[...] che triste delusione, per chi crede in Gesù il Cristo o, semplicemente, ritiene che il messaggio cristiano sia comunque un fermento spirituale prezioso da preservare, il vedere la Chiesa di Cristo ridotta al tavolo d’una partita, tentata di usare la discordia politica tra i cittadini e i suoi rappresentanti, come se fosse arma lecita delle sue battaglie [...]
Il "non possumus" dello Stato
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica/Diario, 09.02.2007)
L’EDITORIALE di Avvenire di martedì scorso ha il tono di una "nota diplomatica", contenente un memorandum e un ultimatum, il tono cioè di atti di natura ufficiale, nei rapporti tra Stato e Stato e, come tale, deve essere valutato parola per parola, tanto più in quanto la diplomazia vaticana è di solito maestra di cautela e sottigliezze.
L’oggetto è la legge prossima ventura (?) sui diritti e i doveri delle coppie di fatto, una legge che, secondo il quotidiano dei vescovi italiani, realizzerebbe, «sia pure in forma insolita e indiretta, un modello alternativo e spurio di famiglia» che indebolirebbe e mortificherebbe l’istituto coniugale e familiare «nella sua unità irripetibile», un effetto «sgradevole» (!) che sarebbe dimostrato «in modo incontrovertibile» dall’esperienza di altri Paesi. Ciò andrebbe contro il favor per la famiglia fondata sul matrimonio, riconosciuto dalla Costituzione repubblicana, e contro una tradizione culturale e giuridica bimillenaria. Fin qui la critica, discutibile e discussa come tutte le opinioni, ma certo perfettamente legittima. A questo memorandum, segue l’ ultimatum.
«Per questi motivi - si legge - se il testo che in queste ore circola come indiscrezione fosse sostanzialmente confermato, noi per lealtà dobbiamo fin d’ora dire il nostro non possumus. Che non è in alcun modo un gesto di arroganza, piuttosto è consapevolezza di ciò che dobbiamo - per servizio di amore - al nostro Paese» e «indicazione franca e disarmata di uno spartiacque che inevitabilmente peserà sul futuro della politica italiana». Lasciamo da parte la retorica: ci mancherebbe altro che si rivendicasse il diritto a un gesto d’arroganza o a un atto di disprezzo verso "il nostro Paese". Vediamo invece le tre espressioni-chiave, quelle sopra indicate in corsivo.
Nella sua storia, la Chiesa ha pronunciato diversi non possumus, nei confronti delle pretese delle autorità politiche. Il che è del tutto naturale (anzi, forse ne ha pronunciati non pochi di meno di quanti ci si sarebbe potuto attendere in nome del Vangelo).
Si incomincia con Pietro e Paolo (Atti 4, 20) che, diffidati dal Sinedrio di non parlare né insegnare in nome di Gesù, risposero: « Non possumus non parlare di ciò che vedemmo e udimmo». Si dice poi che nel nonpossumus si siano trincerati Clemente VII, il papa che negò il divorzio di Enrico VIII da Caterina d’Aragona; Pio IX che si oppose al ritorno a casa di un bimbo ebreo, nel famoso e crudele "caso Mortara"; ancora Pio IX che rifiutò di partecipare alla coalizione anti-austriaca al tempo del Risorgimento e non accolse l’ipotesi di un’occupazione pacifica di Roma da parte dei piemontesi; il cardinale Antonelli, che escluse il riconoscimento papale di Roma capitale d’Italia. Tutto questo è chiaro e riguarda comportamenti, comunque li si voglia valutare storicamente, che rientrano nei loro compiti e nelle responsabilità degli uomini di Chiesa. Ma che cos’è che "non possono" i vescovi italiani, nella circostanza odierna? La risposta la danno loro stessi. Non si tratta solo del diritto al dissenso circa una legge dello Stato, diritto che nessuno contesta. Si tratta di una cosa molto diversa: non possono non prospettare uno spartiacque, che inevitabilmente peserà sul futuro della politica italiana.
Bisogna meditare su questa affermazione. Non è una "indicazione" che riguarda i rapporti tra la Chiesa e lo Stato italiano. Se così fosse, si tratterebbe di una questione, per così dire, di politica estera, tra due soggetti sovrani, che pur si riconoscono come tali. Si sarebbe potuto discutere se ciò costituisse una corretta concezione degli "ambiti" rispettivi che l’art. 7 della Costituzione riconosce a ciascuno di loro («Lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ambito...»). Poiché, in materia concordataria, manca per definizione, un terzo super partes, in caso di conflitto ognuno dei due soggetti finisce per essere arbitro dell’ampiezza della propria sfera d’azione. La discussione, su questo punto, sarebbe senza costrutto.
Ma qui la "indicazione" dei vescovi è del tutto diversa: la Chiesa, attraverso un suo organo ufficiale - non un gruppo di cittadini o deputati cattolici, nella loro autonomia, ciò che farebbe una differenza essenziale - parla del futuro della politica italiana, parla cioè della vita interna dello Stato e delle «inevitabili conseguenze» su di essa. Così, viene, altrettanto inevitabilmente, messo in discussione l’altro caposaldo dell’art. 7, quel riconoscimento di reciproca «indipendenza e sovranità» dello Stato e della Chiesa, da cui discende l’esclusione di ogni ingerenza interna reciproca, esclusione che è conditio sine qua non del regime concordatario. Direi che mai, come in questo caso, nella storia recente, i basamenti del concordato hanno traballato. Non ci si è resi conto dell’implicazione? Se si vuole il concordato, occorre rispettare e difendere le condizioni materiali che lo rendono possibile.
Spesso, per comprendere i caratteri di una situazione, non c’è nulla di meglio che provare a rovesciarne i termini. Allora, che cosa si direbbe se fosse lo Stato che, per assurdo, dicesse: se la Chiesa non assume un tale o un talaltro atteggiamento, ciò rappresenterà uno spartiacque e peserà sul futuro (non dei rapporti reciproci, ma addirittura) dei rapporti interni alla Chiesa, tra le sue diverse componenti, facendo eventualmente intravedere interventi per favorire o contrastare questa o quella posizione che fedeli o sacerdoti potessero prendere, a seconda del gradimento riscosso.
Si dirà: ma qui l’ Avvenire si limita a una semplice, innocente "indicazione" preventiva. Già, ma viene data per lealtà. Che significa questa apparentemente innocua aggiunta? Non altro, mi pare, che un avvertimento: non ci si venga poi a lamentare che non ve l’avevamo detto; state in guardia per quel potrà accadere. La lealtà dell’annuncio significa preannuncio di conseguenze perturbatrici del quadro parlamentare, in definitiva della libertà di esercizio del mandato parlamentare e della libera dialettica democratica. Ci sono questioni sulle quali anche da parte dello Stato democratico dovrebbero essere detti dei non possumus. Ci sono principi irrinunciabili di laicità e democraticità delle istituzioni che sono non negoziabili. Ci sono casi su cui sarebbe bene che i soggetti che le rappresentano facessero sentire una voce rassicurante per tutti, pacata e ferma. Questo è uno di quelli. Con ogni garbo, naturalmente, e con tutta la diplomazia necessaria, ma questo è uno di quelli.
Ieri abbiamo appreso di una reazione di eletti dal popolo, ascrivibili alla schiera dei cattolici democratici, di cattolici adulti che, senza disconoscere la loro appartenenza alla Chiesa e il loro attaccamento ai principi spirituali cristiani, ristabiliscono le distinzioni, rivendicano la loro autonomia nell’esercizio delle loro funzioni costituzionali e respingono richiami all’ordine fin nel dettaglio di scelte legislative, in definitiva lesivi delle responsabilità dei cristiani nelle cose temporali. Finalmente. Anche per loro, la partita in corso è decisiva ed è precisamente quella che riguarda la difesa della loro dignità di soggetti, non di oggetti, come si dice, in re: quella dignità che il Concilio Vaticano II ha riconosciuto loro.
Si è detto che, nella vicenda in corso, la Chiesa italiana, attraverso la Conferenza episcopale, gioca il tutto per tutto, in una partita dall’esito incerto. Noi non sappiamo se la presa di posizione dell’Avvenire sarà eventualmente seguita da atti conseguenti. Può essere sì o no. Gli esperti di cose vaticane sono concordi nel riconoscere agli uomini della Cei capacità tattiche, se non strategiche. Può darsi che la prudenza induca a ripensamenti, a lasciare che le cose si stemperino nel tempo. Ma che triste delusione, per chi crede in Gesù il Cristo o, semplicemente, ritiene che il messaggio cristiano sia comunque un fermento spirituale prezioso da preservare, il vedere la Chiesa di Cristo ridotta al tavolo d’una partita, tentata di usare la discordia politica tra i cittadini e i suoi rappresentanti, come se fosse arma lecita delle sue battaglie.
Sul tema. nel sito, cfr.:
IL SOGNO DI UNA "COSA" DI BENEDETTO XVI: UNA CHIESA "PER MOLTI", NON "PER TUTTI".
Contro il gregge ribelle il pugno di ferro del pastore
Sui temi della famiglia la chiesa sferra un attacco all’autonomia concordataria dello stato e ai suoi caratteri laici. Questa spinta si incontra con l’altra, proveniente dalla sfera politica, che mira alla iperregolamentazione della vita dei singoli individui Anticlericali al bando Indimostrato o smentito, impera tuttavia il dogma della religiosità popolare
di Marco Bascetta (il manifesto, 28.02.2007)
Vi sono parole, idee, tradizioni di pensiero che, in determinate stagioni, vengono universalmente bandite dalla politica, private di ogni legittimità e additate al pubblico disprezzo. Una di queste è oggi «anticlericalismo». Non vi è esponente politico, per quanto impegnato nel contrastare le crescenti ingerenze della chiesa nella vita politica e istituzionale del paese, che non si preoccupi, prima di tutto, di allontanare sdegnato da sé anche solo il più flebile sospetto di anticlericalismo. Di un atteggiamento, cioè, universalmente giudicato come ciarpame d’altri tempi, come ideologia rozza e ingenua, irrispettosa della sensibilità popolare, quando non compromessa con una certa corruzione morale borghese. Primi tra tutti, i partiti di massa della sinistra, che, sottolineando appunto questi ultimi due aspetti, hanno sempre tenuto a smentire la benché minima inclinazione anticlericale.
Una debole laicità
Il dogma della «religiosità popolare», del tutto indimostrato quando non smentito (per quel poco che valgono) dalle statistiche, torna a dominare - sospinto e ingigantito da una alluvione mediatica - la postmodernità. Più volte nel corso degli ultimi anni, politici e intellettuali della sinistra, nonché diverse organizzazioni ed esponenti del movimento altermondialista hanno accreditato esternazioni pontificie e prese di posizione ecclesiastiche come modello contemporaneo di buon anticapitalismo, non inquinato dalle pratiche brutali del secolo passato. Della laicità stessa si tende a parlare soprattutto come di una tutela della pluralità delle fedi. Come di un quadro formale destinato a svolgere una funzione di puro e semplice garantismo a favore della libertà di culto. Resta così sottointeso che il pensiero laico e le istituzioni che ne discendono non devono e non possono entrare in attrito con nessuna fede, né tenere al riparo alcuna sfera sostanziale dal tribunale dei valori religiosi, pena la caduta nel deprecato anticlericalismo.
Ma il rifiuto dell’anticlericalismo, così come la fascinazione per l’anticapitalismo curiale, occultano un elemento che, all’inizio del secolo passato e per tutto il diciannovesimo, era appartenuto al più diffuso senso comune. E cioè la banale constatazione che la democrazia e la chiesa non solo sono due cose diverse, ma sono sempre in contraddizione e sovente in conflitto. L’una essendo fondata sulla sovranità popolare, sulla volontà dei cittadini, l’altra su una organizzazione gerarchica, custode di una verità rivelata. L’una su un principio elettivo, l’altra su un principio pastorale. E mai si è visto un gregge chiamato a deliberare sulla propria condotta.
