PAOLO DI TARSO, L’ASTUTO APOSTOLO DELLA GRAZIA ("CHARIS") E DELL’ AMORE ("CHARITAS"), E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO-ROMANO! UNA NOTA
di Federico La Sala *
(...) non equivochiamo! Qui non siamo sulla via di Damasco, nel senso e nella direzione di Paolo di Tarso, del Papa, e della Gerarchia Cattolico-Romana: “[... ] noi non siamo più sotto un pedagogo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”(Galati: 3, 25-28).
Nella presa di distanza, nel porsi sopra tutti e tutte, e nell’arrogarsi il potere di tutoraggio da parte di Paolo, in questo passaggio dal noi siamo al voi siete, l’inizio di una storia di sterminate conseguenze, che ha toccato tutti e tutte. Il persecutore accanito dei cristiani, “conquistato da Gesù Cristo”, si pente - a modo suo - e si mette a “correre per conquistarlo” (Filippesi: 3, 12): come Platone (con tutto il carico di positivo e di negativo storico dell’operazione, come ho detto), afferra l’anima della vita evangelica degli apostoli, delle cristiane e dei cristiani, approfittando delle incertezze e dei tentennamenti di Pietro, si fa apostolo (la ‘donazione’ di Pietro) dei pagani e, da cittadino romano, la porta e consegna nelle mani di Roma. Nasce la Chiesa ... dell’Impero Romano d’Occidente (la ‘donazione’ di Costantino).
La persecuzione dei cristiani, prima e degli stessi ebrei dopo deve essere portata fino ai confini della terra e fino alla fine del mondo: tutti e tutte, nella polvere, nel deserto, sotto l’occhio del Paolo di Tarso che ha conquistato l’anima di Gesù Cristo, e la sventola contro il vento come segno della sua vittoria... Tutti e tutte sulla romana croce della morte.
Egli, il vicario di Gesù Cristo, ha vinto: è Cristo stesso, è Dio, è il Dio del deserto... Un cristo-foro dell’imbroglio e della vergogna - con la ‘croce’ in pugno (e non piantata nella roccia del proprio cuore, come indicava Gesù) - comincia a portare la pace cattolico-romana nel mondo. Iniziano le Crociate e la Conquista. Il Dio lo vuole: tutti i popoli della Terra vanno portati nel gelo eterno - questo è il comando dei Papi e dei Concili, cioè delle massime espressioni dell’intelligenza astuta (quella del Dio di Ulisse e della vergine Atena, non del Dio di Giuseppe e di Maria) del Magistero della Chiesa, alle proprie forze armate... fino a Giovanni Paolo II, al suo cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, e alla Commissione teologica internazionale, che ha preparato il documento “Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato”.
Uno spirito e un proposito lontano mille miglia, e mille anni prima di Cristo, da quello della “Commissione per la verità e la riconciliazione”, istituita in Sudafrica nel 1995 da Nelson Mandela, per curare e guarire le ferite del suo popolo. Il motto della Commissione bello, coraggioso, e significativo è stato ed è: “Guariamo la nostra terra”!
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Si cfr.: Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide, Ripostes, Roma-Salerno 2001, pp.23-25.
Per ulteriori approfondimenti, nel sito, si cfr.:
DUE VOLTI (E DUE NARRAZIONI) DELL’ITALIA - E DELLA CHIESA. Quale avvenire? *
La deriva della xenofobia
Senza vergogna
di Marco Tarquinio (Avvenire, sabato 4 agosto 2018)
Stiamo attraversando un tempo difficile, duro e bello come ogni tempo difficile, amaro come ogni tempo in cui nel nome di una Legge solo proclamata e di doveri solo parolai, e che ignorano e stritolano i diritti dei più deboli, si mette in questione l’umanità e l’uguaglianza stessa degli esseri umani. Senza vergogna. Ma la fragilità e la dignità della vita, di ogni vita umana, non si riconoscono dal passaporto e non si possono prendere in alcun modo in ostaggio. E le leggi non si applicano solo per stanare e "fermare" lo straniero, ma come ha sottolineato anche la nostra lunga inchiesta sul caporalato per far sì che chi è straniero di origine e italiano di lavoro non venga incluso e integrato soltanto nel (e dal) "lato oscuro" del nostro Paese.
È in tempi proprio come questi che a noi cristiani è chiesto di dare ragione in modo più limpido della nostra speranza. Ma non è un dovere solo nostro. Perché a tutti - ma proprio a tutti - è laicamente chiesto, se vogliamo tener saldo il patto di civile convivenza e la misura comune che contiene le nostre differenze e le compone in armonia, di sentirci impegnati a tener care e preservare le radici (troppo a lungo negate o date per scontate) dell’umanesimo che dà linfa, forza e capacità inclusiva alla nostra civiltà comune.
Questo tempo italiano è specialmente difficile perché ci mette davanti a due volti (e due narrazioni) dell’Italia, che invece o è una o non è.
Perché sarebbe un’Italia umanamente fallita - e del default più sconvolgente: il default della cultura e della fede che l’hanno unita prima di ogni azione politica - quel Paese bifronte che ci si ostina a voler scolpire non nel marmo, ma in grevi nuvolaglie di slogan xenofobi da social network e di parole e atti violenti che si vorrebbe derubricare a «sciocchezze». La «goliardata» che ha sfigurato il viso di Daisy Osakue non è la controprova di un’Italia serena e vaccinata dal razzismo: per rendersene conto, basta leggere ciò che è stato scatenato addosso a questa giovane donna, cittadina italiana di origine nigeriana.
Inqualificabile. Io continuo a vergognarmene. Anche se suo padre, a quanto risulta, non è stato uno stinco di santo e ha pagato il suo debito con la giustizia. E me ne vergogno anche se i tre aggressori a colpi di uova sono "bulli" e non adepti di uno dei manipoli razzisti che sparlano, sputano, menano e sparano (grazie a Dio, quasi sempre a vuoto) in giro per l’Italia.
Non sono l’Italia e non la rappresentano l’Italia. Ma - come ho scritto - ne deturpano i lineamenti, sino a sfigurarli. E allora non si può far finta di niente. Di costoro e per costoro ci dovremmo vergognare tutti, e ancor di più visto che ci viene spiegato e quasi intimato di dire e scrivere che non esistono e che comunque sono la logica reazione alla "violenza portata dagli stranieri". Ma proprio come i poveri, i violenti non hanno passaporto e non hanno patria. Ai poveri patria e passaporto sono negati. Ai violenti interessano solo come arma, e perciò non interessano affatto.
L’Italia non può essere ridotta a un ring di risentimenti etnici. Chi ha responsabilità lavori per evitarlo.
P.S. A quanti in queste settimane hanno ritenuto di ricordarci che i buoni cattolici e i giornali di ispirazione cattolica, prima e invece che delle persone costrette a migrare, dovrebbero preoccuparsi della vita non nata e ancora troppe volte abortita in Italia e in Europa - vita nascente che da appassionati di umanità e di scienza amiamo e rispettiamo sin dal primo istante come testimoniano le pagine del giornale - mi sento di rispondere con parole più grandi di noi: se non siamo capaci di amare e di essere giusti con coloro che vediamo, come potremo mai amare ed essere giusti con coloro che (ancora) non vediamo?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA COSTITUZIONE ITALIANA, IL CRISTIANESIMO, E LA TRADIZIONE DELLA MENZOGNA CATTOLICO-ROMANA.
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
IL SONNO MORTIFERO DELL’ITALIA. In Parlamento (ancora!) il Partito al di sopra di tutti i partiti.
Federico La Sala
L’ultima trappola della «Buona scuola»
Appello al Miur. L’inserimento di docenti Irc nelle Commissioni d’esame per la terza media è l’ultimo atto di un processo sotterraneo per recuperare all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche il ruolo di «materia obbligatoria» con diritto all’esonero
Il Decreto legislativo 62/2017 stravolge tacitamente le disposizioni contenute nell’art. 185 comma 3 del Decreto 297 1994. Si tratta della sostituzione dell’elenco relativo alle materie all’Esame di Stato conclusivo della Scuola Secondaria di I°grado con la dicitura riferita a «tutti i docenti del Consiglio di Classe». Tra le materie indicate nel Decreto del 1994 non figurava l’Insegnamento della Religione Cattolica (Irc). È questa un’ultima trappola della legge denominata «Buona Scuola».
L’inserimento di docenti Irc nelle Commissioni d’esame per la terza media è l’ultimo atto di un processo sotterraneo - iniziato con il rinnovo del sistema concordatario - per recuperare all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche il ruolo di «materia obbligatoria» con diritto all’esonero. Solo con difficoltà sono state introdotte norme e istituti per rendere effettiva la nuova facoltatività con la formulazione delle quattro alternative fra cui la frequenza di una reale materia alternativa.
Nessuna promozione è stata fatta per informare le famiglie su tali alternative sulle quali, anche per la difficoltà a superare certe prassi e il timore di esporre i figli a discriminazioni, sono state esercitate, in particolare nella scuola primaria, ben poche opzioni. (...).
Le sottoscritte associazioni che si battono da anni per il rispetto della laicità della Scuola e dello Stato, si oppongono con forza a tale stravolgimento della Legge 121/1985, attuativa del Nuovo Concordato. Rivolgono pertanto al Miur la richiesta urgente di chiarimenti indispensabili per insegnanti e famiglie di alunni e alunne in procinto di affrontare la prova del citato Esame:
l’Irc sarà materia d’esame? Se non lo sarà, a qual fine la presenza del docente? L’eventuale presenza di un docente di a. a. non si configura come discriminante nei confronti di coloro che hanno scelto attività di studio o di ricerca individuali o la non presenza a scuola durante l’Irc?
nella prova d’esame, a differenza di quanto avviene nelle operazioni di scrutinio, i voti sono soltanto numerici: è quindi prevedibile una valutazione numerica dell’Irc?
il docente di Rc nella votazione per promozione o bocciatura si comporta come previsto nel DPR 202/1990, ossia non vota se il suo voto fosse determinante?
Queste sono solo alcune delle ambiguità da chiarire.
*** Comitato Nazionale Scuola e Costituzione, Comitato bolognese Scuola e Costituzione, Associazione Nazionale per la Scuola della Repubblica, Manifesto dei 500, Ass.Naz. Sostegno Attivo, Cogedeliguria, Ass.Naz. del Libero Pensiero “Giordano Bruno”, Coordinamento Genitori Democratici (Cgd), Comitato Genovese Scuola e Costituzione, Crides (Centro di iniziativa per la difesa dei diritti nella scuola), Movimento di Cooperazione Educativa (Mce), Uaar, Fnism, Cidi, Osservatorio diritti scuola, Fcei (Fed.Chiese Evangeliche It.), Comitato Insegnanti Evangelici Italiani, Comitato Democrazia Costituzionale -Roma
Filosofia.
Paul Ricoeur: «La Parola sopravvive solo se riconvertita in evento»
Raccolta in libro una conferenza del filosofo del 1967 sul senso e la funzione di una comunità ecclesiale: è sempre necessaria una reinterpretazione intellettuale, pratica e sociale della parola
di Marco Roncalli (Avvenire, giovedì 17 maggio 2018)
Riflettere sulla funzione specifica di una comunità ecclesiale, le sue aspirazioni e istanze di senso, il suo linguaggio, il ruolo nella Chiesa e nella società, è quello che Paul Ricoeur - come raramente troviamo nei filosofi - prova a fare in queste pagine nate alla vigilia del Sessantotto, già girate parecchio come fotocopie di dispense fra gli studiosi di questo maestro dell’ermeneutica: mai però arrivate in un’edizione al grande pubblico.
Registrate nel gennaio 1967 alla Gerbe, una sala della parrocchia protestante di Amiens, durante un incontro teologico di due giorni, le parole di questa lunga conferenza di Ricoeur - scandita in tre parti con interlocutori cattolici, protestanti e comunisti e trascritte dal pastore Ennio Floris - furono pubblicate l’anno dopo nei “Cahiers d’études du centre protestant de recherche et de rencontres du nord” con il titolo Senso e funzione di una comunità ecclesiale al quale l’editrice Claudiana ha preferito ora Per un’utopia ecclesiale (pagine 100, euro 12,50).
