Visioni
La baleniera dei cuori ribelli
Cinema. «Heart of the Sea - Le origini di Moby Dick», il naufragio dell’Essex e le origini del capitalismo americano nel nuovo film di Ron Howard
di Giona A. Nazzaro (il manifesto, 10.12.2015)
Su Ron Howard l’etichetta di «classico» pesa in maniera indiscriminata, utilizzata quasi sempre senza una reale cognizione di causa. Ironicamente il classicismo gli viene rimproverato sia come una sua presunta incapacità di essere all’altezza del modello dei maestri, sia, al contrario, come pigro ossequio al modello narrativo dominante nel cinema statunitense.
Vero è che Ron Howard, allievo di seconda generazione della scuola di Roger Corman, ha sempre conservato negli occhi il modello di un cinema in grado di raggiungere un pubblico ampio, ma allo stesso tempo ha sempre tentato di introdurre elementi di discontinuità formale rispetto al tradizionale racconto «invisibile».
Valga come esempio la struttura delle allucinazioni di A Beautiful Mind, forse uno dei suoi film più riusciti di sempre, oppure The Missing, cupo western crepuscolare poco conosciuto. Produttore di se stesso, Howard si concede anche il lusso e il rischio di fallimenti mirati, a costo relativamente contenuto, in modo da rientrare dell’investimento, per concedersi maggiori margini di avventura e divertimento.
Se si tiene presente che uno dei primi a incoraggiarlo a fare del cinema è stato Henry Fonda (cui l’aspirante regista aveva mostrato i suoi Super 8) e che ha lavorato sul set de Il pistolero di Don Siegel al fianco di John Wayne, ci si rende conto che Howard oggi rappresenta uno dei pochissimi testimoni oculari in grado di raccontare del passaggio epocale fra vecchia e la nuova (nuovissima) Hollywood.
Heart of the Sea - Le origini di Moby Dick è un progetto ambizioso, visionario, e rappresenta al meglio la tensione più fertile del cinema howardiano. Ispirandosi al naufragio della baleniera Essex, avvenuto nell’Oceano Pacifico nel 1820, speronata da un capodoglio della larghezza - stando ai racconti dei sopravvissuti - di 26 metri, che si muoveva alla straordinaria velocità di 24 nodi - un fatto di cronaca cui si sarebbe ispirato Herman Melville stesso per il suo Moby Dick - Ron Howard firma un nuovo capitolo della sua poetica che il diretto interessato definisce come «persone che falliscono in maniera nobile». Proprio come in Apollo 13, Ron Howard ci permette di partecipare di una comunità che si struttura e si organizza nel lavoro.
E se Apollo 13 era l’apogeo del capitalismo inteso come progresso scientifico e del sapere, Heart of the Sea si pone alle origini del capitalismo statunitense. L’olio che permette alle città di brillare è custodito nel ventre delle balene (ma c’è un altro olio ben più potente che cova nelle viscere della terra). Dal porto di Nantucket la società statunitense si organizza compiendo la trasformazione da società marittima a una di capitalismo avanzato.
Heart of the Sea è il racconto delle origini del capitale americano. Howard, con grande intelligenza, nel binomio del conflitto fra il primo ufficiale Chase e il capitano Pollard introduce anche il germe della lotta di classe: merito contro sangue. La tragedia della Essex, come quella dell’Apollo 13, è organica a una poetica della sconfitta che è parte integrante della Weltanschauung statunitense.
Anche Heart of the Sea è popolato da cuori ribelli, nuovo capitolo della nascita di una nazione secondo Howard. Nel mettere mano a un materiale tanto ricco, Ron Howard evita accuratamente il calco calligrafico in stile Master and Commander dimostrando invece di avere studiato e appreso alla perfezione la lezione di Leviathan di Lucien Castaing-Taylor e Verena Paravel.
L’approccio howardiano, infatti, è puramente documentario. Il moltiplicarsi dei punti di visti - c’è persino una «soggettiva» impossibile di una vela che si abbassa (così come in Leviathan ci sono le «soggettive» delle reti) - è il segno del lavoro necessario a tenere a galla la baleniera: l’immagine della sua divisione del lavoro.
