi piccoli non per sforzo o per posa, ma per gratitudine. Perché si può essere resi umili solo nella gratitudi«Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mtne per aver provato la misericordia senza misura di Gesù e il Suo perdono. E così può diventare facile anche fare quello che Lui chiede: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt. 11,29).
Quando papa Luciani morì, anche Óscar Arnulfo Romero - l’arcivescovo di San Salvador assassinato sull’altare e oggi venerato Santo dal popolo di Dio - celebrò, il 3 ottobre, una messa in memoria del pontefice scomparso. Con la brevità del suo pontificato - disse Romero - Giovanni Paolo I aveva avuto «solo il tempo di dare al mondo la breve ma densa risposta che Dio dà al mondo attuale». In così poco tempo, con la morte di due Papi e due elezioni pontificie - osservò l’Arcivescovo martire - l’attenzione del mondo era stata richiamata a guardare «in cima alla gerarchia della Chiesa cattolica», quella gerarchia che viene posta «sulle spalle di uomini fragili», eppure è chiamata a essere «il canale attraverso il quale la Chiesa è guidata e governata» e un «segno sacramentale» della «grazia che viene donata agli uomini ». È il mistero di quella che sant’Ignazio di Loyola chiama «Nostra Santa Madre Chiesa gerarchica».
Nella Chiesa la gerarchia non è una entità isolata e autosufficiente. Essa è dentro un popolo riunito da Dio «al servizio del Regno e del mondo intero» - come sottolineava il vescovo Romero - perché la Chiesa «non è fine a se stessa e tanto meno la gerarchia: la gerarchia è per la Chiesa, e la Chiesa è per il mondo». In quella circostanza, nella circostanza della morte di Giovanni Paolo I - faceva osservare ancora il santo martire - venne facile riconoscere che la Chiesa non la costruisce il Papa né i vescovi: il Successore di Pietro è «la pietra di consistenza» sulla quale prende unità la Chiesa che Cristo stesso edifica, col dono della Sua grazia. E se le porte dell’inferno e la morte non prevarranno, questo non accade per le ’spalle fragili» del Papa, ma perché il Papa «è sostenuto da Colui che è la vita eterna, l’immortale, il santo, il divino: Gesù Cristo, nostro Signore». E questo è il mistero che risplende anche nella vicenda e negli insegnamenti di Giovanni Paolo I.
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Vaticano. Condannato l’ex presidente dello Ior, Caloia
Dal Tribunale vaticano presieduto da Pignatone una pena di 8 anni e 11 mesi. Analoga condanna per l’avv. Gabriele Liuzzo. Al figlio Lamberto 5 anni e 2 mesi. Riciclaggio e appropriazione indebita
di M.Mu. (Avvenire, giovedì 21 gennaio 2021)
Si è concluso con tre condanne il processo in Vaticano a carico dell’ex presidente dello Ior Angelo Caloia e degli avvocati Gabriele e Lamberto Liuzzo, padre e figlio, riconosciuti colpevoli di peculato in danno dello Ior e di appropriazione indebita aggravata in danno della Sgir s.r.l., oltre che di autoriciclaggio i primi due; e di riciclaggio il terzo. La sentenza di primo grado ha comminato 8 anni e 11 mesi a Caloia e Gabriele Liuzzo, gravati anche di una multa di 12.500 euro cadauno e cinque anni e due mesi a Lamberto Liuzzo, oltre a una multa di 8mila euro. A pronunciarla è stato oggi il presidente del Tribunale della Città del Vaticano, Giuseppe Pignatone, affiancato dai due giudici a latere, Venerando Marano e Carlo Bonzano.
La vicenda riguarda la vendita di 29 immobili di proprietà dell’Ior e di una società controllata, la Sgir s.r.l. Secondo l’accusa, basata principalmente sulle indagini fatte nel 2014 dal gruppo Promontory, Caloia e Liuzzo, d’intesa con l’allora direttore generale dello Ior Lelio Scaletti, poi deceduto, avrebbero venduto - tra il 2002 e il 2007 - gli immobili ad un prezzo di gran lunga inferiore al valore di mercato; essi si sarebbero poi appropriati della differenza, stimata in circa 59 milioni di euro, che in parte avrebbero riciclato in Svizzera, anche con l’aiuto del figlio del Liuzzo, Lamberto Liuzzo.
«L’istruttoria dibattimentale - precisa un comunicato della Sala Stampa della Santa Sede -, durata circa due anni, ha consentito di chiarire, grazie al contributo di tutte le parti, nel pieno rispetto del contraddittorio, i principali aspetti della vicenda; tra l’altro, i periti hanno stimato nella misura di circa 34 milioni di euro la differenza tra quanto incassato dallo Ior e dalla Sgir ed il valore di mercato degli immobili. Il Tribunale ha ritenuto provato che in alcuni casi gli imputati si sono effettivamente appropriati di parte del denaro pagato dai compratori, o comunque di denaro dello Ior e della Sgir, per un importo complessivo di circa 19 milioni di euro. I tre imputati sono stati interdetti in perpetuo dai pubblici uffici ed è stata altresì disposta a loro carico la confisca di somme complessivamente pari a circa 38 milioni di euro. Infine, Caloia e i due Liuzzo sono stati condannati al risarcimento dei danni nei confronti dello Ior e della sua controllata Sgir, costituiti parte civile, per una somma superiore a 20 milioni di euro. Gli imputati sono stati invece assolti dalle accuse relative alla vendita di quegli immobili per cui non è stata provata l’appropriazione -da parte loro- di denaro, anche se il prezzo di acquisto è risultato inferiore al valore di mercato dell’epoca. I 29 immobili si trovano a Roma (in zone di pregio), a Frascati, Fara Sabina, Milano (Porta Nuova) e Genova (piazza della Vittoria).
Sempre oggi il Tribunale ha confermato in sede di appello l’applicazione della misura di prevenzione nei confronti di Liuzzo Gabriele, ordinando la confisca di circa 14 milioni di euro depositati presso lo IOR e già da tempo in sequestro, nonché di altri 11 milioni di euro circa, depositati presso banche svizzere. Caloia è stato presidente dello Ior dal 1989 al 2009 e ha 81 anni. Gabriele Liuzzo 97 anni e Lamberto Liuzzo 55. I tre erano assenti ieri. Gli avvocati di Caloia hanno preannunciato appello.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
VITA E DENARO. COME RICICLARE LO STERCO DEL DIAVOLO. Intervista di Francesco Anfossi di "Famiglia Cristiana" al "banchiere del Papa", Angelo Caloia, presidente dello IOR
FLS
Il concilio di Albino Luciani
A quarantadue anni dall’elezione di Giovanni Paolo I
di Andrea Tornielli (L’Osservatore Romano, 26 agosto 2020)
La sera di 42 anni fa si affacciava sorridente dalla Loggia centrale della basilica di San Pietro il successore di Papa Paolo VI. Albino Luciani, patriarca di Venezia, il 26 agosto 1978 venne eletto al quarto scrutinio assumendo il doppio nome di Giovanni Paolo, in ossequio ai suoi immediati predecessori, Roncalli e Montini. Il primo l’aveva voluto vescovo di Vittorio Veneto includendolo così tra i padri del Concilio, il secondo l’aveva trasferito a Venezia e creato cardinale. Quella calda sera d’estate nessuno poteva immaginare che il pontificato di Giovanni Paolo I, mite e umile pastore veneto con origini montanare, sarebbe stato tra i più brevi della storia. Quarantadue anni dopo quell’evento, in un tempo in cui il concilio ecumenico Vaticano II è oggetto di attacchi e di critiche, è significativo ricordare Luciani attraverso alcune sue parole scritte quando era vescovo e padre conciliare, per spiegare ai fedeli della sua diocesi ciò che stava accadendo a Roma.
Contro il diffuso pessimismo
Nella fase preparatoria Luciani non fa mancare il suo parere scritto. Nel suo voto il vescovo di Vittorio Veneto auspica che il futuro Concilio metta in luce «l’ottimismo cristiano» insito nell’insegnamento del Risorto, contro «il diffuso pessimismo» della cultura relativistica, denunciando una sostanziale ignoranza delle «cose elementari della fede». Luciani parte per Roma, partecipa alle sessioni del concilio, ascolta con attenzione i dibattiti. Non prende mai la parola ma scrive pagine e pagine di appunti. Rilegge Antonio Rosmini, studia a fondo molti teologi, tra i quali Henri de Lubac e Hans Urs von Balthasar. Scrive spesso ai fedeli della sua diocesi, li tiene aggiornati sui risultati del concilio e spiega argomenti delicati con il consueto stile didascalico e catechistico, evitando però, allo stesso tempo, le semplificazioni eccessive. Il vescovo Luciani indica subito quello che ai suoi occhi sarà l’attore principale del Concilio: «Lo Spirito Santo, presente ai lavori colla sua assistenza a impedire errori e deviazioni dottrinali». Un’assistenza, scrive, che andrà ai membri del concilio collettivamente come a «capi-Chiesa, non come a uomini singoli» che «rimarranno uomini col loro temperamento».
Un’esperienza di Chiesa universale
In un messaggio per la giornata missionaria, datato 14 ottobre 1963, Luciani informa i suoi diocesani che sta toccando le missioni nelle persone dei vescovi convenuti da ogni parte del mondo. E infatti scrive: «Nell’aula conciliare, basta ch’io alzi gli occhi sulle gradinate che mi stanno davanti. Son là: le barbe dei vescovi missionari, le facce nere degli africani, gli zigomi sporgenti degli asiatici. E basta ch’io scambi con essi qualche parola; s’aprono davanti visioni e bisogni, di cui, da noi, non s’ha neppur l’idea». Conclusosi il primo periodo conciliare, Luciani ritorna a casa insieme al suo «vicino di banco», Charles Msakila, vescovo di Karema (Tanganika), suo ospite per alcuni giorni: un gesto di attenzione, ma anche un modo per far respirare alla diocesi la dimensione dell’universalità della Chiesa. L’impeto missionario emerge anche dalle parole che il vescovo di Vittorio Veneto dedica a Papa Giovanni, celebrando nel giugno 1963 una messa di suffragio per il Pontefice appena defunto. «L’idea di Papa Giovanni, che più ha colpito il mio spirito, è questa: Ecclesia Christi lumen gentium! La Chiesa deve far chiaro non solo ai cattolici, ma a tutti; essa è di tutti, bisogna cercare di avvicinarla a tutti».
