iconografia
Una bellezza di nome Grazia
Raffaele Milani sulle tracce di quel «piacere secondo ragione», riflesso di una realtà sovrasensibile, che ha segnato l’arte occidentale
di ALESSANDRO ZACCURI (Avvenire, 30.01.2010)
Norma? E chi è, una ragazza che abita a Brooklyn? La battuta circolava ai tempi della pop art e stava a indicare il deliberato superamento di ogni consuetudine. Il gioco di parole torna in mente, leggermente variato, al termine del saggio che Raffaele Milani, docente di Estetica all’Università di Bologna, ha dedicato a I volti della grazia. Concetto del tutto centrale per quasi tre millenni dell’esperienza artistica e letteraria dell’Occidente, ma oggi apparentemente emarginato da una mentalità intenzionata a respingere proprio l’intuizione di quel « più in là » con cui il «non so che» della grazia tende a identificarsi. Grazia, a questo punto, potrebbe davvero essere soltanto il nome di una ragazza che vive in qualche periferia, non per questo però cesserebbe di avere un significato profondo, autentico e necessario.
Documentatissimo sul piano delle letture e dei riferimenti, il libro di Milani è molto preciso nell’indicare nei tempi di passaggio, e quindi di crisi, la stagione più feconda per il dibattito sulla grazia. Accade nel mondo tardoantico, quando per merito di Agostino il concetto classico di charis si connota definitivamente in senso teologico, divenendo così charitas. E accade nel Rinascimento, con la riscoperta dell’antico quale fonte di armonia, e poi ancora nella temperie inquieta che sfocerà nel Romanticismo, con le riflessioni di autori come Schiller, Schelling e Winckelmann, al quale si deve l’insuperata definizione della grazia come «il piacevole secondo ragione».
È un itinerario complesso e affascinante, non estraneo alle suggestioni del sogno e agli squarci visionari dell’esperienza mistica. Un intreccio che giustamente Milani ricostruisce anche attraverso un continuo raffronto fra tradizione occidentale e sapienza orientale, riuscendo a individuare più di un punto di contatto (manifestazione della grazia è anche l’atman, il respiro cosmico delle scritture vediche).
In generale, si potrebbe sostenere che la storia della grazia si muove lungo due direttrici, non sempre in equilibrio fra loro. Da un lato la bellezza si riempie di significato sino a rivelare il proprio nucleo sacro, ma sull’altro versante è il sacro stesso a estetizzarsi, riducendosi a emozione passeggera oppure a ricognizione erudita. Si sarebbe quasi tentati di affermare che, in questo senso, la disaffezione nei confronti della grazia è in effetti una conseguenza del processo di secolarizzazione, per cui la cultura contemporanea, dimenticato il lessico elementare del cristianesimo, non riesce più a immaginare un sovrasenso che sappia dare senso alla bellezza delle forme.
Il che non significa negare l’origine classica della riflessione sulla grazia ( il nome di Plotino, più volte richiamato nel saggio, basterebbe da solo a rivendicare questa primogenitura), quanto piuttosto interpretare alcuni specifici momenti della riflessione antica, tra cui la meditazione di Seneca nel De beneficiis, come avvisaglie di un fecondo, e in parte ancora inesplorato, cristianesimo naturale. Non per niente, le pagine più intense del lavoro di Milani riguardano il ruolo della Madre, dolorosa e «lacrimosa» già nei racconti del mito e infine pienamente rivelata nel suo ruolo salvifico dalla mediazione di cui è protagonista Maria.
Resta aperta, in ogni caso, la questione del «lutto dell’arte » che nel saggio viene riferita all’intera esperienza contemporanea. Studioso attento anche al cinema e alle diverse diramazioni del fantastico, Milani potrebbe forse verificare questa ipotesi con una campionatura più legata agli ultimi anni, nei quali romanzi come La strada di Cormac McCarthy e film come American Beauty di Sam Mendes hanno dato nuova centralità al sentimento di un « essere nella bellezza » che diventa, da ultimo, un «essere nella misericordia».
Sperimentare la grazia, insomma. E scoprire dove ha deciso di abitare oggi questa ragazza tanto sfuggente, tanto straordinaria.
Raffaele Milani
I VOLTI DELLA GRAZIA
Il Mulino. Pagine 258. Euro 22,00
SUL TEMA, NEL SITO R IN RETE, SI CFR.:
GRECIA - Una sede della "Caritas greca". |
ANTROPOLOGIA STORIA FILOSOFIA E FILOLOGIA.
LA SCOMPARSA DELLA "FANCIULLA STRANIERA" (F. Schiller, 1796) E DELL’AMORE (K. Marx, 1844) E IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ (S. Freud, 1929: "Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità [...]").
Una nota a margine di una memoria dell’antica commedia greca ...
"HOMO HOMINI LUPUS" (Freud, 1929). Formidabile questa riflessione di Andreas Katsouris sulla frase di Menandro! A ben riflettere sulle parole (e, in particolare, sul legame tra la "grazia" ("charis") del χαρίεν ("charien") e "l’anthropos), si dovrebbe tentare di capire su come e quando è stata persa la memoria delle Grazie (greco: Χάριτες - Charites) ed è stata persa anche la traccia di ogni umanità e l’orizzonte culturale dell’Europa (e del Pianeta Terra) è diventato sempre più cosmoteandrico, edipicamente, con la stessa connivenza della filosofia, della filologia, e della psicoanalisi!