L’opera va in libreria a cura di Claudio Paravati, Alberto Romele, Paolo Furia, e con una prefazione di Olivier Abel che considera quest’opera «a un tempo, come militante testimonianza di un periodo di passaggio e come banco di prova, come laboratorio di temi filosofici sviluppati, altrove o in seguito, in modo indipendente», dove «viene alla luce un aspetto del pensiero di Ricoeur troppo spesso trascurato, in cui i lettori potranno cogliere un approccio filosofico nuovo, radicale». Approccio dove - insieme ai non pochi spunti elaborati in opere successive - si comprende il del ruolo del filosofo nella Chiesa riformata francese.
Intervenendo sulla «comunità confessante» Ricoeur si ferma nella prima parte sul tema “Essere protestanti oggi” (con grande attenzione al linguaggio); nella seconda parte sulla presenza della Chiesa nel mondo (affrontando i punti di inserzione, le capacità di pressione, aspetti specifici della comunità cristiana); nella terza parte sul conflitto “Fede e religione” ricollegandosi a Bonhoeffer, Ebeling, Fuchs, come pure alla tradizione della predicazione primitiva e all’esegesi paolina. Pagine dunque militanti di un Ricoeur allora presidente del Movimento del cristianesimo sociale e anche della Federazione protestante e due anni dopo rettore dell’Università di Nanterre. Pagine che disegnano tratti di una Chiesa contrappunto di utopia dentro la società, fra critiche esterne della religione (Marx, Nietzsche, Freud) e decostruzione di varie pseudo-razionalizzazioni (che nascondono vivaci testi biblici).
Non pochi i passaggi di grande interesse. Nell’ambito del linguaggio, ad esempio, circa la parola che non può diventare reliquia, sopravvivendo grazie a costante reinterpretazione: «Chiamo interpretazione non solo ciò che possiamo fare intellettualmente ma anche praticamente, socialmente per rendere attuale una parola che continua a essere parola solamente se essa continua a essere riconvertita in un evento, che ridiventa esso stesso evento».
In ambito teologico, nella risposta data alla domanda “Possiamo ancora pronunciare la parola Dio?”: «Non possiamo più costruire delle teologie speculative, sistematiche, in cui parliamo di Dio come di una causa prima, un pensatore supremo, un essere assoluto separato da tutti gli altri esseri, ma dobbiamo pensare ciò che può significare nella Scrittura il Dio di Gesù Cristo. Se Gesù Cristo è colui che muore donando la vita, è quest’atto di svuotarsi di Cristo per noi a essere il nostro solo accesso a Dio». E così «la comunità cristiana non ha nient’altro da offrire agli altri esseri umani che quest’affermazione del Dio che si svuota, della debolezza assoluta di Dio per l’essere umano, che permette il nuovo essere umano, e che apre una speranza in cui gli esseri umani sono responsabili, ognuno nei confronti di tutti».
Infine, tutto da segnalare il passaggio nel quale Ricoeur s’interroga su quella che gli pare essere «la funzione insostituibile» di una comunità confessante in un tipo di società come la nostra, e cioè: della previsione, della decisione razionale, dell’invasione della tecnica nella vita quotidiana ad ogni livello.
Scrive il filosofo: «Mi sembra che la ragion d’essere delle chiese consista nel porre in permanenza la domanda sui fini, della “prospettiva”, in una società della “pianificazione”. Il “benessere”? A quale scopo? Tale questione tocca le ragioni profonde dell’essere umano nella società della produzione, del consumo e del tempo libero. Questa è caratterizzata da un controllo crescente dell’essere umano sui mezzi e da una cancellazione dei suoi fini, come se la razionalità crescente dei mezzi rivelasse progressivamente l’assenza di senso. Ciò è vero in particolare nelle società capitaliste [...]. In questo modo si rende manifesto l’elemento primo della società di produzione: il desiderio senza fine».
Ma c’è un altro sogno vano che anima l’essere umano della società consumista: ovvero «l’aumento della sua potenza», spiega Ricoeur. Che aggiunge: «Si vorrebbe annullare il tempo, lo spazio, il destino della nascita e della morte, ma in un progetto simile tutto diventa strumento, utensile, nel regno universale del manipolabile e del disponibile. È questo progetto che sfocia nel vuoto totale del non-senso. È così che la nostra “modernità vive simultaneamente della razionalità crescente della società e dell’assurdità crescente del destino». Una riconferma dell’assenza di giustizia presso gli uomini, ma ancor più della mancanza di amore e di significato.
Ed ecco allora i problemi che ci stagliano davanti nel segno dell’“insignificanza”: quella del lavoro, del tempo libero, della sessualità. Di fronte ad essi il compito non è recriminare o rimpiangere ma testimoniare.
Come? Facendo appello all’utopia, risponde Ricoeur, che chiama utopia «questa prospettiva di un’umanità compiuta, allo stesso tempo come totalità degli esseri umani e come destino singolare di ogni persona».
È la prospettiva che può dare un senso: volere che l’umanità sia una, volere che essa si realizzi in ogni persona. Nella responsabilità di pensare sempre un doppio destino.
La Costituzione non è mai al sicuro, occhio ai programmi elettorali
1947-2017. La Carta come una bussola nella sfida del voto
di Anna Falcone (il manifesto, 28.12.2017)
Sarà la cifra tonda, sarà che questo compleanno della Costituzione arriva dopo la schiacciante vittoria referendaria del 4 dicembre, fatto sta che mai come quest’anno la ricorrenza della firma è stata fortemente sentita dagli italiani, che hanno partecipato in tanti alle iniziative organizzate per l’occasione in tutta Italia. E non solo per rinnovare il ricordo: questa celebrazione e il messaggio che ne scaturisce assumono un valore cruciale per le prossime elezioni politiche.
Lo hanno giustamente sottolineato Felice Besostri ed Enzo Paolini nell’articolo pubblicato ieri sulle pagine di questo giornale. Perché chi ha vinto la battaglia referendaria, e continua a difendere davanti alle Corti le ragioni della legittimità costituzionale delle leggi elettorali, o a sostenere chi lo fa, non potrà sottrarsi, al momento del voto, a un giudizio di coerenza fra schieramenti politici e rispetto del voto referendario.
Il fatto che a 70 anni dalla sua entrata in vigore la Costituzione è e rimane, in gran parte, inattuata rappresenta - per chi voglia raccoglierla seriamente - la sfida politica per eccellenza delle prossime elezioni. Non a caso, molti elettori ed elettrici, che non si rassegnano all’esistente, chiedono agli schieramenti in campo di ripartire proprio dall’attuazione della Costituzione e dalla implementazione dei diritti già riconosciuti dalla Carta quale antidoto alle inaccettabili diseguaglianze del nostro tempo. Un passaggio necessario, se non indispensabile, per rafforzare la credibilità dei programmi politici e, auspicabilmente, ricucire quel rapporto di fiducia fra politica e cittadini mai così in crisi. Un vulnus democratico tradotto in un astensionismo che sfiora ormai il 55% dell’elettorato: dato più che allarmante a cui non ci si può e non ci si deve rassegnare.
Rilanciare il messaggio della necessaria difesa e attuazione della Costituzione - in particolare delle norme che garantiscono il pieno e trasparente esercizio della democrazia e attribuiscono alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli che alimentano e aggravano le condizioni di diseguaglianza fra cittadini - diventa, allora, cruciale, soprattutto alla vigilia di una tornata elettorale le cui regole saranno scandite dall’ennesima legge elettorale ad alto rischio di incostituzionalità.
Pur nella piena consapevolezza che la Costituzione non delinea un programma univoco, capace di blindare le scelte dei diversi governi - è necessario riconoscere, infatti, e una volta per tutte, che esiste un nucleo duro di principi e diritti fondamentali inderogabili che ogni forza politica deve impegnarsi ad attuare, nelle forme e nei modi che ritiene più opportuni, per rispettare quella fedeltà alla Costituzione che li lega indissolubilmente alla Repubblica e ai suoi compiti costituzionali. Un patto democratico di diritti e obiettivi programmatici, inequivocabilmente vincolanti, che deve tornare ad essere il cuore di ogni programma elettorale. Soprattutto a Sinistra.
Sia chiaro: non è un’indicazione di voto, ma il suggerimento a una riflessione suppletiva sul voto e su chi auspicabilmente si impegnerà in maniera chiara e credibile a difendere e attuare la Costituzione. Nella piena consapevolezza che un tale ambizioso obiettivo, per essere concreto, deve essere condiviso da tanti, e non è monopolizzabile da pochi o da forze marginali. Perché la Costituzione non è perfetta, né intoccabile, ma è l’unico punto certo che abbiamo, il primo “bene comune” in cui si riconoscono gli italiani in questa difficile fase di transizione democratica. Se questa virerà verso il restringimento progressivo degli spazi di partecipazione e di democrazia o verso modelli più avanzati dipenderà anche dal se e come eserciteremo il nostro diritto di voto.
In tal senso, l’astensionismo, anche come forma estrema di protesta, più che sortire un ‘ravvedimento’, rischia di favorire le destre nel prossimo Parlamento, e con esse la formazione di uno schieramento largo e più ampio della compagine del futuro governo che, se non arginato, potrebbe trovare i numeri per unire le forze di quanti - avendo fallito le riforme del 2006 e del 2016 - potrebbero convergere su un progetto analogo, se non peggiore. Un’operazione che, (ipotesi remota, ma non impossibile) qualora dovesse raccogliere il sostegno dei 2/3 dei componenti di ciascuna Camera potrebbe non dare spazio neppure alla raccolta delle firme per chiedere il referendum costituzionale e, con esso, il pronunciamento popolare.
Per questo è necessario sollecitare le forze politiche in campo affinché si pronuncino, tutte, sul loro programma costituzionale: sul se e come intendano intervenire sulla Costituzione; sul se e come intendano dare attuazione al suo nucleo duro di principi e diritti inderogabili; sul se e come intendano metterla “in sicurezza” da possibili incursioni di future maggioranze gonfiate. Perché non ci si debba più trovare in futuro a contrastare una riforma o, peggio, una riscrittura della Carta, di parte e neppure menzionata nei programmi elettorali e adeguatamente dibattuta nel Paese. Ai tanti italiani che si sono recati al voto il 4 dicembre, almeno questo, è dovuto.
"DUE SOLI" IN TERRA, E UN SOLO SOLE IN CIELO: "TRE SOLI". GENERE UMANO: I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE!!! NON SOLO SUL PIANO TEOLOGICO-POLITICO, MA ANCHE ... ANTROPOLOGICO!!!
L’uomo che apre le porte dei capolavori vaticani: “Ho le chiavi del paradiso”
Gianni Crea è il capo dei clavigeri dei musei della Santa sede. "Ogni mattina, quando entro nella Cappella Sistina, mi sento un privilegiato"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 gennaio 2017)
CITTÀ DEL VATICANO. "L’alba è il momento più magico. Entro nel bunker che custodisce le 2797 chiavi dei musei vaticani. Quando non ci sono gli addetti della sagrestia pontificia, tocca a me prelevare l’unica chiave che non ha numero né copie. È un modello antico come la porta che apre, quella della Cappella Sistina. Giro la serratura della Cappella, quella stessa che sigilla i cardinali in conclave, per pochi istanti mi sento investito da una meraviglia che non è facile spiegare. M’inginocchio, mi segno, e dico una preghiera in solitudine. Chiedo che tutti i visitatori che di lì a poco entreranno possano provare il medesimo stupore. Sono un privilegiato, ne sono consapevole. E so che di questo privilegio devo esserne sempre degno".
Gianni Crea, 45 anni, romano ma originario di Melito di Porto Salvo, in provincia diReggio Calabria, è capo clavigero dei musei vaticani. In sostanza, ha il compito di aprire e chiudere tutte le porte e le finestre, 500 in tutto, 300 del percorso dei visitatori e 200 dei vari laboratori collegati. A vent’anni il parroco della chiesa che frequentava sulla via Appia gli chiese se voleva lavorare nella basilica vaticana come custode ausiliario. La Fabbrica di San Pietro in cambio avrebbe contribuito ai suoi studi. Accettò.
Qualche anno dopo, giovane studente di giurisprudenza con il sogno di diventare magistrato, partecipò a un concorso per diventare a tutti gli effetti custode. Per un anno lo osservarono, per valutare se fosse idoneo: puntualità, discrezione e serietà le principali doti richieste. Venne preso: "Da adesso - gli dissero - devi sempre ricordare dove ti trovi. Lavori nel centro della cristianità. I dieci comandamenti devono diventare il tuo secondo vestito". Una richiesta "non da poco", dice. "Tuttavia sono contento di non disattenderla".