Riforma liturgica
Due assaggi, dagli scritti del vescovo Luciani, per comprendere come il futuro Papa guardasse ad alcuni dei temi cruciali del concilio. Il primo riguarda la liturgia. «Durante la prima sessione del Concilio - scrive Luciani - il grande problema, circa la Messa, è stato: quali aiuti offrire ai fedeli, perché ricavino il massimo frutto possibile da questo, che è “il punto culminante della vita cristiana?”. Un primo aiuto, è stato detto, venga dalla Bibbia. La Bibbia è parola di Dio; è straordinaria nel creare un clima di giusta e fervida religiosità... La lettura dell’epistola e del Vangelo sia fatta direttamente in italiano, quando alla Messa assistono i fedeli, e sia messa più in risalto... Un secondo aiuto è l’uso della lingua italiana. Alla prima sessione del Concilio ben 81 vescovi hanno chiesto per la liturgia l’uso della lingua materna. Altri vescovi erano timorosi... Altri fecero notare che la Chiesa, in passato, ha più volte cambiato lingua, adattandosi alla lingua del popolo. Gesù stesso parlò e pregò non in ebraico, lingua nazionale della Palestina, ma in aramaico, lingua del popolo... Un terzo aiuto consiste nel semplificare i riti della Messa. Per essere sinceri, alcuni riti, nel corso dei secoli, si sono accavallati, altri non sono capiti dal popolo di oggi, altri, per essere capiti, richiedono complicate spiegazioni. Un rito - s’è detto al Concilio - non dev’essere una cosa, su cui parlare e spiegare, ma una cosa che parla e spiega di per sé; in ogni caso, non imponiamo ai fedeli inutili difficoltà!... Un quarto aiuto consiste nel promuovere e rendere facile la partecipazione dei fedeli».
Libertà religiosa
Uno degli argomenti più delicati e complessi affrontato dal concilio fu quello della libertà religiosa. Per Luciani fu un cambiamento significativo rispetto agli insegnamenti del seminario. Ecco come il vescovo di Vittorio Veneto spiega quel momento: «Tutti siamo d’accordo che c’è una sola vera religione... Ma, detto questo, ci sono anche altre cose che sono giuste e bisogna dirle. Cioè, chi non è convinto dal cattolicesimo ha il diritto di professare la sua religione per più motivi. Il diritto naturale dice che ciascuno ha il diritto di cercare la verità. Ora guardate che la verità, specialmente religiosa, non si può cercarla chiudendosi in una stanza e leggendo qualche libro. La si cerca seriamente parlando con gli altri, consultandosi... Non abbiate paura di dare uno schiaffo alla verità quando date a una persona il diritto di usare della sua libertà».
Rispettare i diritti dei non cattolici
Scrive ancora il vescovo Luciani: «Se uno ha coscienza che quella è la sua religione ha il diritto di tenersela, di manifestarla e di farne propaganda. Si deve giudicare buona la propria religione, ma anche quella degli altri. La scelta della religione deve essere libera; quanto più è libera e convinta, tanto più chi l’abbraccia se ne sente onorato. Questi sono i diritti, i diritti naturali. Ora, non c’è un diritto al quale non corrisponda anche un dovere. I non cattolici hanno il diritto di professare la loro religione, e io ho il dovere di rispettare il loro diritto: io privato, io prete, io vescovo, io Stato».
Fate meglio il catechismo
Infine, negli scritti di Luciani padre conciliare si ritrovano anche queste parole di notevole attualità nel rapporto con i credenti di altre fedi. Nonostante siano state scritte 56 anni fa, colgono ancora nel segno e appaiono in sintonia con la frase di Benedetto XVI frequentemente citata dal suo successore Francesco: «La Chiesa non cresce per proselitismo ma per attrazione». E dunque di fronte alla presenza delle altre fedi religiose, non sono certo i divieti a professarle o l’arroccamento difensivo a mantenere in vita il cristianesimo. La fede cristiana esiste e si diffonde se ci sono cristiani che la vivono e la testimoniano attraverso la loro vita.
«Qualche
vescovo - scrive Albino Luciani - si è spaventato: ma allora domani vengono i buddisti e fanno la loro propaganda a Roma, vengono a convertire l’Italia. Oppure ci sono quattromila musulmani a Roma: hanno diritto di costruirsi una moschea. Non c’è niente da dire: bisogna lasciarli fare. Se volete che i vostri figli non si facciano buddisti o non diventino musulmani, dovete fare meglio il catechismo, fare in modo che siano veramente convinti della loro religione cattolica».
La lezione di Albino Luciani.
«Se un popolo è buono lo si gonfia di odio...»
di Davide Fiocco *
«Giovanni Paolo I arriva al timone della barca di Pietro come un vento di primavera che interrompe l’inverno del terrorismo e del piombo». Questa acuta notazione di Antonio Preziosi, in una sua ancor recente pubblicazione, ci riporta al clima del 1978: l’«anno dei tre Papi»; ma anche l’anno del delitto Moro, l’anno più buio nella storia della Repubblica. Come visse Luciani quell’anno, prima dell’elezione? Tra le sue pagine emergono alcuni interventi come l’omelia tenuta al funerale di un giornalista ucciso in febbraio in un attacco dinamitardo.
Diceva: «Come vescovo, in nome della fede e dei diritti umani, io devo dichiarare insostenibile tale stato di cose e chiedere a tutti gli uomini di buona volontà, a qualunque istituzione o partito appartengano, di fare argine contro di esso». In quelle settimane lo sguardo del Patriarca di Venezia si posava preoccupato su alcuni libri adottati nelle scuole. Vi aveva letto: «Le rivoluzioni sono una conseguenza necessaria...». Commentava: «Perfino a teneri fanciulli si insegna in qualche scuola la necessità della rivoluzione». Se i brigatisti rivendicavano per sé «il nome di soldato combattente una guerra santa», Luciani aggiungeva: «Il cristianesimo esclude in ogni caso l’odio».
Richiamava i genitori a vigilare, sottolineando: «Si semina vento di odio oggi, domani si raccoglierà tempesta». Erano anni di piombo, in cui si ’amoreggiava’ con la rivoluzione, come «se fosse cosa che risolve tutti i problemi in quattro e quattr’otto. La storia insegna invece che, certo, le rivoluzioni passate - le poche volte che non si fermarono a metà - hanno risolto qualche problema, ma creandone altri, a prezzo di tanto sangue e lasciando solchi profondi di divisioni e di odi».
Le azioni dure, i pugni di ferro, le mosse sguaiate degli ’elefanti’, le ruspe invocate sulla complessità dei problemi sono applaudite, ma di fatto contentano soltanto le piazze, come le urla della folla acclamavano davanti alla ghigliottina, che disseminava dolore, senza risolvere i problemi. Proprio a quella storia francese il cardinal Luciani faceva riferimento. Il 16 marzo 1978 ci fu la strage di via Fani, cui seguirono i giorni più tetri della storia repubblicana, finché il 9 maggio l’Italia si fermò davanti all’orrore della Renault 4 rossa in via Caetani, nel centro di Roma. Luciani scriveva: «...se un popolo buono lo si gonfia per anni di odio all’acido muriatico. Se giorno su giorno si demoliscono sistematicamente i valori civili e umani, l’autorità dei genitori, dei maestri e la santità della famiglia..., saltano fuori ben altro che tupamaros! ».
Erano questi i militanti di un’organizzazione rivoluzionaria uruguaiana, che aveva scelto la violenza con il metodo della guerriglia. Luciani ricordava ancora l’indicazione di Gesù: «Amatevi l’un l’altro; perdonate; non fate agli altri quello che non vorreste fatto a voi stessi». Gli amanti della rivoluzione indicavano la violenza come ’levatrice della storia’, l’inevitabile opzione per cambiare il mondo e aprire la strada al mitico ’sol dell’avvenire’. Il futuro Papa osservava come la violenza fosse cominciata con le armi improprie e le sottovalutate bottiglie molotov: in poco tempo si era arrivati alle «armi vere usate con crudeltà cinica e terrificante». Quali i rimedi? Luciani ne aveva per tutti: ai politici raccomandava tra l’altro «un giusto stile politico e dei saggi provvedimenti sociali». Alla gente chiedeva di uscire «dalla grigia e passiva neutralità. Non è forse fatale la pusillanimità, che non si dichiara per nessun ideale? ».
Agli intellettuali e ai giornalisti raccomandava: «Ogni pensiero, ogni parola è un seme dal quale può nascere un frutto buono o malvagio: quanto viene detto, recitato, scritto, trasmesso non cade in terra di nessuno, ma opera su uomini vivi, permea situazioni di esistenza e decisioni di vita». E oggi, in un contesto certo diverso, ma tra ombre che si vanno di nuovo addensando, quanto rancore si sta facendo ingurgitare agli italiani... Quante parole cattive si insinuano nel dibattito pubblico! L’aforisma di Luciani può essere scolpito di nuovo per noi tutti: «Se un popolo buono lo si gonfia per anni di odio all’acido muriatico...».
Direttore Centro Papa Luciani
LETTERA APOSTOLICA
IN FORMA DI «MOTU PROPRIO»
PER IL CAMBIAMENTO DELLA DENOMINAZIONE
DA
AD
L’esperienza storica insegna che ogni istituzione umana, sorta pure con le migliori tutele e con vigorose e fondate speranze di progresso, toccata fatalmente dal tempo, proprio per rimanere fedele a se stessa e agli scopi ideali della sua natura, avverte il bisogno, non già di mutare la propria fisionomia, ma di trasporre nelle diverse epoche e culture i propri valori ispiratori e operare quegli aggiornamenti che si rendono convenienti e a volte necessari.
Anche l’Archivio Segreto Vaticano, al quale i Romani Pontefici hanno sempre riservato sollecitudine e cura in ragione dell’ingente e rilevante patrimonio documentario che conserva, tanto prezioso per la Chiesa Cattolica quanto per la cultura universale, non sfugge, nella sua storia ormai più che quattro volte centenaria, a tali inevitabili condizionamenti.
Sorto dal nucleo documentario della Camera Apostolica e della stessa Biblioteca Apostolica (la cosiddetta Bibliotheca secreta) fra il primo e secondo decennio del XVII secolo, l’Archivio Pontificio, che cominciò a chiamarsi Segreto (Archivum Secretum Vaticanum) solo intorno alla metà di tale secolo, accolto in confacenti locali del Palazzo Apostolico, crebbe nel tempo in consistenza notevolissima e fin da subito si aprì alle richieste di documenti che pervenivano al Pontefice Romano, al cardinale Camerlengo e poi al cardinale Archivista e Bibliotecario da ogni parte dell’Europa e del mondo. Se è vero che l’apertura ufficiale dell’Archivio ai ricercatori di ogni Paese si avrà soltanto nel 1881, è vero anche che fra il XVII e il XIX secolo molte opere erudite si poterono pubblicare con l’ausilio di copie documentarie fedeli o autentiche che gli storici ottenevano dai custodi e dai prefetti dell’Archivio Segreto Vaticano. Tanto che il celebre filosofo e matematico tedesco Gottfried Wilhelm von Leibniz, il quale pure vi attinse, scrisse nel 1702 che esso poteva considerarsi in certo modo l’Archivio centrale dell’Europa (quod quodam modo totius Europae commune Archivum censeri debet).