Come una catena di montaggio galleggiante. Howard infrange subito la possibilità che lo spettatore possa avvicinarsi al suo film come a una replica del genere marinaresco così come l’ha codificato Hollywood. Il vorticare dei punti di vista e il montaggio non lineare, diremmo addirittura «cubista» quando mette in scena il lavoro sulla nave, è la negazione totale del cosiddetto cinema «classico». L’approccio documentario di Howard è per certi versi analogo a quello di Michael Mann nei confronti della matrice e ai virus informatici di Blackhat. Entrambi rifiutano il racconto «invisibile» per evidenziare la materia viva dell’immagine del post-cinema.
In questo senso Howard si dimostra assolutamente allineato filosoficamente con le maggiori intelligenze attive del cinema statunitense oggi. Esemplare è anche il modo in cui il regista utilizza la grafica digitale. Non per ricreare tempeste e scontri fotorealistici, ma come a rievocare la pittura marinara di Pieter Mulier (detto Pietro Tempesta), di William Turner o di John Constable.
Certo; l’ispirazione di Howard è classica, ma è il suo approccio cinematografico e poetico a essere assolutamente modernista. Contemporaneo. Nel mettere in scena una tragedia che ha definito sia il capitale statunitense sia la letteratura nordamericana attraverso il capolavoro di Melville, Ron Howard ne filma la rievocazione come in un assoluto presente; riscontro della tragedia di allora nel cinema di oggi. Un’autentica verifica incerta. Fra le più vitali ed entusiasmanti del cinema statunitense degli ultimi anni.
La balena che sfidò la Bibbia
di Pietro Citati (Corriere della Sera, 29.01.2016)
Rileggo Moby-Dick o la balena di Herman Melville nella bellissima traduzione di Ottavio Fatica, uscita da Einaudi. Quale libro tremendo. Non è un romanzo ma un’enciclopedia, che si propone di distinguere e classificare le balene e i capodogli: pensiamo alle grandi enciclopedie medioevali, come quella di Isidoro di Siviglia. Tutto vi è, in ogni parola, infinitamente minuzioso e grandioso: enciclopedia di animali e di dèi. L’universo delle balene, che prima di allora non era mai stato rappresentato - Melville vi insiste di continuo - viene per la prima volta alla luce; e ci travolge con la sua novità senza pari, sebbene si ricordino tutti coloro che hanno appena accennato ai capodogli, i più grandi abitanti della terra e del mare. Quello di Moby-Dick è un sistema: un sistema precisissimo; eppure questo sistema resta incompiuto, come la cattedrale di Colonia. «Dio mi guardi mai dal completare alcunché! Tutto questo libro non è che un abbozzo, anzi l’abbozzo di un abbozzo»: un abbozzo grottesco, rabelaisiano.
Chi ha composto questo abbozzo? In apparenza, Ishmael, sebbene non possiamo essere nemmeno certi del suo nome. Non è un baleniere, ma un grammatico, che possiede una cultura strana; e diventa un baleniere dilettante. Se lo studiamo con attenzione, ci accorgiamo che egli non è altri che Giobbe: ha scritto il più paradossale libro della Bibbia: testo che ci sfugge come un’anguilla o una piccola murena: più forte lo si prende, più velocemente sfugge dalle mani.
Nel Libro di Giobbe, Dio prende la parola, e come sua abitudine esalta sé stesso. Egli si esalta come autore dell’immensa e meravigliosa creazione di cui è sommamente fiero. Non c’è nessun evento che ignori ripercorrendo la Genesi e i Salmi : versetto dopo versetto. Ricorda il giorno in cui le stelle lo acclamarono e gridarono la loro gioia: il giorno in cui Egli dominò il mare, spezzando il suo slancio e imponendogli confini, spranghe e battenti, dicendogli «fin qui verrai e non oltre»: quando fece sorgere l’aurora, distribuì la luce e la tenebra, controllò i serbatoi della neve e della grandine, diresse piogge e rugiada, accese le Pleiadi, Orione, lo Zodiaco, l’Orsa, foggiò la sapienza dell’ibis, la perspicacia del gallo, la leonessa cacciatrice, il cervo, l’asino selvaggio, lo struzzo; e quando, sopratutto creò i grandi mostri che realizzarono la Sua immaginazione furibonda, Behemoth e il Leviatano. Il Libro di Giobbe rinasce in Moby-Dick: Melville rivaleggia miracolosamente con la Bibbia: Giobbe diventa Ishmael; e il Leviatano riappare con la propria enorme grandezza nella figura di Moby-Dick, il capodoglio, la balena bianca.