Contraddizioni occultate
Lo stesso principio di uguaglianza, che sembra accomunare cristianesimo e socialismo, è nell’un caso inscritto nel quadro patriarcale del potere pastorale, nel secondo, malauguratamente solo in teoria, in un progetto di autogoverno. Il che comporta, comunque sia, una certa differenza. Su questo conflitto tra chiesa e democrazia la letteratura filosofica e politica è talmente vasta da lasciare solo l’imbarazzo della scelta. Ciò che invece sorprende è la totale sparizione del tema dal dibattito attuale.Tuttavia, questa contraddizione è apertamente dichiarata da parte della chiesa, mentre viene ripetutamente occultata dal ceto politico italiano, che ossessivamente si trincera dietro la libertà di espressione dei vertici ecclesiastici, mai messa del resto in discussione da nessuno. Il problema non è infatti la libertà di espressione o la denuncia dell’«ingerenza» vaticana nella sfera politica, ma la necessità di riportare all’attenzione dell’opinione pubblica il discorso sui caratteri costitutivamente antidemocratici dell’ideologia e della pratica ecclesiastica. E questo è il punto dell’anticlericalismo, la sua ragione, la sua «attualità».
Ma vediamo più da vicino quale è la posizione della chiesa sulla democrazia. Quella più semplificata e netta, destinata al grande pubblico e alla propaganda. Alla voce «democrazia» il Dizionario di dottrina sociale della chiesa (2005) curato dal «pontificio consiglio della giustizia e della pace» propone la seguente suddivisione: «1) in senso generico significa la partecipazione dei cittadini nella gestione degli affari pubblici: la Chiesa ha sempre incoraggiato tale partecipazione. 2) Secondo un significato specifico, la democrazia è una delle tre forme di governo (monarchia, aristocrazia e democrazia) oggetto della filosofia politica classica: in questo ambito, la Chiesa rispetta la libertà di scelta dei cittadini, anche se attualmente considera la democrazia come il tipo di governo che più favorisce la partecipazione alla vita pubblica. 3) l’ideologia della sovranità popolare, che ripone nel popolo l’origine ultima dell’autorità: il Magistero ha fatto vedere l’errore di tale ideologia».
Da questa premessa si ricavano: una definizione estremamente limitata di democrazia, in termini di «partecipazione» (concetto affatto diverso da quello di autogoverno e pratica che potrebbe darsi, per esempio, anche nell’ambito di una organizzazione corporativa dello stato); una semplice preferenza contingente per la democrazia, che non esclude la possibile benedizione delle forme di governo monarchica o aristocratica; il rifiuto netto della sovranità popolare, nonché dell’autogoverno dei cittadini. Quest’ultimo è ovviamente il punto decisivo. «Per evitare questo errore - prosegue il Dizionario - la dottrina cristiana ricorda che la libertà e la democrazia devono sorreggersi sulla verità e sui valori umani indisponibili». Per concludere che «l’obbedienza alla verità integrale dell’uomo diviene, pertanto, imperativo morale per la cultura democratica del nostro tempo». E questa verità integrale, di cui la cattedra di Pietro è depositaria, sarebbe incompatibile con ogni «relativismo». Ce n’è abbastanza per sostenere che la chiesa non accetta il principio dell’autogoverno democratico, o almeno ne circoscrive la sfera così da lederne irrimediabilmente la sostanza. Non saremo certo noi a fare della volontà della maggioranza nella democrazia rappresentativa un articolo di fede, né a occultare le innumerevoli nefandezze compiute sotto questa copertura (fino alle guerre incaricate di esportarla). Tuttavia non è affatto la stessa cosa se i «valori umani indisponibili» vengono fatti risalire a una verità rivelata, trasmessa o imposta da una gerarchia istituzionalizzata, o all’esperienza della relazione tra i singoli e alla crescita collettiva di una coscienza sociale. La quale, più dei regimi teocratici antichi e moderni si è dimostrata impegnata nell’arginare i dispositivi della sopraffazione (per esempio «relativizzando» lo stesso principio maggioritario con la tutela delle minoranze). La chiesa, nella sua pretesa di limitare la facoltà legislativa degli organismi democratici, si è esplicitamente richiamata al «diritto naturale».
Il monopolio sulla ragione
Quest’ultimo può certo essere invocato per legittimare una data gerarchia di potere e un dato assetto sociale, ma è stato, fin dai tempi più remoti, anche la bandiera di tutte le rivoluzioni. Ponendosi alle spalle più che al di sopra del diritto positivo e del potere costituito il diritto naturale rappresenta la possibilità stessa di rimetterne in questione le norme. È la regola che passa al vaglio le regole, la fonte del «diritto di resistenza», più un principio di disobbedienza che un principio di obbedienza. E dal suo stesso interno, così come dal campo secolare, l’istituzione ecclesiastica stessa è stata ripetutamente accusata di calpestare proprio il diritto naturale, sovrapponendovi una verità artificiosa. Ma oggi il Vaticano invoca, non senza un certo azzardo, il «diritto naturale» nella sua versione critico-rivoluzionaria, come fonte di uno ius resistentiae contro l’arbitrio della scienza o il pluralismo democratico sospettato di volgere in «relativismo culturale». Di qui l’intransigenza di chi intenda mettersi alla testa di una rivoluzione: una rivoluzione antidemocratica.
Ogni rivoluzione ha sviluppato la sua interpretazione del diritto naturale. La chiesa ha la sua, con l’esclusione di tutte le altre. Si tratta, paradossalmente, di un «diritto naturale» di origine sovrannaturale (sebbene, secondo la tradizione tomista, la ragione sia sufficiente ad accedervi). Perché avventurarsi allora su un terreno così scivoloso? Perché non accontentarsi della nozione, meno insidiata dal «materialismo», di «verità rivelata», perché privilegiare il monopolio dottrinario sulla ragione, come fa l’attuale pontefice, rispetto al mistero della fede?
Il problema è politico. La chiesa ha, per così dire, bisogno di scendere nel dettaglio. Il diritto naturale di cui parla non si limita a un ristretto numero di principi universali, ma entra nell’articolazione delle regole sociali, punta sul ripristino di una autorità con una forte presa, non solo simbolica, sull’organizzazione sociale, sui comportamenti e sulle scelte individuali. Una autorità, e questo è il punto decisivo, che pretende di esercitarsi anche sui non credenti.
Il passaggio al diritto naturale serve appunto a setacciare l’attività legislativa delle istituzioni democratiche in questa chiave. Così quando si parla del matrimonio, la chiesa sottolinea il suo carattere «naturale» e «razionale» prima ancora che sacramentale. Ma questa naturalità si presenta già corredata dei suoi caratteri ideologici e normativi (l’indissolubilità, la fedeltà, la finalità procreativa). Tutti elementi dichiarati «indisponibili», pur trattandosi con tutta evidenza di un’opzione culturale tra altre. Diverse interpretazioni del diritto naturale possono invece (e ripetutamente lo hanno fatto, probabilmente con maggior realismo storico) imputare al diritto naturale il «libero amore», la promiscuità o la poligamia e invece al sacramento del matrimonio una funzione artificiosamente sovrapposta. Interpretazioni, rispetto alle quali lo «stato laico» è tutt’altro che neutrale, impegnato come è, nel cercare di dimostrare la sua comunanza di valori con la dottrina ecclesiastica, in un contesto in cui la presenza crescente di culture e religioni diverse e soprattutto le concrete scelte di vita dei cittadini rendono sempre più difficile questa consonanza. Siamo così di fronte a una sorta di guerra unilaterale. Nella quale da parte della chiesa viene sferrato un attacco senza esclusione di colpi contro l’autonomia concordataria dello stato, minacciando conseguenze, come ha dettagliatamente segnalato Gustavo Zagrebelsky, all’interno delle sue stesse istituzioni. Mentre dall’altra parte si balbettano scuse, negando la possibilità stessa di un attrito con la dottrina sociale della chiesa.
Fra controllo e autogoverno
Ma l’argomentazione concordataria e il richiamo all’articolo 7 della Costituzione, nella loro ottica essenzialmente giuridica e centrata sul rapporto tra poteri costituiti, lasciano in ombra il fatto decisivo. E cioè che l’offensiva ecclesiastica non si rivolge affatto contro l’autonomia e la sovranità dello stato laico, bensì contro i suoi caratteri democratici e soprattutto contro quel tanto di autogoverno dei cittadini che in essi riesce a svilupparsi. Quel che è grave agli occhi del Vaticano non è tanto che lo stato legiferi sui cosiddetti «valori indisponibili», ma che recepisca, o meglio sia costretto a recepire, ciò che già si è affermato nella vita della società: comportamenti, abitudini, scelte imposte dal basso (declino dei matrimoni e delle nascite, separazioni, convivenze di fatto, interruzioni di gravidanza). In buona sostanza la chiesa pretende, e trova orecchie disposte ad ascoltare, che lo stato si faccia carico, pur nelle sue forme laiche e parlamentari, di quello stesso principio pastorale e intrinsecamente antidemocratico che presiede all’azione ecclesiastica.
Allo stato si rimprovera, insomma, non di essere laico, ma di essere «permissivo». Questa spinta si incontra con una spinta analoga, proveniente dal mondo della politica, che una volta consumata la separazione tra liberismo economico e libertà individuali, muove verso una iperregolamentazione della vita dei singoli, in base al principio, pastorale appunto, che debbano essere difesi da se stessi e dai propri irresponsabili desideri, forieri di immoralità e di crescita del debito pubblico. E anche coloro che desiderano la regolamentazione delle coppie di fatto non dovrebbero perdere di vista questa insidia.
La partita che si gioca non è tra stato e chiesa, ma tra il controllo sulla vita e il suo autogoverno, tra le pratiche sociali diffuse e l’autorità, tra la libertà dei singoli e la trascendenza del potere. Ragione per cui non possiamo non dirci, al tempo stesso, anticlericali e antistatalisti.
L’APPELLO
"Nessun limite costituzionale nelle nuove norme sulla famiglia" *
ROMA - Nessun limite costituzionale nelle nuove norme sulla famiglia: 23 costituzionalisti hanno firmato un appello in merito ad alcune interpretazioni sul ddl appena varato dal consiglio dei ministri. Ecco il testo integrale della dichiarazione, con i firmatari.
Dichiarazione-appello sull’interpretazione dell’art. 29 della Costituzione.
"Senza entrare nel merito della discussione delle attuali proposte di riforma, volte a riconoscere o tutelare in diversa forma e misura unioni familiari di tipo diverso da quello tradizionale, ci preme però chiarire che è infondata l’affermazione secondo cui l’articolo 29, primo comma, della vigente Costituzione porrebbe dei limiti costituzionali al riconoscimento giuridico delle famiglie non tradizionali o non fondate sul matrimonio, come è ormai avvenuto in quasi tutti gli altri paesi dell’Europa occidentale.
L’articolo 29, primo comma, non impone affatto alla Repubblica di riconoscere come famiglia solo quella definita quale "società naturale fondata sul matrimonio". Impone invece alla Repubblica di riconoscere i suoi diritti, in quanto espressione dell’autonomia sociale. Testualmente: "la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio". Ad essa viene quindi garantita una sfera di autonomia rispetto al potere dello Stato. Per tale motivo sarebbe contraria alla Costituzione una legge ordinaria che mirasse a disconoscere i diritti di tali famiglie.
"Circoscrivere i poteri del futuro legislatore in ordine alla sua [della famiglia] regolamentazione": questa la funzione della disposizione secondo quanto ebbe a dichiarare Costantino Mortati nell’Assemblea costituente. "Non è una definizione, è una determinazione di limiti", ribadì nella stessa sede Aldo Moro.
Il Costituente del 1946-47 non poteva immaginare che nei decenni successivi sarebbe stata avanzata in Italia o altrove la richiesta del riconoscimento di famiglie di tipo diverso dal modello tradizionale, mentre vivo era invece il ricordo del tentativo fascista di monopolizzare l’educazione dei giovani, tentativo analogo a quello in corso proprio in quei mesi con l’instaurazione di regimi stalinisti in molti paesi dell’Europa centrale: e tale era appunto il pericolo che con la formulazione dell’articolo 29 si intendeva scongiurare.