Questo lungo servizio reso alla Chiesa, alla cultura e agli studiosi di tutto il mondo ha sempre guadagnato all’Archivio Segreto Vaticano stima e riconoscenza, tanto più crescenti da Leone XIII ai nostri giorni, sia in ragione delle progressive «aperture» della documentazione resa disponibile alla consultazione (che dal prossimo 2 marzo 2020, per mia disposizione, si estenderà fino al termine del pontificato di Pio XII), sia in ragione dell’aumento di ricercatori che sono quotidianamente ammessi all’Archivio medesimo e aiutati in ogni modo nelle loro ricerche.
Tale meritorio servizio ecclesiale e culturale, così apprezzato, bene risponde agli intenti di tutti i miei predecessori, che secondo i tempi e le possibilità hanno favorito le ricerche storiche in così vasto Archivio, dotandolo, secondo i suggerimenti dei cardinali Archivisti o dei prefetti pro tempore, di persone, di mezzi e anche di nuove tecnologie. In tal modo si è provveduto alla graduale crescita della struttura dell’Archivio stesso per il suo sempre più impegnativo servizio alla Chiesa e al mondo della cultura, mantenendo sempre fede agli insegnamenti e alle direttive dei Pontefici.
Vi è tuttavia un aspetto che penso possa essere ancora utile aggiornare, ribadendo le finalità ecclesiali e culturali della missione dell’Archivio. Tale aspetto riguarda la stessa denominazione dell’istituto: Archivio Segreto Vaticano.
Nato, come accennato, dalla Bibliotheca secreta del Romano Pontefice, ovvero dalla parte di codici e scritture più particolarmente di proprietà e sotto la giurisdizione diretta del Papa, l’Archivio si intitolò dapprima semplicemente Archivum novum, poi Archivum Apostolicum, quindi Archivum Secretum (le prime attestazioni del termine risalgono al 1646 circa).
Il termine Secretum, entrato a formare la denominazione propria dell’istituzione, prevalsa negli ultimi secoli, era giustificato, perché indicava che il nuovo Archivio, voluto dal mio predecessore Paolo V verso il 1610-1612, altro non era che l’archivio privato, separato, riservato del Papa. Così intesero sempre definirlo tutti i Pontefici e così lo definiscono ancora oggi gli studiosi, senza alcuna difficoltà. Questa definizione, del resto, era diffusa, con analogo significato, presso le corti dei sovrani e dei principi, i cui archivi si definirono propriamente secreti.
Finché perdurò la coscienza dello stretto legame fra la lingua latina e le lingue che da essa discendono, non vi era bisogno di spiegare o addirittura di giustificare tale titolo di Archivum Secretum. Con i progressivi mutamenti semantici che si sono però verificati nelle lingue moderne e nelle culture e sensibilità sociali di diverse nazioni, in misura più o meno marcata, il termine Secretum accostato all’Archivio Vaticano cominciò a essere frainteso, a essere colorato di sfumature ambigue, persino negative. Avendo smarrito il vero significato del termine secretum e associandone istintivamente la valenza al concetto espresso dalla moderna parola «segreto», in alcuni ambiti e ambienti, anche di un certo rilievo culturale, tale locuzione ha assunto l’accezione pregiudizievole di nascosto, da non rivelare e da riservare per pochi. Tutto il contrario di quanto è sempre stato e intende essere l’Archivio Segreto Vaticano, che - come disse il mio santo predecessore Paolo VI - conserva «echi e vestigia» del passaggio del Signore nella storia (Insegnamenti di Paolo VI, I, 1963, p. 614). E la Chiesa «non ha paura della storia, anzi la ama, e vorrebbe amarla di più e meglio, come la ama Dio!» (Discorso agli Officiali dell’Archivio Segreto Vaticano, 4 marzo 2019: L’Osservatore Romano, 4-5 marzo 2019, p. 6).
Sollecitato in questi ultimi anni da alcuni stimati Presuli, nonché dai miei più stretti collaboratori, ascoltato anche il parere dei Superiori del medesimo Archivio Segreto Vaticano, con questo mio Motu Proprio decido che:
da ora in poi l’attuale Archivio Segreto Vaticano, nulla mutando della sua identità, del suo assetto e della sua missione, sia denominato Archivio Apostolico Vaticano.
Riaffermando la fattiva volontà di servizio alla Chiesa e alla cultura, la nuova denominazione mette in evidenza lo stretto legame della Sede romana con l’Archivio, strumento indispensabile del ministero petrino, e al tempo stesso ne sottolinea l’immediata dipendenza dal Romano Pontefice, così come già avviene in parallelo per la denominazione della Biblioteca Apostolica Vaticana.
Dispongo che la presente Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio venga promulgata mediante pubblicazione sul quotidiano L’Osservatore Romano, entrando in immediato vigore a partire da detta pubblicazione, così da essere subito recepita nei documenti ufficiali della Santa Sede, e che, successivamente, sia inserita negli Acta Apostolicae Sedis.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 22 ottobre 2019, settimo del nostro Pontificato.
Francesco
* Fonte: http://w2.vatican.va/
Gli storici, questi mentitori. Torna il Luciano di Savinio
di Andrea Santurbano (Alfabeta-2, 02 dicembre 2018)
La verità greca ha tremato un tempo con l’affermazione «io mento», ricorda Michel Foucault nel Pensiero del fuori, riferendosi al noto paradosso del mentitore di Epimenide, secondo cui tutti i cretesi sarebbero bugiardi, compreso il cretese che, nel dir questo, pretende di affermare il vero. Luciano di Samosata, che della civiltà greca ed ellenistica poteva ormai osservare l’epilogo dall’alto del II sec. d. C., può aggiustare il tiro: «giacché non ho a contar niente di vero [...], mi sono rivolto a una bugia, che è molto più ragionevole delle altre, ché almeno dirò questa sola verità, che io dirò la bugia».
Quanto mai opportuno, dunque, appare oggi, in epoca di fake news, recuperare un classico impolverato dal tempo, di Luciano appunto, Una storia vera e altre storie scelte da Alberto Savinio, libro apparso per la prima volta nel 1944, da Bompiani, e ora riproposto da Adelphi. E già, non poteva essere che Savinio l’artefice di tale riscoperta, in anni, tra l’altro, che lo vedevano impegnato nella stesura di articoli, poi riuniti in Nuova enciclopedia (opera anch’essa riproposta da Adelphi, lo scorso anno), in cui non manca di esprimersi al riguardo con la sua consueta, funambolica arguzia: «Il difetto maggiore e la profonda immoralità dei regimi assolutistici come di ogni condizione assolutistica, è il principio della ‘verità unica’. Mentre si sa che la verità umana, la verità nostra, la verità ‘vera’ è fatta di vero e di falso: più di falso che di vero».
In realtà, è difficile distinguere a chi appartenga la paternità del volume: se Kafka, come vuole Borges, altro maestro di paradossi, avrebbe prodotto retroattivamente lo scrivano Bartleby, non è fuori luogo affermare che Savinio abbia prodotto retroattivamente questi scritti di Luciano. Ci si trova di fronte, infatti, a una lettura nella lettura: si legge Luciano ma si legge Savinio, che nell’introduzione lascia che sia lo stesso Luciano a raccontare la sua storia - questa sì, presumibilmente vera - alla maniera di un’«intervista impossibile».
E non bisogna dimenticare la modernissima traduzione di Luigi Settembrini, realizzata durante la prigionia sull’isola di Santo Stefano (1851-59) per cospirazione contro il regime borbonico (anni in cui - o forse più tardi, ma il discorso non cambia molto - il serio letterato scrisse, probabilmente suggestionato da questa stessa traduzione, la breve favola omoerotica dei Neoplatonici, rinvenuta solo nel 1937, che Croce avrebbe considerato una «caduta» del maestro e di cui invece Giorgio Manganelli accompagnerà con un memorabile scritto la prima edizione nel 1977). Savinio, nella nuova edizione, si premura appena di «rinettare» questa versione di pochissimi arcaismi, considerandola bella, fedele e minuziosa.
Ma si diceva, insomma, di una polifonia di fondo; di un dialogo a tre, neanche troppo tenero, spesso spassoso, in cui Settembrini fa più compuntamente da esegeta al testo, mentre Savinio, teppisticamente, usa le note da contrappunto, per vivaci commenti o per libere divagazioni. Ne è esempio il dialogo Il Menippo o la negromanzia, in cui Savinio apre le danze chiamando in causa Settembrini: «Nota, o lettore, il modo “filologico” col quale è usato qui l’aggettivo indifferente: è a simili finezze che si riconosce l’eccellenza di questa versione dal greco»; Luciano, da parte sua, si lancia in uno dei suoi contundenti attacchi: «manda alla malora i filosofi e i loro sillogismi, ché son tutte sciocchezze; e attendi solo a questo, usare bene del presente, passare ridendo sopra molte cose, non dare importanza a nulla»; al che segue la pungente reazione di Savinio: «Peccato che questo dialogo così spiritoso finisca in una così povera morale. Questo purtroppo è il lato debole degli spiriti liberi: Luciano, Voltaire... Tra libertà di spirito e sciocchezza il passo è breve: troppo spesso gli spiriti liberi fanno il passo oltre il limite»; ma subito dopo Settembrini riporta la calma con una precisazione da par suo: «Livadia, città di Beozia, dov’era il tempio, anzi l’antro di Trofonio».
Proviamo per un attimo anche noi, allora, a riportare tutto sotto controllo. Una storia vera e altre storie si divide in due sezioni: «Dialoghi e saggi» e «Una storia vera e altre opere». Dei dialoghi soprattutto si sa quanto abbiano, e dichiaratamente, influenzato le Operette morali di Leopardi. Ma è tutta la silloge a rappresentare uno scrigno prezioso, a partire dal meraviglioso «trattatello storico-didascalico» Della dea Siria e dalla stessa Una storia vera, viaggio fintamente autobiografico che rivisita tradizione mitologica, storica e odeporica, tra battaglie interplanetarie fra Lunari e Solari (una sorta di Guerre Stellari ante litteram) e mesi vissuti nella pancia di una balena (Collodi, come Savinio suggerisce, doveva aver letto questa storia!). E poi l’incontro vis-à-vis, durante le peripezie marittime, con filosofi e personaggi di quel grande universo della cultura greca, fatta oggetto di ironia, ancorché venata di affetto, perché l’ironia, come puntualizza Savinio nell’introduzione, «- e qui io parlo anche per me e lo dico alle orecchie fini - [...] è una forma di amore indiretto: è l’amore più pudico, l’amore più geloso».
Quel che non smette di sorprendere in un autore come Luciano di Samosata, ancora oggi, sono tuttavia i tanti spunti, quella sorte di immagini dialettiche che continueranno a brillare nei secoli a venire in materia di critica letteraria o di rapporti tra storia e letteratura. Per esempio, in una Storia vera è già chiamata in causa l’«intenzionalità» dell’autore. A domanda specifica, «E perché cominciasti da quel Cantami l’ira?», Omero, fattosi personaggio e già satireggiato in altro passo, risponde: «Perché così mi venne in capo: credi tu che ci pensavo?». Verrebbe addirittura da chiedersi: ma chi scrive, Luciano o Savinio? O ancora, sul finale, giunge la stoccata agli storici, relegati in una specie di girone infernale: «le pene più gravi sono date ai bugiardi e specialmente agli storici che non scrivono la verità, come Ctesia di Cnido, Erodoto, e altri molti».