CRITICA DELLA VIOLENZA: J.-J. ROUSSEAU, K. MARX, W. BENJAMIN. Una prima traccia della "caduta" è nell’atto logico-storico ("primordiale", che prima di essere materiale è linguistico) della recinzione: "Il primo che, dopo aver recintato un terreno, pensò di dire questo è mio, e trovò altri tanto ingenui da credergli, fu il fondatore della società civile"("Discorso sull’origine della disuguaglianza", 1754"); la seconda è nella denuncia marxiana (nella "Sacra Famiglia") dell’inversione soggetto-predicato (il problema della mele, delle pere, e delle fragole... del Mentitore) e della "fanciulla straniera e la civetta hegeliana" (cfr. Federico La Sala, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica", Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 190-197)"!
A quando il sorgere della Terra?
RINASCIMENTO: STORIA, MEMORIA, E FILOLOGIA.
LA SPREZZATURA, LA GRAZIA, E UN LEGAME DA RISTABILIRE. Nota a margine dell’opera di Baldassarre Castiglione...
Baldassarre Castiglione (1478-1529):
«Trovo una regula universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano più che alcun altra: e cioè fuggir quanto più si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò, che si fa e dice, venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi...
Da questo credo io che derivi assai la grazia: perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficultà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia; e per lo contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i capegli dà somma disgrazia e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch’ella si sia. Però si po dire quella essere vera arte, che non pare essere arte; né più in altro si ha da poner studio che nella nasconderla: perché, se è scoperta, leva in tutto il credito e fa l’omo poco estimato» (Baldassarre Castiglione, Il Cortegiano, XVI)
UNA QUESTIONE DI GRAZIA, UNA QUESTIONE DI AMORE...
SI DEVE IMPARARE ANCHE L’AMORE: "CARISSIMI, NON CREDETE A OGNI SPIRITO ... DIO È AMORE":"CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1 Gv., 4. 1-16). UNA LEZIONE DI NIETZSCHE E DI FREUD:
Si deve imparare anche l’amore. Si deve imparare ad amare. Ecco quel che ci accade nella musica: si deve prima imparare a udire una sequenza e una melodia in genere, a enuclearla nell’ascolto e a distinguerla isolandola e delimitandola come se avesse una vita propria; quindi bisogna sforzarci e impiegare la nostra buona volontà per sopportarla, malgrado la sua estraneità, bisogna fare un esercizio di pazienza di fronte al suo sguardo e alla sua espressione, considerare con benevolenza quel che c’è di inusitato in essa - finalmente arriva un momento in cui ne abbiamo preso l’abitudine, in cui l’attendiamo, in cui si ha il presentimento che ne sentiremmo la mancanza, se non ci fosse più; e così essa continuamente dispiega la sua violenta suggestione e il suo incantesimo, finché non si sia diventati i suoi umili ed estasiati amanti, per cui non v’è più niente di meglio da chiedere al mondo se non la melodia e ancora la melodia.
Questo ci accade però non soltanto con la musica: proprio in questo modo abbiamo imparato ad amare tutte le cose che oggi amiamo. In definitiva, siamo sempre ricompensati per la nostra buona volontà, per la nostra pazienza, equità, mitezza d’animo verso una realtà a noi estranea, quando lentamente essa depone il suo velo e si manifesta come una nuova inenarrabile bellezza: è questo il suo ringraziamento per la nostra ospitalità. Anche chi ama se stesso, lo avrà appreso per questa strada: non ce ne sono altre. Si deve imparare anche l’amore.
F. Nietzsche, La gaia scienza, IV, fr. 334, Adelphi, Milano 1991).
Disagio della civiltà: "[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori; i Romani, che non avevano fondato la loro collettività statale sull’amore, non conobbero l’intolleranza religiosa, benché per loro la religione fosse un affare di Stato e lo stato fosse imbevuto di religione. Non fu un puro caso che il sogno germanico del dominio del mondo facesse appello all’antisemitismo come a suo complemento, e non è inconcepibile che il tentativo di stabilire una nuova civiltà comunista in Russia trovi il suo sostegno psicologico nella persecuzione della borghesia. Ci si chiede soltanto, con apprensione, che cosa si metteranno a fare i Sovieti, dopo che avranno sterminato la loro borghesia [...]" (S. Freud, Il disagio della civiltà, 1929).
CANOVA E IL VATICANO: LE GRAZIE, AMORE E PSICHE Una gerarchia senza Grazie (greco: Χάριτες - Charites) e un papa che scambia la Grazia ("Charis") di Dio ("Charitas") con il "caro-prezzo" del Dio Mammona ("Caritas"). Materiali per riflettere
FLS
L’udienza.
Il Papa: diciamo "grazie" e il mondo sarà migliore
Da Francesco l’esortazione a non valutare il 2020 solo attraverso le sofferenze e i limiti causati dalla pandemia. La vicinanza ai terremotati della Croazia e la preghiera per le vittime
di Redazione Internet (Avvenire, mercoledì 30 dicembre 2020)
"Non tralasciamo di ringraziare: se siamo portatori di gratitudine, anche il mondo diventa migliore, magari anche solo di poco, ma è ciò che basta per trasmettergli un po’ di speranza". Lo ha detto papa Francesco nell’udienza generale, l’ultima del 2020, che ha dedicato alla "preghiera di ringraziamento".