Inoltre, secondo l’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la disciplina nazionale può modulare variamente le modalità di esercizio dei distinti diritti di sposarsi e di costituire una famiglia, ma non in forme tali che possano portare alla vanificazione dell’uno o dell’altro.
Il riconoscimento giuridico di altre tipologie di famiglia non comporterebbe alcun disconoscimento dei diritti delle famiglie fondate sul matrimonio e non potrebbe quindi violare il disposto dell’articolo 29, primo comma, della Costituzione. Il fatto che la Costituzione garantisca in modo particolare i diritti della famiglia fondata sul matrimonio non può in alcun modo avere come effetto il mancato riconoscimento dei diritti delle altre formazioni famigliari. A proposito delle quali vanno invece tenuti ben presenti il fondamentale divieto di discriminare sulla base, anche, di "condizioni personali", di cui all’articolo 3, primo comma, della Costituzione, e il dovere della Repubblica di riconoscere e garantire "i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità", di cui all’articolo 2, già richiamato in questa materia dalla giurisprudenza costituzionale.
Questo Appello, promosso dalla "Fondazione Critica liberale", è stato sottoscritto da:
Piero Bellini (Prof. emerito Univ. Roma "La Sapienza" - Accademico dei Lincei); Roberto Bin (Prof. Diritto Costituzionale - Univ. Ferrara); Giuditta Brunelli, (Prof. Istituzioni di Diritto pubblico - Univ. Ferrara); Massimo Carli (Prof. Diritto pubblico - Univ. Firenze); Paolo Cendon (Prof. Istituzioni di Diritto Privato - Univ. Trieste); Enzo Cheli (Prof. Diritto costituzionale - Univ. Firenze - Accademico dei Lincei); Giovanni Di Cosimo (Prof. Diritto Costituzionale - Univ. Macerata); Alfonso Di Giovine (Prof. Diritto Costituzionale Comparato - Univ. Torino); Gilda Ferrando (Prof. Diritto Privato - Univ. Genova); Vincenzo Ferrari (Prof. Filosofia del Diritto - Univ. Milano ); Maurizio Fumo (Magistrato); Sergio Lariccia (Prof. Diritto Amministrativo - Univ. Roma "La Sapienza"); Alessandro Pizzorusso (Prof. Istituzioni di Diritto Pubblico - Univ. Pisa - Accademico dei Lincei); Fausto Pocar (Prof. Diritto internazionale - Univ. Milano - Pres. Tribunale penale dell’Aja); Valerio Pocar (Prof. Sociologia del Diritto - Univ. Milano "Bicocca"); Salvatore Prisco (Prof. Istituzioni di Diritto Pubblico - Univ. Napoli "Federico II"); Andrea Pugiotto (Prof. di Diritto costituzionale - Univ. Ferrara); Pietro Rescigno (Prof. emerito Univ. Roma "La Sapienza" - Accademico dei Lincei); Paolo Ridola (Prof. Diritto Costituzionale Comparato - Univ. Roma "La Sapienza"); Paola Ronfani (Prof. Sociologia del diritto - Univ. Milano); Francesco Rimoli (Prof. Istituzioni di Diritto Pubblico - Univ. Teramo); Stefano Rodotà (Prof. Diritto Civile - Univ. Roma "La Sapienza"); Gustavo Zagrebelski (Prof. Diritto costituzionale - Univ. Torino - Accademico dei Lincei); Paolo Zatti (Prof. Istituzioni di diritto privato - Univ. Padova).
Per eventuali altre adesioni:info@criticaliberale
* la Repubblica, 13 febbraio 2007
LE SCELTE RELIGIOSE NELL’ERA POSTIDEOLOGICA
di Pietro Scoppola* (La Repubblica/Diario, 9 febbraio 2007 - ripresa parziale)
La scelta del Non possumus di Pio IX, da parte dell’Avvenire, come bandiera di intransigenza sulla questione dei Pacs non sembra molto felice: tutti sanno che dopo quei ripetuti Non possumus è venuta Porta Pia, la perdita del potere temporale della Chiesa e poi ancora, dopo un secolo circa, il riconoscimento solenne da parte di un Papa del carattere provvidenziale di quella perdita. Cosa significa oggi, nel XXI secolo, con i problemi di dimensione planetaria che incombono sull’umanità, di convivenza fra popoli, civiltà e religioni, di vivibilità del pianeta stesso, in una prospettiva non più remota ma calcolata ormai in termini di decenni, questo richiamo ad una intransigenza smentita dalla storia e che è invece costata tanto, in termini civili e religiosi, al Paese?
Intransigenza, oggi, su cosa? Più che giusta, certo, l’intransigenza sul valore della famiglia e del matrimonio e merito della Chiesa la costante difesa di questi istituti. Lo stesso Presidente della Repubblica, con l’auspicio, troppo presto lasciato cadere, di una intesa con la Chiesa ha riconosciuto ed esaltato il suo ruolo.
Ma qui si tratta di una realtà nuova: le convivenze ci sono e si diffondono; il legislatore non può ignorarle; sono un problema su cui anche la Chiesa dovrebbe riflettere a fondo, per comprenderne le ragioni e cercare le giuste risposte pastorali; cosa significa irrigidirsi sui modi in cui le convivenze devono essere certificate in anagrafe se non scivolare in un formalismo alla fine incomprensibile?
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La domanda che io porrei è un’altra: dove va la chiesa italiana? Sono evidenti i costi religiosi della via intrapresa: una Chiesa che parla dei pacs più che del mistero di Cristo morto e risorto e della sfida radicale che la sua presenza nella storia umana ha rappresentato e rappresenta farà fatica ad interessare a lungo le nuove generazioni. In una società in cui si moltiplicano i segni di un profondo disfacimento morale, in cui i ragazzi minorenni si socializzano per bande per scontrarsi in prove di violenza, in cui la cronaca ci offre ogni giorno episodi raccapriccianti di crudeltà e di egoismo, una Chiesa come quella che ho appena descritto sarebbe fatalmente condannata alla irrilevanza.
Ma per fortuna già oggi, già qui nel nostro Paese, non è questo o non è solo questo la Chiesa. La voce dell’Avvenire non è la voce della Chiesa italiana e neppure indistintamente dei suoi vescovi. C’è una religiosità popolare che pur in forme talvolta vicine alla superstizione conserva riserve profonde di umanità e di solidarietà. Vi è un fenomeno imponente di volontariato cristiano del tutto estraneo nella sua cultura e nella sua prassi ad ogni disegno di egemonia. Vi sono riserve e istituzioni culturali non chiassose ma radicate nel tessuto sociale e aperte sempre più al dialogo e alla collaborazione.
Il problema è che queste realtà stentano ad emergere a farsi sentire e vedere di fronte alle voci ufficiali della gerarchia. Se è consentito il paradosso vi è ormai in Italia una Chiesa del silenzio che soffre di una sorta di emarginazione ufficiale ma che rappresenta la riserva per la vera alternativa.
E la alternativa è appunto quella di una Chiesa che nel suo insieme torni ad essere testimone non di un progetto di egemo¬nia culturale ma semplicemente dell’evento cristiano; che parli del mistero di Dio in termini comprensibili alla cultura del nostro tempo (e mi rendo conto che non è facile); che torni ad occuparsi, come ha fatto nei secoli, del problema della formazione della gioventù in forme adeguate ai nuovi tempi; che valorizzi tutti quegli spazi della sussidiarietà oggi unanimemente riconosciuti anche a livello europeo; che non chieda privilegi ma offra il suo servizio senza esigere il timbro della cattolicità. E ancora: che sappia vedere prima di ogni aspetto teorico la realtà della sofferenza umana.
Confesso che io speravo che il convegno di Verona - e lo scrissi su queste pagine - potesse essere l’inizio di una svolta, di una riscoperta di una cultura e di una spiritualità perduta o dimenticata. Non mi sembra, per ora almeno, che sia stato così.
Il problema non è solo quello di aspettare passivamente che qualcosa accada. Ma di esistere e di agire e per quella che ho chiamato paradossalmente chiesa del silenzio far sentire la propria voce. Penso che la tenuta dell’Unione e in particolare della Margherita e in essa dei deputati cattolici, di cui leggo sui giornali, su un progetto sulle convivenze di fatto equilibrato e moderato, ma coerente con gli impegni presi di fronte all’elettorato, sia un contributo non solo alla unità del centro sinistra e alla laicità dello Stato, ma anche un servizio alla Chiesa per trarla fuori da un sentiero senza uscita.
Quei patti dimenticati tra Stato e Chiesa
di EUGENIO SCALFARI *
Nella giornata di ieri la Chiesa è passata al contrattacco, guidata dal Papa in persona a rinforzo del "non possumus" emanato dalla Conferenza episcopale. Benedetto XVI, con riferimento specifico ai temi della bioetica e al disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri sulle convivenze di fatto, ha detto che c’è da pensare "che ci siano dei periodi in cui l’essere umano non esista veramente" Addirittura! Accenti simili non si erano più uditi da quando i bersaglieri di La Marmora entrarono dalla breccia di Porta Pia mettendo fine al potere elettorale e la nobiltà clericale chiuse i portoni dei suoi palazzi sconfessando la nascita dell’Italia unita e di Roma capitale.
Dev’essere accaduto qualche cosa di molto più grave a ferire la sensibilità e gli interessi della Chiesa del riconoscimento di alcuni diritti che regolarizzano le coppie di fatto ben più timidamente di quanto già non sia avvenuto in tutt’Europa, dalla Spagna all’Olanda e dalla Francia alla Germania. Che cosa è dunque accaduto?
È accaduto che quel cautissimo atto di governo, che porta la firma d’un premier cattolicissimo ed è stato redatto da un cattolicissimo ministro, ha posto un paletto al neo-temporalismo della Santa Sede, alle sue crescenti interferenze nella legislazione e addirittura nell’articolazione delle norme di legge che il Parlamento voterà nelle prossime settimane.
È accaduto che al "non possumus" dei vescovi italiani è stato opposto il "possumus" dei gruppi parlamentari del centrosinistra e in particolare dei parlamentari cattolici della Margherita, che hanno rivendicato la loro responsabile autonomia laica e - insieme - la loro costante appartenenza ai valori del cristianesimo.
Viene in mente il rifiuto di Alcide De Gasperi all’operazione Sturzo di stampo clerico-fascista, sponsorizzata da papa Pacelli e dai Comitati civici. Da allora il leader della Dc non fu più ricevuto, neppure in udienza privata, da Pio XII, il che non gli impedì di reggere le sorti del governo nazionale senza mai venir meno ai suoi sentimenti di appartenenza cattolica e ai suoi doveri verso il paese e verso la Costituzione.
Questo preoccupa Benedetto XVI e i vescovi italiani: che i cattolici democratici, messi con le spalle al muro dall’intransigenza ruiniana, abbiano rifiutato di essere passiva cinghia di trasmissione ponendo così un argine alla clericalizzazione delle istituzioni.
Non li preoccupa né Diliberto né Pecoraro Scanio né Rifondazione comunista, bensì i Franceschini, i Letta, le Bindi, gli Scoppola e, soprattutto, Romano Prodi che va a messa e frequenta i sacramenti tutte le domeniche. Si ritrovano - i vescovi - in compagnia del paganesimo berlusconiano con il rischio di un neo-temporalismo profumato alla cipria del Bagaglino anziché all’incenso delle basiliche.
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Si dice - talvolta l’ho detto anch’io - che il potere politico è debole. Ha un pensiero debole. Inclina al compromesso. Si vorrebbe una politica che scelga senza se e senza ma. E poiché i se e i ma abbondano, se ne conclude che la politica non fa il dover suo e le si contrappone il deposito dei valori della religione, alimentati dall’intransigenza della fede.
Ma si è mai vista nella storia una politica senza compromessi? La politica si nutre di compromessi, procede per sintesi, non si ferma mai ad una tesi intransigente o ad un’intransigente antitesi, salvo in regimi di dittatura o, peggio, di totalitarismo.
I regimi liberali e ancor più quelli liberal-democratici amministrano organismi complessi, interessi plurimi e spesso contrapposti. Debbono pertanto rappresentarli tutti superandone i particolarismi, includendo e non escludendo, trovando il denominatore comune.
