CHIESA "PER MOLTI", NON "PER TUTTI"!!!
Per il Convegno "Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri" del 15 settembre 2012, cinque note a margine
di Federico La Sala *
1. LA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA HA ROTTO I PONTI CON IL MESSAGGIO EVANGELICO. A 50 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II, bisogna prendere atto che il terribile è già accaduto: il "Lumen Gentium" è stato spento e, sulla cattedra di Pietro, siede il Vicario del Signore e Padrone Gesù ("Dominus Iesus": J. Ratzinger, 2000). Egli regna e governa in nome del suo Dio, Mammona ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006).
2. DIO E’ VALORE! Sul Vaticano, dal 2006, sventola il "Logo" del Grande Mercante: "Deus caritas est" (Benedetto XVI, 2006)!!! Il papa teologo, ha gettato via la "pietra" su cui posava - in equilibrio instabile - l’intera Costruzione della Chiesa cattolico-romana ("Deus charitas est": 1 Gv. 4.8).
3. TUTTO A "CARO-PREZZO" ("CARITAS"): QUESTO "IL VANGELO CHE ABBIAMO RICEVUTO". QUESTO E’ IL NOSTRO VANGELO: PAROLA DI RATZINGER -BENEDETTO XVI, CARDINALI E VESCOVI TUTTI. IL "PANE QUOTIDIANO" DEL "PADRE NOSTRO", SI VENDE A "CARO PREZZO", MOLTO CARO (= "CARITAS")!!!
4. ULTIMA CENA ED ECONOMIA VATICANA. Benedetto XVI cambia la formula: «Il calice fu versato per molti», non «per tutti»!!!
5. IN PRINCIPIO ERA IL "LOGO"!!! SE UN PAPA TEOLOGO LANCIA IL "LOGO" DEL SUO DIO ("DEUS CARITAS EST") E TUTTI OBBEDISCONO, E NON VIENE RISPEDITO SUBITO A CASA, DA "MARIA E GIUSEPPE", PER IMPARARE UN PO’ DI CRISTIANESIMO, DI COSA VOGLIAMO PARLARE DI AFFARI E DI MERCATO?! EBBENE PARLIAMO DI AFFARI, DI MERCATO, DI "MAMMONA", "MAMMASANTISSIMA", E DI COME I PASTORI ... IMPARANO A MANGIARE LE PECORE E GLI AGNELLI, E CONTINUANO A GOZZOVIGLIARE ALLA TAVOLA DEL LORO "DIO"!!! Avanti tutta, verso il III millennio avanti Cristo!!!
Federico La Sala
* Il Dialogo, Mercoledì 12 Settembre,2012
Nota sul tema:
Povertà e obbedienza, il rinnovamento di un conservatore popolare
di Gennaro Carotenuto (il manifesto, 17 marzo 2013)
Jorge Bergoglio, papa Francesco, è quello che in Argentina si definisce un «conservatore popolare», un esponente tipico della destra peronista. Ha diretto e rinnovato con successo la chiesa argentina senza modificarne il segno politico conservatore.
È l’erede materiale e spirituale di Karol Wojtyla e, per i cardinali che lo hanno eletto in conclave, deve essere apparso una scelta perfetta su più d’uno dei fronti aperti per la chiesa cattolica. Ha le doti per metter fine ai veleni curiali che secondo lo Spiegel hanno portato al «fallimento» Benedetto XVI ma è sufficientemente anziano per rappresentare un nuovo papato di transizione in termini di durata.
Può rilanciare il cattolicesimo in un continente assalito dalle chiese protestanti conservatrici, vera emergenza che dall’Europa ignora. Per alcuni rappresenta un’alternativa conservatrice ai governi progressisti e integrazionisti latinoamericani. Bergoglio viene da lontano.
Fuor da demonizzazioni e santificazioni non ebbe un ruolo apicale nella chiesa argentina complice della dittatura. È una storia di lacerazioni, drammi, crimini, persecuzioni. Al contrario delle chiese cilena e brasiliana, le gerarchie argentine furono le peggiori, complici e perfino mandanti di violazioni di diritti umani.
Appena un mese fa una sentenza della magistratura chiama in causa il primate dell’epoca, Cardinal Raúl Primatesta e il nunzio apostolico Pio Laghi nell’assassinio del vescovo Enrique Angelelli e dei sacerdoti Carlos de Dios Murias e Gabriel Longueville.
Furono almeno 125 i religiosi impegnati a fianco degli ultimi a essere eliminati, spesso indicati ai carnefici dalle stesse gerarchie cattoliche, Tortolo, Primatesta, Aramburu. È in questo ambito sinistro che azioni e omissioni vanno misurate.
I gesuiti ne restano al margine ma alcune accuse raggiungono Bergoglio. Le formulano personaggi autorevoli come Horacio Verbitsky, il gesuita Luís «Perico» Pérez Aguirre, che gli imputa soprattutto una svolta di destra della Compagnia, Olga Wornat, Emilio Mignone, una delle più cristalline figure di difensore dei diritti umani in Argentina, Bergoglio «è uno di quei pastori che hanno consegnato le loro pecorelle».
In particolare è accusato di avere abbandonato al loro destino due giovani parroci gesuiti sul crinale tra difesa dei poveri e guerriglia. Sono desaparecidos per cinque mesi. Uno dei due lo accusa: «Bergoglio se ne lavò le mani. Non pensava che uscissi vivo». Un solo episodio e qualche voce non bastano.
Bergoglio non fu né un Aramburu né un Von Wernich ma neanche un padre Mujíca, uno dei sacerdoti assassinati. Sta in una zona grigia, un quarantenne in ascesa, in una chiesa argentina dove si mandava a uccidere o si rischiava di essere uccisi. Più di ciò il papa, che ha sintetizzato in un giudizio critico quegli anni, fu sempre riluttante a testimoniare in molteplici inchieste e processi per violazioni di diritti umani.
Scelse di denunciare il peccato ma non il peccatore e quando il sacerdote Christian Von Wernich fu condannato all’ergastolo per 42 sequestri, 7 omicidi e aver personalmente torturato 32 persone Bergoglio scelse di non aggiungere altra sanzione a quella della giustizia terrena.
Negli anni nei quali padre Arrupe, il papa nero, viene ridotto all’impotenza da Giovanni Paolo II, lavora per spostare in senso conservatore la Compagnia di Gesù. Ha già una relazione privilegiata con Karol Wojtyla.
Il successore di Primatesta, Quarracino, lo nomina ausiliare. Strana coppia. Votato ai piaceri della vita e all’ostentazione della ricchezza, il primate è amico personale di Carlos Menem. L’ausiliare invece fa il vescovo, forma il clero ed è attento al popolo delle villa miseria. Hanno relazioni cordiali ma distanti e per Bergoglio è l’unica maniera di tener fede sia ai voti di castità e povertà che a quello di obbedienza.
La successione giunge nel 1998. Vi emergono le caratteristiche che oggi lo portano al soglio pontificio: il pugno di ferro che ne fa uno spauracchio ora per la curia romana, la marcata preoccupazione sociale, la critica alla politica.
Soprattutto Bergoglio - ed è un punto di forza rilevante - è vicino al suo clero, perfino alle pecorelle smarrite come il vescovo Jerónimo Podestá, ridotto allo stato laicale per la relazione con una donna, ma al quale rimase vicino umanamente fino alla fine.
Ma chi è davvero Jorge Bergoglio che comincia il suo cammino di Vescovo di Roma con un passato così pesante? Integralista di destra mette i poveri al centro del suo apostolato. Vicino alla dittatura rende omaggio ai sacerdoti assassinati da questi ultimi.
È una carriera controcorrente, conservatore in un ordine considerato progressista, primo gesuita primate argentino, primo gesuita papa, primo papa latinoamericano.
Nemico dei progressisti e lontano dagli organismi per i diritti umani, esige dallo Stato educazione cattolica ed è contrario ai contraccettivi. Nessuno può accusarlo di non onorare i propri voti, in particolare quello di povertà, è lontano dagli stereotipi.
L’attenzione di Bergoglio per i poveri è di stampo infaticabilmente caritatevole, mai politico. Se bisogna rifuggire sia l’interpretazione tenebrosa del complice della dittatura tout court che quella di un papa scelto per fermare il cambiamento in America, Bergoglio è una figura ben diversa da quella di Ratzinger e con tratti di forte continuità con Karol Wojtyla. Questo combatté e vinse la battaglia con la teologia della liberazione senza comprenderne le ragioni, per perdere poi quella con le chiese protestanti. È lì che va atteso fin dal prossimo viaggio in Brasile il nuovo papa.
di Luca Kocci (il manifesto, 17 marzo 2013)
Con l’ Angelus in piazza san Pietro, questa mattina, ci sarà il primo vero bagno di folla di papa Bergoglio. In attesa di martedì quando, con la messa di inizio pontificato, è atteso a Roma un milioni di persone, con oltre 100 capi di Stato e di governo.
Intanto, nelle occasioni pubbliche di questi giorni, Bergoglio si conferma papa mediatico e innovatore, perlomeno nei gesti e nelle parole. «Un rottamatore che sta smontando pezzo dopo pezzo il cerimoniale moderno dei pontefici», dice lo storico Alberto Melloni.
Ieri, per esempio, alla fine dell’udienza ai 5mila giornalisti che hanno seguito il conclave, il papa ha eliminato la benedizione solenne, che Ratzinger faceva spesso in latino. «Dato che molti di voi non appartengono alla Chiesa e non sono credenti - ha detto in spagnolo -, imparto la benedizione, in silenzio, rispettando la coscienza di ciascuno».
Bergoglio ha anche svelato come sono andate le cose per la scelta del nome Francesco. Appena superato il quorum del 77 voti, il suo vicino di posto in conclave, il francescano brasiliano Hummes, gli ha detto «non dimenticare i poveri». Subito, spiega Bergoglio, «ho pensato a Francesco d’Assisi, l’uomo della povertà, l’uomo della pace, l’uomo che ama e custodisce il creato, e in questo momento noi non abbiamo una buona relazione con il creato».
E ha confessato anche il suo desiderio di «una Chiesa povera e per i poveri». Un’affermazione decisamente in controtendenza rispetto al trionfalismo trasmesso dagli ultimi due pontificati di Wojtyla e Ratzinger.
Che tuttavia, facendo un po’ di esegesi, rivela una visione diversa da quella conciliare: papa Roncalli parlò di «Chiesa dei poveri», quella di Bergoglio è una Chiesa «per i poveri», in cui quindi la componente paternalistica e caritatevole sembra prevalere rispetto a quella di liberazione.
Arrivano anche i primi atti di governo del nuovo papa, con la conferma, scontata, dei capi dei dicasteri curiali e vaticani «donec aliter provideatur», cioè fino a che non si provveda altrimenti.
Tuttavia, nel comunicato della sala stampa, c’è una precisazione non scontata: «Il santo padre desidera riservarsi un certo tempo per la riflessione, la preghiera e il dialogo, prima di qualunque nomina o conferma definitiva».
Non andò così con Ratzinger il quale, due giorni dopo la sua elezione a papa, confermò come segretario di Stato il cardinal Sodano, citandolo espressamente, e lasciandolo al suo posto per oltre un anno, fino al raggiungimento dell’età pensionabile. E così fece con molti altri, a partire dai due sostituti della Segreteria di Stato, per gli Affari generali e per i Rapporti con gli Stati (i ministri degli Interni e degli Esteri).
Sembrerebbe invece che Bergoglio - perlomeno a questo fa pensare l’inciso del comunicato ufficiale - voglia prendersi ancora qualche settimana di tempo per poi procedere ad un ricambio robusto e generalizzato dei vertici della curia e del governatorato, cominciando proprio dalla Segreteria di Stato di Bertone.
Saranno proprio queste nomine a rivelare se veramente quello di Bergoglio sarà un pontificato di rottura e quale direzione potrà prendere, al di là dei gesti e delle parole apparentemente “rivoluzionarie” di questi giorni.
Domani ci sarà la prima udienza del papa con un capo di Stato: la presidente argentina Cristina Kirchner. E fra i due i rapporti sono tutt’altro che pacifici: Bergoglio, da presidente della Conferenza episcopale argentina (fino al 2011) e da vescovo di Buenos Aires, non è mai stato un suo sostenitore.
di Bruno Forte, arcivescovo di Chiesti-Vasto
“Avvenire” del 19 gennaio 2013
Il dibattito intorno alla traduzione delle parole della consacrazione del vino nella celebrazione dell’Eucaristia si sta facendo vivo nel nostro Paese, come mostrano vari interventi e pubblicazioni recenti. Il sangue di Cristo è stato versato «per molti» o «per tutti»? Come tradurre l’espressione greca « hypér pollôn », presente nei testi biblici, sottesi alla formula liturgica?