"Il mondo ha bisogno di speranza - ha affermato il Pontefice, nella catechesi trasmessa in streaming dalla Biblioteca del Palazzo apostolico -, e con la gratitudine, con questo atteggiamento di dare grazia, noi trasmettiamo un po’ di speranza. Tutto è unito e legato, e ciascuno può fare la sua parte là dove si trova".
Ricordando il racconto evangelico dei dieci lebbrosi che incontrano Gesù, il Papa ha osservato che esso, "per così dire, divide il mondo in due: chi non ringrazia e chi ringrazia; chi prende tutto come gli fosse dovuto, e chi accoglie tutto come dono, come grazia". "Il Catechismo scrive: ’Ogni avvenimento e ogni necessità può diventare motivo di ringraziamento’ (n. 2638) - ha proseguito Francesco -. La preghiera di ringraziamento comincia sempre da qui: dal riconoscersi preceduti dalla grazia".
"Siamo stati pensati prima che imparassimo a pensare; siamo stati amati prima che imparassimo ad amare; siamo stati desiderati prima che nel nostro cuore spuntasse un desiderio. Se guardiamo la vita così, allora il ’grazie’ diventa il motivo conduttore delle nostre giornate. Grazie, e tante volte dimentichiamo, abbiamo paura di dire grazie".
Eucaristia vuol dire ringraziamento
Il Pontefice ha anche ricordato che "per noi cristiani il rendimento di grazie ha dato il nome al Sacramento più essenziale che ci sia: l’Eucaristia. La parola greca, infatti, significa proprio questo: ringraziamento". "I cristiani, come tutti i credenti, benedicono Dio per il dono della vita. Vivere è anzitutto aver ricevuto - ha sottolineato -. Ricevuto la vita. Tutti nasciamo perché qualcuno ha desiderato per noi la vita. E questo è solo il primo di una lunga serie di debiti che contraiamo vivendo. Debiti di riconoscenza".
"Nella nostra esistenza, più di una persona ci ha guardato con occhi puri, gratuitamente - ha aggiunto -. Spesso si tratta di educatori, catechisti, persone che hanno svolto il loro ruolo oltre la misura richiesta dal dovere. E hanno fatto sorgere in noi la gratitudine. Anche l’amicizia è un dono di cui essere sempre grati".
Secondo Francesco, con il "grazie", "che dobbiamo dire continuamente", manifestiamo "la certezza di essere amati"."Questo è il nocciolo - ha affermato -: quando tu ringrazi esprimi la certezza di essere amato, e questo è un passo grande, la certezza di essere amato. È la scoperta dell’amore come forza che regge il mondo. Dante direbbe: l’Amore ’che move il sole e l’altre stelle’". "Cerchiamo di stare sempre nella gioia dell’incontro con Gesù - ha concluso -. Coltiviamo l’allegrezza. Invece il demonio, dopo averci illusi, con qualsiasi tentazione, ci lascia sempre tristi e soli".
Un anno difficile, ma non valutiamo solo le sofferenze
Al momento dei saluti ai fedeli di lingua tedesca, il Papa ha osservato: "Alla fine di questo anno difficile, siamo forse tentati di vedere anzitutto ciò che non era possibile fare e ciò che ci mancava. Ma non dimentichiamo le tante, innumerevoli ragioni per cui ringraziare Dio e i nostri vicini. Vi auguro di cuore la gioia che nasce dalla gratitudine!".
E salutando i fedeli polacchi ha aggiunto: "Avvicinandoci alla fine di quest’anno, non lo valutiamo solo attraverso le sofferenze, le difficoltà e i limiti causati dalla pandemia". "Scorgiamo il bene ricevuto in ogni giorno, come pure la vicinanza e la benevolenza degli uomini, l’amore dei nostri cari e la bontà di tutti coloro che ci circondano. Ringraziamo il Signore per ogni grazia ricevuta e guardiamo con fiducia e con speranza al futuro, affidandoci all’intercessione di San Giuseppe, patrono dell’anno nuovo. Sia per ciascuno di voi e per le vostre famiglie un anno felice e pieno di grazie Divine".
Vicinanza ai terremotati della Croazia
Al termine dell’udienza Francesco ha ricordato: "Ieri un terremoto ha provocato vittime e danni ingenti in Croazia. Esprimo la mia vicinanza ai feriti e a chi è stato colpito dal sisma, e prego in particolare per quanti hanno perso la vita e per i loro familiari. Auspico che le autorità del Paese, aiutate dalla comunità internazionale, possano presto alleviare le sofferenze alla cara popolazione croata".
Alla Lateranense un Forum internazionale su arte e bellezza *
Le due giornate di studio si apriranno lunedì 27 gennaio con i saluti del rettore della Pontificia Università Lateranense e della Pontificia Accademia di Teologia
Dal 27 al 28 gennaio 2020, presso l’Università Lateranense a Roma, si terrà il X Forum internazionale della Pontificia Accademia di Teologia (Path) dedicato al tema "Lo Spirito artista divino all’opera". Il Simposio, promosso a cadenza biennale a partire dal 2002, rappresenta un momento di confronto e di studio non solo per i membri dell’Accademia, ma anche per coloro che vogliono approfondire aspetti teologici e di fede. "In questa edizione - spiega il presidente della Pontificia Accademia di Teologia, Ignazio Sanna - abbiamo voluto mettere al centro del Forum l’arte e la bellezza perché rappresentano un bisogno universale, ci uniscono agli altri e a Dio".