Il pensiero debole della politica coincide con compromessi deboli e privi di obiettivi forti. E in quei casi debbono essere vigorosamente criticati. La politica è l’arte del possibile, quindi del dialogo e dell’accordo al più alto livello possibile. Cavour voleva fare un grande Piemonte nel 1857 e si accordò con la Francia di Napoleone III. Poi l’obiettivo cambiò e divenne assai più ambizioso: volle fare l’Italia. Si alleò con Garibaldi, con Ricasoli, con Minghetti e con l’Inghilterra. Si sarebbe alleato anche col diavolo se fosse servito.
Quale politica non fa compromessi? Perfino Cesare li fece. Perfino Napoleone. Hitler no, non li fece. Voleva sterminare gli ebrei e li sterminò. Voleva conquistare tutta l’Europa e c’era quasi riuscito se non ci fosse stato Pearl Harbor e se Roosevelt non si fosse alleato con Stalin. Ma Hitler non era un politico, era un pazzo criminale. Antipolitico per eccellenza.
Anche la Chiesa ha fatto compromessi. Perfino con Hitler. Con Mussolini. Con Franco. Con Breznev. Con Jaruzelski. Con Gorbaciov. Tutte le volte che le è convenuto ha stipulato concordati. Non è forse un compromesso il concordato? Si patteggia, si dà e si prende.
La fede non fa compromessi. Ma la fede riguarda la coscienza individuale, non le organizzazioni che l’amministrano. La Chiesa e la sua gerarchia sono il corpo che riveste la fede. Talvolta il corpo esprime e realizza l’anima, talaltra la rinserra nei suoi corposi interessi mondani. Questo è sempre stato il rapporto tra la gerarchia dei presbiteri e la comunità dei fedeli. Lo scontro tra il modernismo e il Vaticano ebbe proprio questa motivazione. Finì con la persecuzione dei modernisti della quale c’è traccia evidente perfino nel Concordato del ’29. Il cristianesimo diffuso dalla predicazione degli apostoli è la religione dell’amore. Ma non sempre.
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È singolare che nel dibattito in corso tra il Vaticano e il governo italiano nessuno (salvo i radicali) abbia menzionato il Concordato. Come se non esistesse più. Come se fosse caduto in desuetudine. Come se non fosse stato recepito nella Costituzione del 1947. Infatti è caduto in desuetudine. O meglio: sta in piedi soltanto a tutela dei benefici che ne riceve la Chiesa. I limiti che la Chiesa ha pattuito con lo Stato sono stati invece superati.
Il deputato Capezzone, tanto per dire, si è stupito l’altro ieri perché si aspettava che il governo protestasse con la Santa Sede per l’irritualità compiuta dalla Cei con l’irruzione palese e anticoncordataria compiuta nei confronti del potere legislativo, così come il governo aveva ritenuto irrituale l’intervento dei sei ambasciatori che ci invitavano perentoriamente a restare in Afghanistan senza se e senza ma.
Ha ragione Capezzone. Ma ha ragione anche il governo. Il Vaticano in Italia è infinitamente più forte degli ambasciatori dei sei paesi alleati. È più forte come potere temporale. Pretende di dirigere le coscienze dei fedeli anche - anzi soprattutto - quando rivestano cariche ministeriali o siano membri del Parlamento. Chiede, anzi pretende obbedienza.
Ho letto l’intervista di Rosy Bindi su Repubblica di ieri. Dice: "Abbiamo scritto una legge giusta che tutela i più deboli, riconosce diritti alle persone discriminate, non crea nessuna figura giuridica che possa attentare alla famiglia. L’insegnamento cattolico parla di valore della giustizia, di pace, di libertà personale, di accoglienza perfino dell’errore. Di carità e di misericordia... Un politico non deve sentirsi referente di nessuno. Il mio referente è il Paese e la mia coscienza cattolica".
Ebbene, questo è il punto che per i vescovi italiani ha l’effetto d’un panno rosso davanti a un toro infuriato: il fatto che il laicato cattolico democratico abbia come riferimento la Costituzione e la propria coscienza cattolica e sulla base di questi due riferimenti fondamentali arrivi a conclusioni difformi da quelle della gerarchia ecclesiastica. La considera una ribellione perché ha perso la nozione esatta della parola Ecclesia. Che non distingue tra presbiteri e fedeli. Ecclesia è la comunità cristiana, è comunione partecipata perché tutti prendono il corpo eucaristico del Cristo, tutti nello stesso momento e alla stessa mensa. La grazia non passa attraverso l’intermediazione dei presbiteri, ma il Signore la dispensa direttamente ai fedeli che credono in lui e da lui prescelti.
Il neo-temporalismo è il contrario di tutto ciò. Non a caso Paolo VI ritenne la fine del temporalismo "un fausto evento per la Chiesa". Ma in realtà a partire dal pontificato di papa Wojtyla fino ad oggi la Chiesa sta devitalizzando i contenuti più significativi del Concilio Vaticano II e i due pontificati di Giovanni XXIII e di Paolo VI. L’ha scritto a chiare lettere Pietro Scoppola nel suo articolo di tre giorni fa su Repubblica. Questo è il senso dell’operazione in corso, di cui il disegno di legge sulle convivenze non è che il pretesto.
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Si dice che il pensiero laico sia debole. Capisco perché lo si dice: i laici (qui intesi come laici non credenti) non hanno né papi né cardinali né vescovi né preti. Ciascuno parla per sé e rappresenta solo se stesso. Per fortuna.
Non significa che un pensiero laico non esista e neppure che sia debole. Al contrario è forte, è lucido, è coerente alle sue premesse e nella sua dialettica con i clerici. Basta aver letto i più recenti prodotti di questo pensiero pubblicati questa settimana dal nostro giornale: l’articolo di Ezio Mauro e quello di Gustavo Zagrebelsky a proposito del "non possumus" episcopale.
I laici sono favorevoli allo spazio pubblico che spetta alla Chiesa, per ampio e crescente che sia, e ascoltano la sua parola con interesse traendone elementi di positiva riflessione e di rispettosa accoglienza quando ve ne siano, contestando elementi di intolleranza e tentazioni teocratiche che spesso, purtroppo, vi sono. I laici non sono anticlericali, anche se l’episcopato italiano sta facendo il possibile per farceli diventare. Ma i laici hanno come solo punto di riferimento il patto costituzionale. Su quel patto si fonda la Repubblica italiana e in esso ciascuno trova le radici della sua identità.
Perciò mi stupisco molto di coloro che sarebbero pronti ad accettare i patti di convivenza purché limitati agli eterosessuali. La Costituzione vieta in modo esplicito che la legislazione possa introdurre norme discriminanti nei confronti dei cittadini per ragioni di etnia, di religione, di sesso. Un regime di convivenza che discriminasse gli omosessuali cadrebbe ovviamente sotto la scure della Corte costituzionale e, prima ancora, sotto quella del Capo dello Stato secondo i poteri e le modalità che gli sono attribuiti.
Quindi tutto è molto chiaro. I laici vogliono il rispetto della Costituzione e di conseguenza anche del Concordato. Qualcuno, prima o poi, chiederà alla Corte se il Concordato sia ancora in vigore o sia gravemente leso. E qualora lo fosse, quali siano gli strumenti atti a recuperarne il rispetto o a proclamarne la decadenza per doveroso recesso della parte lesa.
* la Repubblica, 11 febbraio 2007
11 febbraio 2007 *
Settantotto anni sono trascorsi da quell’11 febbraio 1929 che vide, nel Palazzo Apostolico del Laterano, la firma dei Patti con cui fu chiusa definitivamente la Questione romana. Una Questione tutta italiana, perché per imperscrutabili disegni Divini venne fissata sul territorio italiano, a Roma, la sede del successore di Pietro e, quindi, del governo della Chiesa universale; ma al tempo stesso una Questione non solo italiana, nella misura in cui la garanzia dell’assoluta indipendenza della Santa Sede nell’adempimento della sua missione nel mondo è bene che interessa l’intera comunità ecclesiale così come ogni comunità politica.
Proprio il passaggio da un’ottica esclusivamente nazionale e da mere garanzie unilaterali, com’era nella Legge delle Guarentigie del 1871, ad un’ottica internazionale ed a garanzie bilateralmente convenute, come appunto nei Patti Lateranensi, segnò l’avvenuta acquisizione della piena consapevolezza circa la complessità della situazione creatasi con gli eventi del 20 settembre 1870 e permise di superare, finalmente, una situazione di diritto e di fatto che troppo a lungo aveva pesato negativamente nella storia civile e religiosa. Quel passaggio fu anche marcato dalla acquisita percezione che la indipendenza e la libertà della Santa Sede nello svolgimento della sua missione a livello planetario non può prescindere dalla connessa definizione di una condizione giuridica della Chiesa che è in Italia, diretta a riconoscerne identità e natura, nonché a tutelarne la libertà, se non altro per l’evidentissimo fatto che proprio al Vescovo di Roma è commessa l’alta responsabilità del munus petrinum. Di qui lo stretto ed indissolubile rapporto tra i due accordi che costituiscono i Patti: il Trattato, destinato appunto a garantire l’assoluta libertà ed indipendenza della Santa Sede, ed il Concordato, diretto a disciplinare in Italia la vita della Chiesa. Si tratta di un rapporto che, di natura sua, permane necessario nel tempo e che dunque porta giustamente a considerare pure l’Accordo del 1984, con cui vennero apportate modificazioni al Concordato del Laterano, come logico ed indispensabile completamento del Trattato.
A settantotto anni da quell’evento, di grande rilievo storico, politico e giuridico, occorre ancora una volta dare atto all’Italia di lungimirante disponibilità ad una soluzione solida, capace di durare nel tempo, per tanto complessa questione, ed al tempo stesso di leale e piena coerenza, anno dopo anno, decennio dopo decennio, nel proprio impegno di attuazione circa quanto convenuto con la Santa Sede, in uno spirito di rispettosa collaborazione reciproca.
Ma quest’anno la ricorrenza dei Patti Lateranensi si colora anche di un ulteriore elemento. Difatti sessant’anni or sono, e precisamente il 25 marzo del 1947, l’Assemblea Costituente della Repubblica italiana, eletta a suffragio universale, approvava a larghissima maggioranza la formula dell’art. 7 della Costituzione, nel quale quei Patti sono richiamati come strumento naturale e necessario per rendere effettiva ed operante la solenne dichiarazione, posta in premessa, secondo cui "lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani".
Al di là di ogni formale attestato alla memoria, la menzione di quel voto ha un significato di grande rilievo: innanzitutto perché esso segnò, nel travaglio di un passaggio istituzionale, la positiva verifica della superiore e non transeunte idoneità dei Patti a dare giusta e stabile soluzione nel tempo al problema dei rapporti tra Stato e Chiesa in Italia. Ma quel voto significò anche l’espressione corale della coscienza di un’assemblea liberamente eletta, e cioè che si tratta di problema che non investe solo relazioni tra istituzioni, ma che tocca anche la società civile nella quale la Chiesa opera e della quale è al contempo espressione. Una società civile che è costituita dalla trama delle relazioni sociali in cui l’uomo, con le sue inalienabili spettanze, quotidianamente svolge la sua personalità, ed al cui servizio la Costituzione italiana vede direttamente impegnato lo Stato.
Il disegno costituzionale, che appare singolarmente consonante con gli insegnamenti sui rapporti tra Chiesa e comunità politica che il Concilio Vaticano II ha dato nel 76 della costituzione Gaudium et spes, si è esplicitato coerentemente nel corso di un sessantennio, svolgendo una positiva influenza sulla vita della società italiana. Esso ha favorito un dialogo costante, rispettoso, costruttivo, che ha permesso alla Chiesa una piena libertà di svolgere in Italia, secondo quanto contemplato dall’art. 2 del Concordato in vigore, "la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione". Si tratta di un dialogo, per dir così, "istituzionalizzato", che nel rispetto di una distinzione non conflittuale ma collaborativa fra istituzione ecclesiastica ed istituzioni civili, qual è quella propria del concetto di laicità dello Stato sotteso alle disposizioni costituzionali, ha grandemente e positivamente favorito il perseguimento dell’obbiettivo della promozione di ogni uomo e dell’intera comunità nazionale.