Più immaginifica fu, invece, la consegna che gli fece Antonio Paolucci, fino a poche settimane fa direttore dei musei, quando da semplice clavigero venne nominato capo. "Adesso sei tu ad avere simbolicamente in mano le porte del Paradiso", gli disse per fargli comprendere la responsabilità a cui era chiamato. Con lui, infatti, collaborano altri dieci clavigeri che si dividono il lavoro in due turni, una metà dalle 5.30 del mattino alle due del pomeriggio. Gli altri fino a sera tardi. "Da quel momento il Vaticano è diventata la mia seconda casa - dice - Conosco le chiavi come le mie tasche. Ogni porta apre un mondo per me e per tutti i clavigeri familiare. Dietro ogni porta c’è un odore particolare, un profumo, riconoscibile soltanto da noi".
L’apertura e la chiusura di porte e finestre sono momenti entrambi delicati. Alle 5.30 la Gendarmeria di Porta Sant’Anna toglie l’allarme e il clavigero di turno procede con un lungo giro che dura quasi un’ora e mezzo. Dopo ogni apertura c’è il controllo che ogni cosa sia in ordine. "Se ad esempio si rompe un tubo dell’acqua - racconta - spesso tocca a me chiamare l’idraulico". Negli ultimi anni i visitatori dei musei sono parecchio aumentati, 28mila le sole presenze giornaliere in Sistina. Tutto deve essere perfetto. "Ma anche la chiusura non è facile. Bisogna controllare che nessuno rimanga all’interno. Gli imprevisti sono sempre possibili. Una sera chiudemmo tutto e di colpo suonò l’allarme. Accorremmo nella stanza nella quale veniva segnalata una presenza. Per fortuna era soltanto un passerotto rimasto dentro".
Il clavigero è l’erede delle chiavi del Maresciallo del Conclave, colui che fino al 1966 doveva sigillare le porte intorno alla Cappella quando i cardinali si riunivano per eleggere il Pontefice. La sua chiave non è l’unica a essere preziosa: c’è, ad esempio, la chiave numero 1, quella che apre il portone monumentale su viale Vaticano, che oggi è il portone d’uscita dei visitatori dei musei.
E poi c’è la 401, una delle più antiche: apre il portone d’entrata dei musei e pesa mezzo chilo. "Due chiavi decussate, cioè incrociate a X, appaiono negli stemmi ed emblemi dei papi - scrive Tiziana Lupi su "Il mio Papa" - Sono una d’oro (potere spirituale) e una d’argento (potere temporale); hanno i congegni traforati a croce e sono unite da un cordone, simbolo del legame tra i due poteri ". I musei sono divisi in quattro aree. Ad ogni area corrispondono dei numeri a cui le chiavi si riferiscono. Le chiavi con il numero 100 sono del museo etnologico, quelle col 200 sono del Gregoriano, eccetera...
"La gioia più grande in questi anni - dice ancora Crea - l’ho avuta pochi anni fa. Prima che morisse mia madre ha potuto assistere a una messa del mattino a Casa Santa Marta. Ha ricevuto una carezza dal Papa. Un piccolo gesto che per me ha significato molto".
L’etica perduta della politica
di STEFANO RODOTÀ (la Repubblica, 17 Dicembre 2016)
TRA una politica che fatica a presentarsi in forme accettabili dai cittadini e un populismo che di essa vuole liberarsi, bisogna riaffermare una “moralità” delle regole attinta a quella cultura costituzionale diffusa la cui emersione costituisce una rilevantissima novità.
Mai nella storia della Repubblica vi era stata pari attenzione dei cittadini per la Costituzione, per la sua funzione, per il modo in cui incide sul confronto politico e le dinamiche sociali. I cittadini ne erano stati lontani, non l’avevano sentita come cosa propria. Nell’ultimo periodo, invece, si sono moltiplicate le occasioni in cui proprio il riferimento forte alla Costituzione è stato utilizzato per determinare la prevalenza tra gli interessi in conflitto.
Dobbiamo ricordare che nell’articolo 54 della Costituzione sono scritte le parole “disciplina e onore”, vincolando ad esse il comportamento dei «cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche». I costituenti erano consapevoli del fatto che il ricorso al diritto non consente di economizzare l’etica. Non si affidarono soltanto al rigore delle regole formali, ma alla costruzione di un ambiente civile all’interno del quale potessero essere esercitate le “virtù repubblicane”. Colti e lungimiranti, guardavano alla storia e al futuro. Non avevano solo memoria del fascismo. Rivolgevano lo sguardo ad un passato più lontano, anch’esso inquietante: agli anni del “mostruoso connubio” tra politica e amministrazione denunciato da Silvio Spaventa.
Così la questione “morale” si presenta come vera e ineludibile questione “politica”. Lo aveva messo in evidenza in passato Enrico Berlinguer. L’intransigenza morale può non piacere, ma la sua ripulsa non può divenire la via che conduce a girare la testa di fronte a fatti di corruzione anche gravi. Altrimenti la caduta dell’etica pubblica diviene un potente incentivo al diffondersi dell’illegalità e a una sua legittimazione sociale.
In questi anni il degrado politico e civile è aumentato. È cresciuto il livello della corruzione, in troppi casi la reazione ai comportamenti devianti non è stata adeguata alla loro gravità. Tra i diversi soggetti che istituzionalmente dovrebbero esercitare forme di controllo, questa attività si è venuta concentrando quasi solo nella magistratura. Ma la scelta del ceto politico di legare ad una sentenza definitiva qualsiasi forma di sanzione può produrre due conseguenze negative. Non solo la sanzione si allontana nel tempo, ma rischia di non arrivare mai, perché non tutti comportamenti censurabili politicamente o moralmente costituiscono reato.
Non ci si è accorti dell’ampliamento del ruolo che da ciò derivava per la magistratura, eletta a unico e definitivo “tribunale della politica”. E questo non è un segno di buona salute, perché i sistemi politici riescono a mantenere equilibri democratici solo quando vi è il concorso di tutti i soggetti istituzionali ai quali questi equilibri sono affidati.
È stata dunque la politica stessa ad affidarsi ai giudici come “decisori finali”, azzerando in questo modo per se stessa i vincoli di moralità e di responsabilità propriamente politica. Ma questa constatazione porta ad un interrogativo: come restituire alla politica l’etica perduta?
Gli 80 anni del papa
Papa Francesco che cammina sulle tracce di Agostino
di EUGENIO SCALFARI (la Repubblica, 17 dicembre 2016)
COMPIE ottant’anni papa Francesco e li porta molto bene, sia fisicamente e sia spiritualmente. Viaggia continuamente nel mondo intero e nelle parrocchie romane. Di Roma è vescovo e questa qualifica la rivendica spesso perché gli consente di definirsi come “primus inter pares” e lui è consapevole di quanto sia utile a quella Chiesa missionaria da lui realizzata.
Personalmente ho avuto la fortuna di diventargli amico ancorché io non sia un credente. Papa Francesco aveva bisogno di un non credente che approvasse la predicazione di quello che lui chiama Gesù Cristo ed io chiamo Gesù di Nazareth figlio di Maria e di Giuseppe della tribù di David, cioè era figlio dell’uomo e non di Dio. Ma su questo modo di considerare Cristo papa Francesco è d’accordo: il Figlio di Dio quando decide di incarnarsi diventa realmente un uomo con tutte le passioni, le debolezze, le virtù d’un uomo. Francesco racconta spesso la settimana della Passione che ha il suo inizio con l’ingresso quasi trionfale di Gesù a Gerusalemme, seguito da molti dei suoi fedeli e naturalmente dei suoi apostoli. Ma a Gerusalemme trova anche quelli che lo temono e lo odiano. Soprattutto la gerarchia ebraica del Tempio che si sente minacciata nei suoi privilegi.
A quell’epoca Israele era sotto la "protezione" dell’impero di Roma e l’imperatore era Tiberio che nulla sapeva di quanto avvenisse in province assai lontane. Papa Francesco ricorda gli ultimi giorni di quella che poi fu chiamata la "Via Crucis", l’ultima cena e poi quel che avvenne nell’orto di Getsemani. Gli apostoli a quella cena erano tredici ma uno di loro, Giuda Iscariota, lo aveva già tradito e quando Gesù cominciò a parlare abbandonò quel tavolo e andò via. Restarono in dodici e fu lì che Gesù condivise il pane e il vino identificandoli con il suo corpo e il suo sangue. Il Signore era già stato battezzato da Giovanni nelle acque del Giordano e battesimo ed eucarestia furono i soli due Sacramenti; gli altri vennero dopo. La natura umana del Cristo si ha nei racconti dei Vangeli, nel Getsemani e poi sulla Croce. Nell’orto, dove sarà poi arrestato dai soldati romani guidati dall’Iscariota, Gesù entra in contatto con il Padre e dice: «Se tu puoi allontana da me questo amaro calice ma se non vuoi lo berrò fino in fondo». Sulla Croce, negli ultimi istanti prima della morte dice: «Padre, perché mi hai abbandonato?». Quindi era un uomo, l’incarnazione era stata reale.
Papa Francesco è affascinato da questi racconti. Mi sono chiesto e gli ho chiesto il perché del fascino che esercitano su di lui e la risposta è stata che nel mistero trinitario Cristo rappresenta l’amore in tutte le sue manifestazioni. L’amore verso Dio che si trasforma in amore verso il prossimo. «Ama il prossimo tuo come te stesso» è una legittimazione dell’amore all’individuo e alla comunità, in cerchi concentrici: la famiglia, il luogo dove vive e soprattutto la specie cui appartiene.
Francesco indica i poveri, i bisognosi, gli ammalati, i migranti. Francesco sa bene quello che dice la Bibbia: «I ricchi e i potenti debbono passare per la cruna d’un ago per guadagnare il Paradiso». Occorre dunque che i popoli si integrino con gli altri popoli. Si va verso un meticciato universale che sarà un beneficio, avvicinerà i costumi, le religioni.
Il Dio unico sarà finalmente una realtà. È questo che Francesco auspica. «È ovvio che sia unico, ma finora non è stato così. Ciascuno ha il suo Dio e questo alimenta il fondamentalismo, le guerre, il terrorismo. Perfino i cristiani si sono differenziati, gli Ortodossi sono diversi dai Luterani, i protestanti si dividono in migliaia di diverse confessioni, gli scismi hanno accresciuto queste divisioni. Del resto noi cattolici siamo stati invasi dal temporalismo, a cominciare dalle Crociate e dalle guerre di religione che hanno insanguinato l’Europa e l’America del Nord e del Sud. Il fenomeno della schiavitù e la tratta degli schiavi, la loro vendita alle aste. Questa è stata la realtà che ha deturpato la storia del mondo».
Quando papa Francesco ha partecipato alla celebrazione di Martin Lutero e della sua Riforma ha colto l’essenza delle tesi luterane: l’identificazione dei fedeli con Dio non ha bisogno dell’intermediazione del clero ma avviene direttamente.
Questo ci conduce al Dio unico e assegna al sacerdozio un ruolo secondario. Così avveniva nei primi secoli del cristianesimo, quando i Sacramenti erano direttamente celebrati dai fedeli e i presbiteri facevano soltanto il servizio. Francesco è d’accordo su queste tesi luterane che coincidono con quanto avvenne nei primi secoli.
Ma quali sono i Santi che il nostro Papa predilige? Gliel’ho chiesto e lui mi ha risposto così: «Il primo è naturalmente Paolo. È lui ad aver costruito la nostra religione. La Comunità di Gerusalemme guidata da Pietro si definiva ebraico-cristiana, ma Paolo consigliò che bisognava abbandonare l’ebraismo e dedicarsi alla diffusione del cristianesimo tra i Gentili, cioè ai pagani. Pietro lo seguì in questa sua concezione anche se Paolo non aveva mai visto Gesù. Non era un apostolo, eppure si considerò tale e Pietro lo riconobbe. Il secondo è San Giovanni Evangelista, che scrisse il quarto Vangelo, il più bello di tutti. Il terzo è Gregorio, l’esponente della Patristica e della liturgia.
Il quarto è Agostino, vescovo di Ippona, educato adeguatamente da Ambrogio vescovo di Milano. Agostino parlò della Grazia, che tocca tutte le anime e le predispone al bene compatibilmente con il libero arbitrio. La libertà accresce il valore del bene e condiziona il suo eventuale abbandono.
Ebbene, sembrerà che io esageri ma ne sono fermamente convinto: dopo Agostino viene papa Francesco. L’intervallo temporale è enorme, ma la sostanza è quella. L’ho definito, quando l’ho conosciuto, rivoluzionario e profetico ma anche modernissimo.