Il programma del Forum
Le due giornate di studio si apriranno lunedì 27 gennaio con i saluti del rettore della Pontificia Università Lateranense, Vincenzo Buonomo e del presidente della Path.
A seguire, il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, terrà la prolusione sul tema: "Il cosmo, profusione di bellezza in cielo e sulla terra".
La prima sessione di lavori proseguirà con l’intervento incentrato su "L’opera più alta e meravigliosa dello Spirito del Padre: il Figlio risorto" dell’arcivescovo di Chieti-Vasto, monsignor Bruno Forte.
Nella seconda sessione, prevista nel pomeriggio, interverranno, tra gli altri, padre Andrea Dall’Asta e il cardinale Angelo Amato, prefetto emerito della Congregazione per le Cause dei Santi. Il porporato rifletterà su "La Chiesa Santa, madre dei Santi".
Martedì 28 gennaio i lavori proseguiranno in mattinata con vari interventi.
Il Forum terminerà con le conclusioni del presidente della Pontificia Accademia di Teologia.
* Fonte: Vatican News, 26 gennaio 2020
TEOLOGIA ED ESTETICA. I volti della Grazia... *
La preghiera.
Il nuovo «Padre Nostro» arriva in Avvento
La preghiera con la formula: "Non abbandonarci alla tentazione" anziché "Non indurci in tentazione" sarà recitata durante le Messe a partire dal 29 novembre
di Riccardo Maccioni (Avvenire, martedì 28 gennaio 2020)
Per il “nuovo” Padre Nostro ci vuole ancora un po’ di pazienza. La traduzione rinnovata della più popolare delle preghiere, insegnata direttamente da Gesù, sarà inserita nel Messale che verrà consegnato subito dopo Pasqua, quest’anno il 12 aprile.
A rivelarlo è stato il teologo Bruno Forte arcivescovo di Chieti-Vasto parlando all’AdnKronos a margine del forum internazionale sul rapporto tra estetica e teologia in corso alla Pontificia Università Lateranense.
Come noto il Padre Nostro nella nuova versione prevede che l’invocazione “Non indurci in tentazione” lasci al posto alla più corretta formulazione “Non abbandonarci alla tentazione”. Versione, ha aggiunto monsignor Forte, che verrà recitata durante le Messe nella chiese italiane a partire dal 29 novembre, prima Domenica d’Avvento.
Leggi anche
Intervista.Arriva il «nuovo» Padre Nostro, ma per la Messa ci vorrà un po’
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?!
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
Letteratura.
La poesia indaga l’abisso della Shoah
Giovanni Tesio raccoglie un’ottantina di poesie dedicate al dramma dello sterminio ebraico
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, sabato 19 gennaio 2019)
Una donna ha i capelli d’oro, l’altra ha capelli di cenere: le parole non possono raccontare quello che c’è in mezzo, non riescono a popolare il vuoto che separa Margarete, perduta all’amore per Faust, da Sulamith, la sposa del Cantico dei Cantici. Le parole possono però testimoniare, anche con il silenzio e con la reticenza, specialmente con il pudore. Sono versi famosissimi, questi di Paul Celan in Fuga di morte, e non stupisce ritrovarli nell’antologia di «voci poetiche sulla Shoah» allestita da Giovanni Tesio per Interlinea con il titolo Nell’abisso del lager (pagine 292, euro 18,00).
Un libro che in un certo senso esisteva già, ma in forma invisibile, disperso in altri libri e in altre antologie. Solo adesso viene finalmente in superficie grazie al lavoro attento e appassionato di Tesio, italianista e poeta a sua volta, oltre che narratore con il recente Gli zoccoli nell’erba pesante (Lindau).
A parte l’inedito di Gianni D’Elia riprodotto in questa pagina, i testi di Nell’abisso del lager erano già disponibili per il lettore italiano, talvolta in sedi non immediatamente accessibili. Mancava però un inquadramento complessivo che permettesse di ricostruire la storia di questo che non è affatto un genere letterario: semmai un avvenimento che attraversa la letteratura del Novecento e la trasforma per sempre, travolgendo anche chi dall’esperienza storica dei campi nazisti non è stato toccato di persona. È la distinzione, fondamentale nella struttura del volume così come Tesio l’ha concepito, tra le «voci dal lager» e le «voci del lager» (il corsivo è mio), tra quelli che a Buchenwald o a Birkenau ci sono stati veramente e quelli che, pur senza esservi stati imprigionati, hanno ugualmente bevuto il «latte nero dell’alba», per citare ancora una volta Celan. Il punto di partenza è una pietra d’inciampo, e non potrebbe essere altrimenti.
Che dopo Auschwitz fare poesia andasse considerato un atto di barbarie era, com’è noto, la posizione di Theodor Adorno, alla quale Primo Levi contrapponeva la necessità di permettere che la poesia sopravvivesse all’“ora incerta” dello sterminio e dell’orrore. Lui stesso, Levi, era diventato scrittore (e poeta) proprio ad Auschwitz, rispondendo a un’urgenza tutt’altro che letteraria. «Se ne scrivono ancora» è l’incipit di una celebre poesia di Vittorio Sereni, I versi, nella quale si ammette che «No, non è più felice l’esercizio».