È, questo, un punto su cui si è concordemente convenuto nei discorsi ufficiali che hanno segnato la recente visita in Vaticano, il 20 novembre scorso, del Presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano. Come osservava in tale occasione Benedetto XVI, quello della collaborazione è principio condiviso dalla Chiesa e dallo Stato italiano: di qui l’auspicio che essa "possa continuare a svilupparsi concretamente", giacché "Chiesa e Stato, pur pienamente distinti, sono entrambi chiamati, secondo la loro rispettiva missione e con i propri fini e mezzi, a servire l’uomo, che è allo stesso tempo destinatario e partecipe della missione salvifica della Chiesa e cittadino dello Stato". In definitiva, secondo quanto rilevava il Santo Padre, "è nell’uomo che queste due società si incontrano e collaborano per meglio promuovere il bene integrale".
Da parte sua il Presidente della Repubblica italiana ricordava che, in Italia, "l’armonia dei rapporti tra Stato e Chiesa è stata e resta garantita dal principio laico di distinzione sancito nel dettato costituzionale e insieme dall’impegno, proclamato negli Accordi di modifica del Concordato, alla "reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e per il bene del Paese"". Ed aggiungeva: "Crediamo profondamente nell’importanza di questa collaborazione, guardando alla tradizione di vicinanza, di aiuto e solidarietà verso i bisognosi e i sofferenti che è propria della Chiesa [...] e guardando anche a una comune missione educativa là dove sia ferito e lacerato il tessuto della coesione sociale, il senso delle istituzioni e della legalità, il costume civico, l’ordine morale".
Ai vari ambiti che, nel corso dei decenni, si sono palesati come positivi luoghi di collaborazione tra Chiesa e Stato, oggi se ne propongono ulteriori, spesso del tutto nuovi, posti dalla sempre più rapida evoluzione e trasformazione della società italiana, nel contesto dei più complessi fenomeni della globalizzazione. La tutela sempre più efficace dei diritti umani, ed in particolare della libertà religiosa individuale e collettiva, in un contesto di crescente pluralismo etnico-religioso; il perseguimento del bene della pace interna ed internazionale, come effetto non delle ragioni della forza ma di quelle della giustizia; la premura intransigente perché a tutti i chiamati al banchetto della vita questa sia assicurata, ma anche adeguatamente sorretta, in ogni stagione dell’esperienza umana; l’attenzione costante alla famiglia, come società naturale fondata sul matrimonio, di cui conseguentemente il diritto positivo non può riformare i caratteri distintivi e fondanti, ma della quale lo Stato e l’intera società devono favorire la formazione e l’adempimento dei compiti propri: sono, questi, tra gli ambiti in cui oggi si pongono le sfide di maggior rilievo.
Ma in particolare, riprendendo un pensiero del Presidente Napolitano, è sul terreno dell’educazione dell’uomo e del cittadino che oggi sembra doversi individuare una delle emergenze più gravi ed incombenti. Educazione per fronteggiare le preoccupanti derive di comportamenti asociali, quando non addirittura criminali, che dal livello dell’età adulta vanno sempre più rapidamente scendendo alle età più verdi, alle più giovani generazioni, minacciando così pericolosamente il futuro della società; ma pure, positivamente, educazione ad una cittadinanza piena, avvertita, leale, solidale, che dà senso all’essere insieme, tiene coesa verso l’alto la società, assicura l’appoggio della coscienza individuale alle giuste prescrizioni del diritto positivo, anima di valori elevati la partecipazione politica per l’autentico bene comune.
Anche in questo ambito la Chiesa, Mater et Magistra secondo il bell’appellativo di Giovanni XXIII, può dare un contributo tutto suo e, in quanto tale, insostituibile; un contributo che prende le mosse da una prospettiva propriamente spirituale per concorrere a forgiare, nel solco dell’esortazione dell’Apostolo Paolo (Rm 13, 1-8), il buon cittadino.
* L’Osservatore Romano - 11 Febbraio 2007.
SVEGLIA!!! QUANTE MENZOGNE!!! MA CHI VUOLE SOVVERTIRE LA FAMIGLIA?! LA DOMANDA, INVECE, E’ CHI VUOLE OFFENDERE IL PARLAMENTO E CHI VUOLE STRACCIARE LA NOSTRA COSTITUZIONE - LA LEGGE DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI - LA NOSTRA "BIBBIA CIVILE"(Carlo A. Ciampi) - LA NOSTRA COSTITUZIONE, CON I SUOI DOGMI BIOLOGISTICI E NAZISTOIDI!!! SENZA "GIUSEPPE", IL LORO "PRESEPE", E SOLO IL "PRESEPE" DI "MAMMASANTISSIMA", DELLA "MAFIA" - ALTRO CHE DI "MARIA". IL LORO CATTOLICESIMO-ROMANO NON HA NULLA DI CRISTIANO E NULLA DI DEMOCRATICO - MA TUTTO DELLA VOLONTA’ D POTENZA DI COSTANTINO E SUA MAMMA ELENA!!! Gesù, infatti, era un "chretien", non un "cretin" ... e nemmeno "romano", ma "ebreo"!!! E il suo "Dio" era quello di Maria e Giuseppe, come di Abramo, e di Mosé - non quello del Faraone - e il suo Nome è Amore-Agape- Charitas, non "Deus caritas [= caro-prezzo] est"!!! Il nome del "dio" di Papa Ratzinger non è nient’altro che "Mammona", il "Denaro"!!! Di qui il suo ordine di scatenare l’inferno nella nostra ITALIA - l’ITALIA di GIOACCHINODA FIORE, DI FRANCESCO e di CHIARA DI ASSISI, DI DANTE, DI MANZONI ... DI DON MILANI, DI DON GIUSEPPE DOSSETTI, DI CIAMPI, E DI NAPOLITANO. "Sono tutti comunisti!!! - Non fate prigionieri. Sterminateli senza pietà!!!" ITALIA, 12 febbraio 2007 - dopo la nascita di Cristo(fls).
Il Papa: "Nessuna legge può sovvertire la famiglia"
E Ruini annuncia "una nota ufficiale, chiara e vincolante" della Chiesa contro i Dico *
ROMA - Prosegue senza sosta, l’offensiva vaticana contro i Dico, la regolarizzazione delle unioni civili contenuta nel disegno di legge messo a punto dal governo. Questa mattina, il presidente della Cei, Camillo Ruini, ha annunciato una "nota ufficiale, una parola meditata, che sia impegnativa per coloro che accolgono il magistero della Chiesa e che possa essere chiarificatrice per tutti". Poco dopo è stato il Papa, in prima persona, a intervenire: "Sovvertendo il matrimonio si mette a rischio la società", ha affermato.
Il Pontefice lo ha detto ricevendo in udienza i partecipanti di un convegno dedicato al diritto naturale organizzato dall’Università del Laterano. Parole pesantissime, quelle pronunciate da Benedetto XVI. A suo giudizio, dunque, non si devono "trasformare in diritti" quelli che sono "interessi privati, o doveri che stridono con la legge naturale". "Un’applicazione molto concreta di questo principio - ha spiegato infatti il Pontefice - si trova se si fa riferimento alla famiglia, cioè all’intima comunione di vita fondata dal Creatore e regolata con leggi proprie. Essa ha la sua stabilità per ordinamento divino. Il bene sia dei coniugi che della società non dipende dall’arbitrio".
E perciò "nessuna legge - ha scandito il Papa - può sovvertire la norma del Creatore senza rendere precario il futuro della società con leggi in netto contrasto con il diritto naturale".
Ancora dal diritto naturale, ha aggiunto Benedetto XVI, derivano "altri principi che regolano il giudizio etico rispetto alla vita da rispettare dal momento del concepimento alla sua fine naturale, essendo la vita un dono gratuito di Dio del quale l’uomo non può disporre".
Nel mondo di oggi appare, ha spiegato, "in tutta la sua urgenza" la necessità di "riflettere sulla legge naturale, che è comune per tutti gli uomini" in quanto "è scritta nel cuore dell’uomo, e anche oggi non è inaccessibile". L’uomo di oggi, infatti, ha concluso il Papa, troppo spesso sembra aver dimenticato che "non tutto ciò che è scientificamente fattibile è anche eticamente lecito".
Quanto a Ruini, è intervenuto a margine del convegno nazionale dell’Opera romana pellegrinaggi, annunciando una nota ufficiale sul tema. Senza precisare, però, i tempi. Alla richiesta di un (ennesimo) commento sul disegno di legge sulle convivenze di fatto, Ruini ha risposto: "Se queste cose sono state già dette da parte nostra tante cose importanti e, credo, tutto ciò che è necessario. Quindi è inutile che io aggiunga qualche battuta estemporanea".
"Potrà essere importante - ha proseguito subito dopo - una parola meditata, una parola ufficiale - chiara e vincolante - che sia impegnativa per coloro che accolgono il magistero della Chiesa e che potrà essere chiarificatrice per tutti".
* la Repubblica, 12 febbraio 2007
Ha invece molto di cristano la strage quotidiana di tutti quegli innocenti mai nati, a causa di una legge decisa da un parlamento democraticamente eletto.
Come si fa a non rendersi conto del genocidio di oggi, denominato aborto, con oltre un miliardo di vite soppresse nel mondo, e definire serenamente "nazistoidi" i dogmi della Chiesa ?
E poi ci si appella pure al progresso civile e democratico della società !!!
D’altronde il primo Paese a varare una legge abortista è stata l’Unione Sovietica nel 1920, seguita dalla Germania nazista...
Caro Prof. sarebbe ora che si tolga quella trave dagli occhi.
Saluti. Biagio Allevato
Caro Biasi
ma di che parli!?! Ma come te lo devo ripetere: chi vuole uccidere chi?! - e quale donna vorrebbe mai abortire?!! Comprendo la tua fantasia di fare "il bambino mai nato" - ma ora sei qui - e qui devi "ballare". Cerca di "crescere" e di pensare con la tua testa!!! Vedi un po’ - se riesci, leggi (e non buttare interventi a casaccio - in gitro) i due brevi testi di Monsignor Ravasi sul rospo nel pozzo e il cielo e il cervello ... e abbi il coraggio di guardare al di là del tuo ombelico - come ha detto dall’India, il nostro Presidente del Consiglio. Cerca di fare come lui: pensa da "adulto"!!!
M. saluti,
Federico La Sala
COMUNICATO STAMPA *
Benvenuti "Dico"
Il disegno di legge che istituisce i cosiddetti "Dico" offre importanti elementi di riconoscimento e dignità istituzionali verso tutte le forme di convivenza al di là di ogni discriminazione anche di carattere sessuale. Estendere tutele e diritti sociali, non paternalisticamente dall’alto ma attraverso l’assunzione di responsabilità solidale, l’animazione comunitaria oltre i confini e la partecipazione dal basso, è la grande scommessa dell’oggi. Su di essa si è impegnato il movimento pluralista, si potrebbe dire il crogiolo, di trasformazione profonda che partito dal dopoguerra è approdato al ’68 ha attraversato la crisi degli anni della restaurazione ed è sfociato nel movimento mondiale per "un nuovo mondo possibile" che ultimamente a Nairobi ha dato prova di maturità e continuità. I "Dico" sono almeno in parte frutto di tale movimento il cui spirito e le cui istanze hanno trovato politici attenti, sensibili e capaci di una mediazione aperta e intelligente.
Le comunità cristiane di base sono parte della innervatura di quello stesso movimento. Esse vivono tutta la sofferenza e anche l’indignazione di tanta parte del mondo cattolico di fronte all’inumana intransigenza di gran parte delle gerarchie ecclesiastiche e alle loro strategie politiche lontane da ogni coerenza evangelica. Al tempo stesso le comunità di base esprimono apprezzamento per il risultato degli sforzi di mediazione politica compiuti e continueranno a impegnarsi per l’affermazione sempre più compiuta della laicità dello Stato, della politica e della vita quotidiana.