In uno dei nostri incontri gli chiesi se pensava di convocare un nuovo Concilio e lui rispose: «Un Concilio no: il Vaticano II, avvenuto cinquant’anni fa, ha lasciato una precettistica che in buona parte è stata applicata da Giovanni Paolo II, da Paolo VI e da Benedetto XVI. Ma c’è un punto che non ha fatto passi avanti ed è quello che riguarda il confronto con la modernità. Spetta a me colmare questa lacuna. La Chiesa deve modernizzarsi profondamente nelle sue strutture ed anche nella sua cultura».
Santità - ho obiettato io - la modernità non crede nell’Assoluto. Non esiste la verità assoluta. Lei dovrà dunque confrontarsi con il relativismo. «Infatti. Per me esiste l’Assoluto, la nostra fede ci porta a credere nel Dio trascendente, creatore dell’Universo. Tuttavia ciascuno di noi ha un relativismo personale, i cloni non esistono. Ognuno di noi ha una propria visione dell’Assoluto da questo punto di vista il relativismo c’è e si colloca a fianco della nostra fede».
Buoni ottant’anni, caro Francesco. Continuo a pensare che dopo Agostino viene Lei. È una ricchezza spirituale per tutti, credenti o non credenti che siano.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
L’errore di voler gestire la #SharingEconomy senza aver immaginato e compreso la #SharingSociety
di Piero Dominici *
Economia e società della condivisione (Dominici, 1996) sono “oggetti” e fenomeni complessi che pongono alla nostra attenzione diverse questioni e diversi livelli di analisi che non possono essere banalizzati o, comunque, ridotti semplicemente alla natura economica e razionale (?) degli scambi e di certe dinamiche sociali: eppure, l’errore (e il rischio) è stato/è/sarà quello di continuare a pensare, gestire, provare a normare la cd. Sharing Economy senza pensare/immaginare/comprendere la Sharing Society e le potenzialità che la contraddistinguono e che - bene precisarlo - non riguardano soltanto la dimensione tecnologica e digitale. Un approccio e un’impostazione che, peraltro, fanno coincidere la Persona e il Cittadino - con i relativi diritti/doveri e le libertà/responsabilità - esclusivamente con la “figura” del Consumatore, con preoccupanti derive e possibili cortocircuiti per la cittadinanza, l’inclusione, la stessa democrazia (si pensi anche alle questioni cruciali della profilazione, della trasparenza e, più in generale, della sorveglianza) che, evidentemente, non gode di un buono stato di salute; un approccio e un’impostazione che, con poca consapevolezza, non considerano adeguatamente la rilevanza strategica della fiducia, meccanismo e “dispositivo” fondamentale per la stessa esistenza del legame sociale, oltre che vero “fattore” abilitante della sharing economy. Questioni di cui tutti parlano ma pochi ne hanno effettivamente compreso le implicazioni. A ciò si aggiunga che, come affermato più volte in passato, economia e società della condivisione ci costringono a ripensare anche la nostra idea di “contratto sociale”(2000 e sgg.), lo spazio dei saperi e delle competenze, il nostro stare insieme, lo spazio relazionale e comunicativo, le Comunità locali e globali che, d’altra parte, non è assolutamente scontato siano “aperte” e inclusive.
Non bisogna dimenticare, in tal senso, come la cosiddetta sharing economy richieda altresì Persone e Cittadini educati alla libertà ed alla responsabilità, capaci di rigenerare, almeno in parte, quei legami sociali indeboliti e, perché no, quello Stato sociale, letteralmente collassato sotto le macerie di una crisi finanziaria globale che, con grave ritardo, si è compreso non essere soltanto di tale natura. Anche da questo punto di vista, la molteplicità e la pluralità delle “nuove” forme di condivisione e cooperazione, ma anche di scambio economico (e penso, su tutte, all’economia del dono), sono difficilmente circoscrivibili e inquadrabili dalla norma giuridica, per quanto complessa e articolata: il vero problema è costruire una cultura della condivisone, della cooperazione e della collaborazione, tuttora quasi del tutto assente nonostante le narrazioni su cittadinanza e democrazia digitale e le grandi aspettative ingenerate dalla rivoluzione digitale, anche in termini di partecipazione. L’errore di fondo è - e continua ad essere - quello di volere gestire (=controllare) l’economia della condivisione (Sharing Economy) senza aver immaginato e compreso fino in fondo la società della condivisione (Sharing Society).
Come abbiamo avuto modo di sostenere anche in passato, la progressiva, oltre che pervasiva, diffusione delle tecnologie della connessione (cit.), ad alto tasso di innovazione tecnologica, sta riconfigurando architetture sociali e politiche, favorendo l’affermazione di un nuovo modo di produzione economica interamente basato, più che sul possesso, sulla capacità di elaborazione e di diffusione delle informazioni e delle conoscenze. La cosiddetta società/economia della conoscenza, sostituendo progressivamente le risorse materiali con quelle immateriali, determina e rende possibili nuove forme di scambio sociale e reciprocità (in particolare, scambio e condivisione di conoscenze, competenze e tempo) le cui potenzialità e implicazioni sono ancora difficilmente immaginabili, definibili, prevedibili; una società della conoscenza che, guidata nei suoi percorsi evolutivi dalla rivoluzione digitale, porta con sé anche nuove asimmetrie sociali (per questo ho proposto la definizione di “Società Asimmetrica”) che la Politica, sempre più ridimensionata a livello della prassi dall’economia e dalla finanza, non sembra assolutamente in grado di affrontare e gestire.
L’economia globale della conoscenza continua a mantenere al suo interno due spinte (Dominici 1998, 2003, 2005) che si affrontano dialetticamente in campo aperto senza lasciare intravedere la possibilità di una sintesi: da una parte l’interdipendenza (e interconnessione) economica e tecnologica, dall’altra, la frammentazione sociale, politica e culturale. Alla base di queste dinamiche vi è, in ogni caso, la ben nota consapevolezza della crisi del pensiero - ma anche dei saperi e dei sistemi interpretativi prodotti - non più in grado di fornire modelli di problemi e soluzioni accettabili (Kuhn). Dentro la Società Interconnessa, le dimensioni globali della comunicazione e della produzione sociale di conoscenza hanno assunto una rilevanza senza precedenti, che vincola la Politica ad individuare ed elaborare strategie adeguate per ridurre tale ipercomplessità.
È in gioco l’inclusione degli attori sociali e, in particolar modo, di coloro che vivono ai margini del nuovo ecosistema: un’inclusione che non sarebbe tale qualora si rivelasse - come sta accadendo - un’inclusione per pochi e non servisse anche a contrastare quella percezione diffusa di isolamento, di indebolimento del legame sociale e, nello specifico, dei meccanismi sociali della fiducia e della cooperazione. Sembrano profilarsi nuove opportunità di democratizzazione della conoscenza e dei processi culturali in grado di scardinare, definitivamente, il vecchio modello industriale costituito da assetti consolidati, gerarchie, logiche di controllo e di chiusura al cambiamento. Anche se - ne dobbiamo essere consapevoli - per queste nuove opportunità c’è anche un prezzo da pagare, soprattutto in termini di privacy e diritti.
La conoscenza, risorsa immateriale strategica per il mutamento in corso, è appunto “risorsa” costantemente riproducibile, trasferibile e riutilizzabile e ciò determina profondi cambiamenti nei modelli produttivi e distributivi, che vanno di pari passo con un aumento esponenziale della complessità sistemica e organizzativa (con nuovi bisogni comunicativi). Una risorsa che comincia anche ad essere sempre più vista e percepita come bene comune in grado (potenzialmente) di ristabilire rapporti sociali e di potere meno squilibrati e asimmetrici. Nonostante le numerose criticità, non possiamo non rilevare come le reti del nuovo ecosistema agevolino e abilitino, in ogni caso, la collaborazione e la cooperazione ma - come ripeto spesso - è (e sarà) sempre il fattore umano, sociale e relazionale (dovremmo allargare il discorso a scuola e università) a fare la differenza, dentro e fuori le organizzazioni, dentro e fuori i sistemi sociali.
La tecnica e la tecnologia, prodotti complessi dei contesti storico-culturali e delle culture (e non, come molti continuano a sostenere, “oggetti” non appartenenti, quasi esterni, alla/e cultura/e stessa/e) continuano ad imprimere costantemente accelerazioni repentine a organizzazioni e sistemi sociali, con profonde implicazioni per le identità, le Soggettività e gli ecosistemi relazionali e comunicativi; implicazioni e dinamiche sistemiche che ci costringono - come ribadito più volte in passato (1998 e sgg.) - a ripensare, non soltanto modelli, strategie, politiche, ma anche, e soprattutto, categorie e relative definizioni, non ultime quella di “reale, “virtuale”, “Persona”, “relazione”, “vita”, “identità”, “umano”, “naturale”, “artificiale”, “etica” etc. Conseguentemente, diventa «Di fondamentale importanza, in tal senso, ridefinire lo spazio del sapere (dei saperi) e ripensare lo “spazio relazionale” (1996 e sgg.), all’interno del quale si costruiscono le identità - che non sono mai date una volta per tutte...in costante divenire - e le soggettività: “costruzione” che avviene attraverso il dialogo, la conversazione, la reciprocità, l’empatia, la comunicazione = processo sociale (complesso) di condivisone della conoscenza (potere). Siamo sempre un “NOI” e non un “IO” (identità < > riconoscimento), anche se non ne siamo consapevoli. Esistiamo, sempre e comunque, all’interno di un sistema di reti di conversazione e comunicazione. Perché conoscere/sapere è vivere e viceversa e tali dinamiche nascono e si evolvono, sempre e soltanto, attraverso gli ALTRI, in chiave sistemica, oltre che relazionale. Livello “micro” (quello delle relazioni e dell’interazione sociale) e livello “macro” (quello delle organizzazioni, dei sistemi, degli Stati-nazione etc.), non soltanto non sono separati, ma si influenzano reciprocamente e sono in costante connessione e relazione...un duplice livello di analisi che, come ripetuto tante volte negli anni, richiede approccio alla complessità e una prospettiva sistemica (superamento del principio di causalità, di qualsiasi forma di determinismo mono-causale e riduzionismo; tante le concause e molteplici le variabili da considerarsi; sistemi e organizzazioni evolvono e si differenziano non in maniera lineare etc.). La sfida della e alla complessità ci chiede di ripensare educazione e istruzione, in maniera profonda, radicale. Significa ripensare gli stessi concetti di “libertà”, di “comunità” e, conseguentemente, di “democrazia” e, per arrivare alla stretta attualità, ripensare la nostra idea di Paese, di Europa, di Umanità (parlavo dell’urgenza di un “nuovo umanesimo”, esattamente, vent’anni fa...). Può sembrare la più classica delle lotte contro i mulini a vento...non è così e va portata avanti!”.
Un cambiamento di paradigmi di tale portata da richiedere, non soltanto approccio alla complessità e multidisciplinarità, ma anche una nuova sensibilità etica ed una (profonda) consapevolezza che trova un significativo riferimento anche nel “principio di precauzione”. Un cambiamento di paradigmi che investe qualsiasi sfera della prassi sociale e organizzativa: dall’economia al potere, dall’educazione alla Politica, dalla fruizione estetica alle forme di mediazione simbolica e culturale etc. Siamo di fronte a rischi e opportunità straordinarie o, per meglio dire, a rischi che possono tramutarsi in opportunità tra le quali anche quelle legate alla realizzazione di ambienti sempre più in grado di modificare percezioni e rappresentazioni del reale, oltre che dell’ALTRO DA NOI.
[....]