La traduzione della Bibbia, approvata dalla Conferenza episcopale italiana, sia nella precedente che nell’attuale versione, ha tradotto così l’espressione: «Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, versato per molti » (Marco 14, 24 ); «Poi prese il calice, rese grazie e lo diede loro, dicendo: Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati» (Matteo 26,27-28). Isaia 53,11s, poi, è reso in modo analogo: «Il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità... ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti».
Da parte mia, ho avuto modo di esprimere la mia posizione in varie sedi: lo feci, ad esempio, in una riunione di qualche anno fa del Consiglio permanente della Cei, di cui facevo parte come presidente della Commissione episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi, argomentando la mia preferenza per il «per molti». In sede di Assemblea dei vescovi italiani, pur ribadendo la mia preferenza, espressi la mia comprensione per la difficoltà pastorale che i più vedevano e che non ho mai negato: capirà la gente questo cambiamento di traduzione dopo l’uso pluridecennale della traduzione «per tutti»? Non si penserà forse che con questo cambiamento si vogliano restringere gli spazi dell’accoglienza di tutti nella salvezza offerta da Gesù, quasi a voler presentare una Chiesa dei «no», più severa ed esigente?
Provo a fare chiarezza nel conflitto delle interpretazioni: la traduzione «per tutti» non è scorretta, perché non c’è dubbio che Dio voglia tutti salvi e il Figlio sia stato mandato per la salvezza di tutti. Questa traduzione, tuttavia, come ogni traduzione può essere cambiata e migliorata. Ad esempio, alcuni propongono come nuova traduzione la formula «per una moltitudine», che fa eco alla scelta della traduzione francese del testo liturgico: «pour la multitude». Il punto fondamentale da affermare è che Cristo è morto per la salvezza di tutti, anche se non è scontato che tutti vorranno accettare il Suo dono.
Quest’idea a me sembra resa correttamente dalla traduzione letterale «per molti», che meglio rispecchia la distinzione fra la redemptio objectiva, offerta dal Signore a tutti, e la redemptio subjectiva, quella effettivamente accolta o rifiutata dalla libertà di ciascuno. Si tratta di una resa che rispetta maggiormente non solo l’originale del testo, ma anche la libertà dell’assenso da parte della creatura umana, e dunque la sua dignità nella prospettiva dell’alleanza salvifica con il Dio vivente. Noi non sappiamo se tutti entreranno nella salvezza di Cristo, precisamente perché è in gioco la libertà di ciascuno di accogliere o rifiutare il dono.
Mi sembra ovvio che come spera Cristo e spera la Chiesa, così noi speriamo che tutti lo accolgano, impegnandoci ad annunciare credibilmente a ciascuno la bellezza di quanto il Signore ci offre.
In questa luce, è importante sottolineare che «molti» in italiano si oppone a «pochi», ma non è il contrario di tutti. Resta certamente la difficoltà di modificare un testo usato per anni nella liturgia e di dover conseguentemente spiegare la scelta operata: ma l’opzione «per molti» potrebbe essere occasione di una catechesi arricchente, che aiuti i credenti a riappropriarsi del messaggio centrale della salvezza offerta a tutti, senza imporsi alla libertà di nessuno. È quanto fa l’Eucaristia: essa realizza e annuncia la salvezza universalmente offerta e lascia il rischio della libertà umana come presupposto sullo sfondo. Da questo insieme di considerazioni deduco che la traduzione «per molti» sarebbe la più esatta. Altri episcopati l’hanno accolta, in lingue di diffusione mondiale (basti pensare all’inglese: « for many »).
Perché la sfida accettata da quei pastori non potrebbe essere accolta anche da noi, considerando che in gioco c’è il messaggio centrale della fede cristiana e la celebrazione di esso per la nostra salvezza, culmine e fonte di tutta la vita della Chiesa?
SI SCRIVE CARITÀ, SI LEGGE ACCENTRAMENTO: IL MOTU PROPRIO DEL PAPA CHIUDE IL CERCHIO *
36960. CITTÀ DEL VATICANO-ADISTA. Attenzione da dove vengono e attenzione a dove vanno, i soldi, perché tutto si può dire ma non che pecunia non olet, né che ogni spesa, per quanto presuntamente a fin di bene, sia una spesa ben fatta. Saranno considerazioni banali, ma non è mai male ripeterle e soprattutto non è mai vano disporre di strumenti giuridici per vigilare che non siano commessi abusi. Ovvio che valga anche per le opere di carità, tanto che Benedetto XVI ha sentito il bisogno di mettere intorno ad esse dei paletti alquanto elettrificati e guardiani armati di responsabilità con il motu proprio De caritate ministranda, datato 21 novembre e reso pubblico qualche giorno dopo, il 2 dicembre.
Siccome al servizio della carità la Chiesa è chiamata anche a livello comunitario, dalle piccole comunità locali alle Chiese particolari, fino alla Chiesa universale; e poiché, rileva il papa citando la sua enciclica Deus caritas est, «il Codice di Diritto Canonico, nei canoni riguardanti il ministero episcopale, non tratta espressamente della carità come di uno specifico ambito dell’attività episcopale», è giunto il momento di «colmare» un «lacuna normativa in modo da esprimere adeguatamente, nell’ordinamento canonico, l’essenzialità del servizio della Carità nella Chiesa ed il suo rapporto costitutivo con il ministero episcopale, tratteggiando i profili giuridici che tale servizio comporta nella Chiesa, soprattutto se esercitato in maniera organizzata e col sostegno esplicito dei pastori».
Perciò i 15 articoli del motu proprio stabiliscono che tutte le organizzazioni caritative sono innanzitutto «tenute a seguire nella propria attività i principi cattolici e non possono accettare impegni che in qualche misura possano condizionare l’osservanza dei suddetti principi»; «i principi ispiratori e le finalità dell’iniziativa, le modalità di gestione dei fondi, il profilo dei propri operatori, nonché i rapporti e le informazioni da presentare all’autorità ecclesiastica competente» dovranno essere espressi già nei loro statuti; si può ricorrere alla «denominazione di “cattolico” solo con il consenso scritto dell’autorità competente», ovvero del «vescovo diocesano del luogo dove l’ente abbia la sua sede principale». Il quale deve «vigilare affinché nell’attività e nella gestione di questi organismi siano sempre osservate le norme del diritto universale e particolare della Chiesa», curare che «le loro attività mantengano vivo lo spirito evangelico» e che gli operatori scelti dalle entità caritative siano «persone che condividano, o almeno rispettino, l’identità cattolica di queste opere».
Il vescovo, ma anche il parroco per competenza su un’attività parrocchiale, «dovranno impedire che attraverso le strutture parrocchiali o diocesane vengano pubblicizzate iniziative che, pur presentandosi con finalità di carità, propongano scelte o metodi contrari all’insegnamento della Chiesa». Ed inoltre - aggiunge il motu proprio - il vescovo diocesano «deve evitare» che gli organismi di carità siano «finanziati» o «accettino contributi» da «enti o istituzioni che perseguono fini in contrasto con la dottrina della Chiesa». In tal caso interverrà «proibendo l’uso del nome “cattolico” ed adottando i provvedimenti pertinenti ove si profilassero responsabilità personali».
Quando le attività caritative fossero poi «di ambito internazionale, sia consultato preventivamente il competente dicastero della Santa Sede», ovvero il Pontificio Consiglio Cor Unum, che «ha il compito di promuovere l’applicazione di questa normativa e di vigilare affinché sia applicata a tutti i livelli».
Blindata sotto Cor Unum è già finita la Caritas Internationalis, quando nel maggio scorso sono stati approvati i suoi nuovi statuti (v. Adista Notizie n. 19/12), secondo i quali «qualunque testo di contenuto o orientamento dottrinale o morale, emanato da Caritas Internationalis, deve sempre essere sottoposto alla preventiva approvazione del Pontificio Consiglio» e la nomina delle cariche deve avere «l’approvazione preventiva» del papa. Spuntata l’arma dell’autonomia voluta dal Concilio Vaticano II alla benemerita e più autorevole organizzazione caritativa, non rimaneva che provvedere al controllo stretto delle sue emanazioni nazionali e diocesane, troppo vicine ai poveri e perciò a rischio di attività sensibili alla lotta alle strutture socio-economiche ingiuste.
In particolare negli Stati Uniti, De caritate ministranda avrà anche una conseguenza diretta su tutti gli altri organismi caritativi che, avvalendosi del lavoro di propri dipendenti, si trovano nel dovere di rispettare la riforma sanitaria di Obama, in base alla quale i “datori di lavoro”, ovviamente al di là di qualsiasi credo cui appartengano, devono pagare ai dipendenti anche l’assistenza per l’aborto. Quelli che non si opporranno a tale dettato legislativo, decisamente contrario alla dottrina cattolica, verranno depennati - con la conseguenza di vedersi chiusi anche i rubinetti degli aiuti economici ecclesiali - dall’elenco di enti cattolici? (eletta cucuzza)
* Adista Notizie n. 45 del 15/12/2012
Mettere al primo posto l’esperienza dell’amore fraterno
di Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto *
Ho partecipato al Sinodo dei vescovi, da poco tenutosi in Vaticano, dedicato al tema della nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana. Ero uno dei 262 Padri sinodali, in rappresentanza di 114 Conferenze episcopali di tutto il mondo, oltre che della Curia romana, raccolti intorno a Benedetto XVI, che questo Sinodo ha voluto, partecipandovi con assiduità e contributi molto significativi.
Ho capito più che mai, dal vivo, perché Paolo VI aveva istituito questa forma di collegialità al servizio della Chiesa intera: essa doveva far rivivere a scadenze regolari qualcosa della straordinaria esperienza che fu il Concilio Vaticano II, vera Pentecoste dei tempi moderni. Nel Sinodo tante sono state le voci ascoltate: oltre 400 gli interventi, compresi quelli degli invitati, dei delegati di altre Chiese e comunità ecclesiali, e quelli fatti durante la discussione libera, voluta proprio dal Papa teologo, dotato di una singolare capacità di ascolto, esercitata in anni di riflessione sui temi della fede e sulle grandi domande del cuore umano.
Lo spirito del Vaticano II ha aleggiato con dovizia sui lavori, con punte di creatività feconda. Mi fermo a evidenziare tre aspetti, che hanno reso specialmente viva e attuale la memoria dei cinquant’anni trascorsi dall’apertura del Concilio.
Il primo riguarda l’esperienza ricchissima delle diversità in comunione. Essa appariva già a livello linguistico: oltre il latino, usato per le relazioni ufficiali e le proposizioni finali, sono risuonate le principali lingue della comunicazione planetaria, a cominciare dall’italiano, la più usata fra i Sinodali di ogni parte del pianeta, insieme all’inglese e allo spagnolo. A presiedere l’assemblea c’erano tre Cardinali delegati dal Papa, un Cinese, deliziosamente affannato alle prese con il latino, un Messicano e un Africano, che invece padroneggiava la lingua di Cicerone come fosse la propria. Non c’era area del "villaggio globale" che non fosse rappresentata.
Eppure, questa congerie di persone diversissime per storia, cultura, esperienze politiche e tradizioni locali, ha mostrato di essere un cuor solo e un’anima sola, nella preghiera, nell’ascolto del Successore di Pietro, nella testimonianza di una comune passione per la causa di Dio in questo mondo e l’annuncio della bellezza del Vangelo a ogni creatura.
La "globalizzazione", comunemente intesa nel suo profilo socio-economico, è stata vissuta al Sinodo come un’esperienza unica di coappartenenza a una stessa umanità, vissuta come famiglia di Dio, raggiunta dal dono del Suo amore in Cristo nella varietà delle mediazioni storiche e culturali. Il continuo scambio - amplificato ancor più nei lavori dei "circuli minores" - ci ha dato più volte l’impressione intensa di un ritrovarci fraterno, radicato nell’incontro che ha cambiato la vita di tutti e di ciascuno, quello col Risorto, vivo e presente per la fede nei nostri cuori.
Questa singolare esperienza di diversità in comunione si è espressa anche nel modo con cui il Sinodo ha guardato ai destinatari dell’evangelizzazione: nessun atteggiamento da crociata o da roccaforte da difendere, quanto piuttosto una simpatia larga, accogliente, convinta, pervasa dal desiderio di dare ad altri quanto ha riempito di senso e di bellezza il cuore e la vita. Anche se non sono mancate le analisi delle difficoltà e le denunce delle situazioni di crisi etica e spirituale, si avvertiva fra i Padri una volontà di guardare al bene ovunque presente, di costruire ponti di dialogo e di amicizia con tutti, di scommettere sul quel misterioso e straordinario collaboratore di Dio, che è il cuore umano.
Come testimonia Agostino all’inizio delle sue Confessioni, è all’Eterno che siamo profondamente destinati: «Ci hai fatto per Te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposi in Te». Quello che ho avvertito nei più è stata la profonda esperienza di questa umanità in ricerca: se sul piano dellecompetenze presenti fra i vescovi si andava dagli ex professori universitari all’Accademico di Francia, dagli esperti di teologia e filosofia a quelli delle scienze umane, fino a pastori ricchi solo (ed è patrimonio immenso, forse il più importante) di vita condivisa con la gente, sul piano dell’esperienza era il mondo intero a farsi presente fra noi, un mondo che - agli occhi di chi crede - è quello che Dio ha tanto amato da dare suo Figlio per noi.