* Le Comunità Cristiane di base 10 febbraio 2007
Da Calcutta Prodi dice di essere "molto sereno" mentre l’Unione insorge. Cacciari: "Se la Chiesa vuole dettare leggi tradisce prima di tutto se stessa"
Dico, Prodi: "Sono molto sereno le polemiche non mi turbano"
Fini: "Non si può impedire alla Chiesa di difendere i valori cattolici" *
ROMA - "Sono molto sereno". Questo è stato l’unico commento del premier Romano Prodi, oggi a Calcutta, di fronte alle polemiche che vengono da Roma sul progetto delle unioni di fatto. Ma se il presidente del Consiglio ha scelto di non fare commenti diretti di fronte all’ennesimo attacco che arriva dal Vaticano, si moltiplicano i commenti dal centrosinistra. mentre la comunità gay chiede più coraggio ai parlamentari dell’Unione.
Stamane il vicepremier e ministro degli Esteri Massimo D’Alema, in un colloquio informale pubblicato su Repubblica, si era detto ’’stupito perché l’offensiva del Vaticano sul disegno di legge che istituisce i ’Dico’ e’ qualcosa di inedito, nella storia dei rapporti tra Stato e Chiesa’’.
Più duri i giudizi che arrivano da altri esponenti del centrosinistra. Per il capogruppo del Prc al Senato, Giovanni Russo Spena, si tratta del “più inaudito e inaccettabile tentativo di ingerenza del Vaticano sulle scelte del Parlamento italiano". Sulle coppie di fatto "stupisce che ci sia in Italia, da parte del Papa, una drammatizzazione così forte che non c’è stata in altri Paesi europei come la Francia e la Germania; tutto ciò conferma, purtroppo, che il Vaticano non ha mai smesso di guardare al nostro Paese come a un suo protettorato", afferma Roberto Villetti, capogruppo della Rosa nel Pugno a Montecitorio. Per il capogruppo dei Verdi alla Camera Angelo Bonelli, "il Vaticano ha il diritto di dare indicazioni morali ai fedeli, ma il Parlamento ha il dovere di garantire diritti e doveri ai cittadini italiani e di adeguare l’Italia agli altri paesi europei".
Parla anche il leader di An, Gianfranco Fini. Secondo il quale non si può impedire alla Chiesa "di dire ciò che reputa indispensabile per difendere i valori in cui si riconoscono i cattolici". E dà ragione a Casini: "Chi vota no, non lo fa perché lo chiedono i vescovi ma perché il governo non doveva fare la legge e perché questa legge contiene norme oggettivamente sbagliate". Per questo, "andava affidata al dibattito parlamentare, invece il governo l’ha fatta solo per ragioni politiche, scontando addirittura la dissociazione di Mastella".
Reazioni dure anche dalla comunità gay. "Ruini ha tuonato ancora. Ormai sembra il tutore dello stato italiano e la politica italiana come sempre risponderà obbedisco", ha detto il segretario nazionale dell’Arcigay Aurelio Mancuso, che rilancia: "Il ddl del governo sui Dico è assolutamente insufficiente e va cambiato a partire dall’articolo 1 che è offensivo e ridicolo. Ha l’obiettivo palese di non far fare una cerimonia e questo è davvero infantile".
Per il deputato Ds Franco Grillini ’’Il Papa e Ruini continuano ad alterare la verità su pacs, unioni civili e diritti dei conviventi”, secondo il presidente onorario dell’Arcigay "ben venti paesi europei e numerosi paesi extraeuropei ormai, hanno una legislazione per le unioni civili che dimostra sul piano dei fatti che diverse forme di famiglia fanno bene alla società, al benessere dell’individuo, alla coesione sociale e alla natalità’’.
Sulla questione interviene anche il sindaco di Venezia Massimo Cacciari, "C’è confusione da ambedue le parti, in particolare da parte della Chiesa che deve saper distinguere tra la sua predicazione morale e religiosa e l’aspetto legislativo-mondano-politico. Laddove la Chiesa si presenta quasi con la presunzione di voler dettare le leggi o volersi confrontare con il potere politico su questa base tradisce prima di tutto se stessa".
* la Repubblica, 12 febbraio 2007
Caro Ugo,
lei vive a Londra, e quindi spesso sotto la nebbia (come Il Prof. La Sala a Milano). Come potrebbe vedere oltre il suo naso ?
Si prepari a una sonora batosta e si consoli con la caduta di questo governo zimbello.
Cordiali saluti.
Biagio Allevato
Io cattolico ferito dalla Chiesa
di Roberto Carnero *
Da cattolico, sulla questione dei «Dico» e degli attacchi da parte della Chiesa Cattolica, mi vorrei rivolgere non tanto ai politici - invitandoli, come pure è doveroso, a resistere a questi attacchi - ma soprattutto ai cattolici stessi. Ora ci giunge un’altra notizia: l’annuncio, ieri, da parte del cardinal Ruini, che presto verrà pronunciata, in tema di unioni di fatto, «una parola meditata, una parola ufficiale, che sia impegnativa per coloro che accolgono il magistero della Chiesa e che possa essere chiarificatrice per tutti».
Quello che mi preoccupa maggiormente è l’espressione «impegnativa per coloro che accolgono il magistero della Chiesa». Il che, tradotto, significherebbe «vincolante per i cattolici». E, magari, particolarmente vincolante per quei cattolici che siedono in Parlamento come deputati e senatori.
Il che configurerebbe un’ingerenza davvero pericolosa non solo nelle coscienze, ma anche nella politica. Insomma, sembra che stia per arrivarci, tra capo e collo, un nuovo Sillabo (la condanna degli «errori» della modernità elencati da Pio IX nel 1864), che manda a carte e quarantotto l’idea di un cattolicesimo adulto (una Chiesa, come si è espressa il ministro Rosy Bindi nella bella intervista ad Andrea Carugati sull’Unità di domenica, «maestra di valori più che di comportamenti») e quel principio della libertà di coscienza più volte ribadito nei documenti del Concilio Vaticano II.
In quanto credente, in questi giorni sono parecchio imbarazzato da una posizione, come quella del Vaticano, che mi sembra, a dir poco, anticristiana. Il fatto è che certi cattolici sembrano essersi dimenticati di essere, prima di tutto, cristiani. Il mio invito è dunque ai cattolici, ai molti sacerdoti e vescovi che, sui diritti delle coppie di fatto, non si riconoscono nella linea Ratzinger-Ruini (e so, per diretta conoscenza, che ce ne sono molti), a dire apertamente la loro, a correggere la posizione indifendibile delle gerarchie e a pronunciare delle parole di apertura di cui, in molti che siamo cattolici, stiamo avvertendo tristemente la mancanza.
Purtroppo so che questo non sarà facile e che, a parte qualche vescovo emerito (come monsignor Bettazzi) e qualche prete di frontiera, difficilmente altri prenderanno la parola sulla questione, portando un punto di vista nuovo e diverso da quello dell’ufficialità. Il problema è che oggi nella Chiesa cattolica (e in quella italiana in particolare) è stato pressoché soffocato ogni dibattito interno. In questo senso sembrano davvero lontani anni luce i tempi del Concilio, quando la Chiesa conobbe una primavera di apertura al mondo contemporaneo ormai archiviata.
Chi si pone fuori dal coro sugli argomenti considerati «sensibili» va incontro all’ostracismo e all’esclusione. Cioè, se si tratta di un pastore, rischia di perdere «il posto». E, ora, anche il «semplice» credente potrà incorrere nella scomunica.
Ricordo quando una decina di anni fa la Lambeth Conference (il supremo organismo della Comunione anglicana), dopo lunghe discussioni, varò un documento sull’omosessualità in cui, alla fine, prevaleva il punto di vista tradizionale teso a negare la necessaria dignità a questa condizione. In quei giorni mi trovavo a Londra e la domenica successiva alla pubblicazione di quel testo, a St. Paul’s Cathedral (una delle chiese più importanti della capitale britannica), ascoltai un prete che dal pulpito dichiarava le proprie perplessità su quell’atto ufficiale della sua Chiesa, poiché - disse - «non si possono misconoscere le esperienze positive di amore e condivisione di molti nostri fratelli e sorelle omosessuali». Ebbene, quello che oggi manca tra noi cattolici è un analogo dibattito, franco e aperto, in cui ciascuno porti la sua voce, il suo punto di vista, per arricchire il confronto e per far sì che quanto diciamo come Chiesa sia, prima di tutto, conforme al Vangelo, più che allineato a certe battaglie astratte in difesa dello status quo. E per fare in modo che si comprenda come la Chiesa sia una comunità, in cui tutti hanno diritto di parola, e non un club per far parte del quale bisogna attenersi a un regolamento stabilito dalla direzione. Mi sia consentita un’altra memoria personale: nei miei anni inglesi, a stretto contatto con gli anglicani, mi resi conto di quanto lì la Chiesa fosse percepita da tutti come forza progressista. Viceversa da noi la Chiesa, quella cattolica, appare sempre più spesso istituzione reazionaria e conservatrice, in tutti i campi (vedi, ad esempio, i referendum sulla fecondazione assistita).
Il Vangelo dell’accoglienza ci insegna, soprattutto, ad ascoltare i bisogni e le esigenze del nostro prossimo. Un disegno di legge come quello dei «Dico» va esattamente in questa direzione. L’Arcigay ci informa che molti dei suicidi tra gli adolescenti sono dovuti alla scoperta dell’omosessualità. Cambiare questa cultura della colpevolizzazione probabilmente significa salvare delle vite. Quanto alle presunte conseguenze di scardinamento della famiglia tradizionale mi viene da compiere alcune riflessioni. Uno strumento come quello dei «Dico» non va ad attaccare la famiglia tradizionale, ma ad aggiungersi ad essa. Credo che a rendere difficile il formare una famiglia, non sia certo - come temono i vescovi - la concorrenza di modelli alternativi, ma piuttosto la situazione di incertezza generata da un lavoro sempre più incerto e precario. Per non parlare della questione della casa, bene di per sé primario, ma ormai per molti sogno proibito. Credo che sia proprio questo l’impegno da mettere in atto a favore della famiglia: soluzioni concrete a problemi concreti, come gli stessi «Dico» tentano di fare. Molto più che combattere anacronistiche crociate di cui la maggior parte dei cattolici italiani non sente affatto il bisogno. Mi piacerebbe che questo diffuso dissenso trovasse il coraggio e i modi per emergere
* l’Unità, Pubblicato il: 13.02.07 Modificato il: 13.02.07 alle ore 8.45
"Utile idiota" è un termine politico coniato da Lenin e indicava quei presunti avversari che, invece, facilitavano l’ascesa del comunismo. Nella Chiesa ne abbiamo diversi, tutti della scuola dei cattolici democratici, provenienti in massima parte dall’Azione Cattolica (ci si rifletta).
Mons. Rino Fisichella, vescovo ausiliare di Roma, Rettore della Pontificia Università del Laterano, e uno dei migliori teologi degli ultimi decenni, ha rilasciato una intervista a dir poco chiara sul decreto delle unioni civili o Di.Co. Un decreto che non si sarebbe mai fatto senza il contributo dei cattolici del centrosinistra. Una legge che porta la firma di alcuni Giuda (è un riferimento teologico), come quella sull’aborto di trent’anni fa.
«Un cattolico non può votare i Dico»
Fisichella: Pronti a riempire le piazze per dire no a questa legge
«Spero che i politici cattolici che dissentono dalla Chiesa abbiano almeno letto il catechismo...». Monsignor Rino Fisichella, rettore della Lateranense commenta le parole del Papa e le applica ai «Dico», annunciando che «il popolo cattolico» è pronto a scendere in piazza.
Le parole di Benedetto XVI si applicano al caso italiano?
«Il Papa ha ribadito che un ordinamento giuridico che non si riferisca alla legge naturale non ha spessore. La legge naturale non è una teoria confessionale, è la ragione stessa che conosce alcuni principi universali: la necessità di fare il bene ed evitare il male, il rispetto per la vita, la famiglia, la giustizia, la solidarietà. Le parole del Pontefice si applicano al caso italiano se l’Italia appartiene al nostro mondo...».