Ancorché in forma di satira, dunque, è già messo sotto accusa lo statuto di verità della storia, prima di Marc Bloch, e prima dei vari Michel de Certeau, Roger Chartier e Carlo Ginzburg che finiscono col fare i conti con un dilemma evidente: l’esigenza di organizzarsi secondo un ordine diegetico, che muove evidentemente da categorie retoriche e narrative proprie della letteratura, la quale però non è obbligata a stringere compromessi con un’esigenza di veridicità, non farebbe anche della storia un «racconto»? Jacques Rancière non esita addirittura a reclamare un’esigenza opposta, quando afferma che «il reale deve essere reso finzione per poter essere pensato».
Anche in questo caso risulta complice, dunque, il dialogo Luciano-Savinio: provvedendo alla demolizione di rigide frontiere narrative, compreso quell’autobiografismo impastato anch’esso dall’ibridismo dei generi scritturali, che nel secondo (sarà bene ricordare, nato e cresciuto in Grecia) sfocerà in un continuo gioco di rimandi e dissimulazioni, di ricordi e libere associazioni (ri)creative: da Tragedia dell’infanzia a Dico a te, Clio, da Narrate, uomini, la vostra storia a Infanzia di Nivasio Dolcemare.
Discorso a parte meritano infine le illustrazioni di Savinio che impreziosiscono il volume. Quell’animismo metamorfico, suo marchio di fabbrica, che insuffla vita agli oggetti e rapprende gli esseri umani in forme materiche, animali o vegetali, trova nelle mirabolanti narrazioni di Luciano un terreno fertilissimo d’ispirazione. Insomma, nel rileggere questo libro si entra nel vivo di quell’idea di anacronismo suggerita da Georges Didi-Huberman: un palpitare, un metodo, un montaggio vivo e fecondo di tempi diversi, e non quel tremendo peccato inviso agli storici. Gli storici, già, ancora loro.
«Papiro di Artemidoro». Un falso geniale che interroga il presente
Querelle storiche . Luciano Canfora ribadisce i motivi per cui ha sempre ritenuto fosse una truffa. La Procura di Torino conferma. «La datazione degli inchiostri è solo l’ultimo tassello di un quadro già chiarissimo. Le parole che vi figurano non sono presenti in alcun dizionario»
di Valentina Porcheddu (il manifesto, 13.12.2018)
A breve distanza dalla polemica con il ministro degli interni Matteo Salvini concernente l’operazione contro la mafia nigeriana e a pochi giorni dal suo pensionamento, il procuratore di Torino Armando Spataro torna all’onore delle cronache. Ma questa volta nessun tweet potrà inficiare l’esito dell’inchiesta. Ad essere coinvolto, infatti, è il «reperto» noto come Papiro di Artemidoro, ritenuto falso dalla magistratura.
NEL 2004, il documento - presentato come il II libro dei perduti Geographoumena di Artemidoro di Efeso (II-I secolo a.C.) - venne venduto alla Fondazione per l’arte della Compagnia di San Paolo da Serop Simonian, gallerista di origine armena trapiantato ad Amburgo. L’esorbitante cifra di 2 milioni e 750 mila euro sborsata dalla Fondazione è la più alta mai raggiunta al mondo per l’acquisto di un papiro.
Malgrado il reato di truffa sia andato in prescrizione, la «sentenza» della Procura di Torino mette fine alla querelle tra i difensori dell’antichità dell’oggetto (in particolare Claudio Gallazzi, Bärbel Kramer e Salvatore Settis) e Luciano Canfora, che nel 2013 presentò un esposto e per il quale il papiro sarebbe l’opera di Constantinos Simonidis, falsario del XIX secolo formatosi tra le pergamene del Monte Athos, dove suo zio era igumeno. La prova fondamentale per l’archiviazione delle indagini è stato il risultato di una perizia disposta di recente dal Ministero dei Beni Culturali sugli inchiostri utilizzati per tracciare il papiro, che risultano di epoca moderna. Gli esami chimici, richiesti a suo tempo da Canfora, avrebbero potuto dissolvere fin da subito i dubbi sull’autenticità di un papiro lungo due metri e mezzo e composto da frammenti eterogenei, in cui a un bizzarro parallelo tra geografia e filosofia si aggiungono disegni di parti anatomiche e animali fantastici.
«LA DATAZIONE degli inchiostri è solo l’ultimo tassello di un quadro già chiarissimo», dice Canfora al Manifesto. «A mio avviso le analisi storiche, geografiche e linguistiche del papiro - continua l’autore de La meravigliosa storia del falso Artemidoro (Sellerio 2011) - hanno un valore decisamente più importante. Per fare solo un esempio, l’ultima edizione del prestigioso dizionario dal greco all’inglese Liddell & Scott non contiene nessuna delle parole che figurano per la prima volta nel cosiddetto papiro di Artemidoro. Questi lemmi assurdi non compaiono neanche nella versione più aggiornata del vocabolario greco-italiano edito dalla Lœscher, seppur il testo del presunto Artemidoro venga citato fra le fonti del volume».
Per quanto riguarda i disegni visibili nel recto del papiro, Canfora è convinto siano stati realizzati ad hoc da Simonidis, che nel monastero del Monte Athos aveva potuto copiare uno di quei manuali di disegno in voga tra Seicento e Settecento. «Nel verso - spiega Canfora - c’è invece una serie di animali divisi per categorie e sotto alcuni si trova una didascalia redatta in un greco strampalato. Questa parte ‘animalesca’ non ha senso, se non ipotizzando che il falsario abbia voluto dimostrare con essa l’unità di un papiro composto di varie parti».
LE VELLEITÀ della Compagnia di San Paolo di possedere un oggetto unico - il geografo Artemidoro di Efeso è conosciuto soltanto attraverso fonti indirette - da esporre al Museo Egizio ha dunque prevalso sul rigore filologico e i tanti indizi, fra cui vanno annoverate le sospette autorizzazioni ad esportare il documento dall’Egitto nel 1971 e più di trent’anni dopo dalla Germania, che avrebbero dovuto indurre alla massima cautela gli acquirenti.
Tuttavia, l’allora direttrice del Museo Egizio Eleni Vassilika rifiutò di ricevere il «reperto» in comodato d’uso gratuito in quanto nella sua esperienza di lavoro al Roemer and Pelizaeus Museum di Hildesheim si era già confrontata con lo spaccio di falsi praticato dal mercante d’arte Serop Simonian. Il contestato oggetto venne ugualmente celebrato a Torino con la mostra Le tre vite del papiro di Artemidoro tenutasi nel 2006 a Palazzo Bricherasio a cura di Settis e Gallazzi, seguita da una successiva rassegna presso la sezione di egittologia del Neues Museum di Berlino.
Dal 2014, invece, il papiro è esposto al Museo di Antichità del capoluogo piemontese, dove si spera potrà tornare, dopo il temporaneo trasferimento all’Istituto Centrale per il Restauro, quale testimonianza eccellente dell’archeologia dell’illusione. Sarebbe infatti un peccato non approfittare di questa clamorosa vicenda per raccontare come ancora oggi la fascinazione per il mondo antico e l’immaginario che ne deriva, sviino talvolta sulla pericolosa strada del potere e del denaro, tradendo il valore della cultura. Il geniale Simonidis e l’astuto Simonian si sono fatti beffa di ciechi (o forse azzardati) amanti dell’arte. A noi spetta ora tramandare la verità storica.
IL "LOGOS" E LA "CHARITAS". Sul Vaticano, e su Roma, il "Logo" del Grande Mercante. Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
Il motto dello stemma episcopale del Vescovo Ausiliare di Roma, S.E.R. Mons. Angelo De Donatis
Le parole scelte da Don Angelo per il proprio motto episcopale sono tratte dal “De officiis ministrorum” di Sant’Ambrogio laddove dice “Sit inter vos pax, quae superat omnem sensum. Amate vos invicem. Nihil caritate dulcius,nihil pace gratius...”(“Sia tra di voi la pace che supera ogni sentimento. Amatevi gli uni gli altri. Nulla è più dolce dell’amore, nulla più gradevole della pace”) *
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Fonte: http://www.sanmarcoevangelista.it (ripresa parziale).
Federico La Sala
Per papa Francesco Dio ama gli uomini “come una madre”
di Paolo Rodari (la Repubblica, 10 giugno 2013)
La «compassione» che Dio prova per «la miseria umana» è paragonabile alla reazione di una madre «di fronte al dolore dei figli». «Così ci ama Dio», ha detto Papa Francesco ieri mattina alla recita dell’Angelus, ci ama «come una madre».
Parole che molto ricordano la discussa uscita di Giovanni Paolo I, al secolo Albino Luciani - il Pontefice che non a caso molto ricorda per modi e stile Jorge Mario Bergoglio -, all’Angelus del 10 settembre 1978, quando parlando a braccio disse che Dio «è papà, più ancora è madre».
E anche Giovanni Paolo II, più tardi in almeno un paio di occasioni, parlò della paternità di Dio che «riassume in sé anche le caratteristiche che solitamente si attribuiscono all’amore materno» (udienza del 20 gennaio 1999) e ha attribuito a Dio «mani di padre e di madre nello stesso tempo » (udienza dell’8 settembre 1999).
Quando Luciani, primo fra i successori di Pietro, accomunò l’archetipo femminile all’assolutezza divina, la curia romana non reagì bene. Gelo e imbarazzo calò sul successore di Paolo VI che di lì a poco, dopo soli trentatré giorni al soglio di Pietro, sarebbe scomparso. Forse in Vaticano temevano ripercussioni nella logica dei poteri e delle posizioni gerarchiche.
Eppure già i profeti dell’Antico Testamento usarono parlare dell’amore materno di Dio: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il frutto delle sue viscere?» chiede il profeta Isaia. E ancora: «Come una madre consola il figlio, così io vi consolerò».
Fu poi Martin Lutero, nel sermone Christus, gallina nostra, a richiamare l’attenzione su una «scandalosa» identificazione. Quella di Gesù che nel Vangelo di Matteo definisce se stesso «una chioccia che riunisce i pulcini sotto le ali». Del resto, il volto «femminile» di Dio si è incarnato proprio nel «discepolato di eguali» inaugurato dalla predicazione di Gesù, in forza della quale, come si legge in Galati, «non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù».
Benedetto XVI, invece, è stato più prudente. Nel suo best seller Gesù di Nazaret scrive che il titolo di madre non spetta a Dio che è solo e assolutamente padre. «Madre non è un titolo di Dio, non è un appellativo con cui rivolgersi a Dio. Noi preghiamo così come Gesù, sullo sfondo della Sacra Scrittura, ci ha insegnato a pregare, non come ci viene in mente o come ci piace. Solo così preghiamo nel modo giusto».