Ancora più perentorio è il francese Mathieu Bénézet, nato nel 1946, fuori dai limiti cronologici della Shoah. In Quel che dice Euridice dimostra come la convinzione che la poesia non sia più « possibile » si fonda su un equivoco, dato che «non esiste poesia possibile» (questa volta i corsivi sono dell’autore): «Non dimenticare sempre la poesia / conobbe / l’Inferno», ripete Euridice, che qui diventa figura di ogni vittima e di ogni sopravvissuto. Sono, questi che abbiamo citato, solo alcuni dei poeti presenti in Nell’abisso del lager. Tesio ne accoglie un’ottantina, non senza qualche rinuncia, considerato che l’ombra della Shoah si proietta a lungo e in contesti spesso imprevisti.
Non mancano, anche in ambito italiano, le occasioni per riconsiderare la consistenza di un canone che rimane mobile e contraddittorio, drammatico per definizione. Una sola, per esempio, è l’occorrenza del dialetto ( Donne di Ravensbrück del piemontese Carlo Regis), mentre colpisce il ricorso a soluzione auliche come «Deh taci» da parte di Bruno Lodi, autore di un autobiografico Voce del “Lager” andato in stampa già nel 1946. Da parte sua, Quinto Osano - i cui «ricordi e pensieri di un ex deportato» usciranno solo all’inizio degli anni Novanta - fa tesoro della lezione di Palazzeschi adoperando come ritornello un verso onomatopeico, «Tu tum, tu tum, tu tum, tu tum», che rimanda al rumore del treno diretto a Mauthausen.
Testimoni anche loro, in ogni caso, al pari di poeti più grandi e riconosciuti, da Giorgio Caproni a Pier Paolo Pasolini, da Franco Fortini ad Antonella Anedda, da Mariangela Gualtieri a Mario Luzi, fino all’indimenticabile «preghiera trafitta dall’elevazione» intonata da Elsa Morante: «Per il dolore delle corsie malate / e di tutte le mura carcerarie / e dei campi spinati, dei forzati e dei loro guardiani, / e dei forni e delle Siberie e dei mattatoi / e delle marce e delle solitudini e delle intossicazioni e dei suicidi / e i sussulti della concezione /e il sapore dolciastro del seme e delle morti, /per il corpo innumerevole del dolore /loro e mio...».
Non meno vasto e accidentato è il paesaggio che si apre al di fuori dei confini italiani. Nell’abisso del lager dà spazio a Nelly Sachs e a Else Lasker-Schüler, a Jean Cayrol e a Yves Bonnefoy, a Hilde Domin e alla Sylvia Plath di Lady Lazarus, dalla «pelle / splendente come un paralume nazista», ma a fianco di questa costellazione già nota e si avvistano autori non ancora abbastanza apprezzati, come l’israeliano Dan Pagis, al quale si deve il fulminante Scritto a matita in un vagone piombato: «Qui in questo convoglio / Io sono Eva / Con Abele mio figlio / Se vedete il mio figlio maggiore / Caino figlio d’Adamo / Ditegli che io».
La poesia non racconta, appunto. La parola non può dire. Ma dopo Auschwitz è necessaria più che mai, come la «farfalla di Buchenwald» cantata da Zoka Velichova, visione che «si libra spensierata nell’abisso». «I miei ricordi sono solo cenere - aggiunge la poetessa - sull’ali iridescenti della polvere».
Figura del Macello
Come il diretto che risfiora il mare
Ripreme il passo la terra contro sé
Ma non può fare a meno d’inquadrare
Il tufo giallo che insegue chi non è
O chi se c’è di là non riappare
Dai carri piombati nel fosco rullare
Rugginoso a zaffate d’un treno bestiame
Ecco rifrana il Fosso Seiore e traspare
E sa di musi nebbiosi incollati alle rare
Sbarre ai cigolanti cerchi ai rinchiusi
Mugli in vapori d’un macellar secolare
Che già bastò puerili castelli a spazzare
E dunque non è vero che il bello è sempre
Nelle care cose che ci calmano
La cattedrale di foglie di un albero
O le squame di luce del mare largo
Se un lento treno merci a agosto esausto
Basta a evocare il più infame olocausto?
(1991) (2016)
Gianni D’Elia
Le 7 opere di misericordia
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 2 luglio 2015)
Sono sette per il corpo e sette per lo spirito, in una simmetria quasi perfetta. E diciamo “quasi” solo perché nella Regola san Benedetto introduce un’ottava opere di misericordia spirituale, «non disperare mai della misericordia di Dio», che può anche servire da sintesi. Elenchiamole, a ogni buon conto, cominciando proprio da quelle di cui ci occuperemo in questo piccolo viaggio tra i bisogni e le sollecitudini della nostra società. Opere di misericordia corporale, dunque: dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, ospitare i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i carcerati, seppellire i morti. E quelle di misericordia spirituale: istruire gli ignoranti, consigliare i dubbiosi, consolare gli afflitti, correggere i peccatori, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare per tutti.
Di tappa in tappa, visitando diverse città d’Italia, avremo modo di vedere come le prime siano espressione delle seconde, in una continuità irrinunciabile tra anima e corpo, tra spirito e materia. Parleremo di emergenze sociali, certo, ma lo sguardo della misericordia - alla quale papa Francesco ha voluto intitolare il Giubileo straordinario che si aprirà l’8 dicembre di quest’anno- va sempre oltre la contingenza immediata e riesce a scrutare la povertà umana nelle quadruplice articolazione suggerita dal cardinale Walter Kasper nel suo saggio Misericordia (Queriniana, 2013): economica, culturale, di relazioni e, appunto, spirituale.