Perché la contrarietà ai «Dico»?
«Il problema del ddl è quello di dare valenza giuridica a dei diritti che sono propri della famiglia».
La coppia di fatto non è famiglia?
«La nostra Costituzione definisce famiglia l’unione di un uomo e di una donna nel matrimonio, religioso o civile che sia. Quel disegno di legge non solo indebolisce la famiglia, ma è una provocazione nei confronti dei giovani a non assumere gli impegni del matrimonio. Non capisco poi certe reazioni: un film se lo fa Lino Banfi è educativo, se lo fa Mel Gibson è diseducativo? Stiamo attenti ai contenuti violenti ma anche a certe distorsioni della famiglia che vengono veicolate in tv».
Il testo del ddl ha tenuto in parte conto delle vostre istanze?
«Bisogna dare atto che è stato fatto uno sforzo di arrivare a una formulazione accettabile, purtroppo lo sforzo non è riuscito. Non possiamo accettare questo ddl e mi preoccupo quando sento dire che si tratta di un punto di equilibrio oltre il quale non è possibile andare».
Perché si preoccupa?
«Penso che così difficilmente possa essere votato da un parlamentare cattolico. L’insegnamento della Chiesa è chiaro e vincolante. Leggo che alcuni politici si definiscono “cristiani laici”. Spero che abbiano letto almeno il catechismo e non credo che qualcuno voglia spingerci a mettere in campo la nostra capacità organizzativa per far comprendere che il nostro popolo vuole restare fedele a certi principi, ed è pronto anche a riempire piazza San Giovanni...».
Il teologo Lorenzetti ha definito «accettabile» il ddl...
«Questo tentativo di presentare un magistero parallelo è destinato a fallire. Giornali e tv vanno a caccia di queste posizioni che però non possono essere messe sullo stesso piano di quelle dei vescovi».
I parlamentari cattolici ulivisti rivendicano la loro autonomia.
«È giusto essere gelosi della propria autonomia, ma il cattolico è obbligato a confrontare la propria coscienza con gli insegnamenti della Chiesa e quando ciò che fa non è conforme, deve riflettere sul suo essere cattolico».
Il Giornale, 13 febbraio 2007 pag. 9
Le sentinelle di Ratzinger
di Dario Fo (il manifesto, 03.03.2007)
Se penso a Giulio Andreotti e a Clemente Mastella nelle vesti esilaranti di sentinelle della moralità mi torna in mente la comicità americana di cinquant’anni fa, il curvo e il grasso. E cosa dovrebbero fare questi guardiani del presunto comune senso del pudore? Ma è ovvio, vigilare perché si eviti di concedere spazi e diritti agli omosessuali, o alle coppie di fatto. È un brutto segno questa irruzione oscurantista e clericale nella politica. Sul versante immediato si è avuta la conferma che i due senatori forse un po’ sciagurati che si sono rifiutati di votare senza valutare fino in fondo le conseguenze, sono stati poi usati come capro espiatorio della mini-crisi di governo. Invece, è evidente a tutti che il governo è stato fatto cadere per interessi ben diversi e per mano di alcuni senatori a vita. È da quando ho memoria che ho a che fare con gli oscurantismi di Andreotti, Franca Rame e io ce lo ricordiamo bene. Fosse per lui sono certo che sui gay chiederebbe ancora la censura, è colpa della scuola da cui proviene. Sono posizioni clericali, non cattoliche, quelle che esprime.
È in atto un arretramento, insieme ai diritti dei gay e delle coppie di fatto, del livello culturale del paese. È come se, impugnando i Dico, i nostri politici avessero aperto il congelatore per infilarci tutti i problemi importanti che questo governo avrebbe dovuto affrontare. Penso ai conflitti internazionali e al ruolo dell’Italia in essi, penso alle spese militari e ai 100 aerei F-35 Lighting (fulmine) che abbiamo acquistato dagli Stati uniti per un miliardo di dollari. A proposito, mi dicono che dietro quegli aerei da guerra c’è la Lockheed. Ve la ricordate la Lockheed e lo scandalo di qualche governo fa? Nel congelatore c’è posto anche per il conflitto d’interessi, e vorrei sapere che ne sarà degli altri temi sociali, la lotta alla precarietà, o un diverso atteggiamento rispetto all’emigrazione.
Dietro queste manovre e dietro questa deriva oscurantista vedo ancora la vecchia Dc (siamo sicuri che non moriremo democristiani?) e davanti a questa vecchia Dc vedo l’antico codazzo di vescovi e cardinali. Ho un po’ d’invidia per la Spagna, che in fatto di subalternità clericale aveva ben poco da invidiare a noi: la Spagna dimostra che a guidare i processi di rinnovamento è sempre la politica. Certo, paghiamo scelte antiche, come l’aver accettato di sovvenzionare scuole e università cattoliche. E’ in questi luoghi, pagati da noi contribuenti, che vengono forgiate le future classi dirigenti.
Come possiamo fermare l’aggressione oscurantista e le due sentinelle della buoncostume? Ogni volta che partecipo agli appuntamenti di chi non vuole gettare la spugna mi accorgo che c’è un paese reale, un popolo fatto di donne con i bambini in carrozzella come a Vicenza, su cui dobbiamo investire. A manifestare contro le basi ho visto tante persone non legate ai partiti, molte hanno votato a sinistra. I nostri politici prima hanno tentato di far fallire quell’appuntamento caricando il loro fucile con la polvere nera della paura, come ha fatto il ministro Parisi, con l’intenzione di tener fuori la gente semplice che magari era la prima volta che manifestava in piazza. Poi, quando hanno sfilato 200 mila persone pacifiche e convinte hanno fatto finta di non vederle, fino ribadire in modo assolutistico: non possumus, perché pacta servanda sunt. Che delusione, che impressione questa cecità.
Le due sentinelle ci sono perché sentono che uno spazio è stato liberato dallo smottamento politico e culturale del centrosinistra. Continuiamo a spingere, parlando, scrivendo e, con o senza la benedizione del presidente Napolitano, scendendo in piazza.
Quando a Verona, il 19 ottobre 2006, parlando a vescovi, preti e laici della Chiesa italiana, Benedetto XVI scommise sull’Italia come "terreno assai favorevole" per una rinascita cristiana anche in Europa e nel mondo, molti scossero il capo increduli.
Anche la vivace battaglia che oggi il papa e i vescovi combattono contro la legalizzazione, in Italia, delle unioni di fatto etero e omosessuali suscita reazioni scettiche.
Tra gli scettici vi sono alcuni dei più rinomati intellettuali cattolici. Uno di questi, il giurista Leopoldo Elia, già presidente della corte costituzionale, ha così spiegato al "Corriere della Sera" del 13 febbraio perché ritiene sbagliate sia la scommessa di papa Joseph Ratzinger sull’Italia, sia la forte reazione della Chiesa alle nuove leggi:
"Pare che la Chiesa voglia fare dell’Italia l’eccezione d’Europa: l’Italia cattolica dove non valgono le leggi in vigore in tutti gli altri paesi. Perché la Chiesa spagnola ha reagito con misura alla legge sulle unioni di fatto, mentre la Chiesa italiana spinge alle barricate in parlamento? Perché una reazione così eccessiva rispetto a quella del tutto corretta delle conferenze episcopali francese e tedesca? Pare si manifesti la volontà di mantenere un’eccezione italiana. Forse perché a Roma c’è la sede di Pietro, perché abbiamo avuto lo stato pontificio, la Controrifoma, una lunga tradizione di legame fra trono e altare... Fatto sta che la Chiesa italiana non accetta di europeizzarsi".
Ma è proprio così? È fuori dubbio che in altri paesi d’Europa la Chiesa cattolica abbia per lo più reagito debolmente e senza successo alle leggi sulle unioni di fatto, sui matrimoni tra omosessuali, sul divorzio veloce, sull’aborto, sull’eutanasia, sulla fecondazione artificiale, sull’utilizzo degli embrioni.
Così come è fuori dubbio che in Italia la resistenza della Chiesa è stata negli ultimi anni molto più efficace. Basti pensare alla vittoria nel giugno del 2005 contro i referendum che volevano liberalizzare la fecondazione eterologa e l’uccisione degli embrioni. La Chiesa propose di non votare e in effetti tre cittadini su quattro non andarono al voto, annullando così i referendum.
Il dato più interessante è però un altro. Da qualche tempo la Chiesa italiana non è più un’eccezione solitaria, tra le Chiese dell’Europa occidentale. Altre conferenze episcopali guardano ad essa come a un modello e ne imitano l’azione. In Portogallo, ad esempio, la Chiesa si è recentemente opposta con forza a un referendum per la completa liberalizzazione dell’aborto: e il referendum, tenutosi lo scorso 11 febbraio, è fallito per la scarsa affluenza dei votanti.
Ma il caso più lampante di ripresa del modello italiano sta avvenendo in Spagna. Lì la conferenza episcopale sta compiendo una vera e propria inversione di marcia, dopo anni di divisioni, di incertezze e di assenza di una guida autorevole. Quando con il governo del conservatore José Maria Aznar si profilarono in Spagna le prime avvisaglie delle nuove leggi in materie sensibili, le reazioni dell’episcopato furono fiacche. E quando poi il governo laicista di José Luis Rodríguez Zapatero passò ai fatti con una raffica di innovazioni, la Chiesa le subì quasi incredula. Ma lo choc funzionò anche da stimolo a una reazione. Il primo atto che indicò una ripresa d’iniziativa della Chiesa fu una grande manifestazione a Madrid, con un milione e mezzo di persone in strada e con alla testa i vescovi.
Ma più che questo gesto simbolico, ci sono due documenti collettivi che attestano la svolta dell’episcopato spagnolo. Sono due "istruzioni pastorali" discusse e votate da tutti i vescovi nel 2006, emesse la prima il 30 marzo e la seconda il 23 novembre.
L’istruzione sottopone a severa critica le deviazioni dottrinali e morali presenti nella Chiesa spagnola, imputando ad esse l’incapacità della stessa Chiesa di fronteggiare la sfida della secolarizzazione. Oggi questo documento - scritto d’intesa con la congregazione vaticana per la dottrina della fede - fa da base per una campagna di chiarificazione dottrinale nelle diocesi, tra il clero, nei seminari, tra i catechisti, nelle associazioni, nelle parrocchie.
La seconda istruzione entra più direttamente nel vivo dei cambiamenti intervenuti in Spagna nella società e nella politica. I vescovi descrivono e giudicano l’"onda d’urto del laicismo" in atto, richiamano i cattolici alle loro responsabilità religiose e civili e propongono gli "orientamenti morali" per una efficace risposta alla presente situazione. Il documento che i vescovi spagnoli adottano come guida in questa loro istruzione è proprio il discorso rivolto da Benedetto XVI agli stati generali della Chiesa italiana, a Verona.
La scommessa di papa Joseph Ratzinger sul "grande servizio" che la Chiesa italiana può rendere "anche all’Europa e al mondo" sta dando i suoi primi frutti.
di Sandro Magister, 23 febbraio 2007
Unioni civili, avanti piano. Rutelli: «Non sono una priorità»
Il 10 marzo manifestazione nazionale*
«Come governo dobbiamo occuparci di tutto, ci occuperemo anche dei Dico, ma mettiamo tutto nella loro giusta priorità. Oggi la priorità è l’economia». Passata la crisi di governo, mentre si cerca di tirare le fila sul rifinanziamento della missione militare italiana in Afghanistan (il ddl inizia l’iter alla Camera martedì) e si cerca l’intesa per una nuova legge elettorale, si continua a discutere anche di un altro “nodo” politico che deve affrontare la maggioranza: i famigerati Dico. Tanto più che per il 10 marzo è prevista a Roma una manifestazione nazionale, lanciata da Arcigay e altre associazioni, proprio per chiedere il riconoscimento delle unioni civili.
Così sull’argomento torna anche il vicepremier Francesco Rutelli, intervistato da Lucia Annunziata alla trasmissione «In mezz’ora». Alla domanda sulla manifestazione di sabato prossimo per i Dico, Rutelli ha replicato: «Le priorità sono altre. Quanti italiani hanno uno stipendio di 900 euro, quanti hanno una pensione di 600 euro, quanti ragazzi hanno un prospettiva di lavoro...».