Proprio perciò lo sguardo è stato quello di un’attenzione amicale, di un impegno motivato unicamente da amore e finalizzato a servire e promuovere la causa di Dio e quella dell’umanità dell’uomo nella loro inseparabilità. Un esempio in tal senso è stata l’attenzione riservata ai divorziati risposati e alle loro famiglie, verso cui più interventi hanno voluto ribadire l’assicurazione di appartenenza alla Chiesa madre, nell’abbraccio dell’amore misericordioso e fedele di Dio, che induce a valorizzare al massimo la condizione di comunione spirituale, che li rende comunque protagonisti e artefici della vita ecclesiale specialmente nella trasmissione della fede ai figli.
Mi ha colpito, infine, l’intensità con cui è stata riconosciuta da tutti la portata della sfida della nuova evangelizzazione, sia dei popoli di antica cristianità, che di coloro cui ancora non è giunto in maniera credibile il dono del Vangelo. È qui che mi sembra sia emerso il senso vero dell’aggettivo posto davanti al sostantivo evangelizzazione: non si tratta di una novità cronologica, quasi che si voglia fare quello che prima non si era mai fatto, secondo il significato di novità temporale, espresso nel greco del Nuovo Testamento col termine "neòs".
Ciò che è veramente in gioco è la novità di un cuore "nuovo", capace di nuovo ardore, di creatività e audacia nuove, secondo il senso della novità qualitativa o escatologica, che il greco biblico esprime con l’aggettivo "kainòs". È la novità del "comandamento nuovo" datoci da Gesù, l’"entolé kainé": il comandamento è nuovo non perché chieda quello che prima non veniva richiesto, l’amore di Dio e del prossimo, ma perché lo chiede a cuori resi nuovi dal dono dello Spirito. In altre parole, questo Sinodo ha domandato alla Chiesa di rinnovarsi nella fede e nella carità, di intraprendere cammini umili e coraggiosi di conversione pastorale, che metta al primo posto l’esperienza dell’amore fraterno, della carità verso Dio e verso i poveri, e lasci trasparire il Vangelo attraverso testimonianze contagiose di gioia e di bellezza.
Su quest’ultimo punto si è molto insistito: agli uomini e alle donne del nostro tempo, soprattutto ai giovani, va testimoniato in maniera convincente che Cristo non è solo la verità e il bene, ma è anche il Pastore bello, che riempie la vita di significato e di passione. Credere in Lui, seguirlo, è bello: e questo vale per tutti, nessuno escluso. Lungi dall’avere un tono intellettualistico o "élitario", l’insistere sulla bellezza di Dio è proposta rivolta a tutti, a cominciare dai poveri, perché essi non meno di altri hanno diritto alla bellezza e sono capaci di esprimerne singolari volti nella vita e nelle opere della loro fede. Proprio così, la causa del Vangelo può interessare veramente ogni cuore, offrendo ragioni di speranza a ciascuno, motivando il senso e la bellezza dell’impresa collettiva, da cui nessuno può sentirsi escluso.
* Il Sole 24 Ore, 4 novembre 2012
Hans Küng
Il teologo cattolico invita alla rivoluzione per mettere fine all’autoritarismo della chiesa *
Hans Küng invita al movimento dal basso per destabilizzare il papato e dare vita in Vaticano a riforme radicali
Hans Küng: fa appello ai preti e ai fedeli praticanti affinché si oppongano alla gerarchia cattolica
Uno dei più autorevoli teologi cattolici ha invitato alla rivoluzione dal basso per destabilizzare il papato e dare vita in Vaticano a riforme radicali.
Hans Küng fa appello ai preti e ai fedeli praticanti affinché si oppongano alla gerarchia cattolica, che definisce corrotta, senza credibilità e lontana dai veri problemi del popolo.
In una intervista esclusiva al The Guardian, Küng, che è stato a stretto contatto con il papa quando collaboravan da giovani teologi, ha descritto la chiesa come un "sistema autoritario" paragonandlo alla dittatura tedesca durante il nazismo. "L’obbedienza incondizionata richiesta ai vescovi che giurano fedeltà al papa mediante la sacra promessa è tanto estrema quanto quella dei generali tedesci che erano obbligati a giurare fedeltà a Hitler", ha infatti affermato.
Il Vaticano ha inteso schiacciare qualsiasi forma di dissenso, ha aggiunto. "Le regole per la scelta dei vescovi sono talmente rigide che, non appena qualcuno accenna alla pillola contraccettiva, all’ordinazione delle donne, viene depennato". Il risultato è una schiera di "Yes men", quasi tutti allineati senza porre questioni. "La sola strada per la riforma è partire dal basso", dice il prete ottantaquattrenne Küng. "I preti e gli altri chierici che occupano funzioni di responsabilità devono smetterla di essere servili, di organizzarsi per affermare che certi argomenti semplicemente non si toccano".
Küng, autore di circa 30 libri su teologia cattolica, cristianesimo, etica, che hanno venduto milioni di copie in tutto il mondo, ha dichiarato che l’ispirazione per un cambiamento globale può arrivare dalla sua nativa Svizzera o dall’Austria, dove centinaia di preti cattolici hanno dato vita a movimenti che si oppongono apertamente alle attuali pratiche del Vaticano. I dissenzienti sono definiti pionieri anche da osservatori vaticani che li vedono come i probabili portatori di un profondo scisma nella chiesa. "Ho sempre detto che se nella diocesi un prete si desta, non conta nulla. Cinque creano agitazione. Cinquanta già sono praticamente invincibili. In Austria la cifra supera le 300 unità, fino anche a 400; in Svizzera ci sono 150 preti dissenzienti, e il numero è destinato a salire".
Ha dichiarato che i recenti tentativi dell’arcivescovo di Vienna, Christoph Schönborn, di stroncare la rivolta minacciando di punire quelli coinvolti nella iniziativa austriaca sono falliti per via della forza delle loro motivazioni. "Si è immediatamente fermato quando ha capito che molta gente comune li sostiene e sarebbe stato pericoloso inimicarsela", ha aggiunto Küng . Le iniziative mirano a sostenere richieste apparentemente banali come lasciare che i divorziati risposati ricevano la comunione, permettere ai laici di presiedere le liturgie e alle donne di acquisire ruoli chiave nella gerarchia. Tuttavia, poiché essi si oppongono all’insegnamento cattolico tradizionale, le richieste sono state categoricamente respinte dal Vaticano Küng, al quale è stato negato l’insegnamento della teologia cattolica da Giovanni Paolo II nel 1979 per aver messo in dubbio il concetto di infallibilità papale, è stato colui che ha riconosciuto all’allora Joseph Ratzinger il primo step nella gerarchia del cattolicesimo accademico quando lo ha chiamato all’Università di Tubinga, nel nord-ovest della Germania, ad insegnare teologia dogmatica nel 1966.
Per quattro anni i due hanno lavorato a stretto contatto, in qualità di giovani consiglieri, negli anni ’60 durante il Concilio Vaticano II - l’evento riformatore più importante nella chiesa a partire dal Medioevo. Ma il rapporto tra i due non è mai andato oltre, anche a causa delle divergenze politiche che creavano un divario incolmabile tra loro. L’impetuoso e passionale Hans Küng, per molti versi, ha spesso rubato la scena al serio e posato Joseph Ratzinger.
Küng fa riferimento alle leggende che abbondano sul conto suo e di Ratzinger fin dai giorni di Tubinga, non ultimi i racconti apocrifi di quando avrebbe dato un passaggio sulla sua "macchina rossa sportiva" ad un Ratzinger lasciato a piedi dalla bici. "Gli davo sempre un passaggio, specie su per le ripide colline di Tubinga, ma il resto è stato creato. Non ho mai avuto auto sportive, a parte un’Alfa Giulia. Lo stesso Ratzinger ha ammesso di non essere interessato alla tecnologia né tanto meno aveva conseguito una patente di guida. Ma tutto questo è stato spesso tramutato in una specie di metafora idealizzando il "ciclista" contro lo scapestrato "Alfista".
Stando a Küng, infatti, ll’immagine del futuro papa, modesto e prudente ciclista, ora 85enne, ha dominato per anni e ancora oggi è tutt’altro che scemata fin dall’elezione del 2005. "Ha sviluppato una speciale pomposità che non si addice all’uomo che sia io che altri avevamo conosciuto, quello che girava col baschetto in testa ed era pieno di modestia. Ora lo vediamo spesso ricoperto di vesti dorate e splendenti. Di sua sponte indossa la corona di un papa del XIX secolo e si è fatto rifare le vesti del papa Leone X Medici"."
Questa pomposità si manifesta al meglio durante le udienze periodiche in Piazza S. Pietro a Roma. "Queste adunanze hanno dimensioni stile corazzata Potemkin. Gente fanatica si reca in piazza per celebrare il papa e per dirgli quanto è fantastico, mentre le loro stesse parrocchie versano in condizioni preoccupanti, con mancanza di preti, sempre più persone che si allontano rispetto a quante ne vengono battezzate e ora il cosiddetto Vatileaks, che evidenzia in che stato si trovi l’amministrazione del Vaticano", ha detto Küng con riferimento allo scandalo sui documenti segreti trapelati, che hanno rivelato lotte di potere interne al Vaticano e hanno visto l’ex maggiordomo del papa comparire in tribunale. Il processo terminerà sabato.
E’ stato proprio a Tubinga che le strade dei due teologi si sono incrociate per alcuni anni prima di divergere enormemente a seguito delle rivolte studentesche del 1968. Ratzinger rimase scioccato dagli ieventi e fuggì verso la relativa sicurezza della nativa Baviera, dove ha approfondito il suo coinvolgimento nella gerarchia cattolica. Küng restò a Tubinga e assunse sempre più il ruolo dell’"enfant terrible" della Chiesa Cattolica. "Le rivolte studentesche furono un vero e proprio shock per Ratzinger dne divenne sempre più conservatore e simpatizzante della gerarchia ecclesiastica", sostiene Küng.
Dopo aver definito quello di Benedetto XVI un "pontificato di opportunità mancate" in cui ha perso l’occasione di riconciliazione con le fedi protestante, ebraica, ortodossa e musulmana, così come ha mancato di sostenere la lotta all’Aids in Africa non concedendo l’utilizzo dei sistemi di controllo delle nascite, Küng sostiene che lo "scandalo più grave" sia la copertura a livello mondiale dei casi di abusi sessuali commessi dai chierici durante il suo incarico di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, come Cardinale Ratzinger.
"Il Vaticano non è diverso dal Cremlino. Come Putin in qualità di agente segreto è diventato il capo della Russia, così Ratzinger, in qualità di capo dei servizi segreti della Chiesa è diventato capo del Vaticano. Non ha mai chiesto perdono per i molti casi di abusi sessuali posti sotto secretum pontificium e non ha mai riconosciuto questo problema come il maggior disastro della Chiesa Cattolica". Küng ha descritto quello Vaticano come un processo di "Putinizzazione".
Comunque, nonostante le differenze, i due sono rimasti in contatto. Küng ha fatto visita al papa durante le ferie estive a Castel Gandolfo nel 2005, occasione nella quale i due hanno discusso per circa quattro ore.
"Sembrava che avessimo lo stesso passo. Dopotutto siamo stati colleghi per anni. Abbiamo camminato nel parco e ci sono stati momenti in cui ho pensato che potesse cambiare idea su certi punti, ma non lo fece. Da allora ci siamo scritti, ma mai più incontrati".
Küng ha viaggiato in lungo e in largo nella sua vita, familiarizzando con chiunque, dai leader iraniani a John F. Kennedy a Tony Blair, col quale ha costruito uno stetto legame circa dieci anni fa, diventando una sorta di guru spirituale per l’allora primo ministro britannico prima della sua decisione di convertirsi al cattolicesimo.
"Sono rimasto colpito dal modo con cui ha affrontato il conflitto del’Irlanda del Nord. Ma poi è arrivata la guerra in Iraq e sono rimasto colpito dal modo con cui ha collaborato con Bush. Gli ho scritto definendo il gesto un fallimento storico di prim’ordine. Mi scrisse una nota a mano in risposta, dicendo che mi ringraziava e rispettava il mio punto di vista, ma che stava agendo secondo coscienza senza voler in alcun compiacere gli americani. Ero stupito che un primo ministro britannico potesse compiere un errore tanto catastrofico e resta per me un fatto tragico." Ha descritto la coversione al cattolicesimo di Blair come un errore, sostenendo che avrebbe potuto usare il suo ruolo pubblico per rinconciliare le differenze tra gli anglicani e la Chiesa Cattolica nel Regno Unito.