La semplicità di Dio
di Giovanni Santambrogio (Il Sole-24 Ore, 05 agosto 2012)
L’attenzione rivolta al pontificato di Benedetto XVI oggi si concentra molto su come Ratzinger riordinerà un Vaticano inquieto che - dai "corvi" alla rivelazione di documenti segreti fino ai misteri finanziari - sta mostrando più il volto di corte barocca che quello di città di Dio, come direbbe Agostino. Questa impressione, e forse anche di più di un’impressione, accompagnava i pensieri di Albino Luciani (1912-1978), passato alla storia con il nome di Giovanni Paolo I e per il popolo dei fedeli come il «papa dei trentatré giorni», 33 come l’età di Cristo.
Appena eletto scrive una lettera al gesuita padre Bartolomeo Sorge in cui paragona il Vaticano al «labirinto di Cnosso», cioè a un luogo di smarrimento e di possibile morte perché chi entrava nel palazzo, costruito a Creta da Dedalo, finiva nelle fauci del Minotauro. Luciani sa di essere debole di salute, sa di preferire l’humilitas alla forza. Sa tutto questo e altro ancora, che Marco Roncalli ricostruisce e racconta nella prima biografia sistematica con lo scrupolo dello storico che non tralascia le piccole cose che danno spessore a una persona, a un ambiente, a una scelta di fede. Lo si è visto nella biografia di Giovanni XIII. Angelo Roncalli (Mondadori) e nei suoi già numerosi saggi; questa sensibilità si ritrova in Giovanni Paolo I dove l’autore recupera tanto materiale inedito sull’uomo semplice ma determinato, sul mese di pontificato con le congetture di intrighi ma anche tempo di intensa testimonianza come ha scritto il mistico Divo Barsotti: «È stato con noi soltanto per rivelarci la semplicità di Dio».
Albino Luciani non era uno sprovveduto: Paolo VI lo aveva voluto come padre sinodale e lo promosse patriarca di Venezia nella stagione del dissenso cattolico perché dalla cattedra marciana dialogasse con chiarezza dottrinale con i movimenti contestatori e con i gruppi dalle nostalgie preconciliari. La sua pacatezza non mostrerà mai cedimenti e sarà amato per la fermezza che non è mai diventata rigidità.
Luciani, uomo di umili condizioni, nato a Canale d’Agordo, in quel Veneto soprannominato «la sacrestia d’Italia», è stato educato ad ascoltare la sua gente e a condividere povertà, desideri, assenza e ricerca di lavoro, emigrazione. In queste circostanze perfeziona un modello di comunicazione diretta, che lavora sulle immagini e sull’esperienza quotidiana che tutti fanno per trasmettere le verità della fede e i concetti teologici più complessi.
Il breve pontificato sarà un turbamento per molti anche sotto questo aspetto: si pensi all’Angelus del 10 settembre 1978 quando afferma che «Dio è padre ma anche madre». La gente lo amerà per questa immediatezza. Sarebbe stato un papa di riforme? Si sa che la questione Ior e la sua direzione affidata al vescovo Paul Marcinkus, così come la riforma della curia e la famiglia erano nella sua agenda.
Giovanni Paolo I “Sì a moschee e unioni di fatto”
di Andrea Tornielli (La Stampa, 20 aprile 2012)
I fedeli islamici «hanno diritto di costruirsi una moschea», e se «volete che i vostri figli non diventino musulmani, dovete fare meglio il catechismo». Parole di Albino Luciani, che così spiegava, alla fine del Concilio, il decreto sulla libertà religiosa. Il futuro Papa, pochi mesi prima della nomina a patriarca di Venezia, aprirà alla possibilità di un riconoscimento coppie di fatto, finalizzato, nelle sue intenzioni, a evitare l’introduzione del divorzio in Italia.
Sono alcuni degli episodi contenuti nel volume «Giovanni Paolo I», la biografia di Papa Luciani scritta da Marco Roncalli (San Paolo, pp. 734, 34 euro). Grazie a testimonianze e documenti inediti, l’autore contribuisce a smentire il consolidato cliché di Luciani «conservatore».
Attuali, quasi cinquant’anni dopo, sono le parole che Luciani pronuncia nel novembre 1964, spiegando la dichiarazione conciliare Dignitatis humanae: «I non cattolici hanno il diritto di professare la loro religione, e io ho il dovere di rispettare il loro diritto: io privato, io prete, io vescovo, io Stato». «Qualche vescovo - affermava Luciani - si è spaventato ... Ci sono quattromila musulmani a Roma: hanno diritto di costruirsi una moschea. Non c’è niente da dire: bisogna lasciarli fare. Se volete che i vostri figli non si facciano buddisti o non diventino musulmani dovete fare meglio il catechismo, fare in modo che siano veramente convinti della loro religione cattolica».
Nei «pensieri alla famiglia» raccolti nei primi mesi del 1969, l’allora vescovo di Vittorio Veneto, apre, con cautela, alle «unioni di fatto» come un «male minore» per evitare l’introduzione del divorzio. Luciani precisa che queste unioni non dovrebbero essere equiparate al matrimonio, ma aggiunge: «Ci sono, innegabili, le situazioni patologiche della famiglia, i casi dolorosi. A rimedio, alcuni propongono il divorzio, che, viceversa, aggraverebbe i mali. Ma qualche rimedio, fuori del divorzio, non si può proprio trovare? Tutelata una volta la famiglia legittima e fatto ad essa un posto d’onore, non sarà possibile riconoscere con tutte le cautele del caso qualche “effetto civile” alle “unioni di fatto”?».
È la stessa sensibilità che nei mesi precedenti la pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae di Paolo VI, al cui insegnamento prontamente aderirà, farà essere Luciani «moderatamente liberale» sulla pillola anticoncezionale, a patto che fosse usata con «intenzione retta», con il proposito di «mettere al mondo il numero dei figli che si possono convenientemente mantenere ed educare». All’obiezione che fosse contraria alla legge naturale, rispondeva: «La natura vuole che noi siamo più pesanti dell’aria: ciononostante facciamo bene a viaggiare» in aereo.
L’esempio, spiega don Taffarel, già segretario di Luciani a Vittorio Veneto, ha questo significato: «L’aereo che per volare vince la legge di gravità, viola le leggi della natura, ma nessuno dice che i piloti facciano peccato. Così si chiedeva: perché non si può vincere la natura senza peccare?».
Nel libro si afferma che già all’indomani dell’elezione papale, avvenuta il 26 agosto 1978, Giovanni Paolo I avrebbe voluto tornare sui suoi passi. «Non so come abbia potuto accettare. Il giorno dopo ero già pentito, ma ormai era troppo tardi», si legge in una lettera scritta dal Papa, il cui contenuto è stato rivelato dall’ex presidente dell’Azione Cattolica Mario Agnes.
Infine è da citare la testimonianza del padre saveriano Gabriele Ferrari, che il 2 maggio 1978, incontrando il patriarca Luciani si sentì dire: «Da qualche tempo non sto bene...». «Mentre lo diceva, si toccò il petto con la mano e soggiunse: “Da tempo ho un gran male qui”».
Papa Luciani e la bimba in provetta
di Alberto Melloni (Corriere della Sera, 08.10.2010)
La discussione sui bimbi in provetta riaccesasi in questi giorni attorno alla assegnazione del Nobel, potrebbe indurre molti a pensare che la Chiesa cattolica sia una Chiesa che o è «contro» ciò che per tanti è un dono o deve esserlo per adempiere la propria missione.
Contro il rischio che questo stereotipo del «no» si consolidi come una accusa o come un orgoglio val la pena di rileggere l’intervista di Albino Luciani. La consegnò ai primi d’agosto del 1978 alla rivista Prospettive nel mondo ed era dedicata alla «prima» bambina venuta al mondo con una fecondazione in vitro. Il futuro Giovanni Paolo I in questa specie di lettera augurale - che non venne pubblicata perché l’autore diventò papa e venne resa nota anni dopo la sua morte - argomentava con prudenza e a titolo personale, «in attesa di quanto l’autentico magistero» avrebbe dichiarato. Ma sviluppava quattro punti significativi per il loro ordine e la loro relazione interna.
Luciani condivideva «solo in parte l’entusiasmo di chi plaude al progresso della scienza e della tecnica»: cosa sarebbe accaduto quanto quella tecnica si fosse trovata davanti a «figli malformati? Lo scienziato non farà la figura dell’apprendista stregone che scatena forze poderose senza poi poterle arginare e dominare?» E inoltre, davanti al rischio di un «mercato dei figli» la famiglia e la società «non sarebbero state in gran regresso più che in progresso?»
Il futuro Papa, dunque, «in parte» sollevava dubbi che sotto Giovanni Paolo II si sarebbero distesi in una dottrina: ma non si fermava lì. Proseguiva col fare «a seguito di Dio, che vuole e ama la vita degli uomini, i più cordiali auguri alla bambina. Quanto ai suoi "genitori" non ho alcun diritto di condannarli: soggettivamente se hanno operato con retta intenzione e in buona fede essi possono avere perfino un gran merito davanti a Dio per quanto hanno deciso e chiesto ai medici di eseguire».
Il futuro pontefice esaminava la questione della liceità morale dell’accaduto, in linea col magistero di Pio XII (se l’atto medico facilita o continua l’atto coniugale è lecito, se lo sostituisce o lo esclude no). E a chi negava si dovessero porre problemi morali alla scienza, l’allora patriarca scriveva in conclusione: «la morale non si occupa delle conquiste della scienza; si occupa delle azioni umane, mediante le quali le persone possono usare sia in bene sia in male delle conquiste scientifiche. Quanto alla coscienza individuale, siamo d’accordo: essa va sempre seguita, sia che comandi, sia che proibisca; l’individuo deve però sforzarsi di avere una coscienza ben formata. La coscienza, infatti, non ha il compito di creare la legge. Ha due altri compiti: di informarsi prima cosa dice la legge di Dio; di giudicare poi se c’è sintonia tra questa legge e una nostra determinata azione. In altre parole: la coscienza deve comandare all’uomo, non ubbidire all’uomo».
Come si vede un atteggiamento che sul piano dottrinale non era facilone: ma che teneva in gran conto la delicatezza delle situazioni, il valore della coscienza come tale, l’oggettività di una esistenza che, per quanto venuta al mondo in modo moralmente deprecato a rigor di magistero, non sfuggiva all’amore di Dio; e quell’amore attraeva le intenzioni della famiglia e perfino il ministero apostolico che nella magnanimità di Dio ha la sua misura. Non era una astuzia o un gesto di marketing, quello di Albino Luciani: era una forma di amore alla verità del ministero pastorale che forse dovrebbe essere tenuta nello stesso conto nel quale si tiene, giustamente, il ministero della verità.