A farci da guida sarà uno dei più celebri dipinti del periodo napoletano di Caravaggio, la raffigurazione delle Sette opere di misericordia corporale eseguita fra il 1606 e il 1607 per il Pio Monte della Misericordia. Il quadro - oggi inserito nel percorso museale del Pio Monte, con ingresso da via dei Tribunali a Napoli - offre una rappresentazione allegorica delle varie “opere”, in una composizione dominata dalla presenza sovrannaturale dell’Angelo. Proveremo, di volta in volta, a suggerire qualche spunto a commento delle singole raffigurazioni.
Per adesso iniziamo a osservare il carattere corale o, meglio, sinfonico del dipinto di Caravaggio: tante situazioni differenti, che trovano unità nella mobilità di sguardo richiesta allo spettatore, come se la realtà del mondo fosse troppo vitale e complessa nella sua drammaticità per poter essere fissata in un’unica immagine. Il “dar da mangiare agli affamati”, nella fattispecie, è illustrato con un richiamo alla mitologia classica, attraverso la cosiddetta caritas romana.
Il vecchio che vediamo ritratto alla destra della scena è infatti il romano Cimone (o Micon, secondo altre fonti), condannato a morire di fame in carcere. La donna che gli offre il latte dal seno è la figlia Pero, che con questo stratagemma riesce a tenere in vita il padre. Un modo per ricordarci che la misericordia è sempre giovane e ricca di inventiva, così come non conosce età la necessità di essere nutriti. Nel corpo e nello spirito.
Amore e psiche
.***Nel Settecento con l’inizio degli scavi di Pompei ed Ercolano si sviluppa l’attenzione per i particolari archeologici: nasce l’estetica del Neoclassicismo
Quando esplose la passione per l’antico
di Anna Ottani Cavina (la Repubblica, 1.12.2012)
La passione bruciante per il mondo antico era scoppiata più o meno negli anni Quaranta del Settecento e coincide con la “resurrezione” delle città sepolte di Ercolano e Pompei e la conseguente caduta dei modelli correnti di conoscenza. L’incontro con i primi scavi era stato a dir poco uno choc, se l’eccitazione di quegli anni, segnati dalle scoperte archeologiche (130 campagne di scavo investirono la città di Roma nei soli cinque anni del pontificato di papa Pio VI), può essere còlta nella reazione esaltata di Giovan Battista Piranesi che «aveva escogitato di cuocere ogni domenica una grande caldaia di riso che potesse bastare per tutta la settimana» per potersi precipitare sui luoghi di scavo senza perdere un solo minuto. Nasceva allora il mito di un’antichità esemplare, origine e anche rimpatrio dell’anima classica, paradiso perduto e ancora promesso. Antichità come futuro.
Ma le “colorazioni” dell’età neoclassica, sull’onda di una nuova travolgente passione per l’antico, erano tante e molto diverse. Canova, nell’intero suo percorso di pittore e scultore, legge l’antichità filtrata dal pensiero di Winckelmann, che del Neoclassico era stato il profeta e il teorico. E sceglie il versante di una grazia intellettuale e sublime, tenera e sentimentale, nutrita dal mito di Atene: incontro fra bellezza e natura. Mentre il rapporto bellezza-libertà (dove l’ideale estetico veniva a coincidere con l’ideale politico) aveva alle spalle la fierezza di Sparta e l’etica austera della Roma repubblicana, trovando nelle icone statuarie del pittore Jacques-Louis David la sua definitiva consacrazione nel presente.
L’estetica della grazia come “aurora” della bellezza - chiave di lettura per L’Amore e Psiche di Canova e anche per quello di François Gérard esposti in questi giorni a Milano - fa riferimento a una grazia filtrata dall’intelletto, lontana dall’epidermica sensualità rococò che aveva caratterizzato il primo Settecento, reattiva invece alla purezza, all’innocenza e a quelle inclinazioni affettive, esaltate nell’età dei Lumi e poi di nuovo nell’età romantica.
Il manifesto di questa poetica della grazia è naturalmente in una dichiarazione di Winckelmann, che celebra l’eterea eleganza delle Danzatrici dipinte su fondo nero, scoperte in una villa romana a Pompei: «fugaci come un’idea, fluide quanto il pensiero e belle come se fossero fatte per mano delle Grazie». Da allora, le danzatrici-libellule della decorazione parietale romana si sono librate per un lunghissimo volo, conquistando l’Europa a un ideale di grazia immateriale e alessandrina.
Canova ne è folgorato. Risponde con una suite di disegni e di tempere su tela grezza, variazioni bellissime sul tema delle danzatrici. E butta all’aria in un soffio il lungo tempo di posa che aveva caratterizzato l’immagine antica. I giochi d’amore della civiltà ellenistica, conosciuti attraverso le campagne di scavo e riletti con lieve ironia, acquistano allora uno scatto e una tensione improvvisa, che affiora in quegli anni anche nelle odi di Foscolo («quando balli disegni, e l’agile corpo all’aure fidando... »).
Contro la lastra compatta di un nero che simulava l’encausto romano, le ballerine di Antonio Canova (oggi si vedono nel museo di Possagno) danzavano gonfiando le loro vesti moderne di mussola à pois, scintillanti ed estrose come in un girotondo di fate, inafferrabili a due passi da noi. Reintroducevano una cifra stilistica antica, ma erano anche l’emblema di una bellezza scattante e moderna che scivolava nel quotidiano della vita se è vero che un artista inglese, John Flaxman, disegnando “from Nature” (dal vivo) i giochi di due bimbe nel sole italiano, le ritrae a piedi nudi e vestite di veli, sulla falsariga delle danzatrici dipinte a Ercolano.