Dal suo studio colmo di libri, in cui troneggia un ritratto di S. Tommaso Moro, martire cattolico inglese del XVI secolo, Küng guarda fuori nel suo girdino alla statua di due metri che lo raffigura. I critici hanno definito la cosa sintomatica del suo auto-compiacimento. Sembra imbarazzato mentre spiega come la statua sia un regalo dei vent’anni da parte dell’associazione Stiftung Weltethos (Fondazionie per l’Etica Globale) che opera da casa sua e continuerà a farlo dopo la sua morte.
Lungi dal mettere un freno alla sua prolifica produzione teologica, Küng di recente ha commutato le idee di Weltethos - che cerca di creare un codice globale di comportamento, una globalizzazione dell’etica - in un estemporaneo libretto musicale. Mischiando la narrativa con sollecitazioni dal confucianesimo, induismo, buddismo, giudaismo e cristianesimo, gli scritti di Küng sono stati inseriti in un’opera sinfonica del compositore inglese Jonathan Harvey che vivrà la sua prima londinese domenica al Southbank Centre.
Küng sostiene che l’opera musicale, come la fondazione, rappresenta un tentativo di enfatizzare ciò che le religioni del mondo hanno in comune in barba a ciò che le divide.
Weltethos è stata fondata nel 1990 per unire le religioni del mondo, sottolineando le parti comuni e non le differenze. Ha istituito un codice di norme comportamentali che si spera un giorno possano essere universalmente riconosciute dalle Nazioni Unite.
L’obiettivo dell’opera è certamente imponente - Harvey ha parlato di "timore reverenziale" nello scrivere una partitura per il testo. Ma Küng, che ha guadagnato il sostegno di figure importanti come Henry Kissinger, Kofi Annan, Jacques Rogge, Desmond Tutu, Mary Robinson e Shirin Ebadi, insiste nel dire che il suo scopo è carpire le esigenze dal basso. "In un tempo di cambiamenti nel paradigma mondiale, abbiamo bisogno di uno schema di principi comuni, tra questi com’è ovvio la Regola d’Oro, secondo la quale Confucio insegnò a non imporre agli altri ciò che non si augurerebbe a se stessi."
L’ottimismo della fede contro i profeti di sventura
di Bruno Forte (Il Sole 24 Ore, 7 ottobre 2012)
È la sera dell’11 ottobre 1962. Volge al termine la giornata di apertura del Concilio Vaticano II. Giovanni XXIII - inizialmente titubante, come testimonierà il suo fedele segretario, Mons. Loris Francesco Capovila - decide di affacciarsi alla finestra dell’appartamento pontificio. Toccato dallo spettacolo della folla raccolta in Piazza San Pietro, le rivolge alcune parole, passate alla storia come i1 "discorso della luna":
«Cari figlioli - dice il Papa -, sento le vostre voci. La mia è una sola, ma riassume tutte le voci del mondo; e qui di fatto il mondo è rappresentato. Si direbbe che persino la luna si è affrettata stasera - osservatela in alto - a guardare questo spettacolo... Noi chiudiamo una grande giornata di pace... Sì, di pace: "Gloria a Dio, e pace agli uomini di buona volontà"... La mia persona conta niente: è un fratello che parla a voi, un fratello divenuto padre per volontà di Nostro Signore... Continuiamo dunque a volerci bene, a volerci bene così, guardandoci così nell’incontro: cogliere quello che ci unisce, lasciar da parte, se c’è, qualche cosa che ci può tenere un po’ in difficoltà... Tornando a casa, troverete i bambini. Date loro una carezza e dite: "Questa è la carezza del Papa". Troverete forse qualche lacrima da asciugare. Abbiate per chi soffre una parola di conforto. Sappiano gli afflitti che il Papa è con i suoi figli specie nelle ore della mestizia e dell’amarezza... E poi tutti insieme ci animiamo: cantando, sospirando, piangendo, ma sempre pieni di fiducia nel Cristo che ci aiuta e che ci ascolta, continuiamo a riprendere il nostro cammino».
Sin dal primo momento queste parole suscitarono un’ondata universale di tenerezza commossa, che a distanza di anni pare ancora non spegnersi. Con Giovanni XXIII la Chiesa sembrava farsi vicina a tutti, amica di tutti, pronta a condividere con tutti la gioia e la fatica di vivere. Una Chiesa dell’amore, della speranza e della pace, offerte a ogni cuore. Quelle parole erano il frutto di una consapevolezza profonda, che lo stesso Papa aveva espresso al mattino dello stesso giorno in un discorso, cui aveva lavorato personalmente con grande impegno, fino a limarlo più volte.
Si trattava dell’allocuzione inaugurale del Concilio, intitolata "Gaudet Mater Ecclesia" - "Gioisce la Madre Chiesa" dalle parole con cui si apriva. Pronunciato in latino, il discorso non ebbe l’effetto immediato di quello "della luna". Ne costituiva, però, la premessa, il quadro ragionato, l’impostazione programmatica di fondo. A 50 anni da quel giorno - che sarà solennemente commemorato da Benedetto XVI e dai rappresentanti dei vescovi di tutto il mondo riuniti nel Sinodo sulla nuova evangelizzazione, che si apre oggi a Roma - le parole di Papa Giovanni suonano più che mai attuali, capaci di suscitare ancora gioia e stupore.
In primo luogo, il Pontefice incoraggiava tutti alla fiducia e all’ottimismo della fede, pronunciando un "no" tanto convinto, quanto netto a ogni genere di profeti di sventura, di allora, come di ogni tempo: «Alcuni, sebbene accesi di zelo per la religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio. Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori... A noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo».
Se di questo sguardo ottimista c’era bisogno allora, ai tempi della guerra fredda e della divisione del mondo in blocchi contrapposti, è innegabile che ce ne sia bisogno anche oggi: la crisi che attraversa il "villaggio globale" appare di una gravità con pochi precedenti e la tentazione del pessimismo rischia di farsi strada nei cuori. La storia sembra aver dato ragione alla fiducia del Papa buono con l’impensabile evoluzione che ha portato alla fine dei totalitarismi ideologici e della fin troppo scontata contrapposizione ad essi. Così è presumibile che il futuro darà ragione a chi continua a scommettere sull’uomo, a credere nelle vie misteriose della Provvidenza e a seminare un seme oggi, anche dinanzi a quanti sembrano prevedere che il mondo finirà domani...
Un secondo punto toccato da Papa Giovanni nel discorso del mattino dell’11 Ottobre 1962 riguardava la natura e la finalità del Concilio: si trattava di intraprendere un coraggioso lavoro di "aggiornamento" dell’intera comunità ecclesiale, che in nessun senso voleva essere un abbandono della secolare ricchezza della fede, aprendosi alla riforma e al rinnovamento della Chiesa nell’obbedienza ai segni dello Spirito operante nella storia. Diceva Giovanni XXIII: «Altro è il deposito della fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione. Va data grande importanza a questo metodo e, se è necessario, applicato con pazienza; si dovrà cioè adottare quella forma di esposizione che più corrisponda al magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale».
La Chiesa intendeva parlare il linguaggio del suo tempo, per comunicare con tutti, per lanciare a tutti ponti di amicizia e di dialogo su cui far passare il tesoro della bellezza di Dio custodito nella sua fede. La finalità pastorale non poteva non presupporre la profondità teologica e questa si lasciava sollecitare dall’urgenza di offrire a tutti i tesori del Vangelo, raccogliendo una sfida non così diversa da quella che oggi chiamiamo "nuova evangelizzazione".
Infine, il Papa buono confessava il suo sogno: promuovere l’unità nella famiglia cristiana e umana, al di là di ogni steccato. «La Chiesa Cattolica - diceva - ritiene suo dovere adoperarsi attivamente perché si compia il grande mistero di quell’unità che Cristo Gesù con ardentissime preghiere ha chiesto al Padre nell’imminenza del suo sacrificio; essa gode di pace soavissima, sapendo di essere intimamente unita a Cristo in quelle preghiere; di più, si rallegra sinceramente quando vede che queste invocazioni moltiplicano i loro frutti più generosi anche tra coloro che stanno al di fuori della sua compagine».
In un abbraccio veramente universale, il cuore del grande Pontefice si dilatava a voler raggiungere tutti. A distanza di 50 anni quest’ansia non è meno bella e attuale. Oggi, come allora, ha abitato e abita il cuore dei grandi protagonisti della storia cristiana, a cominciare dai Papi che sono seguiti a Giovanni XXIII. Oggi, come allora, esige una scelta di vita da parte di tutti, per cercare uniti il bene comune, aldilà di ogni corta visione di parte, con speranza e impegno fiducioso, ben sapendo che - come diceva l’umile e grande Pontefice - siamo ancora soltanto all’aurora: «Il Concilio che inizia sorge nella Chiesa come un giorno fulgente di luce splendidissima. È appena l’aurora: eppure, già toccano soavemente i nostri animi i primi raggi del sole nascente!». Oggi, come allora: «Tantum aurora est!». E questo basta per impegnarsi a quanti si riconoscano "prigionieri della speranza" (Zaccaria 9,12) e vogliano tirare nel presente degli uomini qualcosa della futura, promessa bellezza di Dio.
Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto
I tre fili del Concilio
di Gianfranco Ravasi (Il Sole 24 Ore - Domenica, 7 ottobre 2012)
L’11 ottobre prossimo si aprirà ufficialmente l’ "Anno della fede" voluto da Benedetto XVI e destinato a chiudersi il 24 novembre 2013. La scelta della data iniziale è emblematica perché scandisce i cinquant’anni dell’inaugurazione solenne del Concilio Vaticano II. È difficile per me resistere alla memoria autobiografica: giunsi a Roma, non ancora ventenne, per iniziare i miei studi in teologia proprio nel pomeriggio dell’11 ottobre 1962.
Ero, quindi, anch’io presente quella sera nell’immensa folla che, in piazza S. Pietro, ascoltava l’ormai celebre "discorso della luna" di Giovanni XXIII, così come sono stato tra coloro che, tre anni dopo, l’8 dicembre 1965 assistevano alla solenne conclusione dell’assise conciliare con Paolo VI, per non parlare poi delle varie volte in cui - attraverso la presentazione di un vescovo - avevo partecipato alle sessioni in S. Pietro, seguendo gli interventi dei Padri consiliari.
Il Concilio Vaticano II, però, è intrecciato con la mia vita non solo per ragioni biografiche. Lo è per un dato più radicale che è condiviso anche da tutti quei sacerdoti o fedeli che non misero mai piede a Roma in quegli anni, eppure furono in modo benefico "contaminati" da quell’evento.
Naturalmente, di fronte alla massa enorme della documentazione conciliare e alla relativa sterminata bibliografia dalle tonalità più diverse e fin antitetiche (preziosa in questo è stata l’opera di raccolta e di analisi condotta dall’Istituto per le Scienze Religiose di Bologna creato dal prof. Alberigo), davanti anche soltanto all’eredità ufficiale di quell’assise con le sue quattro costituzioni, nove decreti e tre dichiarazioni, è difficile identificare in maniera semplificata un nodo d’oro che tutto tenga insieme, ne decifri il senso ultimo e ne delinei l’anima genuina. Preferirei, allora, ricorrere piuttosto a una trilogia fatta di fili robusti che percorrono e reggono quel tessuto così complesso, ornato e policromo.
Il primo di questi fili è, in verità, molto fluido, simile quasi a una trama che ha attraversato, fin dall’annuncio dell’indizione da parte di Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959 nella basilica di S. Paolo, tutto il Concilio e l’intero mezzo secolo che abbiamo alle spalle. Si è, infatti, respirata e vissuta un’atmosfera intensa e unica, un fremito che paradossalmente faceva guardare la Chiesa lungo due direzioni antitetiche eppure complementari.
Da un lato, infatti, ci si proiettava verso il mondo in evoluzione e, quindi, verso orizzonti futuri, facendo risuonare quella parola allora un po’ emozionante, "aggiornamento". D’altro lato, però, si voleva liberare dal manto un po’ polveroso di una storia secolare il cuore pulsante del Vangelo, la vitalità delle origini cristiane, la matrice ecclesiale originaria, compiendo così una sorta di sguardo retrospettivo.
Proprio per quest’ultimo aspetto alcuni Padri considerati "progressisti" ribattevano ai colleghi obiettori di essere loro stessi i veri servatores, i "conservatori" dello spirito genuino della matrice originaria cristiana e della sua grande Tradizione mentre gli oppositori in ultima analisi si rivelavano novatores, sostenendo tesi o prassi posteriori.
Il clima di riscoperta delle radici cristiane come autentica "novità’ era vissuto allora in modo forte, talora forte talora frenetico: si spiegano così anche certe sucessive degenerazioni e il parallelo allentarsi di quella tensione spirituale. Tuttavia, penso che questa eredità di indole generale non si sia mai spenta, tant’è vero che ancor oggi l’aggettivo "conciliare" suscita sempre un palpito, una vibrazione, una scossa interiore, un appello a vivere più efficacemente il cristianesimo.