Insomma: sui Dico avanti, ma piano. Anche se Piero Fassino, segretario dei Ds, proprio sabato era tornato a ribadire la necessità di non rallentare l’iter parlamentare avviato: «Questo comporta che si apra una discussione sull’iter che tenga presente l’apporto di tutti. Ma è un iter legislativo che è finalizzato ad arrivare ad una soluzione e non rinviare sine die la soluzione di questo problema». Mentre Clemente Mastella ribadisce: «In Senato non passeranno mai». Da sottolineare che durante le dichiarazioni di voto al senato, Giulio Andreotti, aveva sottolineato che non avrebbe votato la fiducia a Prodi proprio a causa dei Dico.
«Vuole sapere su cosa mi interpellano i miei concittadini? - sottolinea il leader della Margherita - Sul lavoro precario dei loro figli. Allora, è bene parlare di questi temi che piacciono tanto ai giornali, ma non c’è dubbio che se lei si trova davanti il vicepresidente del Consiglio pro tempore, io le debbo dire che si tratta di questioni importanti, ma che, vivaddio, dobbiamo parlare anche delle cose che interessano agli italiani...». a
Da sottolineare che nella Margerita prima della crisi di governo si era consumando una vera e propria spaccatura tra “teodem” più oltranzisti che non volevano i Dico e laici. Spaccatura che si aggrava dopo le dichiarazioni di Enzo Carra, leader dei teodem della Margherita insieme alla Binetti, intervistato da La Stampa: «A questo punto sui dico vogliamo vederci chiaro. Al Senato non ci sono i numeri e noi lavoreremo per affossarli una volta per tutte». «Noi non complottiamo né contro il governo né contro il Pd - aggiunge - Anzi, è merito nostro se Rosy Bindi è stata affiancata a Barbara Pollastrini nel gestire la questione delle coppie di fatto. E se Prodi non è andato in affanno». E ancora: «Noi nel ’family day’ del governo saremo in prima fila e i nostri parlamentari Bobba e Calgaro stanno fornendo un grande contributo all’organizzazione ».
«Finalmente i Teodem gettano la maschera - risponde afferma il deputato della Margherita Francesco Merlo - Che rappresentassero la corrente clericale della Margherita non avevamo alcun dubbio, sin dall’inizio della loro discesa in campo. Ma che, dopo le ripetute dichiarazioni dei loro principali leader, adesso rivendichino a proposito dei Dico anche la pressoché esclusiva rappresentanza dei cattolici in politica è più una considerazione grottesca, se non carnevalesca, che non una riflessione seria ed articolata». «Sarei curioso di conoscere - prosegue - come può decollare l’Ulivo, come può crescere il partito democratico, come può rafforzarsi una coalizione come il centro sinistra, come si può aiutare il governo Prodi oggi con atteggiamenti clericali, tendenzialmente intolleranti e adesso anche apertamente polemici contro la politica del ministro Bindi e, di conseguenza, contro la stragrande maggioranza del governo».
Il problema è spinoso anche in vista delle manifestazioni per i dico del 10 marzo e ’family day’ alla quale parteciperanno “pezzi” di governo. Non sarà come a Vicenza, dove i ministri non sono stati fatti scendere in piazza sulla base Usa? Chiede infatti Annunziata a Francesco Rutelli: «Che ci siano queste manifestazioni è la normalità - risponde il vicepremier - Ma con Vicenza c’è una radicale differenza, sulla politica estera può cadere il governo. Se c’è un voto in cui si va in minoranza su una materia economica o relativa ai diritti civili, si può recuperare».
Fatto sta che i malumori per la manifestazione di sabato non mancano. L’appuntamento è per le 15.30 del 10 marzo in piazza Farnese a Roma per rivendicare «Diritti ora». Numerossime le adesioni raccolte dal sito Internet (www.dirittiora.it). E soprattutto tanti i politici di sinistra in piazza. Sicuri il ministro Alfonso Pecoraro Scanio, i sottosegretari Acciarini e Manconi, in forse i ministri Pollastrini, Ferrero e Bonino, sicuramente no Rosy Bindi («per il ruolo istituzionale che rivesto». Numerosi anche attori, registi, scrittori e giornalisti. «I capigruppo di Camera e Senato che non saranno presenti alla manifestazione non saranno considerati “assenti giustificati”», dice Alessandro Zan, coordinatore nazionale della manifestazione.
* l’Unità, Pubblicato il: 04.03.07, Modificato il: 04.03.07 alle ore 18.55
DICO: ROMA SUONA LA ’SVEGLIA’ DEI DIRITTI
ROMA - Il conto alla rovescia e’ stato scandito da tutte le personalità presenti sul palcoscenico della manifestazione per i Dico a piazza Farnese e alle sei suona ’la sveglia’ dei diritti. Alle 18, infatti, tutta la piazza ha fatto scattare sveglie, fatto suonare fischietti e cellulari, e applaudito per chiedere una sveglia sui diritti civili.
CECCHI PAONE LASCIA PER PROTESTA LA MANIFESTAZIONE. Il conduttore televisivo Alessandro Cecchi Paone ha rinunciato a condurre la manifestazione a sostegno di una legge di riconoscimento delle unioni civili e per protesta contro gli organizzatori ha lasciato Piazza Farnese. Pierluigi Diaco, l’altro conduttore della kermesse, ha provato a richiamarlo dal palco, ma il presentatore non si è fatto vedere. Prima di salire sul palco e cominciare ad attendere silenziosamente il suo turno, dopo Diaco, Cecchi Paone aveva avuto un pesante battibecco con uno degli organizzatori dell’ evento: "Ma siete matti, mi hanno chiamato cento volte per dirmi di non parlare contro la Chiesa e di non dire una parola contro il Vaticano. Ma dico, stiamo scherzando?". Poi si era allontanato per prendere posto accanto agli ospiti della manifestazione. Quando ormai Diaco stava per dargli la parola, Cecchi Paone ha preferito andarsene.
ORGANIZZATORI, SIAMO DIVENTATI 80 MILA IN PIAZZA. "Siamo diventati 80 mila". Lo ha appena annunciato dal palco la conduttrice Delia Vaccarelli. La folla ha applaudito a lungo la notizia.
PRODI, PERPLESSO SULLA PRESENZA DEI MINISTRI. "Non ho mai nascosto la mia perplessità riguardo la partecipazione dei ministri a queste manifestazioni, che possono poi ricoprire significati diversi da quello da cui partono". Così il premier Romano Prodi ha risposto a Bologna ai giornalisti che gli hanno chiesto se sia un problema la partecipazione di alcuni ministri alla manifestazione romana sui Dico. "Però - ha aggiunto Prodi - speriamo che tutto vada tranquillo".
FASSINO, MANIFESTAZIONE DI ROMA E’ GIUSTA. La manifestazione di Roma sui Dico é "giusta". Non essendoci andato perché impegnato in iniziative per il Partito Democratico in Emilia-Romagna, il segretario dei Ds Piero Fassino ha comunque sottolineato la validità delle motivazioni della manifestazione. "Penso - ha spiegato Fassino a Bologna - che ogni manifestazione vada rispettata, sempre. Io non ho condiviso la manifestazione che fece in novembre la Casa delle libertà contro la Finanziaria a Roma, però ho ascoltato quello che diceva quella piazza e ho cercato di capire perché la gente era lì. Poi ci sono manifestazioni che condivido o meno. Credo che quella di oggi a Roma sia una manifestazione giusta, perché con essa si vuole rendere evidente la irrinunciabilità dei diritti individuali delle persone, la necessità di riconoscere i diritti di ogni persona, quali che siano le sue scelte di vita, l’orientamento sessuale, il modo in cui organizza la propria vita, affettività e relazioni interpersonali". "Naturalmente - ha detto ancora Fassino - bisogna farlo in modo equilibrato e giusto. La legge sui Dico è equilibrata e giusta, perché riconosce diritti a coloro che hanno scelto una convivenza di fatto, omosessuale o eterosessuale, senza peraltro mettere in discussione l’articolo 29 della Costituzione che riconosce la famiglia fondata sul matrimonio". Fassino ha risposto con "parliamo di cose serie" alla domanda sulla posizione di Vladimir Luxuria che, per i contrasti sui Dico, ha chiesto che Paola Binetti, della Margherita, sia espulsa come è successo nel Prc a Franco Turigliatto per il suo no per la presenza militare italiana in Afghanistan.
DILIBERTO, INSOPPORTABILE INTOLLERANZA VATICANO. "Regolamentare i diritti delle coppie di fatto è una scelta di buonsenso. Trovo insopportabile l’intolleranza delle gerarchie vaticane". Oliviero Diliberto, impegnato nella riunione del comitato centrale del Pdci, ha tenuto un incontro con i giornalisti nel quale ha appoggiato tra l’altro la legge sui Dico. "Il governo - ha sottolineato il segretario del Pdci - ha fatto la sua parte, consegnando la sua proposta al Parlamento. E’ evidente che si tratta di un tema eticamente sensibile e politicamente rilevante. Anche per questo mi sembra opportuno attenersi a quanto c’é scritto nel programma dell’ Unione. Noi del resto non chiediamo né di più né di meno".
CAPEZZONE, CDL ILLIBERALE MA GOVERNO HA CREATO IL CAOS. Parte della Cdl ha un comportamento illiberale ma è proprio il governo che ha creato il caos sui Dico e ha fatto "partire la macchina senza benzina". Lo afferma Daniele Capezzone (Rnp), presidente della commissione Attività produttive della Camera. "Non c’é dubbio. Purtroppo - dice Capezzone - un pezzo di Cdl sta tenendo un comportamento illiberale in materia di unioni civili: e a mio avviso, questo atteggiamento chiuso non corrisponde ai sentimenti di quella parte dell’elettorato. Comportamento negativo (e situazione per certi versi anche più grave) pure dall’altra parte. Nonostante l’orientamento di gran parte dell’elettorato di centrosinistra, è proprio il Governo che ha creato il caos, e che ha le maggiori responsabilità". Infatti, c’erano proposte di iniziativa parlamentare che sono state fermate - spiega - in attesa della proposta del Governo. Era chiaro che sarebbe stato un testo al ribasso, e infatti è stato così. Poi, non pago di questo, il Governo ha messo la questione sul binario morto del Senato, ha espunto il tema dalle dodici priorità di Prodi, il quale si è ulteriormente smarcato in un suo recente intervento parlamentare. Insomma, prima si sono sgonfiate le ruote alla macchina, e poi la si è fatta partire senza benzina". "Questo non cancella né copre anche le responsabilità della minoranza - conclude - ma, lo ripeto, sono Governo e maggioranza a doversi assumere il carico delle scelte compiute. Una sequenza di autogol".
OCCHETTO, IN PIAZZA PER DIFENDERE LAICITA’ STATO. "Sono qui in piazza per difendere la laicità dello Stato. Perché la Chiesa non può impedire allo Stato di legiferare, né può imporre in questo modo le sue convinzioni". Lo ha detto Achille Occhetto, intervenendo alla manifestazione in sostegno di una legge sulle unioni civili a Piazza Farnese. "Non sono affatto soddisfatto di questa sinistra - ha aggiunto - perché non è laica. Stiamo tornando indietro di anni. Siamo riusciti persino a retrocedere rispetto alle posizioni sostenute da Alcide De Gasperi. Spero che si possa arrivare ad una buona legge in difesa delle coppie di fatto".
RIZZO, GRANDE GIORNATA PER DIRITTI. "Una giornata importante per i diritti e per le persone e per dire che la Chiesa non può avere una ingerenza tale nella politica italiana". E’ il commento di Marco Rizzo (Pdci) alla manifestazione sui Dico a piazza Farnese a Roma. Alla domanda se il Governo è diviso sul ddl, visto che Mastella parteciperà ad un’ altra manifestazione, Rizzo ha risposto: "E’ un progetto di legge del Governo".
* ANSA » 2007-03-10 19:16 --- GUARDA LE FOTO