Come si vede, l’antico era un filtro inevitabile, un codice linguistico accettato e universale, fondato sulla validità del modello classico. Ma quel modello non era neutrale ed univoco. Il passato poteva essere inteso come mito rassicurante e positivo, come archetipo per potersi orientare e agire sul presente, attraverso il rilancio di quelle virtù civiche e politiche che furono il canone della Rivoluzione. Ma il passato, nell’età neoclassica, poteva essere percepito anche come fardello, per via della sua perfezione inattingibile e paralizzante.
La disperazione dell’artista davanti ai frammenti dell’antichità, immagine celeberrima disegnata da Füssli, è l’espressione di quella condizione frustrante, che una distanza infinita separa dalla grazia ellenistica di François Gérard e dalla bellezza adolescente, luminosa e spirituale che è il lascito di Antonio Canova.
Il mito più amato dagli artisti
di Lea Mattarella (la Repubblica, 1.12.2012)
Amore e Psiche hanno attraversato tutta la storia dell’arte. Sono molti gli episodi della favola narrata da Apuleio che vengono rappresentati dai pittori e dagli scultori nel corso del tempo.
Nel Rinascimento ai due innamorati che si muovono tra la terra e l’Olimpo vengono dedicati cicli pittorici straordinari come quello che Raffaello e la sua scuola realizzano, tra il 1517 e il 1518, per La Farnesina, la villa di Agostino Chigi a Roma. Qui, in un trionfo di festoni di fiori e di frutta di ispirazione classica, sono raffigurati su finti arazzi gli episodi trionfali di questa storia d’amore piena di simboli e significati: Il concilio degli dei che acconsente alle nozze tra i due e Il banchetto degli dei in cui si festeggia Psiche, resa immortale da Giove, e unita per sempre in matrimonio ad Amore. È significativo come ciò che appare dipinto in questa celebre loggia corrisponda perfettamente alla storia narrata dall’Asino d’oro di Apuleio, come se Raffaello e compagni avessero davvero messo in scena una rappresentazione teatrale del testo. Tra nudi, danze, elmi, drappi, corone di fiori si celebra visivamente un rassicurante lieto fine.
Giulio Romano e Perin del Vaga fanno parte della pattuglia di artisti chiamati a collaborare da Raffaello. Entrambi dedicheranno alle storie di Amore e Psiche due decorazioni che finiranno per essere tra le più importanti della loro carriera. Celeberrimi sono il banchetto rustico e quello degli dei affrescati dal primo tra il 1527 e il 1530 nella Sala di Psiche di Palazzo Te a Mantova. Dove, tra l’altro, compaiono nelle lunette tutte le vicissitudini a cui la fanciulla va incontro dopo aver spiato le fattezze del suo amato: eccola tra Tristezza e Ansietà, oppure addormentata dopo essere stata investita dal sonno infernale di Proserpina, o circondata dalle formiche che la aiuteranno a dividere le diverse specie di semi secondo l’ordine ricevuto da Venere.
Qualche anno dopo, nel 1545, Perin del Vaga dipinge un fregio con dieci scene da Apuleio nell’appartamento di Paolo III in Castel Sant’Angelo. Qui fa la sua apparizione gloriosa il momento forse più amato dalla pittura successiva, quello in cui Psiche guarda furtivamente Amore e lo sveglia con una goccia di olio che cade dalla lampada con cui lo illumina. Perché il pontefice avesse scelto tale ciclo è presto detto: Psiche rappresenta in questo caso il percorso che l’anima deve compiere tra le traversie e le difficoltà del mondo per arrivare a Dio, allo spirito, all’immortalità. In chiave religiosa interpreta la vicenda di Psiche anche il pittore a cui si devono le decorazioni di Palazzo Spada-Capodiferro volute dal cardinal Girolamo Capodiferro negli anni del Concilio di Trento.
Nel Settecento invece questa storia appassionante diventa un po’ il manifesto della vittoria dell’amore sulle restrizioni sociali: se il dio si è innamorato di una mortale e l’ha portata con sé nell’Olimpo significa che ci si può scegliere per affinità e non per casta. I pittori colgono anche il lato sensuale della vicenda: Jacques-Louis David raffigura una Psiche addormentata accanto a un giovane Amore dall’aria soddisfatta e un po’ sorniona. Mentre François-Edouard Picot inquadra il dio che sta per andar via dopo una notte d’amore. Guardando l’abbandono della donna si capisce come dai due sia nata una figlia come Voluttà.
Tra i quadri a più alta gradazione erotica c’è sicuramente quello di Jacopo Zucchi che mostra in una specie di alcova dominata dal rosso una Psiche nuda ma ingioiellata che sveglia il suo amato: i fiori che coprono i genitali di lui sembrano alludere senza tanti preamboli al suo desiderio. Pieter Paul Rubens ne dà una versione dal forte impatto scenografico ritraendo la donna quasi persa in un paesaggio mentre accoglie l’aquila di Giove che la aiuterà a riempire il vaso con l’acqua del fiume infernale.
C’è anche chi preferisce interpretare la scena in termini malinconici come succede ad Andrea Appiani nella Villa Reale di Monza, o allo scultore Pietro Tenerani che la ritrae triste e sola come Psiche abbandonata oppure svenuta con le piccole ali di farfalla che sembrano aver perso i sensi con lei. Il disagio, la solitudine dell’uomo moderno non risparmia nemmeno Amore e Psiche. Guardate la versione di Edvard Munch: due figure che più che amarsi sembra si fronteggino, fluide, inafferrabili, ben lontane dall’abbraccio neoclassico.