Un secondo filo che si dipana non solo in tutti i documenti conciliare, ma che è divenuto un raggio solare che ha illuminato fino ai nostri giorni tutta la Chiesa, è stato quello del primato della Parola di Dio. Essa, certo, ha avuto la sua stella polare nella Costituzione significativamente denominata Dei Verbum. Inizialmente si era ipotizzato un titolo più riduttivo, De Sacra Scrittura, rimandando esclusivamente alla Bibbia.
Poi, però, si è marcato il fatto che la Parola di Dio precede ed eccede la Sacra Scrittura: quest’ultima, infatti, è l’attestazione oggettiva della Rivelazione di Dio che però echeggia già nella creazione e nella storia e che si effonde illuminando la lettura e l’attualizzazione della Scrittura nella Tradizione. Si compiva, così, quanto suggestivamente dichiarava S. Gregorio Magno: Scrittura cum legente crescit. Ecco, allora, il titolo finale di quel documento: De divina Revelatione .
La Bibbia col Concilio ha, così, illuminato la liturgia, la catechesi, la spiritualità, la pastorale, la cultura, la teologia. A quest’ultimo proposito, ricordo in quegli anni l’ardua transizione che i miei docenti dell’Università Gregoriana avevano dovuto compiere, rendendo i loro corsi sempre più modellati sulla S. Scrittura come sorgente, superando l’uso secondo cui era la riflessione speculativa a convocare i passi biblici a supporto delle tesi già elaborate. Un’inversione metodologica che ora è normale nei trattati teologici ma che allora sembrava una rivoluzione, anche se in realtà si trattava di un ritorno alle origini. I Padri della Chiesa, infatti, come è stato fatto notare da molti, non parlavano (o scrivevano) della Bibbia, ma parlavano la Bibbia.
Giungiamo, così, al terzo e ultimo filo, quello del confronto e del dialogo col mondo, con la società e con la cultura contemporanea. Emblematico, al riguardo - come tutti riconoscono - fu il documento conciliare Gaudium et Spes, un ampio testo di ben 93 paragrafi, capace di dipingere un affresco dell’orizzonte nel quale la Chiesa si trovava immersa. In realtà, tutto il patrimonio dottrinale e pastorale del Vaticano II era in filigrana animato dall’istanza di comprendere e di incontrare un mondo che si rivelava sempre più complesso e incline ad allontanarsi dalla fede non solo cristiana, ma anche dal puro e semplice ambito del religioso e del sacro. Ecco, allora, la necessità di un’antropologia che potesse frenare la corsa alla secolarizzazione, alla dissacrazione, all’indifferenza.
È così che il Concilio volle delineare il ritratto della persona umana nella sua dignità di "immagine" divina, nella sua libertà, coscienza, intelligenza, nei suoi splendori e miserie. Questo ritratto era collocato all’interno della società attraverso la ricerca del bene comune e l’affermazione dell’autonomia della politica e delle realtà terrene. Senza ignorare le degenerazioni che intaccano il singolo, la famiglia, la comunità universale, l’approccio adottato era, però, sempre positivo, anche quando ci si confrontava con fenomeni articolati e delicati come la scienza, l’economia e persino l’ateismo e le crisi spirituali. Certo, la mappa socio-culturale descritta dal Concilio può risultare in alcune aree superata o datata (si pensi solo all’attuale civiltà informatica).
Ma questo si trasforma proprio in un insegnamento. Certo, il cuore del messaggio evangelico è in ogni tempo unico, è «lo stesso ieri, oggi e sempre», come affermava per il Cristo la Lettera agli Ebrei (13,8). Esso, però, deve continuamente incarnarsi nelle mutevoli coordinate storiche entro le quali siamo innestati. Questa "contemporaneità" permanente di Cristo e della sua parola è il grande monito costante del Concilio Vaticano II.
Un po’ come scriveva il filosofo danese Soeren Kierkegaard: «L’unico rapporto che si può avere con Cristo è la contemporaneità. Rapportarsi a un defunto è un rapporto estetico: la sua vita ha perduto il pungolo, non giudica la mia vita, mi permette solo di ammirarlo». Il Vivente, invece, com’è il Cristo risorto, «mi costringe a giudicare la mia vita in senso definitivo». Ed è ciò che il Concilio Vaticano II ha ribadito con passione e convinzione a tutta la Chiesa.
Né sudditi, né «società perfetta» ma popolo di Dio
di Raniero La Valle (l’Unità, 7 ottobre 2012)
Se ricordare i 50 anni dall’inizio del Vaticano II consistesse nell’innalzare una nuvola d’incenso che nasconde il Concilio e poi lascia tutto come prima, le celebrazioni di questo anniversario sarebbero inutili e anzi dannose. Ricordare il Concilio vuol dire invece interrogarlo, chiedergli che cosa esso è stato e ancora può essere per la Chiesa e per gli uomini. E qui le domande sarebbero così tante, che a racchiudere le risposte non basterebbero tutti i libri del mondo, come con un’iperbole dicono i Vangeli della testimonianza di Gesù. Infatti il Concilio ha ricapitolato e reinterpretato tutta la tradizione di fede della Chiesa, e l’ha riproposta, «aggiornata», come diceva Giovanni XXIII, agli uomini di oggi in forme nuove, in quel «modo che la nostra età esige».
Dunque qui possiamo solo accennare ad alcune primissime domande; le altre ognuno potrà farle per conto suo.
La prima domanda è come il Concilio ha pensato la Chiesa. Esso poteva pensarla (come del resto appariva in quel tempo) come una piramide clericale col Papa intangibile al vertice, i vescovi come prefetti e i fedeli come gregge o come «sudditi». Invece l’ha pensata come una comunione di Chiese con al vertice il vescovo di Roma, unito però in un collegio con tutti gli altri vescovi, il cui mandato non deriva dal Papa, come se fossero suoi dipendenti o «collaboratori», ma direttamente da Dio. Quanto ai fedeli, non sono dei sudditi, ma un popolo (che per la cultura del nostro tempo non è formato da pecore, ma da sovrani).
La Chiesa non è poi una «società perfetta», al modo degli Stati, ma è una realtà umano-divina; e se come realtà umana si sa dove comincia e si sa dove finisce, come realtà divina rompe ogni frontiera e giunge ad abbracciare non solo tutte le Chiese oggi divise, ma anche uomini e donne di altre religioni e senza religione, perché tutti oggetto dell’amore di Dio. Sicché lo stesso concetto di popolo di Dio si allarga a comprendere potenzialmente, e non certo per un disegno egemonico, l’umanità tutta intera.
Un vescovo francese, monsignor Dubois, in Concilio lo spiegò così: «Il popolo di Dio, nel senso più pieno della parola, è la Chiesa, con tutti i battezzati; ma popolo di Dio è anche il popolo ebreo che nelle sue sinagoghe continua a leggere i testi di Isaia; popolo di Dio sono anche tutti quelli che credono in un Dio personale e che possono essere, sul piano umano, più morali di certi cristiani; ma popolo di Dio sono anche i ‘gentili’, i pagani (le genti) che non credono in Dio ma sono creati da Dio e ricevono la vita da lui; dunque tutti gli uomini sono di Dio e suo popolo». Insomma la Chiesa di Cristo, che «sussiste» ma non si esaurisce nella Chiesa cattolica, è l’umanità in cammino, la «carovana umana», come l’ha chiamata monsignor Dubois.
Ma se così stanno le cose, la Chiesa deve stare attenta a non trattare male questo popolo che sta anche fuori dei suoi confini visibili. E lo deve accettare con le sue istituzioni e culture, non solo quelle del Medioevo, ma anche quelle di oggi. Ed è proprio qui che, come ha detto Benedetto XVI in un suo famoso discorso alla Curia, la Chiesa del Concilio ha introdotto una discontinuità rispetto alla sua tradizione più recente, instaurando un nuovo rapporto con l’età moderna che fino al Concilio, da Galileo al Sillabo, era stata oggetto di aspre e radicali condanne da parte del magistero romano; è cambiato infatti l’atteggiamento della Chiesa rispetto a tre dimensioni fondamentali della modernità: il valore della scienza, il valore dello Stato con i suoi ordinamenti moderni, e il valore della libertà, che non è un’invenzione del liberalismo, ma è l’immagine stessa di Dio impressa nell’uomo.
In questo quadro la Chiesa ha ripensato anche la sua concezione dell’essere umano: non che sia arrivata a metterci dentro come si deve anche la donna, ma certamente ha approfondito e addolcito la sua antropologia, anche se ancora indistinta.
E questa è la seconda grande domanda che si può fare al Concilio: quale uomo? Senza dubbio il Concilio ha abbandonato l’antropologia che considerava l’umanità (a parte i cattolici) come una «massa dannata», per usare l’impietosa espressione di Sant’Agostino. Non è vero che, come si diceva, fuori della Chiesa visibile non c’è salvezza, e che perciò bisogna farci entrare tutti a tutti i costi.
La libertà religiosa («nessuno sia costretto, nessuno sia impedito») è più importante per il Concilio che il numero dei fedeli. Di conseguenza il Concilio ha fatto cadere la dottrina secondo la quale i bambini morti senza battesimo non vanno in paradiso, e restano privi di Dio. «Questa non è la fede delle nostre Chiese», dissero i vescovi in Concilio. Dio ama e vuole che tutti gli uomini siano salvi, figurarsi i bambini!
peccato originale
Di fatto l’antropologia del Concilio non si appella più alla dottrina del peccato originale per spiegare la condizione umana. Pur nella sua debolezza, l’uomo non è storpiato da quel primo peccato, non è stato punito da Dio con la morte (che altrimenti non ci sarebbe) e scacciato lontano finché il Cristo non venisse a salvarlo. Secondo il Concilio, Dio non ha scacciato nessuno, non si è pentito della creazione dell’uomo, ma anzi «dopo la caduta» non abbandonò l’uomo, ma sempre gli diede gli aiuti necessari alla salvezza, in vista di Cristo, che del resto era già all’opera, con lo Spirito, fin dal principio e prima del principio. Sicché il lavoro, la sessualità, i dolori dei parti, la fatica per procurarsi il cibo e anche la morte non sono la pena del peccato, sono l’umanità dell’uomo. È una buona notizia. Ma non era appunto compito del Concilio dare una «buona notizia», cioè l’Evangelo?
Giulio Cesare, il pontefice ateo
Seguace di Epicuro, fu eletto alla massima carica religiosa
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 25.09.2012)
Nell’anno 63 a.C. Giulio Cesare, non ancora quarantenne, grazie ad una campagna elettorale costosissima che rischiò di portarlo definitivamente alla rovina, riuscì a farsi eleggere pontefice massimo, la più alta carica religiosa dello Stato romano. Lo scontro elettorale era stato durissimo; il suo principale antagonista Quinto Lutazio Catulo aveva messo in atto la più pervasiva corruzione elettorale fondata sulla capillare compravendita del voto. Cesare rispose con la stessa arma. Il «mercato politico» - come ancora oggi elegantemente lo si chiama - raggiunse in quell’occasione una delle sue vette. Cesare dovette indebitarsi a tal punto per far fronte ai costi di una tale oscena campagna elettorale da lasciarsi andare, parlando con la madre, alla celebre uscita: «Oggi mi vedrai tornare o pontefice massimo o esule». È Plutarco, al solito egregiamente informato su tutto quell’aspetto del reale che la storia «alta» trascura, a darci la notizia e a chiosarla con una interessante considerazione: con tale vittoria inattesa, e contro un avversario così forte e così autorevole, Cesare «intimidì gli ottimati, i quali capirono che avrebbe potuto indurre il popolo a qualunque audacia» (Vita di Cesare, 7).
Subito dopo esplode la congiura di Catilina. Cesare, che è pretore designato (entrerà in carica nel gennaio 62), è lambito dalla congiura. Ed in Senato, di fronte alla pressione fortissima di chi (come Cicerone e Catone) propugna l’esecuzione capitale dei congiurati, ormai scoperti e arrestati, Cesare sceglie di motivare, con argomenti tratti dalla filosofia di Epicuro, la proposta di lasciarli in vita. Con l’argomento che, se l’anima è mortale, la pena di morte è più lieve di una lunga detenzione! Sappiamo quanto si sia speculato da parte dei contemporanei, e poi degli studiosi moderni, intorno alla implicazione o meno di Cesare nella congiura. Cicerone - e non lui soltanto - era convinto che Cesare fosse compromesso: ma non ritenne di affermarlo apertamente, se non quando il dittatore era morto. Certo, la vittoria elettorale che consentì a Cesare di assumere il pontificato massimo venne al momento opportuno e rivestì lo stesso Cesare di una nuova sacralità protettiva, quanto mai giovevole in quel momento.