LA RIVOLUZIONE COPERNICANA, L’ILLUMINISMO, E LA "VIA MAESTRA" DELLA "CRITICA" .. ORIENTARSI, OGGI - E SEMPRE. LA LEZIONE IMMORTALE DI KANT, DALLA STIVA DELLA "NAVE" DI GALILEI.
di Dominique Greiner ("La Croix", 28 luglio 2010 - traduzione: www.finesettimana.org)
“Quando i padri presenti al Concilio di Trento crearono la disciplina della teologia morale per la formazione dei preti nei seminari, non potevano immaginare chi l’avrebbe insegnata cinque secoli dopo: uomini, donne, chierici, religiose, laici...”, constata padre James Keenan, il principale organizzatore, che ha accolto i 600 teologi moralisti venuti da 73 paesi per il secondo incontro mondiale di specialisti di etica riuniti a Trento, nell’Italia settentrionale, dal 24 al 27 luglio.
Il profilo dei partecipanti colpisce innanzitutto per la giovane età ed il carattere internazionale. I grandi nomi della teologia morale sono presenti (Charles Curran, Lisa Cahill, Marciano Vidal, Klaus Demmer, Margaret Farley...) accanto alla nuova generazione. Ma è anche il notevole numero di donne a caratterizzare questo incontro: sono 150, religiose e laiche, 90 delle quali insegnano teologia morale, mentre le altre sono essenzialmente impegnate in un lavoro di tesi o lo hanno appena terminato.
Viviane Minikongo Mundela è una di loro, una delle prime laiche africane dottore in teologia. Ha sostenuto la sua tesi di morale alcuni mesi fa all’Università cattolica di Kinshasa (Repubblica Democratica del Congo). Trentottenne e madre di tre figli, l’ultimo dei quali ha cinque anni, questa congolese (RDC) ha ottenuto il visto solo alla vigilia della partenza e dopo molti interventi degli organizzatori, che tenevano alla sua presenza.
“Per gli uomini, e forse ancor di più per le donne, è veramente una corsa a ostacoli uscire dal paese. Le ricchezze del paese, invece, non hanno bisogno di visti”, constata non senza amarezza ed in linea con la sua tesi su un’etica planetaria per rispondere alla sfida della globalizzazione. “Il nostro paese è ricco, ma paradossalmente è la nostra ricchezza a renderci poveri, perché suscita le bramosie e non ci dà alcun beneficio”, riassume. Senza il sostegno del marito, Viviane non avrebbe certo potuto portare a termine il suo dottorato.
Ma l’accesso al massimo livello della formazione teologica è difficile anche per le religiose, per ragioni che non sono economiche. Suor Léocalie Billy, camerunense che prepara la sua tesi a Friborgo (Svizzera) e a Strasburgo sulle sfide della solidarietà, ne fa il suo cavallo di battaglia. “La tradizione africana dà alla donna un posto che le istituzioni ecclesiali continuano a non riconoscerle”, dichiara. Il suo impegno in una lavoro di tesi sulla morale è già in se stesso un atto di liberazione “perché la donna, perché la religiosa possa studiare”. Ma anche per il fatto che le donne hanno un sensibilità propria, preziosa per la teologia morale. È pure l’opinione di Viviane Minikongo: “Oltre alla ragione, la teologia morale ha bisogno anche di emozioni, di cuore, d’amore.”
Del resto, certi teologi lo riconoscono. Ad esempio, all’altro capo del mondo, Dominador Bombongan, laico filippino, dice di trovarvi “un approccio più intuitivo, più olistico (cioè globale), particolarmente prezioso in un contesto di dominio maschile, e che viene a completare utilmente le teologie della liberazione”.
Queste esperienze testimoniano una grande circolazione di idee, favorita da una forte mobilità internazionale di studenti ed insegnanti. La disciplina ne viene arricchita. “L’Asia ci porta la dimensione del dialogo interreligioso e ci invita all’armonia, l’Africa ci parla di liberazione e di inculturazione, l’India ci fa sentire in maniera particolare la voce di chi soffre”, riassume padre Keenan, felice di un congresso, in cui i disaccordi, a volte profondi, si esprimono, ma sempre in maniera rispettosa.
È quello che, a suo modo, sintetizza il logo che accoglie i partecipanti: il rosone dai colori caldi della cattedrale del capoluogo dell’Alto Adige che interseca il globo terreste, illuminato da una luce bianca che evoca l’ostia eucaristica - eucarestia le cui basi dottrinali sono state definite dal Concilio di Trento. Un modo per dire che la teologia morale intende contribuire a portare una luce al mondo, illuminata dalle risorse della fede espresse dalla tradizione cristiana.
I 240 contributi hanno effettivamente permesso di tornare sugli apporti del Concilio di Trento, di esplorare gli sviluppi della tradizione morale nell’epoca moderna fino alle problematiche contemporanee (sviluppo, guerra giusta, diritti umani fondamentali, ecologia...). Ma, sorprendentemente, i problemi di etica economica, di etica degli affari e di etica dei media non sono stati affrontati, con grande rammarico degli organizzatori, mentre particolarmente numerosi sono stati i contributi nel campo della bioetica e, un po’ meno, dell’etica sociale.
Prova che la teologia morale, come le altre discipline, è tributaria della domanda sociale e dei finanziamenti, che oggi favoriscono ampiamente la bioetica. Certi teologi lavorano all’avvicinamento dei settori: “L’aids non è solo una problema di bioetica, spiega padre Keenan. È anche un problema di giustizia nell’accesso alle medicine e alla cure.”
Perché non piacciono gli studi sul cristianesimo
Se la Chiesa ha paura
Gesù diviso tra fede e storia
Il Sinodo dei vescovi dedicato alla Bibbia si è aperto con una messa in guardia contro le "analisi unilaterali" cioè contro il metodo storico-critico
La parola d’ordine è il ritorno all’interpretazione spirituale che evita nodi irrisolti
L’inchiesta di Corrado Augias e Remo Cacitti è stata sottoposta a feroci attacchi
di Marco Politi (la Repubblica, 22.10.2008)
Città del Vaticano. Il Sinodo dei vescovi, dedicato alla Bibbia e la missione della Chiesa, si è aperto con una messa in guardia. Va rifiutata, ha detto William Levada prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, ogni interpretazione soggettiva o «frutto di un’analisi unilaterale». Un clima di tensione spesso malsano, ha incalzato il relatore ufficiale cardinale Marc Ouellet del Quebec, si è instaurato tra la teologia universitaria e il magistero ecclesiale. Le scoperte storiche, filosofiche e scientifiche, ha soggiunto, hanno attizzato polemiche. Colpa suprema degli studiosi è l’aver «aumentato il divario tra il Gesù della storia e il Cristo della fede». Dalle battute iniziali del Sinodo in corso si è compreso che il pontificato ratzingeriano è deciso a dare un giro di vite a oltre un secolo di ricerca teologica basata sul metodo storico-critico.
Perché, più proseguono gli studi più cresce il gap tra l’immagine di Gesù dei catechismi tradizionali e la realtà complessa degli eventi relativi alla sua predicazione e alla sua eredità. Lo stesso terremoto ha investito l’Antico Testamento. Si sa ormai che la Terra Promessa non è mai stata conquistata da Giosuè così com’è descritto nella Bibbia né gli ebrei sono stati monoteisti dall’inizio.
La Chiesa ha paura. E’ allarmata che sotto l’influsso dei mass media entrino in circolazione acquisizioni che per decenni sono rimaste limitate ai circoli accademici. Tutti gli addetti ai lavori sanno che la famosa frase, che campeggia sotto la cupola della basilica vaticana «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa», è una frase tardiva e comunque non preannuncia né il papato onnipotente e teocratico come si è strutturato da Gregorio VII e Innocenzo III in poi né tantomeno prefigura la Chiesa-istituzione formatasi secoli dopo la crocifissione. Chi setaccia le opere degli specialisti tutto questo tra le pieghe lo trova, ma un conto è dirlo al riparo di volumi ponderosi un conto è portarlo in pubblico. C’è voluto Giovanni Paolo II per informare ufficialmente i fedeli che Natale non è affatto il giorno di nascita di Gesù, ma nell’antica Roma era il «giorno natale del Sole». E sempre Wojtyla ha spiegato con delicatezza che la tradizione ortodossa della Dormizione di Maria era legittima. Senza bisogno - si può aggiungere - di immaginarsi un’Assunzione come se la Madonna salisse in cielo su un immaginario ascensore. «La Chiesa si è spaventata degli studi esegetici di carattere storico - commenta il professor Mauro Pesce, che con Corrado Augias ha pubblicato nel 2006 il bestseller Inchiesta su Gesù - e teme che mettano in pericolo la fede della gente». Al Sinodo la parola d’ordine è il ritorno all’interpretazione «spirituale».
Certo un approccio possibile e anche giusto dal punto di vista religioso, ma che non può rimuovere i nodi che la ricerca storica ha portato alla luce. I nodi stanno lì. Aggrovigliati. Difficili a sciogliersi. E sono almeno cinque. Il parto verginale di Maria ha un sapore mitologico: lo sapeva bene Joseph Ratzinger quando era ancora un teologo senza porpora cardinalizia e scriveva nel suo libro Introduzione al cristianesimo (pubblicato in Italia dalla Queriniana nel 1969) che «la dottrina affermante la divinità di Gesù non verrebbe minimamente inficiata, quand’anche Gesù fosse nato da un normale matrimonio umano. No, perché la filiazione divina di cui parla la fede, non è un fatto biologico bensì ontologico». E se i Vangeli riferiscono dei fratelli di Gesù ed è stiracchiato voler piegare la parola a «cugini».
Gesù non ha mai predicato la sua divinità. Si è sentito umano sino in fondo come emerge dal grido disperato sulla croce «Dio mio, perché mi hai abbandonato». Gesù, inserito nel clima apocalittico dell’ebraismo a lui contemporaneo, ha preannunciato un suo «ritorno» imminente che non è avvenuto. La Trinità è un’elaborazione teologica del cristianesimo, inconcepibile per l’ebraismo in cui è nato Cristo. La Chiesa non era sin dall’inizio nella mente di Cristo, ma è il prodotto di trasformazioni storiche. Affascinanti, straordinarie, ma umane.
Tutto ciò che la storia ha portato alla luce, demitizzando, in realtà non incrina quell’impulso indescrivibile che è il rapporto con il Mistero-oltre-l’uomo e oltre la realtà tangibile: chiamiamola fede. Ma può mettere in crisi l’istituzione e le autorità che si ritengono infallibilmente preposte ad annunciare la Verità. Il problema alla fine è l’origine trascendente dell’istituzione ecclesiastica. «Gesù mette in crisi l’assetto della Chiesa attuale, ma succede sempre così quando si va direttamente alla Bibbia», soggiunge lo storico Pesce. Per l’istituzione ecclesiastica è difficile spiegare l’evoluzione da Gesù al cristianesimo antico fino alla Chiesa attuale. Con lo storico Remo Cacitti, Corrado Augias ha pubblicato recentemente un altro libro Inchiesta sul cristianesimo, sottotitolato provocatoriamente «Come si costruisce una religione». L’Avvenire, il giornale dei vescovi, lo ha criticato.