“La Chiesa mancherebbe al suo dovere di agire da «esperta in umanità» se non riconoscesse il posto delle donne”
dell’episcopato del Québec (1990)
in “www.comitedelajupe.fr” del 17 ottobre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)
Davanti a 1000 persone tra le quali i rappresentanti dell’Assemblea nazionale del Québec e di gruppi di donne, l’episcopato del Québec ha saputo fare un atto di pentimento. Preghiamo perché queste dichiarazioni dei vescovi del Québec nel 1990 possano ispirare le nostre Chiese d’Europa! (Comité de la Jupe)
«L’episcopato del Québec, in quest’anno che segna il cinquantesimo anniversario dell’ottenimento del diritto di voto delle donne in Québec, vuole celebrare, in un incontro di amicizia e di festa, questo avvenimento storico che ha riconosciuto alle donne del Québec il loro pieno diritto di cittadine. Questa festa avrà anche, diciamolo, una dimensione riparatrice poiché a quel tempo, l’episcopato e il governo avevano manifestato una lunga opposizione all’attribuzione di quel diritto. (...)
Quelle donne non sono sempre state riconosciute nel loro tempo. I loro inviti, spesso direttamente ispirati dal Vangelo, non sono sempre stati accolti con la necessaria disponibilità. A volte persino sono state frenate dalla diffidenza e dai pregiudizi dei loro capi politici e religiosi. Chi potrà raccontare le sofferenze di una Marguerite Bourgeois, desiderosa di portare l’istruzione alle Amerindiane nomadi, e alla quale Mons. de Saint-Vallier si è lungamente ostinato ad imporre il velo e la clausura? Quelle di una Marie Lacoste-Gérin-Lajoie, militante impegnata nella causa nazionale ed ecclesiale, ma alla quale i suoi capi spirituali tolsero il sostegno quando pretese di estendere alla sfera politica l’azione della Federazione nazionale San Giovanni Battista? (...)
Henri Bourassa e i vescovi dell’America del Nord (...) stigmatizzando il femminismo erano convinti di denunciare una pericolosa eresia. (...) Solo nel 1940 il Governo del Québec (...) si arrende alla fine agli argomenti delle donne. Ma si sente bene, nei commenti riservati dell’episcopato, che il femminismo vittorioso di quelle pioniere è ben lungi dall’essere riconosciuto come una forza positiva di cambiamento sociale. (...)
L’analisi femminista della storia e della tradizione cristiana (condotta nello specifico dalle teologhe) porta a volte scompiglio nelle nostre certezze e nelle nostre maniere secolari di vedere. Ma un numero sempre maggiore di teologi uomini si sentono solidali con il cammino delle donne e cercano di parteciparvi. Perché in questo procedere collettivo abbiamo acquisito la convinzione che la Chiesa, come la società, deve riconoscere il posto delle donne. Altrimenti si impoverisce essa stessa e manca al suo dovere di agire, secondo le parole di Paolo VI, come “esperta in umanità”. Questa convinzione ispira ampiamente la creazione, avviata dieci anni fa nelle nostre diocesi, di una rete di referenti per la condizione delle donne. E più recentemente, l’attuazione di forum diocesani di riflessione riguardanti il partenariato uomini-donne nella Chiesa.
Certo tutte queste donne che partecipano attivamente - spesso da volontarie - alla missione della Chiesa sono ancora troppo poco numerose. Ma soprattutto, il loro statuto nella Chiesa resta profondamente ambiguo. Ostacoli di ordine canonico, che dipendono per lo più dalla forza d’inerzia e dall’abitudine, dovranno essere tolti. Altri, molto più fondamentali, perché di ordine teologico, dovranno esser affrontati con umiltà e coraggio. L’universalità della Chiesa e la diversità delle culture che vi si trovano rappresentate non devono servire di pretesto per mantenere nella Chiesa, nei confronti della donna e della sua missione, una posizione minimalista. Posizione che, se incontra ancora qualche indulgenza storica presso una minoranza di cristiane, viene sempre più considerata un anacronismo, se non un ostacolo insormontabile, presso le credenti della generazione successiva. (...)
Non ce lo nascondiamo: è ad un’autentica conversione evangelica che siamo chiamati. Si tratta per tutti noi, credenti del Québec, di andare incontro allo Spirito che riconosciamo all’opera nelmovimento di affermazione delle donne, che caratterizza questo ultimo decennio del nostro secolo.
Vogliamo contribuire, come segno di riconciliazione e di pace, alla realizzazione del progetto di Dio sulla coppia umana, che si estende non solo alla famiglia, ma anche alla società e alla Chiesa. (...) “Obbedire, è anche resistere”. Resistere al venir meno della speranza di vedere un giorno abolite tutte le disuguaglianze, riconosciute tutte le competenze, realizzata finalmente la giustizia tra uomini e donne, nella Chiesa come nell’intera società. (19 aprile 1990)
Tratto da: Mons. Gilles Ouellet, “Messaggio del presidente dell’Assemblea dei vescovi del Québec in occasione del 50° anniversario dell’ottenimento del diritto di voto delle donne in Québec”, Assemblea dei vescovi del Québec, 1990. Recueil de Gonzague J.D.
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