Essere implicati in un’iniziativa eversiva segreta si può in molti modi, che vanno dalla diretta partecipazione alla semplice, passiva consapevolezza del progetto. Cesare non era così imprudente da porsi in una posizione tale da divenire ricattabile, una volta fallito il piano, da compagni imprudenti o sfortunati. Cercò però di salvarli parlando in Senato nel modo in cui Sallustio, suo seguace, lo fa parlare, scomparsi ormai tutti i protagonisti della vicenda.
Decimo Silano aveva proposto la pena capitale e la proposta incontrava largo consenso. Cesare interviene per capovolgere una situazione difficilissima e si sforza di presentare la pena di morte come troppo lieve, con l’argomento che - nella sventura - «la morte non è un supplizio, è un riposo agli affanni», in quanto - prosegue in perfetto stile epicureo - «dopo la morte non c’è posto né per il dolore né per il piacere» (Sallustio, Congiura di Catilina, 51). Fa una notevole impressione il pontefice massimo che impartisce agli altri senatori una breve ed efficace (e strumentale) lezione di filosofia epicurea. Era noto che Cesare avesse, come tantissimi nelle classi colte romane, subìto l’influsso o sentito il fascino di quel lucido pensiero anticonsolatorio.
Replicando a Cesare in quel dibattito memorabile, che si concluse con la decisione illegale di procedere all’esecuzione capitale immediata, e senza processo, dei congiurati, Catone ironizzò: Cesare - disse - pontefice massimo, pretore designato, «ci ha amabilmente intrattenuto (bene et composite disseruit) sulla vita e sulla morte»; «se non erro - soggiunse - ha sostenuto teorie false, ha dichiarato infatti di non credere a quello che si narra degli inferi, che cioè i malvagi andranno a finire, dopo la morte, in contrade diverse da quelle destinate ai buoni: contrade tetre, incolte, sinistre, spaventevoli». Questa lezione di corretta credenza religiosa, impartita al pontefice massimo appena eletto, è una delle più sottili perfidie dell’oratoria politica di tutti i tempi.
Naturalmente il problema da porsi è come mai nella società politica romana fosse possibile e conciliabile con il mos maiorum e con la stabilità delle istituzioni avere un «papa ateo».
Decalogo per politici
Il Papa ammonisce i politici cattolici, mentre la Santa Sede tuona contro scandali e abusi nella vita pubblica italiana
di Giacomo Galeazzi *
Decalogo papale ai politici cattolici, mentre la Santa Sede tuona contro scandali e abusi nella vita pubblica italiana. Il Papa indica i «precetti irrinunciabili» ai leader dell’Internazionale democristiana, ricevuti in udienza a Castel Gandolfo con il presidente Pier Ferdinando Casini. Prima bacchetta i partiti cattolici («vanno difesi la vita e il matrimonio tra uomo e donna»), poi esorta i politici a recuperare credibilità: «Il giudizio è severo per chi sta in alto, non seguite il mercato ma il bene comune». La crisi economica globale nasce dall’assenza di «un fondamento etico» in campo economico e la risposta dei governanti non deve basarsi sulla difesa della dignità umana. Perciò Benedetto XVI invoca un nuovo impegno pubblico senza «ripiegamenti», mentre «false tesi sui temi etici ingannano gli uomini di oggi». L’umanità si circonda di «maestri secondo i propri capricci, rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi dietro alle favole».
In particolare il Pontefice ribadisce il no della Chiesa all’aborto e all’eutanasia. Il rispetto della vita in tutte le sue fasi, dal concepimento fino al suo esito naturale (con conseguente rifiuto dell’aborto procurato, dell’eutanasia e di ogni pratica eugenetica) è un impegno che si intreccia con quello del rispetto del matrimonio, come unione indissolubile tra un uomo e una donna e come fondamento a sua volta della comunità di vita familiare, raccomanda il Papa. È nella famiglia, fondata sul matrimonio e aperta alla vita, che la persona sperimenta la condivisione, il rispetto e l’amore gratuito, ricevendo (dal bambino al malato, all’anziano) la solidarietà che gli occorre. E’ la famiglia a costituire il «principale e più incisivo» luogo educativo della persona, attraverso i genitori che si mettono al servizio dei figli per «aiutarli a trarre fuori il meglio di sè». La cellula originaria della società è la radice che «alimenta non solo la singola persona, ma anche le stesse basi della convivenza sociale».«Vergogna» per lo spreco di danaro pubblico. «Intollerabili» gli abusi sulla gestione dei fondi ai partiti.
Non assiste inerme la Chiesa italiana alle ultime vicende di scandali legati alla gestione dei soldi pubblici ed esplose in particolare con le spese pazze di consiglieri e assessori Pdl della Regione Lazio - ora al vaglio della magistratura -, e per bocca di due suoi esponenti di primo piano quali il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, e il vicario del Papa per la diocesi di Roma, cardinale Agostino Vallini, emette una ferma condanna. A prendere la parola per primo è proprio il cardinale di Roma, città teatro delle cene a ostriche e champagne e delle sontuose feste in toga greco-romana che hanno fatto da cornice alle accuse di peculato mosse all’ex capogruppo Pdl al consiglio regionale laziale, Franco Fiorito, e da lui rilanciate ad altri membri del Pdl locale fino allo scontro con la governatrice Renata Polverini. Per il cardinale la misura è colma. «Non comprendo - spiega in un’intervista al settimanale diocesano Roma Sette - che i sacrifici non possano essere più equamente distribuiti con il sostegno del potere legislativo, mentre assistiamo al persistere di privilegi di corporazioni, a scandali ed abusi di denaro pubblico che sono intollerabili».
La gestione quantomeno allegra del denaro pubblico indigna Vallini che attraverso le strutture socio-caritative della sua diocesi conosce bene la difficile realtà delle famiglie che, incalzate dalla crisi, non arrivano a fine mese. Problemi a cui richiama fortemente la politica. «Se non c’è una ripresa di senso morale individuale e collettivo in termini di giustizia e di solidarietà sociale - afferma -, le leggi non bastano o non sono equilibrate». La priorità va data al dramma della disoccupazione. «Dove non c’è lavoro - osserva -, non c’è futuro, e le conseguenze le conosciamo tutti: delusione, scoraggiamento, non di rado depressione, rabbia, o peggio». «Non manco mai - aggiunge - di sollecitare i responsabili delle istituzioni, in forma rispettosa e chiara, di fare di tutto perchè vi sia una maggiore equità sociale. Comprendo che la grave crisi economica abbia richiesto alle famiglie sacrifici assolutamente straordinari; non comprendo - ribadisce - che i sacrifici non possano essere più equamente distribuiti con il sostegno del potere legislativo».
L’indignazione da Roma rimbalza a Genova, dove l’arcivescovo della Città della Lanterna e capo dei vescovi italiani, Bagnasco, rincara la dose. La sua è una condanna senza mezzi termini: lo spreco di danaro pubblico, tuona, «è una cosa vergognosa». «Le ristrettezze devono farci stringere gli uni agli altri con maggiore bontà», ha aggiunto: «pensare solo a noi stessi sarebbe egoista e miope». Intervengono poi anche i gesuiti che - con padre Michele Simone, vicedirettore della Rivista della Civiltà cattolica, intervistato dalla Radio Vaticana - allargano lo sguardo dagli scandali del Lazio alla più generale crisi che investe la politica. «È un momento difficile - afferma - perchè l’elemento molto negativo è, oltre il discredito nei confronti dei partiti, anche l’incapacità dei partiti di reagire in maniera significativamente incisiva». «Il discredito nei confronti dei partiti - aggiunge - sarà un elemento che peserà nelle prossime non lontane elezioni».
Mi piace proprio questa "cosa"!
Nel titolo, sembra alludere al sogno di Marrx, ma è al sogno di Stalin, quello del socialismo in un solo paese, che si riferisce!
Proprio molto interessante. Grazie!
Andrea C.
Grazie per il suo attento e acuto intervento, Andrea C.! Complimenti: oggi, è sempre più raro trovare che pensano al e il presente come storia! E’ vero nel titolo ci sono anche queste allusioni, ma è a i filosofi e alle filosofe del "12 Festival di Filosofia" che pensavo e ai teologi e alle teologhe della Chiesa cattolico-romana che pensavo in particolare. Vedi:
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
SILENZIO DEI TEOLOGI E MEMORIA DEL PROFETA GIOELE: RIPRENDERE LA PAROLA.
Per quanto riguarda, il convegno a cui le note del titolo fanno riferimento è quello che si svolgerà a Roma nei prossimi giorni.
Vedi qui di seguito, per maggiori dettagli. Cordiali saluti, Federico La Sala
Il Concilio Vaticano II mezzo secolo dopo
di Nino Lisi (il manifesto, 8 settembre 2012)
L’11 ottobre si compiranno cinquant’anni dall’apertura del Concilio Vaticano II e se ne annunciano le prime commemorazioni. Una si terrà a Roma il 15 settembre nell’auditorium dell’istituto Massimo, all’Eur. La promuovono una novantina di soggetti tra riviste, associazioni e comunità, con l’intento di guardare al Concilio con gli occhi d’oggi. Approccio quanto mai opportuno, perché da anni è in atto un dibattito su un dilemma interpretativo: il Concilio segnò o no una discontinuità con il passato?
La risposta è importante, perché da essa dipenderà se la carica innovativa del Concilio sarà definitivamente soffocata o no; questione che non riguarda solo i «credenti». In realtà, per alcuni temi il Concilio fu davvero dirompente; per altri segnò una conferma. Perché allora il dibattito? Perché dietro di esso si nasconde una dialettica che, non raramente, diviene scontro tra due logiche che si fronteggiano nella chiesa quasi dai suoi albori.
Una, «istituzionale», è protesa a custodire una verità ritenuta compiutamente rivelata e a tutelarne l’integrità. Per farlo si è istituita l’area inaccessibile del sacro, cui solo pochi (la gerarchia) vengono ammessi per cooptazione, e vi si è rinchiuso il «patrimonio della fede». Si è così rinnovato quel potere del tempio che Gesù combatté e dal quale fu messo a morte; potere che, oltre a sospingere uomini e donne a rendere a Dio gloria nei cieli, non può fare ameno di preoccuparsi del proprio rafforzamento.
L’altra logica, «dell’annuncio», è protesa a diffondere il detto evangelico secondo cui perseguire la verità e la sua giustizia rende liberi, e la notizia della fraternità e sorellanza che legano insieme tutti gli esseri umani. Induce a praticare la «libertà dei figli di Dio» e ad occuparsi che in terra si renda giustizia in particolare ai più deboli, essendo questo l’unico sacrificio gradito a Dio. In questa ottica le conseguenze della buona novella vanno scoperte, capite e realizzate nella storia. La logica dell’annuncio porta poi a diffidare di ogni potere e sovente ad opporvisi, mentre il potere del tempio è inevitabilmente contiguo agli altri poteri, perché il potere ha tante facce ma in sostanza è uno ed i suoi diversi aspetti si intrecciano, si contaminano e si spalleggiano reciprocamente.
Quando scoppiano conflitti intestini la logica istituzionale porta a schierarsi con chi difende lo status quo, per l’ovvio motivo che il mantenimento dell’ordine costituito garantisce alla istituzione ecclesiastica la conservazione del suo potere, mentre un sovvertimento potrebbe metterlo in discussione. Due logiche distinte e per molti versi contrapposte generano dunque contraddizioni, tensioni e conflitti nella chiesa come nella vita e nella coscienza di tanti e tante uomini e donne di chiesa. E’ da augurarsi che l’assemblea del 15 settembre riesca a discutere apertamente delle due logiche in conflitto, essendo ciò il presupposto necessario per elaborare proficuamente la memoria del Concilio e farne scaturire impegni per il futuro, come i promotori si ripromettono.
L’andamento del conflitto e l’esito dell’assemblea dell’Eur sono importanti per tutti, non solo per i credenti. In primo luogo perché l’istituzione ecclesiastica, anche in virtù delle oltre cento nunziature e della rete di enti sparsi sul pianeta, è parte integrante del sistema di governo di «questo mondo»; e poi perché, connesse alla dialettica di cui si è detto, ci sono non solo differenti idee di chiesa ma anche visioni diverse del divino e le idee sul divino che circolano in una società hanno grande influenza sul modo in cui essa si plasma. «Si immagini - come suggerisce la teologa femminista Mary Hunt - un mondo in cui il divino venga compreso come Amico invece che come Padre, come Fonte invece che come Signore, come Pacificatore invece che come Sovrano, come cittadino invece che come Re». Si intravedrà qualcosa di quel mondo migliore cui tanti aspirano.
Comincia il ventiquattresimo viaggio internazionale di Benedetto XVI
In Libano come messaggero di pace
E alla vigilia della visita il cardinale segretario di Stato ribadisce che la violenza porta solo a nuove violenze *
Il Pontefice si reca in Libano come "messaggero di pace" e le crescenti tensioni che ancora oggi percorrono drammaticamente l’intera area mediorientale, "lungi dallo scoraggiarlo, hanno reso ancora più urgente il suo desiderio" di compiere questo viaggio. Alla vigilia della partenza di Benedetto XVI il cardinale Tarcisio Bertone offre la chiave di lettura del viaggio papale, definendolo "un invito a tutti i responsabili del Medio Oriente e della comunità internazionale a impegnarsi con una volontà ferma per trovare soluzioni eque e durature per la regione".