EPILOGO
La condivisione delle risorse conoscitive e delle competenze, unita ad adeguate (e complesse) politiche di scolarizzazione e formazione a più livelli (ci sono sempre le “eccezioni”, ma la situazione non è rosea anche per ciò che riguarda la qualità dei nostri laureati), rappresenta a nostro avviso “la” strada che non è più possibile non percorrere: la tecnica e le tecnologie (con il linguaggio, la cultura, la specializzazione dei saperi etc.) ci hanno messo in condizione di trasformare la realtà, e non soltanto di adattarci ad essa. Ma da sole non sono sufficienti. Servono cultura, conoscenza (e comunicazione, tra i saperi e tra le competenze), ricerca e formazione (continua!), non soltanto per (provare a) governare i processi e le dinamiche della società della conoscenza e dell’economia della condivisone (sharing economy); per curare le malattie, irrigare i campi, costruire le infrastrutture, ma anche per poter parlare di diritti e di libertà con i soggetti più deboli, permettendo loro di esserne consapevoli, di pensare con la propria testa, di essere cioè cittadini e non “sudditi”. In altre parole: servono cultura, conoscenza (e comunicazione, tra i saperi e tra le competenze), ricerca e formazione (continua!) sia per definire e realizzare le condizioni abilitanti della “vera” innovazione, quella sociale e culturale, che per mettere in condizione le Persone di essere Cittadini e non semplici consumatori (anche di cultura). Educazione, cultura e “sapere condiviso” (2003) che sono decisivi anche per contrastare i germi di una società globale fortemente individualista e, soprattutto, indifferente verso l’Altro, verso l’ambiente, verso le Comunità: a questo livello, si pone anche la questione cruciale della sostenibilità. Educazione, istruzione, ricerca e formazione (l’ho dato per scontato ma meglio dichiararlo...servono investimenti importanti!) sono necessarie per esistere dentro il nuovo ecosistema (Dominici, 1998).
CITTADINANZA E PARTECIPAZIONE
Chiudo recuperando le parole di un precedente contributo.
Diciamocelo chiaramente: per ora, siamo fermi all’illusione di una relazione meno asimmetrica con il potere, la politica e le istituzioni; per ora, siamo fermi ad un’immagine ideale, e idealizzata, del Cittadino e del Consumatore per i quali pensiamo e realizziamo strutture, servizi, modelli e pratiche partecipative che, al di là delle narrazioni, risultano sempre “calati dall’alto”; per ora, siamo fermi alla convinzione che il (continuo) ricorso alle leggi e alla tecnologia siano le uniche soluzioni ai problemi organizzativi, sociali e culturali di un Paese (stesso discorso si potrebbe fare per altri Stati-nazione) che - come più volte ripetuto - vive una crisi soprattutto culturale e di civiltà. Un Paese sempre più alla ricerca anche, e soprattutto, di un’identità, oltre che di un rilancio economico, magari con un ruolo da protagonista (?), nell’economia digitale e dell’immateriale. Un Paese che, al contrario, sembra trovarsi in una condizione di costante navigazione a vista, all’interno della quale ci stiamo forse accorgendo anche di tante false e fuorvianti narrazioni - e relativo storytelling - sul digitale, sull’inclusione, sulle riforme a costo zero (vecchissimo tema) e su un’innovazione inclusiva (Dominici 2000 e sgg.), raccontata come un’opportunità per tutti e a portata di mano: per ora, invece, siamo di fronte ad un’innovazione fondata sul principio di esclusività. Con le seguenti aggravanti: 1) la poca consapevolezza che non può /non potrà esserci alcuna “cittadinanza digitale” senza garantire le condizioni e i prerequisiti della cittadinanza (rinvio ad altri contributi, anche datati, sui temi dell’educazione, dell’istruzione, della costruzione sociale della Persona e del Cittadino); 2) allo stesso modo, la poca consapevolezza che non ci può/non ci potrà essere alcuna (vera!) partecipazione senza Cittadini consapevoli e criticamente formati; 3) il grave ritardo nella cultura della comunicazione (comunicazione è organizzazione) di questo Paese che continua a fare confusione, a livello organizzativo e sistemico, tra comunicazione e mezzi di comunicazione, tra comunicazione e connessione, tra comunicazione e marketing, tra comunicazione e informazione, tra informazione e conoscenza, tra tecnologia e metodologia, tra informatica e digitale etc. Con tutte le conseguenze del caso. Non ultime, quelle di Persone, Cittadini, consumatori, elettori che, contrariamente allo storytelling egemone, sono ben “lontani dal centro” dei servizi, dei processi, delle strategie, delle politiche (?) adottate.
N.B. Condividete e riutilizzate pure i contenuti pubblicati ma, cortesemente, citate sempre gli Autori e le Fonti anche quando si usano categorie concettuali e relative definizioni operative. Condividiamo la conoscenza e le informazioni, ma proviamo ad interrompere il circuito non virtuoso e scorretto del “copia e incolla”, alimentato da coloro che sanno soltanto “usare” il lavoro altrui.
Dico sempre: il valore della condivisione supera l’amarezza delle scorrettezze ricevute. Nei contributi che propongo ci sono i concetti, gli studi, gli argomenti di ricerche che conduco da tanti anni: il valore della condivisione diviene anche un rischio, ma occorre essere coerenti con i valori in cui si crede. Buona lettura!
* Piero Dominici, Tech-Economy, 08/06/2016 (ripresa parziale).
Il cancro e l’hacking della medicina (e della conoscenza)
Quando la cura è condivisione
di Giovanni Ziccardi (Il Mulino, 12 luglio 2016)
Rammento con lucidità il giorno in cui, alcuni anni orsono, Salvatore Iaconesi pubblicò su un sito web una lastra del suo cervello colpito da un tumore e diffuse un video, su YouTube, nel quale annunciava al mondo di avere il cancro.
C’eravamo incontrati spesso, negli ultimi dieci anni, a diverse conferenze e incontri hacker. Conoscevo bene la sua attenzione per la tecnologia, le sue competenze informatiche e la sua passione per la programmazione e per il codice, nonché le sue battaglie per l’apertura delle informazioni e del confronto scientifico e per l’estremizzazione della performance artistica.
Il pensiero andò subito non solo a lui ma anche a Oriana, la sua ragazza che spesso lo accompagnava, anche lei raffinata studiosa di comunicazione e appassionata di tematiche da sempre care alla comunità hacker e artistica nazionale e internazionale.
Oggi, nel libro La Cura (Codice Edizioni, 2016), Salvatore Iaconesi e Oriana Persico narrano di questa vicenda (ma non solo) in oltre 300 pagine di testo fitto e molto curato, aggiungendo innumerevoli particolari e «retroscena» a un fatto che molti di noi hanno seguito da lontano e ai margini, come amici, spesso frenati, nel domandare notizie o aggiornamenti, da quel pudore tipico che si manifesta quando si ha a che fare con persone care colpite dal cancro.
La Cura è un testo molto profondo, sia nella lettura sia nel necessario processo di comprensione ma, al contempo, assume spesso la forma di affascinante diario che non può che appassionare, commuovere o suggestionare anche il lettore non avvezzo a temi informatici.
Si tratta di un’opera scritta volontariamente «a strati» e a moduli, un universo di satelliti che possono essere affrontati in sequenza o letti senza un ordine, a caso, a seconda dell’interesse di chi legge. Nelle pagine si trova una grande storia d’amore ma anche un atto di omaggio al mondo dell’hacking e dell’apertura delle informazioni e del codice, una critica feroce ad alcune prassi (e istituzioni) mediche ma anche righe sincere di ringraziamento a medici e personale che hanno reso il malato più umano.
Salvatore e Oriana sono, per chi li conosce bene, menti molto articolate. Affrontano ogni problema, ogni questione, ogni punto sezionandolo e analizzandolo in ogni sua faccia, rendendolo pubblico e porgendolo alla discussione, spingendolo sempre al limite, tra tecnologia e performance artistica, sino a «esaurirlo» e a offrirlo all’interlocutore o al lettore in mille pezzi ma tutti interessanti e connessi tra loro. Lo stesso avviene in queste pagine, dove anche i passaggi più lineari sono resi interessanti dall’approfondimento e dal confronto.
Data la competenza degli autori, il titolo non deve ingannare: «la cura» non si riferisce a un libro che sveli una fantomatica cura per il cancro, o che voglia promuovere terapie, o che lasci spazio a teorie mediche alternative. Gli autori sanno benissimo, avendolo provato sulla loro pelle, quanto sia delicato il tema, e lo trattano sempre «in punta di piedi», con una pacatezza, una cautela nella scelta dei termini e una libertà assoluta nell’approccio che sono veramente degni di nota. Al contempo, però, prendono spunto dalla malattia in senso stretto per esporre i mali della società e per illustrare strategie (anche informatiche) per combatterli.
I temi affrontati sono decine, visti da diversi punti di vista (quello in prima persona di Salvatore, quello della sua amata Oriana, quelli contenuti in documenti scientifici, incontri e informazioni condivise o reperite in Internet), e non li voglio anticipare qui.
Ho, però, apprezzato alcuni aspetti che rendono La Cura non un «semplice» diario di una malattia, ma una piccola opera d’arte (o, meglio, una piccola performance artistica) con ambizioni molto più ampie.
La prima sensazione è che questo contrasto, in tutte le pagine, tra «apertura» e «chiusura», tra open e close, tra codice aperto e codice chiuso, tra segreto e pubblico, tra questioni discusse nelle stanze private o regalate, al contrario, al pubblico confronto, sia il cuore del libro.
Il cancro è tema, e malattia, che porta quasi naturalmente alla chiusura, alla non condivisione, anche e soprattutto nei rapporti umani. L’approccio di Salvatore e Oriana nel combattere la malattia puntando, invece, sull’apertura (apertura che parte, si pensi, dai formati dei dati attraverso i quali diffondere le informazioni mediche di Salvatore per permettere una sorta di «scrutinio globale e mondiale» di una cartella clinica) è indice chiaro di un approccio hacker che anche nella malattia, e non solo nella cultura o nel lavoro, può raggiungere grandi risultati.
La malattia diventa «condivisa» e pronta per essere sconfitta grazie anche alla raccolta incessante d’informazioni e a una selezione accurata delle stesse. Ma questa apertura, secondo Iaconesi e Persico, per essere efficace deve riguardare ogni aspetto della nostra società: le relazioni di ogni giorno, la burocrazia, le istituzioni, la quotidianità, i centri di potere, la salute e il suo «mercato», il benessere, l’amore, la solidarietà, la politica e l’ambiente. Una tecnologia che permetta non solo di comprendere meglio la società in cui viviamo, ma anche di vivere meglio tutti insieme.
Il secondo punto interessante, nel libro, riguarda il mondo della medicina e delle cure «visto dall’interno» da due soggetti da sempre attenti ai meccanismi sociali e che si trovano loro malgrado, improvvisamente, a doversi relazione e convivere con un «mondo» cui non solo non erano abituati, ma che non conoscevano affatto.
Qui esce l’idea di hacking o, meglio, di «cavallo di Troia». Il cercare dall’interno (della malattia, o dell’ospedale, o di un ufficio) i punti deboli e gli aspetti del sistema che si possono migliorare e, attraverso la condivisione delle informazioni, il tentare di migliorare il sistema, di correggere le imperfezioni, anche scrivendo nuovo codice informatico. Tra le tante «imperfezioni» che Salvatore e Oriana evidenziano, mi sembra che la disumanizzazione del paziente, il renderlo spesso un numero o un codice oggetto di un protocollo, e i rapporti «burocratizzati» dei familiari con i medici, siano gli aspetti più critici.
Il percorso verso «la cura» inizia quando Salvatore domanda la sua cartella clinica digitale, con tutti i dati degli esami preliminari. La richiesta della cartella clinica digitale è già pensata per poi renderla pubblica, per darla in pasto all’intelligenza collettiva della rete e per avviare un confronto. Nella convinzione, sempre, che la malattia non colpisca soltanto il malato ma anche tutti coloro che lo circondano e quindi, in definitiva, tutta la società.
Le parti di approfondimento che ho più apprezzato, forse perché un po’ distanti dalle mie competenze, sono quelle relative all’evoluzione della medicina e al suo rapporto con la tecnologia che arrivano a prospettare veri e propri nuovi approcci al «processo medico» e alle enormi quantità di dati che rilasciamo durante la nostra vita anche con riferimento alla nostra salute, e che possono essere utilizzate per il nostro benessere. Molto spazio è poi dedicato, opportunamente, all’idea di open data e al suo rapporto con la medicina moderna.
I vari «strati» informativi del libro s’intersecano alla perfezione, consentendo anche approfondimenti mirati su alcuni argomenti tecnici o sociologici più ostici.
La malattia, in tal senso, diventa lo spunto per mettere in discussione tanti aspetti della società tecnologica attuale che, tramite l’apertura delle informazioni e l’hacking, può essere costantemente migliorata. Sempre, ricordano i due autori, con il necessario apporto di tutti i cittadini.