Il capodoglio si muove quasi sempre da solo, affiorando inaspettatamente alla superficie nelle acque più remote: possiede una potenza e una velocità così mirabili, che sfidano ogni inseguimento da parte dell’uomo. È una creatura ultraterrena: vive nel mondo senza essere del mondo: conosce l’universo con occhi piccolissimi e orecchi più esili di quelli della lepre. Diffonde attorno a sé un soavissimo profumo di muschio. Ezechiele aveva detto: «Tu sei come un leone delle acque e come un drago del mare». Il capodoglio è più intelligente dell’uomo, e schernisce la sua intelligenza limitata. Scuote in aria la propria coda tremenda, che, schioccando come una frusta, riecheggia a tre o quattro miglia di distanza. Obbedisce a Dio.
Moby-Dick è molto più che un capodoglio: è una balena bianca: una fontana di neve; discende dalla «grande figura bianca dal volto velato», che conclude ed incorona il Gordon Pym di Poe. Questo bianco ha un doppio significato: colore divino ed infernale: culmine religioso ed orrore nefando: simbolo della passione di Gesù Cristo e di Satana; figura celeste e terrificante male assoluto. Vive in un mare diverso dal resto dell’oceano: un mare sacro come quello che solcavano gli antichi persiani: immagine dell’inafferrabile fantasma della vita; magnanimo, inconoscibile, imperscrutabile. Soltanto in esso risiede la suprema verità di Dio, il quale non conosce né limite né sponde: «Meglio perire in quell’infinito urlio smosso di onde che farsi ingloriosamente sbattere sottovento, anche se vivi». I balenieri e gli uomini devono abitare nel mare come il gallo prataiolo che abita nella prateria, e nascondersi tra le onde, come i cacciatori di camosci scalano le Ande.
Nel Primo libro dei Re era apparso il re Ahab, il quale peccò agli occhi del Signore molto più di tutti i suoi predecessori, costruendo un altare al dio Baal e prosternandosi davanti a lui, fino a quando i cani leccarono il suo sangue. In Moby-Dick il re Ahab diventa il capitano di una baleniera, il Pequod: ha una gamba sola; l’altra è stata «divorata, maciullata, torturata» dalla balena bianca e sostituita da una gamba d’avorio. Egli ha studiato all’università: è empio: possiede una stravagante cultura; e si chiude nel silenzio. Scorge nella balena bianca una forza oltraggiosa, una malvagità imperscrutabile, che lo angoscia. Egli è dominato da una sola ossessione: quella di ritrovare negli oceani e di uccidere Moby-Dick.
«Chi di voi - grida ai marinai - mi segnalerà una balena con la testa bianca, la fronte rugosa e la ganascia storta; chi di voi mi segnalerà quella balena con la testa bianca e tre buchi nella pinna; chi di voi mi segnalerà proprio quella balena bianca, avrà un’oncia d’oro». «Sì, sì - urlarono ramponieri e marinai affollandosi attorno al vecchio esagitato -. Aguzza l’occhio per la Balena Bianca; aguzza il rampone per Moby-Dick!». Sia per Ahab sia per i marinai, tutto il male del mondo è personificato da Moby-Dick: nel loro desiderio di punizione e di vendetta, essi riversano sulla balena tutto l’odio e la rabbia, che l’intera umanità ha accumulato dai tempi di Adamo. La loro caccia è doppia, come tutto è doppio in Moby-Dick : obbedisce a un sovrano messaggio del Signore, ed esprime una demenza totale, ignobilmente blasfema, una furia diabolica, che si rivolge contro il Signore.