In un’intervista rilasciata al quotidiano francese "Le Figaro" e pubblicata nel numero di oggi, 13 settembre, il segretario di Stato ricorda che per il Pontefice la promozione dei diritti dell’uomo, primo fra tutti quella alla libertà di religione, "è la strategia più efficace per costruire il bene comune". E ribadisce la posizione "chiara e netta" della Chiesa di fronte a ogni forma di violenza, che - afferma - "porta solo a nuove violenze" e "ferisce per sempre i corpi ma anche le menti". In questo senso il Papa in Libano "intende essere una voce profetica e una voce morale", invitando "tutti gli uomini e le donne di buona volontà a far sì che la religione non sia mai un motivo di guerra e di divisione".
Per il porporato il Medio Oriente oggi "deve molto alla presenza cristiana", che contribuisce "all’edificazione di una società libera, giusta e riconciliata". All’islam la Chiesa tende perciò "una mano aperta in segno di dialogo e di riconciliazione", consapevole che la posta in gioco è quella di "lavorare insieme per fare di questa regione una nuova culla di civiltà, di cultura e di pace". Convinzione espressa in queste ore anche dal primo ministro libanese Najib Miqati, che in un’intervista ad Aki - Adnkronos International manifesta la fiducia che la visita del Pontefice in un Paese "punto di incontro e di interazione tra le civiltà e le culture" rappresenti "l’inizio di una vera collaborazione tra i popoli di tutti i Paesi mediorientali".
Anche per il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, il Papa troverà in Libano una nazione desiderosa di "divenire protagonista in un desiderato processo di pace e di riconciliazione". Certezza condivisa dal cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, che parla di un Paese "che ha saputo credere nella "intesa possibile", mai cedendo alla fragilità dei risultati e piuttosto dando credito alla condivisa appartenenza a una "terra" venuta dalle mani di Dio e da lui benedetta quale casa accogliente per tutti". Da parte sua il nunzio apostolico, arcivescovo Gabriele Caccia, sottolinea le molteplici dimensioni del viaggio papale - "ecclesiale, sociale, nazionale, regionale e anche internazionale" - mentre il patriarca di Antiochia dei Maroniti, Béchara Raï, riafferma l’importanza del dialogo, del rispetto reciproco e della solidarietà per costruire insieme "la città degli uomini".
* L’Osservatore Romano 14 settembre 2012
Il Papa in visita in un Oriente dove la presenza cristiana è ogni giorno più precaria
di Stéphanie Le Bars
in “Le Monde” del 14 settembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Benedetto XVI sarà in Libano dal 14 al 16 settembre, in un contesto segnato dalla crisi siriana e dalle sue conseguenze per i cristiani Alcuni religiosi vedono nel viaggio che Benedetto XVI si appresta ad effettuare in Libano, dal 14 al 16 settembre, il più rischioso dei viaggi del papa all’estero, tanto più con l’onda d’urto provocata dall’attentato a Bengasi nel quale è morto l’ambasciatore degli Stati Uniti in Libia, mercoledì 12 settembre. Il contesto per lo meno instabile che prevale in Medio Oriente e la vicinanza esplosiva della Siria sono stati presi in considerazione. Ma Benedetto XVI, domenica, dalla sua residenza a Castel Gandolfo, ha ripetuto il suo credo: “Il mio viaggio apostolico in Libano e, per estensione, nel Medio Oriente nel suo insieme, si colloca sotto il segno della pace”.
I suoi collaboratori, è vero, ripetono che questo viaggio è “pastorale ed ecclesiale” prima che politico, ma non è certo che il tono generale sfugga all’attualità immediata: la vita delle comunità cristiane in Oriente è in gran parte dipendente dai soprassalti vissuti dalla regione... Senza dubbio il papa ricorderà la posizione prudente ed attenta della Chiesa di fronte alle “difficoltà” derivate dalle “primavere arabe”.
All’origine di questo viaggio, c’è effettivamente il messaggio di incoraggiamento di un capo religioso al suo gregge angosciato. Il papa verrà ad esprimere nuovamente la preoccupazione del Vaticano di fronte all’“esodo mortale” dei cristiani da una regione che ha visto nascere il cristianesimo e che la Chiesa cattolica si rifiuta di considerare come un museo a cielo aperto. Ma dovrebbe anche incoraggiarli a mantenere la loro presenza sul posto, come protagonisti “di giustizia, di concordia e di pace”.
Benedetto XVI consegnerà, venerdì a Beirut, l’esortazione apostolica redatta in seguito al sinodo sul Medio Oriente che si era tenuto a Roma nell’ottobre 2010. Un “documento programmatico fondamentale per la vita e la missione della Chiesa cattolica in Medio Oriente e per il suo ruolo di promotrice del dialogo e della pace” ha dichiarato il portavoce del Vaticano, prima del viaggio.
I 165 vescovi riuniti due anni fa per iniziare quel lavoro di riflessione avevano parlato in termini allarmistici, e politici, sulla precarietà della situazione dei cristiani nella regione. Si preoccupavano per la partenza delle giovani generazioni, dovuta a ragioni economiche, religiose o di sicurezza, per il peso del conflitto israelo-palestinese, per l’atteggiamento delle potenze occidentali nella regione, ma soprattutto per le difficili relazioni delle comunità cristiane con i musulmani in generale e per la crescita dell’islamismo.
Da allora, gli sconvolgimenti in Egitto e in Siria hanno cambiato gli equilibri nei quali le comunità cristiane, minoritarie e talvolta protette dai poteri autoritari, avevano trovato il loro spazio. Tali evoluzioni provocano, in proporzioni difficili da valutare, nuove partenze. Secondo le autorità religiose locali, l’esodo prosegue, in particolare in Iraq, dove i cristiani sarebbero ormai solo tra i 400 000 e i 500 000, contro un milione e mezzo negli anni ’90. Migliaia di cristiani siriani, la cui comunità è una delle più importanti della regione, hanno trovato rifugio in Libano in questi ultimi mesi.
Il papa dovrebbe quindi “mettere il dito nella piaga della scomparsa della presenza cristiana nella regione”, spiega un responsabile maronita libanese. Dovrebbe anche essere direttamente informato della situazione dei cristiani della Siria. Alcuni responsabili religiosi siriani hanno fatto presente in Vaticano che, “nella regione di Homs, le chiese e i conventi sono stati sistematicamente distrutti, i cristiani cacciati, in modo da impedire il loro ritorno”. Altri, come il gesuita Paolo Dall’Oglio, espulso dalla Siria in primavera, ritiene che, malgrado la vicinanza di alcuni cristiani al regime di Bachar Al-Assad, “non ci sono persecuzioni particolari verso i cristiani”. “Sono vittime, come gli altri siriani.”
Il nuovo contesto rende difficile l’“attaccamento” dei cristiani “alla terra”, sostenuto dai vescovi nel 2010. Esortavano i fedeli a “non cedere alla tentazione di vendere le loro proprietà immobiliari” ai musulmani, e Benedetto XVI dovrebbe incoraggiarli di nuovo a restare e dovrebbe sostenere il ruolo di molte istituzioni cattoliche (scuole, ospedali), ancora attive nella maggior parte dei paesi della regione.
Il papa si troverà invece a deplorare ancora una volta le divisioni che minano le numerose Chiese cristiane separate da secoli, ma sempre presenti su territori talvolta ridotti. Anche questi antagonismi erano stati evidenziati dai vescovi che, riprendendo un leitmotiv antico, spingevano per un lavoro sull’“unità” e sull’ecumenismo. Cinquant’anni fa, in occasione del Concilio Vaticano II, la Chiesa riconosceva già che “la divisione dei cristiani è per il mondo oggetto di scandalo”.
Sul punto più spinoso delle relazioni con l’islam, potrà Benedetto XVI andare oltre gli appelli “al dialogo di vita fruttuoso con i musulmani”, “al rifiuto degli atteggiamenti di chiusura e di odio”, “alla messa in guardia contro tutte le forme di estremismo” predicati dalla Chiesa, nel momento in cui i movimenti islamisti, o fondamentalisti musulmani sono diventati i protagonisti politici centrali degli scenari medio-orientali, promotori di leggi civili formulate in base alla legge islamica? Certi cristiani lo auspicano.
“Il viaggio non può rivestire l’aspetto di un sostegno ad un ’campo cristiano’ di fronte ad un ’campo musulmano’, spiega Mons. Pascal Gollnisch, direttore generale dell’Opera d’Oriente, un’organizzazione cattolica che sostiene i cristiani d’Oriente da centocinquant’anni. Questa caricatura sarebbe solo la proiezione di paure occidentali”. La Chiesa insiste regolarmente perché queste società promuovano la cittadinanza e l’uguaglianza dei diritti e dei doveri di tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro religione, una forma di laicità, nonché la libertà religiosa e di coscienza.
Da questo punto di vista, il Libano, definito “paese messaggio” da Giovanni Paolo II durante la visita del 1997, dovrebbe ancora una volta essere citato come esempio, malgrado le divisioni in seno alle comunità cristiane e musulmane e ai limiti riconosciuti di un sistema politico fondato su fragili equilibri confessionali.
Cristiani in Medio Oriente: da 15 a 20 milioni sparsi in 17 paesi
I cristiani d’Oriente ai quali si rivolgerà Benedetto XVI sono sparsi in 17 paesi. Il loro numero, difficile da valutare in mancanza di un censimento preciso e recente, è compreso tra i 15 e i 20 milioni di persone. Rappresentano in questi paesi delle minoranze inferiori al 10% della popolazione. Fa eccezione il Libano, in cui costituiscono più di un terzo degli abitanti. Il paese ospita una dozzina di Chiese cristiane: i maroniti sono i più numerosi.
I copti in Egitto sono la minoranza più importante numericamente, dai 5 ai 10 milioni di persone, a seconda delle fonti.
I cristiani dell’Egitto, dell’Iraq, dei territori occupati palestinesi e, ormai, anche della Siria, sono quelle sottoposte a maggiori ondate di partenze.
Fenomeno relativamente recente, 3,5 milioni di cristiani originari dell’Asia o dell’Africa vivono, secondo il Vaticano, in Medio Oriente, specialmente nei paesi del Golfo
Ratzinger e lo stallo della pace
di Marco Politi (il Fatto quotidiano, 14 settembre 2012)
Benedetto XVI arriva in Libano, mentre scorre il sangue in Medio Oriente. La morte dell’ambasciatore americano in Libia, le violente dimostrazioni in Egitto, nello Yemen, in Tunisia e in molte altre città arabe sono il culmine delle proteste seguite al film anti-islamico “Innocence of Muslims”.
Gli ingredienti per altre esplosioni di odio religioso e per aizzare gli estremisti salafiti, l’ala più violenta dell’Islam fondamentalista, sono sul tavolo. Il film, che descrive Maometto come un lussurioso folle e massacratore, è stato prodotto da un cristiano copto di origine egiziana, Morris Sadek, e lo sceneggiatore Sam Bacile - si apprende dal Wall Street Journal - è un ebreo-americano. I finanziatori provengono dall’estremismo copto, ebraico e protestante.
In Egitto la comunità copta è in allarme e si moltiplicano le richieste di espatrio al punto che il papa ha lanciato un accorato appello ai cristiani del Medio Oriente affinché restino nelle terre bibliche e siano “costruttori di pace e attori di riconciliazione”. Sarà il filo conduttore del suo viaggio a Beirut, che inizia stamane e si concluderà nel primo pomeriggio di domenica. Una visita lampo. Papa Ratzinger è sempre più stanco e impone agli organizzatori spostamenti brevi.
Il pontefice firmerà ad Harissa l’Esortazione apostolica per il Medio Oriente, frutto di un’assemblea speciale di vescovi della regione svoltasi a Roma nel 2010. Il clou della visita è rappresentato dall’incontro con la gioventù, dalla grande messa finale e specialmente dal discorso, che terrà domani nel palazzo presidenziale davanti a una platea di esponenti del governo, diplomatici, rappresentati religiosi e accademici. Sarà l’occasione per rivolgersi all’Islam e ricordare le crisi che travagliano la regione. Dialogo interreligioso, cooperazione e amicizia tra cristiani e musulmani, impegno comune per una società democratica, salvaguardia della libertà religiosa e della libertà di coscienza saranno i cardini dei suoi interventi in terra libanese.
ALL’APPUNTAMENTO
Benedetto XVI arriva con il peso internazionale della Santa Sede indebolito. Il Papa considera il rilancio della vita di fede e la “conversione” di ciascun cattolico come obiettivo primario della sua missione, ma è indubitabile che in passato la Santa Sede giocava un ruolo incisivo sulla scena internazionale. Ora il pontificato ratzingeriano ha prodotto una fase di stasi.