2 giugno 1946 - 2 giugno 2016
Un miracolo della ragione
Una Repubblica destinata a durare nei secoli, secondo Calamandrei. Ma civismo, valori e ideali non si sono radicati
di Emilio Gentile (Il Sole-24 Ore, Domenica, 29.05.2016)
La repubblica italiana compie settanta anni il 2 giugno 2016. Il 9 giugno 1946, sette giorni dopo il referendum con il quale la maggioranza degli elettori italiani, uomini e donne, aveva deciso la fine della monarchia, Piero Calamandrei affermò: «Una Repubblica nata così è destinata a durare nei secoli». La nascita della repubblica in Italia appariva al grande giurista un «miracolo della ragione», il miracolo, cioè, di una «realtà pacifica e giuridica scesa dall’empireo degli ideali nella concretezza terrena della storia, entrata senza sommossa e senza guerra civile nella pratica ordinaria della Costituzione».
Nonostante un ventennio di regime totalitario legittimato dalla monarchia, seguito da cinque anni di disastroso coinvolgimento dell’Italia in una guerra mondiale, con gli ultimi due anni insanguinati da una spietata guerra civile fra italiani politicamente divisi in due Stati nemici, alleati, su fronti opposti, con eserciti invasori che si combattevano ferocemente nella penisola coprendola di cadaveri e di rovine - il 2 giugno 1946 con il referendum istituzionale il popolo italiano attuò pacificamente una rivoluzione democratica. «Mai nella storia è avvenuto né mai ancora avverrà, che una Repubblica sia stata proclamata per libera scelta di popolo mentre era ancora sul trono il re», affermò Calamandrei.
La campagna elettorale fra i partiti fautori della repubblica o della monarchia suscitò una appassionata partecipazione popolare, ed ebbe toni accesi e minacciosi: con la scelta della repubblica ci sarebbero stati salti nel buio o dispotismo comunista; con la scelta della monarchia ci sarebbero stati colpi di Stato reazionari o insurrezioni armate. A fomentare la polemica sopravvenne il 9 maggio l’annuncio dell’abdicazione di Vittorio Emanuele III in favore del figlio Umberto, con l’intento di favorire così la causa monarchica dissociandola dalle colpe del sovrano compromesso col fascismo. Tuttavia, la rottura della “tregua istituzionale” non fu drammatizzata dal governo dei partiti antifascisti presieduto da Alcide De Gasperi, e non mise in pericolo il pacifico svolgimento delle elezioni. Dalle province i prefetti comunicarono che le votazioni si erano svolte «nella massima calma e serenità». I commenti della stampa, sia repubblicana sia monarchica, lo confermarono: «Le votazioni si sono svolte nel più perfetto ordine e nella più perfetta legalità», scrisse il 4 giugno il giornale monarchico «Italia nuova».
Il referendum fu la più ampia votazione democratica fino allora attuata nella storia dell’Italia unita. 28.005.409 di elettori e di elettrici, pari al 67,1% della popolazione complessiva, si recarono alla urne per scegliere la forma di Stato e per eleggere i componenti dell’Assemblea costituente. Nelle ultime elezioni libere, che si erano svolte in Italia nel 1921, gli elettori, allora solo maschi, erano stati 11.477.210 (il 28,7% della popolazione). Inoltre, nel referendum del 2 giugno la percentuale dei votanti fu dell’89,1%, rispetto al 58,4 del 1921.
Le partecipazione elettorale, per le sue dimensioni, fu l’evento decisivo della pacifica rivoluzione democratica che diede vita allo Stato repubblicano. L’altro evento radicalmente innovativo fu la partecipazione al voto delle donne, alle quali per la prima volta nella storia italiana era riconosciuto il diritto elettorale attivo e passivo. Le donne votanti furono 1.216.241 in più degli uomini, smentendo così quanti avevano previsto, sperato o paventato, un ampio astensionismo delle elettrici. Furono 21 le donne elette all’Assemblea costituente, su un totale di 556 eletti. Prima del 2 giugno, le donne avevano già partecipato, fra marzo e aprile, alle elezioni amministrative in 5.722 comuni, dove il numero delle votanti (8.441.537) era stato già superiore al numero degli uomini (7.862.743). Più di 2000 donne furono elette nei consigli comunali.
La repubblica fu generata in Italia da uomini e donne in parità di cittadinanza. Dalle urne, uscirono 12.718.000 voti per la repubblica e 10.719mila per la monarchia. Il tentativo dei monarchici e dello stesso re Umberto di invalidare il risultato elettorale provocò dimostrazioni e scontri violenti - ci furono cinque morti a Napoli - ma il 13 giugno il re, dichiarando di voler evitare una guerra civile, partì per l’esilio. L’elezione del monarchico Enrico De Nicola a capo provvisorio del nuovo Stato repubblicano, votato dall’Assemblea costituente il 28 giugno 1946, valse a disinnescare il pericolo di nuovi scontri fra monarchici e repubblicani. I partiti monarchici che nacquero dopo la fine della monarchia operarono nel parlamento repubblicano per alcuni decenni, prima di estinguersi definitivamente.
A settanta anni dalla fine della monarchia, nessun pretendente al trono che fu dei Savoia insidia la repubblica italiana; tuttavia, nessuno può sapere se durerà nei secoli. La repubblica nata il 2 giugno non ha creato una propria tradizione di valori e di ideali, con salde radici nella coscienza del popolo italiano. Neppure la giornata della sua nascita è divenuta una festa nazionale collettivamente sentita e partecipata, come è il 4 luglio negli Stati Uniti e il 14 luglio in Francia. Addirittura nel 1977 la festa nazionale del 2 giugno fu abolita di fatto, per essere ripristinata soltanto nel 2000, senza però iniettare nel popolo italiano la vitalità del civismo repubblicano.
A settanta anni la repubblica nata il 2 giugno 1946 non gode in effetti una buona salute. Anzi, secondo talune formule coniate negli ultimi tre decenni dalla pubblicistica politica, e assurte forse frettolosamente a categorie storiografiche, la repubblica istituita settanta anni fa è deceduta nel 1992, trapassando alla storia come la Prima repubblica. Nel ventennio successivo, c’è stata una Seconda repubblica, che a sua volta è ora in agonia o prossima al decesso, mentre sembra che proprio nell’anno in cui ricorre l’anniversario della nascita della Prima repubblica, stia per nascere una Terza repubblica.
Questa sequela di repubbliche rivela l’esistenza di un male costante che da mezzo secolo almeno affligge lo Stato repubblicano italiano, esplodendo periodicamente in forme gravi. Per guarire la repubblica italiana dal suo male attuale, è forse necessario un altro «miracolo della ragione». Ma nessun miracolo potrà mai avvenire, senza l’intervento del popolo sovrano, che sappia però comportarsi da sovrano repubblicano.
2 giugno 1946 - 2 giugno 2016
La zona grigia nel nuovo Stato
di Raffaele Liucci (Il Sole-24 ore, 29.05.2016)
Per Primo Levi, la «zona grigia» era l’ambigua terra di nessuno fra bene e male, emersa nei campi di sterminio, ove «quanto più dura è l’oppressione, tanto più è diffusa tra gli oppressi la disponibilità a collaborare col potere». Ma la categoria della «zona grigia» sarà in tempi più recenti adottata anche dagli storici, per inquadrare quanti avevano vissuto da spettatori la Resistenza del 1943-45, con la speranza che la «nuttata» passasse presto. Una massa di attendisti, destinata a esercitare un peso elettorale maggioritario nella nuova repubblica, antifascista soltanto sulla carta.
Ora Carlo Greppi, giovane studioso torinese, presenta un suggestivo case study, incentrato sulla città sabauda nel 1943-45. Attorno alla lugubre caserma-prigione di via Asti, luogo deputato a fucilazioni e torture indicibili, ruotano diverse storie. Storie di vittime, di carnefici, ma soprattutto di «uomini in grigio», moralmente impreparati ad affrontare la tempesta addensatasi sulle loro teste. Vorremmo tutti identificarci nella cristallina biografia di Bruno Segre, partigiano oggi quasi centenario. Ma a incarnare l’Italia profonda era soprattutto il brigadiere Antonio M., il vero protagonista di queste pagine. Ultima ruota del carro nell’apparato repressivo repubblichino, costui tenne sempre il piede in due scarpe, barcamenandosi sino alla fine tra aguzzini e resistenti (nell’autunno del ’45, una Corte straordinaria di Assise lo condannerà a dieci anni di reclusione per «aiuto al nemico nei suoi disegni politici»).
Come valutare il volume di Greppi? Da un lato, non si può non apprezzare lo scavo compiuto dall’autore (memorie, documenti giudiziari, epistolari inediti), per riportare alla luce questa varia umanità. Possiamo così contemplare un panorama assai più problematico di quelli cui ci avevano abituati sia la mistica della lotta di Liberazione sia il reducismo di Salò, entrambi restii ad ammettere che la guerra civile fosse stata combattuta da due opposte minoranze, davanti a una platea di «imboscati». Invece, piaccia o meno, uno dei pilastri della nostra identità nazionale risiede proprio nella «zona grigia»: come dimostrerà il successo riscosso nel dopoguerra dall’«apota» Montanelli, il quale nel romanzo autobiografico Qui non riposano (settembre 1945) vergherà un esplicito elogio del colore grigio, «appunto perché non è né bianco né nero».
Dall’altro lato, suscita qualche perplessità il «montaggio» effettuato da Greppi. C’erano due modi per valorizzare questa messe documentaria: o con un libro pienamente narrativo e avvincente, alla Corrado Stajano, in grado di catapultarci nel clima plumbeo dell’epoca; oppure con un saggio storiografico in senso stretto, forse più arido ma anche più scrupoloso. Greppi ha scelto una via di mezzo, sfornando un lavoro né carne né pesce. Un intarsio aggrovigliato di storie, delle quali il lettore fatica a seguire il bandolo. Peccato, perché la carne da mettere sul fuoco era molta.
Federico La Sala ha scritto:
http://www.ildialogo.org/filosofia/documenti_1339674321.htm
Càrite viene rapita da una cricca di banditi (la Chiesa), ma il mito viene ascoltato dall’uomo-asino (noi) nella caverna dei banditi. C’è un concorso di colpa; se l’uomo-asino avesse la volontà di riconoscere che non è tale, i banditi non potrebbero più rapire Càrite.
Antonio C.
Anche costui era con Gesù
di Fulvio Ferrario (“Riforma”, 15 giugno 2012)
Il pontefice romano è davvero il «successore di Pietro»? È una delle questioni più dibattute tra le chiese, anche se non sono sicuro che sia così interessante. Forse, però, potrebbe esserlo e, per spiegare in che senso, racconterò una storia (vera).
Nel corso di un viaggio a Berlino, ho visitato un cimitero nel quale sono sepolti, tra gli altri, i filosofi Fichte ed Hegel, Bertolt Brecht ed Helène Weigel e dove si trova un monumento in memoria di un teologo famoso e di alcuni suoi familiari, caduti nella lotta contro Hitler.
Proprio vicino a questo monumento, non segnalata in alcun modo, ho notato la tomba di Johannes Rau, già presidente della Repubblica federale tedesca, protestante convinto, predicatore laico della Chiesa evangelica della Renania. Mi ha molto emozionato il versetto biblico inciso sul cippo: «Anche costui era con Gesù di Nazareth».
Nel racconto evangelico della passione, come si sa, la frase è sulla bocca di una donna che vuole smascherare Pietro, denunciandolo come discepolo di Gesù. Pietro, da parte sua, vorrebbe negare, nascondersi, piantare in asso il Maestro arrestato. Gli evangeli ci parlano di Pietro come di uno che, nel momento decisivo, tradisce. Questa è la verità. La donna, tuttavia, dice anche un’altra verità, in fondo ancora più grande. La dice per accusare, ma non ha importanza. Decisivo è che, traditore o no, buono o cattivo, intelligente od ottuso, anche lui, Pietro, era con Gesù di Nazareth. E che cosa si potrebbe dire di più importante sulla vita di una donna o di un uomo?
In questo senso, credo che la questione della successione di Pietro sia importante. Naturalmente faccende come il potere del papa, il primato, o addirittura l’infallibilità, hanno poco o nulla a che vedere con ciò che conta, e cioè con questo: successore di Pietro è colui o colei che, magari senza particolare coraggio, magari fallendo ingloriosamente nel momento decisivo, era, comunque, con Gesù. Successori di Pietro sono tutti i cristiani e le cristiane che, tra mille contraddizioni e debolezze, sperano che un giorno si possa dire: anche costui, anche costei, era con Gesù di Nazareth
(Rubrica «In cammino verso l’unità della chiesa» della trasmissione di Radiouno «Culto evangelico» curata dalla Fcei, andata in onda domenica 10 giugno).