Ma c’è stato un risvolto curioso. Una prima volta è stata pubblicata una recensione di normale critica. Appena il libro ha avuto successo, l’Avvenire è tornato sull’argomento con una pagina di feroce attacco. Il problema, naturalmente, non è Augias che viene difeso dai lettori che comprano i suoi libri. La questione è la virulenza della reazione, appena una serie di dati storici viene portata in pubblico. «Con papa Ratzinger - ne è convinto lo storico Giovanni Filoramo - stiamo assistendo ad un ritorno alla tradizione, lo si vede anche dal suo discorso su Pio XII. Già prima dell’elezione papale Ratzinger contestava l’esegesi storico-critica. La domanda è se, come ha fatto nel suo libro su Gesù, si limiti a proporre un’interpretazione alternativa o se la sua linea mette in discussione la libertà di coscienza e di ricerca degli studiosi cattolici». Nelle facoltà pontificie, continua Filoramo, si avverte la difficoltà degli esegeti ad esprimersi con piena libertà. Una prima risposta viene direttamente da Benedetto XVI.
Intervenendo a braccio al Sinodo, il Papa ha reso omaggio al metodo storico-critico per i suoi contributi di «altissimo livello», che aiutano a capire che il «testo sacro non è mitologia». Ma poi ha evocato i rischi di un’interpretazione positivista o secolarista, che non offre spazio all’apparizione del divino nella storia. Al Sinodo il pontefice è già stato invitato a scrivere un’enciclica sull’interpretazione biblica. Con gli esiti che si possono immaginare. «La grande preoccupazione della Chiesa - dice il professor Cacitti - è di mantenere il controllo sulla ricerca scientifica per paura che vi siano esiti difformi dal dogma».
Pesce ricorda un episodio molto istruttivo. «Paolo VI aveva chiesto alla Commissione biblica di fare uno studio per vedere se nelle Scritture c’erano ostacoli al sacerdozio delle donne». La conclusione delle ricerche? «La Commissione affermò che non c’erano argomenti di carattere biblico che facessero da impedimento al sacerdozio femminile. Il testo non fu pubblicato. Paolo VI escluse poi ufficialmente ogni possibilità».
Che vi siano stati dei veri e propri salti nella costruzione della Chiesa lo dimostra la vicenda del grande scrittore cristiano Lattanzio. Prima dell’editto di Costantino Lattanzio è violentemente anti-imperiale e totalmente contrario al servizio militare. Appena il cristianesimo diventa religione ufficiale, cambia linea e scrive che la guerra per la patria romana «bonum est».
Ansa» 2008-08-23 18:30
PAPA LUCIANI, IL PONTEFICE DEL SORRISO
di Francesco Gerace
ROMA - Trent’anni fa il Papa del sorriso. Era il 26 agosto 1978, quando i 111 cardinali riuniti in conclave scelsero Albino Luciani, all’epoca patriarca di Venezia, quale successore di Papa Paolo VI, morto il 6 agosto dopo 15 anni di pontificato. Ma quella di Luciani fu una meteora. Il nuovo Papa, che aveva preso il nome Giovanni Paolo I, morì improvvisamente dopo 33 giorni, colto da infarto la notte fra il 28 e il 29 settembre. Avrebbe compiuto 66 anni il 17 ottobre. Nel suo brevissimo papato, Luciani pronunciò 9 discorsi, tenne 4 udienze e due omelie. Ma la sua semplicità e il suo sorriso sono rimasti impressi nella memoria di tutti.
Appena eletto, Papa Luciani si presentò al mondo confessando la sua paura di fronte al grande compito cui era stato chiamato, per il quale si sentiva inadeguato. Arrossì davanti alla folla che in piazza San Pietro lo salutava e applaudiva. Parlò di sé in prima persona; disse io, con semplicità, abrogando senza colpo ferire il plurale maiestatis di secolare memoria. Si mostrò rispettoso e umile verso i predecessori, e spiegò di aver scelto di chiamarsi Giovanni Paolo in ossequio a Giovanni XXIII, di cui venerava la memoria, e a Paolo VI di cui ammirava la sapienza. Fin da subito si capì che sarebbe stato un Papa diverso, dopo il severo e tormentato Paolo VI.
Luciani era sorridente e allegro, parlava in modo semplice, perfino troppo semplice secondo alcuni. In uno dei suoi primi discorsi suscitò stupore affermando che Dio è padre ma anche madre. Benché il suo pontificato sia durato un niente, Luciani diventerà famoso come il papa del sorriso e dell’umiltà (humiltas, era scritto sul suo stemma papale). Prima ancora che Papa, era una specie di parroco della Chiesa universale. Memore dell’infanzia poverissima vissuta con la famiglia, il futuro Papa, nato nel 1912 a Forno di Canale (Belluno), oggi Canale d’Agordo, e prete dal 1935, condusse sempre una vita molto sobria, attenta all’essenziale. Conobbe sofferenza e malattia, finì in sanatorio, subì 8 operazioni. E proprio la salute stava per costargli la nomina a vescovo: Giovanni XXIII, che stimava quel parroco bellunese, un giorno chiese come mai Luciani non venisse mai proposto per la promozione, e gli fu detto che era malaticcio. Si racconta che Papa Giovanni replicò: allora vuol dire che lo faremo morire vescovo.
E così nel 1958 finalmente don Albino diventa vescovo e nel 1973 cardinale. Luciani fu eletto a tempo di record: dall’ ’extra omnes’ alla fumata bianca passarono solo 25 ore e 48 minuti. Solo 4 votazioni per trovare l’accordo. Il card. Felici annunciò l’Habemus Papam alle 19:19. Pochi minuti dopo il nuovo Papa si affacciò dalla loggia di san Pietro per salutare e dare la benedizione ai 25.000 presenti e al mondo collegato via tv. L’elezione fu tanto rapida che colse in contropiede anche il cerimoniale, e il Papa dovette affacciarsi di nuovo più tardi per il rituale saluto alle guardie svizzere e a un battaglione dell’esercito italiano, nel frattempo schieratisi. Si disse che Luciani era stato scelto quasi per caso, una sorta di figura minore, a metà strada fra le personalità sostenute da chi voleva un nuovo papa conservatore e da chi lo voleva modernista. Alla vigilia del conclave non era ritenuto fra i papabili, benché la sua figura fosse tutt’altro che secondaria. Uomo di vasta cultura e preparazione teologica, era fermissimo in materia dottrinale; coniugava tali caratteristiche con la semplicità e la partecipazione, con la passione per le persone e il loro destino. Si ricorda la sua attenzione per i problemi delle famiglie e di quelle povere in particolare, si batté contro il divorzio, si interrogò sugli anticoncezionali.
Quando Paolo VI pubblicò l’Humanae vitae, la sua lealtà al Papa fu assoluta. Negli ambienti ecclesiastici, oltre che fra i fedeli, godeva di molta stima. Qualche anno fa, l’allora card. Ratzinger disse alla rivista ’3’ Giornì che il nome di Luciani era affiorato in un incontro fra cardinali di lingua tedesca e brasiliani (Schröffer, Koenig, Hoeffner, Bengsch, Arns e Lorscheider): ’non volevamo decidere niente, ma solo parlare un po’. Mi sono lasciato guidare dalla Provvidenza ascoltando i nomi, e vedendo come si è formato finalmente un consenso sul patriarca di Venezia. Ne fui molto felice. Avere come pastore della Chiesa universale un uomo con quella bontà e con quella fede luminosa era la garanzia che le cose andavano bené.
L’improvvisa morte di Albino Luciani sollevò interrogativi e sospetti, qualcuno scrisse addirittura che il Papa era stato avvelenato. Ma una commissione medica ne accertò la morte per cause naturali. Per Giovanni Paolo I è in corso la causa di beatificazione.
Sul probabile assassinio di Papa Luciani:
http://oknotizie.virgilio.it/go.php?us=219440f166855c89(2a Parte.)
GMG: PAPA, ATTENTI AI ’FALSI DEI’ *
SYDNEY -Il Papa mette in guardia contro i "falsi dei" del mondo di oggi: "i beni materiali, l’amore possessivo, il potere". "La gente - spiega adora altri dei senza rendersene conto" e questi, "qualunque sia il nome, l’immagine o la forma che loro attribuiamo, sono quasi sempre ricollegabili all’adorazione di queste tre realtà". Benedetto XVI lo ha detto incontrando nell’università di Notre Dame di Sydney, un gruppo di giovani disadattati che seguono un programma di recupero.
Il ’’culto’’ dei tre falsi dei, ha detto, spesso porta ’’la gente a ’comportarsi da Dio: cercare di assumere il controllo totale, senza prestare nessuna attenzione alla sapienza e ai comandamenti...’’ I beni materiali che ’’in se’ sono cose buone’’, ha spiegato il Papa, si trasformano in una ’’falsa divinita’’’ ’’se rifiutiamo di condividere quanto abbiamo con l’affamato e con il povero’’. E questo accade anche se molte volte ’’nella nostra societa’ materialistica, ci dicono che la felicita’ si trova procurandosi il maggior numero possibile di beni e oggetti di lusso’’. L’amore ’’autentico’’ aiuta gli uomini a diventare ’’pienamente umani’’ ma se la gente ’’pensa di amare quando in realta’ tende a possedere o a manipolare l’altro’’ e ’’tratta gli altri come oggetti per soddisfare i suoi propri bisogni piuttosto che come persone da apprezzare ed amare’’ diventa idolo. Ed e’ ’’facile essere ingannati dalle molte voci che nelle nostre societa’ sostengono un approccio permissivo alla sessualita’, senza prestare riguardo alla modestia, al rispetto di se’ e ai valori morali che conferiscono qualita’ alle relazioni umane’’. Infine il ’’potere’’, che ’’utilizzato in modo appropriato e responsabile ci permette di trasformare la vita della gente: tutte le comunita’ hanno bisogno di guide capaci’’. Ma c’e’ sempre la ’’tentazione di sfruttare l’ambiente naturale per i propri egoistici interessi’’. ’’’Abusare di alcool e drogaI di entrare in attivita’ criminali o autolesioniste - ha detto il Papa ai giovani disadattati - vi pote’ apparire come una via di uscita a una situazione di difficolta’ o di confusione. Voi adesso sapete che invece di portare la vita, ha portato la morte’’.
* ANSA» 2008-07-18 14:28 - ripresa parziale
’’Perché uomini di chiesa la ostentano al posto del crocifisso?’’
Vaticano contro la bandiera arcobaleno: ’’Il vero simbolo della pace è la croce’’
L’Agenzia Fides in un lungo servizio ricostruisce le origini del vessillo multicolore: ’’Rappresenta il new age e il movimento gay. Trova le sue origini nelle teorie teosofiche della cultura indiana. E’ diventata simbolo elettorale della sinistra radicale. Insomma mischia tutto meno il messaggio cristiano nella sua essenzialità’’. Da Picasso ai no global, le tante anime riunite sotto l’arcobaleno
Città del Vaticano, 20 giu. (Adnkronos) - E’ la croce di Cristo e non la bandiera arcobaleno il vero simbolo della pace. E’ quanto afferma oggi l’agenzia di stampa vaticana ’Fides’ in un lungo servizio dal titolo: ’L’arcobaleno: sincretismo o pace?’.