Altre volte un capodoglio era stato ucciso da una baleniera: il mostro aveva diguazzato oscenamente nel proprio sangue, con una folle spruzzaglia ribollente e impenetrabile, sbatacchiando contro la nave la sua pinna ferita. Ma la caccia a Moby-Dick è immensamente più difficile, perché essa era protetta dalla mano di Dio che la maledice. Ogni onda del mare era intrisa di barlumi demoniaci. Finalmente, sulla nave, tutti gli uomini di guardia avvertirono l’odore particolare propalato dal capodoglio anche a grande distanza; e scorsero la gobba bianchissima e il getto silenzioso, scagliato a intervalli regolari. Moby-Dick era una specie di Iddio, sia del bene sia del male. Sbandierò la coda in aria come un monito: si rivelò in tutta la sua grandezza, si inabissò, disparve, risalì alla superficie. La sua bocca aperta e scintillante con la mandibola circonvoluta si spalancò sotto la nave come una tomba scoperchiata. Prese in bocca l’intera prua assaporandola lentamente: il bianco perla turchiniccio all’interno della mandibola giunse a meno di sei pollici dalla testa di Ahab, soverchiandola.
Come un’immensa cesoia, la mascella troncò di netto il legno della nave: Ahab cadde in mare a faccia in avanti, gridando: «Fate vela sulla balena!». Moby-Dick scomparve. Si udì un sordo romorio, un rombo sotterraneo. Tutti trattennero il fiato, mentre una forma immensa balzò per lungo ma di sbieco contro la nave: sembrava un salmone scagliato contro il cielo. Scomparve in un gorgo bulicante. Ahab risalì sulla nave con una gamba sola; la gamba d’avorio gli era stata strappata via un’altra volta; ne restava uno spezzone corto ed aguzzo. Egli scagliò il ferro feroce, con una maledizione ancora più feroce, sull’odiata balena. Gridò: «Ti vengo incontro rollando, balena che tutto distruggi e non riporti vittoria; fino all’ultimo mi batterò contro di te; dal cuore dell’inferno ti pugnalo; in nome dell’odio ti sputo in faccia l’ultimo respiro». Tutto scomparve all’inferno: Moby-Dick, la nave, Ahab, i marinai, il libro meraviglioso che in questo momento finiamo di leggere. «Come cinquemila anni fa - diceva Melville - il grande sudario del mare si srotolò rollando».
Sopravvisse solo Ishmael, il grammatico dietro il quale Melville si era nascosto durante la traversata del mare e del libro. Venne tenuto a galla da una bara. Il secondo giorno un veliero si portò più vicino a lui, sempre più vicino, e alla fine lo raccolse. Così, dice Ishmael di nuovo con le parole di Giobbe, «io tutto solo sono scampato per rappresentartelo».
Johann Jakob Bachofen
La monumentale ricerca del giurista e antropologo svizzero torna in una nuova edizione senza perdere il suo fascino originario
Il padre del matriarcato
Tradusse leggi, indagò miti, lesse documenti. Così il genio di Bachofen svelò al mondo l’antico diritto e il potere storico delle donne
di Emanuele Trevi (Corriere della Sera, La Lettura, 31.01.2016)
Quando pubblicò Il matriarcato, nel 1861, Johann Jakob Bachofen, svizzero di Basilea, aveva appena superato i quarantacinque anni: età più considerevole ai suoi tempi che oggi, ma nemmeno a quei tempi veneranda. Era il rampollo di una delle più insigni (e ricche) famiglie patrizie della sua città, e fin da giovane si era consacrato a studi severissimi, nelle migliori università tedesche ed europee, diventando precocemente uno dei massimi esperti del diritto romano. Aveva a sua volta insegnato, e ricoperto importanti cariche di magistrato, come volevano le tradizioni del suo ceto. Ma era libero di vivere seguendo esclusivamente le sue inclinazioni, e finì per dedicarsi esclusivamente alla sua fame di sapere, e alla passione per i viaggi.
Spirito laborioso e metodico, la sua erudizione in fatto di storia antica, archeologia, mitologia divenne immensa. I paesaggi della campagna romana o del Peloponneso non erano diversivi turistici, ma occasioni per affinare e precisare le sue conoscenze storiche. È difficile fare illazioni sull’uomo capaci di perforare la severa dignità delle apparenze. Che si sia sposato solo a cinquant’anni, dopo la morte della madre amatissima, è un fatto che non può essere interpretato con i maliziosi criteri odierni.