«La gerarchia italiana fa fatica ad abituarsi all’internazionalizzazione della Chiesa»
intervista a Manlio Graziano*,
a cura di Isabelle de Gaulmyn
in “La Croix” del 13 giugno 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Questi scandali mostrano gli stretti legami che uniscono ancora il Vaticano agli affari italiani. Come spiegare questo legame?
Innanzitutto con la storia. La Chiesa cattolica ha esercitato per un millennio il suo potere temporale
su una grande parte del territorio della penisola e, anche al di fuori dello Stato pontificio, il clero è
stato per moltissimo tempo il più importante proprietario fondiario (del resto, non solo in Italia).
Tale posizione ha necessariamente lasciato delle tracce, ma in Italia più che altrove, perché, fin dalla
sua nascita, lo Stato italiano ha sempre tenuto in considerazione gli interessi della Chiesa. Nella
memoria dei responsabili politici italiani, infatti, la mobilitazione organizzata dalla Chiesa, che
aveva provocato la caduta della Repubblica napoletana del 1799, è rimasta un ricordo indelebile.
Al momento della presa di Roma, la prima decisione del governo italiano è quindi stata di esentare
l’antico Stato pontificio, per un periodo di due anni, dall’applicazione delle leggi di soppressione dei
benefici ecclesiastici, e la seconda di votare delle leggi di garanzia (le guarentigie) a favore della
persona e dei beni del papa e del Vaticano.
Durante la sospensione delle leggi dette “anticlericali” a
Roma, fu il clero stesso che alienò gran parte delle sue proprietà fondiarie e fece nascere un grande
impero finanziario (che in Italia viene chiamato “le banche cattoliche”), che da allora è uno dei
protagonisti, di cui non si può non tener conto, della vita economica (e quindi politica) del paese.
Ma non tutte le proprietà in mano al clero sono state alienate o espropriate in seguito. Secondo
diverse fonti, la Chiesa conserverebbe oggi ancora un controllo diretto o indiretto sul 20-25% del
patrimonio immobiliare italiana, e gli accordi del Laterano del 1929 lo autorizzavano a non pagare
imposte su tali proprietà.
Gli italiani della Santa Sede conservano uno stretto legame con quanto succede nella Chiesa italiana?
Per rispondere a questa domanda, bisogna fare una distinzione tra i cittadini della Repubblica italiana che lavorano per una delle istituzioni della Città del Vaticano, e i vescovi e i cardinali italiani che lavorano nel governo centrale della Chiesa universale. Questi ultimi mantengono certo un legame molto forte con la Chiesa della penisola, e molti di loro fanno ancora fatica ad abituarsi all’internazionalizzazione della Chiesa di Roma. È comunque certo che l’Italia resta il pilastro su cui si basa la Chiesa universale. Questo autorizza una parte della gerarchia di origine italiana a mantenere una certa ambiguità, arrivando a volte perfino a pensare che il governo della Chiesa universale le spetti di diritto. Ora, dal 1978, la direzione centrale della Chiesa è affidata ad un nonitaliano, e oggi sappiamo che una delle ragioni dell’elezione di Karol Wojtyla fu proprio la volontà di sottrarre la Chiesa universale ai conflitti che dividevano i cardinali italiani.
Quali sono le poste in gioco, per la Chiesa italiana, di questa prossimità col Vaticano?
Come ho appena detto, la Chiesa italiana, in generale, si sovrastima. La vicinanza ai sacri palazzi, il suo ruolo storicamente decisivo, l’obiettiva importanza della penisola come “laboratorio” nel quale le scelte del papa e della gerarchia sono sperimentate, e il fatto di rappresentare un “polmone” per l’amministrazione e per il governo della Santa Sede: tutto questo dà ai responsabili della Chiesa italiana la sensazione di potersi in qualche modo “sottrarre” alle regole di funzionamento che sono imposte a tutte le altre Chiese nazionali in nome della centralizzazione della Chiesa universale.
* insegnante di geopolitica e di geopolitica delle religioni alla Sorbona Parigi IV e all’American Graduate School di Parigi, autore di Identité catholique et identité italienne. L’Italie laboratoire de l’Église (Parigi, 2007) et Il secolo cattolico. La strategia geopolitica della Chiesa (Roma, 2010)
Benedetto XVI parla di “menzogna sotto veste di informazione”, e pensa a cambiamenti tra i suoi collaboratori più stretti. In tempi brevi
Vatileaks, l’ira del Papa contro la stampa e la Curia
di Marco Ansaldo (la Repubblica, 12.6.12
CITTÀ DEL VATICANO - Un Papa arrabbiato: con la stampa, ma anche con alcuni dei suoi collaboratori, e soprattutto con la situazione creatasi in Vaticano per la vicenda delle lettere interne diffuse sui media. «È nero dall’ira», lo descrivono all’interno con qualche timore. E così, venuta la sera, il Pontefice si scatena quando a Roma parla nella Basilica di San Giovanni in Laterano: «No a un tipo di cultura dove non conta la verità, dove conta solo la sensazione, lo spirito di calunnia e di distruzione», e «dove la menzogna si presenta nella veste della verità e dell’informazione».
Sceglie bene le parole Joseph Ratzinger. E le scandisce forte, quando lancia all’esterno il suo attacco per le rivelazioni sui giornali. Parla, è chiaro, pur senza nominarlo, del caso Vatileaks. «Lascio a ognuno di voi riflettere sulla pompa del Diavolo e su questa cultura a cui diciamo no, per emanciparci e liberarci». Si sofferma sull’espressione inusuale, sull’origine del termine «pompa del diavolo». E spiega che l’immagine è rivolta al passato, a «grandi spettacoli cruenti» in cui il diavolo si presentava «con apparente bellezza» ma «con tutta sua crudeltà». E’ più duro Benedetto XVI rispetto al mattino quando, con un discorso alla Pontificia accademia ecclesiastica aveva parlato con gratitudine della «lealtà che si vive nella Chiesa e nella Santa Sede», lealtà che non è mai «cieca». Riferimenti, questi riguardanti i collaboratori e la loro fedeltà, al suo braccio destro, il cardinale Tarcisio Bertone, accusato di guidare con un’eccessiva disinvoltura la Segreteria di Stato, e al suo segretario particolare, monsignor Georg Gaenswein.
All’esterno Ratzinger li difende a spada tratta. Ma poi c’è il fronte interno. E qui il Papa appare determinato, in pochi giorni, a cambiare qualche assetto. È così concentrato, Benedetto, che sembra voler fare questa volta tutto da sé, senza parlarne nemmeno con padre Georg. L’altro giorno, poi, il Pontefice ha avuto parole piuttosto ferme con altri collaboratori, che sul fronte della stampa hanno permesso dichiarazioni e interviste sui problemi interni allo Ior, rivelatesi al dunque dei boomerang. Ma è molto preoccupato, Ratzinger, sull’attività della Segreteria di Stato. Il braccio operativo della Santa Sede appare troppo preso dal caso Vatileaks. «Ad esempio - si spiega - c’è stata una strage orribile in Nigeria, con i cristiani letteralmente massacrati. E non si fa niente, al di là delle dichiarazioni ufficiali di dolore».
Sul fronte delle indagini, ieri il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, ha detto che Paolo Gabriele, il maggiordomo del Papa per ora unico arrestato, non è un «capro espiatorio». E ha commentato come «non piacevole» il parere psichiatrico stilato da un medico su Ettore Gotti Tedeschi, presidente sfiduciato dal board della banca vaticana, come rivelato da Il Fatto.
I corvi, il papa e la posta in gioco
di Aldo Maria Valli (Europa, 9 giugno 2012)
A questo punto occorre pur dirlo. La vicenda dei corvi è anche la forma espressiva, sotto molti aspetti sciagurata ma efficace, trovata dalle tensioni interne in Vaticano in vista del nuovo conclave. Senza voler mancare di rispetto al papa regnante, sul piano storico non si può ignorare che siamo entrati nella fase fibrillatoria che contraddistingue la fine dei pontificati, quando le forze in campo si muovono per guadagnare le posizioni migliori e raggiungere equilibri e accordi da far contare nel momento della scelta del nuovo papa.
La posta in gioco è il papato che sarà, e il terreno di scontro è la politica attuata da Ratzinger, specie per quanto riguarda la sua lettura del Concilio Vaticano II. In modo felpato, com’è nel suo stile, ma anche molto chiaro nei contenuti, Benedetto XVI ha di fatto riletto il Concilio in senso anti-innovativo. Basandosi sull’idea, incontestabile, che la Chiesa non ha né può avere una carta costituzionale, perché la sua sola “costituzione” è la sacra scrittura, Ratzinger ha però depotenziato l’eredità conciliare per quanto riguarda almeno quattro contenuti fondamentali del Concilio stesso: la collegialità, la liturgia, l’ecclesiologia, l’ecumenismo.
Circa la collegialità, la prassi dei sinodi fa capire di che tipo sia lo svuotamento attuato. Il sinodo, creatura conciliare, nasce per dare voce al confronto fra i vescovi e per far giungere le loro istanze al papa, ma oggi questa è una finzione, perché al posto di un confronto aperto c’è solo un accostamento di voci sotto il controllo del potere centrale della curia, senza un autentico dibattito e senza la possibilità, per ogni vescovo, di interloquire con il papa e di avere da lui qualche risposta concreta.
Quanto alla liturgia, le simpatie di Benedetto XVI per il rito antico sono note, e da queste derivano le sue scelte. Il concilio, su questo piano, non è mai stato apertamente criticato, ma con l’andare del pontificato sono state ripristinate forme liturgiche decisamente preconciliari e la preoccupazione di Ratzinger per il recupero dei lefebvriani, con tutte le energie spese in proposito, è di per sé eloquente.
Sul piano dell’ecclesiologia, abbiamo un rinnovato centralismo, con il papa e la curia romana in posizione di preminenza, i vescovi nel ruolo di meri esecutori, senza possibilità di vero confronto, e i laici totalmente subordinati, chiamati in causa in funzione di supplenza e solo se del tutto in linea con le indicazioni centrali. La nozione di Chiesa come “popolo di Dio” sembra lontana, persa nelle nebbie di un clericalismo di ritorno.
Infine l’ecumenismo. Anche in questo caso, nessuna sconfessione aperta del concilio, ma se poi si vanno a vedere i comportamenti concreti si nota la regressione. Significativa la giornata di Assisi di un anno fa, dove la preoccupazione di evitare il sincretismo ha svuotato l’incontro di contenuto ecumenico per farlo diventare un pellegrinaggio fatto in comune ma senza reali segni di fraternità, e dove si è preferito accentuare il ruolo dei non credenti, trasportando così il confronto dal piano della preghiera a quello del confronto culturale.
Stando così le cose, mentre la Chiesa (per ammissione dello stesso Benedetto XVI) sta vivendo una pagina “drammatica”, segnata anche dalla disubbidienza di alcuni preti europei che, non trovando altre forme per manifestare le proprie richieste e il proprio disagio, hanno deciso di dire no al magistero su questioni come il celibato, la consacrazione ministeriale delle donne e il divieto di comunione per i divorziati risposati, dentro le sacre mura si confrontano e si scontrano le fazioni: continuare su questa strada che è di sostanziale ridimensionamento dell’eredità conciliare oppure aprire una pagina diversa, all’insegna del confronto tra i punti fermi del concilio, che devono restare tali, e le nuove realtà? Il fatto che il confronto sia emerso secondo le modalità che abbiamo sotto gli occhi, attraverso fughe di documenti, è di per sé significativo.
Quella che vediamo non è soltanto la crisi di questo papato. E una crisi del papato in quanto forma istituzionale. La concentrazione di potere, senza eguali, nelle mani di uno solo, l’influenza inevitabile che il ruolo di capo di stato ha su quello di capo spirituale e la mancanza di veri luoghi di dibattito all’interno della curia stanno determinando una situazione che, specialmente nel confronto con la società della comunicazione, si è fatta insostenibile. Un modello che ha retto per secoli sta mostrando ora crepe sempre più evidenti.
Ma fino a quando la Chiesa, nella sua espressione gerarchica, potrà fingere di non accorgersene? Fino a quando la linea della segretezza potrà essere privilegiata rispetto a quella della trasparenza e la forma dell’assolutismo (che alimenta inevitabilmente manovre oscure e maldicenze) rispetto a un confronto aperto, magari anche duro ma istituzionalizzato? Fino a quando la paura dovrà prevalere sulla fiducia? Questa è la posta in gioco. Questi i veri problemi che i corvi e le conseguenti battaglie fra guardie e ladri hanno portato alla luce.