La polemica è diretta verso quei religiosi, sacerdoti, uomini di Chiesa che hanno scelto di portare la bandiera arcobaleno come segno di pace nelle marce o l’hanno appesa ai campanili delle chiese preferendola alla croce.
Ma in questo modo sembrano aver dimenticato i molteplici significati politici del vessillo. La bandiera è infatti stata, in tempi recenti, il simbolo prima dei movimenti della pace poi anche di quello no-global e infine, in Italia, è comparsa di nuovo nel simbolo elettorale della sinistra radicale.
L’agenzia vaticana ricostruisce le ambigue radici storiche e culturali della bandiera per la pace. ’’In realtà - spiega Fides - le origini vanno ricercate nelle teorie teosofiche nate alla fine dell’’800. La teosofia (letteralmente ’Conoscenza di Dio’) è quel sistema di pensiero che tende alla conoscenza intuitiva del divino’’, ed è corrente filosofica presente da sempre nella cultura indiana. ’’Diverse sono le versioni sull’origine di questa bandiera. Una di queste è riconosciuta ad Aldo Capitini (fondatore del Movimento Nonviolento) che nel 1961 la usò per aprire la prima Marcia per la Pace Perugia-Assisi. Un’altra segnala che la sua origine risale al racconto biblico dell’Arca di Noé e che quindi è un simbolo cristiano a tutti gli effetti. Un’altra ancora spiega che la bandiera arcobaleno è il simbolo della città di Cuzco, capitale dell’impero Incas. Fu scelta, dall’imperatore del tempo, perché in quella vallata ogni volta che pioveva si formavano degli arcobaleni brillantissimi.
Dalla Francia arriva la spiegazione che quel vessillo è il simbolo del movimento delle cooperative francesi creato intorno al 1920. Un’altra viene fatta risalire al 1950, la bandiera fu utilizzata in America come simbolo della pace dalle associazioni pacifiste e nonviolente. Altri dicono che sia stata ’’inventata’’ dal filosofo Bertrand Russel nel 1956 in Inghilterra’’. Non mancano poi i riferimenti al movimento gay - con una lieve variazione nella disposizione dei colori - che ha fatto dell’arcobaleno il suo segno di riconoscimento.
Tuttavia la complessità spirituale che è all’origine del simbolo, il suo intrecciarsi con così numerosi fattori culturali, sociali e politici, ne fanno una ’’valida sintesi per rappresentare il sincretismo’’ che mischia filosofie orientali, new age, neopentecostalismo; tutto insomma, meno il messaggio cristiano nella sua essenzialità.
’’Come mai - si domanda dunque l’agenzia vaticana - uomini di chiesa, laici o chierici che siano, hanno per tutti questi anni ostentato la bandiera arcobaleno e non la croce, come simbolo di pace?’’
Oggi, giorno dei SS.Pietro e Paolo, il Pontefice ha inaugurato la nuova stola
Dall’inizio del Pontificato modificati anche il bastone e l’eucarestia
Pallio, pastorale e trono papale
Benedetto XVI rifà il look al rito
Monsignor Marini, responsabile delle celebrazioni liturgiche pontificie,
spiega all’Osservatore Romano il motivo di questa rivoluzione di simboli
di CLAUDIA FUSANI *
ROMA - Le grandi rivoluzioni s’intravedono sempre nelle piccole cose. E la difesa di un credo riparte sempre dai suoi simboli, più o meno antichi, più o meno dimenticati, per questo, magari, più forti. Seguendo, a modo suo, il filo che lega spiritualità e fisicità Benedetto XVI sta compiendo una grande rivoluzione con piccoli gesti: tentare il rilancio della religione cattolica utilizzando la forza fisica e simbolica del rito, degli oggetti, dei simboli e dei paramenti. Se una liturgia è stanca - come può essere quella cattolica e della SS.Messa - il suo rilancio, la sua ripartenza, passa dalla celebrazione della messa in latino ma anche dalla stola di lana bianca riveduta e corretta, dai cappelli a larghe tese ai mocassini dello stesso punto di rosso antico, da altri copricapi e coprispalla ai grandi crocifissi pettorali. Come quello d’oro con diamanti e zaffiri che Silvio Berlusconi ha regalato a Sua Santità nel giorno della visita in Vaticano.
Oggi, giorno dei SS.Pietro e Paolo, celebrando messa in S. Pietro, il Pontefice ha realizzato un altro passo di un percorso in realtà iniziato con l’avvio del suo pontificato. Percorso spirituale ma soprattutto "politico", massmediatico, qualcuno osa anche dire "modaiolo". Si faceva notare, giovedì 26 giugno, la pagina con foto a colori su L’Osservatore romano dedicata alle vesti liturgiche, quasi una concessione alle vanità di un magazine di moda. E comunque Esquire, magazine americano di moda e costume, ha indicato Benedetto XVI come l’uomo che meglio sceglie gli accessori di abbigliamento. Molti avranno notato, poi, con quale attenzione il Pontefice leva appena può gli occhiali. Insomma, studioso, scrittore (due milioni di copie di libri venduti), politico, attento all’ecumenismo, legato alla tradizione e... così umanamente vanesio.
Il Credo Niceno. Cominciamo dall’ecumenismo. Con un gesto "rivoluzionario", nella messa di questa mattina in San Pietro, Benedetto XVI ha ceduto la parola al patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I, chiedendo che fosse lui a tenere l’omelia "per la grande festa dei Santi Pietro e Paolo, patroni di questa Chiesa di Roma e posti a fondamento, insieme agli altri Apostoli, della Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica".
Per tradizione il 29 giugno una delegazione della Chiesa di Costantinopoli è presente in Vaticano. Quest’anno la delegazione è guidata dallo stesso Patriarca, Sua Santità Bartolomeo I. Il Santo Padre lo ha atteso sul sagrato della Basilica, insieme sono entrati in S. Pietro, hanno rivestito i paramenti e sono saliti all’altare. Insieme poi, i "capi" delle due chiese, hanno recitato la professione di fede, il Simbolo Niceno Costantinopolitano nella lingua originale greca, secondo l’uso liturgico delle Chiese bizantine. Poi l’omelia e infine anche un’unica benedizione nel nome di San Paolo, apostolo delle genti.
Il pallio. Come annunciato tre giorni fa da L’Osservatore Romano che ha ospitato una lunga intervista a monsignor Guido Marini, maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie, stamani il Papa ha inaugurato un nuovo pallio, il simbolo del vescovo buon pastore e insieme dell’Agnello crocifisso, il paramento che più di tutti fa chiesa in quanto comunità. In realtà si tratta del recupero del vecchio pallio che ha una forma circolare chiusa, con i due estremi pendenti sul petto e sulla schiena. Le croci che lo adornano restano rosse, ma la forma è più grande e lunga. "Si recuperano alcuni aspetti della forma precedente al pontificato di Giovanni Paolo II" ha spiegato monsignor Marini.
Il pallio pontificio, paramento liturgico utilizzato fin dall’antichità, è un panno di lana bianca che usano solo il Papa e i metropoliti (quello del Pontefice è diverso da quello degli Arcivescovi). Finora Benedetto XVI ha indossato una stola simile a quelle usate prima del X secolo, incrociato sulla spalla e con cinque croci rosse, simbolo delle piaghe di Cristo. "Ma era scomodo - confessa monsignor Marini senza però dire perchè - e ha creato diversi e fastidiosi problemi dall’inizio del Pontificato".
Si rinnova anche il pastorale. Da alcuni mesi, ha spiegato monsignor Marini, il Papa ha deciso di cambiare anche il pastorale, il modello Pio IX ha vinto su Paolo VI: quello dorato a forma di croce greca usato da Pio IX al posto di quello argentato con la figura del crocifisso introdotto da Paolo VI. Questa scelta, ha spiegato il monsignore "non è solo un ritorno all’antico, ma testimonia uno sviluppo nella continuità, un radicamento nella tradizione che consente di procedere ordinatamente nel cammino della storia". Il nuovo pastorale si chiama ferula ed è "più fedele alla forma del pastorale papale tipico della tradizione romana, che sempre stato a forma di croce e senza crocifisso". E’ anche more comfortable, più leggero e maneggevole. Lo dice il monsignore, perché c’è lo spirito ma anche il corpo vuole le sue.
Paramenti liturgici. L’attenzione di Esquire al papa modaiolo scatta in inverno quando Benedetto recupera da armadi e vetrinette vaticane indumenti che non si vedevano più da anni. Ad esempio il camauro (berretto rosso dal bordo bianco portato solo in inverno), mai più visto dai tempi di Giovanni XXIII. "Le vesti liturgiche adottate, come anche alcuni particolari del rito, intendono sottolineare la continuità della celebrazione liturgica attuale con quella che ha caratterizzato nel passato la vita della Chiesa", ha spiegato monsignor Marini. La parola chiave, "l’ermeneutica", per comprendere tutto questo quindi è la continuità "nei simboli, nei paramenti e nel rito tra il prima, il dopo e il presente". L’importante, ha osservato, non è tanto l’antichità o la modernità dei paramenti liturgici, "quanto la bellezza e la dignità, componenti importanti di ogni celebrazione liturgica". Dopodichè ci sarebbe anche da dire cosa tutto questo significa e implica nell’epoca dove il visivo e l’immagine sono quasi un sesto senso.
Alto trono papale. Cambia anche quello. Anzi, ritorna, al centro dell’altare. "Vuole semplicemente mettere in risalto la presidenza liturgica del Papa, successore di Pietro e vicario di Cristo" spiega monsignor Marini. E la croce tornata al centro dell’altare, indica "la centralità del crocifisso nella celebrazione eucaristica e l’orientamento esatto che tutta l’assemblea chiamata ad avere durante la liturgia eucaristica: non ci si guarda, ma si guarda a Colui che nato, morto e risorto per noi, il Salvatore".
Modifiche anche alla comunione. C’è anche la distribuzione della comunione in bocca e in ginocchio (viaggio del Papa a Brindisi) che, rispetto all’ostia in bocca, "sottolinea - dice monsignore - la verità della presenza reale nell’eucaristia, aiuta la devozione dei fedeli, introduce con più facilità al senso del mistero". L’ostia in bocca, in fondo, è e resta "un indulto alla legge universale concesso dalla Santa Sede".
Nella società dell’immagine anche la Chiesa rafforza il suo rito recuperando i simboli. E come ha scritto Juan Manuel de Prada su L’Osservatore, "il Papa non veste Prada ma Cristo. E questa sua preoccupazione non riguarda l’accessorio ma l’essenziale. Benedetto XVI recupera gli ornamenti liturgici per rendere più comprensibile agli uomini del nostro tempo la realtà più vera della liturgia". Guardandoli, si riscopre cosa significa pallio, cosa pastorale, il trono e l’eucarestia.
* la Repubblica, 29 giugno 2008