Si profila, secondo alcuni diplomatici, un “viaggio impolitico”. Dinanzi alla primavera araba, con le sue speranze e i suoi rischi, Benedetto XVI non ha finora sviluppato un discorso di ampio respiro. Sulla vicenda siriana, al di là degli auspici di pace civile, il Vaticano si trova psicologicamente in uno stallo. In passato si fidava maggiormente della libertà concessa dal regime autoritario di Assad e oggi teme che la “rivoluzione” porti alla ribalta l’integralismo musulmano. Il chirurgo francese Jacques Bérès, co-fondatore di Medecins sans frontières, sostiene di aver trovato nell’ospedale di Aleppo controllato dai ribelli una “forte proporzione di fondamentalisti e jihadisti”, in gran parte stranieri.
Particolarmente preoccupante - alla luce della strategia di pace molto chiara di Giovanni Paolo II - è l’attuale silenzio papale di fronte all’attacco contro l’Iran, perseguito ossessivamente dal governo di Netanyahu. All’interno di Israele, persino negli ambienti dei servizi segreti, vi sono forti obiezioni ad un’avventura dagli esiti devastanti. I falchi israeliani non hanno mai accettato il negoziato di pace globale offerto dalla Lega araba del 2002 e trovano decennio dopo decennio sempre un nuovo nemico (e con il demagogo Ahmadinejad hanno buon gioco) per rimandare la fine dell’occupazione delle terre palestinesi, chiesta compattamente dai vescovi mediorientali. Per la destra israeliana c’è sempre un demone da combattere: Arafat, Hamas, Saddam Hussein, poi (per un periodo) la Siria e ora l’Iran. E il Papa tace. D’altronde anche l’Europa finge di non vedere. Il disastro dell’Iraq, pare, non ha insegnato nulla.
Affollata assemblea di gruppi ecclesiali, riviste, associazioni a 50 anni dall’inizio del Concilio *
di Roberto Monteforte (l’Unità, 16 settembre 2012)
Far vivere il Concilio Vaticano II. Dargli applicazione e con gioia, guardando con speranza al futuro. Perché la sua piena ricezione è ancora lontana.
Di questo si è discusso ieri a Roma nell’affollatissima assemblea tenutasi al teatro dell’Istituto Massimo di Roma. «Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri» è il titolo dell’appuntamento autoconvocato e autofinanziato a 50 anni dall’inizio del Concilio cui hanno aderito oltre 104 sigle di associazioni, gruppi ecclesiali, movimenti, riviste e organizzazioni tutte attente all’esigenza che non si disperda o si depotenzi l’insegnamento del Concilio Vaticano II. Sono stati oltre settecento i partecipanti giunti da tutta Italia. Segno di quanto forte ed estesa sia la domanda per una Chiesa che sappia dialogare con fiducia e speranza con il mondo contemporaneo avendo il coraggio di cambiare se stessa.
L’incontro si è aperto con un ricordo del cardinale Carlo Maria Martini e al suo coraggio profetico. Teologi, storici, studiosi e uomini di Chiesa hanno approfondito i nodi posti dal Concilio alla Chiesa a partire dalla sua ermeneutica. Alla polemica su rottura o continuità con la tradizione della Chiesa.
«È una disputa da abbandonare perché non coglie il nodo rappresentato dal Concilio. Perché il cambiamento era già in corso nella Chiesa. Perché la dottrina cambia sempre e cambiamo i significati. Perché se la Chiesa è sempre la stessa, la Tradizione vivente è in continua evoluzione per rendere “presente” e continuamente aggiornato nella nuova condizione storica ciò che è stato tramandato» lo afferma il teologo padre Carlo Molari. «La pluralità delle dottrine presenti nella Chiesa ed anche le rotture sono importanti per il suo sviluppo». C’è ancora bisogno che la Chiesa sappia «raccordarsi con la modernità».
Lo storico Giovanni Turbanti ha inquadrato il contesto storico, sociale, politico ed economico che ha portato alla sua convocazione. La biblista Rosanna Virgili sottolinea la «festosità liberatoria dell’annuncio cristiano e l’apporto fondamentale dato dalle donne. «Dio parla alle donne - afferma - che sono depositarie di una fede che non esclude. Perché non ci sono più lontani quando si può comunicare e si è abbattuta l’inimicizia fatta di leggi che distinguevano e discriminavano creando inimicizia».
Mentre Cettina Militello ha affrontato il nodo «delle prospettive future nella speranza di un vero aggiornamento». «Bisogna passare dall’ermeneutica conciliare all’attuazione del Concilio. All’attuazione di quanto faticosamente elaborato dai padri conciliari» ha affermato. Sottolinea l’importanza dell’«aggiornamento» della Chiesa. Invita a riflettere sulla speranza di un «vero rinnovamento» della Chiesa, di una sua autentica profezia rispetto alla mutazione culturale in atto. Ne indica gli ambiti: «il piano della Liturgia, dell’autocoscienza di chiesa, dell’acquisizione sempre maggiore della parola di Dio, del dialogo Chiesa con il mondo». Va pure perseguita l’istanza ecumenica, e interreligiosa, l’istanza «dialogica». Sottolinea i limiti della partecipazione attiva, della sinodalità, dell’ ascolto e del dialogo, necessari per attuare quella trasformazione strutturale della Chiesa voluta dai padri conciliari, per il suo ritorno a uno stile evangelico di compartecipazione e effettiva comunione.
Interviene da «testimone» l’allora giovanissimo abate benedettino della Basilica di San paolo, Giovanni Battista Franzoni. Parla della scelta per i «poveri» e del coraggio di Paolo VI. Porta la sua testimonianza il teologo valdese Paolo Ricca. Soprattutto recuperando appieno il ruolo del «Popolo di Dio», dei laici nella Chiesa, successori dei «discepoli». Lo sottolinea Raniero La Valle che conclude i lavori. «Perché - fa notare - non c’è solo la successione apostolica da Pietro sino ai nostri vescovi e al Papa. C’è anche una successione laicale, non meno importante dell’altra che è giunta sino a noi». Senza questa «non vi sarebbe il Popolo di Dio e neanche la Chiesa degli apostoli».
Sottolinea come la forza del Concilio Vaticano II sia stata il fare l’ermeneutica di tutti i concili precedenti. Per questo «non lo si può accantonare ». Sta anche in questo la ragione e la forza dell’assemblea convocata ieri.
La Valle annuncia l’impegno a raccogliere quella domanda che interpella ancora. Chiede una nuova politica, una nuova giustizia, una nuova economia. Che chiede una Chiesa dei poveri e con i poveri. Richiama i compiti nuovi che il Concilio affida e riconosce ai laici. «Sulla riforma della chiesa e delle sue strutture il Concilio è rimasto ai nastri partenza. La Chiesa anticonciliare ha bloccato la collegialità e ha rafforzato i vincoli di dipendenza gerarchica» ma una Chiesa nuova è possibile. Vi è una storia da trasmettere. Un impegno che, assicura La Valle, non si fermerà con questa assemblea. Vi sarà un sito per mettere in rete riflessioni e iniziative e per partecipare alle iniziative delle singole Chiese e a quelle internazionali che culmineranno nel 2015 all’anniversario delle conclusioni del Concilio. Vi sarà un «coordinamento leggero» per far incontrare sforzi diversi e rendere possibile quel «Il Concilio è nelle vostre mani» soprattutto le mani dei poveri invocato dallo stesso Raniero La Valle.
* Titolo redazionale
* Fonte: Incontri di "Fine Settimanana"
AVERE IL CORAGGIO di dire ai nostri giovani-vecchi "cattolici" e alle nostre giovani-vecchie "cattoliche" che sono tutte sovrane, tutti sovrani!!! Un nodo ancora non sciolto....
"Sulla riforma della chiesa e delle sue strutture il Concilio è rimasto ai nastri partenza. La Chiesa anticonciliare ha bloccato la collegialità e ha rafforzato i vincoli di dipendenza gerarchica» ma una Chiesa nuova è possibile" (Raniero La valle)
MA QUALE CHIESA DI QUALE DIO?!
AMORE (PIENO DI GRAZIA): "DEUS CHARITAS EST" (1 Gv. 4.8)
O
MAMMONA (PIENO DI VALORI)": "DEUS CARITAS EST" (Benedetto XVI, 2006)?!
"Di quale Dio parliamo quando parliamo di Dio, e di quale Dio parlano quando parlano di Dio? La domanda è cruciale. Infatti non è per niente chiaro, non è sempre lo stesso, e sovente non è un Dio innocuo" (Raniero La Valle, "Se questo è un Dio", pag. 9)
NONOSTANTE LA PRESENZA DI RANIERO LA VALLE, L’AFFOLLATA ASSEMBLEA DI ROMA NON HA RISPOSTO!!!
ASPETTIAMO!
SIAMO SOLO A 50 ANNI DALL’INIZIO DEL CONCILIO VATICANO II ....
Federico La Sala
Un vento di aria pura che oggi è imprigionato
di Vito Mancuso (la Repubblica/il venerdì, 14 settembre 2012)
La guerra che si combatte nella Chiesa sul Vaticano II sta tutta in questa domanda: che rapporto c’è tra il più importante evento ecclesiale del Novecento e la Tradizione precedente? Le risposte sono tre: la destra tradizionalista sostiene che fu una rottura così radicale da essere tradimento; il grande centro parla di continuità; la sinistra afferma che fu una svolta così positiva e radicale da costituire un nuovo gioioso inizio.
La Chiesa gerarchica nella sua ufficialità è attestata sulla rassicurante risposta numero due con importanti interventi di Benedetto XVI al riguardo, mentre le minoranze di destra e ai sinistra. accomunate dalla tesi della discontinuità, sono molto più inquiete e premono ovviamente in direzioni opposte: la destra per fare marcia indietro, la sinistra per proseguire lo spirito di apertura al mondo del Vaticano II.
In realtà basta accostare le decisioni più significative del Vaticano II alle impostazioni preconciliari per cogliere una tale differenza da rendere legittimo, anzi doveroso, parlare di discontinuità: 1) la Bibbia, da testo sconsigliato e persino vietato ai laici, viene promossa e diffusa ampiamente; 2) gli ortodossi e i protestanti da scismatici ed eretici diventano «fratelli separati»; 3) gli ebrei da «perfidi giudei» diventano «fratelli maggiori»; 4) le altre religioni da idolatrie diventano vie verso Dio e la salvezza; 5) la libertà di coscienza in materia religiosa passa dalla condanna a esplicito insegnamento papale; 6) il potere viene ripensato alla luce della collegialità; 7) la liturgia ha un nuovo rito, si abolisce il latino, si sposta l’altare. Ma al di là delle singole decisioni, era anzitutto il clima a essere radicalmente diverso.
Ha dichiarato il cardinal Martini in un’intervista ad Aldo Maria Valli: «Conservo il ricordo dell’atmosfera di quegli anni, una sensazione di entusiasmo, di gioia e di apertura... si usciva finalmente da un’atmosfera che sapeva un po’ di muffa, di stantio, e si aprivano porte e finestre, circolava l’aria pura». Come siamo messi oggi? Ancora Martini: «Ciò che si è perso è proprio quell’entusiasmo, quella fiducia, quella capacità di sognare... si è tornati a una certa mediocrità». L’aria, insomma, si è fatta di nuovo pesante.
Il Vaticano II ha avuto una maggioranza progressista e una minoranza conservatrice. A distanza di mezzo secolo la minoranza di allora è diventata maggioranza di oggi, segnale di un complessivo cambiamento a livello mondiale, con tempi sempre più incapaci di nutrire ideali e coltivare speranze. Ma nella Chiesa il problema è più complesso e consiste nel fatto che l’attuale maggioranza sta facendo tabula rasa del campo avversario, privando la Chiesa di una dinamica essenziale alla vita e alla riflessione.
Dopo la morte di Martini nella gerarchia della Chiesa italiana le voci di quella che un tempo fu la maggioranza conciliare sono forse ormai solo tre: Dionigi Tettamanzi, Luigi Bettazzi e Giuseppe Casale, tutti vescovi emeriti, in pensione. Da anni il Vaticano produce nomine tutte a senso unico, tra cui clamorosa quella di Scola a Milano visto che mai un patriarca di Venezia aveva lasciato San Marco se non per fare il papa, e che si spiega solo come il colpo finale agli ideali del rinnovamento conciliare. Se a questo si aggiunge la repressione della teologia e di ogni forma di critica il quadro è completo.
Nell’ultima intervista Martini ha dichiarato: «Vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza», parole che potrebbero essere sottoscritte dalla gran parte dei vescovi e dei periti teologici che cinquant’anni fa arrivavano a Roma per il Vaticano Il. L’ironia vuole che proprio uno di essi sia oggi il pontefice regnante, tra i principali responsabili di questa cupa situazione