Queste le vere tensioni che stanno sotto e dietro i fatti di cronaca. Se nella Chiesa cattolica ci fosse un’opinione pubblica sarebbero motivo di dibattito. Ma nella Chiesa una vera opinione pubblica non c’è, perché chi cerca di alimentarla viene costantemente mortificato ed emarginato. Ed anche su questo aspetto, a cinquant’anni dal concilio, bisognerebbe riflettere.
OMELIA DEL CORPUS DOMINI
«Eucaristia cuore pulsante della nostra vita»
di Benedetto XVI *
Cari fratelli e sorelle!
Questa sera vorrei meditare con voi su due aspetti, tra loro connessi, del Mistero eucaristico: il culto dell’Eucaristia e la sua sacralità. E’ importante riprenderli in considerazione per preservarli da visioni non complete del Mistero stesso, come quelle che si sono riscontrate nel recente passato.
Anzitutto, una riflessione sul valore del culto eucaristico, in particolare dell’adorazione del Santissimo Sacramento. E’ l’esperienza che anche questa sera noi vivremo dopo la Messa, prima della processione, durante il suo svolgimento e al suo termine. Una interpretazione unilaterale del Concilio Vaticano II ha penalizzato questa dimensione, restringendo in pratica l’Eucaristia al momento celebrativo. In effetti, è stato molto importante riconoscere la centralità della celebrazione, in cui il Signore convoca il suo popolo, lo raduna intorno alla duplice mensa della Parola e del Pane di vita, lo nutre e lo unisce a Sé nell’offerta del Sacrificio. Questa valorizzazione dell’assemblea liturgica, in cui il Signore opera e realizza il suo mistero di comunione, rimane naturalmente valida, ma essa va ricollocata nel giusto equilibrio. In effetti - come spesso avviene - per sottolineare un aspetto si finisce per sacrificarne un altro. In questo caso, l’accentuazione posta sulla celebrazione dell’Eucaristia è andata a scapito dell’adorazione, come atto di fede e di preghiera rivolto al Signore Gesù, realmente presente nel Sacramento dell’altare. Questo sbilanciamento ha avuto ripercussioni anche sulla vita spirituale dei fedeli. Infatti, concentrando tutto il rapporto con Gesù Eucaristia nel solo momento della Santa Messa, si rischia di svuotare della sua presenza il resto del tempo e dello spazio esistenziali. E così si percepisce meno il senso della presenza costante di Gesù in mezzo a noi e con noi, una presenza concreta, vicina, tra le nostre case, come «Cuore pulsante» della città, del paese, del territorio con le sue varie espressioni e attività. Il Sacramento della Carità di Cristo deve permeare tutta la vita quotidiana.
In realtà, è sbagliato contrapporre la celebrazione e l’adorazione, come se fossero in concorrenza l’una con l’altra. E’ proprio il contrario: il culto del Santissimo Sacramento costituisce come l’«ambiente» spirituale entro il quale la comunità può celebrare bene e in verità l’Eucaristia. Solo se è preceduta, accompagnata e seguita da questo atteggiamento interiore di fede e di adorazione, l’azione liturgica può esprimere il suo pieno significato e valore. L’incontro con Gesù nella Santa Messa si attua veramente e pienamente quando la comunità è in grado di riconoscere che Egli, nel Sacramento, abita la sua casa, ci attende, ci invita alla sua mensa, e poi, dopo che l’assemblea si è sciolta, rimane con noi, con la sua presenza discreta e silenziosa, e ci accompagna con la sua intercessione, continuando a raccogliere i nostri sacrifici spirituali e ad offrirli al Padre.
A questo proposito, mi piace sottolineare l’esperienza che vivremo anche stasera insieme. Nel momento dell’adorazione, noi siamo tutti sullo stesso piano, in ginocchio davanti al Sacramento dell’Amore. Il sacerdozio comune e quello ministeriale si trovano accomunati nel culto eucaristico. E’ un’esperienza molto bella e significativa, che abbiamo vissuto diverse volte nella Basilica di San Pietro, e anche nelle indimenticabili veglie con i giovani - ricordo ad esempio quelle di Colonia, Londra, Zagabria, Madrid.
E’ evidente a tutti che questi momenti di veglia eucaristica preparano la celebrazione della Santa Messa, preparano i cuori all’incontro, così che questo risulta anche più fruttuoso. Stare tutti in silenzio prolungato davanti al Signore presente nel suo Sacramento, è una delle esperienze più autentiche del nostro essere Chiesa, che si accompagna in modo complementare con quella di celebrare l’Eucaristia, ascoltando la Parola di Dio, cantando, accostandosi insieme alla mensa del Pane di vita. Comunione e contemplazione non si possono separare, vanno insieme. Per comunicare veramente con un’altra persona devo conoscerla, saper stare in silenzio vicino a lei, ascoltarla, guardarla con amore. Il vero amore e la vera amicizia vivono sempre di questa reciprocità di sguardi, di silenzi intensi, eloquenti, pieni di rispetto e di venerazione, così che l’incontro sia vissuto profondamente, in modo personale e non superficiale. E purtroppo, se manca questa dimensione, anche la stessa comunione sacramentale può diventare, da parte nostra, un gesto superficiale. Invece, nella vera comunione, preparata dal colloquio della preghiera e della vita, noi possiamo dire al Signore parole di confidenza, come quelle risuonate poco fa nel Salmo responsoriale: «Io sono tuo servo, figlio della tua schiava: / tu hai spezzato le mie catene. / A te offrirò un sacrificio di ringraziamento / e invocherò il nome del Signore» (Sal 115,16-17).
Ora vorrei passare brevemente al secondo aspetto: la sacralità dell’Eucaristia. Anche qui abbiamo risentito nel passato recente di un certo fraintendimento del messaggio autentico della Sacra Scrittura. La novità cristiana riguardo al culto è stata influenzata da una certa mentalità secolaristica degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. E’ vero, e rimane sempre valido, che il centro del culto ormai non sta più nei riti e nei sacrifici antichi, ma in Cristo stesso, nella sua persona, nella sua vita, nel suo mistero pasquale. E tuttavia da questa novità fondamentale non si deve concludere che il sacro non esista più, ma che esso ha trovato il suo compimento in Gesù Cristo, Amore divino incarnato.
La Lettera agli Ebrei, che abbiamo ascoltato questa sera nella seconda Lettura, ci parla proprio della novità del sacerdozio di Cristo, «sommo sacerdote dei beni futuri» (Eb 9,11), ma non dice che il sacerdozio sia finito. Cristo «è mediatore di un’alleanza nuova» (Eb 9,15), stabilita nel suo sangue, che purifica «la nostra coscienza dalle opere di morte» (Eb 9,14). Egli non ha abolito il sacro, ma lo ha portato a compimento, inaugurando un nuovo culto, che è sì pienamente spirituale, ma che tuttavia, finché siamo in cammino nel tempo, si serve ancora di segni e di riti, che verranno meno solo alla fine, nella Gerusalemme celeste, dove non ci sarà più alcun tempio (cfr Ap 21,22). Grazie a Cristo, la sacralità è più vera, più intensa, e, come avviene per i comandamenti, anche più esigente! Non basta l’osservanza rituale, ma si richiede la purificazione del cuore e il coinvolgimento della vita.
Mi piace anche sottolineare che il sacro ha una funzione educativa, e la sua scomparsa inevitabilmente impoverisce la cultura, in particolare la formazione delle nuove generazioni. Se, per esempio, in nome di una fede secolarizzata e non più bisognosa di segni sacri, venisse abolita questa processione cittadina del Corpus Domini, il profilo spirituale di Roma risulterebbe «appiattito», e la nostra coscienza personale e comunitaria ne resterebbe indebolita. Oppure pensiamo a una mamma e a un papà che, in nome di una fede desacralizzata, privassero i loro figli di ogni ritualità religiosa: in realtà finirebbero per lasciare campo libero ai tanti surrogati presenti nella società dei consumi, ad altri riti e altri segni, che più facilmente potrebbero diventare idoli. Dio, nostro Padre, non ha fatto così con l’umanità: ha mandato il suo Figlio nel mondo non per abolire, ma per dare il compimento anche al sacro. Al culmine di questa missione, nell’Ultima Cena, Gesù istituì il Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue, il Memoriale del suo Sacrificio pasquale. Così facendo Egli pose se stesso al posto dei sacrifici antichi, ma lo fece all’interno di un rito, che comandò agli Apostoli di perpetuare, quale segno supremo del vero Sacro, che è Lui stesso. Con questa fede, cari fratelli e sorelle, noi celebriamo oggi e ogni giorno il Mistero eucaristico e lo adoriamo quale centro della nostra vita e cuore del mondo. Amen.
L’Anpi: no al presidenzialismo, difendiamo la Carta
di Alessandro Rubenni (l’Unità, 08.06.2012)
«La chiamiamo festa, ma è una iniziativa politica. E per farla abbiamo scelto un luogo che parla da sé, con un concentrato simbolico fortissimo», annuncia il presidente nazionale dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia, Carlo Smuraglia. E di incontri e forum di carattere politico è ricco il programma della terza festa nazionale dell’Anpi, che quest’anno si svolgerà a Marzabotto dal 14 al 17 giugno. In quella terra di memoria dove in una settimana, nel ‘44, furono uccisi più di 700 civili, e dove da giovedì prossimo si attendono migliaia di persone, soprattutto tanti giovani, chiamati a raccolta intorno ai valori dell’antifascismo, della Costituzione e della democrazia.
«La memoria batte nel cuore del futuro» è infatti il titolo scelto come manifesto della festa, e non solo di questa. «Rafforzare la memoria insististe Carlo Smuraglia, che ieri a Roma ha presentato l’appuntamento insieme al sindaco di Marzabotto è un processo di grande attualità. La storia ci ha dimostrato come nelle fasi di crisi il distacco dalla politica possa sfociare nell’autoritarismo. Nei primi del Novecento fu la crisi economica e sociale a portare alle grandi dittature. E quello che sta succedendo oggi in Slovacchia, così come i rigurgiti neonazisti in Grecia, sono un campanello d’allarme».
Un tema, questo, che sarà al centro dell’appuntamento di Marzabotto con le iniziative organizzate per lanciare quella che l’Anpi vuole che diventi una grande campagna politica e culturale di contrasto ai rigurgiti di fascismo che si stanno manifestando anche nel nostro Paese. Questo insieme a una nuova riflessione su legalità e lotta alla mafia, affiancata alla richiesta di verità e giustizia per le vittime delle stragi nazifasciste in Italia. Con gli occhi puntati sull’udienza preliminare che si terrà il prossimo 15 giugno presso il tribunale militare di Roma per la strage di Cefalonia. Ben oltre 60 anni dopo.
«Migliaia di vittime ripete il presidente dell’Anpi non hanno ancora ottenuto giustizia, i procedimenti giudiziari sono stati bloccati dall’occultamento di documenti. Naturalmente è difficile pensare ormai che i risarcimenti possano essere individuali, ma noi continuiamo a chiediere giustizia e vorremmo che fossero utilizzati per progetti utili alla comunità, per corsi di formazione».
Ma la prossima quattro giorni (il programma è consultabile su www. festa.anpi.it) sarà anche l’occasione per parlare dei temi più attuali di politica interna. «Ultimamente in Parlamento c’è chi vuole il presidenzialismo e lo vuole far passare senza che nel Paese se ne parli o ci sia una vera discussione. A parte il fatto che in questo modo si sconvolgerebbe il nostro sistema, senza sapere bene come modificare i contrappesi costituzionali, ho l’impressione che più che altro questo sia un modo per non occuparsi della riforma elettorale. Noi non sentiamo l’esigenza del presidenzialismo, difendiamo l’architettura costruita attraverso la nostra Costituzione. Piuttosto occorre lavorare per cambiare il Porcellum», rilancia Smuraglia, che poi torna sulla data del 2 giugno e le polemiche annesse: «Parlamentari del Pdl propongono di accorpare la festività a quella del 25 aprile, ma è dimostrato come sia un luogo comune, usato in modo strumentale, dire che questo sarebbe utile all’economia. Mentre si tratta di festività sempre più sentite dalla gente».
Il sindaco di Marzabotto Romano Franchi, intanto, si prepara ad accogliere, dentro la festa, anche un incontro con diversi sindaci dei centri terremotati dell’Emilia.