Anche a guardare i suoi ritratti, che sembrano l’esatto contrario dell’immagine dell’artista romantico, sarebbe impossibile sospettare in Bachofen uno spirito talmente geniale e visionario da rasentare la follia. Di sicuro, durante la lunga fatica che doveva portarlo alla pubblicazione del Matriarcato , il suo entusiasmo era nutrito dalla consapevolezza di una scoperta capace di rivoluzionare tutto ciò che si sapeva sulla storia del mondo greco-romano, e più in generale delle antiche civiltà mediterranee. Non era il solo uomo del suo tempo ad avere accumulato un sapere quasi inconcepibile per un singolo individuo. Ma un erudito, di per sé, è solo il proprietario di un’immensa massa di macerie, informe e tarlata di contraddizioni. Pochi sono in grado di compiere quel salto mortale che solo può condurre dal sapere al comprendere. E ancora minore è il numero di coloro a cui tocca in sorte il pensare qualcosa che nessuno ha mai pensato prima.
Nonostante la compostezza dello stile, alieno da inutili effusioni, queste emozioni trapelano nitidamente nelle prime righe del Matriarcato , ora riedito da Einaudi, che sono la promessa di un viaggio mai tentato dallo spirito umano. «La presente opera affronta un fenomeno storico di cui pochi tennero conto e di cui nessuno valutò a fondo la portata. Le scienze che studiano l’antichità hanno continuato a ignorare fino ad oggi il diritto materno: nuova è tale espressione, e sconosciuta è la condizione familiare che essa designa».
Ecco l’oggetto misterioso, o meglio la chiave d’accesso al mistero che è la nostra storia, quando cerchiamo di decifrarne le origini. Noi diamo al capolavoro di Bachofen un titolo, Il matriarcato , che rende omaggio alla sua idea più memorabile e affascinante. Ma il titolo originale è Das Mutterrecht , ovvero il diritto materno. Il matriarcato o la ginecocrazia, ovvero «il potere delle donne», non è un’oscura favola, ma una fase capitale della storia umana. Un’epoca in cui la madre prevale sul padre nel sentimento dell’esistenza, così come è testimoniato dai miti, dai racconti degli storici, dalle leggi.
Per ricostruire quest’epoca dimenticata, Bachofen passa al vaglio, con sovrumana pazienza, le migliaia di testimonianze che ha raccolto (a un certo punto, appare anche una poesia del «conte Leopardi»!). Erodoto racconta che gli abitanti della Licia ereditavano il nome della madre e si trasmettevano i beni in linea femminile. Non è la notizia bizzarra di uno storico curioso di costumi esotici, ma la tessera di un immenso puzzle le cui tessere sono sparse su tutte le rive del Mediterraneo. Il potere delle donne è un istituto giuridico e nello stesso tempo un sistema simbolico, un’interpretazione totale della vita, una religione. La mano sinistra prevale sulla destra, la notte sul giorno, la luna sul sole. Dei fratelli, è l’ultimo nato il più importante. Tra gli esseri viventi prevale un senso di pace e fratellanza, conseguenza della consapevolezza di essere generati dalla stessa terra e di dover presto ritornare, con la morte, nel suo grembo.
Bachofen immaginò quest’epoca della storia umana con tanta intensità che ne immagino addirittura il paesaggio fisico, nel quale la vegetazione palustre, simbolo della spontaneità della vita, soverchiava i campi arati. Il fatto è che Bachofen, e proprio in questo consiste il fascino indelebile delle sue pagine, non distingue un mito da una legge, la testimonianza approvata di uno storico dalla decorazione di un vaso o di una tomba. Non ci sono documenti antichi più o meno «veri» di altri. Esistono solo modi diversi di tradurre la stessa esperienza umana. Anche le parole di un eroe di Omero sono un documento storico.
In una pagina che meriterebbe di figurare in tutte le antologie della prosa, Bachofen interpreta alla luce del diritto materno un bellissimo e celebre episodio dell’ Iliade. Prima di affrontarlo in duello, il greco Diomede chiede al suo avversario, Glauco, notizie sulla sua stirpe. Diomede è un greco, figlio di una cultura patriarcale, fondata sulla discendenza dai padri e sulla sottomissione della donna. Per lui è naturale chiedere cavallerescamente al nemico chi sia suo padre. Ma Glauco è un Licio. E gli risponde da Licio. In pratica, dichiara a Diomede che la sua domanda è insensata, dal suo punto di vista. Non esistono i padri e i figli, dice Glauco a Diomede, perché gli uomini sono come le foglie. Nascono tutti dallo stesso tronco e quando viene il loro momento cadono tutti a terra nello stesso modo. Nessuno discende da nessuno.
Bachofen considera questi versi di Omero, sempre ammirati per la loro bellezza, il riflesso di una condizione di esistenza, vale a dire di qualcosa che ha avuto luogo nella realtà. Un’organizzazione sociale e religiosa fondata sul predominio della madre e destinata a essere soppiantata, non senza conflitti molto aspri, dal principio maschile e paterno.
Distacchiamoci adesso dal grandioso scenario dipinto da Bachofen per considerarne il totale insuccesso tra i contemporanei. Da un certo punto di vista, il poderoso libro di Bachofen sembrava fatto apposta per non essere letto da nessuno. Alla solita meditazione sulla genialità e la solitudine bisogna aggiungere il ricordo ben più concreto di un tipografo folle, che ebbe l’assurda idea di mescolare un testo già lungo e impegnativo con le migliaia di note che dovevano corredarlo di tutte le indicazioni bibliografiche ed erudite. Ne venne fuori quello che il nostro più importante studioso di Bachofen, Furio Jesi, ha definito «un orrido groviglio» stampato su due colonne. Poteva capitare che una frase, cominciata a una data pagina, finisse soltanto a metà di quella successiva.
Che cosa ne avrà pensato l’autore? In qualche modo, quella catastrofe aveva qualcosa di simile alla sua mente poderosa e labirintica. Fatto sta che quando, dopo la sua morte, la vedova e il figlio provvidero a una ristampa, ripeterono la stessa assurdità, accompagnata questa volta da un numero esorbitante di errori di stampa. Forse non erano del mestiere, ma si sarebbero comportati così se Bachofen si fosse molto lamentato della prima edizione?
Lui era morto a settantadue anni, nel 1887, nel più completo isolamento intellettuale. Non cambiò mai idea, a quanto pare, su quella «poesia della storia», come la definiva, che era l’epoca del potere femminile. Sarebbe stato assurdo obiettargli che il matriarcato, come l’immane guerra tra i sessi che ne aveva dichiarato la fine e instaurato il potere del maschio, erano cose accadute solo nella sfera del mito e non sul piano della realtà. Perché tutta l’impresa di Bachofen si basa su un atto di fede fondamentale: il mito è realtà, traccia di una realtà vissuta non meno di un utensile o delle rovine di un’abitazione o di una norma giuridica. «Abbiamo di fronte a noi non finzioni, ma destini vissuti», affermava con una certezza che si addice più al poeta romantico che al filologo.
Ma la sorte del Matriarcato è tutt’altro che un argomento malinconico. Semmai, è una lezione istruttiva sulla potenza delle grandi visioni, che, come certi organismi naturali, resistono e si rafforzano nelle condizioni avverse, sanno aspettare il loro momento. A volte bastano dieci lettori per traghettare un capolavoro misconosciuto sulle acque oscure della dimenticanza. Oggi Il matriarcato ci appare pienamente comprensibile a un livello della verità che non è quello dell’archeologia o della storia del diritto, ma quello delle opere d’arte.
Più che a Friedrich Nietzsche, che non ne nutriva una grandissima stima, Bachofen sembra accostabile all’altro grande profeta inascoltato del suo tempo, Herman Melville. Potremmo affermare che Il matriarcato sta alla storia antica come Moby Dick sta alla caccia alla balena. In entrambi i casi, si tratta di una lettura indimenticabile, di quelle capaci di trasformare la vita. In ogni forma di espressione umana, nel romanzo come negli studi storici, esistono regole fondate sul buon senso e su una certa dose di conformismo. Ma se in determinati momenti non spuntassero fuori spiriti eretici e infiammati come Melville e Bachofen, tutto il resto si ridurrebbe al ben misero bottino delle carriere accademiche e dei premi letterari.